La Maggioranza Invisibile 9788817076845

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La Maggioranza Invisibile
 9788817076845

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UA LE RE SO.

LA MAGGIORANZA INVISIBILE

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EMANUELE FERRAGINA

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EMANUELE FERRAGINA

LA MAGGIORANZA INVISIBILE

Chi sono gli italiani per i quali la politica non fa nulla, e come potrebbero cambiare davvero l’Italia

Mentre la politica discute con parole sempre più vuote di soluzioni per risollevare il paese, continua ostinatamente a ignorare le persone che costituiscono la vera forza motrice dell’Italia, e che, se valorizzate con un adeguato progetto sociale di redistribuzione della ricchezza e delle opportunità, potrebbero fare la differenza. Disoccupati costretti a lavorare in nero, precari imprigionati nel limbo di contratti a termine, pensionati che stentano ad arrivare alla fine del mese, immigrati preda dello sfruttamento, giovani che non studiano e hanno abbandonato la ricerca di un lavoro stabile, rappresentano una fetta consistente della società italiana: si tratta di una maggioranza invisibile, perché ignorata da politica e sindacati, e silenziosa, perché incapace di riconoscere la sua forza elettorale. Portando alla luce problemi, tratti distintivi e potenzialità di questa maggioranza invisibile e dimenticata, Ferragina fa luce sulle ragioni del disagio sociale che oggi paralizza lo stivale e ricostruisce gli eventi che hanno condotto alla crisi in cui siamo impantanati, proponendoci una nuova visione progressista capace di dare voce a chi da troppo tempo manda avanti il paese senza ricevere nulla in cambio.

Dello stesso autore in Chi troppo chi niente

Emanuele Ferragina con Alessandro Arrigoni

LA MAGGIORANZA INVISIBILE

F U T U R O P A S S A T O

Proprietà letteraria riservata © 2014 RCS Libri S.p.A., Milano

ISBN 978-88-17-07684-5 Prima edizione BUR Futuropassato ottobre 2014 Impaginazione: studio pym / Milano

Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu

Lei è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare. Eduardo Galeano, Finestra sull’utopia.

Avvertenza Nell’intento di migliorare l’esperienza di lettura e fornire uno strumento di consultazione più accurato, si è deciso di dividere la bibliografia in due sezioni: Letture di approfondimento (ovvero le pubblicazioni di carattere generale, utili a esaminare più a fondo alcuni aspetti del discorso) e Fonti (cioè quelle cui si rimanda più strettamente per i singoli dati). Il lettore troverà dunque, nelle note a piè pagina, la citazione del solo nome dell’autore (ove disponibile) e titolo, con il rimando per i dati bibliografici completi a una di queste sezioni, tramite le diciture «approfondimento» e «fonte».

Prologo

Negli anni, la piccola città è divenuta metropoli. Un caos disorganizzato di quartieri, strade, voci e vite. Un pianificatore attento lo aveva fatto notare al sindaco: non si poteva andare avanti in quella maniera. Cemento gettato a destra e a manca sulle splendide colline, dove in un’altra vita il pensiero poteva vagare tra ulivi e pini secolari. Cemento riversato sulla città che, pur piena di meraviglie, non lasciava più lo spazio – fisico e mentale – per porsi delle domande… Questo libro nasce dall’insoddisfazione degli abitanti della «città». Un’insoddisfazione profonda verso chi propone ricette semplici, senza riflettere sul contesto sociale nel quale esse andrebbero effettivamente attuate. Un’insoddisfazione verso accademici, giornalisti e, in ultima istanza, verso il nostro stesso lavoro di ricerca, al quale dedichiamo energie e sforzi. Se vi soffermate sul dibattito pubblico italiano in merito alla crisi, vi accorgerete che tutti, o quasi, disquisiscono con dovizia di particolari sui programmi da attuare (giusti o sbagliati che essi siano); pochi s’inter-

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La maggioranza invisibile

rogano, invece, sul vero problema: come attivare una forza sociale capace di scardinare l’iniquità del sistema, capace di rivoltare la «città» come un calzino, tenendo conto dei bisogni della maggioranza degli abitanti. Certo è importante illustrare l’effetto potenziale di politiche ben calibrate, che potrebbero risollevare il paese e l’intero continente, ma non basta. Serve, anche e soprattutto, guardare alla natura delle forze sociali in campo, e in particolare a quelle che possono far soffiare il vento del cambiamento. Quest’insoddisfazione si è materializzata chiaramente guardando oltre i confini del nostro paese. Soprattutto confrontandoci con scrittori che, in altri contesti, hanno dedicato la vita a interpretare e raccontare la possibilità di muovere in una direzione nuova, partendo dal basso, dai più deboli e svantaggiati. Eduardo Galeano ha posto l’accento sull’importanza di difendere la parola contro la cecità.1 Per noi, oggi, in Italia, difendere la parola significa formulare un racconto collettivo che aiuti la «maggioranza invisibile» – quei 25 milioni di cittadini che stentano a riconoscersi come gruppo sociale svantaggiato – a mettere insieme i pezzi di un puzzle. Un puzzle bifronte, che rivela da un lato la connessione tra i vari fenomeni socioeconomici che attraversano

L’intero Prologo è ispirato ai temi discussi dallo scrittore uruguaiano. Approfondimento: E. Galeano, Le vene aperte dell’America Latina. 1

Prologo

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il paese, e dall’altro la forza potenziale di questa stessa maggioranza dimenticata. Un racconto collettivo animato da parole ormai cancellate dal dibattito pubblico, perché associate a una cultura considerata fallimentare e fuori dal tempo, e da altre che ben descrivono il contesto economico e sociale nel quale siamo immersi. Parole dal sapore antico, come «redistribuzione», «classe», «conflitto sociale», «egemonia», «rivoluzione passiva» e «internazionalismo». Parole dal sapore nuovo, come «egualitarismo efficiente», «neoliberismo selettivo», «universalismo», «dogma lavorista», «reddito minimo» e «produttività sociale». Parole che utilizzeremo in questo libro, senza nostalgia per i tempi andati, senza rimpianti per le grandi ideologie, ma piuttosto perché esse interpretano il bisogno di formulare un nuovo pensiero progressista. Un pensiero che ponga la maggioranza invisibile e i suoi interessi al centro, in contrapposizione a garantiti e neoliberisti: due gruppi che hanno dominato la vita sociale del paese senza tenere conto dei bisogni della maggioranza degli italiani, all’insegna della disuguaglianza e dell’inefficienza. In questo contesto, esprimiamo la necessità di entrare in contatto direttamente con la maggioranza invisibile, senza filtri, senza false ipocrisie, senza la prudenza ruffiana di chi si rivolge supplicante al potere costituito. Entrare in contatto per denunciare le tante cose che non vanno, per mettere in risalto gli interessi comuni che dovrebbero aggregarla nel lungo periodo,

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La maggioranza invisibile

per sottolineare con decisione i suoi punti di forza sottovalutati. Le motivazioni che portano a scrivere sono di varia natura. Gli scrittori sono spesso mossi dai peggiori istinti: vanità, presunzione di avere un messaggio da diffondere a tutti i costi, narcisismo. Scriviamo per lenire i momenti di solitudine, nostri o degli altri. Scriviamo perché assumiamo, a torto o a ragione, che tale attività trasmetta conoscenza, che essa impatti su comportamenti e linguaggi di chi ci legge. Tuttavia, alla base della passione per la scrittura c’è un mistero.2 Pubblicare un libro, sottoporsi al giudizio dei lettori, è una fatica che priva di ogni energia. Nessuno si cimenterebbe in questo sforzo se non ci fosse una forza interna a sospingerlo. Una forza che non si può comprendere pienamente, e alla quale non si può resistere. Ma se non possiamo definire con certezza la motivazione più pressante che porta alla scrittura, sicuramente conosciamo la spinta che per noi meritava di essere seguita: la volontà di proporre un’analisi che renda giustizia alla maggioranza dimenticata degli italiani. Certo questa motivazione, seppur nobile, genera un paradosso: una scrittura fatta a uso e consumo dei più svantaggiati difficilmente po-

Come sottolineato da Orwell nel saggio Perché scrivo, cui questo paragrafo fa riferimento. Approfondimento: G. Orwell, Nel ventre della balena. 2

Prologo

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trà raggiungerli. I motivi sono tanti: tali persone sono spesso quelle che leggono meno, le peggio integrate nel tessuto sociale, le più condizionate dai messaggi lanciati dai governanti (anche quando hanno il solo scopo di favorire chi sta meglio), le più disilluse e quindi meno pronte a recepire un racconto che chiede loro, ancora una volta, uno sforzo senza sicurezza di ricompensa. Lo sforzo di combattere contro un sistema iniquo, pur non sapendo se riusciranno ad abbatterlo o quantomeno a modificarlo in loro favore. Ma allora possiamo davvero coltivare l’ambizione di usare la scrittura per comunicare con la maggioranza invisibile? Possiamo sul serio sperare di far passare un messaggio razionale e idealista in una società sempre più sorda, muta e individualista? Oppure la piccola libertà, lo svago che ci viene concesso nel pubblicare questo libro, si riduce semplicemente alla prova del nostro fallimento? Non abbiamo risposte certe. Sappiamo solo che, al di là di simili ostacoli, ad animare i lunghi mesi di lavoro è stata la stessa speranza che continua a spingere chiunque insista a stare al fianco dei più deboli, in «direzione ostinata e contraria» rispetto all’ideologia dominante. La speranza di essere abbastanza credibili da entrare in contatto con l’altro sulla base di un proposito onesto: narrare la realtà con occhi nuovi, mettendoci dentro il meglio di noi stessi, di quello che abbiamo studiato, di quello in cui crediamo.

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Servirebbe sicuramente qualcosa di più di un libro per raggiungere l’intera maggioranza invisibile e spiegarle i tanti motivi che la rendono più forte dei suoi oppressori. Tuttavia, nonostante la sua limitatezza, la scrittura è un utensile che scava con costanza, precedendo la formulazione del pensiero collettivo e le politiche messe in atto dall’élite dominante. La scrittura comunica messaggi; come il contadino attento, cerca di seminare alla giusta profondità in un terreno arido. Molti semi andranno persi, ma qualcuno di essi darà vita a una pianta. Così, in una società «ingabbiata» da un pensiero asfittico e acritico, la scrittura diventa una denuncia, una luce per chi riuscirà a vederla. Una speranza, che fa di queste pagine un incoraggiamento a porsi domande pressanti sulla propria condizione di svantaggio e a volgersi verso chi si trova in una situazione analoga.3 Siamo quello che facciamo, specialmente quello che facciamo per cambiare ciò che siamo. Per questa ragione, scrivere eloquenti parole rivoluzionarie per «convincere i convertiti» significherebbe solo sprecare inchiostro e carta. Serve, invece, rendere la scrittura efficace, audace, chiara, per avvicinarsi quanto più possibile a chi vorremmo ci leggesse. Serve contribuire a formulare un pensiero che guardi al futuro. Un pensiero che trasformi le lotte dei nostri nonni in messaggio credibile e comprensibile per la mag3

Approfondimento: T. Benn, Arguments for Socialism.

Prologo

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gioranza invisibile e dimenticata degli italiani: il passato come cenere che attizza il fuoco e non come teca che preserva una reliquia. Fare tutto ciò significa avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome,4 e rivolgerci con onestà, anche quando sarà difficile, a chi avrebbe tutto l’interesse ad ascoltarci. La maggioranza invisibile cui questo libro è dedicato.

Da questo punto di vista, si veda Piero Bevilacqua, che traccia un elogio della «radicalità»: parola ormai denigrata come sinonimo di violenza ed estremismo, e che in realtà, nel suo significato originale, indica semplicemente l’esigenza di «andare alla radice» delle cose. Un’esigenza che richiamiamo in questo libro, tornando a usare espressioni e termini criticati per partito preso nel dibattito pubblico, senza che se ne conosca il significato originario. Approfondimento: P. Bevilacqua, Elogio della radicalità. 4

1 Introduzione

Nel corso delle ultime decadi, l’Italia ha subito gli effetti di una grande trasformazione sociale, economica e culturale.1 L’interazione tra questo mutamento a livello internazionale e la particolarità del nostro sistema politico ha contribuito all’emergere di un gruppo sociale, che è divenuto maggioranza nel paese: una maggioranza invisibile, perché ignorata dalla classe politica; una maggioranza silenziosa, perché incapace di riconoscersi nella sua condizione comune di svantaggio. Una maggioranza non omogenea e difficile da rappresentare, che include disoccupati, neet (not in education, employment or training), pensionati meno abbienti, migranti e precari. Una maggioranza incompresa dall’élite dominante, troppo concentrata a difendere i propri interessi corporativi per alleviarne il disagio sociale montante. Tale maggioranza dimenticata è il destinatario di

Con l’espressione «grande trasformazione» facciamo riferimento all’analisi di Karl Polanyi. Approfondimento: K. Polanyi, La grande trasformazione. 1

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questo libro, il cui intento è riflettere su come essa possa contribuire a cambiare un sistema iniquo e inefficiente, prendendo piena coscienza dei propri interessi e bisogni comuni. Per fare ciò analizzeremo la grande trasformazione che ha scosso il nostro paese, guardandola dal basso: proprio dal punto di vista della maggioranza invisibile. Molti liquideranno queste riflessioni come «utopia»; in realtà, un’utopia resta tale solo fino a quando non si comincia a circoscrivere l’idea proposta, a renderla concreta.2 Ciò che serve è trasformare l’utopia inquadrandola nei fatti e accettando il giogo della realtà. Ogni idea astratta deve trasformarsi dunque in programma concreto, perché quanto essa perde in bellezza lo acquisti in utilità.3 In fondo utopie, proposte e realtà sono molto più vicine di quanto siamo portati a credere: è un problema di rappresentazione dello spazio sociale. La realtà nella quale siamo immersi è definita da ciò che la gente tende ad accettare – spesso passivamente – come vero e necessario. Parafrasando Saramago, viviamo in un mondo di «ciechi che credono di vedere».4 Questo libro prende un’altra strada, una via rimasta per lungo tempo inesplorata: parlare «ai vedenti che credono di essere ciechi».

Approfondimento: A. Olivetti, Città dell’uomo. È l’idea alla base del libro Novantatré di Victor Hugo. Approfondimento: V. Hugo, Novantatré. 4 Approfondimento: J. Saramago, Cecità. 2 3

Introduzione

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Le visioni collettive non sono state superate dall’evoluzione storica, come molti sostengono;5 la società non è cambiata a tal punto da rendere privo di senso ogni discorso che non parta dall’interesse individuale. Questa è soltanto l’idea dominante, che ha fatto breccia negli ultimi trent’anni, annichilendo le visioni alternative e conquistando anche chi inizialmente vi si opponeva: le forze politiche e sociali che, allineatesi al neoliberismo, hanno progressivamente dimenticato come l’unico modo per difendere i più deboli sia riunirli. Riunirli perché essi, oggi come in passato, sono maggioranza. Perciò occorre guardare alla realtà con occhi diversi, delineando il corpo vivo della maggioranza invisibile e fornendole motivazioni razionali all’azione collettiva. In Chi troppo chi niente avevamo esposto un principio semplice: la redistribuzione di opportunità, reddito e ricchezza non deve essere perseguita per ragioni filantropiche, ma per rendere il paese più efficiente e coeso.6 In breve, redistribuire è nell’interesse della stragrande maggioranza degli italiani; ma si sa, i principi servono a poco se non camminano sulle gambe di forze sociali capaci di sostenerli. Dalla consapevolezza di tale esigenza e dall’osservazione della grande trasformazione in atto, che vede il paese sempre più depresso e di-

Approfondimento: F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo. 6 Approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente. 5

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viso, nasce l’idea di questo libro. Un libro in cui si analizza un gruppo sociale ancora in divenire, ma che potrebbe influenzare la vita pubblica nei prossimi decenni. La grande trasformazione L’idea di grande trasformazione fa riferimento all’analisi di Karl Polanyi: lo studioso ungherese utilizzò questa espressione per descrivere come l’origine del fascismo fosse rintracciabile all’interno dei meccanismi dell’economia di mercato.7 Per Polanyi i principi del libero mercato, con al centro l’apologia dell’homo oeconomicus e la capacità del mercato di autoregolarsi, erano in stridente contraddizione con l’evoluzione della società. Il fascismo fu, secondo l’intellettuale, lo sfogo isterico ed emotivo della popolazione di fronte allo scollamento fra lo sviluppo economico basato sul mercato e le trasformazioni portate dall’avvento della società industriale. Si trattò, in sostanza, di una reazione messa in atto da chi vedeva cambiare radicalmente la sua vita e sentiva la paura di perdere la propria identità. Esiste un forte parallelismo tra il nostro tempo e quello descritto da Polanyi, un parallelismo che può essere rintracciato nella completa trasformazione delle strutture politiche ed economiche che regolano 7

Approfondimento: K. Polanyi, La grande trasformazione.

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la società. In questo senso, quattro sono le cause che hanno maggiormente contribuito all’emergere della maggioranza invisibile nell’alveo della grande trasformazione: il trionfo del neoliberismo, la gestione del processo di integrazione monetaria, le lacune del vecchio welfare e la cecità delle forze progressiste. Il neoliberismo ha diffuso il pensiero che, in un’economia di mercato, l’unità di base di ogni interazione sia l’individuo e non il gruppo sociale al quale esso appartiene. 8 Un individuo stilizzato e razionale, idealmente capace di scegliere in modo ottimale sul mercato. Questa idea, e la sua conseguente realizzazione a livello politico, ha portato a sciogliere il contratto sociale collettivo stabilito durante il periodo fordista, rimpiazzandolo con il mito della libertà individuale.9 Libertà di agire, libertà di rischiare, libertà di intraprendere, libertà di fallire. In linea con tale interpretazione,

E, dunque, il punto cardine delle dottrine neoliberali è la necessità di ridurre il margine d’intervento dello Stato, per sostenere quanto più possibile la libertà dell’individuo di esprimere la propria volontà sul mercato. Torneremo su questo punto nel terzo capitolo. 9 Con il concetto di produzione fordista ci riferiamo a quella in auge all’apogeo della società di massa, il momento in cui la crescita del settore industriale rivoluzionò i paesi occidentali e costituì la fonte principale di accumulazione della ricchezza. La governance neoliberista rappresenta invece il passaggio successivo, in cui al dominio della produzione industriale si sostituì l’intermediazione finanziaria e l’economia dei servizi. 8

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l’individuo avrebbe il pieno controllo del suo destino. Quando fa bene gode dei frutti del proprio lavoro e realizza la promessa neoliberale; quando fa male viene invitato dal sistema, con mezzi più o meno coercitivi, a «darsi una mossa». Così problemi collettivi, dovuti alla grande trasformazione, sono diventati solo ed esclusivamente di pertinenza individuale. Non è lo Stato che si deve prendere cura del disoccupato, ma è lui stesso a doversi tirar fuori dalla brutta situazione nella quale si è cacciato con le proprie scelte. Una tale visione del mondo è funzionale agli interessi dei cosiddetti high flyers: coloro i quali, per una serie di ragioni comunemente dovute al background familiare, possono sfruttare le opportunità offerte dal marcato; mentre «gli sconfitti», quelli che ingrossano le fila della maggioranza invisibile, si trovano sempre più soli. Svantaggiati spesso dalle condizioni di partenza e comunque condannati dalla narrazione neoliberista, che li vede svogliati nella migliore delle ipotesi o approfittatori del sistema nella peggiore. Il neoliberismo si è imposto rapidamente perché la sua promessa di prosperità sembrava generalizzata. Illusi dalle grandi possibilità di consumo offerte a debito dalla finanza, molti cittadini hanno ignorato la crescente incertezza che il sistema generava.10 E così nel momento della 10

Quando parliamo di opportunità offerte a debito dalla finan-

Introduzione

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crisi e del declino economico, diversamente da quanto accadeva nel passato fordista, si sono trovati soli, privi del sostegno di partiti e sindacati. Intanto il neoliberismo veleggiava incontrastato. In questo contesto intellettuale, sociale, politico ed economico, l’assenza di una visione alternativa sostenuta da chi soffre maggiormente la governance neoliberale ha contribuito alla perpetrazione delle misure di austerità. Una sorta di pedagogia, che si è spinta fino far sembrare «tecniche» tutte le misure via via decise, anche quando si dimostravano disumane.11 Per sostenere queste misure, le classi dirigenti di molti paesi europei hanno scelto di formare grandi coalizioni tra i partiti-architrave del sistema (di centrodestra e centrosinistra), continuando a eludere le domande e i bisogni della maggioranza invisibile. Anche il processo d’integrazione europea è stato influenzato dalla grande trasformazione: si è realizzata un’unione monetaria nel solco dell’ideologia neoliberista, senza disegnare politiche sociali za, ci riferiamo a molte operazioni che ormai fanno parte della nostra quotidianità e sono state incentivate dalla grande disponibilità di denaro all’interno del sistema: carte di credito, estensione dei mutui, pagamenti a rate... Ritorneremo su questi aspetti nel terzo capitolo. 11 Questa disumanità è simboleggiata dalla violinista greca membra dell’Orchestra nazionale, che pianse durante la sua ultima performance. Approfondimento: E. Ferragina, Grecia, il pianto della violinista durante l’ultimo concerto dell’Orchestra sinfonica nazionale.

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compensative con cui redistribuire la ricchezza verso cittadini e Stati più deboli. Così, tutti gli effetti negativi del processo si sono concentrati sulla maggioranza invisibile, facendo esplodere la sua sofferenza e frustrazione durante la crisi dei debiti sovrani. Altresì, la grande trasformazione ha reso il welfare state fordista inadatto e obsoleto. Cambiamenti epocali – come la crescita dell’economia dei servizi, il declino del manifatturiero, il ruolo preminente assunto dalle donne sul mercato del lavoro,12 i nuovi flussi migratori, la trasformazione delle strutture familiari e l’evoluzione demografica – hanno contribuito all’emergere di nuovi rischi sociali (o nsr, new social risks). Mentre in passato la maggioranza dei cittadini si inseriva velocemente nel settore industriale (c’è da dire che questa era un’opzione disponibile soprattutto per gli uomini), oggi chi si trova a voler accedere al mondo del lavoro deve quasi sempre confrontarsi con precarietà, disoccupazione e inattività di lungo periodo.13 Così, i nuovi rischi sociali, amplificati dal malfunzionamento del welfare state,

L’ingresso massiccio della donna sul mercato del lavoro, senza un’adeguata copertura di asili e servizi per l’infanzia, rende infatti la conciliazione della cura familiare e della carriera lavorativa molto difficile. 13 Questi sono solo alcuni dei rischi sociali connessi al passaggio da un’economia industriale a una basata sui servizi. Approfondiremo questi concetti nel quinto capitolo. 12

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si concentrano sulla maggioranza invisibile, che non può accedere agli stessi benefit dei garantiti. All’avvento della governance neoliberale, al processo d’integrazione monetaria e all’inadeguatezza del sistema di welfare nell’accompagnare la grande trasformazione, si è sommato un altro fattore che ha contribuito a isolare la maggioranza invisibile nello spazio sociale e renderla silente: il mutamento delle forze progressiste. In passato, la sinistra non vedeva la società come la somma degli individui che la compongono, ma piuttosto come un «campo di scontro», in cui si affrontano gruppi sociali con interessi diversi. Ma nel corso degli ultimi vent’anni essa si è discostata da questa visione per abbracciare quella individualista. Ed ecco quindi che oggi non si schiera con la maggioranza invisibile, bensì a sostegno dei vecchi garantiti e di buona parte delle idee neoliberiste. Anche i sindacati, come avremo modo di descrivere, si sono trovati ad accettare questa logica, sacrificando la maggioranza invisibile sull’altare dei diritti acquisiti nel tempo dai propri tesserati. La grande trasformazione, grazie anche alla mediazione delle forze sociali tradizionalmente di sinistra, ha portato all’applicazione di un neoliberismo che possiamo definire «selettivo»: un neoliberismo, cioè, applicato solo alla maggioranza invisibile e non ai garantiti dal vecchio sistema di welfare, che continuano a vivere come se la grande trasformazione non fosse mai avvenuta. Tutto ciò è lampante se guardiamo a tre ambiti di policy: quello pensionistico, quello delle leggi

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sull’immigrazione e quello del lavoro. Negli ultimi due decenni quasi tutti i provvedimenti in queste aree, presi indistintamente dal centrodestra e dal centrosinistra, sono stati volti a ridurre la protezione sociale di chi ha iniziato a lavorare nella seconda metà degli anni Novanta. La convergenza delle principali forze politiche sul neoliberismo selettivo si è manifestata più chiaramente dal 2011 in poi: con la crisi, dovuta all’impennata dei tassi d’interesse sul debito sovrano, essa è divenuta palese. Il bipolarismo della Seconda Repubblica si è basato sull’apparente divisione pro o contro Berlusconi, mentre in realtà entrambi gli schieramenti politici avevano accettato e attuato una serie di politiche di stampo neoliberale, che hanno aggravato la posizione della maggioranza invisibile e salvaguardato solo i garantiti. La maggioranza invisibile come gruppo sociale Durante la grande trasformazione la maggioranza invisibile ha pagato il prezzo più alto, perché incapace di riconoscersi come corpo sociale: quando mancano punti d’incontro e «gruppi secondari» 14 diventa difficile organizzarsi collet-

I gruppi secondari sono forme di organizzazione che stanno a metà strada tra i singoli e la società. Essi filtrano le richieste individuali nell’arco sociale. Esempi di gruppi secondari sono i partiti politici o le associazioni di volontariato. 14

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tivamente, per raccogliere le esigenze individuali e trasformarle in proposta comune. Tuttavia, nonostante le difficoltà sperimentate nel corso degli ultimi vent’anni, non c’è da essere cinicamente pessimisti: spazi aggregativi e gruppi secondari non esistevano neppure nell’Inghilterra dell’Ottocento o nell’Italia che si affacciava alla Rivoluzione industriale, eppure essi furono creati con pazienza – pur tra mille difficoltà – nel corso di alcune decadi. Consci della rottura storica che stiamo vivendo,15 e dell’incapacità delle vecchie strutture sindacali e politiche nel rappresentare la maggioranza invisibile, dobbiamo dunque fare un passo indietro. Back to the basics: ripartire dalle fondamenta, come dicono gli inglesi. Le cose non cambieranno se continuiamo a ripetere gli stessi errori, se continuiamo ad accettare la logica dei piccoli cambiamenti all’interno del paradigma neoliberale. Per creare nuovi spazi aggregativi e costruire gruppi secondari portatori delle istanze della maggioranza invisibile, occorre amalgamare progressivamente questo nuovo corpo sociale, riconoscendo il suo interesse comune contrapposto a quello di garantiti e neoliberisti. La crisi sta amplificando la situazione di svantaggio della maggioranza invisibile e mostrando

Illustreremo l’importanza di tale rottura nell’ottavo capitolo (inserendola nel contesto delle altre che si sono susseguite a partire dall’Unità d’Italia). 15

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in modo sempre più chiaro che l’elettore mediano (o moderato, che dir si voglia) si sta pian piano trasformando. Negli ultimi vent’anni si è assunto che, con la perdita di significato delle ideologie e in un sistema politico dominato da due coalizioni, per vincere le elezioni bastasse guadagnare il voto dell’elettore mediano: un elettore dalle visioni politiche moderate e con un reddito intorno alla media.16 In questo schema semplificato, la coalizione capace di guadagnare i favori di un simile elettore avrebbe di conseguenza ottenuto tutti i voti alla sua destra o alla sua sinistra. Tuttavia, progressivamente, mentre il centrodestra e il centrosinistra si sfidavano per vincere le elezioni sulla base di tale assunto, l’elettore mediano s’impoveriva sempre più in termini relativi,17 fino a diventare parte della maggioranza invisibile. Questo passaggio logico diventa più chiaro se riflettiamo sulla media e la mediana del reddito. La media aritmetica del reddito è la somma di tutti i redditi della popolazione, ad esempio italiana, divisa per il numero di abitanti. La mediana, invece, è un indice di posizione: si calcola

Per una discussione della teoria dell’elettore mediano vedi l’approfondimento: O. Kirchheimer, Transformation of Party System. 17 Impoverirsi in termini relativi significa diventare più poveri rispetto al resto della società. Una persona può diventare più povera in termini relativi pur avendo un reddito disponibile maggiore rispetto a quello dell’anno precedente: questo succede se tutti gli altri cittadini hanno accresciuto il loro reddito più di lei. 16

Introduzione

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guardando al numero di italiani e considerando il livello di reddito della persona che si trova a metà della distribuzione. L’elettore mediano, di cui parla la scienza politica anglosassone, è proprio il cittadino italiano che si trova nel punto mediano della distribuzione di reddito. Questo significa che, con la crescita delle disuguaglianze generata dalle politiche neoliberiste, la media del reddito si allontanerà sempre più dalla mediana; quindi il famoso «elettore decisivo» sarà sempre più povero.18 Come argomentato da molti studi accademici,19 l’aumento delle disuguaglianze nel lungo periodo contribuisce – in particolare se il punto mediano della distribuzione di reddito si allontana da quello medio – alla crescita della richiesta di redistribuzione. Si tratta di un ribaltamento rispetto al passato. Infatti il sistema di produzione fordista aveva contribuito a far avvicinare media e mediana, riducendo la domanda per la redistribuzione. Questo era il contesto in cui ha fatto strada l’ideologia neoliberista. Oggi succede l’opposto: media e mediana si allontanano. Ciò significa che la maggioranza invisibile, sempre più decisiva nelle elezioni, dovrebbe sostenere in futuro un programma politico volto alla redistribuzione. E infatti, mentre la governance neolibera-

In termini relativi, è bene sottolinearlo. Approfondimento: G. Esping-Andersen e J. Myles, Economic Inequality and the Welfare State. 18 19

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le accusa i segni della crisi,20 l’analisi che vede la presenza di gruppi «concorrenti» nel campo sociale (di ispirazione marxista) e la teoria dell’elettore mediano (di ispirazione liberale)21 tendono a indicare l’emergere della maggioranza invisibile e la sua preferenza per la redistribuzione.22 Da questo punto di vista, la distanza fra le vecchie strutture sociali e rappresentative e le domande ineluse della maggioranza invisibile ha aperto nuovi spazi di azione politica, come dimostrato dal risultato elettorale del MoVimento 5 Stelle nel 2013. Un movimento capace di attirare (parzialmente) il voto della maggioranza invisibile sulla base della protesta antisistema, ma inadatto a fidelizzarlo nel lungo periodo, per la mancanza di un progetto politico complessivo e articolato.23 Lo scollamento tra le forze politiche e sociali in campo e la maggioranza invisibile è figlio dell’evoluzione storica, non è certo un evento isolato e casuale. In passato, l’ottenimento di diritti e concessioni è stato frutto di una lotta fra blocchi sociali contrapposti. Per questa ragione, finché la maggioranza invisibile non prenderà

Perché non riesce più a produrre ricchezza per la maggior parte della società. Discuteremo della crisi della governance neoliberale nel terzo capitolo. 21 Perché basata sulle scelte individuali. 22 È interessante notare come le due teorie sono tradizionalmente contrapposte. 23 E il risultato delle elezioni europee del 2014 lo conferma. 20

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coscienza della sua forza numerica e del suo interesse comune, difficilmente potrà affermarsi una nuova fase politica che favorisca i più svantaggiati, nonostante l’impoverimento dell’elettore mediano. Sin dagli anni Novanta, le forze progressiste hanno cercato di sopire le tensioni e il conflitto sociale; hanno abbandonato l’idea secondo cui, in una società capitalista, ci sono gruppi che si avvantaggiano dei grandi cambiamenti economici e altri che li subiscono. Esse hanno sposato la dialettica neoliberale, assumendo che la responsabilità di successi e insuccessi sia – quasi esclusivamente – individuale. In realtà, la situazione nel nostro paese è ben diversa. Esistono, infatti, tre gruppi distinti: due sono rappresentati politicamente e riconosciuti socialmente e uno, la maggioranza invisibile, non si è invece ancora consolidato a sufficienza. I due blocchi antagonisti alla maggioranza invisibile sono i neoliberisti e i garantiti. I neoliberisti vogliono ridurre lo stato sociale ed estendere il loro mantra a quasi tutti gli aspetti della società. Tale prospettiva ideologica, pur non essendo rappresentata pienamente da nessun partito, ha trovato terreno fertile grazie al contesto internazionale e al parziale sostegno delle principali forze di governo (di centrodestra come di centrosinistra), ma è stata frenata dalla forza dei garantiti. Questi ultimi, che hanno difeso a spada tratta le concessioni ottenute durante l’epoca fordista, sono stati capaci di ancorarsi allo status quo e farsi rappresentare da partiti e sindacati. I

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garantiti, tuttavia, sono un gruppo sociale in via di disgregazione: il loro numero decresce ogni giorno, mentre si ingrossano le fila della maggioranza invisibile. La domanda che sorge spontanea di fronte a questa strutturazione del campo sociale è: riuscirà la maggioranza invisibile a dispiegare la sua forza, trovando un terreno che la unifichi in opposizione a neoliberisti e garantiti? La risposta, pur se incompleta, è che il terreno comune per avviare il processo di riconoscimento esiste già. È quello della redistribuzione efficiente e della riforma in senso universale del welfare state. La bandiera della redistribuzione: efficienza e produttività sociale Per uscire dallo stallo economico e sociale generato dall’«austerità competitiva»24 ci sono due strade. La prima, al momento preferita dall’Unione Europea, è che i paesi più sofferenti, come l’Italia, riescano a compensare il calo della domanda interna con maggiori esportazioni.25 Tuttavia, è difficile credere che Stati in grave difficoltà economica possano aumentare la produttività accrescendo

La strategia dell’austerità competitiva prevede di accrescere le esportazioni riducendo i salari e la spesa pubblica. Torneremo su questo concetto nel quarto capitolo. 25 Si tratta del cosiddetto «scenario alla tedesca». 24

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le esportazioni (visto che i loro debiti elevati impediscono di investire nella riconversione dei sistemi produttivi). Per perseguire questa strategia, i paesi mediterranei sono stati costretti ad agire sull’unica leva disponibile: la riduzione del costo del lavoro e della protezione sociale. La seconda alternativa, al momento ignorata,26 è quella di redistribuire per sostenere la domanda interna. Una redistribuzione che dovrebbe avvenire a livello europeo (da chi più sta beneficiando della moneta unica a chi la soffre) e a livello nazionale (dalla minoranza dei garantiti alla maggioranza invisibile). La discussione sulla «giusta» distribuzione di reddito e ricchezza è tornata in voga dopo essere rimasta nel cassetto per circa trent’anni.27 Thomas Piketty ha mostrato come la crescita della disuguaglianza sia dovuta principalmente alle scelte politiche ispirate dal neoliberismo, quali la deregolamentazione della finanza e del mercato del lavoro, e il cambiamento in senso regressivo dei sistemi di tassazione.28 Secondo l’economista francese, la

Essa sembra poco «digeribile» a livello politico, per alcuni paesi. Due premi Nobel del calibro di Krugman e Stiglitz hanno il merito di aver reso d’interesse pubblico, in un momento di forte crisi della governance neoliberista, una discussione rimasta marginale per decenni. Approfondimento: J. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. 27 Per imposta regressiva si intende una tassa il cui ammontare non cresce in misura proporzionale all’aumentare della base imponibile. Per una spiegazione più approfondita vedi la voce Imposte regressive sul portale simone.it, consultabile all’indirizzo www.simone.it/newdiz/newdiz.php?action=view&dizionari 26

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maggior parte del mondo accademico ha avuto il torto di non analizzare e criticare a sufficienza gli effetti della governance neoliberale.29 Prigionieri dell’«individualismo metodologico», gli studiosi si sono focalizzati su aspetti microscopici, su leggi matematiche spesso lontane dalla realtà, sulla cura del piccolo dettaglio fine a se stesso e sulle insulse battaglie disciplinari, tralasciando la grande trasformazione che stava prendendo piede e il suo impatto devastante sulla maggioranza invisibile. La crescita economica e la diffusione della conoscenza hanno contribuito in modo determinante a ridurre la polarizzazione di reddito e ricchezza fino alla fine degli anni Settanta. Tuttavia, con l’avvento del neoliberismo, lo scenario è cambiato. Ci troviamo ormai in una situazione simile a quella del diciannovesimo secolo, con il tasso di ritorno del capitale che viaggia costantemente su livelli superiori a quelli della crescita economica.30 Per questa ragione, è molto pro-

o=6&id=1534. Approfondimento: T. Piketty, Le capital au XXIe siècle. 29 Ci sono tuttavia studiosi che hanno sempre mantenuto un occhio critico. Vedi, ad esempio, come approfondimento: D. Harvey, Breve storia del neoliberismo. 30 Ciò significa, in pratica, che il tasso di profitto ottenuto dall’investimento del capitale in attività finanziarie è molto più alto del tasso medio di crescita dell’economia. Questo ha comportato una crescita continua dell’investimento in attività finanziarie e speculative e una decrescita dell’investimento, per esempio, nel settore manifatturiero. Discuteremo delle implicazioni di questo fenomeno, detto «mobilità funzionale» del capitale, nel terzo capitolo.

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babile che chi detiene capitale continuerà ad accumulare ricchezza, mentre chi vive di lavoro e manda avanti il sistema, s’impoverirà sempre più.31 In aggiunta, difficilmente nelle prossime decadi il tasso di crescita dell’economia riuscirà a superare quello della remunerazione del capitale (almeno nei paesi sviluppati).32 In un contesto del genere, l’accumulazione di reddito e ricchezza in poche mani non è solo ingiusta a livello sociale, ma anche inefficiente da un punto di vista strettamente economico. La redistribuzione, infatti, può favorire la crescita economica attraverso almeno due meccanismi: quello sociopolitico e quello educativo. La presenza di una distribuzione ineguale di reddito e ricchezza crea incentivi perversi, tra gli individui meglio organizzati, a perseguire il proprio interesse personale con ogni mezzo. Molti dei governi che si sono succeduti nel nostro paese sono stati condizionati nella loro azione da tale concentrazione di potere e ricchezza nelle mani dei garantiti, e anche per questo motivo non sono riusciti a varare riforme capaci di sostenere la crescita e la maggioranza invisibile. Da questo punto di vista, il meccanismo sociopolitico indi-

In parole povere, stiamo assistendo nuovamente allo strapotere della rendita sul lavoro. 32 Questo significa che, se non ci sarà un intervento per tassare maggiormente il capitale, gli investimenti continueranno a concentrarsi sulle attività speculative anziché su quelle che producono maggiori effetti di lungo periodo sull’economia. 31

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ca che la redistribuzione ridurrebbe il potere dei garantiti a favore della collettività. Il meccanismo educativo si basa invece sull’idea, verificata a livello empirico nei paesi sviluppati, che, se la ricchezza fosse distribuita in modo più egualitario, gli individui avrebbero maggiori incentivi a investire nel proprio capitale umano, sostenendo di conseguenza la crescita economica nel lungo periodo.33 All’evidente efficienza economica della redistribuzione si aggiungono altri argomenti, che potremmo definire di «utilità sociale». La riduzione della disuguaglianza ha effetti positivi su svariati problemi, come l’incidenza del crimine, e su altri outcome34 sociosanitari quali il livello di mortalità infantile, la condizione generale di salute dei degenti e i livelli di obesità.35 In aggiunta, nei paesi sviluppati, anche i ricchi stanno meglio quando c’è più uguaglianza: gli outcome socioeconomici e sanitari che riguardano il 10% più ricco della popolazione tendono a essere migliori negli StaApprofondimento: R. Perotti, Growth, Income Distribution, and Democracy: What the Data Say. 34 Per outcome si intende il risultato ottenuto alla fine di un processo. In questo caso, la riduzione delle disuguaglianze avrebbe come risultato finale il miglioramento della performance socioeconomica e sanitaria dei paesi in questione. 35 Approfondimenti: K. Pickett e R.G. Wilkinson, Income Inequality and Population Health: A Review and Explanation of the Evidence; K. Pickett e R.G. Wilkinson, La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici. 33

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ti maggiormente egualitari rispetto a quelli più diseguali. Per semplificare, i danesi più abbienti stanno meglio dei loro omologhi americani. E questo anche perché hanno accettato di redistribuire una parte più consistente del loro reddito e della loro ricchezza. L’argomento dell’efficienza sociale dell’uguaglianza può essere specificamente declinato nel nostro paese. Gli italiani, infatti, trarrebbero benefici sostanziali da una più equa distribuzione di opportunità, trattamento e reddito.36 Facciamo tre esempi. Primo, una maggiore uguaglianza di opportunità all’interno degli ordini professionali garantirebbe ai giovani di accedere al mercato del lavoro con dignità, e simultaneamente contribuirebbe a ridurre le tariffe per i consumatori. Secondo, una maggiore uguaglianza di trattamento all’interno del sistema di welfare avrebbe l’effetto di coprire meglio i nuovi rischi sociali, senza accrescere la spesa pubblica. Terzo, una maggiore uguaglianza economica favorirebbe la crescita del capitale sociale, 37 e con esso la partecipazione politica della maggioranza invisibile. Ma questi non sono gli unici punti a favore del-

Approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente. Per capitale sociale intendiamo l’insieme di fiducia collettiva, rispetto delle norme che regolano la convivenza civile e partecipazione fattiva in associazioni del terzo settore (ovvero di volontariato); tutti elementi che migliorano il funzionamento di una società, promuovendo lo sviluppo di iniziative comuni. Approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente. 36 37

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la redistribuzione: si deve aggiungere che una maggiore uguaglianza sosterrebbe la produttività sociale di ogni singola componente della maggioranza invisibile. Per fare un esempio, all’interno di neet e disoccupati si trovano un numero sostanzioso di donne con alto livello di qualifica. A causa di norme culturali arretrate e del difficile accesso ai servizi di cura per figli e genitori anziani (specie nel Mezzogiorno), molte di esse sono automaticamente escluse dal mercato del lavoro. Il fatto che non esistano servizi sociali capaci di supportarle porta a sprecare un potenziale umano ed economico enorme. Anche la redistribuzione dai pensionati abbienti a quelli più poveri contribuirebbe al benessere del paese. Primo, perché la propensione al consumo è più elevata fra chi ha un reddito minore, e questo processo redistributivo comporterebbe quindi la crescita della domanda aggregata.38 Secondo, la redistribuzione di risorse verso i servizi per la terza età ridurrebbe l’entità del lavoro di cura che grava sulle famiglie. Questo permetterebbe il passaggio da un «welfare familiare» a uno universale, un welfare in cui tutti i cittadini avrebbero gli stessi diritti, a prescindere dalle possibilità economiche della famiglia. E una redistribuzione all’interno del sistema

Per domanda aggregata, in economia, s’intende la somma dei consumi di ogni singolo cittadino, che si tramuta in incentivo alla produzione delle imprese, capaci in condizioni normali di piazzare i loro prodotti e sostenere così l’economia. 38

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di welfare verso i migranti sarebbe altrettanto vantaggiosa. Essi, infatti, contribuiscono in modo decisivo al benessere collettivo per ragioni demografiche, economiche e sociali.39 Infine i precari, come i migranti, beneficerebbero di un’estensione del sistema di welfare. Un ampliamento che dovrebbe essere volto a garantire la sicurezza economica durante i periodi transitori di disoccupazione, oltre a un livello più elevato di formazione (per fare fronte ai rapidi cambiamenti cui li sottopone l’economia di mercato). Redistribuire all’indirizzo dei precari significa sostenere lo sviluppo di una forza lavoro più efficiente e produttiva (per ragioni simili a quelle messe in evidenza al riguardo di neet e disoccupati). Per tutte queste ragioni, la maggioranza invisibile dovrebbe fare dell’uguaglianza una bandiera, non solo attraverso i meccanismi classici della redistribuzione fiscale, ma anche proponendo una riforma in senso universale del welfare state. Un welfare, dunque, capace di lenire i nuovi rischi sociali e volto a massimizzare la produttività (non solo economica) del paese.

Questo perché: a livello demografico quasi un sesto delle nascite provengono dai migranti; a livello economico i migranti forniscono manodopera a basso costo in settori in difficoltà e nei servizi di cura, e hanno una grande propensione all’attività imprenditoriale; a livello sociale essi contribuiscono attivamente al sostegno finanziario del welfare state. Torneremo su questo punto nel secondo capitolo. 39

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Perseguendo una tale riforma, la maggioranza invisibile troverebbe anche l’appoggio di altre categorie sociali – come la classe media qualificata e gli studenti – pronte a mobilitarsi contro garantiti e neoliberisti.40 Questa richiesta di redistribuzione non deve limitarsi all’ambito nazionale, ma va estesa all’Europa, proponendo un cambio di passo decisivo: dall’austerità competitiva alla redistribuzione inter e intra statale. Il problema dell’Unione risiede nell’ispirazione neoliberista del processo di integrazione monetaria, e non nell’idea stessa di creazione di uno spazio comune europeo.41 La maggioranza invisibile ha dunque il dovere di volgersi anche verso i precari tedeschi e greci, che, come in Italia, vengono quotidianamente svantaggiati dalle riforme neoliberiste del mercato del lavoro.42 In conclusione questo libro riconosce l’esistenza di un gruppo sociale in potenza, illustra le condizioni che lo hanno reso numericamente maggioritario e suggerisce un’agenda per renderlo più coeso nel prossimo futuro. La maggioAffronteremo la questione nell’ottavo capitolo. Come dimostrato dalla prima parte del processo d’integrazione, esso può assumere connotati vantaggiosi per la maggioranza invisibile. La prima parte del processo d’integrazione è quella che precede la creazione del Serpente monetario negli anni Settanta. Torneremo su questo concetto nel quarto capitolo. 42 Ci riferiamo qui, naturalmente, a tutti i precari europei: l’esempio di Germania e Grecia è dettato dalla necessità di menzionare solo gli estremi. 40 41

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ranza invisibile si inserisce nell’ambito di un’importante rottura storica, resa evidente dalla crisi del 2011 e dalle elezioni «critiche» 43 del 2013. Dall’Unità d’Italia a oggi, tutti i momenti di rottura nel nostro paese sono stati gestiti, come avremo modo di illustrare nella seconda parte del libro, mediante «rivoluzioni passive»: un mix di trasformismo politico e cesarismo, segnato dall’apparizione di figure carismatiche e autoritarie che ha permesso alle élite dominanti di traghettare la nazione verso nuove fasi, senza mai modificare sostanzialmente i rapporti di forza tra i gruppi sociali. La maggioranza invisibile può scardinare questo meccanismo perverso. Essa può diventare il riferimento di un nuovo progetto politico egualitario, universale e internazionalista. Questo libro muove un primo piccolo passo: intravede tale forza nello spazio sociale, politico ed economico. Altri contributi, di natura diversa, dovranno seguire. La strada è lunga ma siamo sicuri di non essere soli. Struttura del libro Il libro è diviso in due parti, introdotte da una descrizione delle categorie sociali che compon-

Come illustreremo nel settimo capitolo, per elezione critica s’intende un voto in profonda discontinuità (nell’offerta elettorale e nelle scelte degli elettori) rispetto a quello precedente. 43

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gono la maggioranza invisibile (capitolo secondo, La base sociale del cambiamento). La prima parte, La grande trasformazione e la maggioranza invisibile, analizza le ragioni che hanno portato all’emergere della maggioranza invisibile: L’affermazione inarrestabile del neoliberismo, i cui elementi fondanti sono diventati l’orizzonte culturale, economico e politico per il mondo occidentale (capitolo terzo, Le politiche neoliberiste: deregolamentazione e maggioranza invisibile). Gli effetti contraddittori del processo d’integrazione europea, con la creazione di un mercato unico senza solidarietà sociale (capitolo quarto, Mercato unico senza anima sociale: europeismo critico e maggioranza invisibile). L’emergere di nuovi rischi sociali, connessi con il passaggio da un’economia di stampo fordista a una quasi interamente basata sui servizi, e l’inadeguatezza del vecchio sistema di welfare nel coprirli (capitolo quinto, Maggioranza invisibile e nuovo welfare: universalismo e produttività sociale). La trasformazione delle forze progressiste europee e italiane, che hanno ignorato l’emergere della maggioranza invisibile (capitolo sesto, Il requiem della sinistra?). Dopo aver analizzato la composizione sociale della maggioranza invisibile e la grande trasformazione che l’ha fatta emergere, la seconda parte

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del libro, Da maggioranza invisibile a maggioranza visibile?, riflette sul comportamento elettorale di questo nuovo gruppo sociale (capitolo settimo, La maggioranza invisibile al voto) e sulla possibilità di trasformare il suo disagio estremo in mobilitazione (capitolo ottavo, Organizzare la maggioranza invisibile). Infine la conclusione riprende le fila del discorso, evidenziando le possibilità reali di rivincita della maggioranza dimenticata degli italiani.

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Lo scopo di questo capitolo è definire le categorie sociali che costituiscono la maggioranza invisibile, quantificare la loro consistenza numerica e illustrare quali interessi dovrebbero contribuire a compattarle nel breve periodo. L’espressione «maggioranza invisibile» fa riferimento alla nozione di «maggioranza silenziosa», coniata da Nixon nel 1969. Il leader repubblicano usò questa definizione per richiamare alle urne la parte di opinione pubblica conservatrice che supportava la guerra in Vietnam.1 L’idea alla base di questo richiamo era che la maggioranza silenziosa e conservatrice, non esprimendosi nelle piazze, favorisse le rivendicazioni del campo progressista che, seppur minoritario nel paese, riusciva a far sentire con maggiore incisività le proprie ragioni. La «rivoluzione

Il termine fu anche ripreso da un movimento milanese d’ispirazione conservatrice (denominato appunto Maggioranza silenziosa), che invitava la borghesia a opporsi alle rivendicazioni avanzate durante l’Autunno caldo. Sull’argomento vedi la definizione dell’enciclopedia Treccani consultabile all’indirizzo www. treccani.it/enciclopedia/maggioranza-silenziosa_(Dizionario_di_ Storia)/. 1

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reaganiana» degli anni Ottanta diede ragione a Nixon: esisteva veramente una maggioranza silenziosa di americani in favore di una nuova politica conservatrice. Analogamente, per maggioranza invisibile intendiamo oggi un gruppo sociale in potenza, che, non riconoscendosi collettivamente e non esprimendosi nel campo sociale e politico, favorisce le rivendicazioni di una minoranza più compatta di garantiti, smorzando la domanda di politiche redistributive che avrebbero l’effetto di rendere l’Italia più coesa ed efficiente.2 La maggioranza invisibile è costituita da cinque gruppi che vivono forti condizioni di disagio economico e sociale: 1. i disoccupati; 2. i neet;3 3. i pensionati meno abbienti;4 4. i migranti; 5. i precari.5

Sul legame tra uguaglianza ed efficienza vedi l’Introduzione. Approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente. 3 I neet sono giovani che non hanno un lavoro e non stanno perseguendo nessun tipo di percorso formativo. 4 Per pensionati meno abbienti s’intendono coloro i quali percepiscono una pensione inferiore ai 1000 euro al mese. 5 La maggior parte dei poveri, in Italia, è compresa all’interno della maggioranza invisibile; tuttavia esistono persone che vivono al di sotto della soglia di povertà pur avendo contratti di lavoro stabili. Anche loro devono essere considerati parte integrante della maggioranza invisibile. Il fenomeno del working poor (colui che lavora, anche con un contratto stabile, ma è povero) è in ogni 2

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Si tratta in tutto di 25 milioni di persone, a fronte dei 47 milioni di aventi diritto al voto e dei circa 34 milioni di votanti alle elezioni politiche del 2013.6 Un partito politico o movimento sociale capace di mobilitare una parte sostanziosa di questa maggioranza, attraverso un progetto politico articolato e coerente, potrebbe sconvolgere la geografia elettorale. Le prime avvisaglie ai partiti tradizionali sono arrivate con il sorprendente risultato del MoVimento 5 Stelle alle ultime elezioni politiche, determinato in buona parte proprio dal voto decisivo di alcune componenti della maggioranza invisibile.7 Le parole di Beppe Grillo all’indomani delle consultazioni sono state sintomatiche: Gli italiani non votano a caso, queste elezioni lo hanno ribadito, scelgono chi li rappresenta. In Italia ci sono due blocchi sociali. Il primo, che chiameremo blocco A, è fatto da milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario o

caso meno rilevante in Italia rispetto ad altri paesi europei (come ad esempio l’Inghilterra). Approfondimento: M. Filandari ed E. Struffolino, Working poor: lavoratori con basso salario o occupati che vivono in famiglie povere? Un’analisi del fenomeno in Italia prima e dopo la crisi. 6 Tuttavia occorre rilevare che la maggior parte dei migranti non ha ancora diritto di voto. 7 Il MoVimento è stato primo incontrastato alle scorse elezioni per numero di consensi fra disoccupati e precari. Nel settimo capitolo forniremo un’analisi completa del voto della maggioranza invisibile alle politiche del 2013 e anche dati parziali sulle europee del 2014. Fonte: Itanes, Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013.

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disoccupati, spesso laureati, che sentono di vivere sotto una cappa, sotto un cielo plumbeo come quello di Venere. Questi ragazzi cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie. A questo blocco appartengono anche gli esclusi, gli esodati, coloro che percepiscono una pensione da fame e i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano. Il secondo blocco sociale, il blocco B, è costituito da chi vuole mantenere lo status quo, da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d’acquisto, da una gran parte di dipendenti statali, da chi ha una pensione superiore ai 5000 euro lordi mensili, dagli evasori, dalla immane cerchia di chi vive di politica attraverso municipalizzate, concessionarie e partecipate dallo Stato. L’esistenza di questi due blocchi ha creato un’asimmetria sociale, ci sono due società che convivono senza comunicare tra loro.8

Tre passaggi del discorso sono particolarmente interessanti: 1. la definizione di un gruppo sociale maggioritario di «perdenti» nel presente stato di cose; 2. l’esistenza di una minoranza coesa e prona alla conservazione dello status quo; 8

Fonte: B. Grillo, Gli italiani non votano mai a caso.

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3. l’incomunicabilità fra i due blocchi, che costituisce una bomba a orologeria sociale. L’analisi proposta da Grillo è in sostanza corretta, ma si limita ad assumere che un giorno questi «perdenti» si uniranno nel voto per il M5S, spazzando via le vecchie forze politiche e cambiando il destino del paese. Tuttavia, un progetto politico (e sociale) non si nutre solo del disagio degli sconfitti, ma ha bisogno di articolarsi attorno al riconoscimento di un gruppo di riferimento e alla comprensione dei suoi bisogni. Il nostro volume risponde – almeno parzialmente – a questa necessità. La maggioranza di cui parliamo è invisibile per due ragioni interconnesse. Primo, perché è ancora incapace di riconoscersi e rappresentarsi come gruppo coeso, a causa di un sistema socioeconomico iniquo che ne fiacca la partecipazione a tutti i livelli. A conferma di ciò, molti studi dimostrano come la crescita delle disuguaglianze contribuisca drasticamente a ridurre la partecipazione sociale e politica dei meno abbienti.9 Secondo, perché ignorata da chi, come se nulla fosse cambiato negli ultimi decenni, continua a difendere i garantiti e a ricercare

Approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente, in particolare il capitolo Uguaglianza e storia collettiva per accrescere il capitale sociale. 9

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soprattutto il voto dell’elettore mediano (o moderato che dir si voglia). 10 Ma nonostante tale emarginazione, la maggioranza invisibile ricopre funzioni fondamentali nella società italiana. Precari e migranti sono centrali nei processi di produzione e scambio, mantenendo competitivi interi settori della nostra economia. Disoccupati, neet e pensionati, pur non integrati nell’economia formale, sono attivi nei lavori di cura, contribuendo al mantenimento di forme non remunerate di welfare familiare. Considerate ad esempio una coppia di anziani che si prende cura del nipote, mentre i genitori lavorano. Questi pensionati non sono impiegati nell’economia formale, ma forniscono un servizio sociale che altrimenti sarebbe molto costoso per i genitori.11 Il riconoscimento di questo ruolo dovrebbe costituire uno dei punti di partenza per le rivendicazioni della maggioranza invisibile nella sfera pubblica. In effetti, tutte le componenti di questa maggioranza sono accomunate dall’esclusione e/o marginalizzazione sul mercato del lavoro e soprattutto dal fatto di pagare, più di chiunque altro, il prezzo della grande trasformazione che

Incarnato ad esempio dai dipendenti pubblici con contratti a tempo indeterminato. Anche se, come sottolineato nell’Introduzione, il profilo dell’elettore mediano si sta trasformando: esso è ormai incluso all’interno della maggioranza invisibile. 11 Senza contare che spesso un posto in asilo nido non è garantito neanche a pagamento. 10

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stiamo vivendo, a causa del malfunzionamento del welfare.12 Pensate ai precari e alla loro condizione di disagio, esacerbata ogni giorno di più dall’assenza di politiche universali di protezione sociale: in caso di perdita del lavoro (un lavoro spesso malpagato e discontinuo) non esiste infatti un reddito minimo di sopravvivenza, che aiuti a mantenere uno standard di vita decente, o un aiuto strutturale che permetta di formarsi e reinserirsi nel settore produttivo. A causa di quest’assenza di protezione, i componenti della maggioranza invisibile sono spesso esclusi dalla partecipazione alla vita pubblica. Come si fa a prendere parte a manifestazioni in difesa dei propri diritti se si rischia costantemente di finire per strada? Come si fa, in queste condizioni di perenne precarietà, a non essere «schiavi» del datore di lavoro? All’assenza di tutele, si aggiungono poi altri fattori che frammentano la maggioranza invisibile: ci sono differenze generazionali che impediscono ai pensionati meno abbienti di comunicare con precari e disoccupati, contesti geografici variegati13 e livelli di istruzione e ricchezza variabili.14 Inoltre, le aspirazioni di cambiamento e redistribuzione nel paese sono fiaccate sul nascere dall’assenza Come discuteremo nel quinto capitolo. Pensate alle diverse condizioni in cui versano, ad esempio, precari e disoccupati al Nord e al Sud. 14 È il caso dei pensionati, che hanno accumulato risparmi più consistenti di giovani disoccupati e precari. 12 13

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di gruppi secondari di riferimento, e dalla forza conservatrice di una potente e ben rappresentata minoranza visibile: pensionati abbienti, impiegati pubblici garantiti dal vecchio welfare, e una pletora di approfittatori del sistema che evadono le tasse (spesso senza incorrere in alcuna sanzione) per accrescere i loro profitti, o che abusano ogni giorno di un sistema di welfare generoso con i ricchi e taccagno con i poveri.15 La grande sfida, oggi come in passato, è quella di trasformare una serie di categorie sociali sconfitte in un corpo coeso, capace di opporsi alla minoranza visibile dei garantiti attraverso un progetto politico alternativo; o quantomeno amalgamarle in un gruppo forte abbastanza da ottenere concessioni considerevoli dall’élite dominante. Descrivendo la maggioranza invisibile Come accennato, la maggioranza invisibile è costituita da cinque categorie che vivono in condizione di subalternità. Si tratta di disoccupati, neet, pensionati meno abbienti, migranti e precari. I DISOCCUPATI

Il tasso di disoccupazione in Italia è cresciuto drammaticamente durante la crisi, salendo dal

Approfondimento: E. Ferragina: Chi troppo chi niente, in particolare il capitolo Il prezzo del passato. 15

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6,1% del 2006 al 12,9% del gennaio 2014. Oggi ci sono circa 3,3 milioni di disoccupati;16 essi sono in prevalenza giovani, donne e residenti nelle regioni meridionali.17 Le deficienze strutturali del nostro paese sono chiare: l’incapacità di ridurre il divario tra Nord e Sud, la difficoltà di inserire giovani – qualificati e non – nel tessuto produttivo, la discriminazione profonda di una società arretrata e bigotta verso le donne.18 A ciò va aggiunto che il 51,3% dei disoccupati è in cerca di lavoro da oltre un anno, a dimostrazione di come il problema sia strutturale.19 In questo difficile contesto vengono a galla tutte le lacune dei nostri ammortizzatori sociali, pensati per un mercato del lavoro fordista (che non esiste quasi più), in cui la produzione manifatturiera era il motore dell’economia e la figura dell’operaio centrale in tutti i processi socioeconomici.20 L’esempio più eclatante è

Fonte: L’Istat: un milione di occupati in meno dal 2008 . Il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il 32% per la fascia di età compresa tra i 18 e i 29 anni e ha superato il 42% per la fascia di età compresa tra i 18 e i 24 anni. Fonte: Occupati e disoccupati (dati provvisori). Inoltre nel Mezzogiorno i tassi di disoccupazione sono più che doppi rispetto al Nord, e il gap fra uomini e donne è più ampio rispetto al resto del paese. Fonte: Rapporto annuale 2013 – La situazione del paese. 18 Le disuguaglianze di genere fanno sì che le donne siano tendenzialmente peggio retribuite e in posizioni più precarie rispetto agli uomini. Fonte: ibidem. 19 Fonte: Disoccupazione di lunga durata. 20 Torneremo su questo argomento nel terzo e quinto capitolo. 16 17

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quello della cassa integrazione: essa, pensata in origine per permettere all’industria di affrontare le fasi negative del ciclo economico, è oggi una misura esclusivamente assistenziale che pesa sulle casse dell’Inps senza aiutare i lavoratori a reinserirsi sul mercato. La sfida di ridurre la disoccupazione è stata affrontata negli ultimi anni solo accrescendo la flessibilità, senza interrogarsi sulle debolezze della nostra politica industriale e senza migliorare la protezione sociale.21 Si è pensato che fosse sufficiente ridurre il costo del lavoro e affidare lo sviluppo del sistema produttivo alla mano invisibile del mercato. Il disastro che ne è seguito è sotto gli occhi di tutti.22 L’analisi della condizione dei disoccupati impone due riflessioni, centrali per tutta la maggioranza invisibile. Primo: occorre tornare a considerare forze e debolezze del sistema produttivo guardando al contesto internazionale ed europeo, senza limitarsi ad accettare come ineluttabile la riduzione del costo del lavoro. Secondo: serve una riforma del welfare che garantisca continuità di reddito a tutti i cittadini che si trovino

Ci riferiamo, in particolare, a policies costantemente ignorate quali il reddito minimo garantito e il sussidio universale di disoccupazione. 22 La decisione di puntare sulla riduzione del costo del lavoro è una conseguenza diretta delle scelte a livello europeo e del trionfo del neoliberismo. Discuteremo questi aspetti nel terzo e quarto capitolo. 21

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in difficoltà (per ragioni individuali o strutturali), a prescindere dal loro contratto di lavoro.23 I NEET

I neet sono i giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano nessun corso d’istruzione o formazione.24 Si tratta di una categoria eterogenea, come dimostra la stessa definizione costruita per negazione: si individuano i neet sulla base di quello che non fanno. L’Istat ha stimato che i neet nel 2012 erano 2,25 milioni, con un incremento del 21,1% rispetto al 2008.25 Circa un milione di neet è conteggiato anche come disoccupato, mentre gli altri sono prevalentemente giovani inattivi.26 La composizione sociale di questo gruppo rispecchia abbastanza fedelmente quella dei disoccupati: i neet sono soprattutto donne27 e residenti nelle regioni meridionali.28 È un fenomeno preoccupante per l’efficienza del sistema-paese, dato che le donDiscuteremo questo aspetto nel quinto capitolo. Va qui specificato che in alcune rilevazioni vengono considerati «giovani» coloro i quali hanno meno di 34 anni. 25 Fonte: Rapporto annuale 2013 – La situazione del paese. 26 Cioè giovani che non hanno un lavoro e non lo stanno cercando. 27 Nel 2013 le donne costituivano il 53% dei neet, e questa percentuale cresce con l’età. Fonte: C. Franzosi, Young Neet in Italy: Scenario and Outlooks for Interventions. 28 Il Sud ha l’incidenza maggiore di neet, con percentuali più che doppie rispetto al Nord e al Centro (fonte: ibidem). Inoltre al Sud la probabilità di trovare un lavoro dopo aver passato un periodo da neet è circa la metà rispetto a quella misurata nella parte settentrionale della penisola. Fonte: C. Antoniou e P. Stefanini, Generazione neet, due milioni di giovani non lavorano né studiano. 23 24

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ne sono mediamente più istruite degli uomini. In virtù di ragioni culturali29 e dell’assenza di servizi per l’infanzia, una fetta importante di popolazione femminile con alto livello di qualifica non partecipa all’economia formale. Ciò significa disperdere una parte consistente del nostro capitale umano.30 I problemi dei neet, e di conseguenza le politiche pubbliche che potrebbero alleviare la loro condizione di disagio, sono simili a quelli dei «disoccupati tradizionali». Rispetto a questi ultimi, però, essi si trovano a dover affrontare barriere ancor più dure per accedere al mondo del lavoro. Ciò che li rende fragili è quello che nella letteratura sociologica viene definito scarring effect.31 Si tratta metaforicamente di un taglio, un’incisione profonda che isola i neet e li rende nel lungo periodo meno capaci di inserirsi nell’economia formale (e di partecipare alla vita pubblica) rispetto agli altri cittadini. Più è lungo il periodo speso nella condizione di neet maggiori saranno gli scarring effects nel futuro. E di conseguenza, potremmo aggiungere, maggiori i danni al sistema economico. I PENSIONATI MENO ABBIENTI

In Italia, a fronte di 22,3 milioni di occupati, ci sono ben 18,6 milioni di pensionati; questo Quali il fatto che il ruolo di cura sia tradizionalmente assegnato alle donne nella nostra società. 30 Ritorneremo sul problema nel quinto capitolo. 31 Approfondimento: M. Gangl, Welfare State and the Scar Effects of Unemployment. 29

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è il risultato dell’invecchiamento progressivo della popolazione, ma anche di politiche pubbliche scriteriate che permettevano di andare in pensione prima che in qualunque altro paese sviluppato.32 Tuttavia questi 18,6 milioni di pensionati non sono tutti uguali.33 Spendiamo infatti il 31% del budget dedicato alle pensioni per pagare quelle sopra i 2000 euro (che sono circa 2 milioni), mentre solo il 33% di esso viene allocato per pagare gli 11,6 milioni di pensioni sotto i 1000 euro. Occorre aggiungere che chi percepisce più di 2000 euro ha contribuito mediamente solo per la metà di quanto riceve.34 Un’ingiustizia palese che rende, come abbiamo più volte sottolineato negli ultimi anni, il nostro welfare regressivo: in parole povere il sistema pensionistico, anziché redistribuire la ricchezza e ridurre le disuguaglianze come avviene nella maggior parte dei paesi europei, le accresce.35 Una tassazione di scopo sulle pensioni più alte (e per le quali, ribadiamo, non si è contribuito a sufficienza nel corso della vita lavorativa) potrebbe servire a finanziare le politiche universalisti-

Approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente, in particolare il capitolo Il prezzo del passato. 33 Approfondimento: ibidem. 34 Approfondimento: M. Ferrera, Le verità nascoste dello stato sociale. 35 Approfondimento: E. Ferragina, Welfare all’italiana: un prezzo troppo alto pagato al passato. 32

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che invocate per precari, disoccupati e neet, ma anche ad aumentare l’uguaglianza fra gli anziani. Si potrebbe avviare quindi un doppio processo redistributivo, finanziato risparmiando su parte delle pensioni erogate ingiustamente a chi ha versato meno di quanto riceve (e oggi si gode, in certi casi, una vecchiaia da nababbo). In primo luogo esso porterebbe alla riallocazione di risorse dal passato al futuro, finanziando politiche per i giovani e il lavoro; in secondo luogo, all’interno del sistema pensionistico stesso, dovrebbe concentrarsi sulla riduzione delle condizioni di profondo disagio vissute dai pensionati meno abbienti.36 Questa condizione di disagio rafforza l’idea di maggioranza invisibile: nel dibattito pubblico e nelle rivendicazioni sindacali, infatti, i pensionati sono spesso considerati un gruppo omogeneo. In realtà, come descritto, quelli meno abbienti avrebbero tutto l’interesse a unirsi alla maggioranza invisibile, «contro» i pensionati abbienti e avvantaggiati da un sistema sociale iniquo. Una tale unione intergenerazionale dovrebbe avere l’obiettivo comune di sostenere le politiche redistributive sopra menzionate. Il carattere di simili riforme contribuirebbe anche all’efficienza complessiva del sistema-paese, per almeno due ragioni. Primo,

Torneremo su tali considerazioni anche nel quinto e sesto capitolo. 36

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la maggior capacità di spesa dei pensionati meno abbienti accrescerebbe la domanda aggregata (a livelli bassissimi oggi in Italia). Questo perché, come già detto, le persone più povere hanno una propensione maggiore a consumare rispetto al resto della popolazione: i pensionati in difficoltà tenderebbero quindi a rimettere nel circolo dell’economia quasi tutto il loro reddito addizionale, frutto della redistribuzione. Secondo, un aumento delle pensioni minime ridurrebbe il peso sulle famiglie delle attività di cura e di assistenza che la terza età spesso comporta. Il processo redistributivo favorirebbe il passaggio da forme di welfare familiare a politiche sociali universali. Benché i pensionati abbiano contribuito alla tenuta sociale del paese attraverso la corresponsione gratuita di servizi di cura e il sostegno finanziario ai loro figli e nipoti, è giusto nel lungo periodo guardare a una società più egualitaria, dove le politiche di assistenza sociale non dipendano dalla disponibilità economica dei parenti più anziani, ma da diritti e da servizi regolarmente finanziati dallo Stato. I MIGRANTI

L’immigrazione in Italia è un fenomeno relativamente recente, che ha investito il paese a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. La crescita del numero di migranti è stata costante fino alla crisi, che ha contribuito a trasformare i processi migratori riducendo gli arrivi extraeu-

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ropei37 (compensati dai flussi provenienti dalla Romania) e accrescendo l’emigrazione italiana verso altri paesi.38 Nonostante il fenomeno sia molto studiato, risulta difficile stimare il numero di migranti presenti sul territorio nazionale. Ciò è dovuto alla presenza di immigrati irregolari ma anche all’incapacità dell’anagrafe di tracciare con tempestività gli spostamenti dei migranti in genere.39 Tenuto conto di simili difficoltà di conteggio, il numero di stranieri residenti in Italia è stimabile in circa 5,4 milioni di persone.40 Se si considera che dieci anni fa erano solo 2,3 milioni, si tratta di un aumento considerevole avvenuto in poco tempo.41 Gli immigrati contribuiscono sempre più al benessere collettivo. A livello demografico, le nascite da cittadini stranieri costituiscono il 15% di quelle totali.42 A livello economico e sociale, l’immigrazione favorisce la crescita del paese in almeno tre modi. Primo, fornendo lavoratori che

Fonte: La popolazione straniera residente in Italia. Fonte: Quarantasettesimo rapporto sulla situazione sociale del paese – 2013. 39 In particolare, i numeri forniti potrebbero sovrastimare il dato sull’immigrazione visto che, dopo la crisi, molti stranieri potrebbero essere rientrati nel paese di origine. 40 Un rapporto dell’Ismu quantifica il numero di stranieri che vivono in Italia in 4,57 milioni, più 391.000 non residenti e 443.000 illegali, per un totale appunto di 5,4 milioni. Fonte: V. Cesareo (a cura di), Migration: A Picture from Italy. 41 Fonte: ibidem. 42 Fonte: La popolazione straniera residente in Italia. 37 38

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tengono a galla interi settori in difficoltà (anche se bisognerebbe superare lo stereotipo culturale che vede il migrante solo come manodopera a basso costo). Secondo, assorbendo buona parte della crescente richiesta di lavoro nei servizi di cura, tipici di una società che invecchia rapidamente: si stima che circa 1,6 milioni di migranti (soprattutto donne) svolgano questo tipo di attività, contribuendo a quello che è stato definito il «welfare invisibile», un welfare capace di sopperire almeno parzialmente all’assenza dello Stato.43 Terzo, diffondendo la cultura d’impresa: nel periodo 2009-12, a fronte di una riduzione dei titolari italiani del 4,4%, le aziende condotte da stranieri sono cresciute del 16,5%.44 Le comunità migranti più numerose provengono: dalla Romania (il 20% degli immigrati residenti), dal Marocco (10%), dall’Albania (10%), dalla Cina (4%) e dall’Ucraina (4%).45 Il resto della popolazione straniera è composto da decine di comunità più piccole e spesso concentrate in territori specifici, caratterizzate da grandi differenze religiose, culturali e linguistiche. Molti dei problemi che accomunano gruppi tanto diversi sono legati al contesto legislativo italiano e al mercato del lavoro. Infatti, oltre alla crimiFonte: M. Ambrosini, Immigrati: ora le badanti sono un’élite. Fonte: Quarantasettesimo rapporto sulla situazione sociale del paese – 2013. 45 Fonte: «Movimento e calcolo della popolazione straniera residente e struttura per cittadinanza». 43 44

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nalizzazione dovuta all’introduzione del reato di clandestinità, l’aspetto più significativo della legge Bossi-Fini è l’aver legato all’impiego l’ottenimento (o il rinnovo) del permesso di soggiorno. Questa legge apre ciclicamente la possibilità di nuovi ingressi sul territorio, attraverso il decreto flussi. Con esso il governo si riserva di stabilire quanti immigrati possano entrare nel paese, previo l’ottenimento di un’offerta di lavoro. In pratica, agli occhi del legislatore, si tratta di una norma utile a controllare il numero di stranieri in base alle esigenze dell’economia reale.46 Tuttavia, c’è una netta discrepanza fra teoria e pratica. La teoria prevede: primo, che uno straniero trovi un datore di lavoro disposto ad assumerlo sebbene egli risieda ancora nel proprio paese di origine; secondo, che il suddetto datore di lavoro sia disposto a partecipare alla «roulette» del decreto flussi;47 terzo, che la domanda superi i vari controlli da parte dell’ispettorato del lavoro e della questura. Dopo questi passaggi, il lavoratore ottiene il nulla osta per l’ingresso in Italia, dove potrà ricevere il suo permesso di soggiorno e iniziare quindi l’esperienza lavorativa. Tuttavia, tra la presentazione della domanda e l’ottenimento del permesso di soggiorno possono passare anche due anni. Solo un datore di

Torneremo su questo punto nel quinto e sesto capitolo. Roulette perché le domande eccedono costantemente i posti disponibili. 46 47

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lavoro stoico può attendere così a lungo per assumere il personale di cui ha bisogno. Si tratta insomma di un processo farraginoso, gestito da una burocrazia lenta e inefficiente, che spesso impedisce agli stranieri di entrare in Italia osservando la legge. Ci sono quindi casi in cui il migrante paga un finto datore di lavoro per riuscire a farsi regolarizzare, ed esistono addirittura autentiche strutture criminali che cercano di condizionare il processo amministrativo di regolarizzazione.48 E ovviamente non si contano le situazioni «più normali», in cui il migrante lavora da irregolare nell’attesa dell’agognato permesso di soggiorno, sperando di non essere mai fermato dalle forze dell’ordine.49 Il risultato è che la Bossi-Fini crea una serie di meccanismi per cui i migranti sono costretti ad accettare condizioni di lavoro pessime pur di ottenere il permesso di soggiorno, distorcendo così il mercato del lavoro e penalizzando anche i cittadini italiani. Questo perché la creazione di manodopera addizionale (una sorta di «esercito di riserva»), disposta ad accettare qualunque tipo di mansione a patto di essere legalizzata, contribuisce a far peggiorare le condizioni di lavoro di tutti gli altri. Un fenomeno che, Approfondimento: L. Ferrarella, La fabbrica dei falsi permessi in prefettura. 49 Una segnalazione della sua presenza sul territorio italiano causerebbe l’interruzione della pratica e l’impossibilità di partecipare a successivi decreti flussi per parecchi anni. 48

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come vedremo tra poco, vale anche per i lavoratori precari. Ai migranti va quindi riconosciuto il ruolo importante che svolgono nell’accrescere il benessere del nostro paese.50 La loro crescita numerica, il loro contributo al ringiovanimento della popolazione, alla tenuta dell’economia reale e al funzionamento dello stato sociale, dovrebbero invitarci a una riflessione seria sulle difficoltà del processo d’integrazione. Una riflessione che tenga davvero conto, simultaneamente, di problemi e opportunità. I PRECARI

Le condizioni di vita e di lavoro dei precari non sono la naturale conseguenza della grande trasformazione che stiamo vivendo, ma il frutto di scelte politiche precise, di fronte alle quali occorre ribellarsi. In questo contesto, la diffusione del concetto di precarietà ha un vantaggio:51 esso sta contribuendo a creare una comunanza fra lavo-

È utile sottolineare come gli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana siano passati da 17.000 nel 2003 a 65.000 nel 2012. Fonte: La popolazione straniera residente in Italia. 51 Dalla fine degli anni Novanta il termine «precario» ha iniziato a diffondersi nel suo significato di «lavoratore senza un contratto stabile», anche grazie a movimenti sociali e gruppi di attivisti. Ne è un esempio il collettivo Chainworkers di Milano, che (con l’aiuto di sindacati di base e centri sociali) nel 2001 ha organizzato il primo corteo italiano per dare visibilità al precariato emergente (la Mayday parade) e ha inventato l’icona di san Precario nel 2004. 50

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ratori che operano in campi e condizioni molto diversi. La precarietà non è un fenomeno sociale nuovo. Gli operai un secolo fa vivevano condizioni contrattuali durissime, e anche se le loro lotte durante il periodo fordista hanno contribuito all’affermazione di diritti e garanzie – estese poi ad altri lavoratori –, i precari hanno sempre continuato a esistere anche in periodi di grande crescita. Quello che però è qualitativamente nuovo nel processo di flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro degli ultimi decenni,52 è che questi meccanismi (ormai considerati centrali nel garantire la competitività dei vari paesi)53 condannano le nuove generazioni a un futuro peggiore di quello dei loro padri. La quantificazione del numero di precari è un esercizio complesso, perché il precariato non è una categoria sociale omogenea. Nel 2007, Mandrone e Massarelli ne stimarono l’entità – includendo i dipendenti a termine involontari,54 i

I principali passaggi legislativi che hanno esteso il processo a molti lavoratori italiani sono stati: il pacchetto Treu del 1997, la legge n. 30 del 2003 (nota anche come legge Biagi) e il meno conosciuto collegato lavoro del 2010. Torneremo su queste riforme nel sesto capitolo. 53 Discuteremo questi meccanismi di riduzione del costo del lavoro nel quarto capitolo (in relazione alle politiche di austerità competitiva). 54 I dipendenti a termine involontari sono coloro che preferirebbero avere un contratto a tempo indeterminato ma si accontentano di uno a tempo determinato in mancanza di migliori offerte di lavoro. 52

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co.co.co./co.co.pro, i collaboratori occasionali e le partite iva che in realtà nascondono rapporti subordinati – in 3,7 milioni.55 La Cgia di Mestre ne contava 3,9 milioni nel 201156 mentre per l’Ires Cgil il loro numero superava nel 2012 i 4 milioni.57 Infine il Censis, nel suo rapporto annuale del 2013, scrive: «sono quasi 6 milioni gli occupati che nell’ultimo anno si sono trovati a fare i conti con una o più situazioni di instabilità e precarietà lavorativa».58 Ma nonostante le definizioni di precarietà e la quantificazione del numero di precari non siano univoche, è più che altro importante sottolineare come essi vivano una condizione di forte svantaggio sul mercato del lavoro, che li accomuna agli altri componenti della maggioranza invisibile. Primo, hanno meno accesso a forme di protezio-

Fonte: E. Mandrone e N. Massarelli, Quanti sono i lavoratori precari. 56 Fonte: Precari: un esercito di quasi 4 milioni di persone. 57 Fonte: Cgil: in Italia oltre 4 milioni di precari. Anche se la crisi ha colpito prima di tutto i lavoratori meno protetti e più facilmente licenziabili, dati dell’Ires ci dicono che a crescere nel biennio 2008-10 sono stati solo gli occupati in modo stabile in part-time involontario: +30,4% (269.000 unità). Tutte le altre tipologie d’impiego hanno conosciuto riduzioni: dipendenti stabili a tempo pieno -2,4% (318.000); autonomi a tempo pieno -2,4% (118.000); occupati in modo stabile in part-time volontario -9,3 (160.000); dipendenti temporanei -6,1% (141.000) e collaboratori -14% (65.000). Fonte: Un mercato del lavoro sempre più «atipico»: scenario della crisi. 58 Fonte: Quarantasettesimo rapporto sulla situazione sociale del paese – 2013. 55

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ne sociale e credito rispetto ai cittadini garantiti, dovendo quindi spesso ricorrere al sostegno del welfare familiare e diventando così più esposti al rischio di povertà. Uno studio Eurostat del 2007 dimostra come i lavoratori part-time, impiegati con contratti a breve termine, hanno probabilità doppia rispetto agli altri di divenire working poor.59 Secondo, la condizione di precarietà riduce drasticamente la capacità di progettare e costruire percorsi di vita e avanzamento professionale. Terzo, una forza lavoro precaria sempre più consistente60 diviene un metro su cui misurare richieste e compensi anche per gli altri lavoratori (come si sottolineava per i migranti), generalizzando dunque alcune delle condizioni imposte dalla precarietà anche a soggetti che non hanno forme contrattuali atipiche. I precari costituiscono, in sintesi, un gruppo sociale paradigmatico per l’intera maggioranza invisibile. Questo perché la diffusione dell’idea di precarietà ha contribuito a far emergere i problemi di molti cittadini che prima non si riconoscevano in un gruppo sociale svantaggiato. Il solo fatto di parlare dei precari li rende visibili, nonostante le svariate forme contrattuali, i diversi settori d’impiego e le differenti qualifiche. Il concetto di maggioranza invisibile è quindi si-

Fonte: In-work Poverty. I precari sono, anche secondo le stime più al ribasso, il 20% degli occupati. 59 60

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mile a quello di precariato:61 un’idea volta a far riconoscere categorie sociali diverse nella loro condizione comune di profondo svantaggio. In conclusione, l’analisi dei soggetti che compongono la maggioranza invisibile mostra come in Italia esista una coalizione potenziale e maggioritaria che avrebbe tutto l’interesse a supportare politiche redistributive. Se mettiamo insieme disoccupati, neet, pensionati meno abbienti, migranti e precari – pur utilizzando le stime più al ribasso – arriviamo a 25 milioni di cittadini, di cui 20 milioni almeno con diritto di voto. Tuttavia, come analizzeremo nei prossimi quattro capitoli discutendo della grande trasformazione, gli stessi fattori che hanno contributo all’emergere della maggioranza invisibile sono anche un ostacolo alla sua rappresentazione unitaria (e di conseguenza alla sua capacità di divenire forza di cambiamento nel paese): dal dominio del neoliberismo alla costruzione di un’Europa in cui non viene considerata la dimensione sociale, dai processi economici che hanno portato all’insorgere dei nuovi rischi sociali all’incapacità della vecchia sinistra di ascoltare i bisogni e comprendere il disagio di questa fetta della popolazione, dalla disuguaglianza che ne fiacca la partecipazione all’esistenza di una minoranza visibile forte e ben organizzata.

Approfondimento: G. Standing, Precari: la nuova classe esplosiva. 61

PARTE PRIMA

La grande trasformazione e la maggioranza invisibile

3 Le politiche neoliberiste: deregolamentazione e maggioranza invisibile

L’obiettivo di questo capitolo è duplice: da un lato illustrare l’affermazione progressiva del neoliberismo, dall’altro spiegare quali ne sono gli effetti sull’emergere della maggioranza invisibile e sulla sua ridotta partecipazione sociale.1 Il termine neoliberismo fu coniato nel 1938 da Alexander Rustow, durante il Colloque Walter Lippmann, a Parigi. Il Colloque fu una conferenza organizzata dal filosofo francese Louis Rougier: diversi intellettuali si riunirono per interrogarsi sul futuro del liberalismo (e del liberismo, in senso economico),2 in un periodo storico caratterizzato

Lo scopo, quindi, non è descrivere in maniera esaustiva il neoliberalismo e il neoliberismo. Approfondimento: D. Harvey, Breve storia del neoliberismo. 2 È importante chiarire subito alcuni termini utilizzati all’interno del capitolo, e che torneranno nell’intero volume. Per liberalismo si intende un movimento di pensiero che riconosce all’individuo un valore autonomo, e propone di limitare l’azione statale in base a una costante distinzione tra pubblico e privato. Vedi in proposito la voce Liberalismo sull’enciclopedia Treccani, consultabile all’indirizzo www.treccani.it/enciclopedia/liberalismo/. Da questa parola derivano il sostantivo neoliberalismo e l’aggettivo 1

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dal suo declino e dal revival dello statismo sotto varie forme. Con il termine liberalismo ci si riferisce a un insieme di dottrine che hanno caratterizzato lo sviluppo delle società industriali moderne, il cui punto cardine è la necessità di limitare il potere d’intervento dello Stato al fine di salvaguardare la libertà individuale.3 Il liberalismo accompagnò lo sviluppo e la trasformazione degli Stati-nazione europei fra il Settecento e il Novecento: contribuì a sostenere gli sforzi della borghesia nel processo di democratizzazione e costituì il sostrato intellettuale e ideologico necessario per limitare gli eccessi delle monarchie assolute. Le radici del liberalismo vanno rintracciate nel pensiero di filosofi ed economisti inglesi come Locke e Smith, ma anche in approcci più giuridico-sociali come quelli dello Spirito delle leggi di Montesquieu o del Conneoliberale. Per liberismo si intende un sistema imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato garantisce con norme giuridiche la libertà economica e si limita a provvedere solo a quei bisogni della collettività che non possono essere soddisfatti per iniziativa dei singoli (è perciò detto anche liberalismo economico o individualismo economico); in senso specifico, all’interno delle teorie socioeconomiche, indica la libertà del commercio internazionale, o comunque il libero scambio contrapposto al protezionismo. Vedi in proposito la voce Liberismo sull’enciclopedia Treccani, consultabile all’indirizzo www.treccani.it/enciclopedia/tag/liberismo/. Da questa parola derivano il sostantivo neoliberismo e l’aggettivo neoliberista. 3 Una libertà individuale che va intesa in senso largo, includendo diritti naturali, civili, economici, politici e sociali.

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tratto sociale di Rousseau, giusto per citare alcuni fra i contributi più significativi. Dall’altra parte, con il termine statismo s’intende la convinzione che lo Stato debba controllare importanti aspetti della sfera economica, sociale e politica degli individui. Lo statismo, così come il liberalismo, può assumere varie forme, e ciò che inquietava gli intellettuali presenti al Colloque parigino era l’ascesa dello «statismo totalitario» di matrice fascista e socialista: forme di controllo lesive della libertà individuale. Dalla conferenza nacque il Comité international d’étude pour le renouveau du libéralisme che, anche se poco attivo a causa della Seconda guerra mondiale, deve essere considerato il precursore della Mont Pelerin Society. Questa società, nata nel 1947, è la culla ideologica del neoliberalismo e del neoliberismo. Fondata da Friedrich von Hayek, professore di Economia alla London School of Economics e all’Università di Chicago, la Mont Pelerin Society ha raccolto tra le sue fila alcuni degli intellettuali più brillanti del secolo, da Karl Popper a Milton Friedman.4 Ciò che accomunava i membri era la fede profonda nel liberalismo, il rifiuto del socialismo e la critica feroce alle politiche keynesiane5 e al modello di organizzazione Vedi il sito ufficiale dell’organizzazione, all’indirizzo www. montpelerin.org/montpelerin/home.html. 5 Le politiche keynesiane partono dall’assunto che nel breve periodo, specie durante le crisi economiche, serva sostenere la domanda di beni per evitare una recessione più profonda. In 4

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sociale fordista. Gli intellettuali neoliberisti si opponevano alla possibilità che i governi intervenissero in modo netto nelle dinamiche economiche, distorcendo quella che essi ritenevano la naturale allocazione delle risorse determinata dal libero mercato. In quest’ottica il neoliberismo, così come il suo precursore storico (il liberismo), costituisce un’etichetta generale più che una precisa scuola di pensiero: una definizione sviluppata per descrivere tutti gli approcci alla teoria economica che mettono in risalto la centralità del mercato, con la sua capacità autoregolatrice e la sua pregnanza per liberare le potenzialità produttive delle nazioni.6

pratica si tratta di politiche congiunturali e anticicliche: usate per dare una scossa all’economia in momenti particolarmente difficili, mantenendo intatta la capacità produttiva e preservando l’occupazione nonostante la crisi. Queste politiche, quindi, si esplicitano nel sostegno diretto alla domanda anche quando esso contribuisce ad accrescere l’inflazione. E proprio tale punto differenzia profondamente l’approccio keynesiano da quello monetarista. Tratteremo in modo più diffuso questi argomenti nel resto del capitolo. Approfondimento: J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. 6 In riferimento alla relazione fra Stato e mercato, si possono distinguere tre diversi approcci neoliberali. (1) L’approccio anarco-capitalista ritiene che ogni struttura e funzione dello Stato possa essere completamente privatizzata, persino quelle che riguardano la scuola, la salute e le forze dell’ordine. (2) L’approccio dell’economia sociale di mercato ritiene che lo Stato debba avere un ruolo attivo nella creazione delle condizioni che permettono al mercato di prosperare. (3) L’approccio laissez-faire promuove l’indipendenza del mercato, cioè postula che lo Stato non dovrebbe intervenire per nulla o dovrebbe comunque limi-

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Quando la crisi del modello fordista si manifestò in modo acuto, all’inizio degli anni Settanta, alcune delle teorie sviluppate dai pensatori della Mont Pelerin Society acquisirono influenza sul piano politico. In particolare, le idee monetariste7 sviluppate da Milton Friedman, economista presso l’Università di Chicago e successivamente consulente del governo Reagan, contribuirono a scalzare il keynesianismo quale approccio dominante alla politica economica. Il monetarismo si contrapponeva al keynesianismo per la volontà di controllare la creazione di moneta e di conseguenza l’inflazione. In parole povere, il secondo si basava sull’idea che le crisi congiunturali andassero affrontate dispiegando l’investimento pubblico a sostegno del consumo e della domanda interna; per Friedman e i monetaristi, invece, l’investimento pubblico voluto dai keynesiani e sostenuto a debito accrescendo l’inflazione era non solo inutile per lenire i problemi economici del mondo occidentale, ma anche dannoso nel lungo periodo.8

tare al massimo il suo intervento sul mercato. Approfondimento: A. Gamble, The Spectre at the Feast. 7 Il monetarismo è una scuola del pensiero economico che ha enfatizzato l’importanza di controllare in modo rigido l’emissione di moneta, per evitare tensioni inflazionistiche. Questo approccio, formulato in particolare da Milton Friedman, è diametralmente opposto a quello keynesiano descritto in precedenza. Discuteremo nel resto del capitolo come il monetarismo sia iscritto all’interno del paradigma neoliberista. Approfondimento: M. Friedman, Capitalismo e libertà. 8 Questa diversa valutazione nasce da una concezione opposta

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L’opposizione fra queste due visioni della teoria economica nasce da una considerazione diversa dell’interazione fra domanda e offerta: per i monetaristi le due si autoregolano, mentre per i keynesiani gli shock dovuti al crollo della domanda interna vanno compensati, almeno nel breve periodo, con un sostegno diretto del consumo interno (da parte dello Stato). Nello specifico, secondo i neoliberisti, l’intervento dello Stato in economia – che ha caratterizzato il periodo storico che va dal New Deal americano degli anni Trenta fino alla ricostruzione del secondo dopoguerra – ha creato importanti distorsioni nel mercato. Tali distorsioni hanno pesantemente contribuito alla crisi degli anni Settanta e alla successiva spirale inflazionistica.9 In pratica, secondo i monetaristi, l’eccessivo intervento dello Stato, finanziato a debito, aveva generato una stagflazione, ovvero una situazione di crisi economica in cui la crescita dell’inflazione si accompagna alla stagnazione economica. Ciò aveva comportato effetti indesiderati come la crescita della disoccupazione e la profonda instabilità economica dei paesi occidentali di fronte agli shock dell’economia. Secondo i monetaristi è dannoso sostenere nel breve periodo la domanda e l’occupazione, perché questi interventi possono accrescere l’inflazione senza peraltro alleviare i problemi reali dell’economia. Dall’altre parte, i keynesiani sostengono che quando gli shock sono congiunturali il governo deve usare ogni mezzo per proteggere la produzione e l’impiego, anche a costo di generare tensioni inflazionistiche. Questa diatriba è attualissima nel dibattito politico ed economico del nostro continente. 9 Come descriveremo nella prossima sezione.

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esterni (come quelli petroliferi). È stata proprio la crisi economica degli anni Settanta a costituire la base per il passaggio da politiche keynesiane espansive, basate quindi sulla creazione di debito per sostenere la domanda interna, a politiche antinflazionistiche, fondate invece sul controllo della circolazione della moneta (il monetarismo che descrivevamo poco sopra) e su un minore intervento dello Stato. Questa crisi, dunque, svelò le pecche del keynesianismo e diede la possibilità ai teorici del neoliberismo di testare la bontà del loro approccio nell’economia reale. Il pensiero neoliberista muove quindi i suoi primi passi a partire da un progetto culturale sviluppato da accademici e intellettuali; poi, di fronte alle «giuste condizioni storiche», diviene capace di ispirare l’agenda politica delle ultime decadi. Aspetti centrali di questo progetto culturale sono: la fede nelle potenzialità del mercato nel garantire maggiore crescita ed efficienza rispetto all’intervento statale e la designazione dell’individuo (non di gruppi sociali specifici) come unità fondamentale di analisi.10 Dagli anni Ottanta il neoliberismo si è affermato a tal punto nel mondo occidentale da ispirare forme culturali distintive, come gli yuppies (da young urban professionals, ovvero «giovani professionisti di città»), e da far ipotizzare al po-

Quello che viene comunemente chiamato, nella letteratura accademica, individualismo metodologico. 10

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litologo americano Francis Fukuyama che, con la sconfitta del socialismo, siano definitivamente morte anche le grandi ideologie a esso alternative.11 Nato dal mondo anglosassone, l’approccio neoliberista è divenuto universalmente popolare, modificando le forme di governance nazionali, regionali e globali. Questa affermazione su scala planetaria ha reso il neoliberismo egemonico; ed è per tale ragione che, nonostante la crisi in cui viviamo, nuove forme di opposizione e governance, potenzialmente sostenute dalla maggioranza invisibile, stentano a manifestarsi. Dalla Thatcher a Reagan: il neoliberismo come orizzonte politico-economico IL NEOLIBERISMO COME PROSPETTIVA ECONOMICA

La definizione delle caratteristiche e dei limiti del fordismo è fondamentale per comprendere l’avvento del pensiero neoliberista in economia e in politica. Gramsci usò il termine fordismo per descrivere le forme di produzione e di gestione sociale sviluppatesi negli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento, che avevano trovato il loro laboratorio nella Ford Motor Company.12 Henry Approfondimento: F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo. 12 È paradossale aprire una discussione sulla prospettiva politico-economica del neoliberismo citando il fondatore del Partito comunista italiano. Tuttavia, fu proprio Antonio Gramsci a conia11

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Ford introdusse nuove tecniche di produzione industriale di massa, basate sull’uso della catena di montaggio; queste tecniche aumentarono l’efficienza degli operai e ridussero i costi. Al di là delle scelte organizzative di Ford, quello che colpisce del modello di produzione industriale e consumo da lui inaugurato è la volontà d’accrescere i salari dei suoi dipendenti (riducendo quindi i propri margini di profitto). Lo scopo di tale scelta era duplice: da un lato garantirsi il consenso incondizionato della manodopera rispetto all’implementazione delle nuove tecniche produttive, dall’altro incentivare anche la sua forza lavoro all’acquisto diretto delle macchine prodotte. Il concetto di fordismo è stato poi rapidamente esteso a tutta la società, per diventare sinonimo di produzione e consumo di massa. Il fordismo contribuì così a cambiare radicalmente il futuro degli Stati Uniti e di tutto il mondo occidentale. Ciò che ha garantito la stabilità di questa nuova organizzazione produttiva e sociale per buona parte del Novecento è stata la capacità di legare la crescita della produttività a quella dei salari. In pratica, gli operai lavoravano duro per costruire più automobili, ma ricevevano in cambio la possibilità di usufruire della ricchezza prodotta, acquistando oltre alle macchine del signor Ford anche altri beni di largo consumo.

re il termine fordismo. Approfondimento: A. Gramsci, Quaderni del carcere.

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Il periodo caratterizzato dal modello di organizzazione sociale e industriale fordista vide anche l’avvento delle politiche keynesiane – così denominate per via dell’influenza dell’economista inglese John Maynard Keynes13 – che sancirono la necessità degli Stati di intervenire in economia per garantire la stabilità del sistema. Keynes riteneva, e questo era ovviamente funzionale alla società di consumo e produzione di massa, che l’aumento della spesa pubblica permettesse di compensare le fasi depressive del ciclo economico, attraverso la stimolazione della domanda interna. In pratica Ford e gli altri industriali potevano continuare a produrre indisturbati nei periodi di turbolenza, perché avevano la garanzia che la richiesta di prodotti sarebbe stata sostenuta dallo Stato, anche se la capacità di spesa dei cittadini si fosse drasticamente ridotta. Questo sistema trovò la sua consacrazione definitiva durante la famosa conferenza di Bretton Woods. L’incontro, oltre a sancire la nascita della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (meglio nota come Banca mondiale) e del Fondo monetario internazionale, delineò un nuovo sistema economico, dominato dagli Stati Uniti e capace di garantire per molti anni diversi benefici: la stabilità monetaria globale, lo sviluppo di forme crescenti di libero scambio tra i paesi e la

Approfondimento: J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. 13

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possibilità di finanziare gli interventi keynesiani a sostegno di domanda interna e produttività. In particolare, la creazione di un nuovo sistema monetario ha garantito stabilità a tutto il mondo occidentale (sotto l’egida americana) sino all’inizio degli anni Settanta. Il dollaro, all’interno di questo sistema, era l’unica moneta convertibile in oro, mentre il valore di tutte le altre valute fluttuava attorno alla quotazione di quella americana. Ciò permise ai paesi europei di usare i dollari degli aiuti destinati alla ricostruzione (che valevano appunto come l’oro) anche per accumulare riserve monetarie. Proprio queste riserve, però, legarono a doppio filo il futuro benessere delle nazioni europee alle sorti del dollaro. Quello che si è sviluppato tra Stati Uniti ed Europa nel secondo dopoguerra è stato un meccanismo simbiotico e asimmetrico. Simbiotico perché gli americani hanno garantito i fondi per la ripresa, l’ombrello protettivo della Nato in chiave antisovietica e consistenti importazioni dai paesi europei a sostegno della domanda globale. Asimmetrico perché per finanziare queste attività, gli americani hanno stampato dollari senza aumentare le proprie riserve auree e senza che la loro moneta subisse consistenti svalutazioni. In parole semplici, il sostegno per ricostruire l’Europa ha garantito agli Stati Uniti di elevare il dollaro ad arbitro mondiale degli scambi. Tuttavia, dopo due decadi di prosperità, verso la fine degli anni Sessanta questo sistema si è inceppato, come testimoniato dalla crescita dell’in-

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flazione e dalla riduzione dei tassi di profitto.14 Calava cioè, seguendo le leggi dell’economia, la capacità di creare profitto per ogni unità monetaria investita. Tutto il meccanismo a garanzia della crescita dei salari e della stabilità del sistema andava rapidamente dissolvendosi. Poi, il 15 agosto 1971, Richard Nixon, allora presidente degli Stati Uniti d’America, revocò unilateralmente la controvertibilità fra il dollaro e l’oro, lasciando tutte le monete libere di fluttuare. Alla fine del sistema di Bretton Woods, decretata da Nixon, si aggiunsero altri elementi di instabilità (come le due crisi petrolifere),15 che contribuirono all’uscita di scena del modello di organizzazione sociale fordista. Questo momento storico gettò le basi per l’ascesa del progetto neoliberista come nuova forma egemone di governance globale, e della finanza (al posto della produzione industriale) come strumento centrale dell’accumulazione di ricchezza. Per comprendere il ritorno in auge della finanza dopo la drammatica crisi del 1929, è necessario riflettere su alcuni passaggi storici. Dopo il periodo del laissez-faire a cavallo tra Ottocento e Novecen-

Approfondimento: G. Duménil e D. Lévy, Capitale risorgente: alle origini della rivoluzione neoliberista. 15 La prima a seguito della Guerra arabo-israeliana del 1973, quando i membri dell’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) raddoppiarono il prezzo del greggio riducendo contestualmente le esportazioni; la seconda nel 1979, a seguito della Rivoluzione islamica iraniana. 14

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to, tale crisi aveva considerevolmente contribuito allo stretto controllo del mercato finanziario. Era stata posta in essere, infatti, una serie di regolamentazioni e limiti alla mobilità del capitale, in modo da ridurre le opportunità speculative.16 Di fronte al crollo del fordismo e del sistema monetario internazionale garantito da Bretton Woods, le autorità inglesi e americane decisero di ridurre i controlli sulla mobilità dei dollari depositati nelle banche inglesi. Il risultato fu l’inizio dei cosiddetti eurodollars, cioè dollari che potevano essere usati al di fuori della legislazione americana per varie attività finanziarie e speculative.17 La grande disponibilità di dollari da usare in simili imprese, l’alta inflazione e i profitti decrescenti (dovuti alla crisi del modello fordista) portarono gli investitori a focalizzarsi solo sulle attività economiche capaci ancora di generare grandi guadagni. Questo contesto ha contribuito a una mobilità funzionale del capitale: gli investitori, invece di cercare di battere l’inflazione puntando su nuovi mercati, trovarono più redditizio spostarsi da un settore produttivo all’altro.18 In

Questi limiti erano stati imposti per evitare manovre finanziarie azzardate. Manovre che saranno rese possibili dalla deregolamentazione degli anni Ottanta. 17 Approfondimento: E. Helleiner, States and the Re-emergence of Global Finance: From Bretton Woods to the 1990s. 18 La definizione di mobilità funzionale del capitale si deve a Matthew Watson. Approfondimento: M. Watson, The Political Economy of International Capital Mobility. 16

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altri termini, i detentori di capitale più che scommettere su nuovi paesi hanno dirottato i propri investimenti dalle attività produttive (e in particolare industriali) alle rinascenti attività finanziarie, creando contestualmente una pressione sulle autorità politiche per una progressiva liberalizzazione di tali mercati e per interventi mirati a ridurre l’inflazione. Così tramontava il fordismo e si apriva una nuova era, quella del capitalismo finanziario dominato dalle idee neoliberiste e sostenuto da una nuova classe politica. IL NEOLIBERISMO COME PROSPETTIVA POLITICA

Dopo aver analizzato gli elementi culturali ed economici che hanno portato il neoliberismo a divenire principio d’ordine del sistema-mondo, occorre completare il quadro con la descrizione delle scelte politiche che, in quegli anni, determinarono il drammatico cambio di rotta. La marcata conversione della politica economica americana, dall’approccio keynesiano (usare le risorse dello Stato per aumentare la domanda di beni e servizi) al monetarismo (usare la politica monetaria per ridurre il denaro circolante e abbassare l’inflazione), è avvenuta durante il cosiddetto Volcker shock.19 Paul Volcker, presidente della Federal Reserve (la banca centrale americana) tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, è

Sebbene elementi keynesiani abbiano continuato a essere presenti nella politica economica americana anche successivamente. 19

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passato alla storia per avere deciso nel 1981 un drastico aumento del tasso di interesse. Tale innalzamento è una misura antinflazionistica, che accresce il costo cui le banche possono prendere in prestito denaro dalla banca centrale, e di conseguenza lo aumenta anche per imprese e individui che si rivolgono al mercato bancario. Si tratta di un intervento che contribuisce dunque a ridurre il contante in circolazione, facendo decrescere l’inflazione (proprio come suggerito da Milton Friedman e dai monetaristi). A questa prima misura antinflazionistica, sono seguite politiche che hanno completato la transizione dal keynesianismo al neoliberismo in quasi tutti i paesi sviluppati: la deregolamentazione di diversi mercati e settori produttivi; la drastica limitazione dell’intervento statale, con tagli alla spesa al fine di ottenere la parità di bilancio; la vendita di varie proprietà dello Stato e la privatizzazione di imprese e compagnie pubbliche, anche in servizi fondamentali come istruzione e sanità; l’abbassamento delle tasse sul reddito e sulla proprietà; l’incoraggiamento dell’attività imprenditoriale attraverso la riduzione del costo del lavoro, ottenuta principalmente flessibilizzando la manodopera; e, infine, l’introduzione nel sistema burocratico di tecniche e forme di gestione manageriali.20

Vedremo nel sesto capitolo come molte di queste misure furono adottate in Italia durante gli anni Novanta. 20

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Il primo esperimento di applicazione dell’ortodossia neoliberista fu quello drammatico del Cile di Pinochet: il dittatore ristrutturò l’economia e l’impianto statale del suo paese, avvalendosi della collaborazione di un gruppo di consiglieri provenienti da Chicago.21 Tuttavia, la consacrazione politica del neoliberismo si è avuta con l’ascesa al potere di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, e proprio Gran Bretagna e Stati Uniti sono stati i primi paesi a deregolamentare il flusso dei dollari e il mercato finanziario. Da queste due nazioni, il paradigma neoliberista si è rapidamente affermato nel resto del mondo. Le principali caratteristiche dell’approccio neoliberista si sono diffuse dal centro alla periferia (ovvero dai paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo) attraverso il cosiddetto Washington Consensus: l’accordo fra il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Dipartimento del tesoro americano (tre istituzioni con sede a Washington) nel predisporre riforme di stampo neoliberista per i paesi in via di sviluppo costretti a fronteggiare momenti di crisi.22 L’espressione è stata usata in seguito per descrivere un’ampia convergenza tra istituzioni internazionali, governi, forze sociali e politiche locali sull’approccio

Ovvero la sede dell’università di Milton Friedman. Approfondimento: J. Williamson, Latin American Adjustment: How Much Has Happened?, in particolare il capitolo What Washington Means by Policy Reform. 21

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neoliberista. Tale consenso tra organizzazioni internazionali e governi di diverso orientamento politico sui nodi centrali delle politiche economiche neoliberiste (come ad esempio il mantenimento di un’inflazione bassa, il taglio della spesa pubblica e la detassazione della ricchezza) è stato talmente diffuso da divenire «costituente», cioè da essere codificato in forme legali nella stipula di molti trattati internazionali.23 Esempi paradigmatici sono: la nascita dell’Organizzazione mondiale del commercio, di intese regionali come il Nafta (North American Free Trade Agreement, l’accordo nordamericano di libero scambio tra Messico, Stati Uniti e Canada) o, come vedremo nel prossimo capitolo, la seconda fase del processo d’integrazione europea. A ciò si deve aggiungere che molti Stati hanno progressivamente reso indipendenti le loro banche centrali dal potere politico, di fatto affidandogli il compito di controllare l’inflazione in continuità con la teoria monetarista.24 Il neoliberismo come pensiero egemonico Benché molto sia cambiato dai tempi in cui Gramsci scriveva, e nozioni come quelle di «ege-

Approfondimento: S. Gill, Power and Resistance in the New World Order. 24 Nel sesto capitolo illustreremo come questi processi abbiano preso piede anche in Italia. 23

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monia» e «classe» sembrano aver perso il fascino che esercitavano in passato, la struttura analitica proposta dal pensatore sardo rimane utilissima per comprendere e spiegare l’influenza internazionale del neoliberismo. E anche, come vedremo in conclusione, il silenzio della maggioranza invisibile. Il concetto di egemonia culturale si sviluppa partendo dalla riflessione sulla possibile creazione di un blocco di forze sociali capace di esercitare una funzione di guida nella società. Gramsci identifica tre momenti che portano all’affermazione di un simile blocco: 1. il momento economico-corporativo, in cui un gruppo sociale riconosce di avere degli interessi economici comuni; 2. il momento della coscienza di classe, in cui gli interessi comuni vengono articolati per servire un’intera classe; 3. il momento egemonico, in cui il progetto politico che emerge dall’interesse di quel particolare gruppo viene esteso a tutta la società, attraverso l’incorporazione di parte degli interessi dei gruppi subalterni. La crisi del fordismo e le difficolta del modello keyenesiano nel remunerare i capitali impegnati, in un periodo di crescente inflazione, hanno contribuito al reindirizzamento degli investimenti dal settore industriale a quello finanziario (fenomeno definito in precedenza come mobilità funzionale del capitale). Questa congiuntura storica costituisce ciò che Gramsci ha definito come momento econo-

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mico-corporativo: un gruppo sociale, costituito dai detentori di capitale, riconosce di avere l’interesse comune a spostare i propri investimenti dalla produzione industriale alla finanza, perché quest’ultima offre maggiori opportunità di profitto. In seguito, tale interesse economico ha influenzato l’agenda politica, che si è concentrata sulla lotta all’inflazione contribuendo al successo delle teorie monetariste, fino a farle divenire dominanti. Al contempo, la grande disponibilità di capitale nel mercato finanziario ha dato la possibilità, specie alla classe media, di indebitarsi per accrescere il proprio consumo. È il passaggio alla coscienza di classe teorizzato da Gramsci: una congiuntura storica in cui gli interessi dei grandi investitori si sono saldati a quelli della classe media, desiderosa di consumare. La classe media, con il denaro ottenuto a debito, ha accresciuto il proprio livello di consumo, e per guadagnare consenso la politica ha spinto l’acceleratore ancor più forte su interventi antinflazionistici e neoliberisti. Si è venuto così a creare un blocco sociale ed elettorale maggioritario a sostegno del neoliberismo. È proprio nei paesi in cui questa organizzazione sociale si è affermata in modo democratico – gli Stati Uniti di Reagan e il Regno Unito della Thatcher – che il neoliberismo è divenuto pensiero egemonico, a seguito delle affermazioni elettorali di Clinton e Blair negli anni Novanta. Tony Blair, in particolare, ha gettato le basi per l’adozione dell’agenda neoliberale anche da parte dei partiti socialdemocratici europei, fino ad allo-

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ra fedeli al keynesianismo. Questo passaggio può essere interpretato usando il terzo momento della teoria dell’egemonia formulata da Gramsci. La famosa «terza via» blairiana, infatti, altro non è che lo spostamento dell’idea socialdemocratica verso la rivoluzione neoliberale operata dalla Thatcher. A livello economico si continua a favorire la deregolamentazione del mercato finanziario e il disimpegno dello Stato; intanto piccole concessioni vengono fatte alle classi «subalterne» e all’ideale socialdemocratico originario, mantenendo per esempio il sistema sanitario nazionale e implementando nuovi programmi contro la povertà. Tuttavia, come illustreremo in dettaglio nel sesto capitolo,25 il nucleo dell’azione politica ed economica di Blair, nel suo lungo periodo di governo, è stato di stampo neoliberale, e ha segnato uno spartiacque epocale: l’accettazione da parte dei partiti socialdemocratici del neoliberismo come pensiero egemone. Da Stati Uniti e Regno Unito l’influenza del neoliberismo si è estesa al mondo attraverso diversi veicoli, la cui influenza è dipesa principalmente dal ruolo dell’America come prima potenza internazionale. La convergenza tra destra e sinistra avvertita in paesi che, come l’Italia, erano caratterizzati da polarizzazioni politiche storicamente

Riprenderemo questi aspetti, per discutere la parabola della socialdemocrazia europea dalla lotta di classe alla terza via. 25

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forti, è stata costruita sul terreno comune delle nuove formule di governance neoliberale, con la progressiva accettazione da parte di entrambi gli schieramenti di priorità quali il controllo dell’inflazione e del debito o la necessità di ridurre il ruolo della mano pubblica in economia. In questo senso, la svolta segnata dalla terza via socialdemocratica è stata fondamentale nella costruzione di un simile terreno comune. Allo stesso tempo ci sono state forme più o meno coercitive di applicazione delle politiche neoliberiste. Il primo e più violento caso è stato quello già citato del Cile di Pinochet; ma il paradigma neoliberista è stato imposto, seppur in modo meno cruento, anche attraverso le pressioni delle organizzazioni internazionali. Un tipico e dibattutissimo esempio riguarda i programmi di aggiustamento strutturale promossi dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale nei paesi in via di sviluppo: misure di austerità, privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni sono richieste dalle due istituzioni per concedere prestiti alle nazioni in crisi di liquidità. Queste politiche si sono rivelate un potente strumento per espandere il paradigma neoliberista. L’egemonia del neoliberismo, poi, continua a diffondersi anche attraverso i «meccanismi disciplinari» esercitati dai mercati finanziari.26

La disciplina dei mercati si esercita ad esempio tramite il rapido spostamento di capitali da un paese all’altro, o attraverso dichiarazioni contro cambiamenti politici che si ritengono negativi. 26

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Pensate al crescente impatto delle aspettative e degli umori dei mercati finanziari sulle scelte politiche italiane: nel 2011, il crollo della fiducia sui titoli di Stato ha comportato l’arrivo di un nuovo governo tecnico di stampo neoliberale.27 E i meccanismi disciplinari sono garantiti dal potere di sanzione che i mercati hanno acquisito grazie alla finanziarizzazione della società. In tanti ricorderanno lo slogan coniato da Margaret Thatcher: «tina», there is no alternative, non c’è alternativa. Bene, in un momento di crisi, la finanziarizzazione della società ha imposto il salvataggio delle banche con denaro pubblico, per evitare il collasso del sistema economico. Questo perché, come dicevamo prima, il crescente consumo della classe media non è stato più finanziato attraverso la crescita della produttività industriale (cosa che avveniva durante l’epoca fordista), ma tramite la creazione di debito. La finanza è intimamente legata alle nostre vite e al nostro benessere/malessere: influenza non solo il valore della moneta e il tasso d’interesse dei titoli di Stato, ma anche altri aspetti fondamentali dell’economia quali il prezzo delle materie prime, il futuro delle pensioni, il tasso d’interesse di mutui e prestiti e di conseguenza il mercato immobiliare.

L’argomento sarà discusso nel sesto capitolo e nella seconda parte del libro. 27

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Dall’egemonia alla crisi? La recente crisi finanziaria e il suo rapido contagio nei confronti dell’economia reale hanno messo in evidenza le falle strutturali del neoliberismo (così come le crisi petrolifere degli anni Settanta mostrarono al mondo quelle del fordismo di stampo keynesiano). Due elementi ci aiutano a capire come i problemi della finanza abbiano rapidamente intaccato anche l’economia reale. Il primo è la capacità dei mercati finanziari di fare credito; in particolare, banche e istituzioni simili hanno artificialmente accresciuto il proprio giro di affari aumentando la leva finanziaria, ovvero l’esposizione debitoria a fronte del capitale detenuto. In pratica tali società, pur possedendo un capitale ridotto, hanno dato vita a ingenti investimenti (fatti soprattuto a debito). In questo contesto, le banche si sono indebitate spropositatamente, per condurre operazioni finanziarie sempre più spericolate alla ricerca del profitto.28 Il secondo elemento che dimostra la contiguità tra finanza ed economia reale è strettamente legato alla crescita della leva finanziaria; si tratta dell’estensione delle forme di credito offerte ai consumatori (prima americani, poi anche di altri paesi), per mantenere la loro capacità di spesa nel contesto postfordista a basso incremento di

Operazioni, queste, avviate anche quando le banche non avevano la reale capacità di sostenerle. 28

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produttività. Per capire quanto tale soluzione sia in realtà problematica, basta riconsiderare l’esempio di Ford. Il magnate americano, e di conseguenza il modello sociale ispirato alle sue scelte di politica industriale, garantiva la crescita del consumo con quella dei salari, sostenuta dall’aumento di produttività. In questo modo, operai sempre più produttivi condividevano un pezzo della ricchezza generata accrescendo la propria capacità di spesa. Con la crisi del modello fordista, l’incremento del consumo necessario a far prosperare l’economia è stato artificialmente sostenuto attraverso nuove forme di indebitamento. In parole povere il consumo, fondamentale per la crescita del prodotto interno lordo, è stato «drogato» agevolando i meccanismi di indebitamento per la gente comune e per gli Stati. Così i cittadini, in primis quelli americani, in un momento di bassa crescita hanno continuato a consumare come se l’economia fosse in un periodo di boom. Proprio come facevano durante il fordismo. Il settore paradigmatico, in tal senso, è quello immobiliare; e non è un caso se il contagio dalla finanza all’economia reale è avvenuto proprio attraverso i mutui per la casa. Teoricamente i mutui sono un investimento abbastanza sicuro per i creditori (ad esempio le banche), perché in caso d’insolvenza viene garantito il recupero del bene più il guadagno determinato dai pagamenti effettuati fino a quel momento dal debitore. Tuttavia, in America i mutui

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sono stati elargiti senza remore anche a soggetti che non offrivano garanzie sufficienti di restituzione. Queste concessioni sono state incentivate sia da politiche pubbliche (che avevano l’obiettivo di garantire l’acquisto di una casa anche ai meno abbienti, attraverso l’intervento di agenzie sponsorizzate dal governo come la Fannie Mae e la Freddie Mac), sia da istituzioni private pronte a offrire mutui anche a soggetti definiti «ninja» (no income, no job and no assets, cioè senza introiti, lavoro o beni). In tali condizioni, il boom del mercato immobiliare ha portato da un lato alla crescita dei prezzi, che ha generato una bolla e gonfiato i bilanci delle istituzioni detentrici degli immobili, e dall’altro ha fornito le basi per la creazione di una serie di prodotti finanziari che si basavano sul valore degli immobili e sui profitti attesi dai mutui. Questi prodotti sono poi stati inseriti in pacchetti compositi (composti cioè di debito buono e sicuro mischiato al debito definito «spazzatura», perché troppo rischioso da sostenere e finanziare) e venduti a privati e altre istituzioni. E alla fine, con l’esplosione della bolla immobiliare, l’intero sistema è saltato. Una bolla immobiliare scoppia quando non c’è più gente disposta a pagare (accollandosi mutui enormi) i prezzi richiesti sul mercato e gonfiati ad arte dal sistema. Tale esplosione ha comportato la riduzione del valore degli immobili e quindi dei titoli posseduti dalle istituzioni (bancarie e non), rendendo «tossici» (ovvero estremamente insicuri)

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i prodotti finanziari a essi collegati. La diffusione amplissima di questi prodotti tossici fra privati cittadini e istituzioni finanziarie, unita alla difficoltà di stabilire quale fosse la reale esposizione delle banche (e con essa la loro solidità e capacità di ripagare i debiti che si erano accollate), ha originato il cosiddetto credit crunch. Il credit crunch è una situazione opposta a quella che abbiamo analizzato (in cui si davano mutui a chiunque): il sistema finanziario riduce di colpo l’erogazione di prestiti, danneggiando tutta l’economia. In questo quadro è interessante rilevare come lo sviluppo di due colonne portanti del neoliberismo, l’espansione del credito e l’indebitamento, abbiano gettato le basi per la sua crisi attuale. Il credit crunch, assieme all’aumento dei deficit di bilancio di alcuni Stati per salvare il sistema bancario-assicurativo, ai contraccolpi sull’economia reale dovuti all’assenza di credito e all’esplosione della bolla immobiliare in vari paesi (come Spagna e Irlanda), ha scatenato il contagio dalla finanza all’economia reale. L’Europa finora ha pagato il prezzo maggiore di questa crisi, perché non si è dotata delle politiche necessarie per affrontarla.29 L’euro non ha, infatti lo stesso status del dollaro,30 e il processo d’integrazione europea

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Come vedremo nel prossimo capitolo. Il dollaro è la principale moneta di riserva e scambio nel siste-

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– con la creazione della moneta unica senza politiche sociali compensative31 – ha generato delle tensioni che stanno contribuendo ad acuire gli effetti della crisi. Crisi del neoliberismo e maggioranza invisibile Anche il Fondo monetario internazionale ha cominciato a rivedere la sua posizione, affermando che non si lenisce la crisi senza redistribuire: persino i più ferventi seguaci dell’ortodossia neoliberista si sono resi conto dell’ingolfamento dell’economia (scatenato dal sistema di governance che hanno contribuito a diffondere). Questo ingolfamento sta producendo in Europa ma internazionale. Questo offre un vantaggio fortissimo agli Stati Uniti, rispetto agli altri paesi e all’Europa: perché il dollaro ha uno status più elevato delle altre monete a prescindere dalla congiuntura economica americana. 31 In pratica, mettendo la moneta in comune, si impedisce la possibilità di usare la svalutazione per riequilibrare il rapporto tra importazioni ed esportazioni dei singoli membri dell’Unione. Quindi, per esempio, i paesi mediterranei non possono utilizzare lo strumento della «svalutazione competitiva» per accrescere le proprie esportazioni verso Stati tradizionalmente a valuta forte come la Germania. In assenza del meccanismo di svalutazione, la Germania, che si avvantaggia della moneta unica, dovrebbe indennizzare paesi come la Grecia o il Portogallo, che non possono più gestire la propria valuta per riequilibrare la bilancia dei pagamenti: servirebbe dunque implementare politiche sociali compensative a livello continentale, per controbilanciare gli effetti polarizzanti della moneta unica. Torneremo su questo argomento nel prossimo capitolo.

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un’enorme crisi sociale, le cui proporzioni sono tali da intaccare sensibilmente la legittimità politica delle forze di centrodestra e centrosinistra, che avevano abbracciato in toto questo paradigma. Tuttavia, nonostante tali forze perdano consensi nel pantano delle politiche di austerità, oggi non si vedono i segni dello sviluppo di un progetto culturale, sociale, politico ed economico alternativo al neoliberismo. Il nucleo del problema risiede nell’incapacità della maggioranza invisibile – emersa a seguito della grande trasformazione – di autoriconoscersi, mobilitarsi e dotarsi di un progetto politico. Per capire come il neoliberismo abbia contribuito a rendere silente la maggioranza invisibile occorre analizzare due elementi chiave: il primo è la natura del conflitto tra élite dominante e categorie sociali subalterne; il secondo è l’affermazione dell’individualismo. La crisi nasce e si alimenta dallo strapotere dei detentori di capitale su chi vive di lavoro, processo che ha preso avvio con la fine del fordismo. Con il passaggio a un’economia basata sui servizi, gli operai non sono più i principali artefici dell’accrescimento della produttività all’interno del sistema, come avveniva durante il fordismo; e allora, per mantenere alta la competitività in un mercato sempre più globale, i partiti di centrodestra e centrosinistra hanno scelto di ridurre il costo del lavoro (in particolar modo quello meno qualificato) per favorire le esportazioni. In questo contesto la flessibilità, la riduzione della pro-

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tezione sociale (specie per i giovani), la maggiore mobilità del capitale e dei fattori produttivi (grazie alla moneta unica e alla globalizzazione) sono diventati un mantra condiviso da quasi tutto lo spettro politico.32 Tuttavia, il perseguimento di una simile strategia ha delle conseguenze pesantissime sulla forza lavoro: la percentuale di pil investita in salari è scesa in tutti i paesi europei (negli ultimi quarant’anni, del 6,9% nell’Unione europea e del 7,1% in Italia) e, al contempo, la disoccupazione è cresciuta in modo esponenziale.33 La compressione dei salari e la mancanza di lavoro hanno da un lato contribuito all’emergere della maggioranza invisibile (pensate alla crescita del numero di precari, disoccupati e neet) e dall’altro hanno avuto un impatto negativo sulla capacità di acquisto della classe media. Per evitare il tracollo dei consumi (e con essi del capitalismo) i governi europei hanno favorito, grazie alla deregolamentazione del mercato finanziario, il processo massiccio d’indebitamento che abbiamo descritto in precedenza. E la crescita del debito pubblico e privato, necessario a sostenere il consumo, ha fornito grandi opportunità speculative ai detentori di capitale. L’esposizione fortissima delle banche è dovuta

Questo è l’argomento centrale del prossimo capitolo. Approfondimento: M. Orini, Come ti spiego la crisi (e lo strapotere tedesco) citando Marx. 32

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a questo sistema: prestare quantità crescenti di denaro ai paesi (acquistando titoli del loro debito) e ai privati (per esempio finanziando mutui) permetteva l’incasso di rendimenti considerevoli, perché più è alto il rischio di default, maggiori sono gli interessi da pagare per trovare qualcuno disposto a concedere un finanziamento. Così le banche, mentre lucravano sul debito greco (ma lo stesso vale per quello italiano), si esponevano al rischio di insolvenza del paese. Allo stesso tempo il consumo veniva drogato oltre la soglia di sostenibilità. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: le nazioni mediterranee – e paradigmatico è appunto il caso greco – devono razionare i servizi fondamentali per ripagare il debito contratto, e ciò agevola quanti vogliono tagliare salari e welfare.34 Questi tagli colpiscono soprattutto le categorie che fanno parte della maggioranza invisibile, riducendo la loro capacità di partecipazione sociale.35 Pertanto, in mancanza di un sistema di protezione capace di garantire la continuità del reddito anche nei momenti di difficoltà, la voce della maggioranza invisibile diventa inevitabilmente flebile. A tutto ciò va aggiunto che il crescente individualismo contribuisce a ridurre la possibilità di Approfondimento: E. Ferragina, Grecia, il pianto della violinista durante l’ultimo concerto dell’Orchestra sinfonica nazionale. 35 Come si diceva nel capitolo precedente, è molto difficile intervenire nella vita pubblica quando sei in balia di un datore di lavoro che può buttarti per strada da un giorno all’altro. 34

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formulare in modo credibile un disegno culturale, politico, economico e sociale alternativo. Il neoliberismo, infatti, non ha solamente rimpiazzato l’organizzazione sociale fordista con la propria fede nelle potenzialità del mercato, ma ha anche designato l’individuo come unità fondamentale di riferimento. Si tratta di un passaggio centrale per capire come mai le precedenti organizzazioni collettive (ad esempio i sindacati), che avevano protetto i lavoratori nel periodo fordista, non abbiano né gli strumenti né l’interesse per tutelare la maggioranza invisibile.36 Il neoliberismo ha mandato in pezzi il contratto sociale stabilito dal fordismo e lo ha sostituito con una nuova e potente ideologia: rendere gli individui liberi di agire e rischiare. Un’ideologia che favorisce gli high flyers, chi in virtù della propria formazione e delle condizioni di partenza può essere mobile e pronto a cogliere le opportunità create da un sistema meno regolamentato, mentre gli altri (gli «sconfitti» che popolano la maggioranza invisibile) si sono ritrovati sempre più soli. Inizialmente anche i meno abbienti si sono giovati della promessa neoliberista, inebetiti dalle maggiori possibilità di consumo garantite dal sistema finanziario. Ma al sopraggiungere della crisi si sono trovati soli e non protetti.37 La distru-

Torneremo su questo argomento nel quinto, sesto e ottavo capitolo. 37 L’unica protezione che resiste nel nostro paese è quella del 36

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zione sistematica dei gruppi secondari e dell’idea collettiva di protezione sociale rende ancora più difficile il compito di chi vuole organizzare la maggioranza invisibile come gruppo coeso, capace di opporsi al dominio egemonico del neoliberismo in crisi. Mancano punti d’incontro e occasioni sociali in cui i membri di tale maggioranza possano ritrovarsi per discutere dei loro problemi, per elaborare strategie di resistenza e di ribaltamento del fronte neoliberista.38 L’eccezionalità di questo periodo storico e la scarsissima capacità aggregativa delle vecchie strutture di partito e sindacali ci impongono, dunque, di individuare nuovi momenti di aggregazione, nuovi collanti per i soggetti che compongono la maggioranza invisibile in Italia e in Europa. Servono spazi in cui possano tornare a esprimersi i gruppi secondari, gli unici capaci di mediare tra l’individuo solitario e il flusso della società.

welfare familiare, garantito dai risparmi della precedente generazione. Anche questa, però, va erodendosi. 38 Tuttavia simili spazi non esistevano neppure in passato: furono creati a partire prima dal lavoro delle corporazioni professionali, poi grazie alla forza aggregativa del sindacato nelle fabbriche. Approfondimento: E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra.

4 Mercato unico senza anima sociale: europeismo critico e maggioranza invisibile

In precedenza abbiamo analizzato il neoliberismo in relazione alla crisi del modello di organizzazione sociale fordista. Ebbene, anche il processo di integrazione europea va compreso in tale ottica; perciò, pur riconoscendo la sua importanza storica nel periodo postbellico, in questo capitolo rifletteremo principalmente sull’aspetto dell’integrazione monetaria.1 Lo scopo è analizzare come un simile elemento abbia influito sulla precarizzazione del lavoro, sul taglio delle politiche sociali e, di conseguenza, sull’emergere della maggioranza invisibile. Il collasso del sistema di Bretton Woods e del fordismo ha gettato le basi per un cambio di direzione nel processo di integrazione,2 impri-

Non proporremo, quindi, una riflessione che parta dalle origini del percorso negli anni Cinquanta. 2 Approfondimenti: A.W. Cafruny e J.M. Ryner, Europe at Bay: In the Shadow of US Hegemony; C. Crouch, After the Euro: Shaping Institutions for Governance in the Wake of European Monetary Union; L.S. Talani, European Political Economy: Political Science Perspectives. 1

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mendo una svolta di stampo monetarista e neoliberista. Anche in questo caso, la decisione di Nixon di non garantire la convertibilità del dollaro in oro a partire dal 1971 è un passaggio fondamentale per il nostro viaggio analitico: il crollo della governance stabilita con Bretton Woods spinse i paesi europei a creare un sistema continentale per controllare l’oscillazione dei tassi di cambio fra le valute. È proprio in questo contesto che prese avvio il processo di integrazione monetaria. Nel 1972 le monete di dieci paesi furono «agganciate» mediante il cosiddetto Serpente monetario, che offriva la possibilità di svalutarle o rivalutarle del 2,25% le une rispetto alle altre.3 Questo sistema aveva lo scopo di garantire un certo margine di manovra alle nazioni aderenti, in linea con la svalutazio-

Il Serpente monetario è il frutto di un accordo stipulato a Basilea il 10 aprile 1972. Oltre ai sei membri della Comunità economica europea (Germania Occidentale, Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) e a tre paesi che vi sarebbero entrati l’anno successivo (Regno Unito, Irlanda e Danimarca), vi aderì anche la Norvegia. Esso concedeva margini di fluttuazione del 2,25% intorno alla parità monetaria delle valute europee e del 4,50% per il cambio tra ciascuna di esse e il dollaro (questo margine di fluttuazione con la valuta americana era già stato stabilito con gli accordi di Washington del 1971). Per controllare le fluttuazioni – che, è bene ricordarlo, non sono gestite automaticamente dagli Stati – fu creato il Fondo europeo di cooperazione monetaria (che può essere considerato l’antesignano della Banca centrale europea). Per approfondire vedi la voce Serpente monetario sul portale borsaitaliana.it, consultabile all’indirizzo www.borsaitaliana.it/notizie/ sotto-la-lente/serpentemonetario.htm. 3

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ne massima del 4,50% stabilita un anno prima rispetto al dollaro. Occorre ricordare che la svalutazione/rivalutazione della moneta è uno dei principali strumenti di politica economica in mano a un paese. Per far aumentare le esportazioni, ad esempio, si può procedere alla svalutazione in modo da abbassare il costo dei beni venduti su mercati che hanno una moneta più forte. Per contro, quando le esportazioni crescono generando un surplus della bilancia commerciale,4 il valore della moneta torna a salire.5 Svalutazioni e rivalutazioni garantiscono quindi l’equilibro degli scambi e delle bilance commerciali fra i paesi. Tutto ciò ci aiuterà a capire le difficoltà odierne dell’Unione, e come la politica monetaria condotta dalla Banca centrale europea avvantaggi le nazioni che avevano una valuta tradizionalmente forte (come la Germania) e svantaggi quelle che, invece, ne avevano una debole (come l’Italia e gli altri paesi mediterranei).6 Inoltre

Un surplus della bilancia commerciale si genera quando il valore delle esportazioni supera quello delle importazioni. 5 Per una nazione non basta prendere la decisione di svalutare o rivalutare una moneta, ma occorre utilizzare gli strumenti della politica economica per raggiungere questo effetto. In pratica è il principio della domanda e dell’offerta che regola il mercato dei cambi. Se un paese accresce le sue esportazioni, con il conseguente ingresso di valuta estera, la sua moneta tenderà progressivamente ad apprezzarsi, e viceversa. 6 Il problema principale è che alcuni paesi, come appunto quelli mediterranei, hanno un sistema produttivo che si è adattato ne4

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la decisione di limitare drasticamente la possibilità di svalutare rappresenta un notevole cambio di direzione rispetto alla politica economica del periodo fordista.7 Tornando al Serpente monetario, il suo obiettivo ultimo era garantire stabilità all’interno del mercato europeo, e al contempo consentire un piccolo margine di manovra ai singoli paesi grazie a una svalutazione/rivalutazione controllata rispetto al dollaro. L’esperimento, però, fallì rapidamente: a soli due anni dalla sua creazione, Regno Unito, Irlanda, Italia e Francia uscirono dal meccanismo di concertazione per svalutare la propria moneta in modo consistente.8 Ciò portò

gli anni alla presenza di una moneta debole. Questo significa che in passato si era puntato ad accrescere le esportazioni mediante una riduzione dei prezzi di beni e servizi, generata da consistenti e ripetute svalutazioni (le cosiddette svalutazioni competitive). Nazioni come la Germania, invece, hanno scelto una strategia diversa: esportare prodotti costosi e di alta qualità, mantenendo una valuta forte. Oggi la politica monetaria europea è molto simile a quella che conduceva la banca centrale tedesca (tale approccio è simboleggiato dall’austerità competitiva). Per questa ragione, la Germania si trova favorita, mentre i paesi mediterranei soffrono terribilmente il contesto di politica economica che si è venuto a creare con l’unione monetaria. Chiariremo e approfondiremo questo concetto fondamentale nel resto del capitolo. 7 Rinunciare alla svalutazione competitiva significa accettare il paradigma monetarista: non sarebbe attraverso il deprezzamento della moneta, il debito o l’inflazione, che si possono incrementare le esportazioni, ma solamente accrescendo la produttività e riducendo il costo del lavoro (e della protezione sociale). 8 Questo accadde soprattutto a causa del primo shock petrolifero del 1973.

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a un ripensamento degli accordi e alla creazione del Sistema monetario europeo (Sme) nel 1979. Lo Sme differiva dal Serpente monetario per due ragioni. La prima è che le valute potevano fluttuare del 2,25% rispetto a un paniere di monete europee (detto Unità di conto europeo, o Ecu). La seconda è che lo Sme consentiva svalutazioni e rivalutazioni più ampie per quei paesi che, come l’Italia, avevano un’inflazione piuttosto alta.9 Grazie a queste due modifiche, il Sistema monetario europeo ebbe vita più lunga. La sua fine fu decretata dalla crisi speculativa del 1992, che spinse Italia e Regno Unito ad abbandonarlo per svalutare ancora una volta oltre il livello consentito. Abbiamo descritto come l’influenza americana si sia proiettata sul Vecchio Continente durante l’epoca fordista, garantendo stabilità e crescita ma anche imponendo il dollaro come moneta-arbitro degli scambi. Il declino del fordismo ha costituito una svolta storica, alla quale gli Stati Uniti hanno risposto trasformando i loro metodi di influenza sull’economica mondiale.10 Gli Usa sono passati

Le bande di oscillazione, in questo caso, erano nell’ordine del 6%. Sulla relazione empirica tra svalutazione e inflazione vedi l’approfondimento: F. Daveri, Svalutazione e inflazione, cosa dicono i dati. 10 All’interno del dibattito accademico ci si è a lungo interrogati per capire se la crisi del fordismo e dell’apparato produttivo americano (di tipo industriale) fossero segnali del declino degli Stati 9

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dall’essere «l’officina del mondo»,11 che basava il proprio potere d’influenza sulla capacità di produzione industriale, al divenire il centro nevralgico dei flussi finanziari globali. Il ruolo centrale del dollaro, moneta di riserva e scambio a livello planetario, ha consentito agli Stati Uniti di fare debito senza subire effetti destabilizzanti.12 Per capire appieno il vantaggio degli Stati Uniti rispetto agli altri paesi, pensate alle turbolenze che oggi subiscono Grecia e Italia per il loro «debito eccessivo». Gli Usa hanno sfruttato il ruolo di arbitro degli scambi guadagnato dal dollaro per continuare a esercitare influenza anche dopo il crollo del sistema fordista; tuttavia l’egemonia americana si è trasformata, prendendo forme che possiamo definire «minimali»: non perché si

Uniti nella loro capacità di esercitare influenza a livello internazionale. La maggior parte degli autori ha sostenuto l’idea del tramonto dell’egemonia americana, mentre altri hanno argomentato che quel dominio ha assunto solo forme diverse. È proprio il punto di vista di questi ultimi che utilizzeremo per descrivere la trasformazione dell’influenza americana sull’Europa. Approfondimenti: M. Konings, The Development of American Finance; S. Strange, States and Markets. 11 Espressione usata originariamente per definire l’Inghilterra della Rivoluzione industriale. 12 Come abbiamo illustrato nel capitolo precedente, a partire dagli accordi di Bretton Woods, il dollaro è diventato la moneta arbitro degli scambi. Questo ruolo internazionale ha continuato a dare un forte vantaggio agli Stati Uniti, anche quando la loro forza industriale ha cominciato a declinare. Oggi, gli Usa continuano a godere di tassi d’interesse molto bassi sul loro debito e del fatto che il dollaro resta la principale valuta di riserva nel mondo.

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tratti di un’influenza di poco conto, ma piuttosto di un’influenza giocata con mezzi meno diretti rispetto a quelli usati durante il periodo fordista.13 Essa si basa sui meccanismi disciplinari della finanza e del mercato, e anche – come diffusamente spiegato nel capitolo precedente – sulla forza dirompente delle organizzazioni internazionali e sulla loro capacità di creare consenso attorno al paradigma neoliberista. Come qualsiasi processo politico, economico e sociale, questa particolare forma d’influenza sull’Europa non si è sviluppata in modo lineare e armonico; è piuttosto il risultato di tensioni e contrasti, e di un’evidente continuità nel rapporto asimmetrico con la potenza americana. Per comprendere come l’integrazione monetaria (sotto l’egida neoliberista statunitense) abbia dispiegato i suoi effetti, va anche ricordato che il passaggio allo Sme è stato compiuto in un periodo in cui la cooperazione intraeuropea era molto più limitata di quella odierna. Da questo punto di vista, un simile equilibrio monetario è stato funzionale alla strategia tedesca di adattamento al periodo postfordista,14 che ha previsto

Per una discussione sistematica del concetto di egemonia minimale vedi l’approfondimento: A.W. Cafruny e J.M. Ryner, Europe at Bay: In the Shadow of US Hegemony. 14 L’aggancio fra il marco tedesco e le altre monete europee più deboli, infatti, pur garantendo una discreta flessibilità, ha ridotto la capacità degli altri paesi di svalutare e quella della moneta tedesca di rivalutarsi in maniera eccessiva, portando quindi la Germa13

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il controllo della spesa e il finanziamento della crescita dei salari mediante le esportazioni.15 L’elaborazione di questa strategia di crescita (basata anche sulla specializzazione in produzioni che richiedono ricerca e alta tecnologia) è stata possibile in parte grazie allo sviluppo di forme corporative e poco conflittuali di coordinazione economica tra le forze sociali. In tale contesto i sindacati tedeschi, anche attraverso il meccanismo della coabitazione,16 hanno giocato un ruolo centrale nell’implementare riforme considerevoli del mercato del lavoro e dello stato sociale.17 In sintesi, la possibilità di limitare artificialmente la rivalutazione del marco, agganciandone il valore a monete più deboli (che poi erano quel-

nia a non perdere competitività nelle esportazioni come sarebbe accaduto in un contesto economico fatto di monete libere di fluttuare. 15 Approfondimenti: A.W. Cafruny e J.M. Ryner, Europe at Bay: In the Shadow of US Hegemony; C. Crouch, After the Euro: Shaping Institutions for Governance in the Wake of European Monetary Union; H. Overbeek, Sovereign Debt Crisis in Euroland: Root Causes and Implications for European Integration; L.S. Talani, European Political Economy: Political Science Perspectives. 16 La coabitazione comporta una nutrita rappresentanza dei lavoratori nel board direttivo dell’impresa. Questo sistema ha permesso nel tempo di sviluppare strategie concertate fra operai e management, portando spesso a risultati soddisfacenti per l’azienda senza sacrificare il benessere dei lavoratori. 17 Come quelle intraprese a partire dalla fine degli anni Novanta e culminate con le famose riforme Hartz nella decade succesiva.

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le dei principali partner commerciali della Germania), è stata centrale nel dispiegare gli effetti del programma di crescita tedesco. Un programma che ha condizionato tutti i paesi europei, e in particolare quelli mediterranei. Ciò per diverse ragioni: primo, l’incapacità della struttura produttiva degli Stati mediterranei di far fronte alla globalizzazione senza ricorrere alla svalutazione competitiva della moneta; secondo, la minore capacità di tali paesi nel coordinare le parti sociali per garantire trasformazioni consensuali del mercato del lavoro. Inoltre, queste dinamiche hanno creato delle relazioni di subordinazione all’interno dell’Unione Europea, contribuendo a sviluppare un modello d’integrazione centro-periferia piuttosto che una cooperazione paritaria fra nazioni. Nel caso dell’Italia, poi, gli svantaggi dovuti a questo sistema – e acuitisi con la moneta unica, come vedremo nel resto del capitolo – non sono stati ripartiti equamente fra tutti i cittadini, ma sono stati «scaricati» in toto sulla maggioranza invisibile. Un esempio su tutti serve a comprendere questo meccanismo perverso. Da quando non si può più svalutare consistentemente la moneta per dare impulso alle esportazioni, si è dovuto ridurre il costo del lavoro e il livello di protezione sociale; per farlo, però, non si è imposto un taglio del welfare spalmato sull’intera comunità: si è deciso invece di «far pagare» solo i nuovi precari e i cittadini più poveri, tradizionalmente le categorie più danneggiate da uno stato sociale

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incompleto.18 Così, mentre il mondo passava dal fordismo al neoliberismo, chi era garantito dal vecchio sistema restava protetto dalle strutture politiche e sindacali tradizionali; chi al contrario si affacciava sul mondo del lavoro, o era penalizzato per l’assenza di copertura, veniva colpito dalla scure della flessibilizzazione e dall’ulteriore taglio del welfare state. Tuttavia, nonostante questi elementi negativi, in conclusione di capitolo illustreremo perché la maggioranza invisibile avrebbe tutto l’interesse a promuovere un europeismo critico, piuttosto che rifiutare tout court il processo d’integrazione europea. La seconda fase del processo di integrazione europea La definizione dello Sme e i primi passi verso la moneta unica sono momenti chiave per analizzare gli effetti della cosiddetta «seconda fase» del processo d’integrazione europea. Due trattati hanno segnato questo periodo: l’Atto unico europeo nel 1987 e il Trattato di Maastricht nel 1992. Il primo ha riformato la Comunità economica europea (Cee), completando la costruzione del mercato interno; il secondo ha portato alla creazione dell’Unione Europea organizzata su tre pilastri: la Comunità europea (Ce), la politica estera e di sicurezza comuni e il comparto affa18

Come dimostreremo nel prossimo capitolo.

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ri interni e giustizia. L’elemento del Trattato di Maastricht che più ci interessa è quello della Ce, con la creazione della Banca centrale europea (Bce) e dell’euro. Come molti ricorderanno, il passaggio alla moneta unica doveva avvenire allineando le economie dei vari paesi europei sulla base dell’osservazione di cinque parametri: 1. avere un rapporto tra il deficit pubblico19 e il prodotto interno lordo (pil) non superiore al 3%; 2. avere un rapporto tra debito pubblico20 e pil non superiore al 60%;21 3. avere un tasso di inflazione che superasse al massimo dell’1,5% quello degli Stati con il livello più basso; 4. avere un tasso d’interesse a lungo termine22 che non superasse del 2% quello medio nel resto della Comunità; 5. la permanenza della moneta nazionale, nei due anni precedenti all’introduzione dell’euro, all’interno delle fasce di fluttuazione stabilite dallo Sme.23 Ovvero il debito accumulato in un anno. Cioè la somma dei debiti accumulati nella storia del paese. 21 Con l’esenzione per alcune nazioni come l’Italia, il cui debito superava il 100% del pil. 22 Si tratta del tasso a cui le banche centrali prestano denaro. 23 Alcuni di questi ambiziosi obiettivi di convergenza furono riaffermati nel Patto di stabilità e crescita (Psc) del 1997, che richiedeva in modo abbastanza rigido a ogni paese di avere un rapporto deficit/pil entro il 3% e quello debito/pil al 60% (o comunque in calo verso tale quota). 19 20

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Questi cinque parametri di convergenza dimostrano come l’unione monetaria sia di fatto un rafforzamento delle scelte di stampo neoliberista avviate con il Serpente monetario e lo Sme.24 Il processo d’integrazione ha comportato l’impossibilità di sviluppare politiche monetarie autonome, lasciando alla Banca centrale europea il compito di prendere decisioni omogenee per paesi e territori con strutture produttive e cicli economici diversi. Questo crea gravi problemi di asimmetria, perché le politiche monetarie scelte avvantaggiano alcuni Stati e determinati settori produttivi, mentre ne sfavoriscono altri. I limiti del sistema, poi, sono stati acuiti dal non aver previsto meccanismi redistributivi (politici e fiscali) in grado di compensare gli shock subiti dalle aree geografiche e i settori più svantaggiati dalle scelte della Bce.25 In aggiunta a tutto ciò, la decisione di convergere sui cinque parametri di Maastricht ha pesantemente condizionato i tassi di crescita europea.26 Il fenomeno può essere illustrato ricorrendo a due concetti: quello di Area monetaria Con l’imposizione del rigore nella politica monetaria, la bassa inflazione e lo stretto controllo del debito. 25 È una situazione per molti aspetti simile a quella dell’Italia postunificazione, in cui si scelse di dar vita a una politica protezionista per far crescere l’industria del Nord, sfavorendo le esportazioni di beni agricoli da parte del Mezzogiorno. Cosa che acuì il ritardo del Sud rispetto al resto della nazione. 26 Approfondimento: K. Featherstone, The Maastricht Roots of the Euro Crisis. 24

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ottimale (Amo) e quello di austerità competitiva (determinata dall’estensione della strategia di crescita tedesca, basata sulle esportazioni, agli altri paesi europei).27 Un’Area monetaria ottimale è una regione nella quale si decide di condividere una moneta (proprio come fa l’Unione Europea) riuscendo a massimizzare l’efficienza economica di questa scelta. Un’Amo funziona al meglio quando sono presenti tre condizioni: 1. l’alta mobilità dei lavoratori al suo interno; 2. la presenza di un sistema fiscale che compensi le aree e i settori produttivi colpiti negativamente dall’unione monetaria; 3. l’essere costituita da paesi con cicli economici abbastanza simili (che necessitino quindi di politiche monetarie compatibili). L’assenza di queste condizioni in Europa crea turbolenze fortissime. La mobilità dei lavoratori all’interno dell’area euro è molto bassa (se comparata per esempio a quella degli Stati Uniti). Ciò è dovuto principalmente a barriere culturali, linguistiche e burocratiche. Prendete l’esempio del riconoscimento dei titoli di studio e professionali, o ancora le difficoltà di accesso ai servizi sociali nelle nazioni ospitanti. Nonostante un marcato incremento negli ultimi anni, solo il 3% della popolazione europea vive in uno

Approfondimento: A.W. Cafruny e J.M. Ryner, Europe at Bay: In the Shadow of US Hegemony. 27

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Stato membro diverso da quello di origine.28 In aggiunta, i meccanismi di compensazione fiscale per le aree che soffrono la politica restrittiva della Banca centrale europea sono molto limitati.29 Ciò, come abbiamo visto in precedenza, colpisce con forza la maggioranza invisibile, che soffre particolarmente il taglio del costo del lavoro e la riduzione della protezionale sociale offerta dai sistemi di welfare. Infine, i cicli economici dei diversi paesi europei non sono omogenei, né lo sono le loro strutture produttive, i loro quadri normativi e le loro relazioni industriali. Il risultato è che la moneta unica rende le esportazioni tedesche più competitive di quanto lo sarebbero state con il marco, e quelle italiane meno di quanto lo sarebbero state con la lira. Questi meccanismi perversi per l’economia del nostro paese vengono parzialmente moderati da altri fattori, come la riduzione del costo di approvvigionamento energetico dovuta a una moneta più forte. La complessità della situazione fa sì che l’effetto degli shock economici sia praticamente impossibile da gestire senza far esplodere

I flussi più consistenti sono quelli dei lavoratori che si spostano dalla parte orientale e meridionale del continente verso (principalmente) Germania e Inghilterra. Fonte: Internal Mobility in the EU and Its Impact on Urban Regions in Sending and Receiving Countries. 29 Come ad esempio il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), che interviene per salvare gli Stati da potenziali insolvenze, o il Fondo sociale europeo (Fse). 28

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pesantissime contraddizioni nel processo di integrazione. È in questo contesto che va compreso l’avvento dell’austerità competitiva, connessa al programma tedesco di accrescere le esportazioni attraverso il controllo dei salari e della spesa pubblica. Tale strategia è stata favorita nel periodo dello Sme dalla limitata rivalutazione del marco rispetto alle monete collegate. E così le altre nazioni europee, anche quelle che avevano dato vita a strategie basate sulla svalutazione competitiva, allineandosi al processo di integrazione monetaria hanno implicitamente scelto l’austerità competitiva alla tedesca,30 pur non avendo sistemi politici, economici e sociali per supportarla adeguatamente. L’estensione della strategia tedesca a tutti i membri dell’Unione, in una situazione in cui i principali partner commerciali sono all’interno del nostro continente, ha generato la spirale negativa nella quale siamo impantanati. Ciò è accaduto perché paesi meno efficienti della Germania a livello produttivo, come quelli mediterranei, messi nella condizione di non poter più svalutare la moneta o accrescere il debito (quindi riducendo anche la possibilità di investire nella riconversione dei sistemi industriali), hanno dovuto far leva esclusivamente sulla riduzione del costo del lavoro e della protezione sociale. Tale riduzio30

Senza altre contropartite compensative, è bene ricordarlo.

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ne ha depresso la domanda interna, e con essa il mercato disponibile per i produttori europei. In un contesto del genere, ogni attore – Stato o impresa che sia – è interessato a limitare i costi di produzione (e quindi del lavoro) per guadagnare in competitività; però, così facendo, contribuisce nel suo piccolo alla diminuzione della domanda aggregata, e in definitiva dello stesso consumo di cui si nutre.31 Ci sono due vie per evitare che l’austerità competitiva deprima completamente l’Europa e opprima la maggioranza invisibile. La prima è che i paesi in difficoltà riescano a recuperare quote di mercato extraeuropeo tali da compensare la riduzione della domanda all’interno del continente. Tuttavia, un simile scenario sembra di difficile realizzazione: si può davvero credere che nazioni vicine al collasso economico abbiano la capacità di accrescere le proprie esportazioni senza agire sulla svalutazione della moneta? Si può davvero pensare a un salto tecnologico per incentivare l’export in un tale contesto? L’altra strategia, che dovrebbe trovare il completo sostegno della maggioranza invisibile, passa per la redistribuzione e il sostegno della domanda in-

Chiaramente questa è una semplificazione di meccanismi più complessi. Si deve tener conto anche dei particolari mercati cui ci si rivolge, oltre che dei processi produttivi e delle strategie di crescita perseguite dai paesi (almeno da quelli che, diversamente dall’Italia, hanno una classe politica capace di pianificare nel lungo periodo). 31

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terna a livello europeo. Un’azione che dovrebbe avvenire sia fra i diversi paesi sia all’interno degli stessi; per semplificare: redistribuire dalla Germania alla Grecia, ma, anche, dalla minoranza visibile alla maggioranza invisibile. Infatti bisogna ricordare che, anche se l’analisi qui proposta si è concentrata sull’interazione tra gli Stati del continente, l’integrazione monetaria svantaggia i precari italiani come quelli tedeschi. Rendendo questi ultimi i migliori alleati della maggioranza invisibile.32 Integrazione monetaria e «sindacati per garantiti» Il malfunzionamento dell’area monetaria e delle politiche di austerità ha avuto anche un impatto profondo sulle forze sociali europee e sulle loro forme di rappresentanza. Nel contesto economico dominato dalle politiche monetariste, i sindacati del Vecchio Continente faticano sempre più a opporsi alla precarizzazione del lavoro e al taglio dello stato sociale. La loro debolezza dipende dall’incapacità di formulare proposte che abbiano una portata continentale: le divisioni politico-legislative e nelle strutture di rappresentanza nazionali sono un impedimento che riduce la capacità di analisi e intervento. In questo quadro i sindacati, anziché proteggere la maggioran32

Torneremo su questo punto nell’ottavo capitolo.

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za invisibile, sono diventati funzionali alle strategie neoliberali. Ci sono diverse opzioni di politica economica per reagire a un periodo di crisi.33 Trovandoci in un’area monetaria unica, però, le scelte sono fondamentalmente ridotte a tre: 1. accrescere la mobilità della forza lavoro; 2. coordinare le politiche fiscali e redistributive; 3. ridurre i prezzi di beni e servizi per accrescere le esportazioni verso i paesi extraeuropei.34 Abbiamo discusso come le prime due opzioni non siano state adottate all’interno dell’Unione Europea;35 piuttosto, in linea con la teoria monetarista, si è scelta la terza via, quella della riduzione dei prezzi, perseguita principalmente attraverso un taglio del costo del lavoro e una riduzione della protezione sociale della maggioranza invisibile. I governi hanno cambiato le regole del mercato del lavoro, spesso contrapponendosi alle parti sociali, altre volte concertando le riforme

Nel caso attuale, più propriamente, a uno shock asimmetrico, perché la crisi odierna non colpisce tutte le aree del continente con la stessa intensità. 34 Approfondimento: L.S. Talani, European Political Economy: Political Science Perspectives. 35 Se non marginalmente, come nel caso della strategia della mobilità. 33

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con loro. Comunque sia andata, le scelte sono state condizionate dalla storia nazionale, dalla struttura delle forme di rappresentanza sociale e dall’esistenza di diversi tipi di relazioni industriali.36 Per fare un esempio, la Germania si è adattata con parecchia facilità alle costrizioni determinate dall’avvento dell’euro e della Bce, perché queste ricalcano le politiche perseguite tradizionalmente dalla Bundesbank e dalle autorità tedesche, che hanno privilegiato la bassa inflazione e con essa la stabilità dei prezzi.37 In aggiunta, il sistema tedesco di relazioni industriali e di contrattazione collettiva – caratterizzato da una confederazione sindacale unitaria (la Deutscher Gewerkschaftsbund, meglio conosciuta da noi come Dgb) abituata a raggiungere compromessi con altri attori sociali – risulta particolarmente efficace nello sviluppare forme concordate di moderazione salariale.38 Paesi come l’Italia invece, dove le rappresentanze sindacali sono divise e abituate a un diverso quadro macroeconomico, hanno molta più difficoltà a sviluppare riforme consensuali sul

Analizzeremo il caso italiano nel sesto capitolo. Approfondimento: C. Crouch, After the Euro: Shaping Institutions for Governance in the Wake of European Monetary Union. 38 Per moderazione salariale s’intende sia il contenimento della crescita dei salari sia la loro riduzione. Nello specifico si tratta di una strategia di limitazione e controllo del costo del lavoro, tesa ad aumentare la competitività delle imprese sul mercato. 36 37

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mercato del lavoro.39 Per questa ragione, i sindacati italiani hanno quasi esclusivamente cercato di proteggere i loro iscritti e i settori produttivi dove sono più presenti, abbandonando la maggioranza invisibile spesso non sindacalizzata.40 A tutto ciò si sommano le pressioni dei pensionati più abbienti che, con il loro peso all’interno delle organizzazioni sindacali, hanno portato a difendere a spada tratta un sistema squilibratissimo.41 Alla differenza esistente nei meccanismi di concertazione sindacale va aggiunto un corollario: i paesi che sono riusciti a ridurre il costo del lavoro prima degli altri hanno accresciuto enormemente il loro vantaggio sul mercato. Questo incrementa gli effetti polarizzanti prodotti dall’austerità competitiva: i forti diventano sempre più forti e i deboli sempre più deboli.42 Occorre rilevare come simili fattori abbiano posto il sindacato al centro del programma di austerità competitiva: in cambio del loro aiuto

Approfondimento: C. Crouch, After the Euro: Shaping Institutions for Governance in the Wake of European Monetary Union. 40 Ciò ha contribuito all’avvento del «neoliberismo selettivo» (che descriveremo nel prossimo capitolo). Inoltre i sindacati continuano a essere condizionati nella loro azione dal «dogma lavorista» di cui discuteremo nell’ottavo capitolo e nella conclusione. 41 Un sistema generoso oltre misura con chi ha iniziato a lavorare prima del 1978 e molto limitato per chi è entrato nel mercato del lavoro a partire dal 1996. Approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente, in particolare il capitolo Il prezzo del passato. 42 Approfondimento: C. Crouch, After the Euro: Shaping Institutions for Governance in the Wake of European Monetary Union. 39

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nell’implementazione della strategia neoliberista, essi hanno ricevuto concessioni per i propri iscritti. Un meccanismo perverso, che in Italia contribuisce a sfavorire la maggioranza invisibile e favorire, invece, la minoranza visibile dei garantiti. L’Europa della crisi La crisi finanziaria ha fatto salire la pressione sui conti dei vari paesi e ha mostrato le contraddizioni che stanno alla base del processo d’integrazione monetaria. Il debito pubblico è cresciuto in modo drammatico nelle nazioni che hanno sovvenzionato le istituzioni finanziarie private per evitare il credit crunch (come il Regno Unito) e in quelli che avevano un debito già molto elevato (come l’Italia e la Grecia). In particolare, negli Stati già molto indebitati, i tassi d’interesse sono esplosi (con la crescita dell’ormai celeberrimo spread) quando nel 2010 Giorgos Papakonstantinou, allora ministro delle Finanze greco, rivelò che il debito del suo paese era stato nascosto attraverso operazioni finanziarie ardite.43 Il risultato è che il governo greco è stato costretto, a ogni scadenza dei titoli di Stato, a offrire interessi sempre più alti.

Fatte beneficiando della consulenza della banca d’investimento americana Goldman Sachs. 43

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La logica che giustifica la richiesta di tassi d’interesse più alti è basata sulla necessità di ripagare il rischio cui gli investitori si espongono nel prestare denaro a un paese considerato in pericolo di insolvenza. Così, oltre alla Grecia, anche nazioni quali Italia, Spagna e Portogallo hanno cominciato a dover pagare molto più di quanto avevano pianificato. La pressione generata su questi paesi è stata allentata solo da un intervento deciso della Banca centrale europea: essa ha predisposto prima un piano eccezionale di sostegno alle istituzioni finanziarie, accrescendo la domanda per i titoli di Stato dei paesi in difficoltà,44 e poi il suo governatore, Mario Draghi, ha cercato di infondere fiducia negli investitori affermando che avrebbe fatto qualunque cosa, « whatever it takes», pur di salvare l’euro. Accanto all’azione della Bce, i paesi europei hanno deciso di rassicurare i mercati imponendosi vincoli – talvolta persino di carattere costituzionale – sulla gestione della propria spesa. Ha cominciato la Germania, seguita a ruota da Spagna, Italia e Austria. In particolare, l’Italia ha modificato nel 2012 l’articolo 81 della Costituzione, inserendo questi passaggi significativi:

Calmierando quindi i tassi d’interesse cui veniva immesso il debito sul mercato, e contribuendo nell’immediato a far risparmiare le singole nazioni. 44

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Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.

La decisione, a livello europeo, di inserire il vincolo del pareggio di bilancio nelle carte costituzionali è stata presa durante la definizione del Patto di bilancio europeo, meglio noto come Fiscal compact. Il Fiscal compact, fra le altre clausole, richiede la riduzione del debito del 5% l’anno fino a portarlo sotto il 60% del pil. Il dato più significativo di quanto stabilito, però, è che l’Europa ha scelto di curare i propri mali rinforzando i meccanismi di austerità che sono alla base delle sue difficoltà. Abbiamo visto nel capitolo precedente come il neoliberismo, nel divenire un progetto egemone, sia riuscito a creare un tale consenso politico su certe misure da farle sembrare «tecniche», isolandole quindi dal dibattito politico. Nell’incapacità d’immaginare un nuovo progetto europeo, dunque, si è deciso d’imporre l’austerità presentandola come unica alternativa possibile e si è fatto ricorso alla formazione di governi tecnici o grandi colazioni per amministrarla. L’Italia è

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un caso emblematico. Di fronte al fallimento del governo tecnico di Monti, le forze politiche che lo sostenevano hanno pagato un prezzo pesantissimo alle urne, e dopo le elezioni si sono trovate a costruire una «strana» coalizione per portare avanti le politiche di austerità.45 Per un europeismo critico In questo capitolo si è delineato come l’influenza del neoliberismo sul processo d’integrazione europea abbia contribuito all’emergere della maggioranza invisibile. Tutto ciò ci ha portati a criticare in modo deciso il percorso d’integrazione monetaria, per quattro ragioni: 1. perché subordinato culturalmente ed economicamente al progetto neoliberista americano; 2. perché limitato alla sfera economico-finanziaria e non dotato di un’anima sociale; 3. perché ha contribuito a creare relazioni di dominio e subordinazione fra i vari paesi, sfociate nella corsa al taglio del costo del lavoro e della protezione sociale;

Proprio in questo contesto, il MoVimento 5 Stelle è riuscito a intercettare parte del voto della maggioranza invisibile. Tuttavia, senza proporre una prospettiva europea di ribaltamento delle politiche d’austerità, anche il MoVimento di Grillo potrebbe trovarsi schiacciato dalle stesse dinamiche alle quali cerca di opporsi. Discuteremo questo argomento nella seconda parte del libro. 45

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4. perché, in assenza di meccanismi solidaristici e redistributivi intraeuropei, si è deciso di difendere una fetta della popolazione e scaricare il peso della grande trasformazione sulla maggioranza invisibile. A questo punto il lettore potrebbe chiedersi: perché dopo tante critiche e l’accusa di aver contribuito a una mattanza sociale, ancora si sostiene l’idea che la maggioranza invisibile dovrebbe essere europeista? Le ragioni sono molteplici e vanno nella direzione di un europeismo critico. Primo, essere europeisti ha un fondamento storico. Il processo d’integrazione non ha generato solo effetti negativi, ma ha anche contribuito a instaurare una collaborazione intraeuropea di un livello inimmaginabile nel periodo postbellico. Questa collaborazione ha prodotto grandissimi risultati economici e culturali. Il collasso del fordismo e l’avvento del neoliberismo hanno cambiato il senso del processo d’integrazione, ma la rotta può essere nuovamente modificata. Secondo, le politiche economiche devono essere ripensate a livello europeo perché, a seguito del lungo percorso di collaborazione che evocavamo, le nostre economie sono molto più interconnesse rispetto al passato. Servono meccanismi virtuosi di crescita basati su programmi di sviluppo, pianificazione industriale e redistribuzione a livello continentale. Terzo, perché gli scenari di uscita dall’euro e ritorno alla lira non sembrano essere vantaggiosi.

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Innanzitutto, la denominazione del debito:46 ripagarlo in lire, a seguito di una sostanziosa svalutazione monetaria (conseguente alla nostra eventuale uscita dall’area euro), potrebbe portarci al default.47 Un esempio interessante per capire i rischi di tale ipotesi è quello dell’Argentina, che dopo il default ha cancellato il suo debito, ma poi si è trovata ad avere grandi difficoltà a prendere in prestito denaro.48 Per questa ragione il paese sudamericano paga tassi d’interesse altissimi.49 Inoltre, uscire dall’euro non ridurrebbe la pressione che le organizzazioni internazionali e i mercati esercitano su di noi. Anzi, potenzialmente, ogni singolo Stato europeo può essere più facilmente «disciplinabile» dai mercati rispetto all’intera Unione.50 Infine, dirsi europeisti significa voler cogliere un’opportunità storica: quella di sfruttare la crisi

Per denominazione intendiamo la valuta nella quale il debito viene contratto. 47 Nel caso di uscita dall’area euro, la maggior parte del nostro debito dovrebbe continuare a essere pagato in tale valuta. Prendete a questo punto il caso, molto probabile, di una svalutazione della lira conseguente all’uscita dall’euro. L’ammontare del debito da pagare in euro crescerebbe proporzionalmente alla svalutazione della lira messa in atto. Si tratta di uno scenario «all’Argentina», nel senso che il paese sudamericano aveva ancorato il suo debito al dollaro: la svalutazione del peso si è quindi rivelata un disastro. 48 Incorrendo in un nuovo default. 49 Approfondimento: C. Nahón, The Real Facts on Argentina’s Sovereign Debt Restructuring: A Rebuttal. 50 Certo, per ottenere una maggiore resistenza da parte dell’Unione bisognerebbe sfidare le logiche neoliberiste invece di riprodurle e rinforzarle. 46

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per cercare di scardinare l’egemonia neoliberista. La trasformazione verificatasi nella composizione sociale della forza lavoro europea, e il conseguente emergere della maggioranza invisibile, può diventare il motore di una sfida al processo d’integrazione per come è stato concepito nella sua seconda fase.51 Si è parlato spesso di Europa sociale. Tuttavia, essa è rimasta solo uno slogan usato dai partiti socialdemocratici (che hanno poi, invece, condiviso pienamente il progetto neoliberale),52 per cercare di smarcarsi a parole dalla destra. Quello che la maggioranza invisibile potrebbe rivendicare a seguito del suo processo di autoriconoscimento, invece, è un progetto veramente redistributivo e solidaristico per l’Europa.53 Così come nel dopoguerra il fordismo e Dall’istituzione del Serpente monetario in avanti. Come spiegheremo nel sesto capitolo. 53 Per spiegare come ciò possa prendere piede si può utilizzare di nuovo l’analisi dei tre momenti che conducono all’egemonia, teorizzati da Antonio Gramsci e presentati già nel capitolo precedente. Secondo Gramsci il primo passo per l’autoriconoscimento di un soggetto sociale è quello di individuare un momento economico-corporativo, in cui persone appartenenti a diversi gruppi si accorgono di avere interessi economici comuni. Per la maggioranza invisibile questo primo passo consiste nel comprendere il comune interesse a richiedere una distribuzione più equa della ricchezza socialmente prodotta. Ovvero riconoscere come nelle nostre società i processi produttivi siano strutturati attraverso complesse interazioni sociali, che coinvolgono tutti i membri della maggioranza invisibile (e di conseguenza essi vanno retribuiti adeguatamente per il loro contributo alla crescita della produttività sociale). Il secondo momento gramsciano è quello della coscienza di classe, cioè quando gli interessi comuni a un gruppo sociale 51 52

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negli anni Settanta e Ottanta il neoliberismo furono capaci di avvicinare categorie sociali diverse, proponendo un percorso che offriva vantaggi a molti mostrandosi al passo con i tempi, così nelle prossime decadi l’ugualitarismo efficiente della maggioranza invisibile potrebbe imporsi diventando agenda politica di riferimento. Torneremo su questa discussione fondamentale nella seconda parte del libro.

vengono articolati attraverso un programma unitario. La difficoltà per la maggioranza invisibile sta esattamente nel mettere in piedi un progetto politico egualitario capace di accomunare tutti i soggetti che la compongono. Un progetto che superi le differenze anagrafiche, di genere, geografiche e culturali analizzate nel secondo capitolo. Questo programma dovrà inoltre convincere altre componenti della società, in particolare la classe media produttiva e gli studenti (antagonisti alla minoranza visibile dei garantiti), schiacciate anch’esse dalla crisi e dalle trasformazioni globali. Solo a quel punto il terzo momento, quello dell’egemonia, potrebbe compiersi.

5 Maggioranza invisibile e nuovo welfare: universalismo e produttività sociale

In questo capitolo illustreremo come i cambiamenti economici e sociali connessi al declino del fordismo, analizzati nelle pagine precedenti, abbiano reso il nostro welfare state obsoleto e incapace di proteggere la maggioranza invisibile. Lo scopo è dimostrare che una riforma del welfare – imperniata sul sostegno universale al reddito e la corresponsione di alcuni servizi fondamentali – potrebbe lenire la durezza dei rischi sociali (che si abbattono prevalentemente sulla maggioranza invisibile) e allo stesso tempo accrescere la produttività economica e sociale dell’intero paese. A livello sociale, il periodo fordista è stato caratterizzato da una figura simbolo: quella dell’operaio industriale.1 E anche se gli operai non hanno mai costituito la maggioranza dei lavoratori italiani, la loro spinta è stata essenziale per dare vita a un welfare di stampo moderno: sono stati, di fatto, la base sociale delle lotte per i diritti, cul1

Quasi sempre uomo, bianco e con famiglia a carico.

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minate con l’adozione dello Statuto dei lavoratori. Il sistema di protezione creato a loro tutela ha contribuito in modo determinante all’estensione dei diritti sociali agli altri lavoratori, e di riflesso ai soggetti a essi connessi.2 Con il declino del fordismo, il sistema di welfare che l’aveva accompagnato è divenuto progressivamente obsoleto. Fattori come la terziarizzazione dell’impiego,3 l’ingresso massiccio delle donne sul mercato del lavoro, la crescente immigrazione, la perdita d’influenza della famiglia tradizionale e l’invecchiamento della popolazione hanno segnato un profondo cambiamento, caratterizzato dai cosiddetti nuovi rischi sociali e dalla trasformazione progressiva dell’operaio fordista in maggioranza invisibile.4 Ciò significa che mentre nel secondo dopoguerra la prospettiva di molti cittadini era quella di essere assorbiti dal settore manifatturiero, oggi la struttura del mercato del lavoro apre le porte (quasi esclusivamente) alla precarietà e alla disoccupazione di lungo

Come i giovani e le donne. In meno di vent’anni, la composizione della forza lavoro italiana ha subito una drastica trasformazione. Il comparto industriale è passato dall’occupare il 37% dei lavoratori nel 1980 al 32% del 1998; nello stesso periodo gli impiegati nel settore dei servizi sono cresciuti dal 48% al 61% e quelli dell’agricoltura diminuiti dal 14% al 6%. Fonte: P. Ginsborg, Italy and Its Discontents 19802001. 4 Approfondimento: G. Bonoli, The Politics of the New Social Policies: Providing Coverage Against New Social Risks in Mature Welfare States. 2 3

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periodo, acuendo in modo drammatico i nuovi rischi sociali in cui si può incorrere. Parliamo di «nuovi» rischi sociali perché essi scaturiscono dall’inadeguatezza delle vecchie politiche nel proteggere la maggioranza invisibile nel contesto della grande trasformazione. In sostanza, gli effetti negativi di questo tumultuoso cambiamento sono stati accresciuti esponenzialmente dalla mancata riforma del nostro sistema di welfare. La terziarizzazione, con il crollo del numero di occupati nel settore industriale, ha reso molto più difficile la protezione dei lavoratori a rischio povertà. L’economia fordista funzionava grazie ai bassi tassi di disoccupazione e alla garanzia di un impiego stabile. Il cittadino difficilmente cambiava o perdeva il suo lavoro, e la protezione sociale era quindi concentrata sul garantire uno standard di vita decente dopo la fine della carriera e a proteggere chi si fosse trovato senza reddito per una causa estrema. In pratica, il welfare era concentrato sulle pensioni di anzianità5 e quelle d’invalidità,6 sui pochi sussidi per chi si trovava momentaneamente escluso dalla forza lavoro (la cassa integrazione), e sulla protezione sociale delle vedove. A questo va aggiunto che, seguendo i principi stabiliti da Henry Ford,7

Che difatti costituiscono la spesa più onerosa. Per chi non poteva accedere al mercato del lavoro per ragioni d’inabilità fisica o mentale. 7 Illustrati nel terzo capitolo. 5 6

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un operaio/cittadino ben remunerato è anche un buon consumatore, capace di mantenere la domanda interna del paese a livello tale da «far girare» l’economia. Per questa ragione, l’organizzazione sociale fordista garantiva adeguate retribuzioni attraverso la contrattazione collettiva e l’indicizzazione dei salari.8 Tuttavia, la progressiva trasformazione del mercato del lavoro e il cambio nelle politiche monetarie9 hanno reso il vecchio welfare inadeguato. I primi a subire tale inadeguatezza sono stati i lavoratori poco qualificati. Essi riuscivano prima, grazie al sistema fordista, a trovare delle mansioni da svolgere (anche se molto umili) in fabbrica, oppure venivano impiegati nel settore pubblico. Ma con la fine del fordismo, la terziarizzazione dell’economia e il rigido controllo del debito statale, essi non hanno più la possibilità di trovare un posto stabile nell’economia dei servizi;10 ciò contribuisce a rendere più duraturi i periodi di disoccupazione.11

Cosa che nel nostro paese fu realizzata attraverso la Scala mobile: un sistema che permetteva incrementi automatici degli stipendi al variare del tasso d’inflazione. 9 Che, come descritto nel capitolo precedente, hanno fortemente ridotto i margini degli Stati per agire su debito, svalutazione e inflazione. 10 Approfondimenti: G. Bonoli, The Politics of the New Social Policies: Providing Coverage Against New Social Risks in Mature Welfare States; P. Pierson, Irresistible Forces, Immovable Objects: Post-Industrialism Welfare States Confront Permanent Austerity. 11 Approfondimento: A. Gorz, Metamorfosi del lavoro: critica 8

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Altresì, la terziarizzazione dell’economia non ha colpito solo i lavoratori poco qualificati. Anche gli altri hanno visto una drastica riduzione del loro potere d’acquisto e della loro stabilità contrattuale. L’impiego in fabbrica permetteva ai cittadini di partecipare a processi caratterizzati da incrementi costanti della produttività, sulla base dei quali era possibile ottenere aumenti salariali di anno in anno. In linea, appunto, con l’idea di Ford che a una produttività superiore dovesse corrispondere una maggiore retribuzione. Simili incrementi sono quasi impossibili da raggiungere nella maggior parte dei servizi che caratterizzano l’economia odierna.12 Questa precarizzazione della forza lavoro è stata aggravata dalle riforme che quasi tutti i paesi europei hanno intrapreso negli anni Novanta per combattere la disoccupazione.13 Infatti la ricetta dei governi per aumentare l’occupazione è stata ridurre la legislazione che protegge i lavoratori e aumentare la flessibilità. In Italia, ciò ha portato alla creazione di una giungla di contratti «atipici».14 Gli escamotage offerti da una simile

della ragione economica. È il caso di sottolineare ancora una volta (come abbiamo fatto nel secondo capitolo) che i disoccupati di lungo periodo costituiscono oltre la metà del totale. 12 Approfondimento: P. Pierson, Irresistible Forces, Immovable Objects: Post-Industrialism Welfare States Confront Permanent Austerity. 13 Discuteremo in dettaglio quelle italiane nel prossimo capitolo. 14 Cioè al di fuori del «tipico» contratto a tempo indeterminato.

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selva normativa sono stati usati spesso dagli imprenditori per ridurre il costo del lavoro e rimanere così competitivi.15 La ridotta capacità del sistema di garantire incrementi di produttività favorendo la redistribuzione del reddito, come avveniva nel periodo fordista, è anche dovuta al fenomeno della mobilità funzionale del capitale.16 Si tratta, come descritto nel terzo capitolo, del progressivo spostamento di capitali in precedenza investiti in attività produttive verso le più redditizie attività speculative dei mercati finanziari. Questo spostamento ha avuto ricadute sociali enormi, in quanto gli investimenti di tipo speculativo arricchiscono pochi soggetti e non creano occupazione diffusa. La limitata capacità (e spesso volontà) di tassare i profitti provenienti da simili operazioni ha ulteriormente contribuito ad accrescere le disuguaglianze e limitato le capacità di spesa degli Stati per correggere, con politiche sociali adeguate, i «nuovi fallimenti» del mercato.

La crescita esponenziale della precarietà lavorativa trova in questa pratica la propria radice; ma, come descritto nel secondo capitolo, l’instabilità e l’incertezza che crea per i lavoratori non si limita ai soggetti assunti con queste forme contrattuali: sta divenendo un fenomeno sistemico. E questo perché i precari assumono la funzione di riserva di lavoro sottopagato a cui attingere, producendo un meccanismo che pone sotto pressione anche i lavoratori tipici. 16 Approfondimenti: M. Watson, Rethinking Capital Mobility, Re-Regulating Financial Markets; M. Watson, The Political Economy of International Capital Mobility. 15

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A tali processi si è poi accompagnato l’ingresso delle donne e dei migranti all’interno della forza lavoro. Il modello sociale fordista aveva relegato le donne a una posizione completamente subalterna: esse, pur dovendo occuparsi di molte delle attività su cui si basava il processo di produzione, non hanno ottenuto in Italia né una remunerazione per il lavoro svolto né un sostegno da parte del sistema di welfare. I compiti a loro affidati comprendevano la cura dei figli, il sostegno agli anziani e ai familiari malati, e anche molte attività domestiche che mettevano l’operaio in condizione di preoccuparsi solo del lavoro in fabbrica.17 L’unica remunerazione che le donne ricevevano era la garanzia di un salario per il partner e un sussidio nel caso in cui quell’appoggio fosse mancato (per divorzio o vedovanza). Questa descrizione dei rapporti sociali non vuole ridurre le relazioni uomo-donna a una pura transazione economica, ma piuttosto porre l’accento sulla natura patriarcale del fordismo. La rigida divisione del lavoro tra i generi, unita al maschilismo culturalmente dominante nel nostro paese, ha portato le donne a essere «motore non retribuito» della produzione sociale di ricchezza nel periodo fordista.18

L’ingresso massiccio delle donne nel mondo del lavoro ha scardinato questo sistema. Infatti il tasso di occupazione femminile nella fascia di età tra i 15 e 64 anni è passato dal 33,5% del 1977 al 47,1% del 2012. Fonte: Occupati e disoccupati: dati ricostruiti dal 1977. 18 Un ruolo molto simile a quello assunto dalla maggioranza invi17

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Quindi, se da un lato l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha permesso al paese di sfruttare meglio (anche se non abbastanza) capitale umano precedentemente inespresso, e ha in parte ridotto i casi di dipendenza economica dal partner, dall’altro ha generato crescenti difficoltà nel conciliare la vita lavorativa e quella familiare.19 Molte donne si sono così ritrovate a gestire un doppio carico: portare avanti una professione e sostenere la maggior parte del lavoro di cura e domestico. A ben vedere, è stato proprio l’ingresso delle donne nell’economia formale a svelare il valore monetario del lavoro di cura: un costo che al giorno d’oggi molte famiglie affrontano pagando rette per asili privati e/o collaboratori domestici (e badanti). In un simile contesto, i disagi creati dalla quasi totale assenza di servizi pubblici per l’infanzia (e dal costo elevato del settore privato nella loro corresponsione)20 sono stati parzialmente mitigati dai migranti.21 Essi, tuttavia, vengono spesso «assunti» in nero e sono

sibile che, come descritto nel secondo capitolo, continua a fornire un aiuto considerevole nel lavoro di cura senza essere sufficientemente retribuita. 19 La cui responsabilità è rimasta quasi esclusivamente sulle spalle delle donne, a causa delle difficoltà nel modificare la cultura patriarcale del nostro paese. 20 L’effetto prodotto da tale mancanza non costituisce soltanto un disagio per i genitori, ma anche un freno alla partecipazione delle donne al processo produttivo. 21 Impiegati in modo massiccio nelle attività di cura, come discusso nel secondo capitolo.

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quindi privi di accesso al sistema di protezione sociale, pur contribuendo in modo determinante alla tenuta economica del paese. Secondo uno studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (meglio nota come Ocse, o con l’acronimo inglese Oecd) riportato dal «Sole 24 Ore», in Italia i migranti sono contributori netti dello stato sociale: ciò significa che, al contrario di quanto sostiene la vulgata dominante, le tasse da loro pagate superano di gran lunga i servizi e i trasferimenti monetari che ricevono in cambio.22 Ai cambiamenti generati dalla terziarizzazione dell’economia, all’inserimento massiccio di donne e migranti nella forza lavoro e all’evoluzione dei modelli familiari, va aggiunto anche un altro aspetto fondamentale per comprendere la diffusione dei nuovi rischi sociali: l’invecchiamento della popolazione. In particolare, questo fenomeno ha contribuito alla crescita della spesa nazionale, riducendo i margini di manovra per investire nei servizi pubblici. L’invecchiamento della popolazione, infatti, crea una forte pressione sul welfare attraverso la crescita esponenziale delle uscite pensionistiche e sanitarie.23 È giusto

Fonte: R. Miraglia, L’Ocse: l’impatto del welfare pagato agli immigrati è quasi irrilevante. 23 Ovvero i due comparti più importanti del nostro stato sociale, che rappresentano circa l’80% della spesa. Fonte: Socx. 22

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ricordare che, in uno dei paesi più vecchi al mondo, la spesa sociale «consumata» da un ultrasessantenne è quattro volte superiore a quella dedicata a un venticinquenne.24 Riassumendo, i fattori epocali di cambiamento descritti, in concomitanza con la fine del fordismo, hanno contribuito a rendere il tradizionale welfare obsoleto. I nuovi rischi sociali, cresciuti in questo contesto, sono andati ad abbattersi soprattutto sulla maggioranza invisibile e priva di protezione sociale: tali trasformazioni hanno contribuito in modo determinante alla sua atomizzazione e incapacità di mobilitarsi collettivamente, per cambiare un welfare ingiusto e non al passo con le esigenze del paese. Lenire i nuovi rischi sociali: una storia di interessi contrapposti Un progetto politico che voglia incontrare il consenso della maggioranza invisibile non può non partire dall’elemento più importante per ridurre il suo malessere: la riarticolazione completa del welfare.25 Le ristrutturazioni subite dagli amQuesti elementi dovrebbero portarci, ancora una volta, a discutere su come usare con intelligenza i servizi all’infanzia e l’afflusso di nuovi migranti, per modificare la demografia del nostro paese e ridurre la spesa sociale assorbita dagli anziani. 25 Una ricognizione del livello di partecipazione politica fra le 24

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mortizzatori sociali nelle ultime decadi sono state parziali, improntate a una progressiva riduzione del loro costo e attente a non intaccare gli interessi di categorie con forti rappresentanze politiche e sindacali. La progressiva trasformazione del welfare ha infatti incontrato una grande resistenza, che è riuscita a limitare l’erosione dei diritti acquisiti.26 Queste forme di ostruzionismo si sono sviluppate attorno a interessi particolari, capaci di condizionare lo sviluppo di una protezione sociale nuova e inclusiva a vantaggio della maggioranza invisibile. I principali elementi che

varie componenti della maggioranza invisibile dovrebbe invitarci al pessimismo, perché i soggetti meno protetti dal welfare state sono anche sottorappresentati nei partiti e nei sindacati, e il loro voto tende a essere più frammentato rispetto a quello di altre categorie sociali. Tuttavia quest’analisi è limitata, per due ragioni. Primo, la crisi sta esacerbando le contraddizioni sociali che hanno portato all’emergere della maggioranza invisibile, rendendole sempre più evidenti. Secondo, la scarsa partecipazione e la conseguente debole rappresentazione politica della maggioranza invisibile sono anche dovute ai limiti delle strutture politiche e sociali esistenti. Lo scollamento tra la nuova composizione del paese e le sue strutture di rappresentanza non può essere interamente attribuito alle difficoltà della maggioranza invisibile di interagire con i vecchi organismi. Esso va anche inputato ai limiti di partiti e sindacati nel rapportarsi con le sfide del presente: una marcata incapacità di intercettare il consenso di questo gruppo sociale che sta aprendo nuovi spazi politici. Il boom elettorale del MoVimento 5 Stelle è indicativo da tale punto di vista. Torneremo su questo ragionamento nella seconda parte del libro. 26 Approfondimento: P. Pierson, Irresistible Forces, Immovable Objects: Post-Industrialism Welfare States Confront Permanent Austerity.

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hanno limitato il processo di trasformazione sono stati: la pressione elettorale esercitata dai garantiti dal welfare fordista e la difficoltà a riformare le strutture istituzionali create durante quel periodo.27 Primo, i beneficiari dello stato sociale fordista sono diventati gruppi sociali capaci di «sanzionare politicamente» (con il voto) chi cerca di colpire i diritti acquisiti. Esiste un legame forte tra le categorie protette dal vecchio welfare e le forze sociali e politiche che hanno contribuito a creare quel sistema di garanzie.28 In aggiunta, le categorie garantite hanno maggiore possibilità di mobilitarsi: difendere è più semplice che attivare individui disarticolati affinché reclamino nuovi diritti. Secondo, la trasformazione dello stato sociale è stata limitata dalla resistenza incontrata nelle arene politico-legislative. Ciò è avvenuto, ad esempio, quando si è dovuto far ricorso a maggioranze qualificate, o quando il potere giudiziario ha impedito la modifica di leggi e meccanismi favorevoli ai garantiti. Un caso eclatante, che riassume alla perfezione tutte queste forme di resistenza messe in atto dai garantiti e dai loro rappresentanti, è quello delle politiche pensionistiche.29

Approfondimento: ibidem. Proprio questo legame ha prodotto basi elettorali capaci di opporre una resistenza ferrea all’erosione delle forme di protezione sociale sviluppate durante il fordismo. 29 Le molteplici riforme, condotte a partire dal 1992, non hanno intaccato l’ingiusto privilegio di chi ha iniziato a lavorare prima 27 28

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In generale, nel caso italiano, è interessante mettere a fuoco la tensione tra chi ha cercato di ridurre la spesa sociale, proponendo tagli del welfare di stampo neoliberista, e chi vi si è opposto strenuamente, difendendo il vecchio e inefficiente sistema fordista e i suoi famosi diritti acquisiti. Le scelte dei governi si sono così susseguite svantaggiando sempre lo stesso gruppo, quello più debole: la maggioranza invisibile. Il taglio neoliberista della protezione sociale è stato applicato solo ai lavoratori entrati sul mercato dopo il 1996; gli altri, i garantiti, sono riusciti, grazie alla loro forza di rappresentanza politica e sindacale, a restare ancorati al mondo fordista. Questo ha comportato l’applicazione di un neoliberismo selettivo, durissimo con la maggioranza invisibile e quasi inesistente per i garantiti. Anche da questo punto di vista sarebbe ora di svecchiare il nostro dibattito pubblico. Non ha senso contrappore una visione neoliberista del vecchio welfare a una garantista. Oggi chi soffre davvero – la maggioranza invisibile, appunto – vive in un contesto neoliberista in cui non esistono le protezioni sociali per le quali si battono i garantiti dal vecchio sistema, con i loro partiti e le loro organizzazioni sindacali. Per questa radel 1978 e si ritrova ad avere una pensione molto più alta di quella per cui ha contribuito. Per una discussione completa sulle riforme del sistema pensionistico, e un’analisi della sua iniquità complessiva, si può far ricorso all’approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente, in particolare il capitolo Il prezzo del passato.

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gione, il conflitto sociale (ovvero la lotta democratica per far prevalere interessi contrapposti) da cui si determinerà il futuro del nostro sistema di protezione sociale (e in un certo senso dell’intero paese) riposa su tre blocchi distinti e non perfettamente rappresentati dai partiti politici in campo: 1. I neoliberisti, che vogliono ridurre il perimetro del welfare state, sostituendo in tutto o in parte alcune delle sue funzioni con assicurazioni private e prestazioni fornite dal mercato. C’è da dire che questa posizione non è mai stata rappresentata appieno dalla destra berlusconiana, la quale non ha formulato una strategia che includesse un vasto piano di riduzione della spesa pubblica e una completa liberalizzazione del mercato (come dimostrato dal caso emblematico degli ordini professionali).30 2. I garantiti, che vogliono difendere lo status quo del welfare state e che hanno fattivamente contribuito a scaricare i costi della flessibilizzazione sulla maggioranza invisibile (allineandosi al pensiero neoliberista per riformare il mercato del lavoro dopo il 1996). Essi hanno rappresentanti nei

Per una discussione del caso degli ordini professionali si può far ricorso all’approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente, in particolare il capitolo Ordini professionali: corporazioni contro le nuove generazioni?. 30

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maggiori sindacati e partiti politici. Va notato che, con l’avvento dei governi tecnici e delle grandi coalizioni degli ultimi anni, questo blocco sociale si sta spostando progressivamente sempre più verso l’idea neoliberista di riduzione della spesa sociale (anche se di certo non si sono ancora visti tagli significativi dei privilegi). 3. La maggioranza invisibile, figlia della grande trasformazione e della lentezza del sistema-Italia ad adattarsi, nonché unica speranza di cambiamento per il paese. Il dispiegamento di questa forza, esposta ai nuovi rischi sociali, richiede un progetto politico, un racconto collettivo che non è stato ancora formulato. Occorre aggiungere, poi, che oggi molte componenti della maggioranza invisibile non votano più, perché hanno grande sfiducia nel sistema politico (e come dargli torto!). Esse sono alla ricerca di una nuova forma di rappresentanza, che possa farle divenire socialmente e politicamente rilevanti.31 La miopia delle forze neoliberiste e di quelle schierate a difesa dello status quo è evidente: se da un lato l’egemonia neoliberale sta contribuendo a peggiorare le condizioni di vita della maggioranza invisibile, dall’altro la difesa a oltranza 31

Torneremo su questi aspetti nella seconda parte del libro.

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di un welfare inefficiente sta portando a sprecare le già scarse risorse di cui disponiamo. Risorse che dovrebbero essere, invece, canalizzate per lenire i nuovi rischi sociali. Dalla protezione del lavoratore alla promozione della produttività sociale: universalismo e servizi Per lenire i nuovi rischi sociali occorre promuovere un sistema di welfare che non sia più strettamente modellato attorno all’operaio dell’epoca fordista, ma che sappia intervenire sulle criticità odierne e sulle dinamiche degli attuali processi lavorativi, supportando la produttività economica e sociale della maggioranza invisibile. Per produttività sociale intendiamo un concetto più ampio di quello che si fa tradizionalmente coincidere con il termine «produttività». Il welfare, infatti, non deve solo proteggere chi fa parte dell’economia formale, ma anche tutti i soggetti che contribuiscono alla creazione di ricchezza collettiva svolgendo mansioni spesso non monetizzate (come il già citato lavoro di cura).32 Al fine di delineare il punto di partenza per la creazione di questo nuovo modello di welfare, occorre ragionare ancora una volta sulla fine del

Abbiamo discusso nel secondo capitolo di come l’autoriconoscimento della maggioranza invisibile passi appunto per la rivendicazione di queste mansioni, centrali per la società. 32

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fordismo. Con esso il centro della produzione sociale si è spostato dalle grandi concentrazioni industriali alla rete. L’instabilità e la flessibilità dei rapporti di lavoro è uno degli effetti di queste nuove forme di produzione della ricchezza. Esse sono mutevoli, «volatili», e di conseguenza richiedono l’adattamento a cambiamenti repentini. L’unico modo per dare maggiore sicurezza agli individui, in un contesto economico così diverso da quello fordista, consiste nel costruire un welfare universale e basato sui servizi. Un welfare che sappia fare tre cose:33 1. Occuparsi dell’individuo nei momenti di transizione lavorativa. Ciò significa che servono ammortizzatori sociali universali contro la disoccupazione, non soggetti al tipo di contratto posseduto. E in questi momenti di transizione servirà offrire adeguati percorsi di formazione e crescita professionale, perché solo così il lavoratore potrà reinserirsi all’interno del ciclo economico. 2. Occuparsi dell’individuo che abbia scarse competenze o non sia comunque in condizione di guadagnarsi il proprio sostentamento sul mercato. Molto spesso tali

Ovviamente la rapida descrizione dei tre bisogni cui un moderno welfare dovrebbe rispondere include anche politiche già esistenti nel vecchio modello fordista, come ad esempio quelle sanitarie (parte della terza categoria, assieme agli altri servizi). 33

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persone svolgono un’attività non remunerata, magari di cura, o devono confrontarsi con un mercato «intermittente» che non gli garantisce un reddito continuo. Pensate a molti anziani, a tante donne, o ancora ai precari che spesso – pur lavorando e avendo competenze rilevanti da spendere – per via del taglio del costo del lavoro ricevono salari da fame e impieghi saltuari. Porsi questo problema in termini strutturali significa dare vita a politiche universali di protezione, come il reddito minimo garantito o la corresponsione gratuita di alcuni servizi fondamentali. 3. Occuparsi di tutti i cittadini, fornendo le prestazioni (oggi non pienamente garantite nel paese) che rendono più agevole la vita delle persone e permettono loro di accrescere la produttività sociale. Un esempio su tutti quello degli asili, strumento fondamentale per conciliare lavoro e vita familiare e per investire sul futuro dei nostri figli.34 Come dimostrato dal sociologo danese Esping-Andersen, non esiste un investimento pubblico migliore, perché è molto più semplice acquisire conoscenze di base da bambini piuttosto che da adolescenti o da adulti (pensate solo alle lingue

Fornendogli sin dalla più tenera età la formazione di alto livello cui hanno diritto. 34

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straniere).35 Un euro investito negli asili vale molto di più di un euro investito più avanti nel processo formativo (o, se è per questo, di un euro non investito!).36 Tuttavia, come ampiamente descritto in Chi troppo chi niente, oggi l’Italia fa scelte diverse e continua con il suo vecchio sistema di welfare a produrre disuguaglianze, a dare troppo a una piccola fetta di supergarantiti e a basarsi sui trasferimenti monetari piuttosto che sui servizi. Gli scompensi che questo costoso e inefficace sistema di welfare produce sono sotto gli occhi di tutti: abbiamo una spesa sociale simile a quella di un paese efficiente come la Finlandia ma servizi sociali terribilmente lacunosi.37 È proprio partendo dagli scompensi generati dalla fine del fordismo, dalla necessità di lenire i nuovi rischi sociali e dalla volontà di rendere il welfare state funzionale per accrescere la produttività sociale della maggioranza invisibile, che bisogna progettare gli assi portanti delle future politiche. Di seguito ne menzioneremo solo alcuni, quelli che ci sembrano più calzanti per avviare il dibattito: la garanzia di un alloggio dignitoso, il miglioramen-

Approfondimento: G. Esping-Andersen, La rivoluzione incompiuta. 36 È bene chiarire come tutto ciò non significhi che non si debba investire negli altri momenti formativi. 37 Approfondimento: Chi troppo chi niente, in particolare il capitolo Il prezzo del passato. 35

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to dei trasporti pubblici, l’incentivo alla formazione continua e le politiche di sostegno al reddito e alla famiglia.38 Il diritto alla casa è un vecchio campo di lotta sociale, al quale il paese rispose nel secondo dopoguerra con un piano ambizioso di costruzione di alloggi popolari. Oggi il problema si ripropone per la maggioranza invisibile, che incontra difficoltà crescenti nel pagare affitti o contrarre mutui nelle città.39 Le dinamiche di tali prezzi sono direttamente connesse ai meccanismi di finanziarizzazione dell’economia che abbiamo discusso nel terzo capitolo: gli immobili sono diventati riserve di valore, il cui prezzo può essere gonfiato e messo a bilancio da banche, imprese e società finanziarie. Questo sviluppo del mercato tende a generare bolle immobiliari che, specie nelle grandi città, contribuiscono alla crescita del prezzo delle case e, di conseguenza, alla penuria di alloggi alla portata della maggioranza invisibile. In questo contesto, anche gli affitti risultano spesso proibitivi, perché chi può permettersi di acquistare una casa al costo corrente cerca poi di

Di cui abbiamo già discusso analizzando l’importanza d’investire nei servizi per l’infanzia. 39 Dove il costo delle case è assolutamente spropositato rispetto ai salari. Per un’analisi accurata sulle dinamiche del mercato immobiliare in Italia e su quello degli affitti, si può far ricorso all’approfondimento: M. Baldini e M. Poggio, The Italian Housing System and the Global Financial Crisis. 38

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ricavarne una rendita significativa, o quantomeno di affittarla a un prezzo sufficiente per coprire il mutuo.40 Nonostante gli italiani propendano storicamente all’acquisto della casa, i soggetti che compongono la maggioranza invisibile – e in particolare quelli che vivono nelle grandi città – sono sempre più esclusi dal mercato immobiliare, e costretti a investire quote considerevoli del loro reddito in affitto. Per questa ragione hanno tutto l’interesse a richiedere politiche per la casa che possano contribuire a calmierare i prezzi degli affitti.41 Nell’economia della conoscenza42 i trasporti, la formazione e le comunicazioni devono essere considerati beni pubblici, e non privati, perché In Italia i prezzi delle case sono aumentati molto più rapidamente dei redditi delle famiglie. Nei paesi con meno di 20.000 abitanti il rapporto fra il reddito monetario e il valore dell’abitazione è salito tra il 1986 e il 2004 da 3,33 a 5,47, mentre questo stesso rapporto è salito da 3,87 a 7,15 nei centri con oltre 500.000 abitanti. Nonostante la crisi abbia comportato una riduzione dei prezzi delle case, i salari stagnanti continuano a renderne il costo relativo (ai salari) molto elevato. Fonte: G. D’alessio e M. Gambacorta, Questioni di economia e finanza. 41 Approfondimento: The Italian Housing System and the Global Financial Crisis. 42 L’economia della conoscenza (knowledge economy) è una disciplina che discute la conoscenza come bene economico e i suoi effetti sul benessere collettivo e individuale. Per una definizione più completa, vedi la voce Economia della conoscenza redatta da R. Livraghi per il portale dell’Università degli studi di Parma, consultabile all’indirizzo sde.unipr.it/didattica/att/1491.3825. file.pdf. 40

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contribuiscono all’efficienza e alla produttività di tutto il sistema-paese. Che ricaduta avrebbe sulla disponibilità di lavoro una mobilità più rapida e funzionale dei pendolari nei territori metropolitani? Che effetto avrebbe sulla produttività la presenza di corsi di formazione a prezzi accessibili? Quanto influirebbe un accesso veloce e universale a internet e altre tecnologie informatiche sull’efficienza dei lavoratori? Quale sostegno darebbe, a parti consistenti della maggioranza invisibile (che spesso svolgono mansioni di cura non pagate), una politica seria per l’infanzia e la cura degli anziani? Queste domande illustrano come la spesa pubblica non debba per forza configurarsi come assistenzialismo, ma anzi possa dimostrarsi nel lungo periodo un investimento sul sistema produttivo.43 L’ultimo asse su cui si potrebbe sviluppare un nuovo welfare riguarda la dibattuta questione del reddito.44 Esistono forme transitorie di sostegno al reddito, come il sussidio universale di In tal senso, la lotta della maggioranza invisibile per l’egualitarismo efficiente e l’accesso a simili «beni» potrebbe essere sostenuta anche dalla classe media qualificata e dagli studenti, che avrebbero tutto l’interesse a usufruire di servizi del genere. 44 Già Gorz, oltre due decadi fa, discuteva la necessità di integrare una riduzione dell’orario di lavoro con la creazione di un reddito di base. Approfondimenti: A. Gorz, Metamorfosi del lavoro: critica della ragione economica; A. Gorz, On the Difference Between Society and Community, and Why Basic Income Cannot by Itself Confer Full Membership of Either. 43

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disoccupazione,45 e forme che invece possono accompagnare l’individuo per periodi più lunghi, ad esempio il reddito di base. A questo proposito, negli ultimi anni ha preso piede un vivace confronto su quale forma di reddito di base sarebbe eventualmente più opportuno adottare, e sui rischi connessi all’introduzione di un tale sostegno. Due sono le forme più discusse: il reddito di cittadinanza e il reddito minimo garantito. Il primo è un sussidio svincolato dal reddito e dalla ricchezza personale. Un provvedimento del genere è oggi una mera opzione teorica; esiste, infatti, in due sole aree del mondo, sotto forma di oil dividend (letteralmente, «il dividendo del petrolio»): in Alaska e Iran una parte dei proventi ottenuti dall’estrazione del petrolio viene equamente divisa fra la popolazione. Questa soluzione è stata proposta sia da economisti neoliberisti (come Milton Friedman) sia da marxisti (come André Gorz) in quanto «risposta postmoderna» alla crescente disoccupazione generata dalla deindustrializzazione nei paesi occidentali. Il reddito minimo garantito, invece, è una misura più circostanziata, adottata in tutti i paesi dell’Europa occidentale (a eccezione di Italia e Grecia). L’introduzione di tale strumento nel sistema di protezione sociale comporta che nessun

Che abbiamo discusso in precedenza, sottolineando come sia di fondamentale importanza per mantenere efficiente e formata la forza lavoro. 45

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cittadino possa scendere al di sotto di un certo livello di reddito, stabilito dal legislatore. Lo Stato si fa carico di versare un contributo a chiunque non raggiunga la soglia stabilita.46 Purtroppo, nel dibattito pubblico italiano, il reddito di cittadinanza e il reddito minimo garantito vengono quotidianamente confusi. Tuttavia, mentre il primo è a oggi insostenibile dal punto di vista finanziario, il secondo, seppur scegliendo una soglia minima bassa, potrebbe essere creato già da subito. La sua introduzione non costituirebbe una rivoluzione del nostro sistema sociale: sarebbe il riconoscimento di un principio di base in linea con gli altri paesi europei, e un’armonizzazione di varie misure già esistenti in alcune regioni (come la Toscana) a beneficio di tutti i cittadini italiani. Ci sono tre dimensioni fondamentali da comprendere, quando si parla di reddito minimo garantito: il suo potenziale effetto, la sua generosità e le coperture necessarie per sostenerlo. Esistono studi che dimostrano come il reddito minimo garantito potrebbe avere effetti molto positivi (a fronte di una spesa abbastanza limitata) nel ridurre il rischio di povertà e rilanciare i consumi.47 A tal proposito, è stato stimato che garantire un Il contributo può poi essere maggiorato a seconda del numero di figli e della composizione familiare. 47 Approfondimento: P. Monti e M. Pellizzari, Implementing a Guaranteed Minimum Income in Italy: An Empirical Analysis of Costs and Political Feasibility. 46

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reddito minimo di 400 euro al mese costerebbe 7,1 miliardi di euro (circa lo 0,5% del prodotto interno lordo) e sosterrebbe l’8% delle famiglie italiane. Attualmente, solo il 27% delle famiglie al di sotto della soglia di povertà sono supportate dal nostro sistema di welfare; con questa misura dal costo non elevatissimo la percentuale salirebbe al 91% (tuttavia sarebbe necessario introdurre un accurato dispositivo antifrode, vista la diffusione dell’evasione fiscale nel nostro paese).48 Per quanto riguarda le coperture, come già argomentato in Chi troppo chi niente, possono essere trovate in un primo momento tassando alcune sacche di privilegio che hanno contraddistinto lo sviluppo del welfare italiano. Una su tutte, quei 2 milioni di pensioni superiori ai 2000 euro cui dedichiamo il 31% della nostra spesa pensionistica complessiva. Pensioni alle quali, lo abbiamo più volte ricordato, i beneficiari hanno contribuito in media per circa la metà, grazie al generosissimo sistema retributivo. Non si tratta ovviamente di far calare la scure su chi percepisce 2000 euro al mese, ma di proporre una tassazione proporzionale che parta da un piccolo importo, su chi riceve una cifra di poco superiore (una tassazione del 2 o 3%), e salga in modo deciso su chi ha pensioni sopra i 5000 euro (oltre il 20%). Tuttavia un provvedimento del genere incontra le forti resistenze dei garantiti, come 48

Approfondimenti: ibidem; E. Ferragina, Chi troppo chi niente.

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dimostrato da una recente sentenza della Corte costituzionale.49 È importante discutere di questi temi in modo concreto e preciso, abbandonando la demagogia di chi fa promesse impossibili da mantenere, ma combattendo anche l’ipocrisia di chi sfrutta la confusione per affermare che il reddito minimo garantito costerebbe troppo e si configurerebbe solo come assistenzialismo. Non è così. Come ci spiegheremmo, altrimenti, che tale misura esiste in paesi competitivi quali la Germania o la Svezia? Oltre all’implementazione tecnica delle misure proposte, è utile affrontare altre due questioni: una riguarda la funzione che dovrebbe avere il nuovo welfare, l’altra concerne il dibattito pubblico sullo stato sociale, strumentalizzato a svantaggio della maggioranza invisibile. In merito alla funzione del nuovo welfare, esso dovrebbe perseguire tre obiettivi: 1. ridurre i rischi sociali con cui si confronta la maggioranza invisibile (pensate alle politiche per la casa o ai servizi per l’infanzia); 2. ridurre la polarizzazione della ricchezza (considerate l’impatto del reddito minimo garantito sui tassi di povertà); 3. rendere più efficiente il sistema (pensate agli effetti del reddito minimo sulla do-

Fonte: D. Comegna, Il prelievo (difficile) sulle «Pensioni d’Oro». 49

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manda interna, alla transizione dei lavoratori verso nuovi settori grazie ai sussidi universali di disoccupazione, all’acquisizione di competenze con i corsi di formazione e al ruolo dei servizi sociali per permettere a tutti di lavorare in un contesto più funzionale). In sintesi, le misure proposte si configurerebbero come una rete di sicurezza, come uno strumento di libertà per l’individuo e come un modo per accrescere l’efficienza del sistema-paese (quello che abbiamo definito appunto egualitarismo efficiente). Riguardo al dibattito pubblico sul tema, per contribuire a creare la legittimità sociale e politica necessaria a modificare il nostro sistema di welfare è importante opporsi tanto alla logica neoliberista quanto a quella dei garantiti. Bisogna riconoscere che in Italia il welfare state è stato utilizzato in modo inefficiente e ingiusto, ma anche che proporre nuove misure universali non vuol dire rifugiarsi nell’assistenzialismo. Tutt’altro: creare un sistema universale di protezione sociale significa indebolire i potentati politico-amministrativi che hanno gestito il welfare state in modo particolaristico, facendo leggi e leggine per favorire alcune categorie e ignorando la maggioranza invisibile. Chiedere di riconfigurare lo stato sociale spendendo in servizi improntati a principi universalistici è un approccio antiassistenziale. Misure quali il reddito minimo e i servizi per

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l’infanzia dovranno essere garantite a tutti, o limitate solo sulla base di parametri chiari e non con astruse regolamentazioni. Il particolarismo e l’inefficienza italiani non si abbattono tagliando la protezione sociale, ma sostituendo principi di equità a quelli arbitrari cui siamo stati abituati. In questo senso la maggioranza invisibile non può più farsi abbindolare né dalla retorica neoliberista, che vorrebbe tagliare anche lì dove il welfare serve e funziona, né da quella dei garantiti, interessati a difendere componenti dello stato sociale che sono inefficienti e producono disuguaglianza. Come abbiamo sottolineato in precedenza, è arrivato il momento per la maggioranza invisibile di uscire dall’angolo in cui il dibattito fra neoliberisti e garantiti l’ha relegata. È interessante a questo proposito – prima di passare, nella seconda parte del libro, allo studio delle potenziali modalità di organizzazione della maggioranza invisibile – analizzare come le forze progressiste che in teoria avrebbero dovuto essere vicine ai suoi bisogni, l’abbiano invece abbandonata a se stessa. Questo è il tema del prossimo capitolo.

6 Il requiem della sinistra?

«Tutti noi ce la prendiamo con la storia ma io dico che la colpa è nostra, è evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o destra.» Così Giorgio Gaber rifletteva ironicamente sull’affievolimento delle ideologie che hanno caratterizzato lo sviluppo delle moderne società industriali. Ma davvero, prendendo per buono il suo ragionamento e il mantra ripetuto da più parti, ormai non ha più senso parlare di destra e di sinistra? Davvero la società è cambiata a tal punto da mettere l’individuo al centro di ogni discorso e rendere obsoleti i ragionamenti collettivi? Davvero chi parla di principi progressisti e visioni comuni di cambiamento vive fuori dalla storia? O, piuttosto, le forze politiche tradizionalmente di sinistra (specie partiti e sindacati), allineatesi al neoliberismo e vittime dei loro stessi successi nel proteggere alcune fette della popolazione, hanno dimenticato che «l’arma» del progressista è lo studio delle trasformazioni sociali al fine di rendere i più deboli capaci di agire in gruppo contro un sistema ingiusto? Partiremo da queste domande per illustrare come proprio le forze progressiste europee

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e italiane abbiano contribuito all’affermazione del neoliberismo e ignorato l’emergere della maggioranza invisibile. Lo scopo ultimo è dimostrare che partiti e sindacati di sinistra, per una lunga serie di circostanze e opportunità politiche, non sono più capaci di difendere i bisogni dei più deboli. Tuttavia ciò non significa che una nuova visione collettiva di società non possa rinascere, sotto l’impulso delle crescenti disuguaglianze e palesi ingiustizie che ci si parano davanti. Prima di intraprendere questo piccolo viaggio all’interno della sinistra europea e italiana, occorre mettere alcuni paletti e distinguere, seppur in modo molto semplice, le tre visioni di società che hanno lungamente animato il dibattito pubblico: una di destra, una liberale e una di sinistra. La destra tradizionale vede lo Stato come un organismo vivente, in cui diversi soggetti e gruppi sociali contribuiscono armonicamente allo sviluppo della nazione. Ci sono i centri di comando, e poi le braccia e le istituzioni che garantiscono l’ordine. Questa visione considera il benessere della nazione come l’obiettivo ultimo di tutti i suoi membri, indipendentemente dalla condizione dei singoli individui. I liberali tendono a considerare la società come una libera serie di interazioni fra individui. Tali interazioni sono guidate dall’obiettivo di massimizzare l’interesse personale attraverso il mercato. La «mano invisibile» del mercato, poi, dovrebbe bilanciare i comportamenti autointeressati eccessivi, garan-

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tendo l’equilibrio e il funzionamento dell’intera società.1 La sinistra, nelle sue diverse varianti, ha avuto quale elemento ideologico di base la visione della società non come un corpo unico (l’idea della destra) o una sommatoria di libere azioni individuali (il pensiero dei liberali), ma piuttosto come il campo di scontro fra gruppi sociali con interessi contrapposti. Questa semplice distinzione ci permette di inquadrare nel resto del capitolo come la sinistra (europea e italiana) si sia progressivamente discostata dal proprio credo, abbracciando il pensiero neoliberale. 2 Un processo che ha contribuito in modo decisivo alla sua stessa incapacità di riconoscere e rappresentare la maggioranza invisibile: una sorta di «cecità diffusa» che, ormai da anni, ha tolto rappresentanza politica agli interessi dei più deboli. La parabola della socialdemocrazia europea: dalla lotta di classe alla terza via All’inizio del Novecento la sinistra europea aveva il chiaro obiettivo di passare dal capitalismo al socialismo, organizzando la lotta di operai e

Anche se questa è una volgarizzazione delle teorie su cui si basa buona parta del pensiero liberale, ciò che ci interessa mettere in evidenza è la centralità dell’individuo in simili visioni. 2 Non abbiamo qui la pretesa di descrivere in modo esaustivo il lunghissimo dibattito su destra, sinistra e liberalismo. Approfondimento: N. Bobbio, Destra e sinistra. 1

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contadini negli spazi offerti dalle democrazie liberali.3 Tuttavia, con l’affermazione del modello sociale fordista, le sue inclinazioni rivoluzionarie si moderarono, focalizzandosi, invece, sul raggiungimento di un maggiore benessere per la classe operaia all’interno del sistema capitalistico.4 È importante rilevare come due congiunture storiche abbiano permesso alle forze sociali e politiche di sinistra di espandersi e mediare fra le istituzioni, l’imprenditoria e i gruppi che esse rappresentavano.5 Primo, il potere contrattuale dei lavoratori era cresciuto in parallelo ai continui incrementi di produttività: questi, come già illustrato, secondo i precetti di Ford dovevano essere investiti anche nei salari degli operai, sostenendo quindi il consumo di massa. In aggiunta, l’organizzazione sociale fordista facilitava lo sviluppo di un’iden-

Approfondimento: M. Shalev, The Social Democratic Model and Beyond: Two Generations of Comparative Research on the Welfare State. 4 In questo senso la svolta imposta dalla terza via blairiana, con l’accettazione dei principi cardine del neoliberismo, presenta qualche forma di continuità con l’evoluzione generale dei partiti di sinistra nel corso del Novecento. Tuttavia occorre rilevare come l’accettazione del mercato e dei principi liberali sia stata molto più marcata negli ultimi vent’anni rispetto al passato. 5 L’enfasi su questi fattori non vuole certo sminuire l’importanza delle lotte operaie che si svilupparono in quegli anni. Senza tali lotte, infatti, i singoli industriali avrebbero cercato di ridurre al minimo l’incremento dei salari, per aumentare i profitti e guadagnare in competitività, e probabilmente non si sarebbe arrivati all’ottenimento degli stessi diritti. 3

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tità comune tra persone che condividevano la quotidianità della fabbrica e dei quartieri operai. Secondo, se da un lato la Guerra fredda aveva estromesso molti partiti di sinistra dai governi, dall’altro aveva favorito un clima non completamente ostile verso le rivendicazioni dei lavoratori (per la paura di possibili rivolte di stampo socialista). Successivamente l’ascesa del neoliberismo, in parallelo alla grande trasformazione, ha segnato una nuova fase: l’erosione delle basi sociali su cui si fondava la forza dei partiti di sinistra e dei sindacati. In tale contesto, le forze progressiste si sono trincerate (specie in Italia) nella difesa di quelli che abbiamo definito i garantiti,6 contribuendo a scaricare le conseguenze dei cambiamenti globali sulla maggioranza invisibile. Se da un lato la capacità di far pressione sul sistema politico è stata utilizzata soprattutto per difendere le conquiste di welfare ottenute in passato, dall’altro il successo del neoliberismo ha influenzato il dibattito all’interno delle forze progressiste. Un processo di ridefinizione degli obiettivi della sinistra, e in particolare dei partiti socialdemocratici, è così maturato negli anni, plasmandosi in parallelo alla crescente influenza delle logiche di mercato che s’imponevano a livello globale. Il punto di arrivo di questo processo è rappresentato dalla terza via di Tony Blair. Il 6

Un gruppo sociale sempre più ridotto.

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segretario del Partito laburista britannico riuscì, nel 1997, a interrompere diciotto anni consecutivi di governo conservatore,7 con la creazione del cosiddetto New Labour (ovvero un nuovo corso all’interno del partito). La terza via rappresentava il tentativo di coniugare il pensiero neoliberale dominante con l’agenda redistributiva tipica della «vecchia» socialdemocrazia fordista. Si trattava in sostanza di dare un volto umano al capitalismo, senza però sfidare le logiche di fondo che lo caratterizzavano. Questa sintesi politica costituiva una rottura profonda con la visione di sinistra della società che abbiamo discusso, basata sulla presenza di blocchi sociali contrapposti. Tale scollamento avveniva attraverso la piena accettazione delle logiche di mercato, un mercato capace di allocare in modo ottimale le risorse prodotte dalla libera interazione dei singoli individui.8 Le basi teoriche della terza via vanno rintracciate nel lavoro del sociologo Anthony Giddens9 e in due idee fondamentali: «niente diritti senza responsabilità» e «niente autorità senza rappresentanza». Una logica che, di fronte ai cambiamenti globali discussi nei capitoli precedenti, pone l’accento sulla responsabilità Ovvero dall’elezione della Thatcher nel 1979, passando per i due mandati di John Major. 8 Una visione, appunto, più vicina al pensiero liberale che a quello tradizionalmente di sinistra. 9 Approfondimento: A. Giddens, La terza via. 7

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dell’individuo e non sulle cause strutturali del suo malessere.10 La ridefinizione delle politiche in materia di mercato del lavoro rappresenta un chiaro esempio del perseguimento di questo modo di ragionare. Negli ultimi anni, sotto l’etichetta di «attivazione», 11 sono state promosse policies contro la disoccupazione, basate sulla capacità (e responsabilità) dell’individuo di migliorarsi per diventare nuovamente appetibile sul mercato. Il lavoratore, all’interno di questi schemi, riceve un sussidio condizionato al processo di formazione, all’attiva ricerca di un impiego e spesso all’obbligo di accettare qualunque mansione gli venga proposta. Il punto debole di tali politiche non risiede nell’offrire possibilità di formazione professionale o nell’incoraggiare la fattiva ricerca di un lavoro (misure fondamentali per lo sviluppo economico e sociale),12 ma nel presentare un problema collettivo come fosse individuale. Quasi che i tassi di disoccupazione potessero essere ridotti semplicemente intervenendo sulle qualifiche dei singoli disoccupati, e di conseguenza responsabilizzandoli a «tirarsi fuori» da una brutta

Approfondimento: J.M. Ryner, An Obituary for the Third Way: The Financial Crisis and Social Democracy in Europe. 11 Con cui s’intende principalmente «attivazione del disoccupato». 12 E abbiamo discusso proprio nel capitolo precedente, infatti, l’importanza del sussidio universale di disoccupazione abbinato al processo formativo. 10

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situazione. In realtà, laddove esistono congiunture economiche negative e aree particolarmente colpite dalla disoccupazione, sostenere – anche a livello implicito – che la responsabilità sia solo dei singoli è inesatto e ci allontana dalla soluzione del problema. Per quanto si possa contribuire alla formazione di chi cerca un impiego, la disoccupazione rimane un problema collettivo, legato alle forme di organizzazione e consumo della società. Accrescere l’offerta di manodopera in un quadro stagnante – o dove addirittura la domanda aggregata declina – significa in prima battuta incrementare l’esercito di riserva al soldo dell’austerità competitiva (riducendo quindi il costo del lavoro). Da questo punto di vista, la rottura epocale della terza via va ben oltre le politiche del lavoro, e si configura piuttosto come un ripensamento dell’intero sistema di welfare. L’ideale socialdemocratico si fondava sul principio che il singolo dovesse godere di una protezione sociale indipendentemente dalla sua posizione lavorativa, in base a ciò che nella letteratura accademica è definito decommodification,13 cioè la capacità di un sistema di welfare di demercificare l’individuo. Ognuno ha diritto a un’esistenza decente, a prescindere da quanto bene faccia sul mercato. La terza via rigetta l’idea socialdemocratica della

Approfondimento: G. Esping-Andersen, The Three Worlds of Welfare Capitalism. 13

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decommodification abbracciando invece quella neoliberale della responsabilità individuale; e lo fa adducendo due ragioni concatenate: primo, perseguire la decommodification potrebbe ridurre la competitività del sistema-paese nell’economia globale; secondo, quella visione del welfare potrebbe costituire un disincentivo per il lavoratore ad adattarsi (a qualunque costo) alle trasformazioni del mercato.14 Mentre le strategie del vecchio Partito laburista puntavano a ridurre il profitto attraverso programmi di redistribuzione della ricchezza, la terza via si propone di massimizzare l’efficienza economica dei sistemi produttivi lasciando che il mercato si autoregoli. In base a tale visione, la ricchezza socialmente prodotta attraverso i meccanismi di mercato dovrebbe essere utilizzata per misure di sostegno all’offerta – come le citate politiche di attivazione contro la disoccupazione – con l’obiettivo appunto di stimolare ulteriormente l’economia.15 Il rischio (sperimentato pienamente negli ultimi quindici anni in Gran Bretagna) è che l’esposizione assoluta dei singoli lavoratori alla disciplina del mercato, sancita dal «niente diritti senza responsabilità», riduca lo sviluppo di una piena rappresentanza sociale Favorendo invece comportamenti opportunistici di chi userebbe i benefits garantiti dallo stato sociale per lavorare meno (a scapito della produttività). 15 Approfondimento: G.M. Ryner, An Obituary for the Third Way: The Financial Crisis and Social Democracy in Europe. 14

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e politica, minando quindi alla base il secondo cardine della terza via, ovvero il «niente autorità senza rappresentanza». Infatti chi si ritrova da solo, con le proprie paure, sul mercato del lavoro è spesso incapace di organizzarsi per rispondere collettivamente ai problemi sociali. Per questa ragione, come anticipato in precedenza, la terza via rappresenta il momento egemonico dell’ascesa del neoliberismo: quando i principi cardine dell’ideologia dominante vengono assorbiti e applicati anche da chi proveniva da una tradizione politica avversa. Considerata poi la contiguità storica fra i partiti socialdemocratici e i sindacati di stampo progressista, non dovrebbe stupire che anche questi ultimi siano stati pesantemente influenzati da simili cambiamenti. In particolare, come discusso nel quarto capitolo, il processo d’integrazione europea ha innescato meccanismi di austerità competitiva tra i paesi dell’Unione, tali da spingere i sindacati nazionali a sviluppare forme di neocorporativismo attraverso i patti sociali.16 Il fenomeno ha preso corpo nella cosiddetta concertazione, che si basava sull’aprire tavoli tra datori di lavoro, governo e sindacati al fine di raggiungere accordi per incrementare la produt-

Con neocorporativismo si intendono forme di coordinamento con imprenditori e istituzioni, finalizzate a preservare la competitività di diversi settori produttivi. 16

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tività e ridurre i costi del lavoro a livello nazionale. Il limite di questa strategia sta a monte, nel meccanismo di austerità competitiva sviluppato a livello continentale: infatti un’accresciuta competitività a livello nazionale non farà altro che stimolare risposte analoghe (ovvero tese a ridurre il costo del lavoro) negli altri paesi dell’Unione che si confrontano sugli stessi mercati. Il cul-desac cui una simile logica spinge i sindacati può essere superato solo attraverso uno spostamento dell’attività di rivendicazione e coordinamento dal livello nazionale a quello europeo: unicamente così si possono contrastare i meccanismi continentali che portano alla riduzione del costo del lavoro e al taglio del welfare per i non garantiti. Purtroppo, per i nostri sindacati la prospettiva europea continua a rimanere secondaria rispetto a quella italiana.17 La sinistra italiana durante la Prima Repubblica18 Nel secondo dopoguerra, l’Italia trasse vantaggio dal modello d’organizzazione produttiva

Che è concentrata sulla difesa dei lavoratori pubblici, della grande industria (o di quel che ne rimane) e dei pensionati. 18 La sezione che segue non ha nessuna pretesa di illustrare compiutamente la storia recente del nostro paese né della sinistra italiana. L’intento, piuttosto, è quello di richiamare l’attenzione del lettore su alcuni passaggi fondamentali per capire il lento slegarsi delle forze progressiste dalle proprie basi sociali. 17

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fordista, dall’accordo di Bretton Woods e dai programmi di aiuto americani per la ricostruzione. In pochi anni il paese cominciò a rimettersi in piedi e gettò le basi per il boom economico, schierandosi nel blocco occidentale. In un contesto del genere, l’esperienza del governo d’unità nazionale venne presto superata (già nel 1947), con l’esclusione del Partito comunista e l’affermazione di una democrazia cui era ignoto il principio dell’alternanza. Negli anni Sessanta il quadro politico iniziò a cambiare. Dopo il tentativo fallito di Tambroni di portare i socialisti al governo, e le successive aperture di Fanfani, i tre esecutivi guidati da Moro (1963-68) furono caratterizzati dall’appoggio del Psi. Dal punto di vista sociale, crebbe la migrazione di operai dal Sud e dal Nordest verso il triangolo industriale (Milano, Genova, Torino) e l’istruzione secondaria e universitaria si aprì ai giovani di tutte le classi. Queste trasformazioni crearono le condizioni per il fiorire delle lotte operaie e studentesche alla fine del decennio. Il cosiddetto Autunno caldo conferì ai sindacati una grande forza contrattuale e politica, il cui punto più alto è simboleggiato dallo Statuto dei lavoratori del 1970, mentre l’ultima conquista significativa si ebbe con l’introduzione (grazie all’accordo con Confindustria) della Scala mobile nel 1975.19

Come si è già accennato, la Scala mobile introduceva aumenti automatici dei salari al variare dell’inflazione, slegandoli dall’in19

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Così le organizzazioni sindacali assunsero una doppia funzione: da un lato raccolsero i frutti del potere contrattuale dei lavoratori, 20 dall’altro agirono come garanti dell’ordine sociale, convogliando e smorzando le spinte più radicali delle basi movimentiste verso obiettivi accettabili anche per le controparti statali e imprenditoriali. Tuttavia, mentre simili conquiste prendevano corpo, le mobilitazioni operaie e studentesche innescarono la reazione da parte di alcuni apparati dello Stato. Alla strategia della tensione si sommarono così le violenze politiche di gruppi armati, tanto di sinistra quanto di destra. Dal punto di vista economico, la fine degli accordi di Bretton Woods e le difficoltà del modello fordista furono aggravate dalle due crisi petrolifere di cui si è discusso. L’economia fu duramente colpita, e il governo dovette svalutare la lira per due volte, nel 1973 e nel 1976. Infine la nuova stagione politica globale, segnata

cremento di produttività del lavoro. La sua abolizione fu uno dei primi obiettivi, nella transizione italiana verso il neoliberismo. Come discusso nel terzo capitolo, l’arrivo di Volcker alla Federal Reserve americana segnò la svolta verso l’adozione di politiche monetariste tese alla riduzione dell’inflazione a livello globale (misure ovviamente opposte a quelle della Scala mobile). In questo nuovo contesto la Scala mobile fu accusata di contribuire all’inflazione, e fu quindi modificata dal governo Craxi nel 1984, e poi definitivamente mandata in soffitta nel 1992. 20 Risultato, come visto, dalle mobilitazioni studentesche e operaie della fine degli anni Sessanta.

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dalla fine del fordismo, fu accompagnata anche da svolte autoritarie dovute al clima della Guerra fredda: ne sono esempi il golpe dei colonnelli in Grecia (nel 1967) e il colpo di Stato di Pinochet in Cile (nel 1973), che influenzarono pesantemente il dibattito italiano. In quel difficile momento storico, il Pci aprì alla collaborazione con la Dc e, avvertendo il rischio di derive autoritarie nel paese, diede pieno supporto per contrastare la lotta armata della sinistra rivoluzionaria. Berlinguer, neoeletto segretario del Partito comunista italiano,21 lanciò il compromesso storico con un articolo pubblicato su «Rinascita» dal titolo Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile.22 La pressione della Guerra fredda, le tensioni sociali e le pulsioni autoritarie presenti nel paese portarono Berlinguer a proporre un cambio di rotta teso a rinforzare la (traballante) democrazia italiana e avvicinare il Pci al ceto medio. Quel ceto medio che, schiacciato dalla crisi, era stato una delle basi sociali del vecchio fascismo e che in quegli anni avrebbe potuto farsi affascinare da un progetto autoritario. L’altro elemento che contribuì al cambio di strategia del Pci fu il lancio – nel 1976, insieme ai partiti comunisti spagnolo e francese – dell’euro-

Nel 1972. Approfondimento: E. Berlinguer, Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile. 21 22

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comunismo. L’eurocomunismo rifletteva la volontà delle maggiori forze comuniste europee di intraprendere la «via democratica al socialismo», riconfigurando le esperienze dei partiti in un’ottica socialdemocratica. Questo passaggio sanciva la rottura con Mosca e conferiva un carattere europeista alla sinistra comunista italiana. Sotto la guida di Berlinguer, il Pci raggiunse i suoi maggiori successi elettorali e sviluppò l’intesa con i democristiani, che portò ai governi di solidarietà nazionale tra il 1976 e il 1979. Tale stagione politica fu archiviata proprio nel 1979, dopo la rottura con la Dc di Andreotti.23 Il nuovo clima politico ed economico influì anche sull’orientamento dei sindacati, come testimoniato dall’intervista al segretario della Cgil Lama apparsa su «Repubblica» il 24 gennaio 1978: Lavoratori stringete la cinghia.24 Proprio il periodo di maggior collaborazione tra Pci e Dc e il contesto di crisi economica contribuirono poi agli accordi dell’Eur,25 che prevedevano l’attuazione di forme di contenimento salariale per difendere l’occupazione. In buona sostanza, i sinE il lancio della strategia detta dell’alternativa democratica. Questa strategia, proposta da Berlinguer, proponeva un’apertura a tutte le forze laiche progressiste in chiave antidemocristiana. Tuttavia tale proposta non riuscì a impedire l’avvicinamento fra il Partito socialista e la Democrazia cristiana durante gli anni Ottanta. 24 Approfondimento: E. Scalfari, Lavoratori stringete la cinghia. 25 Nel febbraio dello stesso 1978, stipulati con il placet del sindacato. 23

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dacati riconoscevano che la crescita economica nazionale era un obiettivo essenziale, e facevano il primo passo verso forme più concertate e meno conflittuali di gestione delle relazioni industriali all’interno del paese. Durante questi anni si assistette anche alla trasformazione del sistema produttivo, con le prime decentralizzazioni26 e il passaggio progressivo da un’economia industriale a una basata sui servizi. In questo senso, i sindacati ricevettero un forte segnale dei cambiamenti repentini che stavano sconvolgendo la nazione durante i trentasette giorni di sciopero condotti nell’impianto Fiat di Mirafiori. A seguito della decisione dell’azienda di mettere in cassa integrazione migliaia di

Il decentramento produttivo è la delocalizzazione di molte attività, prima intraprese all’interno dell’impresa fordista, verso società terze all’interno dello stesso paese o, come sempre più spesso accade, verso nazioni straniere, dove il costo del lavoro è più basso. Gli esempi sono molteplici: pensate ai call center, alle società di pulizia, alla fabbricazione di parti del prodotto in luoghi diversi (caso tipico è quello dell’industria automobilistica). Gli effetti di tale delocalizzazione sono fondamentali per comprendere l’indebolimento della forza lavoro nel nostro continente. In pratica, una fetta consistente del processo produttivo ha luogo in imprese più piccole o operanti in altri paesi, dove la regolamentazione è meno stringente. In tal modo vengono messi sotto pressione i lavoratori dell’«impresa madre», che si trovano più deboli di fronte alle richieste del management. L’abbassamento del costo del lavoro e la riduzione dei diritti che stiamo vivendo in Europa in questi anni è stata resa possibile proprio da una simile delocalizzazione del processo produttivo. La competizione globale sui costi riduce i diritti dei lavoratori europei e di quelli dei paesi terzi.

26

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lavoratori,27 i sindacati decisero per un blocco totale della produzione. Il 14 ottobre 1980 i quadri e i colletti bianchi della Fiat organizzarono una marcia di protesta contro la serrata totale della fabbrica e i metodi impiegati dagli operai nei picchetti. Il corteo, passato alla storia come la Marcia dei quarantamila, segnò la fine di una fase storica e contribuì alla vittoria dell’azienda su sindacati e scioperanti. Negli anni Ottanta, poi, lo scenario cambiò ancora. La crisi sembrava passata e le tensioni del decennio precedente si affievolirono. A livello politico, la decade fu caratterizzata dalle coalizioni di governo tra il Partito socialista e la Democrazia cristiana, che segnarono l’ultima fase della Prima Repubblica.28 Il quadro, apparentemente stabile, sarà sconvolto dagli eventi dei primi anni Novanta. La sinistra italiana durante la Seconda Repubblica La fine della Prima Repubblica riflette i cambiamenti globali nei quali l’Italia è pienamente immersa in quegli anni. Il declino del fordismo e l’ascesa del neoliberismo hanno contribuito alla

Di cui solo una piccola parte sarebbe stata assunta nuovamente al termine del periodo. 28 Portando alla nomina di due presidenti del Consiglio socialisti: Craxi dal 1983 al 1987 e Amato dal 1992 al 1993. 27

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trasformazione della composizione sociale del paese, con il progressivo emergere della maggioranza invisibile. Intanto, molti avvenimenti importanti si susseguono tra il 1991 e il 1992. Nel febbraio 1991 la svolta della Bolognina segna la fine del Pci e la nascita del Partito democratico della sinistra (Pds) e di Rifondazione comunista. L’operazione Mani pulite, cominciata nel febbraio del 1992, contribuisce a spazzare via la Dc e il Psi. Nello stesso mese di febbraio, la firma del Trattato di Maastricht segna l’ingresso nell’area euro. Sempre nel 1992, la difficile congiuntura economica del paese porta al superamento del 100% nel rapporto debito/pil.29 A luglio il governo Amato approva una dura manovra finanziaria; inoltre dà vita alla prima grande stagione di privatizzazioni, con la trasformazione in società per azioni di colossi pubblici quali Iri, Eni ed Enel (giusto per citare i più importanti). Il 31 luglio 1992 il segretario della Cgil Trentin accetta (con difficoltà) di firmare l’accordo per mandare definitivamente in soffitta la Scala mobile. A settembre la lira subisce un forte attacco

Con un deficit che è costantemente rimasto oltre il 10% del rapporto deficit/pil dal 1981. 29

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speculativo, che porta l’Italia ad abbandonare le fasce d’oscillazione stabilite dal Sistema monetario europeo.30 Infine, il ministro del Tesoro Carli cede la competenza sul tasso di sconto (il tasso d’interesse cui la banca centrale presta denaro alle altre banche) al governatore della Banca d’Italia, con una legge che rende una delle maggiori funzioni di governo dell’economia nazionale indipendente dal sistema politico.31 Questi passaggi rapidissimi segnano la svolta verso il neoliberismo che, come abbiamo visto nel terzo e quarto capitolo, ha nelle privatizzazioni e nell’indipendenza delle banche centrali due capisaldi. Politicamente, con la sparizione di Dc, Pci e Psi si conclude la Prima Repubblica. La Seconda nasce con l’affermazione elettorale di Berlusconi e di quel centrodestra che ha guidato il paese fino alla crisi attuale, alternandosi alle varie coalizioni di centrosinistra. Le differenze nelle forme e nello stile di governance tra le due coalizioni non devono offuscare agli occhi del lettore la continuità nel perseguimento di alcune politiche neoliberiste. Come abbiamo sottolineato nel capitolo precedente, si è puntato su

Si tratta, come descritto nel quarto capitolo, dell’ultima svalutazione prima dell’ingresso nell’area euro. 31 Si tratta della legge numero 82 del 7 febbraio 1992. 30

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un neoliberismo selettivo, che ha colpito quasi esclusivamente la maggioranza invisibile. Esso è caratterizzato soprattutto dalle riforme in tre aree: pensioni, immigrazione e lavoro. Per quanto riguarda le pensioni, in pochi anni si sono susseguite una lunga serie di cambiamenti di diverso cabotaggio.32 Tali interventi hanno perseguito principalmente: la riduzione della spesa pensionistica; il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo; l’innalzamento dell’età di pensionamento; l’introduzione di schemi pensionistici complementari privati. Come argomentato nei capitoli precedenti e in Chi troppo chi niente, oggi ci ritroviamo ancora un sistema pensionistico disfunzionale e ingiusto che: 1. continua a pagare a 2 milioni di fortunati pensioni di molto superiori a quanto contribuito; 2. paga una media di 533 euro a 11 milioni di pensionati;

Si va dalla riforma Amato del 1992 al tentativo di riforma del governo Berlusconi del 1994, dalla riforma Dini del 1995 a quella Prodi del 1997, da quella D’Alema del 2000 a quella Maroni del 2004, da quella Prodi del 2007 a quella Fornero 2012. Approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente, in particolare il capitolo Il prezzo del passato. 32

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3. pagherà pensioni da fame a chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996. Questa terza categoria d’individui, non solo si scontra ogni giorno con condizioni durissime sul mercato del lavoro (caratterizzate da precarietà diffusa e lavori discontinui), ma difficilmente riuscirà a mettere insieme un ammontare sufficiente di contributi per ricevere in futuro una pensione superiore alla soglia di povertà. Nello stesso periodo, la prima grossa riforma legislativa sull’immigrazione è stata la Turco-Napolitano del 1998 (introdotta dal governo Prodi I).33 La legge stabiliva le regole cui i migranti dovevano sottostare per rimanere sul territorio nazionale, definendo anche i diritti garantiti loro, come l’accesso all’istruzione e alla sanità e il ricongiungimento familiare. Allo stesso tempo, la norma prevedeva l’espulsione per gli immigrati irregolari e creava i Centri di permanenza temporanea (Cpt),34 che tante polemiche hanno attirato per il trattamento disumano cui sottopongono i migranti. Come illustrato nel secondo capitolo, la legge Bossi-Fini del 2002 ha esasperato i termini della Turco-Napolitano, aumentando le sanzioni per trafficanti e scafisti, e riformando in senso restrittivo le procedure di rilascio dei permessi

33 34

Dopo i provvedimenti del 1986 e la legge Martelli del 1990. Oggi Centri di identificazione ed espulsione (Cie).

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di soggiorno, legati all’ottenimento di un lavoro effettivo.35 In questo caso la continuità tra i due maggiori schieramenti politici si riscontra soprattutto nei mancati interventi legislativi. Infatti il centrosinistra, pur dichiarando un diverso approccio al fenomeno dell’immigrazione, non ha fatto nulla (durante il secondo governo Prodi) per modificare nella sostanza la Bossi-Fini. Infine le riforme del mercato del lavoro – come constatato illustrando le scelte del New Labour inglese – sono state il cardine della strategia neoliberale. Le politiche di flessibilizzazione hanno accomunato diversi paesi e sono state presentate come misure tese a contrastare la disoccupazione, intervenendo sulle leggi che regolamentano il mercato. Tale idea è basata sulla convinzione dogmatica che una legislazione stringente limiti la propensione delle imprese ad assumere, perché accresce i costi. Tuttavia, quest’approccio non considera che la disoccupazione è anche frutto di un sistema produttivo in crisi, e che i lavori la cui creazione è stata incentivata dal processo di deregulation sono di bassissima qualità. Il risultato di simili politiche è stato la precarizzazione della forza lavoro, attraverso la creazione

Gli ingressi sono stati limitati attraverso la definizione di quote precise (applicate solo ai migranti non comunitari). Inoltre, la normativa ha conosciuto un inasprimento con l’introduzione del reato di clandestinità nel 2009 (depenalizzato poi nel 2014). 35

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di una giungla contrattuale che, oltre a condizionare pesantemente la vita dei lavoratori,36 rende quasi impossibile lo sviluppo di una propria professionalità. Il primo momento di rottura con la prassi legislativa che caratterizzava il fordismo, oltre alla fine della Scala mobile, è stato il pacchetto Treu nel 1997. Tale provvedimento ha riformato il lavoro temporaneo, dando vita alle agenzie interinali e all’estensione dei contratti a termine, e ha modificato le condizioni dell’apprendistato. Il secondo passaggio normativo è stato, di nuovo, la legge Bossi-Fini. Questa norma sull’immigrazione, infatti, influenza anche le dinamiche del mondo del lavoro: nella pratica i decreti flussi non portano all’accesso di nuova manodopera dall’estero, ma alla regolarizzazione di stranieri già presenti sul territorio nazionale. Si creano dunque dinamiche di subordinazione e sfruttamento del migrante, che si trova a dipendere totalmente dal datore di lavoro per essere messo in regola. Ciò comporta, come discusso in precedenza, che le pessime condizioni accettate dagli immigrati contribuiscono ad abbassare lo standard dei lavori offerti a tutti gli altri. Un terzo atto fondamentale di riforma è rappresentato dalla legge 30 del 2003, ribattezzata

Impossibilitandoli di fatto a pianificare progetti di vita a medio e lungo termine. 36

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legge Biagi.37 Questa norma proseguiva il processo di liberalizzazione intrapreso dal pacchetto Treu, introducendo una serie di tipologie contrattuali che hanno acuito la flessibilizzazione.38 Un quarto passaggio, meno noto ma rilevante per comprendere il processo di precarizzazione del mercato del lavoro italiano, è stato il collegato lavoro del 2010.39 Esso sancisce, fra l’altro, un termine di sessanta giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro per impugnare il contratto. Questo termine è problematico per chi riceve incarichi di pochi mesi:40 un lavoratore in tale condizione, infatti, pur sapendo che il suo contratto potrebbe essere posto a giudizio per palesi irregolarità, si trova di fronte alla scelta di impugnarlo, e non ottenere il successivo, o sperare nel rinnovo rinunciando a far valere le sue ragioni in tribunale. Rimanendo nel solco tracciato dai precedenti interventi legislativi, la riforma Fornero del 2012 ha proposto alcune novità come gli ammortizzatori sociali Aspi (Assicurazione sociale per

In onore del giuslavorista ucciso dalle Brigate rosse, che aveva curato con Maurizio Sacconi il report cui il dispositivo di legge s’ispirava. Approfondimento: M. Biagi e M. Sacconi, Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia. 38 La legge ha poi subito piccole variazioni da parte dei governi che si sono susseguiti, ma ha mantenuto intatti i principi base. 39 Entrato in vigore nel 2011, perché inserito nel decreto Mille proroghe. 40 Soggetti spesso a molteplici rinnovi, anche per svariati anni. 37

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l’impiego) e miniAspi.41 La miniAspi, in particolare, dovrebbe proteggere i precari, ma offre compensazioni economiche di importo bassissimo.42 La riforma inoltre è stata criticata per il numero limitato di lavoratori che potranno accedere agli ammortizzatori sociali,43 per la modifica introdotta all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori,44 per aver proposto misure inefficaci nel contrastare l’uso delle cosiddette finte partite iva e per la semplificazione del contratto a tempo determinato, attraverso l’eliminazione della necessità di apporre una causale in alcune tipologie contrattuali.45 Quest’ultimo punto è molto rilevante perché l’utilizzo di contratti acausali, nei quali cioè non viene giustificata la ragione dell’assunzione a tempo determinato piuttosto che indeterminato, è stato ulteriormente esteso nel 2013, permettendone il rinnovo.46 Nell’ordinamento italiano i contratti a tempo determinato dovrebbero costituire delle eccezioni (per questa ragione sono spesso stati definiti atipici), da

Approfondimento: E. Ferragina, Chi troppo chi niente, in particolare il capitolo Investiamo sul futuro. 42 Perché proporzionate a stipendi spesso da fame. 43 Fonte: V. Conte, Precari, quasi un milione esclusi dall’assegno di disoccupazione. 44 Modifica in base alla quale è stato eliminato l’obbligo di reintegro dopo un licenziamento senza giusta causa, prevedendo la possibilità di sanzioni alternative. 45 In particolare l’eliminazione della causalità per il primo contratto a tempo determinato (con un limite di dodici mesi). 46 Con la legge 99 del 2013. 41

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giustificare attraverso una causale che spieghi il perché non si è ricorso alla forma tipica, cioè il contratto subordinato a tempo indeterminato. La progressiva eliminazione della causalità non fa che liberalizzare i rapporti di lavoro a tempo determinato, e limita gli strumenti legislativi a protezione dei precari.47 L’analisi delle riforme su pensioni, immigrazione e mercato del lavoro mostra come questi interventi legislativi abbiano colpito soprattutto i diritti della maggioranza invisibile. In questo senso, la convergenza fra centrodestra e centrosinistra è frutto dell’accettazione dell’egemonia neoliberale. Vediamo perché. Nel quarto capitolo abbiamo illustrato come il processo d’integrazione europea abbia progressivamente affidato alla Bce la gestione della politica monetaria continentale. Questa scelta ha annullato la possibilità di perseguire politiche monetarie alternative, e drasticamente ridotto la capacità dei paesi di investire a debito per assorbire gli shock economici.48 Strumenti legislativi attraverso i quali alcuni precari sono riusciti negli ultimi anni a vincere ricorsi e cause con i datori di lavoro. 48 Come abbiamo visto, un effetto dell’unione monetaria è stato quello di impedire la svalutazione della moneta, uno degli strumenti usati (e anche abusati, in effetti) dai governi italiani per rispondere a shock esterni sull’economia. Inoltre, la centralizzazione delle decisioni sul tasso d’interesse, con la creazione della Banca centrale europea, ha ridotto la capacita di queste politiche di essere reattive e di adattarsi ai diversi cicli economici dei paesi dell’Unione. 47

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L’unico meccanismo a disposizione, per restare competitivi e continuare a esportare, è l’intervento sui costi di produzione. E il modo più rapido per ridurli è comprimere il costo del lavoro e gli oneri sociali a esso connessi. Non è un caso che tutti i paesi europei abbiano agito su questa leva in modo più o meno esplicito.49 Il processo d’integrazione europea ha favorito in questo modo l’emergere del già descritto contesto di austerità competitiva, in cui ogni Stato ha cercato di aumentare le proprie esportazioni riducendo la spesa pubblica. All’interno di questo meccanismo, chi ha ridotto il costo del lavoro più rapidamente e in modo meno conflittuale è stato in grado di primeggiare nella gara al ribasso. L’austerità competitiva è stata portata avanti sia dalle forze politiche di centrodestra sia da quelle di centrosinistra. Per di più, proprio i partiti di centrosinistra hanno avuto una maggiore capacità di implementare le riforme di stampo neoliberale, grazie agli storici e stretti legami con le forze sociali. È stato così possibile promuovere L’obiettivo di flessibilizzare i mercati del lavoro europei era presente anche nelle discussioni sullo sviluppo della Strategia europea per l’occupazione (o Ees, European employment strategy). L’Ees mira a creare più posti di lavoro qualificati all’interno dell’Unione. Questa strategia si avvale di un metodo coordinato di lavoro fra i vari paesi, per contribuire a raggiungere i target settati a Lisbona (dalla famosa Agenda 2020). Per approfondire vedi la voce Strategia europea per l’occupazione sul portale della Commissione europea ec.europa.eu, consultabile all’indirizzo ec.europa.eu/social/main.jsp?catId=101&langId=it. 49

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tagli al costo del lavoro e al welfare state senza subire pesanti mobilitazioni o prove di forza da parte delle organizzazioni sindacali. L’intreccio tra Italia ed Europa si è fatto così a doppio filo: le riforme «lacrime e sangue» implementate dai politici nostrani sulla base dell’ideologia neoliberale sono state giustificate con il «ce lo chiede l’Europa», cioè usando l’Unione come paravento per spiegare la severità delle misure. E se da un lato esistono matrici continentali per molte delle riforme nazionali, dall’altro la politica italiana ha fatto ricorso alla legittimità e all’importanza del progetto d’integrazione europea per non subire danni elettorali dovuti alle misure impopolari. Questo meccanismo si è inceppato con l’aggravarsi delle condizioni economiche del continente.50 Inoltre la crisi del debito italiano, con l’impennata dei tassi d’interesse richiesti al governo per rifinanziare il debito (e quindi la crescita dello spread), ha mostrato l’esistenza di un’ampia convergenza tra il centrosinistra e il centrodestra. Il governo Monti ha incarnato il «totem europeo» usato per giustificare all’elettorato politiche di stampo neoliberale che, anche se profondamente impopolari, sono condivise dalle maggiori forze politiche. In questo contesto sarebbe riduttivo

Infatti diventa molto più difficile giustificare queste riforme mentre il paese continua a impoverirsi e l’Unione Europea, a causa delle sue molteplici contraddizioni, perde appeal. 50

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descrivere l’alleanza odierna fra centrodestra e centrosinistra come semplice frutto della crisi economica. A differenza del compromesso storico degli anni Settanta, la convergenza fra centrodestra e centrosinistra è maturata per tutta la Seconda Repubblica (come dimostrato dalle riforme di pensioni, immigrazione e lavoro), sfavorendo la maggioranza invisibile. La forte polarizzazione politica che si è prodotta attorno alla controversa figura di Berlusconi non è stata accompagnata da una marcata differenza nella progettualità dei due blocchi. In sintesi, a livello italiano ed europeo, il dialogo tra destra e sinistra è maturato attraverso l’accettazione dei fondamenti culturali, politici ed economici del neoliberismo. Requiem for a dream? Se durante il fordismo gli schieramenti progressisti si erano rinforzati, riuscendo a ottenere importanti conquiste per i lavoratori, gli anni Settanta hanno visto un cambiamento radicale. La crisi del compromesso fordista ha creato le condizioni per il successo internazionale delle forme di governance neoliberali. Questa trasformazione ha modificato il contesto in cui i partiti di sinistra, e più in generale le forze progressiste, si trovavano a operare. La reazione è stata prima di resistenza al cambiamento, poi, con la svolta della terza via, di graduale accettazione.

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Gli anni Settanta hanno consegnato al paese un «Pci socialdemocratico», che affermava con forza la scelta di una via democratica al socialismo. Le trasformazioni nella strategia politica della sinistra e il nuovo clima politico-economico a livello internazionale hanno finito per influenzare anche i sindacati. In questo senso, gli accordi dell’Eur e la sconfitta seguita alla Marcia dei quarantamila rappresentano i primi sintomi delle difficoltà crescenti per le organizzazioni sindacali a incidere sulle scelte politiche della nazione. Poi, con la fine della Guerra fredda e l’intensificarsi del processo d’integrazione europea, tutte queste trasformazioni socioeconomiche hanno preso corpo in una serie completa di riforme di carattere neoliberale. Abbiamo identificato il biennio 1991-92 come simbolico per molti motivi: dalla fine del Pci alla nascita dell’unione monetaria, dall’attacco speculativo alla lira (che ha dimostrato la capacità dei mercati di influire sulla nostra economia) all’apertura alle politiche neoliberiste, con privatizzazioni, indipendenza della Banca d’Italia e abolizione della Scala mobile. La fine della Prima Repubblica, segnata dall’inchiesta Mani pulite, ha dato quindi il via a un periodo di crescente convergenza programmatica tra centrodestra e centrosinistra. Dalla sua affermazione negli Stati Uniti e nel Regno Unito, la logica neoliberista si è diffusa insieme alla capacità dei mercati finanziari di influenzare e disciplinare le economie nazionali.

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Come descritto nel quarto capitolo, la seconda fase del processo d’integrazione europea, 51 tra gli anni Ottanta e Novanta, è stata segnata profondamente da queste politiche e dalla strategia tedesca di adattamento alla mutata struttura economica internazionale. In Italia, l’avanzata del neoliberismo è stata meno lineare rispetto al resto del continente; tuttavia, come dimostrato con l’analisi delle politiche pensionistiche, sull’immigrazione e sul mercato del lavoro, tale processo è innegabilmente avvenuto.52 Riprendendo le considerazioni iniziali su come prospettive ideologiche tradizionalmente diverse guardino alla società, si fa davvero fatica a riconoscere oggi una forza progressista tra i Con l’Atto unico europeo e il Trattato di Maastricht. In questo contesto i sindacati hanno trovato nuova rilevanza politica con la strategia della concertazione, durante gli anni Novanta. Essi sono stati centrali nello sviluppo di misure di contenimento dell’inflazione e di riduzione delle tensioni sociali. Se da un lato le organizzazioni sindacali hanno continuato a difendere i loro tesserati, dall’altro hanno contribuito a far scaricare i costi delle riforme neoliberali sulla sola maggioranza invisibile. E nonostante il declino della concertazione nell’ultimo decennio, esse si sono ritrovate a contribuire al mantenimento della competitività delle aziende e del paese, accettando difficili compromessi (di cui sono esempio gli accordi sugli stabilimenti Fiat di Pomigliano e Mirafiori tra il 2010 e il 2011). I limiti della loro strategia, puramente difensiva, sono stati duplici: primo, non hanno intercettato le forze sociali emergenti, come gli oltre 4 milioni di precari; secondo, non hanno saputo muoversi sul piano europeo in modo coordinato, per rompere o almeno mettere in discussione i meccanismi di austerità competitiva. Torneremo su questo argomento nell’ottavo capitolo. 51 52

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partiti che governano il nostro paese. È stato un processo lento e contraddittorio, ma guardando ai passaggi storici della sinistra italiana da Berlinguer a Renzi, non possiamo non considerare questo capitolo come un requiem per un’opzione politica. Ciò non vuol dire che la sinistra sia morta e una nuova visione progressista di società non possa prendere piede. Ma tale prospettiva richiede un progetto politico e sociale completamente nuovo.

PARTE SECONDA

Da maggioranza invisibile a maggioranza visibile?

7 La maggioranza invisibile al voto

Lo scopo di questo capitolo è illustrare l’emergere della maggioranza invisibile come soggetto elettorale, a seguito del voto del 2013. Per comprendere lo scenario che ha portato a questa prima «apparizione elettorale», ci avvarremo di tre concetti classici della politologia: l’idea di rivoluzione passiva, di elettore mediano e di partito pigliatutto (le ultime due espressioni, derivanti rispettivamente da quelle inglesi median voter e catch all party). Gramsci usò l’espressione «rivoluzione passiva» quasi ottant’anni fa,1 per descrivere come il sistema politico avesse risposto all’evoluzione sociale ed economica del paese nel periodo postunitario. Secondo l’intellettuale sardo, l’Italia era caratterizzata da un lato da una società civile

Il termine fu originariamente coniato da Vincenzo Cuoco, nell’ambito della sua analisi del fallimento della rivoluzione napoletana. Approfondimento: V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799. 1

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debolissima, frammentata e incapace di agire sulle dinamiche politiche; e dall’altro, ravvisava la presenza di pochi gruppi in cui si concentrava il potere, e capaci perciò di esercitare un’enorme pressione sulle istituzioni. Questa composizione sociale ha portato a risposte politiche quasi esclusivamente top-down (ovvero dall’alto verso il basso): ogni momento di tensione e crisi è stato gestito dalle élite dominanti senza coinvolgere i cittadini. Uno scenario molto diverso da quello di altri paesi sviluppati. L’Italia continua ancora oggi a vivere solo rivoluzioni passive, gestite grazie alla trasformazione apparente dei gruppi dirigenti, il «trasformismo», o all’emergere di una figura carismatica che incarna l’interesse delle categorie dominanti, il «cesarismo». Parliamo di trasformismo di fronte alla scelta di alcuni personaggi politici di cambiare campo d’appartenenza,2 per aderire a nuove maggioranze di governo. Gramsci esemplificò questo concetto descrivendo l’avvicinamento fra destra e sinistra storiche nel periodo postunitario. Parliamo invece di cesarismo davanti alla scelta di delegare il potere decisionale a un «uomo forte», in grado di tenere insieme le diverse anime del paese nei momenti di turbolenza e cambiamento, favorendo al tempo stesso gli interessi delle élite. Mussolini fu un esempio di cesa-

Attraverso varie forme di cooptazione: intellettuale, politica, ma anche semplicemente materiale. 2

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rismo regressivo: la risposta dei gruppi dirigenti alle crescenti tensioni sociali dovute all’industrializzazione e all’irrompere del fordismo. Si tratta in entrambi i casi – trasformismo e cesarismo – di rivoluzioni passive, perché il cambiamento non è portato avanti dal basso ma piuttosto da gruppi forti all’interno del sistema, che dettano la rotta in momenti particolarmente caldi della vita del paese, senza dare voce alle categorie sociali più deboli. L’idea di rivoluzione passiva permette di comprendere perché in Italia sia così difficile proporre un progetto politico che parta dagli interessi della maggioranza dei cittadini. Prendete l’esempio dell’influenza del fordismo: mentre da noi il processo di violenta industrializzazione, e la conseguente trasformazione sociale, fu «gestito» attraverso una svolta autoritaria della governance (il fascismo), negli Stati Uniti il fordismo contribuì al consolidamento democratico e al successivo avvento del New Deal. A differenziare fortemente la nostra realtà da quella americana erano l’esistenza di sacche concentrate di privilegio (come quelle dell’aristocrazia, della burocrazia e del clero) e la debolezza della società civile. Condizioni che impedirono un cambiamento in direzione progressista.3

Oggi anche gli Stati Uniti si trovano in una condizione simile a quella dell’Italia, a causa della polarizzazione della ricchezza favorita dall’avvento del neoliberismo. 3

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La complessità e frammentazione che contraddistinguono la società italiana continuano tutt’ora a favorire l’alternanza di trasformismo e cesarismo. Ad esempio, la crisi del 2011 è stata gestista da un governo tecnico, con cui si è cercato di celare l’incapacità delle formazioni politiche tradizionali nel rispondere a importanti tensioni sistemiche. La convergenza fra centrodestra e centrosinistra sulla figura di Monti è dunque in linea con il trasformismo della destra e della sinistra storiche descritto da Gramsci; poi, in seguito al terremoto elettorale del 2013, la risposta dell’apparato politico di fronte all’inefficienza del trasformismo è stata ancora una volta quella del cesarismo (con l’ascesa di Matteo Renzi). Mentre Gramsci, con la sua analisi della rivoluzione passiva,4 illustrava come il cambiamento delle strutture sociali, economiche e produttive influenzasse il conflitto tra classi e di conseguenza anche il voto, la scienza politica anglosassone ha proposto un percorso analitico inverso per comprendere le dinamiche elettorali. Il ragionamento parte dalla scelta dell’elettore per descrivere il comportamento dei partiti, e si focalizza su come il cittadino si orienti nel «mercato elettorale» e su come le forze politiche possano massimizzare il numero di preferenze raccolte, 4

Sulla quale ritorneremo anche nel prossimo capitolo.

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scegliendo il posizionamento più vantaggioso. Ci riferiamo alla teoria dell’elettore mediano e allo studio dei partiti pigliatutto. Come brevemente descritto nell’Introduzione, la teoria dell’elettore mediano sostiene, considerando uno spazio politico monodimensionale dominato dall’opposizione fra destra e sinistra,5 che un partito per conquistare la maggioranza dei voti debba accattivarsi il favore dell’elettore mediano senza disilludere i votanti storici (situati alla sua destra o alla sua sinistra). Questo semplice modello di analisi si rivela ovviamente molto più complesso nella realtà, per varie ragioni: gli elettori non si distribuiscono su un’unica dimensione di preferenza; le strategie di scelta sono condizionate dai sistemi elettorali (il proporzionale è diverso dal maggioritario, giusto per fare un esempio) e dal quadro politico, sociale ed economico di riferimento; le trasformazioni della società possono contribuire a cambiare radicalmente il contesto in cui i partiti operano (proprio come è successo con le elezioni del 2013).6 Per spazio politico monodimensionale s’intende uno spazio politico ideale, in cui la preferenza degli elettori viene decisa sulla base di un solo parametro. In questo caso il continuum destrasinistra. Nella realtà, come discuteremo nel resto del capitolo, la scelta di ogni votante si basa su un numero molto più elevato di parametri. 6 La teoria dell’elettore mediano estende le idee di base dell’economia moderna e del neoliberismo (fondati sull’individualismo metodologico e la scelta razionale, come discusso nel terzo 5

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L’altro elemento di analisi elettorale introdotto dalla politologia classica è la riflessione sui partiti pigliatutto.7 Essi cercano di attrarre all’interno della loro base elettorale gruppi sociali molto diversi, e lo fanno mediante: una riduzione del bagaglio ideologico; un rafforzamento della leadership dei gruppi dominanti nel partito; una riduzione d’importanza degli iscritti;8 e il tentativo di avvicinare soggetti che fanno parte di diverse classi sociali. I concetti di elettore mediano e partiti pigliatutto – solo marginalmente applicabili alla Prima Repubblica9 – sono rilevanti per comprendere la fase apertasi nel 1994, quando la fine della polarizzazione politica che aveva caratterizzato la Guerra fredda, l’assottigliarsi delle differenze ideologiche e lo smantellamento della Democrazia cristiana hanno contribuito alla creazione di due poli. Schieramenti entrambi «a caccia»

capitolo) alla governance pubblica, considerando la scelta del voto come un semplice mercato. Approfondimento: I. McLain, Public Choice: An Introduction, Blackwell, Oxford 1987. 7 Per la definizione di partiti pigliatutto vedi l’approfondimento: O. Kirchheimer, Transformation of Party System. 8 Il rafforzamento della leadership dei gruppi dominanti e la riduzione d’importanza degli iscritti sono due meccanismi che servono propriamente a tenere insieme i partiti pigliatutto, nel contesto postideologico e di apertura ad altri gruppi sociali rispetto a quelli che li supportavano tradizionalmente. 9 Sulla versione italiana dei partiti pigliatutto vedi l’approfondimento: C. Forestiere, Kirchheimer Italian Style: Catch-All Parties or Catch-All Blocs.

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dell’elettore moderato (o meglio, dell’elettore mediano descritto dalla scienza politica). Le elezioni nazionali del 1994 sono state critiche, dove con «critica» si deve intendere una consultazione che segna una profonda discontinuità rispetto al periodo precedente tanto nell’offerta elettorale quanto nelle scelte espresse.10 Nel 1994 si è assistito, infatti, alla sparizione dei partiti che avevano caratterizzato la Prima Repubblica e all’emergere di due poli in grado di segnare la vita politica per il ventennio successivo. E per quasi due decadi le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono comportate come blocchi pigliatutto,11 basando la propria strategia sulla conquista del votante mediano.12 Queste trasformazioni della scena partitica sono state accompagnate dall’affermazione globale del neoliberismo; perciò la corsa all’elettore moderato, negli anni Novanta, è avvenuta proponendo le politiche più gettonate a livello internazionale: la deregolamentazione e la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Come discusso nel capitolo precedente, le riforme pensionistiche, Fonte: Itanes, Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013. 11 Approfondimento: O. Kirchheimer, Transformation of Party System. 12 Sono riuscite – almeno parzialmente – a farlo formando alleanze con partiti minori alla loro destra e alla loro sinistra, per conservare il voto degli elettori più ideologizzati. Un limite di tali strategie politiche è stato, specialmente per il centrosinistra, la creazione di coalizioni di governo molto estese e fragili. 10

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le politiche sull’immigrazione e quelle sul lavoro13 sono state perseguite in continuità dai due schieramenti politici, difendendo i garantiti e scaricando i costi del cambiamento globale sulla maggioranza invisibile. In un paese socialmente frammentato e incapace di partorire un progetto politico di lungo periodo, si sono riprodotte, come in passato, le condizioni per una rivoluzione passiva: come vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo, una rivoluzione in cui le tensioni sociali sono state gestite attraverso un mix di trasformismo e cesarismo. Attorno a Berlusconi – il cesare, la figura centrale di questo ventennio – si sono dipanati piccoli e grandi esempi di trasformismo, degni della sinistra e della destra storiche. Tuttavia le coalizioni pigliatutto e il cesare di turno, che hanno dominato la scena politica per quasi due decadi, hanno finito per perdere non solo consensi, ma più in generale il contatto con le trasformazioni sociali del paese. E ciò a causa della fortissima crisi economica che ha sconvolto l’Europa: la classe dirigente italiana non è riuscita a stare al passo con una nazione che vedeva le proprie strutture sociali mutare in modo deciso. Un caso emblematico di questa incapacità riguarda la cosiddetta «sinistra radicale». Senza voler essere ingenerosi, bisogna riconoscere che negli ultimi vent’anni si sono consumate al suo interno fratture settarie e si è assistito a costru13

Ma più in generale quelle concernenti il welfare state.

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zioni di contenitori politici privi di qualunque appeal per la maggioranza invisibile. Tali «partiti», che avrebbero dovuto costituire un’alternativa alle politiche neoliberiste del centrodestra e del centrosinistra, non si sono fatti interpreti delle trasformazioni del paese e non si sono accorti dell’emergere di una nuova base elettorale, diversa da quella cui la sinistra si era rivolta durante la Prima Repubblica.14 Da questo punto di vista, la crisi è stata il detonatore di tensioni accumulatesi per due decenni, che esplodendo hanno radicalmente modificato il comportamento elettorale della maggioranza invisibile, come dimostrato dal voto del 2013. Elezioni politiche del 2013: la maggioranza invisibile al voto A quasi vent’anni dal 1994, nel 2013 abbiamo assistito a un’altra elezione critica, capace di sconvolgere il panorama politico italiano e minare alla base il bipolarismo che si era progressivamente determinato durante la Seconda Repubblica. Per comprendere la rilevanza di ciò che è successo nel febbraio di quell’anno, basta considerare l’in-

Come sottolineato nel capitolo precedente, è anche a causa della cecità della classe politica italiana, e in particolare di quella di sinistra, che la maggioranza invisibile è rimasta non rappresentata.

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dice di volatilità del voto. Si tratta di un indicatore che somma le differenze nelle percentuali di voto dei partiti, comparando l’elezione esaminata e quella precedente.15 Quest’indice è rimasto sotto il 10% durante la Prima Repubblica, è arrivato al 36,7% nel 1994, e ha toccato il massimo storico nel 2013 con il 39,1%.16 L’altissimo indice di volatilità elettorale alle politiche del 2013 può essere spiegato con la crisi economica e la sfiducia generalizzata verso la classe politica. Questi elementi hanno rinforzato l’insoddisfazione della maggioranza invisibile, che ha subito tutti gli effetti negativi della grande trasformazione descritta nella prima parte del libro. Secondo l’associazione Itanes (Italian national election studies), la sfiducia verso i partiti politici è seconda solo a quella verso le banche: solamente il 10% degli italiani dichiara di avere fiducia nei partiti; e tra precari e disoccupati si registrano livelli addirittura più bassi.17 La crisi, oltre ad aver ridotto la fiducia nei partiti e nelle istituzioni, ha anche accresciuto il timore per la disoccupazione a confronto di quello per sicurezza e immigrazione. Confrontando le risposte

Le differenze in positivo e in negativo vengono sommate guardando ai numeri assoluti, per ottenere l’indice di volatilità complessivo. 16 Fonte: Itanes, Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013. 17 Fonte: ibidem. 15

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fornite alla domanda «Qual è il problema più importante che un governo deve affrontare oggi in Italia?», tra il 2001 e il 2013 si nota che la risposta «disoccupazione» è passata dal 34% al 62%, mentre quelle «sicurezza» e «immigrazione», nel 2001 rispettivamente al 18,7% e 4,6%, sono passate entrambe allo 0,1%.18 Si tratta di uno spostamento delle preoccupazioni dei cittadini lontano dai cavalli di battaglia della destra tradizionale e vicino a quelli della sinistra. Un simile cambiamento di opinione, per essere compreso, va inserito in un contesto di riarticolazione delle scelte elettorali rispetto all’asse destra-sinistra. Vediamo perché. Per quanto le elezioni del 1994 fossero state uno spartiacque della vita politica italiana, esse non avevano messo in discussione la centralità dell’asse destra-sinistra quale dimensione caratterizzante del voto. Infatti, nonostante la fine della polarizzazione ideologica che aveva contraddistinto la Prima Repubblica, le due principali coalizioni hanno cercato di costruire un bipolarismo classico: come sottolineato nel capitolo precedente, in un periodo storico di avvicinamento fra centrodestra e centrosinistra, la presenza di Silvio Berlusconi ha funzionato da catalizzatore per entrambi gli schieramenti, trasformando per vent’anni le tornate elettorali in una sorta di referendum sulla sua figura. 18

Fonte: ibidem.

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Poi la necessità di gestire la congiuntura negativa (esplosa pienamente in Italia nel 2011, con la crisi dei debiti sovrani) secondo i dettami dell’austerità neoliberista ha reso palese l’avvicinamento programmatico tra centrodestra e centrosinistra, portando all’avvento del governo tecnico di Monti e a un’ulteriore delegittimazione dei principali partiti. I due poli si sono dimostrati incapaci di gestire direttamente la pressione dei mercati finanziari (simboleggiata dalla crescita dello spread) e delle istituzioni europee,19 affidandosi quindi al governo «dei professori» per attutire la perdita di consenso. Le elezioni del 2013, prendendo le mosse in questo contesto, hanno rappresentato una sfida al bipolarismo della Seconda Repubblica, con la presenza della coalizione centrista capeggiata da Mario Monti e quella del MoVimento 5 Stelle. Monti si è fermato al 10,6% dei consensi; il M5S invece, con il suo 25,6%, è riuscito a configurarsi realmente come elemento di rottura del sistema bipolare, emergendo quale terzo polo. Tale repentina marcia indietro rispetto al bipolarismo rappresenta, in Italia, la prima seria minaccia alla configurazione tradizionale dello spettro politico sull’asse destra-sinistra. Il M5S ha raccolto

A partire dalla famosa lettera della Bce del 5 agosto 2011, il cui testo è consultabile all’indirizzo www.ilsole24ore.com/ art/notizie/2011-09-29/testo-lettera-governo-italiano 091227. shtml?uuid=Aad8ZT8D&p=2. 19

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un consenso trasversale, «strappando» elettori a quasi tutti i partiti: il 21% di chi aveva votato Pd nel 2008, il 18% di chi aveva votato Pdl, il 20% di chi aveva votato Udc, il 53% di chi aveva votato Idv, il 30% di chi aveva votato Sinistra arcobaleno e il 23% di chi aveva votato Lega Nord.20 Il risultato elettorale del MoVimento è un chiaro segnale inviato da una parte della maggioranza invisibile ai partiti tradizionali. Come sottolineato in precedenza, la crisi economica e la sfiducia verso la politica (partitica) hanno solo reso evidente la trasformazione nella composizione sociale del paese, già in atto da due decadi. Il legame tra il terremoto elettorale del 2013 e l’emergere della maggioranza invisibile può essere illustrato analizzando il voto di precari, disoccupati e pensionati,21 e focalizzandosi sulle scelte dei giovani, delle donne e di chi risiede nel Mezzogiorno: tutte fasce demografiche che tendono a fare parte del gruppo sociale cui ci rivolgiamo. Secondo i dati di Itanes, il M5S è stato il partito più votato tra i disoccupati, con il 34,8% (mentre Pdl e Pd hanno raccolto rispettivamente il 23,8% e il 17,7%), e i lavoratori atipici, con

Fonte: Itanes, Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013. 21 È più complesso ottenere dati sui neet, anche se il comportamento delle fasce più giovani della popolazione può suggerirci alcune tendenze. Anche i migranti rimangono un’importante forza sociale nella nazione, ma non sono ancora rilevanti a livello elettorale. 20

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addirittura il 52,6% (laddove Pdl e Pd si sono fermati al 22% e al 12,5%). Tra i pensionati invece prevale di gran lunga il Pd, con il 35,3%, mentre il Pdl raccoglie il 26,5% e il M5S solamente l’11,7%.22 Il M5S ha ottenuto consensi superiori agli altri partiti anche fra: i giovani, con il 44,4% tra le persone di età compresa tra i 18 e i 24 anni, e il 37% per quelle tra i 25 e i 34. Il Pd ha riscosso solamente il 16,6% fra i giovanissimi e il 17,5% tra chi ha un’età compresa tra i 25 e i 34 anni. Infine il Pdl ha raccolto ancora meno del Pd fra i giovani sotto i 25 anni, con il 13,2%, e il 21,3% fra quelli sopra i 25 anni. Le donne, con il 27,6% contro il 25% del Pd e il 20,6% del Pdl. I residenti nelle regioni meridionali, con il 31,3% contro il 26,3% del Pdl e il 21,6% del Pd.23 È utile aggiungere che, sempre secondo l’analisi di Itanes, i cittadini «più sicuri» (ovvero i garantiti), che lavorano a tempo indeterminato o non hanno perso il lavoro né mai temuto che succedesse, votano tendenzialmente per il Pd; i più «insicuri»

Fonte: Itanes, Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013. 23 Fonte: ibidem. 22

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preferiscono invece il M5S. Non sorprende, dunque, se tra gli elettori del MoVimento troviamo soprattutto lavoratori a tempo determinato, chi ha perso il lavoro e chi vive in una famiglia in cui almeno un membro ha gravi difficoltà occupazionali.24 Inoltre il M5S raccoglie – in modo massiccio – il voto di chi sostiene sia importante ridurre le disuguaglianze di reddito fra i cittadini25 e garantire a tutti una protezione sociale stabile.26 A guardare questi dati pare evidente che il M5S, nel 2013, non abbia solo messo in discussione la tradizionale polarizzazione tra destra e sinistra (aiutato dal fatto che Pd e Pdl sono sempre più appiattiti sul consenso verso le politiche neoliberali), ma sia anche riuscito a raccogliere il consenso di una parte consistente della maggioranza invisibile. Questo successo rappresenta un’ulteriore conferma che, mentre centrodestra e centrosinistra continuano a contendersi l’elettore moderato,27 un nuovo soggetto sociale è emerso e ha posto le basi per un cambiamento radicale delle dinamiche elettorali. Tuttavia, nonostante il M5S abbia raccolto un ampio consenso da una

Fonte: ibidem. Il 54% dei suoi elettori, contro il 44,8% medio degli altri partiti più votati (cioè Pd, Pdl, Lega e Scelta civica). Fonte: ibidem. 26 Il 54,4% contro il 47,2% della media degli altri partiti. Fonte: ibidem. 27 O almeno credono di farlo, visto che, come abbiamo illustrato nell’Introduzione, l’elettore moderato diventa sempre più povero e quindi è ormai incluso nella maggioranza invisibile. 24 25

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parte della maggioranza invisibile, nel periodo postelettorale ha mostrato la propria incapacità nell’interpretare e articolare i bisogni dei meno abbienti. E ciò per diversi motivi. Primo, il M5S non raccoglie il consenso dei pensionati. Come discusso nel secondo e quinto capitolo, in Italia ci sono 11,6 milioni di persone che ricevono una pensione inferiore ai 1000 euro. Anche se i dati elettorali non ci permettono di distinguere tra le scelte dei pensionati divisi per fasce di reddito, è indubbia la capacità del Pd di mantenere un ampio consenso fra questo gruppo. Non solo per via del 35,3% dei voti raccolti tra i pensionati veri e propri, ma anche per la capacità di attrarre le preferenze delle fasce più mature della popolazione,28 grazie tra l’altro al sostegno dei sindacati. È chiaro che un nuovo progetto politico dovrebbe prendere le mosse partendo dall’appoggio di chi è più giovane e vive una condizione di maggiore instabilità, vista la loro maggiore propensione al cambiamento, ma non si può trasformare il paese senza avvicinarsi ai pensionati meno abbienti. Un dato di fatto, questo, che lo stesso Grillo ha implicitamente riconosciuto sul suo blog, dopo le elezioni europee del maggio 2014: «Quest’Italia è formata da generazioni di pensionati che forse non hanno vo-

Infatti ha ottenuto il 36,4% dei consensi tra chi è nato prima del 1945. Fonte: Itanes, Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013. 28

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glia di cambiare, di pensare un po’ ai loro nipoti, ai loro figli, ma preferiscono stare così».29 Secondo, il M5S non sembra essere in grado di articolare un progetto politico che vada oltre la protesta antisistema. Pur non condividendo alcune critiche rivolte al MoVimento,30 è innegabile che esso non abbia posto le basi per un progetto capace di aggregare la maggioranza invisibile nel lungo periodo. Su importanti questioni politiche che hanno un carattere strategico per il futuro del paese (si pensi ad esempio al tema dell’immigrazione),31 il M5S ha mostrato l’incapacità di assumere una posizione comune, palesando importanti frizioni tra i diversi livelli su cui è organizzato: la leadership di Grillo e Casaleggio, che controlla il simbolo e il blog; la «classe dirigente» del movimento, che si sta formando in Parlamento; la base degli attivisti, che partecipa alle consultazioni online. In questo senso, il rifiuto del MoVimento di situarsi nel solco di una tradizione politica lo costringe a una continua e logorante verifica interna, che mette in tensione i differenti piani decisionali. I processi di espulsione di alcuni parlamentari, e la limitazione degli strumenti di democrazia diretta operata da Grillo

Vedi il video postato sul blog di Grillo, all’indirizzo www.beppegrillo.it/videos/0_8anguyt3.php. 30 Peraltro fatte spesso senza conoscere il lavoro svolto dagli attivisti e da alcuni deputati. 31 Approfondimento: Ddl sanzioni, abolito reato di immigrazione clandestina. Votano contro M5S, FdI, Lega. 29

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e Casaleggio,32 stanno pesantemente condizionando l’azione politica e l’appeal elettorale del M5S. Terzo, non riuscendo a sviluppare un legame stabile con le forze sociali che compongono la maggioranza invisibile, diventa complesso per il M5S fidelizzarle elettoralmente. Ciò lo espone a repentini cali elettorali, che possono a loro volta minare ulteriormente la fiducia dei votanti nelle sue reali capacità di trasformare il paese. Questo rischio (di cui il M5S sembra già soffrire, come visto alle europee del 2014) richiama la difficoltà di passare da un voto di protesta a uno di proposta. Al di là dei problemi interni al M5S, e di quelli ancora più gravi di centrodestra e centrosinistra, le elezioni politiche del 2013 rappresentano un punto di svolta: per la prima volta il «fantasma» della maggioranza invisibile si è affacciato alla contesa elettorale. È ancora presto per capire se questo soggetto possa essere mobilitato socialmente e politicamente per sostenere un progetto politico unitario e di ampio respiro; tuttavia, non si può negare che a differenza del passato attrarre i voti della maggioranza invisibile diverrà sempre più importante per vincere le elezioni.33

Come, ad esempio, nel caso della consultazione sull’alleanza europea con il gruppo euroscettico capitanato da Farage e il suo Ukip. La scelta è stata in questo caso condizionata dall’esclusione dei Verdi decisa da Grillo e Casaleggio, che non li hanno inseriti tra le opzioni nel referendum interno al MoVimento. 33 Torneremo su questo punto nel prossimo capitolo. 32

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Elezioni europee del 2014: la maggioranza invisibile torna silente? Per quanto sia difficile fare comparazioni tra elezioni politiche ed europee, è innegabile che il successo del Pd alla consultazione del maggio 2014 rappresenta un elemento di novità rispetto all’analisi proposta per il 2013. In particolar modo, le europee in questione costituiscono un momento interessante per verificare le dinamiche di voto della maggioranza invisibile dopo le elezioni critiche precedenti. Non essendo ancora disponibili analisi dettagliate sulla composizione sociale delle preferenze all’ultima tornata, ci limiteremo ad analizzare i flussi elettorali: dati più parziali rispetto a quelli usati per fotografare l’andamento nel 2013. Un’importante differenza fra le due consultazioni è costituita dall’affluenza. Rispetto ai circa 34 milioni di voti espressi alle politiche del 2013, alle europee si sono recati alle urne solo 27,4 milioni di italiani. Questa partecipazione ridotta ha favorito il Pd che, come già nel voto precedente, ha dimostrato di avere un elettorato più fidelizzato e stabile.34 Il suo successo si spiega quindi con la capacità di attrarre nuove preferenze senza perdere il bacino elettorale tradizionale. Nonostante il più alto livello di astensione, il

Fonte: Itanes, Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013. 34

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Pd è passato dagli 8,6 milioni di voti del 2013 agli 11,2 milioni del 2014: un incremento di 2,6 milioni. Allo stesso tempo il M5S ne ha persi circa 2,9 milioni rispetto al 2013, scendendo a 5,8 milioni di voti. Tuttavia, non bisogna farsi trarre in inganno dalla specularità di queste cifre: i flussi elettorali (in entrata e in uscita) dimostrano come il M5S abbia ceduto «solamente» 740.000 voti al Pd, mentre gli altri «ex elettori» del MoVimento che non hanno confermato la loro scelta hanno deciso piuttosto di astenersi.35 Quindi, malgrado il calo in numeri assoluti e termini percentuali, il M5S resta l’opzione elettorale preferita da poveri e disoccupati, con il 38% delle preferenze contro il 23% del Pd.36 In mancanza di dati specifici sui precari, analizzare il voto di poveri e disoccupati37 costituisce l’unico modo per valutare, seppur in modo parziale, le scelte elettorali della maggioranza invisibile. Sembra evidente che le categorie sociali più svantaggiate continuano a preferire il M5S rispetto al Pd, ma l’assenza di un progetto politico chiaro ha scoraggiato una parte della maggioranza invisibile che aveva votato per il MoVimento nella precedente tornata.38 L’exploit del Pd si ba-

Fonte: Scenari di un’Italia che cambia. Ed. speciale – Elezioni europee 27 maggio 2014. 36 Fonte: ibidem. 37 I dati presentati in questo capitolo si basano su indagini campionarie svolte da istituti specializzati nella ricerca elettorale. 38 Ciò conferma che si può raccogliere parte del voto della mag35

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sa soprattutto sui voti strappati agli ex elettori di Scelta civica (1,25 milioni di voti guadagnati).39 A tal proposito, è utile notare come ci fossero importanti similitudini nella composizione sociale degli elettori «montiani» e di quelli del Pd già nel 2013: entrambi i partiti avevano attratto le preferenze dei garantiti, ma non quelle della maggioranza invisibile. Nel 2013 Scelta civica, a fronte di una percentuale totale del 10,6%, raccoglieva solo il 5,7% fra i lavoratori atipici, il 2,6% fra i disoccupati e il 6% fra i giovani.40 Il risultato del Partito democratico alle europee del 2014, nonostante la grande affermazione elettorale, mostra come sia difficile per Matteo Renzi fare breccia nel cuore della maggioranza invisibile (con l’importante eccezione dei pensionati meno abbienti). Anche in questo caso è interessante guardare al voto dei residenti nelle regioni meridionali, dei giovani e delle donne. Tra le quindici provincie in cui il Partito democratico è cresciuto di più, tredici si trovano al Nord. Specularmente, nelle quindici provincie dove ha ottenuto i risultati peggiori (non si può parlare di risultati negativi, visto che il Pd è cresciuto un

gioranza invisibile ponendosi in termini antagonisti rispetto ai partiti tradizionali (voto di protesta), ma per trasformarlo in sostegno fidelizzato serve un progetto politico (voto di proposta). 39 Fonte: Scenari di un’Italia che cambia. Ed. speciale – Elezioni europee 27 maggio 2014. 40 Fonte: Itanes, Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013.

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po’ ovunque), tredici si trovano al Centrosud.41 Il partito guidato da Renzi e dalla sua nuova classe dirigente riesce a recuperare terreno sui giovani,42 tuttavia nella fascia tra i 18 e 29 anni il M5S rimane in testa con il 45,4% contro il 33,3% del Pd.43 Infine, il voto delle donne costituisce il maggior successo del Pd, con il 47,6% dei consensi.44 Su questo dato può aver influito da una parte l’attenzione dimostrata verso la parità di genere (con la nomina di otto ministre e candidando cinque donne come capolista nelle circoscrizioni per le europee),45 dall’altra la capacità del Pd di fare breccia fra pensionate e casalinghe, dove ha raggiunto un ragguardevole 53%.46 La consultazione europea ci ha mostrato come, nonostante il fortissimo arretramento elettorale, il M5S sia ancora in grado di intercettare parzialmente il voto della maggioranza invisibile: la sua netta sconfitta nei confronti del Pd, infatti, è dovuta più all’astensione che a un’inversione di

Fonte: Chi ha vinto chi ha perso e dove. Fonte: Scenari di un’Italia che cambia. Ed. speciale – Elezioni europee 27 maggio 2014. 43 Fonte: Flussi elezioni europee. 44 Fonte: ibidem. 45 Queste scelte sono state criticate da molti come esempio di pinkwashing, ovvero il tentativo di risolvere la questione delle discriminazioni di genere intervenendo superficialmente. Se infatti si considerano anche i quarantacinque sottosegretari, le donne presenti nel governo Renzi sono solo diciassette (una in più rispetto all’esecutivo Letta). 46 Fonte: Flussi elezioni europee. 41

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tendenza rispetto al voto del 2013. La maggioranza invisibile (con l’eccezione dei pensionati meno abbienti) si è dimostrata aperta all’innovazione proposta dal MoVimento nello schema politico, e l’ha sostenuta con il voto nel 2013; tuttavia nel 2014, di fronte all’incapacità del M5S di divenire forza propositiva e capace di articolare programmi nell’interesse dei più deboli, si è largamente rifugiata nell’astensionismo. Questo significa che, almeno al momento presente, nessuna forza politica sembra in grado di farsi carico dell’interesse della maggioranza invisibile a trasformare il paese in chiave progressista. Il Pd ha tratto vantaggio dall’effetto Renzi: un leader giovane, dinamico, decisionista, capace di rinnovare l’immagine, il modo di comunicare e parte dei quadri dirigenti del partito. Gli italiani (specie quelli più garantiti) hanno scelto ancora una volta una leadership forte, e sperano che basti una gestione dall’alto per lenire gli effetti della crisi. Come dimostrato dall’indagine condotta da Itanes sulle elezioni del 2013, la gran parte degli elettori dei maggiori partiti politici ritiene necessaria la presenza di un leader forte per amministrare il paese.47 Il timore è che l’elettorato italiano, a seguito della sua incapacità di influire sulla vita politica della nazione, potrebbe aver accetta-

Con percentuali che oscillano tra il 76% e l’85%, a seconda del partito. Fonte: Itanes, Voto amaro. Disincanto e crisi economica nelle elezioni del 2013. 47

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to ancora una volta l’idea di rivoluzione passiva, e l’esigenza di affidarsi a un nuovo cesare (dopo Berlusconi) quando il trasformismo non sembra funzionare.48 In aggiunta, in linea con le teorie dell’elettore mediano e dei partiti pigliatutto, il Pd recupera i voti dei centristi: grazie al suo successo nell’ennesima corsa all’elettore moderato batte quindi il M5S, incapace di fidelizzare la maggioranza invisibile e attrarre le preferenze dei pensionati meno abbienti. Riflessioni conclusive In continuità con le scelte degli ultimi vent’anni, i primi passi di Renzi non sono incoraggianti per la maggioranza invisibile.49 Prendete come esempio il più importante provvedimento di politica economica varato dal governo negli ultimi mesi: si è decisa, a fini prettamente elettorali, una lieve detassazione per chi ha un lavoro dipendente; al contempo si è scelto di non fare Ritorneremo su questo argomento nel prossimo capitolo. Il requiem della sinistra descritto nel precedente capitolo è confermato dal comportamento degli italiani alle urne: la maggioranza invisibile, possibile base elettorale per costruire un progetto politico alternativo e antiausterità, non si riconosce nel Pd e nel centrosinistra. A conferma di ciò, la riduzione della pressione da parte dei mercati finanziari (rappresentata dal calo dello spread) è legata alla capacità del nuovo leader di portare avanti un’agenda politica in continuità con quella neoliberista, piuttosto che al suo saper favorire l’interesse dei più deboli. 48 49

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nulla per poveri e disoccupati. Il Pd di Renzi si ispira chiaramente al New Labour di Blair. Tuttavia sono passate quasi due decadi dalla svolta blairiana, e nel frattempo una crisi economica devastante ha dimostrato i limiti dello spostamento verso il centro dei partiti socialdemocratici europei.50 Il rischio è che Renzi, disponendo di un consenso elettorale basato sul voto dei garantiti, continui a perseguire politiche che acuiscono il disagio della componente più debole della maggioranza invisibile (precari e disoccupati che, per ovvie ragioni, non lo sostengono a livello elettorale). Diversamente dal Partito democratico, il M5S avrebbe le caratteristiche adatte per attrarre almeno in parte il voto della maggioranza invisibile. Tuttavia questo voto è a oggi instabile (come dimostrato dall’astensione massiccia nel 2014) e frammentato (per la forte differenza fra precari e disoccupati da un lato e pensionati dall’altro).51 In questo contesto storico serve predisporre un progetto politico che parta dal disagio crescente della maggioranza invisibile, per mobilitarla contro il rischio dell’ennesima rivoluzione passiva. Se è vero che lo scarto ideologico fra centrodestra e centrosinistra si è enormemente In primis proprio il Partito laburista inglese e la Spd tedesca. Come più volte sottolineato, quello che manca al MoVimento, e a tutte le altre forze politiche, per fidelizzare tali elettori è un progetto sociale e politico alternativo al neoliberismo, che sappia convogliare le richieste dei meno abbienti. 50 51

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assottigliato durante la crisi, sta crescendo a dismisura rispetto all’ultimo ventennio la preferenza della maggioranza invisibile per una politica progressista e redistributiva.52 È sulla necessità e importanza di tale mobilitazione sociale e politica che si focalizza il prossimo capitolo.

Come dimostrato dai dati discussi in precedenza, sulla domanda crescente di politiche redistributive e di universalizzazione della sicurezza sociale. 52

8 Organizzare la maggioranza invisibile

Dopo aver discusso la sua prima «apparizione» elettorale, questo capitolo riflette sulle potenzialità di consolidamento della maggioranza invisibile come soggetto sociale e politico. La chiave di lettura utilizzata, per creare un ponte tra la storia del paese e la grande trasformazione,1 è ancora quella della rivoluzione passiva e di un suo potenziale superamento, proprio grazie alla mobilitazione della maggioranza invisibile. Diversamente dal resto del libro, ci spingeremo ora oltre la mera analisi; per questa ragione, il capitolo deve essere inteso come una riflessione su una storia ancora da scrivere. Il concetto di rivoluzione passiva (basato sull’idea che i cambiamenti epocali nella vita dell’Italia sono stati controllati dall’alto, mediante il trasformismo e il cesarismo) è utile per analizzare vari

Caratterizzata, lo ricordiamo: dall’influenza del neoliberismo, da quella del processo d’integrazione monetaria, dalla crisi del welfare state fordista e dal requiem della sinistra. 1

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momenti di «rottura storica» nella vita sociale e politica del nostro paese. Come descritto nel settimo capitolo, la nozione di trasformismo fu usata da Gramsci per illustrare la gestione, da parte di destra e sinistra storiche, dell’impasse politica successiva all’Unità; mentre quella di cesarismo fu adoperata per spiegare come le crescenti tensioni sociali, generate dall’industrializzazione e dalle conseguenze della Prima guerra mondiale, furono «domate» con il ricorso alla leadership autoritaria di Mussolini. Per rottura storica, invece, intendiamo un momento di cesura, dopo il quale si può identificare un profondo cambiamento rispetto alle dinamiche immediatamente precedenti. Ebbene, le rotture storiche che si sono susseguite in Italia fino ai giorni nostri possono essere lette generalizzando lo schema interpretativo proposto dal pensatore sardo. Per farlo considereremo: la composizione sociale dei gruppi più svantaggiati; gli elementi interni ed esterni di cambiamento; le tipologie di rivoluzione passiva che hanno preso piede per gestire le diverse rotture storiche. Sulla scorta di questo schema analitico, si possono distinguere quattro periodi che hanno preceduto il momento di rottura storica rappresentato dalla presente crisi economica:

Organizzare la maggioranza invisibile

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1. il cesarismo regressivo tra le due guerre;2 2. il trasformismo alle origini della Prima Repubblica; 3. il trasformismo con cui è stato gestito il periodo postfordista; 4. il mix di trasformismo e cesarismo mediante il quale è avvenuto il passaggio alla Seconda Repubblica. La tabella seguente descrive in maniera sintetica le caratteristiche di ciascuno di questi periodi: GRUPPI SVANTAGGIATI PREVALENTI

ELEMENTI INTERNI

ELEMENTI ESTERNI

TIPO DI RIVOLUZIONE PASSIVA

Periodo postunificazione: le basi della rivoluzione passiva come meccanismo di gestione del cambiamento Dominio di Sviluppo di destra e sinistra nazionalismo storiche e imperialismo Trasformismo Contadini Squilibrio Nord- europeo storico Sud e imperfetto Prima guerra processo di unimondiale ficazione Periodo 1: il cesarismo regressivo tra le due guerre Contadini Operai industriali

2

Biennio rosso Ascesa del Fascismo

Ascesa del fordismo/ taylorismo Guerre mondiali

Introdotto dal periodo postunificazione.

Cesarismo regressivo

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Periodo 2: il trasformismo alle origini della Prima Repubblica

Operaio industriale

Prima Repubblica Democrazia senza alternanza

Fordismo come sistema di governance globale Trasformismo della democrazia senza Guerra fredda Avvio processo alternanza d’integrazione europea

Periodo 3: il trasformismo per gestire il periodo postfordista Crisi del fordiTrasformismo smo e deinduCompromesso tipico del strializzazione storico compromesso Disoccupati Elaborazione del storico e svolta Governi Dc-Psi neoliberismo socialista Guerra fredda Periodo 4: il mix di cesarismo e trasformismo per gestire il passaggio alla Seconda Repubblica Fine della Guerra fredda Ascesa del Immigrati Mix di Seconda neoliberismo cesarismo Precari Repubblica Accelerazione e trasformismo Disoccupati del processo d’integrazione europea Il presente: nuovi meccanismi di gestione del cambiamento dopo la crisi economica e finanziaria Iniziale trasformismo Crisi Nuovo cesarismo finanziaria e Crisi della Maggioranza della governance (Renzi) o Seconda invisibile trasformazione neoliberista Repubblica nella governance Crisi europea italiana ed europea?

La prima fase è quella del cesarismo regressivo tra le due guerre. Fu allora che Gramsci e altri pen-

Organizzare la maggioranza invisibile

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satori progressisti, come Gaetano Salvemini, proposero un’alleanza fra le varie componenti della maggioranza invisibile dell’epoca: i lavoratori industriali3 e i contadini.4 L’emergere prepotente di questi gruppi sociali svantaggiati e le tensioni derivanti dalla fine del primo conflitto mondiale avevano messo in luce i limiti della governance trasformista, adoperata da sinistra e destra storiche5 per gestire il rapido e tumultuoso cambiamento della nazione. Il Biennio rosso diede voce alle speranze dei lavoratori industriali e dei contadini,6 ma contribuì anche al superamento del trasformismo mediante il cesarismo regressivo del fascismo mussoliniano. In pratica, il conflitto sociale fra diversi soggetti dell’Italia postunitaria si risolse in favore della ricca borghesia, che si servì del fascismo per ricomporre le fratture innescate dalla Prima guerra mondiale e tenere sotto controllo le «pulsioni rivoluzionarie» dei più poveri.7 L’insuccesso del blocco sociale composto da questi ultimi si spiega anche con l’incapacità di costruire una vasta alleanza tra operai e contadini. Come rilevato da Gaetano Salvemini,8 senza

Della nascente industria del Nordovest. Del Mezzogiorno e di altre aree rurali del paese, come il Nordest. 5 Che avevano dominato la scena politica dopo l’Unità. 6 Con Biennio rosso ci si riferisce alle mobilitazioni del periodo 1919-20. 7 Parzialmente organizzati dai partiti di sinistra. 8 Approfondimento: G. Salvemini, Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano. 3 4

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l’appoggio convinto dei braccianti meridionali mancò la forza per rovesciare la dinamica di rivoluzione passiva innescata dalla ricca borghesia. E così la prima rottura storica, in grado di dare voce ai più deboli, si trasformò in occasione per intraprendere un cambiamento di matrice reazionaria. La fase successiva è costituita dal trasformismo alle origini della Prima Repubblica. Con la fine della Seconda guerra mondiale e della dittatura fascista, la ricostruzione si nutrì del fordismo e dell’ascesa dell’operaio industriale. Inoltre l’adesione del nostro paese al blocco occidentale, nell’ambito della Guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, comportò lo sviluppo di una democrazia che non conosceva il principio dell’alternanza. In questo contesto storico, la Dc mantenne saldamente il controllo di ogni governo, attraverso la costruzione di alleanze politiche «variabili» con partiti più piccoli.9 Anche se in questo periodo non ci sono state forme di trasformismo paragonabili a quelle della destra e della sinistra storiche, il consenso necessario a governare fu ottenuto mediante la cooptazione di vari gruppi sociali. Il clientelismo diffuso fu lo strumento principe per controllare saldamente l’intera cittadinanza, e di conseguenza indirizzare tutte le scelte politiche più importanti. Nonostante ciò, gli operai industriali riuscirono a sfruttare la propria consisten-

Si parla spesso, in questo senso, di alleanze politiche e sociali «a geometria variabile». 9

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za numerica e la centralità acquisita nel processo produttivo per organizzarsi e ottenere importanti concessioni.10 Concessioni che ancora oggi costituiscono il nucleo del nostro welfare state.11 La terza fase è quella del trasformismo del periodo postfordista. Negli anni Settanta, la maturazione e crisi del fordismo a livello internazionale colpì l’Italia duramente, per diverse ragioni: primo, a causa della totale dipendenza energetica, il nostro paese era molto sensibile alle variazioni del prezzo del petrolio;12 secondo, per via delle politiche monetarie, che contribuirono ad accrescere l’inflazione; terzo, a causa dell’intenso scontro sociale innescato dalle trasformazioni interne,13 che esasperò i conflitti ideologici e assottigliò i margini di profitto per le imprese. A livello politico, la crisi del fordismo e le crescenti tensioni14 portarono a un’apertura (attraverso il compromesso storico) della Democrazia Attraverso i sindacati e i partiti di sinistra. Occorre sottolineare che le maggiori conquiste in tal senso arrivarono nel periodo immediatamente successivo, proprio mentre una nuova rottura storica stava per materializzarsi con la crisi del fordismo. 12 E dunque era esposto agli shock determinati dalle crisi petrolifere che abbiamo citato nel terzo capitolo. 13 Principalmente industrializzazione, immigrazione interna e istruzione di massa. 14 Gli elementi più importanti di attrito sono stati: le rivolte studentesche del 1968, l’Autunno caldo, la strategia della tensione e la deriva degli Anni di piombo. Tali elementi furono inoltre acuiti dalla posizione geostrategica del nostro paese nel contesto della Guerra fredda. 10

11

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cristiana verso i partiti di sinistra.15 Con l’aggravarsi della crisi del fordismo e l’affacciarsi della governance neoliberale a livello internazionale, si saldò negli anni Ottanta la collaborazione tra socialisti e democristiani. Quest’alleanza dominò la scena politica fino alla fine della Prima Repubblica. Dal punto di vista produttivo si segnalarono: la progressiva deindustrializzazione del paese, con la crescita dell’economia dei servizi; l’aumento del tasso di occupazione tra le donne; l’impennata del tasso di disoccupazione. A livello sociale, lo stato di relativo benessere raggiunto nel periodo postbellico, sostenuto con la crescita del debito pubblico, contribuì a ingrossare le fila della classe media, riducendo quindi, almeno in parte, la conflittualità del periodo precedente. La quarta fase è rappresentata dal mix di trasformismo e cesarismo che ha caratterizzato la Seconda Repubblica. Il periodo che va dall’inizio degli anni Novanta alla recente crisi finanziaria è stato marcato dalla fine della Guerra fredda, dalla seconda fase del processo d’integrazione europea (sfociato nell’avvento dell’euro), e dall’adozione anche in Italia di una lunga serie di misure neoliberiste. Dal punto di vista sociale, si è assistito a importanti cambiamenti che hanno delineato l’emergere della maggioranza invisibile: l’immigrazione di massa, il processo di precarizzazione e flessibilizzazione della forza 15

Fino a quel momento esclusi dai governi.

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lavoro e quello di riforma del welfare, che hanno colpito prevalentemente chi cominciava a lavorare nell’ultimo decennio del Novecento. Questa fase di transizione è stata gestita attraverso una mescolanza di trasformismo e cesarismo. Se Berlusconi ha rappresentato il cesare, la definizione dei due principali schieramenti politici non è stata immune da episodi di trasformismo, sia individuali sia collettivi. Il sistema ha retto fino all’acuirsi della crisi nel 2011, che segna un nuovo momento di rottura storica. Oggi, in un contesto potenzialmente esplosivo, gli attori politici e sociali che hanno dominato la storia recente del paese appaiono incapaci di rappresentare gli interessi della maggioranza invisibile; d’altro canto il M5S, che tanti consensi ha raccolto nel 2013 proprio da parte di questo soggetto sociale, non sembra in grado di trasformare il voto di protesta in proposta.16 Il risultato delle europee del 2014, con la forte affermazione elettorale di Renzi, potrebbe segnare una svolta politica cruciale. Del resto il personalismo e il piglio decisionista di Renzi sembrano suggerire l’apparizione dell’ennesimo cesare nell’arena politica italiana. E l’agenda suggerita dal leader del Partito democratico, pur capace di attrarre il voto dei garantiti e di parte dei neoliberisti, non pare in linea con i bisogni della maggioranza invisibile.

Sviluppando finalmente una piattaforma politica per la maggioranza invisibile. 16

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La maggioranza invisibile e il futuro del paese La mobilitazione sociale e politica della maggioranza invisibile potrebbe essere l’antidoto per rompere con la gestione dall’alto del cambiamento, secondo le modalità della rivoluzione passiva. O, quantomeno, per moderarla. Essa potrebbe caratterizzarsi in tre momenti:17 1. quello della rappresentazione;18 2. quello dello sviluppo di un progetto politico di lungo corso; 3. quello del radicamento del progetto politico all’interno della società. 1) RAPPRESENTARE LA MAGGIORANZA INVISIBILE Come descritto in precedenza, il paese è oggi diviso in tre blocchi: chi vuole proseguire con le riforme che danno più spazio al mercato (i neoliberisti), chi vuole difendere le posizioni di vantaggio acquisite in passato (i garantiti) e la maggioranza invisibile. L’analisi che abbiamo proposto sin qui si concentra proprio sul definire – e quindi rendere «narrativamente visibile» – questa maggioranza dimenticata dalla politica, facendo leva sui

Due dei quali parzialmente illustrati nel quarto capitolo, e ispirati dai momenti gramsciani di costruzione dell’egemonia. Approfondimento: R.W. Cox, Gramsci, Hegemony and International Relations: An Essay in Method. 18 Cioè il riconoscimento di una serie d’interessi comuni, che permettano alla maggioranza invisibile di sentirsi soggetto unitario. 17

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suoi interessi comuni e sulle ragioni che l’hanno portata a emergere. La rappresentazione è un passaggio fondamentale per rendere socialmente e politicamente rilevante la maggioranza invisibile. Solo trasformandosi in un soggetto politico coeso attorno alla rivendicazione dei propri diritti, essa potrà essere in grado di lottare contro neoliberisti e garantiti per avanzare la propria agenda. Da questo punto di vista è interessante tornare a riflettere sulla genesi dell’idea di precarietà. Quando nella seconda metà degli anni Novanta si è proceduto con la progressiva flessibilizzazione della forza lavoro, il termine «precario» era scarsamente diffuso. L’affermazione del concetto di precarietà è stata il risultato di una battaglia politica e culturale riguardo la definizione delle trasformazioni nel mercato del lavoro. Grazie a tale battaglia, sempre più lavoratori che vivono condizioni instabili e scarsamente garantite hanno cominciato a riconoscersi come precari. E proprio la rappresentazione delle esigenze comuni ha costituito la base per le prime rivendicazioni politiche. Come abbiamo rilevato nel secondo capitolo, proprio a un simile percorso dovrebbe rifarsi la maggioranza invisibile, puntando oltretutto sulla sua forza numerica.19 Al momento le

I precari (pur essendo una componente crescente della forza lavoro) restano minoritari nel paese, mentre la maggioranza invisibile ha dalla sua parte la forza dei numeri. Una forza che si 19

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strutture classiche della rappresentanza, come partiti e sindacati, non riconoscono il potenziale di questa mobilitazione e di conseguenza ignorano – o quasi – la maggioranza invisibile. I partiti sono radicalmente cambiati durante la Seconda Repubblica. Sempre più spesso, essi sono tenuti insieme da leadership forti; in altri casi sono animati da correnti che, rappresentando diversi gruppi di potere, si affrontano senza esclusione di colpi per ottenere il controllo. In questo contesto, si sono affievolite due delle caratteristiche che avevano permesso ai partiti di massa di divenire la cinghia di trasmissione tra la società e l’amministrazione dello Stato: il contatto con il territorio (il cosiddetto «paese reale»), e la capacità di promuovere dibattiti interni volti a sviluppare progettualità politica. La discussione, nei partiti, è sempre più schiacciata sui temi imposti dalle contingenze economiche. Contingenze a loro volta segnate, quasi sempre, dall’agenda neoliberista. In una simile situazione di distacco dal territorio e mancanza di dibattito interno, appare abbastanza difficile che i partiti tradizionali possano farsi promotori di una mobilitazione al servizio della maggioranza invisibile. Non è un caso che la novità più grossa della storia politica

è parzialmente espressa alle elezioni del 2013, quando il voto di protesta proveniente da una sua parte ha sconvolto lo scenario politico nostrano.

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recente non provenga da un partito «classico», bensì da un movimento. Il caso del M5S merita ancora una volta, dunque, una riflessione a parte rispetto ai partiti tradizionali. Il MoVimento non è una semplice espressione antipolitica. Ci sono, infatti, elementi che potrebbero suggerire un suo ruolo positivo nel risvegliare parte del capitale sociale inespresso all’interno della società italiana: i suoi attivisti, per esempio, tendono a partecipare ad associazioni di volontariato molto più della media italiana.20 Da questo punto di vista, il M5S ha costituito una prima occasione di «socializzazione politica» per molte persone che, pur operando nel mondo dell’associazionismo, non avevano mai voluto partecipare alla vita pubblica del paese (o più semplicemente non avevano mai trovato il giusto spazio all’interno delle strutture tradizionali di rappresentanza). Dal punto di vista del risveglio del capitale sociale, occorre poi sottolineare altri due dati. Il primo è che gli attivisti del MoVimento (e quindi non semplicemente i suoi elettori, come illustrato nel capitolo precedente) provengono principalmente dai ranghi della maggioranza invisibile.21 Il secondo è che i meetup22 con il maggior numero d’iscritti soFonte: F. Bordignon e L. Ceccarini, Five Stars and a Cricket. Beppe Grillo Shakes Italian Politics. 21 Fonte: ibidem. 22 Meetup è un servizio social network (www.meetup.com) che serve a facilitare l’incontro di persone. Ci si può trovare in base 20

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no situati in aree delle penisola che storicamente hanno un livello più basso di capitale sociale e partecipazione associativa,23 come le grandi città del Mezzogiorno (particolarmente significativi sono i casi di Napoli e Catania).24 Tuttavia questo esperimento di «politica dal basso» è anche caratterizzato da alcuni aspetti negativi. Da un lato il peso dei due leader e iniziatori del MoVimento sembra ridurne la libertà di evoluzione (la modalità di scelta del gruppo parlamentare europeo è stata un segnale preoccupante). Dall’altro la volontà di non collocarsi in nessuna tradizione politica è un’arma a doppio taglio: permette di usare la retorica del «nuovo contro vecchio» ma espone il M5S a ogni sorta di tendenza, aprendo la strada anche a strampalate ipotesi complottiste.25 Un esempio della semplificazione negativa del dibattito dovuta a questa logica è costituito dal discorso sulla casta. Pur condividendo il duro giudizio sui politici

a un comune interesse, in questo caso la politica e il sostegno al MoVimento 5 Stelle. Approfondimento: A. Jeffries, The Long and Curious History of Meetup.com. 23 Queste aree sono quelle meridionali. Approfondimenti: E. Ferragina, Social Capital in Europe: A Comparative Regional Analysis; R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane. 24 Vedi i dati delle singole città all’indirizzo beppegrillo.meetup. com/. 25 O a ideologie che propinano l’illusione di trovare attraverso la sola tecnologia soluzioni a problemi sociali complessi. Problemi che, invece, richiedono una chiara presa di posizione in campo sociale e politico più che l’intervento di una tecnologia salvifica.

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italiani, non crediamo che un cambio di classe dirigente (ammesso che si possa cambiare una classe dirigente senza rinnovare in profondità le strutture sociali e politiche che la supportano) porterebbe miglioramenti significativi nella governance del paese, specie se non è accompagnato da una nuova progettualità politica di lungo periodo. Ciononostante l’esperienza del MoVimento sta contribuendo a rinnovare le pratiche organizzative e di rappresentanza; e, in tal senso, l’avvicinamento alla maggioranza invisibile potrebbe essere intrapreso mescolando esperienze vecchie e nuove di radicamento sui territori: il contatto costante con la «pancia» del paese è necessario per riavviare il confronto sulle strategie politiche a lungo termine. La crisi sta dimostrando i limiti delle forme di governance neoliberali che da vent’anni influenzano i maggiori partiti. Ripensare un progetto politico per l’intera nazione richiede la capacità di comprendere la grande trasformazione, di interloquire costantemente con i soggetti che la vivono (il più delle volte subendola in modo passivo) e di riflettere su come essa si iscriva all’interno di processi europei e globali. Un discorso simile a quello fatto per i partiti vale, ovviamente, per i sindacati. Dopo la caduta del fascismo essi si sono organizzati e sviluppati all’interno del sistema fordista. La loro capacità d’intervento nella società durante il periodo

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industriale è indubbia, mentre più difficoltoso è stato il percorso di adattamento alla grande trasformazione. Le organizzazioni sindacali sono riuscite a integrare – almeno in parte – nelle proprie strutture rappresentative un numero crescente di donne lavoratrici, a mantenere attivi i pensionati e ad avviare percorsi di riflessione sul lavoro dei migranti. Tuttavia, allo stesso tempo, non hanno saputo avvicinare i precari, i disoccupati e i neet. In particolare, non hanno provato a rappresentare adeguatamente chi è marginalizzato sul mercato del lavoro o chi non riesce ad accedervi. A livello organizzativo, per esempio, i sindacati continuano a proteggere i lavoratori principalmente all’interno dei loro settori produttivi (la cosiddetta «organizzazione verticale»). In questo modo, essi non hanno strumenti adeguati per difendere i precari, per i quali servirebbe un’organizzazione basata sulla tipologia contrattuale piuttosto che sul settore produttivo (quindi «orizzontale»). Tale situazione rende i precari minoranza all’interno di ogni comparto, creando conflitti con i lavoratori garantiti dalla vecchia struttura, modellata nel periodo fordista (anche per questa ragione i precari si iscrivono di rado al sindacato). In breve, per difendere adeguatamente i precari e gli altri membri della maggioranza invisibile, i sindacati dovrebbero cambiare modello organizzativo, da verticale a orizzontale. Questo significherebbe, per esempio, difendere indistintamente i precari, a prescindere dal fat-

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to che lavorino nel settore metalmeccanico, della scuola o delle costruzioni. Un simile processo di trasformazione, però, è arduo da intraprendere, a causa della pressione dei tesserati (molti dei quali sono garantiti dalla vecchia struttura) e in considerazione della storia sindacale (la maggior parte delle lotte per i diritti e la protezione dei lavoratori, infatti, ebbe origine sul luogo di lavoro, simboleggiato plasticamente dalla fabbrica fordista). Quindi per portare avanti una trasformazione radicale occorrerebbe superare le resistenze di tipo organizzativo e mettere da parte il dogma lavorista, l’idea cioè che una persona possa accedere alla protezione sociale solo sulla base della sua partecipazione al mondo del lavoro formale.26 Pur riconoscendo le difficoltà con le quali i sindacati si scontrano ogni giorno (esacerbate dalla grande trasformazione), non si può negare la timidezza del loro approccio nell’investire sulla protezione della maggioranza invisibile. Infine ci sono i movimenti sociali che, pur con una lunga tradizione di mobilitazione dei soggetti più deboli, non sembrano avere un impatto significativo sulla società italiana. Simili esperienze hanno proposto sperimentazioni su come mobilitare parte della maggioranza invisibile (coinvolgendo

O della sua dipendenza da un lavoratore, nel caso di un bambino a carico o di un partner. 26

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studenti, migranti e precari),27 tuttavia non sono state abbastanza inclusive. In particolare, contrariamente a partiti e sindacati, queste forme più dinamiche di mobilitazione sociale faticano ad attivare le fasce mature della popolazione. Come abbiamo già ribadito non sono i pensionati la categoria sociale che può trasformare il paese, ma senza coinvolgere almeno una parte di quegli 11 milioni di loro che vivono con meno di 1000 euro al mese sarà difficile scardinare l’agenda politica portata avanti da neoliberisti e garantiti. In diversi passaggi di questo lavoro ci siamo soffermati sull’esistenza (in ogni periodo storico) di una relazione tra la struttura produttiva prevalente e la composizione sociale. Per fare un esempio, la società di consumo di massa era perfettamente iscritta nel processo di produzione industriale fordista. L’esistenza di questa stretta relazione deve inquadrare anche la riflessione sulle forme potenziali di organizzazione della maggioranza invisibile (o di qualsiasi altro soggetto sociale) da parte di partiti, sindacati e movimenti. Non esiste una struttura o metodologia organizzativa buona per tutte le stagioni e per tutte le composizioni sociali: la sperimentazione è necessaria, così come lo studio delle forme che si sono succedute nel tempo (ad esempio quelle prefordiste inqua-

Un esempio è quello del collettivo Chainworkers e di san Precario. Per informazioni vedi il sito ufficiale www.precaria.org. 27

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drate dallo storico Thompson nel caso inglese,28 o quelle fordiste). Da questo punto di vista, ciò che la nostra analisi suggerisce è la necessità di adoperarsi per rendere le strutture organizzative più flessibili e pronte a sostenere l’universalizzazione dei diritti sociali. Come accennato discutendo le difficoltà di trasformazione del sindacato per adattarsi all’epoca postfordista, non è solo attraverso il lavoro nell’economia formale che si deve poter accedere ai diritti sociali e al welfare state. Questo per una semplice ragione: la grande trasformazione ha cambiato il profilo dei rischi sociali e ha reso gli svantaggiati una categoria sociale molto più eterogenea rispetto al passato. Diversamente dall’epoca fordista, serve una protezione universale di base, e non solo quella per l’operaio/impiegato con un contratto a tempo indeterminato. Muovere in questa direzione significherebbe superare il dogma lavorista, che pervade le analisi di garantiti e neoliberisti. 29 Con gli altissimi tassi di disoccupazione e inattività che conosce il paese, il cambiamento delle strutture produttive, il transito da un’economia industriale a una basata sui servizi, che senso ha pensare ancora che la protezione sociale di un

Approfondimento: E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra. 29 Approfondimento: A. Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile. 28

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individuo possa passare soltanto dall’avere un lavoro stabile?30 Questa critica all’azione di partiti e sindacati nelle ultime decadi non vuol dire rinnegare tout court le loro esperienze passate, ma piuttosto seguire l’idea di selezionare e sperimentare le forme di organizzazione (vecchie e nuove) che più si adattano al contesto produttivo e sociale nel quale siamo immersi. Perciò, appurato che la flessibilità nelle strutture e nelle forme d’attivazione della maggioranza invisibile è un elemento centrale di riflessione, bisogna spingersi oltre e investigare quali dimensioni rivendicative possano tenerla insieme. In questo senso, riconoscere che i soggetti parte di tale maggioranza hanno l’interesse comune a promuovere l’agenda dell’uguaglianza efficiente è un punto di partenza fondamentale. 2) SVILUPPARE UN PROGETTO POLITICO L’agenda dell’uguaglianza deve essere articolata in un programma di rivendicazione comune supportato dalla maggioranza invisibile. Questo programma dovrebbe configurarsi come il primo tassello di un’ambiziosa piattaforma politica di lungo periodo. Ma che caratteristiche dovrebbe avere una simile piattaforma, per aggregare

E possibilmente un contratto a tempo indeterminato, come il nostro sistema presuppone con la sua struttura ancorata, ma solo per i garantiti, a un fordismo che non esiste più. 30

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il gruppo sociale di cui ci occupiamo?31 Nel secondo capitolo abbiamo presentato i tratti della maggioranza invisibile. Nel farlo abbiamo delineato alcuni degli elementi che caratterizzano i diversi gruppi sociali al suo interno: i precari, con un disperato bisogno di stabilità; i disoccupati e i neet, a cui va data la possibilità di entrare/rientrare nel processo produttivo; i pensionati poveri, emblema di una previdenza sociale che rafforza le divisioni e la distribuzione iniqua del reddito e della ricchezza socialmente prodotta; i migranti che, schiacciati dalle dinamiche create dalle leggi sull’immigrazione, si ritrovano a gonfiare le fila della forza lavoro di riserva a basso costo, con una limitatissima capacità di accedere al welfare. Come illustrato da vari studi accademici,32 il welfare state italiano riproduce, e addirittura accresce,

Il programma politico della maggioranza invisibile potrebbe anche avere, ovviamente, un connotato diverso da quello che proponiamo nel libro. L’idea che l’uguaglianza efficiente possa mettere insieme gli interessi di tale gruppo è una considerazione che scaturisce dall’analisi proposta nel corso dei capitoli. Tuttavia, la strada della mobilitazione sociale e politica della maggioranza invisibile potrebbe seguire un percorso differente. In questo senso, il sociologo ha il compito di desumere a partire dalle sue analisi, e non certo di prevedere il futuro. 32 Approfondimento: M. Ferrera, The Southern Model of Welfare in Social Europe. 31

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alcune forme di disuguaglianza decretate dall’economia di mercato.33 Per questa ragione, l’agenda dell’uguaglianza potrebbe essere trasformata in proposta politica ripensando il nostro obsoleto stato sociale: un tema che ha la potenzialità per attrarre l’interesse di tutta la maggioranza invisibile. Un nuovo welfare, basato come si è visto su alcuni principi universalistici, potrebbe contribuire a: 1. garantire una maggiore stabilità e continuità di reddito ai precari; 2. accrescere le possibilità di impiego nell’economia formale e nei servizi sociali di neet34 e disoccupati;35 3. redistribuire più equamente le risorse e ridurre la dipendenza dal welfare familiare, che pesa sempre più sulle spalle dei pensionati; 4. migliorare i percorsi d’inserimento per i migranti, rendendoli più virtuosi e dignitosi.36 La sfida è quella di passare da un welfare fordista (usato quasi sempre in modo assistenziale)

Ma lo stesso discorso vale, più in generale, per quello di tutti i paesi mediterranei. 34 Ricordiamo, ad esempio, che la mancanza di strutture a supporto dell’infanzia come asili e scuole materne svantaggia soprattutto le donne, che sono infatti maggioritarie fra i neet. 35 Specie quelli di lungo corso. 36 Anche una revisione della legge sull’immigrazione è fondamentale per attivare tale processo. 33

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e clientelista (sfruttato quindi per proteggere una fetta di garantiti), a uno universale, in grado di aumentare la produttività sociale della maggioranza invisibile e l’efficienza del paese. Alcune aree d’intervento che avevamo individuato sono: la garanzia di un alloggio dignitoso, il miglioramento dei trasporti pubblici, l’incentivo alla formazione continua, le politiche di sostegno alla famiglia e al reddito. Un nuovo welfare universale – strumento al servizio della redistribuzione e dell’incremento della produttività economica e sociale – è sicuramente un orizzonte fondamentale per le lotte di rivendicazione della maggioranza invisibile. Tuttavia non è sufficiente. Esso può essere solo un primo passaggio concreto nella strategia di mobilitazione di tale gruppo sociale, attraverso cui veicolare la richiesta di nuovi diritti e lo sviluppo di un’idea diversa di cittadinanza. Una cittadinanza anch’essa universale, e inclusiva. Da questo punto di vista, la lotta per la redistribuzione potrebbe essere la base per una più ampia piattaforma politica egualitaria, universale e internazionalista. 3) RADICARE IL PROGETTO POLITICO NELLA SOCIETÀ ITALIANA

La capacità di sostenere e radicare un simile progetto, alternativo a quello di neoliberisti e garantiti, dipenderà dalla forza con la quale la maggioranza invisibile saprà promuoverlo. Dove per forza intendiamo sia quella numerica, sia quella

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dovuta all’influenza sulle strutture decisionali. In un simile processo, la maggioranza invisibile possiede due vantaggi considerevoli sugli altri gruppi sociali che le si contrappongono:37 la crescente forza numerica e l’esistenza di alcuni alleati potenziali da coinvolgere nel progetto di cambiamento. L’accelerazione delle riforme neoliberiste e il contesto economico globale contribuiscono ogni giorno alla crescita della maggioranza invisibile: nel futuro ci saranno più precari, più pensionati con redditi inferiori a 1000 euro al mese, e probabilmente più immigrati. Senza contare che in un periodo di crescita stagnante potrebbe innalzarsi anche il numero di neet e disoccupati. Dall’altra parte, la forza numerica dei garantiti è in via di erosione. La riforma delle pensioni e la precarizzazione del lavoro stanno svuotando le basi sociali di questo gruppo. Infine i neoliberisti, che hanno sempre potuto contare sull’appoggio leggittimatore dell’Europa e del contesto internazionale, conoscono oggi difficoltà via via maggiori nel far sembrare «tecniche» e necessarie le loro riforme, vista la macelleria sociale causata dalle politiche di austerità. A ciò va aggiunto che ci sono altre categorie sociali potenzialmente vicine alla maggioranza

Essi, tuttavia, continuano a sfruttare la sua sottorappresentazione all’interno di partiti tradizionali, sindacati ed élite dominanti. 37

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invisibile: i lavoratori della classe media e gli studenti, pur non facendone parte in modo diretto, stanno soffrendo la crisi e hanno il «dente avvelenato» contro la minoranza visibile dei garantiti. Si tratta di alcuni milioni di cittadini, perlopiù istruiti e altamente produttivi. Essi hanno tutto l’interesse a sposare in toto l’agenda dell’egualitarismo efficiente, perché anche loro necessitano di: migliori servizi (finanziati con la fiscalità generale); maggiori investimenti nell’università e nel capitale umano; un welfare state universalista, che riassorba il particolarismo inefficiente difeso a spada tratta dai garantiti. Anch’essi, poi, vogliono contare socialmente e politicamente, riducendo il ruolo di neoliberisti e garantiti che li hanno relegati ai margini della società in compagnia della maggioranza invisibile. L’altro alleato potenziale viene dall’estero. L’emergere progressivo della maggioranza invisibile non è, infatti, solo un fenomeno italiano. Come abbiamo illustrato nella prima parte del libro, la grande trasformazione che sta sconvolgendo la nostra società e il nostro mercato del lavoro ha una matrice europea e mondiale. Anche la Germania, capace di crescere in un periodo di forte crisi, l’ha fatto grazie a politiche neomercantiliste38 e creando una separazione marcata

Il mercantilismo fu una politica economica che prese piede in Europa tra sedicesimo e diciottesimo secolo. Essa si basava sulla convinzione che la forza economica di una nazione crescesse 38

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tra garantiti e precari. Questi ultimi, ad esempio, subiscono da circa quindici anni una riduzione costante della protezione sociale, in seguito alle riforme portate avanti con spirito bipartisan da cristianodemocratici e socialdemocratici.39 Altri paesi come la Grecia, la Spagna e il Portogallo vivono in modo ancora più drammatico la crisi, con picchi altissimi di disoccupazione giovanile, precarizzazione del mercato del lavoro, invecchiamento rapido della popolazione e crescita della comunità migrante. Ed è innegabile come, storicamente, i più grandi cambiamenti siano avvenuti quando forze sociali simili hanno cominciato a emergere in nazioni diverse, unendo le loro forze contro la resistenza di un sistema iniquo e inefficiente. L’espansione geografica della lotta in favore della redistribuzione è essenziale per invertire alcuni meccanismi che stanno pesantemente contribuendo al collasso del continente.40 Ormai il legame che connette l’Italia e l’Unione Europea

aumentando le esportazioni e riducendo le importazioni. Le politiche di austerità competitiva, che abbiamo analizzato nel terzo e quarto capitolo, tradiscono chiaramente un’ispirazione neomercantilista. 39 Approfondimento: P. Emmenegger, S. Häusermann, B. Palier e M. Seeleib-Kaiser, The Age of Dualization. 40 Tale lotta di stampo europeo non è stata perseguita da partiti e sindacati: essi infatti sono rimasti confinati alla dimensione nazionale e hanno fattivamente perseguito, nel caso dei partiti, o subito, nel caso dei sindacati, le idee neoliberiste su cui si basano le politiche di austerità competitiva.

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viene considerato da molti come un vincolo che limita l’autonomia del nostro paese, ma questa relazione è in realtà anche un’opportunità storica. Da un lato occorrerebbe smetterla di guardare all’Europa solo da un punto di vista nazionale: la maggioranza invisibile ha molto più in comune con i precari tedeschi che con i garantiti italiani. Dall’altro, l’Italia fuori dall’Unione sarebbe maggiormente esposta alle pressioni internazionali. In sintesi, il progetto politico della maggioranza invisibile deve essere internazionalista: non c’è benessere per il precario o il disoccupato italiano che non combatta in Europa e nel mondo contro le logiche perverse innescate dal neoliberismo. Riflessioni conclusive: scenari di attivazione della maggioranza invisibile Riflettendo sul contesto politico italiano si possono intravedere almeno due scenari di attivazione della maggioranza invisibile. Il primo prevede la sua frammentazione, con la mobilitazione di alcune delle sue componenti da parte di altre forze sociali e politiche. Il secondo, invece, presuppone una sua maturazione come soggetto politico autonomo. Se gli elementi che differenziano le componenti della maggioranza invisibile dovessero prevalere sull’interesse comune, allora parti di questa forza sociale saranno strumentalmente condotte a promuovere programmi politici conservatori o reazionari, secondo lo schema classico della rivoluzione passiva. È chiaro dunque, da

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questo punto di vista, che i principali movimenti politici vicini a garantiti e neoliberisti hanno tutto l’interesse a frammentare la maggioranza invisibile. I partiti più a destra usano di solito una violenta retorica antimmigrazione, in cerca di capri espiatori per le tensioni generate dalla grande trasformazione. I partiti più vicini alle istanze dei garantiti, dal canto loro, riescono a esercitare una forte attrattiva sui pensionati a basso reddito. Inoltre, i neoliberisti (di centrodestra e centrosinistra) puntano spesso sulla distinzione tra le condizioni dei precari e quelle dei garantiti, ma lo fanno solo per cercare di ridurre i diritti acquisiti, senza la volontà di predisporre il sistema di welfare universalistico che abbiamo suggerito nel libro. Essi tendono a descrivere la frattura esistente nel paese come uno scontro generazionale: l’egoismo dei padri garantiti e la fragilità dei figli precari. In realtà i contorni della frattura sociale sono più complessi. Certo, una divisione generazionale esiste (specie quando si guarda ai precari); ma se consideriamo anche i pensionati meno abbienti, ci rendiamo conto che la distanza tra maggioranza invisibile e garantiti è più sottile, e legata in particolare alle caratteristiche del nostro welfare state obsoleto. Più che parlare di giovani contro anziani, bisognerebbe quindi ritornare al linguaggio dei blocchi sociali contrapposti. Non è l’anagrafe a dividere gli italiani in garantiti e maggioranza invisibile, ma il loro diverso status socioeconomico e il livello di

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protezione garantito dalle politiche sociali. Il giovane precario è parte della maggioranza invisibile tanto quanto il pensionato povero che stenta a pagare bollette e affitto. I loro «avversari comuni» sono il ricco pensionato, che riceve ogni mese il doppio di quello per cui ha contribuito, l’evasore fiscale incallito, che si arricchisce riducendo la capacità di spesa dello stato sociale per i servizi fondamentali, e chi naviga nell’oro grazie a un’organizzazione dello Stato che dà troppo a chi ha tanto e troppo poco a chi ha niente. In conclusione, la crescita numerica della maggioranza invisibile porterà inevitabilmente a nuove forme tanto di collaborazione quanto di scontro con gli altri gruppi sociali. La complessità di tali dinamiche è impossibile da prevedere. Man mano che i vari partiti, sindacati e movimenti acquisiranno consapevolezza delle potenzialità intrinseche (a livello sociale, politico ed elettorale) della maggioranza invisibile, cercheranno di avvicinarla.41 In questo contesto, essa dovrà avere la forza per sviluppare le sue rivendicazioni, agendo direttamente attraverso i propri rappresentanti o influenzando i gruppi alleati così come quelli antagonisti. La maggioranza invisibile è un gigante bambino, che deve ancora prendere coscienza della sua forza. Chi riuscirà a svegliar-

Anche perché le sue esigenze sono ormai centrali per buona parte del paese. 41

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lo e renderlo attivo politicamente farà la storia del paese, nel bene o nel male. Se c’è ancora uno spettro che si aggira per l’Europa, non mancano certo le parti sociali che avrebbero interesse a seguirlo. Il problema è farle riconoscere, organizzare e contare.

Conclusione

L’emergere della maggioranza invisibile è un fenomeno sociale di portata storica, qualitativamente e quantitativamente nuovo. L’abbiamo analizzato con l’intento di «riumanizzare» lo spazio sociale, rinnovando un racconto collettivo messo al bando dal neoliberismo. Concetti tanto sbandierati – e finora accettati con passività dal dibattito pubblico – quali efficienza, flessibilità, adattamento al cambiamento, vanno invece compresi non solo guardando all’interazione fra l’uomo e il sistema economico, ma anche osservando con attenzione quella fra l’uomo e la struttura sociale. L’uomo che vive dentro la grande trasformazione, con le sue emozioni, i suoi gesti consueti, i suoi successi, i suoi fallimenti, le sue paure. Riumanizzare lo spazio sociale significa superare la cecità da cui siamo afflitti, per guardare la realtà con gli occhi della maggioranza invisibile. La maggioranza invisibile ha gli occhiali di Giuditta, il tabacco sempre in borsa di Daniela, la creatività dei personaggi disegnati da Fabri-

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zio, la penna sopraffina di Ivan, la sofferenza in cantiere di Paolo, le frasi ripetute alla cornetta di Stefano, il tocco di palla di Osvaldo, le Ms e le dita ingiallite di Antonio. La maggioranza invisibile è profitto che finisce sempre nelle tasche di qualcun altro, è manodopera qualificata ma a basso costo, è elusione continua delle regole per far galleggiare un paese al collasso. La maggioranza invisibile è ricerca vana di un asilo, è scelta fra la carriera e l’avere un bambino. La maggioranza invisibile è studio non riconosciuto, è lavoro in un call center a 370 euro al mese, è figli a carico sostenuti a stento. La maggioranza invisibile è pause sigaretta, è caffè bevuti in serie alla macchinetta. La maggioranza invisibile è solitudine, è tensione precaria non protetta. La maggioranza invisibile è una pensione da 500 euro, è un figlio disoccupato da mantenere, è un migrante che cerca fortuna. La maggioranza invisibile è raccolta di arance a 15 euro al giorno, è nottate passate in un capannone, è quattordici ore di lavoro sognando un futuro migliore. La maggioranza invisibile è il vicino colto che vive a stento, è tua sorella che lavora senza contratto celando il malcontento. La maggioranza invisibile è forza trainante dell’economia, è schiavitù legalizzata al soldo di chi non produce niente, è pagamento a rate postdatate per i lussi dei garantiti. La maggioranza invisibile è numero che cresce dimenticato, è gruppo sociale in potenza che continua a passare inosservato. La maggioranza

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invisibile è l’unica speranza per un paese stanco e vecchio. La maggioranza invisibile è la reincarnazione di antiche lotte, è storie di vita comune che un giorno potrebbero farsi racconto. Prendere coscienza Abbiamo il dovere di tornare a discutere della distribuzione di risorse e opportunità nella nostra società, contrapponendoci con decisione ai garantiti che difendono i loro interessi corporativi, e ai neoliberisti che ignorano i nostri bisogni essenziali. Essi controllano posti di potere, pongono veti incrociati su provvedimenti equi ed efficienti, gestiscono l’azione di partiti e organizzazioni (sindacali e di categoria) e impongono come tecniche e ineluttabili misure che in realtà nascondono un’ideologia ben definita. Garantiti e neoliberisti si sono costantemente interessati ai numeri e ai fatti sociali: hanno sempre saputo contarsi e contare, hanno sempre votato. Hanno costruito narrazioni dello spazio sociale che li hanno resi forti, dall’idea di difendere i diritti acquisiti a quella di idolatrare l’individuo. Dall’altra parte dello steccato, la maggioranza invisibile, intrappolata dalle necessità del quotidiano, ha finito per disinteressarsi ai numeri, ai fatti sociali, alle radici della sua condizione di svantaggio: svantaggio in termini di opportunità offerte dal mercato del lavoro,

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svantaggio in termini di trattamento ricevuto dallo stato sociale, svantaggio in termini di condizione economica generata dalla grande trasformazione. Svantaggio, quindi, quasi mai coincidente con il «merito» o il «demerito», come vorrebbe la retorica neoliberista, ma piuttosto dovuto a fattori non scelti, come l’anno di nascita, la professione dei genitori o la concessione speciale di prebende da parte del sistema. Ignorare questa realtà sociale, che genera iniquità e inefficienza a scapito di quasi tutto il paese, significa scegliere la cecità. Bisogna invece riaprire gli occhi, applicando «l’analisi all’idealismo», a sostegno di quei soggetti incapaci – almeno al momento – di articolare le loro voci in discorso collettivo. Applicare l’analisi all’idealismo per contrastare visioni del mondo che frustrano la maggioranza dimenticata degli italiani e riducono le potenzialità economiche di tutto il paese. Parlare di numeri e fatti non significa che essi siano sufficienti per smuovere la maggioranza invisibile all’azione. Sarebbe ingenuo crederlo. I numeri esistono e sono a disposizione di tutti, quello che manca è una narrazione che parta dai suoi bisogni e dalle sue esigenze; una narrazione che suggerisca un cammino comune di lotta alle sue varie componenti: disoccupati, neet, pensionati meno abbienti, migranti e precari. Tuttavia, l’articolazione di una nuova visione del mondo non è un semplice fenomeno collettivo: la cecità non si diffonde per contagio, non è un’epidemia;

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la cecità è soprattutto una questione che riguarda l’individuo e i suoi occhi.1 Ciò significa che il racconto collettivo ha un ruolo fondamentale – influenza i singoli e le loro decisioni, li aiuta a sentirsi comunità – ma, in ultima istanza, è solo il risveglio della coscienza personale che può farci guarire dalla cecità. Ogni individuo si muove, pensa, domanda, dubita, indaga, vuole sapere; e se è vero che, forzato dall’abitudine ad adattarsi, finisce prima o poi per dare l’impressione di essere sottomesso alla visione dominante, non si deve credere che questa sottomissione sia definitiva.2 Nel lungo periodo, di fronte al continuo peggioramento delle condizioni economiche e all’erosione dei propri risparmi, ogni membro della maggioranza invisibile potrebbe prendere coscienza della propria esclusione dalla condivisione della ricchezza socialmente prodotta. Solo in questo caso, essa potrà predisporsi – in modo collettivo – alla mobilitazione. Questa mobilitazione difficilmente potrà essere canalizzata dalle strutture classiche della rappresentanza partitica e sindacale. Tali forze, infatti, sono l’espressione degli interessi dei due gruppi sociali contrapposti alla maggioranza invisibile: quello dei garantiti e quello dei neoliberisti. Ciò non significa che non potranno cambiare direzione e avvicinarsi in futuro a essa, ma, alme-

1 2

Approfondimento: J. Saramago, Cecità. Approfondimento: J. Saramago, La caverna.

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no nei prossimi anni, tenderanno ad arroccarsi sul loro vecchio elettorato, sui loro membri tradizionali. Si comporteranno così fino a quando la maggioranza invisibile non saprà far valere la forza dei suoi numeri, la forza del suo racconto collettivo. Per comprendere il silenzio della maggioranza invisibile nello spazio sociale, alla sua relazione problematica con le vecchie strutture di rappresentanza vanno aggiunti altri elementi, esterni e interni. Quelli esterni, descritti nella prima parte del libro, provengono soprattutto dalla forza del percorso storico e dalla grande trasformazione, che condizionano pesantemente l’avvento di nuove proposte: dalle posizioni di potere e controllo assunte da garantiti e neoliberisti agli effetti perversi del neoliberismo selettivo che, accrescendo la disuguaglianza, contribuisce in modo significativo a ridurre la partecipazione sociale della maggioranza invisibile. Ma gli ostacoli peggiori, quelli più ardui da superare, che moltiplicano la capacità di veto di garantiti e neoliberisti, sono interni alla stessa maggioranza invisibile: sono i fattori che la rendono cieca. Si tratta della mancanza di fiducia nelle proprie capacità, causata da anni di discriminazioni e fallimenti; dei bassi livelli di scolarizzazione (questo è vero per i pensionati meno abbienti, che infatti tendono a votare in modo diverso dal resto della maggioranza invisibile); della visione dello Stato, considerato spesso come un’astrazione o

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una macchina incomprensibile al servizio dei più potenti.3 A causa di questi fattori, la maggioranza invisibile è sottorappresentata nello spazio sociale, e di conseguenza stenta a organizzarsi. Nonostante ciò, la storia ci insegna che la presenza in simili spazi può essere costruita nel tempo. Possiamo dimenticare i Levellers britannici,4 il Biennio rosso, lo Statuto dei lavoratori, i tanti movimenti popolari che hanno caratterizzato la storia del nostro paese, dai Fasci siciliani all’occupazione delle terre e delle fabbriche; possiamo relegare questi eventi in vecchi libri nascosti su scaffali senza nome, abbandonarli in preda alla polvere e ai tarli, destinarli all’oblio delle cantine senza posarvi lo sguardo sopra né toccarli per anni e anni;

Parafrasando l’affresco che Borges fa del popolo argentino, potremmo dire che l’italiano raramente si identifica con lo Stato. Per lui, lo Stato è spesso un’idea difficile persino da concepire o, peggio ancora, un avversario, un’imposizione dall’alto che tutto toglie e nulla dà. Tuttavia, i gruppi sociali più forti hanno sempre usato le strutture statali per raggiungere i propri obiettivi, colpendo la maggioranza invisibile. Per questa ragione rifiutare il ruolo dello Stato significa depotenziare automaticamente la maggioranza invisibile e ridurre la sua partecipazione. Approfondimento: J. Borges, Evaristo Carriego. 4 I Levellers furono un movimento politico radicale che prese piede nel diciassettesimo secolo, durante la Guerra civile inglese; il termine leveller fu coniato dai loro oppositori. Il programma che li univa (non formularono mai un vero e proprio manifesto) includeva idee molto progressiste per l’epoca, dalla tolleranza religiosa all’uguaglianza di fronte alla legge, passando per il suffragio universale. 3

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possiamo scordare simili eventi del passato, ma arriva sempre il momento in cui tornano attuali:5 quando le contraddizioni della società giungono a maturare, essi servono da esempio per una nuova azione sociale e politica. Consci della storia passata e degli ostacoli che ci si parano davanti, dobbiamo ribaltare il tavolo della discussione. Nell’Introduzione abbiamo evidenziato due elementi razionali che ci portano a confidare nella possibilità di reazione della maggioranza invisibile: la strutturazione del campo sociale, con la crescita numerica della stessa maggioranza invisibile rispetto a neoliberisti e garantiti; e l’impoverimento progressivo dell’elettore mediano. Una situazione diversa dal passato, in cui quest’elettore decisivo era parte della middle class, con la sua visione del mondo moderata e un reddito sufficiente a garantirgli uno standard di vita confortevole. Oggi non è più così. L’elettore mediano/ moderato è sempre meno middle class e sempre più parte della maggioranza invisibile, danneggiato dall’assenza di politiche sociali universali. Anch’egli dovrebbe quindi, nel lungo periodo, volgersi verso la richiesta di una più equa distribuzione della ricchezza. Da questo punto di vista, azionare la maggioranza invisibile significa lavorare dall’interno: la severità dei fattori esterni (pur se reale e ben 5

Approfondimento: J. Saramago, La caverna.

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documentata dalla prima parte del libro) è stata troppo spesso usata come alibi per non «guardarsi dentro», in definitiva per non agire. Sono invece in primis i fattori interni a provocare la cecità della maggioranza invisibile. Per analizzarli correttamente, bisogna distaccarsi dal dogma lavorista della vecchia sinistra:6 esso ci impedisce di vedere che le caratteristiche della maggioranza invisibile sono radicalmente diverse da quelle della working class fordista. Tale dogma è una zavorra, che tiene ancorata la riflessione sulle riforme sociali a un mondo che non esiste più. Come abbiamo dimostrato, la grande trasformazione ha fatto «saltare il banco», mandando in soffitta, nei paesi occidentali, l’organizzazione produttiva fordista e con essa la società di massa industriale. Oggi attaccarsi a quel mondo è funzionale solo a difendere i privilegi dei garantiti, a trasformare partiti e organizzazioni sociali «di sinistra» in agenti della conservazione. Per questa ragione, dobbiamo lasciarci alle spalle il dogma lavorista, e con esso una narrazione negativa e residuale della maggioranza invisibile – ovvero la sua esistenza come semplice riflesso delle trasformazioni sociali – per abbracciare e diffondere, invece, una visione positiva e attiva del suo emergere, del suo essere corpo sociale in potenza.

Ovvero l’idea, esplicitata nel capitolo precedente, che per accedere alla protezione sociale occorra lavorare nell’economia formale. 6

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Dare spazio a questa nuova narrazione vuol dire rimettere in discussione la ricorrente richiesta di lavoro tipica dell’epoca fordista. Fateci caso: quando parlate con un garantito dei problemi che affliggono la maggioranza invisibile, egli vi risponderà nella migliore delle ipotesi che «bisogna creare lavoro per quei poveretti»; oppure, nello scenario peggiore, che «devono smetterla di piangersi addosso e darsi una mossa per trovarsi un impiego». Entrambe le posizioni (espresse dall’alto di un posto fisso, magari improduttivo e ottenuto grazie a una serie di congiunture storiche che non esistono più) sono anacronistiche. Il mondo ci è cambiato sotto i piedi e noi continuiamo a guardarlo con lenti vecchie. La nostra società è – e continua a essere – preda di un’enorme miopia. L’approccio che abbiamo proposto nel libro è diametralmente opposto: punta sulla necessità di mettere al centro del dibattito l’idea di cittadinanza sociale. Diritti e servizi universali, la garanzia di un reddito minimo, una nuova visione del mondo del lavoro. Un lavoro che non deve per forza accrescere direttamente il pil, ma deve contribuire all’accumulazione sociale di ricchezza. Il padre che si prende cura di suo figlio e la nonna che svolge importanti mansioni di cura non retribuite dovrebbero avere dignità e gratificazione simile a quella di chi lavora nell’economia formale. Per portare avanti a livello pratico questa visione di cittadinanza, servirà adattare il welfare state al nuovo sistema produttivo postfordista e

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tornare a redistribuire. Una redistribuzione non semplicemente filantropica ma basata sugli argomenti razionali che abbiamo illustrato nel corso del libro. Redistribuire per rendere il paese più funzionale. Redistribuire per scardinare il «luna park» dei garantiti. In quest’ottica, la richiesta di un welfare universale e basato sui servizi e la redistribuzione di opportunità, reddito e ricchezza sono solo i primi passi concreti per aprire una nuova fase storica: una fase caratterizzata da diritti di cittadinanza che potrebbero rafforzare la partecipazione sociale e politica della maggioranza invisibile, e con essa le sue conquiste future. La rivincita degli ultimi Essere svantaggiati, fare parte della maggioranza invisibile, contribuisce all’avere un più immediato possesso della realtà, a confrontarsi direttamente con il gusto aspro delle cose.7 Una simile conoscenza manca ai garantiti, perché troppo spesso la realtà arriva loro filtrata dai privilegi, che gli impediscono di toccare con mano le conseguenze negative della grande trasformazione. Certo, tante – forse troppe – volte questo contatto con la realtà si esplicita solo nelle azioni del vivere quotidiano: un cortile pieno di ragazzini che calciano un pallone, il consolante possesso 7

Approfondimento: J. Borges, Evaristo Carriego.

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delle cose semplici che rimane a chi ha poco, il contatto umano, l’eterno chiacchiericcio senza costrutto con il dirimpettaio, gli argomenti della carne e della morte. Insomma, l’anima della periferia, la canzone di un quartiere qualunque.8 Tuttavia la grande trasformazione ha teso a oscurare anche questi piccoli piaceri comunitari, senza rimpiazzarli con una maggiore partecipazione al dibattito pubblico. E allora il silenzio della maggioranza invisibile diventa ancora più grave, così come la sua solitudine di fronte alla grande trasformazione. Reagire al presente stato di cose significa cercare di unire la maggioranza invisibile nella lotta contro l’insostenibile iniquità e inefficienza del sistema. Questa determinazione è supportata da una consapevolezza sconosciuta a sindacati e partiti tradizionali: il numero di persone che dovrebbero aderire alla nuova visione di cittadinanza è potenzialmente enorme. Un’idea che, per quanto semplice, implica la fine di ogni nozione di esclusività, di ogni politica fatta per preservare i piccoli interessi e le rendite di posizione. Lasciare le porte aperte a questa forma di agitazione democratica e illimitata comporta un nuovo modo di guardare alla democrazia stessa, un modus operandi che dovrebbe contribuire a scacciare antiche inibizioni e dare fiducia all’autoattivazione e organizzazione della gente comune. 8

Approfondimento: ibidem.

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Si tratta di una sfida rivoluzionaria e, in quanto tale, non potrà che incontrare la resistenza delle altre forze sociali organizzate. Nonostante ciò, non dobbiamo mai dimenticare che questa sfida fu già abbracciata in passato, ed è servita, se non a cambiare il mondo, quantomeno a renderlo meno ingiusto.9 Ma allora, se ci sono questi spazi potenziali, questa possibilità di reazione democratica, perché siamo diventati tutti ciechi? La risposta, forse, è più semplice di quanto crediamo: non siamo diventati ciechi, piuttosto abbiamo scelto di non vedere.10 La via maestra per la maggioranza invisibile, seppur sbarrata anche da forti opposizioni esterne,11 è in realtà oscurata dall’incapacità di prendere coscienza della propria forza. Questo significa che se sollevassimo il capo, e tornassimo a guardare fuori, ci accorgeremmo che i nostri compagni di avventura sono lì, lo sono sempre stati; e sono pronti più di quanto immaginiamo ad alzare la voce, a smetterla di chinare gli occhi di fronte alla resistenza di chi ci ha preso vita e futuro. È la paura di abban-

Approfondimento: E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra. 10 Approfondimento: J. Saramago, Cecità. 11 Ne abbiamo discusso nei capitoli precedenti. Focalizzarsi sulle sfide interne non significa che gli ostacoli esterni non esistano, ma semplicemente che l’attivazione deve partire dalla maggioranza invisibile stessa. Dalla sua capacità in primis di superare le proprie contraddizioni. 9

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donare il vecchio che ci ha spinti a puntare in basso: il cambiamento che vogliamo, in realtà, è lì, basta inseguirlo collettivamente. Ma per farlo bisogna tornare ad avere il coraggio di contemplare quell’idea di cambiamento, rimirarla, concepirla insieme come un obiettivo possibile. Un obiettivo non utopico. La città strombazza lì fuori, nel suo caos, dimentica delle proprie miserie. È una citta sporca, di marciapiedi sconnessi, di pizzerie e negozietti; circondata da quartieri miserevoli in cui molti disprezzano i poliziotti e lo Stato.12 Qualche assurdo burocrate l’ha resa così ma, in ultima istanza, siamo stati noi stessi ad accettare passivamente quell’evoluzione disordinata e senza senso. Il trascorrere del tempo, nella città, è una splendida metafora della vita, una fedele riproduzione dei patimenti, delle gioie e delle angosce che animano il vivere quotidiano. Basta guardarsi intorno: i lavori pubblici cominciati e mai finiti, con un progetto che cambia ogni tre giorni; i campetti in stato di perenne abbandono; le facce appese sui muri da votare ancora. Noi continuiamo a tirare avanti come se nulla fosse, come se quello spazio urbano non si facesse ogni giorno più degradato e asfittico. Gioiamo, ci disperiamo, ci esaltiamo, ma accettiamo tutto; abbiamo smesso di credere che per tenere i piedi ben saldi a terra bisogna avere il 12

Approfondimento: O. Soriano, Triste, solitario y final.

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coraggio di guardare al cielo. Restare sognatori in un mondo fatto di cinismo è invece l’unico antidoto contro l’infermità mentale. Restare romantici e fedeli a se stessi, aspettare che la città si svuoti alla sera, magari, per guardarla dall’alto, per immaginare storie delle quali si è sentito solo parlare: gesta leggendarie di cui resta la memoria nell’anima della periferia. È proprio da quell’anima in chiaroscuro che bisognerebbe ripartire. Gli abitanti della periferia, con le loro storie e le loro vite semplici, sono considerati gli ultimi da chi crede di poter disporre di vite, anime e illusioni. Certo, nella loro condizione di debolezza sono capaci talvolta di gesti meschini e privi di qualunque coscienza civica; ma un giorno, forse, si renderanno conto che c’è ancora bisogno di loro per fare la storia. E allora si rimboccheranno le maniche, per non far mancare il proprio sostegno. È con gli abitanti della periferia che vale la pena di guardare al futuro, è con loro che vale la pena di descrivere e interpretare il mondo, è con loro che vale ancora la pena di lottare. Il richiamo della maggioranza invisibile risuona come musica di strada: soffusa e magari lontana, sa però rivelarci un passato e un presente al tempo stesso personali e universali, attimi di coscienza che fino a quel punto ignoravamo.13 Forse la missione dimenticata delle ideologie è proprio questa: darci la speranza di poter combattere an13

Approfondimento: J. Borges, Evaristo Carriego.

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cora per raddrizzare un sistema ingiusto, partendo simultaneamente dal nostro vissuto e da quello collettivo. Avere il coraggio di adempiere i nostri obblighi e guardare il mondo con altri occhi. Gli occhi del nostro vicino. Gli occhi della maggioranza invisibile.

Bibliografia

Letture di approfondimento

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Nota sulla genesi del libro

Questo volume è il frutto della collaborazione con Alessandro Arrigoni che, nata grazie alle attività condotte da entrambi nella Fonderia Oxford, si è consolidata attraverso diversi progetti accademici e non. Un lavoro di ricerca che si è concentrato sulle trasformazioni socioeconomiche del nostro paese e del nostro continente, e su come esse impattino sulla partecipazione sociale degli outsiders. Nel prossimo futuro la nostra cooperazione proseguirà con due programmi, finanziati uno dall’Unione Europea (il progetto Strategic transition for labour market in Europe, o Style) e uno dalla Fondazione Franco e Marilisa Caligara (mirato a esplorare il ruolo dell’interdisciplinarità all’interno delle scienze sociali). La maggioranza invisibile nasce dalle interminabili discussioni intraprese tra il dipartimento di Social policy and intervention, il King’s Arms e la casetta di St. Mary’s Road. E da una profonda condivisione dei temi trattati. Alessandro, anche lui del 1983, è ricercatore presso l’Università di Oxford. Si è formato stu-

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La maggioranza invisibile

diando Scienze politiche e relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano, per poi proseguire il percorso accademico alla Oxford Brookes University prima e al King’s College di Londra poi. I suoi interessi di ricerca spaziano dall’economia politica internazionale alla precarizzazione della forza lavoro, passando per l’analisi dei movimenti sociali.

Indice

Prologo

7

1. Introduzione

15

2. La base sociale del cambiamento

43

– La grande trasformazione e la maggioranza invisibile

67

PARTE PRIMA

3. Le politiche neoliberiste: deregolamentazione e maggioranza invisibile 4. Mercato unico senza anima sociale: europeismo critico e maggioranza invisibile

69

101

5. Maggioranza invisibile e nuovo welfare: universalismo e produttività sociale 129 6. Il requiem della sinistra?

157

284

La maggioranza invisibile

– Da maggioranza invisibile a maggioranza visibile? 189 PARTE SECONDA

7. La maggioranza invisibile al voto

191

8. Organizzare la maggioranza invisibile

217

Conclusione

247

Bibliografia

263

Letture di approfondimento

265

Fonti

275

Finito di stampare nel mese di ottobre 2014 presso Rotolito Lombarda S.p.A. – Seggiano di Pioltello (MI) Printed in Italy

ISBN 978-88-17-07684-5