Se c'è un autore che ha dedicato allo studio delle organizzazioni criminali mafiose, tra Sicilia e America, libri c
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Italian Pages 428 [214] Year 2018
Se c’è un autore che ha dedicato allo studio delle organizzazioni criminali mafiose, tra Sicilia e America, libri che hanno rappresentato il punto di riferimento per gli storici, gli operatori di giustizia, il ceto politico, un più vasto mondo intellettuale e il grande pubblico, questi è senz’altro Salvatore Lupo. La sua Storia della mafia, pubblicata per la prima volta nel 1993, è rimasta per oltre vent’anni uno strumento insostituibile per larghi strati di lettori italiani e stranieri, grazie anche alle numerose traduzioni in tutto il mondo. Era giunto per l’autore il momento di compiere un nuovo sforzo di sintesi dell’intera materia, facendo tesoro degli studi passati, della documentazione e delle testimonianze nel frattempo venute alla luce. Partendo da questa consapevolezza, il libro ricostruisce centosessant’anni di storia della mafia. Parla della mafia siciliana e insieme della sua figlia legittima, la mafia americana. Ne coglie le interrelazioni, le reciproche interferenze. Pone i conflitti tra cosche, fazioni e gruppi affaristici in questa dimensione transcontinentale. La mafia ha rappresentato un fenomeno criminale caratterizzato da una costante essenziale: quella di definirsi e di essere percepita in stretta correlazione con gli strumenti, le ideologie, le culture delle sfere istituzionali e degli apparati repressivi che con alterne fortune l’hanno combattuta. In altri termini, la mafia non si può studiare, e non si può capire, se non in rapporto con l’antimafia. Questo legame consente di considerare i successi della mafia, o viceversa le sue sconfitte, come punti di osservazione utili per cogliere da un’ottica originale la grande storia. Ciò vale per l’America a proposito dell’emigrazione italiana, del proibizionismo, del New Deal. E vale altrettanto per l’Italia di fine Ottocento, del fascismo o del secondo dopoguerra, fino ad arrivare agli anni ottanta e novanta e alla complessa vicenda investigativa e giudiziaria che condusse agli assassinî dei giudici Falcone e Borsellino. Il maxiprocesso di Palermo segna una delle sconfitte più gravi subite dall’organizzazione criminale mafiosa. Da lì parte una nuova fase su cui Lupo getta per la prima volta lo sguardo: un’altra storia.
Salvatore Lupo è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Palermo. È stato tra i fondatori della rivista «Meridiana» ed è membro del comitato di redazione di «Storica». Per i tipi di Donzelli ha pubblicato: Storia della mafia (1993, seconda ed. 2004); Che cos’è la mafia (2007); Il fascismo. La politica in un regime totalitario (2005); L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile (2011); Anti partiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (2013); La questione. Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi (2015).
Saggi. Storia e scienze sociali
Salvatore Lupo
LA MAFIA Centosessant’anni di storia
© 2018 Donzelli editore, Roma via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it EMAIL [email protected] ISBN 9788868439088
Indice
Introduzione I. Origini 1. Eredità della rivoluzione 2. Mafia e politica atto primo 3. Due prospettive: sguardo esterno e sguardo interno 4. Contesti ovvero luoghi II. L’accusa e la difesa, 18751889 1. Operazione Malusardi: manutengoli e banditi 2. Capimafia 3. Modello settario 4. Uno sguardo nel profondo: avvocati ed etnologi III. Passaggio di secolo 1. L’assassinio di Notarbartolo 2. Lo sguardo del questore 3. ProSicilia 4. Parentele spirituali IV. Tra Sicilia e America: prima e seconda ondata 1. Complotto straniero? 2. Prima gang siculoamericana 3. Dopo la guerra: contrabbando e altro malaffare 4. Il ponte transoceanico è ancora aperto V. Vecchia e nuova mafia 1. Corleone 2. Villalba 3. Vecchia e nuova politica 4. Gente di Castellammare VI. Davanti al fascismo 1. Con la mafia ai ferri corti 2. Gangi 3. Epurazioni 4. Sotto processo 5. La segreta società VII.
Gangster e mafiosi 1. Guerra castellammarese 2. Sotto processo anche in America 3. Unione siciliana 4. Fronte del porto 5. Ombre del fascismo nel nuovo mondo
VIII.
Tempo di guerra 1. America: sovraprofitti di guerra 2. Gli americani incontrano la mafia nella sua terra d’origine 3. Separatismo siciliano 4. Il ritorno di Lucky Luciano nell’antica patria
IX. Il lungo armistizio, 19461960
1. Portella 2. Una trattativa Statomafia 3. I corleonesi 4. Dinastie di borgata 5. Storie democristiane 6. Consenso e opposizione X. La Cosa nostra 1. La svolta, 19571963 2. Uno sguardo nel sottosuolo 3. Narcotrafficanti 4. Filologia 5. Senza unghie 6. Altre rivelazioni XI.
Punto di snodo. La Repubblica e i suoi nemici 1. Politica e criminalità 2. Metastasi. Ai piedi dell’Etna 3. L’antagonista 4. Poteri occulti
XII.
Due mondi in subbuglio 1. Zips, insomma gente del vecchio mondo 2. Affari e fazioni 3. Il massacro 4. Terrorismo mafioso atto primo 5. Il boss e lo statista
XIII.
Sfida e risposta 1. Terrorismo mafioso atto secondo 2. Antimafia come movimento 3. Maxiprocesso 4. Professionisti dell’antimafia 5. Falcone 6. Riina
XIV.
Epilogo 1. I bagliori di Capaci 2. La memoria dell’antimafia 3. La macchina del complotto 4. La memoria della mafia
Fonti e bibliografia I personaggi: i buoni e i cattivi
Introduzione
Sarà forse utile partire da una definizione del concetto di mafia. Parziale, certo, come d’altronde sono tutte le definizioni di fenomeni storicosociali complessi. Citiamo l’articolo 416bis del codice penale italiano, la legge varata nel 1982 e comunemente detta RognoniLa Torre. L’associazione «di tipo mafioso» è quella che usa la «forza di intimidazione» (non necessariamente la violenza attuale), garantita ai suoi affiliati appunto dal «vincolo associativo», al fine di: 1) «commettere delitti», 2) controllare «attività economiche» (anche in sé lecite, evidentemente), 3) «ostacolare il libero esercizio del voto». Nel «tipo mafioso» vanno comprese «anche» le associazioni di camorra, di ’ndrangheta e di altra natura, «comunque localmente denominate», incluse quelle straniere. Dunque, il legislatore fa corrispondere il concetto di mafia a quello di criminalità organizzata, lasciando cadere il riferimento a specifici gruppi regionali e/o etnici che lo caratterizzano sin dalle origini. Più precisamente, in Italia, la parola è stata riservata alla Sicilia e ai siciliani sin dal 186366; e, negli Stati Uniti, agli italiani a partire dal tardo Ottocento. Mentre licenzio questo testo, il procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, dichiara: «L’articolo 416bis del codice penale non è una norma che parametra la mafiosità di un’associazione criminale sulle caratteristiche antropologiche e organizzative della mafie tradizionali»1. Il codice penale non può privilegiare caratteri storici specifici. Prendiamone atto. Prendiamo però atto anche che oggi è ben consolidato a livello planetario un uso del plurale «mafie» in cui il riferimento a luoghi, popoli, culture, percorsi storici specifici si è mantenuto, eccome: tant’è che si parla di mafie russe, cecene, colombiane, messicane, cinesi, giapponesi, spesso per indicare organizzazioni di immigrati, che in società plurietniche controllano il punto di partenza e quello di arrivo di catene di traffici illeciti (droga, armi, o persone). Quest’uso ci rimanda al caso di partenza, quello siculoamericano. E complica di molto il modello interpretativo più diffuso, per cui la mafia è stata da sempre rappresentata da scienziati sociali e storici come il frutto di una società arcaica, di un’arcaica cultura antistatale. La mafia si è quasi contemporaneamente affermata, oltre che in un’area sottosviluppata dell’Europa mediterranea, nel luogo ideale della modernizzazione planetaria. Si basa su un’ibridazione transatlantica, su un incrocio culturale minaccioso eppure affascinante. Attenzione. È da collocarsi nel novero delle leggende l’idea che dalla Sicilia si sia controllata l’intera criminalità organizzata americana. Nemmeno possiamo dire che dalla Sicilia sia stata controllata tutta la grande criminalità italo americana. Più sobriamente, dirò che alcuni criminali siciliani fecero fortuna negli Stati Uniti (soprattutto a New York e nella regione nordorientale del paese) venendo da ambienti mafiosi e conservando relazioni di varia natura con bande mafiose radicate nei luoghi di partenza (le borgate palermitane, o paesi come Villabate, Corleone, Castellammare del Golfo). Dirò di quest’intreccio di gruppi e luoghi – lasciando magari da parte altri gruppi e altri luoghi che, sull’una e sull’altra sponda, potrebbero essere meritevoli di considerazione. Rileverò i molti effetti feedback, dal vecchio al nuovo mondo e viceversa; ivi compreso quello riguardante la stessa espressione «Cosa nostra», affermatasi prima in America e poi in Sicilia, che oggi usiamo per indicare sia l’una che l’altra mafia. Segnalo sin d’ora uno sviluppo cruciale: le relazioni transoceaniche tra sodali hanno fatto sì che la Sicilia divenisse il punto di snodo di traffici planetari di morfina prima, di eroina poi, che avevano negli Stati Uniti i loro mercati di sbocco. I ricchi proventi di questi traffici hanno suscitato – sia sul versante americano che su quello siciliano – una quantità di appetiti. È qui che va individuata la radice dei grandi, sanguinosi conflitti del tardo Novecento. In Sicilia come negli Stati Uniti è diffuso un particolare rituale di affiliazione alla mafia, un giuramento di fedeltà per la vita e per la morte basato sul sangue, di tipo massonico, solennizzato con riferimenti alla tradizione cattolica. Il giuramento rappresenta il segno di una straordinaria continuità storica: vedremo nel testo testimonianze su di esso già negli anni settanta dell’Ottocento. È venuto comunque al centro dell’attenzione di tutti nel secondo Novecento, prima in America con le confessioni di Joe Valachi (1963), poi in Italia con quelle di Tommaso Buscetta (1984), immediatamente dopo il varo della legge RognoniLa Torre. Citiamo una definizione di Cosa nostra fornita nel 1986 da un’agenzia del governo statunitense: è un’organizzazione che si caratterizza per la militanza garantita da un filtro all’ingresso (appunto il giuramento), per la struttura gerarchica, per la continuità storica oltre la vita dei singoli membri2. Io però dubito che il rituale del giuramento basti a definire i confini della mafia. Una grande tradizione interpretativa e una massa di fonti storiche ci dicono che la sua forza sta nell’intreccio tra interno ed esterno, nella rete fitta fitta, avvolgente, in cui le sorti degli affiliati si intrecciano con quelle dei nonaffiliati, in una logica di mutua
protezione e reciproco interesse. Come ha scritto il sociologo Rocco Sciarrone, uno degli studiosi oggi più accreditati, la forza della mafia risiede «solo in parte in caratteri costitutivi interni al fenomeno», ma è data piuttosto dalle sue «relazioni esterne, vale a dire dal capitale sociale che deriva dalla capacità di allacciare relazioni e costruire reti sociali»3. Nella rete ci sono, citando un po’ a caso, poliziotti, politici e affaristi corrotti, professionisti, consulenti. E c’è anche gente sostanzialmente perbene, la quale si limita a consumare merci di contrabbando (tabacco, alcolici, stupefacenti), o accetta la protezione ritenendo di non poterne fare a meno: che concorre alle fortune della mafia solo usufruendo dei beni e dei servizi da essa forniti. La mafia è uno di quei fenomeni che gli storici sociali dicono embedded, che sono cioè radicati in sfere profonde della società. Le sue attività sono il più delle volte nascoste nelle pieghe di transazioni semilegittime, anche perché – più di altre forme di criminalità organizzata – rifugge da pratiche di tipo «predatorio». Commercia, fa affari, fornisce protezione, e servizi in occasione delle elezioni. Però ciclicamente esplode in guerre per bande che ne rivelano la pericolosità agli occhi dell’opinione pubblica. Nell’Italia del passaggio tra anni settanta e anni ottanta del Novecento, a questa incontinenza se ne aggiunse un’altra. La mafia, dopo un secolo di storia nel quale si era sempre mostrata deferente nei confronti di chi rappresentava il potere sociale e istituzionale, volle perseguire un proprio autonomo progetto di potere, nei confronti di alleati indisciplinati e nemici irriducibili, giornalisti, politici, poliziotti, magistrati. Fu il momento del grande showdown. Cosa nostra colpì con straordinaria ferocia e fosca efficienza, ma venne anche colpita, con forza via via maggiore, grazie alla formazione di un’alleanza tra pezzi di istituzioni e una parte di opinione pubblica, cui venne attribuito il nome di antimafia. La vicenda che andiamo a raccontare non si spiega senza tener conto di tale meccanismo di sfida/risposta. In questo libro intendo verificare il concetto in senso generale e sul lungo periodo: la mafia non solo viene colpita ma anche emerge dal sottosuolo, diviene visibile, quando si propone e viene recepita come un problema politico. In quei momenti gli intellettuali fanno funzionare il cervello, i governanti mobilitano i poliziotti, i quali riposizionano in appositi dossier i documenti sparsi nei loro archivi, e trovano i pentiti o collaboratori che dall’interno rivelano i segreti. Gli storici leggeranno questi dossier, e avranno le fonti su cui lavorare. Confronterò dunque la repressione della mafia nella seconda età repubblicana con il suo massimo precedente storico: la cosiddetta operazione Mori (192629) promossa dal fascismo. Rileverò le differenze tra le due esperienze. Innanzitutto quelle concettuali. Il fascismo aborriva l’idea di una spinta dal basso e di un’autonoma partecipazione della società civile, insomma sosteneva l’incompatibilità tra logiche liberaldemocratiche da un lato, legalità dall’altro. E poi quelle pratiche. La repressione fascista fu pesante, spesso indiscriminata, e si accompagnò a ogni genere di abuso. Però dai grandi processi di quel periodo la maggioranza degli imputati uscì bene: molte delle condanne furono di modesta entità, e seguì un’amnistia. Niente a che vedere con le pesantissime condanne inflitte dai tribunali della Repubblica a partire dal 1987. Guarderò ancora all’indietro, evocando un altro caso storico di contrapposizione tra Stato e mafia: quello di età postunitaria che coincise con la stessa nascita (o con la prima percezione) del fenomeno mafioso. Diciamo subito che in quel periodo, negli anni in cui l’Italia era governata dalla Destra storica, ancora non era ben consolidato il sistema delle garanzie liberali, e si era appena avviato il tormentato percorso del paese verso la democrazia politica. Quella prima battaglia contro la mafia fu combattuta sotto il segno di un sistema di governo centralistico, autoritario, che non disdegnava di far ricorso allo stato d’assedio, di affidarsi ai militari. Accadeva che, per difendere la propria rozza idea di legalità, indulgesse a ogni genere di sostanziale illegalismo. Vedremo quale massa di effetti perversi ne siano derivati. Insomma, almeno in due periodi storici la lotta alla mafia confinò con la negazione di valori, che per noi sono irrinunciabili, di rispetto dei diritti individuali e collettivi, insomma di libertà. La mafia rappresenta una patologia delle relazioni sociali e dei sistemi rappresentativi. Ma alcune delle soluzioni che storicamente sono state proposte possono ai nostri occhi apparire peggiori del male. Resta da dire il perché e il come queste stagioni dei grandi conflitti si siano alternate ad altre di opposta natura: prendiamo ad esempio quella tardoottocentesca della Sinistra storica, e quella della prima età repubblicana, che ho definito del «lungo armistizio». Dal punto di vista concettuale, può venirci in aiuto la celebre teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, formulata intorno al 1918 dal grande giurista Santi Romano. Di norma – sosteneva Romano – l’«ordinamento giuridico maggiore» (lo Stato) si mostra tollerante verso quelli «minori» (le associazioni), reagendo solo contro quelli che ne minacciano il potere (le organizzazioni rivoluzionarie). La mafia può essere collocata in questo schema: È noto come, sotto la minaccia delle leggi statuali, vivono spesso, nell’ombra, associazioni, la cui organizzazione si direbbe quasi analoga, in piccolo, a quella dello Stato: hanno autorità legislative ed esecutive, tribunali che dirimono controversie e puniscono, agenti che eseguono inesorabilmente le punizioni, statuti elaborati e precisi come le leggi statuali. Esse dunque realizzano un proprio ordine, come lo Stato e le istituzioni statualmente lecite4.
Sta di fatto che, nel corso della sua lunga esperienza storica, lo Stato italiano (liberalemonarchico, fascista e repubblicano) ha oscillato tra fasi di tolleranza e fasi di repressione. Partendo da Santi Romano, constatiamo che in effetti sul lungo periodo il potere della mafia fa il verso a quello statale: sorveglia e punisce, per usare la celebre espressione di Foucault5, impone tasse, mantiene a suo modo l’ordine. A Palermo le cosche, ognuna insediata su una piccola porzione di territorio, l’hanno fatto per un secolo e più, quasi fossero commissariati di pubblica sicurezza. Noi peraltro sappiamo che il manufatto storico di cui ragioniamo è transcontinentale. Il confronto tra la situazione italiana e quella degli Stati Uniti è dunque necessario, seppure arduo. Parliamo di due paesi e sistemi così diversi… Diciamo che storicamente anche il rapporto tra America e criminalità organizzata ha visto un’alternanza tra pacifica convivenza e mobilitazioni riformatrici/moralizzatrici. Nelle fasi di tolleranza e in quelle di scontro sono stati coinvolti pezzi di società civile, forze politiche, istituzioni diverse: municipali e statali nel periodo antecedente alla seconda guerra mondiale, federali in quello successivo. Storicamente la società americana, contrariamente a quella italiana, ha carattere multietnico, derivante da una tradizione di forti flussi di immigrazione (quello italiano tra gli altri). Potrebbe dunque sembrare che tra le due mafie manchi, per quest’aspetto, il terreno per ogni comparazione. Invece le cose non stanno così. Il termine mafia è stato di sovente usato negli Stati Uniti con un (più o meno esplicito) intento criminalizzante nei confronti della comunità italo americana, all’interno di un discorso xenofobo; così come in Italia molti discorsi sulla mafia si sono risolti in criminalizzazioni collettive dei siciliani (e dei meridionali). Lo dico subito. La storia e la cultura dei siciliani o degli italiani d’America non possono essere ridotte a mafia, così come la storia della mafia non può essere ridotta a questo discorso pararazzista. Però non può ignorarlo e non può ignorarne la conseguenza più importante: su entrambi i versanti l’ideologia mafiosa si è a sua volta presentata nella veste della rivendicazione identitaria, rispettivamente siciliana e italoamericana. Vediamo come un agente dell’antidroga statunitense, Malachi L. Harney, rende il meccanismo in una lettera indirizzata a «Life» nel 1964. Parte da un’opzione di principio, che ancora una volta chiama in causa la politicità della mafia: come certi regimi totalitari, essa riesce a esercitare un grande potere su entrambi i versanti dell’oceano, «nonostante il numero relativamente basso dei suoi aderenti», perché fa ricorso ai «fondamentali» – da un lato alla violenza, dall’altro alla «propaganda». Poi specifica su cosa tale propaganda si incentri: in negativo, chiunque soltanto usa la parola mafia viene accusato di voler criminalizzare «tutti i siciliani o [in America] gli italiani, anche onesti»; in positivo, la mafia pretende di essere «l’amica del povero e [in Sicilia] il campione dell’autonomia siciliana»6. Non è dunque vero che la mafia abbia un’unica ideologia, quella del silenzio di fronte all’autorità: l’omertà. Si tratta di un silenzio che si intreccia a molte parole7. Ci sono quelle che nella sfera più segreta sanciscono l’affiliazione e vengono solennizzate nei giuramenti. Ci sono poi quelle usate, all’interno dell’organizzazione e ai suoi margini esterni, per dimostrare che la mafia funziona, risolve i problemi; che i suoi capi sono in grado di controllare la violenza altrui e anche la propria, evitando il bellum omnium contra omnes; che non può essere battuta perché ha «in mano» i potenti. In tempi recenti abbiamo avuto la possibilità di ascoltarle, queste parole, anche direttamente, attraverso intercettazioni telefoniche o ambientali. I «valori» invocati sono sempre gli stessi: Onore, Famiglia, Amicizia, Religione, Tradizione. Tutto con lettera rigorosamente maiuscola. Viene naturale una domanda. Sono sinceri i boss, quando si ammantano di vesti tradizionaliste? O fingono? La risposta è che non fingono più di quanto abbiano fatto e tuttora facciano altri leader, quelli che capeggiano non bande criminali ma movimenti e regimi autoritari. Mondo «di sotto» e mondo «di sopra». Nella comunicazione pubblica il tradizionalismo mafioso è stato sempre preso sul serio, e ben accetto, non solo da giornalisti ma anche da importanti intellettuali. Ne citeremo qualcuno nel testo, facciamo ora l’esempio di un libro che è anche un film di enorme successo, Il padrino8. Gioca intorno al tema dell’identità etnica, si diverte a ribaltare lo schema della colpevolizzazione collettiva degli italoamericani: dipingendo una mafia siciliana che immette in una società originariamente «fredda», nordica, anglosassone, il calore di istinti e passioni, di familismo, imbarbarendo ma anche arricchendo l’America. Il retaggio della Sicilia/Italia, del vecchio mondo, diviene la chiave esplicativa dell’elemento arcaico che è in tutti gli esseri umani, un qualcosa – peccato o virtù – che ha a che fare con l’eterno immaginario mediterraneo fatto di istinti e vitalità, che con l’avvento della modernità (ovvero con l’americanizzazione) si va perdendo e sarà rimpianto. È ovvio: la rappresentazione artistica nobilita un fenomeno di per sé turpe e deteriore. Questo rappresenta un problema per chi legge il libro e vede il film, per noi italiani di inizio XXI secolo che l’esperienza storica ha reso consapevoli dell’estrema pericolosità del fenomeno mafioso. Tra l’altro, i boss mafiosi stessi leggono il libro e vedono il film, usano le stesse parole e gli stessi concetti per interpretare se stessi e presentarsi all’esterno, per ottenere consenso e creare complicità. È stata l’arte a ispirarsi a loro? O sono loro a trarne ispirazione?
Uno dei grandi Statinazione europei, quello italiano, ha a lungo tollerato la mafia. E l’hanno fatto anche gli Stati Uniti d’America, che nel corso del Novecento hanno acquisito a livello planetario il ruolo di potenza egemone, e se si vuole imperiale, attraverso due guerre mondiali guerreggiate e un’altra guerra mondiale stavolta fredda. Utilizzando alcuni fatti e molta immaginazione, la mafia è stata inserita nel ruolo di protagonista in questa vicenda. È un fatto, che ampiamente documenterò nel testo: in tempo di guerra fu raggiunto un accordo tra i servizi segreti della marina statunitense e il grande boss Lucky Luciano per la gestione concordata del porto di New York. Rileverò invece la mancanza di qualsiasi base documentaria nella storia (diciamo meglio la leggenda) stando alla quale lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 sarebbe stato il frutto di un complotto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi. Dirò della strage di Portella della Ginestra. Non mi sembra sia venuto qualcosa di serio dai vari tentativi di dimostrare che gli americani abbiano avuto in essa una qualche responsabilità, mentre è vero che, in generale, intorno alla vicenda del bandito Salvatore Giuliano si intrecciarono complotti a ogni livello. Molti sono stati quelli che (in Italia e altrove) hanno ricondotto i successi della mafia nel secondo Novecento alle trame del governo statunitense, o delle sue agenzie di sicurezza, nell’ambito di «strategie della tensione» destinate a inquinare in permanenza la vita democratica della nostra Repubblica. Si tratta di una tesi che ha avuto fortuna nella cultura di sinistra, la quale è stata a lungo antiamericana per definizione, e anche su altri versanti, che non lo sono stati mai. Ora può darsi che, nei giochi complicati dei servizi segreti, qualche spezzone di qualche agenzia statunitense abbia tramato con qualche banda mafiosa americana o siciliana. Però in sostanza l’unica cosa provata è questa: più volte il governo statunitense intervenne, anche su sollecitazione dall’agenzia federale antidroga (il Narcotic Bureau), perché le autorità italiane facessero qualcosa contro la mafia, ottenendo scarso successo. Io sono consapevole che solo in parte la ricerca può illuminare gli spazi torbidi, oscuri in cui si sviluppa questo fenomeno, la rete di intrighi che costituisce la storia della mafia. Penso però che la storiografia possa fare la sua parte, dal punto di vista conoscitivo e anche da quello civile, evitando di accreditare le mitologie del Supercomplotto. Evitando di seguire la china della discussione pubblica, che troppo spesso si è ubriacata e tutt’oggi si ubriaca dell’immagine della mafia come invincibile superpotere: finendo per risolversi, quali che siano le sue intenzioni, in una sottile apologia. Palermo, novembre 2018
S. L.
In questo libro metto insieme eventi e argomenti presentati già nella mia Storia della mafia, uscita in prima edizione nel 1993 e in seconda edizione nel 1996, con altri presentati nel mio volume Quanto la mafia trovò l’America, edito nel 2008, e con altri ancora. Tengo conto naturalmente dei risultati conseguiti in questi anni da altri studiosi. Nell’insieme, il risultato è nuovo. 1 In «la Repubblica», 12 settembre 2018. Pignatone si riferisce all’inchiesta definita «Mafia capitale». 2 The Impact, pp. 267. 3 Sciarrone 2002, pp. 512; e anche Id. 2006. 4 Romano 1945, pp. 367. 5 Foucault 1993. 6 La lettera firmata M. L. Harney, Formerly Assistant to Us Commissioner of Narcotics, 13 marzo 1964, in GWP. 7 Di Piazza 2010. 8 Del romanzo di Puzo, uscito nel 1969, e del primo dei film diretti da Coppola (1972).
La mafia
A Giulia, che ha la vita davanti
I. Origini
Anche prima dell’unificazione italiana erano diffusi nel Mezzogiorno termini atti a indicare forme di affarismo criminale particolarmente radicate nella società. Camorra, innanzitutto. Non esistevano invece, o non erano nell’uso, l’aggettivo maffioso/mafioso e il sostantivo maffia/mafia. Si affermarono immediatamente dopo che il vecchio regime borbonico venne abbattuto e si instaurò il nuovo regime nazionaleitaliano. Prima apparizione: il 1863, la commedia dialettale I mafiusi di La Vicaria, di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca. Era ambientata nel 1854, e trattava di certi «camorristi» palermitani che in carcere venivano invitati da un detenuto politico «incognito» ad abbandonare la via del delitto e a formare una società di mutuo soccorso per difendere legalmente i loro interessi nel nuovo spirito della libertà destinato ad affermarsi a breve termine in Sicilia come nell’Italia tutta. In molte maniere, come vedremo, può essere spiegata la coincidenza tra quest’innovazione terminologica e la generale innovazione politica, l’unificazione nazionale. La più semplice: il Regno delle Due Sicilie rifiutava le idee liberali di Costituzione e sovranità della legge; viceversa l’Italia unita, che si rifaceva a modelli liberali, trovò utile o necessario attribuire un nome che indicasse o stigmatizzasse lo scarto tra quella teoria e la pratica. Lo scarto era in effetti forte non solo e non tanto perché l’estrema periferia siciliana fosse inadatta a ospitare gli ordinamenti nuovi, ma perché l’Italia nuova non era liberale sino in fondo, non certo nella fase delle origini. Nell’isola, la Destra al governo cercò di garantire l’ordine pubblico su entrambi i versanti (politico e criminale) facendo ricorso allo stato d’assedio e al governo militare, a metodi autoritari, «eccezionali», insomma illiberali. Non riuscì mai a conquistare un gran consenso nell’isola. Rimase un partito in prevalenza settentrionale per composizione di gruppi dirigenti, e settentrionalista per impostazione politica. Così in Sicilia montò una protesta di varia natura, a cominciare da quella regionalista, cui la Sinistra diede voce assumendo il ruolo dell’opposizione costituzionale, trovando un grande leader in Francesco Crispi, ottenendo una sequenza di successi elettorali, in particolare nel novembre 1874 e nel novembre 1876. La svolta si ebbe tra queste due elezioni, nel marzo 1876, quando una scomposizione e ricomposizione della maggioranza parlamentare portò alla guida del governo il leader della Sinistra Agostino Depretis. Una precisazione è a questo punto necessaria. Molto spesso ci si riferisce alla Sicilia genericamente, come a un tutt’uno, ma per quanto attiene al nostro argomento è necessario distinguere la parte occidentale da quella orientale dell’isola. In età postunitaria la realizzazione di un reggimento ordinato, basato su criteri di legalità, si rivelò ben più difficile nella prima che nella seconda. Banditismo e mafia si configurarono allora come problemi tipici dell’una piuttosto che dell’altra. Lo rimasero anche dopo, per una lunghissima fase storica a venire. 1. Eredità della rivoluzione. La storiografia ha molto citato una relazione del 1838 in cui Pietro Calà Ulloa, magistrato napoletano in servizio a Trapani, denunciava l’esistenza di «unioni o fratellanze, specie di sette che dicono partiti», capitanate da «possidenti» o «arcipreti», che si configuravano come «piccoli governi nel governo»1. Intravedeva in effetti qualcosa di simile alla mafia. Un altro funzionario borbonico scriveva: «i ladri in Sicilia senza intenderlo sono i mezzi di una rivoluzione e saranno l’istrumento della rivolta di cui ne godrà chi ora li protegge»2. Per quanto attiene allo specifico del nostro argomento, i due brani sono intriganti. Però (il punto è questo) noi non possiamo seguire l’impostazione di questi due fautori dell’assolutismo borbonico riducendo a intrigo protomafioso il complesso intreccio tra la mobilitazione delle classi dirigenti e quella popolare, da cui scaturirono i movimenti rivoluzionari3. Lo storico Antonino Recupero indica la strada giusta, collocando quest’intreccio in luoghi variegati: «corporazioni artigiane, associazioni segrete di operai, confraternite, gruppi ecclesiastici, società segrete», «strutture verticali», interclassiste, di varia natura4. C’era una dimensione ideologica? Direi di sì, almeno nei limiti in cui era possibile considerati i luoghi, i tempi, gli uomini. Talora la libertà invocata era municipale, come nel caso del grido di battaglia: «Viva Palermo e Santa Rosalia»; talora il movimento si basava sull’avversione alla tirannide napoletana, sul patriottismo siciliano e magari (alla fine) anche italiano; e qualche altra volta esprimeva speranze di giustizia sociale5. C’è da chiedersi quale fosse nella capitale della rivoluzione, Palermo, la base sociale delle squadre, che nel ’48 e nel ’60 ne furono la forza armata. Le fonti si riferiscono genericamente a «operai», nonché a «giardinieri» e contadini
che nei momenti decisivi affluivano in armi in città dalle borgate e dai paesi circostanti. Resta comunque difficile (magari impossibile) scandagliare adeguatamente questo mondo sommerso, perché a produrre i documenti che usiamo come fonti erano esponenti delle classi superiori, e – fossero borbonici, liberalmoderati o magari (pseudo)democratici – tendevano a considerare qualsiasi tipo di politicizzazione popolare con sospetto. Quanto ai leader delle squadre, facciamo due esempi, ambientati in due luoghichiave della mafia ventura: l’uno in un paese della provincia di Palermo, a Corleone, l’altro nella stessa capitale. Corleone. Qui nel 1848 il partito democratico «spinto» era capeggiato da Francesco Bentivegna, grosso proprietario con parentele aristocratiche. Bentivegna guidò una squadra a Palermo per sostenere l’insurrezione, e non si lasciò «normalizzare» dalla successiva restaurazione. Si collegò su scala nazionale con gli stessi circoli radicali che ispirarono la sfortunata impresa di Carlo Pisacane. Alla fine dell’anno 1856 mobilitò nuovamente una squadra popolare, battendo la campagna con l’idea di piombare su Palermo insieme ad altri gruppi al momento giusto. Fu catturato e subito fucilato dopo un processo sommario. Francamente non mi sembra plausibile che i membri del suo «partito» si mobilitassero a Corleone solo per deferenza verso il suo blasone. Questo cosiddetto partito si schierò con la corrente radicale garibaldina nel 1860, e assunse la veste di un protomovimento contadino che tra l’estate e l’autunno promosse una sorta di sciopero per migliori patti colonici al grido: «Viva l’unità italiana, Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi!»6. Nel 1862 troviamo Giuseppe Bentivegna, fratello di Francesco, tra i comandanti delle camicie rosse sull’Aspromonte. Uno squarcio sul futuro. Rosario Bentivegna, comunista e comandante partigiano, membro del Gruppo di azione patriottica che nel 1944 mise in atto il celebre attentato di via Rasella a Roma contro i tedeschi, era un pronipote del martire del 1856. Palermo. Giovanni Corrao (18221863) veniva dall’ambiente artigiano cittadino, essendo figlio di calafato (costruttore di barche). Partecipò attivamente alla rivoluzione del ’48, conseguendo nell’esercito siciliano, nonostante la modesta istruzione, il grado di capitano di artiglieria. Dopo, finì in prigione e poi in esilio, in Italia e poi all’estero, facendosi unitario e mazziniano «spinto». Nel 1860 sbarcò in Sicilia prima di Garibaldi, lo seguì sino al Volturno dove fu ferito. Divenne colonnello dell’esercito regolare, ma poi si dimise, per tener fede alla sua posizione repubblicana. Torneremo più avanti sul seguito drammatico della sua storia. Diciamo però ora che al suo fianco c’erano altri due cospiratori antiborbonici di antica data, già esuli o detenuti politici. Il primo, Giuseppe Badia, veniva anche lui da una famiglia di artigiani palermitani; l’altro, Francesco Bonafede, era figlio di piccoli possidenti della provincia, e aveva partecipato alla congiura di Bentivegna. Entrambi rimasero su posizioni repubblicane, e alla fine aderirono alla Prima Internazionale. Infine, un elemento suggestivo. Stefano Bonanno, altro artigiano palermitano che nel 1860 capeggiò una squadra di volontari unitasi ai garibaldini, era il bisnonno del giudice Giovanni Falcone, eroe dell’antimafia. Rilevanti suggestioni possono venirci anche dalle biografie di due altri personaggi in qualche modo legati al movimento garibaldino. Il primo è Emanuele Notarbartolo (18341893). Nacque a Palermo da un’illustre famiglia aristocratica di fede borbonica, però lui maturò tutt’altro orientamento politico, schierandosi per la causa liberale e nazionaleitaliana sin dal 1857. Nel 1860 si unì ai garibaldini combattendo a Milazzo, poi passò nell’esercito regolare impegnato nelle operazioni contro i briganti nel Mezzogiorno continentale, infine lasciò le armi. Si impegnò in politica nel partito liberalmoderato, anche se la buona fama di cui godeva lo rendeva ben accetto anche su altri versanti, tanto che divenne sindaco di Palermo, nel 1873, alla testa di uno schieramento di concentrazione liberale (Destra più Sinistra storica) contrapposto a quello clericaleregionista. Nel febbraio 1876 fu nominato direttore del Banco di Sicilia dall’ultimo governo della Destra storica, per poi essere confermato da quelli successivi della Sinistra. Per le ragioni e nei modi di cui diremo a suo tempo, si contrappose a interessi mafiosi e finì assassinato, divenendo il simbolo del primo movimento definibile come antimafia. Il secondo è Napoleone Colajanni (18471921). Veniva da una famiglia di imprenditori zolfiferi di Castrogiovanni, cittadina montana al centro della Sicilia, poi ribattezzata Enna. Parliamo dell’ultimissima generazione garibaldina: tant’è che Colajanni era appena quindicenne quando, nel 1862, si arruolò volontario. Poi si schierò su posizioni radicali, repubblicane, socialisteggianti. Polemizzava contro gli antropologi che negli anni ottanta, misurando crani e ragionando di atavismi etnici, pretendevano di stabilire scientificamente il perché i meridionali fossero così predisposti a comportamenti antisociali o criminali tout court7. Difendeva la «razza maledetta» dei meridionali ma senza indulgere al «volgare e pernicioso chauvinisme» di chi nasconde le «piaghe» del proprio paese8. La mafia, ad esempio. E fu in prima fila, oltre che nella battaglia parlamentare sugli scandali bancari di fine secolo, nelle battaglie polemiche occasionate dal delitto Notarbartolo. Anche qui possiamo fare una proiezione plurigenerazionale: Pompeo Colajanni, un suo nipote, fu prima il comandante delle forze della Resistenza in Piemonte, e poi protagonista delle battaglie antimafia del Partito comunista. Detto questo, è possibile che i Corrao e i Bentivegna si siano rapportati, lungo il loro percorso, anche a elementi definibili come protomafiosi. In questa maniera possiamo definire un Turi Miceli di Monreale, già tra i capisquadra
del ’48, che si attivò nel 1849 per la resa della città ai borbonici, venne poi da questi riabilitato col patto che collaborasse con la polizia alla repressione del contrabbando, e tornò infine a insorgere nel 1860. Quanto a coloro che furono qualificati come capimafia dopo, in età postunitaria, troviamo nella loro biografia non pochi punti di contatto con l’esperienza rivoluzionaria. In questo senso credo si possa dire che la mafia rappresentò il frutto tossico di una stabilizzazione postrivoluzionaria. Per inquadrare meglio tale concetto, veniamo alla figura di Nicolò Turrisi Colonna (18171889), barone di Buonvicino. Discendeva, per parte di madre, da una famiglia della grande aristocrazia, e per padre aveva un imprenditore di più modesta origine, ma di ricchezze notevoli, originario di Castelbuono, paese montano delle Madonie. Nicolò Turrisi possedeva terre sia in quella zona, sia nell’area intorno alla capitale, l’agro palermitano. Molto impegnato sul fronte dell’innovazione agraria, persona colta, lui stesso autore di studi agronomici oltre che protettore di agronomi, era collegato per via personale e familiare alla grande tradizione dell’aristocrazia liberale palermitana del 1812. Partecipò attivamente ai movimenti risorgimentali, quale ufficiale nella Guardia nazionale palermitana del 1848 laddove (secondo il maggiore degli agronomi che furono suoi allievi, e che si fece suo biografo) mostrò particolare «ardimento nel frenare i tristi, i quali, pescando nel torbido, avrebbero creato gravi commozioni interne»9. Nel 1860 fu uno dei principali organizzatori dell’insurrezione cittadina all’arrivo di Garibaldi, e assunse il comando della rinnovata Guardia nazionale. Dopo l’Unità, si collocò all’opposizione, schierandosi con la Sinistra moderata. Nel 1865 fu nominato senatore. L’anno prima (1864) aveva pubblicato un opuscolo intitolato Cenni sullo stato della sicurezza pubblica in Sicilia. In esso Turrisi parte dai due grandi eventi della storia siciliana recente, la rivoluzione del ’48 e quella del ’60. Sia nella prima che nella seconda tornata, dice, «era in armi tutta la vecchia setta dei ladri; in armi tutta la gioventù che viveva col mestiere di guardiani rurali, e la numerosa classe dei contrabbandieri dell’agro palermitano»10. Aggiunge: dopo la seconda rivoluzione, è mancato un governo in grado di restaurare l’ordine, sicché a quella «setta» di «tristi» si sono affiliati contrabbandieri e trafficanti vari, guardiani dei terreni dell’hinterland palermitano e dell’interno della provincia. Registra che con essa sono dovuti venire a transazione i proprietari interessati al mantenimento dell’ordine. Non usa ancora la parola mafia ma usa altre parolechiave: setta, appunto, e poi camorra, infamia, umiltà. Spiega: «umiltà comporta rispetto e devozione alla setta ed obbligo di guardarsi da qualunque atto che può nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati»; in mancanza, un’assemblea decide sulla punizione del reo11. D’altronde Turrisi chiama la setta col suo nuovo nome, mafia, già due anni più tardi, testimoniando davanti alla Commissione parlamentare sulla rivolta del ’66. Dice: i malandrini «si fanno o si impongono guardiani della proprietà. Proteggono le proprietà e ne sono protetti; ma restano malandrini. La Mafia fu protetta da’ signori, che se ne valsero nel ’48»12. Colpiscono i due interventi, quello del 1864 e quello del 1866, per quanto dicono e anche per l’autorevolezza di chi dice, per il tono lucido con cui Turrisi analizza eventi di cui è stato personalmente protagonista quasi guardandoli dall’esterno. C’è stato anche lui tra i signori che hanno incrociato le loro sorti a quelle dei «malandrini» nel ’48 e nel ’60; che, dopo l’Unità, si sono affidati alla loro protezione e li hanno protetti. La Villa BonvicinoTurrisi a Passo di Rigano (borgata palermitana) era da Turrisi Colonna gestita come un’azienda agraria d’avanguardia, irrigua e coltivata soprattutto ad agrumeto. Poco dista dal cortile Giammona all’Uditore, che può darsi abbia preso il nome da Antonino Giammona: personaggio che bene rappresenta il circuito rivoluzione stabilizzazionemafia, nato appunto a Passo di Rigano intorno al 1830. La sua carriera viene lumeggiata da testimonianze successive, di metà anni settanta. Cominciamo da quelle a lui ostili. La prima, del medico Gaspare Galati, ce lo dice «poverissimo contadino» sino al 1848, ma poi in grado di «raggruzzolare qualcosa» e di investirlo in «intraprese di campagna». Si arricchì, commenta un rapporto di polizia, «briganteggiando sotto il vessillo della rivoluzione»13. Nel 1860 servì come ufficiale nella Guardia nazionale. E veniamo a una fonte a lui favorevole, il suo avvocato Francesco Gestivo, che vanta (ancora quindici anni dopo) i meriti da lui acquisiti in quella cruciale congiuntura: «nel manco assoluto di pubblica sicurezza ufficiale», alla testa di una lega formata da «proprietari di giardini, gabellotti, e altri che sono nella stessa condizione», per garantire un minimo di ordine14. Galati dice in sostanza la stessa cosa ma in negativo: «dal 1860 si buttò anima e corpo nella mafia, che ha saputo con rara abilità, senza compromettersi, capitanare»15. Non so se Giammona si fosse legato a Turrisi nel corso dei sommovimenti del ’48 o di quelli del ’60, o se viceversa i due avessero preesistenti rapporti. Gli adepti al gruppo Giammona si ritrovarono comunque proprio in un fondo Turrisi, sito nella borgata palermitana dell’UditorePasso di Rigano, per il primo giuramento di mafia che, per quanto se ne sappia, sia stato registrato in un rapporto di polizia, il 29 febbraio 1876. Distinguerei in esso due parti: l’una coincidente con quella attuale, e ben nota, di Cosa nostra siciliana e americana, l’altra (sembrerebbe) perdutasi col tempo. Nella prima il padrino, davanti agli altri membri della società, faceva giurare l’aspirante dopo avergli punto il dito indice, macchiando col sangue sgorgato un santino, un’immagine sacra, che veniva poi bruciata «a simboleggiare l’annichilimento» di chi intendesse tradire. Nella seconda, c’era tra i due uno scambio di battute: «A
chi ti dissero di adorare? – il sole e la luna – e chi era il vostro Dio? – un Ariu – e a quale regno appartenete? – a quello dell’indice»16. Questo rituale di tipo massonico (ibridato con elementi cattolici) va in prima battuta inquadrato sotto due aspetti: l’uno storico, l’altro funzionale. Primo aspetto, storico. Il rito registrato nel 1876 ci rinvia non solo al futuro della mafia, ma anche al passato della rivoluzione: in particolare alle «vendite» carbonare e a quei patti «giurati» di cui dicono le fonti sul 1848, in forza dei quali il popolo prometteva di seguire le classi superiori nella lotta contro il dispotismo borbonico, ma impegnandosi a non mettere in discussione l’ordine sociale. Recupero, che insiste su quest’aspetto, spiega: le truculente minacce verso i traditori, «il penetrare bendati in un ambiente segreto (simbolo di rinascita), il giurare col proprio sangue e col fuoco […] sono un ispessimento rozzo di certi aspetti dei rituali massonici, fatti propri dai carbonari»17. Secondo aspetto, funzionale. La mafia non solo originariamente trae suggestioni o modelli dalla massoneria, ma condivide con essa alcuni caratteri di fondo. Diciamolo sapendo di semplificare, e senza voler criminalizzare la tradizione massonica: le cosche mafiose e le logge massoniche sono società di confratelli che si basano sull’idea del mutuo sostegno, usano rituali barocchi per l’ammissione dei neofiti, puntano sul mantenimento del segreto. 2. Mafia e politica atto primo. Nel 1862 Garibaldi tornò a sbarcare in Sicilia, raccogliendo di nuovo un esercito di volontari, con l’idea di puntare su Roma per liberarla dalla tirannide papalina e ricongiungerla alla nazione. Gli uomini della corrente radicale garibaldina siciliana, che alla fine del 1860 erano stati bruscamente emarginati dai rappresentanti del governo liberal moderato di Torino, pensarono fosse venuto il loro momento. I funzionari governativi si lasciarono esautorare. Però, quando i volontari furono bloccati dall’esercito in Calabria (sull’Aspromonte), i nodi vennero al pettine. Fu dichiarato lo stato d’assedio. Ci furono delle fucilazioni18. L’esercito, guidato dal generale Giuseppe Govone, mostrò nei confronti di patrioti, e in terra di Sicilia, la faccia feroce mostrata nel biennio precedente nel Mezzogiorno continentale verso il legittimismo filoborbonico. La polizia avviò una schedatura di massa che equiparava (appunto) i legittimisti e i garibaldini19. E nel contempo il governo della Destra cercò di approfittare dell’occasione per rimediare a una più generale crisi dell’ordine pubblico, al diffondersi del banditismo. A tali fini, a partire dall’agosto 1863, applicò anche all’isola la legge «speciale» Pica, pensata per contrastare il brigantaggio al di là dello Stretto, che dava ampia facoltà ai tribunali militari di comminare condanne anche a morte. La storiografia ha rilevato il carattere fortemente autoritario delle pratiche adottate allora e in seguito. Se i militari andavano per le spicce, anche la polizia non si conformava gran che a principî liberali, largamente basandosi su una misura «amministrativa» come l’ammonizione. Veniva applicata a coloro che la polizia stessa diceva di «cattiva fama», ed era propedeutica al domicilio coatto (segregazione in qualche luogo remoto, magari in un’isoletta) per il caso in cui l’ammonito continuasse a «destare sospetti». Il meccanismo esaltava l’arbitrio dei funzionari, che agevolmente potevano colpire alcuni criminali e magari favorirne altri. Come giustificava l’autorità la sua preferenza per tali metodi extragiudiziali? Con la (presunta) inaffidabilità di giurie e magistrati isolani. Fatto sta che il sistema aveva effetti controproducenti perché molti preferivano darsi latitanti per prevenire l’ammonizione. Nel complesso quell’autoritarismo, ha osservato la storica Lucy Riall, si risolse in un «crollo dell’autorità»20. A Palermo il partito garibaldino si divise in tre tronconi. Il primo si lasciò attirare nello schieramento filo governativo. Il secondo – massimo esponente Crispi – confluì nella Sinistra «storica», ovvero si pose su una linea di opposizione costituzionale (monarchica). Il terzo si attestò su una linea radicalmente repubblicana. Era guidato da Corrao, che sull’Aspromonte, alla testa di un reparto di volontari, aveva fatto sparare sui soldati «regi». Fu poi amnistiato, ma non per questo lui e i suoi più stretti collaboratori, Badia e Bonafede, accettarono l’ordine monarchico. Nel frattempo si avviava a Palermo la stagione dei complotti. La sera del 1° ottobre del 1862 vennero pugnalate in città tredici persone che non avevano alcuna relazione tra loro, e senza motivo apparente. Le autorità provarono a coinvolgere quali mandanti esponenti politici cittadini di estrazione diversa ma comunque avversa al governo; e, tra gli altri, Corrao21. Gli oppositori pensarono invece a una trama ordita dalla «questura», in una logica (usiamo un’espressione odierna) da strategia della tensione. I loro peggiori sospetti vennero confermati nel 1863, quando lo stesso Corrao fu misteriosamente assassinato. Di lì a poco la parola maffia venne utilizzata per la prima volta in un documento governativo, una relazione riservata del prefetto di Palermo Filippo Gualterio, del 1865. Il funzionario spiegò: si trattava di una specie di «camorra», di un’«associazione malandrinesca» in rapporto con i «potenti», da assumersi a sintomo di «un grave e prolungato malinteso fra il Paese e l’Autorità». Poi però puntò sull’elemento politico, affermando che la maffia era
stata a suo tempo guidata da Corrao, che il suo capo era ora Badia. Insomma, la faceva coincidere col partito repubblicano, col chiaro intento di delegittimarlo22. Le correnti estreme dell’opposizione si prepararono a passare all’azione, e quelle legalitarie ebbero l’impressione che l’autorità di polizia lasciasse fare per poter meglio giustificare una piena repressione. Se così era, bisogna dire che il gioco scappò di mano agli apprendisti stregoni. Il 15 settembre del 1866, come era accaduto nel ’60 e nel ’48, squadre in armi provenienti dalle borgate intorno a Palermo e dai paesi circostanti (Bagheria, Misilmeri, Monreale) calarono sulla città, congiungendosi con quelle formatesi in centro. Disse un testimone: «l’ho inteso ripetere da molti del popolo, che le squadre del ’66 erano le stesse del ’60, e molti ancora del ’48 ne facevano parte»23. Partecipò di sicuro uno dei capisquadra del ’48 e del ’60, il già citato Turi Miceli di Monreale, che morì assaltando il carcere nel vano tentativo di liberare Badia, imprigionato in precedenza. Tra le 2030 000 persone in piazza nel momento culminante (in armi o limitandosi a dimostrare), molti gridavano: «Viva la repubblica italiana!» ed esibivano bandiere rosse. Anche a Monreale, gli uomini in armi che puntavano su Palermo erano usciti da «tutte le case» e sventolavano bandiere rosse con la scritta «repubblica»24. Nel mirino dei rivoltosi furono messi alcuni personaggi pubblici: il sindaco della città e astro nascente della Destra isolana, il marchese Antonio Starabba di Rudinì, e alcuni ex leader garibaldini di recente convertitisi alla linea filogovernativa. Dopo sette giorni e mezzo l’esercito, sotto il comando del generale Carlo Cadorna, riprese il controllo della città al termine di duri combattimenti di strada che fecero un numero imprecisato di morti. Il generale puntò a lasciare ai suoi ufficiali mano libera il più a lungo possibile, e proprio per questo (che paradosso!) procrastinò la proclamazione dello stato d’assedio, che lo avrebbe costretto a portare gli insorti davanti a tribunali militari invece che fucilarli sul posto25. Rudinì disse: Palermo reagisce così perché con l’unificazione ha perso la «supremazia che aveva sopra tutta l’isola», «fuor di Palermo non ci sono autonomisti», la rivolta è «cosa tutta quanta palermitana»26. In effetti il resto della Sicilia rimase fuori dal moto. Ed è probabile che lo scontento per la perdita del ruolo di capitale, degli uffici e di altre istituzioni (anche ecclesiastiche) sia stato parte rilevante in quel disfizziamento di populu (disaffezione popolare) registrato da Giuseppe Mario Puglia, crispino e capostipite di una dinastia di grandi giuristi che incontreremo nuovamente27. Vero è che gli slogan repubblicani, e la presenza di Bonafede nel comitato insurrezionale, indicavano il ruolo prevalente svolto nel moto dalla sinistra radicale. Vero è anche che vi parteciparono elementi clericali, ad esempio quelli provenienti da Monreale. Clericale stava per borbonico, come sostenevano i funzionari governativi? Crispi in persona lo negò, ricordando gli antichi meriti patriottici del vescovo di Monreale Benedetto D’Acquisto, arrestato per quanto fosse ottantenne: «Quando studiavamo all’università – ricordò al suo amico Puglia – non ci eravamo mai accorti che era un reazionario. Bisognava venisse dal Piemonte, colui che doveva fare codesta scoperta»28. La difficoltà di ricondurre la rivolta a un preciso schieramento partitico diede occasione alla parte governativa di riproporre, stavolta anche pubblicamente, l’operazione fatta con la citata relazione del prefetto Gualterio: mettere cioè insieme promiscuamente l’aspetto politico e quello criminale29, addebitando i drammatici eventi al complotto della mafia. Fu quello il momento in cui la parola cominciò generalmente ad affermarsi. Però i molti che vi fecero ricorso nelle testimonianze rese davanti a una Commissione parlamentare costituita ad hoc, o in opuscoli stampati «a caldo», non necessariamente si accodarono a questa strumentalizzazione politica. Un avvocato, Giacomo Pagano, seppure non simpatizzante per l’opposizione, rilevò la forzatura, e scrisse: «mafia dicesi in Sicilia l’elemento malandrinesco, al quale il partito governativo dà concetto e rilievo come ad un partito politico»30. Ma proviamo a uscire da questa (voluta) confusione concettuale. La mafia non era un partito politico. Piuttosto, le varie fazioni che la componevano si collocavano all’interno dei vari partiti, sia pure nel modo strumentale che è proprio di questo tipo di appartenenze. Possiamo distinguere su questa base alcuni dei più importanti capimafia: Salvatore Licata (o La Licata) e i fratelli Amoroso, che qui per la prima volta presentiamo, l’Antonino Giammona a noi già noto. La vicinanza del primo ad ambienti governativi, di Destra, risulta con chiarezza dagli elementi biografici forniti alcuni anni più tardi da un questore: il quale spiegava che Licata, nato nel 1805, aveva compiuto apprezzati «atti da buon patriota» nel ’48, nel ’60 e appunto nel ’66. Ammetteva: «gli si addebitano anche degli omicidi; ma la giustizia non è mai arrivata a colpirlo»31. Sta di fatto che l’autorità lo inserì nel 186162 nel corpo dei militi a cavallo, ricevendone buoni servizi. Tra questi: informazioni contro gli oppositori politici e un contributo alla delegittimazione di Corrao32. Invece gli Amoroso erano legati all’estrema sinistra di Badia e dunque (magari) già a Corrao, ed ebbero un ruolo importante nella stessa organizzazione dell’insurrezione, pagando anche un prezzo di sangue. Il loro avvocato, rievocando molti anni dopo la loro partecipazione al moto «anarchico» del ’66, cercò di collocarla in una prospettiva politica piuttosto che criminale, quella dei grandi «rivolgimenti politicosociali» che trascinano «idealisti» e «illusi»33. E veniamo infine a Giammona, che sappiamo schierato in difesa dell’ordine. Seguiva d’altronde le
indicazioni della Sinistra moderata di Turrisi Colonna, dipinto da un’autorevole testimonianza mentre (insieme ad altri patrioti del 1860) si impegna a tenere tranquilli i capisquadra garibaldini34. Domata l’insurrezione, Rudinì venne nominato prefetto e usò il pugno duro come ci si aspettava da lui. Lasciò ben presto lo scomodo incarico (1867), e l’anno dopo tutta l’isola venne affidata al generale Giacomo Medici, nel duplice ruolo di comandante generale delle truppe su scala regionale e di prefetto di Palermo: la sua dunque fu una «prefettura militare», che durò ben cinque anni, sino al 1873. 3. Due prospettive: sguardo esterno e sguardo interno. Che cos’è la mafia? Intorno al 1866 le autorità fornirono a questa domanda risposte confuse, e/o strumentali. Noi, con loro, abbiamo difficoltà a distinguere lo specifico del fenomeno nella magmatica coda di un processo rivoluzionario, e nella fase di impianto di un nuovo Stato che si diceva liberale ma non riusciva ad esserlo. Nel 1874 76 cominciarono a venire risposte più chiare dal confronto tra lo sguardo esterno alla prospettiva isolana, che in parte coincideva con quello della Destra, e lo sguardo interno della classe dirigente locale schieratasi a Sinistra. Persero di peso le strumentalizzazioni politiche più evidenti, ma ugualmente il concetto venne definito nel fuoco di conflitti politici, in senso stretto o in senso lato. Nel 1874 l’ultimo governo della Destra storica, guidato da Marco Minghetti, propose una legge per l’ordine pubblico, «straordinaria» e specifica per la Sicilia. Un intervento legislativo del genere veniva giustificato con l’impossibilità di contrastare, con metodi «normali», gli abigeati, le rapine, i sequestri di persona. Fu citata la statistica sugli omicidi del 1873, che vedeva l’isola alla testa tra le regioni d’Italia con un omicidio ogni 3194 abitanti, mentre la Lombardia era alla coda con un omicidio ogni 44 67435. Va detto però che la media regionale poco dice sulla questione che ci interessa, perché i tassi erano ancor più elevati nella parte occidentale dell’isola, mentre quella orientale si assestava sulle medie nazionali: tant’è che, sempre per l’anno 1873, si registravano 78 omicidi premeditati nella provincia di Palermo, e soltanto 4 in quella di Siracusa36. I prefetti in servizio nella Sicilia occidentale erano tutti settentrionali. Quello di Palermo Gioacchino Rasponi si pronunciò contro il progetto governativo e si dimise. Quello di Caltanissetta Guido Fortuzzi si disse entusiasta, e spiegò il perché. Definì la mafia come frutto del generale «abbassamento morale» delle popolazioni isolane. Precisò: l’idea di governare i siciliani «con leggi ed ordinamenti [liberali] all’inglese o alla belga, che suppongono un popolo colto e morale come colà o come almeno nella parte superiore della penisola», implica «un azzardoso e terribile esperimento», destinato inevitabilmente al fallimento37. Il suo sguardo sulla società isolana era esterno, ma non solo: come quello di altri funzionari (civili e militari) era affetto da pregiudizio, nel contempo autoritario e impotente. Le parolechiave, oltre che mafia e banditismo, erano omertà e manutengolismo. Gli ufficiali di polizia indicavano come omertà la mancanza di denunce o di collaborazione delle popolazioni. Con il termine manutengolismo genericamente si riferivano alle complicità di cui i criminali godevano non solo tra contadini, popolani, trafficanti, ma tra imprenditori agricoli ovvero gabellotti (affittuari), professionisti e sindaci di paesi, notabili, persino membri dell’establishment. Fece impressione che fosse coinvolto, su questo massimo livello, persino un innovatore agrario, intellettuale e patriota come Turrisi Colonna. Nel 1874 la polizia fece irruzione in una sua masseria situata in un latifondo presso Castelbuono, nell’area montana delle Madonie. Cercava una comitiva di banditi. Arrestò, accusandoli di aver dato riparo ai membri della banda, l’amministratore e i campieri (il termine sta per «sorveglianti»); gente che era compresa in una lista di mafiosi compilata nel 1873 dalla prefettura. Turrisi rispose pubblicamente lamentando la «tristissima situazione» in cui si trovavano gli imprenditori agricoli: «dover soffrire quotidiani attriti, di giorno con la forza pubblica che predica tutti manutengoli e protettori di briganti, di notte coi briganti che chiedono contribuzioni di ogni genere»38. Il suo era l’argomento della Sinistra moderata, che nell’isola era sulla cresta dell’onda, tanto da conseguire, nelle elezioni del novembre del 1874, una grande vittoria. Di seguito, i suoi deputati affrontarono animosamente la battaglia contro il progetto governativo sulla legge eccezionale, denunciandolo come l’ennesima prevaricazione della Destra, mettendolo in sequenza con gli stati d’assedio di Govone e Cadorna, con la legge Pica, con la lunga prefettura militare di Medici. La discussione parlamentare si preannunciava accesa e tale fu. Raggiunse il clou l’11 giugno del 1875, quando Diego Tajani, già procuratore generale del re a Palermo, ora nella veste di deputato dell’opposizione, rievocò il conflitto istituzionale che nel 1871 lo aveva opposto a Giuseppe Albanese, uomo di Rudinì, nominato da Medici questore di Palermo. Riassumiamone sinteticamente i termini. Tajani aveva incriminato Albanese come mandante di una catena di omicidi perpetrati da certi mafiosi, cui era stata data mano libera per la gestione della sicurezza nella zona di Monreale. Alla fine il questore era stato assolto, e Tajani aveva dovuto abbandonare la magistratura. Alla Camera, nel 1875, la denuncia destò un enorme clamore. Fu in quel momento che, discutendo del corpo dei «militi a
cavallo» – addetto alla polizia rurale, reclutato tra pregiudicati, coinvolto in mille episodi di manutengolismo – il deputato della Sinistra Francesco Cordova gridò: «Signori del Governo, il centro della maffia è nelle fila della vostra forza pubblica, […] i manutengoli siete voi»39. Il discorso di Tajani è stato valorizzato dagli storici prima e più di ogni altra fonte sulla storia della mafia40. In effetti la discussione stava salendo di tono, assumeva risalto nazionale. In quello stesso anno, lo storico napoletano Pasquale Villari pubblicava le sue Lettere meridionali, in cui la mafia (insieme alla camorra e al brigantaggio) era considerata come una delle più gravi manifestazioni di una «questione sociale» italiana. Tra il 1875 e il 1876, una Commissione parlamentare d’inchiesta raccolse una gran quantità di utili testimonianze, pur concludendo i propri lavori con una relazione piuttosto insipida. Leopoldo Franchetti (18471917) e Sidney Sonnino, giovani rampolli di un’alta borghesia livornese di origine ebraica, intellettuali simpatizzanti per la destra, programmarono il loro viaggio inchiesta in Sicilia e lo realizzarono nel marzomaggio 1876. Scrissero di seguito, e pubblicarono a tamburo battente l’Inchiesta in Sicilia, destinata a divenire l’opera più famosa sulla questione siciliana, su cui si sono formate generazioni di intellettuali e studiosi. Il problema della mafia fu analizzato a fondo nella parte scritta da Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Espongo la tesibase di questo libro, riservandomi di tornare su quelle specifiche più avanti. Franchetti considera il «comportamento mafioso» come il frutto non solo di un insieme di rapporti di potere, ma anche di sintonie culturali tra classi dirigenti, ceti medi e popolo, tra le diverse parti di una società invischiata in una interminabile transizione postfeudale. Ritiene che tale cultura renda i siciliani non «in grado di intendere» il concetto moderno della legge uguale per tutti. Sfrutta insomma le possibilità interpretative dello sguardo esterno sull’isola, rielabora e raffina quello dei funzionari della Destra. Centoventi anni dopo l’Inchiesta, sono stati pubblicati i diari di viaggio di Franchetti. Grazie ad essi, possiamo oggi mettere a confronto i due intellettuali toscani con le loro fonti, cioè con le persone con cui interloquirono. Tra loro c’erano due protagonisti della nostra storia: Turrisi Colonna e Tajani, uomini della Sinistra moderata, l’uno siciliano, l’altro calabrese. Prima di partire, i due viaggiatori molto speravano di parlare con il primo. Avevano letto di lui, era stato detto loro che era legato alla mafia. Nel corso del viaggio, ne chiesero a molti ma non tutti risposero a tono. Il questore Rastelli fece dell’ironia. Disse: dovrò lasciare presto Palermo, perché ho avuto «il torto di aver toccato [i suoi] campieri»41. Per parte sua Turrisi stesso spiegò che era obbligato a certe «transazioni» vista l’incapacità del governo nel mantenere l’ordine. Si trattava di un argomento politicamente trasversale: lo usò lui sul versante della sinistra moderata, lo usò Rudinì sul versante di Destra, lo usarono tanti altri del loro ceto. Il barone non ripeté le cose assai più specifiche da lui dette nell’opuscolo del 1864, e per il resto parlò con competenza di economia. Alla fine, il suo nome fu citato nelle pagine dell’Inchiesta (soprattutto nel volume di Sonnino) come esperto di studi agronomici, imprenditore modello, proprietario sollecito del benessere dei suoi contadini. Quanto a Tajani, Franchetti e Sonnino andarono a trovarlo a Napoli, immediatamente prima di sbarcare in Sicilia. L’ex magistrato disse loro, in questo colloquio privato, cose ancor più pesanti di quelle dette in Parlamento. Spiegò che la degenerazione del governo della Destra in Sicilia era cominciata nel 186667, essendo prefetto Rudinì, il quale (usiamo le sue parole) «principiò a impiegare assassini contro assassini, per modo che per un assassino che distruggeva ne creava quattro»42. Albanese, aggiunse, aveva solo proseguito su quella strada. Gli argomenti di Tajani vennero ripresi dal Francesco Gestivo che abbiamo già conosciuto come avvocato del capomafia Giammona, e che dell’ex magistrato si disse seguace e ammiratore. Franchetti ragionò con Gestivo a lungo, subito dopo essere sbarcato nell’isola e in tre altre occasioni. Mi affascina l’idea di questi due così diversi personaggi che si confrontano nei circoli della buona società palermitana, o in qualche stradella tra i giardini di agrumi di Bagheria, con Gestivo che ricostruisce ogni genere di intrighi, e Franchetti che ascolta, magari obietta, chiedendosi se e quanto credergli, e come usare le informazioni da lui fornite per affrontare le questioni generali che gli frullano per la mente. Nella fattispecie la dialettica tra sguardo esterno e sguardo interno fu particolarmente feconda – anche se, o proprio perché, i due punti di vista erano opposti. In quello «di destra» e settentrionalista di Franchetti, il comportamento mafioso originava dalla natura stessa della società siciliana. Stando a quello «di sinistra» e sicilianista di Gestivo, non c’era «in Sicilia mancanza di senso morale»43, e l’infezione veniva dal malgoverno. Il viaggiatore livornese portava il discorso in una sfera che possiamo dire socioantropologica. L’avvocato palermitano si riferiva a una dinamica politica. Raccontò in effetti la storia della Palermo postunitaria in maniera colorita, più o meno seguendo la linea che noi stessi abbiamo indicato nel paragrafo precedente. Definì «immenso» «l’odio contro il partito governativo» venutosi a creare dopo Aspromonte, anche per il fatto che i moderati avevano approfittato dello stato d’assedio per impadronirsi «in esclusiva» delle amministrazioni comunali e di ogni altro centro di potere. Ricordò con indignazione i metodi di Govone e certe sue dichiarazioni improntate a
razzismo antisiciliano: «usò i mezzi più violenti operando arresti di massa di parenti e amici perché [i latitanti] si costituissero, furono perciò perfino tagliate le acque per assetare i paesi, e Govone ebbe poi il coraggio di chiamare i Siciliani barbari in Parlamento»44. Ricordò Corrao come poteva farlo un borghese della Sinistra moderata: come un «uomo coraggiosissimo ma di nessuna levatura e rozzo», pronto dopo Aspromonte a legarsi «colla marmaglia malcontenta di ogni colore: clericali, borbonici, ecc.». Però non aveva dubbi che il suo assassinio fosse stato perpetrato per «mandato superiore», da «due militi a cavallo» poi fatti fuggire in America45. Spiegò che Medici era stato scelto in quanto antico luogotenente di Garibaldi, atto a sedurre i settori moderati dell’opposizione allontanandoli ulteriormente da quelli estremi; ma che di fatto aveva lasciato campo libero nelle amministrazioni locali ai «nobili», ai «ricchi», insomma alla «parte consortesca» (la Destra). E per questa via arrivò ad Albanese. Al pari di Tajani, lo disse legato a Rudinì prima ancora che a Medici. Spiegò: era stato dopo il ’66 che, per proteggersi «dalla rivoluzione», la fazione filogovernativa aveva cominciato «coll’assoldare canaglie, quindi [era stata] costretta a tollerarne i delitti, quindi a coprirli, […] infine a commetterne essa stessa»46. Abbiamo già detto della sua difesa del capomafia Giammona, che non era solo di tipo professionale; Gestivo, severo con la mafia governativa, era ben più indulgente con quella dell’opposizione. Torneremo più avanti sulle cose da lui dette sui banditi. Ma va citata ora una sua definizione della mafia: il «sistema di voler curare il male col male»47. Mi sembra ottima. Corrisponde a quella usata due anni più tardi da Giuseppe Di Menza, alto magistrato palermitano orientato a sinistra e, per diletto, saggista: a suo dire la polizia aveva somministrato alla società una polpetta avvelenata, utilizzando certi criminali come strumento d’ordine – quasi fosse un rimedio omeopatico (il «similia similibus degli omeopatici»)48. Erano fondati gli argomenti usati dagli avversari politici della Destra – Tajani, Cordova, Di Menza, Gestivo – contro Rudinì, Medici e soprattutto Albanese? Direi di sì. Albanese in persona aveva nel 1866 rievocato con tono nostalgico il famigerato capo della polizia borbonica, Salvatore Maniscalco, e i «felici risultati» che a suo dire costui aveva conseguito «interessando i capi della Mafia a tutelare la sicurezza»49. Dieci anni più tardi, il prefetto Rasponi espresse l’autocritica delle istituzioni ammettendo che ai tempi di Albanese «nell’azione della questura ci entravano per molto gli elementi maffiosi», che quei metodi erano indegni di un «paese civile»50. Intrighi poliziescomafiosi. Su quello più complesso, che si svolse ancora a Monreale, torneremo meglio più avanti. Diciamo comunque ora che, stando a indagini del 1876, il delegato di Ps e suo fratello avevano cercato di contrastare la criminalità creando «un contropartito (specie di contromafia)» e mobilitando «quanto di più terribile e più tristo agita[va]si nei bassi fondi»; che questi (contro)mafiosi in un primo tempo avevano fornito «qualche utile servizio alla pubblica sicurezza», poi si erano dati a perpetrare rapine e omicidi in proprio51. Li si indicava come stuppagghieri. Un altro caso che venne fuori nel 1876 riguardava la Piana dei Colli, termine con cui è denominata una certa parte dell’agro palermitano o Conca d’oro, e i mafiosi Licata52, da Tajani indicati come «agenti segreti della questura». Noi già sappiamo del capostipite, Salvatore Licata, che nel 1866 aveva mantenuto un atteggiamento lealista. Facciamo ora la conoscenza del figlio Andrea che, forse per riconoscenza, era stato nominato nel 1867 comandante delle guardie campestri della Piana dei Colli, arrivando a tal grado di autorità da essere definito «un secondo questore»; mentre i suoi fratelli conobbero il domicilio coatto e la prigione come delinquenti pericolosi53. La denuncia di un proprietario spiega qual era il gioco delle parti: bersagliato dai ladri, aveva ricevuto dal questore Biundi l’indicazione di rivolgersi ad Andrea Licata, il quale a sua volta l’aveva invitato a mettersi sotto la protezione dei suoi fratelli «delinquenti». Un giudice testimoniò che il rapporto privilegiato tra il questore e Licata jr. consentiva al secondo di ottenere dal primo ammonizioni e domicilio coatto per i suoi avversari, impunità per il padre e i fratelli54. Un anonimo spiegò che «l’Alta maffia» poteva scegliere a piacimento tra strumenti legali e strumenti illegali: «Con la protezione che tengono, ho che ci fanno ammonire, ho che ci fanno andare in un’Isola [al domicilio coatto], ma più facile ucciderci»55. Su tutto questo non fece chiarezza, il libro di Franchetti. Addebitò gli abusi governativi a una deplorevole tendenza dei funzionari ad adattarsi ai codici culturali prevalenti in loco. Propose «rimedi» che addirittura accentuavano l’impostazione centralistica della Destra, e un po’ riflettevano i pregiudizi alla Fortuzzi: escludere i siciliani dall’amministrazione dell’isola, non tenere in alcun conto gli input provenienti dall’opinione pubblica regionale. Era una proposta sbagliata, e per giunta fuori dal tempo. Proprio nell’anno 1876, impiegato da lui e da Sonnino per fare il viaggio in Sicilia, si consumò il mutamento politico che la rese obsoleta: tra il marzo, quando la Sinistra assunse la guida del governo con Depretis, e il novembre, quando conseguì nell’isola una schiacciante vittoria elettorale. La vacuità di questa parte propositiva rischiò di occultare la forza della parte analitica dell’opera di Franchetti, che chiamava in causa le responsabilità della classe dirigente siciliana. Cito qui la testimonianza del funzionario di polizia
Giuseppe Alongi, che troviamo nel suo libro La maffia, pubblicato nel 1886, cui spetta un posto di rilievo nella nostra bibliografia. Alongi racconta dunque di aver parlato con un pretore nel 1878, quando gli animi erano ancora sotto l’impressione della «gazzarra in Parlamento e fuori a proposito dei provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza», esponendogli le sue idee sulla mafia. Il suo interlocutore osservò: mi stupisco nel vedere un siciliano che la pensa come Franchetti e Sonnino. Alongi un po’ si offese, e replicò: le mie idee derivano da «conoscenza personale». Quel libro non l’aveva letto, sviato dai critici che lo avevano definito «romanzo fantastico». Comunque dopo la discussione lo fece, rendendosi conto di quanto la critica a Franchetti e Sonnino fosse stata «interessata, sleale, virulenta»56. In effetti il modo in cui Franchetti affrontava la questione del manutengolismo rimandava a un o al punto cruciale di ogni discorso sulla mafia (di allora e di sempre): alle relazioni tra alto e basso della scala sociale, alla dialettica tra quello che sta dentro e quello che sta fuori l’organizzazione. Anche nell’immediato, per citare Tajani, negare l’esistenza della mafia significava «negare il sole». E il dossier restò sul tavolo del nuovo governo insieme a quello del banditismo, che era più immediato e scottante. Tiriamo le somme. Il quadro del governo della Destra che emerge dalle pagine precedenti fa a pugni con la consolidata tradizione interpretativa che lo dipinge come «ottimatizio», rigido nella difesa dell’ordine ma anche della legalità e della pubblica moralità. È invece chiaro che il partito moderato, ostilissimo all’idea di rivoluzione e di mobilitazione popolare, fece ricorso a ogni mezzo, lecito e illecito, nel tentativo di governare il frutto di un sommovimento rivoluzionario, e in generale una società ribelle. Strumentalizzò l’elemento criminale che in tale ribellione esisteva di certo, valendosene – per usare l’espressione che sta al centro di una recente ricerca storica di Franco Benigno – per fini di «Alta polizia»: cioè per inscenare complotti da servizi segreti, a fini di provocazione, in modo da creare l’ordine dal e col disordine57. Nel contempo, seguiva la strada delle leggi «eccezionali», definendole necessarie per governare quel popolo così predisposto al sangue e al crimine. L’ho rilevato già nell’introduzione di questo libro. In diverse stagioni lungo centocinquant’anni di storia, i discorsi sulla mafia si sono risolti in criminalizzazioni collettive, pararazziste, che hanno chiamato in causa l’intera società e/o cultura siciliana. Hanno in questo modo messo benzina sul fuoco dei sentimenti sicilianisti, creando le condizioni perché le ragioni delle persone perbene si sovrapponessero confusamente ai torti dei mafiosi, dei loro complici e protettori. E la logica delle leggi eccezionali ha fatto sì che le proteste regionaliste attingessero ad argomenti che oggi diciamo garantisti. Certo, nella lunga stagione postunitaria, l’intreccio fu più fitto, addirittura indistricabile. 4. Contesti ovvero luoghi. Allontaniamoci a questo punto un momento dal flusso degli avvenimenti per ragionare di contesti ovvero di luoghi. Storicamente, la mafia si ritrova nelle province della Sicilia occidentale, Palermo, Trapani, Agrigento e Caltanissetta58, e un po’ nella zona di Mistretta (versante occidentale della provincia di Messina). Tutti i paesi e le città della zona producevano gruppi propriamente definibili come mafiosi? Direi di no. Solo alcuni (nell’Ottocento come nel Novecento) sono stati ritenuti come tipicamente «di mafia». Vediamo nella figura 1 quelli che saranno più frequentemente citati in questo volume. In questi luoghi c’erano dunque gruppi, cosche, o partiti di mafia, più forti, più influenti che altrove. Certo, non è facile per lo studioso distinguere gli elementi propriamente mafiosi da (e in) quelle che Franchetti chiamava camarille, ovvero dalle o nelle fazioni formate da «parenti, amici e aderenti», che assumevano «il patrimonio e le entrate» dei comuni come «preda», come occasione di arricchimento e potere59. Non è facile riferendosi ai tempi di Franchetti, quando il suffragio era ristretto a pochi notabili. Non è facile riferendosi alla fase successiva alle riforme elettorali del 1882 e del 1892, quando il diritto di voto per le elezioni politiche e amministrative fu allargato a piccoli borghesi e artigiani. Com’è noto, il grande politologo liberalconservatore Gaetano Mosca (18581941) sosteneva che in ogni caso (con qualsiasi legge elettorale) prevalevano «minoranze organizzate». Citiamo la sua teoria perché fu lui stesso ad applicarla alla mafia: «or si comprende agevolmente che nei paesi ove erano già organizzate le minoranze composte da coloro che usano rasentare il delitto, e qualche volta delinquono addirittura, questi abbiano acquistato una importanza elettorale assai superiore alla loro forza numerica»60.
Figura 1. I luoghi di mafia.
Ma è corretto ragionare solo della dimensione municipale? Anche in questo caso la risposta è negativa. La mafia, quale già l’abbiamo vista e quale ancora la vedremo, si articola in centri e in periferie, vive di interconnessioni. Lo abbiamo sottolineato sin dall’introduzione: consta di reti ovvero (per usare la forma inglese in uso nelle scienze sociali) network, sovralocali oltre che interclassisti. C’era mafia in aree geograficamente ed economicamente differenti. C’era, per dirla con Alongi, nella zona della montagna, o interna, dedita alla cerealicoltura estensiva e a una povera zootecnia (andrebbe però considerata anche la ben più dinamica economia dello zolfo). C’era nella zona della marina, o costiera, vocata alla coltivazione dell’albero, dinamica e commercializzata. C’era nella città di Palermo, nel suo hinterland, e nei paesi circostanti (Monreale, ad esempio), territorio che anzi era indicato come il «regno della mafia» da Sonnino e non solo da lui. Il prefetto Rasponi, nel 1874, addirittura definiva la mafia «malandrinaggio di città» (Palermo), sia pure precisando che era collegata da una «rete» al «malandrinaggio di campagna», ovvero al banditismo. Il riferimento alla città di Palermo, e in generale alla marina, potrà stupire i tanti che, tutt’oggi, indicano il latifondo come la causa della mafia, e di conseguenza l’area interna come il suo esclusivo ambiente d’elezione. Si tratta di un rovesciamento delle gerarchie indicate dalla gran parte delle fonti del tempo, che però – va detto – riflette
problemi interpretativi già esistenti al tempo. A molti osservatori il latifondo appariva un arcaismo «feudale», sembrava loro logico proporlo come causa di quell’altro arcaismo, la mafia. In maniera speculare, pochi erano in grado di spiegare il rapporto che nell’area costiera, economicamente più progredita, si veniva a creare «tra floridezza commerciale e produzione di delitti»61, tra un’economia (relativamente) moderna e un’endemica infezione mafiosa. Il punto interpretativo va dunque posto con chiarezza. La mafia trae le proprie fortune dalla possibilità di regolare le relazioni sociali ed economiche con la violenza o l’intimidazione. Soddisfatte queste precondizioni, trova nello sviluppo economico una chance, non certo un ostacolo. Come esempio di paese «di mafia» della marina, prendiamo Castellammare del Golfo, collocato appunto in una ristretta fascia costiera della provincia di Trapani finitima a quella di Palermo. Castellammare nell’ultimo quarto dell’Ottocento si sviluppò grazie a una fiorente industria della pesca, a un’agricoltura relativamente sviluppata, all’esportazione di vini «da taglio» in Francia. Nel 1911 il paese aveva 17 000 abitanti. Ai suoi criminali nell’ultimo decennio dell’Ottocento furono attribuiti ben 200 omicidi. Il criminologo Cuidera, che su questo argomento scrisse nel 1903 un’interessante monografia, non aveva difficoltà a tirare le somme: la provincia di Trapani stava ai vertici della classifica nazionale nel ramo, eppure a Castellammare – con una popolazione che era un quattordicesimo del totale – veniva perpetrato un quinto di questi reati! Cuidera precisa che il raggio d’azione dei mafiosi castellammaresi andava ben oltre la loro cittadina marinara. «Incutendo timore, vessando», superavano i monti che le facevano corona, prendevano in affitto aziende agrarie al di là di essi, assumevano «quel carattere invadente ed emigratorio che è insieme scuola e minaccia»62. Facevano del loro paese il centro di una rete di scala subprovinciale comprendente due diversi contesti geografici ed economici: la costa e l’interno. Spostiamoci nella regione montana delle Madonie – parte orientale della provincia di Palermo, ai confini con quella di Messina. Antonino Cutrera, altro poliziottocriminologo autore nel 1900 di un libro importante, cita un motto popolare, «il brigante nasce a S. Mauro e cresce in Gangi». Si riferiva a San Mauro Castelverde, paese che dall’età postunitaria produsse in serie banditi (detti appunto maurini), con nuove bande che derivavano dalle vecchie; e a Gangi, cittadina non molto lontana, sede di un’influente aristocrazia provinciale. Cutrera spiega il significato del motto: il brigante di San Mauro raggiunge il successo se «trova forti protettori» tra i membri della classe dominante a Gangi, ovvero in un sistema di relazione subprovinciale63. D’altronde, come sappiamo, il barone Turrisi Colonna possedeva terre e aziende agrarie sia nelle Madonie che nell’agro palermitano. Difficile dire quanto nella gestione di quel patrimonio entrassero in contatto gruppi di mafia operanti nell’uno e nell’altro contesto. Un altro paese tipicamente di mafia era Monreale. Possiamo anzi parlare di una cittadina non solo per la dimensione demografica (al 1872 aveva 16 000 abitanti) ma perché da secoli era un centro culturale e politico autonomo, soprattutto in quanto sede vescovile. Monreale si trova su una collina che delimita da sudovest l’agro palermitano, ovvero il territorio agricolo circostante l’antica capitale, detto anche, con espressione più letteraria, Conca d’oro; così come fanno, a sudest, Misilmeri, e a est, sulla costa, Villabate e Bagheria. La parte del territorio agricolo di Monreale confinante con quello palermitano ne condivideva i caratteri di fondo: vi era cioè molto presente la coltivazione degli agrumi, fortemente intensiva, e irrigua. Di più, era in territorio di Monreale che si trovavano le ricche sorgive a monte destinate a fornire una parte delle acque poi utilizzate a valle in quello palermitano. La storica Amelia Crisantino si è impegnata a sciogliere un’intricata matassa interpretativa indicando alcune «condizioni particolari» che fecero di Monreale una capitale della mafia. Scegliamone tre. 1) Il potere dell’arcivescovo venne svuotato dalla nascita dello Stato liberaleunitario e dagli eventi del 1866, quando molti dei religiosi del luogo parteciparono attivamente all’insurrezione palermitana, lo stesso vescovo fu arrestato e la sede restò a lungo vacante. Monreale rimase una roccaforte del «partito» clericale. 2) Le enormi fonti idriche di proprietà della Mensa arcivescovile passarono formalmente sotto il controllo di istituzioni pubbliche, ma in sostanza si trovarono in una situazione giuridicoamministrativa incerta; quelli che su scala locale le gestivano finirono per muoversi in piena autonomia, non essendo ben chiaro a chi dovessero rispondere. 3) E si sbriciolò l’enorme patrimonio fondiario dell’Arcivescovato e di altri enti ecclesiastici. Una sua parte era stata già da tempo frazionata e redistribuita in concessioni enfiteutiche, un’altra sua parte fu espropriata in forza alle leggi postunitarie, e ancora concessa in enfiteusi. Le «condizioni particolari» in effetti accentuavano a Monreale «condizioni generali» che molto influirono nella genesi e nel rafforzamento della fenomenologia mafiosa. Abbiamo la crisi di poteri e logiche «antichi» non adeguatamente sostituiti da poteri e logiche «moderni». Abbiamo una confusa sovrapposizione tra sfera pubblica e sfera privata che dà spazio, ai margini della legalità, a un ceto di mediatori. Abbiamo incertezze nel regime di proprietà delle fonti idriche e della stessa terra: gli enfiteuti infatti si sentono proprietari di fatto, ma non lo sono di diritto. E abbiamo un periodo di espansione economica che inasprisce la competizione su risorse naturali limitate (acqua e terra). Ne derivano conflitti violenti, e soluzioni extralegali. Le fonti ci dicono di quanto sia facile per i proprietari dei terreni «di sopra» usurpare l’acqua che scorre a valle per irrigare i terreni «di sotto», quanto da tutto
questo risulti enfatizzato l’arbitrio di chi dovrebbe sorvegliare i turni e i modi della distribuzione del prezioso liquido64. E ci dicono ad esempio della «rivoluzione», insomma del contrasto che intorno al 1879 oppone il sindaco del paese, principe Pietro Mirto Seggio, ai «villani» che hanno in concessione 500 salme dell’ex feudo Renda già del monastero dei Benedettini, i quali si rifiutano di pagare i canoni relativi; e della «spaventevole mafia» che ne deriva65. E spostiamoci verso Palermo, una delle più grandi città italiane, nel 1861 200 000 abitanti, nel 1911 339 000. L’agro palermitano, oggi inglobato nella città, già allora aveva una caratterizzazione suburbana, punteggiato com’era dalle borgate, in cui al 1861 vivevano circa 27 000 persone. Erano sorte già nel corso del Settecento lungo le strade principali, e ingrossate nel corso dell’Ottocento per la confluenza della forzalavoro impegnata nei lavori agricoli, soprattutto quelli legati alla coltivazione degli agrumi; e anche nei magazzini in cui veniva lavorato il prodotto, o nei piccoli opifici per la produzione dei cosiddetti derivati (agro di limone e citrato di calcio). Ci vivevano i lavoratori ma anche i possidenti, almeno in certi periodi dell’anno. Vi sorgevano fastose ville setteottocentesche e, sul finire del secolo, splendidi edifici in stile liberty, come il villino Florio situato nella borgata dell’Olivuzza. Una notazione importante. Gli agrumeti erano in genere di piccola estensione, ma di elevatissimo valore fondiario per ettaro. I loro proprietari in prevalenza (non sempre) appartenevano alle classi medie o alte: fossero membri del ceto civile, come si diceva allora (cioè professionisti, comunque dotati di un titolo di studio), o nobili. C’erano poi gli industriosi, cioè gli imprenditori: sia quelli che gestivano l’impresa agrumicola sia quelli impegnati nel commercio degli agrumi. Parliamo infatti di un settore commercializzato, anzi vocato al mercato internazionale66. In questo senso le borgate rappresentavano solo uno dei poli di un’economia che aveva un altro polo ben radicato in città, nella zona del porto con i suoi grandi magazzini, e le sedi delle ditte esportatrici che curavano la spedizione degli agrumi verso i loro sbocchi lontani, situati nei paesi europei più sviluppati, e ancor più (sin dagli anni trenta) negli Stati Uniti. Arrivavano sin lì grazie a una catena finanziariocommerciale basata su due fasi. Nella prima, quella finanziaria, l’input partiva da una élite di operatori stranieri, inglesi o americani, i quali attraverso i loro corrispondenti palermitani finanziavano una rete degli intermediari locali, che a loro volta finanziavano i produttori. Nella seconda, quella commerciale, il meccanismo funzionava in senso inverso: la merce passava di mano in mano procedendo dal produttore all’intermediario all’esportatore all’importatore al consumatore. Era un meccanismo complesso. Potremmo dirlo barocco. Sulla mafia dell’agro palermitano o dei «giardini» (termine che sta per agrumeti), le informazioni forniteci dai saggi sopra citati e dalle fonti di polizia sostanzialmente convergono. Le cosche gestivano attività illecite (ad esempio il contrabbando, o la fabbricazione di monete false, talora il furto e le rapine), ma soprattutto lecite. Elenchiamole: 1) guardianìa, ovvero sorveglianza degli impianti e dei frutti appena raccolti; 2) direzione delle aziende; 3) intermediazione commerciale; 4) forniture di acqua. I contratti di compravendita lasciavano spesso spazio a controversie tra le parti: e poi non sempre gli accordi venivano rispettati, la merce consegnata nei tempi giusti e nelle condizioni giuste (il frutto è deperibile), e i debiti effettivamente onorati. Come abbiamo detto, anche sulla tempestività e la misura delle erogazioni dell’acqua (essenziali per questa coltivazione tipicamente irrigua) i conflitti erano sempre dietro l’angolo67. L’idea era che l’accordo potesse essere garantito dall’appartenenza a uno stesso «partito» dei soggetti impegnati in ciascuna di queste quattro funzioni. Di fatto i gruppi di mafia ricorrevano spesso alla violenza omicida: per tenere a bada la criminalità comune, per rispondere alle ingerenze degli altri gruppi, per definire le gerarchie al proprio interno. Gestivano un’economia ricca e i loro capi, come meglio diremo più avanti, erano gente agiata. Diciamo ora qualcosa anche sull’altra zona economica e territoriale della Sicilia occidentale, quella interna: era un’economia povera, nella quale predominava la cerealicoltura, malamente accoppiata a una primitiva zootecnia68. In molti casi (non sempre e non dappertutto, però) la proprietà fondiaria restava compatta nelle mani di grandi famiglie, aristocratiche o meno, ragione per cui parliamo di latifondi: quelli che il linguaggio comune, memore della loro origine storica, indicava come ex feudi o feudi tout court69. Di norma, i latifondi venivano dati in gabella (in affitto), e il più delle volte i gabellotti non li gestivano come aziende unitarie. Dividevano i terreni da coltivare in piccole quote, e li subconcedevano ai contadini, i più agiati dei quali erano detti borgesi. I gabellotti rinnovavano o no le concessioni, a loro piacimento, anno per anno. Fungevano da intermediari più che da imprenditori. E in genere anche da usurai, anticipando ai contadini denaro a interessi esorbitanti. Loro e i proprietari non investivano in miglioramenti fondiari. Le strutture aziendali erano limitate a rare masserie, fortificate quasi fossero castelli medievali. Tantomeno c’erano in campagna abitazioni contadine. La gente – fosse effetto o causa del sistema latifondistico – viveva raccolta in radi e grossi paesi, generalmente costruiti sulla cima delle colline. Da lì sciamava a valle all’alba per andare a lavorare, fino al tramonto quando tornava a casa in paese. Abbiamo già accennato a due paesi di latifondo e di mafia della provincia di Palermo, Gangi e San Mauro. Parleremo di Corleone e di Piana dei Greci (oggi Piana degli Albanesi). E ragioneremo anche di Villalba, provincia di Caltanissetta.
Il discorso sul sistema latifondistico ci riporta alla relazione tra Palermo e la sua provincia, alla rete che secondo il prefetto Rasponi collegava il malandrinaggio di città a quello di campagna. Franchetti sottolineava il ruolo egemonico svolto da Palermo, «sede d’importanti amministrazioni civili, giudiziarie e militari», luogo di residenza di «molti importanti proprietari delle terre percorse e dominate dai briganti»70. Questo secondo aspetto è cruciale: Palermo rappresentava il centro del grande mercato degli affitti dei latifondi, ed era nella capitale ex feudale che si decideva che migliaia di ettari di terreni situati in zone diverse, anche lontane tra loro, andassero concessi in affitto a certi affittuari, al gruppo ristretto dei grandi gabellotti71. La campagna dell’interno era battuta dai banditi, il che ulteriormente scoraggiava dal soggiornarvi i contadini, o i possidenti che rischiavano di essere sequestrati e di dover pagare esorbitanti riscatti. Innanzitutto per questo motivo i latifondisti residenti in città si affidavano a quei gabellotti che erano indicati anche dalle autorità come lo «stato maggiore» del manutengolismo, o magari come l’Alta mafia. Erano quelli che potevano muoversi a loro agio in quell’ambiente difficile. Il presidio delle masserie, la sorveglianza delle greggi, la riscossione della rendita erano in concreto affidati a campieri o «soprastanti». Già lo sappiamo: costoro usavano le maniere brusche contro i ladri di polli, ben più raramente nei confronti dei banditi più agguerriti, con cui più spesso venivano a transazioni amichevoli, offrendo riparo, rifornimenti e informazioni. In cambio venivano rispettati, loro e i loro datori di lavoro. Accadeva anche che i campieri partecipassero dei profitti delle razzie banditesche: estorsioni, abigeati, rapine. D’altronde erano il più delle volte pregiudicati, venivano essi stessi da un ambiente di banditi. E i gabellotti dell’Alta mafia? Molti pensavano che la ricettazione di merci rubate fosse una componente importante dei loro bilanci72. 1 La relazione, datata 3 agosto, in Pontieri 1945, pp. 2225. Calà Ulloa era destinato a occupare dopo il 1861 un ruolo da leader nella corrente
legittimista, di capo del governo borbonico in esilio. 2 Relazione del sottintendente di Termini, Antonio Puoti, in Fiume 1984, p. 74. 3 Come fa ad esempio Martucci 1999, pp. 1778. 4 Recupero 1987a, pp. 467. 5 Lupo 2011b. 6 Oddo 2006, pp. 3179. 7 Si veda ad esempio Niceforo 1898. Paradosso vuole che Niceforo fosse siciliano. 8 Colajanni 1898, pp. 378. 9 AlfonsoSpagna 1889, p. 9. 10 Turrisi Colonna 1988, pp. 2939. 11 Ibid., pp. 43 e 48. 12 Intervistato in Inchiesta Fabrizi, pp. 130 sgg. 13 Documentazione in ASPA, GP, b. 35. 14 Testimonianza in Inchiesta Bonfadini, pp. 4623. 15 Ibid., p. 2012. 16 Relazione del questore, 28 febbraio 1876, in ASPA, GP, b. 35. 17 Recupero 1987b, p. 313. In questo senso anche Giarrizzo 1993, p. 278. 18 Momento più drammatico: quello in cui sette giovani di origine settentrionale, che avevano lasciato l’esercito per arruolarsi con le camicie rosse, furono fucilati come disertori nei pressi del paese di Fantina (nel Messinese). 19 I siciliani erano i più numerosi in queste liste accanto ai lombardi: Cecchinato 2007, pp. 151 sgg. 20 Riall 2004, pp. 179 sgg. 21 Cfr. l’approfondita lettura della vicenda di Pezzino 1992. 22 La relazione in Alatri 1954, pp. 105 sgg.; Riall 2004, pp. 226 sgg. 23 Maggiorani 1866, p. 6. 24 Secondo la testimonianza dello stesso monsignor D’Acquisto, in Inchiesta Fabrizi, p. 347. 25 In effetti, dopo la proclamazione dello stato d’assedio, furono emanate solo dieci condanne a morte, delle quali otto vennero commutate, e solo due eseguite. Riall 2004, pp. 2456. 26 Intervistato in Inchiesta Fabrizi, p. 120. 27 La lettera del 7 ottobre 1866 è riportata in appendice a Giuffrida 1966. 28 Le lettere in Puglia 1931, le cit. alle pp. 9 e 13. 29 Noi rileviamo che nel corso della rivolta furono pochissimi i delitti comuni, e registriamo il dato per cui gli arrestati erano in gran parte artigiani dalla fedina penale pulita: Riall 2004, pp. 235 sgg. 30 Cit. in Santino 2017, p. 87. 31 Interrogatorio del questore B. Rastelli, in Inchiesta Bonfadini, p. 406. 32 Pezzino 1992.
33 Arringa dell’avvocato Alessandro Paternostro in Processo Amoroso, p. 213. Accenna anche a una precedente militanza di Michele Amoroso
nella guardia nazionale. 34 Testimonianza del duca Colonna di Cesarò, in Inchiesta Bonfadini, p. 522. 35 La documentazione ufficiale in Russo 1964, in particolare p. 8. 36 Ricordo che la provincia di Siracusa era allora comprensiva di quella attuale di Ragusa. 37 Relazione del 31 luglio 1874, in APCD, 1874, Documenti, all. A1, p. 13. 38 Un’autorevole dichiarazione, in «L’amico del popolo», 23 agosto 1874. Spallino 200910. 39 APCD, 11 giugno 1875, p. 4114. 40 Si veda tra l’altro l’edizione a cura di P. Pezzino, comprendente anche documenti del 1871: Tajani 1993. 41 Franchetti 1995, p. 190. 42 Ibid., p. 29. 43 Ibid., p. 36. 44 Ibid., p. 195. 45 Ibid., pp. 312. 46 Ibid., p. 36. 47 Ibid., p. 34. 48 Di Menza 1878, p. 832. 49 In Inchiesta Fabrizi, p. 29. 50 Interrogato in Inchiesta Bonfadini, pp. 9678. 51 Relazione del questore al procuratore, 29 settembre 1876, in ASPA, GQ, b. 7 (1880), con amplissima documentazione. Cfr. anche Di Menza 1878, pp. 221 sgg. e Cutrera 1900, pp. 118 sgg. 52 Coco 2013, p. 14. 53 Inchiesta Bonfadini, p. 406. 54 Intervista in Inchiesta Bonfadini, p. 447. 55 Anonimo in ASPA, GP, 1880, b. 51. 56 Alongi 1977, p. 4. 57 Benigno 2015. 58 Comprendiamovi pure alcune aree appartenenti all’attuale provincia di Enna, creata nel 1926. 59 Franchetti 1993. 60 Mosca 2002, p. 47. 61 Cuidera 1903, pp. 25. 62 Ibid., p. 10. 63 Cutrera 1900, p. 91. 64 Crisantino 2000. 65 Anonimo del 22 marzo 1879, in ASPA, GP, b. 16. 66 Lupo 1990b. 67 Ibid. 68 Se non nelle aree in cui c’erano miniere di zolfo, prodotto destinato anch’esso all’esportazione. 69 Tra le tante fonti, cfr. Inchiesta Lorenzoni. 70 Franchetti 1993, p. 128. 71 Mangiameli 2012. 72 Mangiameli 2012.
II. L’accusa e la difesa, 18751889
Cominciamo delineando il contesto di metà anni settanta. L’economia siciliana continuava sulla strada degli anni sessanta: trasformazione agricola soprattutto costiera, vivaci flussi di esportazione di zolfi, vini, agrumi. Dal punto di vista politico, l’avvento della Sinistra candidò la classe dirigente isolana a esercitare un peso politico ben maggiore che in passato. Fino al 1896, avrebbe fornito 28 ministri ai governi, contro gli 11 del 186176. E il siciliano Crispi fu, nel 1887, il primo meridionale ad assumere la carica di capo del governo. Nella gestione della sicurezza pubblica nella parte occidentale dell’isola, una svolta si materializzò già alla fine del 1876, anno inaugurale del nuovo corso politico, con la nomina a prefetto di Palermo di Antonio Malusardi. Al tempo non esisteva il termine antimafia che (ribadiamo quanto detto in sede introduttiva) va oggi a definire un moto di istituzioni, gruppi politici e società civile, convergenti intorno al nodo della legalità. In ogni caso esso non sarebbe applicabile alle politiche della Destra nel 187576, che non prevedevano convergenze di questa natura. Invece Malusardi puntò a sfruttare proprio la nuova sintonia tra centro e periferia, tra istituzioni e classi dirigenti isolane. Nei primi sette mesi del 1877, conseguì successi senza precedenti sul fronte del banditismo. Non per questo si può dire che l’abbia distrutto o a maggior ragione che abbia eliminato la mafia dell’interno, così strettamente intrecciata ad esso. Ancor più complicato è il discorso per quanto attiene a quella di Palermo e della zona circostante. Su questo versante, noi seguiremo le indagini avviatesi nel 187475, intensificatesi appunto con Malusardi, le quali proseguirono anche dopo che lui se ne fu andato, fino alla celebrazione di clamorosi processi, tra la fine del decennio e l’inizio di quello successivo. Utilizzeremo la documentazione conseguente per guardare più da vicino tre gruppi – i due palermitani dell’Uditore e di Piazza Montalto, quello di Monreale degli stuppagghieri. Proveremo a capire qualcosa di più degli attori della storia della mafia, e delle loro idee. 1. Operazione Malusardi: manutengoli e banditi. Esageravano i due deputati siciliani che, parlando con il presidente del Senato Domenico Farini, indicavano Turrisi Colonna come il capo della mafia1. Ed è difficile anche pensare quell’uomo colto e aperto al progresso come uno dei capi, mandante o ispiratore di omicidi. Però di certo i mafiosi erano inseriti in reticoli interclassisti che al centro, o al vertice, avevano gente come lui. E immaginiamo fossero coinvolti in maniera ben più condizionante di lui certi sindaci o capipartito dei paesi «di mafia», e certi deputati. Tra essi, Raffaele Palizzolo (18431918) spicca come il personaggio più rappresentativo della connection politicomafiosa in età liberale. Palizzolo nacque a Termini Imerese, paese a est di Palermo, da una famiglia agiata, che aveva terre al sole nell’area circostante. Anche lui, come altri protagonisti della nostra vicenda, usufruì della privatizzazione dei beni ecclesiastici: teneva ad esempio in enfiteusi un ex feudo nei dintorni di un altro paese della zona, Caccamo2. Lì e altrove, dovunque avesse proprietà, la sua famiglia era in buone relazioni con i banditi. Parlando con Franchetti nel 1876, fu lui stesso a vantarsene3. Politicamente, era considerato vicino al gruppo clericaleregionista palermitano, e su questa linea fu eletto al Consiglio provinciale nel 1872. Ma non so quanto le appartenenze partiticoideologiche siano importanti per inquadrare personaggi come lui. Forse ne capiremo di più guardando ai figuri di cui si contornava in campagna elettorale, sui quali abbiamo la testimonianza del delegato di Ps in servizio a Ventimiglia, altro paese della zona: era accompagnato, dice, da «circa 50 individui a cavallo […], tutta gente sedicente civile» (cioè: che non viveva di lavoro manuale), che «altro non era che un miscuglio di maffia, di bravi, e di sollecitatori intriganti ognun di loro»4. A Ventimiglia Palizzolo prese alloggio presso certo Domenico Nuccio, possidente già imputato di assassinio, e due volte ammonito (più tardi, accusato di sequestro di persona, fuggì a New York). Nuccio era compare del più temuto bandito del tempo, Antonino Leone, nativo appunto di questo paese. A Leone si riferiva l’avvocato Gestivo per dimostrare una sua tesi: persino i banditi (al pari dei mafiosi) venivano dagli strati sociali intermedi, piuttosto che da quelli più poveri della popolazione5. In effetti Leone era figlio di piccolo proprietario. Dopo aver servito nell’esercito garibaldino prima, e in quello regolare poi, organizzò un commercio di tessuti e in seguito si trasferì a Palermo dove mise su una bottega di tabaccaio in società col suo padrino. Fu qui che entrò in contatto con ambienti di pregiudicati. Si diede alla latitanza dopo aver ucciso proprio il padrino suo socio, accortosi che il figlioccio lo derubava.
Nonostante questo misfatto, e i molti che seguirono, la sua popolarità crebbe a Ventimiglia e nei dintorni. Perché? Il bandito stesso fornì una risposta al grande mercante inglese di zolfi James Rose, da lui rapito nel novembre 1876: doveva «mantenere un numero di impiegati maggiore di quello che sta agli stipendi del governo italiano»6. Insomma, redistribuiva i propri profitti, e tanto lo fece che (cito Alongi) nel suo caso «la leggenda plebea» del brigante come «vendicatore degli oppressi» «prese proporzioni epiche», per quanto si trattasse di un uomo «brutale, feroce coi deboli», e rispettoso coi potenti7. Tra questi, c’erano i membri della famiglia Guccione, di cui lo storico Rosario Mangiameli, in un suo interessante studio, ha sottolineato l’importanza. Nel loro paese, Alia, controllavano la vita politicoamministrativa, ma prendevano in gabella latifondi un po’ in tutta la provincia, e si mantenevano in rapporti con facinorosi e latitanti su questo vasto territorio8. Arrivò il prefetto Malusardi. Era ben consapevole della necessità di dare segnali forti. Per quest’aspetto il momento culminante fu raggiunto il 30 aprile del 1877, con lo scioglimento del corpo dei militi a cavallo, che sappiamo indiziato di manutengolismo: con le diverse compagnie (che erano state convocate per una «rivista») circondate da reparti dell’esercito e dei carabinieri, e disarmate. Ben cento dei militi furono inviati al domicilio coatto. Quanto al resto Malusardi sapeva (fu osservato già allora) che per avere successo non bisognava tanto rincorrere i banditi nelle «inospitali campagne» ma agire sulla «rete» su cui si sostenevano, ovvero su gente come i Guccione e Palizzolo9. Il prefetto minacciò quest’ultimo di ammonirlo per impedirgli di candidarsi per la Camera dei deputati: una sua elezione, spiegò, sarebbe stata frutto non «della legittima volontà degli elettori», ma «della prepotenza della mafia»10. Sappiamo di altri casi in cui, facendo la faccia dura, Malusardi ottenne la collaborazione di grandi manutengoli, di quelli che le fonti di polizia indicavano come «Alta mafia». E in effetti, nei primi sette mesi del 1877, ottenne risultati senza precedenti: eliminazione di molte bande, uccisione di cinque dei loro capi tra cui, ultimo, Leone (luglio). Poi, già nella primavera del 1878, il prefetto (che era piuttosto anziano) venne messo in pensione. L’opera di Malusardi venne apprezzata dalla gran parte della stampa palermitana, benché non mancassero le voci contrarie e le reazioni anche in sede giudiziaria di qualcuno dei potentati messi sotto pressione, ad esempio del barone Antonino Li Destri di Gangi, rampollo di una dinastia che vedremo anche in seguito fortemente coinvolta negli intrighi del manutengolismo. Ex post, in saggi scritti rispettivamente nel 1900 e nel 1886, Mosca e Alongi espressero grandi apprezzamenti. Il primo rilevò l’elemento politico, assumendo il consenso tributato al prefetto dall’opinione pubblica a riprova del fatto che l’isola non era necessariamente ostile a chi volesse «fare pulizia»11. Il secondo citò la statistica criminale, che per i primi anni ottanta rivelava un netto calo dei delitti di sangue12. Però, sugli effetti di medio periodo, segnaliamo quanto Alongi stesso scrisse nel 1904: da quel momento i banditi privilegiarono strategie che noi diremmo di racket, rinunciando ai sequestri di persona, imponendo «una nuova specie di sovraimposta fondiaria», in cambio della quale consentivano a proprietari e gabellotti di «muoversi liberamente in campagna»13. Dunque, il banditismo si ridimensionò ma non scomparve, assumendo come proprio il metodo mafioso. 2. Capimafia. Abbiamo ragionato delle diverse varianti di manutengolismo, ovvero dei diversi modi in cui poteva presentarsi la relazione tra alto e basso della scala sociale, della dialettica tra quello che stava fuori e quello che stava dentro il gruppo criminale in senso stretto. Franchetti peraltro, riferendosi particolarmente all’agro palermitano, individuava una gerarchia sociale anche dentro: definendo «facinorosi della classe media» le persone «agiate» che in quella «industria del delitto» impersonavano «la parte del capitalista»14. Mosca, quasi venticinque anni dopo, si mostrò un po’ preoccupato dal fatto che venisse in questo modo «sporcato» un termine così importante nella simbologia del liberalismo. Corresse Franchetti in questa maniera: «La condizione sociale dei membri più influenti delle cosche è alquanto superiore a quella della parte più povera della popolazione siciliana, ma raramente accade che essa arrivi al livello della classe media»15. Io rilevo che il concetto di ceto medio, di per sé ambiguo per come veniva usato nell’Ottocento, ha nel nostro argomento applicazioni piuttosto vaste. I capimafia erano in effetti gente che mediava, innanzitutto tra persone «per bene» e criminalità comune, e poi tra città e campagna, tra proprietà e impresa, tra produzione e mercato. Quanto al resto, proverò a sciogliere il nodo interpretativo riferendomi a casi concreti di personaggi indicati dalle fonti come capimafia. Presenterò quello di Pietro Di Liberto, per quanto attiene agli stuppagghieri di Monreale; quello di Salvatore Amoroso e dei suoi quattro fratelli, per la cosca palermitana di Piazza Montalto; e quello di Antonino Giammona, per la cosca palermitana dell’Uditore. Cominciamo con Di Liberto, procuratore della Mensa arcivescovile di Monreale, delegato per il controllo delle sue acque16. Parliamo di un proprietario benestante di giardini, uno che, grazie al ruolo istituzionale in cui era collocato,
andava a riempire una casella essenziale nel vuoto di potere verificatosi a Monreale dopo la rivolta del 1866. In quella fase (lo abbiamo rilevato nel capitolo precedente) la sede vescovile era vacante, i monasteri venivano chiusi, il patrimonio fondiario ecclesiastico veniva man mano incamerato dallo Stato e redistribuito in piccole quote. E impazzava la lotta tra i proprietari di giardini «di sopra» e «di sotto» (a monte o a valle), per decidere a chi (in che misura) l’acqua andasse concessa; e a chi andasse negata. Intorno alla metà degli anni settanta Di Liberto fu indicato in rapida successione come cittadino esemplare, o viceversa come capomafia, in diverse fasi e da diversi uomini anche delle istituzioni. Alternanza sconcertante ma caratteristica, che ritroveremo in altri casi e altre epoche. Lui si difendeva: assurdo accusare una persona della sua qualità sociale di essere un volgare criminale. Molti solidarizzavano con lui, e un magistrato così sintetizzò il concetto, che poi era quello generale del liberalismo: «colui che ha molto da perdere, è attaccato all’ordine»17. Nella fattispecie però l’argomento si prestava a essere ribaltato, e lo fu da ben due delegati di pubblica sicurezza, tra quelli che si alternarono a Monreale: «La Mensa vescovile e l’acqua irrigatoria sono e saranno le sorgenti di ricchezza del Di Liberto; ma senza prepotenza, senza maffia e senza camorra quella sorgente produrrebbe poco, e la tanto vantata ricchezza potrebbe anche sparire se la giustizia avesse qui il suo pieno rigore»18. In paese, stando al comandante delle guardie campestri, le teorie erano due. La prima: «Egli è amico di taluni affiliati della cosiddetta setta de’ stuppagghieri, […] e li protegge e li dirige». La seconda: «si tiene amici costoro perché dubita [si preoccupa] di quella setta essendo ricco, ma né li protegge e tanto meno li dirige, ma li accarezza pel proprio utile»19. Come si vede, c’era spazio per molte sfumature interpretative. In questa come in tante altre storie di mafia. In mancanza di prove precise, Di Liberto non fu mai incriminato, di modo che a noi difettano gli elementi per collocarlo nella casella del boss, del protettore o del manutengolo più o meno forzato. Le fonti però qualcosa ci lasciano intendere del contesto: col termine stuppagghieri erano indicati quelli che controllavano l’acqua che scendeva «da sopra» (dal monte)20, e in quegli ambienti di sicuro svolgeva un ruolo rilevante Di Liberto. Quanto alle complicità istituzionali, Tajani lo aveva detto, gli stessi funzionari della questura di Palermo lo ribadirono: a Monreale accadeva che la pubblica sicurezza appoggiasse qualcuna delle fazioni mafiose in campo. Anche qui, non è possibile allo storico accertare responsabilità individuali. Non ci fu nemmeno un tentativo di incriminare il delegato di polizia Paolo Palmeri di Nicasio, nonché suo fratello Giuseppe, che secondo gli inquirenti avevano nel 1872 creato gli stuppagghieri subappaltando loro (diciamo così) l’ordine pubblico. Significativo che anche costoro venissero dal mondo delle classi medioalte, come indica la dichiarazione (tra sarcastica e altezzosa) fornita da Giuseppe a un giornale: «Io non ho bisogno di logorarmi la vita e la coscienza per soddisfare i miei bisogni. Io vivo di rendita e non d’impiego, e per indole, e per educazione, sono sempre stato alieno dal mescolarmi in cose o serie, o triste, o profonde come il racconto del suo appendicista»21. E veniamo a Salvatore Amoroso e ai suoi quattro fratelli, indicati come capi della cosca palermitana di Piazza Montalto. Nati tra il 1839 e il 1857, «figli di proprietari», cioè di discreta condizione sociale in partenza, ci si presentano come trafficanti e industriosi (imprenditori). Come si ricorderà hanno dietro di sé un’esperienza politica, nella corrente radicale garibaldina e nell’insurrezione del 1866; ma, a cavallo tra anni settanta e ottanta, si schierano al fianco di politici moderati. La banda sostiene ad esempio Palizzolo alle elezioni provinciali, e il notabile favorisce a sua volta almeno un membro della banda, affidandogli il ruolo da guardiano in una sua villa dell’agro palermitano. Allorché gli Amoroso finiscono nel mirino della legge, gli viene richiesto di spiegare il perché. Risponde: Intesi più tardi che fu diverse volte arrestato e processato, ma visto che tutte le volte la sezione d’accusa lo rimandò con sentenza di non far luogo a procedimento, e visto che era sempre munito di porto d’armi, pensai che egli non fosse altro che vittima di qualche persecuzione22.
L’argomento, in verità, è paradossale: è proprio Palizzolo a intervenire, in diversi passaggi della carriera di questo soggetto, per fargli riottenere il porto d’armi o per altri favori. La protezione è sempre reciproca. Qualche particolare rivela lo stile di vita quasi borghese degli Amoroso. Vestono in giacca e cravatta, affidano i lavori domestici alla servitù. Sappiamo di lettere scritte da Salvatore Amoroso; abbiamo testimonianze stando alle quali i fratelli si documentano sui giornali. Insomma sanno scrivere e leggere – dato che di per sé li colloca in un ceto sociale intermedio, in un’isola in cui al 1871 è alfabetizzato solo il 15 per cento della popolazione. Però, contrariamente a Di Liberto, gli Amoroso sono mafiosi, diciamo così, militanti. Quattro dei cinque fratelli hanno precedenti penali. È accaduto che due di loro siano stati colti sul fatto per aver partecipato a sparatorie, ma più spesso, secondo i loro accusatori, agiscono in segreto, organizzando agguati, commissionando assassinî o perpetrandone essi stessi. Questi delitti hanno vari moventi. Ci sono quelli personali. Una servetta degli Amoroso viene fatta sparire perché troppo pretende dopo essere stata messa incinta da uno dei fratelli. Un Gaspare Amoroso, cugino di Salvatore e degli altri, viene con loro in conflitto per varie ragioni e, tra l’altro, per aver disonorato la
famiglia facendo il servizio militare tra i carabinieri; finché viene attirato in un agguato ed eliminato per mano di Gaetano e Leonardo Amoroso, spalleggiati da vari altri accoliti23. E ci sono i moventi «professionali». Il questore Taglieri così li spiega: il «sodalizio criminoso» è basato sulla guardianìa, ovvero sull’offerta ai proprietari di protezione in regime monopolistico24. E in effetti tra i delitti di cui gli Amoroso & C. vengono accusati ci sono assassinî di ladri, di guardiani indipendenti, e di guardiani appartenenti ad altri gruppi di mafia. La violenza peraltro serve anche a definire i rapporti di forza interni al gruppo di mafia. È il caso del conflitto tra gli Amoroso e l’altro clan dei Badalamenti, che in origine, spiegano gli inquirenti, facevano parte della stessa banda, e solo in un secondo tempo sono entrati in contrasto, a quanto pare per una componenda – cioè per la spartizione di una tangente versata da un sacerdote. Il conflitto prima si sviluppa con una sequenza di reciproci sgarri, e poi di assassinî. Ma seguiamone uno, perpetrato nel 1878, quale viene descritto da Alongi – che stavolta incontriamo non nella veste del criminologo ma proprio dell’investigatore, chiamato in tribunale per ricostruire il delitto. Siamo portati nel fitto intrico dei giardini, protetti da alti muri, da cancelli ben chiusi, da cani feroci ed esseri umani assai più feroci di loro, circondati da un dedalo di stradelle poderali tortuose, detto il firriato – dal palermitano firriare, cioè girare. Salvatore Amoroso parte dalla casa di una sua «druda», alla «mezz’ora di notte», armato di fucile a retrocarica e revolver, e si inoltra con altri «fidati e audaci soci della maffia» attraversando vari giardini, «scavalcando le mura nei punti più bassi». I membri del commando si muovono a loro agio in quella sorta di spazio extraterritoriale, nel quale rappresentano la legge. Arrivati al giardino custodito da colui che è il loro bersaglio, si impegnano con lui in tre quarti d’ora di «ragionamenti» falsamente amichevoli, e poi lo uccidono25. Veniamo ora alla figura, a noi già nota, del capomafia della borgata di UditorePasso di Rigano, Antonino Giammona. Lo abbiamo visto fare carriera a cavallo del 1860, collocandosi in un ruolo intermedio tra quello del criminale e quello dell’uomo d’ordine. In età postunitaria acquistò (anche lui!) immobili nelle vendite di beni demaniali. Gestiva aziende agrumicole, in cui introdusse anche qualche importante innovazione, legata alla selezione di frutti a maturazione «tardiva»; ed era titolare di un’impresa pastorizia. Il suo patrimonio era calcolato nel 1875 attorno alle 150 000 lire. Quanto alla politica, si stimava che (in tempo di suffragio ristretto!) controllasse una cinquantina di voti nella zona che particolarmente era la sua. Gestivo spiegava l’ostilità prefettizia nei suoi confronti col fatto che si trattava di un capoelettore della sinistra. Era nemico del Licata, capomafia dei Colli che sappiamo molto ben visto dall’autorità, mentre con altri capimafia dell’agro palermitano manteneva buone relazioni. Tra i nomi dei maggiorenti del suo gruppo, segnaliamo quello di Francesco Siino, che incontreremo anche più avanti. Un ruolo preminente assunse anche suo figlio Giuseppe Giammona (n. 1851). Una sua figlia, Francesca, si sposò con Gaetano Cinà (n. 1853), altro alto papavero della Piana dei Colli. Si veda l’albero genealogico alla pagina seguente. Indica un’interconnessione tra gruppi, un incrocio di parentele che avrà grande peso nella storia successiva della mafia palermitana26. Già abbiamo citato a suo tempo, come testimone su (contro) Giammona, un medico nonché possidente della zona, Gaspare Galati. Altre informazioni importanti costui ci fornisce. Ci dice che Giammona «sa comporre una lettera senza molto cacografizzare [sic!] e stendere un conto» – anche qui, siamo su livelli ben superiori alla media della popolazione. Ci informa dello stile «taciturno, gonfio, circospetto» che adotta «per darsi aria di importanza», del fatto che «gode di qualche autorità tra i suoi pari, che adesso gli danno del don, come si usa in quell’isola coi civili». Una domanda interessante si e ci pone Galati: perché don Antonino Giammona, per quanto sia divenuto «fittaiuolo di ricchi giardini», ed egli stesso «proprietario danaroso», non si emancipa dalla rete mafiosa? Risposta: «perché non vuole e forse non può più da quella districarsi»27. La risposta, io credo, potrebbe valere per altri casi analoghi di quel tempo e di tempi successivi. La mafia sostiene ma anche vincola i suoi capi. Il contrasto tra Giammona e Galati si sviluppa a partire dal 1872 mentre prima, a quanto sembra, i due erano in buona relazione. In origine c’è dissidio interno a una famiglia borghese per ragioni di eredità, con una sorellastra che riesce a farsi riconoscere la proprietà di un giardino a scapito del fratellastro, un notaio. Galati, che nella controversia ha preso le parti della sorellastra, ne riceve l’incarico di occuparsi dell’azienda, ma il notaio invoca l’appoggio di Giammona28. La controversia si incentra ancora, come accade in tante storie di mafia, su un diritto di proprietà debole, e controverso.
Figura 2. La Famiglia GiammonaCinà.
Fonte: Coco 2013, p. 163.
Galati si rifiuta di affidare il ruolo di custode e gestore nell’azienda ai «duri» legati alla cosca. Subisce furti, ruberie, danneggiamenti. Non gli tocca però la massima sanzione, la morte, che viceversa viene riservata a ben due indipendenti cui assegna la gestione del giardino conteso. Questo è, anche più in generale, lo stile delle organizzazioni mafiose dell’agro palermitano: fanno pressione sui proprietari recalcitranti ma evitando di adoperare la violenza direttamente contro di loro, stando attenti a non suscitare scandalo nei circoli borghesi. È anche probabile che le resistenze siano rare, che la maggioranza dei possidenti sia disponibile a lasciare gli affari nelle mani di chi è in grado di cavarsela in quell’ambiente complicato. Così, il confine tra estorsione e protezione è impossibile da tracciare una volta per tutte. Mosca dedica pagine raffinate alle ambiguità del sistema. I mafiosi, spiega, molto impegno mettono nell’attivare un cerimoniale pseudo amichevole (pseudosolidaristico) che enfatizzi l’elemento protettivo occultando quello estorsivo. Agiscono cioè «in maniera che la vittima stessa, che in realtà paga un tributo alla cosca, possa lusingarsi che esso sia piuttosto un dono grazioso o l’equivalente di un servizio reso anziché una estorsione carpita colla violenza»29. Si tratta di un gioco delle parti che potremmo definire pirandelliano. E in effetti Pirandello in persona ce ne fornisce una raffinata descrizione in una sua novella del 1910, La lega disciolta, laddove un capomafia benevolmente si offre ai proprietari come mediatore per il recupero di bestiame che in realtà è stato rubato dai suoi stessi complici. E Pirandello sottolinea: alla sincerità dell’offerta, «nessuno ci credeva, e nemmeno lui credeva che gli altri ci credessero»30. Magari è diverso il caso di quei grandi proprietari e grandi notabili che sentono certi mafiosi come uomini «propri», verso i quali i mafiosi stessi mantengono un’attitudine deferenziale. Riferiamoci ancora a Giammona, il quale fa assassinare due latitanti cui inizialmente aveva dato rifugio, ma che poi si sono impegnati in attività estorsive contro proprietari della zona, tra cui c’è il fratello del deputato Morana. Si tratta di una vera battaglia, in cui il figlio Filippo e il genero Cinà rimangono feriti31. Ma a quanto sembra incidenti di questo tipo non sono frequenti. Il più delle volte, Giammona dà «rifugio e protezione» nella sua zona ai latitanti senza che ne derivino problemi. Una considerazione conclusiva. In linea generale, difficilmente gli storici della mafia possono appurare se le singole fazioni, e a maggior ragione i singoli individui, siano veramente gli artefici dei delitti loro ascritti. In linea particolare, per quella fase disponiamo di testimonianze rare e sospette: perché raccolte o vagliate da istituzioni investigative inclini a ricostruzioni di comodo, e da istituzioni giudiziarie poco propense a scrupoli garantisti. Però credo di poter dire che anche queste fonti, come le altre di cui ci varremo per periodi successivi, ci consentono di delineare ambienti, contesti, sistemi e conflitti di potere che nel complesso vanno a formare il fenomeno mafioso. 3. Modello settario.
Ricostruiamo l’andamento di inchieste di polizia e procedimenti giudiziari sviluppatisi tra il 1874 e il 1883. Due dei fratelli Amoroso (Michele ed Emanuele) vennero arrestati nel 1874, ma poi liberati senza grandi danni. Nel 1875, l’attenzione si accentrò su Giammona, ma il capomafia venne salvato dai suoi protettiprotettori. Affidavit in suo favore furono firmati dal deputato Morana e dal fratello di costui, da Turrisi Colonna, e da altri proprietari e «negozianti». Il solito Gestivo, in una memoria difensiva, dipinse i Giammona padre e figlio (Giuseppe) come due perseguitati per «la doppia e imperdonabile colpa di vivere del proprio e di aver curato a non farsi né rubare né sopraffare»; e sfidò il governo a portarli in tribunale «senza distrarli dai [loro] giudici naturali»32. Il questore e il prefetto optarono per l’ammonizione (dicembre 1875). Nel frattempo il ministro dell’Interno Cantelli aveva proposto di istruire un unico «processo per associazione di malfattori […] come mezzo per ripulire, se è possibile, con un colpo solo» le campagne intorno a Palermo33. Naturalmente, non si riferiva al reato di associazione mafiosa – che, a quei tempi, era molto al di là da venire. Cercava nondimeno di inquadrare nel meccanismo penalistico l’elementobase della fenomenologia mafiosa: che allora come oggi, si colloca nella sfera della criminalità organizzata. Va segnalato che la cultura giuridica liberale nutriva nei confronti del reato associativo grandi diffidenze34, per due ragioni tra loro collegate. La prima era politica: temeva che gli apparati repressivi se ne valessero per criminalizzare le forze di opposizione. La seconda era più specificamente giuridica: prevedeva la polizia l’avrebbe usato per «incastrare» i (presunti) criminali risparmiandosi di trovare le prove dei loro delitti, bypassando il principiobase del diritto per cui la responsabilità penale è individuale. La diffidenza si giustificava sotto il primo profilo e anche sotto il secondo, in un paese in cui i diritti politici dei movimenti di opposizione e quelli civili degli individui erano così malamente tutelati. In questa situazione, non era facile liberarsi «con un colpo solo» della mafia. Bisognava tra l’altro capire quanto fosse corretto usare il singolare, la mafia, quanto il termine andasse declinato al plurale, le mafie. Troviamo (ad esempio) entrambe le sfumature interpretative in vari rapporti di polizia: «nessuno in buona fede dubita dell’esistenza di relazioni» tra le cosche, però è vero che «ogni paese ha la sua mafia locale»35. Fu anche per uscire da questa difficoltà che gli inquirenti cominciarono a prestare maggiore attenzione a quanto i loro informatori riferivano sui rituali mafiosi. Ho già detto all’inizio del capitolo precedente che il primo rapporto di polizia a descrivere un giuramento di mafia, analogo se non identico a quelli attuali, è datato febbraio 1876, e riguarda proprio la cosca dell’Uditore. Poco dopo, un Salvatore D’Amico di Bagheria, condannato per omicidio e detenuto nel carcere palermitano, si rese disponibile a testimoniare di essere stato affiliato, appunto in carcere, secondo un analogo rituale. Le sue rivelazioni furono utilizzate nell’indagine contro gli stuppagghieri di Monreale, ma non riguardavano solo loro: infatti D’Amico sosteneva che alla cerimonia della sua affiliazione avevano partecipato anche «rappresentanti emeriti del malandrinaggio di Bagheria, San Giuseppe, San Lorenzo, Altarello, Misilmeri, Borgetto»36. Nelle indagini del 187576 ebbe un gran ruolo l’ispettore Ermanno Sangiorgi (18401908), preposto al mandamento palermitano di pubblica sicurezza di Castel Molo, con giurisdizione su Piana dei Colli, Passo di Rigano e Uditore. Il cuore della mafia, per come l’abbiamo descritto. Dopo aver preso possesso della carica, non poté trattenersi dal criticare, scrivendo ai suoi superiori, il sistema usato dai suoi predecessori. «In occasione degli assassinii», e di altri reati, gli inquirenti si rivolgevano «ai più famigerati» capimafia (citava Giammona tra gli altri) «per avere confidenziali informazioni sui colpevoli». Lo facevano magari in buona fede. Ma raramente venivano messi davvero sulla strada giusta, e il risultato complessivo era catastrofico: «il sacrificio di povere ed oneste famiglie, la impunità dei rei, lo sconforto, la sfiducia generale». Bisognava cambiare registro: rompere i circuiti fiduciari tra Stato e mafia, revocare i permessi per porto d’armi, sottoporre i capi all’ammonizione e al domicilio coatto37. In effetti il periodo in cui Sangiorgi fu alla guida dell’ufficio coincise con l’avvio delle indagini, non con la loro conclusione, visto che già nell’estate del 1876 venne trasferito. Dovette in quella fase replicare ad accuse su sue presunte relazioni con certi mafiosi. Si trattava, sembra, di montature; erano i rischi del mestiere. In effetti contro di lui non ci furono né procedimenti giudiziari né provvedimenti disciplinari. Nel frattempo tornò in prima fila ad Agrigento, nell’inchiesta sulla cosiddetta Fratellanza di Favara, che avrebbe dato luogo a un importante processo nel 18848538. Si trattava, anche qui, di un gruppo di mafia che si ispirava a modelli settari, praticava un rituale, richiedeva giuramenti analoghi a quelli praticati nel Palermitano. Per spiegare la riproduzione di questo modello in diversi territori, Alongi si riferì a certi racconti, sia pure di «tono leggendario», che partivano dalla rivolta palermitana del 1866: stando ad essi, «una specie di missionari» si sarebbero allora messi in marcia appunto da Palermo «facendo proseliti per una causa che, camuffata a religiosa e politica, sotto le finte cioè di far trionfare la religione ed abbattere il governo usurpatore e scomunicato, metteva capo realmente al delitto»39. Missionari a parte, mi sembrano interessanti questi riferimenti a fattori (camuffati da) religiosi e politici. Ho citato a suo tempo una storiografia che riconduce il rituale mafioso a modelli paramassonici risorgimentali. Tale rinvio pare conciliabile con quello al cattolicesimo popolare. Il termine fratellanza è in uso sia nell’una che nell’altra
sfera, e il rituale mafioso, facendo ricorso a immagini sacre, sincretisticamente attinge un po’ dall’una un po’ dall’altra delle due tradizioni, usandole per solennizzare l’appartenenza e motivare gli affiliati. Questo dei rapporti tra mafia e cattolicesimo è argomento che ci colloca a cavallo tra passato remoto e passato prossimo. Alongi aveva certo ben presente la vicenda di Monreale, luogo insieme di clericalismo e di mafia, e in particolare lo stretto contatto tra gli stuppagghieri e la locale amministrazione vescovile. E quest’ultima, anche in tempi molto recenti, è rimasta sede di gravi inquinamenti mafiosi. Nel dialetto siciliano, il termine «cristiano» sta per essere umano, a riprova di una identificazione che si pone come indiscutibile. Noi segnaliamo che nell’anno 1877 la sottoprefettura di Termini, per l’area di sua competenza, catalogava ben otto sacerdoti in una lista di mafiosi di «seconda categoria», che comprendeva un totale di 206 individui40. Anche in tempi molto recenti, non sono stati rari i casi di preti e frati pesantemente collusi. Tutt’oggi i mafiosi si dipingono come bravi cattolici e magari si sentono anche tali; almeno sino a ieri, molti sacerdoti e la stessa gerarchia cattolica non avevano difficoltà ad accoglierli nella comunità41. Sempre Alongi si richiamava alle confraternite cattoliche come luoghi di organizzazione mafiosa. In generale, per antica tradizione, le confraternite nobiliari o popolari avevano un grande ruolo nello strutturare partiti e fazioni impegnati nella lotta per il potere nei paesi e nelle città siciliane. Noi in effetti sappiamo che Giammona, nella sua borgata di Uditore, presiedeva un’associazione laicale cattolica, i «terziari di S. Francesco» presso la chiesa «degli ex liguorini», di cui i suoi parenti e accoliti facevano parte42. Per andare ancora all’oggi. Molte associazioni del laicato cattolico, ad esempio quelle addette alla gestione delle feste dei santi patroni, rappresentano luoghi prediletti di radicamento di gruppi mafiosi in cerca di legittimazione sociale e di occasioni di potere. Ma torniamo alle indagini del 1876 sulla mafia del Palermitano. Gli uomini delle istituzioni si posizionarono diversamente gli uni dagli altri. Il questore arguì dalla diffusione di analoghi moduli settari che si trattava di un’unica organizzazione, forte di «150 soci», articolata in «capi», «sottocapi», «gregari», con un «Consiglio direttivo eletto a norma di uno Statuto», «sezioni»; che faceva centro a Monreale, ma con ramificazioni nei comuni vicini, fino a Bagheria. La prefettura, con Malusardi, assunse una linea più prudente. Ipotizzò comunque che tra le «segrete associazioni» ci fosse non solo «identicità di abitudini» (una stessa prassi) ma «reale corrispondenza» (coordinamento), richiamandosi proprio alle comunanze di regole e rituali43. La magistratura tirò il freno. Il procuratore del re affermò che i gruppi di mafia andavano processati singolarmente, uno per ogni paese: la «sopposta federazione», disse, non era provata, né poteva essere dedotta «dalla identicità del fine e del rito»44. Alla fine passò la sua linea. La polizia attribuì agli stuppagghieri di Monreale persino un’ideologia politica – che ovviamente era quella internazionalista, eversiva per definizione45. Voleva fornire un segnale di allarme, e invece aggiungeva un tocco ulteriore di inverisimiglianza a un quadro investigativo già piuttosto zoppicante. Il sospetto che il supertestimone D’Amico forse manovrato dall’autorità fu solo in parte contraddetto dal suo assassinio, perpetrato poco prima dell’inizio del processo. Confermò invece le incongruenze dell’accusa il fatto (cui già ci siamo riferiti) che né il presunto capo della setta, Di Liberto, né i suoi presunti ispiratori originari, i fratelli Palmeri, vennero incriminati. Soltanto una ventina, dei 150 di cui si era parlato, finirono sotto processo, a Palermo nel 1878. Sei furono assolti, dodici condannati a 56 anni per l’associazione, due all’ergastolo per omicidio. Se non che, la sentenza fu annullata per vizio di forma e un nuovo processo fu celebrato, per legittima suspicione, a Catanzaro nel 1880. Qui l’accusa si trovò subito in difficoltà. Le ricostruzioni dei funzionari di polizia su società segrete e tenebrosi rituali vennero ridicolizzate. Il collegio di difesa evocò torbidi intrighi polizieschi del passato, citò Tajani, ricordò lo spirito persecutorio delle leggi speciali. Le facili equazioni tra i complotti degli internazionalisti e quelli dei mafiosi resero le accuse ancor meno credibili. E i giurati restarono perplessi vedendo alla sbarra non rozzi banditi, come si sarebbero aspettati, ma persone ben vestite, di condizione quasi borghese. Arrivò una generale assoluzione. Uno degli avvocati, che era anche un politico di vaglia, il deputato crispino Antonio Marinuzzi, celebrò il verdetto di assoluzione tornando sul registro regionalista: come un’«altra severa meritata lezione a chi, figlio od ospite [della] nostra cara Sicilia, impunemente la deprime e sconosce»46. Nel frattempo, nel 1878, era intervenuto un fatto nuovo. Certo Rosario La Mantia di Monreale, pregiudicato per rapina, raccontò di essere stato in contatto, nella lontana New Orleans, con Salvatore Marino, l’unico tra gli stuppagghieri incriminati ad essere rimasto latitante; di aver preso certe sue lettere dopo che era morto (per cause naturali), e di averle portate in Europa per consegnarle alla polizia. Siamo davanti al primo intrigo intercontinentale, tra i molti in cui ci incontreremo in questo libro. Le lettere nulla provavano sull’esistenza della supposta organizzazione piramidale, ma attestavano l’esistenza di relazioni compromettenti tra gli esponenti delle mafie di Monreale, Uditore e Piazza Montalto47. Di seguito La Mantia scomparve – misteriosamente com’era comparso –
tornando in America, lasciandosi dietro molti dubbi, i miei tra gli altri, sulla genuinità del suo operato e delle sue informazioni. La Mantia non testimoniò nel processo Amoroso (1883), nel quale però le lettere assunsero un ruolo molto importante. E l’accusa poté valersi di uno dei membri della banda, che si era risolto a collaborare. Il presidente del tribunale, evidentemente valutando le cause del fallimento del processo agli stuppagghieri, sottolineò come l’associazione di cui si trattava non fosse di tipo politico, «come qualcuno potrebbe credere». Il questore Taglieri confermò, dando la spiegazione di cui già abbiamo detto: l’associazione tendeva al monopolio della guardianìa. Quando i difensori contestarono alla polizia le solite illegalità, il questore sentenziò «rei publicae salus suprema lex esto»48, insomma il fine giustifica i mezzi. I magistrati lo lasciarono dire. Alla fine l’impianto accusatorio venne confermato. Gli imputati furono ritenuti colpevoli di associazione, e si ebbero ben dodici condanne a morte per omicidio. 4. Uno sguardo nel profondo: avvocati ed etnologi. Il processo Amoroso propone uno schema tipico dei processi di mafia. Nel corso del dibattimento, vengono chiamati dall’accusa funzionari di polizia, i quali attestano che gli imputati sono per «voce pubblica» mafiosi. La difesa invece cita a discarico gente comune, la quale assicura che gli imputati godono di «buona fama». Dicono questi testimoni: mai si è saputo che siano criminali, si tratta di persone perbene, tant’è che la questura ha sempre concesso loro il porto d’armi. C’è come la sensazione visiva della contrapposizione tra lo Stato e una società tutta schierata a sostegno dei mafiosi. Però in sostanza si tratta di una strategia difensiva, che mobilita amici, sodali, clienti e protettori (tra gli altri, come si è detto, Palizzolo) proprio per dare quest’impressione. Teniamo conto dunque anche dei parenti delle vittime, che viceversa spesso non sono omertosi ma urlano la propria rabbia contro gli assassini, e invocano la giustizia. Citiamo una madre: «prego i signori giurati di farmi giustizia, altrimenti sarebbe ingiustizia»49. Gli imputati dicono che le accuse sono solo calunnie, che si tratta di un «composto» (una montatura) della questura e delle sue spie. La questura è in effetti poco credibile, ma loro lo sono ancor meno. Il contenzioso con i Badalamenti risalta in una quantità di episodi, eppure lo negano del tutto. Emanuele Amoroso, interrogato sui suoi odî «di partito», afferma: «Il mio partito sono mia moglie e i miei figli». A un imputato viene domandato dei suoi amici. Ribatte: «Io sono amico soltanto di mia moglie e dei miei figlioli […], fuori non conosco nessuno». A un altro è chiesto se appartenga alla mafia. Risponde: «Non so che significa»50. Quasi novant’anni più tardi il sociologo Herman Hess, in un libro importante, ha sostenuto che gli imputati erano sinceri, che non sapevano effettivamente cosa la mafia fosse51. Ha spiegato: gli Amoroso e i loro adepti ammazzavano per cause di famiglia e di onore, mentre quella parola, mafia, derivava da un’idea di legalità statale a loro estranea. Io invece penso che sapessero perfettamente di cosa li si accusava. Hess ha interpretato una fonte tremendamente intenzionale qual è quella giudiziaria come se essa potesse rispecchiare la cultura «dei siciliani», non venendogli in mente che quei siciliani potessero dire, o non dire, a seconda delle convenienze: in una circostanza e in un luogo dove erano impegnati in una lotta per la vita e per la morte, tant’è che molti di loro vennero alla fine condannati a morte. Prendiamo il momento in cui uno zio degli imputati testimonia su circostanze che indicano i suoi nipoti come responsabili dell’assassinio di suo figlio (loro cugino, dunque). Uno dei nipoti, Emanuele Amoroso, accusa lo zio di mentire, sfidandolo a confermare le sue accuse con un giuramento sull’anima del padre (ascendente comune di tutti loro). Il presidente, perplesso, osserva: «Qui non vi è che un solo giuramento, quello previsto dalla legge», ma un difensore (il deputato Marinuzzi, a noi già noto) insiste: «quello non va per il caso […] perché il volgo non vi crede», finché alla fine il teste giura come richiesto dalla difesa52. Per Hess questa sarebbe la riprova della distanza socio culturale che separa lo Stato dai siciliani, della «lacuna tra socialità e morale statale» che genera il comportamento mafioso53. Io sospetto invece si tratti di una messa in scena di Marinuzzi, ancora tendente a porre in primo piano i legami di sangue, quelli che secondo i codici culturali propri dell’ambiente degli Amoroso avrebbero dovuto impedire allo zio di accusare il nipote. Un’osservazione è a questo punto necessaria. I difensori dipingono gli Amoroso come uomini d’onore, sia pure a loro modo, ma i delitti per cui costoro sono sotto processo non somigliano per nulla a duelli ad armi pari come quello della Cavalleria rusticana tra compare Alfio e compare Turiddu; e mi riferisco al racconto di Verga del 1880, e anche all’opera di Mascagni del 1890. Gli atti parlano di agguati, fucilate alla schiera, esecuzioni collettive, stupri e assassinî di donne, oltre che di uccisioni di stretti congiunti. Episodioclou: la maledizione contro i nemici che uccidono «a tradimento», scagliata in punto di morte da uno dei Badalamenti, colpito appunto a tradimento dai sicari degli Amoroso mentre corre a cercare una levatrice per la moglie che sta partorendo. Mentre cerca di adempiere ai suoi doveri di capofamiglia. Ed è partendo da qui che Emanuele Scalici nel 1885 intitolò sarcasticamente Cavalleria di
Piazza Montalto un romanzo ispirato alle cronache del processo. Insomma, abbiamo un mafioso (sia pure «perdente») e un romanziere (sia pure di fama modesta) che si mostrano in grado di cogliere il drammatico scarto tra l’ideologia e i fatti rilevabile in questa come in qualsiasi storia di mafia. L’evidenza di questi fatti fece sì che alla fine il processo si risolvesse in un successo dell’accusa. La difesa perse la sua battaglia ma segnò dei punti che furono importanti, se non per l’esito di quel processo per quello di altri, e per il dibattito sulla mafia più in generale. Definì l’accusa di associazione un «quid misterioso», una «coda posticcia» appiccicata dai poliziotti per aggravare la posizione dei loro assistiti. Fece sì che giuramenti e tenebrosi rituali restassero fuori dal dibattimento. Ridusse i gruppi di mafia a clan familiari. E ricondusse i loro misfatti alla logica della faida, non a quella del complotto criminale. Da qui la domanda retorica di Marinuzzi: «dov’è l’organizzazione, dove lo scopo comune, quando una famiglia essendo in odio con un’altra ne cerca la distruzione?». Nell’arringa di un altro difensore, la domanda assunse una forma riscontrabile in tanti altri processi di mafia nei cento anni seguenti: Che importa a noi gente dabbene se gli Amoroso e i Badalamenti si scannano tra loro? Che importa […] se due partiti avversi in una contrada si contendono il primato? […] Se fossero danneggiate le proprietà e le persone allora sarebbe l’interesse nostro in gioco, sarebbero in pericolo i nostri beni e i nostri cari congiunti, tutti sarebbero soggetti alla carabina e al pugnale dell’assassino. Ma invece uccisi e uccisori della sezione Orto Botanico erano tutti briganti, si uccidevano tra di loro54.
Il senso dell’argomento è chiaro. L’avvocato, battendo sul tasto del familismo e del tradizionalismo, prova a stabilire un ponte tra la cultura dei borghesigiurati e quella dei facinorosiimputati. Nel contempo rassicura i primi sulle distanze che pur sempre li separano dai secondi. Dice: la faida fa parte della cultura popolare, dunque chi vi partecipa, non essendo un criminale, deve godere di una qualche tolleranza da parte della società civile, e anche dello Stato. Altrimenti non si capirebbe il perché la questura si sia resa protagonista di «transazioni, non certo onorevoli, con coloro i quali un giorno innanzi e un giorno dopo ha essa giudicato pericolosi malfattori». Il riferimento è a un episodio avvenuto nel 1880, quando il questore aveva convocato gli Amoroso e i Badalamenti, provando a conciliarli, facendo loro sottoscrivere un atto di pacificazione55. Il gesto era stato certo paradossale, visto che al 1880 le indagini contro le mafie del Palermitano, ivi compresa quella di Piazza Montalto, erano già ben avviate. Io preciserei il significato dell’apparente paradosso in questo modo: gli apparati statali supportano una mafia d’ordine che assicuri la protezione di importanti attività economiche, limitandosi a punire qualche ladro di polli, e cercano di evitare che tutto sia sciupato da eccessi di interna conflittualità. Oltre un certo limite, non va bene che si ammazzino tra loro. Le argomentazioni degli avvocati sulla mafia come familismo, tradizionalismo, faida, senso dell’onore, ci portano dritto dritto nel campo dell’etnologia. Ci portano a Giuseppe Pitrè (18411916), medico di professione, «demo psicologo» per passione e per vocazione, folklorista di statura europea. Così si presentava nel primo dei suoi quattro volumi su Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, pubblicato nel 1889: «Palermitano e medico, io ho sempre avuto occasione di vedere e sentire cose che non tutti vedono e sentono, perché non tutti si è disposti a scendere nei più bassi fondi della società»56. Aveva rilevanti interessi politici: garibaldino nel 186061, poi collocatosi nella linea neomoderata di Crispi, sedette nel consiglio comunale della città. È tenendo conto di entrambe le dimensioni, l’intellettuale e la politica, che vanno lette le sue poche pagine dedicate alla mafia a pochi anni dal processo Amoroso, appunto nell’89. La sua idea, qui come in tanti altri luoghichiave della sua opera, è di dar voce alla Sicilia profonda, di collocarla al meglio nell’Italia risorta a nuova vita nel 1861; nella fattispecie, di difendere i siciliani da uno stigma collettivo inteso a costringerli ai margini della vita della nazione. Seguiamo dunque questo testo. La parola mafia, dice Pitrè, è stata usata in età postunitaria, da parte di funzionari pubblici, giornalisti e «pubblicisti d’occasione», magari continentali, quale «sinonimo di brigantaggio, di camorra, di malandrinaggio, senza essere nessuna delle tre cose». Ne è risultata una tale confusione concettuale da rendere il termine addirittura privo di significato. Come fare chiarezza? L’autore risponde: tornando all’uso originario del termine, quello che «nel primo sessantennio del secolo» era diffuso nel quartiere popolare palermitano del Borgo, indicando «bellezza» o comunque qualità positive dei caratteri umani. Un’operazione analoga, anzi più radicale, fa sulla parola omertà, affermando seccamente: «non significa umiltà, come potrebbe parere a prima vista, ma omineità, qualità di essere omu». Insomma, virilità. L’uomo vero, «cioè serio, sodo, forte», secondo i codici di una cultura popolare antica, non può rivolgersi alla legge dello Stato, deve farsi giustizia da solo. Dunque la mafiaomertà rappresenta «l’esagerato concetto della forza individuale» tipico di certi popolani, e «qualche cosa di più: coscienza d’essere uomo, sicurtà d’animo e, in eccesso di questa, baldanza, non mai braveria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza»57. Senso dell’onore, insomma. Di certo «non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti», se non quelli appunto della cultura popolare. Un commento si impone. Pitrè non forniva alcun elemento documentario per giustificare la sua tesi che le parole mafia e omertà fossero state usate in senso positivo nel passato. Quanto alla prima, i dizionari dialettali del tempo (a
cominciare da quello del Traina del 1868) ne escludevano l’uso in Sicilia prima del 1860. Quanto alla seconda, la variante umiltà era stata utilizzata da Turrisi Colonna nel 1864, e ancora lo fu nel 1886 da Alongi, cui per giunta dobbiamo il chiarimento del meccanismo tipico del dialetto siciliano (io direi palermitano) per cui la parola aveva assunto la forma «omertà»58. E veniamo al concetto di setta. Proprio di questo aveva ragionato Turrisi, di una setta fornita di «regolamenti e statuti», che seguiva cioè proprie rigide regole. Parlando con Franchetti, aveva confermato il concetto nel 1876 anche Gestivo, un altro che conosceva a fondo quegli ambienti. Turrisi, Gestivo e Alongi non erano certo «pubblicisti d’occasione» settentrionali, ignari della cultura isolana. Era gente competente, e nativa dei luoghi. E lo era anche il marchese di Rudinì, che nel 1876, un po’ come Pitrè, aveva definito la mafia una «specie di spirito di braveria» popolare, che poteva apparire «simpatica» e «benigna»59; ma che, contrariamente a lui, si era ben guardato dal negare che a quella cultura si ispirassero pericolose organizzazioni criminali. E soprattutto Pitrè passava disinvoltamente sopra la questionebase della discussione pregressa, il manutengolismo. Contrariamente al toscano Franchetti, e anche a molti dei siciliani che abbiamo nelle pagine precedenti citato, salvava da ogni responsabilità la classe dirigente. Questa censura permetteva al medico fattosi etnologo di concentrarsi con affettuoso paternalismo sul suo buon popolo tradizionale, e sullo specifico dei suoi codici onorifici: mostrandocelo affetto forse da «eccessiva» baldanza, ma pur sempre non riducibile a una marmaglia criminale. Abbiamo sino a questo punto evidenziato il carattere apologetico e le finalità strumentali agli argomenti di Marinuzzi e di Pitrè, dell’avvocato e dell’etnologo. Dobbiamo però nel contempo riconoscere che essi ci avvicinano alla soggettività dei mafiosi più degli altri che abbiamo registrato nelle pagine precedenti di questo libro. Ci portano in luoghi profondi dei quali altrimenti non potremmo avere cognizione. Ci permettono almeno di porci la domanda: cosa pensava quella gente? Dico non i protettori, che in qualche modo sono riusciti a fare arrivare la loro voce sino a noi, ma proprio loro, i mafiosi. In particolare, dal processo Amoroso abbiamo tratto elementi di discussione sulla coincidenza, o meno, delle solidarietà di mafia con quelle familiari: della famiglia nucleare (genitori e figli, fratelli), di quella più o meno allargata (a zii e cugini). Gli avvocati, conoscendo il loro mestiere, sanno che debbono collocare i loro clienti in quel quadro, l’unico che per i giudici e la giuria possa risultare credibile. E veniamo allo spirito di omertà nel senso di Pitrè. Per mostrare di cosa si tratti l’etnologo seleziona tre canzoni popolari o, diremmo oggi, «della mala». Prima canzone. «Cu la Giustizia nun cc’è jocu e spassu: pochi paroli e ccu l’occhiuzzi a terra». Testo che traduco così, un po’ a senso. Con la giustizia c’è poco da scherzare: limitati a poche parole e tieni gli occhi in terra. Seconda canzone. «L’ommini ’un sunnu ccà, manco ’n campagna/ sunnu ’ntra li ddamusi sutta terra/ Quannu cu la Giustizia si parra/ Cu li mani liati e l’occhi ’n terra». Traduco anche qui, nello stesso stile. I veri uomini non si vedono qui, e neanche in campagna. Si vedono in carcere, sottoterra, quando parlano con la Giustizia, le mani legate e gli occhi in terra. «Lu judici mi dissi: – figghiu parra/ Chista ’un è chiavi chi si grapi e serra –/ L’omu chi parra assai nenti guadagna/ cu la so stissa vucca si disterra». I versi vogliono incitare ogni accusato a non farsi sviare dal paternalismo dell’autorità, da false promesse. I giudici dicono: «figlio, parla. Questa chiave [il tuo atteggiamento] non è quella giusta per chiudere o aprire la porta [del carcere]». Ma l’uomo che parla molto non guadagna niente: si sotterra con la sua stessa bocca. La terza canzone esprime il disprezzo per chi si allontana dal codice. «Pezzu di ’nfami a chi t’arridducisti! A fari ’nfamitati ti jittasti!/ La prima ’nfamitati chi facisti/ du’ picciotti d’unuri ’mpusturasti». Pezzo di infame, a che ti sei ridotto! Ti sei buttato a fare infamità! La prima infamità che hai fatto, hai calunniato due picciotti d’onore60. Capiamo ora, grazie a Pitrè e anche al di là di quanto lui dice, come quei facinorosi si sentissero uomini (maschi) capaci di mantenere fermo, di fronte all’autorità, il senso della propria dignità, rimanendo fedeli alla tradizione e alla religione, al culto dell’amicizia e della famiglia: uomini d’onore quanto i loro aristocratici datori di lavoro, meritevoli della fiducia ricevuta. Certo, possiamo rilevare lo scarto tra l’ideologia e la realtà: l’omertà non impedisce al mafioso di parlare con la polizia, di denunciare e collaborare. Però lo fa in luoghi riservati, non certo in quelli istituzionali del processo penale, facendosi forte del sostegno di corrispondenti altolocati, trattando come da potenza a potenza, lasciandosi indirizzare dall’autorità ma anche provando a strumentalizzarla: indirizzandone il braccio contro i nemici, salvaguardando gli amici. 1 Farini 1961, II, p. 909. Si trattava dei deputati Morana e La Porta. 2 Come manutengolo di Antonino Leone, nonché capo del «partito dell’Alta mafia», era indicato dalla polizia anche Giuseppe Torina, deputato
ed ex sindaco di Caccamo. Forniva alla banda «alloggio e qualunque soccorso» nei suoi latifondi, e i suoi pastori o curatoli come nuove leve. Relazione del delegato di Ps del paese del 26 gennaio 1877 e altri documenti in ASPA, GP, 1877, b. 39. 3 Franchetti 1995, pp. 489. 4 Relazione dell’ottobre 1877, in ASPA, GP, 1877, b. 39. 5 Franchetti 1995, pp. 62 e 196. 6 Mangiameli 2012, p. 54.
7 Alongi 1977, p. 64. Sulla «leggenda del brigante benefico», alimentata con generose pratiche ridistributive, cfr. anche Franchetti 1993, p. 120. 8 Mangiameli 2012. 9 Pagano 1877, p. 41. 10 Sua lettera al sottoprefetto di Termini del 17 febbraio 1877, in ASPA, GP, 1877, b. 39. 11 Mosca 2002, p. 51. 12 Alongi 1977, pp. 80 e 58. 13 Id. 1904, p. 299. 14 Franchetti 1993, pp. 1012. 15 Mosca 2002, p. 27. 16 Basandoci su Crisantino 2000. 17 Ibid., p. 121. 18 Ibid., p. 118. 19 Ibid., p. 120. 20 Mentre i loro avversari erano i proprietari «di sotto», detti «giardinieri», cui l’acqua veniva lesinata. 21 Lettera al «Giornale di Sicilia», 28 maggio 1878. 22 In Processo Amoroso, p. 160. Il mafioso si chiamava Giacomo Lauriano detto Jacuzzo. 23 Processo Amoroso, passim. 24 Ibid., p. 40. 25 Ibid., pp. 889. Qui il poliziotto viene indicato come Alongi Fugarino Giuseppe. La vittima si chiama Damiano Seidita. 26
Aggiungiamo che Angelo Pugliese, il bandito più noto del periodo immediatamente postunitario, confessò di essere stato da lui raccomandato, all’inizio della sua carriera, per un posto di campiere, presso i Guccione. 27 In Inchiesta Bonfadini, p. 2012. 28 Relazione del prefetto Soragni, 14 novembre 1875, ibid., pp. 201718. 29 Mosca 2002, p. 32 (corsivi miei). 30 Pirandello 1990, p. 71. 31 Il questore al procuratore del re, 21 settembre 1875, in ASPA, GP, 1875, b. 35, f. 6, pp. 146. 32 Memoria del 29 dicembre 1874, ivi, f. 6. 33 Il ministro al prefetto, 12 agosto 1875, ivi. 34 Fiore 1989. 35 Cfr. le varie relazioni in ASPA, GP, 1875, f. 6: cfr. in particolare quella del delegato di Misilmeri, 1° dicembre 1876. 36 Di Menza 1878, p. 238. 37 Relazione del marzo 1875, cit. da Dickie 2011a, pp. 1678. 38 Pezzino 1990. 39 Alongi 1977, p. 102. 40 ASPA, GP, 1877, b. 39. 41 Ceruso 2007. 42 A dire di Galati, l’aveva fondata un sacerdote Antonino Russo, detto padre Rosario da Partanna. 43 Rapporto al procuratore del re, 30 gennaio 1877, in Pezzino 1995, pp. 101 e 104. 44 Rapporto del procuratore del re, 3 marzo 1877, ibid., p. 101. 45 Rapporto del questore, 29 settembre 1876, ibid., p. 93. 46 Telex pubblicato in «L’amico del popolo», 5 marzo 1880. Documentazione sul processo in ASPA, GQ, b. 63. 47 Documentazione in ACS, MGG, MAP, b. 49, dove però non trovo il testo delle lettere, alcune delle quali sono citate in Processo Amoroso, pp. 14850. 48 Ibid., p. 56. 49 Ibid., p. 118. 50 Ibid., pp. 39, 64, 30. 51 Hess 1991. 52 Processo Amoroso, p. 120. 53 Hess 1991, p. 44. 54 Processo Amoroso, p. 238 (corsivo mio). L’avvocato si chiamava Lucifora. 55 Ibid., arringa dell’avv. Siracusa, pp. 218 e 203. Il questore si chiamava Sant’Agostino. 56 Pitrè 1978, I, p. XI. 57 Ibid., II, pp. 288, 290, 292, 294. 58 La tipica conversione della l in r: Alongi 1977, p. 75. 59 In Inchiesta Bonfadini, pp. 9501. 60 Canti di Palermo e di Alimena in Pitrè 1978, II, pp. 3001.
III. Passaggio di secolo
A partire dalla seconda metà degli anni ottanta del secolo XIX, l’economia mondiale andò incontro a una depressione che in Sicilia ebbe un impatto particolarmente pesante. Prima calò il prezzo del grano per la concorrenza russa e americana, poi quello degli zolfi e degli agrumi per la brusca contrazione della domanda internazionale. I vigneti furono distrutti da una catastrofica epidemia, la fillossera. Le banche fallirono, la crisi fu generale. Si aggravarono le tensioni sociali in tutta Italia, e proprio l’isola fu uno degli epicentri di questa radicalizzazione con il fiorire del movimento socialista dei fasci siciliani (189293). Paradosso vuole che proprio nel periodo di maggiore difficoltà dell’economia isolana, tra il 1887 e il 1898, i governi del Regno d’Italia siano stati quasi ininterrottamente affidati a due siciliani, Crispi e di Rudinì. Il primo era stato il grande leader della Sinistra postrisorgimentale, il secondo veniva da Destra, entrambi misero in atto politiche autoritarie. Crispi, per stroncare il movimento socialista dei fasci siciliani, nel gennaio 1894 fece ricorso allo stato d’assedio. Rudinì, che gli successe nel 1896, mostrò un volto ancor più feroce a Milano, dove l’esercito sparò coi cannoni su una dimostrazione di popolo, facendo cento morti (aprile 1898). Si aprì poi una stagione politica nuova, in cui per lungo tempo il governo fu guidato dal piemontese Giovanni Giolitti. Si caratterizzò per una cosiddetta «svolta liberale», che riconobbe la legittimità dei movimenti collettivi, tra l’altro il diritto di sciopero; e la Sicilia si confermò un’area forte del movimento contadino. La situazione economica migliorò nettamente, con il «decollo industriale» del Nordest; e anche la Sicilia si agganciò alla ripresa. Rilanciò le esportazioni agroalimentari, e trovò la valvola di sfogo dell’emigrazione verso gli Stati Uniti, che alleggerì le tensioni nel mercato del lavoro, provocando l’afflusso di una cascata di dollari delle rimesse. Ma non fu abbastanza. Il gap nei confronti della parte più sviluppata del paese cominciò a crescere irrimediabilmente. 1. L’assassinio di Notarbartolo. Conosciamo già i due principali attori del dramma. Abbiamo da un lato Emanuele Notarbartolo: rampollo dell’aristocrazia, uomo della Destra storica, sindaco di Palermo, nonché, dal 1875, direttore del Banco di Sicilia. Dall’altro c’è Raffaele Palizzolo. L’avevamo lasciato nel 1877, quando il prefetto Malusardi gli aveva impedito di candidarsi alle elezioni minacciandolo di ammonizione, anche per forzarlo a collaborare nella caccia al bandito Leone. Adesso vediamo l’interpretazione da lui stesso fornita quasi vent’anni dopo (1896), in un discorso alla Camera dei deputati, di quel tipo di collaborazioni, e della propria in particolare. I cosiddetti manutengoli, disse, altro non sono che «cittadini» «amanti dell’ordine e delle istituzioni», in grado di fornire all’autorità di polizia «informazioni, denunzie e servizi preziosi». L’autorità deve favorirli a sua volta, non «perseguitarli» con ammonizione e domicilio coatto1. In effetti Palizzolo, partito Malusardi, non fu più perseguitato. E si impegnò a sua volta per impedire che venissero perseguitati i criminali che impiegava quali guardiani nelle terre di sua proprietà2. Poté allargare la propria influenza dall’est verso l’ovest della provincia di Palermo, dall’area interna a quella costiera, dalla campagna alla città. Nel 1882 fu eletto alla Camera per il collegio di Caccamo, successivamente optò, con uguale successo, per un collegio di Palermo centro. Nel 1886 Palizzolo entrò a far parte del «Consiglio generale» del Banco di Sicilia, organismo consultivo deputato a rappresentare interessi locali. Vi andò a capitanare il gruppo che più si opponeva alla linea del rigore perseguita da Notarbartolo, finché quest’ultimo fu destituito (1890)3. Come sappiamo, erano tempi difficili, di dissesti bancari e scandali finanziari, di tensioni politiche e sociali. E fu proprio mentre stava esplodendo la protesta dei fasci siciliani, il 1° febbraio 1893, che un sicario assassinò Notarbartolo, su una vettura ferroviaria in corsa da Trabia a Palermo. Palizzolo venne subito indicato dalla «voce pubblica» come il mandante del delitto: per i suoi pregressi contrasti col morto, in quanto esponente dell’«Alta Mafia»4. Però nei tre anni successivi le indagini girarono a vuoto, grazie anche alle coperture di cui il deputato godeva negli ambienti della questura e della magistratura palermitane. Come sappiamo, Rudinì giunse al governo nel 1896. Promosse in Sicilia un’operazione spacciata per decentralista, ma in realtà supercentralista e autoritaria, affidando l’isola a un cosiddetto «commissario civile»; che era poi un suo uomo, il conte imolese Giovanni Codronchi. Codronchi si mostrò determinato a far pulizia, prima di partire per la Sicilia, parlando col senatore Farini: «Ho detto al Rudinì che non intendo fermarmi nemmeno di fronte ai suoi amici, al
deputato Palizzolo, ad esempio». A suo dire, lo stesso Rudinì era consapevole che Palizzolo era «una canaglia»5. Ma poi in effetti fece il contrario: strinse rapporti di stretta collaborazione col sospetto assassino sulle questioni politiche di rilievo come su quelle minute – chi mettere alla testa di una commissione, a che incarico destinare un delegato di polizia6. E veniamo al (presunto) killer, Giuseppe Fontana. Era nato nel 1852. Lo si conosceva come esponente di punta della mafia di Villabate, paese immediatamente a est di Palermo, territorio nel quale Palizzolo aveva proprietà e influenze. Le foto del tempo ce lo mostrano in giacca, cravatta e bombetta: «veste bene, si presenta bene. […] Basta guardarlo per vedere che egli è un uomo abituato a portare degli abiti civili»7. Corrispondeva alla figura, a noi ben nota, del facinoroso della classe media. Era, tra l’altro, l’uomo di fiducia del principe Mirto, che si affidava a lui per gestire «proprietà e latifondi in diverse province della Sicilia», come spiegava il prefetto di Palermo De Seta, aggiungendo: «qui non è disdicevole che un proprietario anche onesto tenga per custodia sue proprietà e protegga questo scopo persone mafia»8. Conosciamo il meccanismo. Fontana presentò un alibi da cui possiamo arguire la dimensione anche internazionale del suo business: al momento del delitto, disse, si trovava come ogni anno in Tunisia per organizzare una spedizione di agrumi locali a Palermo e, da lì, a New York. Alle indagini partecipava il delegato di pubblica sicurezza Antonino Cutrera, che noi già conosciamo come autore di un bel saggio sulla mafia, e che tra i soci di Fontana mise in particolare nel mirino un certo Anfossi. Si trattava di un personaggio borderline: da un lato lavorava per conto di rispettabili ditte inglesi e americane, le quali attraverso di lui finanziavano gli intermediari che a loro volta acquistavano gli agrumi dai produttori; e dall’altro era coinvolto in «tutti gli affari loschi del commercio»9. Qui dobbiamo rilevare le differenze tra la situazione degli anni settanta, a cui ci siamo riferiti nel capitolo precedente, e quella degli anni novanta, periodo di crisi commerciale e di caos nelle strutture mercantili. A Palermo, le ditte esportatrici si stavano moltiplicando. Al 1892 erano ben più numerose che nell’altra grande piazza agrumaria siciliana, Messina (81 contro 39), segno che gli intermediari stavano prendendo in mano il gioco del grande commercio. E lì la componente criminale era palese. L’opinione pubblica lamentava l’emergere di un gran numero di «speculatori, i quali senza freno alcuno […] esercitano illecito traffico», invocando vanamente un controllo delle loro fedine penali. La Camera di commercio rilevava che sul settore pesavano «interessi gravissimi di organizzazioni usuraie»10. Noi possiamo fare il caso di un membro del clan dei Badalamenti a suo tempo coinvolto nella guerra contro gli Amoroso, Gaetano Badalamenti detto Cirrito, nato nel 1857, che era stato condannato appunto nel 1880 per omicidio. Aveva cominciato come «giardiniere», finì esportatore, proprietario di un grande magazzino di agrumi in centro città, nei pressi del porto. Era schedato tra i maggiorenti della mafia cittadina. E torniamo ad Anfossi, per dire che era l’agente di borsa di Palizzolo, avvicinandoci al movente del grande delitto, così lontano dagli stereotipi arcaicizzanti in cui veniva (e viene) in genere inquadrato il fenomeno mafioso. Palizzolo aveva sempre sostenuto gli interessi della Navigazione generale, la maggiore società armatoriale italiana, che era controllata dalla più illustre dinastia imprenditoriale siciliana, i Florio. Invece Notarbartolo aveva di recente sponsorizzato progetti a questa sgraditi11. Quando quest’ultimo venne allontanato dalla direzione del Banco cominciò una speculazione finanziaria (al rialzo) sulle azioni della Navigazione generale, con l’utilizzo di capitali del Banco stesso. Sfruttando le proprie relazioni privilegiate con la nuova direzione, Palizzolo vi si inserì per proprio conto, mediante Anfossi. Insider trading, possiamo dire in termini moderni. Sembra che il deputato si sia determinato a far uccidere l’ex direttore temendo potesse rivelare questi intrighi, e magari tornare a guidare il Banco in conseguenza dell’inchiesta sulla sua gestione ordinata dal primo governo Giolitti (189293). Arriviamo al 1896. Leopoldo Notarbartolo, figlio di Emanuele, era ben convinto delle responsabilità di Palizzolo, ma si era trovato sino ad allora davanti a un muro di gomma12. Sperò che Rudinì e Codronchi (antichi compagni di partito del padre) l’avrebbero aiutato, poi si rese conto che viceversa l’influenza di Palizzolo stava crescendo. Cercò allora alleati in due settori politici diversi, anzi opposti. Da un lato c’erano i socialisti, che a loro volta colsero l’occasione per uscire dalla gabbia in cui erano stati messi nel 1894, per trasformare in accusata l’Italia ufficiale che li accusava. Tra i leader socialisti palermitani Leopoldo Notarbartolo scelse il suo avvocato, Giuseppe Marchesano. Dall’altro c’era la sua rete di parentele e conoscenze aristocratiche che, caduto Rudinì, lo aiutò a contattare il generale Luigi Pelloux, nuovo capo del governo. E fu Pelloux che nell’agosto 1898 sancì il cambio di rotta nominando questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, che abbiamo già conosciuto come protagonista delle indagini sulla mafia di metà anni settanta. Sbloccata la situazione politica, vennero portati in giudizio nel 1899 alcuni sospetti complici degli assassini, in un processo che fu celebrato a Milano per legittima suspicione. Giunse l’incriminazione di Palizzolo e di Fontana, i quali finirono sotto processo a Bologna nel 1902, e furono pesantemente condannati.
Vanno ricordati i molti contributi saggistici che scaturirono da quel dibattito. Noi già conosciamo i più importanti, quelli di Mosca e Cutrera (1900), e poi la seconda edizione di quello di Alongi (1904). «Il Giornale di Sicilia», massimo quotidiano palermitano, fece la sua parte. Molto si impegnarono i socialisti, chiamando in causa le responsabilità governative13. In particolare Colajanni, che socialista propriamente non era ma che su quel versante rappresentava un po’ il padre nobile, pubblicò (sempre nel 1900) il pamphlet Nel Regno della mafia. Vi ripercorse un quarantennio di illegalismi governativi, prima della Destra e poi della Sinistra, concludendo: «Per combattere e distruggere il regno della mafia è necessario che il governo italiano cessi di essere il Re della mafia». Poniamoci la stessa domanda che si siamo posti ragionando della fase 187477: è giustificato per il 18981902 il ricorso alla categoria di antimafia? Rispondo che, rispetto a quel precedente, è più giustificato: per la spinta in questa direzione di gruppi politici e società civile, per il sostegno istituzionale che trovò. Proviamo a inquadrare adeguatamente quest’ultimo aspetto, tornando sulla figura di Sangiorgi. 2. Lo sguardo del questore. Ermanno Sangiorgi nacque a Riolo, in Romagna, nel 1840. Entrò in polizia nel 1860, nel momento stesso dell’unificazione italiana, e la sua carriera seguì le logiche dell’amministrazione centralizzata che ne nacque, le quali prevedevano frequenti trasferimenti dei funzionari da un punto all’altro del paese. Un giornalista così lo descrisse: «Biondo rossiccio, amabile, bonario, sa nascondere l’astuzia necessaria al suo ufficio sotto una vernice di rispettabilità. […] Svelto come uno scoiattolo, indagatore dalla percezione sicura, era dappertutto»14. Destarono qualche scandalo le sue numerose avventure amorose, o semplicemente sessuali. Nessuno di quelli che lo conobbero poté negare la sua abilità professionale, anche se qualcuno dei suoi superiori non ne gradiva lo stile anti convenzionale. Superò brillantemente le trappole che (ne abbiamo vista qualcuna già nel precedente capitolo) i suoi nemici gli posero davanti. E giunse al rango di questore, cominciando da una provincia che per altri era il punto d’arrivo, Milano (1889). Lo definirei come il capostipite di un tipo di funzionario statale che ritroveremo in ruoli da protagonista nella nostra storia: lo specialista in inchieste sia su mafiosi che su sovversivi. Rilevante (anche per il nostro argomento) il contributo che nel 1894 diede, quale questore di Bologna, alle indagini su un attentato alla vita di Crispi. Era stato perpetrato da un anarchico, in apparenza isolato, ma Sangiorgi si impegnò a dimostrare che dietro o sotto c’era il complotto di una società segreta o «setta» – il movimento anarchico, appunto15. Come si vede, faceva ricorso a strumenti interpretativi analoghi a quelli che lui stesso e i suoi colleghi avevano applicato alla mafia in Sicilia un ventennio prima. Sul versante anarchico, tale «teorema investigativo» risultava improbabile, e venne difatti smentito in sede giudiziaria. Il versante mafioso era, di per sé, molto diverso. Ribadiamo però che, nell’uno e nell’altro caso, le istituzioni potevano essere tentate di abusare del reato collettivo, in modo da attribuire al nemico un’elevata «pericolosità sociale […] creando così le premesse per la repressione poliziesca»16. Dunque Sangiorgi venne nominato nel 1898 questore di Palermo da Pelloux, e incaricato di rompere il muro delle complicità intorno a Palizzolo. E in effetti le cose andarono nella maniera prevista. Fu Sangiorgi a gestire l’arresto di Palizzolo prima ancora che la recalcitrante magistratura palermitana (nella persona del procuratore Vincenzo Cosenza) emettesse mandato di cattura, fu lui a stanare Fontana, datosi alla latitanza: convocando il principe Mirto, e minacciando di arrestarlo se non avesse consegnato alla giustizia il suo protetto. Dal canto suo, Fontana fece la mostra di arrendersi al gentiluomo e non allo sbirro, dunque si presentò a casa sua e non in questura, sulla carrozza del principe, accompagnato dal suo avvocato. Il rituale ricordò alla stampa una trattativa «da potenza a potenza». Fu sempre il questore, sia a Milano che a Bologna, a testimoniare della «capacità a delinquere» di Palizzolo e a trarre dagli archivi le prove documentarie delle pressioni esercitate dal deputato in favore di tanti mafiosi – un dossier a cui noi stessi abbiamo attinto. Nel frattempo scioglieva «commissioni e consigli amministrativi di cui Palizzolo faceva parte», contrastava il deputatocarcerato, presentatosi alle elezioni politiche del 1900 col sostegno della «sua numerosa ed interessata clientela», favoriva l’elezione di un «giovane ricco», «nuovo nella vita politica»17. Ma il nome di Sangiorgi è, ai nostri occhi, legato a un documento di straordinaria importanza: il grande rapporto di polizia che ho chiamato appunto Rapporto Sangiorgi quando l’ho scoperto all’Archivio centrale dello Stato e per la prima volta utilizzato, già trent’anni fa. Stilato tra il 1898 e il 1901, e indirizzato alla magistratura, consta di una serie di relazioni per un totale di quasi 500 pagine. Si basava su un fulcro di informazioni provenienti «dall’interno», ovvero (come accade) dagli sconfitti in una guerra di mafia. Un nome correva sulle labbra di tutti. Lo urlò un mafioso appena arrestato: «Lo so che la causa della persecuzione a tanti figli di madri è quell’infamone e sbirro di Francesco Siino ma, sangue della Madonna, non ci quieteremo sino a quando sarà sterminata tutta la sua razza»18.
Noi abbiamo incontrato questo Siino alla metà anni settanta, quale membro influente del gruppo mafioso di MalaspinaUditorePasso di Rigano (descritto allora come unico) su cui già indagava proprio l’allora ispettore Sangiorgi. In un periodo più recente, stando al Rapporto, questo territorio era stato diviso tra tre diversi «gruppi» (appunto: di Malaspina, Uditore, Passo di Rigano), guidati rispettivamente da Francesco Siino, da suo fratello Alfonso e da Giuseppe Giammona. Il padre di quest’ultimo, l’ormai settantenne Antonino Giammona, continuava a giocare il ruolo importante di consigliere del figlio. E i due Giammona si appoggiavano su amici e parenti che guidavano i gruppi di Perpignano e Piana dei Colli. Si guardi la cartina. Parliamo di territori limitrofi, tra i quali (possiamo immaginare) i confini erano difficili da definire. In effetti le fazioni un tempo alleate erano entrate in conflitto, e quella dei Giammona era prevalsa facilmente, in uno scontro non particolarmente sanguinoso che aveva fatto quattro morti e alcuni feriti, tutti del gruppo Siino. Francesco Siino aveva trovato rifugio a Livorno. Il Rapporto addebita all’organizzazione altri delitti, che appaiono più legati alla sua quotidianità: ladri e spie da punire, indipendenti da mettere a posto, gerarchie interne da definire, qualche questione privata. Scheda nel complesso 218 affiliati, con le loro occupazioni ufficiali: 26 sono i possidenti, 25 i trafficanti o industriosi, 45 i salariati fissi addetti alla custodia (guardiani) o alla direzione (giardinieri) delle aziende agrarie, 122 gli elementi impegnati in vari lavori agricoli o urbani19. Ne risulta in sostanza confermato quanto già sappiamo della mafia dei giardini, e in particolare il dato che più aveva impressionato Franchetti: ai vertici troviamo gente abbastanza agiata. Figura 3. Luoghi e gruppi di mafia nell’agro palermitano secondo Sangiorgi.
Fonte: Lupo 2011a, p. 50.
Il Rapporto ci fornisce non solo informazioni su persone e fazioni, ma anche un quadro e un’interpretazione d’insieme. Descrive una mafia articolata in gruppi che prendono il nome dalle singole borgate, operano nei loro territori e su essi rivendicano una competenza esclusiva. Nessun cenno fa a giuramenti o altri rituali: evidentemente Sangiorgi, memore delle sconfitte degli anni ottanta, teme di indebolire anziché rafforzare l’impianto accusatorio,
richiamandosi a essi. Sostiene però che i vari gruppi sono organizzati secondo un unico modello, che tra loro c’è un forte legame (chiamiamolo federale) e un forte coordinamento (chiamiamolo governativo). «Ogni gruppo – spiega – è regolato da un capo, che chiamasi caporione […]. E a questa compagine di malviventi è preposto un capo supremo. La scelta dei capi è fatta dagli affiliati, quella del capo supremo dai caporioni riuniti in assemblea»20. Ovviamente, non è detto che questo schema così nitido sia fino in fondo realistico: in rapporto alla mafia come al movimento anarchico. I superpoliziotti come Sangiorgi hanno qualche difficoltà a concepire fenomeni collettivi; credono nelle catene di comando; adorano l’idea del «capo dei capi». Comunque la lotta tra i due partiti contrapposti coinvolge più che altro cinque tra le otto cosche del versante occidentale dell’agro palermitano più analiticamente descritte nel Rapporto (si veda ancora la mappa riportata sopra). Scarsi elementi il documento fornisce sulle interrelazioni tra queste e quelle del versante orientale. Quanto alle zone circostanti, si limita a dire: «in quasi tutti i comuni della provincia di Palermo esistono da lungo tempo valide ed estese associazioni di malfattori, fra loro connesse in relazione di dipendenza e affiliazioni, formandone quasi una sola vastissima». Quasi. E poi il questore sa bene che la mafia non può essere analizzata in sé, come se bastasse a se stessa. Infatti scrive – «sgraziatamente, i caporioni della mafia stanno sotto la salvaguardia di Senatori, deputati ed altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono, per essere poi, alla lor volta, da essi protetti e difesi»21; o anche, con maggior nettezza – la mafia è «un’associazione di delinquenti forte dell’appoggio di autorevoli proprietari». Al proposito, tra le molte storie di delitti e potere raccontate nel Rapporto Sangiorgi, vorrei soffermarmi su una che mi sembra particolarmente evocativa. Presentiamone i protagonisti. Abbiamo da un lato il maggiore degli uomini d’affari palermitani, uno dei grandi potentati economici italiani, l’armatorefinanziere Ignazio Florio; insieme a sua madre, donna Giovanna d’Ondes Trigona, discendente di una delle grandi famiglie dell’aristocrazia isolana. Dall’altra c’è Pietro Noto, guardiano della splendida villa liberty Florio all’Olivuzza, nonché capo – insieme al fratello Francesco – della cosca mafiosa che prende appunto il nome da questa borgata. In mezzo, stanno Vincenzo Lo Porto e Giuseppe Caruso, cocchieri affiliati alla cosca, un tempo «in grande intimità» coi suoi boss, ma che nell’estate del 1897 hanno con loro a che dire per la spartizione della somma derivante da uno «scrocco» (un’estorsione) ai danni di Joshua Whitaker, altro grande mercanteimprenditore inglese22. I due cocchieri decidono a questo punto di fare un gesto clamoroso: rubare a villa Florio alcuni oggetti d’arte di grande valore. In questo contesto, il furto rappresenta più che altro uno sgarro (uno sgarbo) tendente a sminuire, di fronte ai Florio, la credibilità dei Noto e della loro mafia «d’ordine». E in effetti Ignazio Florio, «sorpreso ed indignato» per l’accaduto, ne chiede conto al suo guardiano: «lo scopo che si erano prefissi i due cocchieri […] era stato raggiunto». I fratelli Noto reagiscono in due tempi. Prima (non so se dietro il versamento di un riscatto) fanno misteriosamente riapparire la refurtiva in casa Florio nell’esatta posizione in cui si trovava quand’era scomparsa. Trovata scenografica efficace. Poi convocano un summit cittadino, nel corso del quale i cocchieri sono riconosciuti colpevoli di insubordinazione e condannati a morte. Attirati in un agguato con la scusa di una riconciliazione, vengono giustiziati ad opera di una trentina di affiliati. Simbologia significativa della preminenza di logiche collettive nell’organizzazione. I cadaveri vengono fatti sparire, segue un attento dosaggio di informazioni vere e false per disorientare le autorità. Saranno partiti per l’America. Però il padre di Caruso denuncia esplicitamente, in privato e in pubblico, la mano della mafia, minacciando di recarsi a Roma se le autorità locali non gli avessero reso giustizia; solo nuove pesanti intimidazioni lo inducono a moderarsi. Non si placano invece le vedove Lo Porto e Caruso. Avvicinano la già citata donna Giovanna d’Ondes Trigona in Florio, mentre si reca al convento delle suore di carità, e le chiedono appunto un caritatevole aiuto per i loro figli orfani e per se stesse, prive di mezzi di sostentamento. La nobildonna non si scompone rispondendo bruscamente: «Non mi seccate, perché vostro marito era un ladro che veniva a rubare nel mio palazzo assieme al Caruso»23. Pensa che la mafia abbia fatto il proprio lavoro, che il furto e l’oltraggio vadano puniti. Il povero Sangiorgi non sa come accostarsi a tale prestigio e a tanta ricchezza. Scrive senza tanto crederci: «La signora Florio è nobildonna religiosa e pia, e non si sa se siano maggiori le immense ricchezze di cui dispone o le preclare virtù del suo animo nobilissimo, bennato; per cui è a ritenere che, invitata a deporre con giuramento, non vorrà né potrà celare alla giustizia inquirente il suo incontro colla vedova»24. In conclusione. La descrizione dell’organizzazione mafiosa palermitana fatta nel Rapporto Sangiorgi risulta credibile, in sé e perché corrisponde largamente al quadro tracciato dagli inquirenti di periodo fascista, trent’anni dopo, nonché a quello emerso sessanta o magari ottant’anni più tardi, con le rivelazioni del supertestimone Tommaso Buscetta. Da tutte queste fonti la mafia è descritta come un insieme di gruppi definiti sul piano territoriale, che inclinano a coordinarsi tra loro ma talora finiscono con lo scontrarsi. Si tratta di solidarietà e conflitti definibili come orizzontali. Lo schema peraltro non è esauriente, non sicuramente in riferimento a quei tempi, a quella società oligarchica e notabilare. Bisogna tener conto anche dei legami verticali tra i mafiosi e i personaggi del mondo «di
sopra» che davano loro lavoro, che erano in qualche modo coinvolti nelle loro attività. Dei Florio, del principe Mirto e degli altri nobiluomini; di Palizzolo e degli altri politici collusi. Va detto poi che i mafiosi erano inseriti già allora (come lo sono oggi) anche in reti di affari in cui la dimensione territoriale aveva minore o nessuna importanza. Parliamo di affari leciti o anche illeciti. Citiamo alcuni di essi: ricettazione di animali rubati; fabbricazione e spaccio di cartamoneta falsa; contrabbando. E naturalmente c’erano quelli, cui gli uomini delle cosche partecipavano con un ruolo inizialmente minoritario ma (lo abbiamo visto) crescente, di tipo internazionale, a cominciare dal grande commercio agrumario. Anche questo importava relazioni verticali, con mercanti e banchieri, palermitani, inglesi e americani: a Palermo e – come vedremo nel prossimo capitolo – anche a New York. 3. ProSicilia. Mentre Sangiorgi stilava il suo Rapporto, scompaginava le cosche dell’hinterland cittadino con massicce retate, tanto che il prefetto De Seta sentenziò: la mafia è stata «ridotta al silenzio e alla inazione». Nel maggio 1901 giunse il procedimento penale per cui si era lavorato. Se non che, sulla sbarra salì solo una minoranza di quanti venivano chiamati in causa nel Rapporto: 51 persone (tra cui i boss Giuseppe Giammona, Biondo e Cinà) su 218. Il dibattimento registrò la polarizzazione usuale in tanti processi di mafia: ai pochi che parlarono per l’accusa (Siino in testa), si contrappose lo schieramento di quanti testimoniavano sulla «buona fama» degli imputati, in cui in particolare presero posto i protettiprotettori dell’alta società. Tra tutti, il principe Pietro Lanza di Scalea definì il capomafia Giuseppe Biondo «onesto lavoratore». Scelgo lui per due ragioni. Per la sua qualità sociale: era un senatore del Regno d’Italia nonché l’erede di una famiglia collocata al top dell’aristocrazia, che si diceva cioè risalente all’età normanna. E per l’argomento che usò: nell’agro palermitano, disse, non poteva esserci «un’associazione di malfattori» visto che non si verificavano «reati contro la proprietà»25. Sangiorgi avrebbe potuto facilmente obiettare: in quella contrada i malfattori si associavano proprio per difendere la proprietà. Alla fine il processo si concluse con miti condanne, 3 anni e 6 mesi per associazione per la maggioranza degli imputati, e con 19 assoluzioni. L’esito certo rifletteva un problema in senso lato politico. Sangiorgi forse sperava che dall’élite dei proprietari palermitani gli sarebbe venuto un qualche sostegno, e invece se la trovò contro, impegnata a negare la stessa esistenza di quella cosa là, la mafia, ancorata a una linea definibile come negazionista. Il questore dichiarò stizzito: «Non poteva essere diversamente, se quelli che li denunziavano la sera andavano a difenderli la mattina»26. Peraltro la sentenza evidenziava anche una questione tecnicogiuridica, la difficoltà del vigente codice penale di inquadrare un fenomeno come l’associazione mafiosa. Ne usciva accreditata una linea interpretativa definibile come minimalista, che possiamo sintetizzare così: la mafia esiste in effetti ma consta di gruppi piccoli, tra loro slegati; non è rappresentabile, come pretende la polizia, alla stregua di una grande organizzazione criminale. Diede dignità anche teorica a questa linea di pensiero Gaetano Mosca, nel saggio che abbiamo più volte citato. Si tratta del testo di una conferenza tenuta nel 1900 sia a Milano che a Torino. Mosca vi assunse la parte del siciliano «civilizzato» che deve spiegare ai settentrionali il comportamento dei suoi conterranei, tenendosi lontano da atteggiamenti negazionisti, stando ben attento a non accreditare sentimenti antisiciliani, evitando esagerazioni e mitologie. Disse: persino «persone colte dell’Alta Italia» trovano «qualcosa di fiero e di simpatico» in quell’idea antica per cui l’individuo deve «farsi rispettare» da sé, senza ricorrere alla «giustizia legale»27. Però subito dopo chiarì che proprio da quello traevano forza i comportamenti antisociali (antitetici alla civiltà moderna) e le associazioni criminali. Quanto a queste associazioni, Mosca scrisse: le cosche non hanno alcun capo in comune, non c’è alcun «legame federale che ordinariamente le unisca e possa imporre ad esse una norma comune», né un comune rituale28. Quanto all’assassinio Notarbartolo, rilevò: va ricondotto non tanto alla mafia quanto al «morbo più diffuso […], che inquina tutto il nostro paese», della corruzione bancaria. Quanto agli aspetti politicogenerali, lui, nemico del parlamentarismo, prese le distanze dai radicalismi di estrema destra o di estrema sinistra: non è vero, disse, che per combattere la mafia si debba chiudere il Parlamento29. Si pronunciava su un puntochiave, che vedremo messo al centro della scena dal fascismo. La linea interpretativa di Mosca era moderata, così come la sua ispirazione politica. Moderate erano anche le tinte con cui descriveva Palizzolo nei suoi articoli sul «Corriere della Sera»: come il tipico deputato trasformista, clientelare e un po’ cialtrone, amico di tutti30. Troppo moderate, nella fattispecie. Infatti il suo ragionamento, applicabile a molti politici e contesti ambientali differenti, passava disinvoltamente sopra il carattere organico della connessione tra Palizzolo e la criminalità. Dobbiamo qui ricordare che Mosca era politicamente legato a Rudinì, il quale era stato a sua volta legato a Palizzolo, e a lungo continuò a dipingerlo come la vittima di una persecuzione. In
seguito (1909) lo stesso Mosca fu eletto alla Camera nel collegio di Caccamo che era stato di Palizzolo e, prima, dello stesso Rudinì. È lecito pensare che la sua analisi fosse condizionata anche da logiche di schieramento. Il quadro tracciato da Mosca, in fondo, non era così lontano da quello che di fronte al tribunale Palizzolo dava di se stesso: «Io scendevo e vivevo tra il popolo, cercando di esserne consigliere e amico»31. Quanto ai suoi avvocati, non poterono negare le relazioni del loro assistito con una quantità di mafiosi, ma precisarono che esse si limitavano alla «gestione» delle elezioni. Non erano da giudicarsi gravi, lasciavano intendere. C’era d’altronde chi non solo le ammise, ma le esaltò, sviluppando gli accenni fatti dallo stesso Palizzolo nel già citato discorso parlamentare del 1896: un altro deputato molto chiacchierato, Salvatore Avellone, definì l’imputato «campione di moralità, campione della lega dei proprietari organizzata per resistere al brigantaggio»32. La lega in questione, possiamo dire, era la mafia stessa. Siamo passati al settore degli apologeti. Come teste a discarico fu citato a Bologna (per rogatoria) Ignazio Florio. Non so esattamente cos’abbia detto, ma conosco la cronaca sarcastica, magari infedele, che della sua testimonianza fecero i suoi avversari del giornale socialista palermitano «La Battaglia»: Teste: La maffia? Non l’ho mai sentita nominare – Pubblico Ministero: Già, la maffia, un’associazione che delinque contro le persone e le proprietà, e di cui talvolta si servono anche nelle elezioni – Teste (scattando): È incredibile come si calunnia la Sicilia! La maffia nelle elezioni! Mai! Mai! – Pubblico Ministero: Dunque lei esclude che le elezioni in Sicilia si facciano con la maffia e con i quattrini – Teste: Ecco, per essere esatti, devo dire che in una occasione recente, nel settembre dello scorso anno, i socialisti spesero centomila franchi per battere la lista monarchica, ma non ci riuscirono33.
Casa Florio e il quotidiano palermitano di proprietà della famiglia, «L’Ora», diedero il loro contributo al «Comitato ProPalizzolo e ProSicilia», che si impegnò a mobilitare l’opinione pubblica su questa tesi: le accuse contro Palizzolo e più in generale le polemiche sulla mafia sono il frutto del pregiudizio antisiciliano. Nel Comitato ritroviamo Pitrè, che ne stilò il manifesto comparso nel 1902 in prima pagina sul «Giornale di Sicilia». Rilevava: «oggi non si parla della Sicilia senza parlare di mafia, e mafia e Sicilia sono una stessa cosa». Si indignava: «Tutto questo è abnorme». Protestava: la Sicilia è «stata sempre la cenerentola delle fortunate sorelle del continente, una cenerentola non pur trascurata, ma messa al bando, quasi razza inferiore, indegna di sedere al convitto della medesima famiglia!»34. Chiamato come teste a discarico nel corso del dibattimento a Bologna, Pitrè definì Palizzolo «vero gentiluomo», «correttissimo e onesto amministratore». Alla domanda di fondo – che cos’è la mafia? – rispose riproponendo pedissequamente le sue tesi del 1889, a noi ben note35. Marchesano cercò di parare il colpo definendo Pitrè «ottimo folklorista, ma pessimo testimone. Interrogato sulla mafia, invece di dire quello che essa è, ha detto quale è l’origine della parola». Però su un punto cruciale gli diede ragione: la mafia, disse, è un’organizzazione «con capi e sotto capi» solo «nei sogni di qualche questore»36. La tesi di Sangiorgi non passava nemmeno tra i suoi alleati. L’operazione fatta da Pitrè assunse stavolta una natura politica ancor più chiara che in passato. Credeva veramente, l’etnologo, che Palizzolo fosse un gentiluomo? Sembrerebbe di no, stando a certe sue lettere a Pasquale Villari, che trovo citate in un recente studio storiografico di Nino Blando37. Palizzolo, scriveva, non gli era mai piaciuto: lo considerava esponente di quelle «clientele», di quella «ciarlataneria», che costituivano «la piaga del sistema parlamentare moderno». Il punto, spiegò, era che il partito dell’ordine (cui lui stesso, da vecchio crispino, si ispirava) non poteva scontentare quello vastissimo dei beneficati di Palizzolo, lasciando campo libero ai socialisti. Insomma in Pitrè, come nei Florio e in molti altri, la motivazione antisocialista si accompagnava a quella sicilianista. Per capire il quadro in cui queste polemiche si inserivano citerei la ricostruzione datata 1910 di Arturo Labriola, leader socialista (o, se volete, sindacalista rivoluzionario) napoletano, dedicate alla questione meridionale negli anni novanta dell’Ottocento. Era, come sappiamo, il periodo in cui alla guida del governo si alternavano due siciliani: Crispi e Rudinì. Logico, spiegava Labriola, che radicali e socialisti settentrionali addebitassero le loro politiche «reazionarie» al carattere «ancora feudale» del paese da cui i due provenivano38. Noi possiamo suffragare la sua ricostruzione citando, tra le altre fonti, una nota redazionale di «Critica sociale», la più autorevole voce del social riformismo milanese, in cui la figura di Crispi veniva assimilata a quella dei re delle «tribù selvagge», che indossava sì «il frak di parata del gentiluomo» ma per nascondere «la cartucciera del brigante»39. Questa retorica fece capolino in vari commenti settentrionali alle cronache sul malgoverno municipale napoletano o palermitano; o sulle gesta del banditismo sardo e calabrese, o della camorra (processo Cuocolo). Ne risultava, molto spesso, la criminalizzazione di un’intera società40. Era d’altronde il tempo in cui gli antropologi più alla moda portavano la questione sul terreno della razza, misuravano crani, evocavano atavismi etnici, al fine di stabilire scientificamente il perché i meridionali fossero così predisposti a comportamenti antisociali o criminali tout court. Ne abbiamo già parlato presentando la figura di Napoleone Colajanni. Colajanni riscontrò questi problemi all’interno stesso del fronte antiPalizzolo cui pure attivamente partecipava. Rispose a muso duro al repubblicano romagnolo Alfredo Oriani, che sul milanese «Il Giorno» definiva la Sicilia una
fogna, «un paradiso abitato da demoni», «un cancro al piede dell’Italia». Gli ricordò il periodo postunitario, i tempi in cui funzionari e politici della Destra trattavano l’isola come terra di occupazione, e proprio per questo fornivano il loro appoggio ai mafiosi. Codronchi, scrisse, era stato solo l’ultimo della serie. «I siciliani – concluse – sono stanchi di essere inciviliti» da gente di quel genere, che nella fogna ha «diguazzato allegramente»41. Nel complesso, insomma, i cortocircuiti più o meno strumentali tra questione mafiosa e questione siciliana contribuirono potentemente alle difficoltà dell’antimafia. La sconfitta però si consumò sul terreno giudiziario. La sentenza che a Bologna aveva condannato Palizzolo e Fontana venne annullata per un vizio di forma dalla Cassazione, e il nuovo processo, che si tenne a Firenze nel 1904, si concluse con un’assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove. Palizzolo tornò a Palermo, accolto da una grande folla plaudente. Fece pubblicare un libro che lo dipingeva «circonfuso dalla smagliante aureola del suo Dolore e della sua Virtù», dopo «gli inauditi tormenti di cinque anni» di prigione42. Mosca commentò sul «Corriere» che quell’apoteosi «offendeva il senso morale», ricordando stavolta le relazioni del deputato con mafiosi e briganti43. Un po’ tardi, viene da dire. 4. Parentele spirituali. Tiriamo un po’ le somme. La mafia si materializza ai nostri occhi come struttura vicaria della pubblica sicurezza, come elemento intermedio tra legalità e banditismo. È parte di fluidi reticoli relazionali (locali o sovralocali) che fanno capo a notabili, proprietari, funzionari statali. Il reticolo peraltro ha nuclei più sodi, definibili come cosche. Queste riescono a far fronte ai loro nemici, e mantengono una capacità di contrattazione di fronte ai loro potenti protettori, mettendo sul tavolo non le debolezze dei singoli ma la forza del gruppo, sintetizzabile nel concetto di omertà. Sappiamo delle due spiegazioni del termine: la prima delle quali rimanda al quadro di una società segreta (umiltà), la seconda alla cultura diffusa (omineità, ovvero virilismo). L’una non può trionfare nel nuovo clima politico determinato dal passaggio dalla Destra alla Sinistra. Si tratta della fase in cui gli avvocati degli stuppagghieri vincono la causa, e quelli degli Amoroso, pur perdendo la propria, accreditano la spiegazione alternativa: quelli che a voi sembrano legami settari, null’altro sono che legami familiari. Viene a sostegno Pitrè: la mafia non è organizzazione, è cultura e tradizione, si colloca in una sfera nella quale i valori prevalgono sui disvalori. La tesi continua nella sostanza a prevalere nel dibattito e nel conflitto delle idee conseguente all’assassinio Notarbartolo. Come vedremo nei prossimi capitoli, la citazione di Pitrè è stata in diversi tempi d’obbligo nelle arringhe degli avvocati dei mafiosi, ben lieti di potersi muovere su un registro culturale così «elevato». E gli studiosi? Sulla base dell’argomento culturalista esposto da Pitrè hanno rifiutato a lungo di credere che la mafia fosse un’organizzazione, e in particolare un’organizzazione iniziatica, basata cioè su rituali e giuramenti. È il caso, tra molti altri, del già citato Hess (1970). Eppure, tra il 1883 e appunto il 1970, fonti piuttosto credibili erano tornate a riferirsi a giuramenti e rituali di affiliazione in una quantità di occasioni precedenti. E una miriade di testimonianze ancor più attendibili avrebbe riproposto questo tema anche in seguito. Alla fine, a tagliare la testa al toro sono state inconfutabili intercettazioni ambientali dei giuramenti stessi. Gli scettici avevano torto. Non si trattava di un’invenzione o, come dicevano gli imputati nei processi ottocenteschi, di un «composto della questura», delle fantasie persecutorie di Sangiorgi e dei suoi colleghi. È piuttosto possibile che qualcuno di costoro ne abbia incoraggiato la diffusione, nei periodi inaugurali e nei luoghi ideali del fenomeno mafioso, in cui (lo abbiamo visto) le relazioni tra potere ufficiale e potere criminale erano fitte. Ad esempio a Monreale (o in qualche altro paese della zona, o in qualcuna delle borgate palermitane) al passaggio tra anni sessanta e anni settanta. Mobilitando i «loro» criminali per costituire un partito d’ordine, i locali funzionari di polizia si saranno posti il problema di come tenerli a freno. Possono averli incoraggiati a praticare un rito, a pronunciare un giuramento. Avranno immaginato che, dopo essere stato pungiutu secondo le regole e aver pronunciato il giuramento rituale, dopo aver attraversato il limen che separa la società di tutti dalla società degli iniziati, qualche delinquente potesse davvero sentirsi un «uomo d’onore»44. Se le cose sono andate più o meno così, bisogna dire che l’operazione si rivelò efficace oltre le intenzioni. Il successo peraltro fu reso possibile dal fatto che quello era di per sé un terreno molto fertilizzato per l’esperienza di organizzazioni settarie sia antiborboniche che cattoliche. Ed era d’uso che notabili e funzionari fossero iscritti a logge massoniche, o chissà a confraternite. I moduli settari non erano estranei né a quei luoghi né a quel tempo, e solo il carattere controversistico e identitario assunto dalla discussione nel 187476 fece sì che la questione della mafia venisse posta in forma dicotomica: o organizzazione o specchio della cultura tradizionale. Superata questa strettoia, il discorso può svilupparsi ulteriormente. Ripartiamo da Pitrè, ma in un’altra parte della sua opera, nella quale il nostro etnologo fornisce una rappresentazione della mafia ben più realistica di quella un po’ oleografica che abbiamo sopra citato: la parte destinata al comparato. Si riferisce alla funzione sociale, in quel tempo e in quei luoghi, della scelta del padrino o della madrina
destinati ad accompagnare il bambino nel rito cattolico del battesimo. Una scelta oculata consentiva alle persone di stabilire relazioni interfamiliari di alleanza, sull’asse verticale destinato a collegare il padrino/madrina e il figlioccio, sull’asse orizzontale tra il padrino/madrina e i genitori del battezzando, divenuti appunto compari. Stavolta Pitrè è disposto a spiegare come i criminali strumentalizzino materiali culturali disponibili «a tutti». «Tra persone temibili per indole rissosa e vendicativa, tra gente alla quale siano norma di condotta i principi della cosiddetta mafia, il comparatico è un gran bene e un gran male». È un bene perché il rituale può riconciliare fazioni contrapposte. È un male perché fornisce alle alleanze una straordinaria compattezza. «Da ciò il gran danno di persone facinorose, le quali strette a questo vincolo, si danno segretamente la mano l’una con l’altra, senza restrizioni, […] pronte a mettersi per aiuto del compare a qualsiasi sbaraglio», e in particolare a conservare a qualsiasi costo il silenzio di fronte alla giustizia. Ne consegue, per logica conseguenza, l’ammonimento proverbiale: «Cumpari sbirru nun pigghiari / Du cumpari sbirru nun ti fidari» – non prenderti uno sbirro per compare, non di fidare di un compare sbirro45. Pitrè spiega che il «popolo siciliano» giudica il comparato, parentela artificiale («spirituale»), più importante di quella naturale («di sangue»)46. Perché? Perché si tratta di una scelta strategica, che consente di allargare nella direzione più conveniente il raggio delle alleanze, ma conservando la forza della solidarietà, «calda» e coinvolgente, dell’istituto familiare. Tra i documenti di polizia, almeno tra quelli che ho letto o ricordo, il primo che pone la questione (per la cosca mafiosa di Villabate) è molto tardivo (1927): «Il battesimo nella storia della delinquenza di queste borgate, costituisce un legame indissolubile di fedeltà e di comunione d’interessi. Col battesimo, le famiglie si consolidano in un giuramento di vita e di morte, a tal punto, che si rendono comuni gli affari, e quasi anche le cose più intime»47. Io aggiungo: la Fratellanza mafiosa o «Onorata società» riproduce e allarga ulteriormente il meccanismo. Anche qui abbiamo un battesimo, un rito di passaggio, un padrino e dei compari48. In Cosa nostra il gruppobase dell’organizzazione è chiamato Famiglia, anche se ben poco, o per nulla assomiglia a una famiglia naturale. Anche qui: si tratta di una parentela «spirituale», o meglio artificiale e strumentale. E la Famiglia di mafia, al pari di quella massonica, è composta da soli maschi, e reinterpreta l’omertà come virilismo. Che il modello della società segreta sia tutt’altro che estraneo alla cultura popolare siciliana può vedersi anche dal revival tardoottocentesco della leggenda dei Beati Paoli, in particolare dalla fortuna del romanzo omonimo scritto da Luigi Natoli, intellettuale repubblicano e storico sicilianista, e pubblicato «in appendice» al «Giornale di Sicilia» tra il 1909 e il 1910. Il romanzo ebbe uno straordinario successo di pubblico, entrando stabilmente a far parte della cultura popolare palermitana e in generale siciliana. Sintetizziamone la trama. I Beati Paoli vi sono presentati come una società segreta che nei primi del Settecento difendeva il popolo siciliano oppresso dal malgoverno straniero (spagnolo, ma anche piemontese!) e dalle trame dei potenti e dei corrotti locali, che manipolavano la legge «ufficiale», servendosene ai danni dei poveri e degli onesti. Due citazioni. Quella in cui i capi esprimono l’ideologia antistatale della società. «La giustizia dello Stato» va a beneficio «dei più forti, ma questa giustizia è la più mostruosa delle iniquità»; il terrore, il mistero, l’ombra rappresentano gli unici mezzi efficaci perché un uomo possa «difendere sé, la sua casa, l’onore delle sue donne». Quella in cui viene descritto il giuramento. Il padrino chiede all’aspirante di giurare «per i santi vangeli, per il santo apostolo Paolo, per il tuo sangue, che sarà versato stilla a stilla», spiegando all’affiliando che, dopo, il suo corpo e la sua anima apparterranno alla società. Lui risponde: «lo giuro; e che questa croce scritta col mio sangue segni la mia sentenza se verrò meno all’obbligo mio»49. Può essere interessante rilevare che Pitrè collaborò con Natoli, fornendogli qualche riferimento bibliografico su cui lavorare. Convergenza paradossale, visto che il secondo accreditava sullo scenario pubblico il modello settario che il primo aveva così ben delegittimato sullo scenario pubblico. (Ma, lo abbiamo detto, i rispettivi punti di vista non erano così incompatibili tra loro). Può venire naturale una domanda. Pitrè da una parte, e Natoli dall’altra, volevano legittimare la mafia? Non è questo il punto. Diciamo che fornirono materiali per un’«invenzione della tradizione» analoga a quelli che così spesso, ci ha spiegato in sede storiografica Hobsbawm, servono alla costruzione delle identità politiche. L’ideologia dei due era sicilianista, come lo era quella di tanti altri membri della classe dirigente che fornivano lavoro e protezione ai mafiosi, degli aristocratici e dei notabili della Sicilia occidentale tra Otto e Novecento. L’ideologia della mafia non è mai stata propriamente di tipo politico ma, se la volessimo definire in quel senso, dovremmo guardare a questo filone. L’esperienza del «ProSicilia» ci mostra la via. Il riferimento agli argomenti elaborati dalla cultura siciliana in questa prima fase, cioè l’uso di Natoli e ancor più di Pitrè, è stato davvero continuativo nel tempo, ha segnato il lungo periodo nella storia della mafia. Lo vedremo man mano. 1 APCD, Discussioni, tornata dell’8 luglio 1896, pp. 731553 e in particolare p. 7347. 2 Ai più sospettosi, sembrava addirittura che quelle proprietà gli servissero solo per «tenerci dei pregiudicati»: Marchesano 1902, p. 332.
3 Azzolina Blando 2017, pp. 509 sgg. 4 Testimonianza al processo di Milano del questore di Messina Peruzy, già ispettore di Ps a Palermo, in «Giornale di Sicilia», 2324 novembre
1899. 5 Così disse almeno al presidente del Senato Farini: Farini 1961,II, p. 908. 6 Documenti vari in BCI, Carte Cordonchi. 7 Marchesano 1902, p. 120. 8 ACS, MI, AAGGRR, 18791903, b. 1, fasc. 1/11, telex del 18 dicembre 1899. 9 Il delegato A. Cutrera al questore, 26 e 27 gennaio 1900, in ASPA, GQ, b. 20. Il mafiosofinanziere si chiamava Antonio Perez. 10 Rispettivamente, lettera del 9 marzo e relazione del 4 aprile 1898 in ASPA, GP, b. 172. Più in generale, Lupo 1990b, pp. 159 sgg. 11 Barone 1975. 12 Notarbartolo 1949. 13 Cfr. ad esempio De Felice Giuffrida 1900, e soprattutto l’arringa finale di Marchesano a Bologna, pubblicata in volume: Marchesano 1902. 14 «Gazzetta piemontese» del 14 febbraio 1889, cit. da Dickie 2011a, p. 173. 15 Diemoz 2011, pp. 1046 e 1136. 16 Ibid., p. 106. 17 Relazione del prefetto del 24 ottobre 1900, pp. 3 e 4, in ASPA, GQ, b. 20. 18 Rapporto Sangiorgi, p. 146. 19 Siino fornisce cifre diverse (670 elementi) riferendosi ai due partiti, il suo e quello di Giammona. Forse perché vi comprende i «cagnolazzi», termine col quale, io credo, si riferisce a fiancheggiatori non affiliati. 20 Rapporto Sangiorgi, p. 51. 21 Ibid., p. 68. 22 Ibid., pp. 54 sgg. 23 Ibid., p. 80. 24 Ibid., p. 82. 25 Coco 2013, p. 36. 26 «Corriere della Sera», 3031 ottobre 1901. 27 Mosca 2002, pp. 8 e 9. 28 Più precisamente negava l’esistenza di «segnali di riconoscimento» tra affiliati: ibid., pp. 545. 29 Ibid., pp. 578 e 51. 30 Si vedano gli articoli in Mosca 1980. 31 In «Corriere della Sera», 12 ottobre 1901. 32 Riportata in Marchesano 1902, p. 309. 33 «La Battaglia», 10 novembre 1901, cit. da Renda 1972, p. 405. 34 G. Pitrè, ProSicilia, in «Giornale di Sicilia», 7 luglio 1902. Va detto che il maggior quotidiano palermitano era schierato contro Palizzolo. L’articolo venne pubblicato con una nota della redazione che dichiarava di non approvare le idee del suo «illustre collaboratore». 35 In «Giornale di Sicilia», 31 marzo1° aprile 1902. 36 Marchesano 1902, pp. 292 e 2945. 37 Blando 2017a, pp. 1001. 38 Labriola 1975, p. 101. 39 Saprofiti politici, in «Critica sociale», 1895, pp. 1945. 40 Commento di Labriola 1975, p. 102: «si mostrerà quanto fosse poco progressiva la mente del socialismo settentrionale, che in luogo di impostare la sua campagna contro un sistema politico spostava la questione a tutta una regione». 41 Colajanni 1900, p. 39. L’articolo di Oriani uscì sul «Giorno» l’8 gennaio 1900. 42 Calpurnio 1908, p. 10. Chi fosse questo fantomatico Calpurnio non so. 43 In Mosca 1980, p. 58. 44 Ma sulle società segrete e il codice del segreto rimando alla classica analisi di Simmel 1998, pp. 292 sgg. 45 Pitrè 1978, pp. 26970. 46 Ibid., p. 255. 47 Rapporto del 29 marzo 1927, in ASPA, TCP, b. 3240. 48 Così gli affiliati si chiamano secondo Alongi 1977, p. 109 e passim. 49 Natoli 2017, pp. 54950 e 160.
IV. Tra Sicilia e America: prima e seconda ondata
La Grande emigrazione ottonovecentesca portò milioni di italiani nelle Americhe. E, con l’inizio del nuovo secolo, i siciliani scelsero gli Stati Uniti in una percentuale più elevata (72%) di tutti gli altri italiani. Erano spinti dal bisogno, ma anche consapevoli di andare incontro a grandi opportunità. Trovarono una frontiera permeabile, una porta quasi aperta, e il loro esodo raggiunse il culmine nel 1906 e nel 1910. In certe zone di New York, o anche in altre grandi città come Chicago, crearono ibridi culturali, le Little Italy. Molti tra loro finirono per restare, ma una percentuale sorprendentemente elevata faceva su e giù per l’Atlantico, magari ogni anno. Li chiamavano birds of passage. «Funesti presagi» alimentarono un ultimo formidabile boom nel 191920, poi la porta venne chiusa, nel 1921 e ancor più decisamente nel 19241. Il governo federale varò cioè una legislazione molto restrittiva sull’immigrazione, intesa a garantire la supremazia numerica nel paese dell’elemento razziale «nordico». Nel contempo auspicava che i figli dei miserabili arrivati dall’Europa mediterranea o dell’Est, la «seconda generazione», si americanizzassero. Cercava in particolare, e qui veniamo al nostro argomento, di farla finita con la criminalità straniera. Quella dell’immigrazione non fu l’unica proibizione che caratterizzò il dopoguerra americano: ci fu anche quella della produzione e del commercio degli alcolici (1920). Tendeva anch’essa a creare uniformità, riportando gli americani, immigrati o anglosassoni, alle virtù private e pubbliche dei padri fondatori. Ma per alcuni aspetti i due proibizionismi conseguirono effetti perversi, opposti cioè a quelli che si proponevano di realizzare. La proibizione degli alcolici generò contrabbando su larga scala, offrendo straordinarie occasioni di arricchimento a una nuova leva di criminali. E le leggi restrittive sull’immigrazione non impedirono l’arrivo dei criminali che avrebbero fornito buona parte del quadro dirigente – di lì a molti anni – alla Cosa nostra americana: una «seconda ondata» mafiosa (postbellica) che andò ad aggiungersi alla «prima ondata» (prebellica).
Figura 4. La sponda americana.
1. Complotto straniero? La New York di inizio Novecento veniva da una storia già antica di criminalità etnica, legata alle ondate migratorie. Ed era criminalità organizzata, per una parte importante legata all’industria «del vizio»: gioco d’azzardo, lotterie, scommesse, prostituzione. Si trattava di affari semilegali. Gli imprenditori, per garantirne l’ordinato svolgimento, assoldavano gunmen («pistoleri»), ma contavano anche su un occhio di riguardo della polizia. In cambio procuravano voti e finanziamenti alla «macchina politica» cittadina, e particolarmente a Tammany Hall, l’organizzazione elettorale del Partito democratico. (La polizia dipendeva, e dipende, dall’amministrazione
municipale). Gli irlandesi, che a metà Ottocento avevano alimentato i più forti flussi migratori, svolgevano un gran ruolo e nell’affarismo paracriminale e nella macchina politica e nella polizia. Gli italiani, ultimi arrivati, no. In larga maggioranza, a quel tempo neanche votavano. Partecipavano però del cosiddetto padrone system, che era poi una forma di racket sul lavoro – o, per usare l’espressione inglese, di labor racket. Questi cosiddetti padroni erano degli italiani che procuravano lavoro ai connazionali, e lavoratori agli imprenditori americani, ricavando tangenti dagli uni e dagli altri. Molto spesso erano loro stessi a finanziare i viaggi dei migranti, tanto che alcuni di loro si autodefinivano «banchieri». Tra loro c’era gente onesta, ma anche affaristi e criminali. Molti anni dopo (1958), per spiegare le origini della mafia negli Stati Uniti, gli informatori dell’Fbi si sarebbero riferiti proprio a gente di questo genere: chiamandoli «cumpars» (compari) o «block bosses» (boss di caseggiato)2. Si collocava invece decisamente nel campo delinquenziale, a partire all’incirca dal 1903, il fenomeno della «Mano nera»: sigla comparsa in calce a lettere estorsive indirizzate a italiani agiati, cui talora seguivano atti di violenza, e in particolare attentati dinamitardi3. Era dubbio che si trattasse di criminalità organizzata; nondimeno, una quantità di giornalisti e politici assunse quella sigla – Mano nera – come il nome di un’associazione criminale o società segreta, originatasi nel vecchio mondo e trapiantatasi nel nuovo. D’altronde, già da un quindicennio l’America aveva cominciato a parlare di mafia in questa maniera: immaginandola come una setta straniera, chissà se nazionalista o anarchica, comunque impegnata a complottare contro le libertà americane. E antichissima, al pari del tenebroso mondo mediterraneo da cui veniva. Citiamo tra tutte la tesi bizzarra che riconduceva la parola stessa a un (presunto) slogan patriottico dei tempi della rivolta antifrancese dei Vespri siciliani (1282) – «Morte Ai Francesi Italia Anela», in sigla appunto MAFIA4. Questa mitologia era in parte frutto di razzismo o pregiudizio antiitaliano (antimeridionale, antisiciliano), ma per un’altra parte risentiva paradossalmente di un’apologetica filomafiosa, a suo modo sicilianista. Non ci stupiamo dunque di trovarla trasportata in America da un personaggio a noi ben noto e, in questo campo, autorevolissimo – Raffaele Palizzolo. Palizzolo sbarcò a New York nel giugno 1908, accolto da festeggiamenti e banchetti in suo onore. Recitò poesie in omaggio all’America, si presentò come un perseguitato, impegnò la propria oratoria nella difesa del buon nome dei suoi corregionali dalle calunnie cui erano fatti oggetto – nel vecchio come nel nuovo mondo. I giornalisti del «New York Times» sapevano che quel tizio era stato accusato di aver fatto «rinascere» l’antichissima società della mafia, e decisero di intervistarlo5. E lui, nell’intervista, si presentò proprio come l’epigono di un tempo remoto. Si vantò di discendere da una nobile famiglia di età angioina. Spiegò che la parola mafia veniva dall’arabo e voleva dire «perfezione». Tracciò l’equazione di rito tra omertà e virilità. Quando gli fu chiesto se davvero la mafia fosse nata coi Vespri siciliani, rispose che era così «senza dubbio», che da allora, attraverso «secoli di oppressione», aveva difeso i siciliani. Poco importava, precisò, che facesse ricorso a mezzi illegali: chi meglio degli americani poteva capire che l’unica legge da rispettarsi è quella che ogni popolo si crea da sé?6 Insomma Palizzolo proponeva l’ideologia mafiosa con un’impudicizia che non avrebbe forse potuto permettersi in patria; mettendo insieme l’argomento della mafia come specchio della cultura tradizionale (diciamo Pitrè) e quello della mafia come società segreta (diciamo Natoli). Pensava magari di galvanizzare i suoi. Sperava di indurre l’America a solidarizzare con i siciliani, dipinti come un popolo oppresso. Di fatto mise in difficoltà i maggiorenti della comunità italiana o siciliana che stavano cercando in tutti i modi di sottrarsi alla nomea di barbara e criminale, che era in cerca di rispettabilità; coloro che si mostravano pronti a collaborare con le autorità, e costituivano associazioni dette della «Mano bianca» per dimostrarlo. Per incoraggiare queste collaborazioni, per fronteggiare il problema della criminalità etnica italiana e della Mano nera, il New York Police Department aveva nel frattempo creato una «Squadra italiana», affidando in essa un ruolo di punta al detective Joe Petrosino (18601909), nato a Padula, provincia di Salerno. Petrosino, in un primo tempo, paragonò i blackhanders a banditi di campagna malamente trapiantati nel luogo più moderno del mondo, destinati a essere eliminati appena gli «italiani agiati» si fossero resi conto dei vantaggi della legalità americana7. Poi, cavalcando il crescente allarme pubblico, dichiarò che New York stava divenendo il rifugio di criminali provenienti dalle più miserabili e barbare regioni del Sud Italia. La sua «Squadra italiana» provvide a diverse espulsioni, ma poteva essere espulso solo chi aveva precedenti penali. Un maggiorente dell’amministrazione municipale decise allora di spedire Petrosino in Italia per una missione più da agente segreto che da poliziotto: cioè per acquisire riservatamente informazioni sulle fedine penali dei sospetti aderenti alla Mano nera. Così nel febbraio 1909 il detective partì da New York per Roma e poi per Palermo. Non sarebbe tornato più. Venne assassinato a colpi di pistola in pieno centro di Palermo, la sera del 12 marzo 1909. Imponenti manifestazioni popolari di cordoglio sia a Palermo che a New York mostrarono tra l’una e l’altra sponda sintonie potenziali che nessuno valorizzò. Al contrario, negli Stati Uniti molti sentenziarono che gli italiani erano
incompatibili con la vita civile, e invocarono la limitazione o la proibizione dell’immigrazione8. Il luogo e il modo del delitto erano d’altronde destinati a rafforzare molte convinzioni sul supercomplotto della Mano nera o mafia che fosse, e l’impressione che il governo italiano vi fosse coinvolto. Perché, si chiesero i giornali, il poliziotto americano non aveva goduto della protezione dei colleghi italiani? Il questore palermitano Baldassarre Ceola replicò stizzito che era stato proprio Petrosino a rifiutare la scorta comportandosi con «imprudenza che riesce quasi inesplicabile». Polemicamente rilevò che il detective, comportandosi in quel modo, aveva mostrato di condividere il «pregiudizio di coloro tra i siciliani che credono di essere meglio protetti rivolgendosi anziché alle Autorità e alla Giustizia a qualche noto e temuto delinquente che eserciti autorità e influenza»9. 2. Prima gang siculoamericana. Il questore Ceola precisò: le responsabilità del delitto Petrosino erano da attribuirsi a un’«alta delinquenza» siciliana, cresciuta in pericolosità «abusando della maggiore libertà» d’oltreoceano10. Era indirizzato su quella pista da certe lettere anonime a firma «un siciliano onesto», che gli erano giunte da New York, e che indicavano i mandanti del delitto. Si trattava dei capi di una gang appunto siculonewyorkese, su cui Petrosino aveva indagato in occasione del cosiddetto «delitto del barile» (1903). Era gente che veniva da alcuni dei luoghi più tipicamente «di mafia» della Sicilia occidentale, come si può vedere dalla figura. Ai membri della gang possiamo in effetti attribuire la qualifica di mafiosi per tre ragioni. 1) Erano, alla Franchetti, facinorosi della classe media che già nell’isola natia avevano un curriculum mafioso. 2) Mantenevano relazioni coi mafiosi siciliani che approdavano nel nuovo mondo. 3) A New York, in quell’ambiente così radicalmente diverso, adottavano uno stile di lavoro analogo a quello, a noi noto, dei loro colleghi palermitani. I boss in questione erano due. L’uno, Giuseppe Morello, detto Piddu, era nato il 2 maggio del 1867 a Corleone11. Era emigrato, o meglio scappato negli Stati Uniti dopo il 1894, anno di una sua condanna in patria per omicidio. A Manhattan, nella più classica delle Little Italy tra Elizabeth Street, Mulberry Street e Mott Street, investì in un negozio di barbiere e in un negozio di scarpe12. Si fregiava del titolo di «banchiere» perché finanziava i compaesani – non sappiamo a che fine e con quali tassi d’interesse. L’altro boss era suo cognato, Ignazio Lupo. Era nato il 21 marzo 1877 a Palermo. In un negozio di tessuti di sua proprietà, nell’ottobre 1898 aveva ucciso a revolverate un «trafficante», fuggendo poi a New York per evitare 21 anni di prigione13. Qui cambiò cognome assumendo quello materno di Saitta per confondere gli americani (i quali a loro volta lo storpiavano in Saietta), e usando il cognome alla stregua di un soprannome che suonava minaccioso – «the wolf». Sempre a Little Italy mise su negozi di alimentari e una grossa ditta di importazione «di olio di oliva e limoni», in collaborazione con esportatori siciliani. Anche lui si qualificava come «banchiere»14.
Figura 5. Una gang intercontinentale.
Cito tre mafiosi siciliani in transito negli Stati Uniti che entrarono in relazione con Morello. Il primo era Giuseppe Fontana, che già conosciamo come sospetto killer di Notarbartolo. Sbarcò a New York nel 1905 con la famiglia, venne da Morello aiutato a mettersi in affari e inserito nella gang, nella quale fece la sua parte almeno finché finì ammazzato. Il secondo, Vito CascioFerro (18621943), va presentato. Era nato a Palermo, e si era stabilito giovanissimo a Bisacquino, paese dell’interno, al seguito del padre, incaricato da un latifondista di mantenere l’ordine nei suoi feudi. Tipico circuito integrato tra mafia della capitale e mafia dell’interno. Ebbe una giovanile esperienza socialista, nel movimento dei fasci15. Poi si portò nel settore conservatore, studiò da capomafia e, per un incidente di percorso con la legge, nel 1901 decise di cambiare aria con un viaggio in America. Dopo di che, se ne tornò in patria. Era proprio lui che la lettera anonima già citata indicava anche l’organizzatore in loco del delitto Petrosino. Il terzo era Francesco Motisi, maggiorente della cosca palermitana di Pagliarelli, e schedato nel Rapporto Sangiorgi come tale. Si trattava di un grosso esportatore di agrumi, e anche di un politico, visto che faceva parte del consiglio comunale cittadino. Per sfuggire a un mandato di cattura appunto nell’ambito delle inchieste di Sangiorgi, assunse il falso nome di Francesco Genova e approdò a New Orleans, dove assurse a una qualche notorietà, sia nelle cronache economiche come «uno dei principali importatori dalla Sicilia», sia in quelle criminali con un arresto per estorsione16. Dei rapporti tra MotisiGenova e Morello sappiamo da una lettera del 1902, nella quale il primo rivendicava il proprio buon diritto a esercitare un’influenza sul secondo a preferenza di certi «falsi amici»17. Problemi di gerarchie mafiose, insomma. Comunque nel 1907 Motisi sparì da New Orleans, per ricomparire subito dopo dall’altro lato dell’oceano, a Liverpool, dove rimise su, come niente fosse, una ditta di importazione di limoni e altri prodotti alimentari18. All’indomani della guerra, lo troveremo nuovamente inserito nel Gotha mafioso palermitano: solo, dotato di un nuovo nomignolo, «u miricanu», insomma «l’americano». In ultimo, veniamo allo stile di lavoro di Morello e Lupo, che già abbiamo definito come tipicamente mafioso. Si interessavano di attività legali, connesse al commercio di prodotti alimentari tra Sicilia e America, e di certo partecipavano del «padrone system». Non per questo scartavano i settori propriamente illegali, e in particolare (al pari dei colleghi palermitani, come Morello stesso aveva fatto in patria) fabbricavano e spacciavano denaro falso. Questo però attirò su di loro l’attenzione di un nemico potente, il Servizio segreto degli Stati Uniti, e personalmente quella del suo dirigente William J. Flynn – personaggio di primo piano, destinato a guidare l’Fbi.
Questo superpoliziotto raccontò l’indagine in una serie di articoli giornalistici, dai quali traiamo una descrizione del modo in cui, nelle pratiche della gang, le attività legali andassero a sostenersi su quelle illegali. Un negoziante italiano (A) riceve una lettera che, con minacce iperboliche, pretende da lui cifre che non può pagare e nemmeno saprebbe a chi pagare, almeno finché (fortunato?!) un amico (B) non gli segnala un amico (C). Si tratta proprio di lui, Lupo the wolf. Gli viene presentato come un gentleman, il quale però «conosce molti malfattori provenienti dal suo paese ed ha influenza su di loro». C si dichiara disponibile a far sì che gli estortori si accontentino di una quantità di denaro minore di quanto richiesto inizialmente. A è ben felice di aderire alla transazione. Alla fine «i capi della Mano nera si saranno guadagnati la fiducia e la gratitudine delle loro stesse vittime». I piccoli esercizi alimentari italiani del ghetto saranno spinti a rifornirsi in via esclusiva nei magazzini dei due boss19. Siamo al meccanismobase della protezione/estorsione, al gioco delle parti che, per il versante siciliano, abbiamo visto descritto da grandi intellettuali come Mosca e Pirandello. Una visione indulgente, che riflette il punto di vista dei mafiosi stessi, ci è stato restituito molti anni più tardi (1972) dalle interviste fatte dagli antropologi Francis ed Elizabeth Ianni ai membri di seconda e terza generazione di una famiglia mafiosa imparentata con Lupo e Morello, convenzionalmente chiamata Lupollo. Dicono costoro che il patriarca della famiglia, Giuseppe, nacque a Corleone intorno al 1870, giunse a New York nel 1902 con moglie, due figli e quattrocento dollari, stabilendosi nell’East Harlem. Non sappiamo se in patria costui fosse stato coinvolto in attività criminali. Sappiamo che la somma considerevole che portava con sé di certo lo distingueva dalla schiera dei poveri compaesani senza un soldo. Anche Giuseppe si impegnò nell’importazione dalla Sicilia di merci (olio d’oliva e altri prodotti tipici) e nella loro distribuzione al dettaglio, nonché di persone, compaesani da impiegare in varie attività, cui prestava denaro ad alto tasso di interesse. Padrone system. E le bombe della Mano nera? Gli intervistati negano indignati che il patriarca vi avesse parte, ammettendo il suo coinvolgimento solo in settori borderline, socialmente legittimati, come l’«Italian lottery». E ribadendo che si trattava di un leader comunitario, capace di mostrare solidarietà non solo verso i parenti, ma anche verso amici e compaesani meno fortunati, di un pilastro della chiesa che nel quartiere organizzava ogni anno la festa di Sant’Antonio20. Nella pubblicistica americana, provò a ragionare sul modo in cui questi personaggi si autodefinivano un testo scritto nel 1912 dall’ex magistrato newyorkese Arthur Cheney Train. Il vero mafioso, spiegò, si indigna quando lo si chiama «Black hander», vuole essere considerato non «un comune criminale, ma un uomo particolarmente sensibile in questioni d’onore». D’altronde, aggiunse, i capimafia hanno un loro «regular business»21, e raccontò dell’«italiano ben vestito e di bell’aspetto» che aveva affittato un ufficio in centro a Manhattan, da dove si impegnava a regolare, anche mediante rappresaglie feroci, il mercato dei limoni sull’uno come sull’altro versante dell’oceano22. Quanto al resto, segnalo una battuta realistica di Train: gli americani devono lasciar perdere le fantasie sulle società segrete medievali, prendere atto che la mafia, a casa propria, è una «macchina politica di straordinario successo», un po’ come la loro Tammany Hall23. Ma torniamo al 1909, ai giorni convulsi che seguirono l’assassinio di Petrosino. La polizia appurò che il detective portava con sé un taccuino con quindici nomi di mafiosi tornati dall’America in Sicilia, e una fotografia di Cascio Ferro con la specificazione «pericolosissimo criminale». Voleva indagare su di lui? O piuttosto contava di ricavarne informazioni e aiuto? Si seppe che, contemporaneamente a Petrosino, erano arrivati a Palermo da New York due elementi della gang MorelloLupo. L’ipotesi investigativa era che fossero stati incaricati di accordarsi col boss di Bisacquino. Fu intercettato un telegramma spedito da uno dei due presso l’indirizzo newyorkese di Morello, ma indirizzato a Fontana, recante queste enigmatiche parole: «Io Lo Baido lavoro Fontana». Alla fine Ceola chiese l’incriminazione di CascioFerro e di altri diciassette individui, che nel complesso – a suo dire – rappresentavano «quanto di più audace e pericoloso anche in linea di reati di sangue avvi nella mala vita locale», personaggi che «tutti o quasi sono stati in America e ne sono tornati da poco; tutti o quasi si devono essere colà resi responsabili di gravi reati, come per alcuni di essi provano le rilevanti fortune in poco tempo colà accumulate»24. Ma, con sentenza del luglio 1911, la sezione d’accusa della corte d’appello di Palermo decretò il non luogo a procedere nei confronti di tutti loro. Insufficienza di prove. Come il delitto Notarbartolo fece un problema nazionale italiano della mafia, così il delitto Petrosino ne fece un problema internazionale. Lo scandalo per il primo derivò dalla qualità sociale e della vittima e del mandante, quello per il secondo dal ruolo istituzionale della vittima. Nell’uno e nell’altro caso, le mancate condanne finali dei probabili assassini chiarirono quanto fosse difficile il compito della giustizia. E la giustizia si palesò ancor più impotente nella dimensione internazionale. La stessa missione Petrosino (l’abbiamo definita non a caso da agente segreto) era dovuta alle reciproche diffidenze dei due sistemi repressivi; e la sua tragica conclusione ne fu il risultato. Molti degli imputati del 1911 tornarono tranquillamente negli Stati Uniti, senza che nessuno pensasse a bloccarli25. I mafiosi continuavano a muoversi liberamente tra l’una e l’altra sponda. È
È vero che, alla fine appunto del 1911, in America Morello e Lupo furono condannati a pene pesantissime, trenta e venticinque anni di reclusione, per la questione delle banconote false. Però di fatto uscirono dopo pochi anni. E poi, imprigionati i due capi, restò attiva la loro banda, detta dei Morellos, la quale spostò il centro delle proprie attività dal Lower East Side di Manhattan verso East Harlem e il Bronx, gestendo una serie di attività legali e illegali (in particolare l’«Italian lottery»), impegnandosi in lotte furibonde contro avverse fazioni siciliane e «napoletane». 3. Dopo la guerra: contrabbando e altro malaffare. E veniamo al periodo successivo alla guerra, nel corso del quale, a New York, crebbe l’incidenza percentuale di elementi di origine italiana nell’élite gangsteristica, essenzialmente per due ragioni. 1) La macchina politica, e particolarmente Tammany Hall, ancora irlandese ai vertici, stava cooptando i rappresentanti di un milione e mezzo di ebrei, e appunto di 800 000 italiani. 2) Il proibizionismo apriva un’autostrada verso la ricchezza e il potere criminale. Uno studio di Mark H. Haller ci restituisce l’identikit dei diciassette maggiori contrabbandieri di alcolici operanti nell’area metropolitana di New York sul finire degli anni venti: elementi piuttosto giovani, partiti dalla militanza nelle gang giovanili e rapidamente arrivati al top, tra i quali gli italiani erano quattro, contro nove ebrei e tre irlandesi26. Tra gli italiani, o più precisamente i siciliani, emergeva una figura cruciale nella nostra storia: Salvatore Lucania, altrimenti detto Charlie Luciano, soprannome Lucky ovvero fortunato (18971962). Attingeremo a quella che è quasi una sua autobiografia. Infatti questo libro non fu firmato da lui, ma fu almeno in una prima versione (lo vedremo più avanti) da lui ispirato: The Last Testament of Lucky Luciano di Martin Gosch e Richard Hammer (1974). In parte si tratta di una fonte attendibile, in parte no. Ci consente comunque di avvicinarci alla sfera della soggettività come altrimenti non potremmo fare. Il nostro personaggio nasce a Lercara Freddi, paese minerario della parte interna della provincia di Palermo, e sbarca a New York al seguito della famiglia nel 1906, dunque all’età di nove anni. Si stabilisce nel Lower East Side di Manhattan, dove ben presto entra a far parte di gang giovanili dedite tra l’altro allo spaccio della droga. Per questa ragione nel 1916 passa alcuni mesi in penitenziario – per quella che nei vent’anni seguenti rimarrà la sua unica condanna. Uscito dalla prigione circondato dall’aura del duro, comincia a guardare «outside, uptown»27, verso il cuore ricco della metropoli. Veniamo immediatamente al punto: a mio parere Luciano va visto come un gangster di origine siciliana, non come un mafioso. Non sappiamo di appartenenze mafiose di nessun membro della sua famiglia, né sulla sponda siciliana né su quella americana. Suo padre, Antonio, non è un trafficante ma un proletario, a quanto sembra onesto, che continuerà sempre a disapprovare le attività del figlio. Lui diventa un criminale alla scuola delle gang giovanili, e per molti aspetti il suo punto di vista è quello dell’italoamericano di «seconda generazione». Si pone, e viene posto, sotto l’insegna dell’americanizzazione, prende le distanze dal retaggio dell’isola mediterranea di partenza. Lo pseudo testamento spiega la ragione per cui, diciannovenne, rinuncia al suo sicilianissimo nome di battesimo: in prigione nessuno riesce a pronunciare quel Salvatore, e Sal o Sallie in inglese suona femminile, cosa davvero inopportuna. Meglio Charlie. Dice anche come l’aspirante boss abbandoni il suo cognome, che poliziotti e giornalisti non riescono né a pronunciare né a scrivere correttamente, storpiandolo in Luciano. Meglio Luciano. Quanto alle reti di relazione. Nessuno dei criminali con cui il giovane Lucania intrecciò una più stretta collaborazione, e che avrebbero fatto carriere importanti quasi come la sua, era siciliano. Tra loro, citiamo due meridionali del «continente»: Francesco Castiglia detto Frank Costello, calabrese approdato nell’East Harlem nel 1895 ad appena quattro anni, e Vito Genovese, campano, nato nel 1897 ma arrivato più tardi, nel 1912. C’erano anche diversi ebrei28. E a introdurre Luciano nel giro grosso, quello degli alcolici, fu proprio un ebreo: Arnold Rothstein, rampollo di famiglia borghese, giocatore d’azzardo, numero uno (detto: lo «zar») nel mondo delle scommesse. Siamo nella fascia alta degli interlocutori del gangsterismo. Rothstein finanziava la macchina politica democratica e lo stesso Jimmy Walker, avvocato di origine irlandese che a partire dal 1926 fu sindaco democratico della città, uomo notoriamente indulgente verso i vizi della metropoli, i nightclub, il mondo dello spettacolo e naturalmente gli alcolici29. Proviamo ora a spiegare il perché il proibizionismo, «nobile esperimento» inteso a moralizzare l’America, si sia invece risolto in un potente alimento di malaffare e criminalità: ragioniamo cioè sui suoi effetti perversi30. Il primo fu di tipo economico. Rimanendo la domanda elevata, quello degli alcolici divenne un grande affare e la merce arrivò ai consumatori in barba alle nuove leggi provenendo dal Canada, dal Messico, da navi inglesi collocate fuori delle acque territoriali o da una miriade di distillerie clandestine. Il secondo fu di tipo morale. Il proibizionismo provocò un’attenuazione del confine che ognuno percepisce dentro di sé tra legalità e illegalità: moltissimi cittadini non consideravano davvero illegittimo il consumo dell’alcool, e davanti a loro i bootlegger (contrabbandieri) poterono presentarsi come interpreti di un ruolo sociale legittimo, quello dell’operatore di mercato. Citiamo le dichiarazioni del
gangster per eccellenza degli anni venti, Al Capone: «Tutto quello che faccio è rispondere alla domanda del pubblico»31. Il terzo fu di tipo politico. Le istituzioni non potevano uscire bene da una situazione in cui notoriamente contrabbandieri e rivenditori al dettaglio se ne conquistavano i favori versando tangenti. Il quarto effetto perverso riguardò la composizione interna dei gruppi affaristicocriminali. I bootlegger non poterono non associarsi a strongarm men (gente che per professione usava la violenza). Per fronteggiare i concorrenti, o per tutelarsi da furti e imbrogli, visto che non potevano ricorrere alla legge dello Stato, che aveva dichiarato illecito il loro commercio. Qui vorrei segnalare lo schema teorico elaborato, proprio riflettendo su queste vicende, dal criminologo Alan Block, basato sulla dialettica tra due diversi modelli di organizzazione criminale, rispettivamente detti enterprise syndicate e power syndicate. Sotto la prima voce Block cataloga il tipo di organizzazione intesa alla gestione degli affari, che è fluida perché segue i cicli o le occasioni dell’economia. Sotto la seconda voce ne cataloga una relativamente più stabile, che ci mette la forza, offrendo o imponendo la protezione. Logico che il power syndicate tenda ad assumere il controllo dell’enterprise syndicate ma – rileva Block – non necessariamente con successo32. Io trovo lo schema interessante, e proverò a riproporlo per altri casi. Va detto comunque che, insieme al contrabbando di alcolici, giocò un ruolo fondamentale per la formazione della nuova élite gangsteristica metropolitana il labor racket33. Facciamo un esempio nonitaliano. Abbiamo da un lato il topgangster, Arthur Flegenheimer meglio noto come Dutch Schultz, nato nel 1901 a New York da famiglia ebraica borghese: il quale negli anni venti creò ad Harlem e nel Bronx una «baronia» incentrata sul commercio della birra, e nel contempo assunse il controllo del sindacato dei lavoratori alberghieri34. In mezzo c’era l’avvocato Richard Dixie Davis, un americano doc, proveniente dal Sud degli States, il quale consigliò a Dutch Schultz di offrire la propria protezione ai cosiddetti banker del gioco d’azzardo (o «policy»); e che più tardi vuotò il sacco spiegando come il power syndicate e l’enterprise syndicate fossero andati a convergere. Sull’altro versante Jimmy Hines, uno dei leader di Tammany, garantiva la propria protezione politica35. E torniamo al settore italiano illustrando il caso di Joseph «Socks» Lanza, siciliano di seconda generazione, nato a New York nel 1901. Cominciò nel 1923 a lavorare al «Fulton Fish Market», nel Lower East Side di Manhattan. Assunse ben presto la guida di un sindacato, l’United Seafood Workers’ Union, conseguendo per i suoi tesserati il diritto esclusivo a scaricare dai pescherecci provenienti da mezzo mondo. Ogni anno l’organizzazione minacciava scioperi. Poi finiva sistematicamente per ritirarsi, e non tanto per gli incrementi salariali ottenuti, che erano minimi; ma in cambio di agevolazioni e contributi delle imprese, che andavano a beneficio di gruppi più ristretti di amici o degli stessi dirigenti. Insomma anche qui il labor racket fungeva da base di un sistema di protezione/estorsione. Guidata da Lanza era anche la Market’s Watchmen’s Protective Association, che provvedeva alla protezione degli operatori, di quelli ben disposti ovviamente, perché quelli mal disposti venivano lasciati in balìa di estortori e rapinatori. Nei casi più complicati intervenivano Luciano e Genovese. Il power syndicate, potremmo dire. La polizia di Walker si mostrò sempre tollerante con Lanza, e solo nel 1932 lo zar del Fulton Market (così veniva chiamato) venne accusato di estorsione ai danni degli imprenditori, anche se può dirsi che, in questo come in quasi ogni altro labor racket, costoro ne erano in sostanza favoriti. Lanza se la cavò molto bene. Alla fine ottenne un contributo da ogni operatore, piccolo e grande, al dettaglio e all’ingrosso, riuscì a influenzare il prezzo del pesce a New York e non solo, costruendoci sopra un business straordinariamente redditizio. Concludiamo chiedendoci se e quanto sia paragonabile alla mafia siciliana il gangsterismo che prese (ulteriore) piede negli Stati Uniti degli anni venti. Diciamo subito della principale differenza: la società americana ha carattere multietnico, e la criminalità riflette questo carattere. Peraltro proprio questa situazione garantisce al gangsterismo americano un consenso popolare tra i connazionali, negli slum miserabili di Manhattan, Brooklyn, Chicago, analogo a quello di cui godono i mafiosi nella loro terra d’origine. E più in generale la risposta può essere positiva se ragioniamo, per l’uno e l’altro caso, della domanda sociale di regolamentazione di un’ampia «zona grigia» tra legalità e illegalità. 4. Il ponte transoceanico è ancora aperto. Il sociologo John Landesco, nel suo classico studio sulla criminalità organizzata a Chicago (1929), sostiene: la criminalità organizzata anche etnica rappresenta «un prodotto naturale» di un ambiente tipicamente americano, cioè «degli slum delle grandi città»36. Conclusione realistica, confutazione drastica delle mitologie etnocentriche che per spiegare il malaffare hanno bisogno di chiamare in causa un complotto straniero. Vent’anni più tardi un grande sociologo, Daniel Bell, ribadirà il punto: il crimine fa parte integrante dell’«American way of life», e spesso rappresenta per gli immigrati una via alla mobilità sociale37.
Vanno però considerati gli elementi empirici che complicano questo lineare e condivisibile schema interpretativo. In maggioranza i topgangster newyorkesi di origine ebraica erano nati in America, mentre pressoché tutti quelli di origine italiana erano nati in Italia: l’unico nato a New York (Brooklyn) era Al Capone, trasferitosi però per tempo a Chicago. Il dato contribuisce a spiegare il perché, delle due sezioni etniche del gangsterismo imperanti negli anni venti e trenta, quella qualificata come straniera nella percezione pubblica fosse l’italiana ben più che l’ebraica. Nel caso del siciliano Luciano (come in quelli dei due italiani nonsiciliani, Costello e Genovese), da questo carattere non può essere arguita una filiazione della criminalità italiana nel nuovo mondo da quella del vecchio mondo. In altri casi però la filiazione è evidente. Lo abbiamo visto già con Piddu Morello e Ignazio Lupo, e con la loro gang. Qui segnaliamo la figura di Ciro Terranova, fratellastro di Piddu Morello, nato forse nel 1889 a Corleone, sbarcato a New York piccolissimo, che dopo un lungo apprendistato nelle guerre tra le bande entrò a far parte negli anni venti dell’élite ristretta dei topgangster. Trafficava in alcolici, organizzava lotterie, era ben inserito in Tammany Hall. Come i suoi omologhi d’oltreoceano, si interessava del settore agroalimentare, tanto da essere soprannominato «re dei carciofi» per il ruolo dominante che esercitava sul mercato newyorkese di questo prodotto. Quando gli fu chiesto a che gruppo criminale fosse affiliato, rispose nello stesso stile adottato dagli imputati del processo Amoroso, nella Palermo del 1883: «Io sono felice a casa con mia moglie e i miei figli. La mia madre ottantenne vive con me, e io mi prendo cura degli interessi della mia famiglia»38. E poi c’era chi continuava a muoversi tra vecchio e nuovo mondo, i birds of passage della mafia. Una testimonianza, forse l’unica, che pone la storia in questa dimensione intercontinentale è quella fornita dal libro autobiografico (pubblicato nel 1963) di Nicola o Nick Gentile. Nasce nel 1885 a Siculiana, provincia di Agrigento. Passa trentaquattro anni della sua vita (190337) prevalentemente negli Stati Uniti, ma con almeno cinque più o meno lunghi soggiorni in Sicilia (nel 190911, 1913, 1919, 192526, 192730), nel corso dei quali non si ferma dall’organizzare affari, tramare complotti, perpetrare delitti39. Tra i suoi confratelli, è noto col soprannome di «carrettiere» appunto per questo continuo oscillare da un continente all’altro. E continua a farlo prima e dopo la guerra, in tempi di frontiera aperta e in tempi di frontiera chiusa: ignorando cioè le politiche federali sull’immigrazione. Vediamo due passaggi chiave. Il primo: 1903, New York. Nicola sbarca con una valigia, non con il tipico sacco dei poveracci, per partecipare a un «giro» commerciale e paracriminale che dice gestito da un’«organizzazione molto chiusa, una specializzazione di un gruppo di emigranti di Siculiana», a suo dire dedita a un certo commercio truffaldino di tessuti40. La rete dei compaesani è pronta: uno di loro gli fornisce il denaro per un immediato trasferimento nel Kansas dove già opera il fratello. Il secondo: 1915, Pittsburgh, Pennsylvania. Nicola assume la guida di un gruppo di «picciotti», che schiera in difesa di uomini d’affari siciliani legati (ancora) al commercio di prodotti tipici, e minacciati dalle primitive pratiche estorsive proprie dei «camorristi» (napoletani e calabresi). Insegna ai criminali quant’è meglio agire d’accordo con gli imprenditori, e anche tra di loro. Prima, però, fa uccidere il suo predecessore41. Registriamo ora alcune informazioni generali fornite dal nostro testimone sulla storia della mafia, che lui chiama «onorata società». Anche qui è opportuna una premessa: questo testo è attendibile in alcune parti, meno in altre. Va comunque capito il suo punto di vista: guarda alla connessione intercontinentale, e alle componenti della criminalità siciliana e americana più legate alla connessione stessa. Gentile spiega che alla guida della succursale americana si sono alternati tre «capi dei capi»: Piddu Morello nell’anteguerra, Salvatore Totò D’Aquila nel dopoguerra, Joe Masseria nei secondi anni venti. Noi già conosciamo Morello, aggiungiamo dunque qualche particolare biografico sugli altri due: D’Aquila, nato nel 1877 a Palermo, arrivò nel 1906 (all’età di 29 anni) a New York, dove intraprese una carriera criminale che tra l’altro lo portò in conflitto con i Morello; Masseria, nato nel 1886 a Menfi (provincia di Agrigento), sbarcò in America nel 1902, e alla fine della sua carriera era in effetti conosciuto anche nella stampa americana col soprannome «the boss», il boss per eccellenza42. Io nondimeno, come ho fatto altrove, voglio mettere in guardia il lettore dal carattere un po’ mitico dell’idea del supercapo. Aggiungo che, come altri informatori dall’interno, Gentile traccia un quadro sin troppo ordinato, insiste sulle regole intese a garantire la pace interna e poi, in concreto, il suo racconto consta di tradimenti, abusi, ferocia, massacri. In particolare, sia D’Aquila che Masseria finirono ammazzati. Nessuna successione pacifica ordinata, di tipo monarchico, dall’uno all’altro. Lo scarto tra i fatti e l’ideologia, in questo come negli altri racconti dei mafiosi, è elevato. Tra le notazioni realistiche di Gentile, segnalo il parallelo tra l’onorata società e la massoneria «per quanto riguarda l’assistenza ai [loro] associati»43. Noi abbiamo già segnalato il legame storico e funzionale tra modello massonico e modello mafioso. Possiamo riconsiderarlo nella dimensione transcontinentale. Come uomini d’affari e professionisti
traggono dall’adesione a una singola loggia massonica possibilità di accesso a reticoli relazionali ben più vasti di quelli locali, così fanno anche gli affiliati a gruppi mafiosi diversi, anche situati in diversi continenti. Tornerò più avanti su alcuni dei molti intrighi mafiosi (trascurerò quelli politici) cui Gentile racconta di essersi dedicato sull’una e sull’altra sponda. Dico ora che il personaggio era noto al Federal Narcotic Bureau (non saprei da quando) come trafficante in stupefacenti su scala nazionale e internazionale – attività su cui nell’autobiografia (come fanno altri della sua risma) tace pudicamente finché è possibile. Fornisco alcune informazioni sulla partecipazione di mafiosi al narcotraffico già negli anni venti. Un Calogero Orlando nato nel 1906 a Terrasini, partito nel 1922 con 400 dollari, stabilitosi a Detroit, tornato una prima volta a casa nel 1928 con 800 dollari, fece in diverse occasioni su e giù finendo con l’arricchirsi con un commercio che lui diceva di acciughe salate e sardine, mentre le autorità italiane erano certe si trattasse di morfina44. Nel 1926 le autorità americane minacciarono rappresaglie commerciali in seguito ad arrivi dalla Sicilia di oppio e morfina, stupefacenti che vennero sequestrati a Palermo in grosse quantità, nascosti in casse di agrumi e altre confezioni alimentari che stavano per essere imbarcate per New York, mittente una ditta Morello – non so se in qualche modo collegabile a don Piddu45. Fonti Fbi dicono di mafiosi newyorkesi che in quel periodo importavano droga dalla Sicilia nascosta in barili di olio d’oliva46. Partendo da questi elementi, proviamo a interpretare alcune vicende narrate nell’autobiografia del carrettiere. 1919, Cleveland, Ohio. Nick si mette in società con il suo compaesano Peppino/Joe Lonardo, boss emergente della mafia locale, facendo incetta di whiskey nell’attesa che, con la messa al bando degli alcolici, il prezzo salga. 1925, Palermo, Sicilia. Lonardo consegna a Gentile un robusto assegno perché acquisti prodotti tipici dell’isola, sardine, olio, formaggi, da mandare in America. 1926, di nuovo Cleveland. Il carrettiere si ripresenta a Lonardo: adesso dispone del capitale «fresco» per rientrare nel giro degli alcolici47. È possibile che davvero venissero dal commercio internazionale di sardine, i soldi che i due investivano nel contrabbando di alcolici. È possibile anche che venissero dal traffico di droga. Quali che siano le sue vere attività, Nick Gentile continua a percorrere il ponte tra Sicilia e America, tra le due mafie, prima e dopo la guerra. Ma una quantità di persone lo percorre per la prima volta dopo, come a vanificare le finalità dei provvedimenti restrittivi sull’immigrazione presi dalle autorità federali. Documenti ufficiali statunitensi di molto successivi registrano l’arrivo negli Stati Uniti, tra la fine della guerra e gli anni venti, di circa 500 «mafiosi»48. Si veda la tabella sui criminali destinati ad avere un ruolo dirigente in Cosa nostra americana (nell’organizzazione mafiosa che di lì a molti anni sarebbe stata indicata con quel nome). Abbiamo elementi della «prima ondata» migratoria (prebellica) ed elementi di questa «seconda ondata» (postbellica). Di questi ultimi cominciamo a delineare i caratteri. Si insediarono a Brooklyn, nuova frontiera della sicilianità newyorkese. Cinque su sei provenivano dalla fascia costiera della Sicilia occidentale (uno solo dalla Calabria). I cinque siciliani molto continuarono a sentirsi parte della cultura d’origine e, a quanto pare, continuarono a parlare di regola in dialetto. Insomma, si americanizzarono poco: d’altronde, arrivarono già adulti. Nel nuovo mondo portarono modelli di organizzazione criminale di stampo mafioso. Erano essi stessi, molto più degli uomini della prima ondata, inseriti in ben strutturati reticoli di mafia già nella loro isola di partenza. Per capirne qualcosa, bisognerà dunque ragionare insieme dell’una e dell’altra sponda. Un’avvertenza. La date dell’arrivo in America di Gambino, e degli altri della seconda ondata che trovate nella tabella, contraddicono le citate fonti americane, che addebitano la seconda ondata all’operazione antimafia del fascismo: infatti Mussolini andò al governo solo nell’ottobre del 1922 e, come vedremo, la sua operazione antimafia partì solo alla fine del 1925. La verità è che gli aspiranti boss, e molti altri con loro, partirono nella fase alta, non in quella successiva e calante del potere mafioso nel vecchio mondo, si mossero non per espulsione ma per attrazione. Per sfruttare le straordinarie occasioni di arricchimento offerte dai «ruggenti» anni venti americani. Voglio per primo presentare Carlo Gambino, destinato ad assurgere, al passaggio tra anni cinquanta e sessanta, al rango di superboss. Nacque a Palermo, e nel suo caso il virus mafioso (diciamo così) veniva dalla famiglia della madre (di nome Castellano), sia per un ramo palermitano sia per un altro, da tempo insediato a Brooklyn. Il suo biografo sostiene (non si capisce su che base) che era stato appena affiliato all’onorata società, in quel 1921 in cui decise di lasciare la Sicilia sfruttando i canali consolidati dell’emigrazione clandestina. I suoi parenti americani lo andarono a prendere appena giunto a Norfolk per portarlo a Brooklyn49, e quel legame familiare restò saldo sia sul piano della vita privata che su quello professionale, visto che sposò nel 1926 una cugina Castellano, che negli anni seguenti avrebbe preso per suo braccio destro Paul Castellano (nato nel 1915 a New York), fratello di sua moglie, dunque contemporaneamente suo cognato e cugino.
Figura 6. L’élite mafiosa a New York, anni venticinquanta.
A quel tempo il giovane Carlo si qualificava come macellaio, professione svolta o almeno dichiarata da molti suoi omologhi sia nel vecchio che nel nuovo mondo. Qualche informazione di polizia lo voleva però dedito al contrabbando degli alcolici alla testa di un gruppo composto da fratelli e cognati, che si approvvigionava di liquore nel New Jersey e lo distribuiva a Brooklyn. Si trattava a quanto sembra di un traffico che andava avanti «sin dall’inizio della proibizione», ma solo all’inizio degli anni trenta poté parlarsi di «un giro di contrabbando di alcolici di dimensione nazionale in cui la ditta Gambino svolgeva un ruolo di primo piano». Si colloca in questa fase un episodio significativo: alcuni agenti fermarono un camion carico di alcolici ma furono assaliti da una squadra di ben quattordici gangster che li disarmarono e li lasciarono sul posto dopo aver recuperato quella che era evidentemente una merce di loro pertinenza – «è stato un colpo di Gambino», commentarono gli inquirenti senza per questo riuscire a provarne le responsabilità50. 1 De Clementi 2001, p. 43. 2 FBI Files, Mafia Monograph. 3 Pitkin Cordasco 1977. 4 The Origin of the Mafia, in «New York Times», 3 maggio 1891. 5 Commendator Raffaele Palizzolo, ivi, 14 giugno 1908. 6 Raffaele Palizzolo Describes the Mafia, ivi, 12 luglio 1908. 7 Intervista al «New York Herald» del 20 febbraio 1903, cit. in Petacco 1972, p. 43. 8 Ibid., pp. 165 sgg. 9 Il questore al prefetto, 29 marzo 1909, p. 7, in ASPA, QAG, b. 15. 10 Relazione del 28 aprile 1909, pp. 910, ivi. 11 Da Calogero Morello e Angela Piazza il 2 maggio 1867: telex del sottoprefetto di Corleone del 12 luglio 1916, ivi. 12 W. J. Flynn, Black Hand, in «Washington Post», 1914 (26 aprile).
13 Sentenza della Corte di assise di Palermo del 19 dicembre 1899, in ACS, MGG, MAP, b. 132. Da qui traggo il nome del padre, Rocco Lupo, e
quello della madre, Onofria Saitta. 14 Rispettivamente, Flynn, Black Hand cit.; Selvaggi 1957, p. 51 (l’importatore si chiamava Romeo); Rich Italian Gone, Once Mafia Leader, in «New York Times», 5 dicembre 1908. 15 Per questo abbiamo una scheda personale su di lui nelle carte di polizia dedicate ai sovversivi: ACS, CPC, b. 1141. 16 Il ministro degli Interni a quello di Grazia e giustizia, ottobre 1907, in ACS, MI, PG, b. 252. 17 Questi brani della lettera in Barrel Murder Inquest, in «New York Times», 8 maggio 1903. 18 Lettera dell’ambasciatore italiano a Londra del 27 giugno 1908 con relazione del detective A. Davidson, in ACS, MI, PG, b. 252. 19 Flynn, Black Hand cit., in particolare 24 maggio. 20 Ianni ReussIanni 1984. 21 Train 1912, pp. 234 e 238. 22 Ibid., pp. 2368. 23 Ibid., p. 228. 24 Il questore al presidente della sezione d’accusa, 24 marzo 1909, pp. 56, in ASPA, QAG, b. 15. 25 Volpes 1972, pp. 12034, ricostruisce i loro curricula. 26 Haller 1976, p. 109. Non conosciamo l’origine del diciassettesimo contrabbandiere. 27 Gosch Hammer 1975, p. 10. 28 Citiamo Meier Suchowljansky ribattezzato Lansky, nato nel 1902 in Bielorussia, e Benjamin «Bug» Siegel, nato nel 1906 a New York. Particolare significativo: Costello sposò un’ebrea. 29 Si veda la vivace descrizione di Mitgang 2000. 30 Sinclair 1976; Woodiwiss 1988; Becchi Turvani 1993, pp. 348. 31 Cit. da Nelli 1976, p. 218. 32 Block 1980, p. 129 e passim. 33 Stando a un libro importante pubblicato nel 1952 da un magistrato e da un giornalista: Turkus Feder 1952. 34 Kelly 1999, pp. 656 e passim. 35 Grazie alla quale gli imprenditori aderenti al cartello potevano agire impunemente mentre i loro concorrenti afroamericani di Harlem venivano perseguiti: Davis 1939. Su Hines, cfr. Peterson 1983, p. 221. 36 Landesco 1968, pp. 221 e 169. 37 Bell 1953; Id. 1964. 38 Terranova Charges He Is a Political Goat, in «New York Times», 28 dicembre 1929. 39 Gentile 1993, passim. Può darsi peraltro che egli sia tornato altre volte, senza farne menzione nel libro. 40 Ibid., p. 51, nota. 41 Ibid., pp. 5368. 42 Gli americani prendevano atto stupiti che «persino ai suoi compatrioti» il suo potere appariva «misterioso nella sua essenza»: Racket Chief Slain by Gangster Gunfire, in «New York Times», 16 aprile 1931. 43 Gentile 1993, p. 55. 44 Istruttoria Garofalo, pp. 659 sgg. 45 Cfr. la cronaca del sequestro in «Giornale di Sicilia», 24 luglio 1926. Le proteste americane in Per l’esportazione agrumaria, in «Sicilia Nuova», 19 marzo 1926. 46 FBI Files, Mafia Monograph, Section II, p. 66. 47 Gentile 1993, pp. 934. 48 The Impact, p. 52. 49 Davis 1993, pp. 3340. 50 Cito dai rapporti di polizia degli anni trenta collazionati nella scheda Fbi, del dicembre 1957, pp. 403, in FBI Files, Charles Gambino. Davis 1993, p. 40, vuole che il referente di Gambino ai vertici dell’underworld fosse Masseria.
V. Vecchia e nuova mafia
I discorsi sulla mafia sono stati spesso, in un secolo e mezzo di storia, articolati secondo questo schema: si è diffusa ultimamente una nuova mafia, ormai ridotta a delinquenza, che non ha più il senso del rispetto e dell’onore della vecchia, che non ha più la sua capacità di limitare il ricorso alla violenza. In questa veste l’argomento è retorico, tant’è che lo ritroviamo praticamente immutato in ogni fase della nostra storia. Serve a salvaguardare l’ideologia protettiva e onorifica della mafia stessa, proiettandola verso un indefinito passato, salvaguardandola dalle dure repliche dei fatti: i quali viceversa attestano che avidità e ferocia sono caratteristiche della mafia di ieri come lo sono di quella di oggi. Compare forse per la prima volta con Pitrè (la parola indica un concetto un tempo buono e ora degradato). Ritorna con Nick Gentile, in riferimento a un periodo successivo (gli anni venti del secolo XX), nel quale a suo dire «morì in Sicilia l’onorata società, la mafia che aveva le sue leggi, i suoi principi, che proteggeva i deboli e […] fu lasciato il campo a […] gente senza onore avvezza a rubare senza freno e a uccidere per denaro»1. Lo ritroviamo, last but non least, nella testimonianza di Tommaso Buscetta, in riferimento a un periodo ancora successivo (gli anni settanta) in cui la mafiaCosa nostra avrebbe perso le proprie antiche virtù, venendo sfigurata dall’avidità di ricchezze e dall’urgenza di potere dei capi. Però i soggetti storici hanno fatto ricorso alla dicotomia vecchia/nuova mafia anche con altre intenzioni, per introdurre il fattore mutamento in una fenomenologia di per sé pensata come immutabile. È questo il significato con cui essa comparve già nel 1875 nei rapporti del delegato di polizia di Monreale sugli stuppagghieri. In questo senso lo schema può essere utilizzato anche dallo storico, purché si abbia consapevolezza che la storia della mafia vive di ibridazioni, piuttosto che di contrapposizioni tra vecchio e nuovo. E possiamo utilizzarlo per capire come la mafia si incontri con gli elementi di discontinuità riconducibili, in Sicilia come in qualsiasi altro paese, alla storia generale. Con la modernità. Citiamo alcuni di questi grandi elementi innovativi. 1) Le lotte sociali, in particolare contro il latifondo. 2) Lo sviluppo economico. 3) I grandi mutamenti del sistema politico, dal liberalismo al fascismo, dal fascismo alla Repubblica. 4) Gli stimoli poderosi provenienti dall’altra sponda, quella americana. Il mutamento assunse un carattere drammatico nel periodo successivo sia alla prima che alla seconda guerra mondiale, fasi storiche privilegiate per l’applicazione dello schema vecchia/nuova mafia. Ragioneremo ora del primo dopoguerra. 1. Corleone. Corleone, paese della provincia di Palermo distante circa 54 km dal capoluogo, nel 1911 aveva 19 000 abitanti. Era già allora un centro di mafia ma soprattutto di latifondo. I 22 000 ettari di terre, che formavano la larga parte delle risorse disponibili per i contadini del paese, appartenevano a tre famiglie di notabili che vivevano a Palermo ed erano date in gestione a gabellotti locali. Corleone è stata anche un centro molto importante delle lotte contadine sin dal tempo del movimento dei fasci. Sarà dunque opportuno ripartire da qui, e dal fondatore e leader del fascio corleonese, Bernardino Verro (18661915). Veniva da una famiglia del ceto medio paesano, aveva una discreta istruzione, era di formazione repubblicana. Acquisì con la sua attività politica grande prestigio in paese e nei paesi circostanti. Nel 1892, punto più alto del movimento, obbligò gli esercenti a sottoscrivere patti agrari più favorevoli ai contadini, che divennero noti a livello nazionale come «patti di Corleone», e furono assunti a modello anche da Sonnino. Stando a una documentazione di polizia (relativa al 1893, ma di molti anni più tarda), Verro stesso avrebbe ammesso di aver prestato giuramento, secondo il rituale che noi ben conosciamo, alla locale «setta» mafiosa detta dei «fratuzzi» (dei fratellini); la quale era guidata da Michelangelo Gennaro, gabellotto dell’ex feudo di Ponzonotto, e da altri elementi della sua stessa condizione sociale2. Ammettiamo pure che il documento dica il vero. Perché Verro si risolse a quel passo? Forse sperava che la setta potesse parargli le spalle, nel momento della contrapposizione più aspra con l’autorità, in prossimità della proclamazione dello stato d’assedio. Forse riteneva che i nemici del popolo fossero in prima istanza i feudatari, i quali in città consumavano pigramente la rendita derivante dal lavoro dei contadini, piuttosto che i compaesani impegnati nella gestione dell’economia locale. Forse, in quella congiuntura rivoluzionaria, non metteva il problema della legalità borghese al primo posto nei propri pensieri.
Noi possiamo paragonare il suo caso a quello (a noi già noto) di Vito CascioFerro, divenuto, da dirigente del fascio di Bisacquino, capomafia del paese. E possiamo provare a contestualizzarlo. La storiografia ha evocato il concetto di fasci «spuri», cioè opportunisticamente costituiti dai partiti e dai notabili paesani per inserirsi in un flusso vorticoso che stava sconvolgendo gli equilibri del potere locale nel suo paese. I mafiosi cercarono di inserirsi anche loro, e noi possiamo rubricare in questo senso l’adesione al socialismo di CascioFerro. Il seguito della sua carriera lo conferma. Aveva promesso alle autorità che «mai più si sarebbe interessato di politica», ma in realtà la politica da cui si allontanò era quella socialista, visto che si mise a disposizione di un deputato conservatore quale capoelettore, che funse da uomo di fiducia di grandi proprietari palermitani prendendo in affitto i loro latifondi. Questi illustri personaggi lo onoravano «della loro amicizia e protezione»3. CascioFerro acquistò un palazzotto nella piazza del paese, e si iscrisse al circolo dei civili: era diventato lui stesso un notabile. Abbiamo paragonato i due casi ma bene ne vediamo le differenze. Quello di Corleone non era un fascio «spurio», bensì coerentemente socialista, e Verro si allontanò subito dalle alleanze mafiose. Disse: «da quando il socialismo è divulgato, è diminuita la bassa delinquenza, sperando che col tempo verrà pure a diminuire l’assassinio ordinato dall’alta mafia»4. Era il 1902, e lui svolgeva un ruolo primario nell’organizzazione dei grandi scioperi agrari che ebbero il loro epicentro appunto a Corleone, espandendosi nella parte meridionale della provincia di Palermo e in quella settentrionale della provincia di Agrigento. Va detto che, in quella fase e in quei luoghi, il movimento non coinvolgeva tanto i braccianti quanto i borgesi, il ceto medio contadino. Come ha scritto in sede storiografica Giuliano Procacci, «è appunto questa particolarità», questo protagonismo di gruppi intermedi, a conferire al caso siciliano «tratti di profonda originalità nel movimento contadino italiano»5. Nel 19021903 puntava sulla trasformazione dell’affitto in mezzadria, e in generale sul miglioramento dei patti agrari, ma col procedere degli anni, diciamo a partire dal 1906, conseguì i suoi successi piuttosto organizzando affittanze collettive – cooperative che prendevano in affitto i latifondi e poi ne distribuivano le terre in piccole quote ai loro soci. Al 1913, 313 tra affittanze e casse rurali ponevano la Sicilia al secondo posto nel movimento cooperativo italiano. Enrico La Loggia, avvocato agrigentino già vicino ai fasci, leader socialriformista della Federazione siciliana delle cooperative, destinato a una lunghissima e importante carriera politica, definiva le affittanze «organi pacifici di una nuova trasformazione economicosocialeagraria, tranquillamente sviluppantesi tra piccoli affittuari e mezzadri»6. La componente maggioritaria del movimento era la sua, quella moderata. C’era anche una componente cattolica. E c’era anche quella più radicale che si rifaceva al Partito socialista «ufficiale». Per parte loro i latifondisti, inizialmente ostili, si mostrarono disponibili al dialogo con una controparte che non metteva in discussione i loro diritti di proprietà: e anzi garantiva il livello delle loro rendite facendo concorrenza ai gabellotti. Però tra i gabellotti, come ben sappiamo, c’erano soggetti che, per i loro legami col mondo mafioso, usavano risolvere i problemi di concorrenza in maniera tutt’altro che pacifica. E a un certo punto le affittanze cominciarono a far loro una concorrenza efficace; tra l’altro a Corleone, dove la cooperativa socialista, al 1912, gestiva 3500 ettari di terreno con 1000 soci. Verro si era salvato per un pelo da un attentato nel 1910, e per un periodo aveva lasciato il paese. L’anno seguente venne assassinato un altro reduce dei fasci, al pari di Verro aderente al Psi: Lorenzo Panepinto, maestro elementare, sindaco del paese di Santo Stefano Quisquina, provincia di Agrigento, profonda Sicilia. Significative alcune lettere scritte in quella fase da Verro a Colajanni per chiedergli aiuti e consigli, e per lamentare il sostegno che Gennaro e la mafia dei fratuzzi trovavano nel sottoprefetto, nel deputato liberalconservatore Salvatore Avellone – che noi abbiamo già incontrato mentre faceva l’apologia di Palizzolo al processo di Bologna – e in tanti altri: Avellone – spiegava Verro – non è l’ispiratore o il mandante [dell’attentato], ma è il deputato del collegio che deve rimanere ligio ai parenti e ai grandi elettori. Io stesso l’ho veduto nel caffè del Teatro Massimo a Palermo confabulare con Gaspare Tedeschi, palermitano residente a Villafrati, dove la fa da capomafia e tenne nascosto il Giovanni Mancuso, uno dei due, quello che mi sparò e che poi fu sparato allorquando lo trasportarono alla clinica di Palermo tenuta dal prof. Giuffrè, fratello del capomafia di Caltavuturo e consapevole dell’affittanza che provocò le mie fucilate. Che rete! Che matassa!7
Ancora la metafora della rete. Lo sguardo di Verro coglieva quella che teneva insieme prefetti e deputati, medici e capimafia, e una parte consistente della provincia di Palermo: i paesi dell’area interna (Corleone appunto, ma anche Caltavuturo, Villafrati e Caccamo) con le piazze, i teatri, i caffè, le istituzioni del capoluogo. Verro se la sentiva addosso tutta, quella rete. Nondimeno, quando nel 1914 i socialisti vinsero a Corleone le elezioni amministrative, accettò di fare il sindaco, per senso del dovere. Finì anche lui assassinato nel 1915. Gli assassinî di Panepinto e Verro ci mostrano una mafia dal profilo accentuatamente politico. Naturalmente la politica per cui uccideva a Santo Stefano o a Corleone corrispondeva all’amministrazione locale, e a una lotta per il controllo delle risorse in cui il movimento delle affittanze collettive entrava in concorrenza con i gabellotti. Può essere
significativo che sia Panepinto sia Verro militassero nel Partito socialista «ufficiale», piuttosto che nella galassia socialriformista. In alcuni paesi i socialisti potevano essere forti. Ma a livello provinciale o comunque sovralocale – contrariamente ai socialriformisti – erano deboli, e alla Camera non avevano deputati propri. Erano isolati nel loro radicalismo. La polizia non li tutelava. Panepinto e Verro inaugurarono un martirologio destinato purtroppo a essere lungo, una striscia di sangue che si sarebbe allargata sia nel primo che nel secondo dopoguerra8. E infatti nel 1920 l’amministrazione municipale socialista di Corleone riuscì a reggere ma nel gennaio 1920 il movimento ebbe un altro caduto, Giovanni Zangara. Seppur gravemente ferito, denunciò i suoi aggressori. Erano più o meno gli stessi che erano stati (inutilmente) incriminati per il delitto Verro: i gabellotti della cosca dei fratuzzi. Stavano facendo perno su un’associazione paesana, il «Circolo agricolo», per costituirsi in partito politico. Si collegarono a Palermo con Vittorio Emanuele Orlando (18601952): figura di grandissimo giurista e uomo politico, il «presidente della vittoria» che aveva guidato il governo italiano nella parte finale della guerra mondiale. Vinsero le elezioni amministrative. L’amministrazione municipale non ne guadagnò in efficienza. Tra gli altri documenti, citiamo una relazione prefettizia che spiegava come il dissesto del bilancio fosse dovuto al fatto che «i membri della giunta comunale e i loro parenti [erano] tassati per cifre irrisorie»; d’altronde, spiegava, non era possibile urtare gli interessi di elementi «tutti appartenenti alla mafia, e in quanto tali protetti da consiglieri e assessori»9. Come si vede, nel nuovo quadro politico del dopoguerra la mafia del latifondo trovò risorse nuove, un nuovo protagonismo anche politico, e accentuò la vocazione terroristica antisocialista10. Facciamo un altro caso, quello di Piana dei Greci, oggi Piana degli Albanesi. Paese consapevole della propria specificità etnicoreligiosa (albanese appunto e di rito greco), era governato dai socialisti ininterrottamente dai tempi dei fasci. Una sequenza micidiale di assassinî rese impotente il movimento di fronte alla ripresa delle forze cosiddette democratiche, in realtà conservatrici, guidate da Francesco Ciccio Cuccia (18761957), che sin dall’anteguerra, da cocchiere qual era, si era fatto largo nel mondo e degli affari e della mafia. Aveva già un enorme curriculum di denunce per reati di sangue e di ogni altro tipo (nonché di assoluzioni) quando, nel 1922, personalmente divenne sindaco. I conservatori plaudirono. I poliziotti che conoscevano la sua caratura criminale tacquero11. D’altronde ormai il sindaco si fregiava della Croce di Cavaliere della Corona d’Italia. Aveva proprietà, aziende e interessi sia nel suo paese natale, Piana, che nell’agro palermitano, «sfruttando le particolari forme dell’economia rurale» nell’uno e nell’altro12: latifondo e coltivazioni intensive. Fonti di periodo fascista lo indicavano già allora come il numero uno dell’intera organizzazione mafiosa su scala provinciale; anche se – come vedremo – fu incriminato solo più tardi, quando la situazione politica cambiò ancora. Riportiamo però sin d’ora l’argomento con cui si difese: essendo un uomo agiato non poteva essere un criminale, e poi chi lo accusava rivelava una mentalità ristretta da vecchio mondo – di certo nel nuovo mondo egli sarebbe stato considerato solo un imprenditore di successo, un self made man. Com’è che conosceva così bene i codici culturali d’oltreoceano? Perché lui e il fratello avevano in America importanti relazioni d’affari. 2. Villalba. Usciamo dalla provincia di Palermo e procediamo verso l’interno fino alla parte settentrionale di quella di Caltanissetta, detta del Vallone. E arriviamo sino a Villalba, altro paese tipicamente latifondistico. Lo scelgo per il ruolo importante svolto dal locale caporione, Calogero Vizzini detto don Calò (18771954), nella storia della mafia e anche nel suo mito: due aspetti che molto spesso si intrecciano. Il mito ha assegnato a don Calò il ruolo del capo dei capi della mafia siciliana, per varie ragioni su cui torneremo man mano. Citiamo però subito il contributo dato da un libro intitolato Mafia e politica, di grande fortuna editoriale, scritto nel 1960 da Michele Pantaleone, socialista di Villalba, dunque compaesano e avversario politico di Vizzini. Villalba nel 1911 aveva poco più di 4000 abitanti. I contadini lavoravano gli ex feudi Miccichè e Belìci, rispettivamente di proprietà della famiglia principesca palermitana dei Trabia, e del duca Francesco Thomas de Barberin residente a Parigi. I Trabia conservavano un fermo controllo sul primo. Invece il secondo veniva lasciato in mano a intermediari, che erano poi gli immancabili Guccione di Alia, grandi gabellotti nonché grandi manutengoli su cui già ci siamo soffermati. I borgesi del ceto medio contadino avevano una tradizione di combattività: erano scesi in sciopero nel 1875, 1893, 1901, 1907. Il conflitto sociale li vedeva alternativamente schierati «con i gabellotti contro il feudatario o con questi contro i gabellotti»13. Parliamo di una zona forte del partito clericale, conservatore sì ma che non disdegnava di organizzare i borgesi anche per meglio fare concorrenza ai democratici. Al partito cattolico apparteneva don Calò Vizzini. Già manutengolo di banditi, era un membro della piccola élite paesana, di una famiglia che contava diversi preti anche molto influenti sul vescovo di Caltanissetta.
Nel 1908 la locale Cassa rurale cattolica chiese e ottenne l’affittanza del feudo Belìci. Vediamo come il sacerdote che la guidava celebrò il risultato: L’ideale era raggiunto l’usura quasi sparita; gli oppressori e gli intermediari sfruttatori eliminati. Il contadino con la sua libertà ha riacquistato l’amore dei campi e del lavoro; ora che è divenuto gabellotto e lavora per conto proprio […] sa che i sudori versati ritorneranno a lui in tanto ben di Dio14.
Don Calò aveva dato il suo contributo. Dopo aver preso personalmente in affitto i mille e più ettari di terra che formavano il feudo, conservò per sé la gestione di una parte consistente (290 ettari), e il resto lo concesse ai soci della Cassa. La transazione fu forse favorita dal fatto che il feudo Belìci venne nel 1909 acquistato da don Matteo Guccione di Alia. Dunque Guccione da grande gabellotto divenne latifondista, e Vizzini da notabile divenne gabellotto, oltre che un benefattore degli amici in paese. Poi, a sua volta, si trasformò nel 1916 in latifondista, acquistando a prezzi molto favorevoli un ex feudo di 500 ettari, dopo aver convinto i concorrenti a rinunciare alla gara di acquisto. L’anno seguente, 1917, venne arrestato per una truffa relativa alle forniture di equini all’esercito: ne seguì un processo, detto «dei muli», alla fine del quale l’accusa chiese una pesante condanna (20 anni), ma senza nulla ottenere. E ritorniamo al dopoguerra. Come si sa, sul fronte cattolico si formò un Partito popolare che nell’area di Villalba poteva contare su molti consensi – anche se su scala regionale i risultati da esso conseguiti sono definibili come discreti, se confrontati al dato nazionale. L’area democratica venne rivitalizzata dal variegato movimento combattentista (degli ex combattenti), un insieme di circoli e associazioni locali che diede il proprio contributo alle occupazioni contadine di terre del latifondo. I suoi aderenti pensavano che la patria dovesse loro qualcosa. Speravano di poter fungere da interlocutori dell’Opera nazionale combattenti (Onc: neocostituito ente governativo) in vista di una qualche riforma agraria. A Villalba organizzazioni combattentistiche promossero l’occupazione di entrambi gli ex feudi, Miccichè e Belìci, chiedendone la concessione in affitto. Guccione, nuovo latifondista, alla pari dei vecchi non gradiva le cooperative, le commissioni provinciali per le terre incolte, gli enti «espropriatori» come l’Onc. Tra occupazioni e disordini vari, non riusciva più a controllare quelle sue proprietà. Nel 1921 don Calò lo convinse, tagliando fuori i combattenti, a stipulare un preaccordo di compravendita con la locale cooperativa cattolica, e pilotò l’operazione, tra mille difficoltà, sino al successo. Ne ricavò ottima terra per sé, autorità e fama presso i suoi concittadini. Anche i combattenti ebbero la loro parte. Espressero la loro «eterna gratitudine» al capomafia15. La parabola di Vizzini riflette in maniera estremamente significativa uno dei percorsi più importanti della nuova mafia postbellica, adattatasi in maniera parassitaria ai nuovi andamenti del mercato fondiario e ai nuovi caratteri assunti dal movimento contadino16. Delineiamo il meccanismobase. Di fronte al crescere delle occupazioni delle terre, delle proteste, e alla diffusione di progetti di riforma agraria anche in settori politici tutt’altro che estremisti, i latifondisti hanno due opzioni: concedere la terra in affitto a canoni tenui o venderla. La seconda viene privilegiata da chi teme che arrivi davvero la riforma agraria, da chi dispera di poter trarre dalla terra un normale livello di rendita fondiaria, da chi è allettato dai prezzi crescenti. Entro il 192627, passeranno così di mano 341 feudi per un totale di 139 802 ettari. Poco più di un terzo delle alienazioni si realizza per trattativa diretta, e per il resto vengono utilizzati mediatori: singoli notabili o affaristi, cooperative, casse rurali, insomma componenti di macchine politiche locali17. Questi istituti sono in molti casi permeabili al potere mafioso. E i mafiosi hanno interesse allo sblocco del monopolio fondiario. Possono favorire gli amici e tagliare fuori i nemici dalla redistribuzione della ricchezza che ne consegue. Ne fanno un momento importante nel più generale processo di mobilità che porta molti di loro nei ranghi della borghesia. Un po’ come Ciccio Cuccia, capomafia e sindaco di Piana dei Greci, anche Santo Termini, boss mafioso e sindaco di San Giuseppe Jato, oppone quest’argomento a chi lo accusa di mafia (1926): sono una persona di condizione agiata, con un vasto giro d’affari nel commercio dei cereali e dei vini. E in particolare dirà: «In società con altri ho fatto diversi affari acquistando i terreni dell’exfeudo Pietralunga (proprietà Forcella) per tre milioni rivendendoli per circa quindici milioni a spezzoni. […] Pertanto data la mia posizione economica non è concepibile che io mi sia dedicato ai reati contro la proprietà»18. Noi piuttosto diciamo che, se non fosse stato un capomafia, non avrebbe conseguito in quel tipo d’affari il risultato di quintuplicare il capitale. Ma torniamo a don Calò Vizzini da Villalba. Nel dopoguerra, la sua scalata al potere sembrava inarrestabile. Il vescovo di Caltanissetta spiegò che a quel tempo appariva non tanto un mafioso quanto «un uomo ricco, potente, temuto», un «cavaliere, più volte milionario», che possedeva «larghe tenute anche fuori dalla provincia»19. E, oltre ai suoi interessi in agricoltura, bisogna considerare quelli nel settore zolfifero. Su questo versante Vizzini ottenne grossi prestiti dal Banco di Sicilia, e partecipò a Londra alle trattative per un cartello internazionale dell’acido solforico (1922) con altri «industriali» dello zolfo, con i dirigenti della massima società chimica italiana, la Montecatini, con il
Gotha dell’industria chimica mondiale20. Finita la congiuntura postbellica, peraltro, ebbe problemi economici. E anche, come vedremo, con la legge. Noi incontreremo ancora, diverse volte, don Calò nel corso di questo libro. Voglio però anticipare alcune conclusioni su di lui. Ribadisco che Vizzini non fu il capo dei capi. Fu magari un personaggio più visibile di altri, perché collocato sul vago confine tra mafia, affari e politica, e in un’area di latifondo in cui precocemente si affermarono forze politiche di ispirazione cattolica, destinate a confluire nella Democrazia cristiana, che cioè rappresentavano il futuro. Il latifondo non è l’unico e probabilmente nemmeno il più importante dei contesti in cui la mafia si è sviluppata. Però la questione agraria, già al tempo dei fasci siciliani e all’inizio del Novecento, a maggior ragione nel primo e nel secondo dopoguerra, rappresentò la più importante di quelle «finestre» politiche di cui, come sappiamo, c’è bisogno perché la mafia si renda palese. Parliamo di personaggi che non si limitarono a fungere da «guardiani del feudo» ma che trassero profitto dalla sua crisi. La mafia di don Calò era nuova, perché capace di stare al passo coi tempi. Fino a un certo punto, naturalmente. Vizzini prese posizione nell’ala conservatrice del Partito popolare e non mancò di partecipare alle iniziative di tono francamente reazionario che a Palermo (e a Caltanissetta) portarono alcuni grandi proprietari a costituire un «Partito agrario» per far fronte ai movimenti contadini: alla «guerra civile» che si stava preparando, stando all’interpretazione estremista di un leader di questo gruppo, Lucio Tasca Bordonaro conte d’Almerita (18801957). Si tratta di un personaggio importante sul versante politico della nostra storia. Al pari del vecchio Turrisi Colonna, era sì un latifondista, ma anche un imprenditore (vitivinicolo) d’avanguardia. Il suo agrarismo aveva tinte accesamente sicilianiste, tant’è che rivendicava «al popolo di Sicilia l’onore di avere conservato nell’animo la fiaccola secolare dell’indipendenza»21. Poi si moderò, accettando dal regime la carica di rappresentante dei proprietari nell’organismo preposto al coordinamento dell’economia locale, il Consiglio provinciale dell’economia. Tra don Lucio Tasca e don Calogero Vizzini, tra Palermo e Villalba, si creò allora un asse che, come vedremo più avanti, sarebbe rimasto ben saldo attraverso il tempo. 3. Vecchia e nuova politica. La mafia del dopoguerra era nuova anche perché si trovò ad agire in un quadro politico del tutto nuovo. Il liberalismo italiano si dimostrò incapace di padroneggiare i traumi e i rancori collettivi sedimentati dalla prima guerra mondiale. Non resse, tra l’altro, alla prova del nuovo sistema elettorale proporzionale. Non seppe contrastare l’offensiva squadrista e, dopo la marcia su Roma dell’ottobre 1922, i suoi rappresentanti si adattarono a sostenere un governo di coalizione guidato dal fondatore e duce indiscusso del fascismo, Benito Mussolini. Si aprì una fase che, paradossalmente, stava a metà tra vecchio e nuovo, tra restaurazione e rivoluzione. In questo quadro gli storici collocano in genere la Sicilia con qualche difficoltà. Al momento della marcia su Roma, il Partito nazionale fascista (Pnf) era quasi inesistente nell’isola, se non nel Siracusano. Era in vista un assalto trasformistico al carro del vincitore, e Mussolini diede ai prefetti il compito di regolare l’afflusso: decidere a quali dei gruppi già convertiti al nazionalfascismo fosse opportuno affidare la gestione degli organismi del partito, a quale dei gruppi «fiancheggiatori» appoggiarsi. Il punto era: come evitare che la nuova politica fosse contaminata dalla vecchia? Naturalmente anche la vecchia politica, quella liberale, si poneva il problema opposto: come condizionare la nuova e guadagnarsi uno spazio di contrattazione. Se lo poneva certo, a Palermo, il «fiancheggiatore» più importante, Vittorio Emanuele Orlando, forte del suo prestigio di «presidente della vittoria», della sua statura politica e anche intellettuale. Vedremo anche più avanti, analizzando vari racconti dall’interno dell’organizzazione mafiosa, come i mafiosi stessi tendano a dipingere la loro onorata società come onnipotente, capace di controllare tutto e farsi servire da tutti. Fa parte della loro ideologia. Il più celebre tra gli informatori dall’interno della storia della mafia, Tommaso Buscetta, in un librointervista edito nel 1994, ha evocato proprio Orlando, vantandosi (non so dirlo altrimenti) che la mafia abbia annoverato nelle proprie file anche lui, un presidente del Consiglio. Ha precisato che di questo fatto gli avevano parlato, «in diverse occasioni, parecchi uomini d’onore»22. Io devo esprimere le mie perplessità. In generale quella siciliana restava una società gerarchicamente ordinata, fortemente classista, ancora nel dopoguerra (nonostante tutti i mutamenti di cui abbiamo detto). Immagino che il più delle volte il principe Tizio o il deputato Caio guardassero ai mafiosi dall’alto in basso, considerandoli come utili strumenti, al massimo con paternalistica condiscendenza. Mi sembra improbabile che un personaggio come Orlando si sia sottoposto a un rito di affiliazione in qualche magazzino di agrumi accanto a trafficanti e tagliagole. È invece probabile che abbia avuto a che fare con mafiosi quanto meno quando si presentava al Parlamento nel collegio di Partinico, cioè sin dal 1897. Non dispongo di fonti, ma immagino si giustificasse coi soliti argomenti: i testi da lui
scritti su storia e cultura siciliana hanno un’impostazione decisamente regionalista, e lui era anche parente di Pitrè. Sull’aspetto politico, dispongo invece di una sua significativa ancorché tardiva (1949) testimonianza, nella quale spiegava come, in tempi di collegio uninominale, si sentisse in dovere di rappresentare secondo una logica quasi avvocatizia tutti gli interessi esistenti nel suo collegio: Ora se questa unanimità di sentimenti e di voti includesse elementi che si qualificano come mafia, non per questo verrei meno alla solidarietà che mi stringe a tutta quella gente, anche se per ciò dovessi io stesso passare come un mafioso23.
Orlando pensava che gli spettasse garantire il contatto tra il suo collegio e il governo, e anche in questa logica prese posizione nel listone fascista in occasione delle decisive elezioni politiche del 1924, tra i fiancheggiatori del governo Mussolini. Fu il più importante dei leader liberaldemocratici siciliani a farlo, ma non certo l’unico. Visto che tutti costoro, nella Sicilia occidentale, erano in qualche modo connessi a elementi di mafia, quanto meno per trarne bassi servizi di galoppinaggio elettorale, possiamo dire che la mafia per questa via venne anch’essa a fiancheggiare il fascismo. Ma per molti aspetti anche ci entrò dentro. Citiamo il caso di Bisacquino, dove nel 1923 il comizio inaugurale del fascio fu pronunziato sui balconi del palazzotto appartenente a personaggio a noi ben noto, Vito CascioFerro24. Citiamo anche quello di Piana, dove come sappiamo un vero boss come Francesco Ciccio Cuccia era diventato sindaco rovesciando col terrore e nel sangue l’amministrazione socialista in un paese di tradizione rossa. Di lì a poco sarebbe diventato noto in tutt’Italia come il capomafia per eccellenza perché Mussolini in persona, nel suo discorso parlamentare più famoso (il discorso dell’Ascensione), lo chiamò in causa in relazione a un episodio verificatosi durante il suo viaggio in Sicilia nel 1924 – allorché, spiegò, l’«ineffabile» sindaco si era permesso di offrire protezione a lui, al capo del governo nonché duce dell’Italia fascista. Una precisazione: Mussolini si pronunciò in tale senso nel 1927, essendosi guardato bene dal fare pubbliche denunce di questa natura nel 1924, quando Cuccia era strettamente alleato con i fascisti. Mussolini e Cuccia, lo Stato e la mafia che provavano a transitare dal vecchio al nuovo. Che cosa si saranno detti veramente? Potremmo citare molti altri casi in cui capimafia costituirono fasci o li pilotarono occultamente, di amministrazioni municipali del Palermitano dipinte dai rapporti di polizia come «fascistemafiose»25. E, in vista delle elezioni del 1924, le autorità si proposero di allargare il raggio delle collaborazioni. Ad esempio a Cinisi dove, spiegò il questore al prefetto, «per dare maggior impulso alla votazione favorevole alla lista nazionale», sarebbe bastato restituire a una serie di individui il porto d’armi che gli era stato tolto dalla questura stessa trattandosi di mafiosi. Alla fine, si trattava di «ricchi possidenti», disponibili a collaborare con l’autorità «per assicurare la tranquillità del paese»26. A Palermo, in occasione delle elezioni del 1924, anche l’uomo nuovo del fascismo palermitano, il giovane medico ex nazionalista Alfredo Cucco (18931968), cercò voti tra gli elementi di mafia. E la mafia glieli concesse. Lo capiamo analizzando i flussi elettorali provenienti dalle borgate. Poi le cose cambiarono. Non è questa la sede per ricostruire i passaggi traumatici (a cominciare dall’assassinio Matteotti) che segnarono la costruzione di un regime liberticida nel biennio successivo alle elezioni. Diciamo solo che le elezioni municipali tenutesi a Palermo il 2 agosto del 1925 rappresentarono l’ultima votazione libera in Italia prima che calasse sul paese la cappa del fascismo. Precisiamo peraltro che quell’ultimo scontro dell’agosto 1925 non oppose fascismo e antifascismo. La lista scesa in campo a Palermo contro Cucco & C. non fu antifascista quanto prefascista, tant’è che venne guidata da Orlando, appena sceso dalla carovana filogovernativa. E non possiamo stupirci ascoltando le parole con cui, in un comizio, si rivolse agli elettori palermitani: Io vi dico che se per mafia si intende il senso dell’onore portato sino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal segno si tratta di contrassegni indivisibili dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo! Che se invece per mafia si intende quella delinquenza comune che abbiamo noi e che hanno tutti i paesi dell’Italia e del mondo…27.
… In questo caso Vittorio Emanuele Orlando, illustre giurista nonché presidente della vittoria, non poteva entrarci. Il giro retorico non era nuovo. Io rilevo che era stato usato da un deputato della Sinistra nel 1875, nel corso della discussione parlamentare sulle leggi straordinarie di Ps28. Singolare continuità della tradizione sicilianista, e del suo uso del tema della mafia! Però non era detto che la «dittatura moderna» del fascismo potesse essere contrastata in quell’estremo Sud come era stato contrastato il centralismo/autoritarismo della Destra postrisorgimentale. Citiamo tre documenti, due lettere e un discorso, per mostrare gli argomenti su cui poteva appoggiarsi una nuova politica. La prima lettera è indirizzata nel 1923 al segretario del Pnf dal segretario del fascio di Alcamo. Mussolini è al governo ma il sistema è sempre lo stesso. Il governo fascista vuole emanciparsi dalle lue del parlamentarismo? Può
farlo partendo dalla Sicilia, combattendo la sua filiazione più perniciosa. «Se si vuole salvare la Sicilia bisogna spezzare questo strano genere di organizzazione che è la mafia; se il fascismo vuole rendersi abenemerito della Sicilia deve risolvere questo problema, ed allora potrà essere sicuro di piantare nell’isola tende ancor più solide di quanto abbia fatto nel settentrione debellando il bolscevismo»29. Non tutti e non sempre cadono nella trappola scavata da Pitrè. La seconda lettera è mandata sempre nel 1923 alla direzione del Pnf da Achille Starace, importante dirigente incaricato di monitorare le situazioni pugliese e siciliana. Nella parte orientale dell’isola, scrive, è forse possibile chiamare a raccolta le vecchie forze politiche, ma in quella occidentale bisogna stare attenti alla mafia, troppo «pronta a passare armi e bagagli al nostro servizio»30. Un partito centralizzato, non più impastoiato nelle «beghe» locali, può cambiare strada. Su questa strada si pone il discorso pronunciato da Mussolini nel corso del suo viaggio in Sicilia del maggio 1924, non so se prima o dopo essersi abboccato con Ciccio Cuccia. Il duce identifica nella lotta alla mafia il banco di prova dello Stato «rigenerato» dal fascismo: «Non deve più oltre essere tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra»31. Sta attento, come si vede, a non urtare le sempre vigili suscettibilità regionalistiche. Però pensa di poter ottenere su questo terreno nuovi consensi, in Sicilia e anche su scala nazionale. Torniamo dunque alla mafia. Disponiamo su quella del Palermitano, e per questo periodo, di una testimonianza di straordinario interesse, proveniente dall’interno dell’organizzazione stessa, datata 1937. Fu raccolta, insieme a molte altre, dagli inquirenti dell’Ispettorato interprovinciale di Ps per la Sicilia, organismo investigativo specializzato costituito nel 1933. Sull’Ispettorato torneremo. Utilizziamo invece ora la testimonianza. Il testimone si chiamava Melchiorre Allegra ed era un medico, nato nel 1881 a Gibellina, provincia di Trapani, ma che esercitava la professione a Palermo. Un mafioso del ceto professionale, istruito, laureato. Si avvicinò all’organizzazione nel corso della guerra, nella veste di medico militare. Poteva concedere esenzioni e risparmiare ai giovani la partenza per il fronte: e fu per questo che nel 1916 entrò in contatto con una «persona di riguardo, cioè individuo rispettato e temuto», Giulio D’Agati. Questo, e altri, lo portarono all’interno dell’organizzazione. Lasciamo per ora da parte la descrizione della struttura dell’organizzazione stessa, data da Allegra stesso agli inquirenti del 1937: che è di straordinario valore, e sulla quale ritorneremo nel prossimo capitolo. Parliamo delle persone che ad Allegra vennero indicate come affiliate o comunque collegate alla mafia. Nel racconto del medico, ricorrono ad esempio due nomi di personaggi che abbiamo già conosciuto: Calogero Vizzini, da lui incontrato a Roma, nel grande albergo in cui alloggiava con una sua amante; e Lucio Tasca Bordonaro, che a suo dire impiegava il proprio prestigio per mediare tra due opposte fazioni della mafia palermitana, intente a scannarsi. Un punto cruciale della testimonianza riguarda uno «stato maggiore» della mafia che si riuniva in un «quartiere generale» palermitano, la Birreria Italia, dove con i palermitani propriamente detti confluivano «molti “rappresentanti” di paesi che essendo diventati benestanti mediante losche attività, s’erano trasferiti a Palermo». D’altronde, precisa Allegra, a Palermo aveva «sempre ha vissuto la parte più importante della “mafia”, camuffata sotto le più diverse forme, umili ed elevate»32. Dello «stato maggiore» facevano parte, tra gli altri capimafia che erano anche amministratori comunali in provincia, altri due personaggi che abbiamo già citato: Santo Termini di San Giuseppe Jato e Ciccio Cuccia di Piana dei Greci. C’erano anche Francesco Motisi detto «nasca fradicia», e Salvatore Maranzano di Castellammare del Golfo, che ad Allegra fu presentato come «rappresentante» della provincia di Trapani, ma che doveva avere una certa influenza anche a Palermo. Infatti fu lui, insieme a Motisi, ad accompagnare Allegra nel 1924 per un tour elettorale per le borgate. Torniamo al nodo decisivo su cui già mi sono soffermato. Al medico era stato richiesto dallo «stato maggiore» di presentarsi alle elezioni per l’opposizione, nell’ambito di una complicata strategia che portò i mafiosi a dividersi «in parti uguali, per la lista democratica e per la lista fascista» guidata da Cucco, nel tentativo di preservare i loro contatti in entrambi i campi. Però l’operazione, spiega il nostro testimone, fallì perché i singoli capielettori mafiosi finirono per seguire «il principio di venalità», cioè per vendere i loro voti al miglior offerente33. La mafia non era mai stata una superpotenza politica, capace di muoversi in prima persona a prescindere dall’input del notabile di riferimento. Tanto meno ci riuscì in quel momento storico decisivo, mentre le cose cambiavano con grande rapidità. In generale Allegra, dicendo degli assetti della mafia palermitana degli anni venti, molte informazioni ci dà sulla connection americana. Qui siamo a un altro punto di passaggio tra una «vecchia» e una «nuova mafia». Ci dice esplicitamente di connessioni fattesi più strette. Racconta ad esempio di una «commissione» giunta da New York per sanare una guerra di mafia insorta a Palermo per la spartizione di una grossa torta, quella dei lavori di ristrutturazione del porto cittadino. Ricerche storiche recenti confermano e allargano il quadro delle interconnessioni, con spostamenti di killer dall’una all’altra sponda34 – che qui non ricostruirò per non moltiplicare all’infinito delitti e intrighi. Noi le possiamo arguire ragionando sui nomi che sono al centro del suo racconto.
Il Motisi di cui abbiamo detto, capo della famiglia di Pagliarelli, era un cugino e omonimo di Francesco Motisi detto u miricanu, «l’americano», a noi ben noto per i suoi soggiorni d’anteguerra a New Orleans e a Liverpool, e che era nel dopoguerra ritornato a casa, riprendendo il proprio posto nelle alte sfere dell’organizzazione. Il Giulio D’Agati che originariamente l’aveva contattato era un agiato proprietario e commerciante di agrumi, boss di Villabate ma dotato di grande influenza quanto meno sulla parte orientale dell’hinterland palermitano. Osserviamo la grafica. La figura di D’Agati ci porta a Giuseppe/Joe Profaci (o Proface, com’era detto in Sicilia), uno dei cinque della seconda ondata siculoamericana cui ci siamo riferiti nel capitolo precedente. Al momento del suo arrivo in America (1922), Profaci era pregiudicato per omicidio e faceva parte appunto della cosca di Villabate. Anche qui, ricerche storiche recenti hanno sottolineato la tenuta nel tempo di questo rapporto intercontinentale e dei sanguinosi conflitti che ne conseguirono. A Villabate il fratello di Profaci (Domenico) venne assassinato e lo stesso boss, D’Agati, fece la medesima fine, ma i membri dell’opposta fazione furono addirittura sterminati35. Due di loro, scappati a New York, furono fatti fuori nel 1926 da Joe Profaci e dai suoi, almeno secondo la polizia italiana. Mentre si manteneva così in contatto col vecchio mondo, Profaci mostrava grandi capacità di inserirsi nel nuovo mondo. L’anno seguente (1927) Profaci fu sorpreso a Cleveland, mentre partecipava a un meeting tra bootlegger italiani36. C’era anche Vincenzo Mangano, un palermitano nato nel 1887, e giunto in America nel 1905. Era già un personaggio di qualche rilievo nel sottomondo criminale, e a quanto sembra faceva da punto di riferimento per gli uomini della seconda ondata. Figura 7. Da Villabate all’America.
Fonte: Patti 2014, p. 91.
E come abbiamo visto Allegra fu in contatto, tra gli altri dello stato maggiore della Birreria Italia, con Salvatore Maranzano. Si tratta di un personaggio di grande importanza nella nostra storia. Giunse a New York nel 1925, ultimo
tra i boss della seconda ondata. 4. Gente di Castellammare. Come sappiamo (si veda il primo capitolo) Castellammare del Golfo, cittadina marinara a metà strada tra Palermo e Trapani, era in Sicilia un centro di mafia di una qualche importanza. Aggiungiamo ora che divenne tra le due guerre una vera capitale della mafia siculoamericana. Di una nuova mafia a struttura transcontinentale. Tra gli esponenti della seconda ondata mafiosa siculoamericana, ben tre venivano da Castellammare: prima di Maranzano, erano arrivati Stefano Magaddino (nel 1919) e Peppino Bonanno (nel 1924)37. Si osservi l’albero genealogico. I primi due, oltre che compaesani, erano parenti per via materna. Condividevano anche una condizione sociale in qualche modo intermedia nella stratificazione sociale di un paese siciliano, perché Magaddino padre faceva il carrettiere e Bonanno padre (che di nome si chiamava Salvatore) viene qualificato dai documenti come borgese, cioè come contadino agiato. Era quella anche la condizione sociale del padre di Maranzano. Figura 8. Albero genealogico della famiglia BonannoMagaddino.
Nella Castellammare del dopoguerra, un Francesco Buccellato, soprannominato «rovina», promosse un abigeato ai danni di un possidente che aveva per campiere uno dei Magaddino, Stefano che nell’albero genealogico è indicato come senior. Ne seguì una «feroce lotta» senza esclusione di colpi e risparmio di cadaveri anche di innocenti38, «lotta di preponderanza in seno alla maffia» tra il gruppo imborghesito ovvero consolidato dei Magaddino e quello emergente e più palesemente criminale («banda armata», lo definiscono le fonti) guidato da Buccellato39. Mafia «vecchia» contro mafia «nuova», anche qui. «Fra i due gruppi in lotta si verificarono frequenti soppressioni, grassazioni, e rapine e questa odissea ebbe riverberi persino in America, dove un fratello del Buccellato si vuole sia stato buttato vivo in una fornace»40. Siamo oltre oceano. In un’inchiesta del 1921 dell’«Italian Squad» c’erano in
effetti due Buccellato tra gli assassinati, e tra i sospetti assassini abbiamo lo Stefano Magaddino (18911974) che nell’albero genealogico è indicato come junior41 – aspirante boss della seconda ondata, omonimo, compaesano nonché nipote dello Stefano Magaddino senior ai danni del quale, nelle remote campagne intorno a Castellammare, era stato originariamente consumato lo sgarro che aveva dato il via allo scontro. Insomma: un’altra guerra intercontinentale di mafia, da aggiungersi a quella promanante da Villabate e a chissà quante altre. Gli inquirenti americani pensarono i castellammaresi come un Syndicate composto da killer a pagamento, e trovarono comodo addebitare a loro e alla loro misteriosa mafia tutti gli assassinî di italiani – in numero di 120! – commessi non solo a Brooklyn ma anche a Buffalo, Detroit, Pittsburgh, giustificandosi così in un certo senso non solo per aver lasciato impuniti tanti delitti, ma anche per non essere mai riusciti a comprenderne le ragioni. Parlarono di «good killers», inconsapevolmente introiettando la versione dei siciliani che si vedevano come uomini d’onore, «good people», secondo il modello mafioso consolidato in patria. Sta di fatto che, ancora nella scia di quel modello, nella gang convivevano businessmen impegnati nel settore delle lotterie clandestine e «duri» mobilitati per la difesa dei loro interessi42. Sta di fatto che Stefano Magaddino, quando venne rilasciato, ritenne più prudente trasferirsi a Buffalo43 dove nel 1923 chiamò a sé il fratello Antonio, nato nel 1897, il quale non ebbe mai guai con la giustizia in America mentre un gran numero di reati gli vennero attribuiti in Italia (omicidio, rapina, stupro, estorsione e – particolare significativo – fabbricazione nonché uso di passaporti falsi), molti dei quali commessi in data successiva al 1923: sembrerebbe dunque che egli abbia svolto le sue attività su entrambi i versanti per tutti gli anni venti44. In tempi di proibizionismo Buffalo, così prossima al Canada, poteva rivelarsi un punto nodale per il contrabbando degli alcolici acquistati oltre confine e immessi sul mercato statunitense. Grazie al proibizionismo, i Magaddino si trasformarono da uomini «di mano» in uomini d’affari45. E veniamo a Peppino Bonanno. Abbiamo detto che passò l’oceano nel 1924, però non era la prima volta. Lo aveva già fatto nel 1906, ad appena un anno di età, al seguito del padre Salvatore e della madre Caterina Bonventre, stabilendosi a Williamsburg, quartiere di Brooklyn. Si era poi reimbarcato per il paese natio, sempre con i genitori, nel 1912, dunque all’età di sette anni. Nel 1924, quando decise di tornare, stavolta da solo, lo fece da clandestino approdando prima in Tunisia, dove si fermò per un periodo ospite di uno zio, e poi in Francia da dove via Le Havre Cuba giunse in Florida. Fermato dalla polizia, si valse dell’aiuto di un inviato di Stefano Magaddino jr. ma non accettò l’invito a stabilirsi a Buffalo e decise di tornare nella Brooklyn in cui aveva abitato da bambino, nel sobborgo di Williamsburg o per meglio dire in quell’area limitata a poche strade e pochi blocks in cui si affollavano gli immigrati da Castellammare46. Qui venne accolto in casa di uno zio Bonventre che gli propose di imparare il suo mestiere, il barbiere. Ne rimase sconcertato: non era certo venuto in America per fare l’artigiano, e voleva essere un uomo «di rispetto» com’era stato suo padre sia nel vecchio che nel nuovo mondo47. Impiantò dunque con qualche compagno una piccola distilleria, senza che la polizia gli creasse alcun problema ma anche senza cavarne grandi guadagni. Traiamo queste informazioni da due libri: una biografia in un certo senso «autorizzata», scritta da un giornalista illustre, Gay Talese (1971), e un’autobiografia firmata proprio da lui, il boss ormai ottantenne (1983). Avvertiamo che si tratta di testi attendibili per alcuni versi, fuorvianti per altri, innanzitutto perché i fatti di violenza vengono pudicamente taciuti, e poi perché tutta la storia viene manipolata per renderla rispondente a una melensa ideologia patriarcale. Per questa ragione Bonanno padre (Salvatore) viene dipinto come un rampollo di antica schiatta nobiliare, e come il grande erede della «tradizione» (la parola mafia non viene usata). Invece, come abbiamo detto, si tratta solo di un borgese, che le fonti di polizia non schedano come capomafia. Il virus mafioso passa attraverso la famiglia della moglie, i Bonventre, e ancor più si manifesta nei Magaddino, di cui già qualcosa abbiamo detto. (Si veda ancora l’albero genealogico). D’altronde nemmeno costoro stanno ai vertici della gerarchia della mafia castellammarese, se dobbiamo credere alle stesse fonti di polizia. Queste attribuiscono la qualifica di «capeggiatori di alta maffia» a pochi altri, in particolare ad Antonino Minore, rampollo di una famiglia ascesa ai vertici sì con «il delitto» ma anche grazie ad acquisti fondiari in tutta la provincia di Trapani, e ad adeguate politiche matrimoniali48. Potrebbe essere (lui o un altro di quella famiglia) lo «zio Totò» cui nell’autobiografia Bonanno rispettosamente si riferisce. Non ne indica il cognome ma spiega che era il suocero di Maranzano – la cui moglie si chiamava in effetti Elisabetta Minore. Attenzione a questi nomi. Ritroveremo la famiglia Minore insediata ai piani alti dell’edificio della mafia del Trapanese anche nel secondo Novecento. Peppino Bonanno rimase precocemente orfano, ma un passo avanti nella gerarchia sociale (prima che in quella criminale) poté farlo frequentando una scuola superiore (l’Istituto nautico) a Palermo, grazie al sostegno finanziario degli zii Magaddino49. Maranzano, che sembra avesse studiato in seminario, aveva una cultura superiore, che usava per mettere in difficoltà i suoi interlocutori con qualche citazione in latino. Non era solo un intellettuale, peraltro. Bonanno spiega che si era fatto fama di duro nel periodo prebellico nella cittadina natia trasferendosi poi,
nell’immediato dopoguerra, a Palermo mettendo su il solito commercio di prodotti agroalimentari. Devo però segnalare che, nel suo pseudotestamento, Lucky Luciano lo vuole giunto a New York «appena finita la guerra», raccontandocelo a passeggio per le strade di Little Italy con atteggiamento da grande notabile, mentre raccoglie l’omaggio dei compaesani, «come se fosse un Papa che benedice la gente in strada». A lui, gangster giovane e americanizzato, non poteva piacere quell’«old bastard», rappresentante delle «sezioni locali delle vecchie società segrete, la mafia, la camorra e tutto il resto, importate dal vecchio paese»50. In effetti la contrapposizione tra i due sta al centro della storia che andiamo raccontando e della simbologia che intorno ad essa si è intrecciata. Maranzano dunque – come altri della sua risma – potrebbe aver attraversato l’oceano in più occasioni, in entrambe le direzioni, per affari di mafia o di importexport; però partendo, contrariamente agli altri, da un rango già consolidato in Sicilia. Ad attestarlo è non solo la (dubbia) testimonianza di Bonanno ma anche quella (più attendibile) del dottor Allegra, che come sappiamo lo ricorda come «rappresentante» della provincia di Trapani, come uno degli alti «papaveri» uso a riunirsi a Palermo presso la Birreria Italia all’inizio del 1925. Il boss castellammarese sbarcò nel nuovo mondo alla fine di quello stesso anno, con moglie e quattro figli. Sembra sia arrivato in Canada e da lì sia passato negli Stati Uniti soffermandosi per un certo periodo a Buffalo. Dichiarò di commerciare in pesce e organizzò in effetti una flottiglia di battelli da pesca con base a Sea Isle, nel New Jersey; poi acquistò due auto di lusso, una casa lussuosa nella parte interna dello Stato di New York e un’altra a Brooklyn, nonché un ancor più lussuoso ufficio in Park Avenue – il cuore degli affari di Manhattan. In quella fase sosteneva di occuparsi di compravendita di aree fabbricabili. Di fatto era coinvolto in due tipi di attività, entrambe illecite. La prima era il contrabbando di liquori, sia sul versante della produzione (possedeva una distilleria nella Contea di Dutchess) sia su quello del commercio. Contava qui sul sostegno dei suoi compaesani e in particolare del giovane Bonanno, che fu incaricato della scorta armata dei suoi camion. Il secondo affare era quello dell’immigrazione clandestina. L’ufficio immigrazione, qualche anno dopo il suo arrivo, prese a indagare su di lui per un «international ring» di immigrazione clandestina grazie al quale erano giunte negli Stati Uniti via Francia e Germania qualcosa come 8000 persone; aveva in effetti un’agendina nera – che venne in possesso delle autorità in drammatiche circostanze di cui diremo – contenente indirizzi e numeri telefonici di giudici e funzionari dell’immigrazione nonché il recapito di un uomo d’affari che temporaneamente si trovava a Newark ma che era residente a Parigi. Costui spiegò che Maranzano gli era stato indicato da un funzionario come un avvocato in grado di ottenere facilmente permessi di soggiorno «speciali» negli Stati Uniti51. Ripassiamo per un attimo l’oceano. In quello stesso momento, a Palermo, inchieste giudiziarie rivelavano che le cosche di Piana dei Greci e San Giuseppe Jato, i cui capi (Ciccio Cuccia e Santo Termini) partecipavano alle riunioni della Birreria Italia, collaboravano per organizzare partenze clandestine di migranti per l’America al prezzo di seimila lire per ognuno di loro. Gli inquirenti descrissero la mafia come un’«orribile pestilenza» che spargeva non solo nella Sicilia occidentale, ma anche «oltre Oceano il suo lezzo ammorbante». Dissero quel traffico «organizzato in maniera perfetta» secondo il principio della divisione del lavoro: alcuni procuravano falsi documenti presso il municipio del paese e altri a Palermo, c’era chi organizzava i viaggi via TunisiMarsiglia, chi nel luogo d’arrivo attendeva i clandestini per provvedere alla loro sistemazione, e veniva addirittura garantita in tutto o in parte la restituzione delle somme pagate a coloro che, incappati nella vigilanza Usa, fossero stati rispediti indietro52. Dunque anche la proibizione dell’emigrazione – come quella degli alcolici – provocò effetti perversi. Non spezzò la catena migratoria ma ne pose una parte importante sotto il controllo di gang mafiose intercontinentali. Risultato finale: la loro influenza crebbe ancora. Sapendo che Maranzano si riuniva sino a pochi mesi prima di partire con i capi delle cosche di San Giuseppe Jato e Piana dei Greci, impegnati a organizzare le partenze dei clandestini, noi possiamo completare i frammenti di inchieste newyorkesi e palermitane con qualche ipotesi: nella Birreria Italia i castellammaresi si assunsero il compito di provvedere agli arrivi e alla sistemazione degli immigrati nel nuovo mondo, finché Maranzano stesso, all’avvicinarsi del ciclone Mori, si decise a passare definitivamente sull’altra sponda per gestire quel grande affare intercontinentale ma con un occhio all’altro, tutto americano, del proibizionismo. Bonanno come detto si mise al carro di Maranzano, cominciando ad accumulare soldi e potere che poi avrebbe investito nell’Italian lottery, nel settore tessile, in quello alimentare, nelle pompe funebri. Entrava nelle attività legali vendendo protezione a quegli stessi imprenditori che venivano minacciati dai suoi sodali, secondo il più classico gioco mafioso delle parti. Le lavanderie di Brooklyn erano ad esempio, notoriamente, oggetto delle attenzioni dei «racchettieri» – per riprendere il termine usato dai siciliani addentro alle cose americane53: e anche di quelle di Bonanno, che nel 1930 fece recuperare mezzi rubati a una ditta di proprietà di italiani, poi la garantì da fastidi ulteriori in cambio di una cifra settimanale (25 dollari), infine pretese e ottenne una percentuale del 5% sui suoi introiti annui54.
Nelle sue memorie, Bonanno dice della sintonia creatasi tra lui e Maranzano. Il secondo era un capo già in Sicilia, e il giovane aspirante guardò a lui come a un maestro traendone insegnamenti non solo di tipo affaristicocriminale ma anche stilistici: come mettere in difficoltà gli interlocutori del sottomondo con parole difficili o con citazioni raffinate, il piacere di impegnarsi in discussioni di «un certo livello», inarrivabili per i gregari che «mancavano di istruzione»55. Maranzano parlava inglese, ma non molto bene. La sua cultura odorava di vecchio mondo, e proprio a questo doveva il suo fascino sia tra i compaesani trapiantati oltremare sia tra i teppisti italoamericani newyorkesi. Joe Valachi (19041971), piccolo gangster di origine campana nato a Harlem, diceva di Maranzano: «Caspita, pareva quasi un banchiere. Campavi mill’anni, non avresti mai capito ch’era un racketeer»56. Torneremo a suo tempo sulle circostanze che lo spinsero a testimoniare su questi fatti a distanza di trent’anni – segnando un punto di svolta della nostra storia. Per ora cominciamo a utilizzare la sua testimonianza. 1 Gentile 1993, p. 201. 2 Paternostro 1994, pp. 27 sgg.; Viola Morello 2004; Andretta 2005. 3 Relazione del prefetto di Palermo del 12 dicembre 1908, in ACS, CPC, b. 1141. I latifondisti cui erano legati i CascioFerro, padre e figlio,
erano i baroni Inglese; il politico cui don Vito si legò era Domenico De Michele Ferrandelli, discusso e inamovibile sindaco di Burgio nonché deputato del collegio di Bivona. 4 In un comizio tenuto a Prizzi, riportato in una relazione prefettizia dell’11 febbraio 1902, in ACS, AC, Comuni, b. 173. 5 Procacci 1978, p. 155. Ma cfr. anche Id. 1959. 6 La Loggia 1953, p. 534. 7 Verro a Colajanni, 27 maggio 1912, in Barone 1993, pp. 2556. 8 Santino 2000. 9 Relazione del 1° maggio 1923, cit. da Andretta 2005, p. 220. 10 Non intendo fare qui il triste elenco dei caduti, che purtroppo sarebbe nutrito. Cito solo Nicolò Alongi, già membro dei fasci, dirigente del movimento contadino a Prizzi, contadino lui stesso. 11 Petrotta 2001, pp. 100 sgg. 12 Documento processuale del 1930, cit. da Scalia 2008, p. 104. 13 Lumia 1990, II, p. 271. 14 La relazione, firmata arciprete G. Scarlata, ibid., pp. 2857 e in particolare p. 286. 15 Ibid., pp. 327 sgg. 16 Per evitare di moltiplicare le vicende e i personaggi, non faremo qui un altro caso di mafia del latifondo di quella stessa zona, poi assurta all’onore delle cronache della mafia: quella di Mussomeli guidata da Giuseppe Genco Russo. E della battaglia che costui ingaggiò per inglobare il movimento combattentistico che aveva promosso l’occupazione dell’ex feudo Polizzello, di quasi 2000 ettari, ed era di proprietà di una famiglia dell’alta nobiltà, i principi di Trabia, anch’essi residenti a Palermo. Cfr. Di Bartolo 2008. 17 Molè 1929; Prestianni 1931. 18 Interrogatorio del 19 maggio 1926, cit. da Scalia 2008, p. 109. 19 Lettera del vescovo nisseno G. Jacono, 12 giugno 1935, cit. in Naro 1991, II, p. 167. 20 Troviamo il suo nome tra quelli dei partecipanti alle trattative londinesi in Sarauw 1922, pp. 56. 21 L. Tasca Bordonaro, Una risposta al giornale «L’Epoca» – Catechismo siciliano, in «Sicilia Nuova», 20 ottobre 1920. 22 Arlacchi 1994, p. 97. 23 APCD, Discussioni, 23 giugno 1949, p. 8648. 24 Cito dal memoriale compilato nell’agosto 1926 dal dirigente fascista Francesco Paternostro, e pubblicato in appendice a Di Figlia 2007, pp. 17182 e in particolare p. 177. 25 Marino 1976, pp. 2828. 26 Lettera del 15 marzo 1924, cit. in Di Figlia 2008, p. 23. Ma cfr. ivi altri documenti di polizia su altri paesi e del medesimo tenore. 27 Il vibrante discorso di V. E. Orlando, in «Giornale di Sicilia», 28 luglio 1925. 28 «Se per mafia [si] intendesse la gente che non è disposta a subire i soprusi, le violenze, le offese […] maffiosi sono tutti in Sicilia». Intervento di Giovanni Battista Morana in APCD, 187475, Discussioni, tornata del 7 giugno, p. 3966. 29 Lettera di G. Faraci, 5 aprile 1923, in ACS, Carte Bianchi, b. 2. 30 Relazione del 7 luglio 1923, ivi, f. 15, p. 21. 31 Discorso di Agrigento del 9 maggio, in Mussolini 1959, p. 264. 32 Testimonianza Allegra. 33 Ibid. 34 Coco 2013, pp. 623. 35 Gli avversari di D’Agati erano i fratelli Lo Giudice: Giuseppe, assassinato a Palermo, Giovanni e Francesco uccisi a New York: Patti 2014, pp. 61 sgg. 36 FBI Files, Mafia Monograph, Section II, pp. 867. Era insieme a suo cugino Giuseppe Magliocco, anch’egli proveniente dalla zona di Villabate.
37 Maranzano nasce il 31 luglio 1886; Magaddino il 14 ottobre 1891; Bonanno il 21 gennaio 1905. ASTP, Registri dello stato civile, Nascite, ad
annum. 38 Relazione della Questura di Trapani del 1° febbraio 1934, in ACS, CPM, b. 35. Il possidente protetto da Stefano Magaddino Sr. si chiamava Luigi Messina. 39 Si vedano nei fascicoli personali di due aderenti alla fazione Buccellato: Giovanni Bosco e Giovanni Costantino, rispettivamente la relazione del prefetto di Trapani, 29 ottobre 1934, in ACS, CPM, b. 38; e quella dei carabinieri di Alcamo, 29 luglio 1934, ivi, b. 53. 40 Relazione dei carabinieri di Alcamo, 29 gennaio 1934, ivi, b. 38. 41 Vito Buccellato fu assassinato nel 1914 e Giuseppe Buccellato forse appunto nel 1921. 42 125 Murders Now Charged to Band. Police Expects to Arrest Chief of «Good Killers» in Buffalo, in «New York Times», 19 agosto 1921. 43 Bonanno 1985, pp. 56 e 612. Su Stefano Magaddino cfr. Griffin Denevi 2002, pp. 99109 e passim – anche se molte sono le inesattezze relative al suo primo periodo americano. 44 Cfr. i curricula criminali dei due fratelli in McClellan Hearings, pp. 1036 e 602. 45 Un caso interessante, quello di John C. Montana, nato nel 1893 a Montedoro, provincia di Caltanissetta, che dopo essersi pagato gli studi come «messager boy» cominciò a lavorare come autista di auto a nolo, dal 1928 entrò a far parte del consiglio municipale di Buffalo, nel 1930 creò una propria compagnia di taxi destinata a grande successo, e che finì con lo sposare la figlia del capo. 46 Talese 1992, p. 175. 47 Bonanno 1985, pp. 5960. 48 Antonino Minore, fu Mariano e Cascio Antonina, era nato a Castallammare il 13 gennaio 1881. Se ne veda il fascicolo personale in ACS, CPM, b. 160. 49 Bonanno 1985, pp. 158 e 25. 50 Gosch Hammer 1975, pp. 46 e 10. 51 Seek Official Link in Alien Smuggling, in «New York Times», 12 settembre 1931. L’uomo d’affari si chiamava Costa. 52 Rispettivamente, sentenza del Tribunale di Palermo contro S. Termini e altri del 16 agosto 1928, p. 26, e rapporto di polizia giudiziaria del 29 aprile 1926, c. 3 e 8, entrambi in ACS,MGG, ES, b. 17. Cfr. anche Nania 2000, p. 94. 53 Così nella cronaca de «L’Ora» di Palermo, 2122 gennaio 1931, Una vittima dei racchettieri, sull’assassinio di Giovanni Volpi, manager della Briar Laundry di Manhattan. 54 FBI, Mafia Monograph, Section II, pp. 723. 55 Bonanno 1985, p. 71. 56 Citato testualmente da Maas 1972, p. 93.
VI. Davanti al fascismo
L’operazione antimafia del fascismo cominciò il 23 ottobre del 1925, quando Mussolini nominò prefetto di Palermo Cesare Mori (18721942). Rappresenta un passaggio della nostra storia che è stato molto studiato, forse più di ogni altro. Ha influito la particolare evidenza delle sue implicazioni politicogenerali, la coincidenza del suo inizio, nel 192526, con quello della dittatura fascista. Abbiamo già citato in sede introduttiva Santi Romano, grande giurista che (tra l’altro) diede a questa stagione della storia italiana notevole contributo quale presidente del Consiglio di Stato. Diciamo, riprendendo la sua terminologia, che l’«ordinamento giuridico maggiore» (lo Stato) si impegnò a combattere quello «minore» (la mafia). Perché il fattore conflitto prevalse sul fattore convivenza? Perché lo Stato stava cambiando, appunto con l’avvento del regime, e perché la mafia era cambiata, come ho provato a documentare nel capitolo precedente. L’operazione Mori fu forse, più di ogni altra, pensata per dare un senso al fascismo nel Mezzogiorno. Basta con il disordine e l’immoralità derivanti dal parlamentarismo, con l’idea bizzarra che i destini delle nazioni possano essere decisi in qualche remota, oscura periferia. E basta con la pretesa liberale di limitare il potere. Modernità vuole che si concentrino le forze, in modo da conseguire il risultato della nazionalizzazione delle masse e delle periferie a ogni costo. Questa l’ideabase1. Il tutto venne valorizzato, com’era nella natura di quel regime, sotto il profilo propagandistico. Fu garantita una massiccia copertura mediatica a livello nazionale, e internazionale. E con successo: anche il «New York Times» cantò le lodi della «guerra di Mori contro la mafia», proclamò la «nascita della nuova Sicilia», la rottura di un dominio mafioso fatto risalire addirittura all’antichità classica greca!2 Quando Mori lasciò il suo incarico (1929), il regime proclamò di aver «bonificato» la società siciliana. Di averla omologata a quella nazionale, di averla riordinata secondo il principio del «credere, obbedire, combattere»; tant’è che le porte di casa potevano essere lasciate aperte e i treni arrivavano in perfetto orario. Qualcuno è ancor oggi convinto che abbia annientato la mafia. Invece noi sappiamo che negli anni trenta dovette costituire nuovi organismi investigativi «speciali», avviare nuove operazioni repressive. Però stavolta le ammantò di riservatezza. Ai fini propagandistici, repetita non iuvant. E fu per via riservata che i superpoliziotti preposti a questa seconda fase comunicarono ai superiori la loro convinzione: la battaglia non è stata vinta, il nemico è forte quanto se non più di prima. 1. Con la mafia ai ferri corti. Mafia nuova e mafia vecchia. Abbiamo già ragionato di questa contrapposizione, fuorviante per certi aspetti, ma cui in ogni caso è necessario riferirsi per tener conto del punto di vista dei protagonisti, degli attori del dramma. La riferivano, tra l’altro, all’emergere di uno stile mafioso nuovo, caratterizzato da remore minori o nulle verso l’uso della violenza. Il tratto caratterizzò in effetti il primo dopoguerra. Anche nel corso della guerra, veramente, c’era stata nelle quattro province occidentali dell’isola una recrudescenza del banditismo, dovuta anche al contributo di pregiudicati tornati dalla Tunisia e dall’America, renitenti alla leva e disertori; e alle difficoltà per le autorità di trovare gli uomini necessari a mantenere l’ordine. Ma nel dopoguerra il tasso di violenza crebbe ulteriormente. La tabella parla chiaro.
Figura 9. Omicidi volontari.
Fonte: Statistica giudiziaria penale, 19191922.
Nel 191922 il numero degli omicidi volontari nella parte occidentale dell’isola fu enorme, se paragonato al resto d’Italia: in particolare alla Sicilia orientale, a due altre zone del Mezzogiorno comunemente considerate affette dal fenomeno della criminalità organizzata, e a due della parte centrale del paese che nel 191922 vedevano infuriare i conflitti del biennio rosso e la guerriglia dello squadrismo fascista. Tra le tante cronache che ho potuto consultare, mi hanno colpito quelle sull’enorme numero di morti ammazzati nel paese di Canicattì nel solo 1919; o sulle opposte fazioni di zolfatari che quotidianamente, nel paese di Sommatino, si affrontavano a suon di bombe e colpi di pistola in pieno centro andando a rifornirsi ogni sera di munizioni dall’armiere del paese; o sui due assalti del 1922 a masserie nei territori di Burgio e di Chiusa Sclafani, che fecero rispettivamente 7 e 8 morti – intere famiglie, donne e bambini inclusi3. E veniamo a Cesare Mori. Nacque a Pavia. Cominciò dal basso, dai ranghi della polizia, ma ben presto puntò verso l’alto mettendo a frutto particolari abilità e uno stile nonconvenzionale. Rileviamo in lui il tratto che abbiamo rilevato a suo tempo in Sangiorgi. Si caratterizzò per un doppio specialismo: da un lato in movimenti politici sovversivi, e dall’altro in mafia, a partire dal suo primo servizio siciliano, a Trapani nel 1904. Nel 1917, col grado di vicequestore, fornì in Sicilia un grande contributo alla lotta contro il banditismo. Strutturò il servizio su base interprovinciale, facendo centro su Palermo e bypassando le tradizionali partizioni amministrative. Fece ricorso alle cosiddette «squadriglie», ovvero a gruppi di poliziotti e carabinieri formati da setteotto elementi, i quali utilizzarono nuove tattiche che potremmo dire di controguerriglia: vestiti ed equipaggiati non diversamente dai banditi stessi, dovevano rientrare di rado alle basi e muoversi su input di un raffinato sistema informativo. Accadeva che guidasse personalmente gli uomini. Una volta si vantò di aver lui stesso ucciso un bandito in combattimento. Doveva avere un certo carisma, se uno dei suoi più stretti collaboratori, l’ispettore Giuseppe Gueli, lo chiamava «duce». Noi ritroveremo Gueli più avanti, insieme ad altri della stessa covata: Francesco Spanò ed Ettore Messana4. Forte di questi successi, nel 1917 Mori divenne questore, e nel 1920 prefetto. Il suo protettore politico era Francesco Saverio Nitti, presidente del Consiglio di area liberaldemocratica. Per questo fu accusato di perseguitare il movimento nazionalfascista a Roma. A Bologna, per contrastare lo squadrismo, provò a riproporre il concetto del coordinamento interprovinciale delle forze. Non so dire se la sua linea fosse tecnicamente adeguata a fronteggiare l’emergenza, di certo non lo fu politicamente. Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 1922 il leader del fascismo bolognese Leandro Arpinati condusse le squadre padane ad occupare la città, mettendo sotto assedio la prefettura e minacciando di morte Mori, definito prefetto «socialista». Ormai le forze conservatrici andavano a un accordo col fascismo, il prefetto fu trasferito e, all’avvento del governo Mussolini, collocato «a disposizione», insomma messo a riposo. La sua carriera sembrava finita. Invece nel 1924 venne richiamato in servizio, nominato prefetto di Trapani e alla fine dell’anno seguente, come abbiamo detto, di Palermo. Il capo del governo puntò su un funzionario esperto come lui, quale che fosse il suo passato politico. Gli concesse poteri straordinari, tra l’altro (ancora) nel coordinamento interprovinciale delle forze, dunque non un incarico di ordinaria amministrazione. E Mori non lo interpretò certo in una logica burocratica, o moderata. Non diversamente da altri tecnici già nittiani, impegnati in tutt’altri settori, si convinse che un regime emancipatosi dei lacci della liberaldemocrazia avrebbe garantito all’azione statale una ben più ampia efficacia. Si
adattò perfettamente allo stile e agli intenti del fascismo. Si fece vedere a cavallo, armato di schioppo, anche in camicia nera. Invitò a un riarmo anche ideologico. Possiamo capirla, questa sua ideologia, grazie al libro di memorie da lui pubblicato nel 1932, a cose fatte, intitolato Con la mafia ai ferri corti. Libro agiografico, ma significativo. L’azione antimafia vi è presentata non come «campagna di polizia in più o meno grande stile, ma [come] insurrezione di coscienze, rivolta di spiriti, azione di popolo»5. Il popolo. Il superprefetto organizza oceaniche adunanze durante le quali risuona immancabile l’appello all’autodifesa individuale e sociale, l’esaltazione del coraggio di chi non cede e impugna le armi così come a suo tempo ha «sfidato le mitragliatrici austriache»6. Cerca punti di contatto, un codice di comunicazione con la cultura regionale, vera o presunta, dichiarandosi per un’omertà buona corrispondente ai concetti di virilità e onore, alla Pitrè. Dichiara in piazza: «La omertà ha in se stessa i mezzi specifici per combattere le proprie degenerazioni. Quindi richiamarsi – questo intendo dire – alla fierezza per reagire alla prepotenza; al coraggio per reagire al delitto; alla forza per reagire alla forza; al moschetto per reagire al moschetto»7. I campieri. Appone un distintivo sul loro petto singolarmente (con i siciliani ci vuole il rapporto personale), in cui sta scritto: «La forza che difende la produzione». Propone scambi di battute edificanti. Il prefetto: «Se vedendoti con questo distintivo ti chiamassero sbirro?» – il campiere: «Voscenza m’avi a scusari ma in tale caso ci sparo»8. Mori pensa che per guadagnarsene la fedeltà, o l’obbedienza, lo Stato fascista debba mostrarsi più mafioso dei mafiosi. I proprietari, ribattezzati produttori secondo il linguaggio corporativo. Mori dichiara la propria simpatia nei loro confronti, li dipinge come vittime di uno stato di necessità, li invita ad abbandonare i mafiosi al loro destino. Alla fine, il suo modello non è Franchetti. Sostiene le organizzazioni sindacali del regime che cercano di eliminare il sistema del grande affitto passando alla «gestione diretta», in modo da annullare gli intermediari, insomma i gabellotti. Fa finta di non accorgersi che l’eliminazione del subaffitto proclamata nei documenti resta lettera morta: che a sparire è solo quella parola ormai malfamata, gabellotto, non il sistema di relazioni economiche cui da sempre si riferisce. Esibisce compiaciuto lettere di plauso indirizzategli da latifondisti, si compiace per una crescita dei canoni d’affitto che in qualche caso è anche del 90%9. Un’apposita commissione decide quali siano i «centri infetti», nei quali i contratti pregressi vanno sciolti d’autorità. Il suo presidente scrive: il sistema della gabella «affonda le sue radici nella violenza e nel sangue, [e] trova, occorrendo, la perfezione dei suoi estremi contrattuali nello schioppo e nell’omicidio»10. Ha ragione. Ma la restaurazione del potere proprietario, il mero aumento della rendita fondiaria, non rappresenta certo un progresso per la società siciliana. E veniamo alle grandi retate che dall’inizio dell’anno 1926, fino al 1928, sconvolsero la Sicilia occidentale, un po’ ricordando i metodi adottati in età postunitaria. Consistenti nuclei di forza – anche 800 tra carabinieri, uomini della milizia e agenti di Ps – si spostarono dall’uno all’altro paese, occupandoli militarmente in successione. Ciascuna delle azioni condusse a centinaia di arresti per una cifra totale di parecchie migliaia. Cito il commento consuntivo fatto da un deputato liberale agrigentino in una lettera indirizzata a Mori nel 1929, nel momento in cui costui lasciava il suo incarico di prefetto: l’azione nel complesso era da giudicarsi positivamente, ma non potevano essere dimenticate le «notti di San Bartolomeo, in cui per arrestare 50 malviventi si travolgevano nell’abisso altrettanti galantuomini»11. Accadeva che si deportassero in massa i parenti dei latitanti. Così 213 uomini, donne e bambini – al di sopra e al di sotto degli otto anni – vennero portati via dalla borgata palermitana di San Lorenzo Colli nel febbraio 1927 e concentrati negli edifici dell’Albergo dei poveri, per convincere 35 latitanti ad arrendersi12. Questo a Palermo. Accadeva ben di peggio negli sperduti paesi dell’interno. Ce ne dà un’idea un’antropologa americana impegnata in quegli anni in una delle prime «ricerche sul campo» sul paesino di Milocca. Il 7 gennaio del 1928 la forza pubblica attacca di notte il paese, preleva una massa di persone e in particolare i membri delle famiglie di quelli che sono riusciti a fuggire, che vengono costretti a mettersi in marcia a piedi verso Mussomeli. Più di cento dei 2500 abitanti del paese rimarranno in prigione anche per diversi anni, per poi magari essere assolti13. Uno di essi, un contadino uscito di prigione dopo quattro anni di detenzione, ricorderà il terribile episodio con questi versi: «A lu milli novicentu lu ventottu/ a li setti di innaru fu lu fattu/ Dormivanu tutti comu gigli all’ortu/ ’ntri ’na nuttata l’arrestu fu fattu/ L’arrestu principiò di Mussumeli/ fu tirminatu ’ntra du uri/ Cu dici figghiu, cu dici mugghieri/ Cu dici sà cu fu ’stu tradituri». Traduco così: «Nel 1928/ il sette di gennaio avvenne il fatto/ dormivano tutti come gigli nell’orto / durante una notte fu fatto l’arresto/ l’arresto cominciò da Mussomeli/ in due ore fu concluso/ chi dice “figlio”, chi dice “moglie”/ chi dice chissà chi è stato il traditore»14. 2. Gangi.
Delle reti di Mori la prima (gennaio 1926), che fu più propagandata e rimase più famosa, venne gettata sul paese di Gangi. Lo abbiamo già rilevato nel primo capitolo: Gangi era da sempre la capitale del banditismo madonita, e del più spudorato manutengolismo dei latifondisti. E qui i problemi si erano presentati in forma più grave nel periodo bellico e postbellico. Vediamo come la polizia vi applicava il termine «nuova» mafia. «Nuova» veniva definita la «maffia» capitanata da Melchiorre Candino (nato a San Mauro Castelverde nel 1850) che in realtà era latitante da decenni. «Nuova» dunque perché i suoi aderenti, da delinquenti comuni che erano, avevano fatto fortuna: «i suoi favoreggiatori o gregari sono diventati ora milionari, proprietari di mandrie, di vasti armenti, di feudi, mentre prima, delle mandrie, erano i pecorai»15. Candino diceva: il denaro che ricevo dai proprietari non è il frutto di un’estorsione, serve a ricompensarmi della protezione che ho sempre loro garantito. Non a caso lo chiamavano u prefettu, il prefetto. Con la fine della guerra, peraltro, Candino entrò in contrasto con un suo ex affiliato, Gaetano Ferrarello detto Sciroccu (nato a Gangi nel 1862). Lo schema venne riproposto. Anche questa di Ferrarello fu definita mafia «nuova, in contrapposto a quella di Candino», nel momento in cui si avviava a «diventare più forte, più potente, più temuta». Giunse il 1922, quando i reati di cui Candino era accusato caddero in prescrizione e si concluse la sua trentennale latitanza, tollerata «per servizi resi alla Ps», foraggiata «con gli assegni dei feudatari»16. Una pubblica manifestazione di simpatia per l’ex bandito dei notabili di Gangi rivelò la loro preoccupazione: chi avrebbe mantenuto l’ordine, e a che prezzo, dopo il ritiro del vecchio «prefetto» a vita privata? La manifestazione, in verità, rivelava un paradosso di fondo che fu ben colto in una relazione di polizia di fine 1923. Anche i proprietari più influenti (il più noto: il barone Giuseppe Sgadari) rischiavano di esporsi a una denuncia «per favoreggiamento», visto che stipendiavano quelli che erano pur sempre dei criminali conclamati. Dunque la novità, stando agli inquirenti dei primi anni venti, consisteva nell’identificazione tra banditismo e mafia. A noi, veramente, il fatto non sembra così nuovo: già all’inizio del secolo il poliziottocriminologo Alongi l’aveva rilevato. Le novità postbelliche consistevano piuttosto nel crescente tasso di violenza, che rendeva la mafia gangitana incapace di svolgere la funzione d’ordine che attribuiva a se stessa. Un esempio: la già citata strage di Chiusa Sclafani del 1922. Derivò dalle scorrerie di certe bande provenienti appunto dall’area di Gangi, cui si contrapponevano gli apparati di sicurezza della «vecchia mafia» di Polizzi e di Mussomeli: una storia di feroci rappresaglie sui rispettivi manutengoli, finte riappacificazioni, tradimenti. Un magistrato spiegava: c’è sempre in scontri come questi una fazione schierata in difesa dei proprietari, la quale sostiene di agire per «autodifesa», ma in realtà anche quella, come le altre, è mossa da «smodata sete di arricchimento», si vale di «rapine, estorsioni, omicidi»17. E il potere mafioso si esprimeva ormai con grande arroganza. Leggiamo come, in una lettera indirizzata al procuratore del re, un poveraccio, destinato a essere assassinato di lì a poco, si riferiva a un luogotenente di Ferrarello: «Se poi è vero quello che dice […] e cioè che lui è il padrone non solo di Gangi ma anche dell’Italia, perché tutti sono sudditi suoi a cominciare dai Ministri fino all’ultimo questurino, se questa disgrazia veramente esiste in Italia come quasi mi sembra, ed allora scusi di averla disturbata»18. La mafia padrona e lo Stato suddito. Nulla sembrava cambiato a Gangi con l’avvento del fascismo. L’amministrazione municipale restava nelle mani dei grandi manutengoli di sempre, delle famiglie baronali Sgadari e Li Destri; ancora nel 1924 le fonti di polizia la definivano «fascistamafiosa». Logico che Mori volesse partire da lì. Vero è che, già nel dicembre 1925, il suo fido collaboratore, il già citato commissario Spanò, aveva portato a termine una trattativa per la resa di Ferrarello e dei suoi, proprio grazie alla mediazione del loro grande protettore, il barone Sgadari19. Ma Mori voleva una schiacciante vittoria, non questa resa concordata, per poterla dare in pasto alla stampa internazionale, nazionale e locale, mobilitata per l’occasione. Parliamo di un paese di montagna, di struttura medievale, in cui i latitanti si erano creati ingegnosi nascondigli sotterranei. Mori ordinò che fosse sottoposto a scenografica occupazione militare, mettendo in prima fila le camicie nere, che gente armata facesse irruzione in tutte le case, che venissero arrestati i familiari dei latitanti, che i loro animali fossero macellati. Alla fine Ferrarello si arrese nelle mani di Sgadari, forse sperando di averne ancora una volta protezione. Gli altri si arresero prima e dopo di lui. Non si sapeva peraltro di cosa fossero accusati 300 dei 450 paesani arrestati, quelli che furono indicati genericamente come «favoreggiatori». Mori pronunciò un violento discorso in piazza, su un palco circondato da armigeri, davanti a una folla attonita. Sgadari prese posizione tra i vincitori. Registriamo l’opinione dell’ambasciatore inglese Graham: sapendo che il barone era un «capintesta» della mafia, trovava sconcertante vederlo tra i corifei di Mori, e ancor più che fosse elevato alla carica di podestà – insomma di sindaco, nella nuova dizione fascista20. Citiamo due documenti, facendo uno o due passi in avanti nel tempo. Il primo: una lettera mandata alle autorità nel 1937 da un ex carabiniere a cavallo il quale lamentava le infamie perpetrate a Gangi dalle famiglie dei «ricconi» che egemonizzavano il potere locale (Li Destri e Sgadari) tracciando un rapporto tra passato e presente:
Il barone Li Destri al tempo della maffia era appoggiato forte ai briganti che adesso si trovano carcerati a Portolongone (Elba). Se qualcuno passava dalla sua proprietà che è gelosissimo diceva: Non passare più dal mio terreno altrimenti ti faccio levare dalla circolazione. Adesso che i tempi sono cambiati e che è amico della autorità […] dice: Non passare più dal mio terreno altrimenti ti mando al confino21.
Un altro passo avanti, e arriviamo al 1949. In quell’anno don Calò Vizzini rilascia un’intervista al grande giornalista toscano Indro Montanelli per il più grande giornale italiano, il milanese «Corriere della Sera». L’intervistato fornisce di se stesso il quadro minimizzante del povero campagnolo ignorante, di cui non si può aver paura. Dice: «Parlo poco perché poco so. Abito in un villaggio, vengo a Palermo solo di rado, conosco poca gente». L’intervistatore sta al gioco. Forse gli piace l’idea del capomafia come innocuo zio di campagna, della mafia come reperto archeologico o folklorico, bizzarro residuo del passato. Domanda: chi sono i mafiosi? Risposta: appartengono alla «categoria» di quelli «che aggiustano le situazioni, quando si fanno complicate». Domanda: lei è uno di loro? Risposta: diciamo che ne ho conosciuti un tempo, ai tempi di Mori. Poi, sull’onda di quelle memorie, don Calò fa a sua volta una domanda, tuffandosi nella Gangi 1926. «Avete mai sentito parlare di Ferrarello?». E si lancia in un paragone tra Ferrarello e Salvatore Giuliano, tra il bandito più famoso del primo dopoguerra e quello più famoso del secondo. Ferrarello, contrariamente a Giuliano, si è alla fine pacificato. «Rinunciò persino, quando evase dal carcere, a uccidere il barone Sgadari che ce lo aveva fatto andare. Qualcuno di quella tale “categoria” aggiustò la faccenda»22. Siamo alle solite. La mafia ama rappresentarsi come un superpotere sempre in grado di aggiustare qualsiasi cosa, e trova sempre un giornalista disponibile a starla a sentire compiaciuto. Anche in quel caso don Calò millantò credito. Ma in realtà nel 1926 ad aggiustare le cose, a favore del peggiore baronaggio, fu il regime fascista. 154 presunti banditi di Gangi, o mafiosi, o guardiani delle proprietà che fossero, vennero portati in giudizio a Termini Imerese tra il 1927 e il 1928. Si ebbero molte e pesanti condanne. Sette all’ergastolo. 3. Epurazioni. Abbiamo già introdotto la figura di Alfredo Cucco. Nel suo ruolo di federale, ovvero di segretario provinciale del Pnf, poté dare avvio alla costituzione del fascio a Piana dei Greci solo all’inizio del febbraio 1926, non prima che Ciccio Cuccia fosse messo nel mirino dell’operazione Mori. Il sindacocapomafia venne subito dopo sostituito da un commissario governativo alla guida del Comune, e poi arrestato a Palermo. Con lui finirono in galera il sindaco del vicino paese di Santa Cristina Gela e una gran quantità di loro accoliti. Leggiamo il quadro della Piana governata da Cuccia dipinto da un rapporto di polizia del 23 marzo. La cittadinanza era tenuta in pugno da un gruppo di facinorosi: sicari o gente istruita e agiata, comunque arricchitasi col delitto. Da un ventennio ammazzavano gente, facevano sparire cadaveri, commettevano ogni genere di reati, denunciati solo «in minima parte», perché i cittadini erano «pervasi dal terrore». Gli onesti agricoltori erano vessati, «non era loro concesso di prendere in affitto i terreni se non subendo soprusi e angherie che la maffia imponeva». Ma leggiamo anche la replica di Cuccia. Si chiedeva come mai le autorità scoprissero tutto questo d’un tratto, indicando come capomafia uno che era stato in stretto contatto con loro, nella cui casa «Ministri, Deputati, Prefetti e Questori» erano stati ospiti. Non aveva torto, il sindacoboss. Il 5 aprile, Mori fece il suo ingresso nel paese a cavallo, seguito da Cucco e dalle altre autorità. Pronunciò uno dei suoi discorsi meglio riusciti. Invitò la mafia a «redimersi», cioè a seguire «le vie dell’onesto lavoro o a morire». E precisò: «pagare i debiti verso la giustizia del proprio paese, restituire il mal tolto e rientrare nella vita in purezza, in umiltà in lealtà. Questo vuol dire redimersi, non altro. È difficile, non è per tutti, ma è così»23. Il discorso fece impressione anche sui socialisti rimasti a lungo sotto il tallone di Cuccia. Proprio per questo qualcuno di loro protestò, quando (l’anno dopo) la polizia sciolse, insieme ad altre cooperative paesane di dubbia fama, anche quella socialista: «Se il prefetto Mori avesse anche udito la nostra parola, che siamo gli interessati, e non semplicemente le vostre chiacchiere, a questo scompiglio non si sarebbe arrivati». Solo rivolgendosi ai suoi superiori il prefetto si sentì tenuto a spiegare quale fosse la finalità dello «scompiglio»: portare quelle popolazioni «nell’orbita» del fascismo da cui per varie «ragioni ambientali» si erano mantenute sino ad allora lontane24. Ci siamo soffermati sul caso di Piana per l’importanza del personaggio Cuccia e per la particolare evidenza del suo significato politico. Cucco, leader del fascismo intransigente, avrà gradito la liquidazione del sindacoboss. Nelle sue memorie, sostiene di essere stato proprio lui, nell’agosto del 1925, a chiedere a Mussolini un intervento inteso a sciogliere le reti di complicità tra vecchia e nuova politica. Avrebbe detto: ora che i ludi cartacei non intossicano, non intossicheranno più le coscienze, possiamo tornare al progetto originario, praticare la «più rigorosa intransigenza», abbandonare i «fiancheggiatori non sempre desiderabili», porre fine a «ogni transazione»25.
Peraltro non so quanto il federale gradisse l’arrivo proprio di Mori, pur sempre malvisto da Arpinati e dall’ala estremista del fascismo, ovvero da Roberto Farinacci, segretario del Pnf, referente di Cucco su scala nazionale. E gradito, per converso, all’ala moderata rappresentata dall’ex nazionalista Luigi Federzoni, che reggeva il ministero degli Interni. Federzoni e Farinacci rappresentavano i due poli di una serrata lotta di fazione che vedeva per ora Mussolini defilato, ma già orientato a puntare sui prefetti anche a scapito dei federali nella lotta per il potere che stava montando nelle varie province. Al dunque, il duce allontanò sia Federzoni che Farinacci (aprile 1926), assumendo personalmente il ruolo di ministro degli Interni, e nominando segretario del Pnf Augusto Turati. Costui eliminò ogni tipo di elezionismo (così diceva) nel partito, per fare trionfare i principî di obbedienza e di cieca fedeltà. Promosse un’epurazione intesa a tagliare le gambe alla fazione legata a Farinacci. Allontanò nel complesso nel 192630 ben 110 000 militanti26. E torniamo a Palermo. Cucco certo non si fidava di Mori e, a quanto dice nelle sue memorie, non si rassicurò di fronte al modo tenuto dal prefetto di «terrorizzare» la popolazione di Gangi27 (era lui stesso originario di un altro paese madonita: Castelbuono). Forse non prevedeva che il prefetto sarebbe stato indotto dalla svolta turatiana a muovere contro i farinacciani come lui. Fu quanto accadde alla fine del 1926, quando Mori spedì a Roma un voluminoso dossier su illeciti commessi da Cucco, che metteva insieme materiali preparati dagli avversari interni del federale, sollecitati da un’incessante lotta di fazione. Nell’ambito di una generale epurazione nel Pnf siciliano, la federazione palermitana fu sciolta. Cucco venne espulso e, dopo una fulminea autorizzazione parlamentare, finì sommerso sotto una valanga di procedimenti penali. Riscontriamo le somiglianze tra la situazione palermitana e quella di altre città italiane. Anche a Palermo, come altrove, i parvenu della nuova politica fascista furono sostituiti da elementi di più elevato status sociale, in molti casi forniti di blasone nobiliare28. Sembra che Mori fosse sensibile a questo tipo di argomento. Cucco ce lo descrive «in piena fregola aristocratica [mentre] passa da un salotto all’altro, da un ricevimento a una festa, e nuota inebriato in un mondo nuovo, già prima rivelatosi indifferente [al fascismo], intrinsecamente ammalato di nostalgia del potere»29. Quanto a lui, Cucco, era un provinciale che si era sempre mantenuto freddo verso le classi dominanti palermitane. Tra l’altro, nello stile del radicalismo fascista, il suo giornale aveva sempre tuonato contro l’assenteismo dei proprietari, e sostenuto l’organizzazione sindacale. «Ha mirato troppo in alto, ed è stato ridimensionato», notava nel suo diario Tina Whitaker Scalia, una interprete del bel mondo cittadino30. Va detto peraltro che Mori fu coinvolto in un conflitto anche con quel mondo, nella persona di Antonino Di Giorgio, genero proprio della signora Whitaker Scalia, già brillante comandante sui fronti della Grande guerra, poi ministro della Guerra con Mussolini. Il generale venne chiamato in causa dalle indagini di Spanò su suo fratello Domenico, sindaco del paesino di Casteldilucio, ed ebbe un duro vis à vis con Mori. Poi invitò Mussolini a non esagerare: undicimila persone in prigione al 1928, di cui cinquemila della provincia di Palermo, gli sembravano troppe31. I carabinieri si schierarono con lui. Invece il questore, cioè la polizia, prese posizione accanto al prefetto invitandolo a «eliminare tutti i nemici, altrimenti non si può andare avanti»32. Il conflitto istituzionale (e/o di fazione) era vicino ad esplodere. Poi Di Giorgio, per quanto non fosse provata e nemmeno adombrata una qualche sua personale responsabilità, si ritirò a vita privata. Invece Cucco subì diversi procedimenti penali. Riguardavano irregolarità amministrative e professionali, nonché pressioni su commercianti e imprenditori perché sottoscrivessero abbonamenti «sostenitori» (a prezzo maggiorato) del quotidiano «Sicilia nuova», di proprietà dello stesso Cucco. Da qui torniamo al nostro argomento, la mafia, e particolarmente a un mafioso che abbiamo già conosciuto: il sindaco di San Giuseppe Jato, Santo Termini. Santo Termini e suo cugino Calogero nel 1924 appoggiarono ufficialmente un candidato del Partito popolare, che era loro parente; e nondimeno fu dato loro l’incarico di gestire il fascio di San Giuseppe. Lo storico Matteo Di Figlia, che ha provato a ricostruire questa storia intricata, rileva: il processo penale appurò una storia complicata di finanziamenti fatti dai Termini a Cucco attingendo alle casse municipali che indicavano «uno stabile legame» tra le parti, «fatto di versamenti in denaro e coperture politiche»; ma l’imputato venne assolto forse perché, per inquadrare relazioni di scambio di questo genere in sede penalistica, ci sarebbe voluto qualcosa come l’attuale reato di «concorso esterno in associazione mafiosa»33. La mafia certo fa la differenza. Però, se potessimo per un attimo metterla da parte, giudicheremmo i rapporti tra i Termini e Cucco non molto differenti da quelli che collegavano affaristi e leader fascisti ai quattro angoli della penisola. Non seguiremo oltre la lotta politica nel Pnf palermitano. Diciamo solo che Cucco rimase fuori per molto tempo, per rientrare nel partito solo alla fine degli anni trenta, conseguendo addirittura la carica di suo vicesegretario nazionale. I curricula dei politici fascisti avevano di queste imprevedibili oscillazioni. Certamente a lui giovò l’esito univocamente positivo dei ben undici giudizi penali. Al termine di uno di essi, la corte lo disse anzi vittima di una congiura, attirandosi il fragoroso applauso del pubblico presente. Più in generale, l’opinione pubblica (se possiamo usare questo termine in riferimento al periodo fascista) lo considerava un perseguitato.
C’è in questa storia un elemento generalenazionale. Chiediamoci: erano fondate le accuse di affarismo, corruzione, connessione con la criminalità che portarono alla destituzione di molti gerarchi in tutta Italia nel corso dell’epurazione turatiana? In parte sì, perché l’assalto fascista del potere locale, nel 192125 aveva portato sulla superficie molte scorie dei bassifondi sociali. Ma c’era anche tanto di esagerato e strumentale. L’asse MussoliniTurati si prestava a criminalizzare ogni forma di politica locale, vecchia o nuova, pur di negare ogni autonomia alle periferie e dare al sistema un’impronta ipercentralistica. C’è poi anche un elemento specificolocale. A Palermo inevitabilmente il concetto di corruzione sconfina in quello di mafia. Vale la pena di citare un brano delle memorie di Mori: «La qualifica di mafioso […] venne spesso usata in perfetta malafede ed in ogni campo, compreso quello politico, come mezzo per compiere vendette, per sfogare rancori, per abbattere avversari»34. Appunto. La strumentalizzazione è possibile; e Christopher Duggan, che nel 1986 pubblicò una bella ricerca sull’argomento (la prima storiograficamente avvertita), rilevò questo aspetto nell’azione di Mori e nella battaglia interna al Pnf conclusasi con la rovina di Cucco. Qui siamo su un crinale sottile. È quello su cui Leonardo Sciascia si mosse sempre nel 1986, non a caso esplicitamente richiamandosi agli studi di Duggan, in un luogo fondamentale del ragionamento sul tema della mafia e dell’antimafia. Ci ritorneremo a suo tempo. Diciamo ora che il discorso non necessariamente va limitato a Cucco. Strumentalizzazioni politiche e intenti liberticidi facevano parte integrante dell’intera operazione Mori. Questo però non vuol dire che si possa dar credito a tutti quelli che al tempo lamentavano di essere perseguitati con false accuse, sulla base di false testimonianze, appunto per spirito persecutorio. Prendiamo il caso di Corleone. Venne investita da una massiccia retata il 20 dicembre 1926, proprio mentre stava per scatenarsi l’offensiva contro Cucco. In particolare fu preso di mira il «Circolo agrario», che come abbiamo detto era il fulcro di un partito locale già di ispirazione orlandiana, a quel momento moderatamente filofascista. Di certo a Corleone l’operazione Mori, come altrove, aveva un intento politico. Però Duggan forza un po’ la mano lasciando intendere che il circolo veniva soprannominato dagli inquirenti «circolo della mafia» solo per questa ragione35. Era stato fondato da Michelangelo Gennaro, indicato già alla fine del secolo precedente come capo dei «fratuzzi», e poi come mandante dell’assassinio Verro. Ai suoi vertici era insediata quella che unanimemente era riconosciuta anche nei primi anni venti come la leadership della mafia paesana. Infine molti di questi personaggi, come a suo tempo vedremo, saranno indicati come membri di questo stesso establishment affaristicodelinquenziale paesano nel secondo dopoguerra e negli anni cinquanta: e per ora faccio solo il nome del figlio di Michelangelo Gennaro, Filippo (nato nel 1892)36. Sarebbe pur strano se lo stesso spirito di persecuzione politica avesse spinto i poliziotti sottoposti a tre diversi regimi (liberale, fascista, repubblicano) a definire ingiustamente come mafiosi gli esponenti di due generazioni di gabellotti corleonesi. 4. Sotto processo. Una recente ricerca storica ha registrato nel complesso, tra il 1926 e il 1932, 105 processi per fatti di mafia, punta massima di 28 nel 1928, che fu l’ultimo anno delle grandi retate. Gli imputati in primo grado furono 7000. La concentrazione maggiore si ebbe in provincia di Palermo, dove i processi furono 56; comunque quasi tutti si tennero nella Sicilia occidentale, a conferma del raggio di diffusione del fenomeno mafioso (in provincia di Catania se ne celebrarono soltanto 2). Si ebbero grandi numeri di imputati sia nell’agro palermitano (ad esempio: 374 nel processo «S. Maria di Gesù» e 275 in quello «Piana dei Colli»), sia nelle regioni dell’interno (ad esempio: 244 nel processo «Casteltermini» e 314 nel processo «Sommatino»)37. Possiamo parlare di maxiprocessi, prendendo a prestito un termine che sarebbe entrato nell’uso pubblico cinquant’anni dopo. Come alla parte politica e poliziesca dell’operazione antimafia del fascismo viene accoppiato il nome del prefetto Mori, così a quella giudiziaria può essere accoppiato quello del magistrato napoletano Luigi Giampietro (18611950), inviato a Palermo già nel febbraio 1925 per ricoprire l’ufficio di procuratore generale del re. Giampietro interpretava la mafia da un lato alla luce di un paradigma istituzionalistico, come un ordinamento pseudostatuale (un po’ alla Romano), e dall’altro alla luce di un paradigma economico, come un’«assicurazione» sottoscritta da «proprietari» e «gente di affari» per tutelare «i beni e le loro persone». Era ben consapevole che nel passato era stata tutelata per ragioni politiche e anche in cambio dei servizi offerti all’autorità di pubblica sicurezza. Partiva da qui per radicalizzare il discorso lasciandosi dietro tante indulgenze del passato. L’escalation sanguinaria del dopoguerra gliene offriva ampia motivazione. Ricordò che i delitti di mafia non avevano nulla di cavalleresco o di onorifico. Si realizzavano sempre «a tradimento, in agguato» e con spettacolare ferocia «aggiungendo lo sfregio al cadavere, spargendolo di petrolio o decapitandolo, ovvero mutilandolo o facendone orrido scempio a segnacolo della potenza terrificante della mafia». Scrisse:
Occorre aver letto nelle pagine dei processi, riguardanti le piccole e grandi associazioni, gli assassini, le depredazioni, gli incendi, le violenze, gli stupri, le vendette selvagge e atroci commesse da componenti della malfamate associazioni; occorre aver vissuto la vita di quei tempi e aver veduto gli omicidi, le rapine, le violenze consumate di giorno in pieno meriggio, nelle pubbliche piazze anche di questa città, i morti a terra, gli uccisori al sicuro, essere state vittime delle bande brigantesche, che percorrevano le città e le campagne, ovunque seminando il terrore, la strage e le violenze per avere una pallida idea della delinquenza mafiosa38.
Un particolare significativo. Anche Giampietro, al pari di Mori, era stato sino al 1922 conosciuto come nittiano antifascista; anche lui ben corrispose agli scopi che il governo voleva realizzare39. Con qualche importante differenza, certo. Mi sembra di capire che, nell’istruire i processi, lui e i suoi collaboratori si ispirarono a (sia pure grezzi) criteri di legalità. Invece Mori, soprattutto ma non solo nell’organizzazione delle retate, non si faceva gran che frenare da scrupoli. Tanto meno lo facevano i suoi dipendenti. La polizia impiegava metodi definiti dall’ambasciatore inglese «energetic and ruthless», faceva ricorso a pestaggi e autentiche torture40. In qualche caso questi abusi vennero alla luce in sede giudiziaria squalificando la costruzione accusatoria: come nel corso del processo per l’associazione di Sommatino, quando un avvocato ne accusò un commissario di polizia, dicendolo «invasato dal sogno di creare la più grande associazione»41. Associazione. I funzionari di polizia consideravano tale la mafia. L’avevano fatto in passato, l’avrebbero fatto in futuro. La magistratura inquirente li seguì. Il codice Zanardelli non lasciava altra strada che ricorrere all’art. 248, associazione a delinquere, perché – ricordo – il reato di associazione mafiosa non esisteva. (Nemmeno l’art. 416 del codice Rocco varato nel 1930 avrebbe dato migliori appigli). Così ognuno dei processi portò alla sbarra una singola associazione criminale definita sulla base del luogo in cui operava: il paese di Sommatino, quello di Piana dei Greci, la borgata palermitana di Santa Maria di Gesù. In questa maniera, evitando la strada percorsa da Sangiorgi trent’anni prima (perseguire la mafia come un’organizzazione unitaria o quanto meno interconnessa), i magistrati inquirenti pensavano di poter gestire meglio l’enorme operazione. Però ne risultarono delle incongruenze. In molti casi i materiali processuali mostravano che il raggio d’azione reale dei gruppi criminali in questione era ben più ampio di quello dei paesi o delle borgate. Accadde che uno stesso individuo venisse portato in giudizio in diverse occasioni come appartenente a diverse associazioni. Fu il caso di Ciccio Cuccia, che come sappiamo era un boss sia a Piana dei Greci sia a Palermo42. E veniamo al problema cruciale. L’individuo che dalla polizia, sulla base della voce pubblica o di altri vaghi indicatori, era definito come mafioso, poteva essere per ciò stesso considerato un delinquente? Giampietro rispose di sì. L’omertà, disse, rendeva tutto difficilissimo. Per procedere, «specialmente contro i pezzi grossi, signori ricchi e potenti, capi palesi ed occulti», era necessario il ricorso a «elementi estrinseci di prova» come le deposizioni degli agenti di pubblica sicurezza, ritornando sul tema dell’associazione. Ovvero bisognava partire «da quel complesso di fatti» tipico delle attività di quel genere di associazione, valorizzando gli elementi di fondo e d’ambiente, «la qualità di mafiosi degl’incolpati», e sia «le condanne» che «le assoluzioni riportate da tutti o da più di essi insieme per gli stessi reati»43. Uno dei magistrati che sostenevano l’accusa scrisse: «La società dei mafiosi attiva, operante» va considerata «per se stessa un’associazione a delinquere», senza bisogno di provare il comportamento criminale di ognuno dei suoi membri44. Peraltro dalla dichiarazione di un altro (di molto successiva) capiamo che non sempre le idee erano così chiare: «Si riteneva una setta quando c’erano più individui d’accordo tra loro, o per lo meno esisteva un rapporto associativo che non credo si possa definire, ma che, in conclusione, era qualcosa come una federazione, almeno come la vidi io»45. Alla fine, moltissimi imputati furono condannati per il solo reato associativo46, venendo invece assolti per le imputazioni più gravi e specifiche. E le pene previste dall’art. 248 (associazione a delinquere) erano modeste. Seguendo l’indicazione del procuratore, i maxiprocessi fascisti ripresero le fila di pratiche affaristiche e criminali di durata ventennale o trentennale, fossero già state oggetto di giudizio o no, sempre basandosi sulle informazioni (extragiudiziali) fornite dalla pubblica sicurezza. Però in alcuni di quelli alle mafie paesane non mancarono a sostegno dell’accusa le testimonianze non sappiamo quanto oneste, estorte, o false, o comunque legate allo scontro politico fazionario. Invece, in quelli alle cosche dell’agro palermitano, i verbali di Ps vennero a coincidere col processo stesso. Si veda quello contro i 243 di Piana dei Colli, che le pur addomesticate cronache giornalistiche ci descrivono svolgersi in un’atmosfera surreale, con il presidente che «di tanto in tanto […] grida un nome», gli interrogatori che durano attimi, i testi che negano tutto, il pubblico ministero che invita i giurati a condannare sulla base del «libero convincimento»47. Certo, le condanne furono molto miti. La maggiore: sette anni. Patti ha studiato il processo detto di Santa Maria di Gesù, che investì gruppi operanti in una vasta zona orientale dell’agro palermitano, comprendente borgate cui abbiamo già assegnato un posto nella nostra storia (Pagliarelli), insieme ad altre di cui più avanti rileveremo l’importanza (Ciaculli), per poi connettersi a Villabate.
I capicosca – scrive – spesso hanno poco in comune con lo stereotipo del mafioso rozzo o ignorante, il più delle volte siamo invece di fronte a imprenditori dinamici, e moderni, capaci di diversificare le attività e di reinvestire i profitti delle attività illecite. […] La maggior parte di essi, gabellotti di aristocratici e notabili, utilizza sapientemente il capitale di relazioni accumulato negli anni48.
In forza di questo pregresso capitale di relazioni, in basso (i borghigiani) e in alto (politici, aristocratici, professionisti) c’è chi si presta, nonostante tutto, a testimoniare a discarico. Gli imputati sono gente perbene, dicono i testimoni, e religiosa. In effetti molti di loro svolgono ruoli importanti in corporazioni cattoliche. Sarebbe troppo lungo citare qui anche solo i più importanti. Diciamo che tra gli altri troviamo i due cugini Francesco Motisi che conosciamo, «u miricanu» e «nasca fradicia»; uno Stefano Bontà (altra variante del cognome: Bontate) e un Gioacchino Pennino, esponenti di illustri dinastie mafiose su cui torneremo in maniera articolata a suo tempo. Gli uffici giudiziari non dispongono di spazi sufficienti a ospitare centinaia tra imputati, parenti, curiosi, magistrati, avvocati, tutori della legge, e un’infinità di testimoni. Il processo viene celebrato nella chiesa di Santa Cita, «tripudio del barocco siciliano, bianca di stucchi del Serpotta»49. Comincia il 25 novembre del 1930 e si conclude il 4 febbraio del 1931. Nemmeno tre mesi per giudicare 263 persone! Anche qui, condanne miti, la massima a otto anni. Bontà e Pennino, per quanto siano rubricati tra i capi dell’associazione, se la cavano con tre anni. E poi, dobbiamo considerare che la repressione venne allora essenzialmente affidata alla discrezionalità poliziesca, cioè alle misure «amministrative», con un perfezionamento dell’istituto del domicilio coatto attuato con una legge del 1926, specifica per le «province siciliane», la quale prevedeva il confino nelle isole minori per coloro che la solita «voce pubblica» indicava come «capeggiatori, partecipi, complici e favoreggiatori» delle organizzazioni criminose. Come si vede, ancora una volta la strumentazione usata per reprimere il sovversivismo politico (l’antifascismo, nella fattispecie) veniva riutilizzata nei confronti dei mafiosi. «Il confino – ribadì Giampietro – “è” l’arma micidiale»50 da usare contro gli assolti e i condannati a pene di «modesta» entità. Si andava al confino per un quadriennio, ci si poteva essere riassegnati per un altro quadriennio. Qualcuno ci restava sino alla morte51. 5. La segreta società. Nel 1929 Mori lasciò la prefettura di Palermo. Forse le condizioni politiche non erano più quelle giuste, da quando il suo vecchio nemico, Arpinati, aveva preso le redini del ministero degli Interni. Però sarebbe eccessivo dire che sia stato messo a riposo per punizione, magari perché aveva colpito troppo «in alto». La verità è che colpì dove era previsto che colpisse. Rimase a Palermo quattro anni, più della media dei suoi colleghi: il fascismo non lasciava troppo a lungo i suoi funzionari in uno stesso posto, temendo l’incancrenirsi di fazioni locali. E fu promosso al rango di senatore, al pari di Giampietro, in un modo che non può suonare come una sconfessione. Come valutare l’operazione nel suo complesso? Sul piano simbolico o propagandistico, fu un grande successo. Resta il fatto: alla fine ebbe sulla mafia un impatto minore di quello che ci si sarebbe potuto aspettare. Qualche esempio. CascioFerro e Ferrarello finirono all’ergastolo. Cuccia venne prosciolto in sede istruttoria (sezione d’accusa) nel 1930 per una ventina di omicidi, mentre fu per le tante accuse di associazione a delinquere che nel 1930 gli furono affibbiati 11 anni. Però anche lui (come tanti altri) non se li fece tutti, credo per la sopravvenuta amnistia del 1932, tant’è che nel 1933 venne assegnato a 5 anni di confino. Non molto, per uno cui era stato attribuito il ruolo di numero uno… Don Calò Vizzini la raccontò in questo modo a Montanelli, nella citata intervista: «Fui assolto quattro volte di seguito. Ma la faccenda mi costò ugualmente cinque anni di prigione e la metà dei miei beni»52. Nei processi che lo videro imputato e assolto (192931), a essere indiziati per vari reati erano in effetti zolfatari e campieri che lavoravano per lui, ma nulla emerse su sue specifiche responsabilità. Andò anche lui al confino, e tornò a casa nel 1937. Va rilevato il diverso impatto della repressione nelle diverse aree territoriali. Nel totale (105 processi) furono inflitte anche pesanti condanne, compresi 54 ergastoli, ben 21 dei quali dal Tribunale di Sciacca (Agrigento). In maggioranza gli ergastoli andarono a colpire le mafie dell’interno, quella di Gangi tra le altre. Non è un caso, credo, se la mafia delle Madonie non recuperò mai la centralità che aveva avuto in periodo prefascista. Il grande rapporto di polizia del 1938, la cui natura tra poco illustreremo, spiega che nel periodo di Mori la mafia della provincia di Trapani non venne «attaccata in profondità», che negli anni trenta era ancora «con tutti i suoi quadri al completo»53. Noi già sappiamo della scarsa incidenza della repressione a Castellammare, roccaforte siculoamericana. La mafia del Trapanese era pronta per riassumere un ruolo centrale nel cinquantennio successivo. E modesto fu l’impatto della repressione MoriGiampietro nell’agro palermitano, il luogo in cui la mafia era maggiormente innervata di relazioni con la classe dirigente, il terreno della sua più pericolosa riproduzione attraverso il tempo. Gli investigatori del 1938 descrissero il modo in cui in quest’area decisiva i mafiosi, man mano che uscivano di prigione e tra un periodo di
confino e l’altro, riottenevano le gabelle, tornavano a occuparsi dei propri affari, si impegnavano in nuove guerre di mafia. Molto rumore per nulla? Per ottenere risultati modesti, diciamo. Basterà comparare le pene erogate nel contesto dell’operazione Mori con le centinaia di ergastoli inflitti nella tarda età repubblicana, dopo il maxiprocesso palermitano del 198587. Mi riservo di tornarci a suo tempo; possiamo però dire sin d’ora che dal confronto esce radicalmente smentita la tesi – così inquietante per la nostra coscienza civile – stando alla quale la repressione di una patologia così profondamente radicata sarebbe possibile solo per un regime superautoritario, e impossibile per uno democratico. Statistica criminale. Sul breve termine, si ebbe un calo verticale dei reati dopo il 1925, anche se poi, già all’inizio degli anni trenta, la mafia fornì non dubbi segni di vita. Citiamo un po’ a caso dagli archivi di polizia. Nel 1932, nel centro di Canicattì, furono consumati tre omicidi «le cui modalità di esecuzione ed il mistero profondo in cui rimangono tuttora avvolti» rimandano a «delitti tipici di organizzazioni mafiose»; intorno a Partinico, alla metà degli anni trenta, si verificarono «incendi, danneggiamenti, omicidi […] a sfondo eminentemente associativo»54. Proprio nel 1932 fu emanata l’amnistia che consentì a tutti i condannati per associazione negli anni precedenti di uscire. Assassinî di mafiosi di primo piano si susseguirono nell’agro palermitano dopo il 193455. Su questa recrudescenza, alla stampa fu ordinato di tacere. Va rilevato un aspetto importante: a Mori era stata assegnata una funzione di coordinamento interprovinciale delle forze di polizia, che spezzava l’ordinamento tradizionale dell’amministrazione statale. Il suo successore alla guida della prefettura palermitana non aveva il suo carisma (tra l’altro, veniva dal Partito fascista, non dalla «carriera»), donde i conflitti di competenza che lo opposero ad esempio al prefetto di Trapani. Per un funzionario della carriera civile, d’altronde (già ai tempi di Mori) non era facile controllare i carabinieri. Il governo cercò di sopperire creando un Ispettorato interprovinciale di Ps per la Sicilia, affidandolo all’ex collaboratore di Mori, il già citato Giuseppe Gueli, affiancato da un alto ufficiale dei carabinieri. Si mosse nella logica che Coco, in sede storiografica, ha detto delle polizie speciali. Ma non per questo i contrasti tra la polizia e l’Arma ebbero fine56. Va qui sottolineato l’ennesimo intreccio – dallo Stato liberale a quello fascista – di personale e metodi utilizzati nella caccia ai sovversivi e nella caccia ai mafiosi. Gueli aveva fatto esperienza di polizia politica nella delicata frontiera statale ed etnica dell’Alto Adige. E l’organizzazione dell’Ispettorato, che era di base regionale come (in generale) quella dell’Ovra (la polizia politica del regime), si ispirò alle stesse metodologie. Gueli, pur proclamandosi allievo e ammiratore di Mori, non mancò di criticarne l’eccessiva tendenza alla spettacolarizzazione. Come l’Ovra, l’Ispettorato voleva essere un istituto che agiva in maniera sotterranea, composto da investigatori superspecializzati, «snello e dinamico», «con disponibilità ristretta al minimo indispensabile»57. E torniamo alla valutazione retrospettiva dei risultati dell’operazione Mori contenuta nel grande documento stilato dagli investigatori dell’Ispettorato nel 1938, che già abbiamo citato. La valutazione è questa. La mafia allora «fu sfrondata, potata, quasi intaccata al tronco, ma la base e le radici rimasero intatte, perché costituite dai cosiddetti “stati maggiori” ormai notoriamente composti da professionisti, titolati e da individui, in genere, di elevata classe sociale». Di fronte alle iniziative rinnovatrici del regime fascista «le cricche politico mafiose non hanno mai disarmato, pur predicando ostentatamente il contrario». Sono seguite manovre intese a «impietosire la cosiddetta opinione pubblica», vari (inopportuni!) «provvedimenti di clemenza», e (a partire dal 1933) l’«immancabile rallentamento da parte degli organi di polizia, già tacciati e calunniati di presunti eccessi». La mafia ne ha approfittato per riorganizzarsi e ripartire. Forse oggi non è meno pericolosa di ieri58. Sono stato colpito, e non per il gusto delle facili analogie, dalla somiglianza tra questi dubbi sull’efficacia dell’operazione antimafia del fascismo del 192629 e quelli sull’efficacia dell’antimafia di età repubblicana culminata nel 1993. Ci torneremo. Comunque, per restare al documento del 1938, si noti il riferimento alla capacità di condizionamento degli «stati maggiori» politici, altoborghesi, «titolati». Per capirne di più vorrei ripartire da uno dei processi, riguardante non un’associazione ma un singolo omicidio perpetrato nella Conca d’oro nel giugno del 1927, cioè dopo la grande retata dell’aprilemaggio 1926. Ne è teatro Villa Adriana, residenza del barone Luigi Bordonaro di Gebbiarossa. Ne è vittima un amministratore di ceto borghese, assunto dal proprietario di recente, appunto dopo l’avvio dell’operazione antimafia. Il colpevole è il figlio di Salvatore Sciacca detto Cola Innusa, il quale da quasi trent’anni è il curatolo (gestore) della villa59. Evidentemente la famiglia Sciacca considerava Villa Adriana di propria pertinenza, tanto da non tollerare l’intruso. Sciacca padre ha un alibi, il migliore: al momento del delitto scorta il suo padrone, in giro per affari in provincia. Invece Sciacca figlio è reo confesso. Il punto è: avrà agito A) di propria iniziativa, «d’impeto», o B) su mandato del padre? La difesa cerca di accreditare l’ipotesi A, in due arringhe. Nella prima arringa, il primo avvocato racconta un apologo, basato su una immaginaria discussione tra giurati connotati per estrazione regionale: il napoletano, il lombardo, il palermitano. Attribuisce al palermitano (ovviamente)
il compito di spiegare agli altri l’essenza antropologica della questione. Cola è in effetti mafioso, «se per mafioso intendiamo uomo che divide i sentimenti di campagna, omertà, farsi i fatti propri, procurare qualche testimonianza. Questo sì, collega. Uomo di giardino era». Però «il Presidente ci ha dato incarico di esaminare non se era mafioso ma se era delinquente. Vi dimostro invece che era costretto a lottare contro la delinquenza». A Villa Adriana, in trent’anni, non si era verificato alcun furto. «I delinquenti della contrada sapevano che non dovevano fare male ai componenti di essa [famiglia baronale] altrimenti l’uomo del giardino li avrebbe fatti ammazzare per proteggerli e difenderli»60. Seconda arringa. «L’uomo di campagna resta sempre primitivo», mentre Cola si è civilizzato. Viaggia col barone Gebbiarossa, conosce città, vi dimora per lunghi tratti, fa operazioni in banca, si affianca sempre al padrone, con lui alloggia negli stessi alberghi, viaggia nello stesso scompartimento ferroviario, fuma gli stessi sigari, è invitato a pranzo insieme col barone, si asside alla stessa mensa di casa Gangitano […] Non è più, non può essere più «u zu Cola» ma è per opera dello stesso padrone, per volontà del padrone, divenuto don Cola61.
La difesa vuol dimostrare che don Cola è in tutto e per tutto una creatura del suo padrone, capace di uccidere per lui ma non per proprio conto. Quale indicatore essa assume a riprova che si tratta veramente di un fidato difensore della proprietà? Il fatto che il barone Gebbiarossa non si sia liberato di lui per quanto già da un anno, con le retate, il fascismo abbia liberato lui e gli altri proprietari da ogni costrizione. L’accusa non ipotizza nemmeno una qualche responsabilità penale del barone (noi diremmo: un concorso esterno in associazione mafiosa). La difesa sostiene che su questa base andrebbe assolto anche il mafioso. In margine al processo per il delitto di Villa Adriana, due mie considerazioni più generali. Prima considerazione. Nessun grande proprietario fu condannato, e neppure incriminato, nei processi fascisti. D’altronde l’intera operazione Mori aveva come finalità di base il recupero al fascismo di questo ceto sociale, come abbiamo visto ragionando di Sgadari, dei risultati dell’epurazione di Cucco, e dell’aumento della rendita fondiaria. Diciamo che venne colpita la mafia militante, ivi compresa quella dei più agiati facinorosi della classe media, e furono salvati i grandi manutengoli collocati nella fascia alta della scala sociale. Seconda considerazione. Dipingendo la figura dell’«uomo di campagna» o «di giardino», barbaro ma fedele, gli avvocati difensori, questa parte così importante della classe dirigente locale, tornarono a schierarsi sul fronte dell’identità etnica e dell’immaginazione antropologica, la posizione migliore da cui contrastare (come sempre avevano fatto) l’idea della mafia come fenomeno associativo criminale. Non disdegnarono clamorose manifestazioni collettive poco consone allo spirito dei tempi, come l’abbandono della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 1927, polemico con le lineeguida esposte da Giampietro in tema di riapertura dei procedimenti chiusi per insufficienza di prove, e di supervalutazione dei rapporti di polizia come elementi probatori62. La protesta era guidata dal presidente dell’ordine Vincenzo Puglia. Si trattava del figlio di Giuseppe Mario Puglia, che abbiamo già conosciuto come difensore dei diritti della Sicilia al tempo del malgoverno della Destra, e del padre di Vincenzo Puglia, cui si deve il più temerario degli interventi pubblicistici antiGiampietro, esplicitamente intitolato Il mafioso non è un associato a delinquere. Centrale era qui il richiamo al «vero e insostituibile conoscitore dell’anima siciliana» – ovvero, come al solito, a Pitrè63. E naturalmente il teatro delle più esplicite manifestazioni in questa direzione fu quello processuale. Abbiamo citato il processo di Villa Adriana, citiamo anche quello contro la mafia di Bisacquino (1930), nel corso del quale l’avvocato di Vito CascioFerro affermò che nel suo assistito la mafia rappresentava «un atteggiamento di spiccato individualismo spavaldo, spoglio di cattiveria, di bassezza e di criminalità». Anche qui non poteva mancare la citazione di Pitrè64. Fallirono, gli avvocati? Direi di no. La loro fu la parte più visibile della mobilitazione della classe dirigente, della «cosiddetta opinione pubblica» chiamata in causa dagli investigatori dell’Ispettorato, intesa a ridimensionare gli effetti dell’operazione Mori. E a rilegittimare le relazioni tra i tanti omologhi del barone di Gebbiarossa e i tanti omologhi di Salvatore Sciacca; il loro mantenersi, il loro rinnovarsi. Gli estensori del rapporto del 1938 erano ben consapevoli del problema. Proprio per questa ragione, si collocarono con maggiore radicalismo sulla linea dei loro predecessori di età liberale, nella polemica antica quanto la mafia stessa, pro e contro gli «stati maggiori» isolani (avvocati, intellettuali, politici) e la loro illustre tradizione culturale. La mafia, dissero, «non è un semplice stato d’animo o un abito mentale, ma diffonde l’uno e l’altro da una base di piena organizzazione»65. E si tratta, scrissero, di un’organizzazione integrata, che va considerata e combattuta nel suo insieme. Certo, l’Ispettorato era un istituto di polizia «speciale», creato da un regime totalitario, che per opinione diffusa faceva ricorso alla tortura, che di certo non coltivava scrupoli legalitari. Basò comunque la sua tesi su una quantità di testimonianze dall’interno e, tra l’altro, sulla confessione del dottor Allegra, che noi già parzialmente conosciamo. La struttura dell’organizzazione mafiosa che i testimoni ci descrivono è uguale a quella di Cosa nostra, quale risulterà venticinque anni più tardi dalla testimonianza di Joe Valachi (Stati Uniti, 1963), e quarantacinque anni più tardi da quella di Tommaso Buscetta (Sicilia, 1984). In questo senso il documento del 1938 è di straordinaria
importanza, quanto e più di quello firmato da Sangiorgi nel 18981900. La mafia, ci dice, è articolata in «Famiglie» ognuna delle quali ha al suo interno gruppi minori, detti «decine», ed elegge un «presidente» o «rappresentante» – delegato appunto a rappresentarla in un qualche istituto direttivo. I membri della società si chiamano «fratuzzi» o uomini d’onore. L’organizzazione esiste in Sicilia come negli Stati Uniti (oltre che in Francia e in Tunisia)66. Qualche osservazione sul termine «Famiglia». Non vuole qui indicare un’entità parentale più o meno allargata, ma il gruppo base dell’organizzazione settariamafiosa in cui si entra mediante il rituale di affiliazione. Il modello, per gli inquirenti, è quello massonico. Come abbiamo visto, per spiegare la forza della mafia gli investigatori chiamano in causa innanzitutto la grande tenuta della rete protettiva degli «stati maggiori». Però tengono ben conto anche del nucleo duro della rete mafiosa, l’organizzazione segreta i cui confini sono sanciti dalla cerimonia dell’affiliazione. La rete «esterna» è interclassista ma anche questo suo nucleo lo è. Comprende proprietari, professionisti, medici. Uno dei medici è il dottor Allegra, alla cui testimonianza possiamo tornare per quanto attiene al rito della sua affiliazione, avvenuta poco dopo che Giulio D’Agati, boss della mafia di Villabate, e Francesco Motisi, boss della mafia di Pagliarelli, l’avevano contattato. Motisi, insieme a certo Vincenzo Di Martino, lo portò in un magazzino di agrumi sito in una traversa di via Crispi (vicino al porto) di sua proprietà. Lì gli fu spiegato che la mafia era «una associazione molto potente, che comprendeva molta gente di tutte le categorie sociali, non escluse le migliori». Gli fu detto delle sue ramificazioni in Tunisia, nelle Americhe, in qualche centro del continente, a Marsiglia, e della sua articolazione in «Famiglie»: ogni paese aveva la sua, ma a Palermo ce n’erano parecchie, una per ogni rione. C’era – spiega il medico ai funzionari che lo interrogano – un «collegamento sostanziale e non formale che attraverso i capi, legava in tutte le province i gruppi»67. Fu chiesto ad Allegra se voleva aderire, e lui rispose di sì. Venne così sottoposto al rituale, di cui possiamo prendere cognizione attraverso le sue stesse parole: il signor Di Martino, dietro invito del signor Motisi, con uno spillo o ago che fosse, mi punse il polpastrello del dito medio di una mano, facendo uscire una goccia di sangue con la quale venne intrisa una immagine in carta di una santa. Tale immagine sacra, venne infiammata ed io dovetti tenerla in mano mentre ripetevo una formula di giuramento suggerita dagli altri; dissi presso a poco questo: «Giuro di essere fedele ai miei fratelli, di non tradirli mai, di aiutarli sempre, e se così non fosse, io possa bruciare e disperdermi, come si disperde questa immagine che si consuma in cenere». Dopo di questo ci fu un abbraccio e un bacio generale e quindi il seguito delle istruzioni68.
Altre testimonianze su giuramenti troviamo nella documentazione dell’Ispettorato. Il caso più antico documentato risale al 1894. L’affiliando viene sempre preparato con discorsi analoghi a quelli fatti ad Allegra, anche se forse il dottore ha più bisogno di questa preparazione dei neofiti provenienti da dinastie mafiose citate nel rapporto del 1938, che ne sanno già molto. Il giuramento peraltro raggiuge luoghi ben più remoti. Al proposito, facciamo un salto attraverso l’oceano, e arriviamo in una grande casa situata in una zona rurale, nella parte interna dello Stato di New York, alquanto distante dalla metropoli. Siamo nel 1931. Qui troviamo Joe Valachi (il futuro supertestimone), criminale di piccolo calibro aggregatosi alla banda dei castellammaresi in previsione della prossima gangwar. La mafia non usa fare ricorso a killer a pagamento, e i castellammaresi hanno deciso di far giurare la recluta come si usa dalle parti loro. Nella grande casa, egli trova un gran numero di persone riunito intorno a un enorme tavolo sul quale stanno un coltello e un pugnale. Presiede Maranzano. Parole solenni vengono pronunciate sugli obblighi e sui vantaggi che deriveranno al neofita dall’appartenenza al gruppo. Gli viene chiesto di bruciare un pezzetto di carta, e un «padrino» estratto a sorte tra i presenti – Bonanno – gli punge un dito facendo fuoriuscire un po’ di sangue, dopo di che tutti battono le mani e si baciano69. Noi già conosciamo il rito. Rileviamo però una differenza rispetto alla testimonianza di Allegra e alle altre su cui si basano gli investigatori dell’Ispettorato. Delle cose dette, della formula dettatagli e da lui stesso ripetuta, Valachi non capisce quasi nulla perché le parole sono in siciliano – dialetto che non conosce come, sembra, ben poco conosce l’italiano. Solo quando tutto è compiuto gli viene detto in inglese che l’affiliato vive di pistola e coltello, e di quelli deve aspettarsi di morire; che non può avere relazioni con le mogli di altri affiliati, né tradire la società o rivelare il segreto del giuramento, altrimenti brucerà come quel pezzo di carta70. Il nome. Allegra precisò: l’associazione da lui descritta era proprio quella che all’esterno (da chi non ne sapeva gran che) veniva indicata come «mafia». Usò poi lui stesso, in diverse occasioni, questa parola ma il più delle volte mettendola tra virgolette, come a beneficio dei verbalizzanti. Come altra volta ho osservato, gli affiliati non amano usare la parola mafia. Il testimone spiegò che i membri dell’organizzazione «erano chiamati uomini d’onore» ed è possibile che costoro (al pari di Nick Gentile) la chiamassero «onorata società», o con qualche nome analogo. Nessun indizio porta a pensare che dicessero «Cosa nostra», come avrebbero fatto decenni più tardi Valachi e Buscetta.
1 Non posso che rimandare a Lupo 2000. 2 A. Cortesi, The Mafia Dead, a New Sicily Is Born, in «New York Times», 4 marzo 1928; anche Mori War on the Mafia, ivi, 17 gennaio 1928. 3 «Giornale di Sicilia», 22 gennaio 1926; ivi, 15 gennaio 1928. 4 Coco 2017. Spanò 1978, scritto dal figlio del poliziotto, attinge a documenti dell’archivio paterno. 5 Mori 1932, p. 242. 6 Discorso pronunciato ad Alcamo, ibid., pp. 26871. 7 Ibid., p. 244. 8 Ibid., p. 338. 9 Ibid., pp. 351 sgg. 10 S. Sirena, L’azione della Commissione per le affittanze agrarie, in «Giornale di Sicilia», 18 febbraio 1928. 11 Lettera di G. GuarinoAmella a Mori, cit. da Duggan 1986, pp. 2023. 12 Relazione del viceprefetto Di Feo, cit. ibid.,
p. 87. Commento cinico di Mori 1932, p. 365: la gente deportata si trovava come in «villeggiatura». 13 Gower Chapman 1985, pp. 2931. 14 Raccolto e pubblicato da Naro 1991, pp. 623. 15 Verbale di denuncia del 15 settembre 1921, ASPA, sez. Termini I., Corte di Assise di TI, 1928, fasc. 26. Scognamillo 201314. 16 Un anonimo «proprietario minacciato» al prefetto, giugno 1912, in ACS, PG, 1913, b. 374. Relazione Di Blasi, 15 settembre 1926, I, in Antimafia, Doc., IV, t. 5, 339. 17 Relazione Di Blasi, 26 febbraio 1928, II, in Antimafia, Doc., IV, t. 3, p. 371. 18 Lettera di V. Franco cit. da Spanò 1978, p. 33. Il mafioso in questione si chiamava Pietro Palazzolo. 19 Spanò 1978, pp. 42 sgg. 20 Duggan 1986, p. 203. 21 La lettera in ACS, AC, Podestà: Palermo, Gangi. 22 Montanelli 1955, p. 284. 23 Si vedano i tre documenti cit. in Petrotta 2001, pp. 1368. 24 Ricorso della cooperativa del 19 ottobre 1927 e replica di Mori del 13 dicembre in ACS, PS, cat. G1 (Associazioni), b. 141. 25 Cucco, Il mio rogo, pubblicato in appendice a Di Figlia 2007, p. 195. 26 Lupo 2000, pp. 247 sgg. 27 Cucco, Il mio rogo, pubblicato in appendice a Di Figlia 2007, p. 199. 28 Alla testa della federazione fu messo un triumvirato formato dal duca Ugo Parodi di Belsito, dal marchese Paternò di Spedalotto, oltre che da Concetto Sgarlata, uomo di Mori. 29 Ricorso dell’aprile 1927, in ACS, Segreteria CR, b. 39, fasc. personale di Cucco, p. 2. In questo senso anche Spanò 1978, p. 38. 30 Nota del 23 gennaio 1927 di T. Whitaker Scalia, in Trevelyan 1977, p. 357. 31 Lettera di Di Giorgio a Mussolini del 19 marzo 1928, in Caprì 1977, p. 48 e passim. 32 Lettera del questore A. Crimi, 25 settembre 1927, cit. in Coco 2017, p. 61. 33 Di Figlia 2008, pp. 2930. Peraltro il leader fascista venne anche coinvolto nel grande affare dell’emigrazione clandestina, per cui venne condannato un suo stretto collaboratore. 34 Mori 1932, p. 84. 35 Duggan 1986, pp. 95 sgg. 36 Cfr. anche Andretta 2005, pp. 2256. 37 Coco Patti 2008. 38 Cit. da Blando 2008. 39 Ibid. 40 Rapporto del 1927 collazionato in Memorandum on Sicily under Italian Rule, in Public Record Office, Foreign Office, 371/33251. Tra i riferimenti a torture rinvio a quello dell’avvocato ed ex deputato radicale A. Abisso, pure impegnato nel fiancheggiamento dell’operazione Mori, in «Giornale di Sicilia», 11 gennaio 1929. 41 Arringa dell’avvocato F. Trigona della Foresta, ivi, 25 dicembre 1930; accuse in qualche modo confermate dallo stesso pubblico ministero, ivi, 27 novembre 1930. 42 Scalia 2008, pp. 101 sgg. 43 Blando 2008, p. 65. Questa impostazione veniva sistematizzata da uno dei suoi sostituti procuratori di punta, Lo Schiavo 1933. 44 Di Blasi 1930; Lo Schiavo 1933. 45 Intervento di I. Messina, giudice istruttore dei processi contro le cosche di Bisacquino e Corleone, in Antimafia, Doc., III, t. 1, p. 367. 46 Anche nella dottrina, qualche risultato la tesi della mafia come associazione lo ottenne: Visconti 2003, pp. 60 sgg. 47 «Giornale di Sicilia», 6 maggio e 7 giugno 1929. 48 Patti 2008, pp. 7980. 49 Ibid., p. 75. 50 «Giornale di Sicilia», 13 gennaio 1928. La legge è la n. 1254 del 15 luglio 1926.
51 Fu il caso di Mauro Farinella, appartenente a una dinastia di capimafia di San Mauro Castelverde che, dopo aver scontato otto anni di
prigione, morì nel 1940 mentre scontava il suo secondo quadriennio di confino. 52 Montanelli 1955, p. 283. 53 Verbale Ispettorato 1938, p. 59. 54 ACS, MI, CPM; le citazioni dalle bb. 138 e 85. 55 Coco Patti 2010, pp. 368. 56 Coco 2017. Su questa nuova fase della repressione accenni già in due libri scritti rispettivamente da un ufficiale dei carabinieri, Candida 1966, e dal figlio di un funzionario di polizia, Spanò 1978. 57 Coco 2017, p. 85. 58 Verbale Ispettorato 1938, pp. 557. 59 Le cronache del processo in «Giornale di Sicilia», 12 marzo 1928 sgg. Sciacca era suocero di quel Giuseppe Biondo già da Sangiorgi descritto quale alto papavero della fazione Giammona a fine Ottocento. 60 Ivi, 31 marzo 1928. L’avvocato si chiamava Ferdinando Li Donni. 61 Ivi, 26 marzo 1928. L’avvocato si chiamava Berna. 62 Telex di Mori del 24 gennaio 1927: «dietro avvocati stanno mafia, delinquenza, affarismo che sperano respiro», in ACS, PS, cat. G1, 1927, b. 128. 63 Puglia 1930, p. 5. 64 Arringa dell’avv. G. Russo Perez, in «Giornale di Sicilia», 6 giugno 1930. 65 Verbale Ispettorato 1938, p. 63. 66 Ibid., pp. 63, 136 (testimonianza di Salvatore Anello detto maistreddu), e passim. Non moltissimo vien fuori dal documento sulle relazioni con l’America. Vi si narrano comunque casi di mafiosi rifugiatisi oltre oceano e anche di reduci dal nuovo mondo subito cooptati in ruoli dirigenti negli organigrammi palermitani. 67 Testimonianza Allegra. 68 Ibid. 69 Sua testimonianza in McClellan Hearings, pp. 180 sgg. 70 Ivi, pp. 1815.
VII. Gangster e mafiosi
Torniamo in America. Nel 1932, quando viene abolito il proibizionismo, o nel 1935, quando Maurice Berger, giornalista del «New York Times», delinea la figura del «racketeer moderno», cioè dell’età postproibizionista. Lo descrive mentre lavora in ufficio come un manager, dopo aver abbandonato la strada; mentre si mostra nei locali o nei club politici senza più temere per la propria vita; mentre si mischia alle classi superiori sul campo da golf o alle corse dei cavalli. «I boss del racket hanno in gran parte ambizioni sociali», e massimamente desiderano che il mondo li consideri «veri businessmen»1. Berger dà grande rilievo alla figura emergente nel settore italiano, Lucky Luciano2. Lo dipinge come un «personaggio così popolare a Broadway», frequentatore abituale dei night club di sua proprietà o dei posti di prima fila del Madison Square Garden, o altrimenti di Miami per le vacanze al mare. Dice: lo si può incontrare sì, ancora, in qualche caffè italiano dell’East Side, però non perché ce lo porti la nostalgia, bensì per un calcolo, «per mostrare agli amici che il successo non ha fatto di lui uno snob»3. Fa coincidere la modernità con l’uscita dal ghetto fisico e mentale del vecchio mondo. Con l’americanizzazione, insomma. Lo dico subito. Il quadro è intrigante, ma non del tutto convincente. Esprime il bisogno di normalità dell’opinione pubblica dopo gli sconvolgimenti degli anni venti. Riflette certo l’aspirazione dei boss del gangsterismo, emanciparsi dalla sporcizia della strada e dal lezzo dei morti ammazzati. Ma resta distante dalla realtà. Quanto a Luciano: in effetti ha cercato, cerca e cercherà di dare di se stesso l’impressione dell’uomo emancipatosi dal retaggio del «vecchio paese». Però resta un gangster siciliano d’America e la sua storia si intreccia indissolubilmente con quella della mafia o – come si diceva in America tra le due guerre – dell’Unione siciliana. Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro, tornando a quel 193031 in cui a New York la conflittualità, nel gangsterismo italiano, raggiunse una misura che ai contemporanei sembrò superiore a «qualsiasi cosa questa città abbia mai conosciuto in passato»4. 1. Guerra castellammarese. Il principale tra gli scontri tra gang, nella New York del 193031, ebbe protagonisti siciliani: da un lato il boss per eccellenza, Joe Masseria; in mezzo appunto Luciano; sul versante opposto l’ultimo castellammarese giunto nel nuovo mondo, Salvatore Maranzano. Da qui il termine «guerra castellammarese». Ripartiamo dal punto del Luciano Testament, di cui abbiamo detto nel capitolo quarto, in cui il giovane boss, Luciano, esprime grande antipatia per quell’old bastard, Maranzano, per la sua mafia e per tutte le sue diavolerie da vecchio mondo5. Lo incontrò per la prima volta (1926?) al ristorante Palermo di Brooklyn, vestito in maniera ricercata, con al dito un anello di diamanti con iniziali. Fu infastidito nel sentirsi chiamare «giovane Cesare», vedendolo prodigarsi in citazioni in latino. Non seppe che rispondergli quando gli fu chiesto perché mai avesse abbandonato il nome che li accomunava – Salvatore. Non voleva spiegare il suo desiderio di tenersi lontano da tutte le sicilianerie, e non accolse l’invito del suo interlocutore a farla finita con le amicizie ebraiche. Solo, accettò di brindare insieme a lui con vino rosso siciliano, secondo l’antica usanza siciliana. Uscendo, Luciano pensò che il vino era acido e che, «con tutta la sua cultura […], quello era un dago cui potevi dare piscia o aceto e l’avrebbe bevuto, purché fosse rosso e venisse dalla Sicilia». La considerazione valse a placare i suoi complessi d’inferiorità: confidava che anche le altre componenti di quell’armamentario portato dal vecchio mondo potessero rivelarsi imbevibili nel nuovo. Reagì ancor peggio nel corso di un secondo incontro, quando Maranzano fece ricorso alla retorica familista tipica dei suoi pari definendolo «il suo bambino»: Che diritto aveva quel coglione di prendere il posto del mio vecchio? Una cosa era fare un affare, un’altra cosa giocare al papà con me – in italiano «papà» significa Papa. Stava giocando con me un’altra volta lo stesso dannato gioco. Gli avrei sparato all’istante6.
Una terza volta Luciano fu oggetto di un’attenzione di Maranzano di tutt’altra natura, quando fu sottoposto dai castellammaresi a un pestaggio da cui uscì vivo per mera fortuna, guadagnandosi il soprannome Lucky. Comprese in quell’occasione (o, almeno, così leggiamo nel Testamento) che bisognava farla finita con le logiche di «vendetta»
portate da quella gente immancabilmente provvista di baffi («old mustaches»), proveniente dal vecchio paese. «Tutti noi giovani odiavamo gli old mustaches e quello che stavano facendo. Noi cercavamo di portare avanti un business al passo coi tempi e loro ancora vivevano al livello di cento anni prima»7. Per il momento comunque non trovò di meglio che allearsi con Joe the boss Masseria, un altro che considerava un rottame del vecchio mondo, ma del quale rispettava la forza – sapeva che lui e i castellammaresi stavano andando allo scontro. Qui lasciamo un attimo da parte il Luciano Testament, e affidiamoci alle informazioni di un altro dei reduci della guerra castellammarese, Valachi, il quale entrò nel gruppo di fuoco di Maranzano, che eliminò diversi luogotenenti di Masseria8. A questo punto (sembra) Luciano, coadiuvato dai fidi Costello e Genovese, decise di mollare Joe the boss e lo fece uccidere (15 aprile 1931) per andare a una mediazione con la controparte, e riprendere gli affari «as usual». I giornali americani e quelli palermitani che osservavano il tutto da oltreoceano, interpretarono questo delitto come un segnale che l’«Invisibile governo» del racket intendeva restaurare l’ordine. E le forze dell’ordine ufficiale? In sostanza si guardavano dall’interferire, quasi che quelle vicende non le riguardassero9. Segnaliamo gli elementi d’ambiente e se volete di colore. Joe the boss trovò il suo destino nello scenario di un ristorante italiano di Coney Island, Nuova Villa Tammaro, nella saletta riservata dove tipicamente stava giocando a poker dopo aver consumato una cena per nulla frugale10. Seguì l’altrettanto tipica manifestazione etnica del suo funerale, cui nel Lower East Side parteciparono ben cinquemila persone, con il morto «portato alla tomba al suono di canti mesti», con una sua immagine che faceva bella mostra di sé «su un carro da sei cavalli, tirato dai fedelissimi»11. Chi esprimeva la propria solidarietà nell’ultima ora di un topgangster? Altri criminali, certo, ma anche politici, uomini d’affari, gente comune. Ancora elementi di colore, stavolta sul fronte dei vincenti, troviamo tornando al Luciano Testament, stando al quale Maranzano convocò un’assemblea con cinquecento partecipanti, nella «grande sala per ricevimenti del Grand Concourse nel Bronx». Il lettore troverà inverosimile che i gangster discutessero di temi delicati nel corso di un’assemblea così affollata, eppure narrano di aver partecipato al meeting – o ad altro analogo – anche gli altri reduci della guerra castellammarese, Valachi, Gentile e Bonanno12. Lo fecero magari, dunque, in margine alla riunione di una di quelle associazioni di «paesani» che si richiamavano a qualche santo patrono. È in effetti di questa natura l’ambiente descritto nel Last Testament: Tutto l’ambiente era praticamente ricoperto di croci, immagini religiose, statue della Vergine e di santi di cui non avevo mai sentito parlare. Maranzano era il più grande patito di croci al mondo – portava croci al collo, ne aveva nelle tasche, dovunque fosse c’erano croci dappertutto13.
Maranzano, sempre stando alla nostra fonte, era un «fanatico» della religione, e pretendeva che i suoi frequentassero assiduamente la chiesa, senza curarsi della naturale obiezione – come può accostarsi all’altare chi ha le mani sporche di sangue? Noi già sappiamo dell’importanza del cattolicesimo nel corredo identitario mafioso. La immaginiamo tanto maggiore per gente che si trovava a dover agire in terra straniera, protestante, e in un campo periglioso come quello criminale. Perché lo pseudotestamento rappresenta tutto questo in modo così negativo? Per mostrare l’avanzamento di Luciano nel processo di americanizzazione, il suo rifiuto della cultura del vecchio mondo. Sempre il Luciano Testament racconta della riorganizzazione del sistema, sancita dal nuovo boss, in cinque gruppi ribattezzati «Famiglie»: «eufemismo» con cui, precisa, intendeva evitare vocaboli di per sé connotati in senso negativo quali «gang» o «mob». La fonte spiega che Maranzano enunciò le regole che avrebbero dovuto garantire la convivenza pacifica tra i gruppi e il reciproco rispetto tra i membri di ogni singolo gruppo; che si autonominò «capo dei capi» secondo l’antico uso della mafia siciliana14. Altri reduci della guerra castellammarese non l’hanno raccontata molto diversamente. La nostra vecchia conoscenza Nick Gentile dipinge il boss castellammarese come un «presidente di corte d’assise» pronto a condannare i suoi avversari alla pena capitale, come un «Pancho Villa» impegnato in ribellioni insensate15. Persino Bonanno ammette che, chissà, Maranzano può essersi lasciato trasportare dalla vertigine del successo, pur ribadendo che si trattava di un vero leader, dell’alfiere di una tradizione in cui al massimo alcuni capi esercitano «maggiore influenza» e vengono «consultati più degli altri»16. Luciano si mosse d’anticipo quando Maranzano cominciò a sconfinare nel labor racket ebraico di Manhattan di Lepke e Gurrah. Un commando composto proprio da ebrei, sconosciuti dunque alle guardie del corpo del boss castellammarese, e travestiti per giunta da poliziotti, penetrò nel lussuoso ufficio del boss castellammarese in Park Avenue e lo eliminò (10 settembre 1931). I detective del Dipartimento di polizia presero atto che il morto era stato «uno dei pezzi grossi del racket nel paese». Consultarono i documenti del suo ufficio e la famosa agendina nera con i nomi dei suoi contatti nel mondo «di sopra». Rivelarono alla stampa che era stato eletto nel giugno precedente a Coney Island (un’altra riunione pubblica?)
capo dell’«Unione siciliana» al posto di Lucky Luciano. Lasciarono intendere che l’assassinio chiudeva la lotta al vertice dell’organizzazione17. 2. Sotto processo anche in America. Sino a quel momento, la criminalità newyorkese andata al potere col proibizionismo aveva goduto di sostanziale impunità. Può dirsi che le varie fazioni si selezionassero da sé, accumulando denaro e amicizie, eliminando i concorrenti a raffiche di mitra. Nel corso degli anni trenta le cose cambiarono radicalmente, e non solo per l’abolizione del proibizionismo ma per un nuovo attivismo delle istituzioni pubbliche sul fronte della repressione. La legge, e non la concorrenza mise fuori gioco i topgangster di Manhattan nella fase successiva. Nei nuovi tempi, sopravvissero quelli che seppero evitare l’urto. Va considerato il mutamento della situazione politica generale. Nel ’29 era crollata la borsa, la grande depressione aveva afferrato alla gola il paese. L’opinione pubblica era assai meno disponibile a tollerare la corruzione metropolitana così ben rappresentata dal sindaco Walker. I repubblicani cercarono di cavalcare la protesta, la quale peraltro trovò udienza all’interno dello stesso campo democratico in Franklin D. Roosevelt, membro della tradizionale élite politica e sociale, all’epoca governatore dello Stato. D’altronde anche in passato da quel punto si erano sviluppati movimenti moralizzatori o riformatori, sollevamenti contro la macchina politica che aveva conquistato il ventre della metropoli. Roosevelt commissionò un’inchiesta sulla corruzione tra i pubblici ufficiali che non mancò di rilevare «quanto profondamente il racket pervadesse la struttura economica di New York», la grande quantità e varietà dei settori «soggetti all’estorsione organizzata»18. Le stesse autorità che negli anni precedenti si erano mostrate così distratte si dissero preoccupate non solo del fiorire di un’economia illegale, ma anche della situazione in quella legale: vennero dichiarati affetti da racket – cito un po’ a caso – negozi di fiori, industrie tessili di varia natura, pompe funebri, macellerie kosher, lavavetri, società di taxi, barbieri, lavanderie di Brooklyn, latterie del Bronx…19. Roosevelt fece il passo decisivo nel 1932, dopo aver conseguito la nomination del partito alla presidenza dell’Unione ma ancora nella sua veste di governatore. Mise alla gogna Walker in pubbliche udienze ottenendone le dimissioni, così mostrando la propria autonomia dai dettami della macchina politica metropolitana che pure in molti casi l’aveva sostenuto20. Eletto Roosevelt presidente, avviatosi il New Deal, si rafforzarono i movimenti riformatori con la confluenza di repubblicani progressisti e democratici desiderosi di emanciparsi da Tammany. Democratico e riformatore era il nuovo governatore Herbert Lehman, ostentatamente autonomo dagli apparati dei due partiti (si definiva: «fusionista» o repubblicano progressista «nello stile di Lincoln») il nuovo sindaco Fiorello La Guardia (18821947). La Guardia divenne un simbolo di integrazione e successo per la comunità italoamericana. Già avversario di Walker nelle precedenti elezioni municipali, aveva rappresentato al Congresso l’East Harlem, intercettando una crescente domanda di partecipazione e riforma sociale, una crescita della società civile. Si misurava su un registro plurietnico, magari rivolgendosi ai suoi elettori sia in italiano che in yiddish (la madre era un’ebrea triestina). Sosteneva il nuovo corso anticorruzione e anticriminalità, facendosi fotografare mentre distruggeva personalmente slotmachine e fucili mitragliatori. I funzionari da lui messi a capo del New York Police Department «condividevano un’assenza di remore nella lotta contro la criminalità organizzata»21, il che non scosse la sua popolarità – anzi, di certo la accrebbe. Intanto (1935) Lehman nominava il giovane avvocato repubblicano Thomas Dewey special prosecutor, faceva cioè la stessa mossa che Roosevelt aveva fatto tre anni prima: scavalcare le istituzioni investigative «normali» dichiarandole incapaci o restie a svolgere il loro dovere. A Dewey venne assegnato il compito di «beccare» Dutch Schultz. Abbiamo parlato a suo tempo (capitolo IV) di questo topgangster di origine ebraica, e del suo avvocato e consigliere Richard Dixie Davis. Mentre cercava di eludere Dewey, Dutch Schultz abbassò la guardia e finì ammazzato insieme ai suoi guardaspalle (ottobre 1935). Inizialmente lo stesso comandante del Dipartimento di polizia ipotizzò che il delitto si inquadrasse in una «guerra di sterminio razziale» condotta dagli italiani contro gli ebrei22. La teoria però si sgonfiò ben presto. Non era quella etnica la linea del conflitto. Eliminato Schultz, l’avvocato Dixie Davis cercò di rilevarne il giro d’affari ma senza successo: dovette darsi alla latitanza, e quando Dewey clamorosamente pose via radio una taglia sulla sua testa si consegnò e si decise a collaborare. Incastrò così il suo contatto ai vertici di Tammany Hall, Hines. I riflettori si erano però a quel punto spostati su Luciano. Era descritto come il numero uno, il «leading racketeer», e non solo dal giornalista Berger. Teneva corte alle Waldorf Towers, forte delle ricchezze accumulate col proibizionismo, impegnato in trattative con soci di Chicago e di altre grandi città23. Si era creato una forza politica autonoma sostenendo in prima persona con minacce e lusinghe l’ascesa in Tammany Hall di Albert C. Marinelli;
accanto al quale aveva partecipato alla Convenzione nazionale democratica del 1932, schierandosi per Roosevelt24. Fu arrestato e processato nel 1936 per sfruttamento della prostituzione aggravato dall’utilizzo di metodi costrittivi («compulsory prostitution»). Non so se davvero (come è stato scritto) Dewey puntasse a sminuire il boss accusandolo per quel business «disonorevole» agli occhi dei benpensanti e magari di qualche settore tradizionalista dell’underworld. Sta di fatto che su quello riuscì a trovare prove e testimonianze contro di lui, senza rinunciare a evidenziarne il ruolo in racket ben più grandi25. Interrogandolo, dimostrò che le sue ricchezze non potevano venire che dal crimine, visto che non si sapeva di alcuna sua occupazione legittima a partire dal 1920. Gli fece ammettere le frequentazioni con Masseria, Lepke, Gurrah, e altri; confutò prove alla mano la sua pretesa di non aver conosciuto Terranova e Al Capone26. Alla fine la giuria trovò l’imputato colpevole e il giudice lo condannò a una pena di spropositata entità – da trenta a cinquanta anni di reclusione da scontarsi in un carcere di massima sicurezza. Tale fu l’impressione suscitata della condanna, che Vito Genovese, primo candidato alla successione, preferì nel 1937 rifugiarsi in Italia piuttosto che affrontare un processo per omicidio. È stato scritto in sede storiografica che il procuratore aveva tutto l’interesse a fare di Luciano, gangster non poi così diverso da altri, il nemico pubblico numero uno: tanto più grande era l’allarme, tanto più veniva valorizzata la sua figura del difensore della legge27. Veramente, Luciano non era un gangster come gli altri. Il ragionamento comunque ha la sua logica. L’opinione pubblica poi non si lasciò turbare più di tanto dai metodi «disinvolti» con cui l’accusa venne costruita. Come avrebbe scritto un giornalista qualche anno più tardi, il pubblico non era interessato da queste piccolezze. Se Luciano non era colpevole di sfruttamento della prostituzione, era certamente colpevole di qualcos’altro. La gente pensava – grazie a Dio ce ne siamo liberati. Il giovane Dewey divenne il beniamino del giorno28.
I successi sul fronte giudiziario rafforzarono il fronte politico riformatore. In ambienti vicini a La Guardia, venne fondato proprio nel 1936 un American Labor Party che a New York ottenne notevoli consensi basandosi sul sostegno di alcune organizzazioni sindacali29. Il nuovo partito optò di volta in volta per candidati repubblicani o democratici: così nel 1936 sostenne la rielezione di Roosevelt come presidente e ancora di La Guardia come sindaco, mentre puntò su Dewey per la carica di District Attorney della New York County, cioè di rappresentante della pubblica accusa a Manhattan. Non si poteva vivere, disse Dewey, in un mondo in cui i soli nomi di Lepke e Gurrah «erano quasi leggenda», nel quale bastava a un gorilla dire a un businessman «vengo da parte di L & G» per ottenere quello che voleva. Virtù pubblica ci voleva, e spirito di reazione. D’altronde, spiegò il giovane procuratore, i boss del gangsterismo non erano gli unici parassiti, c’erano anche i boss politici a inquinare la vita pubblica di New York come di altre grandi città. Ricordò: nel 1933 Tammany Hall era stata battuta nelle elezioni a sindaco perché un milione di nuovi elettori erano entrati come dall’esterno a spezzare il sistema, schierandosi a difesa dell’interesse generale30. Riforma politica e morale, mobilitazione della società civile. Noi diremmo antimafia, ma ovviamente non era quello il termine in uso in quei tempi e a quelle latitudini. Possiamo paragonare quest’operazione a quella realizzata dal fascismo dieci anni prima sull’altra sponda dell’oceano? Solo alla lontana. L’idea di base era quella opposta, tipicamente americana, intesa a emancipare il governo locale per consentirgli di svolgere il suo ruolo decisivo nel processo democratico. Dewey andò così a una campagna molto aggressiva31 per ottenere la nomina a procuratore. Era l’inizio di una grande carriera politica. In conclusione. La lotta venne rappresentata come americana e con protagonisti americani quand’anche di origine italiana – si trattasse dei buoni (La Guardia) o dei cattivi (Luciano). Nondimeno l’origine etnica di quest’ultimo entrò in qualche modo nello scenario del processo del 1936, a cominciare dalla strana contraddizione linguistica per cui fu portato alla sbarra con il nome americano da lui scelto ma anche con il cognome italiano da lui detestato, insomma come «Charlie Lucania». Vuole la cronaca che il boss, generalmente imperturbabile, recuperasse d’un tratto l’uso della lingua al momento dell’arresto, quando si rese conto che a mettergli le manette era un poliziotto di origine italiana: «Tu! – sbottò. – Sei un accidente di italiano!». «L’insulto si cumulava all’ingiuria», commentò il cronista rilevando quanto fosse disdicevole un tale esito per il capo dell’Unione siciliana, per il successore di Al Capone e Masseria32. Intrigante il profilo psicologico tracciato dagli investigatori. Falsamente, leggiamo in esso, Lucania sostiene di essere nato a New York, perché in realtà è siciliano. Si tratta di un contadino che del suo ceto e della sua razza conserva i tratti tipici – infantilismo, istintività, primitivismo, servilismo, pigrizia, scarsa reattività al dinamismo degli eventi. È questa cultura che lo rende inassimilabile e lo spinge alla devianza. Viene ritenuto un leader solo perché quella sua passività viene scambiata per forza, procurandogli «quel tanto di rispetto nell’underworld». Dimostra il
massimo della sua estraneità rifiutando esplicitamente di identificarsi nell’americano medio, perché «i suoi ideali di vita si esauriscono nell’avere soldi da spendere, belle donne di cui godere, biancheria di seta e posti di lusso dove andare» (noi veramente penseremmo che molti americani, e in genere molti esseri umani a prescindere dall’estrazione etnica, possano condividere questi desideri). Non a caso si tratta del capo «dell’Unione Siciliana, organizzazione di gangster italiani», prima ancora che di una «figura dominante» nella criminalità organizzata americana33. 3. Unione siciliana. Sembra che «Unione siciliana» fosse la denominazione ufficiale di un’associazione di Chicago accusata di fiancheggiare Al Capone; peraltro di associazioni del genere, con nomi del genere, negli Stati Uniti ce n’erano tante. Noi abbiamo già visto l’espressione adoperata dai detective del New York Police Department nel 1931, di fronte al cadavere di Maranzano; e la vediamo ancora in uso nel dibattito pubblico intorno al processo Luciano. La parola mafia era scomparsa con la guerra dal dibattito pubblico americano. Ma il concetto scacciato dalla porta tornava dalla finestra con un altro nome, e il retaggio del vecchio mondo, nonostante tutto, continuava ad aleggiare sul nuovo. Nel 1939, tre anni dopo il processo Luciano, Richard Dixie Davis decise di rivelare i segreti dell’Unione siciliana, «things I couldn’t tell till now» – per usare le sue stesse parole – all’opinione pubblica, in una serie di articoli del «Collier’s Magazine». Il racconto fece perno sulla guerra castellammarese di sette anni prima. Come sappiamo, Davis era un avvocato proveniente dal Sud degli States, consigliere di un top gangster ebraico (Dutch Schultz), uomo di fiducia di un importante politico irlandese (Hines), che molto doveva alle informazioni fornitegli da «Bo» Weinberg, killer della banda Schultz. Questa storia siciliana, raccontata attraverso il filtro multietnico dell’underworld newyorkese, ebbe molta fortuna nella pubblicistica. Dodici anni più tardi (1951), venne riproposta con qualche modifica in un libro pubblicato da un magistrato di Brooklyn, Burton Turkus, e da un giornalista, Sid Feder, intitolato Murder Inc. (tradotto in italiano come Anonima assassini)34. Venne poi rielaborata nel Luciano Testament (1974), come in una serie di altri testi. Interpretava la storia della criminalità organizzata newyorkese alla luce dei concetti di americanizzazione e riorganizzazione manageriale. Per chiarezza espositiva, chiameremo A questa linea interpretativa. Dunque secondo Davis l’Unione siciliana era un’organizzazione composta da gruppi territoriali o di «distretto», ognuno retto da un «minor boss, noto come compare o padrino». Nel 1931 vi si erano contrapposti due gruppi: quello giunto nell’anteguerra degli «oldline mobsters», americanizzati, guidato da Masseria, quello dei criminali giunti clandestinamente dalla Sicilia dopo la guerra, «non assimilati», etichettati con espressioni spregiative in uso anche tra gli italoamericani di seconda generazione – «greasers» (coi capelli impomatati), oltre che «mustache Petes» (dai lunghi baffi)35. Sin da questo suo primo apparire sulla scena pubblica, il racconto segue lo schema della contrapposizione etnica e culturale. E veniamo alle confidenze fatte a Davis da Weinberg. Aveva rivendicato di aver partecipato all’assassinio di Maranzano con orgoglio quasi patriottico, descrivendolo come un passo necessario per sancire l’americanizzazione del crimine – «Americanizzation of the mob». D’altronde, aveva aggiunto, ben novanta di quei barbari stranieri erano stati massacrati simultaneamente, in quello stesso giorno, «in tutto il paese»36. Col suo nome impronunciabile, Maranzano (altrimenti detto Mirinzano, o Maramanenza) rappresentava l’ombra del vecchio mondo che ancora premeva sul nuovo. I suoi successi rimandavano all’idea preoccupante del trapianto, la sua sconfitta finale a quella rassicurante del rigetto. Il momento del passaggio andava identificato, doveva corrispondere a un giorno preciso, e non poteva assumere se non la forma traumatica della grande, ultima Faida. Il trauma aveva sancito la vittoria di Lucky Luciano, eroe dell’americanizzazione e modern raketeer per eccellenza. Davis e i suoi informatori danno forma alla leggenda – molto americana davvero – del gangsterismo manageriale per la prima volta abbozzata nel 1935 da Berger. Turkus e Feder, e poi il Luciano Testament di Gosch e Hammer, si accoderanno. Contribuiranno buoni e cattivi, giornalisti, magistrati, avvocati più o meno legati alla delinquenza, gangster. E Luciano stesso, naturalmente. Vediamo come interpreta se stesso in un’intervista del 195455: Ai tempi del proibizionismo non esisteva un sindacato nazionale, c’erano solo un sacco di bande che si ammazzavano tra loro e si facevano guerra una contro l’altra. Così dopo la prima grande guerra [?!] io organizzai il sindacato nazionale. Divisi i ragazzi in famiglie e diedi qualche regola. Poi creai la Commissione, il consiglio supremo, con i grandi boss e gli altri membri, per risolvere i contrasti tra le famiglie e mantenere l’ordine37.
Veramente il Testamento calca di più la mano. La Commissione, dice, funzionava «alla stregua del consiglio di amministrazione di una corporation legittima»38. Comunque il Syndicate di cui Luciano rivendica la paternità è interetnico, a cominciare dalla componente ebraica della sua stessa gang, da Lansky e Siegel, e dalla sua alleanza con Lepke e Gurrah. Frank Costello, vecchio sodale del boss, come lui formatosi alla corte di Rothstein e sul modello del
«moderno racketeer», spiega al suo avvocato che al vertice dell’organizzazione italiani ed ebrei, grazie a una «relazione informale», coesistono «allo stesso livello»39. Resta da spiegare la persistenza di quel nome, Unione siciliana, che di certo non è interetnico e tanto meno evoca modelli manageriali. Il Testamento fornisce una spiegazione alquanto goffa. Luciano avrebbe voluto chiamare l’organizzazione con un semplice termine inglese (outfit, Syndicate), poi finì per prevalere il suggerimento paradossalmente offerto da un ebreo come Lansky, stando al quale era tatticamente opportuno che la nuova creatura conservasse un nome tradizionale. Un espediente. Questa la linea interpretativa definibile come A, impasto tra elementi storici ed elementi mitologici dal quale emergono elementi di natura etnocentrica. Tale natura emerge particolarmente dal ruolo centrale attribuito alla grande purga, che la verifica storicoempirica ha mostrato nonesistente. Non se ne trova traccia nelle cronache giornalistiche del tempo o negli archivi del Dipartimento di polizia di New York; non è confermata dai reduci della gangwar del 193140. Non si è verificata la grande purga e nemmeno quello che il mito vuole simboleggiare: la svolta verso l’americanizzazione, e la fine di un gangsterismo straniero arcaicizzante e «unassimilated». La realtà è differente perché all’eliminazione di Maranzano (possiamo dire) segue non la Vendetta ma la Riconciliazione, non il taglio netto con i portati del vecchio mondo ma una nuova ibridazione siculoamericana. È vero che, delle cinque Famiglie newyorkesi, due sono guidate da siciliani della seconda ondata (Profaci e Bonanno), una dal loro più stretto alleato (Mangano), e solo quella inizialmente guidata da Luciano conserva il proprio carattere americanizzato, finendo poi egemonizzata da nonsiciliani come Genovese e Costello41. Siamo sulla linea interpretativa definibile come B. Si basa sulle rivelazioni di Valachi, e su molte altre, prodotte più avanti nel tempo, a grande distanza dagli eventi (1962 e seguenti). Condivide con l’altra l’idea che intorno al 1932, nell’ambito di un processo di riorganizzazione e gerarchizzazione del crimine organizzato gestito da Luciano, si sia formata una Commissione, composta dai boss newyorkesi e anche da quelli di altre città, cui sarebbe stato affidato il governo del sistema su scala nazionale. Ma per molti altri aspetti le due linee (strano che molti non se ne rendano conto) appaiono incompatibili. La linea B si riferisce a un’organizzazione rigidamente monoetnica, ispirata allo stesso modello mafioso siciliano che emerge dalle coeve indagini dell’Ispettorato di Ps: stesse regole, rituali, terminologie. Tutto quello che Luciano detestava. Come sciogliere la contraddizione? Innanzitutto storicizzando. Nei primi anni trenta Luciano e i suoi alleati ebrei formavano sicuramente l’élite del crimine, mentre gli uomini della seconda ondata erano ancora all’inizio del loro percorso. E la situazione era ancora conflittuale, sia sul fronte interno (le relazioni delle gang tra loro) sia su quello esterno (le relazioni tra i criminali e la legge). Le ricostruzioni più usuali sono inclini ad attribuire alla grande criminalità una capacità totalitaria di controllo, ragion per cui sono paradossalmente restie a tenere conto del fronte esterno. Ma la verità è che Dutch Schultz dovette fronteggiare le autorità, e solo dopo (di conseguenza) venne assassinato. Poi fu la volta di Luciano a dover cedere alla legge, finendo in galera come un qualsiasi ruffiano, e di seguito Genovese fu spinto alla fuga. Direi che la storia della grande criminalità newyorkese negli anni trenta è frutto, più che del celebrato talento manageriale di Luciano, dell’energia di Dewey & C., che in questa storia di tanti misteri rappresenta l’unico dato di fatto innegabile. Fu in questo passaggio che scomparve la figura del topgangster di origine ebraica. La spiegazione più nota attiene a fattori macrosociali: molto più degli italiani, gli ebrei investivano nell’istruzione dei figli, e tirandosi fuori per primi dai bassifondi della società cessarono a un certo punto di fornire nuove leve al racket. Io cercherei però spiegazioni più specifiche, partendo da uno strano episodio – quello della conversione di Dutch Schultz al cattolicesimo, di poco precedente al suo assassinio. Ebbe davvero una crisi religiosa? O sperava di entrare nel reticolo identitario dei colleghiconcorrenti italiani, di trovare in qualche modo protezione all’interno di esso? Percepiva forse che, man mano che la repressione si faceva più dura, più identità voleva dire più accordo tra i gruppi e più compattezza all’interno di essi, più segretezza, qualità possedute in massimo grado dalle società segrete di modello mafioso, e dalla rete vista in opera tra Sicilia e America nel tempo dell’operazione Mori, del proibizionismo e del postproibizionismo. Tutto questo, naturalmente, riguardava ben poco i Luciano e i Genovese, i quali – stando a un’interessante notazione di Gentile – erano originariamente estranei all’onorata società siculoamericana e ancor più a quella siciliana, non avevano tratto la loro «forza» da essa42. Riguardava gli uomini della seconda ondata, e il patrimonio di esperienze e relazioni che si erano portati dietro dal vecchio mondo. La mia idea è che, spazzando via la prima fila del gangsterismo postproibizionista, la repressione abbia selezionato nella seconda gli elementi più adatti a resisterle. In questo senso trovo interessante l’organigramma dell’élite criminale italiana al momento del delitto Schultz tracciata da una fonte confidenziale, che collocava Vincenzo/Vincent Mangano accanto a Luciano, Terranova, Genovese43. Era l’ottobre del 1935. Noi abbiamo già individuato Mangano come il traitd’union tra la mafia siculo americana della prima e quella della seconda ondata. Il fatto che gli si attribuisse quel rango rappresenta, a mio parere,
l’indicatore di un mutamento degli equilibri. Si aggiunga che di lì a poco Luciano e Terranova furono costretti ad abbandonare la ribalta. Restarono sul campo Genovese e appunto Mangano. Sui rapporti tra i due può fornirci qualche indicazione Gentile, che non andava d’accordo col primo mentre era in intimità col secondo, tanto che intorno al 1935, tornato a New York, entrò nella «borgata» da lui guidata dove trovò vecchi amici ora in carriera. Le cose però non si misero bene. Quando Mangano lo ammonì che non bisognava scontrarsi con Genovese, il quale disponeva «di tutta la malavita di New York», Gentile si rese conto che i due boss agivano in buon accordo, che «i papaveri della mafia, vecchi volponi di New York, si erano accaparrati i posti più redditizi»44. A questo punto per lui ci fu la svolta. Ripartì nel 1937 per il Texas e New Orleans per un affare di droga, condotto in società con Mangano e gli altri confratelli, ma gli agenti del Narcotic Bureau si accorsero finalmente di lui: arrestato e rilasciato sulla parola, decise che era meglio riparare in Sicilia piuttosto che fare la fine di Luciano, o peggio incorrere nel rischio che Mangano lo considerasse uno spione45. Come sappiamo, nel 1937 anche il suo nemico Genovese ritenne prudente fuggire in Italia, dove sarebbe rimasto molti anni. Dei cinque personaggi sopra indicati come membri dell’élite, restò solo Mangano. Dietro di lui, i boss della seconda ondata. Che Mangano già in quella fase fosse un boss ce l’ha confermato Gentile e, più di recente, il più importante tra i pentiti americani, il settantaseienne Angelo Lonardo, in un importantissimo processo celebratosi nel 1986 e anche di fronte a una Commissione parlamentare d’inchiesta. Abbiamo già accennato a Cleveland anni venti, e al boss PeppinoJoe Lonardo, padre di Angelo, che in società con Nick Gentile organizzava traffici tra Sicilia e America. Lonardo sr. fu assassinato nel 1927. Lonardo jr. ci dice della sequela di delitti che segnarono le successioni al vertice della Famiglia, l’ultimo dei quali venne perpetrato da lui stesso e da alcuni suoi cugini nel 1936; e della missione che portò il nuovo capo della Famiglia di Cleveland a New York, Al Polizzi, per perorare la causa degli assassini (che evidentemente erano amici suoi) di fronte a Mangano e ad «altra gente». «Si trattava della Commissione?» – chiede la pubblica accusa nel 1986; «sì» – concede il testimone. Polizzi, aggiunge costui, spiegò il come e il perché fosse accaduta quella cosa (l’eliminazione di un capo) che stando alle regole recentemente introdotte non sarebbe dovuta accadere; Mangano e soci emanarono una condanna con molti distinguo, che venne peraltro revocata in occasione di una successiva riunione tenutasi a Miami, nella quale erano presenti, oltre ai boss di New York, anche quelli di Chicago46. Nel 1986 Lonardo jr. dipinse Mangano come il membro più autorevole di una Commissione che è sembrato ovvio identificare con quella che la tradizione vuole creata da Luciano. L’identificazione, veramente, tanto ovvia non è. Realisticamente, il termine Commissione può essere attribuito a gruppi che potrebbero anche essere diversi. Chiediamoci piuttosto se l’autorità di quest’istituto, o fazione, fosse di tipo nazionale. Chiediamoci anche se fosse «assoluta» come vorrebbero la tradizione, le autorità e molti analisti. All’una e all’altra domanda, la risposta sembrerebbe no. La ricostruzione di Lonardo e anche quella (dello stesso episodio) fatta indipendentemente da Gentile sembrano attribuirle funzioni più che altro mediatrici47. Conseguenza interpretativa anche generale: la mafia si basa su un network gerarchicamente strutturato ma il potere della gerarchia stessa non è quasi mai così «totalitario» come lo si presenta. Su quest’argomento, oltre a queste ricostruzioni expost, disponiamo anche di una fonte coeva, datata 29 gennaio 1940. Si tratta di una lettera indirizzata dal «supervising Customs agent» di New York al suo omologo di Chicago, contenente informazioni fornite dal «Rappresentante del Ministero del Tesoro, Milano, Italia» su un «Gran Consiglio della criminalità siciliana negli Stati Uniti» (Grand Council of the Sicilian underworld gang in the United States), che dirigeva «tutti gli affari gestiti da questa gang negli Stati Uniti e in Europa». In tale istituto, stando alla nostra fonte, sedevano nove individui: sempre Mangano era indicato come il capo, gli altri componenti essendo il fratello di costui, Filippo, e poi Profaci e Bonanno, tutti di Brooklyn. C’era Magaddino, di Buffalo. Due erano di Cleveland (tra loro Al Polizzi, a noi già noto) e uno solo di Chicago48. Bisogna dire che dal ministero del Tesoro degli Stati Uniti dipendeva il Narcotic Bureau. La partecipazione di mafiosi siciliani o siculiamericani al narcotraffico non era una novità. Noi sappiamo che già negli anni venti giungeva negli Stati Uniti droga dalla Sicilia nascosta in cassette di agrumi (o magari in barili di olio, quelli importati dal padre di un informatore dell’Fbi). Abbiamo espresso i nostri sospetti sui commerci di cui sempre negli anni venti si erano occupati Gentile e Angelo Lonardo, il suo compaesano di base a Cleveland. Però in effetti nei tardi anni trenta i segnali si infittirono. Gentile, Mangano & C. si misero in questo commercio in Texas e a New Orleans. Alcuni membri della Famiglia Lucchese si fecero beccare per questa ragione. Nel Narcotic Bureau ci si convinse che «la componente italiana della criminalità organizzata» rappresentasse ormai «il fattore dominante nel narcotraffico negli Stati Uniti a livello locale e interstatale» al posto dei «raketeer ebrei di New York City» che negli anni precedenti avevano goduto dei rifornimenti dei «baroni della droga» europei49. Perché il funzionario del Narcotic Bureau si trovava a Milano? Probabilmente perché la città lombarda rappresentava una piazza importante di approvvigionamento per i trafficanti di droga che si procuravano morfina
presso aziende farmaceutiche tedesche e italiane nel contesto semilegale in cui (contrariamente che negli Stati Uniti) potevano ancora svolgersi questi traffici in Europa. Un caso a noi noto è quello del palermitano Pietro Davì – detto Jimmy l’americano – che ritornò in Italia appunto dall’America nel 1934, e già nel 1935 venne tratto in arresto a Milano per commerci in droga; un fronte sul quale peraltro lo ritroveremo impegnato, e in ruolo dirigente, anche dopo la guerra in accordo con Lucky Luciano50. Il documento sul Grand Council della mafia siciliana in America si integra con le rivelazioni di Lonardo, confermando la tradizione ma per alcuni cruciali aspetti anche ponendola in dubbio. Include la fazione siciliana della seconda ondata ma esclude quella americanizzata di Luciano. Ci spinge a distinguere l’una dall’altra, confermando quanto già per conto nostro avevamo pensato: che fosse l’una, e non l’altra, a caratterizzarsi per il legame con la sponda siciliana. Noi sappiamo dei grandi risultati sortiti negli anni immediatamente precedenti dalle indagini dell’Ispettorato di Ps, e delle testimonianze dall’interno raccolte in quell’ambito, stando alle quali l’organizzazione mafiosa era diffusa in Sicilia come negli Stati Uniti (oltre che in Francia e in Tunisia). Può darsi dunque che l’agente statunitense a Milano, nel compilare l’informativa da inviare a New York, si sia valso di informazioni «fresche» provenienti da autorità italiane. In conclusione. Quindiciventi anni dopo la seconda ondata, i rapporti tra le due sponde restavano fitti. 4. Fronte del porto. Era attraverso il porto di New York che, stando al Narcotic Bureau, gli italiani importavano la morfina proveniente «da fonti europee», andando ad alimentare l’intero mercato della costa orientale51. Ben tre membri del Gran consiglio o Commissione (Vincent Mangano, suo fratello Philip e Joe Profaci) avevano la loro roccaforte in quel punto di giunzione tra vecchio e nuovo mondo. Diciamo qualcosa sulle attività svolte da costoro. Vincent Mangano, dopo essere entrato in giri importanti con il proibizionismo, si era convertito agli affari legali, venendo annoverato «tra i più importanti e più inseriti esponenti dell’importexport business tra Stati Uniti e Italia»52. Profaci, suo antico socio nel contrabbando, si era inserito nell’industria tessile di Manhattan ma soprattutto nel commercio dell’olio di oliva, donde il suo soprannome «olive oil king»53. E l’antica patria? Possiamo pensare che i tre restassero in contatto con essa non solo con questi commerci di prodotti agroalimentari, e con altri più misteriosi; ma anche perché davano lavoro nei docks agli immigrati legali e più spesso clandestini. Lo slum circostante di Red Hook ne era pieno. Nel porto svolgeva un ruolo dominante il sindacato degli scaricatori, International Longshormen’s Association (Ila). L’Ila fu guidata per ben venticinque anni (192753) da Joseph P. Ryan, che era irlandese. Agli irlandesi spettava il controllo dei moli del Nord (o dell’Hudson), mentre gli italiani controllavano i moli di Brooklyn, detti Camarda Locals dal nome del vicepresidente dell’Ila Emil Camarda. Costui era strettamente imparentato con i due Mangano, e nel sindacato Philip svolgeva un ruolo importante quale «business agent» nel «local 903». Dal punto di vista politico, costoro facevano riferimento al City Democratic Club di South Brooklyn, che mantenne, dal momento della sua fondazione (1929), il controllo del terzo nonché del quarto Distretto comprendente Red Hook. Vincent Mangano era un suo dirigente, Profaci lo frequentava abitualmente54. Il sindacato concedeva o negava quotidianamente la possibilità di sbarcare il lunario a ben trentaquarantamila lavoratori, in gran parte precari, inquadrati in 31 local sindacali. Trattando singolarmente con le imprese le prestazione di questi singoli gruppi, i delegati sindacali o boss erano come «trentuno piccoli re che, nel loro linguaggio, potremmo chiamare i “proprietari” dei trentuno differenti moli»55, tra i quali a tratti regnava l’accordo, a tratti la discordia e il conflitto per la «conquista e occupazione militare»56 degli spazi istituzionali e fisici – ovvero dei moli e quindi della gran quantità di affari leciti o illeciti che su essi si svolgevano, sui quali si riscuotevano tangenti. Il mix di monopolio e concorrenza, garantendo il precariato e il livello basso dei salari, era ben gradito alle imprese; così come era gradita la presenza di «duri» alla testa delle squadre, secondo la logica spiegata da un manager: Se devo scegliere tra l’ingaggiare un duro uscito dalla galera o un uomo con la fedina penale pulita io preferisco l’ex detenuto. Sapete perché? Perché se farà il caposquadra terrà gli uomini in riga e otterrà da loro il massimo rendimento. Avranno paura di lui57.
Al porto il duro per eccellenza era Albert Anastasia (vero nome Umberto Anastasio), unico boss della seconda ondata che fosse immigrato non dalla Sicilia ma dalla Calabria, nel 1919 quand’era diciassettenne. Nel 1921 era stato condannato a morte per l’assassinio di uno scaricatore ma finendo assolto in seconda istanza perché il principale testimone dell’accusa era tornato terrorizzato in Italia. Negli anni seguenti schivò con maggior margine altre accuse anche di omicidio, sempre intimidendo i testimoni o peggio facendoli assassinare.
In un caffè di proprietà di uno dei suoi più stretti collaboratori, Anastasia nel 1928 incontrò Abe Reles, un ebreo nato nel 1906 a Brooklyn che con alcuni suoi pari, di origine ebraica ma anche italiana, si guadagnava da vivere con le estorsioni ai danni dei commercianti nel vicino slum di Brownsville. Commissionò alla gang qualche lavoretto consistente nel derubare o pestare chi non si piegava ai voleri suoi e dei suoi amici. Poi Reles e i suoi passarono agli omicidi. Anastasia e Reles facevano parte di una stessa gerarchia, bisogna però capire di che tipo. Anche qui abbiamo due possibili interpretazioni, l’una (A) «centralistica», l’altra (B) che sottolinea le logiche autonome di gruppi e singoli. La tesi A è ben rappresentata nel libro già citato del magistrato Turkus e del giornalista Feder, i quali vedono i pesci piccoli che si agitano in basso, negli slum, come pienamente subordinati al comando proveniente dall’alto, dal «sindacato» del crimine. In quest’ottica dipingono Reles & C. come meri esecutori degli ordini provenienti da Anastasia e dagli altri boss, come impiegati della filiale della ditta incaricata degli assassinii, Murder Inc., appunto58. La tesi B è quella di Block, il quale rileva come la maggioranza dei delitti perpetrati dalla gang di Reles fosse legata a suoi contrasti con altre gang nel quartiere; concludendo che nel suo insieme la documentazione non giustifica l’idea di un’organizzazione gerarchica con a capo Anastasia. Block prende atto delle dichiarazioni di Reles secondo cui i membri della banda avevano l’abitudine di consultare il boss italiano anche prima di commettere delitti per proprio conto, ma rileva che l’interpellato non disse mai di no, e ne deduce la mera «natura cerimoniale» della richiesta59. La tesi di Block, che legge queste vicende a distanza, con metodo storico, è intellettualmente molto più raffinata, ma rischia qualche eccesso di radicalismo interpretativo. Io devo dire ad esempio che il carattere rituale della transazione AnastasiaReles sopra descritto non ne diminuisce l’importanza, anzi: alla luce dei codici mafiosi del vecchio mondo proprio il richiedere rispettosamente e il graziosamente concedere permessi di questa natura indica l’esistenza di una gerarchia. Il fatto che i giovanotti di Brownsville agissero non solo per conto di Anastasia, ma anche per proprio conto o per conto di qualche altro patrono di rango, ad esempio Lepke, non cambia la cosa. Anastasia godeva ben più dei siciliani della seconda ondata della fama di violento, ma è anche vero che la documentazione ce lo dipinge mentre cerca di mettere la gente d’accordo nella sede del Democratic Club, mentre ci rimette addirittura denaro di tasca propria per evitare che i suoi satelliti si scannino tra loro per debiti non pagati o solo per questioni di puntiglio. Il boss, il killer e il mediatore non sono evidentemente figure così lontane tra loro. La mia impressione è che egli fosse stato incaricato di portare ordine nei limiti del possibile, a farsi richiedere permessi sia pure rituali, a concederli in cambio del riconoscimento di una qualche egemonia sulla schiuma che brulicava nei sobborghi di Brooklyn – Brownsville, Williamsburg, Bensonhurst – dove operavano bande italiane e/o ebraiche particolarmente agguerrite. Agiva in rappresentanza del sistema di potere strutturato del porto, al fianco di personaggi in apparenza più rispettabili come i due Mangano, Profaci, Camarda. D’altronde, anche lui era un assiduo frequentatore del Democratic Club, anche lui aveva un fratello nell’Ila60. A riequilibrare il tono morale della famiglia, un altro fratello Anastasio faceva il prete. Il gangsterismo di Brooklyn rimase a lungo al riparo dell’offensiva lanciata a Manhattan da Dewey61. Poi anche qui partirono le indagini, e alla fine del decennio si profilarono importanti sviluppi con lo smascheramento della gang di Brownsville, che apriva la strada verso l’altro celebrato topgangster, Lepke, verso Anastasia e attraverso di lui verso l’élite criminale aggregatasi intorno al fronte del porto. Lepke reagì in maniera scomposta ordinando l’assassinio di chiunque fosse sospetto di voler vuotare il sacco con gli inquirenti, poi si diede alla macchia e vi si mantenne per un lungo periodo, per consegnarsi nel 1939 al capo dell’Fbi in persona, Hoover. Se – come sembra – questo suo gesto era dettato dalla convinzione di poter trattare ancora, bisogna dire che cadde in errore: non solo infatti venne subito condannato a una lunga pena detentiva per traffico di stupefacenti, ma fu anche accusato di omicidio. Anche Anastasia passò alla latitanza mentre uno special prosecutor indagava sulla sezione «italiana» del fronte del porto, e sulla scomparsa di un sindacalista che aveva capitanato un movimento avverso all’Ila, il cui cadavere venne ritrovato bruciato qualche tempo più tardi. All’inizio del 1940 si realizzò – come accade se e quando la pressione delle autorità si fa dura – una rottura dall’«interno» nell’organizzazione ad opera di Abe Reles, superkiller di Brownsville. Cominciò a vuotare il sacco con il neoeletto District Attorney di Brooklyn William O’Dwyer e con il suo sostituto, il Burton Turkus a noi noto, spiegando che la sua gang ammazzava per denaro, e cominciando a indicare i mandanti dei delitti: in particolare, durante un’udienza del processo contro i suoi ex amici, raccontò che era stato personalmente Anastasia a ordinargli l’eliminazione di un bookmaker. Costui – gli era stato spiegato – aveva avuto l’imprudenza di attraversare la strada a Vincenzo Mangano, «un protagonista della politica a Brooklyn nella sezione del fronte del porto»62. Le rivelazioni di Reles andavano a lambire questo gruppo emergente del gangsterismo newyorkese, e O’Dwyer sembrava il personaggio giusto per portare l’affondo e sotto il profilo giudiziario e sotto quello politico. In un sistema nel quale le magistrature sono elettive e l’azione penale non è obbligatoria, i due aspetti risultano talora indistinguibili l’uno dall’altro; e in quella fase l’esercizio della pubblica accusa nelle grandi inchieste su racket e corruzione si
configurava come un trampolino di lancio per grandi carriere politiche. C’era saltato sopra a Manhattan, e sul versante repubblicano, Dewey, che sarebbe stato eletto nel 1942 governatore dello Stato di New York, che nel 1945 sarebbe stato addirittura candidato alla presidenza dell’Unione contro Truman. Voleva fare un salto analogo O’Dwyer, il quale partendo da Brooklyn e sul versante democratico si candidò a sindaco nelle elezioni di fine 1941 contro un La Guardia in fase calante. Se non che, O’Dwyer come riformatore non appariva sino in fondo credibile, almeno stando ai malevoli: immigrato ventenne dall’Irlanda, ex poliziotto, ex avvocato, nella Brooklyn dei primi anni trenta aveva fatto i suoi esordi in politica tenendosi anche lui, come altri ambiziosi, in contatto con i più corrotti boss democratici63. Espresse in particolare i suoi dubbi William B. Herlands, investigatore formatosi nello staff di Dewey, poi nominato da La Guardia Commissioner of Investigation della città di New York. I «terroristi di Brooklyn», dichiarò, rappresentavano palesemente «un anello della catena» che portava a quegli stessi club democratici assiduamente frequentati da alcuni membri dello staff di O’Dwyer. Questi poteva colpire «Murder, Inc., ma cosa avrebbe fatto con Politics, Inc.?». Era pensabile che distruggesse «la macchina politica che lo [stava] sostenendo nella sua carriera»?64 5. Ombre del fascismo nel nuovo mondo. Diciamo ora dei due castellammaresi che facevano parte del Gran Consiglio, o Commissione che dir si voglia, i cugini Stefano Magaddino e Joe Bonanno. Il primo, come sappiamo radicatosi a Buffalo, dopo l’accusa per omicidio del 1921 non ebbe più nessun guaio con la giustizia americana, così come il fratello Antonio. L’Italia, dove quest’ultimo aveva una pesante fedina penale, pareva molto lontana. Neanche Bonanno era, a quei tempi, gran che conosciuto come gangster. Questo fa la differenza tra i cugini castellammaresi e i fratelli Mangano. Una mafia invisibile dall’esterno, quella dei primi due. Così come risultava invisibile quella del luogotenente di Bonanno, FrancescoFrank Garofalo, nato nel 1891 a Castellammare del Golfo da una famiglia di artigiani, e giunto in America nel 1909. Aveva fatto anche lui fortuna grazie al proibizionismo «rifornendo le fabbriche clandestine di alcool dei prodotti chimici necessari per la distillazione»65. Anche Garofalo, al 1944, era stato arrestato una sola volta (nel 1926, per contrabbando di alcolici) e il suo nome risultava «relativamente sconosciuto alle varie istituzioni repressive a New York City». Godeva del porto d’armi. Il suo boss ne ricorda le doti – «sapeva parlare di letteratura e di storia, […] vestiva con la stessa eleganza di Cary Grant e i suoi modi erano impeccabili» – e soprattutto la padronanza dell’inglese66 per cui l’avrebbe negli anni seguenti elevato al rango di luogotenente o consigliere. In una foto lo vediamo raffigurato in abito da sera a una riunione dell’associazione italoamericana d’élite, i Sons of Italy, accanto ad altrettanto eleganti signore. Veniva considerato un normale uomo d’affari interessato alla Canadian Dry Bottling Company e alla Colorado Cheese Company67. Qualcosa, della perdurante dimensione intercontinentale della gang, possiamo capire proprio ragionando su Garofalo, che l’autobiografia di Bonanno dice dedito ad attività di importexport per le quali si recava con qualche regolarità in Italia, senza spiegarci molto di più. Qualcosa in più sappiamo da un’inchiesta italiana di molto successiva. Nel corso di uno dei suoi viaggi (1929), Garofalo incontrò nella sede del circolo Margherita di Savoia di Castellammare il ventunenne Gaspare Magaddino, parente dei Magaddino di Buffalo, e dunque (per parte di madre) di Bonanno68. Certo portò il saluto dei cugini americani a quel rampollo di illustre schiatta destinato ad assurgere ben presto al rango di capomafia. La situazione non era semplice. Era appena partita in paese l’operazione antimafia, che non prese però la forma clamorosa del grande processo ma quella di un’ondata di invii al confino, che colpì tra gli altri i Magaddino e i Bonventre (altri parenti di Bonanno) nonché Totò Minore (che abbiamo già citato come esponente dell’Alta mafia). In teoria il regime fascista aveva a disposizione tutti i mezzi per creare una nuova classe dirigente. Nella pratica, il prefetto di Trapani si trovò in gravi difficoltà nella ricerca di elementi indipendenti dai «vecchi gruppi» da mettere alla guida dell’amministrazione municipale. Si impegnò allora nello scioglimento di diverse associazioni paesane ritenendo che al loro interno si riproducessero «le beghe, i rancori, la maffia» dei «tempi passati»69. Tra esse c’era il Circolo Margherita. Possiamo immaginare quel circolo come il nodo siciliano in un network intercontinentale cui corrispondeva sull’altra sponda il circolo castellammarese di New York, che Garofalo era parimenti solito frequentare. Lì aveva nel 1924 incontrato Vincenzo Martinez, anch’egli originario della provincia di Trapani (era nato a Marsala nel 1896). Siamo davanti a un altro personaggio uso a muoversi da una sponda all’altra. Da bambino aveva vissuto in America, allo scoppio della guerra si era arruolato nell’esercito italiano, poi aveva disertato, venendo per questo condannato nel 1918 all’ergastolo. Non sappiamo come fosse riuscito a cavarsela, fatto sta che, tornando nel 1923 in America, si
spacciò per eroe di guerra ed entrò nella Lega fascista nordamericana, in particolare della sua Commissione di disciplina – che nel 1929 fu messa fuori legge dalle autorità statunitensi perché direttamente dipendente da Roma, e utilizzata per intimidire quanti tra gli italiani d’America insistevano a fare dell’antifascismo70. Nel frattempo l’ambasciata italiana rafforzava la posizione delle forze filofasciste negli Stati Uniti pilotando l’acquisizione del «Progresso italoamericano», il più grande giornale americano di lingua italiana, da parte di Generoso Pope (1931). Costui era il presidente di una grande ditta di costruzioni, che senza sentirsi in contraddizione si muoveva in sintonia con gli apparati del fascismo e a Tammany Hall. Martinez trovò lavoro quale giornalista nel «Progresso». Garofalo fu impiegato quale «body guard» di Pope. Questo almeno risulta dalla testimonianza di Carlo Tresca, un ex anarchico mantenutosi sempre su una linea di battagliero antifascismo, che accusò Pope di essere «un gangster ed un racketeer» che per intimidire la stampa antifascista italoamericana utilizzava «personaggi dell’underworld» come appunto Garofalo71. Citiamo a questo punto il caso di Vito Genovese, in cui le scelte politiche si cumularono a quelle affaristiche, nel settore del narcotraffico. Noi sappiamo dei legami tra questo topgangster e Renato Carmine Senise, nipote del capo della polizia italiana, intrecciatisi nel corso del lungo e misterioso soggiorno americano di costui72. Se dobbiamo credere a fonti «riservate» citate da uno studioso in genere attendibile come Nelli, già all’inizio degli anni trenta Genovese cercò, nel corso di un suo viaggio italiano, di mettere a frutto questi contatti con gli apparati di sicurezza del regime. Una documentazione Fbi sostiene che, dopo essere rientrato nel 1937 in Italia, riuscì a realizzare l’intento, tra l’altro finanziando la costruzione della casa del fascio nella sua città natale, Nola. Sarebbe entrato in relazione con Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero del duce. Avrebbe messo su «un business di molti milioni di dollari e uno stabile rifornimento di narcotici praticamente garantito dal governo italiano»73. In conclusione. In barba ai codici omertosi, i mafiosi usano trescare con gli apparati di sicurezza. In barba all’antimafia del fascismo, i mafiosi italoamericani trescavano con gli apparati del fascismo, muovendosi tra l’una e l’altra sponda: abbiamo visto i casi di Martinez, di Garofalo, di Genovese. Non ci stupiamo più di tanto nel trovare il nome dello stesso grande boss castellammarese, Giuseppe (Joe) Bonanno, tra quelli degli informatori stipendiati dell’Ispettorato di pubblica sicurezza per la Sicilia nel 1938. Non credo lo facesse per denaro. Lo faceva per una ragione più politica, per mantenere i rapporti74. La politica dei gangster d’altronde seguiva quella della larga parte degli italoamericani che considerava il fascismo come parte del legame di solidarietà con l’antica patria. Su questa linea c’erano i corner boy di Little Italy, come quello intervistato dal sociologo Whyte, secondo cui Mussolini aveva fatto «più di ogni altro per ottenere che il popolo italiano sia rispettato»75. E c’erano i notabili della comunità, non solo i più compromessi come Generoso Pope. Avevano magari una posizione più sfumata gli italoamericani emergenti nel fronte interetnico e progressista rooseveltiano: tra cui citiamo Charles Poletti, avvocato, magistrato e uomo politico, per il ruolo di rilievo che avrebbe svolto negli anni a venire76. Poi la grande storia intervenne a cambiare radicalmente i termini della questione, tagliando gli equivoci con l’ingresso in guerra dell’Italia al fianco dei nazisti, l’aggressione giapponese a Pearl Harbour, la dichiarazione di guerra italiana agli Stati Uniti. A quel punto gli americani guardarono alle Litte Italy non più soltanto come a luoghi «di racketeer e politici corrotti, di povertà e crimine», ma come a enclave nemiche, dove c’era il rischio che la gente fosse «più devota al fascismo e all’Italia che alla democrazia e agli Stati Uniti»77. Per gli italoamericani, il filo fascismo non era più un’opzione plausibile. 1 M. Berger, Portrait of a Racketeer, in «New York Times», 10 novembre 1935. 2 Anche se i boss da lui chiamati in causa sono in maggioranza ebrei. 3 M. Berger, Portrait of a Racketeer, in «New York Times», 10 novembre 1935. 4 Racket Chief Slain by Gangster Gunfire, ivi, 16 aprile 1931. 5 Gosch Hammer 1975, p. 46. 6 Ibid., pp. 47 e 60. 7 Ibid., pp. 1001. 8 Suo interrogatorio in McClellan Hearings, passim. 9 Police Mystified in Slayng of «Boss», in «New York Times», 17 aprile 1931; Un capo della malavita ucciso a revolverate, in «L’Ora», 12 maggio 1931; Aspetti della campagna contro la malavita nel NordAmerica, ivi, 1112 settembre 1931. 10 Racket Chief Slain by Gangster Gunfire, in «New York Times», 16 aprile 1931. 11 M. Berger, Portrait of a Racketeer, ivi, 10 novembre 1935. 12 Anche secondo Valachi, in McClellan Hearings, p. 215, la riunione si tenne nel Bronx, in Washington Avenue. Si riferiscono ad altra località – dunque ad altra riunione, ma dallo stesso carattere – Gentile 1993, pp. 113 sgg. («in un albergo in montagna»); Bonanno 1985, pp. 132 sgg. (a «Wappinger Falls, nello Stato di New York»).
13 Gosch Hammer 1975, p. 133. 14 Ibid., pp. 1335. 15 Gentile 1993, pp. 111 e 116. 16 Bonanno 1985, pp. 86, 1301, 147. 17 Seek Official Link in Alien Smuggling, in «New York Times», 12 settembre 1931. Anche a Palermo ci si aspettava che dopo il delitto Luciano
avrebbe rimesso ordine nell’underworld. Maranzano sarebbe stato ucciso quale rappresentante di Al Capone a New York, in «L’Ora», 30 settembre1° ottobre 1931. 18 Block 1980, p. 44. L’inchiesta venne affidata al giudice Samuel Seabury. 19 E molte altre elencate dal New York Police Department e dal Manhattan District Attorney T. Crain nel 193031: cfr. Block 1980, p. 41. 20 Mitgang 2000. 21 Stolberg 1995, p. 49. 22 Dichiarazioni di Lewis J. Valentine, Schultz Dies of Wounds, in «New York Times», 25 ottobre 1935. 23 FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, Memorandum del 28 agosto 1935. 24 Stolberg 1995, p. 216. 25 Il vero problema, disse alla fine del processo, riguardava la latitudine degli interessi di Luciano e soci, il loro ferreo «controllo nel campo dei narcotici, della policy, dell’usura, dell’organizzazione dell’Italian lottery, della ricettazione di beni rubati e di certi racket industriali»: Lucania Guilty, in «New York Times», 8 giugno 1936. 26 Lucania is Forced to Admit Crimes, ivi, 4 giugno 1936. 27 Stolberg 1995, p. 116. 28 R. Carter, The Strange Story of Dewey and Luciano, in «The Daily Compass», 4 settembre 1951. 29 Tra gli italiani, aderirono Luigi Antonini, leader dell’International Ladies Garment Workers Union, e l’iperradicale Vito Marcantonio, ex District Attorney che aveva occupato al Congresso il seggio del collegio di East Harlem già di La Guardia. 30 Cito da un discorso riportato sul «New York Times», 29 aprile 1938, con il titolo T.E. Dewey’s Address. 31 Nel corso della quale formulò gravi accuse verso l’assistente procuratore generale, il democratico Charles A. Schneider. 32 M. Berger, The «Great Luciano» is at Last in Toils, in «New York Times», 12 aprile 1936. 33 Lucania is Called Shallow Parasite, ivi, 19 giugno 1936. 34 Qui peraltro il conto degli ammazzati viene un po’ ridotto, arrivando a quaranta: Turkus Feder 1952, p. 73. 35 Per l’anteguerra, Davis propone la genealogia a noi nota, che parte da Piddu Morello e Ignazio Lupo. Trovo il termine greaser anche in Whyte 1955. 36 Davis 1939, 3 agosto. 37 Citiamo da un’intervista da lui concessa in quel periodo a Davis 1993, pp. 1223. 38 Gosch Hammer 1975, pp. 146 e 14951. 39 Wolf DiMona 1974, p. 11. 40 La ricerca sui giornali è stata effettuata da Block 1994, pp. 4 sgg., mentre sulle informazioni contenute negli archivi della polizia (o meglio da essi assenti) cfr. il detective Ralph Salerno in McClellan Hearings, p. 233. Vediamo i quattro reduci: del tutto negativo Luciano stando a Gosch Hammer 1975, p. 143; minimizzante Valachi in McClellan Hearings, p. 232; Gentile 1993, p. 124, parla di un «eccidio» ma non fa che un paio di nomi di caduti; drasticamente negativo è Bonanno 1985. 41 Non saprei caratterizzare nello stesso modo la quinta gang, la Famiglia Lucchese. 42 Gentile 1993, p. 118, nota. 43 Block 1980, p. 73. 44 Gentile 1993, pp. 1312. 45 Ibid., pp. 140 e 1523. 46 La testimonianza di Lonardo in United States v. Salerno, pp. 1119. I cugini di Lonardo si chiamavano John e Dominic DeMarco. Il boss assassinato nel 1936 si chiamava Joseph Romano. 47 Gentile precisa: non c’era nessuna possibilità pratica che Mangano & C. ribaltassero il fatto compiuto. Gentile 1993, p. 132. Perplessità analoghe alle mie esprimono Jacobs, Panarella, Worthington 1994, p. 90: niente autorità decisionale, niente dimensione nazionale. 48 Si veda la lettera, firmata Gerald C. Lundy, in GWP, «US Senate Special Commission to Investigate Organized Crime in Interstate Commerce», box 2, Miscellaneous correspondence. Ringrazio Peter Schneider per avermi aiutato a reperire il documento. Block 1994, p. 27, è stato il primo a citarlo. È possibile che l’espressione «Grand Council» traesse ispirazione dal «Gran Consiglio» del fascismo. Riporto i nomi degli altri tre membri di quest’istituto: Giuseppe Traina di Brooklyn, Francesco Milano di Cleveland, Paul Ricca di Chicago. 49 Il riferimento riguardava i fratelli greci Eliopoulos che avevano quasi monopolizzato le spedizioni di oppio lavorato nelle loro fabbriche europee sia verso la Cina che, appunto, gli Stati Uniti: The Illicit Narcotic Traffic from New York City, documento del Narcotic Bureau, in McClellan Hearings, pp. 91730, e in particolare pp. 9189. 50 Il quale comunque mentre era in carcere poco sapeva degli intrighi di Genovese, almeno stando allo pseudotestamento, se non per qualche informazione fornitagli da Stefano Magaddino: Gosch Hammer 1975, p. 273. 51 The Illicit Narcotic Traffic from New York City, in McClellan Hearings, p. 917. 52 Campbell 1977, p. 139. 53 FBI Files, Mafia Monograph, Section II, p. 82. 54 Cfr. ad esempio Peterson 1983, pp. 22730.
55 Atto giudiziario del 1949, cit. da Block 1980, p. 184. 56 Così un art. cit. da Bell 1964, p. 167. 57 Ibid., p. 165. 58 Turkus Feder 1952. 59 Block 1980, pp. 221 sgg., e in particolare p.230. 60 Anthony Anastasio, già scaricatore e poi caposquadra per la Jarka Stevedoring Company. 61 Bell 1964, pp. 1312. 62 Reles Confesses 5 More Killings, in «New York Times», 17 settembre 1940; Two in Murder Ring Quickly Convicted, ivi, 20 settembre 1940. 63 Peterson 1983, pp. 26970. 64 Link Democrats to Murder Ring, Herlands Charges Direct Tie, in «New York Times», 3 novembre 1941. In effetti con l’inchiesta «anonima
assassini» O’Dwyer ottenne risultati senza precedenti: sei condanne alla sedia elettrica, tra cui quella di Lepke – unico topgangster cittadino che abbia avuto il dubbio onore di essere mandato a morte dallo Stato e non dai suoi pari (1944). 65 Così Garofalo stesso avrebbe ammesso molti anni più tardi davanti a un giudice italiano: Istruttoria Garofalo, p. 653. 66 Bonanno 1985, p. 209. 67 Memorandum del 29 marzo 1944, in FBI Files, f. 9. 68 Come risulta ancora dalla testimonianza di cui sopra di Garofalo, p. 654. 69 Relazione prefettizia dell’11 gennaio 1932, in ACS, MI, AC, Podestà, b. 284. 70 Mi baso sugli atti del citato processo per narcotraffico che vide imputato anche Martinez: Istruttoria Garofalo, e in particolare sulle sue dichiarazioni, pp. 66871. Sul Martinez fascista cfr. Block 1994, pp. 1534. 71 Si veda il suo articolo sul «Martello» del 28 ottobre 1934, We Accuse Generoso Pope, laddove però il nome di Garofalo non veniva fatto: lo si veda in FBI Files, f. 6 (ivi anche numerose relazioni Fbi con riferimenti alle critiche di Tresca a Pope: cfr. ad esempio quella firmata da E. E. Conroy, 5 febbraio 1943, p. 1). Non era stato d’altronde l’unico a usare questi argomenti perché anche sull’opposto versante, nelle polemiche infra fasciste di fine anni venti, Pope era stato accusato di legami, via Tammany Hall, con la mafia: così Luigi Barzini in una lettera a Mussolini dell’8 novembre 1928, cit. in Diggins 1972, p. 106. 72 Ringrazio Mauro Canali per quest’informazione. 73 Nelli 1976, p. 238. 74 La lista, datata 15 maggio, 1938, in ACS, MI, PS, Segreteria del capo della polizia, Ispettorato generale di Ps per la Sicilia, b. 16. Si tratta proprio del boss, perché data e luogo di nascita corrispondono. Ringrazio Vittorio Coco per avermi indicato il documento. 75 Dichiarazione di Chick Morelli all’Italian Community Club in Whyte 1955, p. 353. 76 Expost, in un’intervista rilasciata a G. Puglisi, costui ha sostenuto di aver sempre nutrito sentimenti antifascisti; ma non so quanto sia fondata questa sua pretesa. Poletti 1993, pp. 189. Per altri casi di politici italoamericani cfr. Venturini 1990. 77 Whyte 1955, p. XVII. Dal punto di vista storiografico, cfr. Diggins 1972, p. 526 e passim.
VIII. Tempo di guerra
Dal 1940 o dal 1941, fu tempo di guerra su entrambe le sponde che teniamo insieme raccontando la nostra storia. Gli effetti però furono molto differenti. I dubbi sulla tenuta politica e morale della società plurietnica statunitense vennero fugati da una straordinaria mobilitazione collettiva che coinvolse, con gli altri, gli italoamericani. Dalla fornace del conflitto, gli Stati Uniti uscirono ben più forti, assurgendo al rango di massima potenza mondiale. Invece il regime fascista portò l’Italia a una catastrofica sconfitta, da cui venne esso stesso travolto. In fondo al tunnel, c’era l’avvento di una nuova democrazia repubblicana. In mezzo il dramma di un paese sul cui territorio vennero combattuti due anni di guerra guerreggiata, la quale fu anche guerra civile, con indicibili sofferenze collettive. La Sicilia fu il più importante dei teatri di guerra italiani perché fu lì che con l’Operazione Husky, all’alba del 10 luglio 1943, la grande armata angloamericana mise per la prima volta il piede in Europa, sulla strada che li avrebbe condotti nel cuore del continente. Fu anche la prima regione europea governata dagli alleati, mediante l’Allied Military Government, in sigla Amgot. Di converso, dal punto di vista italiano, fu la prima regione in cui – prima del 25 luglio – si avviò una transizione postfascista. In Sicilia il nemico divenne amico, gli occupanti liberatori, quando ancora l’armistizio dell’8 settembre non era intervenuto a sancire il mutamento di fronte. La guerra mondiale vi finì molto prima che su scala nazionale decollasse la guerra di Resistenza. Molti episodi di insubordinazione collettiva (ad esempio la renitenza alla leva) si svilupparono nell’isola come altrove nel 194445. Ma la sfasatura del contesto non ci consente di collocarli nel processo di sviluppo di una nuova democrazia E le due mafie? Durante la guerra furono influenzate da fattori politicogenerali come poche altre volte (o forse mai) è avvenuto. Quella americana a suo modo partecipò dello sforzo bellico nazionale. Quella siciliana rinsaldò i propri legami transoceanici e prese posizione nella caotica transizione tra vecchio e nuovo. Non parliamo però di una sua rinascita: infatti negli anni del fascismo non era affatto morta. 1. America: sovraprofitti di guerra. Ripartiamo da Generoso Pope, direttore del «Progresso italoamericano». Quasi fino a Pearl Harbour cercò di mantenere il piede in due staffe, quella del patriottismo americano e quella filofascista, nonostante polemiche e una serie di attacchi di stampa. Dopo una personale reprimenda di Roosevelt, si risolse a una tardiva conversione. Provò in particolare a entrare nella Mazzini Society, organizzazione antifascista formata da esuli politici italiani, da esponenti italoamericani dell’American Labor Party e, tra gli altri, da Carlo Tresca. Sappiamo dei contrasti pregressi tra i due. Esplosero di nuovo quando, proprio a una riunione della Mazzini Society, Pope si presentò in compagnia di Garofalo. Sembra che Tresca abbia esclamato: «non solo il fascista, anche il gangster!». Minacciò uno scandalo e si propose agli agenti dell’Fbi – usiamo la loro definizione – quale «causal informant»1. Cercava alleati. La sua protesta venne però bruscamente interrotta la sera dell’11 gennaio 1943, da un agguato a colpi di pistola all’uscita dalla sede del suo giornale. Subito dopo la polizia arrestò Carmine Galante (19101979). Si trattava di un gangster nato a New York da genitori castellammaresi, appena uscito da SingSing dopo una condanna per rapina e aggressione; che aveva fatto parte del giro del Fulton Fish Market, e lavorava come scaricatore al porto. Il sospettato fu però subito liberato grazie a ben cinque testimoni, stando ai quali era impegnato al momento del delitto in una riunione (proprio) della Mazzini Society. Le indagini si impantanarono in una pluralità di piste inconcludenti. A tornare su quella castellammarese fu – in un pubblico discorso pronunciato un mese dopo il delitto – Ezio Taddei, anarchico livornese reduce dalle carceri fasciste, scrittore, rifugiatosi da qualche tempo a New York e qui divenuto amico di Arthur Miller nonché protetto di Tresca. Tresca disse: Galante era solo un gregario «dell’associazione a delinquere denominata la Marese» (ovviamente voleva dire «castellammarese»); aveva ucciso su mandato di Bonanno e Garofalo; per ragioni legate alla questione della Mazzini Society2. L’ufficio newyorkese dell’Fbi si convinse della validità di quest’ipotesi, e per questa via fu portato a ragionare della gang castellammarese. Tra i molti documenti accumulati nel suo dossier scegliamo il più interessante. Si trattava, diceva, di una «sezione» dell’Unione siciliana, «organizzazione assai disciplinata che segue certe forme, regole e cerimonie fisse e inviolabili», in cui si era «accettati» solo dopo «rigorosa investigazione». Aveva due livelli: quello di
Bonanno, «l’uomo di ferro, l’elemento più violento», quello di Garofalo, che garantiva il collegamento con il mondo della politica (e dell’associazionismo italoamericano)3. Però a quel tempo la legge non attribuiva ai federali una competenza sulla criminalità organizzata, e tutto finì lì. E comunque, quell’inverno 194243 era lo stesso in cui le armate statunitensi, sbarcate in Marocco e in Algeria, stavano stringendo (insieme agli inglesi provenienti dall’Egitto) gli italotedeschi nel ridotto tunisino. Gli istituti preposti alla sicurezza degli Stati Uniti avevano ben altro a cui pensare che a perseguire le gang dell’Unione siciliana. Anzi, il tempo di guerra sancì la pace tra loro e le autorità. Fornì un potente alimento alle fortune dei gangster italo o siculoamericani. Joe Bonanno. All’inizio degli anni quaranta strinse un’alleanza con gli eredi di Al Capone a Chicago, ma anche con compaesani conosciuti come normali uomini d’affari, per acquisire il controllo di alcune società che producevano formaggio nel Colorado e nel Wisconsin, poi utilizzato nelle pizzerie nelle metropoli della costa nordorientale. Affari pienamente legali, sembrava. Solo indagini successive mostrarono come il successo dell’operazione fosse stato garantito da agitazioni sindacali occultamente promosse ai danni dei concorrenti, e da una sequenza di morti ammazzati4. Nel frattempo (1945) Bonanno riusciva a regolarizzare la propria posizione nei confronti delle leggi sull’immigrazione, conseguendo la cittadinanza, proprio perché a suo carico era riportata un’unica condanna, e solo per una controversia di lavoro: insomma per un white collar crime. Stefano Magaddino. In breve tempo, assunse il look dell’uomo d’affari che forniva servizi utili ai concittadini per la vita (Power City Distributing Company of Niagara Falls) e per la morte (Magaddino Memorial Chapel), che vendeva olio e articoli di abbigliamento, che poteva anche frequentare brutti ceffi, ma solo – si diceva – perché interessato al gioco d’azzardo e ai nightclub. Nella generazione successiva, ad esempio nella figura del genero, il tratto borghese si accentuò. Era entrato nel consiglio municipale di Buffalo già nel 1928. La società di taxi da lui creata nel 1930 divenne la più grande nella parte occidentale dello Stato di New York, acquisendo un «monopolio virtuale» del servizio in strutture strategiche come l’aeroporto di Buffalo e la Central Railroad Station di New York. Veniva considerato un pilastro della comunità. Gli accadde una volta di essere nominato «uomo dell’anno» addirittura dal Dipartimento di polizia cittadino5. Carlo Gambino. Si era mantenuto negli anni precedenti più al riparo dalle attenzioni della legge rispetto al suo boss, Mangano. Era finito nei guai con la giustizia solo per evasione delle imposte sui liquori nel 1934, nel 1937 e nel 1938 – unica ragione per cui conobbe, per un brevissimo periodo, la prigione. I suoi affari erano avvolti nel mistero: prima della guerra venivano trattati attraverso il Banco di Sicilia Trust Company, corrispondente newyorkese della banca pubblica isolana, ma di cosa esattamente si trattasse non riuscirono a sapere nulla nemmeno gli inquirenti, giunti alla conclusione che «le sue connessioni con i funzionari della banca erano troppo intime per consentire un’indagine sui suoi affari finanziari»6. La guerra segnò nella sua carriera una grande discontinuità, garantendogli profitti che sembra fossero notevolissimi. Corruppe i funzionari pubblici incaricati di organizzare la distribuzione ai consumatori di generi razionati come carne e benzina, in modo da fare incetta degli appositi «bollini» che poi rivendette al mercato nero. Non saprei quando sia stato chiamato quale «labor consultant» da «clienti di alto livello» impegnati nella costruzione dei grattacieli nella città e nello Stato di New York, nel New Jersey e in Pennsylvania, e bisognosi di mano d’opera disponibile a lavorare di più, e a minori salari rispetto a quella ricavabile dai tradizionali circuiti sindacali. La cosa sarebbe venuta fuori solo molti anni dopo. A quel punto i rappresentanti di Levitt & Sons – una delle maggiori ditte di costruzioni newyorkesi – dichiararono che le grosse somme da loro elargite annualmente a Gambino andavano considerate non già tangenti, ma ricompense per servizi prestati7. Un evento misterioso e clamoroso. L’inchiesta su Murder Inc., che come abbiamo visto minacciava il fronte del porto, si bloccò l’11 novembre del 1941, un mese prima di Pearl Harbour, quando il supertestimone Reles morì cadendo da una finestra, per quanto si trovasse sotto strettissima protezione, guardato a vista da una miriade di poliziotti. A O’Dwyer, che aveva tardato a incriminare Anastasia, non rimase nulla in mano. Ancora pochi giorni, e perse di misura contro La Guardia le elezioni a sindaco. Poi l’attacco giapponese fece passare d’un tratto tutto questo in secondo piano. O’Dwyer, dimettendosi da procuratore, si arruolò. E lo stesso fece il boss Anastasia, assumendo il grado di sergente: la stampa, quando lo venne a sapere, insinuò che gli fossero stati assegnati a Brownsville compiti di polizia militare (!!)8. Risolte le sue pendenze con la legge, proprio grazie al servizio prestato alla patria avrebbe in breve conseguito la cittadinanza americana. Nel frattempo, si poneva il problema della gestione del porto di New York. Si trattava di un nodo cruciale per lo sforzo bellico statunitense, per garantire il collegamento con alleati e teatri di operazioni lontani. Si moltiplicarono ben presto le vociferazioni su informatori o commandos nemici, che sarebbero approdati in città, o viceversa su pescherecci che partendo da essa avrebbero rifornito sommergibili tedeschi al largo. Le domande dell’opinione pubblica erano quelle che abbiamo già visto poste da Whyte: gli stranieri – tedeschi e in numero ben maggiore italiani
– che affollavano i docks, che lavoravano quali pescatori o marinai, si sarebbero mostrati fedeli alla loro patria d’origine o a quella d’adozione? Le preoccupazioni raggiunsero il top già nel febbraio del 1942, quando andò a fuoco il piroscafo Normandie, ormeggiato mentre era in ristrutturazione per trasporto truppe. Entrò a questo punto in campo il comandante Charles R. Haffenden, direttore dell’ufficio newyorkese dei servizi segreti della marina. Negli anni trenta, costui aveva funto da coordinatore in un’associazione per la sicurezza della Grande New York, cui aderivano 115 «esponenti di primo piano del mondo degli affari cittadino», presieduta da uno dei maggiori investigatori privati del paese; la quale già in passato aveva offerto senza successo i propri servigi all’Fbi9. Haffenden aveva anche lavorato nel management nell’industria metropolitana delle costruzioni, laddove da gran tempo veniva affidato alla criminalità il compito di mantenere l’ordine in certi settori, la risoluzione dei problemi di relazione tra capitale e lavoro, tra anglosassoni e immigrati. Trasse di certo suggestioni da quest’esperienza formulando il suo «Project underworld». Si tratta forse del caso più noto di collaborazione tra istituzioni e grande criminalità, e di certo del meglio documentato: grazie a un’inchiesta effettuata nel 1954 dall’investigatore Herlands, a noi già noto10; alla documentazione dell’Fbi e a quella del Narcotic Bureau. Prima di ogni altro gli uomini di Haffenden contattarono lo czar del Fulton Market, «Socks» Lanza, che aderì entusiasticamente all’appello nel marzo appunto del 1942, e addirittura si mostrò pieno di patriottico fervore rifiutando sdegnosamente ogni ricompensa monetaria per i suoi servigi. Un mese dopo, costui consigliò ai suoi nuovi amici di chiamare in causa Lucky Luciano, suo referente ai vertici dell’underworld, spiegando che lui solo poteva garantire per ogni gruppo o singolo necessario al buon esito dell’impresa11. Haffenden e i suoi rivolsero allora all’avvocato del boss che a sua volta si disse disponibile a mobilitarsi «senza pretendere alcun compenso». Si creò così un contatto diretto con Luciano, che per prima cosa venne trasferito dal carcere di massima sicurezza in cui languiva in un più comodo luogo di detenzione, laddove gli venne concesso di intrattenersi con amici e collaboratori, tra i quali citerò Lanza stesso, Costello e Lansky12. Attraverso questo canale, i membri del team della marina entrarono in contatto con l’Ila. Subito dimenticarono i misfatti dell’Anonima omicidi: servirsi di un banchiere o di un gangster era la stessa cosa, avrebbero poi dichiarato – l’importante era il risultato. E al porto anche i più «duri», sembra, si piegavano al solo sentire il nome di Luciano13. Quella della difesa del porto da sabotatori o spie è la prima possibile spiegazione del Project underworld. Ma non la più verosimile. Il vero problema del porto era la mancanza di disciplina, efficienza e continuità del lavoro, denunciata nell’aprile di quell’anno dalla War Shipping Administration14. Dunque è ben più credibile una seconda spiegazione, quella degli agenti dell’Fbi, stando ai quali l’accordo tra la marina e l’Ila si risolse in una sorta di militarizzazione spuria della forza lavoro, intesa soprattutto a evitare scioperi e agitazioni da parte di elementi «non sotto controllo»15. Significativamente, l’operazione di maggior rilievo promossa dai due contraenti, e in piena sintonia, consistette nell’espulsione dai docks dell’organizzazione sindacale dissidente guidata da un sovversivo di origine australiana che pretendeva (addirittura) di denunciare le infiltrazioni gangsteristiche tra i lavoratori!16 E poi c’è una terza spiegazione: era tutto un grande bluff, studiato per mettere Luciano sotto una luce favorevole di fronte all’autorità e all’opinione pubblica, al fine di ottenere un miglioramento della sua situazione carceraria o – chissà? – una sua scarcerazione. Dagli informatori dell’Fbi apprendiamo di frequentazioni amichevoli di Haffenden con l’avvocato di Luciano e, sul campo da golf, persino con Frank Costello17. Già conosciamo costui come antico amico e collaboratore di Luciano. Non sappiamo quando queste partite ebbero inizio ed è un peccato – potremmo meglio capire chi dei due sia stato l’originario artefice del complotto, o per meglio dire quali fossero le sue originarie finalità. Frank Costello. Il tempo di guerra segnò il culmine della sua influenza politica. Garantiva che i suoi amici, ad esempio quelli che gestivano il gioco d’azzardo, non venissero disturbati dalla polizia, e in cambio garantiva alla macchina politica democratica i finanziamenti resisi più necessari di fronte alla diffidenza della business community verso il New Deal. Nel 1941 riuscì a portare il suo candidato alla guida di Tammany Hall18. Nel 1943 venne divulgata l’intercettazione di una sua conversazione telefonica con un candidato alla carica di giudice alla Corte suprema cittadina che gli prometteva «eterna gratitudine» in cambio del suo appoggio, e che venne poi eletto nonostante lo scandalo19. Casa Costello – come si sarebbe poi saputo – era il luogo in cui in quel periodo il procuratore di Brooklyn O’Dwyer si riuniva insieme ai leader di Tammany Hall. Sicuramente cercava sostegni elettorali per i cimenti futuri, anche se poi avrebbe dichiarato che (anche lui!) frequentava il gangster solo per averne informazioni atte a contrastare i sabotatori dello sforzo bellico nazionale… Nel 1951 George White, elemento di punta del Narcotic Bureau arruolato in tempo di guerra nei servizi segreti, avrebbe raccontato di essere stato contattato nel maggio del 1943 da un narcotrafficante per conto proprio di Costello, «il quale era a capo del movimento per fare uscire dalla prigione Luciano», e degli avvocati di costui; sarebbero stati costoro a offrirgli informazioni concernenti la sicurezza nazionale in cambio appunto della liberazione del boss20.
Aggiungiamo anche la versione (non necessariamente da prendersi per buona) contenuta nello pseudotestamento di Luciano: il boss prigioniero aveva previsto subito che dallo scoppio della guerra gli sarebbe venuto qualcosa di buono, aveva chiesto ad Anastasia di escogitare qualcosa, ed era stato costui a far bruciare il Normandie21. L’esistenza di una simile trama di partenza spiegherebbe il perché Lanza abbia spinto Haffenden & C. a un giro «vizioso» attraverso Luciano per prendere contatto con Mangano e con i suoi amici dell’Ila: saremmo di fronte a una tattica tipicamente mafiosa, quella di offrire protezione da una minaccia creata ad arte. Sta di fatto che Haffenden si presentò molto presto (febbraio del 1943) davanti a un giudice per renderlo edotto in forma confidenziale dei servizi resi da Luciano alla patria, insomma per sostenere un’istanza della difesa del boss intesa a conseguirne l’immediata scarcerazione sulla parola. Il giudice si rifiutò di accogliere la richiesta, la marina fece sapere che il suo ufficiale agiva a titolo del tutto personale, e il colpo fallì22. Sarebbe stato ritentato tre anni dopo, questa volta con successo. 2. Gli americani incontrano la mafia nella sua terra d’origine. Abbiamo detto di tre spiegazioni possibili del Project underworld, trascurandone una quarta, quella più popolare, ciclicamente riproposta in una varia letteratura, in una quantità di opere giornalistiche e di fiction. Per essa, Luciano avrebbe funto da mediatore in vista di un accordo tra i servizi segreti americani e la mafia siciliana inteso ad agevolare lo sbarco degli alleati nell’isola, o addirittura per garantire loro una facile vittoria nella battaglia di Sicilia. Ora, niente nella documentazione Herlands, e a maggior ragione nei documenti Fbi, indica che le trame newyorkesi del 1942 abbiano avuto un tale effetto. Su Mangano e sui suoi rapporti «commerciali» con la Sicilia, sembra, Haffenden faceva gran conto «per sviluppare il sistema informativo relativo al teatro mediterraneo delle operazioni»; ma in sostanza a quei «siciliani che sembravano così strani, e che venivano chiamati Padroni», mobilitati via Ila, vennero richieste solo informazioni «molto minuziose sul territorio siciliano»23. Max Corvo, dirigente italo americano dell’Oss (il servizio segreto civile poi rinominato Cia) ricorda che il citato George White ne riferì nel corso di riunioni del team che stava cercando aiuti tra gli antifascisti italiani per operazioni di intelligence, «semplicemente passando l’informazione per un eventuale nostro interesse»; ma sostiene che non se ne fece nulla perché il gruppo aveva già decretato l’esclusione sia dei comunisti che dei membri della criminalità organizzata24. Cito infine, sia pure con l’usuale prudenza, lo pseudotestamento di Luciano, nel quale il boss rivendica di aver bluffato sia proponendosi come protettore del porto di New York sia, e a maggior ragione, proponendosi come consulente per l’invasione di quell’isola da cui mancava dall’infanzia, dove non conosceva nessuno25. Non risulta che prima dello sbarco gli Alleati abbiano infiltrato nell’isola agenti segreti in grado di gestire trattative del livello presupposto dai sostenitori del grande complotto, e se è per questo nemmeno di livello inferiore26. Sappiamo solo di un commando sbarcato a Gela insieme ai reparti alleati di prima linea, e incaricato di contattare malavitosi già espulsi dagli Usa, i cui nomi erano stati forniti da contatti americani; peraltro nemmeno dietro questo episodio possono intravedersi progetti di vasto respiro, considerando che il gruppo in questione era stato formato appena un mese prima, allorché il comando della flotta aveva scoperto che «non aveva ufficiali del servizio informazioni che parlassero italiano»27. La teoria del complotto molto si appoggia sul libro di Michele Pantaleone, che già abbiamo citato come socialista di Villalba, paese dell’interno, provincia di Caltanissetta. Pantaleone sostiene che gli americani avrebbero individuato già prima dello sbarco don Calò Vizzini, boss appunto di Villalba, come proprio interlocutore, aggiungendo particolari francamente inverosimili, smentiti da testimoni in loco28. Quanto al resto, non trovo prove del pactum sceleris nella documentazione a me nota29. E di certo la mafia non ebbe niente a che vedere con l’andamento delle operazioni militari. La marina e le truppe territoriali italiane cedettero di schianto per ragioni legate alla crisi del fascismo, dei suoi rapporti con la monarchia e la pubblica opinione; mentre per i tedeschi la battaglia di Sicilia rappresentò un successo, visto che riuscirono a sganciarsi nonostante la schiacciante superiorità nemica. Invece la documentazione, sia sul versante dell’Oss30 sia su quello Amgot, dimostra che gli americani incontrarono la mafia dopo essere sbarcati nella sua terra d’origine. Se ne dovette occupare innanzitutto Charles Poletti, che abbiamo conosciuto come politico rooseveltiano newyorkese, e che troviamo ora, con il grado di tenente colonnello, nel ruolo di capo degli «affari civili» della Settima armata nella Sicilia occidentale. Ricordando quegli eventi qualche tempo fa, Poletti ha definito la mafia una mera «costruzione intellettuale», di cui l’Amgot neppure avrebbe sentito parlare31. Ma si ricorda proprio male. Infatti ci furono polemiche già al tempo sull’atteggiamento dei Cao (Civil Affairs Officers) italoamericani. Il britannico lord Rennell Rood, massima autorità dell’Amgot, lamentò che in certi casi quel personale venisse da
ambienti mafiosi americani32. Lo stesso capitano americano W. E. Scotten, autore per l’Amgot di un importante Rapporto sul tema della mafia, ammise che qualcosa di vero c’era. Ci consente di vedere le cose più da vicino la nostra vecchia conoscenza Nick Gentile. Allo sbarco alleato, si trovava nel paese natale della moglie, Raffadali in provincia di Agrigento. Venne arruolato dagli americani come interprete, e subito intrecciò un rapporto di «collaborazione» con l’ufficiale comandante, con il quale avrebbe «formato un’amministrazione, un governo di quel territorio». Accadde che quel governo militarmafioso dovesse sciogliersi quando gli inglesi subentrarono agli americani nella zona, ma questo non rappresentò un problema per Gentile, che seguì il suo socio a Palermo «con tutta la merce» (??). In una difficoltà maggiore incorse quando, «sfortunatamente», una lettera anonima indirizzata a lord Rennell lo portò in prigione. Lo zio Nick disponeva però di una carta di riserva nella persona di un ufficiale «dei servizi speciali», che gli fece restituire la libertà e garantì la continuità dei suoi traffici. Un particolare un po’ sorprendente: né l’uno né l’altro degli ufficiali in contatto con Gentile avevano un cognome italiano33. Il racconto di Gentile mostra comunque un riannodarsi di pregresse relazioni siculoamericane. Altre però se ne intrecciarono exnovo nella situazione caotica conseguente all’invasione, su cui abbiamo alcune descrizioni dei carabinieri. A Partinico i mafiosi liberarono i loro accoliti dalla prigione. A San Cipirrello il capomafia Salvatore Celeste «in occasione dell’arrivo delle truppe americane ha ritenuto che le leggi fossero interamente decadute ed ha stretto di più le relazioni con i pregiudicati del luogo, da lui dominati, e con i componenti del comitato amministrativo comunale, formato, in parte, da elementi dimessi dal confino di polizia»34. Ritroveremo più avanti questo capomafia. Diciamo ora che era un uomo di condizione agiata, che era lui stesso reduce dal confino e proprio per questo poteva spacciarsi per antifascista; per l’una e per l’altra ragione apparendo come un interlocutore adeguato agli occupanti liberatori in cerca di una classe dirigente locale non compromessa col fascismo. Anche in altri paesi della Sicilia occidentale, elementi di mafia o vicini alla mafia si proposero così come interlocutori agli ufficiali statunitensi che cercavano qualcuno cui affidare il suolo di sindaco, e se ne conquistarono la fiducia. L’Amgot si rese conto quasi subito del problema e chiese ai carabinieri – che cos’è la mafia, chi sono i mafiosi? Ne ricevette un impressionante elenco dei curricula criminali di centinaia di individui. La rotta venne corretta, e fu Poletti in persona a ordinare (oralmente) che i sindaci con precedenti penali rassegnassero le dimissioni. Qualche esempio. A Godrano quello nominato dopo lo sbarco mollò subito quando gli venne contestata una chilometrica fedina penale. A Marineo il capo della locale cosca, che si era limitato ad assumere la carica di vicesindaco, rassegnò le dimissioni senza che però nessuno osasse farsi avanti per sostituirlo. A Villafrati «i leader della mafia si presentavano come veri amici degli Alleati e intransigenti nemici dei fascisti»; in forza a una petizione popolare, il posto di sindaco era stato in effetti assegnato al capomafia. Costui, quando gli fu chiesto di dimettersi, cercò «qualche aiuto al quartier generale per evitare la rimozione», e fu necessario cassarlo d’autorità. Però subito dopo gli occupantiliberatori presero atto che il suo «partito» aveva fatto un buon lavoro per gli organismi che si occupavano della distribuzione dei generi alimentari convincendo i paesani a consegnare il grano da loro imboscato35. Gli approvvigionamenti alimentari erano in effetti il problema del momento, e al crescere del mercato nero si accompagnava una nuova ondata di banditismo. Il caso più gravido di futuro fu quello del giovane borsanerista di Montelepre Salvatore Giuliano (19221950), figlio di emigrati di ritorno da Brooklyn. Il 2 settembre del 1943 uccise un carabiniere che l’aveva intercettato in campagna, si diede alla latitanza senza mai allontanarsi dal suo paese e dai territori montani circostanti (non poi così distanti dalla stessa Palermo), creò una banda dedita in particolare ai sequestri di persona. Era composta in larga parte da compaesani, tra i quali svolgevano un ruolo particolare quelli che nella notte di Capodanno del 1944 aveva fatto evadere dal carcere di Monreale. Questa cittadina, come sappiamo, era ab antiquo uno dei grandi centri di mafia. Adeguato dunque il commento che troviamo in un libro di memorie di Giovanni Lo Bianco, maresciallo dei carabinieri già impiegato nell’Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza, che sarà protagonista di un’interminabile caccia al bandito: quella «rocambolesca evasione» dimostrava «che Giuliano aveva incontrato il favore dell’onorata società» monrealese36. L’Amgot si chiese se fosse il caso di promuovere – in stile Mori – una massiccia operazione di repressione della mafia, o se non la si dovesse piuttosto utilizzare per contrastare il banditismo37. Scotten sconsigliò la prima ipotesi, che avrebbe richiesto una distrazione di forze inopportuna a guerra ancora in corso. Però fu ancor più netto nel dirsi contrario all’altra, innanzitutto per una ragione di principio: il governo militare alleato ne sarebbe uscito squalificato. Anche, però, per una ragione di fatto: a dire di Scotten non esisteva, dopo l’operazione Mori, la mafia, un’entità compatta, dalle strutture e dalle gerarchie definite, bensì un’infrastruttura «più orizzontale […] che verticale», «ancora notevolmente smembrata e ridotta a una dimensione locale»38, con la quale dunque un accordo «da potenza a potenza» sarebbe stato impossibile. Noi invece sappiamo che l’organizzazione mafiosa era sopravvissuta all’operazione Mori, e si era riorganizzata negli anni trenta. Difficile dire però in quale situazione si trovasse al momento dello sbarco.
3. Separatismo siciliano. Parliamo ora del Movimento per l’indipendenza della Sicilia (Mis). Fu creato e guidato, all’indomani dello sbarco, da elementi della classe dirigente prefascista. Cito il suo leader Andrea FinocchiaroAprile, figlio del Camillo FinocchiaroAprile che era stato ministro con Giolitti già nel 1892, egli stesso ex deputato nittiano di Corleone. Cito il barone Lucio Tasca Bordonaro, che abbiamo già incontrato nei primi anni venti come esponente di un filofascista Partito agrario e poi dirigente del Consiglio provinciale dell’economia palermitano. Il Mis dipinse se stesso come un movimento di massa, rappresentativo dell’intero «popolo siciliano». Nella realtà esso apparve forte solo in una primissima fase, quando la politica di massa non esisteva e non era neanche possibile, viste le limitazioni poste dagli alleati all’attività politica, a ventitré anni dall’ultima occasione in cui elezioni libere avevano potuto testare la volontà popolare. Il Mis riuscì bene a giocare le sue carte nelle nomine degli alleati alle cariche di sindaco: sembra fosse separatista una netta maggioranza dei sindaci di nomina alleata in provincia di Palermo39. Citiamo i due casi più famosi. Il primo è quello del già citato Lucio Tasca, nominato sindaco del capoluogo, Palermo; il secondo quello di Calogero Vizzini, nominato sindaco di Villalba, paese sperduto nel centro dell’isola. Ma di un sostegno angloamericano alle finalità di fondo del movimento non possiamo parlare. Già FinocchiaroAprile si lamentò della «preconcetta avversione» di Poletti40. Maggiormente lui e i suoi protestarono quando nel febbraio 1944 gli alleati riconsegnarono l’isola all’amministrazione del governo italiano (allora retto da Badoglio), il quale a sua volta istituì un Alto commissariato per la Sicilia. Democristiani, socialisti e comunisti erano consapevoli della necessità di avviare l’isola verso una forma di autonomia regionale. Ma questo non implicò affatto una convergenza col Mis. Anzi, l’obiettivo era di fargli il vuoto intorno. La vicenda del Mis è particolarmente importante ai nostri fini perché in questo movimento si schierarono un po’ tutti i mafiosi che erano segnalati, o si sarebbero in seguito segnalati, all’attenzione delle cronache. Potremmo aggiungere molti nomi a quello di Calogero Vizzini, allora il più noto41. Così, possiamo dire che con il separatismo la mafia, per la prima e l’ultima volta nella sua storia, si identificò con un partito anziché inserirvisi strumentalmente. Ne condivideva l’ideologia? In un certo senso sì. Sul lungo periodo, sappiamo del sottofondo, del retrogusto sicilianista che sempre aveva avuto il discorso dei mafiosi, d’altronde corrispondente a quello della classe dirigente isolana (proprietari fondiari, politici, avvocati, intellettuali) con cui costoro si erano sempre mossi in sintonia. Non dimentichiamo peraltro le circostanze politiche assolutamente eccezionali del 1943: invasione straniera, crisi catastrofica dello Stato nazionale, separazione di fatto della Sicilia dal resto d’Italia, collasso di molte strutture civili. E, naturalmente, paura di chissà quali futuri rivolgimenti. In questo libro l’ho già rilevato: la mafia non è, come si crede comunemente, una superpotenza politica, e in quella congiuntura i suoi ispiratori di sempre, i grandi proprietari fondiari, non mostravano più una gran lucidità, si avviavano verso il loro storico tramonto. Difficile dire quanto i separatisti contassero di realizzare l’obiettivo massimo, la separazione appunto. E ribadisco che non era vero quanto sostenevano i loro propagandisti: che nel governo degli Stati Uniti ci fosse chi puntava all’annessione dell’isola42. Qui, come spesso ci capita, dobbiamo considerare probante la testimonianza di Nick Gentile, che venne messo al corrente da Calò Vizzini e da altri «amici» dei «contatti che avevano con esponenti dell’esercito americano, i quali – a sentir loro – avevano promesso tutto il loro appoggio per il movimento separatista e per l’annessione della Sicilia alla Confederazione degli Stati Uniti». Gentile contattò a sua volta i servizi statunitensi, ma si sentì rispondere che si trattava di un bluff o al massimo delle iniziative «di qualche stupido sergente», da cui fu invitato a «non lasciarsi infinocchiare». Disse allora agli «amici» che «stavano prendendo un grosso granchio» ma non riuscì a convincerli perché «erano troppo infatuati»43. Diciamo che si erano ubriacati del proprio stesso bluff. Calogero Vizzini. Possiamo ora meglio comprendere le ragioni per cui il mito lo assunse a parte contraente del patto tra mafia e americani prima dello sbarco, che sono almeno due. La prima motivazione emerge già dal racconto sopra citato di Gentile. Vizzini dopo lo sbarco millantava il proprio ruolo di interlocutore dei servizi segreti statunitensi, e in effetti la documentazione ce lo mostra impegnato in un continuo pressing sui funzionari dell’Oss. Li invitava a chiudere al più presto la partita con «i dannati comunisti»44. Insisteva sui danni fatti dal fascismo («Il fascismo ha diffamato la Sicilia con le leggi speciali di pubblica sicurezza. Eravamo considerati una colonia penale. Il prefetto Mori e i suoi agenti sono i responsabili del degrado morale, economico, e politico della Sicilia»). E indicava la soluzione («Al giorno d’oggi, gli americani devono poter giudicare l’isola come un gioiello del Mediterraneo»)45. Si offriva di bloccare con i suoi sistemi il banditismo («Ora basta! La Sicilia desidera tranquillità nelle campagne e sulle strade. Alcuni elementi sono già stati eliminati, ma altri devono ancora cadere»)46. Gli agenti dell’Oss consideravano rappresentative dell’«Alta mafia» le posizioni sue e della destra separatista. Anche Scotten, versante Amgot, scrisse: «il movimento separatista così come si presenta oggi è principalmente sostenuto da due gruppi reciprocamente interessati e interdipendenti, i proprietari fondiari e la Mafia»47.
Don Calò aderì al movimento separatista ma senza tagliare i suoi antichi rapporti col movimento cattolico, dunque con la nascente Democrazia cristiana, rappresentata a Villalba da suo nipote. Si mantenne (come in passato) nell’orbita di Lucio Tasca Bordonaro. Costui nel 1944 fece pubblicare un opuscolo, L’elogio del latifondo siciliano, nel quale dipingeva come un complotto antisiciliano le leggi di colonizzazione del latifondo emanate dall’ultimo fascismo soprattutto al fine di screditare ogni venturo progetto di riforma. Una posizione francamente reazionaria, mentre stavano ripartendo le lotte contadine e un po’ tutti – intorno ai due partiti di sinistra (comunisti e socialisti) e alla Democrazia cristiana – convenivano sulla necessità storica di una riforma agraria. Don Calò l’avrebbe detto scherzosamente a Indro Montanelli (di lì a un paio d’anni, nel corso dell’intervista che abbiamo già citato): lui non si sentiva un reazionario, ma si rendeva conto che la sua amicizia con Tasca lo esponeva al rischio di essere considerato tale48. In effetti noi sappiamo quanto ambigua fosse stata, sin dal dopoguerra precedente, la posizione sul latifondo sua e di quelli come lui: gabellotti, notabili, imprenditori politici paesani. Un momento di svolta si ebbe il 16 settembre 1944, quando Vizzini e i suoi, nella piazza di Villalba, a suon di revolverate e bombe a mano, attaccarono il palco da cui il leader comunista siciliano Girolamo Li Causi, già esponente dell’emigrazione politica e della Resistenza, stava parlando avendo accanto Michele Pantaleone, che conosciamo come esponente socialista paesano. Li Causi fu ferito insieme ad altre tredici persone. Vediamo come il giornale separatista «Sicilia indipendente» ricostruì l’episodio. Vizzini e il nipote Benedetto Farina (che come sappiamo guidava una locale Democrazia cristiana) non erano contrari a ospitare Li Causi e gli altri «forestieri» giunti in paese. Chiedevano solo che essi evitassero di riferirsi a questioni locali «per rispetto alla ospitalità che veniva loro offerta». Invece Li Causi non volle «rimanere all’altezza della propaganda ideologica», ed entrò in questioni che non lo riguardavano, criticando in particolare il modo in cui gli «amici» venivano privilegiati nella gestione dei subaffitti del feudo Miccichè. Vizzini avrebbe invitato alla calma e, finita la sparatoria, si sarebbe scusato con gli ospiti facendo in modo che potessero tornarsene tranquillamente in città. Rosario Mangiameli, in un suo studio da cui traggo la citazione di cui sopra, commenta: diversamente da quanto accade con «le normali imprese criminali della mafia, questa volta l’intimidazione e l’attacco erano stati portati a viso aperto, al cospetto dell’opinione pubblica»49. Proprio per questo l’attentato segnò una svolta. I comunisti non consideravano scontato che, nella lotta contro il latifondo di cui nel secondo dopoguerra si annunciava l’ultimo atto, i gabellotti dovessero per forza prendere posto accanto ai «feudatari», insomma ai latifondisti. Li Causi sperava che in un’Italia democratica «i componenti della vecchia maffia, nella lotta per la conquista della terra, non [avrebbero avuto] più bisogno di mettersi fuori legge». Per questo dopo l’attentato stigmatizzò Vizzini come «indegno di appartenere alla stessa maffia»50. La verità è che la mafia stava andando e non poteva che andare a scontrarsi con le forze di sinistra, come nel dopoguerra precedente. Si confronti questa posizione di Li Causi con quella di Bernardo Mattarella, un democristiano di Castellammare che nel suo partito stava assumendo un ruolo di primo piano. Mattarella diceva: «quegli elementi di Villalba che guardavano con simpatia al movimento democratico cristiano, nel quale forse pensavano di rientrare, non sono per niente reazionari. Trattasi in gran parte di contadini e di piccoli proprietari» solo per un accidente unitisi ai «feudatari» del Mis51. Il leader democristiano formulava un’analisi sociale non tanto diversa da quella del leader comunista. Però dal punto di vista politico, e a breve, ben più realistica si sarebbe rivelata la sua previsione politica: i villalbesi sarebbero tornati alla Dc. Interessante, ma un po’ apologetica, la ricostruzione di un altro grande leader siciliano della Dc, il nisseno Giuseppe Alessi. Sostiene di essersi opposto all’ingresso in blocco nella Dc degli ex separatisti del Vallone, ben sapendo che quello era «il mondo delle tre M: […] Mulino, Moneta, Mafia», ma di aver dovuto cedere di fronte ad altri democristiani che dicevano: «Abbiamo bisogno della protezione di persone forti per fermare le violenze dei comunisti»52. In conclusione. Intorno alla fine del 1944 Mario Scelba, democristiano di Caltagirone (compaesano cioè nonché allievo di Sturzo), futuro ministro degli Interni dei governi del centrismo, dichiarò che per battere il separatismo bisognava trovare una soluzione della questione siciliana senza attendere la convocazione di un’Assemblea costituente (nazionale) e senza aspettare che soffiasse forte il «vento del Nord»: vento che con il socialismo e il fascismo aveva nel dopoguerra precedente provocato ogni genere di sconquassi. Era un discorso che veniva incontro a convinzioni radicate negli ambienti conservatori isolani, già allarmati dalla ventata giacobina proveniente appunto dal Nord e dalle prime lotte per la terra in casa loro. Per prevenire i peggiori sconvolgimenti, il compito di disegnare l’istituenda autonomia fu demandato a una Consulta regionale, costituita prima ancora che la collettività si esprimesse in libere elezioni, e riunitasi per la prima volta nel febbraio 1945. Era composta sia da elementi dei partiti del Cln sia da notabili prefascisti, ivi compresi elementi che avevano mostrato una certa simpatia per il Mis. Anche nell’area di opinione filoseparatista, molti pensarono che la creazione della Consulta implicasse l’esaurimento dell’esperienza del Mis. Invece i maggiorenti del movimento ritennero che fosse opportuno rilanciare, e nel settembre del 1945, in una proprietà Tasca, decisero di utilizzare alcune delle bande brigantesche che ancora
percorrevano l’isola per rinsanguare l’Evis, una sorta di esercito clandestino separatista. Di certo la mafia fu chiamata a partecipare all’impresa, anche se non so quanto sia condivisibile l’equazione tracciata dall’antico collaboratore di Mori, Francesco Spanò, che scrisse in un suo appunto: «Quella sera si riorganizzò l’antica società di mafia nella quale erano rappresentate tutte le cosche della Sicilia»53. È un fatto che Salvatore Giuliano venne promosso da bandito a colonnello nell’Evis, avviandosi verso la seconda fase della sua carriera. Il governo Parri (3 ottobre 1945) replicò decretando l’arresto di FinocchiaroAprile e di altri capi del movimento. Lo Statuto regionale siciliano venne varato dalla Consulta alla fine dell’anno, e nella primavera seguente recepito dallo Stato. È tutt’oggi in vigore. 4. Il ritorno di Lucky Luciano nell’antica patria. Ripassiamo di nuovo l’oceano e torniamo negli Stati Uniti per rimetterci sulle tracce di Lucky Luciano. Come si ricorderà, nel 1943 il suo avvocato e il comandante Haffenden, artefice del Project underworld, non erano riusciti a ottenerne la scarcerazione. Ci provarono di nuovo appena finirono le operazioni militari in Europa54. La situazione politica stava cambiando. Si ebbe la trionfale elezione a sindaco di New York di O’Dwyer, il quale nominò proprio Haffenden «Commissioner of Marine and Aviation», qualcuno disse su sponsorizzazione del suo compagno di golf, Costello. Era un incarico di «estremo rilievo»; anche se di fatto poi ci furono delle complicazioni, e l’ex agente segreto dovette dimettersi dopo pochi mesi55. Comunque, per quanto riguardava Luciano, il risultato venne conseguito nel gennaio del 1946, quando il boss uscì di prigione con venti o anche quarant’anni di anticipo sulla scadenza della pena. Fatto sommamente simbolico, a firmare l’atto di scarcerazione fu il suo antico accusatore Thomas Dewey, dal 1942 governatore dello Stato di New York. La stampa rumoreggiò, si moltiplicarono le voci sul contributo della mafia siciliana alla pianificazione dello sbarco nell’isola, alla gestione delle operazioni militari, alla vittoria delle armate delle Nazioni Unite. Dewey dovette giustificarsi, e senza citare il versante siciliano si limitò a riferirsi – e con prudenza – a servigi resi sul versante americano: All’atto dell’ingresso degli Stati Uniti in guerra, le Forze armate richiesero l’aiuto di Luciano per indurre altri a fornire informazioni relative a possibili attacchi nemici. Sembra che egli abbia cooperato in questo sforzo, per quanto non sia chiaro il valore reale delle informazioni così procurate56.
L’accordo era che Luciano dopo la scarcerazione venisse immediatamente espulso verso l’Italia, di cui era cittadino non avendo mai preso la nazionalità statunitense. Le autorità speravano che tutto si risolvesse con discrezione, invece il momento del suo imbarco si trasformò in una pubblica, clamorosa cerimonia di omaggio tributatagli dai principi dell’underworld, Costello in testa, con i portuali schierati sul molo a mo’ di guardia d’onore per tenere lontani gli estranei – giornalisti e curiosi. Le polemiche ne vennero rinfocolate. I servizi segreti della marina aprirono un’inchiesta e Haffenden corresse il tiro: Luciano, disse, gli aveva procurato contatti con siciliani d’America che confidava potessero essere stati utili. La marina lo smentì sulla base delle carte conservate nei suoi archivi, ma Haffenden lasciò intendere che trattandosi di un’operazione top secret bisognava credere alla sua parola. La marina replicò che quanto eventualmente si fosse tramato in America non poteva aver avuto ripercussioni sul teatro delle operazioni perché, come sapevano tutti coloro che hanno preso parte all’invasione della Sicilia, era l’intelligence inglese, non quella americana, a fornire le informazioni segrete. In un’atmosfera di crescente nervosismo, l’Fbi cominciò anch’essa a indagare acquisendo per vie traverse proprio i documenti della marina. Le voci raccolte dai federali mettevano in discussione l’immagine di inflessibile persecutore della criminalità cui Dewey doveva i suoi successi politici. Un primo filone si incentrava sul verdetto del processo del 1936, in qualche modo inficiato dalla ritrattazione (ottenuta non sappiamo come) di gran parte dei testimoni d’accusa: c’era chi diceva che il governatore aveva voluto anticipare gli avvocati di Luciano e una richiesta di revisione del processo. Altre voci puntavano su 250 000 dollari che sarebbero stati stanziati dall’Unione siciliana per la liberazione del suo boss, e che sarebbero stati distribuiti «circoli politici» repubblicani57. L’unica cosa certa è che Dewey era in vista di importantissime scadenze elettorali. Nella prima venne confermato governatore. Nella seconda (1948) corse addirittura per la presidenza dell’Unione, e da favorito; finendo però sconfitto da Truman contro tutte le previsioni. Attraversiamo l’oceano per l’ennesima volta. Quali che fossero le motivazioni della sua liberazione, Luciano giunse in Italia come altri gangster italoamericani, dichiarati «indesiderabili» dalle autorità statunitensi. L’antico boss dichiarò di non avere nessuna intenzione di stabilirsi nella barbara isola natia e optò per Roma, ma per l’opposizione del governo italiano dovette ripiegare su Napoli.
Passò poco più di un anno, e comparve d’improvviso a Cuba, dove il suo amico Lansky vantava relazioni politiche in alto loco, e lo attendevano, per organizzare casinò e commerci di varia natura, gangster americani di origine italiana ed ebraica. Convinti che egli stipendiasse una sorta di ufficio stampa, gli uomini del Narcotic Bureau organizzarono una controcampagna intesa a mettere in dubbio le sue credenziali, il «mito» del Luciano patriota che rischiava di avallare nuove tolleranze nei suoi confronti e soprattutto sue possibili spedizioni di droga dall’isola caraibica verso le vicine coste degli Stati Uniti. La polemica chiamava ancora in causa Dewey, i cui collaboratori dichiararono che il loro capo non era stato «obbligato» a rilasciare Luciano dal suo contributo bellico, ma senza rinunciare del tutto a un argomento che, in fin dei conti, era l’unico che potesse giustificare le scelte fatte58. Più facile campo trovò il gran capo del Narcotic Bureau, Harry Anslinger, nelle sue pressioni sulle autorità cubane, grazie alle quali, dopo parecchi mesi di permanenza nell’isola, l’antico boss fu rispedito in Italia. Dovette capire allora che i suoi progetti non si sarebbero facilmente realizzati. Non avrebbe in effetti traversato l’oceano mai più. Ma le polemiche non erano finite. Dewey era il numero uno del Partito repubblicano e i democratici non mollarono la presa. L’affare Luciano tornò sulla ribalta nel momento stesso in cui il tema della criminalità organizzata tornava sulla ribalta; anzi, la prima volta in cui venne messo nel mirino da un’autorità federale, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla criminalità organizzata presieduta dal senatore Estes Kefauver (che era appunto democratico). Siamo nel 195051. Vennero convocati sia Dewey che Haffenden, ma il primo si rifiutò di comparire e il secondo rese una testimonianza giudicata «inconcludente»59. Si rivelò invece succosa quella di George White il quale, come già abbiamo detto, rivelò che l’iniziativa per la liberazione di Luciano era venuta da Costello. La stampa ostile a Dewey ebbe modo di ricamare su questo schema60. Quando i democratici provvidero a pubblicare la lista degli avvocati e dei criminali cui a suo tempo era stato concesso di visitare il boss in carcere, Dewey decise di rispondere affidando un’inchiesta ufficiosa sul Project underwold al detective Herlands, che già conosciamo come suo uomo e da cui certo si aspettava un avallo alla tesi del patriottismo del gangster, l’unica che potesse giustificare le sue scelte. I risultati però non furono forse quelli che si aspettava, tanto che il testo della relazione Herlands non venne reso pubblico, e ci si limitò a lasciarne filtrare i contenuti in maniera sommaria61. Con Kefauver molto collaborò il Narcotic Bureau, che molto contribuì al ritorno in auge nel dibattito pubblico statunitense del termine mafia. Sotto la sua insegna la Commissione unificò fenomeni non necessariamente connessi tra di loro: l’accresciuto potere del gangsterismo etnico di origine italiana/siciliana nelle grandi città dell’Est, il rinnovato attivismo postbellico di bande di narcotrafficanti siciliane e siculoamericane. Per dovere d’ufficio, il Narcotic Bureau sottolineava soprattutto il secondo pericolo. In un volume direttamente ispirato dall’agenzia, prefato dal suo stesso gran capo Anslinger, la mafia fu descritta come una potenza nemica intenta a pompare veleni verso l’America, una creatura sempre uguale a se stessa fatta di «tradizione» e di aliena «filosofia»; il cui gran capo era un siciliano di vecchia scuola, da chiamarsi non Charlie Luciano ma don Salvatore Lucania, per sottolineare come non fosse diverso dal suo avversario d’un tempo, Giuseppe Masseria, e dai suoi attuali colleghi di Sicilia62. Segnaliamo che nel frattempo Luciano continuava a puntare sull’immagine opposta, quella del gangster americanizzato. Un suo connazionale – che soggiornava per ragioni di lavoro nella Napoli di metà anni cinquanta – lo dipinge intento, nel ristorante di sua proprietà, a firmare autografi ai marinai americani della base Nato, a farsi fotografare accanto a qualche ufficiale, tra parole di disprezzo per il paese barbaro in cui è stato scaraventato e rimpianti per i «vecchi tempi», per il palcoscenico sfavillante che aveva dovuto abbandonare – «Io sono cresciuto povero come un mucchio di spazzatura nel Lower East Side. Gli Stati Uniti mi hanno reso ricco. Devo tutto agli Stati Uniti. […] Che cosa sarebbe successo se la mia famiglia fosse rimasta in Sicilia?»63. In quegli anni, scriveva anche in America per lamentare la persecuzione cui lo sottoponeva l’antidroga statunitense. A chi si rivolgeva? A colui che in antico era stato il suo arcinemico, Thomas Dewey. Conclusione. Nel 1948, stando agli informatori del Narcotic Bureau, Luciano si incontrò a Palermo con Carlo Gambino, arrivato segretamente dagli Stati Uniti, e con il fratello di costui, Paolo, da qualche tempo tornato in patria64. Il riferimento ai due boss, quello esiliato e quello emergente, personalizzava un meccanismo forse più generale nel quale qualcuno forniva l’eroina, e qualcun altro – utilizzando come corrieri i soliti emigranti clandestini – la faceva giungere a New York. L’agente Charles Siragusa, che dal Bureau venne messo alle calcagna di Luciano, puntò il dito sulle industrie farmaceutiche del Nord Italia, una sorta di «filone aurifero» cui, anche sfruttando qualche vuoto legislativo, i trafficanti potevano attingere con relativa facilità; lo stesso cui, come si ricorderà, aveva attinto Vito Genovese prima della guerra. Quanto alle relazioni di cui l’antico boss poteva fruire in Sicilia, sappiamo che venne coinvolto in due importanti affari sviluppatisi a Palermo sul finire degli anni quaranta: la costruzione dell’ippodromo cittadino e la vendita all’Università del Parco d’Orleans, complessa operazione da cui gli ex gabellotti del fondo ricavarono grandi profitti poi reinvestiti nel mercato dell’eroina. Tra gli altri, vi partecipava il corleonese Angelo Di Carlo, che aveva
fatto anche lui carriera in America65. Stando alla guardia di finanza italiana, questa banda di narcotrafficanti comprendeva Pietro Davì, detto Jimmy l’americano perché ritornato nel 1934 dagli Stati Uniti, personaggio che già abbiamo visto attivo nel settore nell’anteguerra, già da allora considerato socio di Luciano; e che era il genero di Nick Gentile. Su tutto questo torneremo. Segnaliamo invece ora i risvolti paradossali del caso Luciano. Era stato o era stato considerato il boss dei boss, il suo arresto aveva segnato la clamorosa vittoria della legge sulla criminalità e sulla corruzione politica. Poi era stato coinvolto nel gioco dei servizi segreti in tempo di guerra, e qualcuno l’aveva dipinto come un grande patriota. Qualcun altro, va detto, non ci aveva creduto per nulla. Di seguito, l’America l’aveva liberato decenni prima della scadenza della sua pena, e l’aveva messo fuori dalla portata del proprio potente braccio. Ora lo indicava nuovamente come l’arcinemico che dal vecchio mondo minacciava con la droga la salute e la moralità dei suoi giovani. Paradosso su paradosso, come in un lontano passato accuse di lassismo vennero rivolte alla polizia italiana, cui un superpoliziotto con specifiche competenze in cose siciliane replicò che Lucania si era guadagnato i gradi sul suolo americano, che erano stati gli americani a spedire quel delinquente che giudicavano «così pericoloso» in Italia, non si sapeva per quale motivo «misterioso». «Forse in conto riparazioni di guerra»?66 Comunque il governo italiano, se non era allarmato dal commercio di stupefacenti tutti destinati a un consumo americano, non poteva che mostrarsi rispettoso di ogni richiesta proveniente dal potente alleato, e si regolò in conseguenza offrendo ogni collaborazione. 1 Appunto del 12 gennaio 1943, in FBI Files, Carlo Tresca, f. 5. 2 Il discorso di Taddei è riportato sia in versione inglese che in versione italiana nell’opuscolo The Tresca Case, in FBI Files, Carlo Tresca. La
vicenda del contrasto tra Tresca, Pope e Garofalo è qui ricostruita in molti documenti FBI: scelgo il Memorandum del 13 gennaio 1943. 3 The Assassination of Carlo Tresca, in particolare pp. 101 e 16, in FBI Files, Carlo Tresca, f. 6. 4 La ricostruzione è di Kwitny 1979. 5 Si chiamava John C. Montana, ed era nato nel 1893 a Montedoro, provincia di Caltanissetta. Una pregevole ricognizione della struttura della Famiglia di Buffalo è quella del detective Michael Amico in McClellan Hearings, pp. 585614; su Montana cfr. in particolare le pp. 58993. 6 Scheda Fbi del 23 dicembre 1957, p. 9, in FBI Files, Charles Gambino. 7 FBI Files, Mafia Monograph, p. 82. Si veda anche C. Grutzner, Business Leaders, Mafia Firm, in «New York Times», 17 aprile 1965. 8 L’esercito dovette ammettere che le sue competenze erano state utilizzate nell’addestramento di scaricatori: S. Bohem, Murder, Inc. Ace Now Army Top Sergeant, in «New York Journal», 28 settembre 1943. 9 Memorandum Fbi del 22 marzo 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 2. 10 E poi riutilizzata in Campbell 1977. 11 Ibid., p. 65 e passim. 12 Ibid., pp. 89110. L’avvocato di Luciano si chiamava Moses Polakoff. 13 Così uno degli uomini di Haffenden, Felix Sacco, intervistato nell’articolo Navy Officer Insists Lucky Luciano Aided War Effort, in «New York WorldTelegram», 26 febbraio 1947. 14 Bell 1964, p. 163. 15 Memorandum Fbi del 22 marzo 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 4. 16 Si chiamava Harry Bridges: Campbell 1977, pp. 1213. 17 L’agente E. E. Conroy a Hoover, 1° marzo 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 3. 18 Era Michael Kennedy, che pure era inviso a Roosevelt. Cfr. Wolf DiMona 1974, pp. 13347. Anche FBI Files, Mafia Monograph, p. 58, e Bell 1964, p. 132 e passim. 19 Il giudice si chiamava Thomas Aurelio. Moore 1974, p. 197. 20 Lo fece nel corso delle udienze della Commissione Kefuver (il narcotrafficante si chiamava August del Grazio): Kefauver 1951, p. 48. 21 Gosch Hammer 1975, pp. 255 sgg. 22 E. E. Conroy a Hoover, 1° marzo 1946 cit., p. 2. 23 Memorandum Fbi del 22 marzo 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 4. 24 Corvo 1990, pp. 223. 25 Gosch Hammer 1975, pp. 601 e 267. 26 D’Este 1990, p. 482; Mangiameli 1994; Patti 2013. 27 D’Este 1990, p. 485. Anche la testimonianza di Corvo 1990, pp. 62 sgg., sul caos in cui si trovarono gli ufficiali dell’Oss arrivati sulle spiagge al seguito della prima ondata sembra escludere una gestione pianificata degli aspetti militari, spionistici e politici dell’operazione Husky. 28 Secondo Pantaleone 1960, pp. 48 sgg., aerei alleati nei giorni precedenti l’invasione avrebbero lanciato foulard sul paese ricamati con una «L» come Luciano, precedendo l’arrivo nell’abitato di ufficiali americani incaricati, sempre nel nome di Luciano, di coordinare le operazioni militari con don Calò. Tutt’altra la versione dello storico villalbese che abbiamo anche in precedenza citato, Lumia 1990, II, pp. 42830: gli americani presero Vizzini a bordo di un loro mezzo per farsi mostrare l’ubicazione di campi minati, e poi lo scaricarono in campagna senza troppi complimenti. 29 Così non ne trovano Mangiameli 1987 e 1994; Renda 1987, III; Patti 2013.
30 A me è nota la sua parte pubblicata da Tranfaglia 2004. 31 Poletti 1993, pp. 21 e 23. Lasciata la Sicilia, Poletti divenne governatore di Roma e di altre zone dell’Italia liberata. Su di lui si sono nel
tempo moltiplicate le storie anche molto fantasiose, come quella che lo vorrebbe paracadutato in Sicilia prima dello sbarco per sottoscrivere il pactum sceleris con la mafia. 32 Mangiameli 1987, p. 499. Come Mangiameli sottolinea, queste critiche non indicavano certo un più democratico progetto di governo della Sicilia. Anzi il senior partner britannico spingeva l’Amgot a puntare sulle cosiddette gerarchie naturali della società siciliana: la Chiesa e l’aristocrazia. Max Corvo e altri dirigenti siculoamericani dell’Oss erano convinti viceversa della necessità di un’epurazione antifascista. Si veda in particolare il rapporto 14 dicembre 1943, firmato Vincent Scamporino, in Tranfaglia 2004, pp. 99106 e in particolare p. 101. 33 Uno si chiamava Maeder Monroe, l’altro Max Brod: Gentile 1993, pp. 1634. 34 Legione territoriale dei Carabinieri reali di Palermo, Elenco dei capi mafia e dei mafiosi più in vista, 4 settembre 1943, pp. 4 e 6, in ACS, ACC, bobina 689c, scat. 140, 143/28: Mafia. 35 Relazione del Cao W. Sullivan al colonnello W. R. Jordan, 10 dicembre 1943, p. 1, ibid. Il sindaco si chiamava Santomauro. Una documentazione ampia e analitica sui casi dei paesi di Godrano, Prizzi, Bolognetta, Montemaggiore Belsito, oltre che appunto Villafrati, in ACS, ACC, file Mafia. 36 Lo Bianco 1999, p. 71. 37 Anche l’ufficio palermitano dell’Oss si chiedeva se mafia, grazie alla sua natura interclassista, potesse essere capace «di sopprimere il mercato nero e di influenzare i contadini»: relazione del 13 agosto 1943, in Tranfaglia 2004, pp. 919 e in particolare p. 94. 38 Rapporto Scotten, p. 626. 39 Stando a Gaja 1962, p. 145, erano 62 su 76; percentuale analoga già nel Rapporto Scotten, p. 627. 40 Mangiameli 1987, p. 502, e la lettera di FinocchiaroAprile del 4 dicembre 1943 cit. da Renda 1987, p. 69. Questa documentazione si accorda (stavolta) con la versione data da Poletti 1993, p. 25. 41 Cito un po’ a caso: Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra, Paolino Bontate, Salvatore Greco «ciaschiteddu», Tommaso Buscetta. 42 Si veda al proposito la disamina di Miller 1993, pp. 201 sgg. 43 Gentile 1993, p. 165. 44 Intervista del dirigente dell’ufficio palermitano dell’Oss, Joseph Russo, nella trasmissione Bbc, Gli Alleati e la mafia, ed. trasmessa dalla Rtsi (Radiotelevisione svizzera di lingua italiana) il 6 luglio 1993. 45 Rapporto Oss del 5 aprile 1945, in Tranfaglia 2004, pp. 1579, e in particolare p. 159. 46 Rapporto Oss del 27 aprile 1944, ibid., pp. 11722, in particolare p. 117. 47 Rapporto Scotten, p. 627. 48 Montanelli 1955. 49 Mangiameli 1987, p. 354. 50 «La voce comunista», 30 settembre 1944, cit. da Mangiameli 1987, p. 553. 51 B. Mattarella, Niente equivoci, niente speculazioni, in «Il Popolo», 24 settembre 1944, cit. ibid., p. 555. 52 Alessi 1984. 53 Spanò 1978, p. 89. 54 Luciano Plea Cities His Aid to US Armies, in «New York Times», 23 maggio 1945. 55 Rispettivamente, Memorandum 15 aprile 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano; e E. E. Conroy a Hoover, 1° marzo 1946, ivi, pp. 3 e 9. 56 Campbell 1977, p. 2. 57 E. E. Conroy a Hoover, 1° marzo 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 3; R. Carter, The Strange Story of Dewey and Luciano, in «The Daily Compass», 4 settembre 1951. La tesi è stata poi riproposta da Poletti: Poletti 1993, p. 21. 58 B. Andrews, Myth of Luciano’s Aid to the War Deflated by US Action on Drugs, in «New York Herald Tribune», 22 febbraio 1947. 59 Così Kefauver 1951, p. 48. 60 Ad esempio Carter, The Strange Story of Dewey and Luciano cit. 61 Ricordo però che noi conosciamo oggi questi documenti e le tesi di Herlands attraverso Campbell 1977. Si procedette poi senza esclusione di colpi, in accese discussioni di stampa: citiamo tra gli altri contributi, nella corrente favorevole a Dewey, Feder Joesten 1954. 62 Sondern Jr. 1959. Qui si negava recisamente che il gangster avesse fornito un qualche aiuto alle operazioni belliche sul versante siciliano, mentre ci si manteneva sul prudente per quanto riguardava quello newyorkese. 63 Davis 1993, p. 123. 64 Testimonianza di John T. Cusack del Narcotic Bureau (1958), collazionata nella scheda Fbi del 13 marzo 1959, pp. 303, in FBI Files, Charles Gambino. 65 Antimafia, Relazione Zuccalà. Un altro nome: Antonino Sorci. Della società faceva parte Rosario Mancino, ex scaricatore di porto divenuto esportatore di agrumi e procacciatore di eroina mediante canali libanesi. 66 Relazione del prefetto Angelo Vicari al ministro degli Interni, Roma, 12 maggio 1951, in Antimafia, Doc., IV, t.14, parte II, pp. 94751 e in particolare p. 949.
IX. Il lungo armistizio, 19461960
Nel corso della prima età repubblicana, diciamo dal 1946 al 1960, il governo nazionale fu ininterrottamente controllato dalla Democrazia cristiana; quello della Regione siciliana «a statuto speciale» parimenti toccò alla Dc. La sinistra socialcomunista venne sospinta all’opposizione. E la discussione sulla mafia venne inserita nel grande contenzioso della guerra fredda. Sul versante filogovernativo, a livello regionale (e anche nazionale), in tanti dicevano: in Sicilia c’è delinquenza come dappertutto, il resto rappresenta solo una grossolana calunnia, una delle menzogne dell’arcinemico comunista. Il più autorevole rappresentante di questa posizione era il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, che pure era mantovano di nascita1. Fu in questo nuovo contesto che venne riproposto l’argomento antico dalla classe dirigente isolana: la mafia non è un’organizzazione criminale, ma un comportamento, il residuo di un’arcaica cultura antistatalista, che nell’immediato non è contrastabile dall’autorità e sul lungo periodo si dissolverà da sé. Il precedente dell’antimafia fascista appariva ormai remoto. Sul versante dell’opposizione si fece strada l’idea – molto diffusa tutt’oggi – di una naturale tolleranza dello Stato e delle forze conservatrici verso la mafia. Se i conservatori negavano l’esistenza della mafia, sembrò tipicamente progressista il solo parlarne. 1. Portella. Alla banda Giuliano si attribuiscono diverse centinaia di omicidi2. 124 furono i caduti tra gli uomini delle forze dell’ordine, di cui 98 i carabinieri: come quando una bomba anticarro fu fatta esplodere al passaggio di un convoglio a Passo di RiganoBellolampo, presso Palermo, facendo sette morti; o in agguati come quello in cui a Partinico cadde il tenente colonnello Luigi Geronazzo. Venne uccisa gente comune, supposti informatori, persone che in vari modi ostentavano la propria autonomia nelle zone che Giuliano sentiva come proprie. Il delitto più tristemente celebre fu quello del primo maggio del 1947. La banda, attestata su un’altura, aprì il fuoco con una mitragliatrice pesante, sul pianoro di Portella della Ginestra (vicino Piana degli Albanesi) assassinando 11 persone e ferendone molte altre: erano socialisti e comunisti provenienti da Piana e dai paesi vicini, che con le loro famiglie, donne e bambini, festeggiavano la Festa del lavoro. Fu un atto di feroce terrorismo politico, che molti hanno ricondotto alla stessa misteriosa volontà stragista destinata a insanguinare l’Italia negli anni settanta. A me sembra che il 1947 e il 1969 (strage di piazza Fontana) siano tra loro troppo distanti nel tempo, perché si possa ragionevolmente pensare a un’unica sequenza. Credo sia importante che il dramma di Portella non venga decontestualizzato: che lo si mantenga cioè ben ancorato ai conflitti politici locali, regionali, nazionali del suo tempo3. Politica locale. C’era quella di Piana degli Albanesi, comunità dotata per definizione di una propria specifica identità, etnica (albanese, per l’appunto) e religiosa (di rito greco); che in quel secondo dopoguerra stava rinverdendo la propria tradizione rossa. Quanto alla tradizione, però, bisogna ricordare anche quella che nel dopoguerra precedente aveva portato i mafiosi di Piana ad assumere direttamente il potere con Ciccio Cuccia, assassinando diversi socialisti. E naturalmente c’era anche la politica locale di Montelepre, paese natale di Giuliano. I compaesani non mancavano di fornirgli rifugio, e reclute per le sue imprese di morte; in cambio, lui raccomandava ai suoi di lasciare in pace i possidenti locali, e giocava al Robin Hood mostrandosi generoso con contadini e pastori del luogo. Politica regionale. In vista dal referendum del 1946, il Mis si divise in due parti, l’una maggioritaria monarchica, guidata da FinocchiaroAprile e Tasca; l’altra molto minoritaria, repubblicana, guidata dall’avvocato Antonino Varvaro4. In effetti il 2 giugno gli elettori siciliani si pronunciarono a larga maggioranza per la monarchia, contemporaneamente premiando (nelle elezioni per l’Assemblea costituente) vari movimenti di destra oltre che la Democrazia cristiana, e punendo i due partiti di sinistra (comunisti e socialisti). Però, sommati, i due gruppi in cui si era diviso il Mis non andarono oltre il 10% dei voti. Non erano mai stati rappresentativi della volontà popolare come da tre anni pretendevano, e di certo erano entrati in una fase calante. Giuliano non mostrò gran fiuto politico. Diede indicazioni agli elettori di Montelepre di votare per Varvaro, insomma, per l’ala perdente del partito perdente. Disaggreghiamo il dato elettorale siciliano. Il voto per la monarchia fu schiacciante nelle grandi città (Catania, Messina e Palermo), mentre la repubblica conseguì risultati incoraggianti in provincia e nelle aree rurali. Qui infatti
era già partita la nuova ondata di lotte bracciantili e per la terra, incoraggiata dai governi di unità nazionale con i decreti Gullo. Le cose cambiavano rapidamente e la situazione in cui nell’aprile del 1947 si tennero le prime elezioni per la neoistituita Regione autonoma era già diversa da quella dell’anno precedente. L’alleanza tra i due partiti di sinistra sfiorò il 30% dei suffragi, superando la Dc attestatasi al 20%. Però rimase pur sempre ben dietro l’area variegata della destra, giunta al 40%. Attenzione dunque: nel maggio 1947 non era in vista (come spesso si dice) una conquista della sinistra del governo regionale, ma un accordo delle destre con la Democrazia cristiana. Giuliano era intelligente ed energico, ma alquanto ignorante; né poteva aspettarsi grande aiuto intellettuale dai membri della banda, tra cui c’era un solo elemento istruito, suo cognato. Fino ad allora era stato «nelle mani» dei maggiorenti del Mis, che come sappiamo nel 1945 l’avevano arruolato nell’Evis, e gli avevano fatto ogni genere di promesse per il caso che le cose si fossero messe bene. Ora magari si sentiva isolato, avendo puntato sul cavallo sbagliato (Varvaro). La strage ebbe dei mandanti politici? Sarebbe logico cercarli nell’area della destra, interessata a una radicalizzazione dello scontro, che giustificasse la creazione di un largo fronte anticomunista. Proprio mentre stava per muovere verso Portella, Giuliano stesso lasciò intendere ai suoi accoliti che seguiva indicazioni superiori: ricevette un biglietto, ne sintetizzò il contenuto davanti ai suoi (ammazzando i comunisti «avrebbero conquistato la loro libertà»), anche se poi lo bruciò (senza rivelare chi glielo avesse inviato). Però non escluderei del tutto che bluffasse. Magari pensava che, prima o poi, qualcuno gli sarebbe stato riconoscente, promuovendo un’amnistia analoga a quella emanata da Togliatti appena l’anno prima. Il cardinale Ruffini, già autorevole rappresentante dell’ala filomonarchica della gerarchia, scrivendone al papa del giugno 1947, si riferì alla strage dicendo «inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti»5. Questa sua sconcertante protervia sarà certo stata condivisa a destra. E Giuliano guardava in quella direzione. Moltiplicò gli attacchi alle Camere del lavoro in provincia di Palermo, il più sanguinario dei quali fu diretto contro quella di Partinico. Fece circolare messaggi in cui si diceva dispiaciuto di dover colpire i carabinieri, forze «devote al nostro Re», mostrandosi determinato a concentrare i suoi attacchi contro gli «agenti di Ps, che parte sono partigiani (traditori e assassini degli italiani)»6. A Giuliano può essere riconosciuta la qualifica di bandito politico e anche mediatico. Ospitava sulle montagne giornalisti, e soprattutto giornaliste straniere. Era anche un bell’uomo, il che non guastava; e girava con una macchina fotografica, con l’idea di rendere pubbliche le immagini delle sue imprese. Indirizzava ai giornali lettere più o meno sgrammaticate, per rivendicare le proprie azioni. Ne scrisse una addirittura al presidente Truman, in cui si diceva militante di un «partito antibolscevico pronto a tutto» pur di non cadere sotto il giogo di Stalin, e chiedeva l’annessione agli Stati Uniti. Per tutti questi aspetti era ben diverso dai suoi predecessori dell’Ottocento o del primo Novecento, dall’Antonino Leone che impazzava intorno al 1876 nell’area di Termini Imerese o dal Gaetano Ferrarello che dominava le Madonie nel 1923. Prese anche esplicitamente le distanze da quest’ultimo in un’altra lettera indirizzata a Scelba, in occasione dell’arresto di sua madre e di sua sorella: riferendosi a «quei miserabili dei mafiosi del ’26» che si erano consegnati per evitare rappresaglie sulle loro famiglie, dichiarando che quegli sleali metodi polizieschi non avrebbero piegato lui, il grande guerrigliero7. Veniamo alla mafia, dunque. Giuliano, come abbiamo detto a suo tempo, sin dalla sua prima clamorosa impresa si mostrò in un buon rapporto con quella di Monreale. Tommaso Buscetta e altri «pentiti» di fine Novecento hanno affermato che era lui stesso un mafioso, un «uomo d’onore» regolarmente affiliato alla Famiglia guidata dal Salvatore Celeste – che noi abbiamo già incontrato come capomafia di San Cipirello8. Può darsi, però non è questo il punto. Alla fine della guerra, Giuliano disponeva di una grande forza militare, di proprie influenti relazioni politiche, di un enorme fascino. Non possiamo immaginarlo come un mero strumento della mafia, e neanche importa se formalmente fosse il gregario di qualche Famiglia. Si trattava di un grande capobanda, legittimato da una scelta politica, baciato dal successo. Buscetta racconta una storia che può essere vera o meno, ma comunque è indicativa del fascino che sugli elementi di mafia esercitava la figura di Giuliano. L’avrebbero incontrato nel 1947, lui e Salvatore Greco «ciaschiteddu», due giovani rappresentativi di due modelli diversi di mafioso. Buscetta (19282000) aveva 19 anni, e veniva da una famiglia di artigiani residente nel centro storico di Palermo, priva (a quanto sembra) di agganci nel mondo dell’onorata società. Era stato da poco affiliato alla Famiglia palermitana di Porta Nuova, e sarebbe di lì a poco emigrato in Argentina e in Brasile, dedicandosi (almeno così ha detto) alla stessa attività paterna, la fabbricazione di specchi. Salvatore Greco aveva ventiquattro anni (era nato nel 1923), e apparteneva a nobile schiatta mafiosa, solidamente insediata nella borgata di Ciaculli, sezione orientale dell’agro palermitano. Già studiava da boss. Giuliano avrebbe proposto ai due di prendere le armi al suo fianco, in difesa della Sicilia oppressa, Buscetta si sarebbe entusiasmato, Greco avrebbe lasciato cadere l’offerta pur dimostrando il dovuto rispetto per chi la faceva9.
Diciamo che, nel raccontare questa storia, Buscetta mostra una considerazione per la politica che nel raccontare le storie del dopo non mostrerà mai più. In effetti la mafia, schierandosi col e nel Mis, assunse tra guerra e dopoguerra una politicità che non aveva mai avuto e non avrebbe avuto più. La versione della strage di Portella fornita da Buscetta, ad esempio, non si distacca dalla storiella raccontata a suo tempo dai separatisti, confutata da tutte le risultanze giudiziarie. Il pentito spiega che l’intento di Giuliano era meramente intimidatorio, che non voleva certo ammazzare donne e bambini «senza colpa»; solo per un errore di puntamento di chi manovrava la mitragliatrice i colpi caddero sulla folla invece di perdersi in aria10. Si vede quanto possa essere fuorviante l’assunzione dei racconti dei pentiti come fonte storica: ingigantisce il rischio di assumere il loro stesso punto di vista, sempre glorificante una qualche mafia «buona» del passato. A credere a Buscetta, ad esempio, mai la mafia fu ostile ai comunisti e al movimento contadino. Perché avrebbe dovuto? 2. Una trattativa Statomafia. Noi invece capiamo bene il perché la mafia si ancorò al fronte anticomunista e conservatore, ribadendo a Portella, con ben maggiore ferocia, la scelta fatta tre anni prima a Villalba con l’attentato a Li Causi. Forse gli eventuali mandanti si compiacquero quando, nello stesso maggio 1947, a Roma De Gasperi pose termine all’esperienza dei governi di unità nazionale rompendo con entrambi i partiti di sinistra; e rimediando col voto di qualche qualunquista una risicata maggioranza nell’Assemblea costituente. Di lì a meno di un anno, però, la Dc trionfò nelle elezioni politiche dell’aprile 1948. Fece vedere che non aveva bisogno della destra su scala nazionale, si preparò a egemonizzarla su scala regionale. In infuocate discussioni parlamentari, la sinistra chiese la formazione di una Commissione d’inchiesta accusando il governo di sponsorizzare il banditismo in funzione antipopolare. I deputati centristi, e personalmente il ministro dell’Interno Scelba, rispondevano che il governo non aveva alcuna responsabilità anche perché non c’era niente di nuovo: già nel dopoguerra precedente la parte occidentale dell’isola era stata affetta da un grave banditismo. Adesso la situazione stava migliorando: nel 1946 gli omicidi erano stati 1726, nel 1947 erano calati a 722, nel 1948 erano stati 49811. Si trattava pur sempre di cifre imponenti. Comunque l’Italia, andando verso la normalizzazione, pensò fosse venuto il momento di farla finita con Giuliano, scheggia impazzita proveniente dal passato. Ma non era un compito di facile realizzazione. Le forze messe in campo dalla Repubblica coincidevano singolarmente con quelle a suo tempo schierate dal regime fascista. Fino all’estate del 1949, a coordinarle fu l’Ispettorato di Ps, ribattezzato Ispettorato generale di Ps per la Sicilia, nel quale ancora erano chiamati a collaborare polizia e carabinieri. Ripercorriamo la vicenda di quest’istituto, che largamente coincide con la caccia a Giuliano. Fu inizialmente affidato a un poliziotto formatosi alla scuola di Mori, Ettore Messana, il quale (al pari di Gueli) si era fatto un’esperienza di polizia politica tra Venezia Giulia e Slovenia, distinguendosi durante la guerra nella repressione del movimento partigiano slavo12. Messana, e anche i suoi successori, riproposero i metodi di Mori e dei predecessori di Mori, giù giù sino all’Ottocento postunitario. Nelle sue memorie, il già citato maresciallo dei carabinieri Lo Bianco, che pure era un veterano dell’Ispettorato, definisce quei metodi incompatibili col nuovo clima di democrazia. Prevedevano arresti indiscriminati di cittadini di Montelepre, operati senza criterio, che venivano tenuti incatenati per ore all’aperto, sotto il sole cocente, appoggiati ai muri delle abitazioni con minacce di confino di polizia e che non ebbero altro risultato che di esasperare la popolazione e di esasperare le reazioni del bandito13.
L’altro corno della strategia di Messana riproponeva anch’esso modelli antichi, risalenti quanto meno a Malusardi. Scrisse già all’inizio del 1946: «Se Giuliano non cadrà ben presto nelle mani della giustizia dovrà rimanere vittima della mafia. […] In questi giorni, non è strana coincidenza, non pochi malfattori, alcuni di essi noti capibanda, sono stati trovati uccisi»14. Il funzionario ex fascista che rappresentava lo Stato democratico faceva appello alla mafia d’ordine, le chiedeva di fare il proprio mestiere15. Negli intrighi che ne seguirono, si palesò incoercibile il dualismo tra polizia e carabinieri. Messana trattava con Vincenzo Rimi, capomafia di Alcamo, che però era in buone relazioni anche con i carabinieri; dunque il capo dell’Ispettorato decise di puntare su Salvatore Ferreri detto Fra’ Diavolo, membro della banda Giuliano in odor di dissidenza. Fra’ Diavolo, seppur fornito di un salvacondotto appunto firmato Messana, fu intercettato dai carabinieri ad Alcamo (sembra per una soffiata proveniente dai Rimi), catturato dopo un sanguinoso conflitto a fuoco, e portato in caserma, dove di lì a poco morì misteriosamente nel corso di una «colluttazione» con l’ufficiale comandante. Un incidente? O il frutto tossico della concorrenza tra due polizie?16 Per bocca di Li Causi, i comunisti definirono Messana «capo del banditismo politico». Comunque neanche il governo poteva esserne contento, e fu destituito. Dopo qualche tempo la guida dell’Ispettorato fu affidata a un altro
allievo di Mori a noi noto, Spanò. Negli anni venti aveva avuto anche lui i suoi bravi contrasti coi carabinieri, e anche adesso non ne aveva un’opinione gran che migliore17. Era anche lui un sostenitore dell’opportunità di accordarsi con la mafia, e cercava di riattivare i propri antichi contatti nelle Madonie. Questi però erano appunto troppo antichi e non lo portarono da nessuna parte. Dovette mollare (gennaio 1949). Gli successe un terzo superpoliziotto, Ciro Verdiani, il quale nell’agosto di quello stesso anno incappò nell’eccidio dei carabinieri di Bellolampo, e finì destituito pure lui. Stavolta l’Ispettorato venne chiuso. Prese il suo posto un nuovo organismo, il Comando forze repressione banditismo (Cfrb), affidato al comando del colonnello dei carabinieri Ugo Luca. I carabinieri avevano pagato il prezzo più duro alla ferocia di Giuliano e all’inefficienza dell’Ispettorato. Dunque toccava a loro. Però Verdiani, costretto a passare la mano, continuò a sviluppare indagini in proprio, certo col sostegno di qualche sponsor governativo. La sentenza del Tribunale di Viterbo (1952) avrebbe definito i suoi intrighi «inusuali e abnormi». Nel dicembre del 1949 si incontrò addirittura personalmente con Giuliano, il quale l’aveva fatto prelevare da un’automobile a Marsala, e portare in una casa di campagna presso Castelvetrano. Erano presenti anche Gaspare Pisciotta, cugino e luogotenente del capobanda, e non meglio indentificati capimafia. Il superpoliziotto portò panettone e vari tipi di vino. Fu prodigo di promesse relative alla madre del suo ospite (che era in prigione) e lasciò intendere che avrebbe favorito l’espatrio dei banditi18. In Parlamento, i ministri dichiaravano che nulla di grave stava accadendo, ma agli uomini del governo che si trovavano sul campo la situazione appariva molto grave. Carlo Alberto Dalla Chiesa (19201982), allora capitano dei carabinieri assegnato al Cfrb, pensava che l’arrivo di Luca avesse segnato una svolta: Nell’estate del 1949 le forze dell’ordine, dal tramonto al mattino, erano giunte a trincerarsi nelle loro caserme, in attesa dell’attacco dei banditi, [di modo] che, durante l’intera notte, centri urbani e campagne di quella vastissima plaga rimanevano di fatto nelle mani dei malfattori. […] Tale rinunzia dello Stato e della sua legge cessò con la costituzione e l’attività del Corpo Forze di Repressione del Banditismo al comando del colonnello dell’Arma, Ugo Luca19.
Precisiamo. La costituzione del Cfrb coincise con l’abbandono delle più scriteriate incursioni militari nelle montagne intorno a Montelepre, che fino a quel momento avevano solo dato la possibilità a Giuliano di tendere con successo i suoi agguati. Luca puntò sull’intelligence, il ramo di cui era esperto: aveva tra l’altro lavorato per il Sim in sostegno del corpo di spedizione fascista nella guerra civile spagnola. Era anche lui (a dir poco) un conservatore, che al governo chiedeva l’applicazione generalizzata del codice di guerra, e più che altro polemizzava con i socialcomunisti. Costoro accusavano il Cfrb di puntare alla «collaborazione della mafia»? Si trattava di una «menzogna», rispondeva indignato20. Invece, ovviamente, era proprio vero. Diciamo che il colonnello seppe realizzare quel progetto meglio dei suoi predecessori. Luca rimise al lavoro il maresciallo Lo Bianco e il superiore di costui, colonnello Giacinto Paolantonio, che avevano abbandonato la prima linea per contrasti con Verdiani. E i due puntarono nella direzione giusta, la mafia di Monreale, nelle persone di Benedetto Minasola detto Nitto, e di Ignazio Miceli. Già prima della guerra (ci dice il rapporto dell’Ispettorato del 1938) il duo svolgeva nella cosca paesana un ruolo importante, con le dovute differenze di status: Miceli (che era un imprenditore agricolo) era dipinto come il «capoccia», Minasola (professione ufficiale: «vaccaro») come un gregario21. Nel 194950, mentre Miceli restava prudentemente sullo sfondo, fu Minasola a far sì che parecchi banditi cadessero nella rete stesa da Lo Bianco. Poi i mafiosi misero in contatto i carabinieri con Pisciotta, portandoli a due passi dal capobanda. Nel frattempo il clima di rissa tra istituzioni faceva sì che Verdiani desse l’impressione di voler sabotare il lavoro di Luca. Evidentemente non era ininfluente chi sarebbe arrivato al bandito, e alla sua valigia di segreti. Alla fine Luca giunse primo, siglando con Pisciotta un accordo – dei cui termini lo stesso Lo Bianco sostiene di non aver saputo niente22. E fu a quanto sembra Pisciotta, il 5 luglio 1950, a uccidere Giuliano sparandogli alle spalle mentre dormiva. La vicenda insomma finì nel modo più acconcio alle storie di banditi: come era accaduto diverse volte nella Sicilia ottocentesca nonché oltreoceano, ad esempio quando (1882) Jesse James era stato eliminato da uno dei suoi uomini più fidati. Luca organizzò una messinscena per accreditare l’idea che Giuliano fosse morto in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Ma l’acume di un giornalista fece crollare ben presto la montatura. I mandanti di Portella non furono trovati, e veramente neanche cercati, nel corso del processo celebratosi a Viterbo nel 1952 contro 46 membri della banda. La sentenza curiosamente (dal nostro punto di vista) negò la natura politica della strage e delle altre azioni di Giuliano. Per il resto fu coraggiosa, dati i tempi, nel criticare i funzionari di polizia23. Pisciotta ebbe un blando sostegno da Luca, e insieme allo stato maggiore della banda fu condannato all’ergastolo. Gridò: «Siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il padre, il figlio e lo spirito santo». Promise di svelare al più presto segreti indicibili. Bluffava? Nessuno lo seppe mai perché nel 1954, nel carcere palermitano dell’Ucciardone, qualcuno lo mise a tacere per sempre con un caffè alla stricnina.
In conclusione. Abbiamo due complotti: il primo portò alla strage di Portella, il secondo vide accordarsi o competere, nella caccia a Giuliano, fazioni mafiose e fazioni o apparati della Pubblica sicurezza, con la benedizione governativa. Credo proprio si possa parlare, per il secondo complotto, di una Trattativa Statomafia, facendo ricorso a un’espressione destinata a venire in auge molto più tardi nella pubblica discussione. La mafia ne uscì legittimata, fu riconosciuta come strumento d’ordine, e poté stringere chissà quali legami, chissà quanto destinati a durare nel tempo. Un’ultima considerazione: furono proprio gli apparati speciali creati dal fascismo, che l’avevano un tempo combattuta, a invocare il suo aiuto. Il pendolo oscillava verso la collaborazione. 3. I corleonesi. La sinistra siciliana ebbe altri caduti, dopo quelli di Portella. A Corleone si rinnovò la triste tradizione cominciata con l’assassinio di Bernardino Verro, e nel 1948 toccò a Placido Rizzotto, ex partigiano, socialista, dirigente della Camera del lavoro. Difficile dire perché la mafia locale si sia risolta a questo passo. Per rispondere all’occupazione di qualche feudo? Per intimidire gli avversari politici locali, in un paese in cui l’alleanza socialcomunista (come da tradizione) era forte e nel dopoguerra controllava l’amministrazione municipale? Forse, semplicemente, qualcuno volle fare pagare a Rizzotto la troppa passione con cui viveva la promessa di libertà che caratterizzava il nuovo tempo. Suo padre, un contadino che a suo tempo era stato perseguito da Mori, conosceva certe dinamiche e aveva cercato di metterlo in guardia. Però lui non si era fermato. E così, la sera del 10 marzo del 1948, mentre stava rientrando a casa, fu prelevato per strada dall’elemento emergente della cosca, Luciano Liggio, e da due altri sicari, e scomparve. Le indagini furono meno inconcludenti che in altri casi, grazie al contributo dato dal già citato capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa, dal Cfrb incaricato di dirigere la «squadriglia» di Corleone. Il giovane ufficiale apprese che il corpo di Rizzotto era stato buttato in una profonda caverna di cui la mafia aveva fatto il proprio cimitero: e dove venne in effetti rinvenuto, senza però poter essere con certezza identificato. Alla fine le prove contro Liggio e due suoi complici vennero giudicate insufficienti dalla magistratura. Furono assolti. Luciano Liggio (19251993), all’anagrafe Leggio, aveva cominciato nel 1944 come ladro di covoni di fieno, come tale fu sorpreso da una guardia campestre che lo portò attraverso tutto il paese, «quasi a calci», alla caserma dei carabinieri24. La guardia fu assassinata meno di un anno dopo. La storia potrebbe assomigliare a quella di Salvatore Giuliano, l’esito fu differente. Lucianeddu ottenne un posto di campiere di un agiato proprietario, dopo che il suo predecessore venne anche lui assassinato. Era il 1945, aveva vent’anni. Si inserì nei circuiti dell’abigeato e della macellazione clandestina. Forse sin dai suoi esordi godeva della protezione del capomafia del paese, don Michele Navarra, forse la ottenne un po’ più tardi. Era un duro, come i giovani di cui si contornava: Salvatore Riina detto Totò (19302017), Leoluca Bagarella (che sarebbe diventato suo cognato), e Bernardo Provenzano detto Binnu. Su Navarra, Liggio e la mafia del Corleonese abbiamo un aureo libretto, derivante dalla rielaborazione degli appunti stesi da Dalla Chiesa nel corso delle sue indagini. Rappresentano un modello di indagine sulla mafia, imperniato sulla ricostruzione di genealogie e parentele, capace di tenere insieme attività e curricula criminali, affari e posizioni professionali, appartenenze politiche. Navarra (19051958) è figlio di un geometra nonché professore in una scuola del paese, è lui stesso un professionista, un medico, e anche un uomo d’affari. In questo campo ha cominciato grazie ai suoi buoni rapporti con l’Amgot, rilevando gli automezzi dell’amministrazione angloamericana per creare un’importante ditta di trasporti. Secondo Dalla Chiesa, comunque, ostenta di più la «propria cultura liceale e universitaria» che la propria agiatezza economica. E fa politica: separatista sino al 1947, liberale poi, solo tardivamente democristiana. Svolge un ruolo importante nella Coldiretti e nel Consorzio di bonifica dell’alto e medio Belice. Riesce persino a mantenersi «aggiornato nella scienza medica»; o, almeno, così pare. Si crea «d’intorno un’atmosfera di considerazione che, specie nei ceti più modesti», si traduce «in rispetto o in gratitudine»25. È e vuole essere un notabile. Valutiamo gli effetti di medio periodo della repressione fascista. Da una parte è vero quello che rileva un altro investigatore: «dopo la retata del prefetto Mori», «la delinquenza locale organizzata cessò ogni sua attività poiché […] furono sradicati anche i congiunti degli appartenenti alla cosca»26. Dall’altra è vero anche che sodali o amici di Navarra – le cui biografie sono esposte da Dalla Chiesa – non hanno pagato alla repressione fascista prezzi elevati. Conosciamo il meccanismo. La mafia postbellica si affida a Navarra come se si volesse ripulire: non viene da famiglia mafiosa, né appartiene a una dinastia di gabellotti come i boss del passato. Comunque il quadro un po’ cambia se teniamo conto delle linee di parentela femminili di Navarra: una sua zia (sorella di sua madre) è imparentata con Angelo Gagliano, sua moglie con Michelangelo Gennaro. Parliamo di due dei grandi gabellotti che avevano tramato
l’omicidio di Bernardino Verro e guidato il «Circolo agricolo»27. Troviamo figli dell’uno e dell’altro coinvolti nelle attività navarriane. E poi c’è Angelo Di Carlo, di cui Dalla Chiesa rileva l’appartenenza alla famiglia di Navarra in un duplice senso: è suo cugino e fa parte dell’organizzazione. Abbiamo già presentato questo mafioso reduce dagli Stati Uniti come appartenente al giro di narcotrafficanti palermitani in affari con Lucky Luciano. Dalla Chiesa sottolinea il legame organico tra «la mafia corleonese e quella palermitana» ben rappresentato da Di Carlo28, il carattere provinciale, oltre che paesano, dell’organizzazione, la dimensione affaristica del network che la sostiene. Liggio non si contenta di svolgere, in quel giro, solo la parte del killer o del satellite. Mette su una società armentizia grazie ai soldi di Di Carlo, che poi taglia del tutto fuori dalla sua gestione; non lesina intimidazioni anche a imprenditori protetti da Navarra; continua a far votare per un candidato liberale mentre la leadership della cosca punta ormai sulla Dc; mette su una ditta di trasporti per sfruttare le possibilità offerte dal progetto di una diga cui don Michele dimostra contrarietà29. I navarriani organizzano un attentato contro Liggio, che però fallisce. La reazione è micidiale: Navarra, che non prende alcuna precauzione, viene crivellato di proiettili (1958). La guerra culmina in una furibonda sparatoria che coinvolge «una quarantina di delinquenti da una parte e dall’altra» in pieno giorno, nel centro di Corleone, senza alcun intervento delle forze dell’ordine30. I navarriani ne escono completamente disfatti. Dalla Chiesa (tra gli altri) interpretò la guerra NavarraLiggio in termini di contrasto Vecchia/Nuova mafia. Lo schema conservava la propria capacità euristica e i propri difetti, che abbiamo già rilevato. Proviamo a scomporlo. La mafia di Navarra era (parzialmente) nuova se rapportata al prefascismo, ma era antica perché notabilare, fornita di una (pseudo)rispettabilità sociale, con una sua forte dimensione politica. Liggio rappresentava una mafia nuova che veniva dal basso, nella quale la capacità di erogare violenza rappresentava la parte essenziale del capitale disponibile. Non fu mai un personaggio considerato rispettabile. Teniamo conto che si mantenne latitante, con qualche intervallo, dal 1948 in poi, che anche i suoi (a cominciare da Riina) vissero per periodi lunghissimi in quella condizione. Qualcuno disse: è l’emulo della tradizione del banditismo. Non per questo dobbiamo immaginarlo come un rozzo pecoraio, come vuole un certo cliché che riguarda lui e i suoi seguaci. Come risulta da sue interviste e dichiarazioni, parlava un italiano abbastanza corretto ed era in grado di argomentare anche in pubblico. Facciamo un brusco salto in avanti. Arriviamo al 20 marzo 1989, quando il boss, già da tempo rinchiuso in prigione, concesse un’intervista televisiva al giornalista Enzo Biagi. Alla domanda «che cos’è la mafia?», Liggio risponde che si tratta di «fandonie», che lui comunque non ne sa niente. Però precisa: «leggendo vari autori che hanno parlato su ’sta parola “mafia”, e rifacendomi al Pitrè, che è uno dei grandi cultori della lingua antica siciliana, “mafia” doveva essere una parola di bellezza, come bellezza non solo fisica, ma anche bellezza come spiritualità». Biagi chiede – «Se è così, lei non si offende se io dico il mafioso Liggio?». E lui: «No, no non mi offendo… Semplicemente mi duole, credo che non ho tutta quella ricchezza spirituale e fisica di esserlo un mafioso, insomma di essere mafioso nel senso bello della parola». Liggio non era così ignorante come si dice, ma non era neanche, ovviamente, un raffinato intellettuale. Perché dunque si trovava nel 1989 a citare il testo di un grande etnologo pubblicato esattamente un secolo prima? Perché faceva parte di un’organizzazione con la memoria lunga. Perché puntava anche lui a nobilitarsi con un richiamo ai valori della Famiglia, dell’Onore e della Tradizione – così atti a creare un ponte tra i facinorosi, le classi dirigenti, la gente comune. E torniamo al 1958. Le questioni che interessavano la gang liggiana, prima e dopo la morte di Navarra, non erano relative tanto a Corleone in sé quanto alla sua relazione con Palermo, a «quella catena che, per la statale 118, conduc[e] nella capitale dell’Isola»31. I liggiani d’altronde mantenevano sin dall’inizio uno stabile presidio proprio nel cuore della vecchia mafia dei giardini, in una borgata palermitana, con una ditta di trasporti affidata a Giacomo Riina, membro della gang e zio del Salvatore che vi stava assumendo un peso sempre maggiore. Di seguito, assunsero il capoluogo come base delle loro attività, divennero una delle fazioni egemoni della mafia palermitana. Non ne capiamo l’importanza se li immaginiamo segregati nel loro paese d’origine. Non rimase segregato nella natia Corleone, ma si trasferì sin dal 1950 a Palermo, un altro personaggio di spicco della nostra storia, Vito Ciancimino (19242002). Suo padre, secondo molte fonti, faceva il barbiere. Segnalo la versione fornita dal figlio di Vito, Massimo, stando al quale si trattava invece di un emigrato tornato a Corleone dagli Stati Uniti, relativamente agiato, che si occupava di importexport; e che ai tempi dell’Amgot aveva messo a frutto la propria conoscenza dell’inglese ottenendo in cambio la possibilità di creare prima una ditta di trasporti, poi una ditta di costruzioni. Massimo dice anche che Vito era in ottime relazioni con Provenzano, ma diffidava di Riina, che gli aveva promesso di risparmiare la vita a un suo cugino, uno dei maggiorenti della fazione di Navarra, e invece lo aveva fatto uccidere (1958)32. Non ho modo di riscontrare questa parte del racconto, e la trovo un po’ sospetta: a Riina spetta nel racconto standard sulla mafia la parte del supercattivo, e può darsi che Massimo abbia trovato opportuno non appiattire la figura del padre su di lui. La memoria funziona così.
4. Dinastie di borgata. E spostiamoci dunque a Palermo, anzi nelle sue borgate, antiche roccaforti della mafia. Partiamo da una fonte molto pregevole, il rapporto su 24 capimafia stilato nel 1963 dal tenente Mario Malausa, comandante della «tenenza suburbana di Palermo» dei carabinieri. Dà l’impressione di una notevole continuità storica pre e postbellica. I boss in essa elencati sono tutti nativi della città o del suo hinterland, sono stati perseguiti (età permettendo) nei processi del periodo fascista, sono stati assolti per i reati gravi, qualche volta condannati a pene lievi per associazione e/o mandati al confino. Ora sono sempre lì, guidando le stesse cosche o Famiglie in quegli stessi territori. Sono tutti «facinorosi delle classi medie» di franchettiana memoria: vengono cioè da un ambiente di gabellotti, proprietari e affittuari di agrumeti, mediatori, trafficanti. In genere ostentano rispetto della legge (il tenente commenta sarcasticamente: della propria) e dell’autorità; si atteggiano a uomini d’ordine, e si definiscono persone «di massimo rispetto»33. Spesso la leadership della mafia delle borgate assume carattere addirittura dinastico. Ovvero, in quei luoghi certe famiglie di sangue (oltre che di mafia), su scala plurigenerazionale, hanno esercitato e continuano ancora negli anni sessanta a esercitare il proprio potere. Viene colpito da questa evidenza un mafioso di tutt’altra estrazione, il catanese Antonino Calderone: I mafiosi palermitani […] nascono, vivono e muoiono nello stesso posto. Il quartiere è la loro vita, la loro famiglia vive lì da generazioni e sono tutti parenti. I cognomi principali sono quattro o cinque, gli altri sono tutti aggregati. […] Non si sono mossi di un metro dal loro regno, dove sono i padroni assoluti da decenni e decenni34.
La borgata palermitana che forse meglio a tutt’oggi conserva le caratteristiche tardoottocentesche è quella di Ciaculli: stradelle contornate da alti muri, quello che resta dell’antico firriato, giardini di agrumi, puntellati da edifici che in origine servivano da centri aziendali, cioè bagli. Ha d’altronde una posizione periferica rispetto all’asse di espansione della città, situata com’è nell’area sudorientale dell’agro palermitano, confinando a nord col quartiere di Brancaccio, oggi facente parte della città, e a est col paese di Villabate. E, forse non a caso, la famiglia che meglio impersona il concetto sopra citato della continuità dinastica è insediata appunto in quest’area. Mi riferisco ai Greco. Dice sempre Calderone: «da sempre, i Greco esercitano il potere effettivo» nella mafia35. Nel suo mondo, insomma, è diffusa la sensazione di un grande e antico potere che certo è un po’ mitica, che sarebbe interessante per gli storici verificare. Il compito è difficile anche perché i Greco, dall’autorità di polizia, solo in certi periodi sono stati considerati dei criminali (dei mafiosi), rimanendo per periodi ben più lunghi nascosti nelle pieghe della società. È un apparire e scomparire che profondamente rispecchia la stessa natura del fenomeno mafioso36. Prendiamo ad esempio un Francesco Greco (fu Francesco), il cui nome ritroviamo nel Rapporto Malausa. Pur essendo un uomo di età avanzata, nato nel 1887, di questo Greco troviamo poca o nessuna traccia negli archivi. Dal suo casellario penale non risulta niente: solo un arresto nel 1926, seguito da un proscioglimento nel 1928 e in quello stesso anno dalla proposta dell’ammonizione. Nondimeno quest’incensurato è, commenta Malausa, un «tipico ed autorevole mafioso». Del tipo dell’uomo ricco, proprietario di 20 ettari di agrumeto, dell’«uomo di molto rispetto» e di grande «ascendente nella contrada di Pomara e di Acqua dei corsari», zona orientale dell’agro palermitano, direzione Villabate. Del tipo che vanta aderenze e amicizie in questura, alla regione e in molti altri enti37. Aveva quasi trent’anni, questo Francesco Greco, nel 1916, data del documento di polizia più antico cui riesco ad attingere su un’«Alta maffia dei Ciaculli» impersonata dai Greco, più precisamente da un Salvatore e da un Giuseppe Greco sospettati di aver decretato l’assassinio di un sacerdote – che aveva denunciato durante la predica domenicale la loro ingerenza nell’amministrazione delle rendite ecclesiastiche. Particolare degno di rilievo, in quell’occasione i mafiosi misero in atto una delle loro tecniche preferite, ridurre le questioni d’interesse a questioni d’onore: fecero circolare la voce che si trattasse della vendetta di un marito tradito38. Come si vede dall’albero genealogico qui accanto, le famiglie sarebbero due, ognuna definita coi nomi di due borgate contigue, Ciaculli e CroceverdeGiardini. Vediamo le due famiglie connesse solo per il matrimonio tra Giuseppe Greco (di Ciaculli) e Santa Greco (di Croceverde); anche se il ricorrere degli stessi nomi di battesimo mi fa supporre che, risalendo indietro di qualche generazione, troveremmo un’ascendenza comune. Il capostipite dei Greco di Ciaculli, Salvatore, dovrebbe essere quello accusato (e poi assolto) per il citato omicidio del sacerdote. Sui Greco di Croceverde siamo in grado di risalire ancor più indietro grazie a un memoriale del loro rampollo Michele Greco detto il papa (19242008), che – come diremo a suo tempo – al passaggio tra anni settanta e ottanta fu il numero uno di Cosa nostra.
Figura 10. I Greco.
Fonte: Catanzaro 1988.
Sarà però il caso di premettere che il memoriale, più tardi pubblicato dal giornalista Francesco Viviano, fu scritto nel 1987, data del maxiprocesso, in funzione difensiva, per negare ogni cosa che potesse apparire compromettente. Parliamo insomma di una testimonianza ben più reticente e depistante di altre che abbiamo presentato in precedenza. Cercherò di confrontarla con altre fonti meno inquinate. Michele Greco narra dunque che il suo bisnonno nacque nella grande tenuta agricola della Favarella, che si trova appunto tra Croceverde e Ciaculli, e che era allora mantenuta a pascolo con qualche albero di olivo. Passa poi a suo nonno Francesco, nato nel 1844, che avrebbe alla fine del secolo curato la prima trasformazione ad agrumeto del terreno. Racconta che questo nonno avrebbe voluto comprare la tenuta quando, all’inizio del nuovo secolo, il proprietario (Michele non sa chi fosse) decise di venderla, ma che non disponeva di una cifra sufficiente ad acquistarla. Spiega che alla fine a comprare fu il conte Salvatore Tagliavia, il quale lasciò Francesco Greco nel ruolo di affittuario. Rivendica a suo padre, Giuseppe Greco detto Piddu u tinenti, la scelta di aver poi impiantato varietà di gran pregio, mandarini del tipo tardivo, richiestissimi sul mercato. Spiega che i Greco di Croceverde non si occupavano solo dell’aspetto agricolo, che nel 1920 si accordarono coi cugini di Ciaculli (l’altro ramo della famiglia) per la gestione di una ditta di esportazione di agrumi39. Usciamo un attimo dal memoriale per ragionare su quanto da esso viene trascurato e magari appositamente taciuto. Innanzitutto Salvatore Tagliavia conseguì il titolo di conte solo nel 1918: non si trattava di un aristocratico di antica schiatta, bensì di un uomo d’affari, nonché rampollo di una famiglia di grandi armatori e finanzieri. Era anche un uomo politico: fu sindaco di Palermo durante la prima guerra mondiale, in periodo fascista diresse il Consiglio provinciale dell’economia. Per l’una e per l’altra ragione può aver avuto relazioni pregresse coi Greco. Il nostro memorialista afferma che Tagliavia comprò la Favarella per una cifra molto più bassa di quella richiesta. È lecito pensare che sia stato Francesco Greco a ottenere questo ribasso in modo da garantire la continuità della propria gestione, perché in buone relazioni col nuovo proprietario? L’estensione della Favarella sembra fosse di cinquanta ettari, enorme per un impianto superintensivo come un agrumeto. Per acquistarlo, Tagliavia fece certo un investimento notevole, quale che fosse lo sconto ottenuto; e altri interventi finanziari saranno stati necessari per i nuovi impianti. Il suo accordo con i Greco deve essere stato di largo raggio. Tagliavia poi aveva altre relazioni in ambienti di mafia, come desumiamo dalla ricerca di Patti sul processo degli anni venti per l’associazione di Santa Maria di Gesù. Testimoniò a favore di un Pietro Buffa, rampollo di famiglia di capimafia, cui aveva concesso in affitto un altro grande agrumeto (20 ettari) nella zona. Sempre a favore di Buffa (diciamolo perché il network risulti più chiaro) testimoniò anche un Giuseppe Greco di Salvatore. Si osservi l’albero genealogico. Dovrebbe essere quello, appartenente al ramo di Ciaculli, che vediamo nell’albero genealogico congiungersi col ramo di Croceverde per via matrimoniale (con Santa Greco). Alla fine Buffa fu assolto, anche grazie all’arringa del suo avvocato, che sottolineò i suoi legami di «stima, fiducia, illimitato affetto» con il conte Tagliavia40. Dopo di che scomparve dal radar della legge. Trenta e più anni dopo ritroviamo il suo nome tra quelli dei capimafia
elencati dal tenente Malausa, con questa precisazione: a Ciaculli e dintorni un tempo era un uomo temutissimo, «la sua volontà era legge»; per quanto anziano (oltre che agiato), era pur sempre pericoloso, capace di organizzare ogni tipo di misfatto41. Torniamo al 1929. E ad Angelo Tagliavia, fratello di Salvatore, il quale parlò in difesa di Stefano Bontà/Bontate, «distributore d’acqua da quattordici anni [sic!]» in una sua proprietà, definendolo zelante e onesto42. Veramente Bontà era un possidente e un esportatore di agrumi, coinvolto in affari complicati anche di scala internazionale. Non abbiamo dubbi che si mostrasse «zelante», ma più che altro verso i propri affari. Stefano Bontà, come abbiamo a suo tempo detto, se la cavò con tre anni. Siamo qui davanti a un’altra delle grandi dinastie di mafia dell’agro palermitano. Si veda l’albero genealogico alla pagina seguente. Nel Rapporto Malausa troviamo il figlio di Stefano, Francesco Paolo Bontate, comunemente noto come don Paolino, nato nel 1914. Viene descritto come un uomo molto agiato e influente, che si atteggia a uomo d’onore ma che in realtà è un violento «per connaturato istinto alla sopraffazione»43. Noi aggiungiamo qualche altra informazione sul modo in cui colse le opportunità che gli si offrivano con la costruzione nella «sua» zona, Villagrazia, di una fabbrica di proprietà di una ditta genovese, l’Elettronica Sicula, destinata a impiegare innovative tecnologie. A quanto sembra, Bontate intervenne già per agevolare l’acquisto dei terreni su cui dovevano sorgere gli impianti, per poi superare le resistenze locali alle trivellazioni fatte dai tecnici per captare le vene idriche, e naturalmente per reperire la mano d’opera. Glielo riconobbe lo stesso direttore, Aldo Profumo. Per questa ragione, quest’ultimo non si adontò quando, mentre pronunciava il suo discorso di inaugurazione, si trovò d’improvviso da solo, perché il «folto gruppo di rappresentativi funzionari della Regione e del Comune» che gli stava davanti si alzò e compattamente corse verso una porta, in una gara a chi per primo avrebbe omaggiato don Paolino che stava entrando nella sala. Si lamentò solo la Cgil, cui – sembra su richiesta dello stesso Bontate – fu impedito di presentare proprie liste per la commissione interna44. Don Paolino Bontate aveva a sua volta un figlio destinato a grande carriera: un altro Stefano Bontate, «il principe di Villagrazia» (19391981). Su di lui torneremo. Per ora prendiamo atto dell’importanza della dinastia e delle sue relazioni con quella dei Greco. Stando al curatore del memoriale, Viviano, don Paolino Bontate aveva «molte cose in comune» con Piddu u tinenti, le loro proprietà erano confinanti, «erano amici, le loro famiglie si frequentavano da tempo». Scrive lo stesso Michele Greco: «Stefano per me era come un figlio»45. Questo non gli impedì di fornire un placet al suo assassinio, come vedremo a suo tempo.
Figura 11. I Bontate, o Bontade, o Bontà.
Fonte: Patti 2014, p. 244.
E veniamo all’ideologia del memoriale, che è alquanto melensa. Michele Greco si presenta come un uomo profondamente religioso, un patriarca all’antica, l’interlocutore di magistrati e alti gradi delle forze di sicurezza, l’erede di una famiglia di operosi proprietari terrieri. Quanto a suo padre, dice: era «mafioso sì ma di bellezza. Un tempo si usava questo termine in campagna, chiamare mafioso ciò che era bello» – una bella ragazza, ad esempio46. Citazione di Pitrè, seppure implicita; solita operazione depistante. Più solido l’altro argomento (anche se, lo abbiamo compreso, per nulla esaustivo): suo padre era «incensurato», come lo era lui stesso – Don Michele – almeno prima che il mondo si ribaltasse. Il memorialista si chiede per quale strano equivoco la sua famiglia così sana sia stata confusa con un’organizzazione criminale. E spiega l’arcano con l’omonimia con i Greco di Ciaculli, in cui magari qualche propensione delinquenziale c’era47. Invece, come abbiamo visto, le due sezioni della famiglia Greco erano più che omonime, e avevano molto in comune. Avevano anche ragioni di contrasto, stando alla sequenza traumatica di eventi iniziata una sera del 1939. Ci
fu una banale disputa tra elementi anche molto giovani dell’uno e dell’altro ramo, sostenuti da qualche amico, su chi avesse il diritto di sedersi su una panca davanti alla chiesa durante la festa della borgata. Il contrasto ebbe un seguito sulla via del ritorno, i ragazzi tirarono fuori le pistole, e restò sul campo, morto, Giuseppe Greco, figlio diciassettenne del «tenente». La legge fece la sua parte e due dei colpevoli vennero condannati a pesanti pene detentive. Nondimeno, dal 1946 partì la faida fatta di incursioni, esecuzioni e «lupare bianche», che tra l’altro vide cadere (si guardi ancora l’albero genealogico) Giuseppe e Pietro Greco di Ciaculli. Momentoclou: l’assalto di un commando armato di mitra e bombe a mano che venne respinto dai Greco di Ciaculli, le cui donne finirono a coltellate un ferito del gruppo avverso, lasciando però sul campo una di loro, Antonia (1947). Seguì l’uccisione di un fedelissimo di don Piddu48. La sequenza delle vendette sembrava non doversi mai fermare. Invece si fermò. Ogni faida finisce per annientamento di una delle due parti, o più di frequente grazie a una mediazione esterna, che consenta a entrambe di ritirarsi «con onore» dalla sequenza azionereazione – a sua volta cominciata (nella fattispecie) per ragioni «onorifiche». La mediazione fu resa possibile dalla scelta di don Piddu di far sposare suo figlio Salvatore con Maria Cottone, figlia di un boss di Villabate49, il quale a sua volta chiamò in causa Joe Profaci, che come si ricorderà era originario appunto di Villabate, e si trovava temporaneamente in Sicilia. I mediatori locali e quelli d’oltreoceano fecero intendere alle parti che avevano interessi comuni (non credo si trattasse della ditta di esportazione di agrumi, chiusa nel 1954), che in generale il dilagare della violenza rendeva difficili gli affari a tutti. Come nulla fosse stato, i Greco posero fine alla loro guerra: che tanto ci dice sulla mafia, sul suo senso della famiglia, e sulle sue contraddizioni. 5. Storie democristiane. In tema di mafia palermitana, parliamo di continuità di persone e gruppi, ma anche di grandi mutamenti di contesto politico ed economico, dunque del tipo di affari nel quale i mafiosi erano impegnati. A metà anni cinquanta Palermo era già da un decennio non più soltanto un capoluogo provinciale, ma la capitale dell’Ente regione, il luogo dunque di un nuovo potere politico, che decideva dell’erogazione di una crescente spesa pubblica. Tale spesa tra l’altro si traduceva in espansione e speculazione edilizia. Ci fu dunque una convergenza sulla città di molti affaristi o criminali in cerca di occasioni di profitto e potere, provenienti dalla provincia (a cominciare dai corleonesi); gruppi che erano stati d’altronde sempre connessi al capoluogo da mille fili, che erano abituati a ragionare su scala provinciale. Quanto ai mafiosi delle borgate palermitane, non ebbero bisogno di spostarsi. Bastò che la città si spostasse verso i territori da loro controllati tradizionalmente. Con la costruzione di nuovi edifici e quartieri residenziali nell’antica Conca d’oro la rendita agricola di cui godevano gli amiciprotettori dei mafiosi si valorizzò trasformandosi in rendita urbana. Su quei territori, le imprese agricole si trasformarono in imprese edilizie; proprietari, costruttori edili, acquirenti, decisori di politiche pubbliche dovettero fare i conti con la capacità della mafia di organizzare network politicoaffaristici, di proteggere, indirizzare, dissuadere, intimidire. L’espansione urbanistica si indirizzò lungo l’asse che dal centro storico andava verso ovest, attraverso quella che in antico si chiamava Piana dei Colli, oltre l’asse ottonovecentesco di via Libertà. Lo storico Coco, che ha studiato la mafia in quest’area, non vi ha riscontrato le stesse continuità dinastiche di quella orientale dell’ex agro palermitano. Le new entry dal basso erano qui molto più frequenti. Facciamo il caso più importante, quello dei fratelli Angelo e Salvatore La Barbera che, per quanto fossero nati nella borgata di Partanna (per tradizione ad alta densità mafiosa), non avevano alcun pedigree50. Fecero una carriera di delinquenti comuni prima, e di imprenditori d’assalto dopo. Più tardi, il giudice Cesare Terranova avrebbe interpretato il loro sanguinoso contrasto con i Greco sulla base dell’immancabile schema vecchia/nuova mafia: «i Greco, si può dire, hanno i quattro quarti di nobiltà, rappresentano la mafia tradizionale, la mafia camuffata di rispettabilità […]. I La Barbera invece provengono dall’oscurità e la loro forza consiste soprattutto nella loro intraprendenza e nel seguito di una risoluta banda di sicari»51. Del loro entourage, diciamolo sin d’ora, entrò a far parte Tommaso Buscetta, il figlio di un vetraio anch’egli proveniente «dall’oscurità». Non aveva alcun titolo di nobiltà mafiosa nemmeno Francesco Vassallo, il più famoso imprenditore edilizio palermitano del tempo, che era nativo della borgata di Tommaso Natale52. Non disponeva nemmeno di capitali, peraltro. A questa carenza rimediò costituendo cooperative inizialmente (1947) per il commercio dei latticini, poi di altri generi alimentari, e poi per le costruzioni edilizie. Il sistema consentiva la convergenza tra elementi appartenenti alla mafia militante e «soggetti “collaterali” all’organizzazione»53. E inglobava qualcuno tra gli amministratori municipali. Sarebbe sbagliato personalizzare oltre misura quello che fu l’operato di una classe dirigente: ma per questa ragione fu importante che Salvo Lima diventasse sindaco (1958) e Vito Ciancimino assessore ai Lavori pubblici (1959).
Già sappiamo qualcosa su quest’ultimo. Diciamo ora che, sebbene nativo di Corleone, Ciancimino frequentò l’università a Palermo (senza laurearsi), vi si trasferì stabilmente nel 1950, e qui intraprese la sua carriera sia di affarista che di politico professionale. Sul primo versante, cominciò vendendo carrelli alle Ferrovie dello Stato, continuò anche lui nel settore degli autotrasporti e – usando la moglie come prestanome – partecipò di una società finanziaria (Isep poi Cosifi) cui erano interessati i membri del giro di trafficanti legati a Lucky Luciano e, tra loro, il già citato corleonese d’America Angelo Di Carlo54. Sul fronte politico, Ciancimino fu eletto nel 1956 consigliere comunale e fu assessore ai Lavori pubblici nel 195964. Nel 1970, per un brevissimo periodo, fu anche sindaco. Resta da dire di Salvo Lima (19281992). È stato spesso raffigurato come un professionista della politica, magari in contatto con ambienti mafiosi ma dall’esterno. In questo senso sono state ad esempio interpretate le sue relazioni con Buscetta, attestate da molte fonti. Io scelgo Franco Evangelisti, luogotenente romano di Giulio Andreotti, il quale dichiarò che Lima in persona, parlando con lui, ebbe a definire Buscetta «un mio amico, uno che conta»55. C’è peraltro da stupirsi che a lungo nessuno abbia ricordato (in una città in cui tutti sanno tutto sulle famiglie di tutti) il nutrito curriculum penale del padre di Salvo Lima, Vincenzo, nato nel 1894, impiegato del comune. Il rapporto tra i Lima e la mafia non era esterno. In particolare Lima padre era stato accusato di essere membro del commando che nel 1931 aveva attentato alla vita di uno dei boss della mafia palermitana del tempo, Arturo Mingoia (su cui molto si sofferma il Rapporto dell’Ispettorato del 1938), insieme a due degli esponenti della dinastia mafiosa dei Pennino, quartiere di Brancaccio, di cui meglio diremo più avanti56. Il rapporto dei Pennino con Lima figlio rimase saldo anche dopo la guerra sebbene fino al 1956 i membri della famiglia votassero liberale. Solo dopo si schierarono con decisione con la Dc svolgendovi (come diremo) un ruolo importante. Non figurano nel Rapporto Malausa, ma poco importa: un po’ tutti i boss citati seguirono il loro percorso politico da destra verso il centro. Leggiamo ad esempio nella scheda su Benedetto Targia: «Fu un fervente sostenitore del separatismo, quando però tale movimento declinò di potenza seguì la scia di altri mafiosi passando di partito in partito (liberalemonarchicodemocristiano)». Malausa precisa opportunamente: «L’avversità che ha per la legalità dimostra chiaramente che non è il sentimento politico che lo ha spinto verso la democrazia cristiana, ma solo la convenienza personale». Un altro esempio può essere quello di Baldassarre Motisi proprietario di giardini, commerciante all’ingrosso di agrumi, consigliere comunale democristiano. Malausa nota che «ha molte aderenze con personalità di rilievo e ne approfitta […] allo scopo di consolidare sia la sua posizione di mafioso sia quella di uomo politico»57. Io aggiungo che questo Motisi ha lo stesso cognome, risponde allo stesso identikit del Francesco Motisi che abbiamo conosciuto sul finire dell’Ottocento come esportatore di agrumi, capomafia, e anche lui consigliere comunale. Soffermiamoci un attimo a ragionare della Democrazia cristiana siciliana: che rappresenta un po’ un contesto, e un po’ una parte integrante della storia della mafia postbellica. Secondo un’accreditata e – direi – canonica interpretazione politologica, negli anni cinquanta la corrente legata ad Amintore Fanfani, detta dei «giovani turchi», svolse una funzione decisiva nella trasformazione della Dc da partito «dei notabili», proprietari fondiari o avvocati, espressione di una società antica, in partitomacchina guidato da politici professionali, di estrazione piccoloborghese. Questo gruppo sarebbe stato più adatto a gestire le moderne opportunità di redistribuzione clientelare, e quindi di conquista del consenso58. Tra i cosiddetti notabili della Sicilia occidentale, vengono annoverati Mattarella e Salvatore Aldisio. Tra i giovani turchi, sono citati Giuseppe La Loggia e Giovanni Gioia, oltre che Salvo Lima e Vito Ciancimino. Veramente, ogni schema basato sul concetto delle brusche discontinuità poco si adatta alla nostra storia. Impersona ad esempio una straordinaria continuità politica familiare Giuseppe La Loggia, due volte presidente della Regione siciliana. Suo padre era quell’Enrico La Loggia, avvocato e deputato agrigentino socialriformista che abbiamo già citato come leader del movimento cooperativo nel primo Novecento; e che nel secondo dopoguerra (sebbene molto anziano) fu il cervello dello schieramento autonomista, finendo alla fine per approdare alla Dc59. Suo figlio, anch’egli di nome Enrico, proveniva dalla Dc quando, alla fine del Novecento, fu tra i leader di Forza Italia al Senato, venendo presentato – contro ogni verisimiglianza – come uomo nuovo della seconda Repubblica. Nemmeno la figura di Gioia corrisponde a quella dell’uomo di apparato privo di status precedente. Si trattava infatti di un rampollo dell’establishment palermitano ottonovecentesco, nipote del celebre industriale molitorio Filippo Pecoraino, imparentato con i Tagliavia; da qui, con ogni probabilità, veniva anche un rapporto della sua famiglia con i Greco60. E ancor meno si adatta lo schema citato al contributo dato alla Dc, e particolarmente alla sua corrente fanfaniana, da quel potere che si identificava con le Famiglie mafiose; e non era affatto nuovo né traeva legittimità dalla formapartito, ma casomai si attaccava ad essa come un’appendice parassitaria. È il momento qui per introdurre la cosiddetta «operazione Milazzo», 195660. Silvio Milazzo, epigono di un’importante dinastia politica di Caltagirone, «figlioccio» di Sturzo, fu uomo di confine tra cattolicesimo politico e separatismo nel dopoguerra, prima oppositore del concetto stesso di riforma agraria e poi relatore della legge di
riforma fondiaria siciliana: la quale intese anticipare, evitandone gli effetti più radicali, la legge nazionale. Milazzo non aveva alcuna intenzione di lasciare la Dc siciliana nelle mani degli uomini di Fanfani, che stavano assumendo il controllo del partito su scala nazionale. Così assunse la guida del governo regionale sostenuto da uno schieramento assai composito che comprendeva, oltre alla destra democristiana, quella monarchica ed ex separatista, e anche quella neofascista, nonché la sinistra comunista: tutte forze interessate a spezzare il monopolio del potere che il gruppo fanfaniano rischiava di conquistare. Espulso dalla Dc, Milazzo costituì una forza politica propria, l’Unione siciliana cristianosociale (Uscs). Lo schieramento milazzista era accomunato da un’accesa ideologia regionalista, che chiamava tutti i siciliani a raccolta contro il «governo di Roma» e la sua presunta volontà di favorire il capitalismo settentrionale a scapito dell’imprenditoria isolana. Nondimeno, restava troppo eterogeneo. E poi dovette subire il fuoco concentrico della Confindustria, della Chiesa cattolica, oltre che della Democrazia cristiana. Lo stesso Sturzo rinnegò il suo figlioccio. Alla fine Milazzo cadde perché nelle elezioni regionali del giugno 1959 il suo partito, l’Uscs, guadagnò voti ai danni dei monarchici e dunque perse il loro consenso61. Non bastò all’Uscs, per recuperare una maggioranza all’Assemblea regionale, un clamoroso e squalificante tentativo di comprare il voto di un paio di deputati a suon di milioni. La Dc riconquistò la perduta centralità formando anche alla regione siciliana un governo di centrosinistra, e l’Uscs in breve scomparve, come era successo al Mis. Allo specifico del nostro argomento ci riporta la testimonianza resa nel corso dell’istruttoria del maxiprocesso palermitano del 1987 da Calogero Mannino, esponente democristiano che è stato anche ministro. Mannino ha sottolineato il ruolo giocato nella vicenda dall’elemento mafioso e in particolare da tre personaggi: don Paolino Bontate (o Bontà che dir si voglia), e i cugini Nino e Ignazio Salvo. Già sappiamo molto del primo. Il padre di Ignazio Salvo, Luigi (morto nel 1962), era stato un capomafia di Salemi, paese del Trapanese, ed era anche finito sotto processo negli anni trenta. I due cugini Salvo appartenevano al mondo della mafia ma anche a quello della finanza, almeno dagli anni cinquanta quando costituirono una società nell’intento di ottenere dalla Regione la concessione dell’esercizio delle esattorie. Stando alla ricostruzione di Mannino, nel corso di una prima fase i tre avrebbero sostenuto Milazzo, il quale avrebbe concesso al gruppo Salvo l’esercizio delle esattorie. Poi però avrebbero cambiato politica, mobilitando i loro «referenti politici» per fare cadere Milazzo; ricavando da quest’episodio eterna riconoscenza da parte della Dc, e un aggio sproporzionatamente elevato per le esattorie medesime62. Io rilevo che Bontate era anche lui, come gli altri boss, un reduce del movimento separatista e di quello monarchico. Il suo «tradimento» di Milazzo si colloca in quello più generale perpetrato dai monarchici, propedeutico allo spostamento dentro la Dc di molti di loro e di molti mafiosi: tra gli altri dei Salvo, che entrarono nell’orbita in particolare di Lima. I rapporti dei carabinieri degli anni sessanta da un lato definivano Ignazio Salvo come «affiliato alla mafia e figlio di mafioso»; e dall’altro indicavano lui e il cugino come gente che aveva ottenuto una notevole «posizione economica» grazie a «aderenze politiche a ogni livello», ma che non aveva «rapporti di alcun genere» con «la vecchia mafia»63. La solita espressione, qui usata in maniera particolarmente depistante: cosa intendevano i carabinieri usandola in questo contesto? Certo, sulle aderenze politiche e sulla posizione economica avevano ragione: erano state le prime a garantire la seconda. Ma la mafia, vecchia o nuova che fosse, andava inserita nel quadro. 6. Consenso e opposizione. La sinistra rimase dal 1947 al 1960 fuori dall’area governativa, e si schierò all’opposizione di quello che ho chiamato il lungo armistizio, in forza del quale la Repubblica italiana consentì alla mafia di prosperare senza trovare particolare contrasto. I comunisti siciliani avevano puntato nel 194446 su due prospettive, quella contadinista e quella autonomista, contando di poter mantenere su questi terreni una relazione con la Democrazia cristiana. La rottura del 1947 rese impraticabile questo progetto. La Dc procedette per suo conto con una riforma fondiaria, varata dalla Regione e, come sappiamo, firmata Milazzo. Prima di quest’intervento, anche per evitare l’esproprio, molti grandi proprietari vendettero notevoli quantità di terra. Alla fine, ne passarono di mano 500 000 ettari. Nelle compravendite scattava spesso la prelazione di gabellotti e amministratori che riuscivano ad acquistare a prezzo «di affezione»64. Loro stessi, e altri, si impegnarono nel controllo dei flussi e nella selezione dei beneficiari, insomma nel favorire i vecchi amici e nel farsene di nuovi. Ci riuscirono grazie al rapporto con la Democrazia cristiana e la Coldiretti, alle entrature nell’Eras (Ente di riforma agraria siciliana), all’accesso privilegiato ai finanziamenti regionali per la formazione della piccola proprietà contadina. Insomma, la riforma non ebbe gli effetti rivoluzionari pronosticati ma ugualmente mise fuori dal gioco un soggetto che per mezzo secolo era stato al centro dello scenario storico della Sicilia occidentale, il movimento contadino. La
ripresa dell’emigrazione all’estero, e il nuovo flusso verso Nord, fecero il resto allontanando molti degli elementi più giovani e dinamici. La sinistra ne prese atto tardi e malvolentieri. Celebrò i martiri di Portella e tanti altri caduti sotto il piombo mafioso. La sua identità antimafiosa prese forma soprattutto su quell’elemento; che però riguardava più che altro il passato. Quest’epopea affascinò l’intellighenzia di sinistra anche su scala nazionale. Ne fu preso ad esempio il torinese Carlo Levi, grande protagonista della riflessione sulla questione meridionale, in un suo saggio pubblicato dal più grande editore di cultura nazionale (Einaudi) col titolo Le parole sono pietre. Qui la mafia era descritta come la legge arcaica del feudo, contestata dal movimento contadino in nome della legge moderna, fino al sacrificio estremo. Di Salvatore Carnevale, forse l’ultimo organizzatore socialista assassinato nel lungo dopoguerra (1955), Levi scrisse: si era convinto «che non si può venire a patti, che i contadini devono muoversi con le loro forze» e «l’intransigenza è, prima che dovere morale, una necessità di vita»65. «Sappiamo che cos’è la mafia perché sappiamo a chi spara», aggiunse un altro intellettuale di sinistra, siciliano stavolta: Leonardo Sciascia (19211989)66. Presentiamo questo grande protagonista della nostra storia, che ha fornito alcuni tra i più importanti contributi (letterari, saggistici, giornalistici e politici) su mafia e antimafia nella seconda metà del Novecento. Era nato a Racalmuto, paese della provincia di Agrigento, da famiglia piccoloborgese, e per diversi anni fece il maestro elementare. Possiamo bene inquadrarlo nel tipo dell’intellettuale impegnato a sinistra anni quarantacinquanta. Come altri, vedeva con rabbia che la fine storica del latifondo non portava al previsto sblocco dello sviluppo sociale, che l’avvento dell’autonomia regionale non portava alla prevista fuoriuscita dal sottosviluppo. Partiva dal luogo comune del suo tempo e della sua parte politica: l’ossessiva ed esclusiva identificazione della mafia con la dimensione «feudale» del latifondo, con gli arcaismi della Sicilia interna. Però prendeva atto che non si estingueva per niente, smentendo tante facili previsioni. E, come vedremo, provò ben presto a complicare il discorso. Sciascia collaborava più o meno regolarmente con «L’Ora», il quotidiano palermitano di sinistra della sera, sin dal 1955, cioè da quando la direzione fu assunta dal calabrese Vittorio Nisticò. Il nuovo direttore era stato mandato a Palermo dal suo editore, cioè in sostanza dal Pci, con l’idea di creare un fronte antidemocristiano «largo» intorno ai due temi canonici della linea comunista: la rivendicazione della centralità del movimento contadino e dell’autonomismo regionale. Logico che «L’Ora» molto si spendesse in sostegno di Milazzo. Nel frattempo l’argomento mafia era cresciuto di peso, il tema aveva assunto importanza in sé, e il giornale era divenuto di gran lunga il luogo principale della discussione su di esso. In un saggio memorialistico, di molti anni successivo, Nisticò ha spiegato come fosse riuscito a evitare che «L’Ora» si riducesse a foglio di partito: mobilitando le penne più aguzze, a prescindere dal loro posizionamento partitico67. Sulla mafia scrissero sull’«Ora», tra gli altri, tre elementi per diverse ragioni definibili come irregolari. C’era Michele Pantaleone, il socialista di Villalba che abbiamo già conosciuto come avversario di don Calò, le cui relazioni coi comunisti furono a tratti burrascose. Portò nelle pagine del giornale la sua versione impastata di mitologia della storia della mafia, poi esposta con grande successo nel libro Mafia e politica, stampato da Einaudi (e con introduzione di Levi). C’era Felice Chilanti, originario del Polesine, ex fascista di sinistra, ex trockista, ex partigiano. E c’era il pugliese Mauro De Mauro, che veniva da un fosco passato addirittura in una delle più sanguinarie milizie di Salò, e che si era rifugiato in Sicilia per salvare la pelle dopo il 25 aprile 1943. Sin dal 1949, dai tempi dell’affare Giuliano, la sinistra chiedeva sia all’Assemblea regionale che (soprattutto) al Parlamento nazionale una Commissione d’inchiesta sulla mafia. Voleva mettere pubblicamente i democristiani davanti alle loro responsabilità. Sbatté loro in faccia l’esperienza statunitense della Commissione Kefauver, l’esempio del paeseguida del fronte occidentale. Di fronte alle repulse della maggioranza, nel 1958 Nisticò dichiarò che l’inchiesta l’avrebbe fatta «L’Ora». E la fece in effetti mobilitando i suoi cronisti di punta, riesumando anche vecchie leggende: quelle riguardanti Vito CascioFerro, quelle relative a don Calò Vizzini e al suo (presunto) contributo alla vittoria angloamericana nel 1943. Poi puntò su argomenti più concreti e attuali, ad esempio sulla «legione straniera» della destra paramafiosa che stava inquinando la Dc68. Il picco di attenzione fu dedicato alla guerra di mafia che stava squassando Corleone, e alla figura di Liggio che comparve in prima pagina accompagnata da un titolo a carattere di scatola – «Pericoloso!». La mafia rispose con una bomba, il 19 ottobre. Nessuno fu ferito ma l’avvertimento era chiaro. L’esplosione avvenne solo cinque giorni prima che Silvio Milazzo venisse eletto presidente della Regione. Nisticò, nel saggio già citato, svela che in quell’occasione ebbe la «spiacevole sensazione» di un «certo isolamento» anche rispetto ai comunisti. Spiega: la questione mafiosa «non era musica per le orecchie di uno schieramento socialmente articolato come quello autonomista [milazzista], in cui la presenza o magari l’influenza di questo o quel ramo di mafia era in partenza un dato di fatto». Contrariamente a Mannino, non chiama in causa Bontate e i Salvo, ma il «clan trapanese dei Rimi». Al pari di Mannino, spiega che questo «spezzone» mafioso alla fine «rientrò» nella Dc, contribuendo alla caduta di Milazzo, e fu «ricompensato nei modi giusti»69.
Sempre in sede di considerazione retrospettiva Emanuele Macaluso, al tempo segretario della federazione regionale del Partito comunista in Sicilia, ha difeso la propria politica. Ha citato a merito dei governi Milazzo la scelta di allontanare Genco Russo e altri capimafia dalla direzione di due consorzi di bonifica, ribadendo che «la mafia che contava» si schierò con «il governo centrale», contro una linea politica autonomista, la quale propugnava l’alleanza tra la «classe operaia» e la «borghesia progressiva»70. Questo schema di ragionamento non è per nulla convincente. In linea generale, la storia siciliana dell’Ottocento e del Novecento è piena di borghesie molto autonomistiche e assai poco progressiste, da Palizzolo a Lucio Tasca. Io trovo più convincente l’analisi di uno dei più acuti (e isolati) ingegni della sinistra siciliana, Mario Mineo, stando al quale l’alleanza milazzista giunse «fino a gruppi e personaggi notoriamente mafiosi» proprio per tale ossessiva ricerca di una qualche «borghesia» sicilianista con cui allearsi71. D’altronde qui abbiamo anche una testimonianza dall’interno. Secondo Calderone la mafia avrebbe «fortemente» appoggiato Milazzo proprio per i suoi provvedimenti in favore dell’imprenditoria regionale72. In conclusione. Per i comunisti, non era facile trovare una via d’uscita da una prospettiva di sterile opposizione e nel contempo fare una lotta intransigente alla mafia. Quanto alla Democrazia cristiana siciliana, uscì inquinata dall’ingresso graduale di mafiosi al suo interno. L’armistizio politico fu certo condizionante nei confronti degli apparati di sicurezza. Cito due brani di relazioni della prefettura di Palermo del 195859, il cui minimalismo fa evidente contrasto, non dico con i tempi del prefetto Mori, ma con l’età liberale. Una riguarda il triplice omicidio consumato in pieno giorno, a Corleone, nel settembre 1958: non preoccupa perché «ricollegato a lotte intestine tra esponenti di determinati ambienti della malavita». L’altro si riferisce agli undici omicidi (sic!) palermitani del giugno 1959, ciascuno dei quali – si affretta a spiegare rassicurante il prefetto – va considerato come «episodio delittuoso a sé stante […] senza le caratteristiche proprie dei delitti di mafia». Aggiungo una notazione del prefetto di Enna dello stesso periodo: le relazioni mafiose di cui è accusato un candidato Dc «rientrano nei limiti della normalità»73. Appunto, tutto sembrava normale. E in questa passività venne ampiamente coinvolta la magistratura, figlia della classe dirigente, ben più subalterna al governo di quanto sia oggi (il Consiglio superiore fu istituito solo nel 1958). Secondo il figlio, Ciancimino si beava di «una consuetudine e una vicinanza quasi familiare con le alte sfere della magistratura, fatta di viaggi, cene, feste e incontri a casa di Salvo Lima»74. Era un provinciale. Gli piaceva sentirsi accettato nella capitale. Nel suo memoriale, Michele Greco tiene a farci sapere quanta gente perbene, nobili, professionisti, politici, poliziotti, e appunto magistrati, frequentasse la Favarella. Dice Viviano: «frequentava il bel mondo», però Paolino Bontate aveva più amicizie politiche di lui, e le lasciò in eredità al figlio Stefano75. Sta di fatto che, proprio in forza dei suoi contatti politici, il fratello di Michele Greco, Salvatore, era soprannominato «senatore». Quanto all’altro ramo della famiglia Greco, quello di Ciaculli, noi sappiamo da Buscetta, e da diverse altre testimonianze successive, che Salvatore «ciaschiteddu» assunse nella seconda metà degli anni cinquanta un ruolo di primissimo piano negli organigrammi mafiosi. Però le autorità di polizia non se ne accorsero, almeno sino al 1960, quando il comandante dei carabinieri della sezione di Brancaccio lo descriveva come un normale possidente e commerciante di agrumi, estraneo a «sodalizi mafiosi»76. Era invece decisamente agli onori delle cronache criminali il suo cugino ed omonimo, Salvatore Totò «il lungo», coinvolto ai massimi livelli in traffici di sigarette e di eroina, in collaborazione coi marsigliesi da un lato, con gli americani dall’altro. Non per questo finì in prigione. La mafia stava al seguito della Dc, e la Dc non aveva solo il consenso delle lobby e degli apparati. Stava guidando il paese sulla strada del più straordinario sviluppo economico mai conseguito, da cui anche il Sud e la Sicilia traevano i loro vantaggi. Aveva il consenso della parte maggioritaria dell’elettorato. Lima disse: «Palermo è bella facciamola più bella». Quella classe dirigente si presentava alla città, e alla regione di cui era capitale, con un progetto di modernità: strade asfaltate per camminare con motorette e automobili, case con elettricità e fognature. A noi sembra speculazione, e tale era in effetti. Il centro storico fu lasciato in uno stato di degrado e di abbandono, sia nei quartieri vecchi che in quelli nuovi non furono costruite infrastrutture indispensabili al vivere civile, e vennero distrutte meravigliose ville liberty, splendidi giardini. Ma la gente comune non si sentiva danneggiata da quel sistema; come non si sentiva danneggiata dall’altra attività di punta dei mafiosi, il contrabbando di sigarette. Però a un certo punto – diciamo all’inizio degli anni sessanta – l’armistizio si ruppe. Per capire il come, e il perché, elenchiamo qualche elemento, un po’ alla rinfusa. Nella seconda metà degli anni cinquanta crearono allarme sociale le nuove guerre per bande, ad esempio quella palermitana per il controllo dei mercati generali (1955 e seguenti) o quella corleonese tra navarriani e liggiani (1958). Molti cittadini non si contentarono più di commentare «tanto si ammazzano tra loro», come avevano fatto nel lontano 1885 i difensori dei fratelli Amoroso. Sappiamo poi bene che quello della mafia era un sistema integrato transatlantico. Lo vedremo nel prossimo capitolo: c’era una spinta al disordine che dalla mafia americana giungeva a quella siciliana, e viceversa una domanda di repressione che provenendo dal governo statunitense arrivava a quello italiano.
Torniamo al «sacco edilizio» di Palermo. Aveva meccanismi perversi che non potevano non venire fuori. Li rivelò nel 1964 l’inchiesta ministeriale affidata al prefetto Bevivino: manipolazione dei piani regolatori, appalti truccati, licenze facili, società di comodo. «L’Ora» sarcasticamente parlò di un comitato d’affari VALIGIO (VassalloLima Gioia). Venne insomma fuori lo scambio tra le due «nuove» entità, la politica fanfaniana e la mafia più o meno imprenditrice, la loro sostanziale omogeneità. Per citare Macaluso: «Angelo La Barbera poteva, facendo politica, salire le scale dell’assessorato ai lavori pubblici, così come un assessore ai lavori pubblici degli anni ruggenti di Palermo [Ciancimino] poteva ben fare il “costruttore” alla maniera di La Barbera»77. In questa situazione, l’armistizio si ruppe anche per ragioni interne al sistema politico, opposte a quelle per cui era stato stipulato. Alcuni gruppi democristiani si sentivano troppo condizionati da certi turbolenti interlocutori o alleati, ed emergeva in loro una spinta riformatrice che voleva essere in linea coi nuovi tempi; d’altronde si andava verso il centrosinistra, e alla Dc toccava doveva fornire qualche segnale in senso progressista al Psi che la affiancava al governo. Così Giuseppe D’Angelo, presidente del primo governo di centrosinistra della Regione siciliana, decise di dare un segnale. Il 30 marzo 1962 i deputati dell’Assemblea regionale, in piedi e con un generale applauso, chiesero al Parlamento nazionale l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. E nel dicembre 1962 la Commissione venne in effetti costituita. Sull’altro versante, in quello stesso dicembre, a Palermo il boss Calcedonio Di Pisa venne assassinato. Il delitto diede il via a un nuovo, clamoroso conflitto tra le fazioni mafiose cittadine raccolte rispettivamente intorno ai Greco e ai La Barbera: quella che fu detta «prima» guerra di mafia. Anche gli apparati repressivi recepirono i segnali. Cambiò ad esempio misteriosamente idea il sottufficiale dei carabinieri che appena due anni prima aveva definito Salvatore Greco «ciaschiteddu» come un uomo d’affari molto perbene. Ora lo indicò come «individuo socialmente pericoloso», «violento», sicuramente «appartenente alla mafia»78. Il tenente Malausa fu richiesto dai suoi superiori di scrivere il rapporto che ben conosciamo. Lo immaginiamo intento al lavoro, attingendo alla memoria lunga dell’Arma, mettendo i fatti recenti in connessione con quelli di trenta o quaranta anni prima: pescando documenti da archivi polverosi, ascoltando colleghi anziani e misteriosi informatori, provando a farsi e a dare un’idea. 1 Stabile 1986. 2 Sarebbero 430 secondo Casarrubea 2007, p. 23. 3 Quanto a quelli internazionali, vanno segnalati i tentativi di attribuire una qualche responsabilità al governo o ai servizi segreti statunitensi, in cui in particolare si sono impegnati Casarrubea Cereghino 2007. Però, senza ottenere risultati apprezzabili. 4 I capi del Mis avevano anche strizzato l’occhio a qualche generale che progettava un’azione di forza in favore del re – trame che peraltro, alla fine, non ebbero esito alcuno. 5 Lettera del giugno 1947, in Stabile 1992, p. 265. 6 Cit. da Mangiameli 1987, pp. 5789. 7 Lettera appunto a Scelba cit. da Spanò 1978, p. 147. 8 Arlacchi 1994. Sull’appartenenza mafiosa di Giuliano insiste ora Petrotta 2018. 9 Arlacchi 1994, pp. 3940. 10 Ibid., pp. 412. 11 L’intervento di Scelba in APS, seduta del 23 giugno 1949, p. 8637. Ma cfr. anche Barrese 1988, pp. 15 sgg. 12 Coco 2017, pp. 189 sgg. 13 Lo Bianco 1999, p. 157. 14 Rapporto del 17 febbraio 1946, cit. in Mangiameli 1987, p. 577. 15 In uno scritto del 1948, l’esponente socialista Simone Gatto rilevava la contraddizione: in quel momento, la mafia vedeva «quotidianamente comprovata» la «inesistenza di una sua funzione mediatrice e regolatrice». Gatto 1978, p. 53. 16 Secondo il magistrato G. Bellanca, Rimi era «uno dei principali favoreggiatori di Giuliano»: testimonianza in Antimafia, Doc., III, t. 1, p. 508. Ma cfr. anche la ricostruzione di Casarrubea 2007. 17 A proposito della misteriosa morte di Ferreri scriveva: Rimi era il «fiduciario per l’uccisione di Ferreri da parte dei Cc, perché temeva che Ferreri – arrestato – parlasse»: Spanò 1978, p. 113. 18 Sentenza di Viterbo, 3 maggio 1952, in Antimafia, Rel. Bernardinetti, Doc., pp. 1267. 19 Dalla Chiesa 1990, pp. 245. 20 Relazione del 31 ottobre 1949, cit. da Barrese D’Agostino 1997, p. 236. 21 Verbale Ispettorato 1938, pp. 103 e 124. 22 Lo Bianco 1999, pp. 222 sgg. 23 Sentenza cit. Cfr. anche Coco 2017, p. 198. 24 Testimonianza del giudice C. Terranova, in Antimafia, Doc., III, t. 1, p. 1188. La guardia si chiamava Calogero Comajanni. 25 Dalla Chiesa 1990, pp. 32 e 367. Anche Antimafia, Singoli mafiosi, pp. 65 sgg.
26 Relazione del brigadiere Vignali, in Antimafia, Doc., IV, t. 16, p. 164. 27 La zia di Navarra era sposata con Angelo Gagliano, la moglie era imparentata con Michelangelo Gennaro: Dalla Chiesa 1990, pp. 301 e 62. 28 Ibid., p. 39. 29 Sembra che gli omologhi e corrispondenti palermitani di Navarra fossero preoccupati che la diga mettesse in forse il loro controllo delle
acque irrigue della Conca d’oro. 30 Testimonianza del vicequestore A. Mangano in Antimafia, Doc., III, t. 1, p. 1147. 31 Relazione Vignali cit., p. 163. 32 Ciancimino La Licata 2010, p. 31. 33 Rapporto Malausa. 34 Arlacchi 1992, p. 148. 35 Testimonianza Calderone, p. 5. 36 La difficoltà è accentuata dal fatto che il cognome Greco è diffuso, e in qualche caso c’è il rischio di scambiare per parentela quella che è solo omonimia. 37 Rapporto Malausa, p. 41. 38 Relazione del prefetto di Palermo, 16 marzo 1916, in ACS, PG, 191618, b. 236. Il sacerdote si chiamava Giorgio Gennaro. 39 Viviano 2008, pp. 303. 40 Ibid., p. 169. 41 Rapporto Malausa, p. 48. 42 Patti 2014, p. 183. 43 Rapporto Malausa, p. 43. 44 Sentenza di rinvio a giudizio contro P. Torretta e altri, 31 maggio 1865, in Antimafia, Doc., IV, t. 17, pp. 3444. 45 Viviano 2008, p. 67. 46 Ibid., p. 126. 47 Ibid., p. 51 e passim. 48 Antimafia, Singoli mafiosi, pp. 137 sgg. L’ultimo caduto era Antonino Conigliaro, genero del Francesco Greco citato nel Rapporto Malausa. 49 Antonino Cottone, elemento che la polizia giudicava al vertice degli organigrammi mafiosi provinciali. Anche lui finì ammazzato nel 1956. 50 Coco 2013, pp. 116 sgg. 51 Istruttoria La Barbera, p. 543. 52 Però era mafiosa la famiglia della moglie, che ebbe due fratelli ammazzati nel 196162. Coco 2013, pp. 110 sgg. 53 Santino La Fiura 1990, p. 133. 54 Si vedano i documenti collazionati in Antimafia, Doc., IV, t. 10. 55 Istruttoria Andreotti, p. 146. 56 In questo senso ha testimoniato l’ispettore di polizia Salvatore Bonferrato, citando rapporti di polizia e documenti del tempo, nel corso dell’udienza del processo Andreotti del 22 maggio 1996. 57 Rapporto Malausa, pp. 40 e 41. 58 Chubb 1982; Caciagli 1977. Più articolata la posizione di Mastropaolo 1993. 59 Di Matteo 1958; La Loggia 1963. 60 Si vedano i rapporti tra i Greco e Luigi Gioia, fratello e successore di Giovanni, in relazione alla gestione dell’eredità Tagliavia in Istruttoria maxiprocesso, pp. 84 sgg. 61 In particolare quello del notabile e grande proprietario catanese Benedetto Majorana della Nicchiara, successivo presidente della Regione. 62 Istruttoria maxiprocesso, pp. 3467. 63 Relazioni del 1965 e del 1969, cit. ibid., pp. 3145. 64 È l’espressione del magistrato A. Di Giovana relativamente alla quotizzazione dei feudi del barone agrigentino Cannarella, in Antimafia, Doc., IV, t. 1, p. 524. 65 Levi 1962, p. 162 e passim. Il volume è composto da contributi già editi nel 195155. 66 Sciascia 1961, p. 165. 67 Nisticò 2001. 68 Fu denunciato soprattutto, in polemica con Gioia, l’assassinio di Pasquale Almerico, sindaco democristiano di Camporeale, oppostosi al passaggio dal Pli alla Dc del capomafia Vanni Sacco (1957). 69 Nisticò 2001, pp. 534. Ricordo che i Rimi sono stati già evocati in questo capitolo come interlocutori degli apparati di sicurezza nella caccia a Giuliano. 70 Rispettivamente, Macaluso 1971, p. 106, e Id. 1995, p. 69. 71 Mineo 1995, p. 210. 72 Arlacchi 1992, p. 184 e passim. 73 Traggo le citazioni delle tre relazioni da Crainz 1997, pp. 178. 74 Ciancimino La Licata 2010, p. 126. 75 Viviano 2008, p. 67.
76 Antimafia, Singoli mafiosi, p. 143. 77 Macaluso 1971, p. 105. 78 Antimafia, Singoli mafiosi, p. 143.
X. La Cosa nostra
Negli Stati Uniti la controffensiva del governo federale contro il gangsterismo italoamericano, già avviatasi nel 1950 con l’inchiesta Kefauver, si dispiegò a partire dal 1957. Qualche anno prima che in Italia (abbiamo cominciato a parlarne nel capitolo precedente) si determinasse una prima rottura del lungo armistizio tra Stato e mafia. Il nuovo attivismo delle autorità sull’una e sull’altra sponda determinò un’ondata di rivelazioni dall’interno, sul presente e anche sul passato della mafia, che restano cruciali per ogni ricostruzione della sua storia. La testimonianza più importante fu quella resa nel 1963 dal gangster italoamericano Joe Valachi, che ricordiamo membro della squadra di killer di Maranzano nel corso della guerra castellammarese di trent’anni prima. Il testimone indicò con il termine Cosa nostra l’organizzazione che negli Stati Uniti era stata in precedenza chiamata in varie maniere, oltre che mafia. Per quanto ne so, l’espressione usata da Valachi non era mai comparsa nella discussione pubblica americana, né in quella italiana dell’Ottocento o della prima metà del Novecento. Si dovette aspettare il 1973, la confessione del mafioso palermitano Leonardo Vitale, perché facesse timidamente la sua comparsa nel vecchio mondo. E solo nel 1984 venne canonizzata da Tommaso Buscetta nella più celebre e importante delle confessioni di un protagonista del sottomondo mafioso. Buscetta precisò: è Cosa nostra il nome vero, in Sicilia «come negli Stati Uniti». Come diremo quest’altro testimone, contrariamente a Valachi (e un po’ come Nick Gentile), aveva un’esperienza intercontinentale: appunto siciliana e statunitense, oltre che sudamericana. Fu per questo soprannominato «il boss dei due mondi». Sempre intorno al 1963, con la costituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta, comunemente chiamata antimafia, introdusse nel linguaggio pubblico italiano un’altra parola nuova. Noi abbiamo già utilizzato questo termine per il periodo fascista, ma con qualche riluttanza. A quella fase storica infatti non si adatta il significato che esso sempre più venne ad assumere negli anni successivi al 1963: una convergenza di istituzioni, gruppi politici e società civile intorno al nodo della legalità. 1. La svolta, 19571963. Negli Stati Uniti, dunque, l’anno cruciale fu il 1957. Ma già prima, sin dal 195051, le cose erano in moto. E non soltanto sul fronte esterno (inchiesta Kefauver), ma anche sul fronte interno, come fu evidente con l’assassinio di una nostra vecchia conoscenza, il capo della Commissione Vincenzo Mangano1. Sembra che a sostituirlo sia stato Bonanno, boss castellammarese, esponente dunque di una mafia che – più di ogni altra – aveva capisaldi su entrambi i versanti dell’oceano. Forse al tentativo di presidiarle entrambe va ricondotto il ritorno nell’antica patria di due suoi luogotenenti: suo zio Giovanni Bonventre, che era arrivato a New York nel 1933, e Frank Garofalo, che già conosciamo soprattutto per il ruolo da lui avuto nel delitto Tresca (1941). Seguì, appunto nel 1957, un viaggio dello stesso Bonanno in Sicilia, a Castellammare e a Palermo. Il boss fece la sua comparsa al palermitano Hotel delle Palme, tra il 12 e il 16 ottobre, alla testa di una delegazione composta appunto da Bonventre e Garofalo, da Carmine Galante detto Lillo o Big cigar (anche lui a suo tempo coinvolto nel delitto Tresca), e da castellammaresi di Castellammare, a cominciare da suo cugino Gaspare Magaddino (abbiamo già conosciuto pure lui). Incontrò una quantità di personaggi, tra i quali c’erano il giovane Gaetano Badalamenti di Cinisi e il vecchio Genco Russo di Mussomeli. Un informatore sentì quest’ultimo sentenziare, rivolto a un suo compaesano d’America: «Quannu ci sunnu troppi cani supra un ossu, beato chiddu chi po’ stari arrassu» – ovvero, «quando ci sono troppi cani su un osso, beato chi sta indietro»2. Voleva dire: gli interessi sono grossi, gli interessati tanti, si preannunciano conflitti. Il summit si concluse il 16 ottobre, e nemmeno trenta giorni più tardi (14 novembre) ne cominciò un altro oltreoceano, in una località montana dello Stato di New York, chiamata Apalachin, nel territorio e sotto la responsabilità della gang castellammarese di Buffalo guidata dall’altro cugino di Bonanno, Stefano Magaddino. Straordinario incrocio intercontinentale, sequenza cronologica stringente. In mezzo, il 25 ottobre, ci fu l’assassinio di Albert Anastasia nel salone del barbiere di un lussuoso albergo newyorkese, che agli occhi di tutto il mondo restò a lungo l’immagine più familiare del delitto di mafia. Carlo Gambino divenne il numero uno della sua Famiglia3.
Direi che il progetto dei castellammaresi di Sicilia e d’America era articolato in due fasi. Prima, a Palermo: riorganizzare con la collaborazione dei siciliani i flussi del narcotraffico, ammonirli a non azzuffarsi come i cani su cui ironizzava Genco Russo. Seconda, ad Apalachin: mettere l’élite criminale italoamericana di fronte agli accordi siglati oltreoceano, e guadagnarne in credibilità in una fase caratterizzata da grandi conflitti interni, da rivolgimenti di gerarchie. Un incidente (se tale fu) impedì la realizzazione della seconda fase. La polizia locale fece irruzione nella villa dove stava cominciando il meeting, fermando 61 persone (altri riuscirono a fuggire): gangster, sindacalisti, uomini d’affari, personaggi notissimi alle cronache o sconosciuti, forniti di poderosi record criminali o incensurati. Casolimite, quello del genero di Magaddino, che (come abbiamo detto a suo tempo) era stato da poco insignito del titolo di «uomo dell’anno» dal Dipartimento di polizia di Buffalo. Dei 61, erano 35 quelli che risiedevano nello Stato di New York, 8 nel New Jersey, 6 in Pennsylvania, 2 nell’Ohio, mentre quelli provenienti dal Sud e dall’Ovest del paese si contavano sulle dita di una sola mano4. Si trattava del gruppo dirigente di un’organizzazione: ma non, come fu detto, di tipo nazionale, bensì di tipo regionale, disposta intorno alla grande porta di entrata di Nordest degli States. Aveva carattere monoetnico, visto che i fermati erano per metà nati in America ma di origine italiana, per l’altra metà nati in Italia con una larghissima maggioranza di siciliani. Poteva essere chiamata mafia, come avevano fatto negli anni precedenti il Narcotic Bureau e Kefauver. Così i boss della seconda ondata, rimasti per più di trent’anni in una protettiva penombra, finirono per la prima volta sotto la luce vivida dei riflettori; venne identificato anche Bonanno, che era riuscito a dileguarsi, e i giornali gli affibbiarono un nomignolo che gli spiacque moltissimo – Joe Bananas. Per lui e per i suoi colleghi cambiò tutto perché tutto cambiò per l’opinione pubblica, per il governo federale e per l’Fbi, l’agenzia che si era mostrata negli anni precedenti scettica sul concetto di mafia nonché restia a usare la parola, ma che non poté non essere chiamata in campo essendo l’unica a possedere i mezzi e il knowhow necessario a invertire l’andazzo prevalso negli anni precedenti. Toccò alla sua Central Research Section mettere ordine dal punto di vista conoscitivo e concettuale elaborando nel giugno 1958 una Mafia Monograph dalla quale abbiamo già tratto molte informazioni. La questione della grande criminalità venne inserita, almeno dal punto di vista retorico, nell’agenda della guerra fredda. Il gran capo dell’Fbi, Edgar Hoover, definì un «disastro nazionale» l’eventualità che all’impegno contro il comunismo non corrispondesse quello contro il crimine. Disse il democratico Robert Kennedy, che si preparava a sostenere il fratello John nella vittoriosa campagna per la presidenza: la criminalità organizzata è un «nemico interno» (quello esterno era Chruščëv) che, penetrando nel mondo sindacale e in quello dell’impresa, rischia di indebolire «il libero sistema economico americano», la stessa «fibra morale della società»5. Fu portato il primo vero colpo dell’era postbellica contro un boss, nella persona di Vito Genovese, condannato a una lunga pena detentiva (quindici anni) per traffico di stupefacenti. Era il 1959. Di lì a poco, nel carcere di SingSing, Genovese si trovò faccia a faccia con Valachi, suo gregario anche lui detenuto per narcotraffico, con cui era in pessimi rapporti. Valachi pensò che il boss avesse decretato la sua eliminazione, e accadde che ammazzasse con le sue mani un innocente compagno di detenzione credendolo un killer. Non gli restò che collaborare, prima con il Narcotic Bureau, poi con l’Fbi. Insomma, l’attivismo delle autorità incrinò la compattezza dell’underworld, com’era avvenuto ai tempi di Dewey. La testimonianza di Valachi di fronte alla Commissione senatoriale sul crimine organizzato presieduta dal senatore democratico McClellan (settembre del 1963) portò a compimento la svolta cominciata neanche sei anni prima con l’irruzione della polizia ad Apalachin. Il rito si consumò in un’aula affollata da cinquecento persone, che ascoltavano emozionate il supertestimone che rivelava i propri segreti: La testimonianza di Valachi è qualche volta incoerente. Spesso lascia le domande senza risposta. È espressa in una dizione gutturale, da illetterato, che qualche volta lascia confusi i suoi ascoltatori. Ma quella storia così sinistra ha preso tutti alla gola6.
Suonò sorprendente per il pubblico il quadro, disegnato da Valachi, di una società segreta riservata agli italiani, in cui si entrava per giuramento, formata da Famiglie (cinque a New York, una in altre città statunitensi), con una Commissione che le dirigeva tutte. Risulterà più familiare al lettore, sulla base di quanto è stato scritto nei capitoli precedenti. Io ribadisco la piena congruenza tra quel modello, che Valachi diceva affermatosi negli Stati Uniti negli anni trenta, e quello delineato nello stesso periodo, per la Sicilia, nei documenti dell’Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza. Resta da capire perché Valachi abbia chiamato l’organizzazione non mafia ma La cosa nostra. 2. Uno sguardo nel sottosuolo. È possibile che «Cosa nostra» fosse un antico nome iniziatico della segreta società, rimasto sino ad allora ignoto ai profani. Io però non credo. In questo caso, sarebbe venuto fuori ben prima del 1963, almeno negli anni trenta, quando
in Sicilia era in effetti venuta fuori la parolabase del prima e del dopo, sull’una e sull’altra sponda: Famiglia. Il termine Famiglia indica, quanto e più di Cosa nostra, un valore indiscusso nella società, bene rappresenta la necessità di un’ampia legittimazione che caratterizza questo tipo di criminalità. Possiamo citare testimonianze dall’interno stando alle quali negli anni venti l’organizzazione mafiosa era definita «Unione siciliana» dai giornali, però dagli affiliati era detta La Famiglia7. Pare indicativo il fatto che il termine Cosa nostra si sia materializzato prima in America e dopo in Sicilia. Così la pensa il sociologo Diego Gambetta: a suo dire nel nuovo mondo i mafiosi sentivano il bisogno, più che nel vecchio, di un «nome» con cui definire se stessi, attraverso cui distinguersi dalle altre bande della criminalità etnica8. Di questo avrà parlato il grande capo siciliano Maranzano col gregario italoamericano Valachi nel 1931. Immaginiamo (mettendoci magari un po’ di fantasia) le sue parole: i siciliani e gli altri italiani, di prima o seconda generazione, hanno bisogno di essere difesi ma non da una gang, bensì da una specie di famiglia, parte di una più generale cosa nostra fatta di solidarietà e senso dell’onore, da distinguersi dalle cose loro, le ipocrite regole degli anglosassoni, la prepotenza della macchina politica irlandese. I pentiti siciliani di oggi adoperano, per spiegare il reticolo di complicità che collega mafiosi, politici o imprenditori, frasi ammiccanti come «era cosa mia (sua)», o «era cosa nostra (loro)», o «era nelle nostre (nelle loro) mani». Nella sua reticente autobiografia, Bonanno ammette di aver talora sentito l’espressione in bocca a Vincenzo Mangano, usata in un senso analogo a questo, in maniera generica. Chi è capace di intendere intende, come quando Frank Costello diceva al suo avvocato: «he’s connected»9. Valachi, richiesto di tradurre in inglese l’espressione, la rese (correttamente) «our thing», ma aggiunse (scorrettamente) che poteva anche tradursi «our family»10, inducendo in noi l’impressione che l’uso dei termini non fosse così consolidato come lui diceva, o come gli si voleva far dire. Teniamo insomma conto anche dell’influenza che avevano su di lui i suoi interlocutori dell’Fbi. Può darsi che l’abbiano scoraggiato dall’utilizzare la vecchia parola mafia, volendo far dimenticare all’opinione pubblica la propria passata sottovalutazione del problema, e viceversa i meriti dei loro concorrenti del Narcotic Bureau. Sembra abbiano sentito il termine nuovo – usato in una qualche accezione, formale o più probabilmente colloquiale – da fonti confidenziali o in intercettazioni ufficialmente non utilizzabili perché ottenute con metodi illegali11. Al proposito, può essere interessante l’uso dei termini fatto in un documento immediatamente successivo, e di straordinario valore: le intercettazioni ambientali delle conversazioni tenutesi nell’estate del 1964 nell’ufficio di Samuel Rizzo De Cavalcante, pezzo grosso del gioco d’azzardo nonché boss di una Famiglia di minore importanza, quella del New Jersey. Sentiamo il boss chiamare gli altri mafiosi, alternativamente in inglese o in italiano, «friends of ours» o «amici nostri», e nello stesso senso dire che un tizio è «cosa nostra»12. Però usa l’espressione anche in senso formale, come membro di un’organizzazione che chiama «Our thing» o in italiano «Cosa nostra» – oltre che in diversi altri modi – di cui richiama le regole, e cita l’organismo dirigente, la Commissione13. Un confronto con testimonianze di gangster rese successivamente, ma riferite a quel periodo, indica che l’espressione era usata da qualcuno, ma non da tutti e non sempre. Si affermò nel «vocabolario criminale» gradatamente, specularmente a una qualche decadenza del termine mafia14. D’altronde era più che altro l’America ufficiale ad aver bisogno di un nome ufficiale con cui indicare il nemico. Il nemico si adattò. I mafiosi sempre mettono insieme eterorappresentazione e autorappresentazione. Qui siamo sulla strada per cogliere non le falsificazioni, ma le forzature interpretative cui fu sottoposta la testimonianza di Valachi. La prima riguarda l’estensione dell’organizzazione sul territorio. L’Fbi, istituzione addetta alla sicurezza federale, attribuì al nemico dimensione nazionale: per impressionare l’opinione pubblica ma anche per meglio giustificare il proprio attivismo nei confronti delle polizie locali. Mostrò dunque alla stampa maps raffiguranti 24 Famiglie organizzate secondo un unico modello gerarchico, sparse in forma simmetrica per l’America, governate da una sola Commissione. In sostanza la Cosa nostra era equiparata agli Stati Uniti, e la Commissione al governo federale. Però si trattava di una semplificazione e magari di una deformazione. L’esperienza di Valachi era limitata a New York e a qualche località circostante. E anche le indagini successive, come era accaduto già dopo Apalachin, confermarono la centralità di New York, con cinque Famiglie forti di ben duemila affiliati15, cui si aggiungeva quella del New Jersey e il fitto presidio mafioso intorno a Buffalo, Cleveland, Boston e Philadelphia. Chicago, come da tradizione, restava l’altra capitale del gangsterismo – autonoma, in quanto tale. Il disegno si faceva poi ben più rado man mano che si procedeva verso sud e ovest, a parte i casi di Reno, Las Vegas e (prima della rivoluzione castrista) L’Avana, dove i gangster dell’Est avevano grandi interessi nel gioco d’azzardo. Quanto alla Commissione, tutto indica che si trattava di un coordinamento delle cinque Famiglie newyorkesi tra loro, e con i gruppi operanti nell’area circostante. Io aggiungo: la rete aveva carattere da un lato regionale, e dall’altro intercontinentale. Di questa seconda dimensione il supertestimone non aveva cognizione, a essa l’Fbi non prestò grande attenzione.
Per Valachi i siciliani erano quella strana, barbara gente arrivata negli anni venti, che negli anni trenta aveva ancora così strani costumi: «a quei tempi usavano baciarsi», raccontò un po’ imbarazzato ai membri della Commissione parlamentare. Per fortuna da allora si erano civilizzati: «Ora sono venuti fuori. Sono diventati ricchi, hanno imparato tutto negli ultimi 25 anni»16. Nulla in questo schema lasciava intendere il rinnovarsi delle relazioni tra le due sponde intorno al 1957, nonché (ci arriveremo tra poco) lo sbarco in America di nuovi greasers siciliani, proprio nel momento delle sue rivelazioni, quarant’anni anni dopo Bonanno o Gambino. Ma valutiamo anche l’aspetto ideologico, da cui risulta quanto forte fosse ancora a quel tempo l’input originario, quale risulta dalle intercettazioni nell’ufficio di Rizzo De Cavalcante, New Jersey; le quali ci danno la possibilità, per la prima volta, di ascoltare le parole usate in quel sottomondo nel momento stesso in cui i capi le pronunciano a beneficio dei gregari. Il boss presenta se stesso come uno che non violerebbe mai le regole, che lavora per la pace e l’armonia, che si ispira a criteri di ragionevolezza ed equilibrio. Afferma ad esempio che non farebbe pestare qualcuno solo per riaverne gli spiccioli dati in prestito. Chissà se dice sul serio. Comunque, si tratta di ideologia mafiosa che come sempre (come tante altre) si nutre della contrapposizione tra un passato mitizzato e un presente deludente. «Più cose vedi più ti disilludi. Tu lo sai, onestà, responsabilità. Tutte queste cose»17. I boss di oggi? Sono «lupi». Vale invece il modello della mafia del buon tempo antico, per rappresentare la quale De Cavalcante evoca l’antico suo boss, un businessman sì ma anche un amante dei buoni libri, siciliano d’origine e tornato in Sicilia dove – c’è da esserne sicuri – «deve sentirsi a posto, a casa». Ricorda commosso come costui l’abbia affiliato nel 1942, ed è fiero di ripetere le parole dette allora in italiano, e poi di tradurle a beneficio di quanti tra i suoi non capiscono la lingua del vecchio mondo: «No, tu non devi abusare. Devi proteggere la gente perché non si abusi di loro». «Quando mi hanno fatto mi hanno fatto in italiano. Parlavano tutti in italiano», aggiunge lasciando intendere che l’italiano è l’unica lingua adatta ad esprimere l’ethos mafioso18. Siamo piuttosto distanti dalla rappresentazione fornita dalle agenzie governative, e da qualche intellettuale, di Cosa nostra come grande corporation o syndicate, capace di controllare tutte le attività criminali, e dei suoi capi come grandi manager: che molto riproponeva i fraintendimenti del dibattito degli anni trenta culminati nel libro fortunato di Burton Turkus e Sid Feder, Murder, Inc.19. Questa rappresentazione «ufficiale» non corrispondeva neanche agli elementi empirici ricavabili dall’esperienza del supertestimone. Certo Valachi si valse della propria condizione di affiliato per scalare diversi gradini sulla scala sociale: prima rapinava banche, si faceva sparare addosso dai poliziotti e passava lunghi periodi della sua vita in prigione; dopo entrò nella gestione del gioco d’azzardo e in quella dei nightclub, comprò cavalli da corsa, e grazie a ottimi rapporti con le forze dell’ordine si mantenne lontano dalla galera – almeno finché Apalachin cambiò le regole del gioco. Ma nel suo racconto insistette sempre su un punto: gli affari in cui si impegnava, i capitali che impiegava, gli oggetti che comprava e vendeva, gli avvocati cui faceva ricorso, erano proprio suoi, non della Famiglia. Non descrisse se stesso come la rotella di un compatto ingranaggio, bensì come un imprenditore che gestiva per proprio conto e nel proprio interesse, che costituiva jointventure di varia natura con personaggi di varia estrazione, che si muoveva in un mondo variegato di affari e clientele. Pressato perché chiarisse i termini della sua relazione con l’organizzazione, fornì sia pure malvolentieri una definizione – «mutual protection»20. Questo è il quadro risultante anche da altre fonti. Lo ha sottolineato, sulla base appunto di una vasta casistica, il criminologo Abadinsky: Nelle cinque Famiglie di New York e forse anche in altri gruppi criminali di tipo tradizionale, ogni membro è un operatore indipendente, non un impiegato – egli non riceve alcun salario dal gruppo. Invece, l’elemento fatto o affiliato dispone di una sorta di «franchigia»: è autorizzato a far soldi usando le relazioni della Famiglia che derivano dall’esserne membro, sostenuto dallo status (cioè, dalla paura) derivante dalla sua appartenenza21.
Io citerei tra l’altro la confessione resa nel 1980 da un «associato» alla Famiglia Lucchese: «Pressoché tutti gli affiliati erano impegnati, a un qualche livello, in affari di vario tipo. Erano tutti piccoli imprenditori». Non dipendenti. La fonte stessa (come altre fonti interne) usa poi il termine «associato»: a indicare elementi che non sono stati ammessi al giuramento, e che si collocano sotto la protezione, «under the umbrella», di un affiliato22. Il quadro si complica. Per interpretarlo, riproporrei ancora la distinzione di Alan Block tra power syndicate ed enterprise syndicate. Le Famiglie di Cosa nostra rappresentano il primo elemento, mentre al secondo partecipano sì gli affiliati, ma insieme ad affaristi borderline della più varia natura. Insomma, contrariamente a quanto pensavano Turkus e Feder e tutti i loro epigoni, le Famiglie non sono corporation e i loro boss non sono manager. Abbiamo, al loro interno, soggetti di rango più elevato che svolgono il ruolo dei patroni nei confronti di quelli di rango meno elevato, e proteggono il loro business in cambio di tangenti, in un rapporto che non è «burocratico» ma personale. Fuori, ci sono elementi che a
loro volta si appoggiano (volenti o nolenti) ai mafiosi nella gestione delle loro attività (lecite o illecite). Si spiega il perché un Rizzo De Cavalcante si mantenga fedele a ideologie protettive e tradizionaliste. Le nostalgie del passato fanno parte della retorica mafiosa ma nella fattispecie venivano accentuate dal fatto che, come sappiamo, tra il 1957 e il 1963 il sistema andò in crisi. La crisi, nell’ufficio del boss del New Jersey, la si percepiva tutta. Da un lato c’era il panico per le iniziative dell’Fbi che stavano «mettendo insieme i pezzi» del puzzle mafioso. Dall’altro c’era lo sconcerto per i contrasti interni all’organizzazione, che molto ruotavano intorno alla figura di Bonanno. In effetti erano stati i castellammaresi a volere il meeting di Apalachin, con le sue conseguenze catastrofiche; logico che la credibilità del loro boss venisse meno. Come abbiamo detto, Bonanno perse il suo numero due, Galante, che finì in prigione nel 1960, condannato a una lunga pena detentiva per narcotraffico. Profaci, suo alleato e parente (erano consuoceri), morì di morte naturale nel 196223. Persino la sua tradizionale alleanza col cugino Stefano Magaddino di Buffalo si trasformò in ostilità, la sua stessa gang si spaccò, tra sparatorie e omicidi cui i giornali si riferirono come «Banana war» (196468). Venne sospettato di complottare per uccidere gli altri boss, e si trovò contro l’intera Commissione, capeggiata da Gambino. Salvò la pelle ma fu costretto a ritirarsi nella lontana Tucson, Arizona. Io direi che Bonanno perse le sue guerre perché i suoi colleghi respinsero entrambi i punti qualificanti della sua strategia: a) impegnare più organicamente Cosa nostra americana nel narcotraffico; b) rafforzare la connection siciliana. I due punti erano in effetti connessi, come abbiamo visto e come meglio vedremo. Partiamo dal primo, citando la discussione tra due esponenti di massimo livello della Famiglia Lucchese, che conosciamo grazie a un’intercettazione ambientale Fbi. Il boss dice: Non voglio che nessuno traffichi con la fottuta droga, altrimenti li farò ammazzare»; l’altro viene di rincalzo: «Certo, il fottuto problema è tutto qui. È la droga. Loro [le forze dell’ordine] non si curano del gioco d’azzardo e di tutte le altre stronzate»24. In effetti le polizie locali erano tolleranti verso molte delle usuali attività della mafia (gioco d’azzardo, labor racket, scommesse). Il traffico di droga invece destava l’allarme dell’opinione pubblica, confutava l’immagine che i mafiosi amano dare di se stessi, quella dei difensori dell’ordine tradizionale, e mal disponeva l’autorità. Era sanzionato molto più pesantemente in sede penale. E faceva scendere in campo le polizie federali, molto meno malleabili di quelle locali. In questo senso è plausibile quanto affermano molte fonti: che la Commissione abbia proibito alle Famiglie di partecipare ai commerci di droga. Potremmo datare la decisione dopo Apalachin o le pesanti condanne per narcotraffico inflitte a Galante e anche a Genovese, magari prima delle rivelazioni di Valachi. Sta di fatto, però, che nella struttura «pluralista» e fluida degli affari delle Famiglie, per come l’abbiamo prima descritta, non era facile ai boss impedire davvero ad affiliati, associati e satelliti di occuparsi, tra l’altro, anche di droga. Se lo dicevano l’un l’altro i due membri della Famiglia Lucchese nella discussione sopra citata: «gli altri non sono come noi»25. E poi i boss e i loro inner circle erano tutti, e fino in fondo, disposti a rinunciare a quelle opportunità di profitto? Vale il concetto: il fatto che una legge sia stata emanata non significa che sia sempre rispettata. 3. Narcotrafficanti. Passiamo sull’altro versante della connection transatlantica mafiosa, quello siciliano. E partiamo dalla testimonianza di Buscetta26, che è di straordinaria importanza ma per cui vale l’avvertenza: va presa con prudenza e senso critico, tenendo conto dell’interesse che il supertestimone aveva nel dire alcune cose, nel tacerne altre, del sentire mafioso e dell’agire mafioso che, come disse bene Leonardo Sciascia, continuavano a ispirarlo anche dopo la sua decisione di collaborare con le autorità. Nemmeno Buscetta avalla l’idea che gli affari dei mafiosi venissero gestiti da un’unica superorganizzazione centralizzata. A proposito di contrabbando di sigarette, spiega che le Famiglie palermitane «consentivano» ai contrabbandieri di tabacco di operare, in cambio di un «diritto» dei singoli mafiosi di entrare come soci in quegli affari. Gli investigatori della guardia di finanza dicevano: le cosche imponevano sul contrabbando una tangente. Non siamo distanti dallo schema del criminologo Abadinsky che abbiamo sopra esposto. Ne consegue che ogni mafioso, per usufruire in concreto del «diritto» di entrare in quegli affari, doveva avere del denaro da investirvi: impiegava risorse individuali e ricavava profitti individuali. Rileviamo che, per questa via, l’enterprise syndicate metteva in contatto mafiosi appartenenti a diverse Famiglie, oltre che con soci, fornitori, clienti esterni: creando nuovi incroci e nuove alleanze. Lo stesso Buscetta ha raccontato un’esperienza personale, indicativa delle possibili contraddizioni che ne potevano derivare. Nel 1958 fu temporaneamente «posato», ovvero sospeso, dall’onorata società, per la sua tendenza a fare affari con «persone che non avevano la mentalità mafiosa» (i marsigliesi?), trascurando magari di coinvolgere i confratelli della Famiglia di Porta Nuova, cui era formalmente affiliato27.
E il traffico di droga? Buscetta ha affermato che non era un’attività di rilievo per i mafiosi siciliani, almeno per quanto riguarda gli anni cinquanta e sessanta. Ancor più decisamente ha negato di aver lui stesso commerciato in narcotici, ammettendo invece di aver contrabbandato tabacco. Si è del tutto mantenuto sulla negativa anche per quanto attiene ai boss di Cosa nostra americana: si trattava, spiegò, di uomini d’affari poco inclini a usare la violenza nonché restii a impegnarsi in settori propriamente illegali, cui era fatto «assoluto divieto» di commerciare in droga28. Io penso invece che si debba prestar credito agli inquirenti di allora, i quali erano convinti che siciliani e marsigliesi trattassero insieme di tabacchi e droga; indicando proprio Buscetta come uno dei più impegnati in entrambi i settori29. Quanto agli americani, abbiamo visto e vedremo che la questione era molto più complicata di quanto il supertestimone volesse far credere. Buscetta si è sempre mantenuto su questa linea nella sua testimonianza, anche a proposito delle riunioni con Bonanno cui sostiene di aver partecipato a Palermo nel 1957, e nelle quali a suo dire non si sarebbe parlato mai di droga30. Non ho bisogno di ribadire che invece tutte le ipotesi investigative sul viaggio siciliano del boss newyorkese portano sulle piste del narcotraffico. Stando a Buscetta, Bonanno insistette perché i siciliani costituissero – sul modello americano – una loro Commissione. Ne nacque in effetti una, anche se con competenza solo provinciale, e ad assumerne la guida fu Salvatore Greco «ciaschiteddu»31. Rilevo che la Commissione palermitana si mostrò ancor meno efficiente della consorella d’oltreoceano: non prevenne né risolse il sanguinoso conflitto interno, scoppiato nel 1962, che passò alla storia come «prima» guerra di mafia, tra la fazione capitanata proprio dai Greco di Ciaculli e quella emergente capitanata dai fratelli La Barbera, della quale lui stesso, Buscetta, faceva parte. I La Barbera ne uscirono disfatti. Uno di loro (Salvatore) finì vittima di «lupara bianca», ovvero il suo cadavere sparì e non venne mai ritrovato. L’altro (Angelo) fuggì a Milano, ma la lontananza dalla Sicilia non lo salvò da un attentato, nel quale rimase ferito. Se la cavò, finì prima al confino e poi in galera dove, alcuni anni più tardi (1975), venne assassinato. Buscetta, neanche a dirlo, nega che la droga abbia avuto un ruolo nel generare il conflitto32, come sostenevano gli inquirenti di allora; e chiama in causa una sequenza complicata di manovre del boss Michele Cavataio intesa a mettere l’una contro l’altra le altre fazioni. Le due spiegazioni potrebbero essere complementari. I siciliani fungevano da intermediari tra i produttori della materia prima (localizzati in Estremo o Medio Oriente), i raffinatori (che erano marsigliesi), i distributori e i consumatori (statunitensi). Ogni partita di droga in partenza dalla Sicilia veniva finanziata in diverse percentuali da vari gruppi mafiosi, ad esempio sia dai Greco sia dai La Barbera. Accadde che da una spedizione organizzata da Calcedonio Di Pisa, membro della Commissione vicino ai Greco, si ricavassero profitti molto inferiori alle aspettative. Nel tentativo di giustificarsi, Di Pisa dichiarò che gli acquirenti americani l’avevano truffato, e i Greco (la Commissione) presero per buona la sua versione. Ma i La Barbera la pensavano diversamente: ottennero da fonti d’oltreoceano una conferma dei loro sospetti che fosse stato proprio Di Pisa a imbrogliare le carte, e lo uccisero (dicembre 1962). Da qui la sequenza delle rappresaglie reciproche, che nessuna regola e nessuna Commissione riuscì a frenare33. La cinica previsione del vecchio boss, «Quannu ci sunnu troppi cani supra un ossu…», si rivelò corretta. La guerra andò avanti tra grandi clamori con raffiche di mitra esplose per le vie cittadine, auto lanciate al reciproco inseguimento, o imbottite di esplosivo per eliminare gli avversari. Palermo come Chicago anni venti, fu detto. Giunse il 30 giugno 1963, quando a Ciaculli un’Alfa Romeo Giulietta, imbottita di tritolo, esplose uccidendo sette tra carabinieri e artificieri. La strage produsse un’ondata repressiva di cui diremo più avanti. Diciamo ora che la Commissione fu sciolta, le Famiglie paralizzate. Fuggirono nelle Americhe parecchi esponenti della segreta società, a cominciare dai Greco: il superboss Salvatore Greco («ciaschiteddu»), rifugiatosi in Venezuela, il suo cugino omonimo, «l’ingegnere», e l’altro cugino Nicola Greco, che a quanto sembra passò poi negli Stati Uniti. Buscetta stesso nell’estate del 1963 lasciò il paese attraverso Milano e la Svizzera, munito di passaporto falso, per poi raggiungere il Messico insieme alla sua compagna. Seguiamo il suo racconto. In Messico passò a trovarlo Salvatore Catalano, mafioso originario di un paese del Palermitano (Ciminna), rifugiatosi nel 1963 a New York, che gli portò in regalo una somma in denaro, da parte del superboss newyorkese, don Carlo Gambino; che però Buscetta rifiutò preferendo far ricorso all’aiuto di corregionali che si trovavano in loco. Si fece fare anche una plastica facciale, per rendersi irriconoscibile. Nel 1964 lasciò il Messico e si portò in Canada. Poi passò il confine con destinazione New York, dove fu ospite del citato Catalano. Stabilitosi nella Grande Mela, avrebbe finalmente accettato una somma donatagli da Gambino per aprire una pizzeria e poi un’altra ancora, in modo da mantenere agiatamente se stesso, l’amante, la moglie, e i figli avuti dall’una e dall’altra. I suoi rapporti con lo stesso don Carlo e col fratello Paolo (da lui già conosciuto a Palermo), e anche con l’altro grande vecchio, Joe Bonanno, sarebbero consistiti in chiacchierate rilassanti nel comune dialetto siciliano. Avrebbe invece avuto difficoltà a intendersi con la gran parte degli altri mafiosi locali, per ragioni culturali (li trovava
così americani) o anche solo linguistiche (loro non parlavano l’italiano, lui parlava l’inglese piuttosto male); avrebbe più che altro frequentato siciliani giunti da poco come lui, e per le sue stesse ragioni. In sostanza, Buscetta non ci ha fornito credibili spiegazioni sulle motivazioni dei propri spostamenti MilanoCittà del MessicoTorontoNew York nel 196364, dei regali ricevuti da Gambino, e sui modi in cui in quella fase si guadagnava da vivere. Però, pur depistandoci, ci ha lasciato degli indizi. Ha ammesso ad esempio di essere arrivato a Città del Messico con una lettera di presentazione firmata dal genero della vecchia nostra conoscenza Nick Gentile, anche lui noto come narcotrafficante. Si è detto stupito che il palermitano di cui era stato ospite in Messico, arrestato per traffico di droga, lo abbia anni dopo indicato come capo della banda per conto della quale aveva esportato negli Stati Uniti eroina per centinaia di chili. Eppure, ha commentato, sembrava un così «brav’uomo»…34. Altri indizi possiamo trarre dal modo in cui Buscetta ha raccontato di un suo breve soggiorno ancora in Canada, a Montreal. Ha detto di aver incontrato casualmente alcuni esponenti della famiglia dei CuntreraCaruana: in particolare colui che conosceva come capo della Famiglia mafiosa di Siculiana35, Pasquale Caruana, e Leonardo Caruana detto Nanà. Pasquale, abitualmente residente a Caracas ma in visita in Canada per le feste natalizie, avrebbe colto l’occasione per coinvolgere il futuro pentito in un affare di contrabbando di «latte in polvere» (sic!). Buscetta avrebbe accettato non senza chiedersi «come facesse a sopravvivere una Famiglia i cui maggiori esponenti erano da tempo fuori zona», secondo che logica il boss di Siculiana vivesse a Caracas36. È improbabile che si sia posto davvero una domanda del genere. I membri della famiglia CuntreraCaruana erano contrabbandieri su scala intercontinentale, non di latte in polvere bensì di eroina. Per gestire questi traffici erano sempre in moto tra Canada, Venezuela, Brasile, Svizzera, Inghilterra, Italia centrale, non senza periodici ritorni nella natia Sicilia. Rappresentavano soci collocati in vari paesi e continenti: soprattutto siciliani, che procuravano loro la materia prima in Medio ed Estremo Oriente, e americani, che distribuivano la merce all’ingrosso o al dettaglio negli Stati Uniti. Disponevano di aziende e attività economiche «pulite» anch’esse collocate un po’ dappertutto, e finalizzate al riciclaggio del denaro accumulato con la droga. In conclusione. Buscetta commerciava in droga. Lo faceva in società con i Caruana e con Catalano. A questi stessi traffici si dedicava con qualcuno della corte di Carlo Gambino, se non personalmente col boss, in barba al decreto emanato dalla Commissione newyorkese. L’ha negato anche dopo essersi pentito? Evidentemente ha voluto occultare sino all’ultimo la natura degli affari suoi e dei suoi partner. 4. Filologia. Ripartiamo da Ciaculli, 30 giugno 1963, esplosione di una Giulietta al tritolo, morte di sette tra artificieri e carabinieri. Morì, tra loro, il tenente Malausa, che abbiamo conosciuto come abile investigatore. Il suo Rapporto c’entrò qualcosa con questa sua tragica fine? Non conosco indagini che abbiano affrontato il tema. Certo è che una cosa del genere non accadeva dall’uccisione dei sette carabinieri a Passo di RiganoBellolampo nell’agguato teso dalla banda Giuliano (1949). Ma allora l’azione era stata classificata come banditesca, mentre adesso era indubitabilmente mafiosa. Sembra che il bersaglio non fossero i militari, ma i Greco. L’attentato indicava comunque una nuova pericolosità, una crescente arroganza. Ora i benpensanti non poterono più ripetere il mantra: tanto si uccidono tra loro. Al momento dello choc di Ciaculli la Commissione antimafia, come sappiamo, esisteva già. Di fatto però solo dopo venne riunita. Di seguito, l’opinione pubblica oscillò tra ottimismi e pessimismi, dilemma bene espresso dal titolo di un libro edito nel 1965 a cura di un «Gruppo Sicilia domani»: Antimafia: occasione perduta? Qualche risultato venne in effetti raggiunto. In quello stesso 1965 (31 maggio) fu varata una legge, la prima espressamente rivolta a perseguire gli appartenenti ad «associazioni mafiose», che ripropose il concetto antico delle «misure preventive», insomma il confino di polizia. La polizia si era già attivata, e nel 196465 era stato messo nel mirino un gran numero di mafiosi delle diverse fazioni. Molti di loro si diedero latitanti (abbiamo già detto di quelli scappati in America), altri aspettarono il giudizio in galera. La leadership mafiosa, l’ultima generazione dei Greco e dei Bontate, nonché i La Barbera, i Buscetta, i Leggio (tutti nati tra il 1923 e il 1928), incontrò per la prima volta un antagonista che nel corso degli anni cinquanta si era come eclissato: la repressione statale mossa non da spirito di ordinaria amministrazione ma da specifica intenzionalità politica. In Italia si attivava la Commissione antimafia, negli Stati Uniti come sappiamo erano in corso le sedute della Commissione McClellan (196365), nel corso delle quali Valachi non solo introdusse nella discussione pubblica l’espressione Cosa nostra, ma si soffermò anche sugli eventi remoti che avevano portato alla nascita dell’organizzazione: la guerra castellammarese del 193233, la vittoria prima e poi la sconfitta di Maranzano, l’avvento di Lucky Luciano, il padre fondatore. Nel suo esilio napoletano, proprio Luciano si era deciso a parlare di quelle stesse (e di altre) cose, sia pure con tutt’altri accenti e non con le autorità: bensì col cineasta Martin Gosch, in
vista di un film da realizzarsi sulla sua vita. Il progetto non venne ben accolto dai vecchi amici newyorkesi37, e l’ex boss dovette spiegare a Gosch che dovevano ripiegare su un’intervista da inserirsi in un libro, il quale però andava pubblicato dieci anni dopo la sua morte. Luciano morì nel gennaio 1962, e il volume venne in effetti pubblicato nel 1974 con il titolo The Last Testament of Lucky Luciano38. Noi l’abbiamo già ampiamente utilizzato. Dunque Luciano e Valachi, gangster italoamericani non in contatto tra loro, collocati in due diversi continenti, rievocarono in uno stesso momento uno stesso remoto passato. Non lo avrebbero fatto, io credo, se la situazione non si fosse rimessa in moto nel presente. E lo stesso possiamo dire per il versante siciliano. «L’Ora» pubblicò tra l’altro, nel gennaio 1962, una fonte di cui conosciamo l’importanza, la confessione del dottor Allegra del 1937, per la cura di De Mauro. E fu in quell’ambito che vide la luce l’autobiografia di Nick Gentile. Anche qui c’era, a monte, un’iniziativa delle autorità. Nel 1958 il settantatreenne «carrettiere» aveva scritto una lettera ai suoi vecchi amici newyorkesi riesumando (anche lui!) memorie lontane della guerra castellammarese del 193233, ricordando il ruolo da lui svolto nel fronte antiMaranzano «eseguendo scrupolosamente» gli ordini superiori, «come un soldato svizzero», minacciando tra le righe qualche rivelazione. Non so se la lettera sia stata intercettata o se dall’inizio si trattò di una provocazione in cui Gentile era d’accordo con il Narcotic Bureau. Sta di fatto che la collaborazione portò il vecchio Nick alla stesura di un testo autobiografico che tutt’oggi si trova negli archivi Fbi. Però c’è anche un’iniziativa de «L’Ora», ovvero di Felice Chilanti, suo cronista di punta e di razza39. Questi prima intervistò Gentile e poi aggiunse l’intervista al testo destinato alle autorità statunitensi, creando l’insieme che va a costituire il libro che abbiamo tante volte utilizzato come fonte40. L’intervista rappresenta in un certo senso un confronto tra quell’antica mafia e una nuova coscienza antimafia. Gentile sostiene il concettobase suo e dei suoi: l’onorata società serve a evitare il bellum omnium contra omnes, sa regolare la violenza, compresa la propria. Dipinge il vero capo come colui che sa imporre il rispetto della legge mafiosa e, prima di ricorrere alla violenza, «la trattativa per dissipare i malintesi, la mediazione saggia ed energica fra le parti in lotta cruenta fra di loro»41. Chilanti gli obietta che, stando al suo stesso racconto, i mafiosi sistematicamente violano le loro leggi comportandosi da «belve sanguinarie»; osserva che la vera protagonista della sua storia è «la morte, […] momento per momento»42. E Gentile finalmente prende atto delle repliche dei fatti all’ideologia. Finisce per chiamare in causa non più le regole, ma la fortuna – «Sono stato fortunato […], tanto che sono ancora vivo, mentre quasi tutti gli altri sono morti»43. Nel 1961 Sciascia pubblicò Il giorno della civetta44. Un romanzo sì, ma pieno di riferimenti alla concretezza della questione mafiosa. Sullo sfondo c’è il precedente della repressione fascista, molto inquietante per un democratico: Sciascia sottolinea, magari controvoglia, che è stata efficace proprio perché non condizionata dalla necessità di rispettare i diritti politici e civili. Il passato recente, e per larga parte il presente, è invece quello del regime democristiano, che viceversa convive pacificamente, e protegge. E i due personaggibase del libro rappresentano una contrapposizione tra antimafia e mafia che dev’essere nuova. Solo che stavolta a rappresentare il primo termine del binomio è un uomo delle istituzioni, il capitano dei carabinieri Bellodi, emiliano ed ex partigiano: in quanto tale consapevole del peso del precedente fascista, e proprio per questo impegnato a far capire a tutti (anche ai suoi) che non dev’essere quello il modello, che bisogna rispettare la Costituzione. Bellodi pensa che sia necessario incastrare non solo il capomafia don Mariano ma anche i suoi protettori altolocati. «Bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. […] Sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari: e confrontarne quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso»45. Sciascia raffigura don Mariano come un uomo antico, sottile, cinico. E la catalogazione del carattere umano che l’autore attribuisce al suo personaggio è divenuta proverbiale. Don Mariano riconosce che il suo antagonista (sul versante delle istituzioni) fa parte come lui (sul versante della mafia) della piccola minoranza dei veri uomini, quelli che non si piegano; il resto è formato da mezz’uomini e ominicchi, o peggio («con rispetto parlando») di pigliainculo e quaquaraquà46. C’è un reciproco riconoscimento che a molti bacchettoni dell’antimafia di qualche anno dopo non è piaciuto. Ma insomma Sciascia era un narratore: dipingeva personaggi e ne raccontava l’ideologia. In un’opera più tarda, avrebbe annotato con interesse un testo distribuito appunto nel 1961 agli amici per celebrare il boss di Riesi, Francesco Di Cristina, in occasione del suo funerale. Così recitava: Fece vedere al mondo quanto potesse/ un vero uomo/ […] operò sulla terra/ imponendo ai suoi simili/ il rispetto dei valori eterni/ della personalità umana/ nemico di tutte le ingiustizie/ dimostrò/ con le parole e con le opere/ che la mafia sua non fu delinquenza/ ma rispetto della legge dell’onore/ difesa di ogni diritto/ grandezza d’animo47.
Già abbiamo visto, nelle conversazioni dell’ufficio di Rizzo De Cavalcante, New Jersey, come anche sull’altro versante dell’oceano i mafiosi si mantenessero su questo sentiero ideologico. Lo vedremo ancora. Rileviamo, nell’epitaffio di Di Cristina, l’uso senza remore della parola mafia, più spesso dai mafiosi evitata, perché adoperata dal nemico e con intento criminalizzante. Viene significativamente messa in connessione con l’idea di onore e di «vero uomo», come in Pitrè. Seguendo questa traccia arriviamo a Filologia, novella scritta da Sciascia nel 1964, e in quello stesso periodo ambientata. Racconta del dialogo tra due personaggi che, per comodità espositiva, chiamerò il notabile (di condizione sociale più elevata, più colto, più vecchio) e il capocosca (di condizione sociale più modesta, privo di istruzione formale, più giovane). Il notabile ammaestra il capocosca nell’eventualità che sia interrogato dalla Commissione antimafia. Dice: quando ti sarà chiesto che cos’è la mafia, dovrai fare ricorso a quella «scienza delle parole», o (appunto) filologia, che per tanti anni ha lavorato non a chiarire il significato della parola mafia, ma ad occultarlo; e tutt’oggi può fornire il suo contributo, «alla confusione, si capisce». Dovrai in particolare fare riferimento agli argomenti di Pitrè48. Noi sappiamo che, per quasi un secolo, in età sia liberale che fascista che repubblicana, avvocati e protettori dei mafiosi avevano citato il grande etnologo appunto per «confondere» i loro interlocutori, sostenendo: la mafia non esiste, ma se esistesse sarebbe una cosa diversa da quella che voi dite; sarebbe non criminalità ma cultura; non organizzazione ma comportamento. Abbiamo visto questi argomenti riproposti da Luciano Liggio in persona. Torniamo alla novella. Il capocosca ascolta con rispetto, ma anche con un po’ di insofferenza. Ritiene che la sua scienza, quella che insegna come fare i soldi e come usare la violenza, sia più importante della scienza delle parole. Il notabile ribatte: se troppo facciamo ricorso alla violenza ci scopriremo, lasciamo stare dunque le Giuliette al tritolo, «questi mezzi da terroristi». Il terrorismo cui pensa è quello altoatesino (o sudtirolese che dir si voglia, l’unico allora in azione nel nostro paese), che definisce «fascista». Noi non siamo fascisti, precisa, e tanto meno anarchici: «siamo persone d’ordine». Ma il capocosca non è convinto, e risponde: «Funzionava però la dinamite, funzionava»49. Siamo al concettochiave: la violenza funziona nel dar voce al protagonismo dei «ragazzi», alla loro voglia di potere. Funziona, e pazienza se rivela la natura mistificatoria del complesso ideologico costruito nel secolo precedente. Tiriamo le somme. Lucky Luciano, Valachi e Gentile nel 196263 forniscono informazioni essenziali per ragionare della mafia a chiusura di una fase storica, come si dice post factum. L’anno dopo Sciascia ci introduce nella maniera più acuta alla fase successiva. Assume come discrimine da un lato la bomba di Ciaculli, e dall’altro la costituzione della Commissione antimafia. Registra una dialettica interna alla mafia ed esterna ad essa: cioè l’avvio di un meccanismo sfidarisposta con lo Stato del quale dobbiamo tenere conto, se vogliamo capire l’escalation successiva. 5. Senza unghie. Negli Stati Uniti, le rivelazioni di Valachi non furono da tutti prese sul serio. Non pochi intellettuali non conformisti pensarono a una montatura securitaria e xenofoba dell’Fbi. Le organizzazioni rappresentative della comunità italiana promossero proteste di varia natura ispirate a un malinteso «orgoglio etnico». In Sicilia, come sappiamo, c’erano sempre stati avvocati pronti a sostenere che le autorità sbagliavano a ridurre la mafia a criminalità, mentre si trattava di un problema culturale; in molti continuarono a farlo. La bomba di Ciaculli rappresentò un trauma e un punto di discontinuità. È vero anche, però, che venne riassorbito innanzitutto dal punto di vista politico. Lima, che aveva dovuto abbandonare la guida dell’amministrazione municipale palermitana nel 1963, tornò a fare il sindaco tra il 1965 e il 1968. Passava per suo avversario politico il suo successore Franco Spagnolo, ex monarchico passato alla Dc, ma non certo sulla questione mafia. Nel settembre del 1969 dichiarava al «Corriere della Sera»: «la Commissione antimafia cerca di scoprire una cosa che non c’è», che «non esiste, nel modo più assoluto». A suo dire era solo un modo di «denigrare» la città, che avrebbe fatto scomparire «quel poco di turismo che c’è»50. Dopo di lui (1970), Ciancimino divenne sindaco, sia pure per un breve periodo. E c’erano non soltanto avvocati, ma anche magistrati disposti a dare il loro contributo di «confusione» evocando Pitrè. Cito una sentenza penale del 1964: «Anche i mafiosi hanno i loro affetti, anche loro vivono la loro vita di relazioni che può essere ispirata anche a principi di socialità e liceità se non anche di onestà. Non è l’uomo che qualifica l’azione, ma l’azione che qualifica l’uomo»51. Per inquadrare quest’ambiente facciamo ricorso a un aureo libretto di Giuseppe Di Lello, nato in Abruzzo nel 1940, che prese servizio in magistratura nel 1971, prima destinazione in Sicilia. Si intitola Giudici. Di Lello ricorda come «sconvolgente» il primo impatto con i colleghi palermitani di un giovane magistrato di sinistra come lui. In prospettiva, ha un po’ rettificato il giudizio. «Oggi posso dire che i giudici palermitani non erano né sono peggiori o migliori di quelli di altre città, figli della loro società dominata da una sola borghesia identica nella sostanza alle altre, con la loro sola specificità di essere mafiosa»52. La specificità non era da poco. Rendeva
particolarmente incongruo il criterio allora corrente tra gli inquirenti: indulgenza per i delitti dei «colletti bianchi», specie quando vi era coinvolto il potere politico, severità verso quelli degli altri. E si risolveva in una qualche esasperante «pigrizia giudiziaria». Vanno qui ricordate le polemiche del tempo contro il procuratore palermitano Pietro Scaglione, che resse l’ufficio per un lunghissimo periodo, tra il 1962 e il 1971. Polemiche dell’opposizione di sinistra, de «L’Ora» in particolare che, anche per le amicizie del procuratore in campo democristiano, lo assunse a rappresentante di un potere giudiziario cieco e sordo. Polemiche anche interne, di ambiente giudiziario e poliziesco, che sono di più difficile lettura. Di Lello corregge il tiro. Parla di «strumentale denigrazione» di Scaglione, prende atto che il procuratore si batté nel 1965 per un inasprimento delle misure antimafia, che lo stesso Buscetta lo ha poi ricordato come intransigente avversario dei mafiosi53. In effetti nelle indagini successive non sono emerse ombre sui suoi comportamenti. Nella sua disamina, Di Lello conferma le difficoltà nel portare in giudizio, e condannare, la stessa mafia militante. Fa il caso dell’inchiesta nata dal meeting del 1957 all’Hotel delle Palme: cominciò male per l’approccio distrattamente burocratico dei poliziotti presenti; venne rivitalizzata dagli input forniti dagli americani e dall’attivismo del giudice istruttore, col coinvolgimento dei castellammaresi, Frank Garofalo & C.; fu «affondata» nel 1968 dal processo risoltosi in generale assoluzione. Il giudice istruttore che più si distinse nel mettere sotto pressione la mafia fu Cesare Terranova (19211979). Fu lui a promuovere l’istruttoria alla base del processo (celebrato per legittima suspicione a Catanzaro) che nel 1968 portò alla sbarra l’establishment della mafia palermitana in massa, richiamando i precedenti di quelli celebratisi in periodo fascista. Ne derivarono alcune pesanti condanne: citiamo quelle di Pietro Torretta e Angelo La Barbera, e quelle di Buscetta e Salvatore Greco (che erano latitanti). Ma ci furono anche 44 assoluzioni e altre condanne miti, alcune delle quali già scontate con la scarcerazione preventiva. La maggior parte dei capimafia poté tornare subito al centro della scena54. Il saldo complessivo fu negativo, se consideriamo anche l’altro processo, coevo, derivante da sentenze istruttorie stilate da Terranova: quello contro i corleonesi. Traiamo alcuni spunti polemici particolarmente azzeccati dalle sentenze di Terranova. Leggiamo: la mafia «non è uno stato d’animo, ma è criminalità organizzata, efficiente e pericolosa, articolata in aggregati o gruppi o “famiglie” o meglio ancora “cosche”»; «esiste una sola mafia, né vecchia né giovane, né buona né cattiva, esiste la mafia che è associazione delinquenziale»; troppi le attribuiscono «una funzione addirittura di equilibrio o, comunque, positiva nella società, in sostituzione o ad integrazione dei poteri carenti dello Stato»; troppi gli «atteggiamenti indulgenti e sentimentali, a volte autorevoli, pervasi di palese simpatia verso la mafia o la vecchia mafia»55. In positivo, per confutare la mitologia dei mafiosi onorati e inflessibili, Terranova ricorda i processi del periodo fascista, le «bassezze» «degli imputati che gareggiavano nelle confessioni, nelle accuse, nelle ritorsioni e nelle implorazioni di clemenza e perdono»56. Queste citazioni, e lo stesso reverente richiamo a «S. E. Giampietro», possono apparire sorprendenti in un uomo come lui, orientato a sinistra. Servivano ad agganciarsi all’unico precedente disponibile di repressione, e all’idea di mafia come associazione a delinquere che l’aveva reso possibile. Detto della forza dell’argomentazione, bisogna anche dire della sua debolezza. Sappiamo che nel periodo fascista, come già nel periodo liberale, la repressione aveva avuto la sua punta di lancia nelle misure extragiudiziali di polizia; e non a caso fu quel metodo a essere riproposto nella legge del 1965, ma in forma enormemente attenuata, e nonostante la sua dubbia costituzionalità. Invece i risultati specifici della gran parte dei processi fascisti erano stati modesti, e modeste le condanne. Anche nei due grandi processi istruiti da Terranova, lo strumentobase rimaneva quello del periodo fascista: il rapporto di polizia con le sue fonti confidenziali che tuttora non volevano né potevano «essere nominat[e]» in giudizio57. Logico che in età repubblicana quel tipo di «prova» risultasse in tribunale ancor più fragile. Contraddittorio anche il bilancio della Commissione antimafia. Il suo presidente, il democristiano Pafundi, prima annunciò che nei suoi archivi si andava accumulando una «polveriera», poi tardò a farla esplodere, finché alla fine della legislatura (1968) la montagna partorì il topolino di poche, anodine pagine di relazione. Un’occasione mancata, ribadì Michele Pantaleone, stavolta senza punto interrogativo. Però nella legislatura seguente si creò un qualche accordo tra il presidente, il giovane avvocato democristiano Francesco Cattanei, e il vecchio leader comunista Li Causi. Nel 1972 fu pubblicata un’interessante relazione finale ma soprattutto venne avviata la pubblicazione di una documentazione di grande qualità e peso, decine e decine di volumi. Il convergere nelle aule parlamentari di «esperti» interrogati dalla Commissione aumentò di certo la sensibilità al problema, ed elevò a problemi politici i problemi tecnici che ostacolavano la lotta alla mafia. Voglio ricordare gli interventi dell’allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, dal 1966 al comando della legione dei carabinieri di Palermo, e del suo fidato collaboratore Giuseppe Russo, capo dei servizi investigativi. (Avevano in comune anche un nemico come Liggio, ed entrambi sarebbero finiti uccisi proprio dai corleonesi). Dalla Chiesa.
Sapere chi sono i boss della mafia «non è difficile, in quanto i nomi sono sulle bocche di molti». Gli inquirenti utilizzano anche un metodo giusto, quando seguono il filo indicato da genealogie, politiche matrimoniali, parentele, comparati («che valgono più delle parentele») e zone di provenienza. Ma questo rappresenta una prova valida dal punto di vista giudiziario? No. Dunque «siamo senza unghie ecco […]; è difficile per noi raggiungere le prove»58. Russo. «Quando sono notizie fiduciarie acquisite da noi, la notizia fiduciaria non ha peso; le intercettazioni [telefoniche], per legge, non hanno potuto essere sfruttate; la rivelazione non viene creduta. Che cosa si deve fare? Aspettare che il mafioso si confessi responsabile di determinati reati? Questo non lo farà mai»59. Così la mafia restò impunita e ben collocata nel potere locale, in aree non periferiche della macchina politica e del mondo degli affari, guadagnò in fiducia nel confronto con le debolezze dell’antimafia – e qui intendiamo il termine in senso lato, come insieme di opinione pubblica, forze politiche, istituzioni statali. E si riorganizzò. Nel dicembre 1969 un commando di killer travestiti da poliziotti fece irruzione negli uffici di una società edilizia ubicata a Palermo, in viale Lazio, uccidendo quattro persone tra cui il già citato boss Cavataio, che a quanto sembra pagò conti risalenti al 1963. Sappiamo, da rivelazioni successive, che il gruppo di fuoco era composto da uomini delle due fazioni emergenti: due corleonesi, tra cui Bernardo Provenzano, due della Famiglia di Santa Maria di Gesù. Di seguito, Cosa nostra istituì un triumvirato composto da Salvatore Totò Riina, Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. Riina rappresentava i corleonesi in assenza di Liggio, latitante nell’Italia settentrionale, dove aveva messo su una fruttuosa industria dei sequestri di persona; assunse la guida della gang nel 1974, quando Liggio finì in prigione. Stefano Bontate era il successore alla testa della Famiglia di Santa Maria di Gesù del padre, don Paolino, morto sempre nel 1974: rampollo di agiata e illustre famiglia mafiosa, aveva un look elegante, tanto da essere detto «il principe di Villagrazia». Gaetano Badalamenti (19232004), detto Tano, era un boss paesano (di Cinisi), già negli anni cinquanta tra i grandi protagonisti sia del contrabbando di tabacchi sia del narcotraffico di scala transatlantica. Metteva qui a frutto un’esperienza giovanile americana, la rete di parentele che aveva a Detroit e, come meglio vedremo più avanti, buone relazioni a Brooklyn nella Famiglia Bonanno. Rilevanti i suoi contatti nei piani alti della mafia del Trapanese. Vediamoli espressi graficamente nella figura 12. Facciamo attenzione qui ai nomi di Cola Buccellato, nato a Castellammare nel 1902, e SalvatoreTotò Minore, nato anche lui a Castellammare nel 1923 e da sempre residente a Trapani. Il lettore ricorderà il modo in cui in tempi ormai lontani le sorti dei castellammaresi Salvatore Maranzano e dello stesso Joe Bonanno, transitati in America, si fossero intrecciate a quelle di altri mafiosi castellammaresi rimasti in patria, che si chiamavano appunto Buccellato e Minore. La coincidenza potrebbe essere significativa. I Rimi rappresentavano al meglio il concetto che nell’Ottocento veniva reso con l’espressione «Alta mafia». Il lettore ricorderà il loro ruolo negli intrighi postbellici che avevano portato all’eliminazione del bandito Giuliano. Badalamenti, sempre nel 1970 (luglio), era a Milano insieme a quattro altri capimafia, due dei quali erano appositamente venuti dalle Americhe, dove erano emigrati nel 1963: Salvatore Greco «ciaschiteddu» e Tommaso Buscetta. C’erano anche il catanese Pippo Calderone e il palermitano Gerlando Alberti.
Figura 12. La rete di alleanze di Gaetano Badalamenti in Sicilia.
Nella sua successiva testimonianza, Buscetta ha proposto questa spiegazione: all’ordine del giorno della riunione ci sarebbe il tentativo di colpo di Stato neofascista promosso dal principe Junio Valerio Borghese, cui Cosa nostra sarebbe stata invitata a partecipare da qualche misteriosa entità. L’intera storia mi è sempre sembrata un po’ improbabile ma gli inquirenti, sulla base di diverse testimonianze, le hanno dato credito e io non ho elementi per smentirla. Pare comunque più verosimile che quei narcotrafficanti si fossero riuniti per discutere di narcotraffico, nel momento in cui le autorità federali stavano distruggendo la cosiddetta French Connection, ovvero una grande linea di rifornimento del mercato americano dell’eroina che passava direttamente dalla Francia. Che abbiano parlato del come sfruttare la nuova quota di mercato a disposizione dei siciliani, di come coinvolgere i cugini d’America senza troppo comprometterli.
A Badalamenti venne affidata nel 1973 la guida di una ricostituita Commissione provinciale, segnale forse di una volontà di valorizzare i suoi contatti siculoamericani. Seguirono però segnali meno decifrabili, sequestri di alcuni familiari di imprenditori siciliani in qualche modo collegati ad ambienti mafiosi, alcuni dei quali (i più) vennero rilasciati dietro il pagamento di un riscatto, mentre altri ci lasciarono la pelle. Destò impressione, sembrò la violazione di un codice onorifico, il rapimento di una donna, moglie di un imprenditore borderline60. Seguì immediata la vendetta, lo sterminio dei presunti membri della gang dei rapitori. In realtà il vero codice che veniva violato era quello, basato sulla rinuncia al sequestro di persona, che già nel remoto periodo delle origini aveva segnato il patto tra mafia e classi dirigenti. A quanto sembra la Commissione di Badalamenti emanò un decreto che proibiva i sequestri di persona in territorio siciliano. Questo però non impedì che nel 1975 si consumasse quello più clamoroso, che colpì Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo. Non tornò mai a casa. Più tardi, messo sotto accusa dalla magistratura, Salvo avrebbe detto: Fino al sequestro di mio suocero Luigi Corleo, avevo ritenuto di aver instaurato una tranquilla anche se scomoda convivenza con tali organizzazioni ritenendo a torto che fosse sufficiente comportarsi bene [sic!] per non avere problemi con chicchessia61.
Comportarsi bene non bastò ai Salvo perché c’era un crescente conflitto tra le fazioni mafiose. Segnaliamo la tesi di Buscetta, secondo il quale il sequestro sarebbe stato promosso dai corleonesi per sminuire la leadership di Badalamenti e anche di Bontate, il cui padre (come si ricorderà) era stato strettamente connesso ai Salvo. Noi possiamo ipotizzare che qualcosa stesse cambiando anche sulla frontiera tra mafia, finanza e Dc, quella presidiata dagli esattori di Salemi. Che qualcosa stesse mutando, che la mafia fosse interessata sempre più a quello che avveniva nello spazio pubblico, lo si era visto con il rapimento e l’assassinio di De Mauro, il giornalista de «L’Ora». E qualcosa di ancor più innovativo si era registrato nel maggio 1971, data dell’assassinio del procuratore Scaglione e del suo autista. L’assassinio di Notarbartolo (1893) e quello di Petrosino (1909) rappresentavano sì dei precedenti, ma troppo remoti. La contrapposizione frontale della mafia ai poteri dello Stato rivelò uno sviluppo tragicamente innovativo, il quale peraltro non provocò reazioni – come invece aveva fatto l’eccidio di Ciaculli. Proprio nel 1971 Sciascia pubblicò Il contesto, un romanzo che raccontava una sequenza di assassinî di giudici, dovuti a un complotto politico, non mafioso. Lo scrittore negò di aver preso spunto dal delitto Scaglione, eppure la connessione prese forma naturalmente nella mente di molti. Cinque anni più tardi (1976), Francesco Rosi trasse dal romanzo un film. Era intitolato Cadaveri eccellenti: due parole con cui vennero definite le vittime della successiva, terribile escalation mafiosa. 6. Altre rivelazioni. Leonardo Vitale (19401984) veniva da antica famiglia di mafia, nel duplice senso della cosca e del gruppo di consanguinei, della borgata palermitana di Altarello di Baida. Suo zio, Giovan Battista Vitale, capo del clan, era tra i boss elencati nel Rapporto Malausa, dove veniva definito «costruttore edile [che] in tal campo commette abusi e soprusi sia per l’acquisto di terreni edificabili sia per la vendita di appartamenti»62. Procedendo all’indietro nel tempo, troviamo membri della famiglia Vitale di Altarello indicati come capimafia nei processi fascisti, e prima ancora nel Rapporto Sangiorgi. Siamo nello schema di continuità storica che ben conosciamo: almeno dalla fine dell’Ottocento, nella borgata comandavano loro. Per tutto questo, Leonardo sembra un predestinato. Non lo era se ci riferiamo allo schema culturale imperniato sull’«ipertrofia dell’io», sul machismo, sul carisma, attraverso il quale i mafiosi leggono se stessi e sono letti da tanti esegeti. Era infatti venuto su come un ragazzo pieno di fragilità emotive, orfano fin da piccolo, affascinato dalla figura dello zio cui doveva dimostrare di essere «uomo» anche per respingere il sospetto di omosessualità che covava in se stesso63. Un’osservazione. Il suo caso indica come l’adeguamento ai modelli virili possa per un mafioso rivelarsi problematico quanto quello di una persona «normale», e forse di più. Come ha scritto la sociologa Renate Siebert, «i valori mafiosi (o dovremmo più correttamente parlare di disvalori?) appaiono per molti versi l’esasperazione dei valori che fondano l’identità maschile nella nostra civiltà. La mascolinità, erroneamente fraintesa come “naturalmente” data, appare nei fatti un obiettivo assai duro da conquistare»64. Leonardo reagisce con un grande conformismo nei confronti dell’ambiente e del gruppo di mafia che lo circonda. Diviene mafioso perché vuole sentirsi gregario. Per dimostrarsi all’altezza uccide prima un cavallo, poi un essere umano, senza conoscere altro perché se non che questo si vuole da lui. Siamo nel 1960, Leonardo ha vent’anni. Qualche tempo prima lo zio ha forse inteso trattenerlo sull’orlo dell’abisso: «Vedi le mie mani? – ha detto. – Sono
sporche di sangue e quelle di tuo padre lo erano ancor di più». Poi è lo stesso zio a commissionargli il primo assassinio, a portarlo per premio a caccia65. Subito dopo, Leonardo pronuncia il giuramento descritto da tante fonti ottocentesche e novecentesche a noi note, viene punto (quella è la più classica mafia dei giardini) non con uno spillone ma con una spina di arancio amaro, brucia il santino, bacia sulla bocca i confratelli. Si tratta, gli viene detto, del «rito dei Beati Paoli». Entra a far parte di un’organizzazione radicata in quel territorio attraverso le generazioni, che poi sono anche quelle della sua famiglia di sangue. Gli si chiede di annegarsi nel gruppo. Facciamo qualche esempio delle sue attività successive. Una volta dà fuoco all’automobile del direttore di un cinema, un calabrese colpevole di non lasciarlo entrare gratis. Questa è l’unica occasione in cui prende un’iniziativa personale; per il resto i suoi delitti fanno parte del quotidiano di un’entità collettiva, la Famiglia AltarelloPorta Nuova guidata da Pippo Calò. Bisogna ottenere posti di guardiano presso giardini e cantieri, incassare il pizzo, fare telefonate e scrivere lettere minatorie, avvelenare i cani da guardia e dar fuoco a qualche macchinario, se necessario ammazzare con la vecchia lupara da dietro il muro di cinta o, più modernamente, stando in piedi in una Topolino dopo averne aperto la capote. Come i loro padri e i loro nonni, Vitale e i suoi uccidono generalmente altri facinorosi, il ladro di limoni (sic!), il concorrente nella gerarchia mafiosa. Accade che Leonardo sia coinvolto in qualche intrigo di maggior sottigliezza. Lo zio gli spiega che il boss Pippo Calò, non potendo arrivare a Ciancimino, che si trova «nelle mani» di Totò Riina, progetta di sequestrarne il figlio: non tanto per fare qualche soldo, ma per aprirsi la strada in quella direzione. «Era previsto che, dati i loro rapporti, il Ciancimino si sarebbe rivolto al Riina e (esso Calò) avrebbe potuto a sua volta fare il gioco del mediatore, in realtà facendo, invece, i nostri interessi»66. Nel 1972 Leonardo Vitale fu arrestato per sequestro di persona, e rilasciato. Non c’erano prove. Nel 1973 si presentò alla polizia e disse tutto: dei delitti commessi da lui e dagli altri della sua Famiglia, della struttura di Cosa nostra, dei suoi segreti giuramenti. Lo fece spontaneamente, senza concordare la propria collaborazione con le autorità, di modo che le sue rivelazioni ci appaiono più genuine di quelle di Valachi (di cui abbiamo detto) e anche di quelle di Buscetta (di cui man mano stiamo dicendo). Lui stesso ci appare un pentito vero. Rinchiuso in manicomio e dichiarato pazzo, mostra in quella sua pazzia un metodo e un sapore di verità: si cosparge di escrementi per purgarsi dal peccato, brucia i vestiti acquistati col prezzo del sangue, conserva il proprio affetto allo zio ma maledicendo il loro comune retaggio. Riflette sulla propria incapacità di percepirsi come singolo: «non mi è importato niente di me, della mia vita […] ossia davo importanza solo agli altri», «ammiravo tutti gli altri». È consapevole di soffrire di un «male psichico» provocatogli da un «male sociale» e da un «male politico»: la mafia. Si convince del carattere menzognero della mitologia mafiosa. Io sono stato preso in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino. Poi è venuta la mafia con le sue false leggi, coi suoi falsi ideali: combattere i ladri, aiutare i deboli, e però uccidere. Pazzi! I Beati Paoli, Coriolano della Foresta, la massoneria […], Cosa nostra mi hanno aperto gli occhi su un mondo fatto di delitti e di tutto quanto c’è di peggio perché si vive lontano da Dio e dalle leggi divine67.
Però l’occasione offerta da Leonardo Vitale andò perduta. «Valachi di borgata», fu chiamato con tono svalutante, come se le borgate su cui si ironizzava non fossero quelle palermitane, cuore e luogo d’origine dell’infezione mafiosa. Poca attenzione fu prestata alla sua testimonianza sui rituali e la struttura interna di Cosa nostra. A suo tempo, d’altronde, non aveva fatto grande impressione (in Italia) quella di Valachi. Era come se la mente si ritraesse da quelli che la modernità vedeva come residui arcaici, e che invece erano parte integrante del presente. Intorno al 1973 la Repubblica italiana era davvero senza unghie. Queste generali remore ideologiche aggravavano le difficoltà specifiche del processo penale di valutare e perseguire la mafia in quanto organizzazione. Era forse un reato pungere un dito e bruciare un santino? L’autorità non sostenne Vitale e anzi alla fine il tribunale condannò a una dura pena detentiva lui (e suo zio), non i potenti della mafia e della politica che aveva denunciato. Quando uscì dal manicomio criminale, qualcuno volle dimostrare che non era poi così pazzo. Un commando mafioso lo uccise nel 1984 – proprio nell’anno in cui Buscetta confermò tante delle sue rivelazioni. 1 Nonché del fratello di costui, Filippo, e di Willie Moretti, cognato di Costello e suo luogotenente. 2 Istruttoria Garofalo, p. 908. 3 Il gioco si faceva duro. Qualche mese prima, Costello aveva salvato per miracolo la pelle in un attentato e si era ritirato lasciando campo libero a Genovese. 4 FBI Files, Mafia Monograph, Section X, p. 94. 5 Kennedy 1960, pp. 3245; Bernstein 2002, p. 9. 6 E. Perlmutter, Valachi Names 5 as Crime Chiefs, in «New York Times», 2 ottobre 1963.
7 Selvaggi 1957, p. 67. 8 Gambetta 1992, pp. 178 sgg. 9 Wolf DiMona 1974, p. 12. 10 McClellan Hearings, p. 80. 11 Maas 1972, p. 33. 12 De Cavalcante Tapes, ad es. p. 4.24. 13 Ivi, ad esempio alla p. 4.29. 14 Abadinsky 1981; Teresa 1973, p. 86. 15 Almeno questa è la stima proposta da Raab 2007. 16 McClellan Hearings, pp. 219, 226, 96. 17 De Cavalcante Tapes, pp. 3.90, 4.26. 18 Ivi, p. 1.1517. Il vecchio boss si chiamava Joe Bruno. 19 Si veda ad esempio Anderson 1965; o Cressey 1969. 20 McClellan Hearings, pp. 1157. 21 Abadinsky 1981, p. 33. 22 Pileggi 1987, pp. 401. L’associato, Henry Hill, non poteva aspirare al rango di affiliato perché di padre irlandese (anche se di madre siciliana). 23 Anche nella Famiglia Profaci c’erano stati clamorosi contrasti, per l’emergere di una fazione dissidente guidata da colui che era stato il killer prediletto del vecchio boss, «crazy» Joe Gallo. Gallo salvò la vita grazie all’intervento della polizia; nondimeno il tribunale lo condannò a una lunga pena detentiva per estorsione. 24 La conversazione è riportata in Raab 2007, p. 273. 25 Cfr. ancora ibid. Dunque, il coinvolgimento di tanti mafiosi nel commercio e nello spaccio non significa che la proibizione fosse un «mito», come ritiene Jenkins 1992. 26 In due versioni ufficiali, Testimonianza Buscetta A e Testimonianza Buscetta B, e in due volumiintervista, Biagi 1986 e Arlacchi 1994. 27 Testimonianza Buscetta B, I, p. 41. 28 Testimonianza Buscetta A, p. 251. 29 Si veda ad esempio, sui suoi rapporti con il marsigliese Pascal Molinelli, Rapporto GDF 195563, p. 232. 30 Biagi 1986, pp. 147 sgg.; Arlacchi 1994, pp. 60 sgg. Qui ci si riferisce in particolare a un incontro che si sarebbe svolto non all’Hotel delle Palme, bensì in un ristorante cittadino. 31 Buscetta la definisce un’assoluta innovazione. Anche qui, è contraddetto dai molti precedenti cui si riferiscono fonti antiche e recenti, particolarmente quelle dei tardi anni trenta. 32 Ha in particolare negato che Di Pisa avesse mai commerciato in droga. Si è limitato a tacere quando Falcone ha confutato la sua versione rilevando che il capomafia aveva offerto eroina anche a un agente «coperto» del Narcotic Bureau: Testimonianza Buscetta A, p. 299. 33 Istruttoria La Barbera; Antimafia, Singoli mafiosi, pp. 271 sgg. 34 Arlacchi 1994, pp. 1447. Il genero di Gentile si chiamava Pietro Davì, il brav’uomo Giuseppe Catania. 35 Paese dell’Agrigentino in cui era nato anche Nick Gentile. 36 Testimonianza Buscetta A, p. 216. 37 Telefonate intercettate e lettere trovate tra le sue carte provano senza dubbio che «esistevano pressioni da parte di gruppi organizzati della malavita statunitense» perché il film non venisse realizzato: Rapporto GDF 195563, pp. 280 e 2834. 38 Venne firmato da Gosch ma stilato dal giornalista Richard Hammer. Si veda l’introduzione a Gosch Hammer 1975. Hammer attesta di aver lavorato sul testo dell’intervista, che però sarebbe poi finito distrutto per la trascuratezza della moglie di Gosch. Il volume è scritto nella gran parte in terza persona, ma con una serie di inserti virgolettati nei quali Luciano parla in prima persona, e che dovrebbero corrispondere a brani dell’intervista. 39 Molte delle cronache sue e del suo collega M. Farinella vennero raccolte in un volume molto pregevole: Chilanti Farinella 1964. 40 Cfr. la lettera di Chilanti all’editore in Gentile 1993, p. 43. Lo storico Critchley, che ha consultato il documento Fbi, testimonia della sua corrispondenza con il libro: Critchley 2009. 41 Gentile 1993, p. 55. 42 Ibid., p. 120. 43 Ibid., p. 79. 44 Già nel 1957, però, aveva dedicato all’argomento un bel saggio: Sciascia 1961. 45 Id.1962, p. 100. 46 Ibid., p. 101. 47 Cit. in Sciascia 1962, p. 28. 48 Id. 1973, p. 91. 49 Ibid., pp. 945. 50 Cit. da Lodato 1992, pp. 20910. 51 Cit. in Antimafia, Relazione Carraro, p. 169. 52 Di Lello 1994, p. 141.
53 Ibid., pp. 127 e 116 sgg. 54 Ibid., pp. 95 sgg. 55 Istruttoria Liggio, pp. 2089. 56 Istruttoria La Barbera, pp. 506 sgg. 57 Istruttoria Torretta, p. 627. 58 Antimafia, Doc., VII, t. 2, p. 814. 59 Ibid., p. 872. 60 Giuseppe Quartuccio. 61 Istruttoria maxiprocesso, p. 340. 62 Rapporto Malausa, p. 47. 63 Traggo le citazioni dalla bella analisi dei verbali degli interrogatori di Vitale è quella fatta da Galluzzo, Nicastro, Vasile 1989, pp. 95 sgg. 64 Siebert 1994, p. 27. 65 Il verbale degli interrogatori di Vitale è riportato per lunghi stralci da Galluzzo, Nicastro, Vasile 1989, pp. 95 sgg. 66 Istruttoria maxiprocesso, p. 13. 67 Ibid., p. 14.
XI. Punto di snodo. La Repubblica e i suoi nemici
Abbiamo visto come il malaffare e i conflitti inframafiosi del secondo Novecento si collocassero in una dimensione transatlantica. Sappiamo della loro dimensione locale. Sull’una e sull’altra torneremo più avanti. Credo però sia necessario adesso fare una pausa per dire del contesto nazionale in cui il seguito della nostra storia andò a inserirsi. A cavallo tra anni sessanta e settanta, la democrazia italiana molto si arricchì sul fronte dei diritti civili e sociali, ma incontrò anche crescenti difficoltà. La Democrazia cristiana non era più capace di legittimare il proprio monopolio del potere governativo, il Partito comunista continuava a essere incapace di proporre un’alternativa. In prospettiva storica, è chiaro che, a cavallo tra anni settanta e anni ottanta, i partiti rappresentavano di meno la società. È evidente, ma sarà opportuno ribadirlo qui, che la storia d’Italia in questi anni non si riduce a violenza, terrorismo, mafie e «poteri occulti». Ma è fatta anche di questo. E il nostro discorso su questo ci porta a concentrarci. 1. Politica e criminalità. Negli anni sessanta in Italia gli assassinî erano in media 434 l’anno. La prima metà degli anni settanta vide un incremento, poi trasformatosi in boom. Tra 1975 e 1993, la media fu di 1434 l’anno, con picchi appunto nel 1975 (1691), nel 1982 (1983), nel 1991 (1916)1. I terrorismi erano due. Quello neofascista, ben più feroce ovvero stragista, fece i propri esordi nel 1969 a piazza Fontana: fu il meno decifrabile nelle motivazioni di quanti misero le bombe e di chi li coprì nei servizi segreti cosiddetti «deviati». Quello dell’estrema sinistra promosse uno stillicidio di intimidazioni, gambizzazioni, assassinî di gente indifesa, svuotando l’idea di legalità e strumentalizzando quella di garantismo. I terrorismi, il primo molto più del secondo, diedero il loro contributo alla prima fase dell’escalation dei delitti di sangue, ma entrambi lo fecero enormemente di meno delle mafie. Si pensi che nel picco del 1991, in un solo anno, si ebbero nel paese 700 morti per cause di criminalità organizzata2: numero ben superiore ai 490 che formano il totale dei morti per cause politiche nell’intero periodo 196985. E, come vedremo, per quanto riguarda Cosa nostra i dati potrebbero essere sottodimensionati rispetto alla realtà. Comunque, anche ragionando solo su quelli ufficiali, potremmo avere un numero totale di morti per cause di criminalità organizzata, nel 197592, oscillante tra i 5000 e i 60003. La sequenza cronologica sembra indicare che l’escalation della violenza criminale seguì quella della violenza politica, e se ne alimentò. Non intendo con questo accreditare l’idea del supercomplotto, cui molti indulgono e già allora indulgevano, non so quanto sinceramente o per esercizio retorico. Facciamo il caso di un magistrato come Domenico Sica, nominato nel 1988 alla carica di alto commissario per la lotta alla mafia: il quale ipotizzava l’esistenza di un’«Agenzia criminale» composta da un «numero limitato di persone, sostanzialmente in grado di gestire (anche all’insaputa degli esponenti stessi delle organizzazioni malavitose) le grandi linee del crimine e persino del terrorismo di destra e di sinistra»4. Io direi piuttosto che ci fu uno scambio di modelli, simboli e valori – o meglio, disvalori. I criminali, almeno quelli inclini a pensare in grande, impararono dalle gesta dello stragismo nero e del terrorismo rosso, riportate con grande evidenza dai media, o direttamente nelle comuni frequentazioni carcerarie. Fu per questa via che assunsero un ruolo da protagonisti, come mai in passato. Il trend fu comune, e il contesto in qualche modo unificante. Questa è la ragione per cui entrò nell’uso il plurale mafie per indicare l’insieme delle bande della criminalità organizzata dell’Italia meridionale, quelle siciliane insieme a quelle campane o calabresi: anche se più che altro le une vennero indicate pur sempre con il nome antico di camorra, mentre per le altre si impose nel discorso pubblico un termine in passato poco noto, ’ndrangheta. Tra anni settanta e anni ottanta, l’infezione si aggravò nelle aree di antico insediamento: Sicilia occidentale, Calabria meridionale (Aspromonte e Piana di Gioia Tauro), Campania (Napoletano, Terra di Lavoro). Investì altre zone siciliane, calabresi e campane, tradizionalmente considerate immuni, ed ex novo altre regioni come la Puglia. Certe bande allargarono il loro raggio d’azione verso l’Italia settentrionale, e/o verso l’estero, in Europa e fuori dall’Europa. Le mafie si inserirono nei più diversi traffici, leciti e illeciti, inquinarono il tessuto sociale, la convivenza civile, la democrazia. E fecero ricorso alla violenza su scala ben più vasta che in passato.
Molte vicende, tra anni settanta e anni ottanta, potrebbero essere citate per dimostrare l’assunto della permeabilità tra l’illegalismo politico e quello mafioso. Voglio evocarne brevemente una, quella di Raffaele Cutolo e della sua Nuova camorra organizzata (in sigla: Nco)5. In concreto la Nco, al pari di altre organizzazioni criminali e politiche, usufruiva di larghi spazi di tolleranza, a cominciare da quello che in teoria dovrebbe essere più efficacemente presidiato dallo Stato: il carcere. Fu lì che i suoi adepti combatterono alcune delle più sanguinose battaglie con i loro nemici, senza che le autorità carcerarie, rassegnate o compiacenti, facessero un gran che per frenarli. Emblematico di un’epoca e delle sue contraddizioni fu il caso di Ciro Cirillo, politico democristiano, già presidente della Regione Campania, che venne rapito dalle Brigate rosse nel 1981, e che fu poi salvato grazie a un’oscura trattativa in cui fu coinvolto Cutolo. L’assassinio del vicequestore Antonio Ammaturo da parte delle Br venne interpretato come un ringraziamento nei suoi confronti. C’è poi anche un aspetto ideologico. La sigla Nco richiamava certe sigle politiche della nuova sinistra come «Autonomia organizzata». Cutolo diede sin dall’inizio all’organizzazione un carattere di compattezza e centralizzazione, reinventò rituali di affiliazione, adottò una sorta di ideologia pseudomeridionalista, propagandandola con interviste ai giornali e persino con un libro scritto di suo pugno, Poesie e pensieri6. Traggo da un’inchiesta del giornalista Luca Rossi a Ottaviano, paese natio del boss, notizie su certe interessanti contaminazioni tra nuova camorra e nuova sinistra. Abbiamo giovani che interpretano la prima all’insegna dello slogan «prendiamoci la città» in auge in quegli anni nella seconda. Il muratore omosessuale, già simpatizzante dei Nap (Nuclei armati proletari), spiega: «questa è la camorra, è prendersi quello che non hai mai avuto, il pane, il lavoro, la casa». Una ragazza, passata dalla lettura di Mao a quella appunto di Cutolo, ribadisce: «ci prendiamo quello che non ci danno, ce lo prendiamo con la forza»7. Mi rendo conto che, da quest’angolazione, può risultare deformato il tema del rapporto tra le mafie e l’Italia dei movimenti, che invece in generale è stato di contrapposizione e – da un certo momento in poi – anche di resistenza. Mi sembra dunque giusto introdurre qui una storia, tra le tante, che qualcosa di importante dice su questo secondo aspetto: quella di Giuseppe Impastato detto Peppino (19481978). Peppino nasce a Cinisi, pochi chilometri a ovest di Palermo. Il padre, Luigi, già confinato in periodo fascista, è imparentato con mafiosi sia siciliani che americani; e tra gli altri con un elemento di spicco come Cesare Manzella, reduce dagli Stati Uniti, alleato dei Greco, morto nel 1963 per l’esplosione di una Giulietta al tritolo. Luigi fa parte dell’entourage di un boss che come sappiamo non è solo paesano, don Gaetano Badalamenti. Giovanissimo, Peppino si orienta verso la sinistra «nuova» e, se volete, estrema. Scelta politica che è causa o anche effetto del contrasto col padre. Scriverà: «Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto […], aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale. […] Approdai nel Psiup con la rabbia e la disperazione di chi, al tempo stesso, vuol rompere tutto e cerca protezione»8. La contrapposizione padrefiglio, inizialmente politica, si accentra ben presto sul nodo della mafia. Peppino, su una radio privata messa su da lui e dai suoi compagni, Aut aut, denuncia le speculazioni di Badalamenti sui terreni intorno all’aeroporto di Punta Raisi, lo irride, lo smitizza. Il padre muore, il che forse gli fa mancare una qualche protezione. Peppino viene ucciso. Gli assassini fanno esplodere il suo corpo con una carica di esplosivo su una linea ferroviaria, in modo che si creda che stesse perpetrando un attentato. E le autorità trovano facile, o conveniente, crederci. D’altronde è il 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Postscriptum. Ci vorranno ventiquattro anni perché, nel 2002, un tribunale riconosca Badalamenti mandante del delitto. La rivolta generazionale, il figlio che si schiera contro il padre, la rottura di gerarchie culturali antiche, la spinta emancipatrice e libertaria. L’esperienza di Peppino Impastato esprime nel profondo i caratteri generali e di fondo della svolta culturale dell’Italia postsessantottesca. Conserva pur sempre, certo, la specificità delle storie di mafia: per l’intreccio tra la dimensione familiare e quella pubblica, e per il suo esito tragico. Per l’uno e per l’altro aspetto, la maggioranza dei suoi compaesani giudicava Peppino un estremista. Il giorno del funerale quella maggioranza restò ben chiusa in casa, e furono i compagni palermitani del movimento a scendere in piazza per gridare la propria rabbia. Del resto, a Palermo, formavano essi stessi una piccola minoranza. 2. Metastasi. Ai piedi dell’Etna. Quali i rapporti tra le mafie? Nel nostro discorso, centrali sono quelli tra i due rami di Cosa nostra, il siciliano e l’americano, le mafie più antiche. Troviamo una miriade di relazioni di affari tra trafficanti (soprattutto di tabacchi e/o droga) riconducibili a Cosa nostra siciliana, e varie bande di ’ndranghetisti calabresi o di camorristi campani. Alcuni tra questi ultimi vennero addirittura affiliati a Cosa nostra: in un tentativo di creare solidarietà, di portare ordine centralizzando, che non so quanto abbia poi dato frutti reali. La mafia pretende sempre di sapere come ottenere il
risultato, ma il più delle volte non ci riesce. Non ci riuscì ad esempio in una delle aree della Sicilia occidentale di più antico insediamento mafioso, tra le province di Agrigento e di Caltanissetta, dove gli esponenti della rete collegata a Cosa nostra (a Palermo) vennero ripetutamente a conflitto con quelli della cosiddetta stidda (stella), formata da elementi che dalla prima erano stati «allontanati o emarginati» in un più o meno recente passato: «picciotti svelti di pistola, affamati di soldi, pronti a comprare o a vendere droga, disposti a tutto pur di arrivare»9. Guardiamo alla Sicilia orientale. La città più importante di questa parte dell’isola, Catania, aveva una sua tradizione di criminalità più o meno organizzata, legata soprattutto al controllo della prostituzione, arruolata in qualche caso per la gestione delle campagne elettorali. In antico però nessuno definiva quella criminalità come mafiosa. Nella competizione anche campanilistica con Palermo, i catanesi addebitavano la mafia alla rivale e in generale alla parte occidentale dell’isola, meno progredita e dinamica. La Catania degli anni cinquanta e sessanta amava dipingersi come la Milano del Sud. Commerciava, costruiva, faceva affari, speculava sotto la regia della macchina politica, rappresentata ai massimi livelli da Nino Drago, l’ennesimo fanfaniano10. Però a Catania esisteva sin dal 1925 una Famiglia di mafia. La notizia ci deriva dalla testimonianza di Antonino Calderone, che abbiamo già utilizzato e dalla quale dipendiamo quasi esclusivamente per sapere qualcosa delle sue origini. L’avrebbe costituita uno zio di Calderone, dopo aver preso lezioni nella Sicilia occidentale, al ritorno cioè da un periodo di latitanza nelle Madonie11. In effetti sappiamo di suoi esponenti coinvolti negli anni cinquanta, nel contrabbando di sigarette organizzato dai palermitani, accanto a Salvatore Greco l’ingegnere e a Badalamenti. Ne divenne il numero uno Pippo Calderone, fratello del nostro testimone. C’era anche lui, nel luglio 1970, all’incontro milanese «di vertice» con Buscetta, Badalamenti e Salvatore Greco. E alla metà degli anni settanta venne messo addirittura alla testa di una neocostituita Commissione regionale di Cosa nostra. Per quanto ne sappiamo però, e stando alla stessa testimonianza del fratello, l’autorità di tale Commissione era solo formale, perché il potere reale restava nelle mani dei palermitani. Non so se le relazioni di amicizia e comparaggio tra Calderone e Giuseppe Di Cristina, erede di una dinastia mafiosa di Riesi che già abbiamo citato, derivassero da affari comuni, relativi magari agli antichi circuiti del commercio dello zolfo. Sembra facessero proprio i trasportatori di zolfo, in origine, i membri della famiglia Santapaola. Un suo membro, Benedetto Santapaola detto Nitto (nato nel 1938), assurse a un ruolo importante nella cosca catanese, sino a contestare la leadership Calderone. E nel 1979 fu verosimilmente lui a organizzarne l’assassinio; anche se la contemporanea eliminazione di Di Cristina, entrato in contrasto coi corleonesi, fa pensare che entrambi i delitti fossero connessi a conflitti e ad alleanze di scala regionale. Questa comunque è la versione di Buscetta, che è divenuta canonica, e sulla quale torneremo meglio più avanti. Nel frattempo a Catania era tutto un crescere di reati e violenza. Come nelle altre parti del Mezzogiorno, e anche di più. Presero sempre più piede bande più o meno grosse e strutturate, emergenti nel ventre della città, e nelle loro guerre si moltiplicò esponenzialmente il numero dei morti ammazzati. Ci fu un boom degli scippi, delle rapine in loco e anche (con fulminee trasferte aeree) nell’Italia settentrionale, del pizzo sui negozi e sulle imprese. Nell’economia cittadina si realizzò un’osmosi tra ambienti delinquenziali e borghesi che non aveva nulla da invidiare a quella palermitana, con «il formarsi di nuove e ingiustificate ricchezze […], l’affacciarsi di nuovi imprenditori senza problema di finanziamento, il sorgere, anche in periferia, di attività commerciali gestite in lussuosi negozi, attività che spesso scompaiono dopo poco tempo e che sembrano piuttosto svolgere funzione di copertura di traffici illeciti»12. Non è mafia, molti continuarono ad affermare. La mafia è un’altra cosa, ribadirono i membri della classe dirigente, e i cronisti de «La Sicilia», il quotidiano che monopolizzava l’informazione in città e nelle zone circostanti. A intorbidare le acque interveniva il pregiudizio duro a morire che ben conosciamo: quello secondo cui la mafia era indissolubilmente legata all’economia primitiva del latifondo, cioè a una tradizione «feudale» da cui la Sicilia orientale si sentiva lontana. Il Partito comunista, nel tentativo di dare uno sbocco politico a una certa crescita elettorale, si baloccò con il progetto di un «patto dei produttori» tra sindacati e grandi imprenditori, i cosiddetti «cavalieri del lavoro», che avrebbe consentito alla città di procedere sulla strada dello sviluppo economico13. Milazzismo in senso lato e anche, viene da dire, in senso stretto: se pensiamo alla storia dell’imprenditore Carmelo Costanzo quale ci viene raccontata da Calderone. Costanzo sarebbe stato in relazione con lo zio di Calderone, e fondatore della Famiglia, già agli inizi della sua carriera, quando era ancora un capomastro. Poi giunse l’operazione Milazzo, di cui già qualcosa sappiamo. Anche lui avrebbe profittato dei provvedimenti varati in quel periodo per intraprendere una scalata verso il Gotha dell’imprenditoria cittadina e regionale14. E Santapaola? Si trasformò lui stesso in imprenditore acquisendo una concessionaria Renault. Rimane agli atti un ritratto di città, una fotografia scattata al matrimonio di uno dei Costanzo che mostra, uno accanto all’altro, il sindaco di Catania, il presidente della provincia, il segretario provinciale della Dc, l’onorevole socialdemocratico, i nipoti di Costanzo, e lui stesso, il boss, Nitto Santapaola.
A proposito di tradizione. Come ogni mafioso all’antica, Santapaola qualche volta si eresse a tutore dell’ordine e molti criminali indisciplinati vennero uccisi spietatamente. Però in sostanza l’idea della regolamentazione si rivelò abbastanza illusoria. Catania rimase il campo di battaglia di gruppi contrapposti. Anzi possiamo dire che si venne a determinare un effetto analogo a quello che nell’Agrigentino determinò la formazione della stidda. Come ricorda un pentito catanese, la cosca dei cursoti (di cui il pentito stesso faceva parte) si formò nel 197475 dalla convergenza di preesistenti gang determinate a opporsi ai tentativi del gruppo di Cosa nostra di fare «terra bruciata». Effetto degno di nota: alcuni di questi cursoti estesero le loro reti al Piemonte, così come più o meno nella stessa fase facevano gruppi di ’ndranghetisti. Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, per usare il titolo dato dal sociologo Rocco Sciarrone a un suo libro che centra alcuni dei meccanismibase della vicenda delle mafie italiane negli anni settanta ottanta15. Facciamo per un attimo un brusco salto in avanti nel tempo. Arriviamo al 1995, quando Santapaola (al pari di altri capimafia siciliani) si trova da un paio d’anni in galera, dopo una lunghissima latitanza. In prigione gli giunge la notizia che sua moglie è stata assassinata. Da chi e perché? Da un malavitoso che, a quanto sembra, ha inteso punire il boss per avere autorizzato (o forse per non aver evitato) l’assassinio di sua madre. Insomma il malavitoso ha voluto denunciare l’incapacità del capomafia di fare quello che l’ideologia si aspetta da lui: impedire l’uccisione delle donne oltre che dei bambini, in generale l’escalation di una violenza animalesca e incontrollata. È interessante la risposta del boss, che viene affidata ai giornali, cioè non solo ai suoi sodali e satelliti (o avversari), ma a un’opinione pubblica più vasta. «Amo la mia città e lo grido, forte», proclama, e poi si chiede retoricamente: «Dov’è quella Catania fiorente, dove sono gli imprenditori, i commercianti che potevano vivere e lavorare senza avere paura?». Lamenta insomma i danni provocati dall’inopportuna iniziativa delle autorità, che arrestandolo ha privato la città di prosperità e sicurezza16. Una mia notazione. Il boss dimentica che negli anni in cui era in auge Catania era in preda a conflitti sanguinosi, i quali tutto dimostravano fuorché la sua capacità di mantenere l’ordine. Siamo come al solito davanti a una retorica che (in quanto tale) può prescindere dai fatti; questo è il modo in cui – siano irriducibili o anche pentiti – i mafiosi provano a spiegare se stessi e a guadagnarsi il consenso altrui. Santapaola qualcosa dimentica e qualcos’altro ricorda: lo spirito municipalista, l’idea di un’identità cittadina che si cementa sotto l’egida di una malintesa idea di sviluppo, e che per tanti anni ha impedito ai catanesi di vedere i mafiosi. Ricorda forse in particolare una sentenza di appena qualche anno prima (1991), in cui un magistrato catanese, accertata la fondatezza della gran parte delle rivelazioni di Calderone jr. sui rapporti tra lui e Costanzo, ha ritenuto i comportamenti del secondo non punibili in quanto dettati da stato di necessità, così argomentando: Il rifiuto di un qualsiasi dialogo finalizzato al raggiungimento di un certo punto di equilibrio [coi mafiosi] condurrebbe l’imprenditore a rinunciare all’esercizio dell’impresa; e ciò paradossalmente avverrebbe proprio in quelle zone del territorio nazionale in cui il mantenimento e lo sviluppo dell’occupazione dovrebbe servire ad incentivare l’affrancamento delle popolazioni dalla presenza mafiosa17.
Siamo alla fallace equazione sottosviluppo=mafia, da cui si ricava l’ancor più fallace corollario secondo cui lo sviluppo contrasterebbe la mafia. Come sempre nella nostra storia, le difese più appassionate riguardano quelli che nell’Ottocento si dicevano i manutengoli. La vicenda catanese peraltro ci dice qualcosa anche sul versante opposto della questione, sul come e sul perché qualcuno a un certo punto veda la mafia, diciamo la riconosca. Questo fece Pippo Fava (19251984), scrittore, commediografo e soprattutto giornalista professionista, di una certa fama in città. Si sentiva un po’ messo ai margini quando, nel 1980, fondò «Il Giornale del Sud». Voleva fare un quotidiano dal taglio nuovo, che desse risalto ai misfatti della criminalità che stava sconvolgendo la città; anche in concorrenza con «La Sicilia», le cui cronache gli parevano edulcorate e qualche volta omissive. Andò avanti finché i membri della cordata di imprenditori che possedeva la testata gli fecero capire che stava esagerando. Lo licenziarono e poi chiusero. Ma Fava non mollò e cominciò a progettare una nuova impresa editoriale, la rivista «I Siciliani». Era un tipo sanguigno, una persona coraggiosa, che conosceva bene l’establishment politicoaffaristico cittadino e disprezzava il suo spirito omertoso. Cercò i suoi collaboratori tra giovanotti che professionalmente, magari, non erano tanto attrezzati, ma che vedeva combattivi e pieni di entusiasmo. Rappresentavano un’altra antimafia alla Impastato, anti istituzionale, radicalmente a sinistra. Tra loro c’era Claudio Fava, figlio di Giuseppe, che anche in seguito si sarebbe mantenuto su quel versante, come pubblicista e anche come uomo politico di una certa importanza18. Torneremo più avanti sul modo in cui questa vicenda catanese si intrecciò nel 1982 con quella palermitana e con l’ultima missione siciliana di Dalla Chiesa. Diciamo ora che il 5 gennaio 1984 qualcuno ordinò che una sequenza di revolverate mettesse Giuseppe Fava a tacere per sempre. Ci vollero quattordici anni perché Santapaola venisse condannato come mandante del delitto. Ma il mandante del mandante non è stato condannato.
3. L’antagonista. Due citazioni. La prima è del magistrato destinato ad assurgere a simbolo di quell’epoca, Giovanni Falcone. Il disordine è di massa, «basti pensare ai processi per contrabbando di petrolio, a quelli per traffico illecito delle fustelle dei medicinali, a quelli per violazioni valutarie, a quelli per truffa agli enti pubblici e così via»; terrorismo e mafie ne rappresentano la manifestazione più drammatica19. La seconda è di uno dei grandi del giornalismo dell’epoca, Giorgio Bocca. Ci vorrebbero «centomila o duecentomila» mandati di cattura «per fare pulizia» di terroristi e mafiosi, e sono «grandi numeri» che rischiano di generare «un regime di nuovo tipo: democratico concentrazionario, garantista ma con le sue prigionilager»20. Il punto era proprio quello. L’Italia era scossa da corruzione, terrorismo e mafie, disordini di massa in cui alcune forze politiche e parti di istituzioni erano coinvolte attivamente, da cui altre erano paralizzate. La Repubblica era chiamata a trovare in sé le forze per riportare l’ordine ma rispettando la Costituzione e i diritti fondamentali. Non era ovvio né facile. Partiamo dal caso celebre dell’inchiesta «7 aprile», così detta perché fu il 7 aprile 1979 che un blitz della polizia portò in prigione il filosofo Toni Negri insieme ad altri leader dell’estrema sinistra padovana, della cosiddetta «Autonomia organizzata». I fatti sono questi: diversi gruppi e militanti (a Padova e non solo) si organizzavano in forma più o meno clandestina per compiere una miriade di azioni violente, altri li aiutavano, altri pubblicamente li applaudivano invocando la «militarizzazione» del movimento. Ma come sistemare concettualmente questo coacervo? Nell’interpretazione degli inquirenti, la rete dell’Autonomia fungeva da coordinamento operativo, oltre che ideologico, per le azioni terroristiche. Meno chiaro era il rapporto con le strutture clandestine delle Brigate rosse. Poliziotti e magistrati pensavano che, quanto meno, fosse di intesa e scambio di favori21. Negli anni precedenti, a partire dalla cosiddetta «legge Reale» (1975), erano stati varati diversi provvedimenti, più o meno straordinari, per l’ordine pubblico che aumentavano i poteri della polizia e diminuivano le garanzie a difesa. Il reato di «associazione sovversiva» tornava in auge insieme ai fatti politici cui poteva essere riferito. Venne riutilizzata (ad esempio contro i brigatisti) addirittura la fattispecie accusatoria della «banda armata», nell’Ottocento riferita alle scorrerie brigantesche nelle campagne, e da allora caduta in disuso22. Lo stesso Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva cominciato la sua carriera (come si ricorderà) nel Cfrb, corpo speciale deputato alla lotta contro il banditismo siciliano nel dopoguerra. Lo storico Nino Blando ha ricordato come lui stesso esplicitamente si richiamasse a quell’esperienza come modello per un’azione nonconvenzionale, più da intelligence che classicamente di polizia, per fronteggiare le Brigate rosse. Fu in questo stile che creò nel 1974 un Nucleo speciale antiterrorismo dei carabinieri. Il Nucleo riuscì a catturare i capi delle Brigate rosse (Renato Curcio e Alberto Franceschini) proprio valendosi di un infiltrato, soprannominato «frate mitra»23. La successiva evasione dal carcere di Curcio, e le polemiche su quei metodi eterodossi, portarono nel 1976 allo scioglimento del Nucleo. Il generale chiese a questo punto che gli venisse attribuita la responsabilità del coordinamento del servizio di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena, che in effetti ottenne nel 1977. L’idea era che i terroristi andassero rinchiusi in carceri speciali, ubicate magari in qualche remota isoletta, per impedire loro di mantenere relazioni, far circolare informazioni, programmare delitti. Può essere interessante la testimonianza di Mario Mori, ufficiale dei carabinieri destinato anche lui a svolgere un ruolo importante sul fronte mafioso, che – provenendo dal Sid, il servizio segreto militare – entrò nel 1975 nel Nucleo antiterrorismo. In un librointervista, Mori si sofferma sullo stile di lavoro non ortodosso incoraggiato da Dalla Chiesa. Racconta del danno («dispersione delle conoscenze» e del personale esperto) che derivò dal suo scioglimento nel 1976, della sua ricostruzione nel 1977, ancora dei suoi successi, e del suo nuovo scioglimento alla fine del 197924. Trae anche conclusioni interpretative da questa vicenda un po’ schizofrenica. Quei corpi investigativi ad hoc, dice, suscitavano diffidenze, anche negli apparati ordinari dello Stato, timori che l’innovazione «avrebbe sovvertito pericolosamente l’ordinamento collaudato delle strutture di polizia tradizionali, provocando dualismi, concorrenze potenzialmente disgreganti. […] Questa è stata la maledizione di tutti i reparti “speciali”, da quello del generale Dalla Chiesa, al Ros»25. Comunque Dalla Chiesa ottenne quello che fu forse il suo maggior successo dopo lo scioglimento del Nucleo antiterrorismo, nel 1980, quando convinse Patrizio Peci, capo colonna delle Br a Torino, a collaborare con l’autorità26. Fu il primo pentito. La parola era impegnativa, ben più di quelle adoperate ad esempio negli Stati Uniti: quali ad esempio turncoat, che semplicemente vuol dire voltagabbana. Il pentimento cui si si riferiva era quello (morale, ideologico o semplicemente politico) di militanti accortisi di aver calpestato la vita propria e quelle altrui perseguendo un progetto sbagliato. Non a caso la strada fu aperta da Dalla Chiesa. Chi si pone sulla strada della collaborazione ha bisogno di confrontarsi con interlocutori credibili, inclini (soprattutto nella prima fase) a uno stile nonconvenzionale; e di poter contare su un beneficio, sulla promessa di una via d’uscita.
I metodi «premiali» erano usuali negli Stati Uniti: ti concederò qualcosa in cambio della tua collaborazione con la giustizia, la quale ne guadagnerà in efficienza seppure rinunciando a un po’ di equità. Sino al 1979, erano però sconosciuti nell’ordinamento italiano. Ci si risolse a cambiare rotta perché il conseguimento di collaborazioni dall’interno si dimostrò una condicio sine qua non per conseguire successi sia sul fronte del terrorismo sia su quello mafioso. Lo ha scritto in sede consuntiva Giancarlo Caselli, il magistrato torinese (nato nel 1939) trovatosi a combattere battaglie molto importanti su entrambi: Le Br, dunque, come Cosa nostra. […] Organizzazioni diversamente strutturate ma che pongono, sul piano del contrasto investigativogiudiziario, problemi assai simili. Primo fra tutti, in un caso come nell’altro, quello di rompere la cortina del segreto che ontologicamente le avvolge. E i segreti, tutti i segreti, si possono conoscere soltanto se c’è modo di ascoltarli in presa diretta – con intercettazioni telefoniche o ambientali – o se c’è qualcuno, il pentito appunto, che li racconta27.
Sul fronte della lotta al terrorismo, Caselli entrò in contatto con altri magistrati destinati anche loro a svolgere un ruolo nella lotta alla mafia, come Pier Luigi Vigna. Ricordiamo, una tra le tante occasioni, una tavola rotonda sul settimanale «L’Espresso» cui i due parteciparono alla fine del 1980, a confermarne la forte attenzione al confronto con l’opinione pubblica. Vigna sottolineava la difficoltà, data la legislazione vigente, di «ricercare le prove contro organizzazioni che hanno strutture clandestine e si basano su rapporti strettissimi di solidarietà interna»28. Con lo scopo di razionalizzare le indagini e di creare specialismi si formavano nel frattempo, nei tribunali delle città più colpite dal terrorismo, pool specializzati di magistrati, che agevolavano anche la circolazione delle informazioni su scala nazionale. Siamo anche qui alla sovrapposizione tra vecchio e nuovo, tra istituti «normali» e istituti costituiti ad hoc, tra ordinario e straordinario. Col rischio di sovrapposizioni stridenti quanto quelle tra gli organismi investigativi sottolineate da Mario Mori. Tiriamo un po’ le somme. Lo scambio tra terrorismo e mafia ebbe un corrispettivo nel campo dell’antagonista, delle istituzioni. I percorsi di vita e professionali dei due personaggi sopra citati, Caselli e Dalla Chiesa (ma anche di Vigna e Mori, e di altri), rappresentano concrete esemplificazioni di un più generale trasferimento di strumenti e valori. Il punto principale. La Repubblica venne spinta a perseguire comportamenti collettivi e strutture associative, ad attribuire agli uni e alle altre carattere criminale. Rappresenta un’applicazione di questa logica innanzitutto la legge sulle associazioni mafiose, varata nel 1982 e comunemente detta RognoniLa Torre, cui già ci siamo riferiti in apertura di questo volume. Fu un grande risultato, come ben sappiamo viste le precedenti difficoltà di combattere questo tipo di criminalità. E lo fu anche l’incoraggiamento del pentitismo da parte degli inquirenti e il suo riconoscimento da parte del legislatore. Va da sé che anche le idee di polizie speciali, magistrature speciali, carceri speciali, nate per contrastare il terrorismo, si trasferirono dall’uno all’altro terreno. Queste scelte vennero tutte giustificate con la necessità di far fronte a una situazione storicopolitica di tipo straordinario. Gli anni che videro il deflagrare del terrorismo politico prima, di quello mafioso poi, furono davvero di straordinaria minaccia per la Repubblica. Però, come ha sottolineato Blando, nel corso della storia italiana ordinarietà e straordinarietà si sono intrecciate più volte. Basterebbe pensare alle polizie speciali di cui ci ha raccontato Coco, che negli anni trenta erano state create per perseguire e i mafiosi e gli oppositori del regime fascista. E possiamo andare ancor più indietro nel tempo, al prefascismo liberale (o pseudoliberale), alle misure di prevenzione di polizia, alle accuse di associazione rivolte sia contro socialisti e anarchici in chiave liberticida, sia contro i mafiosi. Si trattava di precedenti inquietanti, in verità, come già abbiamo rilevato in altre parti di questo lavoro; che richiamavano periodi il cui venivano negati nella pratica o anche in concetto i principî garantisti poi risolutamente affermati nella Carta costituzionale del 1948. Così, il «ritardo» storico con cui venne varata una legislazione contro l’associazionismo mafioso si spiega alla luce delle diffidenze storiche del pensiero giuridico italiano verso l’idea della criminalizzazione di comportamenti collettivi e pratiche associative. E non si tratta solo del passato. In concetto, dunque anche nel presente, il reato associativo rischia di mettere in crisi alcuni principî di fondo del diritto penale: determinatezza, proporzionalità tra gravità della sanzione e disvalore del fatto, carattere personale della responsabilità. Altrettanto degne di considerazione sono le polemiche sulla legislazione premiale. Veniva e viene naturale la domanda: i risultati così ottenuti sono credibili, o prevarranno a scapito degli imputati le finalità strumentali dell’accusa e dei pentiti stessi? Questo dico per rilevare le difficoltà del percorso compiuto dal nostro paese a cavallo tra anni settanta e ottanta. E per spiegare le polemiche, l’articolazione anche politica delle forze in campo. A sostegno della magistratura, del rafforzamento degli strumenti investigativi, e di una più severa legislazione, si schierò il Partito comunista, portando a termine la propria conversione alla difesa dell’ordine repubblicano; come parte per nulla secondaria del progetto del compromesso storico o unità nazionale perseguito dal suo leader Enrico Berlinguer. Non furono rari i casi di magistrati di punta eletti nelle liste del Pci. Noi già conosciamo quello di Cesare
Terranova. Significativa, anche sul piano politicogenerale, la carriera di Luciano Violante (nato nel 1941), formatosi in inchieste torinesi di terrorismo, presidente della Commissione antimafia nel 199294 e poi della Camera di deputati. Sul fronte opposto, si schierò un «garantismo» molto eterogeneo. Lasciamo per ora da parte quello di cui si ammantavano strumentalmente gli interessi offesi. C’era una parte che perseguiva sì un’aggressiva strategia anticomunista e antidemocristiana, ma alla quale non mancavano gli argomenti di merito: rappresentata dall’estrema sinistra, in parte dai socialisti, e soprattutto dai radicali. Facciamo due esempi di polemiche particolarmente accese. La prima riguarda il caso, a noi già noto, dell’inchiesta 7 aprile, che stando ai critici si incentrava sulle opinioni di Toni Negri & C. anziché su fatti penalmente rilevanti da loro compiuti: donde l’espressione «teorema Calogero», che voleva indicare la logica tutta deduttiva cui si sarebbe ispirato il magistrato che coordinava l’inchiesta, Pietro Calogero29. La seconda attiene alla vicenda dello showman televisivo Enzo Tortora, accusato nel 1983 da un pentito di camorra, arrestato e lungamente detenuto in seguito al blitz che valse a demolire la Nco di Cutolo, del quale alla fine fu dimostrata la piena innocenza. Nel primo caso lo scontro sulla «questione giustizia» si infiammava sul versante della politica, nel secondo su quello delle mafie. E qui rincontriamo Sciascia, che in quegli anni veniva riconosciuto come uno dei massimi intellettuali italiani, scriveva sui grandi giornali, era corteggiato dai partiti politici. Il Partito comunista lo convinse nel 1975 a presentarsi quale indipendente nelle sue liste al Consiglio comunale di Palermo – ma quell’esperienza durò poco, e lo scrittore si dimise bruscamente. D’altronde, nella strategia del compromesso storico e nella politica di solidarietà nazionale, ben poco si riconosceva. Pensava che i comunisti sbagliassero di grosso identificandosi con la caricatura di Stato esistente in Italia. Il grande vecchio del Pci, Giorgio Amendola, lo disse epigono della storica «viltà» degli intellettuali italiani quando si rifiutò di condannare i cittadini di Torino rifiutatisi di fare i giurati in un processo contro le Br. Sciascia replicò a muso duro. Confermò il proprio rifiuto di schierarsi per «lo Stato» davanti al cadavere di Moro. Fu in prima fila nelle polemiche sul caso Tortora. Attaccò Dalla Chiesa e il pentitismo. Prese posizione accanto ai radicali, la sua fu la voce più autorevole del garantismo. La polemica tra Sciascia e Amendola rivelava le aporie di una cultura di sinistra posta per la prima volta negli anni settanta di fronte a concrete scelte di politica criminale, chiamata a fornire risposte nuove a questioni interpretative antiche. Io credo che, nel merito, Amendola vedesse più in profondo; nel metodo, però, non posso non apprezzare il rifiuto espresso apertis verbis da Sciascia della funzione pedagogica ancora rivendicata dai comunisti per il loro partitopadre, e per il partito in generale. Un po’ come l’altro grande di quegli anni, Pier Paolo Pasolini, Sciascia non ripudiò la figura dell’intellettuale engagé in politica. Non volle essere più – in fondo non era stato mai – un intellettuale «organico»30. Si sentiva di rispondere solo alla propria coscienza. 4. Poteri occulti. La massonica «loggia propaganda 2», o P2, era guidata dal «venerabile maestro» Licio Gelli, misterioso personaggio con un passato di doppiogiochista in tempo di guerra e di torbidi legami con golpisti sudamericani, poi al centro di una rete di malaffare e di intrighi. Due magistrati milanesi «di punta», Gherardo Colombo e Giuliano Turone, rinvennero nel 1982 gli elenchi degli affiliati alla loggia, comprendenti due ministri in carica, quaranta deputati, pubblici funzionari e magistrati in buon numero, imprenditori, tanti militari, quasi tutti gli alti gradi dei servizi segreti. Sembrò un potere sotterraneo o parallelo a quello dello Stato. I due magistrati stavano indagando su uno di questi affiliati, il banchiere Michele Sindona (19201986), cui sarà opportuno dedicare una certa attenzione. Era nato a Patti, provincia di Messina, esordì a Milano come fiscalista nel 1946, si trasformò d’un tratto in grande finanziere agli inizi degli anni sessanta con l’acquisto della Banca privata finanziaria, una delle maggiori in Italia. Costruì un enorme quanto opaco sistema «a scatole cinesi» di società sparse ai quattro angoli del mondo, con preferenza per i paradisi fiscali. Si impegnò in una vertiginosa scalata ai vertici del capitalismo italiano (Italcementi, Banca nazionale dell’agricoltura, Bastogi). Pur essendo già sospettato in Italia di vari illeciti, prese il controllo di uno dei massimi istituti finanziari degli Stati Uniti, la Franklin National Bank. Disse l’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli: Se il programma fosse stato realizzato si sarebbe costituita una delle maggiori, forse la maggiore delle società finanziarie europee. Ne sarebbe derivata una concentrazione di potere esorbitante, situata in un sistema costituito dall’intreccio di operazioni vetuste, in larga parte ideate agli albori del capitalismo italiano. […] [Ciò] indusse in me la convinzione che la operazione si proponesse obiettivi di dominio e che, con l’impiego degli scarsi mezzi disponibili, fosse mio dovere contrastarla31.
Sindona venne dunque contrastato da un’alleanza capitanata dalla Banca d’Italia e, tra i pesi massimi dell’imprenditoria italiana, da Gianni Agnelli, da quella che con bizzarra espressione tutta italiana era detta la «finanza laica» – cioè non controllata dalla Democrazia cristiana. Sindona infatti sosteneva finanziariamente il partito di maggioranza e contava sul suo sostegno per tutelarsi dalla magistratura e magari dai controlli della Banca d’Italia. Il più importante dei suoi interlocutori era Giulio Andreotti, come dimostra, una fonte tra le altre, una lettera in cui il genero del banchiere scriveva al grande leader democristiano: «Quanto Ella ha voluto suggerirmi […] mi autorizza a pensare di avere noi, se mi consente, un sincero amico in Lei e un formidabile esperto con cui poter concordare di volta in volta le soluzioni più importanti»32. Siamo ai vertici della politica italiana. Numerosissime le cariche governative da Andreotti ricoperte, soprattutto nel periodo che qui ci interessa: presidente del Consiglio nel 197273, nel 197679, nel 198992; e ministro della Difesa nel 195966 e nel 197475, dunque personalmente impegnato nella gestione degli apparati di sicurezza. Numerosi gli scandali in cui quest’uomo politico fu chiamato in causa dai suoi avversari, a lungo senza grandi risultati. Sindona fece appello alla protezione di Andreotti, in parte ottenendola, anche nella fase della rovinosa caduta del suo impero, caratterizzata da fallimenti a catena nella sezione americana come in quella italiana, dopo che il banchiere si era stabilito a New York perché in Italia era stato emesso nei suoi confronti un mandato di cattura33. Ma anche negli Stati Uniti le autorità si rivolsero contro di lui per il fallimento della Franklin e lo lasciarono (temporaneamente) libero solo dietro pagamento di un’enorme cauzione34. Storia di affari oscuri, elargizioni, corruzioni e protezioni politiche, fallimenti catastrofici, quella di Sindona. Corrispondente in parte a quella di un altro iscritto alla P2: Roberto Calvi, presidente del cattolicissimo Banco ambrosiano, la maggiore banca privata italiana. Storie che, l’una e l’altra, coinvolsero non solo la Democrazia cristiana ma persino il Vaticano, per gli stretti contatti a lungo mantenuti con i due da monsignor Marcinkus, vescovo americano e finanziere per conto della Santa Sede. Storie debordanti dalla criminalità finanziaria a quella gangsteristica. Nel 1979 Sindona fece assassinare da un killer italoamericano Giorgio Ambrosoli, un avvocato che, quale liquidatore della Banca privata finanziaria, a Milano stava scoprendo gli intrighi su cui il suo impero si era retto. Nel 1982 il vicepresidente del Banco ambrosiano fu vittima di un attentato messo in opera da un altro killer, uomo della banda della Magliana, che a sua volta cadde vittima di un guardaspalle del banchiere35. Infine, Calvi e Sindona sono accomunati dalla morte violenta. Il primo fu «suicidato» sotto un ponte londinese nel 1984. Il secondo uscì dalla scena per un caffè al cianuro consumato in carcere nel 1986. E la mafia? La ritroviamo nella storia dell’uno e dell’altro. Già alle origini delle fortune di Sindona, sembrerebbe. In questa direzione almeno ci indirizza l’informativa del capo dell’Interpol di Washington, che sin dal 1967 attribuiva al banchiere un ruolo nel finanziamento del narcotraffico36. Ma le relazioni tra Sindona e la mafia siculonewyorkese si fecero ben più evidenti nei tardi anni settanta, come diremo nel prossimo capitolo. 1 Istat, Serie storiche, tav. 6.8, Omicidi volontari, 19552009. Dopo il 1991 cominciò una lenta deescalation, che nel 2009 ha riportato il paese
quasi al punto di partenza del 1974. 2 MI, Rapporto 2006, p. 16 e grafico I.2. 3 Si tratta di una mia stima che vorrebbe essere indicativa, e potrebbe rivelarsi approssimativa. Infatti in MI, Rapporto 2006, la percentuale dei delitti di mafia sul totale è rilevabile solo a partire dal 1983. Stando a questa fonte, nel picco del 1991 i delitti di mafia furono più che un terzo del totale dell’anno, nel 2009 sono stati un sesto; è possibile che nel complesso siano stati un quarto o un quinto, donde la mia stima. 4 Audizione della Commissione parlamentare stragi del 28 febbraio 1989 che trovo cit. in Calabrò 1991, p. 208. 5 Un’altra vicenda che potrebbe essere approfondita è quella della rivolta di Reggio Calabria, che a partire dal 1970, e per un triennio, creò un clima di illegalismo di cui potentemente si alimentò il revival della ’ndrangheta in città e nella provincia. 6 Sales 1988, p. 155. 7 Rossi 1983, pp. 76 e 82. 8 Cit. in Santino 2000, p. 235. 9 Savatteri 2016, p. 34. Il volume propone una bella ricostruzione della vicenda di una feroce guerra di mafia appunto tra aderenti a Cosa nostra e alla stidda, esplosa nel 1991 a Racalmuto (il paese natale di Sciascia e dello stesso Savatteri) come a rivitalizzare tardivamente un fenomeno che tutti supponevano fosse nel paese scomparso da decenni. 10 Caciagli 1977. 11 Testimonianza Calderone. Lo zio si chiamava Nino Saitta. 12 Antimafia, Relazione su Catania (1990), pubblicata in «Segno», 1990, 114115, p. 83. 13 Battiato Vara 1993. 14 Arlacchi 1992, p. 184 e passim. 15 Sciarrone 1998, in particolare alle pp. 218 sgg. per la testimonianza del pentito dei cursoti che si chiamava Nino Saia. 16 La lettera è pubblicata in «Diario della settimana», supplemento dell’«Unità», 30 ottobre5 novembre 1996, p. 58. L’assassino della moglie di Santapaola si chiama Giuseppe Ferone.
17 Cito da un estratto della sentenza pubblicato in «Città d’utopia», 1° gennaio 1992, p. 29. 18 Fava 1992. 19 Conferenza del 3 aprile 1987, in Falcone 1994, p. 12. 20 G. Bocca, Dalla parte dei giudici, in «la Repubblica», 19 giugno 1983. 21 Calogero, Fumian, Sartori 2010. 22 Caselli 2009, p. 35. 23 Blando 2017b. 24 Mori Fasanella 2011, p. 20. 25 Ibid., p. 25. 26 Ricordiamo che il fratello venne assassinato, con il che le Br inaugurarono la pratica delle «vendette trasversali» (sui parenti) che negli anni
seguenti sarebbe stata tragicamente percorsa dalle organizzazioni mafiose. 27 Caselli, Prefazione a Gruppo Abele 2005, p. 6. 28 P. Calogero, G. Caselli, A. Spataro, P. L. Vigna, A nostro modesto giudizio, in «L’Espresso», 7 dicembre 1980. 29 Di un qualche interesse il dato empirico ricordato in sede retrospettiva dal (cosiddetto) teoremista Calogero: il «crescendo impressionante» delle azioni violente degli autonomi, oltre un migliaio nel Padovano in un quinquennio, andò bruscamente a declinare dopo il 7 aprile per ridursi a zero alla fine di quell’anno. P. Calogero, La testimonianza, in Calogero, Fumian, Sartori 2010, p. 158. 30 Sciascia 1991, p. 84. 31 Relazione Sindona, p. 222. 32 Ibid., p. 267. 33 Inutilmente alcuni amici di Andreotti – tra cui una sua fiduciaria americana, Della Grattan – lo diffidarono dall’esporsi con un personaggio così squalificato: Istruttoria Andreotti, pp. 429 sgg. 34 Istruttoria Sindona. 35 Il banchiere si chiamava Roberto Rosone, il killer Danilo Abbruciati. 36 Istruttoria Andreotti, p. 411.
XII. Due mondi in subbuglio
Aprilemaggio 1973. Quattro mafiosi, tutti nati in Italia, si incontrano nel bar Reggio di Montreal, Canada. Non sanno che qualcuno li spia: sono gli inquirenti canadesi che tutto registrano, e tutto dei colloqui ci restituiscono. Tra i quattro, due vivono a Montreal: il boss locale Paul Violi, nato in Calabria nel 1932, e un settantasettenne, Pietro o Pietrino Sciara, cui gli altri si riferiscono con l’appellativo di «zio», e che è anche lui nativo di Siculiana, provincia di Agrigento. Gli altri due sono appena arrivati dalla Sicilia. Recano una lettera di saluti del capo della «Commissione provinciale» (di Cosa nostra) appunto di Agrigento. Uno di loro, il quarantottenne Carmelo Salemi, comunica orgoglioso di essere stato appena nominato «rappresentante», aggiungendo che l’altro è un «operaio regolarmente fatto», ovvero un affiliato. Rassicura i suoi interlocutori della regolarità del proprio curriculum. Dice: «Certo la nostra cosa, praticamente, si sa, è un po’ tradizionale, no? […] Intanto, prima di giudicare una persona […] si studia la persona, si fa lavorare e compagnia bella. È vero zio Pietro?». E gli altri: «Si, è vero», «è la verità». «M’è stato insegnato il rispetto – aggiunge – […], che non bisogna approfittare della propria abilità o dei poteri che si hanno, questo mai, vero zio Pietrino?». Mai, conviene il vecchio. Poi tocca a Violi pronunciarsi: «Zio Pietrino, la nostra vita è fatta sempre per ragionare, per sistemare le cose per un verso o per l’altro […], perché una persona, quando ha un affare con della povera gente e non sa dove mettere le mani, si sa che ci siete voi […] e sempre il nostro obbligo è di mettere ordine negli affari […]. Allora, quando una persona viene qui, perché viene?». Adesso tutti rispondono insieme: «Per ottenere giustizia, … per sistemare le cose, … certo». I quattro si sentivano rassicurati, quando si richiamavano a un’ideologia protettivotradizionalista, ragionando di norme che si pretendeva garantissero tutti. Era quello il terreno che consentiva loro di comunicare. Nondimeno, tra quelle regole, ce n’era una intesa a dividerli, piuttosto che ad accomunarli. I siciliani, dice Violi, non possono «appartenere» alla consorella americana. Salemi, sorpreso, replica: va bene «rispettare l’autorità e tutto», ma forse «sarebbe meglio se si pianificassero queste cose qui» riconoscendo i diritti dei siciliani in trasferta. Niente ma, ribatte bruscamente Violi. Deve valere il principio generale su cui la loro società, al pari dello Stato, si impernia: come «in Russia vi è un presidente russo», così nella mafia è bene che ognuno comandi a casa propria. Altrimenti, ne deriveranno «imbrogli», «cose trubole», come ha fatto di recente il loro compaesano Nanà1. 1. Zips, insomma gente del vecchio mondo. Noi già conosciamo Nanà, ovvero Leonardo Caruana, membro della grande famiglia di narcotrafficanti, destinato a essere assassinato di lì a qualche anno a Palermo. Volendo contrapporre l’ideologia ai fatti, potremmo rilevare che, oltre a lui, ben tre dei quattro mafiosi che abbiamo incontrato al bar Reggio finirono ammazzati: lo zio Pietrino (addirittura ottantenne!) e Violi nella loro terra d’adozione canadese (1976 e 1978), Salemi nella natia Sicilia (1980). Nella realtà non furono le regole ma la violenza a «sistemare le cose», come spesso accade nelle storie di mafia. Ma torniamo alla regola territoriale enunciata da Paul Violi. Era più o meno la stessa che fu comunicata a Buscetta, stando alla sua stessa testimonianza, da Catalano al momento del suo arrivo a New York: l’uomo d’onore siciliano che si trova nel nuovo mondo è considerato un ospite, e deve comportarsi come tale senza compromettere l’organizzazione. Immaginiamo che ne sia stato informato anche Gaspare Magaddino, compaesano e parente dei grandi boss americani Joe Bonanno e Stefano Magaddino, lui stesso boss di Castellammare del Golfo nonché protagonista del meeting dell’Hotel delle Palme, un altro che si rifugiò negli Stati Uniti nel 1963. Non avrà voluto intenderla. Finì ammazzato a New York nel 1970, a sessantasei anni – brutta fine un po’ analoga a quella fatta dal suo compaesano Salvatore Maranzano, più di un quarantennio prima. Il richiamo di Paul Violi a Nanà Caruana indica che la regola era in una certa misura ispirata dalla necessità di evitare le «cose trubole» (i guai) derivanti dagli «imbrogli» della droga. Insomma le due proibizioni (niente droga nelle Famiglie americane di Cosa nostra, e niente siciliani) erano connesse. Mi sembra evidente che di fatto i mafiosi siciliani Buscetta e Caruana provavano ad aggirare l’una e l’altra. Riprendiamo il filo del racconto di Buscetta da dove l’abbiamo lasciato, da quando il «boss dei due mondi», giungendo dagli Stati Uniti, si incontrò a Milano con Salvatore Greco «ciaschiteddu», proveniente dal Venezuela, e
con altri tre mafiosi di alto bordo, tra cui c’era Gaetano Badalamenti. Correva il 1970. Dopo, Buscetta intraprese un breve viaggio per l’Italia, compreso un soggiorno a Palermo, e tornò a New York, dove venne finalmente identificato e arrestato. Rilasciato dietro pagamento di un’ingente cauzione, sparì egualmente per ricomparire, munito dell’ennesimo passaporto falso, in Brasile dove si procurò tra l’altro una nuova giovane moglie di buona famiglia locale. La polizia brasiliana lo sospettava come capo di una banda narcotrafficante, e a un certo punto lo arrestò rispedendolo con metodologia alquanto spiccia in patria nel 1972, dove lo aspettava la prigione. (Ci sarebbe rimasto otto anni: prima a Palermo, in condizioni molto comode, poi nel circuito assai più duro delle carceri «speciali» create da Dalla Chiesa). Altri siciliani presero il suo posto a New York come interfaccia delle Famiglie mafiose locali, contando anche sul fatto che gli uomini delle sezioni speciali sul crimine organizzato dell’Fbi o del Nypd mostravano scarso interesse «per le radici siciliane dei criminali americani e per i legami transatlantici che tenevano insieme la fratellanza»2. Furono invece gli investigatori più impegnati sul fronte della lotta al narcotraffico, nell’Fbi e nella Dea (nuovo nome del vecchio Narcotic Bureau), che li misero nel mirino. Seguirono le tracce della merce, dei corrieri, dei mediatori, e del denaro. Individuarono una catena di pizzerie, come quelle che aveva gestito Buscetta, che fungevano da attività di facciata: donde il nome di Pizza Connection dato alla più nota delle loro indagini. Diciamo subito che quest’indagine portava nei territori della Famiglia Bonanno. Alla Famiglia Gambino torneremo più avanti. La Famiglia Bonanno era la più piccola tra le cinque, e anche la più tormentata dopo l’esilio in Arizona del suo patriarca. Qualcosa si muoveva ai suoi vertici, con l’uscita dal carcere (1974) di Carmine Galante; e anche ai margini, nella zona di Knickerboker Avenue, Brooklyn, dove si formò una «fazione siciliana» di neoimmigrati guidati da Salvatore Catalano, cugino nonché omonimo di colui che aveva introdotto Buscetta nella grande mela. Qui possiamo fare ricorso alla testimonianza dell’agente Fbi Joseph Pistone, alias Donnie Brasco, infiltrato nella Famiglia stessa. Mentre era al seguito dell’affiliato incaricato di fargli da mentore, in un «Social club» di Brooklyn, Brasco/Pistone incontrò Catalano con i suoi. Chiese chi fossero, il suo mentore rispose che erano «zips», membri di una «fazione siciliana all’interno della Famiglia Bonanno», «vicini a Galante e coinvolti nel narcotraffico insieme a Galante»3. Noi aggiungiamo qualche ulteriore informazione a quelle raccolte da Pistone. Zip era un termine spregiativo usato per indicare i neoimmigrati, analogo insomma a quello a noi noto di greaser, che forse voleva riferirsi al loro dialetto siciliano troppo «veloce», difficile da intendersi per i cugini americani. Il broker da cui costoro si approvvigionavano era Gaetano Badalamenti, insomma un elemento di vertice della Cosa nostra siciliana. Galante si fornì di guardie del corpo provenienti da Castellammare, uno dei quali era un membro della gang di Knickerboker Avenue che si chiamava Cesare Bonventre – portava cioè lo stesso cognome della madre di Bonanno, ma non so se poi fosse con lei imparentato. Il nuovo boss, che era nato in America, fidava evidentemente nell’insegnamento del vecchio: la mafia del vecchio paese era la più dura ma anche la più leale. Il 12 luglio 1979 tre killer mascherati fecero irruzione nel ristorante italiano dove Galante stava consumando un lauto pranzo e lo ammazzarono. I castellammaresi che avrebbero dovuto proteggerlo sparirono, gli inquirenti ne arguirono che – in barba alla lealtà del vecchio mondo – erano d’accordo con gli assassini. Di seguito, la Famiglia Bonanno si spaccò in due gerarchie indipendenti, da un lato quella degli zips guidati dal loro «street boss» Catalano e da Bonventre, dall’altro quella dei locali, con conseguente moltiplicazione dei morti ammazzati. L’Fbi, temendo che Pistone stesso venisse coinvolto, finì per levarlo dalla mischia; avrebbe svolto un gran ruolo come testimone d’accusa negli anni seguenti. Nel 1986, la giuria del processo United States v. Salerno avrebbe condannato i membri della Commissione per l’assassinio del boss castellammarese. Può darsi che i primi abbiano ritenuto il secondo colpevole di aver violato entrambe le regole: niente siciliani nelle Famiglie, niente droga. Teniamo però conto anche della spiegazione un po’ diversa data a Pistone: Galante rifiutava di dividere i profitti della droga. Le due motivazioni non sono incompatibili tra loro. Al momento dell’assassinio, Carlo Gambino era già morto da tre anni (1976) lasciando la guida della Commissione (nonché della sua Famiglia) al cognato e antico luogotenente Paul Castellano che, a quanto sembra, minacciava sì terribili sanzioni contro quanti tra i suoi vendevano droga, ma accettava dai siciliani qualche generosa tangente in cambio della sua tolleranza4. E noi in effetti sappiamo dell’esistenza di un canale siciliano CatalanoBuscetta che portava nella direzione dei Gambino. Buscetta non era più a New York, ma in quel posto troviamo altri personaggi, imparentati tra loro nonché (sia pure alla lontana) con lo stesso Carlo Gambino. Vediamoli nella figura 13 alla pagina seguente. Nell’albero genealogico si scorgono i fratelli Gambino, anche loro giunti da Palermo nel 1964, stabilitisi a Cherry Hills (New Jersey), e in particolare GiovanniJohn, nato nel 1940; nonché i membri del clan Inzerillo, in particolare Salvatore Inzerillo, nato nel 1944, che era a sua volta nipote per parte di madre di Rosario Di Maggio, capo della Famiglia palermitana di Passo di Rigano.
In stretta relazione con i Gambino di Cherry Hills era Michele Sindona, che come sappiamo (si veda il capitolo precedente) si trovava a New York cercando di rimediare al crollo del suo impero finanziario, ricercato dalla polizia italiana e lasciato (per ora) in libertà provvisoria da quella statunitense. Ricordiamo che in quella fase Sindona diede a un killer italoamericano l’incarico di uccidere a Milano l’avvocato Ambrosoli – delitto effettivamente perpetrato nel luglio 19795. Nel frattempo, qualcuno minacciava di morte anche il gran regista del mondo bancario italiano, Enrico Cuccia, spiegandogli che Sindona stesso, se non avesse rispettato i suoi impegni con certi italoamericani, era «da considerarsi un uomo morto». Qui siamo al punto. Se dobbiamo credere alla successiva testimonianza di due pentiti, Stefano Bontate e i suoi «amici» di Cosa nostra palermitana avevano subito pesanti perdite con la crisi delle banche di Sindona, in cui avevano versato i proventi del narcotraffico, e pretendevano «la restituzione del denaro»6. Figura 13. Albero genealogico della famiglia GambinoInzerillo.
Fu per «aggiustare» la cosa che sempre nel 1979 Sindona si fece accompagnare in Sicilia da Giovanni/John Gambino di Cherry Hills. Possiamo immaginarlo d’accordo anche con gli Inzerillo, visto che a Palermo soggiornò in casa Di Maggio, e che si abboccò con i loro parenti nonché soci in affari Vincenzo e Rosario Spatola. Sembra che abbia visto anche qualche elemento dell’entourage di Bontate. Qualcosa va detto del depistaggio inscenato in quell’occasione, con un comunicato fasullo firmato Brigate rosse nel quale si annunciava al mondo il rapimento e il «processo proletario» che stava subendo. Già da tempo, d’altronde, il banchiere attribuiva le proprie disavventure giudiziarie alla persecuzione dei comunisti. All’atto della sua ricomparsa a New York (ottobre), aveva comunque pronta un’altra versione. La storia del rapimento, ammise, era una bufala intesa realizzare un piano concordato a New York con gli emissari di uomini d’affari «in gran parte massoni», i quali gli avevano chiesto di far uso del suo «carisma» in Sicilia per convincere «i centri di potere del voto che, come è a tutti noto, sono pochissimi» a sostenere un non meglio identificato «partito separatista», anche ottenendo che venisse concesso il voto agli italiani all’estero – cosa che avrebbe consentito il sostegno degli amici italoamericani7. Il tentativo di Sindona di trovare qualche indulgenza presso gli americani confondendosi nel fronte anticomunista non ebbe esiti. I giudici statunitensi lo condannarono a ben venticinque anni di prigione come bancarottiere, e poi lo estradarono in Italia. A questo punto era pronto a dire qualcosa che più somigliasse alla verità, ma senza rinunciare ai depistaggi. John Gambino, disse, fungeva da «messaggero delle Famiglie siculoamericane che con cui lui avevano rapporti negli Stati Uniti». Si rendeva conto, gli fu domandato, che si trattava di narcotrafficanti? No, rispose, anzi lo poteva escludere visto l’«alone di prestigio» di cui erano contornati. E citò in particolare gli Spatola, definendoli imprenditori di grande successo e grandi mezzi8.
2. Affari e fazioni. Abbiamo a suo tempo ipotizzato che Tano Badalamenti sia stato messo nel 1973 alla testa della Commissione proprio, al momento della sua ricostituzione, per valorizzare la connessione siculoamericana. In quello stesso 1973 tornò a Palermo dagli Stati Uniti Salvatore Inzerillo, che già conosciamo come uomo di punta del clan siculo americano degli Inzerillo. Lasciò in America amici e parenti, e altri trovò ad attenderlo a Palermo. Lo zio materno Rosario Di Maggio, capo della Famiglia di Passo di Rigano, era anziano, e Inzerillo lo sostituì nel ruolo, ottenendo anche la nomina a membro della appena ricostituita Commissione. Evidentemente, sul versante siciliano non esisteva un corrispondente della regola vigente in America e che, sia pure tra tante ambiguità, sanciva la divisione tra le due mafie. Prendiamo dunque atto della crescente influenza a Palermo dell’elemento siculoamericano, e del rafforzamento del legame con la Famiglia Gambino. La figura distingue questo network da quello che ruotava intorno a Badalamenti. Visto che Buscetta, come al solito, tace o glissa quando si arriva alle connessioni SiciliaAmerica, faremo ricorso alla testimonianza di Calderone. La gestione Badalamenti, racconta costui, si aprì con l’uccisione del camorrista che un decennio prima aveva osato schiaffeggiare Lucky Luciano: l’offesa venne lavata «col sangue, seppure con ritardo» dal nuovo boss per comunicare agli americani che «per merito suo la provincia di Palermo si era sistemata», che era lui il «capo dei capi» in grado di risolvere le questioni. Spiacque però a molti palermitani, spiega sempre Calderone, che sulla base di questa relazione privilegiata solo alcuni gruppi si arricchissero «con la droga nel momento in cui molte Famiglie si trovavano in difficoltà finanziarie e molti uomini d’onore erano quasi alla fame»9. Noi già conosciamo il meccanismo: gli investimenti erano individuali, donde profitti distribuiti in maniera ineguale. Figura 14. Due connessioni mafiose tra Sicilia e America, anni settantaottanta.
Nel 1977, così, Badalamenti non solo dovette abbandonare la guida della Commissione, ma venne addirittura «posato», ovvero espulso da Cosa nostra. Lasciò la Sicilia l’anno seguente, certo temendo per la propria vita. Nuovo capo della Commissione fu Michele Greco. Dopo che i Greco di Ciaculli (Salvatore ciaschiteddu, Totò l’ingegnere e Nicola) erano scomparsi nelle Americhe, in una latitanza che non ebbe mai fine, la guida della Famiglia di Ciaculli era passata a quelli di Croceverde. E Michele Greco si alleò coi corleonesi garantendo loro, coi suoi «quattro quarti» di nobiltà mafiosa, credibilità e prestigio nell’ambiente tradizionalista di Cosa nostra. L’alleanza disponeva della
maggioranza della Commissione e anche della squadra di killer più efficienti. Era più forte (come i fatti avrebbero a breve dimostrato) dell’opposta fazione guidata da Bontate e Inzerillo: per quanto il primo le garantisse grande radicamento nella classe dirigente cittadina, nonché relazioni politiche, e il secondo un ruolo privilegiato nel grande affare dell’eroina, nonché relazioni oltreoceano. Il sangue cominciò a correre in periferia. Come già sappiamo, nel 1978 i corleonesi decretarono l’assassinio di Giuseppe Di Cristina, figlio del già citato Francesco, rampollo di antica famiglia mafiosa di Riesi; e consentirono quello di Pippo Calderone da parte del loro alleato catanese Nitto Santapaola. Gli eventi accelerarono nella primaveraestate del 1979. Nella primavera il capo della Squadra mobile palermitana Boris Giuliano, operando in stretta collaborazione con la Dea statunitense, scoprì che adesso l’eroina destinata in America veniva non solo commercializzata ma anche raffinata nel Palermitano e nel Trapanese, e la polizia fece irruzione in alcune delle raffinerie. Nel luglio venne assassinato, pagando con la vita la sua efficienza e il suo coraggio. Siamo a un passaggio cruciale, ancor più brusco e concentrato di quello che ventidue anni prima (1957) aveva visto gli incontri dell’Hotel delle Palme e di Apalachin. In quello stesso luglio 1979, ricordo, vennero assassinati a New York Carmine Galante, e a Milano l’avvocato Ambrosoli. Tra l’agosto e l’ottobre, Sindona stesso passò dall’uno all’altro continente per il suo viaggio segreto siciliano. Gli interessi in gioco erano enormi. I profitti annui del traffico di eroina siculoamericano erano in quella fase di parecchie centinaia di milioni di dollari. Si inoltrò in quel gigantesco intrigo l’inchiesta condotta a partire dal maggio del 1980 dal giovane e brillante magistrato palermitano Giovanni Falcone (19391992). Falcone capì che non poteva non collaborare con i colleghi statunitensi e si recò a tale scopo, alla fine di quell’anno, a New York dove apprese qualcosa delle gesta degli zips. Seguì i movimenti della merce a partire dalle scoperte di raffinerie di eroina nel Palermitano e nel Trapanese, dagli arresti di chimici marsigliesi e di mercanti come Gerlando Alberti (che ricordiamo partecipante al meeting milanese del 1970), e dai sequestri di grandi quantità di droga in transito in Sicilia, a Milano, a New York. Mostrando grande capacità di indagare gli aspetti finanziari, trovò anche le tracce del denaro che si muoveva in direzione opposta, individuando i suoi movimenti tortuosi e vanificando gli espedienti intesi a fuorviare gli investigatori. Capì il ruolo svolto dagli Inzerillo nella fase A del circuito, e quello degli Spatola nella fase B10. Completò l’indagine nel gennaio del 1982, quando il quadro era radicalmente mutato, come ora diremo. Qui dobbiamo chiamare in causa ancora la testimonianza di Buscetta, che ha finalmente ammesso per gli anni ottanta le responsabilità dei mafiosi nel narcotraffico, dopo averle negate per gli anni sessanta. Gli inquirenti del maxiprocesso si sono fatti l’idea di una «gestione unitaria del traffico di stupefacenti da parte di Cosa nostra siciliana»11; ma, nella fattispecie, «gestione unitaria» non vuol dire proprietà collettiva, né tanto meno distribuzione egualitaria delle opportunità e dei redditi. Buscetta lo chiarisce bene. Seguiamo il suo racconto. L’approvvigionamento della materia prima in Medio ed Estremo Oriente veniva curato da elementi già attivi nel contrabbando di sigarette, i quali «lavoravano ognuno per conto suo e mantenendo gelosamente segreti i propri canali». Le Famiglie si limitavano a fornire ai loro aderenti «il permesso» di darsi da fare garantendo a ogni affiliato il «diritto» di vedersi inserito negli affari dei confratelli, anche se poi, in pratica, quest’«opzione privilegiata» poteva essere fatta valere solo in presenza di capacità finanziarie adeguate – come per il contrabbando di sigarette, anche «per il traffico di stupefacenti erano autonome tutte le persone. Chi aveva più possibilità economiche lavorava di più», chi era più vicino ai boss veniva coinvolto negli affari migliori12. Il circuito dunque non era per nulla lineare: c’era chi vendeva la materia prima alle raffinerie e poi la ricomprava dopo la trasformazione lasciando ai trasformatori i rischi e i guadagni relativi nella fase intermedia, c’era chi trasformava a proprie spese e a proprio rischio. Alla fine di questa fase, gli esportatori si trovavano in mano partite di merce la cui proprietà era attribuibile in diverse quote a diversi soggetti, la spedivano, aspettavano che i confratelli in America la vendessero all’ingrosso; e poi, quando il flusso tornava indietro in forma di denaro, provvedevano alla redistribuzione. Tutto questo Buscetta avrebbe saputo da Bontate nel 1980, il quale l’aveva ospitato a Palermo dopo la sua scarcerazione. Ne avrebbe anche ricevuto il caldo invito a fare fronte comune contro i corleonesi. Però il super testimone non ha spiegato quale contributo don Stefano si aspettasse da lui, visto che non disponeva di alcuna forza, in quella Palermo da dove mancava dal 1963 (a parte il breve viaggio del 1970, e i quattro anni passati in galera), dove era appena rientrato. Si è solo vantato di possedere quella «cosa in più», il carisma, fornito a lui personalmente da «madre natura»13, come fanno d’altronde altri protagonisti nonché testimoni privilegiati (Gentile, Bonanno e anche Sindona) quando non vogliono spiegarci davvero le ragioni del loro successo. Io un’ipotesi ce l’avrei: Bontate lo chiamava in causa in forza dei suoi legami con gli amici d’oltreoceano, nella speranza che costoro potessero indurre i corleonesi alla moderazione al fine di garantire la continuità del grande affare del narcotraffico. Buscetta dice di aver rifiutato l’invito, consigliando al suo ospite e agli altri suoi amici di restare tranquilli, e ripartendo per il Brasile nel gennaio del 1981. Sta di fatto (lo sappiamo grazie a un’intercettazione) che, mentre era in
quel lontano paese, parlò per telefono (11 e 12 giugno 1981) con uno degli imprenditori del giro dei Salvo, dal quale ricevette una nuova invocazione di aiuto. A quel punto l’atteso showdown era già cominciato. Bontate era stato ucciso il 23 aprile. Salvatore Inzerillo pensava di essere al sicuro almeno finché Riina non avesse incassato quanto dovuto per la vendita di una partita di droga oltreoceano. Invece l’11 maggio finì ammazzato anche lui, mentre usciva dalla casa dell’amante. L’automobile blindata di cui si era dotato non gli servì a molto. 3. Il massacro. Cominciò così un massacro senza precedenti. La statistica ufficiale ne indica le dimensioni solo in parte: non ha potuto infatti registrare l’enorme numero dei cadaveri sciolti nell’acido o fatti altrimenti sparire per sempre. Stando all’opinione degli inquirenti (Falcone in primis) ci sarebbero stati solo nel Palermitano in duetre anni tra cinquecento e mille morti. Perché? Ancora una volta, nella sua testimonianza del 1984 Buscetta ha negato che la strage derivasse dalla questione della droga: tutto si doveva, ha detto, alle «mire egemoniche» dei corleonesi14. In realtà l’una cosa è strettamente connessa all’altra. Di certo il massacro del 198183 non andrebbe descritto come una «seconda guerra di mafia», perché le differenze con la («prima») guerra di mafia di vent’anni prima sono troppo grandi. Innanzitutto per la mancanza del tipico meccanismo delle reciproche rappresaglie. Meglio potremmo parlare di un golpe, di una sorta di stretta totalitaria intesa a rafforzare col terrore le gerarchie, e a sradicare il dissenso. La testimonianza dell’ex boss di Caccamo Antonino Giuffrè, già legato ai corleonesi (poi risoltosi a collaborare), indica le due fasi: nella prima i corleonesi si impegnarono in una guerra lampo per eliminare «il gruppo avverso» che teneva «nelle mani» il narcotraffico, la seconda vide una svolta terroristica intesa a garantire, in senso più generale, il controllo del «gruppo ristretto del Salvatore Riina» su tutti gli altri. Sulla prima fase, io già mi ero espresso in questo senso nella mia Storia della mafia edita per la prima volta nel lontano 1993; oggi posso confermare la tesi con fonti che allora non esistevano, o che non conoscevo. Buscetta non fu l’unico espatriato in America del dopoCiaculli a essere coinvolto. Provò una mediazione anche Nicola Greco, cugino dell’antico boss Salvatore Greco «ciaschiteddu», tornato nel 1979 a Palermo dagli Stati Uniti15. L’informazione è stata confermata da Riina in persona in una delle conversazioni con un compagno di prigionia intercettate mentre si trovava in carcere, nel 2013. Di più, il boss corleonese, se interpreto bene, si riferisce anche a un intervento dello stesso Salvatore Greco «ciaschiteddu», che sostiene di aver respinto con decisione16. In occasione dell’operazione Old Bridge del febbraio 2008, condotta contemporaneamente dall’autorità di polizia italiana e da quella statunitense, sono stati raccolti molti elementi utili alla ricostruzione degli eventi del 1981. Ci sono intercettazioni ambientali di conversazioni in cui, sul filo della memoria, i reduci dello schieramento filocorleonese, i cosiddetti «vincenti», ricostruiscono la storia. Una potrebbe essere di grandissimo interesse, se purtroppo non fosse composta da frasi «smozzicate» e incomplete. I mafiosi esprimono il loro imperituro rancore verso Bontate, Badalamenti, e «quello in Brasile» (Buscetta, forse)17. Quanto a Salvatore Inzerillo, si ricordano a vicenda come ancora dopo la morte di Bontate gli fosse stata data una possibilità di accordarsi. Non la colse e fu peggio per lui. Noi sappiamo che le cose andarono molto male anche a suo fratello Santo e a un suo figlio adolescente, Giuseppe, assassinati a Palermo, nonché a un suo zio e a un altro suo fratello, Antonino e Pietro Inzerillo, uccisi poco più tardi nel New Jersey. Il cadavere di Pietro aveva un biglietto da cinque dollari sulla bocca, e altri due sui testicoli: la simbologia mafiosa indicava che aveva parlato troppo, ed era stato troppo avido. Gli americani avevano intanto tentato una mossa, almeno stando al collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo che racconta di aver partecipato a Palermo, all’indomani dell’assassinio di Salvatore Inzerillo, a un incontro tra John Gambino, Rosario Naimo, «uomo d’onore della Famiglia di Cardillo che, però, viveva negli Usa», e Rosario Riccobono, boss palermitano appartenente a una fazione non particolarmente legata ai corleonesi (tanto che venne assassinato di lì a poco). Gambino si sarebbe reso latore di una richiesta di indulgenza per gli «scappati» oltreoceano e particolarmente per gli Inzerillo – autore Paul Castellano, che ricordiamo capo della Famiglia Gambino Doc, quella «americana». Riccobono telefonò in America a uno dei condannati proponendogli di dimostrare la propria «buona volontà», ovvero di fornire agli amici palermitani notizie utili a «beccare» Buscetta. Ne ebbe però una risposta evasiva. Dopo di che la Famiglia Gambino lasciò che la mannaia corleonese cadesse anche sugli Inzerillo «scappati». Mutolo ne dedusse che Cosa nostra americana, chiedendo «a Cosa nostra palermitana delle direttive a cui attenersi», ne riconosceva la supremazia18. Il fatto è probabilmente vero, l’interpretazione eccessiva. Castellano, come abbiamo detto, si aspettava molto dai traffici degli zips, e magari cercava solo di evitare che gli sconquassi palermitani uccidessero la gallina dalle uova d’oro. Confidava di fare con i nuovi padroni di Palermo affari fruttuosi attraverso i loro corrispondenti (ad esempio Maino) a New York. Il business doveva andare avanti. Nel 1982 e nel 1983, eroina per un valore all’ingrosso di più di
333 milioni di dollari giunse a New York da fornitori siciliani. Tra il 1980 e il 1983, più di 40 milioni di dollari fluirono nelle banche svizzere destinati ad alcuni di questi fornitori. Così Castellano si guardò dall’interferire quando i siciliani sistemarono le cose a modo loro, con un tradimento consumatosi all’interno stesso della famiglia di sangue degli Inzerillo. Stando agli inquirenti sarebbe stato infatti uno di costoro, alla faccia del familismo, ad attrarre nel tranello fatale due stretti congiunti, quelli assassinati nel New Jersey. E Badalamenti? Buscetta dice che per due volte, nell’agosto del 1982 e nel febbraio del 1983, lo andò a trovare in Brasile per proporgli di tornare a Palermo «al fine di dirigere, in virtù del [suo] ascendente, la riscossa contro i corleonesi»19. Dice che rifiutò, giudicando la proposta «pazzesca», visto che a quel punto i corleonesi avevano stravinto. La proposta appare anche a me così pazzesca che mi sembra impossibile sia stata davvero formulata. Sembra più probabile che un narcotrafficante (Badalamenti) abbia comunicato all’altro (Buscetta) che avrebbe continuato il proprio profittevole business nonostante i nuovi equilibri palermitani. I fatti dimostrarono che a Palermo quest’ostinazione non era gradita. I corleonesi ordinarono l’uccisione di una quantità di parenti di Buscetta (due figli, un fratello e diversi altri). Vennero uccisi in gran quantità parenti dello stesso Badalamenti. Fu sterminato l’intero establishment della mafia di Castellammare, a cominciare dagli elementi che abbiamo inserito appunto nel network di Badalamenti (fig. 12, cap. X): tra loro, tre figli di Cola Buccellato, e Salvatore Totò Minore con due sue guardie del corpo. I corleonesi, o per meglio dire i loro alleati locali, posero fine per sempre all’antica connection siculoamericana castellammarese. 4. Terrorismo mafioso atto primo. Mentre viveva questo feroce scontro interno, Cosa nostra si inoltrava al proprio esterno sulla strada del terrorismo mafioso. Certamente si era mossa anche in passato in una logica terroristica, ad esempio contro i capi del movimento contadino. Ma in questo caso uso il termine per indicare una strategia omicida rivolta contro personaggi eminenti del mondo «di sopra»: politici, giornalisti e uomini delle istituzioni. Tra i precedenti non remoti, ricordiamo l’assassinio di De Mauro (1970) e quello di Scaglione (1971). Precedente più prossimo, il 1977, quando fu ucciso il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, già collaboratore di Dalla Chiesa. Era in aspettativa, e stava per lasciare l’Arma. Nondimeno, provava a impedire che ditte vicine ai corleonesi conseguissero una posizione monopolistica negli appalti per il grande affare della costruzione della diga Garcia. Quest’assassinio era certo collegato a quello del cronista Mario Francese, perpetrato all’inizio (gennaio) dell’annus horribilis 1979. Infatti Francese, in un articolo pubblicato sul «Giornale di Sicilia» nel marzomaggio 1979 (cioè dopo la sua morte) descriveva con abbondanza di riferimenti i contrasti tra le fazioni mafiose e l’ascesa dei «liggiani» (così chiamava i corleonesi), molto basandosi su informazioni fornite da Russo. Scriveva addirittura che il colonnello aveva saputo della proibizione dei sequestri di persona da parte della «cosiddetta Commissione mafiosa presieduta da Gaetano Badalamenti»20. Insomma i due erano al corrente dei verbali (diciamo così) di Cosa nostra, dunque si valevano di fonti interne. Noi sappiamo che anche Di Cristina (il boss di Riesi che abbiamo già citato) stava vuotando il sacco con un ufficiale dei carabinieri, quando venne assassinato nel 1978: forniva notizie relative all’escalation dei corleonesi e, tra l’altro, all’attentato che costoro stavano organizzando contro Terranova21. Siamo davanti a un crollo del muro invalicabile dell’omertà? Tutt’altro. Anche in passato meccanismi del genere si erano attivati, quando certe fazioni mafiose cercavano di ribaltare sfavorevoli rapporti di forza. RussoFrancese ricevevano confidenze e Di Cristina le forniva, magari insieme ad altri boss di orientamento anticorleonese22. Ma la Repubblica era ancora senza unghie, e distratta. Nessuna misura fu presa ad esempio per proteggere Terranova, il quale in effetti finì assassinato nel settembre del 1979. Già lo conosciamo come grande protagonista delle inchieste sulla mafia degli anni sessanta, quando era considerato, persino negli ambienti giudiziari, un «persecutore» del povero Liggio. Dal 1972 al 1979 aveva seduto alla Camera, svolgendo un ruolo importante nella Commissione parlamentare antimafia. Leonardo Vitale ha spiegato quali fossero i difetti che Cosa nostra non poteva perdonargli: era incorruttibile ed era comunista. I corleonesi poi lo consideravano un nemico personale, e si mossero in anticipo per metterlo fuori dal gioco quando lasciò il Parlamento e tornò in magistratura, puntando sulla carica di consigliere istruttore a Palermo. Un elemento va a questo punto sottolineato. Un po’ tutte le rico struzioni successive, anche in sede giudiziaria, riprendono lo schema interpretativo proposto da Buscetta: stando al quale i «perdenti» della guerra di mafia si sarebbero mantenuti su una linea collaborazionista, «tradizionalista» anche nel rapporto con il potere ufficiale23, laddove la scelta terroristica sarebbe stata un’esclusiva dei «vincenti», dei corleonesi. A me sembra che i fatti contraddicano questa impostazione, almeno per quanto riguarda il gruppo BontateInzerillo. Non voglio qui avanzare nessuna tesi «revisionistica», tendente cioè a sminuire il ruolo dei corleonesi nell’escalation terroristica. Dico che anche prima del golpe del 1981, cioè nel 197980, Cosa nostra era spinta su quella china da una molla comune ai due maggiori gruppi in conflitto al suo interno.
Già sappiamo che il 1979 fu ricchissimo di delitti mafiosi su scala planetaria: gli assassinî del boss castellammarese Galante, dell’onesto avvocato Ambrosoli, del troppo capace commissario Boris Giuliano. E in quel periodo ci fu il viaggio di Sindona dall’America alla Sicilia, e ritorno. In questi intrighi avevano un gran peso le bande narcotrafficanti legate sul versante palermitano appunto a Bontate e Inzerillo. L’anno seguente giunse l’assassinio del procuratore generale palermitano Gaetano Costa (19161980). Venendo da Caltanissetta, era estraneo ai giochi palermitani, e aveva un passato di antifascista militante nonché di partigiano: un altro comunista a rompere le uova nel paniere. Vantava anche un’esperienza di indagini bancarie. A un certo punto, per superare le esitazioni dei suoi collaboratori, aveva firmato da solo, contro la prassi, l’ordine di cattura contro i membri della gang SpatolaInzerillo. Buscetta dice che Inzerillo ordinò l’assassinio «per fare sfoggio della sua potenza», cioè per controbilanciare l’effetto propagandistico sul popolo di Cosa nostra degli attentati dei corleonesi24. Le due fazioni si muovevano dunque anche in una logica di concorrenza. Oltre a giornalisti, magistrati, poliziotti, caddero due politici democristiani: il segretario provinciale del partito Michele Reina (marzo 1979) e il presidente della Regione Piersanti Mattarella (gennaio 1980). Poco si sa su mandanti e moventi specifici di questi delitti. Però qualcosa capiamo delle ragioni di fondo, politico generali, che rendevano Mattarella inviso alla mafia. Nel gioco delle correnti democristiane, era sempre stato sulla linea Moro, favorevole a un’apertura al Pci. Linea che aveva un che di paradossale (almeno in apparenza), perché Piersanti era il figlio di quel Bernardo che in passato era stato molto chiacchierato a sinistra, e tra gli altri da Danilo Dolci (il quale però, è giusto dirlo, era stato denunciato e condannato per diffamazione). Dalla Chiesa ne spiegava la morte in quell’ottica: «è accaduto che il figlio, certamente consapevole che qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e il suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E […] ha trovato il piombo della mafia»25. Falcone, considerando «veramente riduttivo pensare che l’omicidio Mattarella sia stato provocato da uno o più appalti concessi o rifiutati»26, ha chiamato in causa un suo tentativo di emancipare la classe politica isolana dal condizionamento mafioso. Aveva in mente in effetti un obiettivo politicogenerale, e (io credo) anche i suoi assassini volevano realizzarne uno, opposto: bloccare lui ed evitare che altri fossero tentati dal suo esempio. I delitti Reina e Mattarella ci fanno capire che all’interno della Democrazia cristiana qualcuno stava provando a sottrarsi ai condizionamenti mafiosi. Pesanti restavano comunque le responsabilità passate e presenti degli uomini di questo partito, e i casi di fiancheggiamento. Noi abbiamo già messo a fuoco il caso di Lima e quello di Ciancimino. Il primo, eletto nel 1968 alla Camera, assunse un ruolo nazionale, e passò dalla corrente fanfaniana a quella andreottiana; seguito dai cugini Salvo. Anche il secondo, più palesemente colluso e universalmente discusso, rimasto una potenza su scala cittadina, fece qualche anno dopo lo stesso percorso, passando agli andreottiani. Giulio Andreotti era un grande leader democristiano ma la sua corrente personale non era consistente come altre. In essa, l’incidenza percentuale della componente siciliana risultò consistente. Cito un commento di Macaluso, stando al quale Andreotti non si sarebbe lasciato coinvolgere più di tanto: «Andreotti non produce politica. De Gasperi, Fanfani, Moro si sono cimentati con la complessa vicenda politica siciliana. Andreotti no, usava quel che trovava o che gli si proponeva. Nel 1968 arriva Lima. Ed è Lima a fare politica; Giulio gli conferisce autorevolezza e proiezione nazionale»27. 5. Il boss e lo statista. Dobbiamo anticipare qui l’evento traumatico che nel 1993 portò i magistrati di Palermo a incriminare Andreotti per concorso in associazione mafiosa, cioè per complicità con Cosa nostra. Ne parleremo a suo tempo. Della sentenza di rinvio a giudizio, ho già utilizzato qualcosa relativamente al caso Sindona, utilizzerò ora altri elementi: quelli comunque di cui è stata accertata la fondatezza dalla sentenza di appello del 2004, poi confermata in Cassazione. Anzi di tale sentenza espongo il succo. Andreotti avrebbe in effetti sostenuto Cosa nostra sino al 1980, e se ne sarebbe allontanato dopo. Alla fine è stato assolto solo perché i reati antecedenti al 1980 risultavano ormai prescritti – per essi, stando al tribunale, gli sarebbe toccato rispondere «dinanzi alla Storia»28. Un’espressione retorica? Io penso che la storia sia stata giustamente chiamata in causa, perché Andreotti rappresentò sin dal dopoguerra, al massimo livello, la Democrazia cristiana e il suo governo. È un fatto che Andreotti proteggeva, tra gli altri, Sindona: in cambio magari del sostegno fornito dal banchiere alla Democrazia cristiana e forse anche alla finanza vaticana. Questo peraltro lo portava anche nei territori della mafia siciliana e newyorkese. E poi c’è l’altro versante, quello di Lima e dei Salvo. Andreotti non ha potuto negare la propria intimità con il primo. Ha invece negato di aver conosciuto i secondi, contraddicendo fotografie che lo mostrano accanto a loro durante i suoi viaggi elettorali siciliani, testimoni che ricordano i suoi regali per le nozze dei loro rampolli, e i racconti di molti pentiti. Il tribunale ha ritenuto le sue goffe proteste del tutto inverosimili.
Ma andiamo alla celebre testimonianza di Marino Mannoia, killer e narcotrafficante al seguito di Bontate, poi riconciliatosi coi corleonesi, infine passato a collaborare con le autorità. Mannoia ci mostra un Bontate che interviene in maniera tutt’altro che moderata nelle questioni della Democrazia cristiana. Ne avrebbe ad esempio ricevuto l’ordine di prepararsi a uccidere Rosario Nicoletti, segretario regionale della Dc («quel crasto se non mette la testa a posto lo dobbiamo ammazzare»)29. E veniamo al famoso incontro tra Bontate, lo stesso Andreotti, Lima e i Salvo, all’indomani dell’assassinio Mattarella. Mannoia sarebbe rimasto fuori dalla stanza, ma all’uscita il boss gli avrebbe riferito di aver così apostrofato il grande statista: «In Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la Dc dovete fare come vi diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare solo su quelli del Nord, dove tutti votano comunista, accettatevi questi». Gli avrebbe detto di aver diffidato Andreotti «dall’adottare interventi o leggi speciali, perché altrimenti si sarebbero verificati fatti gravissimi»30. Come si vede, ho usato il periodo ipotetico per esprimere il ragionevole margine di dubbio che resta, anche se la sentenza del 2004 ha ritenuto degna di fede la testimonianza di Mannoia31. Saremmo davanti all’incontro più ravvicinato tra potere politico e potere mafioso dopo quello tra Mussolini e Ciccio Cuccia del 1924. Magari Bontate esagerò nel riferirne i contenuti uscendo dalla riunione, con la tipica iattanza del boss che vuole rassicurare i gregari: gliele ho cantate chiare, non oseranno niente contro di noi. È comunque verosimile che la leadership di Cosa nostra pensasse (a torto o a ragione non importa) di condizionare il leader democristiano, quanto meno attraverso Lima e i Salvo; senza di che non si comprendono le successive frustrazioni, le reazioni che nel 1992 portarono all’emanazione della sentenza di morte appunto contro Lima e Ignazio Salvo. Invece, evidentemente, aveva pensato di non poter condizionare Mattarella. Traiamo qualche informazione dalla testimonianza resa nel 1994 da Gioacchino Pennino, mafioso di antica schiatta (su cui torneremo), ben inserito nella macchina politica democristiana. A suo dire, dopo l’assassinio di Mattarella, la leadership di Cosa nostra molto spinse per la convergenza tra Lima e Ciancimino. Pennino sostiene di aver seguito l’indicazione, ma malvolentieri: Ciancimino, a suo dire, era troppo compromesso, con lui non era concepibile alcuna operazione politica ad ampio raggio32. E in effetti Ciancimino fu l’unico politico democristiano a rivendicare l’uso della violenza, in un discorso del 1981: Annunciamo con chiarezza che non accettiamo provocazioni. Questa è una guerra bieca e vile. E chi ci chiama a combattere con le armi, troverà armi. E chi intende seminare morte troverà morte33.
Ufficialmente, si riferiva all’eventualità (assai improbabile) di un’offensiva Br in Sicilia. Più probabilmente, il suo messaggio andava inserito nella guerra dichiarata da Cosa nostra per acquisire il controllo della Dc. Così la sua figura divenne troppo ingombrante, e Lima lo scaricò. Su tutto questo, Andreotti si è sempre mantenuto totalmente sulla negativa, negandoci qualsiasi informazione. In un’intervista rilasciata nel 1993, momento della sua incriminazione, ci ha fornito forse (con la solita nonchalance) un abbozzo di interpretazione: quella gente della mafia per quarant’anni non si era dimostrata «pericolosa», seppure certo non si trattasse di «angioli»; se non che, a un certo punto era «arrivata la droga»34. Forse anche prima la pensava così, come lascia intendere una fonte meno reticente: le note vergate dal generale Dalla Chiesa sul colloquio che ebbe appunto con Andreotti il 6 aprile 1982, prima di partire per assumere l’incarico di prefetto di Palermo che gli sarebbe stato fatale. (Anche se – indovinate? – Andreotti ha negato persino che le annotazioni del morituro fossero veritiere)35. Leggiamo il diario. Dalla Chiesa ha spiegato ad Andreotti cosa intendeva fare. «Sono stato molto chiaro e gli ho dato la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori. Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno […] lo ha condotto e conduce a errori di valutazione di uomini e di circostanze». Andreotti ha risposto citando Sindona e raccontando di tal Inzerillo, «morto in America, [e] giunto in Italia in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca». Dalla Chiesa ha annotato stizzito: anche questo «depone nel senso» della superficialità di Andreotti, purtroppo in queste cose «prevale ancora il folklore»36. Commento. Dalla Chiesa ha invitato il suo interlocutore a prendere le distanze, proponendo in estrema sintesi una sua interpretazione dell’intera questione. Ha distinto tre livelli. 1) Andreotti stesso, che a suo parere ha con la mafia una relazione molto mediata, ovvero strumentale, ridotta a problema elettorale. 2) I suoi «grandi elettori», Lima, D’Acquisto (presidente della Regione), Martellucci (sindaco di Palermo), i membri di quella che in altro luogo ha definito «la famiglia politica più inquinata dell’isola»37. 3) L’elettorato dei suoi grandi elettori, le famiglie di mafia distinte appunto da quelle politiche. Andreotti ha risposto a tono, in maniera tutt’altro che folkloristica. Altro che disinformato! Ha dimostrato una straordinaria conoscenza delle dinamiche che abbiamo analizzato nei paragrafi precedenti. Ha evocato personaggichiave come Sindona insieme addirittura al Pietro Inzerillo ammazzato nel New
Jersey, al particolare dei dollari messigli in bocca dai suoi assassini. Ha voluto suggerire una pista, ma il grande investigatore non lo ha capito (forse non era informato quanto lui?). Gli ha spiegato che il pericolo vero veniva dalle fazioni mafiose in conflitto intorno al nodo del narcotraffico siculoamericano, non da Lima e dai politici più o meno collusi. 1 Ordinanza Caruana, pp. 70 sgg. Il secondo viaggiatore si chiamava Giuseppe Cuffaro. Questo testo, trasmesso dai canadesi alla Questura di
Agrigento, rimase qui a lungo a «dormire», finché venne valorizzato dalle inchieste degli anni ottanta. 2 Blumenthal 1988, p. 24 e passim. 3 Testimonianza di Pistone, in United States v. Salerno, pp. 105 e 109. Ma cfr. anche la sintesi delle altre testimonianze di Pistone fornita da Blumenthal 1988, pp. 40 sgg., nonché il libro dello stesso Pistone 1987. 4 Davis 1993, p. 182. 5 Istruttoria Sindona, pp. 246. Il killer di Ambrosoli si chiamava William Aricò, e di lui non so molto. Sembra che il bancarottiere si sia prima rivolto a un catanese emigrato a New York, che lavorava per gli zips, avendone un rifiuto: Sterling 1990, p. 180. 6 Si tratta dei pentiti Marino Mannoia e Gaspare Mutolo, la cui testimonianza è riportata in Istruttoria Andreotti, pp. 45862. 7 Il testo dell’interrogatorio è in Istruttoria Sindona, pp. 25783 e in particolare pp. 265 e 271. 8 Cit. interrogatorio di Sindona, ibid., pp. 269, 276 e passim. 9 Arlacchi 1992, pp. 27 e 94. 10 Istruttoria Spatola. 11 Istruttoria maxiprocesso, p. 213. 12 Testimonianza Buscetta B, I, p. 218. 13 Si veda ad esempio Biagi 1986, p. 125. 14 Testimonianza Buscetta A, pp. 35 e 36. 15 Testimonianze di Marino Mannoia e Salvatore Cancemi, in Istruttoria Andreotti, p. 798. 16 Intercettazioni Riina, p. 55. 17 Conversazione del 13 ottobre 2005 tra due alti papaveri di Cosa nostra, Antonino Rotolo e Antonino Cinà, in Ordinanza Casamento, p. 68. 18 Le dichiarazioni di Mutolo in Ordinanza Casamento, pp. 767. Parte del materiale è stato anche riportato in «S – Il magazine che guarda dentro la cronaca», Palermo, febbraio 2008. Cfr. anche A. Bolzoni, Colpo mortale alla mafia italoamericana, in «la Repubblica», 8 febbraio 2008. 19 Testimonianza Buscetta A, p. 60. 20 Francese 2000, p. 94. 21 Istruttoria maxiprocesso. 22 Nelle confessioni rese dopo il 1996, Giovanni Brusca, uno dei killer corleonesi più feroci, spiega l’esplodere della guerra interna alla mafia come una risposta a queste «trattative»: Lodato 2009, pp. 50 sgg. Cfr. anche Palazzolo 2010, pp. 214 sgg. 23 Ad esempio in Istruttoria Andreotti, p. 757. 24 Testimonianza Buscetta B, p. 269. 25 Intervistato da G. Bocca, Come combatto contro la mafia, in «la Repubblica», 10 agosto 1982. 26 Cit. in Basile 2007, p. 72. 27 Macaluso 1995, p. 16. 28 Stralci sia della sentenza di primo grado che di quella di appello in Pepino 2005. 29 Istruttoria Andreotti, p. 735. 30 Ibid., p. 737. 31 Non ha invece prestato fede alla testimonianza di altri pentiti relativi a un successivo incontro di Andreotti con Riina, nel corso del quale i due si sarebbero scambiati il famoso bacio. 32 Istruttoria Andreotti, p. 835 e passim. 33 Traggo la citazione da Ciancimino La Licata 2010, p. 141. 34 S. Bonsanti, Io Giulio Andreotti, in «la Repubblica», 17 dicembre 1993. 35 Le sue dichiarazioni in Istruttoria Andreotti, p. 156. 36 I brani del diario in Istruttoria maxiprocesso, p. 229. 37 È l’espressione usata in una famosa lettera a Spadolini. Ma su tutto questo cfr. la testimonianza e l’analisi del figlio Nando: Dalla Chiesa 1984.
XIII. Sfida e risposta
Molti hanno descritto Cosa nostra come una superpotenza elettorale. Il giudice Giuseppe Ayala, pubblico ministero nel maxiprocesso del 198687, provò una volta a calcolare il numero complessivo dei voti che aveva a disposizione a Palermo moltiplicando il numero dei suoi affiliati (forse 2700) per 70 (i voti influenzabili da ognuno di loro): totale, 180 000 all’incirca1. Io penso che queste stime siano fuorvianti, innanzitutto per ragioni metodologiche: mentre è assai facile ammettere che il primo affiliato possa influenzare 70 o più voti, che il secondo e il terzo facciano altrettanto, è sommamente improbabile che il centesimo o il millesimo riesca a trovare, nell’ambiente in cui in comune pescano lui e gli altri, ancora 70 voti in più, che non siano già stati conquistati dai suoi sodali. Ma più importante è l’obiezione di merito di Falcone: «un’unità d’indirizzo, chiamiamolo politico, di Cosa Nostra nella realtà dei fatti non c’è. Non vi è una delibera del consiglio di amministrazione di Cosa Nostra che dice di volta in volta per quale partito o candidato votare»2. Cosa nostra non ha un consiglio d’amministrazione è non è nemmeno un partito, non ha ottenuto storicamente il consenso per se stessa, ma mettendosi al servizio di partiti essi sì in grado di proporre idee e programmi, di attivare scambi anche simbolici di vasto raggio con gli elettori. Ripercorriamola, questa storia, in estrema sintesi. In età liberale i mafiosi agivano come galoppini elettorali di grandi notabili. In vista del fascismo (ricordiamo la cronaca fatta dal dottor Allegra delle elezioni del 1924) cercarono vanamente di tenere il piede in due staffe. Al momento dello sbarco angloamericano molto si indentificarono col Mis; il quale durò poco, perché il suo bluff venne scoperto al momento delle prime consultazioni elettorali. Poi appoggiarono monarchici e liberali, e solo quando la Democrazia cristiana già trionfava confluirono nella sua macchina politica: come diceva il tenente Malausa, per «convenienza personale». Non sono mai stati in grado di giocare quel gioco da soli. Per questo, al passaggio tra anni settanta e ottanta, i mafiosi scelsero il gioco del terrore, forti dei propri narcodollari, speculando sulla debolezza materiale e morale del potere ufficiale. 1. Terrorismo mafioso atto secondo. Potremmo, schematizzando al massimo, distinguere nei delitti eccellenti due diverse tipologie. La prima. La mafia uccide persone da cui si sente minacciata sul piano politicogenerale. La seconda. Uccide persone che la minacciano nell’immediato, nelle sue attività. Si vede in entrambe la «specifica politicità» di Cosa nostra rispetto ad altre forme italiane di criminalità organizzata3. La si vede nel 197980, quando è ancora un aggregato relativamente pluralistico di fazioni impegnate in una feroce lotta per il potere. La si vede nel 198283, quando assume un assetto monocratico. Sono di tipo politicogenerale le ragioni che inducono la mafia a uccidere Pio La Torre. Ha fatto parte della Commissione antimafia e nel 1975 ne ha firmato una relazione finale (di minoranza), di grande rilievo. Si è a lungo, seppur vanamente, impegnato in Parlamento nell’elaborazione di una legge contro le associazioni a delinquere di stampo mafioso, privilegiando la tematica – fondamentale – del sequestro dei beni dei boss. Voglio segnalare un suo scritto di fine 1979, che esprime una precoce presa di coscienza sulla pericolosità degli scambi di metodi e tecniche in corso tra terrorismo e mafia4. Nelle drammatiche circostanze del 1981 viene richiamato da Roma e posto alla guida della Federazione regionale del partito. Finisce assassinato, insieme al compagno che gli fa da autista, il 30 aprile del 1982. Il giorno dopo, il primo maggio, Dalla Chiesa viene nominato prefetto di Palermo. Generale più prefetto. Il peso dei suoi poteri reali non è proporzionale a quello nominale dei titoli. Rilascia un’intervista a Giorgio Bocca, ricordando il precedente del prefetto Mori, lasciando intendere che anche a lui andrebbe attribuito un qualche ruolo di «coordinamento» sovraprovinciale e interforze. Spiega di aver riflettuto sulle condizioni che inducono la mafia a decretare la morte dei potenti: e di aver capito che la pena di morte viene decretata contro chi si trova isolato. Bocca annota che Dalla Chiesa, nel palazzo della Prefettura di Palermo, dà proprio quell’impressione5. Si trova contro tutto lo stato maggiore della corrente andreottiana siciliana, della «famiglia politica più inquinata» dell’isola, come dice lui. La logica emergenziale della sua nomina lo separa da una macchina che funziona (quando funziona) secondo criteri ordinari. Si rivela controproducente l’espediente, usato in altre fasi storiche, di tenere di riserva un funzionario che sa per mandarlo in Sicilia quando necessità richiede (pensiamo a Sangiorgi, ancora a Mori).
Adesso colpire un bersaglio così ben evidenziato diventa facile. Prima non lo era: nessun mafioso avrebbe mai pensato di sparare a Palermo a un prefetto che era anche un generale dei carabinieri, se in altri luoghi d’Italia e negli anni immediatamente precedenti non si fosse sparato a chiunque, se non fosse stato ucciso Moro. Dalla Chiesa, uomo di prestigio, di grande e conosciuta esperienza nel campo, viene spedito a Palermo più che altro per fare da simbolo, e subito viene simbolicamente eliminato. Cade in un agguato, insieme alla moglie e a un agente di scorta, il 3 settembre. L’opinione pubblica si convince che sia stato volutamente sacrificato da uno Stato incapace e/o complice. Il terrorismo mafioso sembra invincibile. Invece qualcosa di importante si muove anche sul fronte opposto, e noi – in prospettiva storica – cominciamo a vedere in atto il meccanismo sfidarisposta che tanti protagonisti di quel tempo non possono vedere. L’assassinio di La Torre non blocca l’iter della legge sulle associazioni mafiose, anzi lo sblocca, e la legge entra a far parte del codice penale all’articolo 416bis. Meno di due mesi prima dell’assassinio Dalla Chiesa, il 13 luglio, la Squadra mobile della polizia e il Nucleo investigativo dei carabinieri hanno presentato alla magistratura il rapporto «Greco Michele + 160», che ricostruisce con dovizia di particolari gli organigrammi dei «vincenti» della guerra di mafia in corso. Fornisce un grande contributo di capacità investigative il vicequestore Antonino Cassarà detto Ninni (19471985), forte anche delle informazioni fornitegli da Salvatore Contorno, uomo d’azione già legato a Bontate, sfuggito agli agguati dei corleonesi: nome in codice Prima luce. Sul versante giudiziario, Rocco Chinnici fa un bel passo in avanti quando decide di valorizzare le competenze in indagini finanziarie di Falcone (che viene dal civile) affidandogli nel maggio del 1980 l’inchiesta a noi nota sul narcotraffico siculoamericano. Pone poi le basi per la creazione di un pool specializzato di inquirenti nel quale siano applicate le metodologie che, come sappiamo, frutti importanti stanno dando nella lotta al terrorismo. Contrariamente ai precedenti caduti, è ben protetto da una scorta e da un’auto blindata. Ci vuole una potentissima autobomba per uccidere lui, due uomini di scorta e il portiere di uno stabile (29 luglio 1983). Palermo come Beirut, qualcuno commenta stavolta. Il fragore dell’esplosione conferma che è finita l’era della convivenza pacifica tra mafia e apparati statali. Il Consiglio superiore della magistratura manda a Palermo, per sostituire il magistrato assassinato, il fiorentino Antonino Caponnetto. «Sembra un magistrato d’altri tempi – commenta Di Lello – ma per fortuna di tutti non lo è»6. Caponnetto conferma la scelta per un pool antimafia cui chiama a partecipare quattro magistrati: Falcone che assurge a leader del gruppo, Paolo Borsellino, appunto Di Lello e Leonardo Guarnotta. Anche l’assassinio di Chinnici, dunque, non blocca il nuovo corso, anzi lo conferma. Torniamo per un attimo nello scenario planetario del narcotraffico, e a don Tano Badalamenti, intercettato nel gennaio del 1984 dall’Fbi mentre cercava di risolvere telefonicamente, con un suo nipote di Detroit, i problemi del finanziamento di certe partite di droga7. Le due parti programmarono un incontro diretto, non in Brasile, come gli inquirenti si sarebbero aspettati, ma in un altro continente, a Madrid. Qui peraltro intervenne la polizia spagnola, allertata dagli americani, che arrestò tutti. Mentre Badalamenti veniva estradato negli Stati Uniti (aprile 1984), Buscetta era da qualche mese ospite delle prigioni brasiliane. Ne uscì nel luglio per essere rispedito in Italia. Ciascuno dei due grandi perdenti finì così nelle mani dell’autorità di uno dei due paesi su cui la mafia distendeva le proprie reti da più di cento anni. Badalamenti sarebbe poi stato il principale imputato nel processo detto Pizza Connection, cominciato a New York nell’ottobre 1985. Dichiarò al suo avvocato: «non ho mai tradito e non tradirò mai i miei segreti». Buscetta invece si decise a parlare. Si intese prima col superpoliziotto Gianni De Gennaro, e poi con Falcone. I colloqui andarono avanti per tre mesi. Nessuno all’esterno ne seppe niente, ma i sotterranei di Cosa nostra si scoperchiarono davanti agli inquirenti. La notte del 29 settembre 1984 partì il primo grande blitz di polizia, con gli arresti di centinaia di mafiosi. Di seguito, toccò anche a Ciancimino, che al termine di un breve periodo in carcere finì al soggiorno obbligato. Poi fu la volta di Nino e Ignazio Salvo. Michele Greco finì in manette nel febbraio 1986. I boss corleonesi rimasero latitanti, ma nel complesso una grande grande caccia all’uomo mostrò la nuova efficienza e determinazione delle forze di polizia. Ancora un accavallarsi di sfida e risposta, altri tragici effetti. I boss non ammettevano che i poliziotti facessero sul serio, e vedevano nel loro particolare impegno un segno di personale inimicizia, da punire come usavano fare con i loro nemici personali. Il capo della squadra «catturandi», il commissario Giuseppe Montana detto Beppe, utilizzava anche le vacanze per spiare dal suo motoscafo le lussuose ville della costa dove pensava potessero nascondersi i latitanti. I sicari lo raggiunsero così, in pantaloncini e zoccoli (28 luglio 1985). Tutta la Squadra mobile si buttò alla loro ricerca e arrestò certo Salvatore Marino, che morì durante un pestaggio in questura. Di certo non è lecito ammazzare di botte un sospettato. Mi fa comunque un certo effetto pensare a quanto ne seguì: il leader radicale Marco Pannella partecipò al funerale di Marino invocando i principi di legalità fianco a fianco con mafiosi che magari avevano appena sciolto nell’acido il cadavere di qualche loro nemico, o progettato l’assassinio di qualche uomo delle istituzioni. Il ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro si precipitò a Palermo e all’istante trasferì
ai quattro angoli della penisola i funzionari di polizia comunque coinvolti. Anche lui aveva ragione. Fa comunque impressione la radicalità e la tempestività della risposta, mai vista in altri consimili casi (in primis quello di Pinelli, l’anarchico caduto dalle finestre della Questura di Milano nel 1969); e soprattutto agli antipodi rispetto alle incertezze con cui la Repubblica rispondeva a ogni passaggio della sanguinaria escalation mafiosa. Passaggio successivo del dramma. Cassarà rientrava a casa con scadenze imprevedibili, girava in auto blindata scortato da due agenti tra cui Roberto Antiochia, precipitosamente tornato dalle vacanze perché sapeva che le carenze di organico rischiavano di lasciare il suo capo privo di chi gli «coprisse le spalle». Non si saprà mai come un esercito composto da circa quindici sicari riuscisse ad avere l’informazione giusta per intercettarli proprio sotto casa Cassarà, e annientarli sotto un uragano di fuoco. Laura, la moglie del vicequestore uscita in balcone per salutare il marito, lo vide cadere, e corse in strada solo per raccoglierne l’ultimo respiro. L’agente di scorta Natale Mondo, miracolosamente sopravvissuto, sarebbe stato a sua volta ucciso nel 1988. Un altro funzionario della Squadra mobile, Francesco Accordino, ha raccontato di recente quella storia con queste parole: Cassarà disse più di una volta: noi siamo morti che camminano. È inutile dire che non avevamo paura, noi avevamo paura, ma avevamo una grossissima volontà di andare avanti e di non farci né intimidire, né fermare da questi delinquenti. Soprattutto avevamo una grossissima motivazione, perché noi credevamo veramente di portare avanti la legge, lo Stato, la legalità. Ma soprattutto [ci sentivamo] fra i migliori segugi affermati in Italia, e apprezzati dalla Polizia di mezzo mondo8.
Abbiamo insomma gente che lavora nelle vacanze, che rischia la pelle per difendere gli amici, polemizza con i colleghi inetti, incontra il tradimento ma continua sulla propria strada pur prevedendo come andrà a finire – male. In quel momento gli uomini della Squadra mobile sono soli, come se fossero loro i devianti, i sovversivi su cui si abbatte l’enorme potenza di uno Stato moderno9. E ai sovversivi vengono subito dopo equiparati anche i magistrati del pool, spostati fulmineamente insieme alle loro famiglie nel supercarcere dell’Asinara, in passato destinato appunto ai brigatisti, perché i servizi di sicurezza hanno saputo che dai vertici di Cosa nostra è partito l’ordine di ucciderli. Con mezzi di fortuna, completano il loro lavoro. 2. Antimafia come movimento. Sfida e risposta. Il terrorismo mafioso rispose con ferocia al riarmo delle istituzioni ma per certi aspetti anche lo agevolò. Mise sotto scacco la politica ma anche determinò crescenti opposizioni. All’assassinio di Piersanti Mattarella, seguirono all’interno della Democrazia cristiana altri timidi tentativi di correzioni di rotta. Sulla linea politica tracciata da Piersanti si collocò suo fratello, Sergio Mattarella, anche lui giurista, eletto per la prima volta al Parlamento nel 1983, e destinato a giocare ruoli politici molto importanti su scala nazionale su un asse di centro sinistra. Il 1983 fu anche fu anche l’anno in cui la pediatra Elda Pucci venne eletta sindaca di Palermo in un momento di reciproca paralisi delle correnti del partito di maggioranza. Pucci inserì – sia pure timidamente – la questione della mafia nella propria agenda politica. Dal maggio del 1985, molto più si spese nel ruolo di sindaco «antimafia» Leoluca Orlando. Orlando, nato nel 1947, professore universitario di diritto, era stato vicino a Piersanti Mattarella come suo padre (Salvatore Orlando Cascio) – anche lui giurista nonché esponente democristiano – era stato vicino a Mattarella padre (Bernardo). Il riposizionamento della generazione dei figli rispetto alla generazione dei padri mi sembra molto significativo di una evoluzione storica. Caratterizzava una parte della generazione più giovane della classe dirigente palermitana, la quale viveva come una barbara regressione la conquista mafiosa della città. L’esperimento politico di Orlando godette dell’avallo del segretario nazionale democristiano De Mita, disponibile a una qualche apertura al Pci per controbilanciare il suo scomodo alleato, il Psi di Craxi. Ben presto Orlando ruppe coi socialisti appoggiandosi a una maggioranza cosiddetta «anomala», comprendente appunto il Pci. Pensava, come molti altri in tutt’Italia, che la contrapposizione tra i due maggiori partiti avesse immobilizzato un paese che aveva invece bisogno di cambiare. E credeva che la politica avesse bisogno di forze nuove, di un bagno vivificatore nella «società civile». Era un’idea che si faceva spazio, e avrebbe giocato un ruolo ben maggiore nella fase successiva, comunemente detta del passaggio dalla «prima» alla «seconda» Repubblica. Orlando ne sarebbe stato uno dei protagonisti su scala nazionale, formulando uno dei più appassionati appelli appunto per il «primato della società civile», e contro i residui della vecchia «formapartito»10. Però il concetto era stato nelle sue corde già in precedenza. Ricorderò un suo intervento del 1971 in cui, appena ventiquattrenne, collegava il problema della mafia non tanto al sottosviluppo economico, quanto alla «inesistenza nella nostra società meridionale di gruppi organizzati»: questo vuoto lasciava l’individuo alla mercé della «società mafiosa, […] l’unico gruppo organizzato effettivamente funzionante» che dalle
rotture indotte dalla modernità nella «chiusa società rurale siciliana» era uscito rafforzato, piuttosto che demolito. Orlando insomma vedeva nell’organizzazione la forza della mafia, nella disorganizzazione la debolezza dei suoi nemici, e identificava la soluzione nel rafforzamento della società civile: «la via dell’antimafia passa attraverso la scoperta dell’associazionismo»11. La linea di pensiero era collegabile a quella da molti anni portata avanti da Danilo Dolci, che aveva detto: finché le forme di collaborazione più normali sono di tipo mafiosoclientelare (è molto significativo che si dica «associazione» [solo] per significare «associazione a delinquere» […]) se non si ha fondata e positiva esperienza alternativa, è ben comprensibile che le persone in genere vedano pericoloso e impossibile il gruppo, e ripetano: «chi gioca solo non perde mai»12.
Ma torniamo alla seconda metà degli anni ottanta. L’orlandismo giocò sulle contraddizioni interne alla Democrazia cristiana ma contemporaneamente cavalcò un dissenso che assumeva veste radicale. Un dissenso cattolico e anche comunista, perché si vide che il Pci, sebbene mobilitato contro la mafia su scala nazionale, veniva troppo influenzato su scala regionale dalle logiche compromissorie dei vari «patti autonomistici», e non era in grado di dare risposta alla domanda di una nuova politica13. Il dissenso ebbe il suo luogo di massima espressione nei funerali delle vittime di mafia, momento di lutto ma anche di rabbia. Durante quello di Pio La Torre la piazza ricolma di bandiere rosse protestò a gran voce contro i dirigenti democristiani presenti sul palco contestando, implicitamente o esplicitamente, anche i dirigenti comunisti che li avevano invitati. Durante i funerali di Dalla Chiesa il cardinale palermitano Salvatore Pappalardo dimostrò (seppure, dice qualcuno, ancora con troppa prudenza) di voler cambiare strada rispetto ai tempi di Ruffini: pronunciando la celebre omelia «di Sagunto», che lamentava l’assenza dello Stato di fronte al pericolo mortale che minacciava la società. La folla gettò monetine contro le auto blu dei ministri, gridò «assassini» rivolgendosi non tanto ai mafiosi (che lì non c’erano, o non si vedevano) quanto allo Stato accusato di essere «assente» o forse di essere il «vero» colpevole. Salvò soltanto il presidente della Repubblica Sandro Pertini, assunto a rappresentante dello Stato che ci sarebbe voluto. Paradosso voleva che a lanciare tali accuse non fossero solo studenti estremisti ma, tra gli altri, gli uomini dello Stato. Ad esempio i poliziotti ai funerali di Cassarà, che tumultuarono e affrontano i carabinieri quasi armi alla mano, sottraendo la bara del giovane Antiochia «all’ufficialità della questura» e trasportandola alla sede della Squadra mobile, avvolta nel tricolore14. Io non analizzerò una per una le componenti della galassia di istituzioni, circoli e gruppi «antimafia» che rappresentò l’interlocutrice della «primavera palermitana», ovvero dell’esperienza politicoamministrativa orlandiana. Citerò (senza alcuna pretesa di esaustività!) alcuni dei personaggi emergenti: Carmine Mancuso, un poliziotto (figlio del Lenin Mancuso, autista e guardia del corpo di Terranova, caduto al suo fianco); Umberto Santino, un reduce del Sessantotto, che si stava trasformando in valido studioso del fenomeno mafioso; i padri gesuiti Bartolomeo Sorge ed Ennio Pintacuda. Questi ultimi, tra gli altri, promossero nel 1980 la formazione di un gruppo «Città per l’uomo», che qualche successo avrebbe ottenuto, appunto fiancheggiando l’orlandismo, anche a livello elettorale. Più chiaramente orientata verso una prospettiva cattocomunista la voce di «Segno», rivista palermitana diretta dal teologo Nino Fasullo. La spiegazione che dava del terrorismo mafioso non era così diversa da quella data in altre parti d’Italia della strategia della tensione: Nel momento in cui le istituzioni democratiche – il potere legale – subiscono il condizionamento crescente della sinistra e delle forze popolari, i centri di potere extralegali, non disdegnando l’omicidio e la strage come arma politica, scendono in campo per dire la loro sull’esito e sullo sbocco della crisi politica del nostro paese15.
Fu quasi naturale la convergenza di questa autoproclamatasi «società civile» con la magistratura, o meglio con quella parte di magistratura schierata in prima linea. Con «Segno», ad esempio, collaborava nel 1981 Chinnici, invitando a «un’ampia opera di sensibilizzazione» perché «i giovani» – «credenti, non credenti, della sinistra, democratici, di nessuna militanza politica» – fossero indotti a ribellarsi contro «il potere della mafia»16. Protagonismo. Nel momento storico in cui scrivo, questo termine è usato per stigmatizzare il personalismo dei magistrati nella gestione delle inchieste, ma anche le eccessive loro esposizioni nel dibattito pubblico. In questo senso potrebbe dirsi che peccarono di protagonismo sia Chinnici che (su un altro versante) Dalla Chiesa, con le sue interviste e le sue conferenze nelle scuole. Dopo che l’uno e l’altro vennero assassinati, peccarono maggiormente Falcone e Borsellino, che non si può dire parlassero solo «attraverso le sentenze», come i bravi giudici di una volta. Parlavano attraverso libri, saggi e interviste, sui giornali o in televisione, e polemizzavano apertamente su questioni di politica giudiziaria che, peraltro, acquisivano sempre maggior rilievo politicogenerale. Puntavano a mobilitare le forze disponibili. Si appellavano all’opinione pubblica e alla buona politica (alla società civile, usiamo ancora questo
termine), temendo di essere schiacciati, in caso contrario, dal peso degli apparati e della cattiva politica, oltre che naturalmente dalla mafia. Volevano, l’espressione è proprio questa, «tenere alta la tensione». Falcone era un uomo vagamente di sinistra17, Borsellino veniva da destra. Solo una polemica faziosa ha potuto indicarli come «toghe rosse». In conclusione. Il passaggio a un’attiva opposizione alla mafia non era facile da realizzarsi (come non lo è oggi, in tutt’altra situazione). Al proposito, qualcuno usò allora il termine «palude», e in effetti bisogna tenere conto della funzione immobilizzante degli interessi politicoclientelari e affaristici che con i gruppi mafiosi si collegavano in maniera più o meno occulta. Pensiamo alla miriade di persone che nei quartieri popolari guardava alle cosche per trovare lavoro nel piccolo contrabbando, o che semplicemente usufruiva delle raccomandazioni degli «amici degli amici» per trovare lavoro nelle amministrazioni pubbliche o controllate dalla mano pubblica. Pensiamo alle imprese «inquinate», cioè gestite o comunque controllate da mafiosi. Il sistema generava un indotto, dando lavoro a tecnici, professionisti, a una massa di operai. Tutti costoro erano consapevoli di esservi in qualche modo coinvolti, donde le proteste per i danni che le inchieste giudiziarie potevano provocare all’economia. Quest’argomento fu molto usato, ad esempio dagli andreottiani quando Dalla Chiesa giunse in Sicilia, a Catania in difesa dei «cavalieri del lavoro», contro Falcone e gli altri magistrati del pool antimafia. Successe perfino che nelle manifestazioni operaie in difesa del posto di lavoro si invocasse – per convinzione o per provocazione? – il ritorno di Ciancimino, si gridasse «viva la mafia»18. Si spiegano le oscillazioni del mondo politico isolano di fronte all’esplosione del conflitto e delle inchieste degli anni ottanta, con il moltiplicarsi di quelle che solo in apparenza si presentavano come posizioni terze. O che venivano interpretate così da chi stava maturando posizioni radicali. Leggiamo ad esempio come uno dei partecipanti a un convegno antimafia del 1982 ha ricordato l’intervento di Rosario Nicoletti, segretario regionale della Dc (poi suicidatosi): «sembrava un appello neutrale a due parti in guerra, lo Stato e la mafia, perché cessassero le ostilità»19. Nel momento della più forte polemica sulla questione della «contiguità» tra mafia e imprese, Michelangelo Russo, uno dei leader del Pci all’Assemblea regionale siciliana, si trincerò dietro una supposta impossibilità di fare «l’analisi del sangue» alle imprese con cui la pubblica amministrazione e le stesse cooperative rosse entravano in rapporti d’affari. Il ragionamento più usuale era questo: per combattere la mafia non c’è bisogno di polizia, ma di maggiori finanziamenti pubblici alle imprese e al lavoro siciliano. Non mancarono i richiami alla vecchia teoria della mafia come costume regionale tradizionale, impossibile da sottoporre a repressione penale. Tra essi segnaliamo quello di Lima, in risposta alla domanda di un giornalista: «La mafia che cos’è? È una parola, scusi: come si fa a rispondere a una domanda del genere. La mafia è il comportamento di chi vuole imporre la sua visione…»20. 3. Maxiprocesso. Era questa la situazione quando, delle 707 persone (Abbate + 706) oggetto dell’istruttoria del pool antimafia, 475 vennero messe alla sbarra nel maxiprocesso, il 10 febbraio del 1986. Mentre le centinaia di imputati prendevano posto nelle grandi «gabbie», in un’enorme aulabunker nuova di zecca, in strada scese una tranquillità che faceva strano contrasto con gli anni precedenti: mutamento non so se indotto dallo spiegamento delle forze dello Stato, o soltanto dall’attesa degli eventi, dalle incertezze sul futuro. Sotto processo a Palermo non era un comportamento vagamente interpretabile in chiave socioantropologica, indefinibile e nondelimitabile in chiave penalistica, ma diverse centinaia di persone appartenenti a un’organizzazione: Cosa nostra. La nuova legge RognoniLa Torre definiva appunto penalmente un tal genere di associazione, e stabiliva che farne parte rappresentava un reato grave. La magistratura inquirente propose a quella giudicante un’idea di mafia come sistema unitario quale (scrisse Borsellino) «via obbligata» per rimediare alla «inerzia investigativa del precedente decennio»21. Alla luce di quello schema rese interpretabile l’enorme massa di prove e indizi accumulata nei primi anni ottanta, la testimonianza del grande pentito Buscetta, nonché da quella convergente di Salvatore Contorno, l’uomo di Bontate che aveva a suo tempo collaborato con Cassarà. L’energia del presidente Alfonso Giordano e addirittura un intervento del Parlamento per allungare i termini previsti dalla legge vanificarono le obiezioni, i vari espedienti con cui i difensori provarono a far collassare il maxiprocesso sotto il suo stesso peso. Seguiamo qualche momento della testimonianza di Buscetta. Siamo nell’aprile del 1986. Lucido e autorevole, il teste espone una quantità di fatti, la struttura e le vicende dell’organizzazione nonché, in maniera un po’ apodittica, le sue regole. Due di esse hanno un rilievo immediato per l’andamento del processo: 1) gli affiliati possono compiere un’azione delittuosa importante solo con l’autorizzazione della Commissione; 2) hanno l’obbligo di dirsi l’un l’altro la verità. L’una e ancor più l’altra sembrano fatte apposta per rafforzare la credibilità dell’accusa e lo stesso contributo del supertestimone. I difensori obiettano: molte volte queste, e altre, vengono contraddette dai fatti raccontati da
Buscetta stesso22. Lui potrebbe rispondere: in ogni sistema giuridico l’inosservanza della norma non implica la sua inesistenza. Tra le sue risposte alle contestazioni dei difensori, trovo particolarmente efficace quella fornita a un avvocato che ostenta incredulità verso il giuramento di mafia: «Ho letto sui giornali che un avvocato, presente qua in aula, una volta per una sciocchezza giovanile si è iscritto alla massoneria e ha riso tanto per il giuramento. È un facsimile del nostro giuramento»23. Traduco: anche nel vostro mondo succedono cose strane, avete poco da stupirvi. Più drammatico il confronto di Buscetta con Pippo Calò, capo della sua Famiglia: lo indica come complice dell’assassinio dei suoi congiunti, ed è da lui indicato come infame. Il supertestimone vuol dimostrare il suo punto: è stato costretto a rivolgersi all’altra giustizia, quella statale, proprio perché capi come Calò, e a maggior ragione come Riina, hanno abbandonato l’ottimo fondamento della «vecchia mafia», la supremazia del principio della mediazione su quello della violenza, la fedeltà alle regole, per mettersi sulla strada di una violenza incontrollata e sadica, incapace di tener fede ai patti e alle regole. Ci tiene che la spiegazione sia questa, semplice, e si rifiuta di complicarla: «non c’è un movente importante. C’è una presa di posizione dei corleonesi»24. Una specie di volontà di potenza. Lo stesso dice Contorno nel suo dialetto strettissimo, antico, incomprensibile anche per molti palermitani. L’impressione è che il teste potrebbe, se volesse, esprimersi in italiano, in maniera più accessibile. Ma lui rifiuta enfaticamente. Dice: «io sugnu ’na me terra e parru siciliano», e ancora: «No, signor presidente, italianu ’nni sacciu! […] Sugnu zero italianu! E come mi fici matri natura, parlo!». Traduco così: io sono nella mia terra e parlo siciliano. L’italiano non lo so, sono zero italiano, e parlo come mi ha fatto madre natura. Convengo con l’interpretazione data da un filosofo del linguaggio, Salvatore Di Piazza: Contorno vuole dare un segnale identitario innanzitutto ai suoi pari, conferma la propria adesione a un gruppo e a un’ideologia, dunque a un linguaggio, che ha nel sicilianismo in stile Beati Paoli il suo retroterra «nobile». Si porta su questo terreno per rivendicare le proprie scelte: infami siete voi, non io – «un sugnu io l’infame»25. Arriviamo alla fine. Il 16 dicembre 1987 furono emanate dure condanne, per un totale di circa 2500 anni di prigione, e 19 ergastoli. Tra gli altri, Ignazio Salvo venne condannato a sette anni. Particolare per nulla irrilevante, la gran parte dei condannati finì davvero in carcere anziché godersi facili latitanze. 114 imputati peraltro vennero assolti, ivi compreso l’antico boss Luciano Liggio – a dimostrazione del fatto che processo vero era stato e non mera rappresentazione, come da parte di alcuni si voleva o si temeva. Fu un risultato senza precedenti. La mafia, adusa ad agire nell’ombra e nell’impunità, venne riconosciuta e colpita in quanto tale, in centinaia di suoi leader e quadri intermedi. Completiamo guardando oltreoceano, verso quella New York in cui contemporaneamente si celebrarono due processi che segnarono parimenti il riconoscimento dell’esistenza della mafia/Cosa nostra in quanto organizzazione. Furono molto meno imponenti di quello di Palermo, ma il primo, detto della Pizza Connection, cominciato il 30 settembre 1985, ugualmente risultò di inusitata lunghezza e complessità per la tradizione giudiziaria degli Stati Uniti. Cadde anch’esso in una situazione tesa, tanto che alcuni mafiosi in esso coinvolti furono assassinati. E subito dopo l’inizio delle udienze, il 16 dicembre 1985, ben otto killer «fecero fuori» il grande boss della Famiglia Gambino, il settantenne Paul Castellano. A quanto sembra agivano su mandato del suo numero due, John Gotti. Pizza Connection ovvero United States v. Badalamenti. Venne perseguito come grande boss del narcotraffico Tano Badalamenti, insieme ai suoi parenti di Detroit, e ad alcuni esponenti di primo piano della fazione siciliana dei Bonanno, gli zips, a cominciare dal loro «street boss» Salvatore Catalano. Secondo l’accusa, sia nel periodo in cui si trovava in Brasile, sia da Madrid, Badalamenti aveva spedito agli zips 1650 libbre di eroina, per un valore di un miliardo e mezzo di dollari; mentre una quantità di denaro inferiore ma pur sempre consistente, 60 milioni di dollari solo tra il 1980 e il 1983, era rifluito in Sicilia attraverso compiacenti canali finanziari svizzeri. La procura aveva buone prove e usò solidi argomenti. Spiegò che era stata la mafia a garantire la disciplina, la segretezza, la fiducia necessaria per gestire lo straordinario giro di droga e dollari di cui si parlava; che era stato il sistema di relazioni mafiose «a mettere quegli individui insieme, a tenerli tutti uniti anno dopo anno dando loro un chiarissimo vantaggio su ogni concorrente privo di quella risorsa organizzativa di base». Invitò a riflettere sull’enorme danno sociale derivante dal narcotraffico: «ci sono in questa città come delle zone di guerra che sono state devastate dagli imputati. Potremmo riempire quest’aula, persino il Madison Square Garden, con le loro vittime»26. I giurati si convinsero e nel febbraio 1987 gli imputati vennero condannati. A Badalamenti toccarono ben quarantacinque anni di prigione. Nel frattempo a New York era cominciato e terminato l’altro processo, United States v. Salerno, che si incentrava sui delitti organizzati dalla Commissione di Cosa nostra, anche se di fatto metteva alla sbarra i capi di tre delle cinque Famiglie newyorkesi (i Gambino e i Bonanno ne rimasero fuori). L’accusa si valse del contributo di due testimoni diretti, che noi già conosciamo. Il settantasettenne Angelo Lonardo jr., capomafia e figlio di capomafia di Agrigento Cleveland, raccontò della Commissione presieduta da Vincenzo Mangano nei secondi anni trenta, degli intrighi e dei delitti di quel periodo remoto. Su vicende più recenti testimoniò Joe Pistone, forte della sua straordinaria esperienza di
agente Fbi infiltrato nella Famiglia Bonanno. Si aggiunsero inconfutabili intercettazioni telefoniche e ambientali. Alla fine la giuria si convinse ed emanò condanne a un secolo di prigione ciascuno contro i maggiori imputati. Era il novembre del 1986. In questo processo fu chiamato a testimoniare il patriarca, il più che ottantenne Joe Bonanno. Come si ricorderà, aveva dovuto abbandonare New York per l’ostilità della Commissione, era un esiliato. Noi ben sappiamo del modo in cui mise il proprio sigillo sul ciclo di rivelazioni apertosi nei primi anni sessanta con Valachi, Gentile e Luciano: lasciandosi intervistare nella trasmissione televisiva 60 Minutes e subito dopo pubblicando il suo libro (1983). Nel 1986, aveva già violato ogni codice omertoso. Però al processo non si presentò, preferendo farsi un po’ di prigione per offesa alla corte piuttosto di dover chiarire in un pubblico dibattimento quanto nel suo racconto era rimasto ben occultato. Le rivelazioni di Bonanno sono coeve a quelle di Buscetta. E per gli aspetti ideologici le storie raccontate da questi due perdenti nella competizione inframafiosa si somigliano. Entrambi propongono un’idea fantastica di mafia come sicilianità (con un esplicito riferimento di Bonanno al Padrino), come strumento secolare di difesa. Entrambi si appellano al mito della Tradizione antica da contrapporre alle degenerazioni del tempo presente, alla pochezza morale degli epigoni. Ed entrambi respingono con indignazione l’accusa di aver commerciato in droga. A beneficio di chi rischi di lasciarsi troppo coinvolgere nella melensa rappresentazione di Bonanno, possiamo introdurre un tocco di realismo – il commento al suo outing televisivo di due persone competenti, due alti papaveri della Famiglia Lucchese, che conosciamo grazie a un’intercettazione Fbi: «Sono scioccato. Che cosa cerca di dimostrare? Che era un Uomo d’onore? Ma in questo modo ammette lui stesso … sì, ammette spontaneamente di essere il boss di una Famiglia […] anche se dice […] ero come un padre»; «Sta cercando di sbarazzarsi dell’immagine del gangster. Sta cercando di tornare indietro, ahh, come in Italia. Ad esempio quando dice: me lo ha insegnato mio padre»; «È tutta merda, perché io lo sapevo che era un ciarlatano … Lo sai, come quando dice di non essersi mai messo nella droga, dice tutte stronzate. La sua solita fottuta abitudine, stava facendo mucchi di soldi». Gioca al Padrino, ironizzano i due27. Insomma, i due mafiosi sanno bene che Bonanno si atteggia a ideologo, si richiama alla tradizione siciliana, nell’intento di «sbarazzarsi dell’immagine del gangster», e mente spudoratamente quando sostiene di essere estraneo al narcotraffico. Noi già sappiamo il perché suoni inverosimile anche l’analoga pretesa di Buscetta. Chiamato a testimoniare nelle aule del processo Pizza Connection, sembrò anche lui un’incarnazione del padrino, «com’era uscito dalla penna di Mario Puzo»28. Confermò che Badalamenti era stato in Sicilia a capo della Commissione; però ribadendo che quel vecchio suo amico, da vero uomo d’onore, non era mai stato coinvolto in questioni di droga29. A sua volta Badalamenti non confermò né smentì quanto Buscetta diceva, precisando che non era solito rivelare segreti propri o altrui. Gli fu chiesto: poteva almeno dire quali affari aveva trattato al telefono con suo nipote? Non poteva, rispose quieto; assicurava comunque che il detestabile commercio della droga non c’entrava nulla30. Invece l’imputato si dilungò sul passato remoto del periodo bellico. Raccontò di aver disertato dopo essere stato contattato dall’Oss, di essersi dato alla guerriglia contro i tedeschi, al fianco di quegli stessi americani che ora lo processavano. Cercò insomma di riprodurre in sedicesimo l’operazione fatta con successo tanti anni prima da Lucky Luciano. Io non posso qui che applicare a lui il giudizio dato su quell’operazione dal già citato agente del Narcotic Bureau, Harney: la mafia aveva prodotto quella mitologia nell’intento di «diluire l’odore mefitico della sua reputazione con il fresco profumo del patriottismo»31. Luciano, d’altronde, non era l’unico precedente. Io ricordo che, qualche anno prima di lui, anche Sindona aveva provato a sottrarsi alle sue responsabilità di bancarottiere richiamandosi alle vicende belliche e postbelliche del separatismo siciliano, ai presunti meriti acquisiti in quell’occasione dai mafiosi. Si era candidato a guidare un movimento analogo sostenendo che le autorità statunitensi avrebbero potuto ancora fornire un «appoggio finanziario e morale»32. Ma non era stato preso sul serio. E anche il tentativo di Badalamenti non funzionò: fece molta confusione tra il periodo antecedente e quello seguente lo sbarco, con le date e i fatti, e non fu creduto33. L’avvocato difensore di Badalamenti, di nome Michael Kennedy e di origine irlandese, mise le favole raccontate dal suo assistito sullo stesso piatto dei due recentissimi contributi di conoscenza e mistificazione insieme, il libro di Bonanno e la confessione di Buscetta. Spiegò che la droga non poteva entrarci in nulla con la «Badalamenti’s Tradiction», la tradizione antica dei Beati Paoli, quella incentrata sulla difesa della famiglia e contemporaneamente del popolo siciliano oppresso. La famiglia è la fonte di energia, la fonte del potere, la fonte dell’onore. Per difendere l’onore della famiglia siciliana, non bisogna rivolgersi alle autorità. Il governo in Sicilia è oggetto di sfiducia, e spesso di discredito. In Sicilia se uno ha un problema, se lo risolve da sé. […] Ci sono siciliani che non si considerano italiani. Il dialetto siciliano, del tutto differente
dall’italiano, è uno strano dialetto. È un linguaggio segreto. Come l’Yiddish, come il Gaelico, viene da una storia di oppressione34.
E le intercettazioni telefoniche, le parole pronunciate da Badalamenti e che palesemente lo mostravano impegnato a vendere una (chissà quale) sostanza proibita? «Ricordate che le parole hanno più che un significato. Ricordate che la lingua siciliana serve per evitare di essere compresi»35: così Kennedy ammonì i giurati. Forse lui non lo sapeva, ma era l’ultimo di una lunghissima serie di avvocati di mafia impegnatisi in difese ideologiche analoghe alle sue. 4. Professionisti dell’antimafia. I processi alle associazioni danno adito a preoccupazioni garantiste, perché in essi risulta difficile accertare le responsabilità o l’innocenza dei singoli. Preoccupazioni del genere vennero fatte valere sul versante statunitense nel processo Pizza Connection. Molto più brucianti furono le polemiche sul versante italiano, perché andarono a inserirsi in più vasti contrasti politici e ideali. Il maxiprocesso venne recepito per quello che era, una svolta storica, di straordinaria importanza da un fronte antimafia eterogeneo, di dimensione locale e nazionale, orientato in larga parte a sinistra, schierato al fianco della magistratura di prima linea, vicino al Pci ma anche impegnato a stimolarne la combattività. I sociologhi Pino Arlacchi e Nando Dalla Chiesa (figlio del generale assassinato) presero posizione con grande decisione, esprimendo la preoccupazione che il peso politico della Dc e quello economico della lobby mafiosa vanificassero la grande occasione36. Con loro Giampaolo Pansa di «Repubblica», uno dei grandi giornalisti «scesi» per l’occasione in Sicilia, dipinse Palermo come una «Palude» pronta a «inghiottire il processone»37. In realtà Palermo era divisa. Alla protesta garantista prestò una voce autorevole il preside della Facoltà di Giurisprudenza Giovanni Tranchina che, inaugurando l’anno accademico 1986, trattò i pentiti alla stregua di «spie e delatori». Disse: «siamo in piena involuzione: si fa sempre più inquisizione e meno processo»38. Mentre si tenevano le udienze, molti interventi sul «Giornale di Sicilia» e ancor più sul «Giornale» (il quotidiano milanese di centrodestra diretto da Indro Montanelli) misero in guardia sull’eventualità che tutto si riducesse a «giustizia vendicativa», a «manovra propagandistica», che prevalessero «il clima e i riti della crociata»39. Le critiche più vivaci vennero dall’area socialistaradicale, che già sappiamo (si veda il capitolo XI) polemicamente contrapposta all’asse tra magistratura «di prima linea» e Partito comunista. Cominciamo da un pamphlet scritto da Mauro Mellini, avvocato e dirigente radicale. Ne sintetizzo gli argomenti: la legge RognoniLa Torre è «un’assurdità», perché pretende di «definire per legge fenomeni naturali, sociali, extragiuridici» come l’omertà e la mafia stessa40; il pentitismo è da equipararsi a un «ritorno al medioevo», si tratta di uno strumento del «protagonismo di molti magistrati che gestiscono le inchieste»41. Un commento. Mellini mescola in modo disinvolto l’argomento garantista con quello antropologico. Ovviamente la mafia e l’omertà non hanno niente di «naturale» e il ricorso a collaboratori di giustizia (e al patteggiamento) rappresenta un metodo tutt’altro che «medievale»: è nella tradizione di altri ordinamenti moderni democratici, come quello statunitense. Mellini mostra di credere che davvero i mafiosi non parlino con l’autorità per un’insuperabile preclusione morale. Invece, come sappiamo, hanno sempre parlato con i poliziotti, nel chiuso dei commissariati o in qualche luogo più segreto. Il pentitismo, si può dire, ha portato queste transazioni extragiuridiche (e qualche volta illegali) nel quadro garantista o quanto meno pubblico del processo penale. Presero posizione sul fronte garantista personaggi che, in passato, avevano goduto di grande credito presso l’opinione pubblica di sinistra. Fu una sorta di rovesciamento delle parti. Il giornalista Lino Jannuzzi, già elemento di punta dell’«Espresso», divenuto celebre negli anni sessanta per la denuncia del «Piano Solo», tuonò contro il «teorema Buscetta», ovvero contro i metodi di Falcone e dei suoi colleghi, riadattando alla fattispecie lo slogan contro il giudice Calogero sul caso Toni Negri cui abbiamo a suo tempo accennato42. Su questa linea si schierò anche Michele Pantaleone, che tutti conoscevano per il suo impegno pregresso contro la mafia43. E lo fece, più autorevole di tutti, Leonardo Sciascia. Possiamo dire che Sciascia tenne fermi alcuni postulati antichi della cultura di sinistra. In particolare, il fatto che un movimento politico nella Palermo degli anni ottanta inneggiasse alla repressione gli ricordava quegli anni venti in cui il fascismo aveva promosso l’operazione Mori: la quale appunto, tra gli intellettuali di sinistra della sua generazione, non aveva mai goduto di buona stampa. E quel precedente gli tornava in mente nel momento in cui Dalla Chiesa assumeva la carica di prefetto di Palermo, vedendolo impegnarsi in sermoni educativi nelle scuole come aveva fatto a suo tempo Mori, ascoltando da lui e per lui la richiesta di poteri «straordinari». Non mutò linea nemmeno dopo l’assassinio del generale, impegnandosi anzi in una durissima polemica col figlio del morto, Nando Dalla Chiesa.
Giunse il maxiprocesso e Sciascia seguì il dibattimento con impegno. Si disse fiducioso nel giudizio del tribunale, e del suo presidente Alfonso Giordano, magistrato proveniente dal civile, la cui immagine poco si accordava con quella del giudice pasdaran. Alla fine riconobbe che le condanne, pur così pesanti, erano eque44. Fece tutto questo mostrando il suo grande spirito critico. Scrisse una prefazione al pamphlet di Jannuzzi, con cui condivideva l’idea che il problema principale fosse quello della giustizia, «ormai grave e allarmante». Quanto allo specifico, lui, intellettuale nutrito di letture libertarie, non poteva non considerare sospetta la deduzione da un’ipotetica superdirezione mafiosa delle responsabilità penali dei singoli. Sospetta e contraddittoria. Disse: da un lato Buscetta asserisce la capacità della «Cupola» (la Commissione) di rendere la mafia un «fatto unitario», ordinatore, dall’altro fornisce «una rappresentazione di disordine, di micidiali differenze interne, di interne prevaricazioni e sopraffazioni»45. Si rifiutò di seguire lo schema proposto dal supertestimone, l’idea di una contrapposizione tra mafia «buona» (quella di Bontate) e mafia «cattiva» (quella corleonese). Disse che la «qualità eversiva dei delitti di mafia avvenuti negli ultimi anni» si spiegava con uno storico distacco della mafia narcotrafficante (tutta) dai suoi tradizionali referenti politici46. Prese così le distanze dagli inquirenti del maxiprocesso, molto determinati a tutelare il loro testimonechiave, oggetto di calunnie e insinuazioni di ogni genere. E a maggior ragione da quella parte del movimento antimafia che ne faceva un eroe: dai ragazzi del movimento che gridavano per le strade un paradossale «Buscetta fai giustizia». Da un grande giornalista, Enzo Biagi, che gli rivolgeva domande improbabili di questo genere – «Lei crede che si possa essere mafiosi buoni, miti e sentimentali?», accontentandosi della sua improbabile risposta – «Sì, perché io lo sono»47. E, in linea di principio, confermò le sue riserve verso gli scambi tra testimonianza e benefici che stava alla base dell’uso dei pentiti48. Peraltro Sciascia non mostrava la preconcetta, livorosa ostilità di Jannuzzi nei confronti di Buscetta: registrava senza problemi in lui una permanenza dell’«agire mafioso», era interessato al suo «sentire mafioso», era insomma disponibile a starlo a sentire49. Come tutti gli osservatori in buona fede, sapeva che diceva molte e importanti verità, sulla struttura di Cosa nostra e sull’ascesa dei corleonesi. E veniamo alla più famosa delle polemiche di Sciascia, espressa nel bel mezzo del maxiprocesso in un articolo del «Corriere della Sera», redazionalmente intitolato ai Professionisti dell’antimafia. L’articolo ha una struttura curiosa, come se derivasse da una giustapposizione di parti diverse. Sciascia parte con una serie di «autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria e/o lunga malafade», intese a comprovare il proprio costante impegno nell’analisi del fenomeno mafioso. Continua con una recensione al libro di Christopher Duggan La mafia durante il fascismo: che gli pare un salutare antidoto a tante chiacchiere dell’antimafia, dal punto di vista metodologico (il libro cita fonti d’archivio e ricostruisce contesti come fanno i veri libri di storia) e ancor più da quello dei contenuti. Duggan infatti, come si ricorderà, inquadra l’operazione Mori in una lotta fazionaria, interna al Pnf, sottolineando la strumentalizzazione politica che ispira molte accuse di mafiosità lanciate in quel tempo, in particolare quelle contro il federale palermitano Alfredo Cucco. Sciascia generalizza: «l’antimafia» può rappresentare uno «strumento di potere», in regime fascista come «in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando». E fa l’«esempio ipotetico» di un sindaco che spaccia per antimafia la propria azione amministrativa, e delegittima ogni critica dei suoi avversari come apologia della mafia. Ovviamente si riferisce a Orlando. Il ritmo cambia nella terza parte dell’articolo, dove non si fanno più esempi «ipotetici» ma, con nome e cognome, viene attaccato Paolo Borsellino, numero due del pool degli inquirenti del maxiprocesso, appena nominato dal Csm procuratore della Repubblica di Marsala. A favore di Borsellino, dice Sciascia, depone «solo» la maggior esperienza in processi di mafia, mentre equità vuole che sia premiata la maggiore anzianità dei suoi concorrenti. In conclusione, lo scrittore invita perentoriamente i suoi lettori a prendere atto «che nulla vale di più, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso»50. Non poteva non accendersi la polemica. In un manifesto, i giovanotti del Coordinamento antimafia palermitano diedero allo scrittore del voltagabbana, anzi del «quaquaraquà», usando il termine da lui stesso reso celebre nel Giorno della civetta; e ne sancirono enfaticamente l’espulsione dalla «società civile». Erano mossi da una specie di amore tradito, dalla delusione per il rifiuto di sostenerli dell’intellettuale che avevano considerato un «padre nobile», un antesignano delle loro battaglie51. Ma la realtà era che non avevano percepito per tempo l’enormità della distanza che li separava dal loro antico idolo. La risposta di Sciascia fu dura quanto efficace. Gli argomenti sulla base dei quali veniva attaccato, scrisse, dimostravano che le sue preoccupazioni non erano infondate. Definì il Coordinamento antimafia «frangia fanatica e stupida di [un] costituendo potere» mascherato da antimafia, che odorava tanto di 1927. E aggiunse: è chiaro che non da loro né da chi sta dietro di loro – e ne è riconoscibile (si dice per dire) lo stile – verrà una lotta radicale alla mafia. Loro sono affezionati alla «tensione», e si preoccupano che non cada. Ma le «tensioni» sono appunto destinate a cadere;
e specialmente quando obbediscono a giochi di fazione e mirano al conseguimento di un potere52.
Proviamo a tirare le somme. L’ultima parte dell’articolo sui Professionisti dell’antimafia era davvero sproporzionata e sbagliata: la nomina di Borsellino corrispondeva alle sue capacità professionali (non politiche né clientelari), di cui c’era necessità vista la gravità dell’ora. Il resto invece merita un’attenta riflessione, nei suoi due aspetti: quello storico (relativo allo specifico di quel tempo) e quello attuale. Quello era il tempo in cui anche un democratico di sicura fede come Giorgio Bocca chiedeva che la Repubblica prendesse atto che «nelle terre di mafia» era in atto una guerra, e proclamasse a sua volta «lo stato di guerra», adottasse «le leggi, i metodi atti alla guerra»53. Prendiamo atto che alla fine queste posizioni (e altre peggiori di queste) non passarono, e i diritti degli individui e le pubbliche libertà non vennero sostanzialmente intaccati sul fronte del terrorismo come su quello della mafia. Resta da capire quanto al risultato finale abbiano contribuito le battaglie garantiste di Sciascia e degli altri radicali. Quanto all’uso politico della giustizia, gli ammonimenti di Sciascia mi sembrano più validi oggi, che l’emergenza è passata, di quello che mi sembrava allora. In effetti, «retorica aiutando e spirito critico mancando», l’antimafia può farsi professionismo, risolversi in strumento di lotte di potere e di affermazioni personali. Anche qui però è necessaria una precisazione: tali meccanismi non hanno carattere necessariamente antidemocratico. Non lo hanno ad esempio nell’ordinamento statunitense, laddove – contrariamente che in quello italiano – le magistrature sono elettive, e la connessione tra politica e giustizia fa parte delle regole del gioco. Quanto al passato, noi ben conosciamo la figura di Thomas Dewey che, partendo dal ruolo di persecutore di Dutch Schultz e Lucky Luciano nella New York degli anni trenta, si era costruito una carriera politica di primissimo piano, giungendo alla carica di governatore dello Stato di New York e a sfiorare la presidenza dell’Unione. Nel presente, qualcosa di simile stava facendo un altro repubblicano, stavolta italoamericano, il procuratore Rudolph Giuliani: il quale si impegnò nella lotta contro Cosa nostra, promuovendo in particolare il processo contro la Commissione; e nel contempo intraprese una carriera politica che nel 1994 l’avrebbe portato alla carica di sindaco di New York. 5. Falcone. Giovanni Falcone è stato senz’altro il personaggio più rappresentativo dell’antimafia degli anni ottanta. Ha fornito un grande contributo di azione ma anche di conoscenza del fenomeno mafioso. Possiamo valutarlo leggendo sentenze, saggi e interventi vari, nonché il librointervista da lui scritto insieme alla giornalista francese Marcelle Padovani, Cose di Cosa nostra. Cominciamo col tema della «nuova mafia» imprenditrice e dinamica, insomma moderna, che stando ad alcuni interpreti dei primi anni ottanta (al sociologo Pino Arlacchi, ad esempio)54 avrebbe preso il posto della «vecchia mafia», irrimediabilmente superata perché tradizionale. Falcone accettò per alcuni versi quest’interpretazione, ma colse anche gli elementi che la contraddicevano. Rilevò come logica d’impresa e logica familista andassero a braccetto nella gang narcotrafficante degli Inzerillo, che formava l’oggetto della sua prima grande inchiesta. Ipotizzò che in essa l’endogamia fosse scientemente perseguita nell’intento di «rendere più stretti i vincoli tra gli associati», rilevando «l’intrico incredibile delle parentele […], tale che si fa fatica a raccapezzarsi»: «ad ogni ulteriore generazione, i collegamenti si fanno sempre più fitti a seguito di matrimoni tra cugini». Definì «strumentale», soltanto «apparente», il «recupero di valori tradizionali» e preferì un paragone modernissimo: il familismo rappresentava l’«equivalente di quello che, per il terrorismo politico, è l’ideologia»55. A rilevare lo strettissimo legame tra nuova e vecchia mafia, citò un testo sequestrato in carcere a Spatola – l’imprenditore che riciclava i narcodollari – dove si riproponeva l’antica apologetica sugli uomini d’onore intenti a proteggere i deboli, e perseguitati «dall’ingiustizia». Vogliamo definire quello che i giudici e i governatori chiamano mafia? Non si chiama mafia, si chiama omertà, cioè uomini d’onore, che aiutano e non profittano dei deboli, che fanno sempre del bene e mai del male. Ed è per questo che li vogliono distruggere, così il potere dell’ingiustizia resta nelle mani dei giudici e dei governatori, che si servono della parola mafia come legge del potere sui deboli56.
Questo testo si colloca in effetti in un luogo retorico luogo a noi ben noto. Afferma: la parola che loro usano è pericolosa perché serve per aumentare il loro potere; sta a noi esorcizzarla facendo ricorso a un termine differente. E lo fa, credo, con piena consapevolezza perché la Famiglia SpatolaInzerillo costruisce il proprio potere planetario partendo da uno dei luoghi della massima continuità storica della mafia, la borgata di Passo di Rigano in cui in antico regnava Antonino Giammona. Mentre si dedica a quest’indagine, Falcone sa ancora poco dell’organizzazione di Cosa nostra. Solo, registra che Salvatore Inzerillo è un elemento di punta di una banda affaristica transcontinentale e contemporaneamente anche il
«capo di una potentissima organizzazione mafiosa palermitana»57. E sa bene che Inzerillo, tornato dall’America nel 1973, è nipote di Rosario Di Maggio, vecchio boss di Passo di Rigano. Rileva che Inzerillo è socio della Recredit, «Società di riscossione crediti per conto di aziende private»58: noi lo immaginiamo impegnato nella più classica attività del capomafia, trovare un punto di mediazione tra soggetti con interessi diversi (debitori e creditori), alternare minacce e promesse, garantire gli accordi. E Falcone ricostruisce proprio un caso di debiti e crediti, per chiarire quanto sia fuorviante la dicotomia vecchia/nuova mafia. Un imprenditore edile a corto di contante, pressato dai creditori, chiede aiuto a Di Maggio. Costui subito si offre di «aggiustare» la cosa; all’ingegnere, piacevolmente sorpreso, spiega di essere stato «amico» di suo padre e grande elettore di suo nonno, un deputato indicato dalle fonti come protettore della mafia del primo dopoguerra59. Gli interessi saranno cancellati, i pagamenti agevolmente dilazionati. Il compito viene assegnato da Di Maggio a Rosario Spatola: ne sarà certo uscito rafforzato l’«alone di prestigio» che secondo il loro illustre ospite, Sindona, circonda i due. E veniamo all’istruttoria del maxiprocesso. Falcone e gli altri inquirenti videro che i confini tra mafia e affarismo si facevano più elastici, che l’inquinamento era crescente. Constatarono che molti degli imprenditori dipinti nelle inchieste di Terranova degli anni sessanta come vittime di estorsione, ora apparivano pienamente partecipi dell’economia criminale. Provarono a superare il confine storico tra Sicilia occidentale e Sicilia orientale al fine di verificare le intuizioni di Dalla Chiesa sull’influenza dei «cavalieri del lavoro» catanesi sugli equilibri della mafia – mi sembra, senza cavarne un gran che. Rilevarono comunque che le società catanesi impegnate nel realizzare grandi opere pubbliche in tutta l’isola «non sceglievano autonomamente i propri subappaltatori e fornitori, ma seguivano le designazioni ed i voleri dei capimafia locali». E aggiunsero: «Se questa è la triste condizione delle imprese che eseguono opere pubbliche in Sicilia, oppresse dai condizionamenti mafiosi, il discorso cambia quando ci si accorge che il contatto con gli elementi mafiosi viene accolto di buon grado ed anzi sollecitato»60. Imprenditori oppressi e imprenditori collusi, meccanismo protezione/estorsione con annesse ambiguità pirandelliane. Sappiamo quanto fosse antico il meccanismo e anche il problema interpretativo, sebbene applicato a vicende nuove. Non so dire se Falcone e gli altri del pool avessero più l’impressione del mutamento o della continuità. Comunque a quel punto, mentre stilavano la sentenza istruttoria in vista del maxiprocesso, avevano già ben recepito l’immagine proposta da Buscetta di una segreta società ancorata alle proprie regole, cosciente della propria antica storia e del proprio consolidato ruolo sociale, che pretendeva di risalire ai Vespri siciliani e ai Beati Paoli. Più continuità di quella. Buscetta disse a Falcone, già il giorno del suo primo interrogatorio, il 21 luglio del 1984: Intendo premettere che non sono uno spione, nel senso che quello che dirò non è dettato dal fatto che intendo propiziarmi i favori della Giustizia. E non sono nemmeno un «pentito», nel senso che le mie rivelazioni non sono dettate da meschini calcoli d’interesse61.
La dichiarazione ha ai nostri occhi un che di paradossale, dato che consideriamo Buscetta il prototipo del pentito di mafia. Il paradosso si scioglie se teniamo conto della sua precisazione: non sono uno spione o un pentito perché non sono mosso da «meschini calcoli d’interesse». Questo voleva che i suoi interlocutori gli riconoscessero. E il suo interlocutore, Falcone, non lo contraddisse esplicitamente. Anzi qualcosa gli concesse. Leggiamo la sentenza di rinvio a giudizio: Egli, mafioso di vecchio stampo, si era reso conto che i principi ispiratori di Cosa Nostra erano stati ormai irrimediabilmente travolti dalla bieca ferocia dei suoi nemici, che avevano trasformato l’organizzazione in un’associazione criminale della peggiore specie, in cui egli non si riconosceva più62.
Falcone prese atto della pretesa del suo testimone mafioso – il nostro è un sistema di valori, non di disvalori – con l’idea di volgerla a vantaggio proprio e della Repubblica. L’esigenza primaria era quella di rassicurarlo, di stabilire con lui un codice comunicativo: come era avvenuto per il terrorismo, ne sarebbero seguiti altri pentimenti, ben più vasti smottamenti, defezioni di massa. E a quel punto il termine pentito sarebbe stato applicabile ai transfughi dell’estrema sinistra come a quelli di Cosa nostra. Falcone ribadì il punto: se i terroristi avevano motivazioni ideologiche, anche i mafiosi, contrariamente all’opinione comune, non ne erano privi. E agli uni e agli altri bisognava lasciare la possibilità di dire che l’idea in sé era stata giusta ma il mezzo si era rivelato controproducente. Così Buscetta spiegò che la mafia in sé rifletteva un nobile ideale e nel passato aveva anche funzionato bene; ma di fatto si era allontanata dalle proprie finalità originarie a causa dell’avidità di potere e della ferocia animale dei corleonesi. Bisognava uscirne. Nel librointervista pubblicato insieme a Padovani, Falcone riformulò il discorso. La mafia, disse, esprime un sia pur distorto «bisogno di ordine e di Stato», cui occorre dare la risposta giusta. «Io credo nello Stato», aggiungeva polemizzando con Sciascia «che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia». Non temette di dare
risposta alla maliziosa domanda dei suoi avversari – il giudice condiziona il suo pentito? Spiegò il proprio rapporto con Buscetta a partire dalla sicilianità, vista come comune codice simbolico e culturale che consentiva all’uomo delle istituzioni e a quello della mafia di comprendersi e di costruire una reciproca fiducia63. Intervistato dalla storica Giovanna Fiume, affermò orgogliosamente: «Sono palermitano e figlio di palermitani»; e quando la sua interlocutrice gli chiese a quali dei codici tradizionali e «popolari» della società siciliana si sentisse legato, rispose: a «quasi tutti»64. Voleva intendere che quello era il brodo di coltura della mafia, ma anche dell’antimafia. Era una battaglia per il consenso che andava combattuta. Disse Falcone nel 1986, nel corso di un seminario a Ottawa: La cooperazione di alcuni esponenti mafiosi non è stato un dono inaspettato né un evento fortunato, ma il risultato di una paziente attività investigativa che ha gettato luce sui punti deboli dell’organizzazione. È stato anche il risultato di un’instancabile opera di persuasione che ha tenuto presenti le caratteristiche della mentalità mafiosa, e ha sfruttato le tensioni esistenti all’interno dell’organizzazione mafiosa stessa65.
E veniamo alla questione centrale nel pensiero di Falcone. Sin dal 1982, in un importante intervento scritto insieme a Giuliano Turone, aveva ribadito la priorità cronologica e logica «di una puntigliosa e faticosa ricostruzione degli aspetti più propriamente criminali delle organizzazioni mafiose» sulla «rete di complicità e connivenze», e dunque a maggior ragione sugli aspetti politici e contestuali66. Anche in seguito stette ben attento a tenere fermo il mirino sull’organizzazione mafiosa; evitando di allargare un po’ all’infinito la ricerca delle responsabilità esterne, nel timore che l’azione penale finisse per annacquarsi, perdendo efficacia. Non considerava la lotta a Cosa nostra un mero passaggio intermedio per attaccare il sistema politico, così come non pensava che Cosa nostra fosse una mera dependance del sistema politico. Su questo punto venne molto frainteso, ma in realtà il suo pensiero fu sempre chiaro. «Al di sopra dei vertici organizzativi – spiegò nel saggio Il fenomeno mafioso (1988) – non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino o determino gli indirizzi di Cosa nostra»67. Fu ancor più chiaro nel librointervista con Padovani: l’idea del «grande vecchio», del «burattinaio che dall’alto della sfera politica tira le fila della mafia», rappresenta il frutto di una grande «rozzezza intellettuale»68. Sappiamo delle polemiche di cui era stato oggetto Falcone nel corso del maxiprocesso. Non cessarono neanche dopo la sua conclusione. Alcune sono riconducibili alle trame della mafia e dei molti suoi complici o fiancheggiatori. Non tutte e non in tutto, però: contrariamente a quanto spesso si dice. Partiamo da episodi forse minori, ma giudicati già allora molto significativi. Quando venne ritrovata una bomba nel villino a mare di Falcone (1989), i bene informati sussurrarono che se l’era piazzata da solo, per smania di protagonismo. Altri (anche scrivendo lettere ai giornali) protestavano per il modo in cui lui e Borsellino, girando con la scorta per le vie della città, mettevano in pericolo i cittadini «innocenti». Si moltiplicavano le lettere anonime contro di lui, come quelle particolarmente calunniose firmate «Il Corvo» (sempre del 1989), stando alle quali aveva consentito a Contorno di tornare a Palermo in armi per regolare qualche vecchio conto. Attacchi gli vennero ancora dal «Giornale». Citiamo quello del 19 novembre 1988 della giurista ed esponente democristiana Ombretta Fumagalli Carulli contro il «maccartismo» «dei giudici capitanati da Falcone»69. A tutti i livelli, poi, pezzi della magistratura si rivelavano restii ad abbandonare le logiche tradizionali di organizzazione degli uffici giudiziari, ivi compreso il principio dell’anzianità, per accettare quelle nuove della specializzazione, il principio della competenza. Il nodo venne in evidenza nel 1988, quando per la successione a Caponnetto alla guida dell’ufficio istruzione si candidarono Falcone e Giovanni Meli, di lui molto più anziano ma molto meno qualificato per le inchieste sulla mafia. Con una votazione sul filo di lana (15 luglio 1988), il Csm optò per Meli, dopo aspre polemiche destinate a rinnovarsi, con l’attiva partecipazione prima di Borsellino e poi dello stesso Falcone, quando Meli sembrò puntare su un sostanziale smantellamento del pool, con l’abbandono dei suoi metodi di azione integrata in favore di una metodologia antica, formalista e burocratica. Su un analogo terreno si svilupparono nel 199091 i conflitti tra Falcone e il procuratore generale Pietro Giammanco. Così, Falcone, Borsellino e diversi altri impegnati sul fronte dell’antimafia ebbero l’impressione di una mancanza di compattezza delle istituzioni e delle forze politiche; come di un sabotaggio. Paradossalmente, era come se il grande successo del maxiprocesso nascondesse sotto di sé il rischio o la realtà di una sconfitta. Sembrava che il vecchio fosse in grado di soffocare il nuovo con la semplice forza d’inerzia. Sembrava che il nuovo potesse salvaguardare se stesso solo alzando permanentemente la temperatura del dibattito, perché il paese trovasse il minimo di determinazione necessario per combattere la difficile battaglia contro «il nemico». Falcone dovette peraltro prendere atto che il gioco poteva anche ritorcersi contro di lui. Nel maggio 1990 Leoluca Orlando, già suo grande sostenitore, lo accusò di tenere «nel cassetto» presunti risultati scottanti di indagini sulla mafia «politica» (democristiana e particolarmente andreottiana). Orlando si preparava a uscire dalla Dc, voleva che il
fuoco si concentrasse su Lima. Gli andarono dietro molti militanti del movimento antimafia, tra cui il leader del Coordinamento antimafia Carmine Mancuso. Falcone ne fu molto amareggiato. Il giornalista Francesco La Licata riporta un suo commento: «Orlando ormai ha bisogno della “temperatura” sempre più alta. Sarà costretto a spararla ogni giorno più grossa. Per ottenere questo risultato, lui e i suoi amici, sono pronti a tutto, anche a passare sui cadaveri dei loro genitori»70. Sciascia era appena morto. Non posso non rilevare come questo concetto di un’antimafia bisognosa di tenere la temperatura artificialmente elevata corrispondesse a quello richiamato da Sciascia proprio in polemica col Coordinamento antimafia. 6. Riina. Falcone fu l’elemento più rappresentativo dell’antimafia, così come Salvatore Riina detto Totò lo fu della mafia. La qualifica di Capo dei capi gli è stata attribuita da una massa impressionante di testimonianze, e di sentenze dei tribunali della Repubblica (nonché, last but not least, da un libro e da una fiction televisiva)71. Prendiamone atto, ma senza farne una professione di fede. Non so quanto si possa credere che un singolo individuo abbia interamente dominato la Cosa nostra palermitana e provinciale, nonché il resto della rete mafiosa siciliana: ivi comprese le sue sezioni periferiche, i protettori politici, i consulenti e i soci in affari. Diciamo che il larghissimo ricorso alla violenza rese più forte in quella fase il vertice della gerarchia di Cosa nostra, che era appunto da Riina saldamente occupato. Sembra che quella di Riina fosse già alla metà degli anni settanta una figura controversa negli ambienti mafiosi. Buscetta gli attribuiva il poco onorifico soprannome u viddanu (il villano), allusivo non solo alla sua origine provinciale, ma anche a una sua rozzezza. Il pentito Gaspare Mutolo racconta che il vecchio Di Maggio (lo zio di Salvatore Inzerillo) si riferiva a lui con tono di sufficienza: «Lui qui a Palermo che deve fare, se siamo tutti d’accordo. Lo prendiamo a calci nel sedere e lo rimandiamo a Corleone a fare crescere il grano»72. Però lo stesso Mutolo ci dice anche del grande prestigio di cui Riina godeva. Racconta di quanto si sentisse onorato nell’essergli assegnato come autista; e ce lo descrive come un uomo che, almeno fino al 197475, «nella sua ingenuità è sempre stato un po’ dolce»73. Sic! Le informazioni fornite da Leonardo Vitale ci propongono un Riina particolarmente impegnato sul fronte della mediazione. Incaricato di risolvere una controversia tra la Famiglia di AltarelloPorta Nuova e quella di Noce sull’esazione delle tangenti su una certa zona, diede un responso favorevole alla seconda ma rassicurò la prima che comunque avrebbe «assaggiato» qualcosa74. Calderone ci dice che nel 1977 i corleonesi conquistarono i vertici dell’organizzazione, a scapito di Badalamenti, capitanando la protesta di chi era escluso dalla redistribuzione dei profitti (crescenti) del narcotraffico. Nel corso delle sue conversazioni intercettate in carcere, Riina l’ha raccontata così: «In Cosa nostra siamo arrivati a un punto che i soldi ce li tiravamo in faccia, i soldi a Palermo ce li tiravano in faccia […], mentre quelli più scarsi più disgraziati furono». Ovvero: persino nella fase alta del business mafioso gli elementi più deboli venivano tagliati fuori. E ha illustrato la sua alternativa: «Perché io non devo dare niente a nessuno? […] Collabora, dai una mano a tutti»75. Consideriamo questo come il programma politico redistributivo dello «schieramento» (la precisazione terminologica è di Buscetta) corleonese, ma che aveva molti aderenti a Palermo nonché in vari paesi della provincia. La vittoria di questo schieramento sradicò molti degli antichi poteri che abbiamo definito dinastici del vecchio agro palermitano: gli Inzerillo di Passo di Rigano (ne rimasero solo negli Stati Uniti), e i Bontate di Santa Maria di Gesù76. Sempre nelle chiacchere rubategli in galera, Riina ricorda Stefano Bontate. «Questo Stefano era ricco di famiglia, lo sa era ricco di prima, prima che lui era nato era ricco di suo padre e dei suoi zii»77. Ne sottolinea sarcasticamente l’appartenenza massonica, nodo di collegamento con il potere «di sopra»: «Questo signor Stefano Bontate, capo dei capi, che comandava, che dirigeva … capo siciliano della massoneria». Si sente fiero di aver distrutto lui e il vecchio establishment: gente che «sfruttava a suo padre, sfruttava la comunità, sfruttava i beni di una vita». Lui che ha perso suo padre quando aveva solo tredici anni, finito in galera a soli diciott’anni, si autointerpreta alla luce del proverbio: «Il cielo mi ha buttato e la terra mi ha abbeverato»78. Dal carcere, Riina rivendica anche il proprio rifiuto di trattare con chi è «scappato» oltreoceano, ivi compreso il grande boss del passato, Salvatore Greco «ciaschiteddu»: «era una potenza», ammette, però, se sei «un capomafia … tu non puoi lasciare […], tu sei uno qua e devi dare soddisfazione a noialtri […]. Ma che parli? Ma che fai? Vatti a fare lo scappato»79. Nel 1985 fece uccidere un altro Greco, Pino Greco scarpuzzedda (che sembra fosse parente di Michele Greco), il quale pure aveva svolto un ruolo importante, quale killer, nei grandi delitti del 197982. Fece eliminare molti altri dei suoi alleati della prima ora80. Al suo alleato Michele Greco invece pensò la legge, mettendolo dietro le sbarre nel 1986. Alla fine anche i Greco sparirono da Ciaculli. Altri due esempi di rottura di tali continuità possiamo fare, dal finale meno tragico. Il primo è quello della famiglia Pennino (cui già abbiamo accennato), insediata da un secolo nel quartiere palermitano di Brancaccio e al vertice dei
suoi organigrammi mafiosi. Molto ne sappiamo grazie alla testimonianza di Gioacchino Pennino, che cominciò a collaborare con le autorità nel 199481, e alle ricerche storiche di Manoela Patti. Ne propongo così, sia pure sinteticamente, la storia su tre generazioni: quella del pentito, Gioacchino Pennino (nato nel 1938), che chiameremo terzo; quella di suo padre Gaetano (nato nel 1903) e di suo zio, anche lui di nome Gioacchino (nato nel 1908), che chiameremo secondo; quella di suo nonno, sempre di nome Gioacchino (nato nel 1864), che chiameremo primo. Gioacchino Pennino primo cominciò come operaio. Però fu protagonista di una vigorosa ascesa sociale che ebbe un’accelerazione nel primo dopoguerra, quando si impadronì con i suoi accoliti dei beni di un barone. Non risparmiò la violenza: fu accusato ad esempio di aver organizzato un assalto a fucilate contro le donne (la moglie e due bambine) di un concorrente – alla faccia dei valori onorifici della mafia antica. La polizia riteneva che gestisse la «cassa» dell’organizzazione. Al 1928 era divenuto un agiato proprietario, di aziende agrumetate, imprese varie e anche di un villino settecentesco, ragion per cui lo si vedeva inserito nella classe dirigente, fianco a fianco di autorità civili e religiose, di «cavalieri e commendatori, professori e dottori» in occasione delle feste della borgata. Quando fu imputato nel processo contro la cosca di Santa Maria di Gesù, usufruì della testimonianza a discarico di molti proprietari, persino del maresciallo dei carabinieri, e se la cavò con tre anni. Come lui fu processato anche il figlio Gaetano. Abbiamo già detto come i due siano stati subito dopo accusati, al fianco di Vincenzo Lima (padre di Salvo), per il tentato omicidio del boss Mingoia82. Negli anni sessanta il ruolo di capoFamiglia di Brancaccio toccò a Gioacchino Pennino secondo, che troviamo al centro di un fitto network di relazioni mafiose e politiche, e di importanti inchieste della polizia. Buscetta si è risolto a parlarne solo nei primi anni novanta, come di un suo grande amico e sodale. Gioacchino terzo fu affiliato in età adulta, intorno ai quarant’anni, e con una metodologia particolare, tendente a mantenerla segreta, la sua affiliazione, anche all’interno di Cosa nostra, almeno ai ranghi inferiori. Perché? Forse per lasciargli più spazio per muoversi nel mondo «di sopra». Era un medico (come il vecchio Allegra!), titolare di laboratori di analisi, iscritto alla massoneria, e ricopriva ruoli di responsabilità nella Cisl. Nella Democrazia cristiana, apparteneva alla corrente di Lima sebbene dovesse malvolentieri (spinto dai leader di Cosa nostra) sostenere anche quella di Ciancimino. Diresse la sezione Dc di Ciaculli, che ci viene descritta a esclusiva trazione mafiosa. Quando Bontate e Inzerillo vennero fatti fuori e cominciò la mattanza, vedendo che «i vecchi [venivano] tutti trucidati», Gioacchino terzo temette per la vita di suo zio, Gioacchino secondo, e anche per la propria. Dovette mettersi a disposizione di Provenzano, cui toccava per i corleonesi la gestione delle relazioni politiche. Maggiormente si fidava di Pino Greco scarpuzzedda, che gli spiegò: «simo tutti ’nta stissa pignata», siamo tutti nella stessa pentola83. Però, come abbiamo detto, quest’altro Greco finì lui stesso assassinato. Riina evidentemente ritenne che le rispettive pignate fossero differenti. Pennino si sarebbe risolto a collaborare con le autorità nel 1994. Il secondo caso di rampollo di élite mafiosa, però originaria della provincia, è quello di Angelo Siino, passato a collaborare con le autorità nel 1997. Parliamo anche della sua storia, per come lui stesso l’ha raccontata in un’intervista. Siino nasce nel 1944 a San Giuseppe Jato (provincia di Palermo, a sudovest del capoluogo) e la famiglia è di capi mafia per parte di madre. Suo nonno appunto materno, Giuseppe Celeste, è stato ucciso nel 1921. Noi già conosciamo il fratello di suo nonno, Salvatore Celeste, confinato sotto il fascismo, nominato sindaco di San Cipirrello all’arrivo degli alleati, indicato da Buscetta come il capo della Famiglia di cui faceva parte Salvatore Giuliano. Intrigante il quadro d’ambiente che Siino ci restituisce a partire da questa figura: Era un personaggio che già per censo stava benissimo, anche perché nella sua famiglia erano dei grossissimi proprietari terrieri e di animali. Ho ancora l’atto di eredità di mia madre, dove le lasciavano 400 ettari di terreno, 3000 vacche e 30 000 pecore. Questo prozio era un grosso borghese che conosceva molti nobili. Non immaginate cosa succedeva in queste famiglie, tragedie greche, uccisioni continue … Ci sarebbero da scrivere tomi84.
Altro che i pecorai o i delinquenti di ora, commenta l’erede… Era gente che conosceva altri linguaggi, oltre a quello della forza. Se non che, «a un certo punto c’è stata l’involuzione che è cominciata dal dopoguerra fino ad arrivare ai livelli minimi di ora». Siino tiene a dirci che lui stesso, alla pari del prozio capomafia, si è formato a cavallo tra due mondi. Solo che l’ha fatto cinquant’anni e due generazioni più tardi di lui, quando «il mafioso tizio, [già] amministratore del principe caio, del barone sempronio», aveva già preso il sopravvento, e accadeva che lui stesso, pur frequentando rampolli di nobili casate, avesse più soldi in tasca di loro. Il padre «si era creato un piccolo feudo nell’Ente di sviluppo agricolo», tipico carrozzone regionale derivante dalle leggi di riforma fondiaria del 1950, «e tutti i lavori dell’Ente li facevamo noi», grazie anche alla discreta protezione del parente capomafia. Affarismo e aggancio con la Democrazia cristiana85. In questi luoghi Angelo Siino investe una parte importante del suo capitale, la «capacità di relazione» tra i diversi soggetti impegnati a mandare avanti la macchina affaristica. Il prozio gli raccomanda di non lasciarsi affiliare. Si tratta
di un’altra variante della strategia adottata per Pennino: il mafioso ben inserito nei circoli sociali che contano va sottratto a controlli mafiosi troppo rigidi, è opportuno che abbia le mani più libere. Siino così può inventare un sistema, poi divenuto proverbiale, per la spartizione ordinata degli appalti pubblici e delle tangenti: 2 per cento alla mafia, 2 per cento ai politici, 0,50 per cento agli organi di controllo. Lo chiamano «il ministro dei lavori pubblici» di Cosa nostra. A chi gli chiede perché non sia stato ammazzato nel momento più caldo, come tanti altri che si trovavano in posizioni analoghe alla sua, ha risposto: «perché non avevo mai interessi precisi», ovvero personali, nella redistribuzione che organizzavo86. Il notabile della mafia si era messo, o era stato messo ai servigi dell’organizzazione. Viene arrestato nel 1991. In conclusione, qualcos’altro abbiamo capito dell’escalation mafiosa, nella quale gli elementi di rottura si sovrapposero a quelli di continuità. Nel 1989 la storica Giovanna Fiume chiese a Falcone una valutazione appunto storica. Falcone rispose che, rispetto al passato, ai vertici delle cosche c’era una maggior percentuale di elementi di estrazione più propriamente criminale, anche se nei luoghi di maggiore tradizione, in certi paesi e nelle borgate palermitane, vi si trovavano pur sempre «individui molto influenti, proprietari terrieri, grossi imprenditori»87. Parafrasando Franchetti, possiamo parlare di un processo di democratizzazione della violenza, dell’accesso di elementi di più basso rango sociale agli alti gradi della mafia. Rifletteva d’altronde quanto molto più in generale era avvenuto nella società siciliana: l’esaurimento, magari più lento che altrove, del potere della grande proprietà fondiaria, che della mafia era stata modello, interfaccia, protettrice. L’organizzazione, che si era mantenuta per un secolo e più all’ombra di quel potere sociale, si trovò a fare i conti con se stessa. Si svilupparono al suo interno spinte a una brutale omologazione. Ne fecero le spese le gang intercontinentali e il notabilato che nelle singole Famiglie rappresentava il lascito del passato. Chiudiamo ancora con Riina. Mi fa pensare a un sottufficiale «di colore» di un esercito coloniale, che al momento della decolonizzazione, mentre l’antico potere che l’ha reclutato si disintegra, si trova una forza a disposizione, e la utilizza in proprio, contro la borghesia compradora. 1 Ayala 1988, p. 15. 2 Falcone Fiume 1989, p. 202. 3 Violante 1994, p. 37. 4 Lo si veda in La Torre 1982, pp. 259. 5 G. Bocca, Come combatto contro la mafia, in «la Repubblica», 10 agosto 1982. 6 Di Lello 1994, p. 169. 7 Blumenthal 1988, pp. 221 e 236. 8 Cito da un’intervista da lui concessa l’8 novembre 2007 alla mia allieva Maria Simona Gargano. 9 Tra le ricostruzioni di quella tragica sequenza scelgo quella di Lodato 1992, pp. 159 sgg. 10 Orlando 1990, p. 170. 11 Il suo intervento in Pintacuda 1972, pp. 4950. 12 Dolci 1966, p. 278. 13 Blando 1996; Santino 2000, pp. 245 sgg. 14 Lodato 1992, pp. 1712. 15 Il modello mafia, in «Segno», 1982, 33, p. 6. 16 Chinnici 1990, p. 44. 17 Aveva aderito al comitato per il divorzio in occasione del referendum del 1974, sostenne nel 1979 il collega Giovanni Rizzo, presentatosi alle
elezioni come indipendente nelle liste del Pci. L’associazione di cui faceva parte, «Terza posizione», era comunque rappresentativa di una corrente centrista della magistratura. 18 Cfr. la cronaca della manifestazione degli operai dell’azienda Lesca in «L’Ora», 1° febbraio 1986. 19 Battiato Vara 1993, p. 23. 20 P. Guzzanti, «Palermo, una città modello», in «la Repubblica», 10 settembre 1982. 21 Borsellino, Prefazione a Chinnici 1990, p. 12. 22 Cfr. ad es. l’obiezione dell’avv. Fragalà, in Testimonianza Buscetta B, III, pp. 623. 23 Testimonianza Buscetta B, p. 37. 24 Ibid., p. 28. 25 Di Piazza 2010, pp. 478. 26 Arringa di Robert Stewart, in United States v. Badalamenti, pp. 1489; dichiarazione di Louis Freeh, cit. da F. J. Prial, Judge Orders in Pizza Case, in «New York Times», 23 giugno 1987. 27 A parlare sono Salvatore Santoro e Sal Avellino, in data 28 marzo 1983. Traggo la citazione da Raab 2007, p. 259. 28 Alexander 1988, p. 43.
29 A. H. Lubash, Drug Defendant Termed ExBoss of Sicilian Mafia, in «New York Times», 31 ottobre 1985; e Id., Pizza Case Figure Called
Opponent of Drug Dealing, ivi, 8 novembre 1985. 30 Id., Drug Defendant Reticent of Mafia Past, ivi, 19 ottobre 1986. 31 Lettera cit. del 13 marzo 1964, in GWP. 32 Il testo dell’interrogatorio è riportato in Istruttoria Sindona, pp. 25783 e in particolare pp. 265 e 271. 33 Blumenthal 1988, pp. 512. 34 Cito dai brani dell’arringa di Kennedy del 24 ottobre 1985, riportati in Alexander 1988, pp. 302. 35 Cit. ibid., p. 32. 36 Arlacchi Dalla Chiesa 1987, pp. 78 sgg. 37 Pansa 1986. 38 Si veda il discorso nella cronaca fattane da «L’Ora», 30 gennaio 1986. 39 Si veda ad esempio G. Lo Porto, Se la lotta alla mafia diventa un grande spettacolo, in «Giornale di Sicilia», 16 novembre 1986, poi in Monti 2007, p. 37. S. Scarpino, Cosa nostra cosa loro, in «Il Giornale», 10 gennaio 1986. 40 Mellini 1986, p. 78. 41 Ibid., p. 140. 42 Jannuzzi 1986. 43 Pantaleone 1985. 44 «Corriere della Sera», 27 dicembre 1987, ora in Sciascia 1989, pp. 1479. 45 Sciascia, Prefazione a Jannuzzi 1986, pp. 9 e 10. 46 «Corriere della Sera», 19 settembre 1982, p. 46. 47 Biagi 1986, p. 97. 48 «Corriere della Sera», 2 gennaio 1987, in Sciascia 1989, p. 119. 49 Si veda ancora la Prefazione a Jannuzzi 1986, p. 8, e gli articoli in «Corriere della Sera», 18 aprile 1986 e su «Panorama», 7 settembre 1986, in Sciascia 1989, pp. 97109 e 1158. 50 «Corriere della Sera», 10 gennaio 1987, in Sciascia 1989, pp. 12330. 51 Si veda la successiva testimonianza di uno degli autori del manifesto, Francesco Petruzzella, intervistato da A. Bolzoni, Fui io a dare a Sciascia del quaquaraquà, in «la Repubblica», 7 gennaio 2007. 52 In «Corriere della Sera», 14 gennaio 1987, ora in Sciascia 1989, p. 131. 53 In «la Repubblica», 31 marzo 1989. 54 Arlacchi 1983. 55 Istruttoria Spatola, p. 365. 56 Ibid., p. 485. 57 Ibid., p. 365 e passim. 58 Ibid., pp. 599 e 787. 59 Si chiamava Giovanni Lo Monte. Ibid., pp. 493 sgg. 60 Istruttoria maxiprocesso, p. 288. 61 Testimonianza Buscetta A, p. 5. 62 Istruttoria maxiprocesso, p. 39. 63 Falcone 1991, pp. 678 e passim. 64 Falcone Fiume 1989, p. 209. 65 Falcone 1994, p. 278. 66 Ibid., p. 228. 67 Ibid., p. 321. 68 Falcone 1991, p. 169. 69 O. Fumagalli Carulli, Maccartismo a Palermo, in «Il Giornale», 19 novembre 1988, in Monti 2007, pp. 1257. 70 La Licata 1993, p. 166. 71 Il libro: Bolzoni D’Avanzo 2017. Il film è andato in onda su Canale 5 tra ottobre e novembre 2007. 72 Testimonianza Mutolo, p. 1231. 73 Intervistato in Gruppo Abele 2005, p. 324 (corsivo mio). 74 Istruttoria maxiprocesso, pp. 7980. 75 Intercettazioni Riina, p. 55. 76 Giovanni Bontate, fratello di Stefano, accordatosi coi vincitori nel 1981, nel 1988 finì ammazzato pure lui. 77 Intercettazioni Riina, p. 48. 78 Ibid., pp. 33 e 48. 79 Ibid., p. 55. 80 Tra cui l’altro superkiller Mario Prestifilippo, parente e amico di Scarpuzzedda, assassinato nel 1987. 81 Mi riferisco sia alla testimonianza in Istruttoria Andreotti, pp. 791 sgg., sia alla sua intervista in Gruppo Abele 2005, pp. 33448.
82 Patti 2014, pp. 171 sgg. 83 Gruppo Abele 2005, pp. 3412. 84 Ibid., p. 350. 85 Ibid., pp. 3513. 86 Ibid., p. 356. 87 Falcone Fiume 1989, p. 200.
XIV. Epilogo
La storia dell’incontro tra Stefano Bontate e Giulio Andreotti nel 1980 può essere vera o no. In ogni caso, non credo che il boss abbia davvero detto al senatore: non ci date fastidio, perché sennò leveremo alla Dc i voti della Sicilia e di tutto il Mezzogiorno. Magari avrà pronunciato frasi di quel genere all’uscita, rivolgendosi ai gregari rimasti fuori dall’uscio, per vantarsi. Sembra che, sette anni dopo, Riina abbia provato a mettere in atto una minaccia di quel genere. Era il 1987, non sapeva come rispondere all’inesorabile incedere delle udienze del maxiprocesso, ed erano in vista le elezioni nazionali (giugno). Avrebbe così ordinato che i voti controllati dall’organizzazione si spostassero dalla Dc verso il garantismo di socialisti e radicali, in particolare favorendo Claudio Martelli, numero due del Partito socialista, alfiere di Craxi. Stavolta gli spostamenti ci furono, ma non certo dell’ordine delle centinaia di migliaia di voti che si diceva fossero sotto controllo mafioso: a Palermo i socialisti crebbero del 6,6%, i radicali del 3%, con punte più elevate nei quartieri più esposti all’influenza mafiosa (i radicali conseguirono un +7% nel carcere cittadino dell’Ucciardone)1. (Tra l’altro, essendo il successo degli uni e degli altri di dimensione generalenazionale, è difficile dire quanto questo dato palermitano fosse dovuto alle strategie di Riina). Si confermò il concetto che abbiamo già in precedenza esposto: la mafia non sa utilizzare la leva elettorale per spostare macigni politici, nemmeno nella sua roccaforte palermitana. Così, nel 1988, fece ancora ricorso al terrore nel tentativo di condizionare la politica, con l’assassinio di un democristiano, l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco. Seguendo le stesse logiche si mosse sul fronte giudiziario. Dopo le dure condanne inflitte dalla corte al maxiprocesso, in vista dei giudizi di appello e della Cassazione, non trovò di meglio che assassinare due magistrati, Antonino Saetta e Antonino Scopelliti. Una strategia diversa avrebbe avuto bisogno del contributo di Salvo Lima, antico trait d’union con i palazzi romani. Ma costui in pubblico mostrava di approvare la linea dura seguita dal governo, e solo parlando in privato con Marco Pannella insisteva sul tasto garantista: «non ti nascondo che sono molto preoccupato. Li si tratta con ferocia, contro quel che dettano la legge e le leggi nostre. Come sorprendersi se ritenessero di dovere loro reagire con la ferocia delle bestie?»2. Nel frattempo, almeno stando ai pentiti, assicurava i boss che la Cassazione avrebbe annullato la sentenza, che le cose sarebbero state aggiustate dallo «zio» Giulio, Andreotti insomma. Invece lo zio Giulio, dal 1989 per l’ennesima volta alla guida del governo, non mosse un dito per loro e anzi lasciò che Martelli – suo ministro guardasigilli – chiamasse a Roma Falcone, assegnandogli la carica di direttore dell’ufficio Affari penali presso il ministero di Grazia e giustizia. Era il marzo del 1991. 1. I bagliori di Capaci. Io la direi così: Falcone aveva deciso che non voleva essere un «profeta disarmato». Sceglieva un alleato potente come Martelli sapendolo interessato a qualificarsi davanti all’opinione pubblica come avversario della mafia. E non aveva remore a puntare su Roma, tirandosi fuori dagli incancreniti conflitti del «palazzo dei veleni» palermitano, per ottenere i risultati generali di politica giudiziaria che considerava ineludibili. Insediatosi in quella posizione centrale, cominciò a pensare a una modifica del sistema carcerario tale da interrompere la comunicazione tra i boss detenuti e le loro truppe sul territorio. E avviò un cosiddetto «monitoraggio» della divisione del lavoro tra le sezioni della Corte di Cassazione, inteso a evitare che i processi per mafia finissero tutti in quella presieduta da Corrado Carnevale – il quale già in passato aveva destato scandalo annullando sentenze considerate solide. L’operazione era urgente, perché era in vista il vaglio di quella del maxiprocesso, che in effetti non toccò a Carnevale. Falcone mise certo nel conto la possibilità di un contrasto con molti dei suoi tradizionali amici e sostenitori. Come si ricorderà, aveva già fatto l’esperienza con Orlando, il quale aveva lamentato che le indagini sull’andreottiano Lima fossero rimaste nel chiuso dei suoi «cassetti». Ora, andando a collaborare col governo, rischiava la collisione con chi temeva che il controllo dell’esecutivo sulla magistratura si risolvesse in un bavaglio alla giustizia. Finì in particolare sotto il fuoco delle critiche, per questa ragione, il suo progetto di una Procura nazionale antimafia. Quando si trattò di nominare il procuratore (febbraio 1992), il Csm gli preferì Agostino Cordova. Però nel frattempo la Cassazione (gennaio 1992) aveva confermato definitivamente la sentenza del maxiprocesso, sancendo un risultato di portata storica. La leadership corleonese, viste smentite le pseudogaranzie di impunità
propinate al popolo di Cosa nostra, decise di reagire con i metodi che meglio conosceva: annientando il nemico. Il 23 maggio del 1992, sull’autostrada tra l’aeroporto di Punta Raisi e Palermo, in prossimità dello svincolo di Capaci, un’apocalittica esplosione pose fine alla vita di Falcone, della moglie Alessandra Morvillo e di tre poliziotti di scorta. In quel tragico momento la storia della mafia andò a intrecciarsi con la storia d’Italia in maniera indistricabile, come mai era successo. La Repubblica si trovava già in una situazione di crisi politica e morale senza precedenti. Qualche mese prima (17 febbraio), all’altro capo del paese (Milano), Mario Chiesa, elemento di medio livello della macchina politica socialista, era stato beccato con le mani nel sacco mentre intascava una tangente. Da quell’episodio minore, ma sintomatico di un sistema di corruzione, derivò il grande scandalo di Tangentopoli; che, unendosi a quello – diciamo così – di Mafiopoli, ingigantì il bisogno di riscatto, la domanda di una politica nuova e migliore. Di una seconda Repubblica, si disse allora ed è stato detto anche in seguito (non so quanto in maniera congrua). Andreotti aveva appena lasciato la guida del governo e Francesco Cossiga la presidenza della Repubblica. A soli due giorni dalla strage di Capaci, fu sorprendentemente eletto alla prima carica dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, tutt’altro che un uomo nuovo (era un democristiano che aveva fatto parte dell’Assemblea costituente), ma che nuovo apparve, perché estraneo al «giro» del cosiddetto Caf (CraxiAndreottiForlani). Scalfaro impose a Craxi di dare il via libera, per la guida del governo, a Giuliano Amato, socialista sì, ma non coinvolto nelle inchieste, il cui profilo tecnico sembrava utile per controbilanciare la dilagante crisi di sfiducia nei partiti. Nel dicembre, Craxi avrebbe ricevuto dagli inquirenti milanesi un avviso di garanzia; nel febbraio dell’anno seguente, avrebbe abbandonato la direzione del Psi. Nel frattempo a Palermo Cosa nostra aveva sferrato il suo secondo colpo. Il 19 luglio 1992, un altro attentato dinamitardo uccise Borsellino sotto casa della madre in via d’Amelio, e con lui caddero, ancora, i poliziotti della scorta. Perché tutto fosse chiaro Riina & C. uccisero, oltre ai due nemici rivelatisi troppo capaci, anche due amici rivelatisi incapaci: Lima il 12 marzo, Ignazio Salvo il 17 settembre. Lo stesso Antonio Caponnetto, al funerale di Borsellino, si lasciò sfuggire uno sconsolato «è tutto finito». Le modalità degli attentati di Capaci e via d’Amelio erano – io credo – studiate appositamente dalla leadership di Cosa nostra per celebrare la propria potenza di fronte al mondo, tirare su il morale alla truppa, atterrire e/o scoraggiare i nemici. In carcere, i mafiosi detenuti brindarono a champagne al 20 inflitto allo Stato. Nondimeno, toccò proprio a loro fronteggiare la risposta, in una sequenza azionereazione che stavolta fu serratissima. Il Parlamento varò i provvedimenti lungamente richiesti da Falcone, un regime carcerario speciale per i detenuti di mafia (articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario). Il giorno stesso della morte di Borsellino Martelli decretò il trasferimento di centinaia di loro, destinazione le isolette di Pianosa e dell’Asinara, le «carceri speciali» in cui erano stati rinchiusi i brigatisti: il blitz fu realizzato alle tre di mattina del 20 luglio, con uno spettacolare spiegamento di forze3. Un paio di giorni dopo, Amato ordinò la cosiddetta «operazione Vespri siciliani», cioè il dispiegamento di reparti dell’esercito nelle strade siciliane, a difesa di obiettivi sensibili. Ci voleva qualcuno che assumesse il ruolo di procuratore capo a Palermo. Si candidò, e fu in effetti nominato dal Csm, Giancarlo Caselli, il magistrato torinese cui abbiamo già accennato per la sua esperienza nel contrasto alle Brigate rosse. Caselli era in buona relazione con il colonnello Mario Mori, vicecomandante del Ros (Reparto operativo speciale) dei carabinieri, che lo informò della «caccia senza quartiere ai grandi boss latitanti» in atto4. Appena arrivato a Palermo, apprese la grande notizia: il superboss, Totò Riina, era stato preso appunto dai carabinieri del Ros in una via del centro di Palermo. Era 15 gennaio del 1993. Non per questo finì l’offensiva di Cosa nostra che anzi, nel corso del 1993, assunse una veste clamorosamente innovativa. Attentati dinamitardi andarono a colpire illustri monumenti nel continente, a Firenze il 27 maggio, a Milano e Roma il 27 luglio, distruggendo vite umane e valori culturali insostituibili. Altri attentati (ad esempio quello al giornalista Maurizio Costanzo) fallirono di un pelo. Poi l’offensiva si placò. Provenzano rimase uccel di bosco ma molti altri boss furono arrestati. Cito tra gli altri Leoluca Bagarella, altro rappresentante della triade corleonese nonché cognato di Riina; Giovanni Brusca, erede di una dinastia mafiosa di San Giuseppe Jato da sempre alleata con Riina, killer di straordinaria efferatezza, colui che materialmente aveva provocato l’esplosione di Capaci. Diversi di questi membri della fazione filocorleonese decisero di collaborare con la giustizia; alcuni cambiarono fronte immediatamente dopo essere stati arrestati. Lo smottamento, cominciato già prima, accelerò dopo il 1992, tanto che Franco La Licata, uno dei più acuti cronisti del fenomeno mafioso, ha parlato di una «diserzione di massa»5. Questo molto ci dice degli sconvolgimenti provocati dalla linea stragista nella «politica interna» di Cosa nostra. Una fase storica finì. Magari potremmo persino indicare il momento esatto, quel 15 settembre 1993, quando Pino Puglisi, parroco del quartiere palermitano di Brancaccio, fu punito con la morte dai boss locali per essersi pubblicamente schierato contro la mafia. Da allora, Cosa nostra non ha più ha ucciso a Palermo in base a logiche simboliche, propagandistiche, in senso lato politiche. Aggiungiamo che i mafiosi non si sono più neanche ammazzati
tra loro così di frequente. In città (ma anche in altre aree della Sicilia), ci sono stati anni in cui non si è avuto nemmeno un omicidio per causa di criminalità organizzata: credo che in nessun’altra fase del centocinquantennio unitario si sia registrato un dato del genere. Si consideri d’altra parte il dato proposto dal magistrato Gioacchino Natoli: dal 1993 al 2006 nel solo distretto di Palermo si sono avute oltre 450 condanne all’ergastolo per fatti di mafia, contro una decina appena nei cento anni antecedenti il maxiprocesso6. Riina, arrestato appunto nel 1993, è morto in carcere nel 2017; come è accaduto a Michele Greco e a diversi altri boss. Un gran numero dei mafiosi imprigionati in quella fase si trova ancora dietro le sbarre. La durezza della repressione è stata senza precedenti. Possiamo ragionevolmente ricondurla alla scelta terroristica fatta con sempre maggiore pervicacia da Cosa nostra a partire dal 1979 (la fase di cui abbiamo parlato nei due precedenti capitoli), e ancor più nel 199293 (quella di cui ci siamo occupati nel capitolo presente). La drammatica escalation realizzò l’effetto di compattare il fronte antimafia e di disgregare il fronte mafioso stesso, incrementando il pentitismo. Forse la repressione ha colpito di meno le altre mafie italiane, la camorra o la ’ndrangheta, proprio per questo: perché non si sono incamminate sulla strada del terrorismo. Forse per questo oggi esse hanno potuto superare la mafia doc nei mercati illegali internazionali, e appaiono in generale più minacciose. Influisce peraltro anche la crisi profonda, senza precedenti, in cui è precipitata Cosa nostra americana (la quale, pure, si è sempre mantenuta estranea a logiche terroristiche). Anche qui sono finiti in galera leader e gregari in quantità, e tra loro l’ultimo vero boss, John Gotti, che vi è morto nel 2002. Joseph Massimo, capo della Famiglia Bonanno, arrestato nel 2003, ha addirittura scelto di collaborare con le autorità. Si può dire che a New York il sistema delle cinque famiglie con relativa Commissione non esista più. Facciamo un passo in avanti e arriviamo all’11 aprile del 2006, quando fu catturato Bernardo Provenzano. Era l’ultimo boss corleonese a piede libero e veniva considerato il successore di Riina. Era ben protetto, e ci volle una complicata caccia all’uomo perché (finalmente) venisse preso. Pochi mesi dopo (giugno), a Palermo le forze dell’ordine portarono a termine l’«operazione Gotha», scompaginando appunto il Gotha di Cosa nostra. Seguì, nel 2008, la brillante operazione congiunta tra Fbi e polizia italiana denominata Old Bridge, da cui abbiamo già attinto molte informazioni. Le due fazioni più importanti di Cosa nostra palermitana postcorleonese erano entrate in contrasto su un tema che sappiamo così rilevante storicamente: le relazioni tra le due componenti della rete intercontinentale mafiosa. Bisognava consentire, come richiesto da confratelli d’oltreoceano, il ritorno in patria dall’America degli ultimi Inzerillo? O il ventennale esilio andava confermato, per evitare vendette, perché il traffico tra le due sponde non tornasse all’antica, eccessiva fluidità? Già si oliavano le armi quando le autorità intervennero arrestando i maggiorenti di entrambe le fazioni. E rivelando quanto entrambe le organizzazioni già segretissime – Cosa nostra americana e Cosa nostra siciliana – fossero nel 2008 «aperte» davanti alle indagini e agli inquirenti. Questa storia della mafia potrebbe finire qui, con questi successi. Io spero che il futuro non ci porterà in sorte nuove stagioni di protagonismo di Cosa nostra, ma si tratta appunto di una speranza, perché lo storico non è – per definizione – abilitato a prevedere il futuro. Piuttosto possiamo ragionare di un argomento che fa parte del territorio dello storico, quello della memoria. Nel venticinquennio successivo al 199293, i diversi soggetti coinvolti si sono molto affannati a rielaborare quei tragici eventi, per cercarvi un senso e una verità. Ragioneremo dunque di memoria dell’antimafia. E di memoria della mafia. 2. La memoria dell’antimafia. L’aeroporto palermitano di Punta Raisi è stato rinominato «Falcone e Borsellino». I turisti che da lì vanno in città attraverso l’autostrada non possono non vedere il grande monumento che si leva sulla curva in cui la strage di Capaci si è consumata. Il governo, la Fondazione Falcone, l’Associazione Libera organizzano ogni anno il viaggio di migliaia di studenti su una «nave della legalità», da Civitavecchia a Palermo, per l’anniversario del 23 maggio. Questi confluiscono con altri, a Palermo, in una manifestazione che comprende una sosta all’aulabunker dell’Ucciardone e una davanti alla casa del magistrato assassinato, dove è stato piantato un albero, detto appunto «albero di Falcone». C’è un grande concorso di autorità. Il 23 maggio rappresenta un po’ il punto culminante di un rituale che si ripropone negli anniversari della morte di Borsellino, di Dalla Chiesa, e in tanti altri giorni dedicati, in manifestazioni, rievocazioni, commemorazioni, nelle piazze, nelle scuole, nei tribunali e in altre sedi istituzionali, sui giornali e in televisione. Impossibile sapere quanti magistrati, prefetti, sacerdoti, giornalisti, studiosi a vario titolo, professori, membri di associazioni, comuni cittadini vi siano stati coinvolti. A Palermo innanzitutto, ma in Sicilia e in tutta Italia. Vengono ricordati i caduti delle istituzioni e anche quelli di un’antimafia che poco o niente aveva a che vedere con quella istituzionale. Gente come Pippo Fava e Peppino Impastato. O come Pino Puglisi, elevato al rango di santo dopo che in passato la Chiesa cattolica tante volte aveva mantenuto rapporti di tolleranza e buon vicinato con la mafia. E come Libero Grassi: proprietario di un’impresa palermitana dell’abbigliamento di media dimensione, con un lungo
passato di presenza intellettuale e politica nell’area laica, tra repubblicana e radicale; uomo davvero libero, tutto d’un pezzo, che non solo si rifiutava di pagare il pizzo, ma aveva giustificato la propria scelta pubblicamente, anche in televisione. Prima che pagasse il più duro prezzo di sangue, il 29 agosto 1991, era stato trattato come un appestato dalle associazioni imprenditoriali7. Dal suo sacrificio è nato un mutamento epocale: che ha visto moltiplicarsi le associazioni antiracket, la Confindustria isolana promuovere campagne contro il «pizzo», tanti imprenditori rifiutarsi di pagare e denunciare gli estortori, come mai era successo nelle zone di più antica infezione mafiosa. Devo peraltro segnalare il fenomeno della gelosa «privatizzazione» della memoria di alcune di queste figure, ad opera di specifici gruppi. È indicativo di fratture più vaste. Non sempre il richiamo ai valori dell’antimafia è comune ai vari schieramenti politici o d’opinione: non sempre è trasversale o di tipo «repubblicano», per richiamare espressioni in uso. In particolare, il nucleo che possiamo definire antimafia militante, o anche radicale, non vuole omologarsi con l’Italia ufficiale, si sente e vuole sentirsi forza di opposizione. Proviamo a chiarire questo concetto. La militanza antimafia, come già in parte sappiamo, si sviluppò secondo una logica emergenziale, nei momenti più tragici, come quello dell’assassinio di Dalla Chiesa. La mobilitazione collettiva raggiunse il suo picco in corrispondenza con la micidiale sequenza del 199293. Però di seguito non smobilitò, anche se – come abbiamo detto – l’emergenza man mano venne meno, e la minaccia si attenuò. Tra le riflessioni su questo movimento segnalo quella degli antropologi americani Jane e Peter Schneider. I due rilevano il legame con un’altra tradizione politica e ideale siciliana, quella del conflitto sociale, politico e culturale postbellico, delle lotte per la terra e del movimento contadino; ma anche le grandi differenze, derivanti dalla natura borghese e intellettuale, postmaterialista, di questa nuova fase. Tra i casi citati dai due studiosi, riprendo quello del «Comitato dei lenzuoli»: gruppo di donne che, come «spontanea manifestazione di dolore e di rabbia», dopo l’assassinio di Falcone stesero appunto ai balconi dei lenzuoli bianchi con scritte di protesta, coinvolgendo a macchia d’olio una parte sorprendentemente larga della città8. Segnalo che quello degli Schneider è un approccio simpatetico nei confronti della cultura isolana. Ragionano in termini di Reversibile Destiny, espressione che in italiano è stata resa come Destino reversibile9: la società siciliana, intendono dire, non è (come tanti hanno pensato, in Italia e all’estero) ineluttabilmente schiacciata da codici culturali filomafiosi. Ha dimostrato di saper generare circuiti nuovi di comunità, di socialità, di partecipazione civile. Il movimento peraltro, come accade, ha provato a farsi istituzione. E ha assunto carattere nazionale, oltre che regionalesiciliano, andando a cumularsi con quelli intesi a combattere la corruzione politicoaffaristica, ad agitare una più generale questione morale. Prendiamo il caso di Leoluca Orlando, che nel 1991, abbandonando la Dc, fondò la Rete – quella cosa nuova che voleva concretizzare il suo già citato progetto di abbandonare la «formapartito» rendendo protagonista la «società civile»10. Aderì Claudio Fava, figlio nonché collaboratore di Pippo Fava, insieme a molti altri elementi coinvolti nel moto di resistenza degli anni precedenti. Ma anche l’associazione denominata appunto «Società civile», che dal 1985 a Milano faceva capo a Nando Dalla Chiesa, figlio del generale assassinato, nella quale operavano magistrati di punta come Gherardo Colombo. Va rilevato comunque che alla fine la Rete fu, magari suo malgrado, un gruppo politico minore, collocato sul versante di una sinistra più o meno radicale, che riscosse un discreto successo elettorale ma dopo qualche tempo scomparve. Più diretto e duraturo il modo in cui l’idea venne concretizzata da don Luigi Ciotti, sacerdote che già aveva assunto un ruolo di punta nella lotta alle tossicodipendenze, che nel 1992 fondò la rivista «Narcomafie» e nel 1995 «Libera», la quale è appunto un network di centinaia di associazioni variamente ispirate all’idea del contrasto alle mafie. Un moto dal basso veramente imponente. Molti altri esempi potremmo d’altronde citare di persone, gruppi, associazioni, organi di stampa o luoghi della rete informatica che si sono ispirati e tutt’oggi si collocano sulla stessa linea. C’è peraltro un aspetto negativo, di cui bisogna prendere atto; magari senza eccedere con le grida di scandalo, senza passare dall’esaltazione allo sconforto. La questione morale (l’antimafia questo è) ha rappresentato una risorsa identitaria importante ma troppo facilmente disponibile sul mercato, soprattutto man mano che il picco della minaccia mafiosa si è allontanato nel tempo. Nel trascorso venticinquennio, è accaduto che molti opportunisti abbiano trovato comodo indossare la casacca dell’antimafia. Non poche imprese mafiose hanno cercato di camuffarsi aderendo ad associazioni antiracket11. Si sono registrati abusi nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Su questo Sciascia avrebbe certo avuto qualcosa da dire. E veniamo al contributo dei magistrati. Sembrerebbe logico considerare la loro antimafia come quella istituzionale per eccellenza. Teniamo però conto dell’andamento della storia italiana, del ruolo di rappresentante della società civile, insomma politico, da molti assegnato alla magistratura (soprattutto inquirente). Nella trincea palermitana, laddove tanto sangue è stato versato, quest’aspetto è stato più fortemente sentito. Il dato apparve particolarmente evidente nel momento (marzo 1993) in cui il pool palermitano, diretto da Caselli, presentò al Senato la richiesta di incriminazione di Andreotti. Fu «l’episodio forse più emblematico della brutale delegittimazione dell’Antico Regime»12 consumatasi in quell’anno e nel precedente: d’altronde Andreotti era stato
fino a pochi mesi prima il capo del governo, e il candidato alla presidenza della Repubblica. Antonio Ingroia, uno dei giovani magistrati palermitani che si stavano allora mettendo in luce attorno a Caselli, ha affermato: fu anche un modo per «dare una svolta radicale, sempre più incisiva alle inchieste, oppure quel terribile tiro al piccione sarebbe continuato»13. Diciamo delle basi su cui venne costruita l’accusa. Marino Mannoia, arrestato nel 1985, disse (come sappiamo) dell’incontro tra Andreotti e Bontate. Nuovi pentiti ex corleonesi, tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993, raccontarono di un altro incontro, che il leader Dc avrebbe avuto con Riina nel 1987. E rivelazioni importanti, soprattutto su Lima, fece Buscetta, il quale in passato si era rifiutato di parlare di questi argomenti. Caselli e i suoi ritennero di aver trovato i riscontri. Destò grande sconcerto nell’opinione pubblica il particolare del bacio che, nel 1987, si sarebbero scambiati Andreotti e Riina. Stando all’interpretazione dell’accusa, avrebbe confermato un preesistente «patto di fedeltà e di scambio», avrebbe dimostrato che il leader democristiano si sentiva «sempre a disposizione, come in passato, dell’organizzazione»14. Una mia osservazione. Io trovo forzata, anzi irrealistica, l’idea di un Andreotti «a disposizione» di Riina. Ripropone più che altro, in forma un po’ acritica, una pseudoverità formatasi all’interno di Cosa nostra, e ancora una volta riflette quello che i capi dicevano ai gregari per rassicurarli: che il grande politico era nelle loro mani, che l’avevano baciato, o anche che era bastata qualche minaccia per rimetterlo in riga. Ignora il fatto che durante il maxiprocesso, e a maggior ragione dopo, Andreotti non fece niente per Cosa nostra, e anzi come capo del governo fece qualcosa contro di essa. È anche su questa consapevolezza (oltre che su altre considerazioni sulla intrinseca affidabilità dei vari testimoni) che alla fine si è basata la sentenza d’appello, recepita dalla Cassazione: la quale ha giudicato il racconto sull’incontro AndreottiBontate credibile, quello sull’incontro AndreottiRiina no. L’affare Andreotti, nei molti anni intercorsi tra l’atto di incriminazione e la sentenza della Cassazione, portò con sé una gran quantità di polemiche, dimostrando quanto peregrino sia parlare di una concordia dell’opinione pubblica in tema di antimafia. Da un lato c’era chi indicava nei giudici palermitani i campioni della giustizia che finalmente svelavano gli arcana imperii, il volto criminale del potere. Dall’altro c’era chi li vedeva come la personalizzazione dello spirito persecutorio e della strumentalizzazione politica della giustizia, insomma (questo il termine in uso) del giustizialismo. Accadde persino che la sentenza finale fosse assunta come una conferma da entrambi gli opposti schieramenti: perché assolveva l’imputato, e nel contempo ne riconosceva le relazioni con Cosa nostra. Sul versante innocentista si schierò, insieme a molti uomini della vecchia politica democristiana e socialista, il grande leader della nuova destra italiana, Silvio Berlusconi. Non era certo un uomo che potesse accettare l’idea dell’equivalenza tra questione politica, questione morale e questione penale su cui si basava l’antimafia militante. Anzi, si caratterizzava per le sfuriate postcraxiane contro il moralismo e il giustizialismo; che peraltro gli valevano il sostegno di un gran flusso di opinione pubblica, poco preoccupato dal suo profilo non sempre limpido di uomo d’affari, e dalle sue varie pendenze giudiziarie. Diremo più avanti del modo in cui Berlusconi venne chiamato in causa per lo specifico della questione mafia. Segnalo ora il modo in cui vi furono coinvolti direttamente i potentati post democristiani siciliani confluiti accanto a Forza Italia nel centrodestra: che, sotto la guida di Salvatore Cuffaro prima, di Raffaele Lombardo poi, hanno governato la Regione rispettivamente nel 20112008 e nel 200812. Cuffaro, in particolare, è stato condannato a sette anni di prigione, ed è in effetti rimasto in carcere dall’inizio del 2011 alla fine del 2015. E il centrosinistra? Nel venticinquennio successivo al grande choc del 199293, ha dato uno spazio ben maggiore a idee, simboli e persone dell’antimafia, a livello sia siciliano che nazionale. Posizioniamoci per un attimo al 2015. In quell’anno, presidente della Repubblica italiana era Sergio Mattarella, presidente del Senato Pietro Grasso, presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta, sindaco di Palermo ancora Leoluca Orlando. Il primo è il fratello e l’erede politico di una delle grandi vittime della mafia. Il secondo è stato giudice a latere nel maxiprocesso, elemento di punta della magistratura palermitana, procuratore nazionale antimafia. Il terzo si è sempre qualificato su una linea politica antimafiosa, sin da quando era sindaco di Gela. Ancor più, da più tempo lo ha fatto (come sappiamo) il quarto, sia a Palermo sia su scala nazionale. Eppure non sempre il centrosinistra è stato considerato un buon interlocutore dal radicalismo antimafia. È stato accusato di moderatismo, di indulgenza se non di simpatia per i progetti berlusconiani di controllo e normalizzazione della magistratura. Non ha saputo dare risposta alla domanda di riforma politica e morale. In conclusione. Molti paventano una cancellazione della memoria. A me sembra che il vero problema sia: che senso dobbiamo attribuirle? Chi ha titolo per rivendicarla? Il bilancio eticopolitico del presente non è così soddisfacente e quello retrospettivo non si presenta così chiaro. Non sono in pochi a chiedersi se veramente abbiamo conseguito una vittoria. 3. La macchina del complotto.
Il 26 ottobre 2014, parlando alla folla a Palermo, davanti all’Assemblea regionale siciliana, Beppe Grillo ha detto: «La mafia è stata corrotta dalla finanza. Prima non metteva le bombe nei musei o uccideva i bambini nell’acido. Prima aveva la sua morale». Nelle associazioni a delinquere, ha aggiunto, non ci sono più i criminali propriamente detti, quelli che sono fuori dalla legge e lo sanno. La vera associazione a delinquere è quella dei politici e degli uomini d’affari, che si sentono e sono parte del sistema. Lasciamo pure da parte l’immaginario sulla mafia buona di una volta, che ben conosciamo nella sua natura apologetica e depistante. Confrontiamo la tesi di Grillo con quella (opposta) di Falcone, base del maxiprocesso e delle grandi vittorie della Repubblica sulla mafia, che possiamo sintetizzare così: Cosa nostra non è affatto manovrata o manovrabile da un «terzo livello» collocato nell’empireo della grande politica o della grande impresa, bensì agisce in proprio, perseguendo un proprio autonomo progetto di potere. Falcone era un magistrato di punta e un fine intellettuale, Grillo è uno showman nonché un grande leader politico, e in questo suo duplice ruolo ha mostrato un fiuto finissimo. Sa quanto sia oggi distante nel tempo l’escalation mafiosa del 197993, e quanto la memoria pubblica si sia nel frattempo convinta che in quei drammatici, ormai remoti passaggi, i capi di Cosa nostra siano stati solo gli «esecutori» di ordini provenienti dai vertici del sistema politico e/o finanziario. Prima di approfondire il tema, devo rilevare il paradosso. Proprio il trauma della morte di Falcone ha impedito a molti di accettare la sua tesibase (della quale peraltro, sia detto per inciso, io personalmente rimango ben convinto). Le prime perplessità emersero già all’atto dell’arresto di Riina. Sembrò strano quel boss che non viveva in un «covo», ma in un appartamento in zona residenziale, insieme alla famiglia, come un innocuo impiegato; che girava disarmato, sprovvisto di guardaspalle e di qualsiasi altro dei simboli del potere criminale o economico. Come mai la sua immagine corrispondeva così poco a quella che la pubblica opinione si era fatta del capo dei capi della terribile piovra? C’era qualcosa o qualcun altro dietro di lui? Quando, in quello stesso anno, fu preso il boss catanese Nitto Santapaola, Claudio Fava, lui stesso vittima di mafia in quanto figlio di una vittima, disse: non può essere stato lui. Nel frattempo, gli attentati terroristici del 1993, consumatisi sul continente, al di fuori cioè del territorio della mafia, riportavano alla mente piazza Fontana e le strategie della tensione del passato. Rinverdivano il concetto delle «stragi di Stato». Man mano che il climax del 199293 si è allontanato nel tempo, si è fatta ulteriormente strada in questa parte dell’opinione pubblica l’idea stando alla quale la potenza distruttiva allora palesatasi non poteva essere stata generata solo dalla banda criminale denominata Cosa nostra, quella chiamata alla sbarra nel corso del maxiprocesso, ormai sotto i colpi della repressione. Nell’ultimo anno del secolo, un giornalista che molto e bene aveva scritto sul nostro tema, Saverio Lodato, intitolò La mafia ha vinto il librointervista contenente l’ultimo messaggio del vecchio Buscetta15. I fatti dicevano che la mafia non aveva vinto per nulla. Ma quel titolo dava voce a una soggettività, a una sensazione diffusa. Tale sensazione emerse con forza ancor maggiore (rispetto al precedente della cattura di Riina) nel 2006, quando il vecchio Provenzano giunse al termine di una lunghissima latitanza/invisibilità, e si materializzò in carne e ossa di fronte alle forze dell’ordine e all’opinione pubblica. Ancor più gli italiani si chiesero: non è troppo misero, troppo vecchio, troppo ignorante? La stampa ci mise del suo, ricamando sui particolari d’ambiente. In particolare sulla stalla, ubicata nelle campagne prossime a Corleone, in cui il boss era stato preso, sugli arredi primitivi, sugli strumenti rustici di cui era fornita, e sul menù di Provenzano: che non era a base di caviale e champagne ma, più modestamente, di ricotta e cicoria. Qualcuno lo vide come un poveraccio, come un fossile preistorico, con la sua mafia rurale e la sua etica anticonsumistica. Qualcuno si stupì che comunicasse con i suoi accoliti non via mail o satellitare ma con pizzini di carta, come i bisnonni. La mafia viene usualmente raffigurata secondo schemi tradizionalisti, e in questa veste, da sempre, la si vende meglio; però nella fattispecie quest’usurata mitologia si risolse in un minimalismo decisamente fuorviante. Indicava una sorta di bisogno di rimozione della storia drammatica conclusasi tredici anni prima, di sua espunzione dalla storia della modernità italiana, cui apparteneva a pieno titolo. Dire che Provenzano governava la mafia da quella stalla sarebbe come dire che Saddam Hussein governava l’Iraq dalla fossa sotterranea in campagna nella quale venne rinvenuto dagli americani, e che da quella fossa, e dall’odore che faceva quando ne uscì, andava dedotta la sua vera identità politica e sociale… Palesemente, la stalla era il posto nel quale in ultimo Provenzano si era rifugiato (o era stato scaricato?) quando «la rete di protezione» che lo circondava era stata demolita, quando la pressione si era fatta insostenibile, mentre si profilava la sconfitta16. Quanto al resto, non risiedeva nel Corleonese da decenni, e come sappiamo lui e gli altri della gang avevano costruito le proprie fortune a Palermo. Comunicava con i suoi mediante pizzini non per primitivismo ma per ragioni di sicurezza: riteneva che i pizzini, contrariamente a qualsiasi mezzo elettronico, telefono compreso, non avrebbero lasciato tracce. (La stampa si guardò bene dal correggersi quando, di lì a pochi mesi, l’operazione Gotha fornì della mafia un’immagine opposta, ben più consona alla sua storia: quella di un gruppo urbano, del cui stato maggiore facevano parte imprenditori e persone istruite, tra gli altri due medici).
Di seguito, è stato detto che gli uomini dei servizi segreti abbiano pilotato le azioni di Capaci o via d’Amelio dal Castello Utveggio, che sorge sopra la città, in cima a Monte Pellegrino. È stato detto che una superspia abbia sottratto l’agenda rossa in cui Borsellino appuntava informazioni decisive. Un giornalista ha annunciato trionfante di aver individuato in un vecchio filmato della strage l’agenda in questione tra le macerie dell’auto, senza spiegare come fosse rimasta miracolosamente intatta. (Poi si è capito che si trattava di un oggetto di tutt’altra natura). È stata addebitata a un agente segreto dalla «faccia di mostro» una responsabilità per tutte le fasi più oscure dell’intrigo mafioso. Massimo Ciancimino (figlio di Vito) ha cominciato a collaborare con le autorità nel 2008 rivelando che suo padre era sempre seguito e consigliato in parallelo da Provenzano e da un agente dei servizi segreti, convenzionalmente chiamato signor Carlo o signor Franco. Dopo avere a lungo detto e non detto, quando ha provato goffamente a dare un nome a questo misterioso signore, è stato anche condannato per calunnia. Vette che tutto dominano, documenti che tutto avrebbero spiegato dei misteri d’Italia se qualcuno non li avesse occultati, mostri umani, ovvero superspie senza nome. Simbologie davvero troppo trasparenti. Naturalmente è probabile che negli apparati statali qualcuno si sia venduto a Cosa nostra, e/o che (ipotesi minore) qualche funzionario di polizia, nell’antico stile dello scambio di informazioni e favori con mafiosi e pezzi di mafia, si sia trovato alla fine impigliato nelle sue stesse reti. C’è il caso di Bruno Contrada, già ai vertici della polizia di Stato a Palermo, poi del servizio segreto civile, che nel dicembre 1992 è stato accusato e poi condannato per concorso in associazione mafiosa. Resta per me impossibile entrare nella questione della sua colpevolezza o innocenza17. D’altronde l’antimafia radicale punta più in alto. Sempre più si è orientata verso l’idea del supercomplotto ordito in prima persona, per proprie finalità, da poteri occulti (politici, finanziari, massonici) e appunto da «pezzi dello Stato»; in cui i contadinotti di Corleone avrebbero svolto il ruolo degli esecutori, e forse nemmeno quello. Moderati e radicali. Alla luce di questa dicotomia sono stati letti anche i contrasti interni alla magistratura inquirente palermitana, tra gruppi legati all’uno o all’altro dei due giudici che in successione hanno ricoperto l’incarico di procuratore della Repubblica – Giancarlo Caselli (19931999) e Pietro Grasso (19992005) – per poi impegnarsi in un’aspra competizione per la carica di procuratore nazionale antimafia, che tra mille polemiche è alla fine toccata a Grasso (2005). Il primo gruppo è stato appunto definito come radicale e l’altro come moderato ma ciò non ha impedito che Ingroia, già stretto collaboratore di Caselli, e Grasso in persona siano alla fine «scesi» in politica, entrambi a sinistra. Il primo è stato candidato premier alle elezioni del 2013 da una lista di sinistra radicale – invero con risultati decisamente cattivi. Il secondo in quell’occasione è stato eletto per il Partito democratico al Senato, diventandone (come abbiamo detto) il presidente. Peraltro nelle successive elezioni, quelle del 2018, anche Grasso è stato candidato alla premiership, e non per il Pd ma per una lista alla sua sinistra; e, anche lui, con risultati tutt’altro che buoni. Il rischio della sovrapposizione tra antimafia giudiziaria e antimafia politica è apparso tanto più grave nel caso di Ingroia, passato dall’esercizio dell’azione penale alla mischia elettorale quasi senza soluzione di continuità. Anche di questo, chissà Sciascia cosa avrebbe pensato. Sia Caselli che Grasso sono stati magistrati valorosi, che valorosamente hanno combattuto – loro e i loro collaboratori – la mafia. Io non so dire in che misura le differenze tra i due gruppi abbiano giocato nella gestione delle inchieste giudiziarie. Quello che qui mi interessa è il loro contributo al dibattito pubblico, in particolare all’elaborazione della memoria. Segnalo la linea equilibrata di Pignatone: è finita un’epoca, sfidando le istituzioni Cosa nostra si è esposta a una forte repressione, oggi sulla breccia è piuttosto la ’ndrangheta. Grasso si è mantenuto sulla strada indicata da Falcone e Borsellino nel momento del maggior pericolo, mettendo in guardia la società civile contro i «cali di tensione»18. Per quanto attiene alle trasformazioni della fase postcorleonese, ha ipotizzato che, in una sfera «sempre più segreta», al riparo dalla repressione, si stesse sviluppando una «Cosa nostra nuova» o addirittura una «Cosa nuova» tendente a «influenzare» le istituzioni «attraverso il potere economico e il consenso elettorale», a consolidare il proprio rapporto «con imprenditori, professionisti, consulenti, funzionari e amministratori pubblici e, perché no, politici» per meglio investire le proprie risorse «in attività completamente lecite o illecite»19. Veramente, questa descrizione si attaglia proprio alla «Cosa vecchia», alla mafia nella sua accezione più classica, precedente all’ondata corleonese. Ma è utile presentare le cose vecchie come fossero nuove, perché appaiano più pericolose. Grasso, nel gioco sempre conflittuale delle correnti del Palazzo di giustizia palermitano, non voleva apparire come quello che sottovalutava il pericolo. Tra gli ex collaboratori di Caselli va citato, oltre a Ingroia, Roberto Scarpinato. Particolarmente significativa un’intervista da lui rilasciata a «l’Unità» nel 2006, all’indomani appunto della cattura di Provenzano: «L’innegabile ridimensionamento della mafia militare» determinato dalla repressione degli anni passati – affermava – «non ha sconfitto la mafia». Ne sarebbe derivato piuttosto un «ritorno del principe», un ripristino della «fisiologia del sistema di potere mafioso», la restaurazione della tradizionale supremazia del «piano alto» economico e sociale sul «piano basso», quello della «mafia militare» che per un momento nell’era Riina aveva cercato di fare da sola. L’idea «di una grave crisi di tutto il sistema mafioso» rappresentava un’«illusione», perché riguardava «solo i piani bassi»20. Il già
citato giornalista Lodato, che aveva dato voce alla linea Grasso in un librointervista, fece lo stesso per questa linea Scarpinato, con la quale forse si trovava in migliore sintonia21. Possiamo constatare una corrispondenza tra l’approccio di Scarpinato nel dibattito pubblico e un’inchiesta, detta Sistemi criminali, avviata dalla procura palermitana già nel 1996. Aveva confini larghi, labili, seguiva un insieme eterogeneo di piste e significativamente annoverava tra gli inquisiti – al primo posto – Licio Gelli, il gran maestro della P2, il Belzebù di tutte le complottologie. Si risolse in un’archiviazione nel 2001. Ebbe però una ripresa alla luce delle successive rivelazioni di Massimo Ciancimino sui colloqui avvenuti tra Roma e Palermo, nel 1992, tra suo padre Vito e due alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori e Giuseppe De Donno. L’incrocio tra l’antico rappresentante della mafia nel mondo della politica e i due superpoliziotti sembrò concretizzare l’idea di una trattativa Statomafia22. E in effetti questa fu l’espressione usata nel pubblico dibattito per indicare l’inchiesta giudiziaria che trasse spunto (tra l’altro) da queste rivelazioni, e i processi che ne seguirono. Massimo Ciancimino ha sostenuto che suo padre consegnò a Mori un cosiddetto papello, ovvero un documento nel quale in buona sostanza Cosa nostra chiedeva una revisione della sentenza del maxiprocesso, l’annullamento del 41bis, correzioni nella legge RognoniLa Torre e in quella sui pentiti. Va detto che Mori ha negato gli sia mai stato presentato un documento del genere. Secondo lui, il testo messo agli atti da Ciancimino jr. deriva da una sua manipolazione delle carte del padre (Massimo in effetti si è rivelato per molti aspetti un testimone inattendibile). Per quanto mi riguarda, il papello potrebbe essere opera del figlio, del padre, o davvero dell’entourage di Riina: resta comunque un documento interessante perché, con ogni probabilità, ne vengono fuori le rivendicazionibase di Cosa nostra. Dopo la strage di via d’Amelio, sempre stando a Ciancimino jr., suo padre avrebbe consigliato ai due ufficiali dei carabinieri di rivolgersi, piuttosto che alla fazione estremista di Riina, a quella più moderata di Provenzano, che poi era il suo personale interlocutore. In un librointervista del 2013 Ingroia, che nelle indagini su questi intrighi ha avuto un gran ruolo, si è detto certo che l’arresto di Riina fu dovuto a «soffiate provenienti dall’interno di Cosa nostra», probabilmente da Provenzano23. Noi sappiamo bene quanti fossero i precedenti di questo genere nella storia della relazione tra la mafia e l’autorità – il più clamoroso di tutti, l’affare Giuliano. Nondimeno, non sono tanti gli elementi di fatto che nella fattispecie confermano la tesi, visto anche che dall’intrigo non è derivato (come ci si sarebbe potuto aspettare) uno scontro tra le due fazioni. Nelle conversazioni intercettate in carcere, Riina dà su Provenzano giudizi un po’ sprezzanti, ma non mi pare mostri particolare ostilità. Aggiungiamo che alla fine di quell’anno terribile, il 19 dicembre, Vito Ciancimino venne arrestato in esecuzione di una precedente condanna per associazione mafiosa. Sarebbe restato in carcere fino al 1999. Non pare una ricompensa per una trattativa andata a buon fine. In conclusione. I processi in corso sulla trattativa Statomafia vorrebbero concretizzare l’idea del grande complotto inteso a salvare la mafia nella transizione tra prima e seconda Repubblica. Però non so quanto possano riuscirci. Difficilmente i colloqui tra CianciminoMori sono indentificabili con un organico progetto criminale dello Stato, del Potere. Innanzitutto perché queste sono parole troppo grosse. E poi perché la fase politica del 199293 era di confusa transizione, e da essa ben poco di organicamente progettuale poteva nascere. Lo stesso può dirsi per gli atti successivi di uomini di governo che un po’ caoticamente sono stati inseriti nell’inchiesta giudiziaria. Nelle aule di giustizia, il punto dovrebbe essere questo, ben più limitato: quegli uomini delle istituzioni fecero qualcosa di contrario alle leggi vigenti, per bloccare Riina e convincere Cosa nostra a fermare le stragi? O agirono nell’ambito delle competenze di ognuno? Registro che nel 2018 Mori e alcuni altri sono stati condannati in prima istanza, dopo che altri procedimenti penali ne avevano riconosciuto l’innocenza. Mi astengo dal commentare queste sentenze per mancanza di competenza, perché non è il mio mestiere24. Dico solo che, concentrando l’attenzione sulle (eventuali) colpe di Mori, di qualche altro superpoliziotto o ministro del tempo, rischiamo di rimuovere il problema storico cruciale, il protagonismo che sin dagli anni settanta spinse Cosa nostra sulla strada dell’escalation. Può essere significativo di tale rimozione lo scambio di battute tra Ingroia e i suoi intervistatori, nel libro sopra citato. I giornalisti affermano: la strage di via d’Amelio ha avuto un «esito controproducente» per Cosa nostra; e chiedono: non sarà il caso di dedurne che a ordinarla è stato qualcun altro? Il magistrato risponde: in effetti quella strage pare «gravida di suggerimenti esterni a Cosa nostra»25. L’espressione è terribilmente involuta ma il concetto è chiaro. È stato d’altronde ribadito anche in diversi atti giudiziari. A me sembra che ugualmente l’argomento dell’«effetto controproducente» lasci, dal punto di vista logico, molto a desiderare. È infatti possibile che la leadership mafiosa sia stata incapace di calcolare gli effetti della propria iniziativa (di quella come di altre) perché in preda a una sorta di coazione a ripetere che prevedeva un’unica tattica, colpire e poi colpire ancora. Così aveva d’altronde conquistato il potere. Così si legittimava agli occhi dei quadri e dei gregari. Contrariamente a quello che si sente spesso dire, l’assassinio sia di Falcone che di Borsellino era palesemente in linea con quanto Cosa nostra aveva fatto nel quindicennio precedente: abbattere l’elemento di avanguardia (spesso isolato,
per dirla con Dalla Chiesa) nella convinzione che il terrore conseguente avrebbe paralizzato chi stava dietro. Stavolta la sfida fu più clamorosa, la controspinta più forte. 4. La memoria della mafia. Per ragionare del modo in cui i mafiosi hanno rielaborato la memoria di tutti questi sconvolgimenti tardo novecenteschi, è necessario partire da lontano. Magari da Filologia, la novella di Sciascia di cui abbiamo detto nel capitolo X. Come si ricorderà, descrive il dialogo tra un giovane e un vecchio capomafia. Il primo si esalta di fronte al fragore delle bombe. Il secondo risponde che l’iperviolenza rischia di vanificare il contributo fornito per un secolo dalla «scienza delle parole», la filologia (noi possiamo chiamarla ideologia), «alla confusione». Spiega che, facendo ricorso al metodo terroristico, la mafia potrebbe non essere più in grado di occultarsi nelle pieghe delle relazioni sociali e nei meandri nascosti del potere. E in effetti proprio questo avvenne nel corso dell’escalation successiva. Sciascia in Filologia richiama Pitrè, e la radice ottocentesca dell’ideologia mafiosa, ma anche – in altro luogo che abbiamo citato – la sua tenuta nel tempo, l’elogio funebre del boss Di Cristina (1961). Noi abbiamo ritrovato questa stessa ideologia in anni seguenti in un bar di Montreal (quello della conversazione tra Paul Violi e i suoi ospiti agrigentini), in un ufficio del New Jersey (quello di Samuel Rizzo De Cavalcante), nel carcere di Palermo (dove Rosario Spatola scrisse un testo che gli venne poi sequestrato). Si nutriva sempre degli stessi argomenti: questa società onorata, questa «cosa tradizionale», è intesa a «ottenere giustizia», a «proteggere la gente dagli abusi». Il riferimento a Pitrè ci riporta a un aspetto che ho rilevato già in sede introduttiva: l’ideologia mafiosa è stata in varie forme rielaborata da soggetti in grado di raggiungere un grande pubblico. Pensiamo in antico a Natoli e ai Beati Paoli, per periodi più recenti al Padrino di Puzo e Coppola. I mafiosi stessi si sono a un certo punto portati su questo terreno: il primo a farlo fu Nick Gentile, poi, con maggior successo, toccò a Joe Bonanno. E naturalmente lo fece Masino Buscetta, le cui rivelazioni ebbero straordinaria importanza giudiziaria e corrispondente rilievo mediatico. L’outing di Bonanno e Buscetta risale al 198384. La data colpisce: storicamente, la mafia era nel punto di giunzione tra parabola ascendente e parabola discendente. Invece la parabola personale dei due testimoni si trovava decisamente nella fase calante, visto che dalla competizione inframafiosa erano stati messi nella condizione dei perdenti. Fu questo che spinse i due a violare la regola del silenzio allontanandosi dalle regole della mafia. Però consentì loro di adottare più facilmente lo stile tradizionalista che è tipicamente mafioso, contrapponendo il passato al presente, la purezza dell’ideale antico alle brutture dei fatti dell’oggi. Pitrè l’aveva detto cento anni prima: la mafia una volta era una cosa buona, oggi non so. Bonanno e Buscetta riproposero questa retorica come fosse nuova di zecca. La droga viene comunemente considerata una nemica della stabilità sociale che viene a sua volta considerata tipica del mondo tradizionale. Per presentarsi all’esterno all’insegna della coerenza, sia Bonanno che Buscetta dovettero sino all’ultimo, contro ogni evidenza, dichiararsi estranei al narcotraffico. Anche l’altro grande perdente, Tano Badalamenti, negò indignato di aver mai avuto a che fare con quel disgustoso commercio; e per converso, sostenuto dal suo avvocato irlandese Kennedy, fece balenare agli occhi di chi lo doveva giudicare l’immagine accattivante di una mafia capace nel momento cruciale della storia, nella seconda guerra mondiale, di dare il proprio contributo alla vittoria della libertà. Insomma, i tre mafiosi transcontinentali insistettero sino all’ultimo su questa linea per rendersi accettabili alle autorità e/o all’opinione pubblica. Misero insieme il codice tradizionalista ai comportamenti collaborazionisti. Fecero come quel topgangster proveniente da Chicago, di cui dice il sociologo Daniel Bell: in trasferta a Dallas per mettere su un business onorevole nel gioco d’azzardo, avrebbe sussurrato a uno sceriffo locale: «Se c’è qualcosa che odio sono gli spacciatori di droga, i borsaioli, e gli assassini a pagamento»26. Identificandosi con un’ideologia antica e ben testata dall’esperienza, i pentiti di Cosa nostra poterono sostenere anche davanti ai loro pari (e a se stessi) che i veri traditori non erano loro, ma i loro nemici. E i vincenti del 1981? I vincenti, per grande che fosse la loro efficienza militare, dimostrarono le previste difficoltà nel manipolare l’ideologia e anche nel fare i conti con la politica, almeno a partire dall’assassinio di Mattarella. Vecchia politica. I capi provarono a nascondere i propri errori continuando a dire ai gregari che Andreotti era nelle loro mani. Invece il grande leader Dc, quando le cose si misero al brutto, non fece niente per loro, o perché non poteva, o perché non voleva, o perché nemmeno sapeva di certe promesse fatte in suo nome da Lima. Fase di transizione. Di seguito, nonostante le assicurazioni fatte da misteriosi personaggi ai boss, e dai boss ai gregari, in barba a ogni trattativa vera o presunta, per quante bombe siano scoppiate, per quante promesse siano state fatte perché non scoppiassero più, nessuna delle richieste del papello è stata accolta: non è stata rivista la sentenza del maxiprocesso, non sono state abolite la legge RognoniLa Torre e quella sui pentiti, e neanche il 41bis. Nuova politica. Non hanno concesso gran che a Cosa nostra nemmeno le forze politiche affermatesi nel 1994 dopo la brusca liquidazione della Dc, e nominalmente Silvio Berlusconi.
Bisogna dirlo: le voci che spiegano con un’iniezione di capitali mafiosi la molto misteriosa origine delle fortune di Berlusconi non hanno trovato alcuna conferma nelle tante indagini fatte. È invece un fatto che Vittorio Mangano, narcotrafficante e alto grado di Cosa nostra, dimorò nella villa berlusconiana di Arcore nel 197376, senza che nessuno abbia mai spiegato in maniera convincente a che fini. Era stato presentato dal palermitano Marcello Dell’Utri, già allora pezzo grosso dell’impero finanziario di Berlusconi, che poi diede un gran contributo alla creazione della macchina elettorale di Forza Italia nel 1994; e ne divenne poi uno dei leader. (Dell’Utri è stato poi condannato per concorso in associazione mafiosa). Le testimonianze dei pentiti attestano che quasi vent’anni più tardi, al momento della discesa in campo di Berlusconi, i boss chiesero ai loro gregari di sostenere Forza Italia, nella convinzione che sarebbe stata condizionabile. I boss spiegarono che il duo Dell’UtriBerlusconi avrebbe annullato le sentenze, avrebbe liberato i carcerati, avrebbe fermato i magistrati comunisti e gli sbirri, insomma avrebbe soddisfatto le richieste del papello.27 Ma anche a quel punto nessuna delle richieste venne soddisfatta. E Cosa nostra continuò sempre più stancamente sulla propria linea: richiamare i protettori veri o presunti alle loro responsabilità, lamentare il loro tradimento (vero o presunto) della parola data. Lo fece in particolare nel 2002, subito dopo la più netta delle vittorie elettorali di Berlusconi – quasi si trattasse dell’ultima replica della vecchia rappresentazione, ma senza stragi per fortuna. Il boss Pietro Aglieri chiese «allo Stato» di fornire ai mafiosi la possibilità di una collettiva dissociazione, coi benefici relativi – senza denunciare nessuno, per carità. La proposta stava già nel papello. Lo stesso Aglieri e altri capi lamentarono il trattamento troppo duro subito dai detenuti, richiamandosi alla Costituzione e ai diritti dell’uomo. Il superduro Leoluca Bagarella ribadì in un pubblico proclama la protesta contro il 41bis, affermando che i suoi erano «stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati, e usati come merce di scambio delle varie forze politiche». Alla fine dell’anno, comparve allo stadio di Palermo, prima dell’inizio di una partita di campionato, uno striscione così concepito: «Uniti contro il 41bis. Berlusconi dimentica la Sicilia». I boss intanto rimbrottavano pubblicamente gli avvocati penalisti, a loro dire dimostratisi incapaci di difendere il popolo di Cosa nostra (e, ancora, le garanzie previste dalla Costituzione) in processi somiglianti «a plotoni d’esecuzione»28. Si temette qualche clamorosa vendetta, qualche delitto eccellente. Invece non se ne consumò alcuno. Tra i mafiosi rimasti sino all’ultimo irriducibili possiamo collocare lo stesso Riina, che – almeno per come ci risulta dalle sue intercettazioni in carcere (nel 2013) – un po’ corrisponde al modello delineato da Sciascia in Filologia, quello del capocosca eccitato dal fragore delle bombe, disinteressato a riconoscimento sociale e tolleranza istituzionale. Riina ricorda con particolare irritazione il momento in cui Falcone si è trasferito al ministero: «se ne è andato a Roma, se ne è andato là… dirigeva qua, dirigeva là, dirigeva tutti… ah va bene, va bene»29. Vanta la propria determinazione: se il suo arcinemico si fosse andato a nascondere sulla luna, «ci andavo sulla luna, ci andavo io là. […] Ero così infernale, ero così imbestialito». Rievoca l’orgasmo provato nel momento in cui ha capito di essere riuscito a farlo uccidere – «la sera, quando ho cominciato a sentire le sirene, le sirene,… uh… uh…, minchia!». Celebra l’effetto: «È partita questa autostrada, l’autostrada tutta». E Borsellino? «Subito pronti, pronti all’erta per la seconda. Minchia, cinquantasette giorni. Gli ho detto [ai sicari]: mettici qualche cento chili in più. Se lo immagina centocinquanta chili cosa fici? Fici [fece]… Ci ha dato aiuto buono». Se la ride: «Eh, Eh»30. In qualche momento, nella memoria del boss imprigionato, le figure dei due suoi nemici, Stefano Bontate e Giovanni Falcone, sembrano quasi sovrapporsi. Nella sua logica l’uomo delle istituzioni che si impegna in maniera speciale viene equiparato al membro di una gang avversa. Lo stesso sentimento d’altronde ritorna in un testo scritto, dopo la morte di Falcone, da Vito Ciancimino, cui è attribuito un ruolo non di boss di Cosa nostra (chissà…), ma di fiancheggiatore. Si tratta di un dattiloscritto intitolato Le mafie. Come altri testi che abbiamo analizzato, mi sembra rivelatore non tanto del punto di vista vero della mafia, ma della sua retorica, del suo modo di presentare le cose. Ciancimino dice: «Falcone, più che un magistrato, era un uomo di potere che non esitava affatto a strumentalizzare la “giustizia” a fine di ambizione personale». Applica a proprio uso e consumo il principio del cui prodest: l’uccisione di La Torre e Dalla Chiesa, argomenta, ha determinato l’approvazione di una legge «iniqua» (quella sull’associazione mafiosa), ergo li hanno ammazzati proprio quelli che se ne volevano servire in una logica liberticida, per valersene come di «uno strumento docile per assoggettare i loro avversari»31. Insomma, il problema non sarebbe la mafia ma le indegne montature dei professionisti dell’antimafia. Ciò detto, Ciancimino ritorna senza alcuna credibilità sul registro tradizionale, per cui la mafia si candida come collaboratrice dell’autorità nella difesa dell’ordine. I delitti eccellenti non sarebbero «classificabili tra i delitti di mafia» («al più qualche cosca avrà prestato i killer»). I responsabili, sentenzia l’ex sindaco, vanno cercati nei servizi deviati, o magari in Gladio. E la droga? Il punto, come sappiamo, è dirimente, e su questo la posizione dell’ex sindaco è quella abituale per la gente come lui. Anche Ciancimino dice: quando voi definite mafia quella cosa mentite,
si tratta di usurpazione… di titolo. La MAFIA mai si è occupata di droga. Mai sarebbe seminatrice di «morte». La prima regola di questa organizzazione, il senso dell’onore, non consentirebbe simili attività. Mai la MAFIA farebbe stragi. […] Mai farebbe guerra allo Stato ma sarebbe inesorabile verso quanti dello Stato se ne [sic] servono per esercitare soprusi, prevaricazioni e ingiustizie.32
E veniamo a Provenzano. Nei tredici anni successivi alla cattura di Riina, come risulta da atti giudiziari e intercettazioni, dava ai suoi accoliti indicazioni di buon senso sul modo migliore di spartirsi gli appalti e gli altri affari; e sul come meglio garantire la sua latitanza33. Mi sembra ne risulti una figura più di grande mediatore che di grande capo. Invitava anche boss e gregari a mantenere atteggiamenti prudenti, a evitare azioni violente per non esporsi ulteriormente alla repressione. L’ultimo corleonese dettava una linea anti o (meglio) postcorleonese. Chi non riesce ad ammettere che la mafia possa mai essere sconfitta riduce la crisi epocale di Cosa nostra a un volontario «inabissamento» appunto pianificato da Provenzano. Io penso invece che l’organizzazione si sia solo adattata alla situazione, piegandosi come nell’attesa che passasse la piena. «Calati juncu ca passa la china». Ma la piena, finora, non è passata. Abbiamo spiegato che Provenzano comunicava con pizzini di carta per ragioni di sicurezza. Però certo quel mezzo, il suo stile più da vecchio zio che da superboss, le perle di banale saggezza che andava distribuendo, molto odoravano di tradizione. Quel tradizionalismo, è stato scritto giustamente, provava a far dimenticare la sua responsabilità nei disastri del passato34. Era un modo di riposizionarsi rispetto alle sconfitte pregresse. Ascoltiamo le personali considerazioni aggiunte in margine da uno dei suoi messaggeri, inconsapevole di essere sotto intercettazione. «Prenditela con chiunque, ma lo Stato non si tocca. […] Dico, gli sbagli si fanno nella vita, ma non era meglio se all’epoca Falcone non finiva così?». Prima certe questioni si sarebbero risolte diversamente. «La cosa era sacra un tempo». Allora sì che funzionava35. Per quanto alcune testimonianze vogliano Provenzano in grado di esprimersi in un discreto italiano, i pizzini sono pieni di errori di grammatica. Possiamo pensare che, concedendoseli senza problemi, il boss volesse fare sfoggio ancora di tradizionalismo36. Citava sempre il vangelo e mai (credo) Pitrè, comunque puntando a mimetizzarsi in quello che il suo predecessore Liggio chiamava «lingua siciliana antica», un po’ come faceva Contorno quanto utilizzava il dialetto più stretto durante le udienze del maxiprocesso. I suoi talvolta lo seguivano anche in questo. Uno, nel corso di un colloquio intercettato in carcere, spiegava al figlio: «Io sgrammaticatizzo… è fatto apposta, hai capito? Sbagliare qualche cosa, qualche verbo, mi hai capito, Arturo?». Bisognava tornare all’antico. «Andare a mettere una bomba in una chiesa, che cosa è?»37. Infine traggo, dai materiali dell’inchiesta Old Bridge, uno particolarmente significativo, l’intercettazione delle parole rivolte a un nipote da un Francesco Inzerillo detenuto in carcere. Lo invita ad «andarsene dall’Europa». In Italia «ormai è tutta una catena e catinella»: «basta essere incriminato per l’art. 416 bis, automaticamente scatta il sequestro dei beni … cosa più brutta della confisca dei beni non c’è»38. Vi leggiamo lo sconforto diffusosi nelle file del tenebroso sodalizio, sul versante dei perdenti del 1981. Ma non è che sul versante dei vincenti di allora ci si senta tanto meglio. Vediamolo nell’intercettazione di una conversazione in cui un capomafia, già appartenente allo schieramento corleonese, spiega a uno degli antichi nemici di essere indisponibile a passare sopra al passato: «A voi vi restano i beni e a noi li hanno levati a tutti. [Ma], […] voi siete voi e noi siamo noi»39. In un’altra occasione, conversando tra loro, due di questi ex vincenti dicono: senza gli errori di Bontate, Badalamenti e Buscetta «avremmo avuto un mondo sano ancora». Ancora la nostalgia del mondo sano (integro) di una volta. Scarsa consolazione, stavolta. 1 Montemagno 2014, pp. 5961. 2 Pannella, Prefazione a D’Elia Turco 2002, p. 16. 3 Ardita 2011, pp. 24 sgg. 4 Caselli Ingroia 2001, p. 41. 5 La Licata 2006, p. 71. 6 Natoli 2006, p. 62. 7 Ravveduto 2012. 8 Schneider Schneider 1996, p. 58. 9 Idd. 2009. 10 Orlando 1990, p. 170 e passim. 11 Alcuni esempi in Sciarrone e altri 2011, pp. 12774. 12 Briquet 2007, p. 23 (traduzione mia). 13 Caselli Ingroia 2001, p. 37.
14 Istruttoria Andreotti, p. 768. 15 Buscetta Lodato 1999. 16 In questo senso M. De Lucia, uno dei pm impegnati nell’inchiesta, nell’intervista Da Provenzano alla fine della mafia, in «Segno», aprile 2006, 274, pp. 724 e in particolare pp. 9 e 12. 17 Contrada ha scontato questa condanna dal 2007 al 2014. Però in seguito ci sono state sentenze a lui favorevoli della Corte europea dei diritti dell’uomo e poi della Cassazione. 18 Pignatone 2017; Lodato Grasso 2001, p. 9. 19 La relazione è stata pubblicata con il titolo Cosa nuova e la giustizia che piace al governo, in «Segno», 2003, pp. 115 e in particolare p. 11. 20 L’intervista, intitolata «Mafia, al comando è tornato il principe», è in «l’Unità», 2 novembre 2006, p. 8. 21 Rispettivamente, Lodato Grasso 2001 e Lodato Scarpinato 2008. 22 Ricordo che dopo l’arresto di Riina il Ros, sotto il comando di Mori, non provvide a perquisire l’abitazione con cui il boss viveva con la famiglia. Molti assumono quest’omissione a riprova che c’era qualcosa di marcio. Mori dice che si trattò di un espediente investigativo: Mori Fasanella 2011, pp. 8892. 23 Ingroia 2012, p. 35. 24 Rimando a quanto io stesso ho scritto qualche anno fa sullo stato del pubblico dibattito sul tema in Lupo 2014, e ai materiali giudiziari là citati, che non citerò di nuovo qui. Quanto al resto, cfr. le critiche all’impianto dell’accusa di un grande giurista, Fiandaca 2014. 25 Ingroia 2012, pp. 501. 26 Bell 1964, p. 118. 27 Rimando ancora ai documenti cit. in Lupo 2014. 28 Si vedano le fonti relative, e l’importante analisi comparativa col periodo fascista, in Blando 2008, pp. 6872. 29 Intercettazioni Riina, p. 33. 30 Ibid., pp. 1820. 31 Ciancimino 2014, pp. 223 e 203. 32 Ibid., p. 171, 183, 178. 33 Un florilegio di questi interventi in Bellavia Palazzolo 2004. 34 Palazzolo Prestipino 2007. 35 Cit. ibid., p. 68. 36 Il dato sarebbe questo anche se fosse giusta l’ipotesi che gli errori fossero parte di un codice inteso a rendere l’autore del messaggio identificabile con certezza dal destinatario. 37 Si tratta di Pino Lipari, cit. in Palazzolo Prestipino 2007, pp. 445. 38 Conversazione tra Francesco Inzerillo e due suoi nipoti, intercettata il 30 agosto 2007 presso il carcere di Torino dove Inzerillo era detenuto. In Ordinanza Casamento, p. 104. 39 Il capomafia si chiamava Antonino Rotolo, Palazzolo 2010, p. 40.
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I personaggi: i buoni e i cattivi
Badalamenti, Gaetano detto Tano (19232004). Boss di Cinisi, ma anche grande regista del narcotraffico su scala transatlantica, laddove mette a frutto parentele e amicizie americane. Guida la Commissione provinciale palermitana di Cosa nostra dal 1973 al 1977, quando viene destituito. Poi cerca di formare insieme a Buscetta un’alleanza anticorleonese. Nel 1985 viene condannato a 45 anni nel processo newyorkese Pizza Connection, quale numero uno del commercio siculoamericano di eroina. In Italia è condannato all’ergastolo nel 2002, come mandante dell’assassinio Impastato. Muore nel carcere americano di Devens. Bonanno, Giuseppe/Joe (19052002). Nato a Castellammare del Golfo, giunto a New York nel 1924, boss della Famiglia castellammarese di Brooklyn a partire dagli anni trenta. Negli anni cinquanta rappresenta l’ala della mafia americana più aperta nei confronti della connection siciliana e nel 1957 organizza gli incontri dell’Hotel delle Palme e di Apalachin. All’interno della Cosa nostra newyorkese, la sua linea negli anni sessanta risulta perdente, e viene esiliato in Arizona. Il suo libro autobiografico del 1983 rappresenta una delle più interessanti (e spudorate) esposizioni dell’ideologia mafiosa. Bontate, Stefano, detto il principe di Villagrazia (19391981). Erede di una delle più importanti dinastie mafiose delle borgate palermitane, risalente all’Ottocento. Capo della Famiglia di Santa Maria di Gesù, è forse il boss più capace di intrecciare alleanze nel mondo delle classi dirigenti, della finanza e della politica, negli anni settanta. Il suo assassinio nel 1981 apre la strada alla conquista del potere mafioso da parte dell’alleanza tra Totò Riina e Michele Greco. Buscetta, Tommaso (19282000). Viene da una famiglia palermitana di artigiani, a quanto sembra priva di connessioni mafiose. Noto come il «boss dei due mondi» per i suoi lunghi soggiorni sudamericani e nordamericani, nonché per il ruolo svolto nei traffici e di tabacchi e di droga. Il suo conflitto con i corleonesi lo porta a collaborare con Falcone, a rivelare i segreti di Cosa nostra assumendo il ruolo del grande pentito, del supertestimone del maxiprocesso. Ciancimino, Vito (19242002). Elementochiave della connection tra mafia e Democrazia cristiana. Dalla natia Corleone, si sposta a Palermo, dove negli anni cinquanta e sessanta fa carriera come uomo d’affari e amministratore comunale. Nell’una e nell’altra veste è uno dei principali artefici del «sacco edilizio» della città. Dal 1984, è oggetto di provvedimenti giudiziari e condanne. Viene coinvolto post mortem dall’inchiesta sulla trattativa Statomafia. Cuccia, Francesco detto Ciccio (18761957). Boss mafioso e sindaco di Piana dei Greci dal 1922. Le fonti di polizia del tempo rivelano la dimensione provinciale dell’organizzazione mafiosa indicando Cuccia come elemento di vertice non solo nel suo paese ma anche a Palermo città. A lungo è ben visto dai fascisti per la sua linea violentemente antisocialista. Mussolini segna il cambio di linea nel discorso dell’Ascensione del maggio 1927, assumendolo a personificazione del rapporto perverso tra mafia e politica democratica. Cucco, Alfredo (18931968). Leader del fascismo intransigente palermitano negli anni della presa del potere, entra poi in conflitto col prefetto Mori incaricato di «normalizzare» il partito. Accusato di illeciti e collusioni mafiose, è espulso dal Pnf. Rientra però a fine anni trenta con il rango di vicesegretario nazionale, aderisce alla Repubblica sociale, e nel secondo dopoguerra è tra i fondatori del Movimento sociale. Dalla Chiesa, Carlo Alberto (19201982). Il grande esperto della lotta sia alla mafia che al terrorismo nell’Arma dei carabinieri, mostra grandi capacità nel 1949 quando, giovane capitano del Cfrb, si trova a Corleone a indagare sull’assassinio del sindacalista Placido Rizzotto. Torna sul campo quale comandante della legione di Palermo tra il 1966 e il 1973. Poi si impegna nella lotta alle Brigate rosse, costituendo gruppi di investigatori specializzati e adottando metodi investigativi anticonvenzionali. Nel maggio 1982, nel momento cruciale dell’escalation mafiosa, viene inviato a reggere la Prefettura di Palermo. Pochi mesi dopo viene assassinato insieme alla moglie. Dewey, Thomas (19021971). Avvocato repubblicano newyorkese, nel 1935 viene nominato special prosecutor per la caccia ai topgangster, e l’anno dopo sostiene l’accusa nel processo contro Lucky Luciano ottenendo una pesante condanna. Questo successo agevola la sua successiva elezione a governatore dello Stato di New York, e in questa veste nel 1946 è lui stesso a firmare l’atto che sancisce la molto anticipata scarcerazione di Luciano. Le polemiche politiche conseguenti saranno durature. Candidato alla presidenza dell’Unione due volte, è sconfitto due volte: da Roosevelt nel 1944 e da Truman nel 1948. Falcone, Giovanni (19391992). Nato a Palermo, è il magistrato che ha fornito il massimo contributo alla lotta contro Cosa nostra siciliana, e anche alla sua conoscenza. Proviene dal settore civile quando, nel 1980, gli viene affidata l’inchiesta sul narcotraffico siculoamericano, e poi la guida del pool che istruisce il maxiprocesso. Nel 1991 assume un ruolo altrettanto importante quale direttore dell’Ufficio affari penali presso il ministero di Grazia e giustizia. Muore nell’attentato di Capaci, insieme alla moglie e a tre agenti di scorta.
Franchetti, Leopoldo (18471917). Intellettuale dell’alta borghesia livornese, vicino alla Destra storica, si impegna nel 1876 in un viaggiostudio in Sicilia con Sidney Sonnino da cui scaturiscono due celeberrimi volumi. In particolare quello di Franchetti assurgerà al rango di grande classico degli studi sulla mafia. Evidenzia il retroterra culturale e sociale del problema, collocandolo nel quadro della grande transizione storica tra due mondi, il feudale e il borghese. Mette in luce le responsabilità delle classi dirigenti aristocratiche. Definisce i capimafia «facinorosi delle classi medie» e la mafia stessa «industria della violenza». Gambino, Carlo/Charles (19021976). Nasce a Palermo da una famiglia di solide radici mafiose. Nel 1921 emigra clandestinamente negli Stati Uniti, e in collaborazione coi parenti di Brooklyn mette su un’impresa per il contrabbando di alcolici. La sua scalata al potere criminale vede un momento cruciale durante la seconda guerra mondiale, grazie al traffico illecito di beni razionati. Negli anni cinquanta prende la guida della Famiglia di Cosa nostra che era stata di Vincent Mangano prima, e di Albert Anastasia poi; e della stessa Commissione direttiva di Cosa nostra americana. Gentile, Nicola/Nick (18851976). Nato a Siculiana (Agrigento), sbarca negli Stati Uniti per la prima volta a 18 anni. Il suo libro autobiografico del 1963 colloca meglio di ogni altro gli affari, gli intrighi e i conflitti della mafia in un quadro intercontinentale. Dice del ruolo svolto da Gentile su entrambe le sponde, la siciliana e l’americana, nel corso di ripetuti spostamenti che nel suo mondo gli valgono il soprannome di «carrettiere». Chiude raccontando di come lui stesso abbia collaborato con l’amministrazione alleata della Sicilia. Giammona, Antonino (n. 1830 ca.). È il primo capomafia palermitano di cui le fonti permettano di individuare il profilo con una certa precisione. La sua ascesa coincide con i moti rivoluzionari del 1848 e del 1860 ma anche con la restaurazione dell’ordine immediatamente successiva. In questa Giammona svolge un ruolo cruciale, riconosciuto da numerosi esponenti delle classi dirigenti, con i quali rimarrà legato anche nel periodo seguente. Molto corrisponde al modello di Franchetti del «facinoroso della classe media». Nel suo gruppo, insediato nelle borgate palermitane di UditorePasso di Rigano, è in uso il giuramento mafioso, quale viene registrato per la prima volta in fonti di polizia (1876). Giuliano, Salvatore (19221950). Il più celebre dei banditi siciliani. Nato a Montelepre da una famiglia di immigrati «di ritorno» (dall’America), nel 1943 si dedica al mercato nero, uccide un carabiniere e si dà alla latitanza formando una banda. Entra in contatto col movimento separatista (il Mis) e viene nominato colonnello del suo esercito clandestino (l’Evis). Si macchia di centinaia di omicidi. I più efferati, quelli perpetrati ai danni di una massa inerme di contadini il 1° maggio 1947, a Portella della Ginestra. La caccia a Giuliano configura la più celebre delle trattative tra gli apparati di sicurezza e la mafia. Gaspare Pisciotta, suo cugino e luogotenente, lo uccide nel sonno. Greco, Michele, detto il papa (19242008). È l’erede della dinastia storicamente di maggior rilievo della mafia palermitana, quella dei Greco; e precisamente del ramo della famiglia detto di CroceverdeGiardini. Si atteggia a patriarca, cita il Vangelo, ha un tenore di vita aristocratico, vanta i propri rapporti con molti esponenti dell’establishment sia sociale che istituzionale palermitano. Il blasone agevola la sua nomina a capo della Commissione provinciale di Cosa nostra, nel passaggio decisivo del 197982, ma non gli impedisce di allearsi coi corleonesi. Al termine del maxiprocesso, è condannato all’ergastolo. Muore in carcere. La Guardia, Fiorello (18821947). Nasce a New York da una famiglia di origini italiane. Dopo una parentesi giovanile nelle ambasciate di Trieste e Fiume, torna negli Usa, laddove lavora come interprete a Ellis Island (190710). La sua fortunata carriera politica viene assunta dai contemporanei a riprova dell’inserimento della comunità italoamericana. Milita nel Partito repubblicano, dandosi però un’immagine di stampo fortemente progressista. Quale sindaco di New York tra il 1934 e il 1945, si identifica con la lotta a corruzione e criminalità. Liggio, Luciano nato Leggio (19251993). Fondatore della banda corleonese, rappresenta agli occhi dei contemporanei una nuova mafia dal volto più chiaramente gangsteristico, più capace di farsi strada con la violenza: ad esempio a spese del più consolidato establishment paesano guidato dal dottor Michele Navarra. Gravita poi coi suoi sodali su Palermo e, nel corso di uno dei suoi diversi periodi di latitanza, organizza un’industria di sequestri nel Nord Italia. Finisce definitivamente in carcere nel 1974. Luciano, Charlie detto Lucky nato Salvatore Lucania (18971962). Nato in Sicilia, a nove anni sbarca con la famiglia a New York. Finito il proibizionismo, finisce per impersonare la figura del topgangster per eccellenza. Arrestato nel 1936 per sfruttamento della prostituzione, è condannato a una pena da trenta a cinquant’anni, ma alla fine della guerra viene scarcerato, si dice in ricompensa di una sua collaborazione con i servizi segreti. Vera? Presunta? Le polemiche pro e contro non finiranno mai. Rientrato in Italia, agisce da trait d’union tra la mafia americana e quella siciliana. Muore a Napoli per un infarto. Maranzano, Salvatore (18861931). Nato a Castellammare del Golfo, è l’unico mafioso cui i contemporanei abbiano riconosciuto il rango di boss su entrambi i versanti: su quello siciliano (tra Castellammare e Palermo) nella prima metà degli anni venti, su quello newyorkese a partire dal 1925. Prevale inizialmente nella «guerra castellammarese» combattuta a New York nel 1931 tra i suoi seguaci, quelli di Masseria e quelli di Lucky Luciano; ma alla fine viene ammazzato. Una tradizione nata all’interno stesso dell’underworld rappresenta questo conflitto come la storia delle storie della mafia americana, come il momento di un’epocale resa dei conti tra nuovo e vecchio mondo. Mori, Cesare (18721942). Nato a Pavia, fa carriera nella polizia quale esperto in questioni politiche delicate e in mafia. Nella Sicilia nel 1917, le «squadriglie» da lui guidate, facendo ricorso a metodi non convenzionali, conseguono importanti successi contro il banditismo. Seppur inviso a molti elementi del Partito fascista per la sua vicinanza a Nitti nel periodo postbellico, a partire
da fine 1925 viene messo alla guida dell’operazione antimafia del fascismo, quale prefetto di Palermo con competenze straordinarie. I suoi successi sono gonfiati da un enorme apparato propagandistico. Viene messo a riposo nel 1929. Mosca, Gaetano (18581941). Nato a Palermo, professore universitario a Torino, parlamentare orientato verso la destra liberale, è considerato uno dei fondatori della scienza politica a livello mondiale. Si ispira a criteri moderati non solo sotto il profilo politico, ma anche sotto quello interpretativo, nell’infuocata discussione sul caso NotarbartoloPalizzolo. Nel libretto intitolato Che cosa è la mafia (1900), mette in relazione il problema della mafia con quelli più generali dell’allargamento del potere ai ceti sociali intermedi su base municipale. Considerato dai fascisti un precursore per le sue teorie elitiste e antidemocratiche, dopo il 1922 si mantiene tuttavia su una linea liberale negando il proprio sostegno a Mussolini. Palizzolo, Raffaele (18431918). Il personaggio più rappresentativo del legame politicomafioso in età liberale. Nasce a Termini Imerese, da famiglia agiata. Viene eletto alla Camera dei deputati, ed entra a far parte del consiglio generale del Banco di Sicilia. Si impegna in spericolate operazioni finanziarie, per occultare le quali organizza l’assassinio dell’exdirettore Emanuele Notarbartolo (1893). Lo scandalo per le protezioni di cui ha goduto porta la questione della mafia al centro dell’attenzione pubblica italiana. Condannato a 30 anni a Bologna del 1902, viene assolto in un nuovo processo che si tiene a Firenze nel 1904. Petrosino, Joe (18601909). Nasce a Padula (Salerno) da una modesta famiglia, che emigra presto a New York. Qui vende giornali e fa il lustrascarpe, finché entra a far parte del Dipartimento di polizia cittadino. Acquisisce grande fama nell’opinione pubblica quale capo di una «Squadra italiana» impegnata contro il crimine organizzato. Per indagare sulla Mano nera è inviato in missione segreta a Palermo, dove viene assassinato nel 1909. Il delitto fa della mafia uno scandalo di dimensione internazionale. Pitrè, Giuseppe (18411916). Nasce a Palermo, esercita la professione medica, si schiera politicamente al seguito di Garibaldi e poi di Crispi. Quale cultore di studi folkloristici, la sua fama è mondiale. Dà il suo contributo interpretativo, in un celebre scritto del 1889, inquadrando la questione mafia nella cultura popolare siciliana, anche se il suo rifiuto di ammettere che si tratti di un’organizzazione criminale e la stessa insistenza su un (presunto) significato originariamente positivo delle parole mafia e omertà configurano un’operazione apologetica, dalle forti tinte regionaliste. Ribadirà il punto qualche anno più tardi, quale intellettuale di punta del «Comitato ProPalizzolo e ProSicilia». Riina, Salvatore detto Totò (19302017). Nato a Corleone da famiglia contadina, luogotenente di Liggio nella gang impegnata a Corleone nella scalata al potere mafioso al passaggio tra anni cinquanta e sessanta. A Palermo diventa lui stesso un boss quando il suo capo finisce in prigione. In alleanza con Michele Greco e altri gruppi di mafia palermitani, conquista il vertice dell’organizzazione criminale. Sotto la sua guida, Cosa nostra perpetra delitti clamorosi, stragi di ogni genere, abbandonando ogni prudenza nei confronti delle istituzioni. Viene arrestato nel 1993 dopo un’interminabile latitanza. Sangiorgi, Ermanno (18401908). Romagnolo (di Riolo), entra in polizia nel 1860. Dotato di grandi abilità investigative, adottando uno stile non convenzionale, partecipa alle più importanti indagini sulla mafia a Palermo e nell’Agrigentino negli anni settanta dell’Ottocento. Viene destinato a reggere la Questura di Palermo nel 1898 con l’incarico di troncare le complicità con Palizzolo, e stila tra l’altro un grande rapporto che rappresenta una delle fonti più importanti per la storia della mafia. Sciascia, Leonardo (19211989). Nato a Racalmuto (Agrigento), è artefice, in sede sia narrativa che saggistica, di alcune delle riflessioni più scomode e acute sulla mafia. Formatosi in una cultura di sinistra, partecipa delle sue polemiche contro le complicità della Dc, però inserendole in un più vasto discorso sulla vocazione degenerativa del potere. Al passaggio tra anni settanta e ottanta si schiera accanto ai radicali su una linea libertaria e garantista, sul versante del terrorismo e anche su quello mafioso. In questo senso resta celebre il suo ammonimento contro i rischi e gli eccessi del professionismo antimafia. Sindona, Michele (19201986). Nato a Patti (Messina), si trasferisce nel dopoguerra a Milano dove nei primi anni sessanta si trasforma misteriosamente da fiscalista in grande finanziere, acquisendo alcune delle più grandi banche italiane e statunitensi. Per la costruzione del suo impero, importanti appaiono i legami con il Vaticano, la Democrazia cristiana e in particolare Andreotti. Nella seconda metà degli anni settanta, mentre l’impero va in crisi, maggiormente si palesano i suoi legami con la mafia narcotrafficante siculoamericana. Nel 1979 fa uccidere l’avvocato Ambrosoli, liquidatore della sua Banca privata. Muore in carcere avvelenato dal cianuro. Terranova, Cesare (19211979). Nasce a Petralia Sottana (Palermo) ed entra in magistratura subito dopo la guerra. Quale giudice istruttore a Palermo, mostra particolare consapevolezza della gravità del problema mafioso ed è il protagonista della prima controffensiva dello Stato in età repubblicana. Nei processi derivanti dalle sue inchieste, peraltro, emerge la difficoltà di provare in giudizio i crimini dei mafiosi. Si registrano poche condanne e molte assoluzioni. Nel 1972 viene eletto alla Camera dei deputati quale indipendente nelle liste del Partito comunista. Svolge un ruolo di grande importanza nella Commissione antimafia. Viene assassinato mentre sta per rientrare in magistratura. Turrisi Colonna, Nicolò (18171889). Nato a Castelbuono (Palermo), aristocratico di lignaggio non particolarmente illustre, agronomo e innovatore agrario, patriota che svolge un ruolo importante nell’organizzazione della Guardia nazionale nelle rivoluzioni del ’48 e del ’60. In età postunitaria, si schiera con l’ala moderata della Sinistra, è senatore e sindaco di Palermo. Uomo di grandi contraddizioni: da un lato viene accusato non a torto di far ricorso a mafiosi per la protezione delle sue aziende agrarie, dall’altro ci fornisce, nel suo opuscolo del 1864 sui problemi dell’ordine pubblico in Sicilia, la prima raffinata analisi del fenomeno.
Valachi, Joe (19041971). Di origine campana, nasce ad Harlem dove inizia una carriera di gangster di rango non molto elevato. Entra in contatto con la mafia newyorkese quando Maranzano lo recluta come killer nella guerra castellammarese del 1931; fa poi carriera nell’organizzazione. Nel 1959 finisce in prigione per narcotraffico. Nel 1963, quando decide di collaborare con la Commissione McClellan, fornisce alle autorità e all’opinione pubblica informazioni essenziali sul passato e sul presente dell’organizzazione stessa. In particolare, introduce per primo nel dibattito l’espressione Cosa nostra. Vizzini, Calogero, detto don Calò (18771954). Nella raffigurazione standard della mafia, e già agli occhi dei suoi contemporanei, impersona la mafia del latifondo. Nella natia Villalba (Caltanissetta), si comporta nel primo dopoguerra da notabile, favorisce gli amici, gestisce come affittuario e come proprietario aziende agricole e zolfare. Si schiera precocemente nel movimento cattolico e nell’orbita della Chiesa nissena. Viene processato in periodo fascista, ma senza grandi risultati. Il momento clou della sua carriera è il secondo dopoguerra: nominato sindaco dagli Alleati, aderisce al movimento separatista, ed è protagonista della famosa aggressione nella piazza di Villalba al leader comunista Li Causi, che segna visivamente il posizionamento politico della mafia.