La mafia. Centosessant'anni di storia 8868438259, 9788868438258

Se c'è un autore che ha dedicato allo studio delle organizzazioni criminali mafiose, tra Sicilia e America, libri c

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La mafia. Centosessant'anni di storia
 8868438259, 9788868438258

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Se  c’è  un  autore  che  ha  dedicato  allo  studio  delle  organizzazioni  criminali  mafiose,  tra  Sicilia  e  America,  libri  che  hanno rappresentato il punto di riferimento per gli storici, gli operatori di giustizia, il ceto politico, un più vasto mondo intellettuale e il grande pubblico, questi è senz’altro Salvatore Lupo. La sua Storia della mafia, pubblicata per la prima volta nel 1993, è rimasta per oltre vent’anni uno strumento insostituibile per larghi strati di lettori italiani e stranieri, grazie anche alle numerose traduzioni in tutto il mondo. Era giunto per l’autore il momento di compiere un nuovo sforzo di sintesi dell’intera materia, facendo tesoro degli studi passati, della documentazione e delle testimonianze nel frattempo venute alla luce. Partendo da questa consapevolezza, il libro ricostruisce  centosessant’anni  di  storia  della  mafia.  Parla  della  mafia  siciliana  e  insieme  della  sua  figlia  legittima,  la  mafia americana. Ne coglie le interrelazioni, le reciproche interferenze. Pone i conflitti tra cosche, fazioni e gruppi affaristici in questa dimensione transcontinentale. La  mafia  ha  rappresentato  un  fenomeno  criminale  caratterizzato  da  una  costante  essenziale:  quella  di  definirsi  e  di  essere percepita in stretta correlazione con gli strumenti, le ideologie, le culture delle sfere istituzionali e degli apparati repressivi che con alterne  fortune  l’hanno  combattuta.  In  altri  termini,  la  mafia  non  si  può  studiare,  e  non  si  può  capire,  se  non  in  rapporto  con l’antimafia. Questo legame consente di considerare i successi della mafia, o viceversa le sue sconfitte, come punti di osservazione utili  per  cogliere  da  un’ottica  originale  la  grande  storia.  Ciò  vale  per  l’America  a  proposito  dell’emigrazione  italiana,  del proibizionismo,  del  New  Deal.  E  vale  altrettanto  per  l’Italia  di  fine  Ottocento,  del  fascismo  o  del  secondo  dopoguerra,  fino  ad arrivare  agli  anni  ottanta  e  novanta  e  alla  complessa  vicenda  investigativa  e  giudiziaria  che  condusse  agli  assassinî  dei  giudici Falcone e Borsellino. Il maxiprocesso di Palermo segna una delle sconfitte più gravi subite dall’organizzazione criminale mafiosa. Da lì parte una nuova fase su cui Lupo getta per la prima volta lo sguardo: un’altra storia.

Salvatore Lupo è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Palermo. È stato tra i fondatori della rivista «Meridiana» ed è membro del comitato di redazione di «Storica». Per i tipi di Donzelli ha pubblicato: Storia della mafia (1993, seconda ed. 2004); Che cos’è la mafia (2007); Il fascismo. La politica in un regime totalitario (2005); L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile (2011); Anti partiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (2013); La questione. Come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi (2015).

Saggi. Storia e scienze sociali

Salvatore Lupo

LA MAFIA Centosessant’anni di storia

© 2018 Donzelli editore, Roma via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E­MAIL [email protected] ISBN 978­88­6843­908­8

Indice

Introduzione   I. Origini 1. Eredità della rivoluzione 2. Mafia e politica atto primo 3. Due prospettive: sguardo esterno e sguardo interno 4. Contesti ovvero luoghi   II. L’accusa e la difesa, 1875­1889 1. Operazione Malusardi: manutengoli e banditi 2. Capi­mafia 3. Modello settario 4. Uno sguardo nel profondo: avvocati ed etnologi   III. Passaggio di secolo 1. L’assassinio di Notarbartolo 2. Lo sguardo del questore 3. Pro­Sicilia 4. Parentele spirituali   IV. Tra Sicilia e America: prima e seconda ondata 1. Complotto straniero? 2. Prima gang siculo­americana 3. Dopo la guerra: contrabbando e altro malaffare 4. Il ponte transoceanico è ancora aperto   V. Vecchia e nuova mafia 1. Corleone 2. Villalba 3. Vecchia e nuova politica 4. Gente di Castellammare   VI. Davanti al fascismo 1. Con la mafia ai ferri corti 2. Gangi 3. Epurazioni 4. Sotto processo 5. La segreta società VII.

Gangster e mafiosi 1. Guerra castellammarese 2. Sotto processo anche in America 3. Unione siciliana 4. Fronte del porto 5. Ombre del fascismo nel nuovo mondo

VIII.

Tempo di guerra 1. America: sovraprofitti di guerra 2. Gli americani incontrano la mafia nella sua terra d’origine 3. Separatismo siciliano 4. Il ritorno di Lucky Luciano nell’antica patria

  IX. Il lungo armistizio, 1946­1960

1. Portella 2. Una trattativa Stato­mafia 3. I corleonesi 4. Dinastie di borgata 5. Storie democristiane 6. Consenso e opposizione   X. La Cosa nostra 1. La svolta, 1957­1963 2. Uno sguardo nel sottosuolo 3. Narcotrafficanti 4. Filologia 5. Senza unghie 6. Altre rivelazioni XI.

Punto di snodo. La Repubblica e i suoi nemici 1. Politica e criminalità 2. Metastasi. Ai piedi dell’Etna 3. L’antagonista 4. Poteri occulti

XII.

Due mondi in subbuglio 1. Zips, insomma gente del vecchio mondo 2. Affari e fazioni 3. Il massacro 4. Terrorismo mafioso atto primo 5. Il boss e lo statista

XIII.

Sfida e risposta 1. Terrorismo mafioso atto secondo 2. Antimafia come movimento 3. Maxiprocesso 4. Professionisti dell’antimafia 5. Falcone 6. Riina

XIV.

Epilogo 1. I bagliori di Capaci 2. La memoria dell’antimafia 3. La macchina del complotto 4. La memoria della mafia

Fonti e bibliografia I personaggi: i buoni e i cattivi

Introduzione

Sarà  forse  utile  partire  da  una  definizione  del  concetto  di  mafia.  Parziale,  certo,  come  d’altronde  sono  tutte  le definizioni di fenomeni storico­sociali complessi. Citiamo l’articolo 416bis del codice penale italiano, la legge varata nel  1982  e  comunemente  detta  Rognoni­La  Torre.  L’associazione  «di  tipo  mafioso»  è  quella  che  usa  la  «forza  di intimidazione» (non necessariamente la violenza attuale), garantita ai suoi affiliati appunto dal «vincolo associativo», al  fine  di:  1)  «commettere  delitti»,  2)  controllare  «attività  economiche»  (anche  in  sé  lecite,  evidentemente),  3) «ostacolare il libero esercizio del voto». Nel «tipo mafioso» vanno comprese «anche» le associazioni di camorra, di ’ndrangheta e di altra natura, «comunque localmente denominate», incluse quelle straniere. Dunque, il legislatore fa corrispondere il concetto di mafia a quello di criminalità organizzata, lasciando cadere il riferimento a specifici gruppi regionali e/o etnici che lo caratterizzano sin dalle origini. Più precisamente, in Italia, la parola  è  stata  riservata  alla  Sicilia  e  ai  siciliani  sin  dal  1863­66;  e,  negli  Stati  Uniti,  agli  italiani  a  partire  dal  tardo Ottocento.  Mentre  licenzio  questo  testo,  il  procuratore  della  Repubblica  di  Roma,  Giuseppe  Pignatone,  dichiara: «L’articolo 416bis del codice penale non è una norma che parametra la mafiosità di un’associazione criminale sulle caratteristiche antropologiche e organizzative della mafie tradizionali»1. Il codice penale non può privilegiare caratteri storici specifici. Prendiamone  atto.  Prendiamo  però  atto  anche  che  oggi  è  ben  consolidato  a  livello  planetario  un  uso  del  plurale «mafie» in cui il riferimento a luoghi, popoli, culture, percorsi storici specifici si è mantenuto, eccome: tant’è che si parla  di  mafie  russe,  cecene,  colombiane,  messicane,  cinesi,  giapponesi,  spesso  per  indicare  organizzazioni  di immigrati,  che  in  società  plurietniche  controllano  il  punto  di  partenza  e  quello  di  arrivo  di  catene  di  traffici  illeciti (droga, armi, o persone). Quest’uso ci rimanda al caso di partenza, quello siculo­americano. E complica di molto il modello interpretativo più diffuso, per cui la mafia è stata da sempre rappresentata da scienziati sociali e storici come il frutto di una società arcaica, di un’arcaica cultura antistatale. La mafia si è quasi contemporaneamente affermata, oltre  che  in  un’area  sottosviluppata  dell’Europa  mediterranea,  nel  luogo  ideale  della  modernizzazione  planetaria.  Si basa su un’ibridazione transatlantica, su un incrocio culturale minaccioso eppure affascinante. Attenzione. È da collocarsi nel novero delle leggende l’idea che dalla Sicilia si sia controllata l’intera criminalità organizzata americana. Nemmeno possiamo dire che dalla Sicilia sia stata controllata tutta la grande criminalità italo­ americana. Più sobriamente, dirò che alcuni criminali siciliani fecero fortuna negli Stati Uniti (soprattutto a New York e nella regione  nord­orientale  del  paese)  venendo  da  ambienti  mafiosi  e  conservando  relazioni  di  varia  natura  con  bande mafiose radicate nei luoghi di partenza (le borgate palermitane, o paesi come Villabate, Corleone, Castellammare del Golfo). Dirò di quest’intreccio di gruppi e luoghi – lasciando magari da parte altri gruppi e altri luoghi che, sull’una e sull’altra  sponda,  potrebbero  essere  meritevoli  di  considerazione.  Rileverò  i  molti  effetti  feedback,  dal  vecchio  al nuovo mondo e viceversa; ivi compreso quello riguardante la stessa espressione «Cosa nostra», affermatasi prima in America  e  poi  in  Sicilia,  che  oggi  usiamo  per  indicare  sia  l’una  che  l’altra  mafia.  Segnalo  sin  d’ora  uno  sviluppo cruciale:  le  relazioni  transoceaniche  tra  sodali  hanno  fatto  sì  che  la  Sicilia  divenisse  il  punto  di  snodo  di  traffici planetari di morfina prima, di eroina poi, che avevano negli Stati Uniti i loro mercati di sbocco. I ricchi proventi di questi traffici hanno suscitato – sia sul versante americano che su quello siciliano – una quantità di appetiti. È qui che va individuata la radice dei grandi, sanguinosi conflitti del tardo Novecento. In Sicilia come negli Stati Uniti è diffuso un particolare rituale di affiliazione alla mafia, un giuramento di fedeltà per la vita e per la morte basato sul sangue, di tipo massonico, solennizzato con riferimenti alla tradizione cattolica. Il giuramento rappresenta il segno di una straordinaria continuità storica: vedremo nel testo testimonianze su di esso già negli anni settanta dell’Ottocento. È venuto comunque al centro dell’attenzione di tutti nel secondo Novecento, prima in  America  con  le  confessioni  di  Joe  Valachi  (1963),  poi  in  Italia  con  quelle  di  Tommaso  Buscetta  (1984), immediatamente dopo il varo della legge Rognoni­La Torre. Citiamo una definizione di Cosa nostra fornita nel 1986 da un’agenzia del governo statunitense: è un’organizzazione che si caratterizza per la militanza garantita da un filtro all’ingresso  (appunto  il  giuramento),  per  la  struttura  gerarchica,  per  la  continuità  storica  oltre  la  vita  dei  singoli membri2. Io  però  dubito  che  il  rituale  del  giuramento  basti  a  definire  i  confini  della  mafia.  Una  grande  tradizione interpretativa e una massa di fonti storiche ci dicono che la sua forza sta nell’intreccio tra interno ed esterno, nella rete fitta  fitta,  avvolgente,  in  cui  le  sorti  degli  affiliati  si  intrecciano  con  quelle  dei  non­affiliati,  in  una  logica  di  mutua

protezione e reciproco interesse. Come ha scritto il sociologo Rocco Sciarrone, uno degli studiosi oggi più accreditati, la forza della mafia risiede «solo in parte in caratteri costitutivi interni al fenomeno», ma è data piuttosto dalle sue «relazioni  esterne,  vale  a  dire  dal  capitale  sociale  che  deriva  dalla  capacità  di  allacciare  relazioni  e  costruire  reti sociali»3. Nella rete ci sono, citando un po’ a caso, poliziotti, politici e affaristi corrotti, professionisti, consulenti. E c’è  anche  gente  sostanzialmente  perbene,  la  quale  si  limita  a  consumare  merci  di  contrabbando  (tabacco,  alcolici, stupefacenti), o accetta la protezione ritenendo di non poterne fare a meno: che concorre alle fortune della mafia solo usufruendo dei beni e dei servizi da essa forniti. La mafia è uno di quei fenomeni che gli storici sociali dicono embedded, che sono cioè radicati in sfere profonde della società. Le sue attività sono il più delle volte nascoste nelle pieghe di transazioni semi­legittime, anche perché – più di altre forme di criminalità organizzata – rifugge da pratiche di tipo «predatorio». Commercia, fa affari, fornisce protezione,  e  servizi  in  occasione  delle  elezioni.  Però  ciclicamente  esplode  in  guerre  per  bande  che  ne  rivelano  la pericolosità agli occhi dell’opinione pubblica. Nell’Italia del passaggio tra anni settanta e anni ottanta del Novecento, a questa incontinenza  se  ne  aggiunse  un’altra.  La  mafia,  dopo  un  secolo  di  storia  nel  quale  si  era  sempre  mostrata deferente  nei  confronti  di  chi  rappresentava  il  potere  sociale  e  istituzionale,  volle  perseguire  un  proprio  autonomo progetto di potere, nei confronti di alleati indisciplinati e nemici irriducibili, giornalisti, politici, poliziotti, magistrati. Fu  il  momento  del  grande  show­down.  Cosa  nostra  colpì  con  straordinaria  ferocia  e  fosca  efficienza,  ma  venne anche colpita, con forza via via maggiore, grazie alla formazione di un’alleanza tra pezzi di istituzioni e una parte di opinione pubblica, cui venne attribuito il nome di antimafia. La vicenda che andiamo a raccontare non si spiega senza tener conto di tale meccanismo di sfida/risposta. In questo libro intendo verificare il concetto in senso generale e sul lungo periodo: la mafia non solo viene colpita ma anche emerge dal sottosuolo, diviene visibile, quando si propone e viene recepita come un problema politico. In quei momenti gli intellettuali fanno funzionare il cervello, i governanti mobilitano i poliziotti, i quali riposizionano in appositi dossier i documenti sparsi nei loro archivi, e trovano i pentiti o collaboratori che dall’interno rivelano i segreti. Gli storici leggeranno questi dossier, e avranno le fonti su cui lavorare. Confronterò  dunque  la  repressione  della  mafia  nella  seconda  età  repubblicana  con  il  suo  massimo  precedente storico: la cosiddetta operazione Mori (1926­29) promossa dal fascismo. Rileverò le differenze tra le due esperienze. Innanzitutto  quelle  concettuali.  Il  fascismo  aborriva  l’idea  di  una  spinta  dal  basso  e  di  un’autonoma  partecipazione della società civile, insomma sosteneva l’incompatibilità tra logiche liberal­democratiche da un lato, legalità dall’altro. E  poi  quelle  pratiche.  La  repressione  fascista  fu  pesante,  spesso  indiscriminata,  e  si  accompagnò  a  ogni  genere  di abuso. Però dai grandi processi di quel periodo la maggioranza degli imputati uscì bene: molte delle condanne furono di modesta entità, e seguì un’amnistia. Niente a che vedere con le pesantissime condanne inflitte dai tribunali della Repubblica a partire dal 1987. Guarderò  ancora  all’indietro,  evocando  un  altro  caso  storico  di  contrapposizione  tra  Stato  e  mafia:  quello  di  età postunitaria che coincise con la stessa nascita (o con la prima percezione) del fenomeno mafioso. Diciamo subito che in quel periodo, negli anni in cui l’Italia era governata dalla Destra storica, ancora non era ben consolidato il sistema delle garanzie liberali, e si era appena avviato il tormentato percorso del paese verso la democrazia politica. Quella prima battaglia contro la mafia fu combattuta sotto il segno di un sistema di governo centralistico, autoritario, che non disdegnava di far ricorso allo stato d’assedio, di affidarsi ai militari. Accadeva che, per difendere la propria rozza idea di  legalità,  indulgesse  a  ogni  genere  di  sostanziale  illegalismo.  Vedremo  quale  massa  di  effetti  perversi  ne  siano derivati. Insomma,  almeno  in  due  periodi  storici  la  lotta  alla  mafia  confinò  con  la  negazione  di  valori,  che  per  noi  sono irrinunciabili,  di  rispetto  dei  diritti  individuali  e  collettivi,  insomma  di  libertà.  La  mafia  rappresenta  una  patologia delle  relazioni  sociali  e  dei  sistemi  rappresentativi.  Ma  alcune  delle  soluzioni  che  storicamente  sono  state  proposte possono ai nostri occhi apparire peggiori del male. Resta da dire il perché e il come queste stagioni dei grandi conflitti si siano alternate ad altre di opposta natura: prendiamo ad esempio quella tardo­ottocentesca della Sinistra storica, e quella della prima età repubblicana, che ho definito  del  «lungo  armistizio».  Dal  punto  di  vista  concettuale,  può  venirci  in  aiuto  la  celebre  teoria  della  pluralità degli  ordinamenti  giuridici,  formulata  intorno  al  1918  dal  grande  giurista  Santi  Romano.  Di  norma  –  sosteneva Romano – l’«ordinamento giuridico maggiore» (lo Stato) si mostra tollerante verso quelli «minori» (le associazioni), reagendo  solo  contro  quelli  che  ne  minacciano  il  potere  (le  organizzazioni  rivoluzionarie).  La  mafia  può  essere collocata in questo schema: È noto come, sotto la minaccia delle leggi statuali, vivono spesso, nell’ombra, associazioni, la cui organizzazione si direbbe quasi  analoga,  in  piccolo,  a  quella  dello  Stato:  hanno  autorità  legislative  ed  esecutive,  tribunali  che  dirimono  controversie  e puniscono,  agenti  che  eseguono  inesorabilmente  le  punizioni,  statuti  elaborati  e  precisi  come  le  leggi  statuali.  Esse  dunque realizzano un proprio ordine, come lo Stato e le istituzioni statualmente lecite4.

Sta  di  fatto  che,  nel  corso  della  sua  lunga  esperienza  storica,  lo  Stato  italiano  (liberale­monarchico,  fascista  e repubblicano) ha oscillato tra fasi di tolleranza e fasi di repressione. Partendo da Santi Romano, constatiamo che in effetti sul lungo periodo il potere della mafia fa il verso a quello statale: sorveglia e punisce, per usare la celebre espressione di Foucault5, impone tasse, mantiene a suo modo l’ordine. A Palermo le cosche, ognuna insediata su una piccola porzione di territorio, l’hanno fatto per un secolo e più, quasi fossero  commissariati  di  pubblica  sicurezza.  Noi  peraltro  sappiamo  che  il  manufatto  storico  di  cui  ragioniamo  è transcontinentale. Il confronto tra la situazione italiana e quella degli Stati Uniti è dunque necessario, seppure arduo. Parliamo di due paesi e sistemi così diversi… Diciamo che storicamente anche il rapporto tra America e criminalità organizzata  ha  visto  un’alternanza  tra  pacifica  convivenza  e  mobilitazioni  riformatrici/moralizzatrici.  Nelle  fasi  di tolleranza  e  in  quelle  di  scontro  sono  stati  coinvolti  pezzi  di  società  civile,  forze  politiche,  istituzioni  diverse: municipali e statali nel periodo antecedente alla seconda guerra mondiale, federali in quello successivo. Storicamente  la  società  americana,  contrariamente  a  quella  italiana,  ha  carattere  multietnico,  derivante  da  una tradizione di forti flussi di immigrazione (quello italiano tra gli altri). Potrebbe dunque sembrare che tra le due mafie manchi, per quest’aspetto, il terreno per ogni comparazione. Invece le cose non stanno così. Il termine mafia è stato di sovente usato negli Stati Uniti con un (più o meno esplicito) intento criminalizzante nei confronti della comunità italo­ americana,  all’interno  di  un  discorso  xenofobo;  così  come  in  Italia  molti  discorsi  sulla  mafia  si  sono  risolti  in criminalizzazioni collettive dei siciliani (e dei meridionali). Lo dico subito. La storia e la cultura dei siciliani o degli italiani d’America non possono essere ridotte a mafia, così come la storia della mafia non può essere ridotta a questo discorso para­razzista. Però non può ignorarlo e non può ignorarne la conseguenza più importante: su entrambi i versanti l’ideologia mafiosa si è a sua volta presentata nella veste  della  rivendicazione  identitaria,  rispettivamente  siciliana  e  italo­americana.  Vediamo  come  un  agente dell’antidroga statunitense, Malachi L. Harney, rende il meccanismo in una lettera indirizzata a «Life» nel 1964. Parte da un’opzione di principio, che ancora una volta chiama in causa la politicità della mafia: come certi regimi totalitari, essa riesce a esercitare un grande potere su entrambi i versanti dell’oceano, «nonostante il numero relativamente basso dei  suoi  aderenti»,  perché  fa  ricorso  ai  «fondamentali»  –  da  un  lato  alla  violenza,  dall’altro  alla  «propaganda».  Poi specifica su cosa tale propaganda si incentri: in negativo, chiunque soltanto usa la parola mafia viene accusato di voler criminalizzare  «tutti  i  siciliani  o  [in  America]  gli  italiani,  anche  onesti»;  in  positivo,  la  mafia  pretende  di  essere «l’amica del povero e [in Sicilia] il campione dell’autonomia siciliana»6. Non  è  dunque  vero  che  la  mafia  abbia  un’unica  ideologia,  quella  del  silenzio  di  fronte  all’autorità:  l’omertà.  Si tratta di un silenzio che si intreccia a molte parole7. Ci sono quelle che nella sfera più segreta sanciscono l’affiliazione e  vengono  solennizzate  nei  giuramenti.  Ci  sono  poi  quelle  usate,  all’interno  dell’organizzazione  e  ai  suoi  margini esterni,  per  dimostrare  che  la  mafia  funziona,  risolve  i  problemi;  che  i  suoi  capi  sono  in  grado  di  controllare  la violenza altrui e anche la propria, evitando il bellum omnium contra omnes; che non può essere battuta perché ha «in mano»  i  potenti.  In  tempi  recenti  abbiamo  avuto  la  possibilità  di  ascoltarle,  queste  parole,  anche  direttamente, attraverso  intercettazioni  telefoniche  o  ambientali.  I  «valori»  invocati  sono  sempre  gli  stessi:  Onore,  Famiglia, Amicizia,  Religione,  Tradizione.  Tutto  con  lettera  rigorosamente  maiuscola.  Viene  naturale  una  domanda.  Sono sinceri i boss, quando si ammantano di vesti tradizionaliste? O fingono? La risposta è che non fingono più di quanto abbiano  fatto  e  tuttora  facciano  altri  leader,  quelli  che  capeggiano  non  bande  criminali  ma  movimenti  e  regimi autoritari. Mondo «di sotto» e  mondo  «di  sopra».  Nella  comunicazione  pubblica  il  tradizionalismo mafioso è stato sempre preso sul serio, e ben accetto, non solo da giornalisti ma anche da importanti intellettuali. Ne citeremo qualcuno nel testo, facciamo ora l’esempio di un libro che è anche un film di enorme successo, Il padrino8. Gioca intorno al tema dell’identità etnica, si diverte a ribaltare lo schema della colpevolizzazione collettiva degli italo­americani: dipingendo una mafia siciliana che immette in una società originariamente «fredda», nordica, anglosassone, il calore di istinti e passioni,  di  familismo,  imbarbarendo  ma  anche  arricchendo  l’America.  Il  retaggio  della  Sicilia/Italia,  del  vecchio mondo, diviene la chiave esplicativa dell’elemento arcaico che è in tutti gli esseri umani, un qualcosa – peccato o virtù – che ha a che fare con l’eterno immaginario mediterraneo fatto di istinti e vitalità, che con l’avvento della modernità (ovvero con l’americanizzazione) si va perdendo e sarà rimpianto. È  ovvio:  la  rappresentazione  artistica  nobilita  un  fenomeno  di  per  sé  turpe  e  deteriore.  Questo  rappresenta  un problema  per  chi  legge  il  libro  e  vede  il  film,  per  noi  italiani  di  inizio  XXI  secolo  che  l’esperienza  storica  ha  reso consapevoli dell’estrema pericolosità del fenomeno mafioso. Tra l’altro, i boss mafiosi stessi leggono il libro e vedono il  film,  usano  le  stesse  parole  e  gli  stessi  concetti  per  interpretare  se  stessi  e  presentarsi  all’esterno,  per  ottenere consenso e creare complicità. È stata l’arte a ispirarsi a loro? O sono loro a trarne ispirazione?

Uno dei grandi Stati­nazione europei, quello italiano, ha a lungo tollerato la mafia. E l’hanno fatto anche gli Stati Uniti d’America, che nel corso del Novecento hanno acquisito a livello planetario il ruolo di potenza egemone, e se si vuole imperiale, attraverso due guerre mondiali guerreggiate e un’altra guerra mondiale stavolta fredda. Utilizzando alcuni fatti e molta immaginazione, la mafia è stata inserita nel ruolo di protagonista in questa vicenda. È un fatto, che ampiamente documenterò nel testo: in tempo di guerra fu raggiunto un accordo tra i servizi segreti della marina statunitense e il grande boss Lucky Luciano per la gestione concordata del porto di New York. Rileverò invece  la  mancanza  di  qualsiasi  base  documentaria  nella  storia  (diciamo  meglio  la  leggenda)  stando  alla  quale  lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 sarebbe stato il frutto di un complotto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi. Dirò della strage di Portella della Ginestra. Non mi sembra sia venuto qualcosa di serio dai vari tentativi di dimostrare che gli americani abbiano avuto in essa una qualche responsabilità, mentre è vero che, in generale, intorno alla vicenda del bandito  Salvatore  Giuliano  si  intrecciarono  complotti  a  ogni  livello.  Molti  sono  stati  quelli  che  (in  Italia  e  altrove) hanno ricondotto i successi della mafia nel secondo Novecento alle trame del governo statunitense, o delle sue agenzie di  sicurezza, nell’ambito  di  «strategie  della  tensione»  destinate  a  inquinare  in  permanenza la vita democratica della nostra  Repubblica.  Si  tratta  di  una  tesi  che  ha  avuto  fortuna  nella  cultura  di  sinistra,  la  quale  è  stata  a  lungo antiamericana  per  definizione,  e  anche  su  altri  versanti,  che  non  lo  sono  stati  mai.  Ora  può  darsi  che,  nei  giochi complicati  dei  servizi  segreti,  qualche  spezzone  di  qualche  agenzia  statunitense  abbia  tramato  con  qualche  banda mafiosa  americana  o  siciliana.  Però  in  sostanza  l’unica  cosa  provata  è  questa:  più  volte  il  governo  statunitense intervenne,  anche  su  sollecitazione  dall’agenzia  federale  antidroga  (il  Narcotic  Bureau),  perché  le  autorità  italiane facessero qualcosa contro la mafia, ottenendo scarso successo. Io sono consapevole che solo in parte la ricerca può illuminare gli spazi torbidi, oscuri in cui si sviluppa questo fenomeno, la rete di intrighi che costituisce la storia della mafia. Penso però che la storiografia possa fare la sua parte, dal  punto  di  vista  conoscitivo  e  anche  da  quello  civile,  evitando  di  accreditare  le  mitologie  del  Super­complotto. Evitando  di  seguire  la  china  della  discussione  pubblica,  che  troppo  spesso  si  è  ubriacata  e  tutt’oggi  si  ubriaca dell’immagine della mafia come invincibile super­potere: finendo per risolversi, quali che siano le sue intenzioni, in una sottile apologia. Palermo, novembre 2018

S. L.

In  questo  libro  metto  insieme  eventi  e  argomenti  presentati  già  nella  mia  Storia  della  mafia,  uscita  in  prima  edizione  nel  1993  e  in seconda edizione nel 1996, con altri presentati nel mio volume Quanto la mafia trovò l’America, edito nel 2008, e con altri ancora. Tengo conto naturalmente dei risultati conseguiti in questi anni da altri studiosi. Nell’insieme, il risultato è nuovo. 1 In «la Repubblica», 12 settembre 2018. Pignatone si riferisce all’inchiesta definita «Mafia capitale». 2 The Impact, pp. 26­7. 3 Sciarrone 2002, pp. 51­2; e anche Id. 2006. 4 Romano 1945, pp. 36­7. 5 Foucault 1993. 6 La lettera firmata M. L. Harney, Formerly Assistant to Us Commissioner of Narcotics, 13 marzo 1964, in GWP. 7 Di Piazza 2010. 8 Del romanzo di Puzo, uscito nel 1969, e del primo dei film diretti da Coppola (1972).

La mafia

A Giulia, che ha la vita davanti 

I. Origini

Anche  prima  dell’unificazione  italiana  erano  diffusi  nel  Mezzogiorno  termini  atti  a  indicare  forme  di  affarismo criminale particolarmente radicate nella società. Camorra, innanzitutto. Non esistevano invece, o non erano nell’uso, l’aggettivo maffioso/mafioso e il sostantivo maffia/mafia. Si affermarono immediatamente dopo che il vecchio regime borbonico venne abbattuto e si instaurò il nuovo regime nazionale­italiano. Prima apparizione: il 1863, la commedia dialettale I mafiusi di La Vicaria, di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca. Era ambientata nel 1854, e trattava di certi «camorristi» palermitani che in carcere venivano invitati da un detenuto politico «incognito» ad abbandonare la via del delitto e a formare una società di mutuo soccorso per difendere legalmente i loro interessi nel nuovo spirito della libertà destinato ad affermarsi a breve termine in Sicilia come nell’Italia tutta. In  molte  maniere,  come  vedremo,  può  essere  spiegata  la  coincidenza  tra  quest’innovazione  terminologica  e  la generale innovazione politica, l’unificazione nazionale. La più semplice: il Regno delle Due Sicilie rifiutava le idee liberali di Costituzione e sovranità della legge; viceversa l’Italia unita, che si rifaceva a modelli liberali, trovò utile o necessario attribuire un nome che indicasse o stigmatizzasse lo scarto tra quella teoria e la pratica. Lo scarto era in effetti forte non solo e non tanto perché l’estrema periferia siciliana fosse inadatta a ospitare gli ordinamenti  nuovi,  ma  perché  l’Italia  nuova  non  era  liberale  sino  in  fondo,  non  certo  nella  fase  delle  origini. Nell’isola,  la  Destra  al  governo  cercò  di  garantire  l’ordine  pubblico  su  entrambi  i  versanti  (politico  e  criminale) facendo ricorso allo stato d’assedio e al governo militare, a metodi autoritari, «eccezionali», insomma illiberali. Non riuscì mai a conquistare un gran consenso nell’isola. Rimase un partito in prevalenza settentrionale per composizione di gruppi dirigenti, e settentrionalista per impostazione politica. Così in Sicilia montò una protesta di varia natura, a cominciare  da  quella  regionalista,  cui  la  Sinistra  diede  voce  assumendo  il  ruolo  dell’opposizione  costituzionale, trovando  un  grande  leader  in  Francesco  Crispi,  ottenendo  una  sequenza  di  successi  elettorali,  in  particolare  nel novembre  1874  e  nel  novembre  1876.  La  svolta  si  ebbe  tra  queste  due  elezioni,  nel  marzo  1876,  quando  una scomposizione e ricomposizione della maggioranza parlamentare portò alla guida del governo il leader della Sinistra Agostino Depretis. Una precisazione è a questo punto necessaria. Molto spesso ci si riferisce alla Sicilia genericamente, come a un tutt’uno, ma per quanto attiene al nostro argomento è necessario distinguere la parte occidentale da quella orientale dell’isola. In età postunitaria la realizzazione di un reggimento ordinato, basato su criteri di legalità, si rivelò ben più difficile  nella  prima  che  nella  seconda.  Banditismo  e  mafia  si  configurarono  allora  come  problemi  tipici  dell’una piuttosto che dell’altra. Lo rimasero anche dopo, per una lunghissima fase storica a venire. 1. Eredità della rivoluzione. La storiografia ha molto citato una relazione del 1838 in cui Pietro Calà Ulloa, magistrato napoletano in servizio a Trapani, denunciava l’esistenza di «unioni o fratellanze, specie di sette che dicono partiti», capitanate da «possidenti» o «arcipreti», che si configuravano come «piccoli governi nel governo»1. Intravedeva in effetti qualcosa di simile alla mafia. Un altro funzionario borbonico scriveva: «i ladri in Sicilia senza intenderlo sono i mezzi di una rivoluzione e saranno  l’istrumento  della  rivolta  di  cui  ne  godrà  chi  ora  li  protegge»2.  Per  quanto  attiene  allo  specifico  del  nostro argomento, i due brani sono intriganti. Però (il punto è questo) noi non possiamo seguire l’impostazione di questi due fautori dell’assolutismo borbonico riducendo a intrigo proto­mafioso il complesso intreccio tra la mobilitazione delle classi dirigenti e quella popolare, da cui scaturirono i movimenti rivoluzionari3. Lo storico Antonino Recupero indica la strada giusta, collocando quest’intreccio in luoghi variegati: «corporazioni artigiane,  associazioni  segrete  di  operai,  confraternite,  gruppi  ecclesiastici,  società  segrete»,  «strutture  verticali», interclassiste,  di  varia  natura4.  C’era  una  dimensione  ideologica?  Direi  di  sì,  almeno  nei  limiti  in  cui  era  possibile considerati i luoghi, i tempi, gli uomini. Talora la libertà invocata era municipale, come nel caso del grido di battaglia: «Viva  Palermo  e  Santa  Rosalia»;  talora  il  movimento  si  basava  sull’avversione  alla  tirannide  napoletana,  sul patriottismo siciliano e magari (alla fine) anche italiano; e qualche altra volta esprimeva speranze di giustizia sociale5. C’è da chiedersi quale fosse nella capitale della rivoluzione, Palermo, la base sociale delle squadre, che nel ’48 e nel ’60 ne furono la forza armata. Le fonti si riferiscono genericamente a «operai», nonché a «giardinieri» e contadini

che  nei  momenti  decisivi  affluivano  in  armi  in  città  dalle  borgate  e  dai  paesi  circostanti.  Resta  comunque  difficile (magari impossibile) scandagliare adeguatamente questo mondo sommerso, perché a produrre i documenti che usiamo come fonti erano esponenti delle classi superiori, e – fossero borbonici, liberal­moderati o magari (pseudo)democratici – tendevano a considerare qualsiasi tipo di politicizzazione popolare con sospetto. Quanto ai leader delle squadre, facciamo due esempi, ambientati in due luoghi­chiave della mafia ventura: l’uno in un paese della provincia di Palermo, a Corleone, l’altro nella stessa capitale. Corleone.  Qui  nel  1848  il  partito  democratico  «spinto»  era  capeggiato  da  Francesco  Bentivegna,  grosso proprietario con parentele aristocratiche. Bentivegna guidò una squadra a Palermo per sostenere l’insurrezione, e non si lasciò «normalizzare» dalla successiva restaurazione. Si collegò su scala nazionale con gli stessi circoli radicali che ispirarono  la  sfortunata  impresa  di  Carlo  Pisacane.  Alla  fine  dell’anno  1856  mobilitò  nuovamente  una  squadra popolare,  battendo  la  campagna  con  l’idea  di  piombare  su  Palermo  insieme  ad  altri  gruppi  al  momento  giusto.  Fu catturato e subito fucilato dopo un processo sommario. Francamente non mi sembra plausibile che i membri del suo «partito» si mobilitassero a Corleone solo per deferenza verso il suo blasone. Questo cosiddetto partito si schierò con la  corrente  radicale  garibaldina  nel  1860,  e  assunse  la  veste  di  un  proto­movimento  contadino  che  tra  l’estate  e l’autunno  promosse  una  sorta  di  sciopero  per  migliori  patti  colonici  al  grido:  «Viva  l’unità  italiana,  Viva  Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi!»6. Nel 1862 troviamo Giuseppe Bentivegna, fratello di Francesco, tra i comandanti delle camicie  rosse  sull’Aspromonte.  Uno  squarcio  sul  futuro.  Rosario  Bentivegna,  comunista  e  comandante  partigiano, membro del Gruppo di azione patriottica che nel 1944 mise in atto il celebre attentato di via Rasella a Roma contro i tedeschi, era un pro­nipote del martire del 1856. Palermo.  Giovanni  Corrao  (1822­1863)  veniva  dall’ambiente  artigiano  cittadino,  essendo  figlio  di  calafato (costruttore di barche). Partecipò attivamente alla rivoluzione del ’48, conseguendo nell’esercito siciliano, nonostante la modesta istruzione, il grado di capitano di artiglieria. Dopo, finì in prigione e poi in esilio, in Italia e poi all’estero, facendosi unitario e mazziniano «spinto». Nel 1860 sbarcò in Sicilia prima di Garibaldi, lo seguì sino al Volturno dove fu ferito. Divenne colonnello dell’esercito regolare, ma poi si dimise, per tener fede alla sua posizione repubblicana. Torneremo più avanti sul seguito drammatico della sua storia. Diciamo però ora che al suo fianco c’erano altri due cospiratori anti­borbonici di antica data, già esuli o detenuti politici. Il primo, Giuseppe Badia, veniva anche lui da una famiglia di artigiani palermitani; l’altro, Francesco Bonafede, era figlio di piccoli possidenti della provincia, e aveva partecipato alla congiura di Bentivegna. Entrambi rimasero su posizioni repubblicane, e alla fine aderirono alla Prima Internazionale. Infine, un elemento suggestivo. Stefano Bonanno, altro artigiano palermitano che nel 1860 capeggiò una squadra di volontari unitasi ai garibaldini, era il bisnonno del giudice Giovanni Falcone, eroe dell’antimafia. Rilevanti  suggestioni  possono  venirci  anche  dalle  biografie  di  due  altri  personaggi  in  qualche  modo  legati  al movimento garibaldino. Il  primo  è  Emanuele  Notarbartolo  (1834­1893).  Nacque  a  Palermo  da  un’illustre  famiglia  aristocratica  di  fede borbonica, però lui maturò tutt’altro orientamento politico, schierandosi per la causa liberale e nazionale­italiana sin dal  1857.  Nel  1860  si  unì  ai  garibaldini  combattendo  a  Milazzo,  poi  passò  nell’esercito  regolare  impegnato  nelle operazioni  contro  i  briganti  nel  Mezzogiorno  continentale,  infine  lasciò  le  armi.  Si  impegnò  in  politica  nel  partito liberal­moderato,  anche  se  la  buona  fama  di  cui  godeva  lo  rendeva  ben  accetto  anche  su  altri  versanti,  tanto  che divenne sindaco di Palermo, nel 1873, alla testa di uno schieramento di concentrazione liberale (Destra più Sinistra storica)  contrapposto  a  quello  clericale­regionista.  Nel  febbraio  1876  fu  nominato  direttore  del  Banco  di  Sicilia dall’ultimo governo della Destra storica, per poi essere confermato da quelli successivi della Sinistra. Per le ragioni e nei  modi  di  cui  diremo  a  suo  tempo,  si  contrappose  a  interessi  mafiosi  e  finì  assassinato,  divenendo  il  simbolo  del primo movimento definibile come antimafia. Il secondo è Napoleone Colajanni (1847­1921). Veniva da una famiglia di imprenditori zolfiferi di Castrogiovanni, cittadina  montana  al  centro  della  Sicilia,  poi  ribattezzata  Enna.  Parliamo  dell’ultimissima  generazione  garibaldina: tant’è  che  Colajanni  era  appena  quindicenne  quando,  nel  1862,  si  arruolò  volontario.  Poi  si  schierò  su  posizioni radicali, repubblicane, socialisteggianti. Polemizzava contro gli antropologi che negli anni ottanta, misurando crani e ragionando  di  atavismi  etnici,  pretendevano  di  stabilire  scientificamente  il  perché  i  meridionali  fossero  così predisposti  a  comportamenti  antisociali  o  criminali  tout court7.  Difendeva  la  «razza  maledetta»  dei  meridionali  ma senza indulgere al «volgare e pernicioso chauvinisme» di chi nasconde le «piaghe» del proprio paese8. La mafia, ad esempio. E fu in prima fila, oltre che nella battaglia parlamentare sugli scandali bancari di fine secolo, nelle battaglie polemiche occasionate dal delitto Notarbartolo. Anche qui possiamo fare una proiezione pluri­generazionale: Pompeo Colajanni,  un  suo  nipote,  fu  prima  il  comandante  delle  forze  della  Resistenza  in  Piemonte,  e  poi  protagonista  delle battaglie antimafia del Partito comunista. Detto questo, è possibile che i Corrao e i Bentivegna si siano rapportati, lungo il loro percorso, anche a elementi definibili come protomafiosi. In questa maniera possiamo definire un Turi Miceli di Monreale, già tra i capi­squadra

del  ’48,  che  si  attivò  nel  1849  per  la  resa  della  città  ai  borbonici,  venne  poi  da  questi  riabilitato  col  patto  che collaborasse con la polizia alla repressione del contrabbando, e tornò infine a insorgere nel 1860. Quanto a coloro che furono qualificati come capi­mafia dopo, in età postunitaria, troviamo nella loro biografia non pochi punti di contatto con l’esperienza rivoluzionaria. In questo senso credo si possa dire che la mafia rappresentò il frutto tossico di una stabilizzazione post­rivoluzionaria. Per  inquadrare  meglio  tale  concetto,  veniamo  alla  figura  di  Nicolò  Turrisi  Colonna  (1817­1889),  barone  di Buonvicino.  Discendeva,  per  parte  di  madre,  da  una  famiglia  della  grande  aristocrazia,  e  per  padre  aveva  un imprenditore  di  più  modesta  origine,  ma  di  ricchezze  notevoli,  originario  di  Castelbuono,  paese  montano  delle Madonie.  Nicolò  Turrisi  possedeva  terre  sia  in  quella  zona,  sia  nell’area  intorno  alla  capitale,  l’agro  palermitano. Molto  impegnato  sul  fronte  dell’innovazione  agraria,  persona  colta,  lui  stesso  autore  di  studi  agronomici  oltre  che protettore  di  agronomi,  era  collegato  per  via  personale  e  familiare  alla  grande  tradizione  dell’aristocrazia  liberale palermitana  del  1812.  Partecipò  attivamente  ai  movimenti  risorgimentali,  quale  ufficiale  nella  Guardia  nazionale palermitana del 1848 laddove (secondo il maggiore degli agronomi che furono suoi allievi, e che si fece suo biografo) mostrò  particolare  «ardimento  nel  frenare  i  tristi,  i  quali,  pescando  nel  torbido,  avrebbero  creato  gravi  commozioni interne»9. Nel 1860 fu uno dei principali organizzatori dell’insurrezione cittadina all’arrivo di Garibaldi, e assunse il comando  della  rinnovata  Guardia  nazionale.  Dopo  l’Unità,  si  collocò  all’opposizione,  schierandosi  con  la  Sinistra moderata. Nel 1865 fu nominato senatore. L’anno prima (1864) aveva pubblicato un opuscolo intitolato Cenni sullo stato della sicurezza pubblica in Sicilia. In esso Turrisi parte dai due grandi eventi della storia siciliana recente, la rivoluzione del ’48 e quella del ’60. Sia nella prima che nella seconda tornata, dice, «era in armi tutta la vecchia setta dei ladri; in armi tutta la gioventù che viveva col mestiere di guardiani rurali, e la numerosa classe dei contrabbandieri dell’agro palermitano»10. Aggiunge: dopo la seconda rivoluzione, è mancato un governo in grado di restaurare l’ordine, sicché a quella «setta» di «tristi» si sono  affiliati  contrabbandieri  e  trafficanti  vari,  guardiani  dei  terreni  dell’hinterland  palermitano  e  dell’interno  della provincia. Registra che con essa sono dovuti venire a transazione i proprietari interessati al mantenimento dell’ordine. Non  usa  ancora  la  parola  mafia  ma  usa  altre  parole­chiave:  setta,  appunto,  e  poi  camorra,  infamia,  umiltà.  Spiega: «umiltà  comporta  rispetto  e  devozione  alla  setta  ed  obbligo  di  guardarsi  da  qualunque  atto  che  può  nuocere direttamente o indirettamente agli affiliati»; in mancanza, un’assemblea decide sulla punizione del reo11. D’altronde Turrisi chiama la setta col suo nuovo nome, mafia,  già  due  anni  più  tardi,  testimoniando  davanti  alla  Commissione parlamentare sulla rivolta del ’66. Dice: i malandrini «si fanno o si impongono guardiani della proprietà. Proteggono le proprietà e ne sono protetti; ma restano malandrini. La Mafia fu protetta da’ signori, che se ne valsero nel ’48»12. Colpiscono i due interventi, quello del 1864 e quello del 1866, per quanto dicono e anche per l’autorevolezza di chi dice,  per  il  tono  lucido  con  cui  Turrisi  analizza  eventi  di  cui  è  stato  personalmente  protagonista  quasi  guardandoli dall’esterno. C’è stato anche lui tra i signori che hanno incrociato le loro sorti a quelle dei «malandrini» nel ’48 e nel ’60; che, dopo l’Unità, si sono affidati alla loro protezione e li hanno protetti. La Villa Bonvicino­Turrisi a Passo di Rigano (borgata palermitana) era da Turrisi Colonna gestita come un’azienda agraria d’avanguardia, irrigua e coltivata soprattutto ad agrumeto. Poco dista dal cortile Giammona all’Uditore, che può  darsi  abbia  preso  il  nome  da  Antonino  Giammona:  personaggio  che  bene  rappresenta  il  circuito  rivoluzione­ stabilizzazione­mafia,  nato  appunto  a  Passo  di  Rigano  intorno  al  1830.  La  sua  carriera  viene  lumeggiata  da testimonianze  successive,  di  metà  anni  settanta.  Cominciamo  da  quelle  a  lui  ostili.  La  prima,  del  medico  Gaspare Galati, ce lo dice «poverissimo contadino» sino al 1848, ma poi in grado di «raggruzzolare qualcosa» e di investirlo in «intraprese  di  campagna».  Si  arricchì,  commenta  un  rapporto  di  polizia,  «briganteggiando  sotto  il  vessillo  della rivoluzione»13. Nel 1860 servì come ufficiale nella Guardia nazionale. E veniamo a una fonte a lui favorevole, il suo avvocato  Francesco  Gestivo,  che  vanta  (ancora  quindici  anni  dopo)  i  meriti  da  lui  acquisiti  in  quella  cruciale congiuntura:  «nel  manco  assoluto  di  pubblica  sicurezza  ufficiale»,  alla  testa  di  una  lega  formata  da  «proprietari  di giardini,  gabellotti,  e  altri  che  sono  nella  stessa  condizione»,  per  garantire  un  minimo  di  ordine14.  Galati  dice  in sostanza la stessa cosa ma in negativo: «dal 1860 si buttò anima e corpo nella mafia, che ha saputo con rara abilità, senza compromettersi, capitanare»15. Non  so  se  Giammona  si  fosse  legato  a  Turrisi  nel  corso  dei  sommovimenti  del  ’48  o  di  quelli  del  ’60,  o  se viceversa i due avessero preesistenti rapporti. Gli adepti al gruppo Giammona si ritrovarono comunque proprio in un fondo Turrisi, sito nella borgata palermitana dell’Uditore­Passo di Rigano, per il primo giuramento di mafia che, per quanto se ne sappia, sia stato registrato in un rapporto di polizia, il 29 febbraio 1876. Distinguerei in esso due parti: l’una coincidente con quella attuale, e ben nota, di Cosa nostra siciliana e americana, l’altra (sembrerebbe) perdutasi col tempo. Nella prima il padrino, davanti agli altri membri della società, faceva giurare l’aspirante dopo avergli punto il  dito  indice,  macchiando  col  sangue  sgorgato  un  santino,  un’immagine  sacra,  che  veniva  poi  bruciata  «a simboleggiare l’annichilimento» di chi intendesse tradire. Nella seconda, c’era tra i due uno scambio di battute: «A

chi ti dissero di adorare? – il sole e la luna – e chi era il vostro Dio? – un Ariu – e a quale regno appartenete? – a quello dell’indice»16. Questo rituale di tipo massonico (ibridato con elementi cattolici) va in prima battuta inquadrato sotto due aspetti: l’uno storico, l’altro funzionale. Primo aspetto, storico. Il rito registrato nel 1876 ci rinvia non solo al futuro della mafia, ma anche al passato della rivoluzione: in particolare alle «vendite» carbonare e a quei patti «giurati» di cui dicono le fonti sul 1848, in forza dei quali il popolo prometteva di seguire le classi superiori nella lotta contro il dispotismo borbonico, ma impegnandosi a non mettere in discussione l’ordine sociale. Recupero, che insiste su quest’aspetto, spiega: le truculente minacce verso i traditori, «il penetrare bendati in un ambiente segreto (simbolo di rinascita), il giurare col proprio sangue e col fuoco […] sono un ispessimento rozzo di certi aspetti dei rituali massonici, fatti propri dai carbonari»17. Secondo aspetto, funzionale.  La  mafia  non  solo  originariamente  trae  suggestioni  o  modelli  dalla  massoneria,  ma  condivide  con  essa alcuni caratteri di fondo. Diciamolo sapendo di semplificare, e senza voler criminalizzare la tradizione massonica: le cosche mafiose e le logge massoniche sono società di confratelli che si basano sull’idea del mutuo sostegno, usano rituali barocchi per l’ammissione dei neofiti, puntano sul mantenimento del segreto. 2. Mafia e politica atto primo. Nel 1862 Garibaldi tornò a sbarcare in Sicilia, raccogliendo di nuovo un esercito di volontari, con l’idea di puntare su  Roma  per  liberarla  dalla  tirannide  papalina  e  ricongiungerla  alla  nazione.  Gli  uomini  della  corrente  radicale garibaldina siciliana, che alla fine del 1860 erano stati bruscamente emarginati dai rappresentanti del governo liberal­ moderato di Torino, pensarono fosse venuto il loro momento. I funzionari governativi si lasciarono esautorare. Però, quando i volontari furono bloccati dall’esercito in Calabria (sull’Aspromonte), i nodi vennero al pettine. Fu dichiarato lo stato d’assedio. Ci furono delle fucilazioni18. L’esercito, guidato dal generale Giuseppe Govone, mostrò nei confronti di patrioti, e in terra di Sicilia, la faccia feroce mostrata nel biennio precedente nel Mezzogiorno continentale verso il legittimismo filo­borbonico. La polizia avviò una schedatura di massa che equiparava (appunto) i legittimisti e i garibaldini19. E nel contempo il governo della Destra cercò di approfittare dell’occasione per rimediare a  una  più  generale  crisi  dell’ordine  pubblico,  al  diffondersi  del  banditismo.  A  tali  fini,  a  partire  dall’agosto  1863, applicò anche all’isola la legge «speciale» Pica, pensata per contrastare il brigantaggio al di là dello Stretto, che dava ampia facoltà ai tribunali militari di comminare condanne anche a morte. La storiografia ha rilevato il carattere fortemente autoritario delle pratiche adottate allora e in seguito. Se i militari andavano per le spicce, anche la polizia non si conformava gran che a principî liberali, largamente basandosi su una misura  «amministrativa»  come  l’ammonizione.  Veniva  applicata  a  coloro  che  la  polizia  stessa  diceva  di  «cattiva fama», ed era propedeutica  al  domicilio coatto  (segregazione  in  qualche  luogo  remoto,  magari  in  un’isoletta)  per  il caso  in  cui  l’ammonito  continuasse  a  «destare  sospetti».  Il  meccanismo  esaltava  l’arbitrio  dei  funzionari,  che agevolmente potevano colpire alcuni criminali e magari favorirne altri. Come giustificava l’autorità la sua preferenza per tali metodi extragiudiziali? Con la (presunta) inaffidabilità di giurie e magistrati isolani. Fatto sta che il sistema aveva  effetti  controproducenti  perché  molti  preferivano  darsi  latitanti  per  prevenire  l’ammonizione.  Nel  complesso quell’autoritarismo, ha osservato la storica Lucy Riall, si risolse in un «crollo dell’autorità»20. A  Palermo  il  partito  garibaldino  si  divise  in  tre  tronconi.  Il  primo  si  lasciò  attirare  nello  schieramento  filo­ governativo. Il secondo – massimo esponente Crispi – confluì nella Sinistra «storica», ovvero si pose su una linea di opposizione  costituzionale  (monarchica).  Il  terzo  si  attestò  su  una  linea  radicalmente  repubblicana.  Era  guidato  da Corrao,  che  sull’Aspromonte,  alla  testa  di  un  reparto  di  volontari,  aveva  fatto  sparare  sui  soldati  «regi».  Fu  poi amnistiato, ma non per questo lui e i suoi più stretti collaboratori, Badia e Bonafede, accettarono l’ordine monarchico. Nel frattempo si avviava a Palermo la stagione dei complotti. La sera del 1° ottobre del 1862 vennero pugnalate in città  tredici  persone  che  non  avevano  alcuna  relazione  tra  loro,  e  senza  motivo  apparente.  Le  autorità  provarono  a coinvolgere quali mandanti esponenti politici cittadini di estrazione diversa ma comunque avversa al governo; e, tra gli  altri,  Corrao21.  Gli  oppositori  pensarono  invece  a  una  trama  ordita  dalla  «questura»,  in  una  logica  (usiamo un’espressione odierna)  da  strategia  della  tensione.  I  loro  peggiori  sospetti  vennero confermati nel 1863, quando lo stesso Corrao fu misteriosamente assassinato. Di  lì  a  poco  la  parola  maffia  venne  utilizzata  per  la  prima  volta  in  un  documento  governativo,  una  relazione riservata  del  prefetto  di  Palermo  Filippo  Gualterio,  del  1865.  Il  funzionario  spiegò:  si  trattava  di  una  specie  di «camorra»,  di  un’«associazione  malandrinesca»  in  rapporto  con  i  «potenti»,  da  assumersi  a  sintomo  di  «un  grave  e prolungato malinteso fra il Paese e l’Autorità». Poi però puntò sull’elemento politico, affermando che la maffia  era

stata  a  suo  tempo  guidata  da  Corrao,  che  il  suo  capo  era  ora  Badia.  Insomma,  la  faceva  coincidere  col  partito repubblicano, col chiaro intento di delegittimarlo22. Le correnti estreme dell’opposizione si prepararono a passare all’azione, e quelle legalitarie ebbero l’impressione che l’autorità di polizia lasciasse fare per poter meglio giustificare una piena repressione. Se così era, bisogna dire che il  gioco  scappò  di  mano  agli  apprendisti  stregoni.  Il  15  settembre  del  1866,  come  era  accaduto  nel  ’60  e  nel  ’48, squadre in armi provenienti dalle borgate intorno a Palermo e dai paesi circostanti (Bagheria, Misilmeri, Monreale) calarono sulla città, congiungendosi con quelle formatesi in centro. Disse un testimone: «l’ho inteso ripetere da molti del popolo, che le squadre del ’66 erano le stesse del ’60, e molti ancora del ’48 ne facevano parte»23. Partecipò di sicuro uno dei capisquadra del ’48 e del ’60, il già citato Turi Miceli di Monreale, che morì assaltando il carcere nel vano  tentativo  di  liberare  Badia,  imprigionato  in  precedenza.  Tra  le  20­30  000  persone  in  piazza  nel  momento culminante (in armi o limitandosi a dimostrare), molti gridavano: «Viva la repubblica italiana!» ed esibivano bandiere rosse. Anche a Monreale, gli uomini in armi che puntavano su Palermo erano usciti da «tutte le case» e sventolavano bandiere  rosse  con  la  scritta  «repubblica»24.  Nel  mirino  dei  rivoltosi  furono  messi  alcuni  personaggi  pubblici:  il sindaco della città e astro nascente della Destra isolana, il marchese Antonio Starabba di Rudinì, e alcuni ex leader garibaldini di recente convertitisi alla linea filo­governativa. Dopo sette giorni e mezzo l’esercito, sotto il comando del generale Carlo Cadorna, riprese il controllo della città al termine di duri combattimenti di strada che fecero un numero imprecisato di morti. Il generale puntò a lasciare ai suoi ufficiali mano libera il più a lungo possibile, e proprio per questo (che paradosso!) procrastinò la proclamazione dello stato d’assedio, che lo avrebbe costretto a portare gli insorti davanti a tribunali militari invece che fucilarli sul posto25. Rudinì  disse:  Palermo  reagisce  così  perché  con  l’unificazione  ha  perso  la  «supremazia  che  aveva  sopra  tutta l’isola», «fuor di Palermo non ci sono autonomisti», la rivolta è «cosa tutta quanta palermitana»26. In effetti il resto della Sicilia rimase fuori dal moto. Ed è probabile che lo scontento per la perdita del ruolo di capitale, degli uffici e di altre istituzioni (anche ecclesiastiche) sia stato parte rilevante in quel disfizziamento di populu (disaffezione popolare) registrato  da  Giuseppe  Mario  Puglia,  crispino  e  capostipite  di  una  dinastia  di  grandi  giuristi  che  incontreremo nuovamente27. Vero è che gli slogan repubblicani, e la presenza di Bonafede nel comitato insurrezionale, indicavano il ruolo  prevalente  svolto  nel  moto  dalla  sinistra  radicale.  Vero  è  anche  che  vi  parteciparono  elementi  clericali,  ad esempio  quelli  provenienti  da  Monreale.  Clericale  stava  per  borbonico,  come  sostenevano  i  funzionari  governativi? Crispi  in  persona  lo  negò,  ricordando  gli  antichi  meriti  patriottici  del  vescovo  di  Monreale  Benedetto  D’Acquisto, arrestato  per  quanto  fosse  ottantenne:  «Quando  studiavamo  all’università  –  ricordò  al  suo  amico  Puglia  –  non  ci eravamo  mai  accorti  che  era  un  reazionario.  Bisognava  venisse  dal  Piemonte,  colui  che  doveva  fare  codesta scoperta»28. La difficoltà di ricondurre la rivolta a un preciso schieramento partitico diede occasione alla parte governativa di riproporre, stavolta anche pubblicamente, l’operazione fatta con la citata relazione del prefetto Gualterio: mettere cioè insieme  promiscuamente  l’aspetto  politico  e  quello  criminale29,  addebitando  i  drammatici  eventi  al  complotto  della mafia. Fu quello il momento in cui la parola cominciò generalmente ad affermarsi. Però i molti che vi fecero ricorso nelle testimonianze rese davanti a una Commissione parlamentare costituita ad hoc, o in opuscoli stampati «a caldo», non necessariamente si accodarono a questa strumentalizzazione politica. Un avvocato, Giacomo Pagano, seppure non simpatizzante  per  l’opposizione,  rilevò  la  forzatura,  e  scrisse:  «mafia  dicesi  in  Sicilia  l’elemento  malandrinesco,  al quale il partito governativo dà concetto e rilievo come ad un partito politico»30. Ma proviamo a uscire da questa (voluta) confusione concettuale. La mafia non era un partito politico. Piuttosto, le varie  fazioni  che  la  componevano  si  collocavano  all’interno  dei  vari  partiti,  sia  pure  nel  modo  strumentale  che  è proprio  di  questo  tipo  di  appartenenze.  Possiamo  distinguere  su  questa  base  alcuni  dei  più  importanti  capi­mafia: Salvatore Licata (o La Licata) e i fratelli Amoroso, che qui per la prima volta presentiamo, l’Antonino Giammona a noi già noto. La vicinanza del primo  ad  ambienti  governativi,  di  Destra,  risulta  con  chiarezza dagli elementi biografici forniti alcuni anni più tardi da un questore: il quale spiegava che Licata, nato nel 1805, aveva compiuto apprezzati «atti da buon patriota» nel ’48, nel ’60 e appunto nel ’66. Ammetteva: «gli si addebitano anche degli omicidi; ma la giustizia non  è  mai  arrivata  a  colpirlo»31.  Sta  di  fatto  che  l’autorità  lo  inserì  nel  1861­62  nel  corpo  dei  militi  a  cavallo, ricevendone buoni servizi. Tra questi: informazioni contro gli oppositori politici e un contributo alla delegittimazione di Corrao32. Invece gli Amoroso erano legati all’estrema sinistra di Badia e dunque (magari) già a Corrao, ed ebbero un  ruolo  importante  nella  stessa  organizzazione  dell’insurrezione,  pagando  anche  un  prezzo  di  sangue.  Il  loro avvocato, rievocando molti anni dopo la loro partecipazione al moto «anarchico» del ’66, cercò di collocarla in una prospettiva politica piuttosto che criminale, quella dei grandi «rivolgimenti politico­sociali» che trascinano «idealisti» e  «illusi»33.  E  veniamo  infine  a  Giammona,  che  sappiamo  schierato  in  difesa  dell’ordine.  Seguiva  d’altronde  le

indicazioni della Sinistra moderata di Turrisi Colonna, dipinto da un’autorevole testimonianza mentre (insieme ad altri patrioti del 1860) si impegna a tenere tranquilli i capi­squadra garibaldini34. Domata l’insurrezione, Rudinì venne nominato prefetto e usò il pugno duro come ci si aspettava da lui. Lasciò ben presto lo scomodo incarico (1867), e l’anno dopo tutta l’isola venne affidata al generale Giacomo Medici, nel duplice ruolo di comandante generale delle truppe su scala regionale e di prefetto di Palermo: la sua dunque fu una «prefettura militare», che durò ben cinque anni, sino al 1873. 3. Due prospettive: sguardo esterno e sguardo interno. Che cos’è la mafia? Intorno al 1866 le autorità fornirono a questa domanda risposte confuse, e/o strumentali. Noi, con  loro,  abbiamo  difficoltà  a  distinguere  lo  specifico  del  fenomeno  nella  magmatica  coda  di  un  processo rivoluzionario, e nella fase di impianto di un nuovo Stato che si diceva liberale ma non riusciva ad esserlo. Nel 1874­ 76 cominciarono a venire risposte più chiare dal confronto tra lo sguardo esterno alla prospettiva isolana, che in parte coincideva con quello della Destra, e lo sguardo interno della classe dirigente locale schieratasi a Sinistra. Persero di peso  le  strumentalizzazioni  politiche  più  evidenti,  ma  ugualmente  il  concetto  venne  definito  nel  fuoco  di  conflitti politici, in senso stretto o in senso lato. Nel  1874  l’ultimo  governo  della  Destra  storica,  guidato  da  Marco  Minghetti,  propose  una  legge  per  l’ordine pubblico,  «straordinaria»  e  specifica  per  la  Sicilia.  Un  intervento  legislativo  del  genere  veniva  giustificato  con l’impossibilità di contrastare, con metodi «normali», gli abigeati, le rapine, i sequestri di persona. Fu citata la statistica sugli omicidi del 1873, che vedeva l’isola alla testa tra le regioni d’Italia con un omicidio ogni 3194 abitanti, mentre la Lombardia  era  alla  coda  con  un  omicidio  ogni  44  67435.  Va  detto  però  che  la  media  regionale  poco  dice  sulla questione  che  ci  interessa,  perché  i  tassi  erano  ancor  più  elevati  nella  parte  occidentale  dell’isola,  mentre  quella orientale si assestava sulle medie nazionali: tant’è che, sempre per l’anno 1873, si registravano 78 omicidi premeditati nella provincia di Palermo, e soltanto 4 in quella di Siracusa36. I  prefetti in servizio  nella  Sicilia  occidentale  erano  tutti  settentrionali.  Quello  di Palermo Gioacchino Rasponi si pronunciò  contro  il  progetto  governativo  e  si  dimise.  Quello  di  Caltanissetta  Guido  Fortuzzi  si  disse  entusiasta,  e spiegò il perché. Definì la mafia come frutto del generale «abbassamento morale» delle popolazioni isolane. Precisò: l’idea di governare i siciliani «con leggi ed ordinamenti [liberali] all’inglese o alla belga, che suppongono un popolo colto  e  morale  come  colà  o  come  almeno  nella  parte  superiore  della  penisola»,  implica  «un  azzardoso  e  terribile esperimento», destinato inevitabilmente al fallimento37. Il suo sguardo sulla società isolana era esterno, ma non solo: come quello di altri funzionari (civili e militari) era affetto da pregiudizio, nel contempo autoritario e impotente. Le parole­chiave, oltre che mafia e banditismo, erano omertà e manutengolismo. Gli ufficiali di polizia indicavano come  omertà  la  mancanza  di  denunce  o  di  collaborazione  delle  popolazioni.  Con  il  termine  manutengolismo genericamente si riferivano alle complicità di cui i criminali godevano non solo tra contadini, popolani, trafficanti, ma tra  imprenditori  agricoli  ovvero  gabellotti  (affittuari),  professionisti  e  sindaci  di  paesi,  notabili,  persino  membri dell’establishment. Fece  impressione  che  fosse  coinvolto,  su  questo  massimo  livello,  persino  un  innovatore  agrario,  intellettuale  e patriota come Turrisi Colonna. Nel 1874 la polizia fece irruzione in una sua masseria situata in un latifondo presso Castelbuono,  nell’area  montana  delle  Madonie.  Cercava  una  comitiva  di  banditi.  Arrestò,  accusandoli  di  aver  dato riparo ai membri della banda, l’amministratore e i campieri (il termine sta per «sorveglianti»); gente che era compresa in una lista di mafiosi compilata nel 1873 dalla prefettura. Turrisi rispose pubblicamente lamentando la «tristissima situazione»  in  cui  si  trovavano  gli  imprenditori  agricoli:  «dover  soffrire  quotidiani  attriti,  di  giorno  con  la  forza pubblica che predica tutti manutengoli e protettori di briganti, di notte coi briganti che chiedono contribuzioni di ogni genere»38. Il suo era l’argomento della Sinistra moderata, che nell’isola era sulla cresta dell’onda, tanto da conseguire, nelle elezioni del novembre del 1874, una grande vittoria. Di seguito, i suoi deputati affrontarono animosamente la battaglia contro il progetto governativo sulla legge eccezionale, denunciandolo come l’ennesima prevaricazione della Destra, mettendolo in sequenza con gli stati d’assedio di Govone e Cadorna, con la legge Pica, con la lunga prefettura militare di Medici. La  discussione  parlamentare  si  preannunciava  accesa  e  tale  fu.  Raggiunse  il  clou  l’11  giugno  del  1875,  quando Diego  Tajani,  già  procuratore  generale  del  re  a  Palermo,  ora  nella  veste  di  deputato  dell’opposizione,  rievocò  il conflitto  istituzionale  che  nel  1871  lo  aveva  opposto  a  Giuseppe  Albanese,  uomo  di  Rudinì,  nominato  da  Medici questore di Palermo. Riassumiamone sinteticamente i termini. Tajani aveva incriminato Albanese come mandante di una catena di omicidi perpetrati da certi mafiosi, cui era stata data mano libera per la gestione della sicurezza nella zona  di  Monreale.  Alla  fine  il  questore  era  stato  assolto,  e  Tajani  aveva  dovuto  abbandonare  la  magistratura.  Alla Camera, nel 1875, la denuncia destò un enorme clamore. Fu in quel momento che, discutendo del corpo dei «militi a

cavallo»  –  addetto  alla  polizia  rurale,  reclutato  tra  pregiudicati,  coinvolto  in  mille  episodi  di  manutengolismo  –  il deputato della Sinistra Francesco Cordova gridò: «Signori del Governo, il centro della maffia è nelle fila della vostra forza pubblica, […] i manutengoli siete voi»39. Il  discorso  di  Tajani  è  stato  valorizzato  dagli  storici  prima  e  più  di  ogni  altra  fonte  sulla  storia  della  mafia40.  In effetti la discussione stava salendo di tono, assumeva risalto nazionale. In quello stesso anno, lo storico napoletano Pasquale  Villari  pubblicava  le  sue  Lettere meridionali,  in  cui  la  mafia  (insieme  alla  camorra  e  al  brigantaggio)  era considerata  come  una  delle  più  gravi  manifestazioni  di  una  «questione  sociale»  italiana.  Tra  il  1875  e  il  1876,  una Commissione  parlamentare  d’inchiesta  raccolse  una  gran  quantità  di  utili  testimonianze,  pur  concludendo  i  propri lavori con una relazione piuttosto insipida. Leopoldo Franchetti (1847­1917) e Sidney Sonnino, giovani rampolli di un’alta borghesia livornese di origine ebraica, intellettuali simpatizzanti per la destra, programmarono il loro viaggio­ inchiesta in Sicilia e lo realizzarono nel marzo­maggio 1876. Scrissero di seguito, e pubblicarono a tamburo battente l’Inchiesta  in  Sicilia,  destinata  a  divenire  l’opera  più  famosa  sulla  questione  siciliana,  su  cui  si  sono  formate generazioni di intellettuali e studiosi. Il problema della mafia fu analizzato a fondo nella parte scritta da Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Espongo la tesi­base di questo libro, riservandomi di tornare su quelle specifiche più avanti. Franchetti considera il «comportamento mafioso» come il frutto non solo di un insieme di rapporti di potere, ma anche di sintonie culturali tra classi dirigenti, ceti medi e popolo, tra le diverse parti di una società invischiata in una interminabile transizione post­feudale.  Ritiene  che  tale  cultura  renda  i  siciliani  non  «in  grado  di  intendere»  il  concetto  moderno  della  legge uguale per tutti. Sfrutta insomma le possibilità interpretative dello sguardo esterno sull’isola, rielabora e raffina quello dei funzionari della Destra. Centoventi  anni  dopo  l’Inchiesta,  sono  stati  pubblicati  i  diari  di  viaggio  di  Franchetti.  Grazie  ad  essi,  possiamo oggi mettere a confronto i due intellettuali toscani con le loro fonti, cioè con le persone con cui interloquirono. Tra loro  c’erano  due  protagonisti  della  nostra  storia:  Turrisi  Colonna  e  Tajani,  uomini  della  Sinistra  moderata,  l’uno siciliano, l’altro calabrese. Prima di partire, i due viaggiatori molto speravano di parlare con il primo. Avevano letto di lui, era stato detto loro che era legato alla mafia. Nel corso del viaggio, ne chiesero a molti ma non tutti risposero a tono. Il questore Rastelli fece dell’ironia. Disse: dovrò lasciare presto Palermo, perché ho avuto «il torto di aver toccato [i suoi] campieri»41. Per parte sua Turrisi stesso spiegò che era obbligato a certe «transazioni» vista l’incapacità del governo nel mantenere l’ordine. Si trattava di un argomento politicamente trasversale: lo usò lui sul versante della sinistra moderata, lo usò Rudinì sul versante di Destra, lo usarono tanti altri del loro ceto. Il barone non ripeté le cose assai più specifiche da lui dette nell’opuscolo del 1864, e per il resto parlò con competenza di economia. Alla fine, il suo nome fu citato nelle pagine dell’Inchiesta  (soprattutto  nel  volume  di  Sonnino)  come  esperto  di  studi  agronomici,  imprenditore  modello, proprietario sollecito del benessere dei suoi contadini. Quanto a Tajani, Franchetti e Sonnino andarono a trovarlo a Napoli, immediatamente prima di sbarcare in Sicilia. L’ex magistrato disse loro, in questo colloquio privato, cose ancor più pesanti di quelle dette in Parlamento. Spiegò che la degenerazione del governo della Destra in Sicilia era cominciata nel 1866­67, essendo prefetto Rudinì, il quale (usiamo  le  sue  parole)  «principiò  a  impiegare  assassini  contro  assassini,  per  modo  che  per  un  assassino  che distruggeva ne creava quattro»42. Albanese, aggiunse, aveva solo proseguito su quella strada. Gli  argomenti  di  Tajani  vennero  ripresi  dal  Francesco  Gestivo  che  abbiamo  già  conosciuto  come  avvocato  del capo­mafia  Giammona,  e  che  dell’ex  magistrato  si  disse  seguace  e  ammiratore.  Franchetti  ragionò  con  Gestivo  a lungo,  subito  dopo  essere  sbarcato  nell’isola  e  in  tre  altre  occasioni.  Mi  affascina  l’idea  di  questi  due  così  diversi personaggi  che  si  confrontano  nei  circoli  della  buona  società  palermitana,  o  in  qualche  stradella  tra  i  giardini  di agrumi  di  Bagheria,  con  Gestivo  che  ricostruisce  ogni  genere  di  intrighi,  e  Franchetti  che  ascolta,  magari  obietta, chiedendosi se e quanto credergli, e come usare le informazioni da lui fornite per affrontare le questioni generali che gli  frullano  per  la  mente.  Nella  fattispecie  la  dialettica  tra  sguardo  esterno  e  sguardo  interno  fu  particolarmente feconda – anche se, o proprio perché, i due punti di vista erano opposti. In quello «di destra» e settentrionalista di Franchetti, il comportamento mafioso originava dalla natura stessa della società  siciliana.  Stando  a  quello  «di  sinistra»  e  sicilianista  di  Gestivo,  non  c’era  «in  Sicilia  mancanza  di  senso morale»43, e l’infezione veniva dal malgoverno. Il viaggiatore livornese portava il discorso in una sfera che possiamo dire socio­antropologica. L’avvocato palermitano si riferiva a una dinamica politica. Raccontò in effetti la storia della Palermo post­unitaria in maniera colorita, più o meno seguendo la linea che noi stessi abbiamo indicato nel paragrafo precedente. Definì «immenso» «l’odio contro il partito governativo» venutosi a creare dopo Aspromonte, anche per il fatto che i moderati avevano approfittato dello stato d’assedio per impadronirsi «in esclusiva» delle amministrazioni comunali e di  ogni  altro  centro  di  potere.  Ricordò  con  indignazione  i  metodi  di  Govone  e  certe  sue  dichiarazioni  improntate  a

razzismo  anti­siciliano:  «usò  i  mezzi  più  violenti  operando  arresti  di  massa  di  parenti  e  amici  perché  [i  latitanti]  si costituissero, furono perciò perfino tagliate le acque per assetare i paesi, e Govone ebbe poi il coraggio di chiamare i Siciliani barbari in Parlamento»44. Ricordò  Corrao  come  poteva  farlo  un  borghese  della  Sinistra  moderata:  come  un  «uomo  coraggiosissimo  ma  di nessuna levatura e rozzo», pronto dopo Aspromonte a legarsi «colla marmaglia malcontenta di ogni colore: clericali, borbonici, ecc.». Però non aveva dubbi che il suo assassinio fosse stato perpetrato per «mandato superiore», da «due militi a cavallo» poi fatti fuggire in America45. Spiegò che Medici era stato scelto in quanto antico luogotenente di Garibaldi, atto a sedurre i settori moderati dell’opposizione allontanandoli ulteriormente da quelli estremi; ma che di fatto  aveva  lasciato  campo  libero  nelle  amministrazioni  locali  ai  «nobili»,  ai  «ricchi»,  insomma  alla  «parte consortesca» (la Destra). E per questa via arrivò ad Albanese. Al pari di Tajani, lo disse legato a Rudinì prima ancora che a Medici. Spiegò: era  stato  dopo  il  ’66  che,  per  proteggersi  «dalla  rivoluzione»,  la  fazione  filo­governativa  aveva  cominciato «coll’assoldare canaglie, quindi [era stata] costretta a tollerarne i delitti, quindi a coprirli, […] infine a commetterne essa stessa»46. Abbiamo già detto della sua difesa del capo­mafia Giammona, che non era solo di tipo professionale; Gestivo, severo con la mafia governativa, era ben più indulgente con quella dell’opposizione. Torneremo più avanti sulle cose da lui dette sui banditi. Ma va citata ora una sua definizione della mafia: il «sistema di voler curare il male col male»47. Mi sembra ottima. Corrisponde a quella usata due anni più tardi da Giuseppe Di Menza, alto magistrato palermitano  orientato  a  sinistra  e,  per  diletto,  saggista:  a  suo  dire  la  polizia  aveva  somministrato  alla  società  una polpetta  avvelenata,  utilizzando  certi  criminali  come  strumento  d’ordine  –  quasi  fosse  un  rimedio  omeopatico  (il «similia similibus degli omeopatici»)48. Erano  fondati  gli  argomenti  usati  dagli  avversari  politici  della  Destra  –  Tajani,  Cordova,  Di  Menza,  Gestivo  – contro  Rudinì,  Medici  e  soprattutto  Albanese?  Direi  di  sì.  Albanese  in  persona  aveva  nel  1866  rievocato  con  tono nostalgico il famigerato capo della polizia borbonica, Salvatore Maniscalco, e i «felici risultati» che a suo dire costui aveva conseguito «interessando i capi della Mafia a tutelare la sicurezza»49. Dieci anni più tardi, il prefetto Rasponi espresse l’autocritica delle istituzioni ammettendo che ai tempi di Albanese «nell’azione della questura ci entravano per molto gli elementi maffiosi», che quei metodi erano indegni di un «paese civile»50. Intrighi  poliziesco­mafiosi.  Su  quello  più  complesso,  che  si  svolse  ancora  a  Monreale,  torneremo  meglio  più avanti.  Diciamo  comunque  ora  che,  stando  a  indagini  del  1876,  il  delegato  di  Ps  e  suo  fratello  avevano  cercato  di contrastare la criminalità creando «un contropartito (specie di contromafia)» e mobilitando «quanto di più terribile e più  tristo  agita[va]si  nei  bassi  fondi»;  che  questi  (contro)mafiosi  in  un  primo  tempo  avevano  fornito  «qualche  utile servizio  alla  pubblica  sicurezza»,  poi  si  erano  dati  a  perpetrare  rapine  e  omicidi  in  proprio51.  Li  si  indicava  come stuppagghieri. Un altro caso che venne fuori nel 1876 riguardava la Piana dei Colli, termine con cui è denominata una certa  parte  dell’agro  palermitano  o  Conca  d’oro,  e  i  mafiosi  Licata52,  da  Tajani  indicati  come  «agenti  segreti  della questura». Noi  già  sappiamo  del  capostipite,  Salvatore  Licata,  che  nel  1866  aveva  mantenuto  un  atteggiamento  lealista. Facciamo ora la conoscenza del figlio Andrea che, forse per riconoscenza, era stato nominato nel 1867 comandante delle  guardie  campestri  della  Piana  dei  Colli,  arrivando  a  tal  grado  di  autorità  da  essere  definito  «un  secondo questore»; mentre i suoi fratelli conobbero il domicilio coatto e la prigione come delinquenti pericolosi53. La denuncia di  un  proprietario  spiega  qual  era  il  gioco  delle  parti:  bersagliato  dai  ladri,  aveva  ricevuto  dal  questore  Biundi l’indicazione di rivolgersi ad Andrea Licata, il quale a sua volta l’aveva invitato a mettersi sotto la protezione dei suoi fratelli  «delinquenti».  Un  giudice  testimoniò  che  il  rapporto  privilegiato  tra  il  questore  e  Licata  jr.  consentiva  al secondo di ottenere dal primo ammonizioni e domicilio coatto per i suoi avversari, impunità per il padre e i fratelli54. Un anonimo spiegò che «l’Alta maffia» poteva scegliere a piacimento tra strumenti legali e strumenti illegali: «Con la protezione che tengono, ho che ci fanno ammonire, ho che ci fanno andare in un’Isola [al domicilio coatto], ma più facile ucciderci»55. Su tutto questo non fece chiarezza, il libro di Franchetti. Addebitò gli abusi governativi a una deplorevole tendenza dei  funzionari  ad  adattarsi  ai  codici  culturali  prevalenti  in  loco.  Propose  «rimedi»  che  addirittura  accentuavano l’impostazione  centralistica  della  Destra,  e  un  po’  riflettevano  i  pregiudizi  alla  Fortuzzi:  escludere  i  siciliani dall’amministrazione dell’isola, non tenere in alcun conto gli input provenienti dall’opinione pubblica regionale. Era una proposta sbagliata, e per giunta fuori dal tempo. Proprio nell’anno 1876, impiegato da lui e da Sonnino per fare il viaggio in Sicilia, si consumò il mutamento politico che la rese obsoleta: tra il marzo, quando la Sinistra assunse la guida del governo con Depretis, e il novembre, quando conseguì nell’isola una schiacciante vittoria elettorale. La vacuità di questa parte propositiva rischiò di occultare la forza della parte analitica dell’opera di Franchetti, che chiamava in causa le responsabilità della classe dirigente siciliana. Cito qui la testimonianza del funzionario di polizia

Giuseppe Alongi, che troviamo nel suo libro La maffia, pubblicato nel 1886, cui spetta un posto di rilievo nella nostra bibliografia.  Alongi  racconta  dunque  di  aver  parlato  con  un  pretore  nel  1878,  quando  gli  animi  erano  ancora  sotto l’impressione della «gazzarra in Parlamento e fuori a proposito dei provvedimenti eccezionali di pubblica sicurezza», esponendogli  le  sue  idee  sulla  mafia.  Il  suo  interlocutore  osservò:  mi  stupisco  nel  vedere  un  siciliano  che  la  pensa come Franchetti e Sonnino. Alongi un po’ si offese, e replicò: le mie idee derivano da «conoscenza personale». Quel libro non l’aveva letto, sviato dai critici che lo avevano definito «romanzo fantastico». Comunque dopo la discussione lo fece, rendendosi conto di quanto la critica a Franchetti e Sonnino fosse stata «interessata, sleale, virulenta»56. In effetti il modo in cui Franchetti affrontava la questione del manutengolismo rimandava a un o al punto cruciale di ogni discorso sulla mafia (di allora e di sempre): alle relazioni tra alto e basso della scala sociale, alla dialettica tra quello  che  sta  dentro  e  quello  che  sta  fuori  l’organizzazione.  Anche  nell’immediato,  per  citare  Tajani,  negare l’esistenza della mafia significava «negare il sole». E il dossier restò sul tavolo del nuovo governo insieme a quello del banditismo, che era più immediato e scottante. Tiriamo  le  somme.  Il  quadro  del  governo  della  Destra  che  emerge  dalle  pagine  precedenti  fa  a  pugni  con  la consolidata tradizione interpretativa che lo dipinge come «ottimatizio», rigido nella difesa dell’ordine ma anche della legalità  e  della  pubblica  moralità.  È  invece  chiaro  che  il  partito  moderato,  ostilissimo  all’idea  di  rivoluzione  e  di mobilitazione  popolare,  fece  ricorso  a  ogni  mezzo,  lecito  e  illecito,  nel  tentativo  di  governare  il  frutto  di  un sommovimento  rivoluzionario,  e  in  generale  una  società  ribelle.  Strumentalizzò  l’elemento  criminale  che  in  tale ribellione  esisteva  di  certo,  valendosene  –  per  usare  l’espressione  che  sta  al  centro  di  una  recente  ricerca  storica  di Franco Benigno – per fini di «Alta polizia»: cioè per inscenare complotti da servizi segreti, a fini di provocazione, in modo da creare l’ordine dal e col disordine57. Nel contempo, seguiva la strada delle leggi «eccezionali», definendole necessarie per governare quel popolo così predisposto al sangue e al crimine. L’ho rilevato già nell’introduzione di questo libro. In diverse stagioni lungo centocinquant’anni di storia, i discorsi sulla mafia si sono risolti in criminalizzazioni collettive, para­razziste, che hanno chiamato in causa l’intera società e/o cultura  siciliana.  Hanno  in  questo  modo  messo  benzina  sul  fuoco  dei  sentimenti  sicilianisti,  creando  le  condizioni perché  le  ragioni  delle  persone  perbene  si  sovrapponessero  confusamente  ai  torti  dei  mafiosi,  dei  loro  complici  e protettori. E la logica delle leggi eccezionali ha fatto sì che le proteste regionaliste attingessero ad argomenti che oggi diciamo garantisti. Certo, nella lunga stagione postunitaria, l’intreccio fu più fitto, addirittura indistricabile. 4. Contesti ovvero luoghi. Allontaniamoci a questo punto un momento dal flusso degli avvenimenti per ragionare di contesti ovvero di luoghi. Storicamente,  la  mafia  si  ritrova  nelle  province  della  Sicilia  occidentale,  Palermo,  Trapani,  Agrigento  e Caltanissetta58, e un po’ nella zona di Mistretta (versante occidentale della provincia di Messina). Tutti i paesi e le città  della  zona  producevano  gruppi  propriamente  definibili  come  mafiosi?  Direi  di  no.  Solo  alcuni  (nell’Ottocento come nel Novecento) sono stati ritenuti come tipicamente «di mafia». Vediamo nella figura 1 quelli che saranno più frequentemente citati in questo volume. In questi luoghi c’erano dunque gruppi, cosche, o partiti di mafia, più forti, più influenti che altrove. Certo, non è facile  per  lo  studioso  distinguere  gli  elementi  propriamente  mafiosi  da  (e  in)  quelle  che  Franchetti  chiamava camarille,  ovvero  dalle  o  nelle  fazioni  formate  da  «parenti,  amici  e  aderenti»,  che  assumevano  «il  patrimonio  e  le entrate» dei comuni come «preda», come occasione di arricchimento e potere59. Non è facile riferendosi ai tempi di Franchetti, quando il suffragio era ristretto a pochi notabili. Non è facile riferendosi alla fase successiva alle riforme elettorali del 1882 e del 1892, quando il diritto di voto per le elezioni politiche e amministrative fu allargato a piccoli borghesi e artigiani. Com’è noto, il grande politologo liberal­conservatore Gaetano Mosca (1858­1941) sosteneva che in ogni caso (con qualsiasi legge elettorale) prevalevano «minoranze organizzate». Citiamo la sua teoria perché fu lui stesso ad applicarla alla mafia: «or si comprende agevolmente che nei paesi ove erano già organizzate le minoranze composte  da  coloro  che  usano  rasentare  il  delitto,  e  qualche  volta  delinquono  addirittura,  questi  abbiano  acquistato una importanza elettorale assai superiore alla loro forza numerica»60.

Figura 1. I luoghi di mafia.

Ma è corretto ragionare solo della dimensione municipale? Anche in questo caso la risposta è negativa. La mafia, quale già l’abbiamo vista e quale ancora la vedremo, si articola in centri e in periferie, vive di interconnessioni. Lo abbiamo  sottolineato  sin  dall’introduzione:  consta  di  reti  ovvero  (per  usare  la  forma  inglese  in  uso  nelle  scienze sociali) network, sovra­locali oltre che interclassisti. C’era mafia in aree geograficamente ed economicamente differenti. C’era, per dirla con Alongi, nella zona della montagna, o interna, dedita alla cerealicoltura estensiva e a una povera zootecnia (andrebbe però considerata anche la ben più dinamica economia dello zolfo). C’era nella zona della marina, o costiera, vocata alla coltivazione dell’albero, dinamica  e  commercializzata.  C’era  nella  città  di  Palermo,  nel  suo  hinterland,  e  nei  paesi  circostanti  (Monreale,  ad esempio),  territorio  che  anzi  era  indicato  come  il  «regno  della  mafia»  da  Sonnino  e  non  solo  da  lui.  Il  prefetto Rasponi,  nel  1874,  addirittura  definiva  la  mafia  «malandrinaggio  di  città»  (Palermo),  sia  pure  precisando  che  era collegata da una «rete» al «malandrinaggio di campagna», ovvero al banditismo. Il  riferimento  alla  città  di  Palermo,  e  in  generale  alla  marina,  potrà  stupire  i  tanti  che,  tutt’oggi,  indicano  il latifondo  come  la  causa  della  mafia,  e  di  conseguenza  l’area  interna  come  il  suo  esclusivo  ambiente  d’elezione.  Si tratta di un rovesciamento delle gerarchie indicate dalla gran parte delle fonti del tempo, che però – va detto – riflette

problemi  interpretativi  già  esistenti  al  tempo.  A  molti  osservatori  il  latifondo  appariva  un  arcaismo  «feudale», sembrava  loro  logico  proporlo  come  causa  di  quell’altro  arcaismo,  la  mafia.  In  maniera  speculare,  pochi  erano  in grado di spiegare il rapporto che nell’area costiera, economicamente più progredita, si veniva a creare «tra floridezza commerciale e produzione di delitti»61, tra un’economia (relativamente) moderna e un’endemica infezione mafiosa. Il punto interpretativo va dunque posto con chiarezza. La mafia trae le proprie fortune dalla possibilità di regolare le  relazioni  sociali  ed  economiche  con  la  violenza  o  l’intimidazione.  Soddisfatte  queste  precondizioni,  trova  nello sviluppo economico una chance, non certo un ostacolo. Come esempio di paese «di mafia» della marina, prendiamo Castellammare del Golfo, collocato appunto in una ristretta  fascia  costiera  della  provincia  di  Trapani  finitima  a  quella  di  Palermo.  Castellammare  nell’ultimo  quarto dell’Ottocento  si  sviluppò  grazie  a  una  fiorente  industria  della  pesca,  a  un’agricoltura  relativamente  sviluppata, all’esportazione di vini «da taglio» in Francia. Nel 1911 il paese aveva 17 000 abitanti. Ai suoi criminali nell’ultimo decennio dell’Ottocento furono attribuiti ben 200 omicidi. Il criminologo Cuidera, che su questo argomento scrisse nel 1903 un’interessante monografia, non aveva difficoltà a tirare le somme: la provincia di Trapani stava ai vertici della classifica nazionale nel ramo, eppure a Castellammare – con una popolazione che era un quattordicesimo del totale – veniva perpetrato un quinto di questi reati! Cuidera precisa che il raggio d’azione dei mafiosi castellammaresi andava ben  oltre  la  loro  cittadina  marinara.  «Incutendo  timore,  vessando»,  superavano  i  monti  che  le  facevano  corona, prendevano  in  affitto  aziende  agrarie  al  di  là  di  essi,  assumevano  «quel  carattere  invadente  ed  emigratorio  che  è insieme scuola e minaccia»62. Facevano del loro paese il centro di una rete di scala sub­provinciale comprendente due diversi contesti geografici ed economici: la costa e l’interno. Spostiamoci  nella  regione  montana  delle  Madonie  –  parte  orientale  della  provincia  di  Palermo,  ai  confini  con quella di Messina. Antonino Cutrera, altro poliziotto­criminologo autore nel 1900 di un libro importante, cita un motto popolare, «il brigante nasce a S. Mauro e cresce in Gangi». Si riferiva a San Mauro Castelverde, paese che dall’età postunitaria  produsse  in  serie  banditi  (detti  appunto  maurini),  con  nuove  bande  che  derivavano  dalle  vecchie;  e  a Gangi,  cittadina  non  molto  lontana,  sede  di  un’influente  aristocrazia  provinciale.  Cutrera  spiega  il  significato  del motto: il brigante di San Mauro raggiunge il successo se «trova forti protettori» tra i membri della classe dominante a Gangi,  ovvero  in  un  sistema  di  relazione  sub­provinciale63.  D’altronde,  come  sappiamo,  il  barone  Turrisi  Colonna possedeva terre e aziende agrarie sia nelle Madonie che nell’agro palermitano. Difficile dire quanto nella gestione di quel patrimonio entrassero in contatto gruppi di mafia operanti nell’uno e nell’altro contesto. Un  altro  paese  tipicamente  di  mafia  era  Monreale.  Possiamo  anzi  parlare  di  una  cittadina  non  solo  per  la dimensione  demografica  (al  1872  aveva  16  000  abitanti)  ma  perché  da  secoli  era  un  centro  culturale  e  politico autonomo,  soprattutto  in  quanto  sede  vescovile.  Monreale  si  trova  su  una  collina  che  delimita  da  sud­ovest  l’agro palermitano,  ovvero  il  territorio  agricolo  circostante  l’antica  capitale,  detto  anche,  con  espressione  più  letteraria, Conca d’oro; così come fanno, a sud­est, Misilmeri, e a est, sulla costa, Villabate e Bagheria. La parte del territorio agricolo di Monreale confinante con quello palermitano ne condivideva i caratteri di fondo: vi era cioè molto presente la coltivazione degli agrumi, fortemente intensiva, e irrigua. Di più, era in territorio di Monreale che si trovavano le ricche sorgive a monte destinate a fornire una parte delle acque poi utilizzate a valle in quello palermitano. La  storica  Amelia  Crisantino  si  è  impegnata  a  sciogliere  un’intricata  matassa  interpretativa  indicando  alcune «condizioni  particolari»  che  fecero  di  Monreale  una  capitale  della  mafia.  Scegliamone  tre.  1)  Il  potere dell’arcivescovo venne  svuotato  dalla  nascita  dello  Stato  liberale­unitario  e  dagli eventi del 1866, quando molti dei religiosi  del  luogo  parteciparono  attivamente  all’insurrezione  palermitana,  lo  stesso  vescovo  fu  arrestato  e  la  sede restò a lungo vacante. Monreale rimase una roccaforte del «partito» clericale. 2) Le enormi fonti idriche di proprietà della  Mensa  arcivescovile  passarono  formalmente  sotto  il  controllo  di  istituzioni  pubbliche,  ma  in  sostanza  si trovarono  in  una  situazione  giuridico­amministrativa  incerta;  quelli  che  su  scala  locale  le  gestivano  finirono  per muoversi  in  piena  autonomia,  non  essendo  ben  chiaro  a  chi  dovessero  rispondere.  3)  E  si  sbriciolò  l’enorme patrimonio fondiario dell’Arcivescovato e di altri enti ecclesiastici. Una sua parte era stata già da tempo frazionata e redistribuita  in  concessioni  enfiteutiche,  un’altra  sua  parte  fu  espropriata  in  forza  alle  leggi  postunitarie,  e  ancora concessa in enfiteusi. Le  «condizioni  particolari»  in  effetti  accentuavano  a  Monreale  «condizioni  generali»  che  molto  influirono  nella genesi  e  nel  rafforzamento  della  fenomenologia  mafiosa.  Abbiamo  la  crisi  di  poteri  e  logiche  «antichi»  non adeguatamente  sostituiti  da  poteri  e  logiche  «moderni».  Abbiamo  una  confusa  sovrapposizione  tra  sfera  pubblica  e sfera  privata  che  dà  spazio,  ai  margini  della  legalità,  a  un  ceto  di  mediatori.  Abbiamo  incertezze  nel  regime  di proprietà delle fonti idriche e della stessa terra: gli enfiteuti infatti si sentono proprietari di fatto, ma non lo sono di diritto.  E  abbiamo  un  periodo  di  espansione  economica  che  inasprisce  la  competizione  su  risorse  naturali  limitate (acqua  e  terra).  Ne  derivano  conflitti  violenti,  e  soluzioni  extralegali.  Le  fonti  ci  dicono  di  quanto  sia  facile  per  i proprietari dei terreni «di sopra» usurpare l’acqua che scorre a valle per irrigare i terreni «di sotto», quanto da tutto

questo  risulti  enfatizzato  l’arbitrio  di  chi  dovrebbe  sorvegliare  i  turni  e  i  modi  della  distribuzione  del  prezioso liquido64. E ci dicono ad esempio della «rivoluzione», insomma del contrasto che intorno al 1879 oppone il sindaco del paese, principe Pietro Mirto Seggio, ai «villani» che hanno in concessione 500 salme dell’ex feudo Renda già del monastero dei Benedettini, i quali si rifiutano di pagare i canoni relativi; e della «spaventevole mafia» che ne deriva65. E  spostiamoci  verso  Palermo,  una  delle  più  grandi  città  italiane,  nel  1861  200  000  abitanti,  nel  1911  339  000. L’agro palermitano, oggi inglobato nella città, già allora aveva una caratterizzazione sub­urbana, punteggiato com’era dalle borgate, in cui al 1861 vivevano circa 27 000 persone. Erano sorte già nel corso del Settecento lungo le strade principali,  e  ingrossate  nel  corso  dell’Ottocento  per  la  confluenza  della  forza­lavoro  impegnata  nei  lavori  agricoli, soprattutto quelli legati alla coltivazione degli agrumi; e anche nei magazzini in cui veniva lavorato il prodotto, o nei piccoli opifici per la produzione dei cosiddetti derivati (agro di limone e citrato di calcio). Ci vivevano i lavoratori ma anche  i  possidenti,  almeno  in  certi  periodi  dell’anno.  Vi  sorgevano  fastose  ville  sette­ottocentesche  e,  sul  finire  del secolo, splendidi edifici in stile liberty, come il villino Florio situato nella borgata dell’Olivuzza. Una notazione importante. Gli agrumeti erano in genere di piccola estensione, ma di elevatissimo valore fondiario per ettaro. I loro proprietari in prevalenza (non sempre) appartenevano alle classi medie o alte: fossero membri del ceto civile, come si diceva allora (cioè professionisti, comunque dotati di un titolo di studio), o nobili. C’erano poi gli industriosi,  cioè  gli  imprenditori:  sia  quelli  che  gestivano  l’impresa  agrumicola  sia  quelli  impegnati  nel  commercio degli agrumi. Parliamo infatti di un settore commercializzato, anzi vocato al mercato internazionale66. In questo senso le borgate rappresentavano solo uno dei poli di un’economia che aveva un altro polo ben radicato in città, nella zona del porto con i suoi grandi magazzini, e le sedi delle ditte esportatrici che curavano la spedizione degli agrumi verso i loro  sbocchi  lontani,  situati  nei  paesi  europei  più  sviluppati,  e  ancor  più  (sin  dagli  anni  trenta)  negli  Stati  Uniti. Arrivavano  sin  lì  grazie  a  una  catena  finanziario­commerciale  basata  su  due  fasi.  Nella  prima,  quella  finanziaria, l’input  partiva  da  una  élite  di  operatori  stranieri,  inglesi  o  americani,  i  quali  attraverso  i  loro  corrispondenti palermitani finanziavano una rete degli intermediari locali, che a loro volta finanziavano i produttori. Nella seconda, quella commerciale, il meccanismo funzionava in senso inverso: la merce passava di mano in mano procedendo dal produttore all’intermediario all’esportatore all’importatore al consumatore. Era un meccanismo complesso. Potremmo dirlo barocco. Sulla  mafia  dell’agro  palermitano  o  dei  «giardini»  (termine  che  sta  per  agrumeti),  le  informazioni  forniteci  dai saggi sopra citati e dalle fonti di polizia sostanzialmente convergono. Le cosche gestivano attività illecite (ad esempio il contrabbando, o la fabbricazione di monete false, talora il furto e le rapine), ma soprattutto lecite. Elenchiamole: 1) guardianìa,  ovvero  sorveglianza  degli  impianti  e  dei  frutti  appena  raccolti;  2)  direzione  delle  aziende;  3) intermediazione  commerciale;  4)  forniture  di  acqua.  I  contratti  di  compravendita  lasciavano  spesso  spazio  a controversie tra le parti: e poi non sempre gli accordi venivano rispettati, la merce consegnata nei tempi giusti e nelle condizioni  giuste  (il  frutto  è  deperibile),  e  i  debiti  effettivamente  onorati.  Come  abbiamo  detto,  anche  sulla tempestività e la misura delle erogazioni dell’acqua (essenziali per questa coltivazione tipicamente irrigua) i conflitti erano  sempre  dietro  l’angolo67.  L’idea  era  che  l’accordo  potesse  essere  garantito  dall’appartenenza  a  uno  stesso «partito» dei soggetti impegnati in ciascuna di queste quattro funzioni. Di fatto i gruppi di mafia ricorrevano spesso alla  violenza  omicida:  per  tenere  a  bada  la  criminalità  comune,  per  rispondere  alle  ingerenze  degli  altri  gruppi,  per definire le gerarchie al proprio interno. Gestivano un’economia ricca e i loro capi, come meglio diremo più avanti, erano gente agiata. Diciamo  ora  qualcosa  anche  sull’altra  zona  economica  e  territoriale  della  Sicilia  occidentale,  quella  interna:  era un’economia povera, nella quale predominava la cerealicoltura, malamente accoppiata a una primitiva zootecnia68. In molti casi (non sempre e non dappertutto, però) la proprietà fondiaria restava compatta nelle mani di grandi famiglie, aristocratiche  o  meno,  ragione  per  cui  parliamo  di  latifondi:  quelli  che  il  linguaggio  comune,  memore  della  loro origine storica, indicava come ex feudi o feudi tout court69. Di  norma,  i  latifondi  venivano  dati  in  gabella  (in  affitto),  e  il  più  delle  volte  i  gabellotti  non  li  gestivano  come aziende unitarie. Dividevano i terreni da coltivare in piccole quote, e li sub­concedevano ai contadini, i più agiati dei quali erano detti borgesi. I gabellotti rinnovavano o no le concessioni, a loro piacimento, anno per anno. Fungevano da  intermediari  più  che  da  imprenditori.  E  in  genere  anche  da  usurai,  anticipando  ai  contadini  denaro  a  interessi esorbitanti. Loro e i proprietari non investivano in miglioramenti fondiari. Le strutture aziendali erano limitate a rare masserie, fortificate quasi fossero castelli medievali. Tantomeno c’erano in campagna abitazioni contadine. La gente – fosse  effetto  o  causa  del  sistema  latifondistico  –  viveva  raccolta  in  radi  e  grossi  paesi,  generalmente  costruiti  sulla cima  delle  colline.  Da  lì  sciamava  a  valle  all’alba  per  andare  a  lavorare,  fino  al  tramonto  quando  tornava  a  casa  in paese.  Abbiamo  già  accennato  a  due  paesi  di  latifondo  e  di  mafia  della  provincia  di  Palermo,  Gangi  e  San  Mauro. Parleremo di Corleone e di Piana dei Greci (oggi Piana degli Albanesi). E ragioneremo anche di Villalba, provincia di Caltanissetta.

Il discorso sul sistema latifondistico ci riporta alla relazione tra Palermo e la sua provincia, alla rete che secondo il prefetto Rasponi collegava il malandrinaggio di città a quello di campagna. Franchetti sottolineava il ruolo egemonico svolto  da  Palermo,  «sede  d’importanti  amministrazioni  civili,  giudiziarie  e  militari»,  luogo  di  residenza  di  «molti importanti  proprietari  delle  terre  percorse  e  dominate  dai  briganti»70.  Questo  secondo  aspetto  è  cruciale:  Palermo rappresentava il centro del grande mercato degli affitti dei latifondi, ed era nella capitale ex feudale che si decideva che  migliaia  di  ettari  di  terreni  situati  in  zone  diverse,  anche  lontane  tra  loro,  andassero  concessi  in  affitto  a  certi affittuari, al gruppo ristretto dei grandi gabellotti71. La campagna dell’interno era battuta dai banditi, il che ulteriormente scoraggiava dal soggiornarvi i contadini, o i possidenti che rischiavano di essere sequestrati e di dover pagare esorbitanti riscatti. Innanzitutto per questo motivo i latifondisti  residenti  in  città  si  affidavano  a  quei  gabellotti  che  erano  indicati  anche  dalle  autorità  come  lo  «stato maggiore»  del  manutengolismo,  o  magari  come  l’Alta  mafia.  Erano  quelli  che  potevano  muoversi  a  loro  agio  in quell’ambiente difficile. Il presidio delle masserie, la sorveglianza delle greggi, la riscossione della rendita erano in concreto  affidati  a  campieri  o  «soprastanti».  Già  lo  sappiamo:  costoro  usavano  le  maniere  brusche  contro  i  ladri  di polli, ben più raramente nei confronti dei banditi più agguerriti, con cui più spesso venivano a transazioni amichevoli, offrendo  riparo,  rifornimenti  e  informazioni.  In  cambio  venivano  rispettati,  loro  e  i  loro  datori  di  lavoro.  Accadeva anche che i campieri partecipassero dei profitti delle razzie banditesche: estorsioni, abigeati, rapine. D’altronde erano il  più  delle  volte  pregiudicati,  venivano  essi  stessi  da  un  ambiente  di  banditi.  E  i  gabellotti  dell’Alta  mafia?  Molti pensavano che la ricettazione di merci rubate fosse una componente importante dei loro bilanci72. 1 La relazione, datata 3 agosto, in Pontieri 1945, pp. 222­5. Calà Ulloa era destinato a occupare dopo il 1861 un ruolo da leader nella corrente

legittimista, di capo del governo borbonico in esilio. 2 Relazione del sottintendente di Termini, Antonio Puoti, in Fiume 1984, p. 74. 3 Come fa ad esempio Martucci 1999, pp. 177­8. 4 Recupero 1987a, pp. 46­7. 5 Lupo 2011b. 6 Oddo 2006, pp. 317­9. 7 Si veda ad esempio Niceforo 1898. Paradosso vuole che Niceforo fosse siciliano. 8 Colajanni 1898, pp. 37­8. 9 Alfonso­Spagna 1889, p. 9. 10 Turrisi Colonna 1988, pp. 29­39. 11 Ibid., pp. 43 e 48. 12 Intervistato in Inchiesta Fabrizi, pp. 130 sgg. 13 Documentazione in ASPA, GP, b. 35. 14 Testimonianza in Inchiesta Bonfadini, pp. 462­3. 15 Ibid., p. 2012. 16 Relazione del questore, 28 febbraio 1876, in ASPA, GP, b. 35. 17 Recupero 1987b, p. 313. In questo senso anche Giarrizzo 1993, p. 278. 18 Momento più drammatico: quello in cui sette giovani di origine settentrionale, che avevano lasciato l’esercito per arruolarsi con le camicie rosse, furono fucilati come disertori nei pressi del paese di Fantina (nel Messinese). 19 I siciliani erano i più numerosi in queste liste accanto ai lombardi: Cecchinato 2007, pp. 151 sgg. 20 Riall 2004, pp. 179 sgg. 21 Cfr. l’approfondita lettura della vicenda di Pezzino 1992. 22 La relazione in Alatri 1954, pp. 105 sgg.; Riall 2004, pp. 226 sgg. 23 Maggiorani 1866, p. 6. 24 Secondo la testimonianza dello stesso monsignor D’Acquisto, in Inchiesta Fabrizi, p. 347. 25 In effetti, dopo la proclamazione dello stato d’assedio, furono emanate solo dieci condanne a morte, delle quali otto vennero commutate, e solo due eseguite. Riall 2004, pp. 245­6. 26 Intervistato in Inchiesta Fabrizi, p. 120. 27 La lettera del 7 ottobre 1866 è riportata in appendice a Giuffrida 1966. 28 Le lettere in Puglia 1931, le cit. alle pp. 9 e 13. 29  Noi  rileviamo  che  nel  corso  della  rivolta  furono  pochissimi  i  delitti  comuni,  e  registriamo  il  dato  per  cui  gli  arrestati  erano  in  gran  parte artigiani dalla fedina penale pulita: Riall 2004, pp. 235 sgg. 30 Cit. in Santino 2017, p. 87. 31 Interrogatorio del questore B. Rastelli, in Inchiesta Bonfadini, p. 406. 32 Pezzino 1992.

33 Arringa dell’avvocato Alessandro Paternostro in Processo Amoroso, p. 213. Accenna anche a una precedente militanza di Michele Amoroso

nella guardia nazionale. 34 Testimonianza del duca Colonna di Cesarò, in Inchiesta Bonfadini, p. 522. 35 La documentazione ufficiale in Russo 1964, in particolare p. 8. 36 Ricordo che la provincia di Siracusa era allora comprensiva di quella attuale di Ragusa. 37 Relazione del 31 luglio 1874, in APCD, 1874, Documenti, all. A1, p. 13. 38 Un’autorevole dichiarazione, in «L’amico del popolo», 23 agosto 1874. Spallino 2009­10. 39 APCD, 11 giugno 1875, p. 4114. 40 Si veda tra l’altro l’edizione a cura di P. Pezzino, comprendente anche documenti del 1871: Tajani 1993. 41 Franchetti 1995, p. 190. 42 Ibid., p. 29. 43 Ibid., p. 36. 44 Ibid., p. 195. 45 Ibid., pp. 31­2. 46 Ibid., p. 36. 47 Ibid., p. 34. 48 Di Menza 1878, p. 832. 49 In Inchiesta Fabrizi, p. 29. 50 Interrogato in Inchiesta Bonfadini, pp. 967­8. 51 Relazione del questore al procuratore, 29 settembre 1876, in  ASPA, GQ, b. 7 (1880), con amplissima documentazione. Cfr. anche Di Menza 1878, pp. 221 sgg. e Cutrera 1900, pp. 118 sgg. 52 Coco 2013, p. 14. 53 Inchiesta Bonfadini, p. 406. 54 Intervista in Inchiesta Bonfadini, p. 447. 55 Anonimo in ASPA, GP, 1880, b. 51. 56 Alongi 1977, p. 4. 57 Benigno 2015. 58 Comprendiamovi pure alcune aree appartenenti all’attuale provincia di Enna, creata nel 1926. 59 Franchetti 1993. 60 Mosca 2002, p. 47. 61 Cuidera 1903, pp. 2­5. 62 Ibid., p. 10. 63 Cutrera 1900, p. 91. 64 Crisantino 2000. 65 Anonimo del 22 marzo 1879, in ASPA, GP, b. 16. 66 Lupo 1990b. 67 Ibid. 68 Se non nelle aree in cui c’erano miniere di zolfo, prodotto destinato anch’esso all’esportazione. 69 Tra le tante fonti, cfr. Inchiesta Lorenzoni. 70 Franchetti 1993, p. 128. 71 Mangiameli 2012. 72 Mangiameli 2012.

II. L’accusa e la difesa, 1875­1889

Cominciamo delineando il contesto di metà anni settanta. L’economia siciliana continuava sulla strada degli anni sessanta: trasformazione agricola soprattutto costiera, vivaci flussi di esportazione di zolfi, vini, agrumi. Dal punto di vista politico, l’avvento della Sinistra candidò la classe dirigente isolana a esercitare un peso politico ben maggiore che in passato. Fino al 1896, avrebbe fornito 28 ministri ai governi, contro gli 11 del 1861­76. E il siciliano Crispi fu, nel 1887, il primo meridionale ad assumere la carica di capo del governo. Nella gestione della sicurezza pubblica nella parte occidentale dell’isola, una svolta si materializzò già alla fine del 1876, anno inaugurale del nuovo corso politico, con la nomina a prefetto di Palermo di Antonio Malusardi. Al tempo non esisteva il termine antimafia che (ribadiamo quanto detto in sede introduttiva) va oggi a definire un moto di istituzioni, gruppi politici e società civile, convergenti intorno al nodo della legalità. In ogni caso esso non sarebbe applicabile alle politiche della Destra nel 1875­76, che non prevedevano convergenze di questa natura. Invece Malusardi puntò a sfruttare proprio la nuova sintonia tra centro e periferia, tra istituzioni e classi dirigenti isolane. Nei primi sette mesi del 1877, conseguì successi senza precedenti sul fronte del banditismo. Non per questo si può dire che  l’abbia  distrutto  o  a  maggior  ragione  che  abbia  eliminato  la  mafia  dell’interno,  così  strettamente  intrecciata  ad esso. Ancor più complicato è il discorso per quanto attiene a quella di Palermo e della zona circostante. Su questo versante, noi seguiremo le indagini avviatesi nel 1874­75, intensificatesi appunto con Malusardi, le quali proseguirono anche dopo che lui se ne fu andato, fino alla celebrazione di clamorosi processi, tra la fine del decennio e l’inizio di quello successivo. Utilizzeremo la documentazione conseguente per guardare più da vicino tre gruppi – i due  palermitani  dell’Uditore  e  di  Piazza  Montalto,  quello  di  Monreale  degli  stuppagghieri.  Proveremo  a  capire qualcosa di più degli attori della storia della mafia, e delle loro idee. 1. Operazione Malusardi: manutengoli e banditi. Esageravano i due deputati siciliani che, parlando con il presidente del Senato Domenico Farini, indicavano Turrisi Colonna come il capo della mafia1. Ed è difficile anche pensare quell’uomo colto e aperto al progresso come uno dei capi, mandante o ispiratore di omicidi. Però di certo i mafiosi erano inseriti in reticoli interclassisti che al centro, o al vertice,  avevano  gente  come  lui.  E  immaginiamo  fossero  coinvolti  in  maniera  ben  più  condizionante  di  lui  certi sindaci o capi­partito dei paesi «di mafia», e certi deputati. Tra essi, Raffaele Palizzolo (1843­1918) spicca come il personaggio più rappresentativo della connection politico­mafiosa in età liberale. Palizzolo nacque a Termini Imerese, paese a est di Palermo, da una famiglia agiata, che aveva terre al sole nell’area circostante. Anche lui, come altri protagonisti della nostra vicenda, usufruì della privatizzazione dei beni ecclesiastici: teneva ad esempio in enfiteusi un ex feudo nei dintorni di un altro paese della zona, Caccamo2. Lì e altrove, dovunque avesse proprietà, la sua famiglia era in buone relazioni con i banditi. Parlando con Franchetti nel 1876, fu lui stesso a vantarsene3.  Politicamente,  era  considerato  vicino  al  gruppo  clericale­regionista  palermitano,  e  su  questa  linea  fu eletto al Consiglio provinciale nel 1872. Ma non so quanto le appartenenze partitico­ideologiche siano importanti per inquadrare  personaggi  come  lui.  Forse  ne  capiremo  di  più  guardando  ai  figuri  di  cui  si  contornava  in  campagna elettorale, sui quali abbiamo la testimonianza del delegato di Ps in servizio a Ventimiglia, altro paese della zona: era accompagnato, dice, da «circa 50 individui a cavallo […], tutta gente sedicente civile» (cioè: che non viveva di lavoro manuale),  che  «altro  non  era  che  un  miscuglio  di  maffia,  di  bravi,  e  di  sollecitatori  intriganti  ognun  di  loro»4.  A Ventimiglia Palizzolo prese alloggio presso certo Domenico Nuccio, possidente già imputato di assassinio, e due volte ammonito (più tardi, accusato di sequestro di persona, fuggì a New York). Nuccio era compare del più temuto bandito del tempo, Antonino Leone, nativo appunto di questo paese. A Leone si riferiva l’avvocato Gestivo per dimostrare una sua tesi: persino i banditi (al pari dei mafiosi) venivano dagli strati sociali intermedi, piuttosto che da quelli più poveri della popolazione5. In effetti Leone era figlio di piccolo proprietario. Dopo aver servito nell’esercito garibaldino prima, e in quello regolare poi, organizzò un commercio di tessuti e in seguito si trasferì a Palermo dove mise su una bottega di tabaccaio in società col suo padrino. Fu qui che entrò in contatto con ambienti di pregiudicati. Si diede alla latitanza dopo aver ucciso proprio il padrino suo socio, accortosi che il figlioccio lo derubava.

Nonostante questo misfatto, e i molti che seguirono, la sua popolarità crebbe a Ventimiglia e nei dintorni. Perché? Il bandito stesso fornì una risposta al grande mercante inglese di zolfi James Rose, da lui rapito nel novembre 1876: doveva «mantenere un numero di impiegati maggiore di quello che sta agli stipendi del governo italiano»6. Insomma, redistribuiva i propri profitti, e tanto lo fece che (cito Alongi) nel suo caso «la leggenda plebea» del brigante come «vendicatore  degli  oppressi»  «prese  proporzioni  epiche»,  per  quanto  si  trattasse  di  un  uomo  «brutale,  feroce  coi deboli»,  e  rispettoso  coi  potenti7.  Tra  questi,  c’erano  i  membri  della  famiglia  Guccione,  di  cui  lo  storico  Rosario Mangiameli,  in  un  suo  interessante  studio,  ha  sottolineato  l’importanza.  Nel  loro  paese,  Alia,  controllavano  la  vita politico­amministrativa, ma prendevano in gabella latifondi un po’ in tutta la provincia, e si mantenevano in rapporti con facinorosi e latitanti su questo vasto territorio8. Arrivò  il  prefetto  Malusardi.  Era  ben  consapevole  della  necessità  di  dare  segnali  forti.  Per  quest’aspetto  il momento  culminante  fu  raggiunto  il  30  aprile  del  1877,  con  lo  scioglimento  del  corpo  dei  militi  a  cavallo,  che sappiamo  indiziato  di  manutengolismo:  con  le  diverse  compagnie  (che  erano  state  convocate  per  una  «rivista») circondate da reparti dell’esercito e dei carabinieri, e disarmate. Ben cento dei militi furono inviati al domicilio coatto. Quanto  al  resto  Malusardi  sapeva  (fu  osservato  già  allora)  che  per  avere  successo  non  bisognava  tanto  rincorrere  i banditi nelle «inospitali campagne» ma agire sulla «rete» su cui si sostenevano, ovvero su gente come i Guccione e Palizzolo9.  Il  prefetto  minacciò  quest’ultimo  di  ammonirlo  per  impedirgli  di  candidarsi  per  la  Camera  dei  deputati: una sua elezione, spiegò, sarebbe stata frutto non «della legittima volontà degli elettori», ma «della prepotenza della mafia»10. Sappiamo di altri casi in cui, facendo la faccia dura, Malusardi ottenne la collaborazione di grandi manutengoli, di quelli che le fonti di polizia indicavano come «Alta mafia». E in effetti, nei primi sette mesi del 1877, ottenne risultati senza precedenti: eliminazione di molte bande, uccisione di cinque dei loro capi tra cui, ultimo, Leone (luglio). Poi, già nella primavera del 1878, il prefetto (che era piuttosto anziano) venne messo in pensione. L’opera di Malusardi venne apprezzata dalla gran parte della stampa palermitana, benché non mancassero le voci contrarie e le reazioni anche in sede giudiziaria di qualcuno dei potentati messi sotto pressione, ad esempio del barone Antonino  Li  Destri  di  Gangi,  rampollo  di  una  dinastia  che  vedremo  anche  in  seguito  fortemente  coinvolta  negli intrighi del manutengolismo. Ex post, in saggi scritti rispettivamente nel 1900 e nel 1886, Mosca e Alongi espressero grandi  apprezzamenti.  Il  primo  rilevò  l’elemento  politico,  assumendo  il  consenso  tributato  al  prefetto  dall’opinione pubblica a riprova del fatto che l’isola non era necessariamente ostile a chi volesse «fare pulizia»11. Il secondo citò la statistica criminale, che per i primi anni ottanta rivelava un netto calo dei delitti di sangue12. Però, sugli effetti di medio periodo, segnaliamo quanto Alongi stesso scrisse nel 1904: da quel momento i banditi privilegiarono strategie che noi diremmo di racket, rinunciando ai sequestri di persona, imponendo «una nuova specie di sovraimposta fondiaria», in cambio della quale consentivano a proprietari e gabellotti di «muoversi liberamente in campagna»13. Dunque, il banditismo si ridimensionò ma non scomparve, assumendo come proprio il metodo mafioso. 2. Capi­mafia. Abbiamo ragionato delle diverse varianti di manutengolismo, ovvero dei diversi modi in cui poteva presentarsi la relazione tra alto  e  basso  della  scala  sociale,  della  dialettica  tra  quello  che  stava  fuori  e  quello  che  stava  dentro  il gruppo  criminale  in  senso  stretto.  Franchetti  peraltro,  riferendosi  particolarmente  all’agro  palermitano,  individuava una  gerarchia  sociale  anche  dentro:  definendo  «facinorosi  della  classe  media»  le  persone  «agiate»  che  in  quella «industria del delitto» impersonavano «la parte del capitalista»14. Mosca, quasi venticinque anni dopo, si mostrò un po’  preoccupato  dal  fatto  che  venisse  in  questo  modo  «sporcato»  un  termine  così  importante  nella  simbologia  del liberalismo.  Corresse  Franchetti  in  questa  maniera:  «La  condizione  sociale  dei  membri  più  influenti  delle  cosche  è alquanto superiore a quella della parte più povera della popolazione siciliana, ma raramente accade che essa arrivi al livello della classe media»15. Io  rilevo  che  il  concetto  di  ceto  medio,  di  per  sé  ambiguo  per  come  veniva  usato  nell’Ottocento,  ha  nel  nostro argomento applicazioni piuttosto vaste. I capi­mafia erano in effetti gente che mediava, innanzitutto tra persone «per bene» e criminalità comune, e poi tra città e campagna, tra proprietà e impresa, tra produzione e mercato. Quanto al resto,  proverò  a  sciogliere  il  nodo  interpretativo  riferendomi  a  casi  concreti  di  personaggi  indicati  dalle  fonti  come capi­mafia.  Presenterò  quello  di  Pietro  Di  Liberto,  per  quanto  attiene  agli  stuppagghieri  di  Monreale;  quello  di Salvatore  Amoroso  e  dei  suoi  quattro  fratelli,  per  la  cosca  palermitana  di  Piazza  Montalto;  e  quello  di  Antonino Giammona, per la cosca palermitana dell’Uditore. Cominciamo con Di Liberto, procuratore della Mensa arcivescovile di Monreale, delegato per il controllo delle sue acque16. Parliamo di un proprietario benestante di giardini, uno che, grazie al ruolo istituzionale in cui era collocato,

andava a riempire una casella essenziale nel vuoto di potere verificatosi a Monreale dopo la rivolta del 1866. In quella fase  (lo  abbiamo  rilevato  nel  capitolo  precedente)  la  sede  vescovile  era  vacante,  i  monasteri  venivano  chiusi,  il patrimonio  fondiario  ecclesiastico  veniva  man  mano  incamerato  dallo  Stato  e  redistribuito  in  piccole  quote.  E impazzava la lotta tra i proprietari di giardini «di sopra» e «di sotto» (a monte o a valle), per decidere a chi (in che misura) l’acqua andasse concessa; e a chi andasse negata. Intorno  alla  metà  degli  anni  settanta  Di  Liberto  fu  indicato  in  rapida  successione  come  cittadino  esemplare,  o viceversa  come  capo­mafia,  in  diverse  fasi  e  da  diversi  uomini  anche  delle  istituzioni.  Alternanza  sconcertante  ma caratteristica,  che  ritroveremo  in  altri  casi  e  altre  epoche.  Lui  si  difendeva:  assurdo  accusare  una  persona  della  sua qualità  sociale  di  essere  un  volgare  criminale.  Molti  solidarizzavano  con  lui,  e  un  magistrato  così  sintetizzò  il concetto, che poi era quello generale del liberalismo: «colui che ha molto da perdere, è attaccato all’ordine»17. Nella fattispecie però l’argomento si prestava a essere ribaltato, e lo fu da ben due delegati di pubblica sicurezza, tra quelli che si alternarono a Monreale: «La Mensa vescovile e l’acqua irrigatoria sono e saranno le sorgenti di ricchezza del Di Liberto;  ma  senza  prepotenza,  senza  maffia  e  senza  camorra  quella  sorgente  produrrebbe  poco,  e  la  tanto  vantata ricchezza potrebbe anche sparire se la giustizia avesse qui il suo pieno rigore»18. In paese, stando al comandante delle guardie  campestri,  le  teorie  erano  due.  La  prima:  «Egli  è  amico  di  taluni  affiliati  della  cosiddetta  setta  de’ stuppagghieri, […] e li protegge e li dirige». La seconda: «si tiene amici costoro perché dubita [si preoccupa] di quella setta essendo ricco, ma né li protegge e tanto meno li dirige, ma li accarezza pel proprio utile»19. Come si vede, c’era spazio per molte sfumature interpretative. In questa come in tante altre storie di mafia. In  mancanza  di  prove  precise,  Di  Liberto  non  fu  mai  incriminato,  di  modo  che  a  noi  difettano  gli  elementi  per collocarlo  nella  casella  del  boss,  del  protettore  o  del  manutengolo  più  o  meno  forzato.  Le  fonti  però  qualcosa  ci lasciano  intendere  del  contesto:  col  termine  stuppagghieri  erano  indicati  quelli  che  controllavano  l’acqua  che scendeva «da sopra» (dal monte)20, e in quegli ambienti di sicuro svolgeva un ruolo rilevante Di Liberto. Quanto alle complicità istituzionali, Tajani lo aveva detto, gli stessi funzionari della questura di Palermo lo ribadirono: a Monreale accadeva che la pubblica sicurezza appoggiasse qualcuna delle fazioni mafiose in campo. Anche qui, non è possibile allo storico accertare responsabilità individuali. Non ci fu nemmeno un tentativo di incriminare il delegato di polizia Paolo  Palmeri  di  Nicasio,  nonché  suo  fratello  Giuseppe,  che  secondo  gli  inquirenti  avevano  nel  1872  creato  gli stuppagghieri  subappaltando  loro  (diciamo  così)  l’ordine  pubblico.  Significativo  che  anche  costoro  venissero  dal mondo  delle  classi  medio­alte,  come  indica  la  dichiarazione  (tra  sarcastica  e  altezzosa)  fornita  da  Giuseppe  a  un giornale: «Io non ho bisogno di logorarmi la vita e la coscienza per soddisfare i miei bisogni. Io vivo di rendita e non d’impiego, e per indole, e per educazione, sono sempre stato alieno dal mescolarmi in cose o serie, o triste, o profonde come il racconto del suo appendicista»21. E  veniamo  a  Salvatore  Amoroso  e  ai  suoi  quattro  fratelli,  indicati  come  capi  della  cosca  palermitana  di  Piazza Montalto.  Nati  tra  il  1839  e  il  1857,  «figli  di  proprietari»,  cioè  di  discreta  condizione  sociale  in  partenza,  ci  si presentano come trafficanti e industriosi (imprenditori). Come si ricorderà hanno dietro di sé un’esperienza politica, nella corrente radicale garibaldina e nell’insurrezione del 1866; ma, a cavallo tra anni settanta e ottanta, si schierano al fianco di politici moderati. La banda sostiene ad esempio Palizzolo alle elezioni provinciali, e il notabile favorisce a sua volta almeno un membro della banda, affidandogli il ruolo da guardiano in una sua villa dell’agro palermitano. Allorché gli Amoroso finiscono nel mirino della legge, gli viene richiesto di spiegare il perché. Risponde: Intesi  più  tardi  che  fu  diverse  volte  arrestato  e  processato,  ma  visto  che  tutte  le  volte  la  sezione  d’accusa  lo  rimandò  con sentenza di non far luogo a procedimento, e visto che era sempre munito di porto d’armi, pensai che egli non fosse altro che vittima di qualche persecuzione22.

L’argomento, in verità, è paradossale: è proprio Palizzolo a intervenire, in diversi passaggi della carriera di questo soggetto, per fargli riottenere il porto d’armi o per altri favori. La protezione è sempre reciproca. Qualche particolare rivela lo stile di vita quasi borghese degli Amoroso. Vestono in giacca e cravatta, affidano i lavori  domestici  alla  servitù.  Sappiamo  di  lettere  scritte  da  Salvatore  Amoroso;  abbiamo  testimonianze  stando  alle quali i fratelli si documentano sui giornali. Insomma sanno scrivere e leggere – dato che di per sé li colloca in un ceto sociale intermedio, in un’isola in cui al 1871 è alfabetizzato solo il 15 per cento della popolazione. Però, contrariamente a Di Liberto, gli Amoroso sono mafiosi, diciamo così, militanti. Quattro dei cinque fratelli hanno precedenti penali. È accaduto che due di loro siano stati colti sul fatto per aver partecipato a sparatorie, ma più spesso,  secondo  i  loro  accusatori,  agiscono  in  segreto,  organizzando  agguati,  commissionando  assassinî  o perpetrandone  essi  stessi.  Questi  delitti  hanno  vari  moventi.  Ci  sono  quelli  personali.  Una  servetta  degli  Amoroso viene fatta sparire perché troppo pretende dopo essere stata messa incinta da uno dei fratelli. Un Gaspare Amoroso, cugino  di  Salvatore  e  degli  altri,  viene  con  loro  in  conflitto  per  varie  ragioni  e,  tra  l’altro,  per  aver  disonorato  la

famiglia  facendo  il  servizio  militare  tra  i  carabinieri;  finché  viene  attirato  in  un  agguato  ed  eliminato  per  mano  di Gaetano e Leonardo Amoroso, spalleggiati da vari altri accoliti23. E ci sono i moventi «professionali». Il  questore  Taglieri  così  li  spiega:  il  «sodalizio  criminoso»  è  basato  sulla  guardianìa,  ovvero  sull’offerta  ai proprietari di protezione in regime monopolistico24. E in effetti tra i delitti di cui gli Amoroso & C. vengono accusati ci sono assassinî di ladri, di guardiani indipendenti, e di guardiani appartenenti ad altri gruppi di mafia. La violenza peraltro serve anche a definire i rapporti di forza interni al gruppo di mafia. È il caso del conflitto tra gli Amoroso e l’altro  clan  dei  Badalamenti,  che  in  origine,  spiegano  gli  inquirenti,  facevano  parte  della  stessa  banda,  e  solo  in  un secondo tempo sono entrati in contrasto, a quanto pare per una componenda – cioè per la spartizione di una tangente versata da un sacerdote. Il conflitto prima si sviluppa con una sequenza di reciproci sgarri, e poi di assassinî. Ma  seguiamone  uno,  perpetrato  nel  1878,  quale  viene  descritto  da  Alongi  –  che  stavolta  incontriamo  non  nella veste del criminologo ma proprio dell’investigatore, chiamato in tribunale per ricostruire il delitto. Siamo portati nel fitto intrico dei giardini, protetti da alti muri, da cancelli ben chiusi, da cani feroci ed esseri umani assai più feroci di loro,  circondati  da  un  dedalo  di  stradelle  poderali  tortuose,  detto  il  firriato  –  dal  palermitano  firriare,  cioè  girare. Salvatore  Amoroso  parte  dalla  casa  di  una  sua  «druda»,  alla  «mezz’ora  di  notte»,  armato  di  fucile  a  retrocarica  e revolver, e si inoltra con altri «fidati e audaci soci della maffia» attraversando vari giardini, «scavalcando le mura nei punti più bassi». I membri del commando si muovono a loro agio in quella sorta di spazio extraterritoriale, nel quale rappresentano la legge. Arrivati al giardino custodito da colui che è il loro bersaglio, si impegnano con lui in tre quarti d’ora di «ragionamenti» falsamente amichevoli, e poi lo uccidono25. Veniamo  ora  alla  figura,  a  noi  già  nota,  del  capo­mafia  della  borgata  di  Uditore­Passo  di  Rigano,  Antonino Giammona.  Lo  abbiamo  visto  fare  carriera  a  cavallo  del  1860,  collocandosi  in  un  ruolo  intermedio  tra  quello  del criminale  e  quello  dell’uomo  d’ordine.  In  età  postunitaria  acquistò  (anche  lui!)  immobili  nelle  vendite  di  beni demaniali. Gestiva aziende agrumicole, in cui introdusse anche qualche importante innovazione, legata alla selezione di  frutti  a  maturazione  «tardiva»;  ed  era  titolare  di  un’impresa  pastorizia.  Il  suo  patrimonio  era  calcolato  nel  1875 attorno  alle  150  000  lire.  Quanto  alla  politica,  si  stimava  che  (in  tempo  di  suffragio  ristretto!)  controllasse  una cinquantina di voti nella zona che particolarmente era la sua. Gestivo spiegava l’ostilità prefettizia nei suoi confronti col fatto che si trattava di un capo­elettore della sinistra. Era nemico del Licata, capo­mafia dei Colli che sappiamo molto ben visto dall’autorità, mentre con altri capi­mafia dell’agro palermitano manteneva buone relazioni. Tra i nomi dei maggiorenti del suo gruppo, segnaliamo quello di Francesco Siino, che incontreremo anche più avanti. Un ruolo preminente assunse anche suo figlio Giuseppe Giammona (n. 1851). Una sua figlia, Francesca, si sposò con Gaetano Cinà  (n.  1853),  altro  alto  papavero  della  Piana  dei  Colli.  Si  veda  l’albero  genealogico  alla  pagina  seguente.  Indica un’interconnessione  tra  gruppi,  un  incrocio  di  parentele  che  avrà  grande  peso  nella  storia  successiva  della  mafia palermitana26. Già abbiamo citato a suo tempo, come testimone su (contro) Giammona, un medico nonché possidente della zona, Gaspare  Galati.  Altre  informazioni  importanti  costui  ci  fornisce.  Ci  dice  che  Giammona  «sa  comporre  una  lettera senza  molto  cacografizzare  [sic!]  e  stendere  un  conto»  –  anche  qui,  siamo  su  livelli  ben  superiori  alla  media  della popolazione. Ci informa dello stile «taciturno, gonfio, circospetto» che adotta «per darsi aria di importanza», del fatto che «gode di qualche autorità tra i suoi pari, che adesso gli danno del don, come si usa in quell’isola coi civili». Una domanda  interessante  si  e  ci  pone  Galati:  perché  don  Antonino  Giammona,  per  quanto  sia  divenuto  «fittaiuolo  di ricchi  giardini»,  ed  egli  stesso  «proprietario  danaroso»,  non  si  emancipa  dalla  rete  mafiosa?  Risposta:  «perché  non vuole e forse non può più da quella districarsi»27. La risposta, io credo, potrebbe valere per altri casi analoghi di quel tempo e di tempi successivi. La mafia sostiene ma anche vincola i suoi capi. Il contrasto tra Giammona e Galati si sviluppa a partire dal 1872 mentre prima, a quanto sembra, i due erano in buona relazione. In origine c’è dissidio interno a una famiglia borghese per ragioni di eredità, con una sorellastra che riesce a farsi riconoscere la proprietà di un giardino a scapito del fratellastro, un notaio. Galati, che nella controversia ha  preso  le  parti  della  sorellastra,  ne  riceve  l’incarico  di  occuparsi  dell’azienda,  ma  il  notaio  invoca  l’appoggio  di Giammona28.  La  controversia  si  incentra  ancora,  come  accade  in  tante  storie  di  mafia,  su  un  diritto  di  proprietà debole, e controverso.

Figura 2. La Famiglia Giammona­Cinà.

Fonte: Coco 2013, p. 163.

Galati  si  rifiuta  di  affidare  il  ruolo  di  custode  e  gestore  nell’azienda  ai  «duri»  legati  alla  cosca.  Subisce  furti, ruberie, danneggiamenti. Non gli tocca però la massima sanzione, la morte, che viceversa viene riservata a ben due indipendenti cui assegna la gestione del giardino conteso. Questo è, anche più in generale, lo stile delle organizzazioni mafiose  dell’agro  palermitano:  fanno  pressione  sui  proprietari  recalcitranti  ma  evitando  di  adoperare  la  violenza direttamente  contro  di  loro,  stando  attenti  a  non  suscitare  scandalo  nei  circoli  borghesi.  È  anche  probabile  che  le resistenze siano rare, che la maggioranza dei possidenti sia disponibile a lasciare gli affari nelle mani di chi è in grado di cavarsela in quell’ambiente complicato. Così,  il  confine  tra  estorsione  e  protezione  è  impossibile  da  tracciare  una  volta  per  tutte.  Mosca  dedica  pagine raffinate  alle  ambiguità  del  sistema.  I  mafiosi,  spiega,  molto  impegno  mettono  nell’attivare  un  cerimoniale  pseudo­ amichevole (pseudo­solidaristico) che enfatizzi l’elemento protettivo occultando quello estorsivo. Agiscono cioè «in maniera che la vittima stessa, che in realtà paga un tributo alla cosca, possa lusingarsi che esso sia piuttosto un dono grazioso o l’equivalente di un servizio reso anziché una estorsione carpita colla violenza»29. Si tratta di un gioco delle parti che potremmo definire pirandelliano. E in effetti Pirandello in persona ce ne fornisce una raffinata descrizione in una  sua  novella  del  1910,  La  lega  disciolta,  laddove  un  capo­mafia  benevolmente  si  offre  ai  proprietari  come mediatore per il recupero di bestiame che in realtà è stato rubato dai suoi stessi complici. E Pirandello sottolinea: alla sincerità dell’offerta, «nessuno ci credeva, e nemmeno lui credeva che gli altri ci credessero»30. Magari  è  diverso  il  caso  di  quei  grandi  proprietari  e  grandi  notabili  che  sentono  certi  mafiosi  come  uomini «propri»,  verso  i  quali  i  mafiosi  stessi  mantengono  un’attitudine  deferenziale.  Riferiamoci  ancora  a  Giammona,  il quale fa assassinare due latitanti cui inizialmente aveva dato rifugio, ma che poi si sono impegnati in attività estorsive contro proprietari della zona, tra cui c’è il fratello del deputato Morana. Si tratta di una vera battaglia, in cui il figlio Filippo e il genero Cinà rimangono feriti31.  Ma  a  quanto  sembra  incidenti  di  questo  tipo  non  sono  frequenti.  Il  più delle volte, Giammona dà «rifugio e protezione» nella sua zona ai latitanti senza che ne derivino problemi. Una  considerazione  conclusiva.  In  linea  generale,  difficilmente  gli  storici  della  mafia  possono  appurare  se  le singole  fazioni,  e  a  maggior  ragione  i  singoli  individui,  siano  veramente  gli  artefici  dei  delitti  loro  ascritti.  In  linea particolare,  per  quella  fase  disponiamo  di  testimonianze  rare  e  sospette:  perché  raccolte  o  vagliate  da  istituzioni investigative  inclini  a  ricostruzioni  di  comodo,  e  da  istituzioni  giudiziarie  poco  propense  a  scrupoli  garantisti.  Però credo  di  poter  dire  che  anche  queste  fonti,  come  le  altre  di  cui  ci  varremo  per  periodi  successivi,  ci  consentono  di delineare ambienti, contesti, sistemi e conflitti di potere che nel complesso vanno a formare il fenomeno mafioso. 3. Modello settario.

Ricostruiamo l’andamento di inchieste di polizia e procedimenti giudiziari sviluppatisi tra il 1874 e il 1883. Due dei fratelli Amoroso (Michele ed Emanuele) vennero arrestati nel 1874, ma poi liberati senza grandi danni. Nel 1875, l’attenzione  si  accentrò  su  Giammona,  ma  il  capo­mafia  venne  salvato  dai  suoi  protetti­protettori.  Affidavit  in  suo favore  furono  firmati  dal  deputato  Morana  e  dal  fratello  di  costui,  da  Turrisi  Colonna,  e  da  altri  proprietari  e «negozianti».  Il  solito  Gestivo,  in  una  memoria  difensiva,  dipinse  i  Giammona  padre  e  figlio  (Giuseppe)  come  due perseguitati  per  «la  doppia  e  imperdonabile  colpa  di  vivere  del  proprio  e  di  aver  curato  a  non  farsi  né  rubare  né sopraffare»;  e  sfidò  il  governo  a  portarli  in  tribunale  «senza  distrarli  dai  [loro]  giudici  naturali»32.  Il  questore  e  il prefetto optarono per l’ammonizione (dicembre 1875). Nel  frattempo  il  ministro  dell’Interno  Cantelli  aveva  proposto  di  istruire  un  unico  «processo  per  associazione  di malfattori  […]  come  mezzo  per  ripulire,  se  è  possibile,  con  un  colpo  solo»  le  campagne  intorno  a  Palermo33. Naturalmente, non si riferiva al reato di associazione mafiosa – che, a quei tempi, era molto al di là da venire. Cercava nondimeno di inquadrare nel meccanismo penalistico l’elemento­base della fenomenologia mafiosa: che allora come oggi,  si  colloca  nella  sfera  della  criminalità  organizzata.  Va  segnalato  che  la  cultura  giuridica  liberale  nutriva  nei confronti del reato associativo grandi diffidenze34, per due ragioni tra loro collegate. La prima era politica: temeva che gli apparati repressivi se ne valessero per criminalizzare le forze di opposizione. La seconda era più specificamente giuridica:  prevedeva  la  polizia  l’avrebbe  usato  per  «incastrare»  i  (presunti)  criminali  risparmiandosi  di  trovare  le prove  dei  loro  delitti,  bypassando  il  principio­base  del  diritto  per  cui  la  responsabilità  penale  è  individuale.  La diffidenza  si  giustificava  sotto  il  primo  profilo  e  anche  sotto  il  secondo,  in  un  paese  in  cui  i  diritti  politici  dei movimenti di opposizione e quelli civili degli individui erano così malamente tutelati. In questa situazione, non era facile liberarsi «con un colpo solo» della mafia. Bisognava tra l’altro capire quanto fosse  corretto  usare  il  singolare,  la  mafia,  quanto  il  termine  andasse  declinato  al  plurale,  le  mafie.  Troviamo  (ad esempio) entrambe le sfumature interpretative in vari rapporti di polizia: «nessuno in buona fede dubita dell’esistenza di  relazioni»  tra  le  cosche,  però  è  vero  che  «ogni  paese  ha  la  sua  mafia  locale»35.  Fu  anche  per  uscire  da  questa difficoltà  che  gli  inquirenti  cominciarono  a  prestare  maggiore  attenzione  a  quanto  i  loro  informatori  riferivano  sui rituali mafiosi. Ho già detto all’inizio del capitolo precedente che il primo rapporto di polizia a descrivere un giuramento di mafia, analogo se non identico a quelli attuali, è datato febbraio 1876, e riguarda proprio la cosca dell’Uditore. Poco dopo, un Salvatore  D’Amico  di  Bagheria,  condannato  per  omicidio  e  detenuto  nel  carcere  palermitano,  si  rese  disponibile  a testimoniare  di  essere  stato  affiliato,  appunto  in  carcere,  secondo  un  analogo  rituale.  Le  sue  rivelazioni  furono utilizzate  nell’indagine  contro  gli  stuppagghieri  di  Monreale,  ma  non  riguardavano  solo  loro:  infatti  D’Amico sosteneva  che  alla  cerimonia  della  sua  affiliazione  avevano  partecipato  anche  «rappresentanti  emeriti  del malandrinaggio di Bagheria, San Giuseppe, San Lorenzo, Altarello, Misilmeri, Borgetto»36. Nelle  indagini  del  1875­76  ebbe  un  gran  ruolo  l’ispettore  Ermanno  Sangiorgi  (1840­1908),  preposto  al mandamento palermitano di pubblica sicurezza di Castel Molo, con giurisdizione su Piana dei Colli, Passo di Rigano e Uditore. Il cuore della mafia, per come l’abbiamo descritto. Dopo aver preso possesso della carica, non poté trattenersi dal criticare, scrivendo ai suoi superiori, il sistema usato dai suoi predecessori. «In occasione degli assassinii», e di altri  reati,  gli  inquirenti  si  rivolgevano  «ai  più  famigerati»  capi­mafia  (citava  Giammona  tra  gli  altri)  «per  avere confidenziali informazioni sui colpevoli». Lo facevano magari in buona fede. Ma raramente venivano messi davvero sulla strada giusta, e il risultato complessivo era catastrofico: «il sacrificio di povere ed oneste famiglie, la impunità dei rei, lo sconforto, la sfiducia generale». Bisognava cambiare registro: rompere i circuiti fiduciari tra Stato e mafia, revocare i permessi per porto d’armi, sottoporre i capi all’ammonizione e al domicilio coatto37. In effetti il periodo in cui Sangiorgi fu alla guida dell’ufficio coincise con l’avvio delle indagini, non con la loro conclusione,  visto  che  già  nell’estate  del  1876  venne  trasferito.  Dovette  in  quella  fase  replicare  ad  accuse  su  sue presunte relazioni con certi mafiosi. Si trattava, sembra, di montature; erano i rischi del mestiere. In effetti contro di lui  non  ci  furono  né  procedimenti  giudiziari  né  provvedimenti  disciplinari.  Nel  frattempo  tornò  in  prima  fila  ad Agrigento, nell’inchiesta sulla cosiddetta Fratellanza di Favara, che avrebbe dato luogo a un importante processo nel 1884­8538.  Si  trattava,  anche  qui,  di  un  gruppo  di  mafia  che  si  ispirava  a  modelli  settari,  praticava  un  rituale, richiedeva giuramenti analoghi a quelli praticati nel Palermitano. Per spiegare la riproduzione di questo modello in diversi territori, Alongi si riferì a certi racconti, sia pure di «tono leggendario», che partivano dalla rivolta palermitana del 1866: stando ad essi, «una specie di missionari» si sarebbero allora messi in marcia appunto da Palermo «facendo proseliti per una causa che, camuffata a religiosa e politica, sotto le finte cioè di far trionfare la religione ed abbattere il governo usurpatore e scomunicato, metteva capo realmente al delitto»39. Missionari a parte, mi sembrano interessanti questi riferimenti a fattori (camuffati da) religiosi e politici. Ho citato a suo tempo una storiografia che riconduce il rituale mafioso a modelli para­massonici risorgimentali. Tale rinvio pare conciliabile con quello al cattolicesimo popolare. Il termine fratellanza è in uso sia nell’una che nell’altra

sfera, e il rituale mafioso, facendo ricorso a immagini sacre, sincretisticamente attinge un po’ dall’una un po’ dall’altra delle due tradizioni, usandole per solennizzare l’appartenenza e motivare gli affiliati. Questo  dei  rapporti  tra  mafia  e  cattolicesimo  è  argomento  che  ci  colloca  a  cavallo  tra  passato  remoto  e  passato prossimo.  Alongi  aveva  certo  ben  presente  la  vicenda  di  Monreale,  luogo  insieme  di  clericalismo  e  di  mafia,  e  in particolare  lo  stretto  contatto  tra  gli  stuppagghieri  e  la  locale  amministrazione  vescovile.  E  quest’ultima,  anche  in tempi molto recenti, è rimasta sede di gravi inquinamenti mafiosi. Nel dialetto siciliano, il termine «cristiano» sta per essere umano, a riprova di una identificazione che si pone come indiscutibile. Noi segnaliamo che nell’anno 1877 la sottoprefettura  di  Termini,  per  l’area  di  sua  competenza,  catalogava  ben  otto  sacerdoti  in  una  lista  di  mafiosi  di «seconda categoria», che comprendeva un totale di 206 individui40. Anche in tempi molto recenti, non sono stati rari i casi  di  preti  e  frati  pesantemente  collusi.  Tutt’oggi  i  mafiosi  si  dipingono  come  bravi  cattolici  e  magari  si  sentono anche tali; almeno sino a ieri, molti sacerdoti e la stessa gerarchia cattolica non avevano difficoltà ad accoglierli nella comunità41. Sempre Alongi si richiamava alle confraternite cattoliche come luoghi di organizzazione mafiosa. In generale, per antica  tradizione,  le  confraternite  nobiliari  o  popolari  avevano  un  grande  ruolo  nello  strutturare  partiti  e  fazioni impegnati nella lotta per il potere nei paesi e nelle città siciliane. Noi in effetti sappiamo che Giammona, nella sua borgata di Uditore, presiedeva un’associazione laicale cattolica, i «terziari di S. Francesco» presso la chiesa «degli ex­ liguorini», di cui i suoi parenti e accoliti facevano parte42. Per andare ancora all’oggi. Molte associazioni del laicato cattolico,  ad  esempio  quelle  addette  alla  gestione  delle  feste  dei  santi  patroni,  rappresentano  luoghi  prediletti  di radicamento di gruppi mafiosi in cerca di legittimazione sociale e di occasioni di potere. Ma  torniamo  alle  indagini  del  1876  sulla  mafia  del  Palermitano.  Gli  uomini  delle  istituzioni  si  posizionarono diversamente gli uni dagli altri. Il questore arguì dalla diffusione di analoghi moduli settari che si trattava di un’unica organizzazione, forte di «150 soci», articolata in «capi», «sottocapi», «gregari», con un «Consiglio direttivo eletto a norma  di  uno  Statuto»,  «sezioni»;  che  faceva  centro  a  Monreale,  ma  con  ramificazioni  nei  comuni  vicini,  fino  a Bagheria.  La  prefettura,  con  Malusardi,  assunse  una  linea  più  prudente.  Ipotizzò  comunque  che  tra  le  «segrete associazioni»  ci  fosse  non  solo  «identicità  di  abitudini»  (una  stessa  prassi)  ma  «reale  corrispondenza» (coordinamento),  richiamandosi  proprio  alle  comunanze  di  regole  e  rituali43.  La  magistratura  tirò  il  freno.  Il procuratore del re affermò che i gruppi di mafia andavano processati singolarmente, uno per ogni paese: la «sopposta federazione», disse, non era provata, né poteva essere dedotta «dalla identicità del fine e del rito»44. Alla fine passò la sua linea. La  polizia  attribuì  agli  stuppagghieri  di  Monreale  persino  un’ideologia  politica  –  che  ovviamente  era  quella internazionalista,  eversiva  per  definizione45.  Voleva  fornire  un  segnale  di  allarme,  e  invece  aggiungeva  un  tocco ulteriore  di  inverisimiglianza  a  un  quadro  investigativo  già  piuttosto  zoppicante.  Il  sospetto  che  il  supertestimone D’Amico  forse  manovrato  dall’autorità  fu  solo  in  parte  contraddetto  dal  suo  assassinio,  perpetrato  poco  prima dell’inizio  del  processo.  Confermò  invece  le  incongruenze  dell’accusa  il  fatto  (cui  già  ci  siamo  riferiti)  che  né  il presunto  capo  della  setta,  Di  Liberto,  né  i  suoi  presunti  ispiratori  originari,  i  fratelli  Palmeri,  vennero  incriminati. Soltanto  una  ventina,  dei  150  di  cui  si  era  parlato,  finirono  sotto  processo,  a  Palermo  nel  1878.  Sei  furono  assolti, dodici condannati a 5­6 anni per l’associazione, due all’ergastolo per omicidio. Se non che, la sentenza fu annullata per vizio di forma e un nuovo processo fu celebrato, per legittima suspicione, a Catanzaro  nel  1880.  Qui  l’accusa  si  trovò  subito  in  difficoltà.  Le  ricostruzioni  dei  funzionari  di  polizia  su  società segrete e tenebrosi rituali vennero ridicolizzate. Il collegio di difesa evocò torbidi intrighi polizieschi del passato, citò Tajani, ricordò lo spirito persecutorio delle leggi speciali. Le facili equazioni tra i complotti degli internazionalisti e quelli dei mafiosi resero le accuse ancor meno credibili. E i giurati restarono perplessi vedendo alla sbarra non rozzi banditi,  come  si  sarebbero  aspettati,  ma  persone  ben  vestite,  di  condizione  quasi  borghese.  Arrivò  una  generale assoluzione. Uno degli avvocati, che era anche un politico di vaglia, il deputato crispino Antonio Marinuzzi, celebrò il verdetto di assoluzione tornando sul registro regionalista: come un’«altra severa meritata lezione a chi, figlio od ospite [della] nostra cara Sicilia, impunemente la deprime e sconosce»46. Nel frattempo, nel 1878, era intervenuto un fatto nuovo. Certo Rosario La Mantia di Monreale, pregiudicato per rapina,  raccontò  di  essere  stato  in  contatto,  nella  lontana  New  Orleans,  con  Salvatore  Marino,  l’unico  tra  gli stuppagghieri  incriminati  ad  essere  rimasto  latitante;  di  aver  preso  certe  sue  lettere  dopo  che  era  morto  (per  cause naturali), e di averle portate in Europa per consegnarle alla polizia. Siamo davanti al primo intrigo intercontinentale, tra  i  molti  in  cui  ci  incontreremo  in  questo  libro.  Le  lettere  nulla  provavano  sull’esistenza  della  supposta organizzazione  piramidale,  ma  attestavano  l’esistenza  di  relazioni  compromettenti  tra  gli  esponenti  delle  mafie  di Monreale,  Uditore  e  Piazza  Montalto47.  Di  seguito  La  Mantia  scomparve  –  misteriosamente  com’era  comparso  –

tornando  in  America,  lasciandosi  dietro  molti  dubbi,  i  miei  tra  gli  altri,  sulla  genuinità  del  suo  operato  e  delle  sue informazioni. La  Mantia  non  testimoniò  nel  processo  Amoroso  (1883),  nel  quale  però  le  lettere  assunsero  un  ruolo  molto importante. E l’accusa poté valersi di uno dei membri della banda, che si era risolto a collaborare. Il presidente del tribunale,  evidentemente  valutando  le  cause  del  fallimento  del  processo  agli  stuppagghieri,  sottolineò  come l’associazione  di  cui  si  trattava  non  fosse  di  tipo  politico,  «come  qualcuno  potrebbe  credere».  Il  questore  Taglieri confermò,  dando  la  spiegazione  di  cui  già  abbiamo  detto:  l’associazione  tendeva  al  monopolio  della  guardianìa. Quando i difensori contestarono alla polizia le solite illegalità, il questore sentenziò «rei publicae salus suprema lex esto»48,  insomma  il  fine  giustifica  i  mezzi.  I  magistrati  lo  lasciarono  dire.  Alla  fine  l’impianto  accusatorio  venne confermato.  Gli  imputati  furono  ritenuti  colpevoli  di  associazione,  e  si  ebbero  ben  dodici  condanne  a  morte  per omicidio. 4. Uno sguardo nel profondo: avvocati ed etnologi. Il  processo  Amoroso  propone  uno  schema  tipico  dei  processi  di  mafia.  Nel  corso  del  dibattimento,  vengono chiamati  dall’accusa  funzionari  di  polizia,  i  quali  attestano  che  gli  imputati  sono  per  «voce  pubblica»  mafiosi.  La difesa invece cita a discarico gente comune, la quale assicura che gli imputati godono di «buona fama». Dicono questi testimoni: mai si è saputo che siano criminali, si tratta di persone perbene, tant’è che la questura ha sempre concesso loro il porto d’armi. C’è come la sensazione visiva della contrapposizione tra lo Stato e una società tutta schierata a sostegno dei mafiosi. Però in sostanza si tratta di una strategia difensiva, che mobilita amici, sodali, clienti e protettori (tra gli altri, come si è detto, Palizzolo) proprio per dare quest’impressione. Teniamo conto dunque anche dei parenti delle vittime, che viceversa spesso non sono omertosi ma urlano la propria rabbia contro gli assassini, e invocano la giustizia. Citiamo una madre: «prego i signori giurati di farmi giustizia, altrimenti sarebbe ingiustizia»49. Gli imputati dicono che le accuse sono solo calunnie, che si tratta di un «composto» (una montatura) della questura e delle sue spie. La questura è in effetti poco credibile, ma loro lo sono ancor meno. Il contenzioso con i Badalamenti risalta in una quantità di episodi, eppure lo negano del tutto. Emanuele Amoroso, interrogato sui suoi odî «di partito», afferma: «Il mio partito sono mia moglie e i miei figli». A un imputato viene domandato dei suoi amici. Ribatte: «Io sono  amico  soltanto  di  mia  moglie  e  dei  miei  figlioli  […],  fuori  non  conosco  nessuno».  A  un  altro  è  chiesto  se appartenga alla mafia. Risponde: «Non so che significa»50. Quasi novant’anni più tardi il sociologo Herman Hess, in un libro importante, ha sostenuto che gli imputati erano sinceri, che non sapevano effettivamente cosa la mafia fosse51. Ha spiegato: gli Amoroso e i loro adepti ammazzavano per cause di famiglia e di onore, mentre quella parola, mafia, derivava da un’idea di legalità statale a loro estranea. Io invece  penso  che  sapessero  perfettamente  di  cosa  li  si  accusava.  Hess  ha  interpretato  una  fonte  tremendamente intenzionale qual è quella giudiziaria come se essa potesse rispecchiare la cultura «dei siciliani», non venendogli in mente che quei siciliani potessero dire, o non dire, a seconda delle convenienze: in una circostanza e in un luogo dove erano impegnati in una lotta per la vita e per la morte, tant’è che molti di loro vennero alla fine condannati a morte. Prendiamo  il  momento  in  cui  uno  zio  degli  imputati  testimonia  su  circostanze  che  indicano  i  suoi  nipoti  come responsabili dell’assassinio di suo figlio (loro cugino, dunque). Uno dei nipoti, Emanuele Amoroso, accusa lo zio di mentire, sfidandolo a confermare le sue accuse con un giuramento sull’anima del padre (ascendente comune di tutti loro).  Il  presidente,  perplesso,  osserva:  «Qui  non  vi  è  che  un  solo  giuramento,  quello  previsto  dalla  legge»,  ma  un difensore (il deputato Marinuzzi, a noi già noto) insiste: «quello non va per il caso […] perché il volgo non vi crede», finché  alla  fine  il  teste  giura  come  richiesto  dalla  difesa52.  Per  Hess  questa  sarebbe  la  riprova  della  distanza  socio­ culturale che separa lo Stato dai siciliani, della «lacuna tra socialità e morale statale» che genera il comportamento mafioso53. Io sospetto invece si tratti di una messa in scena di Marinuzzi, ancora tendente a porre in primo piano i legami di sangue, quelli che secondo i codici culturali propri dell’ambiente degli Amoroso avrebbero dovuto impedire allo zio di accusare il nipote. Un’osservazione è a questo punto necessaria. I difensori dipingono gli Amoroso come uomini d’onore, sia pure a loro modo, ma i delitti per cui costoro sono sotto processo non somigliano per nulla a duelli ad armi pari come quello della Cavalleria rusticana tra compare Alfio e compare Turiddu; e mi riferisco al racconto di Verga del 1880, e anche all’opera di Mascagni del 1890. Gli atti parlano di agguati, fucilate alla schiera, esecuzioni collettive, stupri e assassinî di  donne,  oltre  che  di  uccisioni  di  stretti  congiunti.  Episodio­clou:  la  maledizione  contro  i  nemici  che  uccidono  «a tradimento»,  scagliata  in  punto  di  morte  da  uno  dei  Badalamenti,  colpito  appunto  a  tradimento  dai  sicari  degli Amoroso  mentre  corre  a  cercare  una  levatrice  per  la  moglie  che  sta  partorendo.  Mentre  cerca  di  adempiere  ai  suoi doveri  di  capofamiglia.  Ed  è  partendo  da  qui  che  Emanuele  Scalici  nel  1885  intitolò  sarcasticamente  Cavalleria  di

Piazza Montalto un romanzo ispirato alle cronache del processo. Insomma, abbiamo un mafioso (sia pure «perdente») e un romanziere (sia pure di fama modesta) che si mostrano in grado di cogliere il drammatico scarto tra l’ideologia e i fatti rilevabile in questa come in qualsiasi storia di mafia. L’evidenza di questi fatti fece sì che alla fine il processo si risolvesse in un successo dell’accusa. La difesa perse la sua battaglia ma segnò dei punti che furono importanti, se non per l’esito di quel processo per quello di altri, e per il dibattito  sulla  mafia  più  in  generale.  Definì  l’accusa  di  associazione  un  «quid  misterioso»,  una  «coda  posticcia» appiccicata  dai  poliziotti  per  aggravare  la  posizione  dei  loro  assistiti.  Fece  sì  che  giuramenti  e  tenebrosi  rituali restassero  fuori  dal  dibattimento.  Ridusse  i  gruppi  di  mafia  a  clan  familiari.  E  ricondusse  i  loro  misfatti  alla  logica della faida, non a quella del complotto criminale. Da qui la domanda retorica di Marinuzzi: «dov’è l’organizzazione, dove lo scopo comune, quando una famiglia essendo in odio con un’altra ne cerca la distruzione?». Nell’arringa di un altro difensore, la domanda assunse una forma riscontrabile in tanti altri processi di mafia nei cento anni seguenti: Che importa a noi gente dabbene se gli Amoroso e i Badalamenti si scannano tra loro? Che importa […] se due partiti avversi in una contrada si contendono il primato? […] Se fossero danneggiate le proprietà e le persone allora sarebbe l’interesse nostro in  gioco,  sarebbero  in  pericolo  i  nostri  beni  e  i  nostri  cari  congiunti,  tutti  sarebbero  soggetti  alla  carabina  e  al  pugnale dell’assassino. Ma invece uccisi e uccisori della sezione Orto Botanico erano tutti briganti, si uccidevano tra di loro54.

Il  senso  dell’argomento  è  chiaro.  L’avvocato,  battendo  sul  tasto  del  familismo  e  del  tradizionalismo,  prova  a stabilire un ponte tra la cultura dei borghesi­giurati e quella dei facinorosi­imputati. Nel contempo rassicura i primi sulle  distanze  che  pur  sempre  li  separano  dai  secondi.  Dice:  la  faida  fa  parte  della  cultura  popolare,  dunque  chi  vi partecipa, non essendo un criminale, deve godere di una qualche tolleranza da parte della società civile, e anche dello Stato. Altrimenti non si capirebbe il perché la questura si sia resa protagonista di «transazioni, non certo onorevoli, con coloro i quali un giorno innanzi e un giorno dopo ha essa giudicato pericolosi malfattori». Il riferimento è a un episodio avvenuto nel 1880, quando il questore aveva convocato gli Amoroso e i Badalamenti, provando a conciliarli, facendo loro sottoscrivere un atto di pacificazione55. Il  gesto  era  stato  certo  paradossale,  visto  che  al  1880  le  indagini  contro  le  mafie  del  Palermitano,  ivi  compresa quella di Piazza Montalto, erano già ben avviate. Io preciserei il significato dell’apparente paradosso in questo modo: gli  apparati  statali  supportano  una  mafia  d’ordine  che  assicuri  la  protezione  di  importanti  attività  economiche, limitandosi  a  punire  qualche  ladro  di  polli,  e  cercano  di  evitare  che  tutto  sia  sciupato  da  eccessi  di  interna conflittualità. Oltre un certo limite, non va bene che si ammazzino tra loro. Le argomentazioni degli avvocati sulla mafia come familismo, tradizionalismo, faida, senso dell’onore, ci portano dritto  dritto  nel  campo  dell’etnologia.  Ci  portano  a  Giuseppe  Pitrè  (1841­1916),  medico  di  professione,  «demo­ psicologo» per passione e per vocazione, folklorista di statura europea. Così si presentava nel primo dei suoi quattro volumi su Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, pubblicato nel 1889: «Palermitano e medico, io ho  sempre  avuto  occasione  di  vedere  e  sentire  cose  che  non  tutti  vedono  e  sentono,  perché  non  tutti  si  è  disposti  a scendere nei più bassi fondi della società»56. Aveva rilevanti interessi politici: garibaldino nel 1860­61, poi collocatosi nella  linea  neo­moderata  di  Crispi,  sedette  nel  consiglio  comunale  della  città.  È  tenendo  conto  di  entrambe  le dimensioni,  l’intellettuale  e  la  politica,  che  vanno  lette  le  sue  poche  pagine  dedicate  alla  mafia  a  pochi  anni  dal processo Amoroso, appunto nell’89. La sua idea, qui come in tanti altri luoghi­chiave della sua opera, è di dar voce alla Sicilia profonda, di collocarla al meglio nell’Italia risorta a nuova vita nel 1861; nella fattispecie, di difendere i siciliani da uno stigma collettivo inteso a costringerli ai margini della vita della nazione. Seguiamo dunque questo testo. La parola mafia, dice Pitrè, è stata usata in età postunitaria, da parte di funzionari pubblici, giornalisti e «pubblicisti d’occasione», magari continentali, quale «sinonimo di brigantaggio, di camorra, di malandrinaggio,  senza  essere  nessuna  delle  tre  cose».  Ne  è  risultata  una  tale  confusione  concettuale  da  rendere  il termine  addirittura  privo  di  significato.  Come  fare  chiarezza?  L’autore  risponde:  tornando  all’uso  originario  del termine,  quello  che  «nel  primo  sessantennio  del  secolo»  era  diffuso  nel  quartiere  popolare  palermitano  del  Borgo, indicando  «bellezza»  o  comunque  qualità  positive  dei  caratteri  umani.  Un’operazione  analoga,  anzi  più  radicale,  fa sulla parola omertà, affermando seccamente: «non significa umiltà, come potrebbe parere a prima vista, ma omineità, qualità  di  essere  omu».  Insomma,  virilità.  L’uomo  vero,  «cioè  serio,  sodo,  forte»,  secondo  i  codici  di  una  cultura popolare  antica,  non  può  rivolgersi  alla  legge  dello  Stato,  deve  farsi  giustizia  da  solo.  Dunque  la  mafia­omertà rappresenta «l’esagerato concetto della forza individuale» tipico di certi popolani, e «qualche cosa di più: coscienza d’essere  uomo,  sicurtà  d’animo  e,  in  eccesso  di  questa,  baldanza,  non  mai  braveria  in  cattivo  senso,  non  mai arroganza,  non  mai  tracotanza»57.  Senso  dell’onore,  insomma.  Di  certo  «non  è  setta  né  associazione,  non  ha regolamenti né statuti», se non quelli appunto della cultura popolare. Un commento si impone. Pitrè non forniva alcun elemento documentario per giustificare la sua tesi che le parole mafia e omertà fossero state usate in senso positivo nel passato. Quanto alla prima, i dizionari dialettali del tempo (a

cominciare  da  quello  del  Traina  del  1868)  ne  escludevano  l’uso  in  Sicilia  prima  del  1860.  Quanto  alla  seconda,  la variante  umiltà  era  stata  utilizzata  da  Turrisi  Colonna  nel  1864,  e  ancora  lo  fu  nel  1886  da  Alongi,  cui  per  giunta dobbiamo  il  chiarimento  del  meccanismo  tipico  del  dialetto  siciliano  (io  direi  palermitano)  per  cui  la  parola  aveva assunto la forma «omertà»58. E veniamo al concetto di setta. Proprio di questo aveva ragionato Turrisi, di una setta fornita di «regolamenti e statuti», che seguiva cioè proprie rigide regole. Parlando con Franchetti, aveva confermato il concetto nel 1876 anche Gestivo, un altro che conosceva a fondo quegli ambienti. Turrisi, Gestivo e Alongi non erano certo «pubblicisti d’occasione» settentrionali, ignari della cultura isolana. Era gente competente, e nativa dei luoghi. E lo era anche il marchese di Rudinì, che nel 1876, un po’ come Pitrè, aveva definito la mafia una «specie di spirito di braveria» popolare, che poteva apparire «simpatica» e «benigna»59; ma che, contrariamente  a  lui,  si  era  ben  guardato  dal  negare  che  a  quella  cultura  si  ispirassero  pericolose  organizzazioni criminali.  E  soprattutto  Pitrè  passava  disinvoltamente  sopra  la  questione­base  della  discussione  pregressa,  il manutengolismo.  Contrariamente  al  toscano  Franchetti,  e  anche  a  molti  dei  siciliani  che  abbiamo  nelle  pagine precedenti  citato,  salvava  da  ogni  responsabilità  la  classe  dirigente.  Questa  censura  permetteva  al  medico  fattosi etnologo di concentrarsi con affettuoso paternalismo sul suo buon popolo tradizionale, e sullo specifico dei suoi codici onorifici:  mostrandocelo  affetto  forse  da  «eccessiva»  baldanza,  ma  pur  sempre  non  riducibile  a  una  marmaglia criminale. Abbiamo  sino  a  questo  punto  evidenziato  il  carattere  apologetico  e  le  finalità  strumentali  agli  argomenti  di Marinuzzi e di Pitrè, dell’avvocato e dell’etnologo. Dobbiamo però nel contempo riconoscere che essi ci avvicinano alla soggettività dei mafiosi più degli altri che abbiamo registrato nelle pagine precedenti di questo libro. Ci portano in luoghi profondi dei quali altrimenti non potremmo avere cognizione. Ci permettono almeno di porci la domanda: cosa pensava quella gente? Dico non i protettori, che in qualche modo sono riusciti a fare arrivare la loro voce sino a noi, ma  proprio  loro,  i  mafiosi.  In  particolare,  dal  processo  Amoroso  abbiamo  tratto  elementi  di  discussione  sulla coincidenza, o meno, delle solidarietà di mafia con quelle familiari: della famiglia nucleare (genitori e figli, fratelli), di quella più o meno allargata (a zii e cugini). Gli avvocati, conoscendo il loro mestiere, sanno che debbono collocare i loro clienti in quel quadro, l’unico che per i giudici e la giuria possa risultare credibile. E veniamo allo spirito di omertà nel senso di Pitrè. Per mostrare di cosa si tratti l’etnologo seleziona tre canzoni popolari o, diremmo oggi, «della mala». Prima canzone. «Cu la Giustizia nun cc’è jocu e spassu: pochi paroli e ccu l’occhiuzzi a terra». Testo che traduco così, un po’ a senso. Con la giustizia c’è poco da scherzare: limitati a poche parole  e  tieni  gli  occhi  in  terra.  Seconda  canzone.  «L’ommini  ’un  sunnu  ccà,  manco  ’n  campagna/  sunnu  ’ntra  li ddamusi sutta terra/ Quannu cu la Giustizia si parra/ Cu li mani liati e l’occhi ’n terra». Traduco anche qui, nello stesso stile. I veri uomini non si vedono qui, e neanche in campagna. Si vedono in carcere, sottoterra, quando parlano con la Giustizia, le mani legate e gli occhi in terra. «Lu judici mi dissi: – figghiu parra/ Chista ’un è chiavi chi si grapi e  serra  –/  L’omu  chi  parra  assai  nenti  guadagna/  cu  la  so  stissa  vucca  si  disterra».  I  versi  vogliono  incitare  ogni accusato a non farsi sviare dal paternalismo dell’autorità, da false promesse. I giudici dicono: «figlio, parla. Questa chiave [il tuo atteggiamento] non è quella giusta per chiudere o aprire la porta [del carcere]». Ma l’uomo che parla molto  non  guadagna  niente:  si  sotterra  con  la  sua  stessa  bocca.  La  terza  canzone  esprime  il  disprezzo  per  chi  si allontana dal codice. «Pezzu di ’nfami a chi t’arridducisti! A fari ’nfamitati ti jittasti!/ La prima ’nfamitati chi facisti/ du’  picciotti  d’unuri  ’mpusturasti».  Pezzo  di  infame,  a  che  ti  sei  ridotto!  Ti  sei  buttato  a  fare  infamità!  La  prima infamità che hai fatto, hai calunniato due picciotti d’onore60. Capiamo ora, grazie a Pitrè e anche al di là di quanto lui dice, come quei facinorosi si sentissero uomini (maschi) capaci di mantenere fermo, di fronte all’autorità, il senso della propria dignità, rimanendo fedeli alla tradizione e alla religione, al culto dell’amicizia e della famiglia: uomini d’onore quanto i loro aristocratici datori di lavoro, meritevoli della fiducia ricevuta. Certo, possiamo rilevare lo scarto tra l’ideologia e la realtà: l’omertà non impedisce al mafioso di parlare con la polizia, di denunciare e collaborare. Però lo fa in luoghi riservati, non certo in quelli istituzionali del processo  penale,  facendosi  forte  del  sostegno  di  corrispondenti  altolocati,  trattando  come  da  potenza  a  potenza, lasciandosi indirizzare dall’autorità ma anche provando a strumentalizzarla: indirizzandone il braccio contro i nemici, salvaguardando gli amici. 1 Farini 1961, II, p. 909. Si trattava dei deputati Morana e La Porta. 2 Come manutengolo di Antonino Leone, nonché capo del «partito dell’Alta mafia», era indicato dalla polizia anche Giuseppe Torina, deputato

ed  ex  sindaco  di  Caccamo.  Forniva  alla  banda  «alloggio  e  qualunque  soccorso»  nei  suoi  latifondi,  e  i  suoi  pastori  o  curatoli  come  nuove  leve. Relazione del delegato di Ps del paese del 26 gennaio 1877 e altri documenti in ASPA, GP, 1877, b. 39. 3 Franchetti 1995, pp. 48­9. 4 Relazione dell’ottobre 1877, in ASPA, GP, 1877, b. 39. 5 Franchetti 1995, pp. 62 e 196. 6 Mangiameli 2012, p. 54.

7 Alongi 1977, p. 64. Sulla «leggenda del brigante benefico», alimentata con generose pratiche ridistributive, cfr. anche Franchetti 1993, p. 120. 8 Mangiameli 2012. 9 Pagano 1877, p. 41. 10 Sua lettera al sottoprefetto di Termini del 17 febbraio 1877, in ASPA, GP, 1877, b. 39. 11 Mosca 2002, p. 51. 12 Alongi 1977, pp. 80 e 58. 13 Id. 1904, p. 299. 14 Franchetti 1993, pp. 101­2. 15 Mosca 2002, p. 27. 16 Basandoci su Crisantino 2000. 17 Ibid., p. 121. 18 Ibid., p. 118. 19 Ibid., p. 120. 20 Mentre i loro avversari erano i proprietari «di sotto», detti «giardinieri», cui l’acqua veniva lesinata. 21 Lettera al «Giornale di Sicilia», 28 maggio 1878. 22 In Processo Amoroso, p. 160. Il mafioso si chiamava Giacomo Lauriano detto Jacuzzo. 23 Processo Amoroso, passim. 24 Ibid., p. 40. 25 Ibid., pp. 88­9. Qui il poliziotto viene indicato come Alongi Fugarino Giuseppe. La vittima si chiama Damiano Seidita. 26 

Aggiungiamo  che  Angelo  Pugliese,  il  bandito  più  noto  del  periodo  immediatamente  postunitario,  confessò  di  essere  stato  da  lui raccomandato, all’inizio della sua carriera, per un posto di campiere, presso i Guccione. 27 In Inchiesta Bonfadini, p. 2012. 28 Relazione del prefetto Soragni, 14 novembre 1875, ibid., pp. 2017­18. 29 Mosca 2002, p. 32 (corsivi miei). 30 Pirandello 1990, p. 71. 31 Il questore al procuratore del re, 21 settembre 1875, in ASPA, GP, 1875, b. 35, f. 6, pp. 14­6. 32 Memoria del 29 dicembre 1874, ivi, f. 6. 33 Il ministro al prefetto, 12 agosto 1875, ivi. 34 Fiore 1989. 35 Cfr. le varie relazioni in ASPA, GP, 1875, f. 6: cfr. in particolare quella del delegato di Misilmeri, 1° dicembre 1876. 36 Di Menza 1878, p. 238. 37 Relazione del marzo 1875, cit. da Dickie 2011a, pp. 167­8. 38 Pezzino 1990. 39 Alongi 1977, p. 102. 40 ASPA, GP, 1877, b. 39. 41 Ceruso 2007. 42 A dire di Galati, l’aveva fondata un sacerdote Antonino Russo, detto padre Rosario da Partanna. 43 Rapporto al procuratore del re, 30 gennaio 1877, in Pezzino 1995, pp. 101 e 104. 44 Rapporto del procuratore del re, 3 marzo 1877, ibid., p. 101. 45 Rapporto del questore, 29 settembre 1876, ibid., p. 93. 46 Telex pubblicato in «L’amico del popolo», 5 marzo 1880. Documentazione sul processo in ASPA, GQ, b. 63. 47 Documentazione in  ACS, MGG, MAP, b. 49, dove però non trovo il testo delle lettere, alcune delle quali sono citate in Processo Amoroso, pp. 148­50. 48 Ibid., p. 56. 49 Ibid., p. 118. 50 Ibid., pp. 39, 64, 30. 51 Hess 1991. 52 Processo Amoroso, p. 120. 53 Hess 1991, p. 44. 54 Processo Amoroso, p. 238 (corsivo mio). L’avvocato si chiamava Lucifora. 55 Ibid., arringa dell’avv. Siracusa, pp. 218 e 203. Il questore si chiamava Sant’Agostino. 56 Pitrè 1978, I, p. XI. 57 Ibid., II, pp. 288, 290, 292, 294. 58 La tipica conversione della l in r: Alongi 1977, p. 75. 59 In Inchiesta Bonfadini, pp. 950­1. 60 Canti di Palermo e di Alimena in Pitrè 1978, II, pp. 300­1.

III. Passaggio di secolo

A  partire  dalla  seconda  metà  degli  anni  ottanta  del  secolo  XIX,  l’economia  mondiale  andò  incontro  a  una depressione che in Sicilia ebbe un impatto particolarmente pesante. Prima calò il prezzo del grano per la concorrenza russa  e  americana,  poi  quello  degli  zolfi  e  degli  agrumi  per  la  brusca  contrazione  della  domanda  internazionale.  I vigneti  furono  distrutti  da  una  catastrofica  epidemia,  la  fillossera.  Le  banche  fallirono,  la  crisi  fu  generale.  Si aggravarono le tensioni sociali in tutta Italia, e proprio l’isola fu uno degli epicentri di questa radicalizzazione con il fiorire del movimento socialista dei fasci siciliani (1892­93). Paradosso  vuole  che  proprio  nel  periodo  di  maggiore  difficoltà  dell’economia  isolana,  tra  il  1887  e  il  1898,  i governi del Regno d’Italia siano stati quasi ininterrottamente affidati a due siciliani, Crispi e di Rudinì. Il primo era stato il grande leader della Sinistra post­risorgimentale, il secondo veniva da Destra, entrambi misero in atto politiche autoritarie.  Crispi,  per  stroncare  il  movimento  socialista  dei  fasci  siciliani,  nel  gennaio  1894  fece  ricorso  allo  stato d’assedio.  Rudinì,  che  gli  successe  nel  1896,  mostrò  un  volto  ancor  più  feroce  a  Milano,  dove  l’esercito  sparò  coi cannoni su una dimostrazione di popolo, facendo cento morti (aprile 1898). Si  aprì  poi  una  stagione  politica  nuova,  in  cui  per  lungo  tempo  il  governo  fu  guidato  dal  piemontese  Giovanni Giolitti. Si caratterizzò per una cosiddetta «svolta liberale», che riconobbe la legittimità dei movimenti collettivi, tra l’altro il diritto di sciopero; e la Sicilia si confermò un’area forte del movimento contadino. La situazione economica migliorò nettamente, con il «decollo industriale» del Nord­est; e anche la Sicilia si agganciò alla ripresa. Rilanciò le esportazioni agroalimentari, e trovò la valvola di sfogo dell’emigrazione verso gli Stati Uniti, che alleggerì le tensioni nel mercato del lavoro, provocando l’afflusso di una cascata di dollari delle rimesse. Ma non fu abbastanza. Il gap nei confronti della parte più sviluppata del paese cominciò a crescere irrimediabilmente. 1. L’assassinio di Notarbartolo. Conosciamo  già  i  due  principali  attori  del  dramma.  Abbiamo  da  un  lato  Emanuele  Notarbartolo:  rampollo dell’aristocrazia,  uomo  della  Destra  storica,  sindaco  di  Palermo,  nonché,  dal  1875,  direttore  del  Banco  di  Sicilia. Dall’altro c’è Raffaele Palizzolo. L’avevamo  lasciato  nel  1877,  quando  il  prefetto  Malusardi  gli  aveva  impedito  di  candidarsi  alle  elezioni minacciandolo  di  ammonizione,  anche  per  forzarlo  a  collaborare  nella  caccia  al  bandito  Leone.  Adesso  vediamo l’interpretazione da lui stesso fornita quasi vent’anni dopo (1896), in un discorso alla Camera dei deputati, di quel tipo di collaborazioni, e della propria in particolare. I cosiddetti manutengoli, disse, altro non sono che «cittadini» «amanti dell’ordine e delle istituzioni», in grado di fornire all’autorità di polizia «informazioni, denunzie e servizi preziosi». L’autorità  deve  favorirli  a  sua  volta,  non  «perseguitarli»  con  ammonizione  e  domicilio  coatto1.  In  effetti  Palizzolo, partito Malusardi, non fu più perseguitato. E si impegnò a sua volta per impedire che venissero perseguitati i criminali che impiegava quali guardiani nelle terre di sua proprietà2.  Poté  allargare  la  propria  influenza  dall’est  verso  l’ovest della  provincia  di  Palermo,  dall’area  interna  a  quella  costiera,  dalla  campagna  alla  città.  Nel  1882  fu  eletto  alla Camera per il collegio di Caccamo, successivamente optò, con uguale successo, per un collegio di Palermo centro. Nel 1886 Palizzolo entrò a far parte del «Consiglio generale» del Banco di Sicilia, organismo consultivo deputato a rappresentare interessi locali. Vi andò a capitanare il gruppo che più si opponeva alla linea del rigore perseguita da Notarbartolo,  finché  quest’ultimo  fu  destituito  (1890)3.  Come  sappiamo,  erano  tempi  difficili,  di  dissesti  bancari  e scandali finanziari, di tensioni politiche e sociali. E fu proprio mentre stava esplodendo la protesta dei fasci siciliani, il 1° febbraio 1893, che un sicario assassinò Notarbartolo, su una vettura ferroviaria in corsa da Trabia a Palermo. Palizzolo venne subito indicato dalla «voce pubblica» come il mandante del delitto: per i suoi pregressi contrasti col morto, in quanto esponente dell’«Alta Mafia»4. Però nei tre anni successivi le indagini girarono a vuoto, grazie anche alle coperture di cui il deputato godeva negli ambienti della questura e della magistratura palermitane. Come sappiamo,  Rudinì  giunse  al  governo  nel  1896.  Promosse  in  Sicilia  un’operazione  spacciata  per  decentralista,  ma  in realtà super­centralista e autoritaria, affidando l’isola a un cosiddetto «commissario civile»; che era poi un suo uomo, il conte imolese Giovanni Codronchi. Codronchi si mostrò determinato a far pulizia, prima di partire per la Sicilia, parlando  col  senatore  Farini:  «Ho  detto  al  Rudinì  che  non  intendo  fermarmi  nemmeno  di  fronte  ai  suoi  amici,  al

deputato Palizzolo, ad esempio». A suo dire, lo stesso Rudinì era consapevole che Palizzolo era «una canaglia»5. Ma poi in effetti fece il contrario: strinse rapporti di stretta collaborazione col sospetto assassino sulle questioni politiche di rilievo come su quelle minute – chi mettere alla testa di una commissione, a che incarico destinare un delegato di polizia6. E  veniamo  al  (presunto)  killer,  Giuseppe  Fontana.  Era  nato  nel  1852.  Lo  si  conosceva  come  esponente  di  punta della  mafia  di  Villabate,  paese  immediatamente  a  est  di  Palermo,  territorio  nel  quale  Palizzolo  aveva  proprietà  e influenze. Le foto del tempo ce lo mostrano in giacca, cravatta e bombetta: «veste bene, si presenta bene. […] Basta guardarlo per vedere che egli è un uomo abituato a portare degli abiti civili»7. Corrispondeva alla figura, a noi ben nota, del facinoroso della classe media. Era, tra l’altro, l’uomo di fiducia del principe Mirto, che si affidava a lui per gestire  «proprietà  e  latifondi  in  diverse  province  della  Sicilia»,  come  spiegava  il  prefetto  di  Palermo  De  Seta, aggiungendo:  «qui  non  è  disdicevole  che  un  proprietario  anche  onesto  tenga  per  custodia  sue  proprietà  e  protegga questo scopo persone mafia»8. Conosciamo il meccanismo. Fontana  presentò  un  alibi  da  cui  possiamo  arguire  la  dimensione  anche  internazionale  del  suo  business:  al momento del delitto, disse, si trovava come ogni anno in Tunisia per organizzare una spedizione di agrumi locali a Palermo e, da lì, a New York. Alle indagini partecipava il delegato di pubblica sicurezza Antonino Cutrera, che noi già conosciamo  come  autore  di  un  bel  saggio  sulla  mafia,  e  che  tra  i  soci  di  Fontana  mise  in  particolare  nel  mirino  un certo  Anfossi.  Si  trattava  di  un  personaggio  borderline:  da  un  lato  lavorava  per  conto  di  rispettabili  ditte  inglesi  e americane,  le  quali  attraverso  di  lui  finanziavano  gli  intermediari  che  a  loro  volta  acquistavano  gli  agrumi  dai produttori; e dall’altro era coinvolto in «tutti gli affari loschi del commercio»9. Qui  dobbiamo  rilevare  le  differenze  tra  la  situazione  degli  anni  settanta,  a  cui  ci  siamo  riferiti  nel  capitolo precedente, e quella degli anni novanta, periodo di crisi commerciale e di caos nelle strutture mercantili. A Palermo, le ditte  esportatrici  si  stavano  moltiplicando.  Al  1892  erano  ben  più  numerose  che  nell’altra  grande  piazza  agrumaria siciliana,  Messina  (81  contro  39),  segno  che  gli  intermediari  stavano  prendendo  in  mano  il  gioco  del  grande commercio. E lì la componente criminale era palese. L’opinione pubblica lamentava l’emergere di un gran numero di «speculatori, i quali senza freno alcuno […] esercitano illecito traffico», invocando vanamente un controllo delle loro fedine  penali.  La  Camera  di  commercio  rilevava  che  sul  settore  pesavano  «interessi  gravissimi  di  organizzazioni usuraie»10.  Noi  possiamo  fare  il  caso  di  un  membro  del  clan  dei  Badalamenti  a  suo  tempo  coinvolto  nella  guerra contro gli Amoroso, Gaetano Badalamenti detto Cirrito, nato nel 1857, che era stato condannato appunto nel 1880 per omicidio.  Aveva  cominciato  come  «giardiniere»,  finì  esportatore,  proprietario  di  un  grande  magazzino  di  agrumi  in centro città, nei pressi del porto. Era schedato tra i maggiorenti della mafia cittadina. E torniamo ad Anfossi, per dire che era l’agente di borsa di Palizzolo, avvicinandoci al movente del grande delitto, così lontano dagli stereotipi arcaicizzanti in cui veniva (e viene) in genere inquadrato il fenomeno mafioso. Palizzolo aveva  sempre  sostenuto  gli  interessi  della  Navigazione  generale,  la  maggiore  società  armatoriale  italiana,  che  era controllata  dalla  più  illustre  dinastia  imprenditoriale  siciliana,  i  Florio.  Invece  Notarbartolo  aveva  di  recente sponsorizzato progetti a questa sgraditi11. Quando quest’ultimo venne allontanato dalla direzione del Banco cominciò una  speculazione  finanziaria  (al  rialzo)  sulle  azioni  della  Navigazione  generale,  con  l’utilizzo  di  capitali  del  Banco stesso.  Sfruttando  le  proprie  relazioni  privilegiate  con  la  nuova  direzione,  Palizzolo  vi  si  inserì  per  proprio  conto, mediante Anfossi. Insider trading, possiamo dire in termini moderni. Sembra che il deputato si sia determinato a far uccidere l’ex direttore temendo potesse rivelare questi intrighi, e magari tornare a guidare il Banco in conseguenza dell’inchiesta sulla sua gestione ordinata dal primo governo Giolitti (1892­93). Arriviamo al 1896. Leopoldo Notarbartolo, figlio di Emanuele, era ben convinto delle responsabilità di Palizzolo, ma si era trovato sino ad allora davanti a un muro di gomma12. Sperò che Rudinì e Codronchi (antichi compagni di partito del padre) l’avrebbero aiutato, poi si rese conto che viceversa l’influenza di Palizzolo stava crescendo. Cercò allora  alleati  in  due  settori  politici  diversi,  anzi  opposti.  Da  un  lato  c’erano  i  socialisti,  che  a  loro  volta  colsero l’occasione per uscire dalla gabbia in cui erano stati messi nel 1894, per trasformare in accusata l’Italia ufficiale che li accusava.  Tra  i  leader  socialisti  palermitani  Leopoldo  Notarbartolo  scelse  il  suo  avvocato,  Giuseppe  Marchesano. Dall’altro c’era la sua rete di parentele e conoscenze aristocratiche che, caduto Rudinì, lo aiutò a contattare il generale Luigi Pelloux, nuovo capo del governo. E fu Pelloux che nell’agosto 1898 sancì il cambio di rotta nominando questore di Palermo Ermanno Sangiorgi, che abbiamo già conosciuto come protagonista delle indagini sulla mafia di metà anni settanta. Sbloccata la situazione politica, vennero portati in giudizio nel 1899 alcuni sospetti complici degli assassini, in un processo che fu celebrato a Milano per legittima suspicione. Giunse l’incriminazione di Palizzolo e di Fontana, i quali finirono sotto processo a Bologna nel 1902, e furono pesantemente condannati.

Vanno ricordati i molti contributi saggistici che scaturirono da quel dibattito. Noi già conosciamo i più importanti, quelli  di  Mosca  e  Cutrera  (1900),  e  poi  la  seconda  edizione  di  quello  di  Alongi  (1904).  «Il  Giornale  di  Sicilia», massimo  quotidiano  palermitano,  fece  la  sua  parte.  Molto  si  impegnarono  i  socialisti,  chiamando  in  causa  le responsabilità governative13.  In  particolare  Colajanni,  che  socialista  propriamente  non  era  ma  che  su  quel  versante rappresentava un po’ il padre nobile, pubblicò (sempre nel 1900) il pamphlet Nel Regno della mafia. Vi ripercorse un quarantennio  di  illegalismi  governativi,  prima  della  Destra  e  poi  della  Sinistra,  concludendo:  «Per  combattere  e distruggere il regno della mafia è necessario che il governo italiano cessi di essere il Re della mafia». Poniamoci la stessa domanda che si siamo posti ragionando della fase 1874­77: è giustificato per il 1898­1902 il ricorso alla categoria di antimafia? Rispondo che, rispetto a quel precedente, è più giustificato: per la spinta in questa direzione  di  gruppi  politici  e  società  civile,  per  il  sostegno  istituzionale  che  trovò.  Proviamo  a  inquadrare adeguatamente quest’ultimo aspetto, tornando sulla figura di Sangiorgi. 2. Lo sguardo del questore. Ermanno  Sangiorgi  nacque  a  Riolo,  in  Romagna,  nel  1840.  Entrò  in  polizia  nel  1860,  nel  momento  stesso dell’unificazione italiana, e la sua carriera seguì le logiche dell’amministrazione centralizzata che ne nacque, le quali prevedevano  frequenti  trasferimenti  dei  funzionari  da  un  punto  all’altro  del  paese.  Un  giornalista  così  lo  descrisse: «Biondo  rossiccio,  amabile,  bonario,  sa  nascondere  l’astuzia  necessaria  al  suo  ufficio  sotto  una  vernice  di rispettabilità.  […]  Svelto  come  uno  scoiattolo,  indagatore  dalla  percezione  sicura,  era  dappertutto»14.  Destarono qualche scandalo le sue numerose avventure amorose, o semplicemente sessuali. Nessuno di quelli che lo conobbero poté  negare  la  sua  abilità  professionale,  anche  se  qualcuno  dei  suoi  superiori  non  ne  gradiva  lo  stile  anti­ convenzionale. Superò brillantemente le trappole che (ne abbiamo vista qualcuna già nel precedente capitolo) i suoi nemici  gli  posero  davanti.  E  giunse  al  rango  di  questore,  cominciando  da  una  provincia  che  per  altri  era  il  punto d’arrivo, Milano (1889). Lo definirei come il capostipite di un tipo di funzionario statale che ritroveremo in ruoli da protagonista nella nostra storia: lo specialista in inchieste sia su mafiosi che su sovversivi. Rilevante (anche per il nostro argomento) il contributo che nel 1894 diede, quale questore di Bologna, alle indagini su un attentato alla vita di Crispi. Era stato perpetrato da un anarchico, in apparenza isolato, ma Sangiorgi si impegnò a dimostrare che dietro o sotto c’era il complotto di una società segreta o «setta» – il movimento anarchico, appunto15. Come  si  vede,  faceva  ricorso  a  strumenti  interpretativi  analoghi  a  quelli  che  lui  stesso  e  i  suoi  colleghi  avevano applicato  alla  mafia  in  Sicilia  un  ventennio  prima.  Sul  versante  anarchico,  tale  «teorema  investigativo»  risultava improbabile, e venne difatti smentito in sede giudiziaria. Il versante mafioso era, di per sé, molto diverso. Ribadiamo però che, nell’uno e nell’altro caso, le istituzioni potevano essere tentate di abusare del reato collettivo, in modo da attribuire al nemico un’elevata «pericolosità sociale […] creando così le premesse per la repressione poliziesca»16. Dunque Sangiorgi venne nominato nel 1898 questore di Palermo da Pelloux, e incaricato di rompere il muro delle complicità intorno a Palizzolo. E in effetti le cose andarono nella maniera prevista. Fu  Sangiorgi  a  gestire  l’arresto  di  Palizzolo  prima  ancora  che  la  recalcitrante  magistratura  palermitana  (nella persona  del  procuratore  Vincenzo  Cosenza)  emettesse  mandato  di  cattura,  fu  lui  a  stanare  Fontana,  datosi  alla latitanza:  convocando  il  principe  Mirto,  e  minacciando  di  arrestarlo  se  non  avesse  consegnato  alla  giustizia  il  suo protetto. Dal canto suo, Fontana fece la mostra di arrendersi al gentiluomo e non allo sbirro, dunque si presentò a casa sua e non in questura, sulla carrozza del principe, accompagnato dal suo avvocato. Il rituale ricordò alla stampa una trattativa «da potenza a potenza». Fu sempre il questore, sia a Milano che a Bologna, a testimoniare della «capacità a delinquere» di Palizzolo e a trarre dagli archivi le prove documentarie delle pressioni esercitate dal deputato in favore di  tanti  mafiosi  –  un  dossier  a  cui  noi  stessi  abbiamo  attinto.  Nel  frattempo  scioglieva  «commissioni  e  consigli amministrativi di cui Palizzolo faceva parte», contrastava il deputato­carcerato, presentatosi alle elezioni politiche del 1900  col  sostegno  della  «sua  numerosa  ed  interessata  clientela»,  favoriva  l’elezione  di  un  «giovane  ricco»,  «nuovo nella vita politica»17. Ma il nome di Sangiorgi è, ai nostri occhi, legato a un documento di straordinaria importanza: il grande rapporto di polizia che ho chiamato appunto Rapporto Sangiorgi quando l’ho scoperto all’Archivio centrale dello Stato e per la prima volta utilizzato, già trent’anni fa. Stilato tra il 1898 e il 1901, e indirizzato alla magistratura, consta di una serie di  relazioni  per  un  totale  di  quasi  500  pagine.  Si  basava  su  un  fulcro  di  informazioni  provenienti  «dall’interno», ovvero (come accade) dagli sconfitti in una guerra di mafia. Un nome correva sulle labbra di tutti. Lo urlò un mafioso appena arrestato: «Lo so che la causa della persecuzione a tanti figli di madri è quell’infamone e sbirro di Francesco Siino ma, sangue della Madonna, non ci quieteremo sino a quando sarà sterminata tutta la sua razza»18.

Noi  abbiamo  incontrato  questo  Siino  alla  metà  anni  settanta,  quale  membro  influente  del  gruppo  mafioso  di Malaspina­Uditore­Passo  di  Rigano  (descritto  allora  come  unico)  su  cui  già  indagava  proprio  l’allora  ispettore Sangiorgi.  In  un  periodo  più  recente,  stando  al  Rapporto,  questo  territorio  era  stato  diviso  tra  tre  diversi  «gruppi» (appunto: di Malaspina, Uditore, Passo di Rigano), guidati rispettivamente da Francesco Siino, da suo fratello Alfonso e da Giuseppe Giammona. Il padre di quest’ultimo, l’ormai settantenne Antonino Giammona, continuava a giocare il ruolo  importante  di  consigliere  del  figlio.  E  i  due  Giammona  si  appoggiavano  su  amici  e  parenti  che  guidavano  i gruppi di Perpignano e Piana dei Colli. Si guardi la cartina. Parliamo  di  territori  limitrofi,  tra  i  quali  (possiamo  immaginare)  i  confini  erano  difficili  da  definire.  In  effetti  le fazioni un tempo alleate erano entrate in conflitto, e quella dei Giammona era prevalsa facilmente, in uno scontro non particolarmente sanguinoso che aveva fatto quattro morti e alcuni feriti, tutti del gruppo Siino. Francesco Siino aveva trovato rifugio a Livorno. Il  Rapporto  addebita  all’organizzazione  altri  delitti,  che  appaiono  più  legati  alla  sua  quotidianità:  ladri  e  spie  da punire, indipendenti da mettere a posto, gerarchie interne da definire, qualche questione privata. Scheda nel complesso 218  affiliati,  con  le  loro  occupazioni  ufficiali:  26  sono  i  possidenti,  25  i  trafficanti  o  industriosi,  45  i  salariati  fissi addetti alla custodia (guardiani) o alla direzione (giardinieri) delle aziende agrarie, 122 gli elementi impegnati in vari lavori  agricoli  o  urbani19.  Ne  risulta  in  sostanza  confermato  quanto  già  sappiamo  della  mafia  dei  giardini,  e  in particolare il dato che più aveva impressionato Franchetti: ai vertici troviamo gente abbastanza agiata. Figura 3. Luoghi e gruppi di mafia nell’agro palermitano secondo Sangiorgi.

Fonte: Lupo 2011a, p. 50.

Il  Rapporto  ci  fornisce  non  solo  informazioni  su  persone  e  fazioni,  ma  anche  un  quadro  e  un’interpretazione d’insieme.  Descrive  una  mafia  articolata  in  gruppi  che  prendono  il  nome  dalle  singole  borgate,  operano  nei  loro territori e su essi rivendicano una competenza esclusiva. Nessun cenno fa a giuramenti o altri rituali: evidentemente Sangiorgi,  memore  delle  sconfitte  degli  anni  ottanta,  teme  di  indebolire  anziché  rafforzare  l’impianto  accusatorio,

richiamandosi a essi. Sostiene però che i vari gruppi sono organizzati secondo un unico modello, che tra loro c’è un forte legame (chiamiamolo federale) e un forte coordinamento (chiamiamolo governativo). «Ogni gruppo – spiega – è regolato da un capo, che chiamasi caporione […]. E a questa compagine di malviventi è preposto un capo supremo. La scelta dei capi è fatta dagli affiliati, quella del capo supremo dai caporioni riuniti in assemblea»20. Ovviamente, non è detto che questo schema così nitido sia fino in fondo realistico: in rapporto alla mafia come al movimento  anarchico.  I  super­poliziotti  come  Sangiorgi  hanno  qualche  difficoltà  a  concepire  fenomeni  collettivi; credono nelle catene di comando; adorano l’idea del «capo dei capi». Comunque la lotta tra i due partiti contrapposti coinvolge  più  che  altro  cinque  tra  le  otto  cosche  del  versante  occidentale  dell’agro  palermitano  più  analiticamente descritte  nel  Rapporto  (si  veda  ancora  la  mappa  riportata  sopra).  Scarsi  elementi  il  documento  fornisce  sulle interrelazioni tra queste e quelle del versante orientale. Quanto alle zone circostanti, si limita a dire: «in quasi tutti i comuni  della  provincia  di  Palermo  esistono  da  lungo  tempo  valide  ed  estese  associazioni  di  malfattori,  fra  loro connesse in relazione di dipendenza e affiliazioni, formandone quasi una sola vastissima». Quasi. E poi il questore sa bene  che  la  mafia  non  può  essere  analizzata  in  sé,  come  se  bastasse  a  se  stessa.  Infatti  scrive  –  «sgraziatamente,  i caporioni della mafia stanno sotto la salvaguardia di Senatori, deputati ed altri influenti personaggi che li proteggono e li  difendono,  per  essere  poi,  alla  lor  volta,  da  essi  protetti  e  difesi»21;  o  anche,  con  maggior  nettezza  –  la  mafia  è «un’associazione di delinquenti forte dell’appoggio di autorevoli proprietari». Al proposito, tra le molte storie di delitti e potere raccontate nel Rapporto Sangiorgi, vorrei soffermarmi su una che mi  sembra  particolarmente  evocativa.  Presentiamone  i  protagonisti.  Abbiamo  da  un  lato  il  maggiore  degli  uomini d’affari  palermitani,  uno  dei  grandi  potentati  economici  italiani,  l’armatore­finanziere  Ignazio  Florio;  insieme  a  sua madre, donna Giovanna d’Ondes Trigona, discendente di una delle grandi famiglie dell’aristocrazia isolana. Dall’altra c’è  Pietro  Noto,  guardiano  della  splendida  villa  liberty  Florio  all’Olivuzza,  nonché  capo  –  insieme  al  fratello Francesco – della cosca mafiosa che prende appunto il nome da questa borgata. In mezzo, stanno Vincenzo Lo Porto e Giuseppe  Caruso,  cocchieri  affiliati  alla  cosca,  un  tempo  «in  grande  intimità»  coi  suoi  boss,  ma  che  nell’estate  del 1897 hanno con loro a che dire per la spartizione della somma derivante da uno «scrocco» (un’estorsione) ai danni di Joshua Whitaker, altro grande mercante­imprenditore inglese22. I due cocchieri decidono a questo punto di fare un gesto clamoroso: rubare a villa Florio alcuni oggetti d’arte di grande valore. In questo contesto, il furto rappresenta più che altro uno sgarro (uno sgarbo) tendente a sminuire, di fronte  ai  Florio,  la  credibilità  dei  Noto  e  della  loro  mafia  «d’ordine».  E  in  effetti  Ignazio  Florio,  «sorpreso  ed indignato» per l’accaduto, ne chiede conto al suo guardiano: «lo scopo che si erano prefissi i due cocchieri […] era stato raggiunto». I fratelli Noto reagiscono in due tempi. Prima (non so se dietro il versamento di un riscatto) fanno misteriosamente  riapparire  la  refurtiva  in  casa  Florio  nell’esatta  posizione  in  cui  si  trovava  quand’era  scomparsa. Trovata scenografica efficace. Poi convocano un summit cittadino, nel corso del quale i cocchieri sono riconosciuti colpevoli  di  insubordinazione  e  condannati  a  morte.  Attirati  in  un  agguato  con  la  scusa  di  una  riconciliazione, vengono giustiziati ad opera di una trentina di affiliati. Simbologia significativa della preminenza di logiche collettive nell’organizzazione. I cadaveri vengono fatti sparire, segue un attento dosaggio di informazioni vere e false per disorientare le autorità. Saranno partiti per l’America. Però il padre di Caruso denuncia esplicitamente, in privato e in pubblico, la mano della mafia,  minacciando  di  recarsi  a  Roma  se  le  autorità  locali  non  gli  avessero  reso  giustizia;  solo  nuove  pesanti intimidazioni lo inducono a moderarsi. Non si placano invece le vedove Lo Porto e Caruso. Avvicinano la già citata donna Giovanna d’Ondes Trigona in Florio, mentre si reca al convento delle suore di carità, e le chiedono appunto un caritatevole  aiuto  per  i  loro  figli  orfani  e  per  se  stesse,  prive  di  mezzi  di  sostentamento.  La  nobildonna  non  si scompone rispondendo bruscamente: «Non mi seccate, perché vostro marito era un ladro che veniva a rubare nel mio palazzo assieme al Caruso»23. Pensa che la mafia abbia fatto il proprio lavoro, che il furto e l’oltraggio vadano puniti. Il  povero  Sangiorgi  non  sa  come  accostarsi  a  tale  prestigio  e  a  tanta  ricchezza.  Scrive  senza  tanto  crederci:  «La signora Florio è nobildonna religiosa e pia, e non si sa se siano maggiori le immense ricchezze di cui dispone o le preclare  virtù  del  suo  animo  nobilissimo,  bennato;  per  cui  è  a  ritenere  che,  invitata  a  deporre  con  giuramento,  non vorrà né potrà celare alla giustizia inquirente il suo incontro colla vedova»24. In  conclusione.  La  descrizione  dell’organizzazione  mafiosa  palermitana  fatta  nel  Rapporto  Sangiorgi  risulta credibile,  in  sé  e  perché  corrisponde  largamente  al  quadro  tracciato  dagli  inquirenti  di  periodo  fascista,  trent’anni dopo, nonché a quello emerso sessanta o magari ottant’anni più tardi, con le rivelazioni del supertestimone Tommaso Buscetta.  Da  tutte  queste  fonti  la  mafia  è  descritta  come  un  insieme  di  gruppi  definiti  sul  piano  territoriale,  che inclinano a coordinarsi tra loro ma talora finiscono con lo scontrarsi. Si tratta di solidarietà e conflitti definibili come orizzontali.  Lo  schema  peraltro  non  è  esauriente,  non  sicuramente  in  riferimento  a  quei  tempi,  a  quella  società oligarchica  e  notabilare.  Bisogna  tener  conto  anche  dei  legami  verticali  tra  i  mafiosi  e  i  personaggi  del  mondo  «di

sopra» che davano loro lavoro, che erano in qualche modo coinvolti nelle loro attività. Dei Florio, del principe Mirto e degli altri nobiluomini; di Palizzolo e degli altri politici collusi. Va detto poi che i mafiosi erano inseriti già allora (come lo sono oggi) anche in reti di affari in cui la dimensione territoriale  aveva  minore  o  nessuna  importanza.  Parliamo  di  affari  leciti  o  anche  illeciti.  Citiamo  alcuni  di  essi: ricettazione  di  animali  rubati;  fabbricazione  e  spaccio  di  carta­moneta  falsa;  contrabbando.  E  naturalmente  c’erano quelli,  cui  gli  uomini  delle  cosche  partecipavano  con  un  ruolo  inizialmente  minoritario  ma  (lo  abbiamo  visto) crescente,  di  tipo  internazionale,  a  cominciare  dal  grande  commercio  agrumario.  Anche  questo  importava  relazioni verticali,  con  mercanti  e  banchieri,  palermitani,  inglesi  e  americani:  a  Palermo  e  –  come  vedremo  nel  prossimo capitolo – anche a New York. 3. Pro­Sicilia. Mentre  Sangiorgi  stilava  il  suo  Rapporto,  scompaginava  le  cosche  dell’hinterland  cittadino  con  massicce  retate, tanto che il prefetto De Seta sentenziò: la mafia è stata «ridotta al silenzio e alla inazione». Nel maggio 1901 giunse il procedimento  penale  per  cui  si  era  lavorato.  Se  non  che,  sulla  sbarra  salì  solo  una  minoranza  di  quanti  venivano chiamati in causa nel Rapporto: 51 persone (tra cui i boss Giuseppe Giammona, Biondo e Cinà) su 218. Il  dibattimento  registrò  la  polarizzazione  usuale  in  tanti  processi  di  mafia:  ai  pochi  che  parlarono  per  l’accusa (Siino in testa), si contrappose lo schieramento di quanti testimoniavano sulla «buona fama» degli imputati, in cui in particolare  presero  posto  i  protetti­protettori  dell’alta  società.  Tra  tutti,  il  principe  Pietro  Lanza  di  Scalea  definì  il capo­mafia  Giuseppe  Biondo  «onesto  lavoratore».  Scelgo  lui  per  due  ragioni.  Per  la  sua  qualità  sociale:  era  un senatore  del  Regno  d’Italia  nonché  l’erede  di  una  famiglia  collocata  al  top  dell’aristocrazia,  che  si  diceva  cioè risalente  all’età  normanna.  E  per  l’argomento  che  usò:  nell’agro  palermitano,  disse,  non  poteva  esserci «un’associazione di malfattori» visto che non si verificavano «reati contro la proprietà»25. Sangiorgi avrebbe potuto facilmente obiettare: in quella contrada i malfattori si associavano proprio per difendere la proprietà. Alla  fine  il  processo  si  concluse  con  miti  condanne,  3  anni  e  6  mesi  per  associazione  per  la  maggioranza  degli imputati, e con 19 assoluzioni. L’esito certo rifletteva un problema in senso lato politico. Sangiorgi forse sperava che dall’élite dei proprietari palermitani gli sarebbe venuto un qualche sostegno, e invece se la trovò contro, impegnata a negare  la  stessa  esistenza  di  quella  cosa  là,  la  mafia,  ancorata  a  una  linea  definibile  come  negazionista. Il questore dichiarò  stizzito:  «Non  poteva  essere  diversamente,  se  quelli  che  li  denunziavano  la  sera  andavano  a  difenderli  la mattina»26.  Peraltro  la  sentenza  evidenziava  anche  una  questione  tecnico­giuridica,  la  difficoltà  del  vigente  codice penale  di  inquadrare  un  fenomeno  come  l’associazione  mafiosa.  Ne  usciva  accreditata  una  linea  interpretativa definibile come minimalista, che possiamo sintetizzare così: la mafia esiste in effetti ma consta di gruppi piccoli, tra loro slegati; non è rappresentabile, come pretende la polizia, alla stregua di una grande organizzazione criminale. Diede dignità anche teorica a questa linea di pensiero Gaetano Mosca, nel saggio che abbiamo più volte citato. Si tratta del testo di una conferenza tenuta nel 1900 sia a Milano che a Torino. Mosca vi assunse la parte del siciliano «civilizzato»  che  deve  spiegare  ai  settentrionali  il  comportamento  dei  suoi  conterranei,  tenendosi  lontano  da atteggiamenti  negazionisti,  stando  ben  attento  a  non  accreditare  sentimenti  anti­siciliani,  evitando  esagerazioni  e mitologie.  Disse:  persino  «persone  colte  dell’Alta  Italia»  trovano  «qualcosa  di  fiero  e  di  simpatico»  in  quell’idea antica per cui l’individuo deve «farsi rispettare» da sé, senza ricorrere alla «giustizia legale»27. Però subito dopo chiarì che  proprio  da  quello  traevano  forza  i  comportamenti  antisociali  (antitetici  alla  civiltà  moderna)  e  le  associazioni criminali. Quanto a queste associazioni, Mosca scrisse: le cosche non hanno alcun capo in comune, non c’è alcun «legame federale che ordinariamente le unisca e possa imporre ad esse una norma comune», né un comune rituale28. Quanto all’assassinio Notarbartolo, rilevò: va ricondotto non tanto alla mafia quanto al «morbo più diffuso […], che inquina tutto  il  nostro  paese»,  della  corruzione  bancaria.  Quanto  agli  aspetti  politico­generali,  lui,  nemico  del parlamentarismo, prese le distanze dai radicalismi di estrema destra o di estrema sinistra: non è vero, disse, che per combattere  la  mafia  si  debba  chiudere  il  Parlamento29.  Si  pronunciava  su  un  punto­chiave,  che  vedremo  messo  al centro della scena dal fascismo. La linea interpretativa di Mosca era moderata, così come la sua ispirazione politica. Moderate erano anche le tinte con  cui  descriveva  Palizzolo  nei  suoi  articoli  sul  «Corriere  della  Sera»:  come  il  tipico  deputato  trasformista, clientelare  e  un  po’  cialtrone,  amico  di  tutti30.  Troppo  moderate,  nella  fattispecie.  Infatti  il  suo  ragionamento, applicabile a molti politici e contesti ambientali differenti, passava disinvoltamente sopra il carattere organico della connessione  tra  Palizzolo  e  la  criminalità.  Dobbiamo  qui  ricordare  che  Mosca  era  politicamente  legato  a  Rudinì,  il quale era stato a sua volta legato a Palizzolo, e a lungo continuò a dipingerlo come la vittima di una persecuzione. In

seguito (1909) lo stesso Mosca fu eletto alla Camera nel collegio di Caccamo che era stato di Palizzolo e, prima, dello stesso Rudinì. È lecito pensare che la sua analisi fosse condizionata anche da logiche di schieramento. Il quadro tracciato da Mosca, in fondo, non era così lontano da quello che di fronte al tribunale Palizzolo dava di se stesso: «Io scendevo e vivevo tra il popolo, cercando di esserne consigliere e amico»31. Quanto ai suoi avvocati, non poterono negare le relazioni del loro assistito con una quantità di mafiosi, ma precisarono che esse si limitavano alla «gestione»  delle  elezioni.  Non  erano  da  giudicarsi  gravi,  lasciavano  intendere.  C’era  d’altronde  chi  non  solo  le ammise,  ma  le  esaltò,  sviluppando  gli  accenni  fatti  dallo  stesso  Palizzolo  nel  già  citato  discorso  parlamentare  del 1896: un altro deputato molto chiacchierato, Salvatore Avellone, definì l’imputato «campione di moralità, campione della lega dei proprietari organizzata per resistere al brigantaggio»32. La lega in questione, possiamo dire, era la mafia stessa.  Siamo  passati  al  settore  degli  apologeti.  Come  teste  a  discarico  fu  citato  a  Bologna  (per  rogatoria)  Ignazio Florio.  Non  so  esattamente  cos’abbia  detto,  ma  conosco  la  cronaca  sarcastica,  magari  infedele,  che  della  sua testimonianza fecero i suoi avversari del giornale socialista palermitano «La Battaglia»: Teste: La maffia? Non l’ho mai sentita nominare – Pubblico Ministero: Già, la maffia, un’associazione che delinque contro le persone  e  le  proprietà,  e  di  cui  talvolta  si  servono  anche  nelle  elezioni  –  Teste  (scattando):  È  incredibile  come  si  calunnia  la Sicilia! La maffia nelle elezioni! Mai! Mai! – Pubblico Ministero: Dunque lei esclude che le elezioni in Sicilia si facciano con la maffia e con i quattrini – Teste: Ecco, per essere esatti, devo dire che in una occasione recente, nel settembre dello scorso anno, i socialisti spesero centomila franchi per battere la lista monarchica, ma non ci riuscirono33.

Casa Florio e il quotidiano palermitano di proprietà della famiglia, «L’Ora», diedero il loro contributo al «Comitato Pro­Palizzolo e Pro­Sicilia», che si impegnò a mobilitare l’opinione pubblica su questa tesi: le accuse contro Palizzolo e più in generale le polemiche sulla mafia sono il frutto del pregiudizio anti­siciliano. Nel Comitato ritroviamo Pitrè, che ne stilò il manifesto comparso nel 1902 in prima pagina sul «Giornale di Sicilia». Rilevava: «oggi non si parla della Sicilia senza parlare di mafia, e mafia e Sicilia sono una stessa cosa». Si indignava: «Tutto questo è abnorme». Protestava:  la  Sicilia  è  «stata  sempre  la  cenerentola  delle  fortunate  sorelle  del  continente,  una  cenerentola  non  pur trascurata, ma messa al bando, quasi razza inferiore, indegna di sedere al convitto della medesima famiglia!»34. Chiamato come teste a discarico nel corso del dibattimento a Bologna, Pitrè definì Palizzolo «vero gentiluomo», «correttissimo  e  onesto  amministratore».  Alla  domanda  di  fondo  –  che  cos’è  la  mafia?  –  rispose  riproponendo pedissequamente le sue tesi del 1889, a noi ben note35. Marchesano cercò di parare il colpo definendo Pitrè «ottimo folklorista, ma pessimo testimone. Interrogato sulla mafia, invece di dire quello che essa è, ha detto quale è l’origine della parola». Però su un punto cruciale gli diede ragione: la mafia, disse, è un’organizzazione «con capi e sotto capi» solo «nei sogni di qualche questore»36. La tesi di Sangiorgi non passava nemmeno tra i suoi alleati. L’operazione fatta da Pitrè assunse stavolta una natura politica ancor più chiara che in passato. Credeva veramente, l’etnologo, che Palizzolo fosse un gentiluomo? Sembrerebbe di no, stando a certe sue lettere a Pasquale Villari, che trovo  citate  in  un  recente  studio  storiografico  di  Nino  Blando37.  Palizzolo,  scriveva,  non  gli  era  mai  piaciuto:  lo considerava  esponente  di  quelle  «clientele»,  di  quella  «ciarlataneria»,  che  costituivano  «la  piaga  del  sistema parlamentare moderno». Il punto, spiegò, era che il partito dell’ordine (cui lui stesso, da vecchio crispino, si ispirava) non poteva scontentare quello vastissimo dei beneficati di Palizzolo, lasciando campo libero ai socialisti. Insomma in Pitrè, come nei Florio e in molti altri, la motivazione anti­socialista si accompagnava a quella sicilianista. Per capire il quadro in cui queste polemiche si inserivano citerei la ricostruzione datata 1910 di Arturo Labriola, leader socialista (o, se volete, sindacalista rivoluzionario) napoletano, dedicate alla questione meridionale negli anni novanta  dell’Ottocento.  Era,  come  sappiamo,  il  periodo  in  cui  alla  guida  del  governo  si  alternavano  due  siciliani: Crispi  e  Rudinì.  Logico,  spiegava  Labriola,  che  radicali  e  socialisti  settentrionali  addebitassero  le  loro  politiche «reazionarie»  al  carattere  «ancora  feudale»  del  paese  da  cui  i  due  provenivano38.  Noi  possiamo  suffragare  la  sua ricostruzione  citando,  tra  le  altre  fonti,  una  nota  redazionale  di  «Critica  sociale»,  la  più  autorevole  voce  del  social­ riformismo milanese, in cui la figura di Crispi veniva assimilata a quella dei re delle «tribù selvagge», che indossava sì «il frak di parata del gentiluomo» ma per nascondere «la cartucciera del brigante»39. Questa retorica fece capolino in vari commenti settentrionali alle cronache sul malgoverno municipale napoletano o palermitano; o sulle gesta del banditismo sardo e calabrese, o della camorra (processo Cuocolo). Ne risultava, molto spesso, la criminalizzazione di un’intera società40.  Era  d’altronde  il  tempo  in  cui  gli  antropologi  più  alla  moda  portavano  la  questione  sul  terreno della razza, misuravano crani, evocavano atavismi etnici, al fine di stabilire scientificamente  il  perché  i  meridionali fossero  così  predisposti  a  comportamenti  antisociali  o  criminali  tout  court.  Ne  abbiamo  già  parlato  presentando  la figura di Napoleone Colajanni. Colajanni  riscontrò  questi  problemi  all’interno  stesso  del  fronte  anti­Palizzolo  cui  pure  attivamente  partecipava. Rispose a muso duro al repubblicano romagnolo Alfredo Oriani, che sul milanese «Il Giorno» definiva la Sicilia una

fogna, «un paradiso abitato da demoni», «un cancro al piede dell’Italia». Gli ricordò il periodo postunitario, i tempi in cui  funzionari  e  politici  della  Destra  trattavano  l’isola  come  terra  di  occupazione,  e  proprio per questo fornivano il loro appoggio ai mafiosi. Codronchi, scrisse, era stato solo l’ultimo della serie. «I siciliani – concluse – sono stanchi di essere inciviliti» da gente di quel genere, che nella fogna ha «diguazzato allegramente»41. Nel  complesso,  insomma,  i  corto­circuiti  più  o  meno  strumentali  tra  questione  mafiosa  e  questione  siciliana contribuirono  potentemente  alle  difficoltà  dell’antimafia.  La  sconfitta  però  si  consumò  sul  terreno  giudiziario.  La sentenza che a Bologna aveva condannato Palizzolo e Fontana venne annullata per un vizio di forma dalla Cassazione, e  il  nuovo  processo,  che  si  tenne  a  Firenze  nel  1904,  si  concluse  con  un’assoluzione  di  tutti  gli  imputati  per insufficienza di prove. Palizzolo tornò a Palermo, accolto da una grande folla plaudente. Fece pubblicare un libro che lo  dipingeva  «circonfuso  dalla  smagliante  aureola  del  suo  Dolore  e  della  sua  Virtù»,  dopo  «gli  inauditi  tormenti  di cinque  anni»  di  prigione42.  Mosca  commentò  sul  «Corriere»  che  quell’apoteosi  «offendeva  il  senso  morale», ricordando stavolta le relazioni del deputato con mafiosi e briganti43. Un po’ tardi, viene da dire. 4. Parentele spirituali. Tiriamo un po’ le somme. La mafia si materializza ai nostri occhi come struttura vicaria della pubblica sicurezza, come  elemento  intermedio  tra  legalità  e  banditismo.  È  parte  di  fluidi  reticoli  relazionali  (locali  o  sovralocali)  che fanno  capo  a  notabili,  proprietari,  funzionari  statali.  Il  reticolo  peraltro  ha  nuclei  più  sodi,  definibili  come  cosche. Queste  riescono  a  far  fronte  ai  loro  nemici,  e  mantengono  una  capacità  di  contrattazione  di  fronte  ai  loro  potenti protettori,  mettendo  sul  tavolo  non  le  debolezze  dei  singoli  ma  la  forza  del  gruppo,  sintetizzabile  nel  concetto  di omertà.  Sappiamo  delle  due  spiegazioni  del  termine:  la  prima  delle  quali  rimanda  al  quadro  di  una  società  segreta (umiltà), la seconda alla cultura diffusa (omineità, ovvero virilismo). L’una non può trionfare nel nuovo clima politico determinato dal passaggio dalla Destra alla Sinistra. Si tratta della fase in cui gli avvocati degli stuppagghieri vincono la  causa,  e  quelli  degli  Amoroso,  pur  perdendo  la  propria,  accreditano  la  spiegazione  alternativa:  quelli  che  a  voi sembrano legami settari, null’altro sono che legami familiari. Viene a sostegno Pitrè: la mafia non è organizzazione, è cultura e tradizione, si colloca in una sfera nella quale i valori prevalgono sui disvalori. La tesi continua nella sostanza a prevalere nel dibattito e nel conflitto delle idee conseguente all’assassinio Notarbartolo. Come  vedremo  nei  prossimi  capitoli,  la  citazione  di  Pitrè  è  stata  in  diversi  tempi  d’obbligo  nelle  arringhe  degli avvocati  dei  mafiosi,  ben  lieti  di  potersi  muovere  su  un  registro  culturale  così  «elevato».  E  gli  studiosi?  Sulla  base dell’argomento culturalista esposto da Pitrè hanno rifiutato a lungo di credere che la mafia fosse un’organizzazione, e in particolare un’organizzazione iniziatica, basata cioè su rituali e giuramenti. È il caso, tra molti altri, del già citato Hess  (1970).  Eppure,  tra  il  1883  e  appunto  il  1970,  fonti  piuttosto  credibili  erano  tornate  a  riferirsi  a  giuramenti  e rituali  di  affiliazione  in  una  quantità  di  occasioni  precedenti.  E  una  miriade  di  testimonianze  ancor  più  attendibili avrebbe  riproposto  questo  tema  anche  in  seguito.  Alla  fine,  a  tagliare  la  testa  al  toro  sono  state  inconfutabili intercettazioni ambientali dei giuramenti stessi. Gli scettici avevano torto. Non si trattava di un’invenzione o, come dicevano  gli  imputati  nei  processi  ottocenteschi,  di  un  «composto  della  questura»,  delle  fantasie  persecutorie  di Sangiorgi e dei suoi colleghi. È piuttosto possibile che qualcuno di costoro ne abbia incoraggiato la diffusione, nei periodi inaugurali e nei luoghi ideali del fenomeno mafioso, in cui (lo abbiamo visto) le relazioni tra potere ufficiale e potere criminale erano fitte. Ad esempio a Monreale (o in qualche altro paese della zona, o in qualcuna delle borgate palermitane) al passaggio tra anni sessanta e anni settanta. Mobilitando i «loro» criminali per costituire un partito d’ordine, i locali funzionari di polizia  si  saranno  posti  il  problema  di  come  tenerli  a  freno.  Possono  averli  incoraggiati  a  praticare  un  rito,  a pronunciare un giuramento. Avranno immaginato che, dopo essere stato pungiutu secondo le regole e aver pronunciato il giuramento rituale, dopo aver attraversato il limen che separa la società di tutti dalla società degli iniziati, qualche delinquente potesse davvero sentirsi un «uomo d’onore»44. Se le cose sono andate più o meno così, bisogna dire che l’operazione si rivelò efficace oltre le intenzioni. Il successo peraltro fu reso possibile dal fatto che quello era di per sé un terreno molto fertilizzato per l’esperienza di  organizzazioni  settarie  sia  antiborboniche  che  cattoliche.  Ed  era  d’uso  che  notabili  e  funzionari  fossero  iscritti  a logge massoniche, o chissà a confraternite. I moduli settari non erano estranei né a quei luoghi né a quel tempo, e solo il  carattere  controversistico  e  identitario  assunto  dalla  discussione  nel  1874­76  fece  sì  che  la  questione  della  mafia venisse posta in forma dicotomica: o organizzazione o specchio della cultura tradizionale. Superata questa strettoia, il discorso può svilupparsi ulteriormente. Ripartiamo  da  Pitrè,  ma  in  un’altra  parte  della  sua  opera,  nella  quale  il  nostro  etnologo  fornisce  una rappresentazione della mafia ben più realistica di quella un po’ oleografica che abbiamo sopra citato: la parte destinata al comparato. Si riferisce alla funzione sociale, in quel tempo e in quei luoghi, della scelta del padrino o della madrina

destinati ad accompagnare il bambino nel rito cattolico del battesimo. Una scelta oculata consentiva alle persone di stabilire relazioni inter­familiari di alleanza, sull’asse verticale destinato a collegare il padrino/madrina e il figlioccio, sull’asse orizzontale tra il padrino/madrina e i genitori del battezzando, divenuti appunto compari. Stavolta Pitrè è disposto a spiegare come i criminali strumentalizzino materiali culturali disponibili «a tutti». «Tra persone  temibili  per  indole  rissosa  e  vendicativa,  tra  gente  alla  quale  siano  norma  di  condotta  i  principi  della cosiddetta mafia, il comparatico è un gran bene e un gran male». È un bene perché il rituale può riconciliare fazioni contrapposte. È un male perché fornisce alle alleanze una straordinaria compattezza. «Da ciò il gran danno di persone facinorose, le quali strette a questo vincolo, si danno segretamente la mano l’una con l’altra, senza restrizioni, […] pronte a mettersi per aiuto del compare a qualsiasi sbaraglio», e in particolare a conservare a qualsiasi costo il silenzio di  fronte  alla  giustizia.  Ne  consegue,  per  logica  conseguenza,  l’ammonimento  proverbiale:  «Cumpari  sbirru  nun pigghiari  /  Du  cumpari  sbirru  nun  ti  fidari»  –  non  prenderti  uno  sbirro  per  compare,  non  di  fidare  di  un  compare sbirro45. Pitrè  spiega  che  il  «popolo  siciliano»  giudica  il  comparato,  parentela  artificiale  («spirituale»),  più  importante  di quella  naturale  («di  sangue»)46.  Perché?  Perché  si  tratta  di  una  scelta  strategica,  che  consente  di  allargare  nella direzione più conveniente il raggio delle alleanze, ma conservando la forza della solidarietà, «calda» e coinvolgente, dell’istituto  familiare.  Tra  i  documenti  di  polizia,  almeno  tra  quelli  che  ho  letto  o  ricordo,  il  primo  che  pone  la questione (per la cosca mafiosa di Villabate) è molto tardivo (1927): «Il battesimo nella storia della delinquenza di queste borgate, costituisce un legame indissolubile di fedeltà e di comunione d’interessi. Col battesimo, le famiglie si consolidano in un giuramento di vita e di morte, a tal punto, che si rendono comuni gli affari, e quasi anche le cose più intime»47. Io aggiungo: la Fratellanza mafiosa o «Onorata società» riproduce e allarga ulteriormente il meccanismo. Anche  qui  abbiamo  un  battesimo,  un  rito  di  passaggio,  un  padrino  e  dei  compari48.  In  Cosa  nostra  il  gruppo­base dell’organizzazione è chiamato Famiglia, anche se ben poco, o per nulla assomiglia a una famiglia naturale.  Anche qui: si tratta di una parentela «spirituale», o meglio artificiale e strumentale. E la Famiglia di mafia, al pari di quella massonica, è composta da soli maschi, e reinterpreta l’omertà come virilismo. Che il modello della società segreta sia tutt’altro che estraneo alla cultura popolare siciliana può vedersi anche dal revival tardo­ottocentesco della leggenda dei Beati Paoli, in particolare dalla fortuna del romanzo omonimo scritto da Luigi Natoli, intellettuale repubblicano e storico sicilianista, e pubblicato «in appendice» al «Giornale di Sicilia» tra il 1909 e il 1910. Il romanzo ebbe uno straordinario successo di pubblico, entrando stabilmente a far parte della cultura popolare palermitana e in generale siciliana. Sintetizziamone  la  trama.  I  Beati  Paoli  vi  sono  presentati  come  una  società  segreta  che  nei  primi  del  Settecento difendeva il popolo siciliano oppresso dal malgoverno straniero (spagnolo, ma anche piemontese!) e dalle trame dei potenti e dei corrotti locali, che manipolavano la legge «ufficiale», servendosene ai danni dei poveri e degli onesti. Due  citazioni.  Quella  in  cui  i  capi  esprimono  l’ideologia  antistatale  della  società.  «La  giustizia  dello  Stato»  va  a beneficio  «dei  più  forti,  ma  questa  giustizia  è  la  più  mostruosa  delle  iniquità»;  il  terrore,  il  mistero,  l’ombra rappresentano  gli  unici  mezzi  efficaci  perché  un  uomo  possa  «difendere  sé,  la  sua  casa,  l’onore  delle  sue  donne». Quella in cui viene descritto il giuramento. Il padrino chiede all’aspirante di giurare «per i santi vangeli, per il santo apostolo Paolo, per il tuo sangue, che sarà versato stilla a stilla», spiegando all’affiliando che, dopo, il suo corpo e la sua anima apparterranno alla società. Lui risponde: «lo giuro; e che questa croce scritta col mio sangue segni la mia sentenza se verrò meno all’obbligo mio»49. Può essere interessante rilevare che Pitrè collaborò con Natoli, fornendogli qualche riferimento bibliografico su cui lavorare. Convergenza paradossale, visto che il secondo accreditava sullo scenario pubblico il modello settario che il primo aveva così ben delegittimato sullo scenario pubblico. (Ma, lo abbiamo detto, i rispettivi punti di vista non erano così  incompatibili  tra  loro).  Può  venire  naturale  una  domanda.  Pitrè  da  una  parte,  e  Natoli  dall’altra,  volevano legittimare  la  mafia?  Non  è  questo  il  punto.  Diciamo  che  fornirono  materiali  per  un’«invenzione  della  tradizione» analoga  a  quelli  che  così  spesso,  ci  ha  spiegato  in  sede  storiografica  Hobsbawm,  servono  alla  costruzione  delle identità politiche. L’ideologia dei due era sicilianista, come lo era quella di tanti altri membri della classe dirigente che fornivano  lavoro  e  protezione  ai  mafiosi,  degli  aristocratici  e  dei  notabili  della  Sicilia  occidentale  tra  Otto  e Novecento. L’ideologia della mafia non è mai stata propriamente di tipo politico ma, se la volessimo definire in quel senso, dovremmo guardare a questo filone. L’esperienza del «Pro­Sicilia» ci mostra la via. Il riferimento agli argomenti elaborati dalla cultura siciliana in questa prima fase, cioè l’uso di Natoli e ancor più di Pitrè, è stato davvero continuativo nel tempo, ha segnato il lungo periodo nella storia della mafia. Lo vedremo man mano. 1 APCD, Discussioni, tornata dell’8 luglio 1896, pp. 7315­53 e in particolare p. 7347. 2 Ai più sospettosi, sembrava addirittura che quelle proprietà gli servissero solo per «tenerci dei pregiudicati»: Marchesano 1902, p. 332.

3 Azzolina ­ Blando 2017, pp. 509 sgg. 4 Testimonianza al processo di Milano del questore di Messina Peruzy, già ispettore di Ps a Palermo, in «Giornale di Sicilia», 23­24 novembre

1899. 5 Così disse almeno al presidente del Senato Farini: Farini 1961,II, p. 908. 6 Documenti vari in BCI, Carte Cordonchi. 7 Marchesano 1902, p. 120. 8 ACS, MI, AAGGRR, 1879­1903, b. 1, fasc. 1/11, telex del 18 dicembre 1899. 9 Il delegato A. Cutrera al questore, 26 e 27 gennaio 1900, in ASPA, GQ, b. 20. Il mafioso­finanziere si chiamava Antonio Perez. 10 Rispettivamente, lettera del 9 marzo e relazione del 4 aprile 1898 in ASPA, GP, b. 172. Più in generale, Lupo 1990b, pp. 159 sgg. 11 Barone 1975. 12 Notarbartolo 1949. 13 Cfr. ad esempio De Felice Giuffrida 1900, e soprattutto l’arringa finale di Marchesano a Bologna, pubblicata in volume: Marchesano 1902. 14 «Gazzetta piemontese» del 14 febbraio 1889, cit. da Dickie 2011a, p. 173. 15 Diemoz 2011, pp. 104­6 e 113­6. 16 Ibid., p. 106. 17 Relazione del prefetto del 24 ottobre 1900, pp. 3 e 4, in ASPA, GQ, b. 20. 18 Rapporto Sangiorgi, p. 146. 19 Siino fornisce cifre diverse (670 elementi) riferendosi ai due partiti, il suo e quello di Giammona. Forse perché vi comprende i «cagnolazzi», termine col quale, io credo, si riferisce a fiancheggiatori non affiliati. 20 Rapporto Sangiorgi, p. 51. 21 Ibid., p. 68. 22 Ibid., pp. 54 sgg. 23 Ibid., p. 80. 24 Ibid., p. 82. 25 Coco 2013, p. 36. 26 «Corriere della Sera», 30­31 ottobre 1901. 27 Mosca 2002, pp. 8 e 9. 28 Più precisamente negava l’esistenza di «segnali di riconoscimento» tra affiliati: ibid., pp. 54­5. 29 Ibid., pp. 57­8 e 51. 30 Si vedano gli articoli in Mosca 1980. 31 In «Corriere della Sera», 1­2 ottobre 1901. 32 Riportata in Marchesano 1902, p. 309. 33 «La Battaglia», 10 novembre 1901, cit. da Renda 1972, p. 405. 34 G. Pitrè, Pro­Sicilia, in «Giornale di Sicilia», 7 luglio 1902. Va detto che il maggior quotidiano palermitano era schierato contro Palizzolo. L’articolo venne pubblicato con una nota della redazione che dichiarava di non approvare le idee del suo «illustre collaboratore». 35 In «Giornale di Sicilia», 31 marzo­1° aprile 1902. 36 Marchesano 1902, pp. 292 e 294­5. 37 Blando 2017a, pp. 100­1. 38 Labriola 1975, p. 101. 39 Saprofiti politici, in «Critica sociale», 1895, pp. 194­5. 40  Commento  di  Labriola  1975,  p.  102:  «si  mostrerà  quanto  fosse  poco  progressiva  la  mente  del  socialismo  settentrionale,  che  in  luogo  di impostare la sua campagna contro un sistema politico spostava la questione a tutta una regione». 41 Colajanni 1900, p. 39. L’articolo di Oriani uscì sul «Giorno» l’8 gennaio 1900. 42 Calpurnio 1908, p. 10. Chi fosse questo fantomatico Calpurnio non so. 43 In Mosca 1980, p. 58. 44 Ma sulle società segrete e il codice del segreto rimando alla classica analisi di Simmel 1998, pp. 292 sgg. 45 Pitrè 1978, pp. 269­70. 46 Ibid., p. 255. 47 Rapporto del 29 marzo 1927, in ASPA, TCP, b. 3240. 48 Così gli affiliati si chiamano secondo Alongi 1977, p. 109 e passim. 49 Natoli 2017, pp. 549­50 e 160.

IV. Tra Sicilia e America: prima e seconda ondata

La  Grande  emigrazione  otto­novecentesca  portò  milioni  di  italiani  nelle  Americhe.  E,  con  l’inizio  del  nuovo secolo, i siciliani scelsero gli Stati Uniti in una percentuale più elevata (72%) di tutti gli altri italiani. Erano spinti dal bisogno, ma anche consapevoli di andare incontro a grandi opportunità. Trovarono una frontiera permeabile, una porta quasi aperta, e il loro esodo raggiunse il culmine nel 1906 e nel 1910. In certe zone di New York, o anche in altre grandi  città  come  Chicago,  crearono  ibridi  culturali,  le  Little  Italy.  Molti  tra  loro  finirono  per  restare,  ma  una percentuale  sorprendentemente  elevata  faceva  su  e  giù  per  l’Atlantico,  magari  ogni  anno.  Li  chiamavano  birds  of passage. «Funesti  presagi»  alimentarono  un  ultimo  formidabile  boom  nel  1919­20,  poi  la  porta  venne  chiusa,  nel  1921  e ancor più decisamente nel 19241. Il governo federale varò cioè una legislazione molto restrittiva sull’immigrazione, intesa a garantire la supremazia numerica nel paese dell’elemento razziale «nordico». Nel contempo auspicava che i figli  dei  miserabili  arrivati  dall’Europa  mediterranea  o  dell’Est,  la  «seconda  generazione»,  si  americanizzassero. Cercava in particolare, e qui veniamo al nostro argomento, di farla finita con la criminalità straniera. Quella dell’immigrazione non fu l’unica proibizione che caratterizzò il dopoguerra americano: ci fu anche quella della  produzione  e  del  commercio  degli  alcolici  (1920).  Tendeva  anch’essa  a  creare  uniformità,  riportando  gli americani,  immigrati  o  anglosassoni,  alle  virtù  private  e  pubbliche  dei  padri  fondatori.  Ma  per  alcuni  aspetti  i  due proibizionismi  conseguirono  effetti  perversi,  opposti  cioè  a  quelli  che  si  proponevano  di  realizzare.  La  proibizione degli alcolici generò contrabbando su larga scala, offrendo straordinarie occasioni di arricchimento a una nuova leva di criminali. E le leggi restrittive sull’immigrazione non impedirono l’arrivo dei criminali che avrebbero fornito buona parte  del  quadro  dirigente  –  di  lì  a  molti  anni  –  alla  Cosa  nostra  americana:  una  «seconda  ondata»  mafiosa (postbellica) che andò ad aggiungersi alla «prima ondata» (prebellica).

Figura 4. La sponda americana.

1. Complotto straniero? La  New  York  di  inizio  Novecento  veniva  da  una  storia  già  antica  di  criminalità  etnica,  legata  alle  ondate migratorie. Ed era criminalità organizzata, per una parte importante legata all’industria «del vizio»: gioco d’azzardo, lotterie,  scommesse,  prostituzione.  Si  trattava  di  affari  semi­legali.  Gli  imprenditori,  per  garantirne  l’ordinato svolgimento, assoldavano gunmen («pistoleri»), ma contavano anche su un occhio di riguardo della polizia. In cambio procuravano  voti  e  finanziamenti  alla  «macchina  politica»  cittadina,  e  particolarmente  a  Tammany  Hall, l’organizzazione  elettorale  del  Partito  democratico.  (La  polizia  dipendeva,  e  dipende,  dall’amministrazione

municipale). Gli irlandesi, che a metà Ottocento avevano alimentato i più forti flussi migratori, svolgevano un gran ruolo e nell’affarismo para­criminale e nella macchina politica e nella polizia. Gli italiani, ultimi arrivati, no. In larga maggioranza, a quel tempo neanche votavano. Partecipavano  però  del  cosiddetto  padrone  system,  che  era  poi  una  forma  di  racket  sul  lavoro  –  o,  per  usare l’espressione  inglese,  di  labor  racket.  Questi  cosiddetti  padroni  erano  degli  italiani  che  procuravano  lavoro  ai connazionali, e lavoratori agli imprenditori americani, ricavando tangenti dagli uni e dagli altri. Molto spesso erano loro  stessi  a  finanziare  i  viaggi  dei  migranti,  tanto  che  alcuni  di  loro  si  autodefinivano  «banchieri».  Tra  loro  c’era gente  onesta,  ma  anche  affaristi  e  criminali.  Molti  anni  dopo  (1958),  per  spiegare  le  origini  della  mafia  negli  Stati Uniti, gli informatori dell’Fbi si sarebbero riferiti proprio a gente di questo genere: chiamandoli «cumpars» (compari) o «block bosses» (boss di caseggiato)2. Si collocava invece decisamente nel campo delinquenziale, a partire all’incirca dal 1903, il fenomeno della «Mano nera»: sigla comparsa in calce a lettere estorsive indirizzate a italiani agiati, cui talora seguivano atti di violenza, e in particolare attentati dinamitardi3.  Era  dubbio  che  si  trattasse  di  criminalità  organizzata;  nondimeno,  una  quantità  di giornalisti e politici assunse quella sigla – Mano nera – come il nome di un’associazione criminale o società segreta, originatasi  nel  vecchio  mondo  e  trapiantatasi  nel  nuovo.  D’altronde,  già  da  un  quindicennio  l’America  aveva cominciato  a  parlare  di  mafia  in  questa  maniera:  immaginandola  come  una  setta  straniera,  chissà  se  nazionalista  o anarchica,  comunque  impegnata  a  complottare  contro  le  libertà  americane.  E  antichissima,  al  pari  del  tenebroso mondo mediterraneo da cui veniva. Citiamo tra tutte la tesi bizzarra che riconduceva la parola stessa a un (presunto) slogan patriottico dei tempi della rivolta antifrancese dei Vespri siciliani (1282) – «Morte Ai Francesi Italia Anela», in sigla appunto MAFIA4. Questa mitologia era in parte frutto di razzismo o pregiudizio anti­italiano (anti­meridionale, anti­siciliano), ma per un’altra  parte  risentiva  paradossalmente  di  un’apologetica  filo­mafiosa,  a  suo  modo  sicilianista.  Non  ci  stupiamo dunque  di  trovarla  trasportata  in  America  da  un  personaggio  a  noi  ben  noto  e,  in  questo  campo,  autorevolissimo  – Raffaele Palizzolo. Palizzolo sbarcò a New York nel giugno 1908, accolto da festeggiamenti e banchetti in suo onore. Recitò poesie in omaggio all’America, si presentò come un perseguitato, impegnò la propria oratoria nella difesa del buon nome dei suoi corregionali dalle calunnie cui erano fatti oggetto – nel vecchio come nel nuovo mondo. I giornalisti del «New York Times» sapevano che quel tizio era stato accusato di aver fatto «rinascere» l’antichissima società della mafia, e decisero di intervistarlo5.  E  lui, nell’intervista,  si  presentò  proprio  come  l’epigono  di  un  tempo  remoto. Si vantò di discendere  da  una  nobile  famiglia  di  età  angioina.  Spiegò  che  la  parola  mafia  veniva  dall’arabo  e  voleva  dire «perfezione». Tracciò l’equazione di rito tra omertà e virilità. Quando gli fu chiesto se davvero la mafia fosse nata coi Vespri siciliani, rispose che era così «senza dubbio», che da allora, attraverso «secoli di oppressione», aveva difeso i siciliani. Poco importava, precisò, che facesse ricorso a mezzi illegali: chi meglio degli americani poteva capire che l’unica legge da rispettarsi è quella che ogni popolo si crea da sé?6 Insomma Palizzolo proponeva l’ideologia mafiosa con un’impudicizia che non avrebbe forse potuto permettersi in patria;  mettendo  insieme  l’argomento  della  mafia  come  specchio  della  cultura  tradizionale  (diciamo  Pitrè)  e  quello della  mafia  come  società  segreta  (diciamo  Natoli).  Pensava  magari  di  galvanizzare  i  suoi.  Sperava  di  indurre l’America  a  solidarizzare  con  i  siciliani,  dipinti  come  un  popolo  oppresso.  Di  fatto  mise  in  difficoltà  i  maggiorenti della comunità italiana o siciliana che stavano cercando in tutti i modi di sottrarsi alla nomea di barbara e criminale, che  era  in  cerca  di  rispettabilità;  coloro  che  si  mostravano  pronti  a  collaborare  con  le  autorità,  e  costituivano associazioni dette della «Mano bianca» per dimostrarlo. Per incoraggiare queste collaborazioni, per fronteggiare il problema della criminalità etnica italiana e della Mano nera, il New York Police Department aveva nel frattempo creato una «Squadra italiana», affidando in essa un ruolo di punta al detective Joe Petrosino (1860­1909), nato a Padula, provincia di Salerno. Petrosino, in un primo tempo, paragonò i black­handers a banditi di campagna malamente trapiantati nel luogo più moderno  del  mondo,  destinati  a  essere  eliminati  appena  gli  «italiani  agiati»  si  fossero  resi  conto  dei  vantaggi  della legalità americana7. Poi, cavalcando il crescente allarme pubblico, dichiarò che New York stava divenendo il rifugio di  criminali  provenienti  dalle  più  miserabili  e  barbare  regioni  del  Sud  Italia.  La  sua  «Squadra  italiana»  provvide  a diverse espulsioni, ma poteva essere espulso solo chi aveva precedenti penali. Un maggiorente dell’amministrazione municipale decise allora di spedire Petrosino in Italia per una missione più da agente segreto che da poliziotto: cioè per acquisire riservatamente informazioni sulle fedine penali dei sospetti aderenti alla Mano nera. Così nel febbraio 1909 il detective partì da New York per Roma e poi per Palermo. Non sarebbe tornato più. Venne assassinato a colpi di pistola in pieno centro di Palermo, la sera del 12 marzo 1909. Imponenti manifestazioni popolari di cordoglio sia a Palermo che a New York mostrarono tra l’una e l’altra sponda sintonie  potenziali  che  nessuno  valorizzò.  Al  contrario,  negli  Stati  Uniti  molti  sentenziarono  che  gli  italiani  erano

incompatibili con la vita civile, e invocarono la limitazione o la proibizione dell’immigrazione8. Il luogo e il modo del delitto  erano  d’altronde  destinati  a  rafforzare  molte  convinzioni  sul  super­complotto  della  Mano  nera  o  mafia  che fosse, e l’impressione che il governo italiano vi fosse coinvolto. Perché, si chiesero i giornali, il poliziotto americano non aveva goduto della protezione dei colleghi italiani? Il  questore  palermitano  Baldassarre  Ceola  replicò  stizzito  che  era  stato  proprio  Petrosino  a  rifiutare  la  scorta comportandosi con «imprudenza che riesce quasi inesplicabile». Polemicamente rilevò che il detective, comportandosi in  quel  modo,  aveva  mostrato  di  condividere  il  «pregiudizio  di  coloro  tra  i  siciliani  che  credono  di  essere  meglio protetti rivolgendosi anziché alle Autorità e alla Giustizia a qualche noto e temuto delinquente che eserciti autorità e influenza»9. 2. Prima gang siculo­americana. Il  questore  Ceola  precisò:  le  responsabilità  del  delitto  Petrosino  erano  da  attribuirsi  a  un’«alta  delinquenza» siciliana, cresciuta in pericolosità «abusando della maggiore libertà» d’oltreoceano10.  Era  indirizzato su quella  pista da certe lettere anonime a firma «un siciliano onesto», che gli erano giunte da New York, e che indicavano i mandanti del delitto. Si trattava dei capi di una gang appunto siculo­newyorkese, su cui Petrosino aveva indagato in occasione del cosiddetto «delitto del barile» (1903). Era gente che veniva da alcuni dei luoghi più tipicamente «di mafia» della Sicilia occidentale, come si può vedere dalla figura. Ai membri della gang possiamo in effetti attribuire la qualifica di mafiosi per tre ragioni. 1) Erano, alla Franchetti, facinorosi della classe  media  che  già  nell’isola  natia  avevano  un  curriculum  mafioso. 2) Mantenevano relazioni coi mafiosi  siciliani  che  approdavano  nel  nuovo  mondo.  3)  A  New  York,  in  quell’ambiente  così  radicalmente  diverso, adottavano uno stile di lavoro analogo a quello, a noi noto, dei loro colleghi palermitani. I boss in questione erano due. L’uno, Giuseppe Morello, detto Piddu, era nato il 2 maggio del 1867 a Corleone11. Era emigrato, o meglio scappato negli Stati Uniti dopo il 1894, anno di una sua condanna in patria per omicidio. A Manhattan, nella più classica delle Little Italy tra Elizabeth Street, Mulberry Street e Mott Street, investì in un negozio di barbiere e in un negozio di scarpe12.  Si  fregiava  del  titolo  di  «banchiere»  perché  finanziava  i  compaesani  –  non sappiamo a che fine  e  con  quali  tassi  d’interesse.  L’altro  boss  era  suo  cognato, Ignazio Lupo. Era nato il 21 marzo 1877  a  Palermo.  In  un  negozio  di  tessuti  di  sua  proprietà,  nell’ottobre  1898  aveva  ucciso  a  revolverate  un «trafficante»,  fuggendo  poi  a  New  York  per  evitare  21  anni  di  prigione13.  Qui  cambiò  cognome  assumendo  quello materno di Saitta per confondere gli americani (i quali a loro volta lo storpiavano in Saietta), e usando il cognome alla stregua di un soprannome che suonava minaccioso – «the wolf». Sempre a Little Italy mise su negozi di alimentari e una grossa ditta di importazione «di olio di oliva e limoni», in collaborazione con esportatori siciliani. Anche lui si qualificava come «banchiere»14.

Figura 5. Una gang intercontinentale.

Cito tre mafiosi siciliani in transito negli Stati Uniti che entrarono in relazione con Morello. Il primo era Giuseppe Fontana, che già conosciamo come sospetto killer di Notarbartolo. Sbarcò a New York nel 1905 con la famiglia, venne da  Morello  aiutato  a  mettersi  in  affari  e  inserito  nella  gang,  nella  quale  fece  la  sua  parte  almeno  finché  finì ammazzato. Il  secondo,  Vito  Cascio­Ferro  (1862­1943),  va  presentato.  Era  nato  a  Palermo,  e  si  era  stabilito  giovanissimo  a Bisacquino, paese dell’interno, al seguito del padre, incaricato da un latifondista di mantenere l’ordine nei suoi feudi. Tipico  circuito  integrato  tra  mafia  della  capitale  e  mafia  dell’interno.  Ebbe  una  giovanile  esperienza  socialista,  nel movimento dei fasci15. Poi si portò nel settore conservatore, studiò da capomafia e, per un incidente di percorso con la legge, nel 1901 decise di cambiare aria con un viaggio in America. Dopo di che, se ne tornò in patria. Era proprio lui che la lettera anonima già citata indicava anche l’organizzatore in loco del delitto Petrosino. Il  terzo  era  Francesco  Motisi,  maggiorente  della  cosca  palermitana  di  Pagliarelli,  e  schedato  nel  Rapporto Sangiorgi come tale. Si trattava di un grosso esportatore di agrumi, e anche di un politico, visto che faceva parte del consiglio comunale cittadino. Per sfuggire a un mandato di cattura appunto nell’ambito delle inchieste di Sangiorgi, assunse il falso nome di Francesco Genova e approdò a New Orleans, dove assurse a una qualche notorietà, sia nelle cronache  economiche  come  «uno  dei  principali  importatori  dalla  Sicilia»,  sia  in  quelle  criminali  con  un  arresto  per estorsione16.  Dei  rapporti  tra  Motisi­Genova  e  Morello  sappiamo  da  una  lettera  del  1902,  nella  quale  il  primo rivendicava il proprio buon diritto a esercitare un’influenza sul secondo a preferenza di certi «falsi amici»17. Problemi di  gerarchie  mafiose,  insomma.  Comunque  nel  1907  Motisi  sparì  da  New  Orleans,  per  ricomparire  subito  dopo dall’altro lato dell’oceano, a Liverpool, dove rimise su, come niente fosse, una ditta di importazione di limoni e altri prodotti alimentari18.  All’indomani  della  guerra,  lo  troveremo  nuovamente  inserito  nel  Gotha  mafioso  palermitano: solo, dotato di un nuovo nomignolo, «u miricanu», insomma «l’americano». In ultimo, veniamo allo stile di lavoro di Morello e Lupo, che già abbiamo definito come tipicamente mafioso. Si interessavano  di  attività  legali,  connesse  al  commercio  di  prodotti  alimentari  tra  Sicilia  e  America,  e  di  certo partecipavano del «padrone system». Non per questo scartavano i settori propriamente illegali, e in particolare (al pari dei colleghi palermitani, come Morello stesso aveva fatto in patria) fabbricavano e spacciavano denaro falso. Questo però attirò su di loro l’attenzione di un nemico potente, il Servizio segreto degli Stati Uniti, e personalmente quella del suo dirigente William J. Flynn – personaggio di primo piano, destinato a guidare l’Fbi.

Questo super­poliziotto raccontò l’indagine in una serie di articoli giornalistici, dai quali traiamo una descrizione del  modo  in  cui,  nelle  pratiche  della  gang,  le  attività  legali  andassero  a  sostenersi  su  quelle  illegali.  Un  negoziante italiano  (A)  riceve  una  lettera  che,  con  minacce  iperboliche,  pretende  da  lui  cifre  che  non  può  pagare  e  nemmeno saprebbe a chi pagare, almeno finché (fortunato?!) un amico (B) non gli segnala un amico (C). Si tratta proprio di lui, Lupo the wolf. Gli viene presentato come un gentleman, il quale però «conosce molti malfattori provenienti dal suo paese ed ha influenza su di loro». C si dichiara disponibile a far sì che gli estortori si accontentino di una quantità di denaro minore di quanto richiesto inizialmente. A è ben felice di aderire alla transazione. Alla fine «i capi della Mano nera si saranno guadagnati la fiducia e la gratitudine delle loro stesse vittime». I piccoli esercizi alimentari italiani del ghetto  saranno  spinti  a  rifornirsi  in  via  esclusiva  nei  magazzini  dei  due  boss19.  Siamo  al  meccanismo­base  della protezione/estorsione, al gioco delle parti che, per il versante siciliano, abbiamo visto descritto da grandi intellettuali come Mosca e Pirandello. Una  visione  indulgente,  che  riflette  il  punto  di  vista  dei  mafiosi  stessi,  ci  è  stato  restituito  molti  anni  più  tardi (1972) dalle interviste fatte dagli antropologi Francis ed Elizabeth Ianni ai membri di seconda e terza generazione di una famiglia mafiosa imparentata con Lupo e Morello, convenzionalmente chiamata Lupollo. Dicono costoro che il patriarca della famiglia, Giuseppe, nacque a Corleone intorno al 1870, giunse a New York nel 1902 con moglie, due figli e quattrocento dollari, stabilendosi nell’East Harlem. Non sappiamo se in patria costui fosse stato coinvolto in attività criminali. Sappiamo che la somma considerevole che portava con sé di certo lo distingueva dalla schiera dei poveri compaesani senza un soldo. Anche Giuseppe si impegnò nell’importazione dalla Sicilia di merci (olio d’oliva e altri  prodotti  tipici)  e  nella  loro  distribuzione  al  dettaglio,  nonché  di  persone,  compaesani  da  impiegare  in  varie attività, cui prestava denaro ad alto tasso di interesse. Padrone system. E le bombe della Mano nera? Gli intervistati negano  indignati  che  il  patriarca  vi  avesse  parte,  ammettendo  il  suo  coinvolgimento  solo  in  settori  borderline, socialmente  legittimati,  come  l’«Italian  lottery».  E  ribadendo  che  si  trattava  di  un  leader  comunitario,  capace  di mostrare solidarietà non solo verso i parenti, ma anche verso amici e compaesani meno fortunati, di un pilastro della chiesa che nel quartiere organizzava ogni anno la festa di Sant’Antonio20. Nella  pubblicistica  americana,  provò  a  ragionare  sul  modo  in  cui  questi  personaggi  si  auto­definivano  un  testo scritto nel 1912 dall’ex magistrato newyorkese Arthur Cheney Train. Il vero mafioso, spiegò, si indigna quando lo si chiama «Black hander», vuole essere considerato non «un comune criminale, ma un uomo particolarmente sensibile in questioni d’onore». D’altronde, aggiunse, i capi­mafia hanno un loro «regular business»21, e raccontò dell’«italiano ben vestito e di bell’aspetto» che aveva affittato un ufficio in centro a Manhattan, da dove si impegnava a regolare, anche mediante rappresaglie feroci, il mercato dei limoni sull’uno come sull’altro versante dell’oceano22. Quanto al resto,  segnalo  una  battuta  realistica  di  Train:  gli  americani  devono  lasciar  perdere  le  fantasie  sulle  società  segrete medievali, prendere atto che la mafia, a casa propria, è una «macchina politica di straordinario successo», un po’ come la loro Tammany Hall23. Ma torniamo al 1909, ai giorni convulsi che seguirono l’assassinio di Petrosino. La polizia appurò che il detective portava con sé un taccuino con quindici nomi di mafiosi tornati dall’America in Sicilia, e una fotografia di Cascio­ Ferro con la specificazione «pericolosissimo criminale». Voleva indagare su di lui? O piuttosto contava di ricavarne informazioni  e  aiuto?  Si  seppe  che,  contemporaneamente  a  Petrosino,  erano  arrivati  a  Palermo  da  New  York  due elementi  della  gang  Morello­Lupo.  L’ipotesi  investigativa  era  che  fossero  stati  incaricati  di  accordarsi  col  boss  di Bisacquino.  Fu  intercettato  un  telegramma  spedito  da  uno  dei  due  presso  l’indirizzo  newyorkese  di  Morello,  ma indirizzato a Fontana, recante queste enigmatiche parole: «Io Lo Baido lavoro Fontana». Alla fine Ceola chiese l’incriminazione di Cascio­Ferro e di altri diciassette individui, che nel complesso – a suo dire  –  rappresentavano  «quanto  di  più  audace  e  pericoloso  anche  in  linea  di  reati  di  sangue  avvi  nella  mala  vita locale», personaggi che «tutti o quasi sono stati in America e ne sono tornati da poco; tutti o quasi si devono essere colà  resi  responsabili  di  gravi  reati,  come  per  alcuni  di  essi  provano  le  rilevanti  fortune  in  poco  tempo  colà accumulate»24. Ma, con sentenza del luglio 1911, la sezione d’accusa della corte d’appello di Palermo decretò il non luogo a procedere nei confronti di tutti loro. Insufficienza di prove. Come il delitto Notarbartolo fece un problema nazionale italiano della mafia, così il delitto Petrosino ne fece un problema internazionale. Lo scandalo per il primo derivò dalla qualità sociale e della vittima e del mandante, quello per il secondo dal ruolo istituzionale della vittima. Nell’uno e nell’altro caso, le mancate condanne finali dei probabili assassini chiarirono quanto fosse difficile il compito della giustizia. E la giustizia si palesò ancor più impotente nella dimensione internazionale. La stessa missione Petrosino (l’abbiamo definita non a caso da agente segreto) era dovuta alle reciproche diffidenze dei due sistemi repressivi; e la sua tragica conclusione ne fu il risultato. Molti degli imputati del 1911 tornarono tranquillamente negli Stati Uniti, senza che nessuno pensasse a bloccarli25. I mafiosi continuavano a muoversi liberamente tra l’una e l’altra sponda. È

È vero che, alla fine appunto del 1911, in America Morello e Lupo furono condannati a pene pesantissime, trenta e venticinque anni di reclusione, per la questione delle banconote false. Però di fatto uscirono dopo pochi anni. E poi, imprigionati i due capi, restò attiva la loro banda, detta dei Morellos, la quale spostò il centro delle proprie attività dal Lower  East  Side  di  Manhattan  verso  East  Harlem  e  il  Bronx,  gestendo  una  serie  di  attività  legali  e  illegali  (in particolare l’«Italian lottery»), impegnandosi in lotte furibonde contro avverse fazioni siciliane e «napoletane». 3. Dopo la guerra: contrabbando e altro malaffare. E veniamo al periodo successivo alla guerra, nel corso del quale, a New York, crebbe l’incidenza percentuale di elementi  di  origine  italiana  nell’élite  gangsteristica,  essenzialmente  per  due  ragioni.  1)  La  macchina  politica,  e particolarmente Tammany Hall, ancora irlandese ai vertici, stava cooptando i rappresentanti di un milione e mezzo di ebrei, e appunto di 800 000 italiani. 2) Il proibizionismo apriva un’autostrada verso la ricchezza e il potere criminale. Uno  studio  di  Mark  H.  Haller  ci  restituisce  l’identikit  dei  diciassette  maggiori  contrabbandieri  di  alcolici  operanti nell’area metropolitana di New York sul finire degli anni venti: elementi piuttosto giovani, partiti dalla militanza nelle gang giovanili e rapidamente arrivati al top, tra i quali gli italiani erano quattro, contro nove ebrei e tre irlandesi26. Tra gli italiani, o più precisamente i siciliani, emergeva una figura cruciale nella nostra storia: Salvatore Lucania, altrimenti detto Charlie Luciano, soprannome Lucky ovvero fortunato (1897­1962). Attingeremo a quella che è quasi una sua autobiografia. Infatti questo libro non fu firmato da lui, ma fu almeno in una prima versione (lo vedremo più avanti) da lui ispirato: The Last Testament of Lucky Luciano di Martin Gosch e Richard Hammer (1974). In parte si tratta  di  una  fonte  attendibile,  in  parte  no.  Ci  consente  comunque  di  avvicinarci  alla  sfera  della  soggettività  come altrimenti non potremmo fare. Il  nostro  personaggio  nasce  a  Lercara  Freddi,  paese  minerario  della  parte  interna  della  provincia  di  Palermo,  e sbarca a New York al seguito della famiglia nel 1906, dunque all’età di nove anni. Si stabilisce nel Lower East Side di Manhattan, dove ben presto entra a far parte di gang giovanili dedite tra l’altro allo spaccio della droga. Per questa ragione  nel  1916  passa  alcuni  mesi  in  penitenziario  –  per  quella  che  nei  vent’anni  seguenti  rimarrà  la  sua  unica condanna.  Uscito  dalla  prigione  circondato  dall’aura  del  duro,  comincia  a  guardare  «outside,  uptown»27,  verso  il cuore ricco della metropoli. Veniamo immediatamente al punto: a mio parere Luciano va visto come un gangster di origine siciliana, non come un mafioso. Non sappiamo di appartenenze mafiose di nessun membro della sua famiglia, né sulla sponda siciliana né su  quella  americana.  Suo  padre,  Antonio,  non  è  un  trafficante  ma  un  proletario,  a  quanto  sembra  onesto,  che continuerà sempre a disapprovare le attività del figlio. Lui diventa un criminale alla scuola delle gang giovanili, e per molti aspetti il suo punto di vista è quello dell’italo­americano di «seconda generazione». Si pone, e viene posto, sotto l’insegna  dell’americanizzazione,  prende  le  distanze  dal  retaggio  dell’isola  mediterranea  di  partenza.  Lo  pseudo­ testamento  spiega  la  ragione  per  cui,  diciannovenne,  rinuncia  al  suo  sicilianissimo  nome  di  battesimo:  in  prigione nessuno  riesce  a  pronunciare  quel  Salvatore,  e  Sal  o  Sallie  in  inglese  suona  femminile,  cosa  davvero  inopportuna. Meglio Charlie. Dice anche come l’aspirante boss abbandoni il suo cognome, che poliziotti e giornalisti non riescono né a pronunciare né a scrivere correttamente, storpiandolo in Luciano. Meglio Luciano. Quanto  alle  reti  di  relazione.  Nessuno  dei  criminali  con  cui  il  giovane  Lucania  intrecciò  una  più  stretta collaborazione,  e  che  avrebbero  fatto  carriere  importanti  quasi  come  la  sua,  era  siciliano.  Tra  loro,  citiamo  due meridionali  del  «continente»:  Francesco  Castiglia  detto  Frank  Costello,  calabrese  approdato  nell’East  Harlem  nel 1895 ad appena quattro anni, e Vito Genovese, campano, nato nel 1897 ma arrivato più tardi, nel 1912. C’erano anche diversi ebrei28. E a introdurre Luciano nel giro grosso, quello degli alcolici, fu proprio un ebreo: Arnold Rothstein, rampollo di famiglia borghese, giocatore d’azzardo, numero uno (detto: lo «zar») nel mondo delle scommesse. Siamo nella fascia alta degli interlocutori del gangsterismo. Rothstein finanziava la macchina politica democratica e lo stesso Jimmy  Walker,  avvocato  di  origine  irlandese  che  a  partire  dal  1926  fu  sindaco  democratico  della  città,  uomo notoriamente  indulgente  verso  i  vizi  della  metropoli,  i  night­club,  il  mondo  dello  spettacolo  e  naturalmente  gli alcolici29. Proviamo ora a spiegare il perché il proibizionismo, «nobile esperimento» inteso a moralizzare l’America, si sia invece risolto in un potente alimento di malaffare e criminalità: ragioniamo cioè sui suoi effetti perversi30. Il primo fu di tipo economico. Rimanendo la domanda elevata, quello degli alcolici divenne un grande affare e la merce arrivò ai consumatori in barba alle nuove leggi provenendo dal Canada, dal Messico, da navi inglesi collocate fuori delle acque territoriali  o  da  una  miriade  di  distillerie  clandestine.  Il  secondo  fu  di  tipo  morale.  Il  proibizionismo  provocò un’attenuazione  del  confine  che  ognuno  percepisce  dentro  di  sé  tra  legalità  e  illegalità:  moltissimi  cittadini  non consideravano  davvero  illegittimo  il  consumo  dell’alcool,  e  davanti  a  loro  i  bootlegger  (contrabbandieri)  poterono presentarsi come interpreti di un ruolo sociale legittimo, quello dell’operatore di mercato. Citiamo le dichiarazioni del

gangster  per  eccellenza  degli  anni  venti,  Al  Capone:  «Tutto  quello  che  faccio  è  rispondere  alla  domanda  del pubblico»31. Il terzo fu di tipo politico. Le istituzioni non potevano uscire bene da una situazione in cui notoriamente contrabbandieri e rivenditori al dettaglio se ne conquistavano i favori versando tangenti. Il  quarto  effetto  perverso  riguardò  la  composizione  interna  dei  gruppi  affaristico­criminali.  I  bootlegger  non poterono  non  associarsi  a  strong­arm  men  (gente  che  per  professione  usava  la  violenza).  Per  fronteggiare  i concorrenti,  o  per  tutelarsi  da  furti  e  imbrogli,  visto  che  non  potevano  ricorrere  alla  legge  dello  Stato,  che  aveva dichiarato illecito il loro commercio. Qui vorrei segnalare lo schema teorico elaborato, proprio riflettendo su queste vicende,  dal  criminologo  Alan  Block,  basato  sulla  dialettica  tra  due  diversi  modelli  di  organizzazione  criminale, rispettivamente  detti  enterprise  syndicate  e  power  syndicate.  Sotto  la  prima  voce  Block  cataloga  il  tipo  di organizzazione intesa alla gestione degli affari, che è fluida perché segue i cicli o le occasioni dell’economia. Sotto la seconda  voce  ne  cataloga  una  relativamente  più  stabile,  che  ci  mette  la  forza,  offrendo  o  imponendo  la  protezione. Logico  che  il  power  syndicate  tenda  ad  assumere  il  controllo  dell’enterprise  syndicate  ma  –  rileva  Block  –  non necessariamente con successo32. Io trovo lo schema interessante, e proverò a riproporlo per altri casi. Va detto comunque che, insieme al contrabbando di alcolici, giocò un ruolo fondamentale per la formazione della nuova élite gangsteristica metropolitana il labor racket33. Facciamo un esempio non­italiano. Abbiamo da un lato il top­gangster, Arthur Flegenheimer meglio noto come Dutch Schultz, nato nel 1901 a New York da famiglia ebraica borghese: il quale negli anni venti creò ad Harlem e nel Bronx una «baronia» incentrata sul commercio della birra, e nel contempo assunse il controllo del sindacato dei lavoratori alberghieri34. In mezzo c’era l’avvocato Richard Dixie Davis,  un  americano  doc,  proveniente  dal  Sud  degli  States,  il  quale  consigliò  a  Dutch  Schultz  di  offrire  la  propria protezione  ai  cosiddetti  banker  del  gioco  d’azzardo  (o  «policy»);  e  che  più  tardi  vuotò  il  sacco  spiegando  come  il power syndicate e l’enterprise syndicate fossero andati a convergere. Sull’altro versante Jimmy Hines, uno dei leader di Tammany, garantiva la propria protezione politica35. E torniamo al settore italiano illustrando il caso di Joseph «Socks» Lanza, siciliano di seconda generazione, nato a New  York  nel  1901.  Cominciò  nel  1923  a  lavorare  al  «Fulton  Fish  Market»,  nel  Lower  East  Side  di  Manhattan. Assunse  ben  presto  la  guida  di  un  sindacato,  l’United  Seafood  Workers’  Union,  conseguendo  per  i  suoi  tesserati  il diritto  esclusivo  a  scaricare  dai  pescherecci  provenienti  da  mezzo  mondo.  Ogni  anno  l’organizzazione  minacciava scioperi. Poi finiva sistematicamente per ritirarsi, e non tanto per gli incrementi salariali ottenuti, che erano minimi; ma in cambio di agevolazioni e contributi delle imprese, che andavano a beneficio di gruppi più ristretti di amici o degli  stessi  dirigenti.  Insomma  anche  qui  il  labor  racket  fungeva  da  base  di  un  sistema  di  protezione/estorsione. Guidata  da  Lanza  era  anche  la  Market’s  Watchmen’s  Protective  Association,  che  provvedeva  alla  protezione  degli operatori,  di  quelli  ben  disposti  ovviamente,  perché  quelli  mal  disposti  venivano  lasciati  in  balìa  di  estortori  e rapinatori. Nei casi più complicati intervenivano Luciano e Genovese. Il power syndicate, potremmo dire. La polizia di Walker si mostrò sempre tollerante con Lanza, e solo nel 1932 lo zar del Fulton Market (così veniva chiamato) venne accusato di estorsione ai danni degli imprenditori, anche se può dirsi che, in questo come in quasi ogni  altro  labor  racket,  costoro  ne  erano  in  sostanza  favoriti.  Lanza  se  la  cavò  molto  bene.  Alla  fine  ottenne  un contributo  da  ogni  operatore,  piccolo  e  grande,  al  dettaglio  e  all’ingrosso,  riuscì  a  influenzare  il  prezzo  del  pesce  a New York e non solo, costruendoci sopra un business straordinariamente redditizio. Concludiamo  chiedendoci  se  e  quanto  sia  paragonabile  alla  mafia  siciliana  il  gangsterismo  che  prese  (ulteriore) piede negli Stati Uniti degli anni venti. Diciamo subito della principale differenza: la società americana ha carattere multietnico,  e  la  criminalità  riflette  questo  carattere.  Peraltro  proprio  questa  situazione  garantisce  al  gangsterismo americano un consenso popolare tra i connazionali, negli slum miserabili di Manhattan, Brooklyn, Chicago, analogo a quello  di  cui  godono  i  mafiosi  nella  loro  terra  d’origine.  E  più  in  generale  la  risposta  può  essere  positiva  se ragioniamo, per l’uno e l’altro caso, della domanda sociale di regolamentazione di un’ampia «zona grigia» tra legalità e illegalità. 4. Il ponte transoceanico è ancora aperto. Il  sociologo  John  Landesco,  nel  suo  classico  studio  sulla  criminalità  organizzata  a  Chicago  (1929),  sostiene:  la criminalità organizzata anche etnica rappresenta «un prodotto naturale» di un ambiente tipicamente americano, cioè «degli slum delle grandi città»36. Conclusione realistica, confutazione drastica delle mitologie etnocentriche che per spiegare  il  malaffare  hanno  bisogno  di  chiamare  in  causa  un  complotto  straniero.  Vent’anni  più  tardi  un  grande sociologo,  Daniel  Bell,  ribadirà  il  punto:  il  crimine  fa  parte  integrante  dell’«American  way  of  life»,  e  spesso rappresenta per gli immigrati una via alla mobilità sociale37.

Vanno però considerati gli elementi empirici che complicano questo lineare e condivisibile schema interpretativo. In maggioranza i top­gangster newyorkesi di origine ebraica erano nati in America, mentre pressoché tutti quelli di origine italiana erano nati in Italia: l’unico nato a New York (Brooklyn) era Al Capone, trasferitosi però per tempo a Chicago.  Il  dato  contribuisce  a  spiegare  il  perché,  delle  due  sezioni  etniche  del  gangsterismo  imperanti  negli  anni venti e trenta, quella qualificata come straniera nella percezione pubblica fosse l’italiana ben più che l’ebraica. Nel caso del siciliano Luciano (come in quelli dei due italiani non­siciliani, Costello e Genovese), da questo carattere non può essere arguita una filiazione della criminalità italiana nel nuovo mondo da quella del vecchio mondo. In altri casi però la filiazione è evidente. Lo  abbiamo  visto  già  con  Piddu  Morello  e  Ignazio  Lupo,  e  con  la  loro  gang.  Qui  segnaliamo  la  figura  di  Ciro Terranova, fratellastro di Piddu Morello, nato forse nel 1889 a Corleone, sbarcato a New York piccolissimo, che dopo un lungo apprendistato nelle guerre tra le bande entrò a far parte negli anni venti dell’élite ristretta dei top­gangster. Trafficava in alcolici, organizzava lotterie, era ben inserito in Tammany Hall. Come i suoi omologhi d’oltreoceano, si interessava del settore agro­alimentare, tanto da essere soprannominato «re dei carciofi» per il ruolo dominante che esercitava sul mercato newyorkese di questo prodotto. Quando gli fu chiesto a che gruppo criminale fosse affiliato, rispose nello stesso stile adottato dagli imputati del processo Amoroso, nella Palermo del 1883: «Io sono felice a casa con  mia  moglie  e  i  miei  figli.  La  mia  madre  ottantenne  vive  con  me,  e  io  mi  prendo  cura  degli  interessi  della  mia famiglia»38. E  poi  c’era  chi  continuava  a  muoversi  tra  vecchio  e  nuovo  mondo,  i  birds  of  passage  della  mafia.  Una testimonianza,  forse  l’unica,  che  pone  la  storia  in  questa  dimensione  intercontinentale  è  quella  fornita  dal  libro autobiografico (pubblicato nel 1963) di Nicola o Nick Gentile. Nasce nel 1885 a Siculiana, provincia di Agrigento. Passa trentaquattro anni della sua vita (1903­37) prevalentemente negli Stati Uniti, ma con almeno cinque più o meno lunghi  soggiorni  in  Sicilia  (nel  1909­11,  1913,  1919,  1925­26,  1927­30),  nel  corso  dei  quali  non  si  ferma dall’organizzare  affari,  tramare  complotti,  perpetrare  delitti39.  Tra  i  suoi  confratelli,  è  noto  col  soprannome  di «carrettiere»  appunto  per  questo  continuo  oscillare  da  un  continente  all’altro.  E  continua  a  farlo  prima  e  dopo  la guerra,  in  tempi  di  frontiera  aperta  e  in  tempi  di  frontiera  chiusa:  ignorando  cioè  le  politiche  federali sull’immigrazione. Vediamo due passaggi chiave. Il primo: 1903, New York. Nicola sbarca con una valigia, non con il tipico sacco dei poveracci,  per  partecipare  a  un  «giro»  commerciale  e  para­criminale  che  dice  gestito  da  un’«organizzazione  molto chiusa,  una  specializzazione  di  un  gruppo  di  emigranti  di  Siculiana»,  a  suo  dire  dedita  a  un  certo  commercio truffaldino  di  tessuti40.  La  rete  dei  compaesani  è  pronta:  uno  di  loro  gli  fornisce  il  denaro  per  un  immediato trasferimento nel Kansas dove già opera il fratello. Il secondo: 1915, Pittsburgh, Pennsylvania. Nicola assume la guida di un gruppo di «picciotti», che schiera in difesa di uomini d’affari siciliani legati (ancora) al commercio di prodotti tipici,  e  minacciati  dalle  primitive  pratiche  estorsive  proprie  dei  «camorristi»  (napoletani  e  calabresi).  Insegna  ai criminali  quant’è  meglio  agire  d’accordo  con  gli  imprenditori,  e  anche  tra  di  loro.  Prima,  però,  fa  uccidere  il  suo predecessore41. Registriamo ora alcune informazioni generali fornite dal nostro testimone sulla storia della mafia, che lui chiama «onorata società». Anche qui è opportuna una premessa: questo testo è attendibile in alcune parti, meno in altre. Va comunque capito il suo punto di vista: guarda alla connessione intercontinentale, e alle componenti della criminalità siciliana e americana più legate alla connessione stessa. Gentile  spiega  che  alla  guida  della  succursale  americana  si  sono  alternati  tre  «capi  dei  capi»:  Piddu  Morello nell’anteguerra,  Salvatore  Totò  D’Aquila  nel  dopoguerra,  Joe  Masseria  nei  secondi  anni  venti.  Noi  già  conosciamo Morello,  aggiungiamo  dunque  qualche  particolare  biografico  sugli  altri  due:  D’Aquila,  nato  nel  1877  a  Palermo, arrivò  nel  1906  (all’età  di  29  anni)  a  New  York,  dove  intraprese  una  carriera  criminale  che  tra  l’altro  lo  portò  in conflitto con i Morello; Masseria, nato nel 1886 a Menfi (provincia di Agrigento), sbarcò in America nel 1902, e alla fine della sua carriera era in effetti conosciuto anche nella stampa americana col soprannome «the boss», il boss per eccellenza42.  Io  nondimeno,  come  ho  fatto  altrove,  voglio  mettere  in  guardia  il  lettore  dal  carattere  un  po’  mitico dell’idea  del  super­capo.  Aggiungo  che,  come  altri  informatori  dall’interno,  Gentile  traccia  un  quadro  sin  troppo ordinato, insiste sulle regole intese a garantire la pace interna e poi, in concreto, il suo racconto consta di tradimenti, abusi, ferocia, massacri. In particolare, sia D’Aquila che Masseria finirono ammazzati. Nessuna successione pacifica ordinata, di tipo monarchico, dall’uno all’altro. Lo scarto tra i fatti e l’ideologia, in questo come negli altri racconti dei mafiosi, è elevato. Tra le notazioni realistiche di Gentile, segnalo il parallelo tra l’onorata società e la massoneria «per quanto riguarda l’assistenza ai [loro] associati»43. Noi abbiamo già segnalato il legame storico e funzionale tra modello massonico e modello mafioso. Possiamo riconsiderarlo nella dimensione transcontinentale. Come uomini d’affari e professionisti

traggono  dall’adesione  a  una  singola  loggia  massonica  possibilità  di  accesso  a  reticoli  relazionali  ben  più  vasti  di quelli locali, così fanno anche gli affiliati a gruppi mafiosi diversi, anche situati in diversi continenti. Tornerò  più  avanti  su  alcuni  dei  molti  intrighi  mafiosi  (trascurerò  quelli  politici)  cui  Gentile  racconta  di  essersi dedicato sull’una e sull’altra sponda. Dico ora che il personaggio era noto al Federal Narcotic Bureau (non saprei da quando) come trafficante in stupefacenti su scala nazionale e internazionale – attività su cui nell’autobiografia (come fanno altri della sua risma) tace pudicamente finché è possibile. Fornisco  alcune  informazioni  sulla  partecipazione  di  mafiosi  al  narcotraffico  già  negli  anni  venti.  Un  Calogero Orlando nato nel 1906 a Terrasini, partito nel 1922 con 400 dollari, stabilitosi a Detroit, tornato una prima volta a casa nel 1928 con 800 dollari, fece in diverse occasioni su e giù finendo con l’arricchirsi con un commercio che lui diceva di  acciughe  salate  e  sardine,  mentre  le  autorità  italiane  erano  certe  si  trattasse  di  morfina44.  Nel  1926  le  autorità americane  minacciarono  rappresaglie  commerciali  in  seguito  ad  arrivi  dalla  Sicilia  di  oppio  e  morfina,  stupefacenti che  vennero  sequestrati  a  Palermo  in  grosse  quantità,  nascosti  in  casse  di  agrumi  e  altre  confezioni  alimentari  che stavano per essere imbarcate per New York, mittente una ditta Morello – non so se in qualche modo collegabile a don Piddu45. Fonti Fbi dicono di mafiosi newyorkesi che in quel periodo importavano droga dalla Sicilia nascosta in barili di olio d’oliva46. Partendo da questi elementi, proviamo a interpretare alcune vicende narrate nell’autobiografia del carrettiere. 1919, Cleveland, Ohio. Nick si mette in società con il suo compaesano Peppino/Joe Lonardo, boss emergente della mafia locale, facendo incetta di whiskey nell’attesa che, con la messa al bando degli alcolici, il prezzo salga. 1925, Palermo, Sicilia.  Lonardo  consegna  a  Gentile  un  robusto  assegno  perché  acquisti  prodotti  tipici  dell’isola,  sardine,  olio, formaggi, da mandare in America. 1926, di nuovo Cleveland. Il carrettiere si ripresenta a Lonardo: adesso dispone del capitale  «fresco»  per  rientrare  nel  giro  degli  alcolici47.  È  possibile  che  davvero  venissero  dal  commercio internazionale di sardine, i soldi che i due investivano nel contrabbando di alcolici. È possibile anche che venissero dal traffico di droga. Quali che siano le sue  vere  attività,  Nick  Gentile  continua  a  percorrere  il  ponte tra Sicilia e America, tra le due mafie, prima e dopo la guerra. Ma una quantità di persone lo percorre per la prima volta dopo, come a vanificare le finalità dei provvedimenti restrittivi sull’immigrazione presi dalle autorità federali. Documenti ufficiali statunitensi di molto successivi registrano l’arrivo negli Stati Uniti, tra la fine della guerra e gli anni venti, di circa 500 «mafiosi»48. Si  veda  la  tabella  sui  criminali  destinati  ad  avere  un  ruolo  dirigente  in  Cosa  nostra  americana  (nell’organizzazione mafiosa che di lì a molti anni sarebbe stata indicata con quel nome). Abbiamo  elementi  della  «prima  ondata»  migratoria  (prebellica)  ed  elementi  di  questa  «seconda  ondata» (postbellica).  Di  questi  ultimi  cominciamo  a  delineare  i  caratteri.  Si  insediarono  a  Brooklyn,  nuova  frontiera  della sicilianità  newyorkese.  Cinque  su  sei  provenivano  dalla  fascia  costiera  della  Sicilia  occidentale  (uno  solo  dalla Calabria). I cinque siciliani molto continuarono a sentirsi parte della cultura d’origine e, a quanto pare, continuarono a parlare di regola in dialetto. Insomma, si americanizzarono poco: d’altronde, arrivarono già adulti. Nel nuovo mondo portarono  modelli  di  organizzazione  criminale  di  stampo  mafioso.  Erano  essi  stessi,  molto  più  degli  uomini  della prima  ondata,  inseriti  in  ben  strutturati  reticoli  di  mafia  già  nella  loro  isola  di  partenza.  Per  capirne  qualcosa, bisognerà dunque ragionare insieme dell’una e dell’altra sponda. Un’avvertenza.  La  date  dell’arrivo  in  America  di  Gambino,  e  degli  altri  della  seconda  ondata  che  trovate  nella tabella,  contraddicono  le  citate  fonti  americane,  che  addebitano  la  seconda  ondata  all’operazione  antimafia  del fascismo: infatti Mussolini andò al governo solo nell’ottobre del 1922 e, come vedremo, la sua operazione antimafia partì solo alla fine del 1925. La verità è che gli aspiranti boss, e molti altri con loro, partirono nella fase alta, non in quella successiva e calante del potere mafioso nel vecchio mondo, si mossero non per espulsione ma per attrazione. Per sfruttare le straordinarie occasioni di arricchimento offerte dai «ruggenti» anni venti americani. Voglio per primo presentare Carlo Gambino, destinato ad assurgere, al passaggio tra anni cinquanta e sessanta, al rango  di  super­boss.  Nacque  a  Palermo,  e  nel  suo  caso  il  virus  mafioso  (diciamo  così)  veniva  dalla  famiglia  della madre  (di  nome  Castellano),  sia  per  un  ramo  palermitano  sia  per  un  altro,  da  tempo  insediato  a  Brooklyn.  Il  suo biografo  sostiene  (non  si  capisce  su  che  base)  che  era  stato  appena  affiliato  all’onorata  società,  in  quel  1921  in  cui decise  di  lasciare  la  Sicilia  sfruttando  i  canali  consolidati  dell’emigrazione  clandestina.  I  suoi  parenti  americani  lo andarono a prendere appena giunto a Norfolk per portarlo a Brooklyn49, e quel legame familiare restò saldo sia sul piano della vita privata che su quello professionale, visto che sposò nel 1926 una cugina Castellano, che negli anni seguenti  avrebbe  preso  per  suo  braccio  destro  Paul  Castellano  (nato  nel  1915  a  New  York),  fratello  di  sua  moglie, dunque contemporaneamente suo cognato e cugino.

Figura 6. L’élite mafiosa a New York, anni venti­cinquanta.

A quel tempo il giovane Carlo si qualificava come macellaio, professione svolta o almeno dichiarata da molti suoi omologhi  sia  nel  vecchio  che  nel  nuovo  mondo.  Qualche  informazione  di  polizia  lo  voleva  però  dedito  al contrabbando degli alcolici alla testa di un gruppo composto da fratelli e cognati, che si approvvigionava di liquore nel  New  Jersey  e  lo  distribuiva  a  Brooklyn.  Si  trattava  a  quanto  sembra  di  un  traffico  che  andava  avanti  «sin dall’inizio della proibizione», ma solo all’inizio degli anni trenta poté parlarsi di «un giro di contrabbando di alcolici di  dimensione  nazionale  in  cui  la  ditta  Gambino  svolgeva  un  ruolo  di  primo  piano».  Si  colloca  in  questa  fase  un episodio significativo: alcuni agenti fermarono un camion carico di alcolici ma furono assaliti da una squadra di ben quattordici gangster che li disarmarono e li lasciarono sul posto dopo aver recuperato quella che era evidentemente una merce di loro pertinenza – «è stato un colpo di Gambino», commentarono gli inquirenti senza per questo riuscire a provarne le responsabilità50. 1 De Clementi 2001, p. 43. 2 FBI Files, Mafia Monograph. 3 Pitkin ­ Cordasco 1977. 4 The Origin of the Mafia, in «New York Times», 3 maggio 1891. 5 Commendator Raffaele Palizzolo, ivi, 14 giugno 1908. 6 Raffaele Palizzolo Describes the Mafia, ivi, 12 luglio 1908. 7 Intervista al «New York Herald» del 20 febbraio 1903, cit. in Petacco 1972, p. 43. 8 Ibid., pp. 165 sgg. 9 Il questore al prefetto, 29 marzo 1909, p. 7, in ASPA, QAG, b. 15. 10 Relazione del 28 aprile 1909, pp. 9­10, ivi. 11 Da Calogero Morello e Angela Piazza il 2 maggio 1867: telex del sottoprefetto di Corleone del 12 luglio 1916, ivi. 12 W. J. Flynn, Black Hand, in «Washington Post», 1914 (26 aprile).

13 Sentenza della Corte di assise di Palermo del 19 dicembre 1899, in  ACS, MGG, MAP, b. 132. Da qui traggo il nome del padre, Rocco Lupo, e

quello della madre, Onofria Saitta. 14 Rispettivamente, Flynn, Black Hand cit.; Selvaggi 1957, p. 51 (l’importatore si chiamava Romeo); Rich Italian Gone, Once Mafia Leader, in «New York Times», 5 dicembre 1908. 15 Per questo abbiamo una scheda personale su di lui nelle carte di polizia dedicate ai sovversivi: ACS, CPC, b. 1141. 16 Il ministro degli Interni a quello di Grazia e giustizia, ottobre 1907, in ACS, MI, PG, b. 252. 17 Questi brani della lettera in Barrel Murder Inquest, in «New York Times», 8 maggio 1903. 18 Lettera dell’ambasciatore italiano a Londra del 27 giugno 1908 con relazione del detective A. Davidson, in ACS, MI, PG, b. 252. 19 Flynn, Black Hand cit., in particolare 24 maggio. 20 Ianni ­ Reuss­Ianni 1984. 21 Train 1912, pp. 234 e 238. 22 Ibid., pp. 236­8. 23 Ibid., p. 228. 24 Il questore al presidente della sezione d’accusa, 24 marzo 1909, pp. 5­6, in ASPA, QAG, b. 15. 25 Volpes 1972, pp. 120­34, ricostruisce i loro curricula. 26 Haller 1976, p. 109. Non conosciamo l’origine del diciassettesimo contrabbandiere. 27 Gosch ­ Hammer 1975, p. 10. 28  Citiamo  Meier  Suchowljansky  ribattezzato  Lansky,  nato  nel  1902  in  Bielorussia,  e  Benjamin  «Bug»  Siegel,  nato  nel  1906  a  New  York. Particolare significativo: Costello sposò un’ebrea. 29 Si veda la vivace descrizione di Mitgang 2000. 30 Sinclair 1976; Woodiwiss 1988; Becchi ­ Turvani 1993, pp. 3­48. 31 Cit. da Nelli 1976, p. 218. 32 Block 1980, p. 129 e passim. 33 Stando a un libro importante pubblicato nel 1952 da un magistrato e da un giornalista: Turkus ­ Feder 1952. 34 Kelly 1999, pp. 65­6 e passim. 35  Grazie  alla  quale  gli  imprenditori  aderenti  al  cartello  potevano  agire  impunemente  mentre  i  loro  concorrenti  afro­americani  di  Harlem venivano perseguiti: Davis 1939. Su Hines, cfr. Peterson 1983, p. 221. 36 Landesco 1968, pp. 221 e 169. 37 Bell 1953; Id. 1964. 38 Terranova Charges He Is a Political Goat, in «New York Times», 28 dicembre 1929. 39 Gentile 1993, passim. Può darsi peraltro che egli sia tornato altre volte, senza farne menzione nel libro. 40 Ibid., p. 51, nota. 41 Ibid., pp. 53­68. 42 Gli americani prendevano atto stupiti che «persino ai suoi compatrioti» il suo potere appariva «misterioso nella sua essenza»: Racket Chief Slain by Gangster Gunfire, in «New York Times», 16 aprile 1931. 43 Gentile 1993, p. 55. 44 Istruttoria Garofalo, pp. 659 sgg. 45  Cfr.  la  cronaca  del  sequestro  in  «Giornale  di  Sicilia»,  24  luglio  1926.  Le  proteste  americane  in  Per  l’esportazione  agrumaria,  in  «Sicilia Nuova», 19 marzo 1926. 46 FBI Files, Mafia Monograph, Section II, p. 66. 47 Gentile 1993, pp. 93­4. 48 The Impact, p. 52. 49 Davis 1993, pp. 33­40. 50 Cito dai rapporti di polizia degli anni trenta collazionati nella scheda Fbi, del dicembre 1957, pp. 40­3, in FBI Files, Charles Gambino. Davis 1993, p. 40, vuole che il referente di Gambino ai vertici dell’underworld fosse Masseria.

V. Vecchia e nuova mafia

I  discorsi  sulla  mafia  sono  stati  spesso,  in  un  secolo  e  mezzo  di  storia,  articolati  secondo  questo  schema:  si  è diffusa ultimamente una nuova mafia, ormai ridotta a delinquenza, che non ha più il senso del rispetto e dell’onore della vecchia, che non ha più la sua capacità di limitare il ricorso alla violenza. In  questa  veste  l’argomento  è  retorico,  tant’è  che  lo  ritroviamo  praticamente  immutato  in  ogni  fase  della  nostra storia.  Serve  a  salvaguardare  l’ideologia  protettiva  e  onorifica  della  mafia  stessa,  proiettandola  verso  un  indefinito passato,  salvaguardandola  dalle  dure  repliche  dei  fatti:  i  quali  viceversa  attestano  che  avidità  e  ferocia  sono caratteristiche della mafia di ieri come lo sono di quella di oggi. Compare forse per la prima volta con Pitrè (la parola indica un concetto un tempo buono e ora degradato). Ritorna con Nick Gentile, in riferimento a un periodo successivo (gli anni venti del secolo XX), nel quale a suo dire «morì in Sicilia l’onorata società, la mafia che aveva le sue leggi, i suoi principi, che proteggeva i deboli e […] fu lasciato il campo a […] gente senza onore avvezza a rubare senza freno e a uccidere per denaro»1. Lo ritroviamo, last but non least, nella testimonianza di Tommaso Buscetta, in riferimento a un  periodo  ancora  successivo  (gli  anni  settanta)  in  cui  la  mafia­Cosa  nostra  avrebbe  perso  le  proprie  antiche  virtù, venendo sfigurata dall’avidità di ricchezze e dall’urgenza di potere dei capi. Però  i  soggetti  storici  hanno  fatto  ricorso  alla  dicotomia  vecchia/nuova  mafia  anche  con  altre  intenzioni,  per introdurre il fattore mutamento in una fenomenologia di per sé pensata come immutabile. È questo il significato con cui essa comparve già nel 1875 nei rapporti del delegato di polizia di Monreale sugli stuppagghieri. In questo senso lo schema  può  essere  utilizzato  anche  dallo  storico,  purché  si  abbia  consapevolezza  che  la  storia  della  mafia  vive  di ibridazioni, piuttosto che di contrapposizioni tra vecchio e nuovo. E possiamo utilizzarlo per capire come la mafia si incontri  con  gli  elementi  di  discontinuità  riconducibili,  in  Sicilia  come  in  qualsiasi  altro  paese,  alla  storia  generale. Con la modernità. Citiamo  alcuni  di  questi  grandi  elementi  innovativi.  1)  Le  lotte  sociali,  in  particolare  contro  il  latifondo.  2)  Lo sviluppo  economico.  3)  I  grandi  mutamenti  del  sistema  politico,  dal  liberalismo  al  fascismo,  dal  fascismo  alla Repubblica. 4) Gli stimoli poderosi provenienti dall’altra sponda, quella americana. Il mutamento assunse un carattere drammatico  nel  periodo  successivo  sia  alla  prima  che  alla  seconda  guerra  mondiale,  fasi  storiche  privilegiate  per l’applicazione dello schema vecchia/nuova mafia. Ragioneremo ora del primo dopoguerra. 1. Corleone. Corleone, paese della provincia di Palermo distante circa 54 km dal capoluogo, nel 1911 aveva 19 000 abitanti. Era già allora un centro di mafia ma soprattutto di latifondo. I 22 000 ettari di terre, che formavano la larga parte delle risorse disponibili per i contadini del paese, appartenevano a tre famiglie di notabili che vivevano a Palermo ed erano date in gestione a gabellotti locali. Corleone  è  stata  anche  un  centro  molto  importante  delle  lotte  contadine  sin  dal  tempo  del  movimento  dei  fasci. Sarà dunque opportuno ripartire da qui, e dal fondatore e leader del fascio corleonese, Bernardino Verro (1866­1915). Veniva  da  una  famiglia  del  ceto  medio  paesano,  aveva  una  discreta  istruzione,  era  di  formazione  repubblicana. Acquisì  con  la  sua  attività  politica  grande  prestigio  in  paese  e  nei  paesi  circostanti.  Nel  1892,  punto  più  alto  del movimento, obbligò gli esercenti a sottoscrivere patti agrari più favorevoli ai contadini, che divennero noti a livello nazionale come «patti di Corleone», e furono assunti a modello anche da Sonnino. Stando  a  una  documentazione  di  polizia  (relativa  al  1893,  ma  di  molti  anni  più  tarda),  Verro  stesso  avrebbe ammesso di aver prestato giuramento, secondo il rituale che noi ben conosciamo, alla locale «setta» mafiosa detta dei «fratuzzi» (dei fratellini); la quale era guidata da Michelangelo Gennaro, gabellotto dell’ex feudo di Ponzonotto, e da altri elementi della sua stessa condizione sociale2. Ammettiamo pure che il documento dica il vero. Perché Verro si risolse  a  quel  passo?  Forse  sperava  che  la  setta  potesse  parargli  le  spalle,  nel  momento  della  contrapposizione  più aspra con l’autorità, in prossimità della proclamazione dello stato d’assedio. Forse riteneva che i nemici del popolo fossero  in  prima  istanza  i  feudatari,  i  quali  in  città  consumavano  pigramente  la  rendita  derivante  dal  lavoro  dei contadini,  piuttosto  che  i  compaesani  impegnati  nella  gestione  dell’economia  locale.  Forse,  in  quella  congiuntura rivoluzionaria, non metteva il problema della legalità borghese al primo posto nei propri pensieri.

Noi  possiamo  paragonare  il  suo  caso  a  quello  (a  noi  già  noto)  di  Vito  Cascio­Ferro,  divenuto,  da  dirigente  del fascio  di  Bisacquino,  capomafia  del  paese.  E  possiamo  provare  a  contestualizzarlo.  La  storiografia  ha  evocato  il concetto di fasci «spuri», cioè opportunisticamente costituiti dai partiti e dai notabili paesani per inserirsi in un flusso vorticoso che stava sconvolgendo gli equilibri del potere locale nel suo paese. I mafiosi cercarono di inserirsi anche loro, e noi possiamo rubricare in questo senso l’adesione al socialismo di Cascio­Ferro. Il seguito della sua carriera lo conferma. Aveva promesso alle autorità che «mai più si sarebbe interessato di politica», ma in realtà la politica da cui si allontanò era quella socialista, visto che si mise a disposizione di un deputato conservatore quale capo­elettore, che funse  da  uomo  di  fiducia  di  grandi  proprietari  palermitani  prendendo  in  affitto  i  loro  latifondi.  Questi  illustri personaggi  lo  onoravano  «della  loro  amicizia  e  protezione»3.  Cascio­Ferro  acquistò  un  palazzotto  nella  piazza  del paese, e si iscrisse al circolo dei civili: era diventato lui stesso un notabile. Abbiamo paragonato i due casi ma bene ne vediamo le differenze. Quello di Corleone non era un fascio «spurio», bensì coerentemente socialista, e Verro si allontanò subito dalle alleanze mafiose. Disse: «da quando il socialismo è divulgato,  è  diminuita  la  bassa  delinquenza,  sperando  che  col  tempo  verrà  pure  a  diminuire  l’assassinio  ordinato dall’alta  mafia»4.  Era  il  1902,  e  lui  svolgeva  un  ruolo  primario  nell’organizzazione  dei  grandi  scioperi  agrari  che ebbero  il  loro  epicentro  appunto  a  Corleone,  espandendosi  nella  parte  meridionale  della  provincia  di  Palermo  e  in quella settentrionale della provincia di Agrigento. Va detto che, in quella fase e in quei luoghi, il movimento non coinvolgeva tanto i braccianti quanto i borgesi,  il ceto  medio  contadino.  Come  ha  scritto  in  sede  storiografica  Giuliano  Procacci,  «è  appunto  questa  particolarità», questo  protagonismo  di  gruppi  intermedi,  a  conferire  al  caso  siciliano  «tratti  di  profonda  originalità  nel  movimento contadino  italiano»5.  Nel  1902­1903  puntava  sulla  trasformazione  dell’affitto  in  mezzadria,  e  in  generale  sul miglioramento  dei  patti  agrari,  ma  col  procedere  degli  anni,  diciamo  a  partire  dal  1906,  conseguì  i  suoi  successi piuttosto organizzando affittanze collettive – cooperative che prendevano in affitto i latifondi e poi ne distribuivano le terre in piccole quote ai loro soci. Al 1913, 313 tra affittanze e casse rurali ponevano la Sicilia al secondo posto nel movimento cooperativo italiano. Enrico La Loggia, avvocato agrigentino già vicino ai fasci, leader socialriformista della Federazione siciliana delle cooperative, destinato a una lunghissima e importante carriera politica, definiva le affittanze «organi pacifici di una nuova trasformazione economico­sociale­agraria, tranquillamente sviluppantesi tra piccoli affittuari e mezzadri»6. La componente maggioritaria del movimento era la sua, quella moderata. C’era anche una componente cattolica. E c’era anche quella più radicale che si rifaceva al Partito socialista «ufficiale». Per parte loro i latifondisti, inizialmente ostili, si mostrarono disponibili al dialogo con una controparte che non metteva in discussione i loro diritti di proprietà: e anzi garantiva il livello delle loro rendite facendo concorrenza ai gabellotti. Però  tra  i  gabellotti,  come  ben  sappiamo,  c’erano  soggetti  che,  per  i  loro  legami  col  mondo  mafioso,  usavano risolvere i problemi di concorrenza in maniera tutt’altro che pacifica. E a un certo punto le affittanze cominciarono a far loro una concorrenza efficace; tra l’altro a Corleone, dove la cooperativa socialista, al 1912, gestiva 3500 ettari di terreno  con  1000  soci.  Verro  si  era  salvato  per  un  pelo  da  un  attentato  nel  1910,  e  per  un  periodo  aveva  lasciato  il paese. L’anno seguente venne assassinato un altro reduce dei fasci, al pari di Verro aderente al Psi: Lorenzo Panepinto, maestro elementare, sindaco del paese di Santo Stefano Quisquina, provincia di Agrigento, profonda Sicilia. Significative alcune lettere scritte in quella fase da Verro a Colajanni per chiedergli aiuti e consigli, e per lamentare il  sostegno  che  Gennaro  e  la  mafia  dei  fratuzzi  trovavano  nel  sotto­prefetto,  nel  deputato  liberal­conservatore Salvatore Avellone – che noi abbiamo già incontrato mentre faceva l’apologia di Palizzolo al processo di Bologna – e in tanti altri: Avellone – spiegava Verro – non è l’ispiratore o il mandante [dell’attentato], ma è il deputato del collegio che deve rimanere ligio  ai  parenti  e  ai  grandi  elettori.  Io  stesso  l’ho  veduto  nel  caffè  del  Teatro  Massimo  a  Palermo  confabulare  con  Gaspare Tedeschi, palermitano residente a Villafrati, dove la fa da capomafia e tenne nascosto il Giovanni Mancuso, uno dei due, quello che  mi  sparò  e  che  poi  fu  sparato  allorquando  lo  trasportarono  alla  clinica  di  Palermo  tenuta  dal  prof.  Giuffrè,  fratello  del capomafia di Caltavuturo e consapevole dell’affittanza che provocò le mie fucilate. Che rete! Che matassa!7

Ancora la metafora della rete. Lo sguardo di Verro coglieva quella che teneva insieme prefetti e deputati, medici e capi­mafia, e una parte consistente della provincia di Palermo: i paesi dell’area interna (Corleone appunto, ma anche Caltavuturo,  Villafrati  e  Caccamo)  con  le  piazze,  i  teatri,  i  caffè,  le  istituzioni  del  capoluogo.  Verro  se  la  sentiva addosso  tutta,  quella  rete.  Nondimeno,  quando  nel  1914  i  socialisti  vinsero  a  Corleone  le  elezioni  amministrative, accettò di fare il sindaco, per senso del dovere. Finì anche lui assassinato nel 1915. Gli  assassinî  di  Panepinto  e  Verro  ci  mostrano  una  mafia  dal  profilo  accentuatamente  politico.  Naturalmente  la politica per cui uccideva a Santo Stefano o a Corleone corrispondeva all’amministrazione locale, e a una lotta per il controllo delle risorse in cui il movimento delle affittanze collettive entrava in concorrenza con i gabellotti. Può essere

significativo  che  sia  Panepinto  sia  Verro  militassero  nel  Partito  socialista  «ufficiale»,  piuttosto  che  nella  galassia socialriformista. In alcuni paesi i socialisti potevano essere forti. Ma a livello provinciale o comunque sovralocale – contrariamente  ai  socialriformisti  –  erano  deboli,  e  alla  Camera  non  avevano  deputati  propri.  Erano  isolati  nel  loro radicalismo. La polizia non li tutelava. Panepinto e Verro inaugurarono un martirologio destinato purtroppo a essere lungo, una striscia di sangue che si sarebbe allargata sia nel primo che nel secondo dopoguerra8. E  infatti  nel  1920  l’amministrazione  municipale  socialista  di  Corleone  riuscì  a  reggere  ma  nel  gennaio  1920  il movimento ebbe un altro caduto, Giovanni Zangara. Seppur gravemente ferito, denunciò i suoi aggressori. Erano più o meno  gli  stessi  che  erano  stati  (inutilmente)  incriminati  per  il  delitto  Verro:  i  gabellotti  della  cosca  dei  fratuzzi. Stavano  facendo  perno  su  un’associazione  paesana,  il  «Circolo  agricolo»,  per  costituirsi  in  partito  politico.  Si collegarono a Palermo con Vittorio Emanuele Orlando (1860­1952): figura di grandissimo giurista e uomo politico, il «presidente della vittoria» che aveva guidato il governo italiano nella parte finale della guerra mondiale. Vinsero le elezioni amministrative. L’amministrazione municipale non ne guadagnò in efficienza. Tra gli altri documenti, citiamo una relazione prefettizia che spiegava come il dissesto del bilancio fosse dovuto al fatto che «i membri della giunta comunale e i loro parenti [erano] tassati per cifre irrisorie»; d’altronde, spiegava, non era possibile urtare gli interessi di elementi «tutti appartenenti alla mafia, e in quanto tali protetti da consiglieri e assessori»9. Come  si  vede,  nel  nuovo  quadro  politico  del  dopoguerra  la  mafia  del  latifondo  trovò  risorse  nuove,  un  nuovo protagonismo anche politico, e accentuò la vocazione terroristica anti­socialista10. Facciamo un altro caso, quello di Piana  dei  Greci,  oggi  Piana  degli  Albanesi.  Paese  consapevole  della  propria  specificità  etnico­religiosa  (albanese appunto e di rito greco), era governato dai socialisti ininterrottamente dai tempi dei fasci. Una sequenza micidiale di assassinî rese impotente il movimento di fronte alla ripresa delle forze cosiddette democratiche, in realtà conservatrici, guidate da Francesco Ciccio Cuccia (1876­1957), che sin dall’anteguerra, da cocchiere qual era, si era fatto largo nel mondo e degli affari e della mafia. Aveva già un enorme curriculum di denunce per reati di sangue e di ogni altro tipo (nonché di assoluzioni) quando, nel 1922, personalmente divenne sindaco. I conservatori plaudirono. I poliziotti che conoscevano la sua caratura criminale tacquero11. D’altronde ormai il sindaco si fregiava della Croce di Cavaliere della Corona d’Italia. Aveva proprietà, aziende e interessi  sia  nel  suo  paese  natale,  Piana,  che  nell’agro  palermitano,  «sfruttando  le  particolari  forme  dell’economia rurale»  nell’uno  e  nell’altro12:  latifondo  e  coltivazioni  intensive.  Fonti  di  periodo  fascista  lo  indicavano  già  allora come  il  numero  uno  dell’intera  organizzazione  mafiosa  su  scala  provinciale;  anche  se  –  come  vedremo  –  fu incriminato solo più tardi, quando la situazione politica cambiò ancora. Riportiamo però sin d’ora l’argomento con cui si difese: essendo un uomo agiato non poteva essere un criminale, e poi chi lo accusava rivelava una mentalità ristretta da vecchio mondo – di certo nel nuovo mondo egli sarebbe stato considerato solo un imprenditore di successo, un self made  man.  Com’è  che  conosceva  così  bene  i  codici  culturali  d’oltreoceano?  Perché  lui  e  il  fratello  avevano  in America importanti relazioni d’affari. 2. Villalba. Usciamo  dalla  provincia  di  Palermo  e  procediamo  verso  l’interno  fino  alla  parte  settentrionale  di  quella  di Caltanissetta,  detta  del  Vallone.  E  arriviamo  sino  a  Villalba,  altro  paese  tipicamente  latifondistico.  Lo  scelgo  per  il ruolo importante svolto dal locale caporione, Calogero Vizzini detto don Calò (1877­1954), nella storia della mafia e anche nel suo mito: due aspetti che molto spesso si intrecciano. Il mito ha assegnato a don Calò il ruolo del capo dei capi della mafia siciliana, per varie ragioni su cui torneremo man mano. Citiamo però subito il contributo dato da un libro  intitolato  Mafia  e  politica,  di  grande  fortuna  editoriale,  scritto  nel  1960  da  Michele  Pantaleone,  socialista  di Villalba, dunque compaesano e avversario politico di Vizzini. Villalba  nel  1911  aveva  poco  più  di  4000  abitanti.  I  contadini  lavoravano  gli  ex  feudi  Miccichè  e  Belìci, rispettivamente  di  proprietà  della  famiglia  principesca  palermitana  dei  Trabia,  e  del  duca  Francesco  Thomas  de Barberin residente a Parigi. I Trabia conservavano un fermo controllo sul primo. Invece il secondo veniva lasciato in mano a intermediari, che erano poi gli immancabili Guccione di Alia, grandi gabellotti nonché grandi manutengoli su cui già ci siamo soffermati. I borgesi del ceto medio contadino avevano una tradizione di combattività: erano scesi in sciopero nel 1875, 1893, 1901, 1907. Il conflitto sociale li vedeva alternativamente schierati «con i gabellotti contro il feudatario o con questi contro i gabellotti»13. Parliamo  di  una  zona  forte  del  partito  clericale,  conservatore  sì  ma  che  non  disdegnava  di  organizzare  i  borgesi anche per meglio fare concorrenza ai democratici. Al partito cattolico apparteneva don Calò Vizzini. Già manutengolo di banditi, era un membro della piccola élite paesana, di una famiglia che contava diversi preti anche molto influenti sul vescovo di Caltanissetta.

Nel 1908 la locale Cassa rurale cattolica chiese e ottenne l’affittanza del feudo Belìci. Vediamo come il sacerdote che la guidava celebrò il risultato: L’ideale  era  raggiunto  l’usura  quasi  sparita;  gli  oppressori  e  gli  intermediari  sfruttatori  eliminati.  Il  contadino  con  la  sua libertà  ha  riacquistato  l’amore  dei  campi  e  del  lavoro;  ora  che  è  divenuto  gabellotto  e  lavora  per  conto  proprio  […]  sa  che  i sudori versati ritorneranno a lui in tanto ben di Dio14.

Don Calò aveva dato il suo contributo. Dopo aver preso personalmente in affitto i mille e più ettari di terra che formavano il feudo, conservò per sé la gestione di una parte consistente (290 ettari), e il resto lo concesse ai soci della Cassa. La transazione fu forse favorita dal fatto che il feudo Belìci venne nel 1909 acquistato da don Matteo Guccione di Alia. Dunque Guccione da grande gabellotto divenne latifondista, e Vizzini da notabile divenne gabellotto, oltre che un benefattore  degli  amici  in  paese.  Poi,  a  sua  volta,  si  trasformò  nel  1916  in  latifondista,  acquistando  a  prezzi  molto favorevoli  un  ex  feudo  di  500  ettari,  dopo  aver  convinto  i  concorrenti  a  rinunciare  alla  gara  di  acquisto.  L’anno seguente, 1917, venne arrestato per una truffa relativa alle forniture di equini all’esercito: ne seguì un processo, detto «dei muli», alla fine del quale l’accusa chiese una pesante condanna (20 anni), ma senza nulla ottenere. E ritorniamo al dopoguerra. Come si sa, sul fronte cattolico si formò un Partito popolare che nell’area di Villalba poteva  contare  su  molti  consensi  –  anche  se  su  scala  regionale  i  risultati  da  esso  conseguiti  sono  definibili  come discreti,  se  confrontati  al  dato  nazionale.  L’area  democratica  venne  rivitalizzata  dal  variegato  movimento combattentista (degli ex combattenti), un insieme di circoli e associazioni locali che diede il proprio contributo alle occupazioni contadine di terre del latifondo. I suoi aderenti pensavano che la patria dovesse loro qualcosa. Speravano di poter fungere da interlocutori dell’Opera nazionale combattenti (Onc: neo­costituito ente governativo) in vista di una qualche riforma agraria. A Villalba organizzazioni combattentistiche promossero l’occupazione di entrambi gli ex feudi, Miccichè e Belìci, chiedendone la concessione in affitto. Guccione, nuovo latifondista, alla pari dei vecchi non gradiva le cooperative, le commissioni provinciali per le terre incolte, gli enti «espropriatori» come l’Onc. Tra occupazioni e disordini vari, non riusciva  più  a  controllare  quelle  sue  proprietà.  Nel  1921  don  Calò  lo  convinse,  tagliando  fuori  i  combattenti,  a stipulare  un  pre­accordo  di  compravendita  con  la  locale  cooperativa  cattolica,  e  pilotò  l’operazione,  tra  mille difficoltà,  sino  al  successo.  Ne  ricavò  ottima  terra  per  sé,  autorità  e  fama  presso  i  suoi  concittadini.  Anche  i combattenti ebbero la loro parte. Espressero la loro «eterna gratitudine» al capo­mafia15. La parabola di Vizzini riflette in maniera estremamente significativa uno dei percorsi più importanti della nuova mafia  postbellica,  adattatasi  in  maniera  parassitaria  ai  nuovi  andamenti  del  mercato  fondiario  e  ai  nuovi  caratteri assunti  dal  movimento  contadino16.  Delineiamo  il  meccanismo­base.  Di  fronte  al  crescere  delle  occupazioni  delle terre, delle proteste, e alla diffusione di progetti di riforma agraria anche in settori politici tutt’altro che estremisti, i latifondisti hanno due opzioni: concedere la terra in affitto a canoni tenui o venderla. La seconda viene privilegiata da chi teme che arrivi davvero la riforma agraria, da chi dispera di poter trarre dalla terra un normale livello di rendita fondiaria, da chi è allettato dai prezzi crescenti. Entro il 1926­27, passeranno così di mano 341 feudi per un totale di 139 802 ettari. Poco più di un terzo delle alienazioni si realizza per trattativa diretta, e per il resto vengono utilizzati mediatori:  singoli  notabili  o  affaristi,  cooperative,  casse  rurali,  insomma  componenti  di  macchine  politiche  locali17. Questi istituti sono in molti casi permeabili al potere mafioso. E  i  mafiosi  hanno  interesse  allo  sblocco  del  monopolio  fondiario.  Possono  favorire  gli  amici  e  tagliare  fuori  i nemici  dalla  redistribuzione  della  ricchezza  che  ne  consegue.  Ne  fanno  un  momento  importante  nel  più  generale processo  di  mobilità  che  porta  molti  di  loro  nei  ranghi  della  borghesia.  Un  po’  come  Ciccio  Cuccia,  capo­mafia  e sindaco  di  Piana  dei  Greci,  anche  Santo  Termini,  boss  mafioso  e  sindaco  di  San  Giuseppe  Jato,  oppone quest’argomento a chi lo accusa di mafia (1926): sono una persona di condizione agiata, con un vasto giro d’affari nel commercio dei cereali e dei vini. E in particolare dirà: «In società con altri ho fatto diversi affari acquistando i terreni dell’ex­feudo Pietralunga (proprietà Forcella) per tre milioni rivendendoli per circa quindici milioni a spezzoni. […] Pertanto data la mia posizione economica non è concepibile che io mi sia dedicato ai reati contro la proprietà»18. Noi piuttosto  diciamo  che,  se  non  fosse  stato  un  capo­mafia,  non  avrebbe  conseguito  in  quel  tipo  d’affari  il  risultato  di quintuplicare il capitale. Ma  torniamo  a  don  Calò  Vizzini  da  Villalba.  Nel  dopoguerra,  la  sua  scalata  al  potere  sembrava  inarrestabile.  Il vescovo  di  Caltanissetta  spiegò  che  a  quel  tempo  appariva  non  tanto  un  mafioso  quanto  «un  uomo  ricco,  potente, temuto», un «cavaliere, più volte milionario», che possedeva «larghe tenute anche fuori dalla provincia»19. E, oltre ai suoi interessi in agricoltura, bisogna considerare quelli nel settore zolfifero. Su questo versante Vizzini ottenne grossi prestiti  dal  Banco  di  Sicilia,  e  partecipò  a  Londra  alle  trattative  per  un  cartello  internazionale  dell’acido  solforico (1922) con altri «industriali» dello zolfo, con i dirigenti della massima società chimica italiana, la Montecatini, con il

Gotha  dell’industria  chimica  mondiale20.  Finita  la  congiuntura  postbellica,  peraltro,  ebbe  problemi  economici.  E anche, come vedremo, con la legge. Noi  incontreremo  ancora,  diverse  volte,  don  Calò  nel  corso  di  questo  libro.  Voglio  però  anticipare  alcune conclusioni su di lui.  Ribadisco  che  Vizzini  non  fu  il capo dei capi.  Fu  magari  un  personaggio  più  visibile  di  altri, perché  collocato  sul  vago  confine  tra  mafia,  affari  e  politica,  e  in  un’area  di  latifondo  in  cui  precocemente  si affermarono  forze  politiche  di  ispirazione  cattolica,  destinate  a  confluire  nella  Democrazia  cristiana,  che  cioè rappresentavano il futuro. Il latifondo non è l’unico e probabilmente nemmeno il più importante dei contesti in cui la mafia si è sviluppata. Però la questione agraria, già al tempo dei fasci siciliani e all’inizio del Novecento, a maggior ragione nel primo e nel secondo dopoguerra, rappresentò la più importante di quelle «finestre» politiche di cui, come sappiamo, c’è bisogno perché la mafia si renda palese. Parliamo di personaggi che non si limitarono a fungere da «guardiani del feudo» ma che trassero profitto dalla sua crisi. La mafia di don Calò era nuova, perché capace di stare al passo coi tempi. Fino  a  un  certo  punto,  naturalmente.  Vizzini  prese  posizione  nell’ala  conservatrice  del  Partito  popolare  e  non mancò di partecipare alle iniziative di tono francamente reazionario che a Palermo (e a Caltanissetta) portarono alcuni grandi proprietari a costituire un «Partito agrario» per far fronte ai movimenti contadini: alla «guerra civile» che si stava  preparando,  stando  all’interpretazione  estremista  di  un  leader  di  questo  gruppo,  Lucio  Tasca  Bordonaro  conte d’Almerita (1880­1957). Si tratta di un personaggio importante sul versante politico della nostra storia. Al pari del vecchio Turrisi Colonna, era  sì  un  latifondista,  ma  anche  un  imprenditore  (vitivinicolo)  d’avanguardia.  Il  suo  agrarismo  aveva  tinte accesamente sicilianiste, tant’è che rivendicava «al popolo di Sicilia l’onore di avere conservato nell’animo la fiaccola secolare  dell’indipendenza»21.  Poi  si  moderò,  accettando  dal  regime  la  carica  di  rappresentante  dei  proprietari nell’organismo  preposto  al  coordinamento  dell’economia  locale,  il  Consiglio  provinciale  dell’economia.  Tra  don Lucio  Tasca  e  don  Calogero  Vizzini,  tra  Palermo  e  Villalba,  si  creò  allora  un  asse  che,  come  vedremo  più  avanti, sarebbe rimasto ben saldo attraverso il tempo. 3. Vecchia e nuova politica. La  mafia  del  dopoguerra  era  nuova  anche  perché  si  trovò  ad  agire  in  un  quadro  politico  del  tutto  nuovo.  Il liberalismo italiano si dimostrò incapace di padroneggiare i traumi e i rancori collettivi sedimentati dalla prima guerra mondiale.  Non  resse,  tra  l’altro,  alla  prova  del  nuovo  sistema  elettorale  proporzionale.  Non  seppe  contrastare l’offensiva squadrista e, dopo la marcia su Roma dell’ottobre 1922, i suoi rappresentanti si adattarono a sostenere un governo di coalizione guidato dal fondatore e duce indiscusso del fascismo, Benito Mussolini. Si aprì una fase che, paradossalmente, stava a metà tra vecchio e nuovo, tra restaurazione e rivoluzione. In  questo  quadro  gli  storici  collocano  in  genere  la  Sicilia  con  qualche  difficoltà.  Al  momento  della  marcia  su Roma, il Partito nazionale fascista (Pnf) era quasi inesistente nell’isola, se non nel Siracusano. Era in vista un assalto trasformistico al carro del vincitore, e Mussolini diede ai prefetti il compito di regolare l’afflusso: decidere a quali dei gruppi già convertiti al nazional­fascismo fosse opportuno affidare la gestione degli organismi del partito, a quale dei gruppi  «fiancheggiatori»  appoggiarsi.  Il  punto  era:  come  evitare  che  la  nuova  politica  fosse  contaminata  dalla vecchia? Naturalmente anche la vecchia politica, quella liberale, si poneva il problema opposto: come condizionare la nuova e guadagnarsi uno spazio di contrattazione. Se lo poneva certo, a Palermo, il «fiancheggiatore» più importante, Vittorio  Emanuele  Orlando,  forte  del  suo  prestigio  di  «presidente  della  vittoria»,  della  sua  statura  politica  e  anche intellettuale. Vedremo  anche  più  avanti,  analizzando  vari  racconti  dall’interno  dell’organizzazione  mafiosa,  come  i  mafiosi stessi tendano a dipingere la loro onorata società come onnipotente, capace di controllare tutto e farsi servire da tutti. Fa parte della loro ideologia. Il più celebre tra gli informatori dall’interno della storia della mafia, Tommaso Buscetta, in  un  libro­intervista  edito  nel  1994,  ha  evocato  proprio  Orlando,  vantandosi  (non  so  dirlo  altrimenti)  che  la  mafia abbia annoverato nelle proprie file anche lui, un presidente del Consiglio. Ha precisato che di questo fatto gli avevano parlato, «in diverse occasioni, parecchi uomini d’onore»22. Io  devo  esprimere  le  mie  perplessità.  In  generale  quella  siciliana  restava  una  società  gerarchicamente  ordinata, fortemente classista, ancora nel dopoguerra (nonostante tutti i mutamenti di cui abbiamo detto). Immagino che il più delle  volte  il  principe  Tizio  o  il  deputato  Caio  guardassero  ai  mafiosi  dall’alto  in  basso,  considerandoli  come  utili strumenti, al massimo con paternalistica condiscendenza. Mi sembra improbabile che un personaggio come Orlando si sia  sottoposto  a  un  rito  di  affiliazione  in  qualche  magazzino  di  agrumi  accanto  a  trafficanti  e  tagliagole.  È  invece probabile  che  abbia  avuto  a  che  fare  con  mafiosi  quanto  meno  quando  si  presentava  al  Parlamento  nel  collegio  di Partinico, cioè sin dal 1897. Non dispongo di fonti, ma immagino si giustificasse coi soliti argomenti: i testi da lui

scritti  su  storia  e  cultura  siciliana  hanno  un’impostazione  decisamente  regionalista,  e  lui  era  anche  parente  di  Pitrè. Sull’aspetto  politico,  dispongo  invece  di  una  sua  significativa  ancorché  tardiva  (1949)  testimonianza,  nella  quale spiegava  come,  in  tempi  di  collegio  uninominale,  si  sentisse  in  dovere  di  rappresentare  secondo  una  logica  quasi avvocatizia tutti gli interessi esistenti nel suo collegio: Ora se questa unanimità di sentimenti e di voti includesse elementi che si qualificano come mafia, non per questo verrei meno alla solidarietà che mi stringe a tutta quella gente, anche se per ciò dovessi io stesso passare come un mafioso23.

Orlando  pensava  che  gli  spettasse  garantire  il  contatto  tra  il  suo  collegio  e  il  governo,  e  anche  in  questa  logica prese  posizione  nel  listone  fascista  in  occasione  delle  decisive  elezioni  politiche  del  1924,  tra  i  fiancheggiatori  del governo Mussolini. Fu il più importante dei leader liberal­democratici siciliani a farlo, ma non certo l’unico. Visto che tutti costoro, nella Sicilia occidentale, erano in qualche modo connessi a elementi di mafia, quanto meno per trarne bassi servizi di galoppinaggio elettorale, possiamo dire che la mafia per questa via venne anch’essa a fiancheggiare il fascismo. Ma per molti aspetti anche ci entrò dentro. Citiamo  il  caso  di  Bisacquino,  dove  nel  1923  il  comizio  inaugurale  del  fascio  fu  pronunziato  sui  balconi  del palazzotto appartenente a personaggio a noi ben noto, Vito Cascio­Ferro24. Citiamo anche quello di Piana, dove come sappiamo  un  vero  boss  come  Francesco  Ciccio  Cuccia  era  diventato  sindaco  rovesciando  col  terrore  e  nel  sangue l’amministrazione socialista in un paese di tradizione rossa. Di lì a poco sarebbe diventato noto in tutt’Italia come il capo­mafia  per  eccellenza  perché  Mussolini  in  persona,  nel  suo  discorso  parlamentare  più  famoso  (il  discorso dell’Ascensione), lo chiamò in causa in relazione a un episodio verificatosi durante il suo viaggio in Sicilia nel 1924 – allorché, spiegò, l’«ineffabile» sindaco si era permesso di offrire protezione a lui, al capo del governo nonché duce dell’Italia fascista. Una precisazione: Mussolini si pronunciò in tale senso nel 1927, essendosi guardato bene dal fare pubbliche denunce di questa natura nel 1924, quando Cuccia era strettamente alleato con i fascisti. Mussolini e Cuccia, lo Stato e la mafia che provavano a transitare dal vecchio al nuovo. Che cosa si saranno detti veramente? Potremmo  citare  molti  altri  casi  in  cui  capi­mafia  costituirono  fasci  o  li  pilotarono  occultamente,  di amministrazioni municipali del Palermitano dipinte dai rapporti di polizia come «fasciste­mafiose»25. E, in vista delle elezioni del 1924, le autorità si proposero di allargare il raggio delle collaborazioni. Ad esempio a Cinisi dove, spiegò il  questore  al  prefetto,  «per  dare  maggior  impulso  alla  votazione  favorevole  alla  lista  nazionale»,  sarebbe  bastato restituire a una serie di individui il porto d’armi che gli era stato tolto dalla questura stessa trattandosi di mafiosi. Alla fine,  si  trattava  di  «ricchi  possidenti»,  disponibili  a  collaborare  con  l’autorità  «per  assicurare  la  tranquillità  del paese»26. A Palermo, in occasione delle elezioni del 1924, anche l’uomo nuovo del fascismo palermitano, il giovane medico ex nazionalista Alfredo Cucco (1893­1968), cercò voti tra gli elementi di mafia. E la mafia glieli concesse. Lo capiamo analizzando i flussi elettorali provenienti dalle borgate. Poi le cose cambiarono. Non è questa la sede per ricostruire i passaggi traumatici (a cominciare dall’assassinio Matteotti) che segnarono la costruzione  di  un  regime  liberticida  nel  biennio  successivo  alle  elezioni.  Diciamo  solo  che  le  elezioni  municipali tenutesi a Palermo il 2 agosto del 1925 rappresentarono l’ultima votazione libera in Italia prima che calasse sul paese la  cappa  del  fascismo.  Precisiamo  peraltro  che  quell’ultimo  scontro  dell’agosto  1925  non  oppose  fascismo  e antifascismo. La lista scesa in campo a Palermo contro Cucco & C. non fu anti­fascista quanto prefascista, tant’è che venne guidata da Orlando, appena sceso dalla carovana filo­governativa. E non possiamo stupirci ascoltando le parole con cui, in un comizio, si rivolse agli elettori palermitani: Io vi dico che se per mafia si intende il senso dell’onore portato sino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal segno si tratta di contrassegni indivisibili dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo! Che se invece per mafia si intende quella delinquenza comune che abbiamo noi e che hanno tutti i paesi dell’Italia e del mondo…27.

… In questo caso Vittorio Emanuele Orlando, illustre giurista nonché presidente della vittoria, non poteva entrarci. Il  giro  retorico  non  era  nuovo.  Io  rilevo  che  era  stato  usato  da  un  deputato  della  Sinistra  nel  1875,  nel  corso  della discussione parlamentare sulle leggi straordinarie di Ps28. Singolare continuità della tradizione sicilianista, e del suo uso  del  tema  della  mafia!  Però  non  era  detto  che  la  «dittatura  moderna»  del  fascismo  potesse  essere  contrastata  in quell’estremo Sud come era stato contrastato il centralismo/autoritarismo della Destra post­risorgimentale. Citiamo tre documenti, due lettere e un discorso, per mostrare gli argomenti su cui poteva appoggiarsi una nuova politica. La  prima  lettera  è  indirizzata  nel  1923  al  segretario  del  Pnf  dal  segretario  del  fascio  di  Alcamo.  Mussolini  è  al governo ma il sistema è sempre lo stesso. Il governo fascista vuole emanciparsi dalle lue del parlamentarismo? Può

farlo  partendo  dalla  Sicilia,  combattendo  la  sua  filiazione  più  perniciosa.  «Se  si  vuole  salvare  la  Sicilia  bisogna spezzare questo strano genere di organizzazione che è la mafia; se il fascismo vuole rendersi abenemerito della Sicilia deve  risolvere  questo  problema,  ed  allora  potrà  essere  sicuro  di  piantare  nell’isola  tende  ancor  più  solide  di  quanto abbia  fatto  nel  settentrione  debellando  il  bolscevismo»29.  Non  tutti  e  non  sempre  cadono  nella  trappola  scavata  da Pitrè. La seconda lettera è mandata sempre nel 1923 alla direzione del Pnf da Achille Starace, importante dirigente incaricato  di  monitorare  le  situazioni  pugliese  e  siciliana.  Nella  parte  orientale  dell’isola,  scrive,  è  forse  possibile chiamare a raccolta le vecchie forze politiche, ma in quella occidentale bisogna stare attenti alla mafia, troppo «pronta a passare armi e bagagli al nostro servizio»30. Un partito centralizzato, non più impastoiato nelle «beghe» locali, può cambiare strada. Su questa strada si pone il discorso pronunciato da Mussolini nel corso del suo viaggio in Sicilia del maggio 1924, non so se prima o dopo essersi abboccato con Ciccio Cuccia. Il duce identifica nella lotta alla mafia il banco di prova dello  Stato  «rigenerato»  dal  fascismo:  «Non  deve  più  oltre  essere  tollerato  che  poche  centinaia  di  malviventi soverchino,  immiseriscano,  danneggino  una  popolazione  magnifica  come  la  vostra»31.  Sta  attento,  come  si  vede,  a non urtare le sempre vigili suscettibilità regionalistiche. Però pensa di poter ottenere su questo terreno nuovi consensi, in Sicilia e anche su scala nazionale. Torniamo dunque alla mafia. Disponiamo su quella del Palermitano, e per questo periodo, di una testimonianza di straordinario interesse, proveniente dall’interno dell’organizzazione stessa, datata 1937. Fu raccolta, insieme a molte altre,  dagli  inquirenti  dell’Ispettorato  interprovinciale  di  Ps  per  la  Sicilia,  organismo  investigativo  specializzato costituito nel 1933. Sull’Ispettorato torneremo. Utilizziamo invece ora la testimonianza. Il testimone si chiamava Melchiorre Allegra ed era un medico, nato nel 1881 a Gibellina, provincia di Trapani, ma che  esercitava  la  professione  a  Palermo.  Un  mafioso  del  ceto  professionale,  istruito,  laureato.  Si  avvicinò all’organizzazione nel corso della guerra, nella veste di medico militare. Poteva concedere esenzioni e risparmiare ai giovani  la  partenza  per  il  fronte:  e  fu  per  questo  che  nel  1916  entrò  in  contatto  con  una  «persona  di  riguardo,  cioè individuo rispettato e temuto», Giulio D’Agati. Questo, e altri, lo portarono all’interno dell’organizzazione. Lasciamo per  ora  da  parte  la  descrizione  della  struttura  dell’organizzazione  stessa,  data  da  Allegra  stesso  agli  inquirenti  del 1937:  che  è  di  straordinario  valore,  e  sulla  quale  ritorneremo  nel  prossimo  capitolo.  Parliamo  delle  persone  che  ad Allegra vennero indicate come affiliate o comunque collegate alla mafia. Nel  racconto  del  medico,  ricorrono  ad  esempio  due  nomi  di  personaggi  che  abbiamo  già  conosciuto:  Calogero Vizzini, da lui incontrato a Roma, nel grande albergo in cui alloggiava con una sua amante; e Lucio Tasca Bordonaro, che  a  suo  dire  impiegava  il  proprio  prestigio  per  mediare  tra  due  opposte  fazioni  della  mafia  palermitana,  intente  a scannarsi.  Un  punto  cruciale  della  testimonianza  riguarda  uno  «stato  maggiore»  della  mafia  che  si  riuniva  in  un «quartiere  generale»  palermitano,  la  Birreria  Italia,  dove  con  i  palermitani  propriamente  detti  confluivano  «molti “rappresentanti”  di  paesi  che  essendo  diventati  benestanti  mediante  losche  attività,  s’erano  trasferiti  a  Palermo». D’altronde,  precisa  Allegra,  a  Palermo  aveva  «sempre  ha  vissuto  la  parte  più  importante  della  “mafia”,  camuffata sotto  le  più  diverse  forme,  umili  ed  elevate»32.  Dello  «stato  maggiore»  facevano  parte,  tra  gli  altri  capi­mafia  che erano anche amministratori comunali in provincia, altri due personaggi che abbiamo già citato: Santo Termini di San Giuseppe Jato e Ciccio Cuccia di Piana dei Greci. C’erano anche Francesco Motisi detto «nasca fradicia», e Salvatore Maranzano  di  Castellammare  del  Golfo,  che  ad  Allegra  fu  presentato  come  «rappresentante»  della  provincia  di Trapani, ma che doveva avere una certa influenza anche a Palermo. Infatti fu lui, insieme a Motisi, ad accompagnare Allegra nel 1924 per un tour elettorale per le borgate. Torniamo al nodo decisivo su cui già mi sono soffermato. Al medico era stato richiesto dallo «stato maggiore» di presentarsi alle elezioni per l’opposizione, nell’ambito di una complicata strategia che portò i mafiosi a dividersi «in parti uguali, per la lista democratica e per la lista fascista» guidata da Cucco, nel tentativo di preservare i loro contatti in entrambi i campi. Però l’operazione, spiega il nostro testimone, fallì perché i singoli capi­elettori mafiosi finirono per seguire «il principio di venalità», cioè per vendere i loro voti al miglior offerente33. La mafia non era mai stata una superpotenza politica, capace di muoversi in prima persona a prescindere dall’input del notabile di riferimento. Tanto meno ci riuscì in quel momento storico decisivo, mentre le cose cambiavano con grande rapidità. In generale Allegra, dicendo degli assetti della mafia palermitana degli anni venti, molte informazioni ci dà sulla connection  americana.  Qui  siamo  a  un  altro  punto  di  passaggio  tra  una  «vecchia»  e  una  «nuova  mafia».  Ci  dice esplicitamente di connessioni fattesi più strette. Racconta ad esempio di una «commissione» giunta da New York per sanare una guerra di mafia insorta a Palermo per la spartizione di una grossa torta, quella dei lavori di ristrutturazione del porto cittadino. Ricerche storiche recenti confermano e allargano il quadro delle interconnessioni, con spostamenti di killer dall’una all’altra sponda34 – che qui non ricostruirò per non moltiplicare all’infinito delitti e intrighi. Noi le possiamo arguire ragionando sui nomi che sono al centro del suo racconto.

Il  Motisi  di  cui  abbiamo  detto,  capo  della  famiglia  di  Pagliarelli,  era  un  cugino  e  omonimo  di  Francesco  Motisi detto u miricanu, «l’americano», a noi ben noto per i suoi soggiorni d’anteguerra a New Orleans e a Liverpool, e che era nel dopoguerra ritornato a casa, riprendendo il proprio posto nelle alte sfere dell’organizzazione. Il Giulio D’Agati che  originariamente  l’aveva  contattato  era  un  agiato  proprietario  e  commerciante  di  agrumi,  boss  di  Villabate  ma dotato  di  grande  influenza  quanto  meno  sulla  parte  orientale  dell’hinterland  palermitano.  Osserviamo  la  grafica.  La figura di D’Agati ci porta a Giuseppe/Joe Profaci (o Proface, com’era detto in Sicilia), uno dei cinque della seconda ondata siculo­americana cui ci siamo riferiti nel capitolo precedente. Al momento del suo arrivo in America (1922), Profaci era pregiudicato per omicidio e faceva parte appunto della cosca  di  Villabate.  Anche  qui,  ricerche  storiche  recenti  hanno  sottolineato  la  tenuta  nel  tempo  di  questo  rapporto intercontinentale e dei sanguinosi conflitti che ne conseguirono. A Villabate il fratello di Profaci (Domenico) venne assassinato  e  lo  stesso  boss,  D’Agati,  fece  la  medesima  fine,  ma  i  membri  dell’opposta  fazione  furono  addirittura sterminati35. Due di loro, scappati a New York, furono fatti fuori nel 1926 da Joe Profaci e dai suoi, almeno secondo la  polizia  italiana.  Mentre  si  manteneva  così  in  contatto  col  vecchio  mondo,  Profaci  mostrava  grandi  capacità  di inserirsi nel nuovo mondo. L’anno seguente (1927) Profaci fu sorpreso a Cleveland, mentre partecipava a un meeting tra bootlegger italiani36. C’era anche Vincenzo Mangano, un palermitano nato nel 1887, e giunto in America nel 1905. Era già un personaggio di qualche rilievo nel sottomondo criminale, e a quanto sembra faceva da punto di riferimento per gli uomini della seconda ondata. Figura 7. Da Villabate all’America.

Fonte: Patti 2014, p. 91.

E come abbiamo visto Allegra fu in contatto, tra gli altri dello stato maggiore della Birreria Italia, con Salvatore Maranzano. Si tratta di un personaggio di grande importanza nella nostra storia. Giunse a New York nel 1925, ultimo

tra i boss della seconda ondata. 4. Gente di Castellammare. Come sappiamo (si veda il primo capitolo) Castellammare del Golfo, cittadina marinara a metà strada tra Palermo e Trapani, era in Sicilia un centro di mafia di una qualche importanza. Aggiungiamo ora che divenne tra le due guerre una  vera  capitale  della  mafia  siculo­americana.  Di  una  nuova  mafia  a  struttura  transcontinentale.  Tra  gli  esponenti della  seconda  ondata  mafiosa  siculo­americana,  ben  tre  venivano  da  Castellammare:  prima  di  Maranzano,  erano arrivati Stefano Magaddino (nel 1919) e Peppino Bonanno (nel 1924)37. Si osservi l’albero genealogico. I primi due, oltre che compaesani, erano parenti per via materna. Condividevano anche una condizione sociale in qualche  modo  intermedia  nella  stratificazione  sociale  di  un  paese  siciliano,  perché  Magaddino  padre  faceva  il carrettiere e Bonanno padre (che di nome si chiamava Salvatore) viene qualificato dai documenti come borgese, cioè come contadino agiato. Era quella anche la condizione sociale del padre di Maranzano. Figura 8. Albero genealogico della famiglia Bonanno­Magaddino.

Nella Castellammare del dopoguerra, un Francesco Buccellato, soprannominato «rovina», promosse un abigeato ai danni  di  un  possidente  che  aveva  per  campiere  uno  dei  Magaddino,  Stefano  che  nell’albero  genealogico  è  indicato come senior. Ne seguì una «feroce lotta» senza esclusione di colpi e risparmio di cadaveri anche di innocenti38, «lotta di  preponderanza  in  seno  alla  maffia»  tra  il  gruppo  imborghesito  ovvero  consolidato  dei  Magaddino  e  quello emergente  e  più  palesemente  criminale  («banda  armata»,  lo  definiscono  le  fonti)  guidato  da  Buccellato39.  Mafia «vecchia»  contro  mafia  «nuova»,  anche  qui.  «Fra  i  due  gruppi  in  lotta  si  verificarono  frequenti  soppressioni, grassazioni, e rapine e questa odissea ebbe riverberi persino in America, dove un fratello del Buccellato si vuole sia stato  buttato  vivo  in  una  fornace»40.  Siamo  oltre  oceano.  In  un’inchiesta  del  1921  dell’«Italian  Squad»  c’erano  in

effetti  due  Buccellato  tra  gli  assassinati,  e  tra  i  sospetti  assassini  abbiamo  lo  Stefano  Magaddino  (1891­1974)  che nell’albero  genealogico  è  indicato  come  junior41  –  aspirante  boss  della  seconda  ondata,  omonimo,  compaesano nonché nipote dello Stefano Magaddino senior ai danni del quale, nelle remote campagne intorno a Castellammare, era  stato  originariamente  consumato  lo  sgarro  che  aveva  dato  il  via  allo  scontro.  Insomma:  un’altra  guerra intercontinentale di mafia, da aggiungersi a quella promanante da Villabate e a chissà quante altre. Gli  inquirenti  americani  pensarono  i  castellammaresi  come  un  Syndicate  composto  da  killer  a  pagamento,  e trovarono  comodo  addebitare  a  loro  e  alla  loro  misteriosa  mafia  tutti  gli  assassinî  di  italiani  –  in  numero  di  120!  – commessi non solo a Brooklyn ma anche a Buffalo, Detroit, Pittsburgh, giustificandosi così in un certo senso non solo per aver lasciato impuniti tanti delitti, ma anche per non essere mai riusciti a comprenderne le ragioni. Parlarono di «good killers», inconsapevolmente introiettando la versione dei siciliani che si vedevano come uomini d’onore, «good people», secondo il modello mafioso consolidato in patria. Sta di fatto che, ancora nella scia di quel modello, nella gang convivevano businessmen impegnati nel settore delle lotterie clandestine e «duri» mobilitati per la difesa dei loro interessi42. Sta di fatto che Stefano Magaddino, quando venne rilasciato, ritenne più prudente trasferirsi a Buffalo43 dove nel 1923 chiamò a sé il fratello Antonio, nato nel 1897, il quale non ebbe mai guai con la giustizia in America mentre  un  gran  numero  di  reati  gli  vennero  attribuiti  in  Italia  (omicidio,  rapina,  stupro,  estorsione  e  –  particolare significativo  –  fabbricazione  nonché  uso  di  passaporti  falsi),  molti  dei  quali  commessi  in  data  successiva  al  1923: sembrerebbe dunque che egli abbia svolto le sue attività su entrambi i versanti per tutti gli anni venti44. In tempi di proibizionismo Buffalo, così prossima al Canada, poteva rivelarsi un punto nodale per il contrabbando degli  alcolici  acquistati  oltre  confine  e  immessi  sul  mercato  statunitense.  Grazie  al  proibizionismo,  i  Magaddino  si trasformarono da uomini «di mano» in uomini d’affari45. E veniamo a Peppino Bonanno. Abbiamo detto che passò l’oceano nel 1924, però non era la prima volta. Lo aveva già  fatto  nel  1906,  ad  appena  un  anno  di  età,  al  seguito  del  padre  Salvatore  e  della  madre  Caterina  Bonventre, stabilendosi a Williamsburg, quartiere di Brooklyn. Si era poi reimbarcato per il paese natio, sempre con i genitori, nel 1912,  dunque  all’età  di  sette  anni.  Nel  1924,  quando  decise  di  tornare,  stavolta  da  solo,  lo  fece  da  clandestino approdando prima in Tunisia, dove si fermò per un periodo ospite di uno zio, e poi in Francia da dove via Le Havre­ Cuba giunse in Florida. Fermato dalla polizia, si valse dell’aiuto di un inviato di Stefano Magaddino jr. ma non accettò l’invito a stabilirsi a Buffalo  e  decise  di  tornare  nella  Brooklyn  in  cui  aveva  abitato  da  bambino,  nel  sobborgo  di  Williamsburg  o  per meglio dire in quell’area limitata a poche strade e pochi blocks in cui si affollavano gli immigrati da Castellammare46. Qui  venne  accolto  in  casa  di  uno  zio  Bonventre  che  gli  propose  di  imparare  il  suo  mestiere,  il  barbiere.  Ne  rimase sconcertato: non era certo venuto in America per fare l’artigiano, e voleva essere un uomo «di rispetto» com’era stato suo  padre  sia  nel  vecchio  che  nel  nuovo  mondo47.  Impiantò  dunque  con  qualche  compagno  una  piccola  distilleria, senza che la polizia gli creasse alcun problema ma anche senza cavarne grandi guadagni. Traiamo queste informazioni da due libri: una biografia in un certo senso «autorizzata», scritta da un giornalista illustre, Gay Talese (1971), e un’autobiografia firmata proprio da lui, il boss ormai ottantenne (1983). Avvertiamo che si  tratta  di  testi  attendibili  per  alcuni  versi,  fuorvianti  per  altri,  innanzitutto  perché  i  fatti  di  violenza  vengono pudicamente  taciuti,  e  poi  perché  tutta  la  storia  viene  manipolata  per  renderla  rispondente  a  una  melensa  ideologia patriarcale. Per questa ragione Bonanno padre (Salvatore) viene dipinto come un rampollo di antica schiatta nobiliare, e come il grande erede della «tradizione» (la parola mafia non viene usata). Invece, come abbiamo detto, si tratta solo di un borgese, che le fonti di polizia non schedano come capomafia. Il virus mafioso passa attraverso la famiglia della moglie,  i  Bonventre,  e  ancor  più  si  manifesta  nei  Magaddino,  di  cui  già  qualcosa  abbiamo  detto.  (Si  veda  ancora l’albero genealogico). D’altronde  nemmeno  costoro  stanno  ai  vertici  della  gerarchia  della  mafia  castellammarese,  se  dobbiamo  credere alle stesse fonti di polizia. Queste attribuiscono la qualifica di «capeggiatori di alta maffia» a pochi altri, in particolare ad Antonino Minore, rampollo di una famiglia ascesa ai vertici sì con «il delitto» ma anche grazie ad acquisti fondiari in  tutta  la  provincia  di  Trapani,  e  ad  adeguate  politiche  matrimoniali48.  Potrebbe  essere  (lui  o  un  altro  di  quella famiglia)  lo  «zio  Totò»  cui  nell’autobiografia  Bonanno  rispettosamente  si  riferisce.  Non  ne  indica  il  cognome  ma spiega che era il suocero di Maranzano – la cui moglie si chiamava in effetti Elisabetta Minore. Attenzione a questi nomi. Ritroveremo la famiglia Minore insediata ai piani alti dell’edificio della mafia del Trapanese anche nel secondo Novecento. Peppino  Bonanno  rimase  precocemente  orfano,  ma  un  passo  avanti  nella  gerarchia  sociale  (prima  che  in  quella criminale) poté farlo frequentando una scuola superiore (l’Istituto nautico) a Palermo, grazie al sostegno finanziario degli zii Magaddino49. Maranzano, che sembra avesse studiato in seminario, aveva una cultura superiore, che usava per  mettere  in  difficoltà  i  suoi  interlocutori  con  qualche  citazione  in  latino.  Non  era  solo  un  intellettuale,  peraltro. Bonanno  spiega  che  si  era  fatto  fama  di  duro  nel  periodo  prebellico  nella  cittadina  natia  trasferendosi  poi,

nell’immediato  dopoguerra,  a  Palermo  mettendo  su  il  solito  commercio  di  prodotti  agro­alimentari.  Devo  però segnalare  che,  nel  suo  pseudo­testamento,  Lucky  Luciano  lo  vuole  giunto  a  New  York  «appena  finita  la  guerra», raccontandocelo  a  passeggio  per  le  strade  di  Little  Italy  con  atteggiamento  da  grande  notabile,  mentre  raccoglie l’omaggio  dei  compaesani,  «come  se  fosse  un  Papa  che  benedice  la  gente  in  strada».  A  lui,  gangster  giovane  e americanizzato,  non  poteva  piacere  quell’«old  bastard»,  rappresentante  delle  «sezioni  locali  delle  vecchie  società segrete, la mafia, la camorra e tutto il resto, importate dal vecchio paese»50. In effetti la contrapposizione tra i due sta al centro della storia che andiamo raccontando e della simbologia che intorno ad essa si è intrecciata. Maranzano dunque – come altri della sua risma – potrebbe aver attraversato l’oceano in più occasioni, in entrambe le  direzioni,  per  affari  di  mafia  o  di  import­export;  però  partendo,  contrariamente  agli  altri,  da  un  rango  già consolidato in Sicilia. Ad attestarlo è non solo la (dubbia) testimonianza di Bonanno ma anche quella (più attendibile) del dottor Allegra, che come sappiamo lo ricorda come «rappresentante» della provincia di Trapani, come uno degli alti «papaveri» uso a riunirsi a Palermo presso la Birreria Italia all’inizio del 1925. Il boss castellammarese sbarcò nel nuovo mondo alla fine di quello stesso anno, con moglie e quattro figli. Sembra sia arrivato in Canada e da lì sia passato negli Stati Uniti soffermandosi per un certo periodo a Buffalo. Dichiarò di commerciare in pesce e organizzò in effetti una flottiglia di battelli da pesca con base a Sea Isle, nel New Jersey; poi acquistò due auto di lusso, una casa lussuosa nella parte interna dello Stato di New York e un’altra a Brooklyn, nonché un ancor più lussuoso ufficio in Park Avenue – il cuore degli affari di Manhattan. In quella fase sosteneva di occuparsi di compravendita di aree fabbricabili. Di  fatto  era  coinvolto  in  due  tipi  di  attività,  entrambe  illecite.  La  prima  era  il  contrabbando  di  liquori,  sia  sul versante della produzione (possedeva una distilleria nella Contea di Dutchess) sia su quello del commercio. Contava qui sul sostegno dei suoi compaesani e in particolare del giovane Bonanno, che fu incaricato della scorta armata dei suoi camion. Il secondo affare era quello dell’immigrazione clandestina. L’ufficio immigrazione, qualche anno dopo il suo  arrivo,  prese  a  indagare  su  di  lui  per  un  «international  ring»  di  immigrazione  clandestina  grazie  al  quale  erano giunte negli Stati Uniti via Francia e Germania qualcosa come 8000 persone; aveva in effetti un’agendina nera – che venne in possesso delle autorità in drammatiche circostanze di cui diremo – contenente indirizzi e numeri telefonici di giudici  e  funzionari  dell’immigrazione  nonché  il  recapito  di  un  uomo  d’affari  che  temporaneamente  si  trovava  a Newark ma che era residente a Parigi. Costui spiegò che Maranzano gli era stato indicato da un funzionario come un avvocato in grado di ottenere facilmente permessi di soggiorno «speciali» negli Stati Uniti51. Ripassiamo per un attimo l’oceano. In quello stesso momento, a Palermo, inchieste giudiziarie rivelavano che le cosche di Piana dei Greci e San Giuseppe Jato, i cui capi (Ciccio Cuccia e Santo Termini) partecipavano alle riunioni della Birreria Italia, collaboravano per organizzare partenze clandestine di migranti per l’America al prezzo di seimila lire per ognuno di loro. Gli inquirenti descrissero la mafia come un’«orribile pestilenza» che spargeva non solo nella Sicilia occidentale, ma anche «oltre Oceano il suo lezzo ammorbante». Dissero quel traffico «organizzato in maniera perfetta» secondo il principio della divisione del lavoro: alcuni procuravano falsi documenti presso il municipio del paese  e  altri  a  Palermo,  c’era  chi  organizzava  i  viaggi  via  Tunisi­Marsiglia,  chi  nel  luogo  d’arrivo  attendeva  i clandestini per provvedere alla loro sistemazione, e veniva addirittura garantita in tutto o in parte la restituzione delle somme pagate a coloro che, incappati nella vigilanza Usa, fossero stati rispediti indietro52. Dunque anche la proibizione dell’emigrazione – come quella degli alcolici – provocò effetti perversi. Non spezzò la  catena  migratoria  ma  ne  pose  una  parte  importante  sotto  il  controllo  di  gang  mafiose  intercontinentali.  Risultato finale: la loro influenza crebbe ancora. Sapendo che Maranzano si riuniva sino a pochi mesi prima di partire con i capi delle cosche di San Giuseppe Jato e Piana dei Greci, impegnati a organizzare le partenze dei clandestini, noi possiamo completare i frammenti di inchieste newyorkesi  e  palermitane  con  qualche  ipotesi:  nella  Birreria  Italia  i  castellammaresi  si  assunsero  il  compito  di provvedere agli arrivi e alla sistemazione degli immigrati nel nuovo mondo, finché Maranzano stesso, all’avvicinarsi del ciclone Mori, si decise a passare definitivamente sull’altra sponda per gestire quel grande affare intercontinentale ma con un occhio all’altro, tutto americano, del proibizionismo. Bonanno  come  detto  si  mise  al  carro  di  Maranzano,  cominciando  ad  accumulare  soldi  e  potere  che  poi  avrebbe investito nell’Italian lottery, nel settore tessile, in quello alimentare, nelle pompe funebri. Entrava nelle attività legali vendendo protezione a quegli stessi imprenditori che venivano minacciati dai suoi sodali, secondo il più classico gioco mafioso  delle  parti.  Le  lavanderie  di  Brooklyn  erano  ad  esempio,  notoriamente,  oggetto  delle  attenzioni  dei «racchettieri»  –  per  riprendere  il  termine  usato  dai  siciliani  addentro  alle  cose  americane53:  e  anche  di  quelle  di Bonanno, che nel 1930 fece recuperare mezzi rubati a una ditta di proprietà di italiani, poi la garantì da fastidi ulteriori in  cambio  di  una  cifra  settimanale  (25  dollari),  infine  pretese  e  ottenne  una  percentuale  del  5%  sui  suoi  introiti annui54.

Nelle sue memorie, Bonanno dice della sintonia creatasi tra lui e Maranzano. Il secondo era un capo già in Sicilia, e il giovane aspirante guardò a lui come a un maestro traendone insegnamenti non solo di tipo affaristico­criminale ma anche stilistici: come mettere in difficoltà gli interlocutori del sottomondo con parole difficili o con citazioni raffinate, il piacere di impegnarsi in discussioni di «un certo livello», inarrivabili per i gregari che «mancavano di istruzione»55. Maranzano parlava inglese, ma non molto bene. La sua cultura odorava di vecchio mondo, e proprio a questo doveva il suo fascino sia tra i compaesani trapiantati oltremare sia tra i teppisti italo­americani newyorkesi. Joe  Valachi  (1904­1971),  piccolo  gangster  di  origine  campana  nato  a  Harlem,  diceva  di  Maranzano:  «Caspita, pareva quasi un banchiere. Campavi mill’anni, non avresti mai capito ch’era un racketeer»56. Torneremo a suo tempo sulle circostanze che lo spinsero a testimoniare su questi fatti a distanza di trent’anni – segnando un punto di svolta della nostra storia. Per ora cominciamo a utilizzare la sua testimonianza. 1 Gentile 1993, p. 201. 2 Paternostro 1994, pp. 27 sgg.; Viola ­ Morello 2004; Andretta 2005. 3 Relazione del prefetto di Palermo del 12 dicembre 1908, in  ACS,  CPC,  b.  1141.  I  latifondisti  cui  erano  legati  i  Cascio­Ferro,  padre  e  figlio,

erano  i  baroni  Inglese;  il  politico  cui  don  Vito  si  legò  era  Domenico  De  Michele  Ferrandelli,  discusso  e  inamovibile  sindaco  di  Burgio  nonché deputato del collegio di Bivona. 4 In un comizio tenuto a Prizzi, riportato in una relazione prefettizia dell’11 febbraio 1902, in ACS, AC, Comuni, b. 173. 5 Procacci 1978, p. 155. Ma cfr. anche Id. 1959. 6 La Loggia 1953, p. 534. 7 Verro a Colajanni, 27 maggio 1912, in Barone 1993, pp. 255­6. 8 Santino 2000. 9 Relazione del 1° maggio 1923, cit. da Andretta 2005, p. 220. 10 Non intendo fare qui il triste elenco dei caduti, che purtroppo sarebbe nutrito. Cito solo Nicolò Alongi, già membro dei fasci, dirigente del movimento contadino a Prizzi, contadino lui stesso. 11 Petrotta 2001, pp. 100 sgg. 12 Documento processuale del 1930, cit. da Scalia 2008, p. 104. 13 Lumia 1990, II, p. 271. 14 La relazione, firmata arciprete G. Scarlata, ibid., pp. 285­7 e in particolare p. 286. 15 Ibid., pp. 327 sgg. 16 Per evitare di moltiplicare le vicende e i personaggi, non faremo qui un altro caso di mafia del latifondo di quella stessa zona, poi assurta all’onore delle cronache della mafia: quella di Mussomeli guidata da Giuseppe Genco Russo. E della battaglia che costui ingaggiò per inglobare il movimento combattentistico che aveva promosso l’occupazione dell’ex feudo Polizzello, di quasi 2000 ettari, ed era di proprietà di una famiglia dell’alta nobiltà, i principi di Trabia, anch’essi residenti a Palermo. Cfr. Di Bartolo 2008. 17 Molè 1929; Prestianni 1931. 18 Interrogatorio del 19 maggio 1926, cit. da Scalia 2008, p. 109. 19 Lettera del vescovo nisseno G. Jacono, 12 giugno 1935, cit. in Naro 1991, II, p. 167. 20 Troviamo il suo nome tra quelli dei partecipanti alle trattative londinesi in Sarauw 1922, pp. 5­6. 21 L. Tasca Bordonaro, Una risposta al giornale «L’Epoca» – Catechismo siciliano, in «Sicilia Nuova», 20 ottobre 1920. 22 Arlacchi 1994, p. 97. 23 APCD, Discussioni, 23 giugno 1949, p. 8648. 24 Cito dal memoriale compilato nell’agosto 1926 dal dirigente fascista Francesco Paternostro, e pubblicato in appendice a Di Figlia 2007, pp. 171­82 e in particolare p. 177. 25 Marino 1976, pp. 282­8. 26 Lettera del 15 marzo 1924, cit. in Di Figlia 2008, p. 23. Ma cfr. ivi altri documenti di polizia su altri paesi e del medesimo tenore. 27 Il vibrante discorso di V. E. Orlando, in «Giornale di Sicilia», 28 luglio 1925. 28 «Se per mafia [si] intendesse la gente che non è disposta a subire i soprusi, le violenze, le offese […] maffiosi sono tutti in Sicilia». Intervento di Giovanni Battista Morana in APCD, 1874­75, Discussioni, tornata del 7 giugno, p. 3966. 29 Lettera di G. Faraci, 5 aprile 1923, in ACS, Carte Bianchi, b. 2. 30 Relazione del 7 luglio 1923, ivi, f. 15, p. 21. 31 Discorso di Agrigento del 9 maggio, in Mussolini 1959, p. 264. 32 Testimonianza Allegra. 33 Ibid. 34 Coco 2013, pp. 62­3. 35 Gli avversari di D’Agati erano i fratelli Lo Giudice: Giuseppe, assassinato a Palermo, Giovanni e Francesco uccisi a New York: Patti 2014, pp. 61 sgg. 36  FBI  Files,  Mafia  Monograph,  Section  II,  pp.  86­7.  Era  insieme  a  suo  cugino  Giuseppe  Magliocco,  anch’egli  proveniente  dalla  zona  di Villabate.

37 Maranzano nasce il 31 luglio 1886; Magaddino il 14 ottobre 1891; Bonanno il 21 gennaio 1905.  ASTP, Registri dello stato civile, Nascite, ad

annum. 38 Relazione della Questura di Trapani del 1° febbraio 1934, in  ACS, CPM, b. 35. Il possidente protetto da Stefano Magaddino Sr. si chiamava Luigi Messina. 39 Si vedano nei fascicoli personali di due aderenti alla fazione Buccellato: Giovanni Bosco e Giovanni Costantino, rispettivamente la relazione del prefetto di Trapani, 29 ottobre 1934, in ACS, CPM, b. 38; e quella dei carabinieri di Alcamo, 29 luglio 1934, ivi, b. 53. 40 Relazione dei carabinieri di Alcamo, 29 gennaio 1934, ivi, b. 38. 41 Vito Buccellato fu assassinato nel 1914 e Giuseppe Buccellato forse appunto nel 1921. 42 125 Murders Now Charged to Band. Police Expects to Arrest Chief of «Good Killers» in Buffalo, in «New York Times», 19 agosto 1921. 43 Bonanno 1985, pp. 56 e 61­2. Su Stefano Magaddino cfr. Griffin ­ Denevi 2002, pp. 99­109 e passim – anche se molte sono le inesattezze relative al suo primo periodo americano. 44 Cfr. i curricula criminali dei due fratelli in McClellan Hearings, pp. 1036 e 602. 45 Un caso interessante, quello di John C. Montana, nato nel 1893 a Montedoro, provincia di Caltanissetta, che dopo essersi pagato gli studi come «messager boy» cominciò a lavorare come autista di auto a nolo, dal 1928 entrò a far parte del consiglio municipale di Buffalo, nel 1930 creò una propria compagnia di taxi destinata a grande successo, e che finì con lo sposare la figlia del capo. 46 Talese 1992, p. 175. 47 Bonanno 1985, pp. 59­60. 48 Antonino Minore, fu Mariano e Cascio Antonina, era nato a Castallammare il 13 gennaio 1881. Se ne veda il fascicolo personale in ACS, CPM, b. 160. 49 Bonanno 1985, pp. 15­8 e 25. 50 Gosch ­ Hammer 1975, pp. 46 e 10. 51 Seek Official Link in Alien Smuggling, in «New York Times», 12 settembre 1931. L’uomo d’affari si chiamava Costa. 52 Rispettivamente, sentenza del Tribunale di Palermo contro S. Termini e altri del 16 agosto 1928, p. 26, e rapporto di polizia giudiziaria del 29 aprile 1926, c. 3 e 8, entrambi in ACS,MGG, ES, b. 17. Cfr. anche Nania 2000, p. 94. 53 Così nella cronaca de «L’Ora» di Palermo, 21­22 gennaio 1931, Una vittima dei racchettieri, sull’assassinio di Giovanni Volpi, manager della Briar Laundry di Manhattan. 54 FBI, Mafia Monograph, Section II, pp. 72­3. 55 Bonanno 1985, p. 71. 56 Citato testualmente da Maas 1972, p. 93.

VI. Davanti al fascismo

L’operazione  antimafia  del  fascismo  cominciò  il  23  ottobre  del  1925,  quando  Mussolini  nominò  prefetto  di Palermo Cesare Mori (1872­1942). Rappresenta un passaggio della nostra storia che è stato molto studiato, forse più di ogni altro. Ha influito la particolare evidenza delle sue implicazioni politico­generali, la coincidenza del suo inizio, nel 1925­26, con quello della dittatura fascista. Abbiamo già citato in sede introduttiva Santi Romano, grande giurista che (tra l’altro) diede a questa stagione della storia italiana notevole contributo quale presidente del Consiglio di Stato. Diciamo, riprendendo la sua terminologia, che l’«ordinamento giuridico maggiore» (lo Stato) si impegnò a combattere quello  «minore»  (la  mafia).  Perché  il  fattore  conflitto  prevalse  sul  fattore  convivenza?  Perché  lo  Stato  stava cambiando, appunto con l’avvento del regime, e perché la mafia era cambiata, come ho provato a documentare nel capitolo precedente. L’operazione Mori fu forse, più di ogni altra, pensata per dare un senso al fascismo nel Mezzogiorno. Basta con il disordine e l’immoralità derivanti dal parlamentarismo, con l’idea bizzarra che i destini delle nazioni possano essere decisi in qualche remota, oscura periferia. E basta con la pretesa liberale di limitare il potere. Modernità vuole che si concentrino  le  forze,  in  modo  da  conseguire  il  risultato  della  nazionalizzazione  delle  masse  e  delle  periferie  a  ogni costo.  Questa  l’ideabase1.  Il  tutto  venne  valorizzato,  com’era  nella  natura  di  quel  regime,  sotto  il  profilo propagandistico. Fu garantita una massiccia copertura mediatica a livello nazionale, e internazionale. E con successo: anche il «New York Times» cantò le lodi della «guerra di Mori contro la mafia», proclamò la «nascita della nuova Sicilia», la rottura di un dominio mafioso fatto risalire addirittura all’antichità classica greca!2 Quando Mori lasciò il suo incarico (1929), il regime proclamò di aver «bonificato» la società siciliana. Di averla omologata a quella nazionale, di averla riordinata secondo il principio del «credere, obbedire, combattere»; tant’è che le porte di casa potevano essere lasciate aperte e i treni arrivavano in perfetto orario. Qualcuno è ancor oggi convinto che  abbia  annientato  la  mafia.  Invece  noi  sappiamo  che  negli  anni  trenta  dovette  costituire  nuovi  organismi investigativi  «speciali»,  avviare  nuove  operazioni  repressive.  Però  stavolta  le  ammantò  di  riservatezza.  Ai  fini propagandistici,  repetita  non  iuvant.  E  fu  per  via  riservata  che  i  super­poliziotti  preposti  a  questa  seconda  fase comunicarono ai superiori la loro convinzione: la battaglia non è stata vinta, il nemico è forte quanto se non più di prima. 1. Con la mafia ai ferri corti. Mafia nuova e mafia vecchia. Abbiamo già ragionato di questa contrapposizione, fuorviante per certi aspetti, ma cui in ogni caso è necessario riferirsi per tener conto del punto di vista dei protagonisti, degli attori del dramma. La riferivano,  tra  l’altro,  all’emergere  di  uno  stile  mafioso  nuovo,  caratterizzato  da  remore  minori  o  nulle  verso  l’uso della violenza. Il  tratto  caratterizzò  in  effetti  il  primo  dopoguerra.  Anche  nel  corso  della  guerra,  veramente,  c’era  stata  nelle quattro  province  occidentali  dell’isola  una  recrudescenza  del  banditismo,  dovuta  anche  al  contributo  di  pregiudicati tornati dalla Tunisia e dall’America, renitenti alla leva e disertori; e alle difficoltà per le autorità di trovare gli uomini necessari a mantenere l’ordine. Ma nel dopoguerra il tasso di violenza crebbe ulteriormente. La tabella parla chiaro.

Figura 9. Omicidi volontari.

Fonte: Statistica giudiziaria penale, 1919­1922.

Nel 1919­22 il numero degli omicidi volontari nella parte occidentale dell’isola fu enorme, se paragonato al resto d’Italia:  in  particolare  alla  Sicilia  orientale,  a  due  altre  zone  del  Mezzogiorno  comunemente  considerate  affette  dal fenomeno  della  criminalità  organizzata,  e  a  due  della  parte  centrale  del  paese  che  nel  1919­22  vedevano  infuriare  i conflitti del biennio rosso e la guerriglia dello squadrismo fascista. Tra le tante cronache che ho potuto consultare, mi hanno colpito quelle sull’enorme numero di morti ammazzati nel paese di Canicattì nel solo 1919; o sulle opposte fazioni di zolfatari che quotidianamente, nel paese di Sommatino, si  affrontavano  a  suon  di  bombe  e  colpi  di  pistola  in  pieno  centro  andando  a  rifornirsi  ogni  sera  di  munizioni dall’armiere del paese; o sui due assalti del 1922 a masserie nei territori di Burgio e di Chiusa Sclafani, che fecero rispettivamente 7 e 8 morti – intere famiglie, donne e bambini inclusi3. E veniamo a Cesare Mori. Nacque a Pavia. Cominciò dal basso, dai ranghi della polizia, ma ben presto puntò verso l’alto mettendo a frutto particolari abilità e uno stile non­convenzionale. Rileviamo in lui il tratto che abbiamo rilevato a  suo  tempo  in  Sangiorgi.  Si  caratterizzò  per  un  doppio  specialismo:  da  un  lato  in  movimenti  politici  sovversivi,  e dall’altro in mafia, a partire dal suo primo servizio siciliano, a Trapani nel 1904. Nel 1917, col grado di vice­questore, fornì in Sicilia un grande contributo alla lotta contro il banditismo. Strutturò il servizio su base interprovinciale, facendo centro su Palermo e bypassando le tradizionali partizioni amministrative. Fece ricorso alle cosiddette «squadriglie», ovvero a gruppi di poliziotti e carabinieri formati da sette­otto elementi, i quali utilizzarono nuove tattiche che potremmo dire di contro­guerriglia: vestiti ed equipaggiati non diversamente dai banditi stessi, dovevano rientrare di rado alle basi e muoversi su input di un raffinato sistema informativo. Accadeva che  guidasse  personalmente  gli  uomini.  Una  volta  si  vantò  di  aver  lui  stesso  ucciso  un  bandito  in  combattimento. Doveva  avere  un  certo  carisma,  se  uno  dei  suoi  più  stretti  collaboratori,  l’ispettore  Giuseppe  Gueli,  lo  chiamava «duce». Noi ritroveremo Gueli più avanti, insieme ad altri della stessa covata: Francesco Spanò ed Ettore Messana4. Forte  di  questi  successi,  nel  1917  Mori  divenne  questore,  e  nel  1920  prefetto.  Il  suo  protettore  politico  era Francesco Saverio Nitti, presidente del Consiglio di area liberal­democratica. Per questo fu accusato di perseguitare il movimento  nazionalfascista  a  Roma.  A  Bologna,  per  contrastare  lo  squadrismo,  provò  a  riproporre  il  concetto  del coordinamento  interprovinciale  delle  forze.  Non  so  dire  se  la  sua  linea  fosse  tecnicamente  adeguata  a  fronteggiare l’emergenza, di certo non lo fu politicamente. Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 1922 il leader del fascismo bolognese Leandro Arpinati condusse le squadre padane ad occupare la città, mettendo sotto assedio la prefettura e minacciando  di  morte  Mori,  definito  prefetto  «socialista».  Ormai  le  forze  conservatrici  andavano  a  un  accordo  col fascismo, il prefetto fu trasferito e, all’avvento del governo Mussolini, collocato «a disposizione», insomma messo a riposo. La sua carriera sembrava finita. Invece nel 1924 venne richiamato in servizio, nominato prefetto di Trapani e alla fine dell’anno seguente, come abbiamo  detto,  di  Palermo.  Il  capo  del  governo  puntò  su  un  funzionario  esperto  come  lui,  quale  che  fosse  il  suo passato  politico.  Gli  concesse  poteri  straordinari,  tra  l’altro  (ancora)  nel  coordinamento  interprovinciale  delle  forze, dunque  non  un  incarico  di  ordinaria  amministrazione.  E  Mori  non  lo  interpretò  certo  in  una  logica  burocratica,  o moderata.  Non  diversamente  da  altri  tecnici  già  nittiani,  impegnati  in  tutt’altri  settori,  si  convinse  che  un  regime emancipatosi  dei  lacci  della  liberal­democrazia  avrebbe  garantito  all’azione  statale  una  ben  più  ampia  efficacia.  Si

adattò  perfettamente  allo  stile  e  agli  intenti  del  fascismo.  Si  fece  vedere  a  cavallo,  armato  di  schioppo,  anche  in camicia nera. Invitò a un riarmo anche ideologico. Possiamo capirla, questa sua ideologia, grazie al libro di memorie da lui pubblicato nel 1932, a cose fatte, intitolato Con  la  mafia  ai  ferri  corti.  Libro  agiografico,  ma  significativo.  L’azione  antimafia  vi  è  presentata  non  come «campagna  di  polizia  in  più  o  meno  grande  stile,  ma  [come]  insurrezione  di  coscienze,  rivolta  di  spiriti,  azione  di popolo»5. Il  popolo.  Il  super­prefetto  organizza  oceaniche  adunanze  durante  le  quali  risuona  immancabile  l’appello all’autodifesa  individuale  e  sociale,  l’esaltazione  del  coraggio  di  chi  non  cede  e  impugna  le  armi  così  come  a  suo tempo ha «sfidato le  mitragliatrici  austriache»6.  Cerca  punti  di  contatto,  un  codice  di  comunicazione  con  la  cultura regionale, vera o presunta, dichiarandosi per un’omertà buona corrispondente ai concetti di virilità e onore, alla Pitrè. Dichiara  in  piazza:  «La  omertà  ha  in  se  stessa  i  mezzi  specifici  per  combattere  le  proprie  degenerazioni.  Quindi richiamarsi  –  questo  intendo  dire  –  alla  fierezza  per  reagire  alla  prepotenza;  al  coraggio  per  reagire  al  delitto;  alla forza per reagire alla forza; al moschetto per reagire al moschetto»7. I campieri. Appone un distintivo sul loro petto singolarmente (con i siciliani ci vuole il rapporto personale), in cui sta scritto: «La forza che difende la produzione». Propone scambi di battute edificanti. Il prefetto: «Se vedendoti con questo distintivo ti chiamassero sbirro?» – il campiere: «Voscenza m’avi a scusari ma in tale caso ci sparo»8.  Mori pensa che per guadagnarsene la fedeltà, o l’obbedienza, lo Stato fascista debba mostrarsi più mafioso dei mafiosi. I proprietari, ribattezzati produttori secondo il linguaggio corporativo. Mori dichiara la propria simpatia nei loro confronti, li dipinge come vittime di uno stato di necessità, li invita ad abbandonare i mafiosi al loro destino. Alla fine, il suo modello non è Franchetti. Sostiene le organizzazioni sindacali del regime che cercano di eliminare il sistema del grande affitto passando alla «gestione diretta», in modo da annullare gli intermediari, insomma i gabellotti. Fa finta di non  accorgersi  che  l’eliminazione  del  subaffitto  proclamata  nei  documenti  resta  lettera  morta:  che  a  sparire  è  solo quella parola ormai malfamata, gabellotto, non il sistema di relazioni economiche cui da sempre si riferisce. Esibisce compiaciuto  lettere  di  plauso  indirizzategli  da  latifondisti,  si  compiace  per  una  crescita  dei  canoni  d’affitto  che  in qualche  caso  è  anche  del  90%9.  Un’apposita  commissione  decide  quali  siano  i  «centri  infetti»,  nei  quali  i  contratti pregressi vanno sciolti d’autorità. Il suo presidente scrive: il sistema della gabella «affonda le sue radici nella violenza e nel sangue, [e] trova, occorrendo, la perfezione dei suoi estremi contrattuali nello schioppo e nell’omicidio»10. Ha ragione. Ma la restaurazione del potere proprietario, il mero aumento della rendita fondiaria, non rappresenta certo un progresso per la società siciliana. E veniamo alle grandi retate che dall’inizio dell’anno 1926, fino al 1928, sconvolsero la Sicilia occidentale, un po’ ricordando i metodi adottati in età postunitaria. Consistenti nuclei di forza – anche 800 tra carabinieri, uomini della milizia e agenti di Ps – si spostarono dall’uno all’altro paese, occupandoli militarmente in successione. Ciascuna delle azioni condusse a centinaia di arresti per una cifra totale di parecchie migliaia. Cito il commento consuntivo fatto da un deputato liberale agrigentino in una lettera indirizzata a Mori nel 1929, nel momento in cui costui lasciava il suo incarico di prefetto:  l’azione  nel  complesso  era  da  giudicarsi  positivamente,  ma non potevano essere dimenticate le «notti  di  San  Bartolomeo,  in  cui  per  arrestare  50  malviventi  si  travolgevano  nell’abisso  altrettanti  galantuomini»11. Accadeva che si deportassero in massa i parenti dei latitanti. Così 213 uomini, donne e bambini – al di sopra e al di sotto  degli  otto  anni  –  vennero  portati  via  dalla  borgata  palermitana  di  San  Lorenzo  Colli  nel  febbraio  1927  e concentrati  negli  edifici  dell’Albergo  dei  poveri,  per  convincere  35  latitanti  ad  arrendersi12.  Questo  a  Palermo. Accadeva ben di peggio negli sperduti paesi dell’interno. Ce ne dà un’idea un’antropologa americana impegnata in quegli anni in una delle prime «ricerche sul campo» sul paesino di Milocca. Il 7 gennaio del 1928 la forza pubblica attacca di notte il paese, preleva una massa di persone e in particolare i membri delle famiglie di quelli che sono riusciti a fuggire, che vengono costretti a mettersi in marcia a piedi verso Mussomeli. Più di cento dei 2500 abitanti del paese rimarranno in prigione anche per diversi anni, per poi magari  essere  assolti13.  Uno  di  essi,  un  contadino  uscito  di  prigione  dopo  quattro  anni  di  detenzione,  ricorderà  il terribile episodio con  questi  versi:  «A  lu  milli  novicentu  lu  ventottu/  a  li  setti  di  innaru  fu  lu  fattu/  Dormivanu  tutti comu gigli all’ortu/ ’ntri ’na nuttata l’arrestu fu fattu/ L’arrestu principiò di Mussumeli/ fu tirminatu ’ntra du uri/ Cu dici figghiu, cu dici mugghieri/ Cu dici sà cu fu ’stu tradituri». Traduco così: «Nel 1928/ il sette di gennaio avvenne il fatto/ dormivano tutti come gigli nell’orto / durante una notte fu fatto l’arresto/ l’arresto cominciò da Mussomeli/ in due ore fu concluso/ chi dice “figlio”, chi dice “moglie”/ chi dice chissà chi è stato il traditore»14. 2. Gangi.

Delle reti di Mori la prima (gennaio 1926), che fu più propagandata e rimase più famosa, venne gettata sul paese di Gangi. Lo abbiamo già rilevato nel primo capitolo: Gangi era da sempre la capitale del banditismo madonita, e del più spudorato manutengolismo dei latifondisti. E qui i problemi si erano presentati in forma più grave nel periodo bellico e post­bellico. Vediamo come la polizia vi applicava il termine «nuova» mafia. «Nuova» veniva definita la «maffia» capitanata  da  Melchiorre  Candino  (nato  a  San  Mauro  Castelverde  nel  1850)  che  in  realtà  era  latitante  da  decenni. «Nuova» dunque perché i suoi aderenti, da delinquenti comuni che erano, avevano fatto fortuna: «i suoi favoreggiatori o gregari sono diventati ora milionari, proprietari di mandrie, di vasti armenti, di feudi, mentre prima, delle mandrie, erano  i  pecorai»15.  Candino  diceva:  il  denaro  che  ricevo  dai  proprietari  non  è  il  frutto  di  un’estorsione,  serve  a ricompensarmi della protezione che ho sempre loro garantito. Non a caso lo chiamavano u prefettu, il prefetto. Con  la  fine  della  guerra,  peraltro,  Candino  entrò  in  contrasto  con  un  suo  ex  affiliato,  Gaetano  Ferrarello  detto Sciroccu (nato a Gangi nel 1862). Lo schema venne riproposto. Anche questa di Ferrarello fu definita mafia «nuova, in contrapposto a quella di Candino», nel momento in cui si avviava a «diventare più forte, più potente, più temuta». Giunse  il  1922,  quando  i  reati  di  cui  Candino  era  accusato  caddero  in  prescrizione  e  si  concluse  la  sua  trentennale latitanza, tollerata «per servizi resi alla Ps», foraggiata «con gli assegni dei feudatari»16. Una pubblica manifestazione di simpatia per l’ex bandito dei notabili di Gangi rivelò la loro preoccupazione: chi avrebbe mantenuto l’ordine, e a che prezzo, dopo il ritiro del vecchio «prefetto» a vita privata? La manifestazione, in verità, rivelava un paradosso di fondo che fu ben colto in una relazione di polizia di fine 1923. Anche i proprietari più influenti (il più noto: il barone Giuseppe Sgadari) rischiavano di esporsi a una denuncia «per favoreggiamento», visto che stipendiavano quelli che erano pur sempre dei criminali conclamati. Dunque la novità, stando agli inquirenti dei primi anni venti, consisteva nell’identificazione tra banditismo e mafia. A  noi,  veramente,  il  fatto  non  sembra  così  nuovo:  già  all’inizio  del  secolo  il  poliziotto­criminologo  Alongi  l’aveva rilevato. Le novità postbelliche consistevano piuttosto nel crescente tasso di violenza, che rendeva la mafia gangitana incapace di svolgere la funzione d’ordine che attribuiva a se stessa. Un  esempio:  la  già  citata  strage  di  Chiusa  Sclafani  del  1922.  Derivò  dalle  scorrerie  di  certe  bande  provenienti appunto  dall’area  di  Gangi,  cui  si  contrapponevano  gli  apparati  di  sicurezza  della  «vecchia  mafia»  di  Polizzi  e  di Mussomeli:  una  storia  di  feroci  rappresaglie  sui  rispettivi  manutengoli,  finte  riappacificazioni,  tradimenti.  Un magistrato spiegava: c’è sempre in scontri come questi una fazione schierata in difesa dei proprietari, la quale sostiene di agire per «auto­difesa», ma in realtà anche quella, come le altre, è mossa da «smodata sete di arricchimento», si vale di «rapine, estorsioni, omicidi»17. E il potere mafioso si esprimeva ormai con grande arroganza. Leggiamo come, in una lettera indirizzata al procuratore del re, un poveraccio, destinato a essere assassinato di lì a poco, si riferiva a un luogotenente di Ferrarello: «Se poi è vero quello che dice […] e cioè che lui è il padrone non solo di Gangi ma anche dell’Italia,  perché  tutti  sono  sudditi  suoi  a  cominciare  dai  Ministri  fino  all’ultimo  questurino,  se  questa  disgrazia veramente esiste in Italia come quasi mi sembra, ed allora scusi di averla disturbata»18. La  mafia  padrona  e  lo  Stato  suddito.  Nulla  sembrava  cambiato  a  Gangi  con  l’avvento  del  fascismo. L’amministrazione municipale restava nelle mani dei grandi manutengoli di sempre, delle famiglie baronali Sgadari e Li Destri; ancora nel 1924 le fonti di polizia la definivano «fascista­mafiosa». Logico che Mori volesse partire da lì. Vero  è  che,  già  nel  dicembre  1925,  il  suo  fido  collaboratore,  il  già  citato  commissario  Spanò,  aveva  portato  a termine una trattativa per la resa di Ferrarello e dei suoi, proprio grazie alla mediazione del loro grande protettore, il barone Sgadari19. Ma Mori voleva una schiacciante vittoria, non questa resa concordata, per poterla dare in pasto alla stampa internazionale, nazionale e locale, mobilitata per l’occasione. Parliamo di un paese di montagna, di struttura medievale,  in  cui  i  latitanti  si  erano  creati  ingegnosi  nascondigli  sotterranei.  Mori  ordinò  che  fosse  sottoposto  a scenografica occupazione militare, mettendo in prima fila le camicie nere, che gente armata facesse irruzione in tutte le case, che venissero arrestati i familiari dei latitanti, che i loro animali fossero macellati. Alla fine Ferrarello si arrese nelle mani di Sgadari, forse sperando di averne ancora una volta protezione. Gli altri si arresero prima e dopo di lui. Non si sapeva peraltro di cosa fossero accusati 300 dei 450 paesani arrestati, quelli che furono  indicati  genericamente  come  «favoreggiatori».  Mori  pronunciò  un  violento  discorso  in  piazza,  su  un  palco circondato  da  armigeri,  davanti  a  una  folla  attonita.  Sgadari  prese  posizione  tra  i  vincitori.  Registriamo  l’opinione dell’ambasciatore  inglese  Graham:  sapendo  che  il  barone  era  un  «capintesta»  della  mafia,  trovava  sconcertante vederlo tra i corifei di Mori, e ancor più che fosse elevato alla carica di podestà – insomma di sindaco, nella nuova dizione fascista20. Citiamo due documenti, facendo uno o due passi in avanti nel tempo. Il primo: una lettera mandata alle autorità nel 1937 da un ex carabiniere a cavallo il quale lamentava le infamie perpetrate a Gangi dalle famiglie dei «ricconi» che egemonizzavano il potere locale (Li Destri e Sgadari) tracciando un rapporto tra passato e presente:

Il  barone  Li  Destri  al  tempo  della  maffia  era  appoggiato  forte  ai  briganti  che  adesso  si  trovano  carcerati  a  Portolongone (Elba). Se qualcuno passava dalla sua proprietà che è gelosissimo diceva: Non passare più dal mio terreno altrimenti ti faccio levare  dalla  circolazione.  Adesso  che  i  tempi  sono  cambiati  e  che  è  amico  della  autorità  […]  dice:  Non  passare  più  dal  mio terreno altrimenti ti mando al confino21.

Un  altro  passo  avanti,  e  arriviamo  al  1949.  In  quell’anno  don  Calò  Vizzini  rilascia  un’intervista  al  grande giornalista  toscano  Indro  Montanelli  per  il  più  grande  giornale  italiano,  il  milanese  «Corriere  della  Sera». L’intervistato fornisce di se stesso il quadro minimizzante del povero campagnolo ignorante, di cui non si può aver paura. Dice: «Parlo poco perché poco so. Abito in un villaggio, vengo a Palermo solo di rado, conosco poca gente». L’intervistatore sta al gioco. Forse gli piace l’idea del capo­mafia come innocuo zio di campagna, della mafia come reperto archeologico o folklorico, bizzarro residuo del passato. Domanda: chi sono i mafiosi? Risposta: appartengono alla  «categoria»  di  quelli  «che  aggiustano  le  situazioni,  quando  si  fanno  complicate».  Domanda:  lei  è  uno  di  loro? Risposta: diciamo che ne ho conosciuti un tempo, ai tempi di Mori. Poi, sull’onda di quelle memorie, don Calò fa a sua volta una domanda, tuffandosi nella Gangi 1926. «Avete mai sentito parlare di Ferrarello?». E si lancia in un paragone tra Ferrarello e Salvatore Giuliano, tra il bandito più famoso del primo dopoguerra e quello più famoso del secondo. Ferrarello, contrariamente a Giuliano, si è alla fine pacificato. «Rinunciò persino, quando evase dal carcere, a uccidere il barone Sgadari che ce lo aveva fatto andare. Qualcuno di quella tale “categoria” aggiustò la faccenda»22. Siamo alle solite. La mafia ama rappresentarsi come un super­potere sempre in grado di aggiustare qualsiasi cosa, e trova sempre un giornalista disponibile a starla a sentire compiaciuto. Anche in quel caso don Calò millantò credito. Ma  in  realtà  nel  1926  ad  aggiustare  le  cose,  a  favore  del  peggiore  baronaggio,  fu  il  regime  fascista.  154  presunti banditi di Gangi, o mafiosi, o guardiani delle proprietà che fossero, vennero portati in giudizio a Termini Imerese tra il 1927 e il 1928. Si ebbero molte e pesanti condanne. Sette all’ergastolo. 3. Epurazioni. Abbiamo già introdotto la figura di Alfredo Cucco. Nel suo ruolo di federale, ovvero di segretario provinciale del Pnf,  poté  dare  avvio  alla  costituzione  del  fascio  a  Piana  dei  Greci  solo  all’inizio  del  febbraio  1926,  non  prima  che Ciccio Cuccia fosse messo nel mirino dell’operazione Mori. Il sindaco­capomafia venne subito dopo sostituito da un commissario governativo alla guida del Comune, e poi arrestato a Palermo. Con lui finirono in galera il sindaco del vicino paese di Santa Cristina Gela e una gran quantità di loro accoliti. Leggiamo  il  quadro  della  Piana  governata  da  Cuccia  dipinto  da  un  rapporto  di  polizia  del  23  marzo.  La cittadinanza era tenuta in pugno da un gruppo di facinorosi: sicari o gente istruita e agiata, comunque arricchitasi col delitto.  Da  un  ventennio  ammazzavano  gente,  facevano  sparire  cadaveri,  commettevano  ogni  genere  di  reati, denunciati solo «in minima parte», perché i cittadini erano «pervasi dal terrore». Gli onesti agricoltori erano vessati, «non era loro concesso di prendere in affitto i terreni se non subendo soprusi e angherie che la maffia imponeva». Ma leggiamo anche la replica di Cuccia. Si chiedeva come mai le autorità scoprissero tutto questo d’un tratto, indicando come capomafia uno che era stato in stretto contatto con loro, nella cui casa «Ministri, Deputati, Prefetti e Questori» erano stati ospiti. Non aveva torto, il sindaco­boss. Il 5 aprile, Mori fece il suo ingresso nel paese a cavallo, seguito da Cucco e dalle altre autorità. Pronunciò uno dei suoi discorsi meglio riusciti. Invitò la mafia a «redimersi», cioè a seguire «le vie dell’onesto lavoro o a morire». E precisò: «pagare i debiti verso la giustizia del proprio paese, restituire il mal tolto e rientrare nella vita in purezza, in umiltà in lealtà. Questo vuol dire redimersi, non altro. È difficile, non è per tutti, ma è così»23. Il  discorso  fece  impressione  anche  sui  socialisti  rimasti  a  lungo  sotto  il  tallone  di  Cuccia.  Proprio  per  questo qualcuno  di  loro  protestò,  quando  (l’anno  dopo)  la  polizia  sciolse,  insieme  ad  altre  cooperative  paesane  di  dubbia fama, anche quella socialista: «Se il prefetto Mori avesse anche udito la nostra parola, che siamo gli interessati, e non semplicemente le vostre chiacchiere, a questo scompiglio non si sarebbe arrivati». Solo rivolgendosi ai suoi superiori il prefetto si sentì tenuto a spiegare quale fosse la finalità dello «scompiglio»: portare quelle popolazioni «nell’orbita» del fascismo da cui per varie «ragioni ambientali» si erano mantenute sino ad allora lontane24. Ci siamo soffermati sul caso di Piana per l’importanza del personaggio Cuccia e per la particolare evidenza del suo significato politico. Cucco, leader del fascismo intransigente, avrà gradito la liquidazione del sindaco­boss. Nelle sue memorie,  sostiene  di  essere  stato  proprio  lui,  nell’agosto  del  1925,  a  chiedere  a  Mussolini  un  intervento  inteso  a sciogliere le reti di complicità tra vecchia e nuova politica. Avrebbe detto: ora che i ludi cartacei non intossicano, non intossicheranno  più  le  coscienze,  possiamo  tornare  al  progetto  originario,  praticare  la  «più  rigorosa  intransigenza», abbandonare i «fiancheggiatori non sempre desiderabili», porre fine a «ogni transazione»25.

Peraltro  non  so  quanto  il  federale  gradisse  l’arrivo  proprio  di  Mori,  pur  sempre  malvisto  da  Arpinati  e  dall’ala estremista  del  fascismo,  ovvero  da  Roberto  Farinacci,  segretario  del  Pnf,  referente  di  Cucco  su  scala  nazionale.  E gradito,  per  converso,  all’ala  moderata  rappresentata  dall’ex  nazionalista  Luigi  Federzoni,  che  reggeva  il  ministero degli  Interni.  Federzoni  e  Farinacci  rappresentavano  i  due  poli  di  una  serrata  lotta  di  fazione  che  vedeva  per  ora Mussolini defilato, ma già orientato a puntare sui prefetti anche a scapito dei federali nella lotta per il potere che stava montando  nelle  varie  province.  Al  dunque,  il  duce  allontanò  sia  Federzoni  che  Farinacci  (aprile  1926),  assumendo personalmente il ruolo di ministro degli Interni, e nominando segretario del Pnf Augusto Turati. Costui eliminò ogni tipo di elezionismo  (così  diceva)  nel  partito,  per  fare  trionfare  i  principî  di  obbedienza  e  di  cieca  fedeltà.  Promosse un’epurazione intesa a tagliare le gambe alla fazione legata a Farinacci. Allontanò nel complesso nel 1926­30 ben 110 000 militanti26. E torniamo a Palermo. Cucco certo non si fidava di Mori e, a quanto dice nelle sue memorie, non si rassicurò di fronte  al  modo  tenuto  dal  prefetto  di  «terrorizzare»  la  popolazione  di  Gangi27  (era  lui  stesso  originario  di  un  altro paese  madonita:  Castelbuono).  Forse  non  prevedeva  che  il  prefetto  sarebbe  stato  indotto  dalla  svolta  turatiana  a muovere  contro  i  farinacciani  come  lui.  Fu  quanto  accadde  alla  fine  del  1926,  quando  Mori  spedì  a  Roma  un voluminoso dossier su illeciti commessi da Cucco, che metteva insieme materiali preparati dagli avversari interni del federale,  sollecitati  da  un’incessante  lotta  di  fazione.  Nell’ambito  di  una  generale  epurazione  nel  Pnf  siciliano,  la federazione  palermitana  fu  sciolta.  Cucco  venne  espulso  e,  dopo  una  fulminea  autorizzazione  parlamentare,  finì sommerso sotto una valanga di procedimenti penali. Riscontriamo le somiglianze tra la situazione palermitana e quella di altre città italiane. Anche a Palermo, come altrove, i parvenu della nuova politica fascista furono sostituiti da elementi di più elevato status sociale, in molti casi forniti di blasone nobiliare28. Sembra che Mori fosse sensibile a questo tipo di argomento. Cucco ce lo descrive «in piena fregola aristocratica [mentre] passa da un salotto all’altro, da un ricevimento a una festa, e nuota inebriato in un mondo  nuovo,  già  prima  rivelatosi  indifferente  [al  fascismo],  intrinsecamente  ammalato  di  nostalgia  del  potere»29. Quanto a lui, Cucco, era un provinciale che si era sempre mantenuto freddo verso le classi dominanti palermitane. Tra l’altro, nello stile del radicalismo fascista, il suo giornale aveva sempre tuonato contro l’assenteismo dei proprietari, e sostenuto l’organizzazione sindacale. «Ha mirato troppo in alto, ed è stato ridimensionato», notava nel suo diario Tina Whitaker Scalia, una interprete del bel mondo cittadino30. Va detto peraltro che Mori fu coinvolto in un conflitto anche con quel mondo, nella persona di  Antonino  Di  Giorgio,  genero  proprio  della  signora  Whitaker  Scalia,  già  brillante  comandante  sui  fronti  della Grande guerra, poi ministro della Guerra con Mussolini. Il generale venne chiamato in causa dalle indagini di Spanò su  suo  fratello  Domenico,  sindaco  del  paesino  di  Casteldilucio,  ed  ebbe  un  duro  vis  à  vis  con  Mori.  Poi  invitò Mussolini a non esagerare: undicimila persone in prigione al 1928, di cui cinquemila della provincia di Palermo, gli sembravano troppe31. I carabinieri si schierarono con lui. Invece il questore, cioè la polizia, prese posizione accanto al prefetto invitandolo a «eliminare tutti i nemici, altrimenti non si può andare avanti»32. Il conflitto istituzionale (e/o di fazione) era vicino ad esplodere. Poi Di Giorgio, per quanto non fosse provata e nemmeno adombrata una qualche sua personale responsabilità, si ritirò a vita privata. Invece Cucco subì diversi procedimenti penali. Riguardavano irregolarità amministrative e professionali, nonché pressioni su commercianti e imprenditori perché sottoscrivessero abbonamenti «sostenitori» (a prezzo maggiorato) del quotidiano  «Sicilia  nuova»,  di  proprietà  dello  stesso  Cucco.  Da  qui  torniamo  al  nostro  argomento,  la  mafia,  e particolarmente a un mafioso che abbiamo già conosciuto: il sindaco di San Giuseppe Jato, Santo Termini. Santo Termini e suo cugino Calogero nel 1924 appoggiarono ufficialmente un candidato del Partito popolare, che era loro parente; e nondimeno fu dato loro l’incarico di gestire il fascio di San Giuseppe. Lo storico Matteo Di Figlia, che  ha  provato  a  ricostruire  questa  storia  intricata,  rileva:  il  processo  penale  appurò  una  storia  complicata  di finanziamenti fatti dai Termini a Cucco attingendo alle casse municipali che indicavano «uno stabile legame» tra le parti, «fatto di versamenti in denaro e coperture politiche»; ma l’imputato venne assolto forse perché, per inquadrare relazioni di scambio di questo genere in sede penalistica, ci sarebbe voluto qualcosa come l’attuale reato di «concorso esterno in associazione mafiosa»33. La mafia certo fa la differenza. Però, se potessimo per un attimo metterla da parte, giudicheremmo i rapporti tra i Termini e Cucco non molto differenti da quelli che collegavano affaristi e leader fascisti ai quattro angoli della penisola. Non seguiremo oltre la lotta politica nel Pnf palermitano. Diciamo solo che Cucco rimase fuori per molto tempo, per  rientrare  nel  partito  solo  alla  fine  degli  anni  trenta,  conseguendo  addirittura  la  carica  di  suo  vice­segretario nazionale. I curricula dei politici fascisti avevano di queste imprevedibili oscillazioni. Certamente a lui giovò l’esito univocamente positivo dei ben undici giudizi penali. Al termine di uno di essi, la corte lo disse anzi vittima di una congiura,  attirandosi  il  fragoroso  applauso  del  pubblico  presente.  Più  in  generale,  l’opinione  pubblica  (se  possiamo usare questo termine in riferimento al periodo fascista) lo considerava un perseguitato.

C’è  in  questa  storia  un  elemento  generale­nazionale.  Chiediamoci:  erano  fondate  le  accuse  di  affarismo, corruzione,  connessione  con  la  criminalità  che  portarono  alla  destituzione  di  molti  gerarchi  in  tutta  Italia  nel  corso dell’epurazione  turatiana?  In  parte  sì,  perché  l’assalto  fascista  del  potere  locale,  nel  1921­25  aveva  portato  sulla superficie molte scorie dei bassifondi sociali. Ma c’era anche tanto di esagerato e strumentale. L’asse Mussolini­Turati si prestava a criminalizzare ogni forma di politica locale, vecchia o nuova, pur di negare ogni autonomia alle periferie e dare al sistema un’impronta iper­centralistica. C’è poi anche un elemento specifico­locale. A Palermo inevitabilmente il concetto di corruzione sconfina in quello di mafia. Vale la pena di citare un brano delle memorie di Mori: «La qualifica di mafioso […] venne spesso usata in perfetta  malafede  ed  in  ogni  campo,  compreso  quello  politico,  come  mezzo  per  compiere  vendette,  per  sfogare rancori, per abbattere avversari»34. Appunto. La strumentalizzazione è possibile; e Christopher Duggan, che nel 1986 pubblicò una bella ricerca sull’argomento (la prima storiograficamente avvertita), rilevò questo aspetto nell’azione di Mori e nella battaglia interna al Pnf conclusasi con la rovina di Cucco. Qui  siamo  su  un  crinale  sottile.  È  quello  su  cui  Leonardo  Sciascia  si  mosse  sempre  nel  1986,  non  a  caso esplicitamente richiamandosi agli studi di Duggan, in un luogo fondamentale del ragionamento sul tema della mafia e dell’antimafia.  Ci  ritorneremo  a  suo  tempo.  Diciamo  ora  che  il  discorso  non  necessariamente  va  limitato  a  Cucco. Strumentalizzazioni politiche e intenti liberticidi facevano parte integrante dell’intera operazione Mori. Questo però non vuol dire che si possa dar credito a tutti quelli che al tempo lamentavano di essere perseguitati con false accuse, sulla base di false testimonianze, appunto per spirito persecutorio. Prendiamo il caso di Corleone. Venne investita da una massiccia retata il 20 dicembre 1926, proprio mentre stava per scatenarsi l’offensiva contro Cucco. In particolare fu preso di mira il «Circolo agrario», che come abbiamo detto era il fulcro di un partito locale già di ispirazione orlandiana, a quel momento moderatamente filo­fascista. Di certo a Corleone  l’operazione  Mori,  come  altrove,  aveva  un  intento  politico.  Però  Duggan  forza  un  po’  la  mano  lasciando intendere che il circolo veniva soprannominato dagli inquirenti «circolo della mafia» solo per questa ragione35.  Era stato fondato da Michelangelo Gennaro, indicato già alla fine del secolo precedente come capo dei «fratuzzi», e poi come mandante dell’assassinio Verro. Ai suoi vertici era insediata quella che unanimemente era riconosciuta anche nei primi  anni  venti  come  la  leadership  della  mafia  paesana.  Infine  molti  di  questi  personaggi,  come  a  suo  tempo vedremo, saranno indicati come membri di questo stesso establishment affaristico­delinquenziale paesano nel secondo dopoguerra e negli anni cinquanta: e per ora faccio solo il nome del figlio di Michelangelo Gennaro, Filippo (nato nel 1892)36. Sarebbe  pur  strano  se  lo  stesso  spirito  di  persecuzione  politica  avesse  spinto  i  poliziotti  sottoposti  a  tre  diversi regimi  (liberale,  fascista,  repubblicano)  a  definire  ingiustamente  come  mafiosi  gli  esponenti  di  due  generazioni  di gabellotti corleonesi. 4. Sotto processo. Una recente ricerca storica ha registrato nel complesso, tra il 1926 e il 1932, 105 processi per fatti di mafia, punta massima  di  28  nel  1928,  che  fu  l’ultimo  anno  delle  grandi  retate.  Gli  imputati  in  primo  grado  furono  7000.  La concentrazione maggiore si ebbe in provincia di Palermo, dove i processi furono 56; comunque quasi tutti si tennero nella  Sicilia  occidentale,  a  conferma  del  raggio  di  diffusione  del  fenomeno  mafioso  (in  provincia  di  Catania  se  ne celebrarono soltanto 2). Si ebbero grandi numeri di imputati sia nell’agro palermitano (ad esempio: 374 nel processo «S. Maria di Gesù» e 275 in quello «Piana dei Colli»), sia nelle regioni dell’interno (ad esempio: 244 nel processo «Casteltermini»  e  314  nel  processo  «Sommatino»)37.  Possiamo  parlare  di  maxiprocessi,  prendendo  a  prestito  un termine che sarebbe entrato nell’uso pubblico cinquant’anni dopo. Come alla parte politica e poliziesca dell’operazione antimafia del fascismo viene accoppiato il nome del prefetto Mori, così a quella giudiziaria può essere accoppiato quello del magistrato napoletano Luigi Giampietro (1861­1950), inviato a Palermo già nel febbraio 1925 per ricoprire l’ufficio di procuratore generale del re. Giampietro  interpretava  la  mafia  da  un  lato  alla  luce  di  un  paradigma  istituzionalistico,  come  un  ordinamento pseudo­statuale  (un  po’  alla  Romano),  e  dall’altro  alla  luce  di  un  paradigma  economico,  come  un’«assicurazione» sottoscritta da «proprietari» e «gente di affari» per tutelare «i beni e le loro persone». Era ben consapevole che nel passato era stata tutelata per ragioni politiche e anche in cambio dei servizi offerti all’autorità di pubblica sicurezza. Partiva da qui per radicalizzare il discorso lasciandosi dietro tante indulgenze del passato. L’escalation sanguinaria del dopoguerra  gliene  offriva  ampia  motivazione.  Ricordò  che  i  delitti  di  mafia  non  avevano  nulla  di  cavalleresco  o  di onorifico.  Si  realizzavano  sempre  «a  tradimento,  in  agguato»  e  con  spettacolare  ferocia  «aggiungendo  lo  sfregio  al cadavere, spargendolo di petrolio o decapitandolo, ovvero mutilandolo o facendone orrido scempio a segnacolo della potenza terrificante della mafia». Scrisse:

Occorre  aver  letto  nelle  pagine  dei  processi,  riguardanti  le  piccole  e  grandi  associazioni,  gli  assassini,  le  depredazioni,  gli incendi,  le  violenze,  gli  stupri,  le  vendette  selvagge  e  atroci  commesse  da  componenti  della  malfamate  associazioni;  occorre aver vissuto la vita di quei tempi e aver veduto gli omicidi, le rapine, le violenze consumate di giorno in pieno meriggio, nelle pubbliche piazze anche di questa città, i morti a terra, gli uccisori al sicuro, essere state vittime delle bande brigantesche, che percorrevano  le  città  e  le  campagne,  ovunque  seminando  il  terrore,  la  strage  e  le  violenze  per  avere  una  pallida  idea  della delinquenza mafiosa38.

Un  particolare  significativo.  Anche  Giampietro,  al  pari  di  Mori,  era  stato  sino  al  1922  conosciuto  come  nittiano antifascista; anche lui ben corrispose agli scopi che il governo voleva realizzare39. Con qualche importante differenza, certo. Mi sembra di capire che, nell’istruire i processi, lui e i suoi collaboratori si ispirarono a (sia pure grezzi) criteri di legalità. Invece Mori, soprattutto ma non solo nell’organizzazione delle retate, non si faceva gran che frenare da scrupoli.  Tanto  meno  lo  facevano  i  suoi  dipendenti.  La  polizia  impiegava  metodi  definiti  dall’ambasciatore  inglese «energetic  and  ruthless»,  faceva  ricorso  a  pestaggi  e  autentiche  torture40.  In  qualche  caso  questi  abusi  vennero  alla luce  in  sede  giudiziaria  squalificando  la  costruzione  accusatoria:  come  nel  corso  del  processo  per  l’associazione  di Sommatino, quando un avvocato ne accusò un commissario di polizia, dicendolo «invasato dal sogno di creare la più grande associazione»41. Associazione. I funzionari di polizia consideravano tale la mafia. L’avevano fatto in passato, l’avrebbero fatto in futuro.  La  magistratura  inquirente  li  seguì.  Il  codice  Zanardelli  non  lasciava  altra  strada  che  ricorrere  all’art.  248, associazione a delinquere, perché – ricordo – il reato di associazione mafiosa non esisteva. (Nemmeno l’art. 416 del codice Rocco varato nel 1930 avrebbe dato migliori appigli). Così ognuno dei processi portò alla sbarra una singola associazione criminale definita sulla base del luogo in cui operava: il paese di Sommatino, quello di Piana dei Greci, la borgata palermitana di Santa Maria di Gesù. In questa maniera,  evitando  la  strada  percorsa  da  Sangiorgi  trent’anni  prima  (perseguire  la  mafia  come  un’organizzazione unitaria o quanto meno interconnessa), i magistrati inquirenti pensavano di poter gestire meglio l’enorme operazione. Però ne risultarono delle incongruenze. In molti casi i materiali processuali mostravano che il raggio d’azione reale dei  gruppi  criminali  in  questione  era  ben  più  ampio  di  quello  dei  paesi  o  delle  borgate.  Accadde  che  uno  stesso individuo  venisse  portato  in  giudizio  in  diverse  occasioni  come  appartenente  a  diverse  associazioni.  Fu  il  caso  di Ciccio Cuccia, che come sappiamo era un boss sia a Piana dei Greci sia a Palermo42. E  veniamo  al  problema  cruciale.  L’individuo  che  dalla  polizia,  sulla  base  della  voce  pubblica  o  di  altri  vaghi indicatori, era definito come mafioso, poteva essere per ciò stesso considerato un delinquente? Giampietro rispose di sì.  L’omertà,  disse,  rendeva  tutto  difficilissimo.  Per  procedere,  «specialmente  contro  i  pezzi  grossi,  signori  ricchi  e potenti,  capi  palesi  ed  occulti»,  era  necessario  il  ricorso  a  «elementi  estrinseci  di  prova»  come  le  deposizioni  degli agenti di pubblica sicurezza, ritornando sul tema dell’associazione. Ovvero bisognava partire «da quel complesso di fatti» tipico delle attività di quel genere di associazione, valorizzando gli elementi di fondo e d’ambiente, «la qualità di mafiosi degl’incolpati», e sia «le condanne» che «le assoluzioni riportate da tutti o da più di essi insieme per gli stessi  reati»43.  Uno  dei  magistrati  che  sostenevano  l’accusa  scrisse:  «La  società  dei  mafiosi  attiva,  operante»  va considerata  «per  se  stessa  un’associazione  a  delinquere»,  senza  bisogno  di  provare  il  comportamento  criminale  di ognuno dei suoi membri44. Peraltro dalla dichiarazione di un altro (di molto successiva) capiamo che non sempre le idee erano così chiare: «Si riteneva una setta quando c’erano più individui d’accordo tra loro, o per lo meno esisteva un rapporto associativo che non credo si possa definire, ma che, in conclusione, era qualcosa come una federazione, almeno come la vidi io»45. Alla  fine,  moltissimi  imputati  furono  condannati  per  il  solo  reato  associativo46,  venendo  invece  assolti  per  le imputazioni più gravi e specifiche. E le pene previste dall’art. 248 (associazione a delinquere) erano modeste. Seguendo l’indicazione del procuratore, i maxiprocessi fascisti ripresero le fila di pratiche affaristiche e criminali di  durata  ventennale  o  trentennale,  fossero  già  state  oggetto  di  giudizio  o  no,  sempre  basandosi  sulle  informazioni (extragiudiziali) fornite dalla pubblica sicurezza. Però in alcuni di quelli alle mafie paesane non mancarono a sostegno dell’accusa  le  testimonianze  non  sappiamo  quanto  oneste,  estorte,  o  false,  o  comunque  legate  allo  scontro  politico­ fazionario. Invece, in quelli alle cosche dell’agro palermitano, i verbali di Ps vennero a coincidere col processo stesso. Si veda quello contro i 243 di Piana dei Colli, che le pur addomesticate cronache giornalistiche ci descrivono svolgersi in  un’atmosfera  surreale,  con  il  presidente  che  «di  tanto  in  tanto  […]  grida  un  nome»,  gli  interrogatori  che  durano attimi,  i  testi  che  negano  tutto,  il  pubblico  ministero  che  invita  i  giurati  a  condannare  sulla  base  del  «libero convincimento»47. Certo, le condanne furono molto miti. La maggiore: sette anni. Patti ha studiato il processo detto di Santa Maria di Gesù, che investì gruppi operanti in una vasta zona orientale dell’agro  palermitano,  comprendente  borgate  cui  abbiamo  già  assegnato  un  posto  nella  nostra  storia  (Pagliarelli), insieme ad altre di cui più avanti rileveremo l’importanza (Ciaculli), per poi connettersi a Villabate.

I capicosca – scrive – spesso hanno poco in comune con lo stereotipo del mafioso rozzo o ignorante, il più delle volte siamo invece  di  fronte  a  imprenditori  dinamici,  e  moderni,  capaci  di  diversificare  le  attività  e  di  reinvestire  i  profitti  delle  attività illecite.  […]  La  maggior  parte  di  essi,  gabellotti  di  aristocratici  e  notabili,  utilizza  sapientemente  il  capitale  di  relazioni accumulato negli anni48.

In  forza  di  questo  pregresso  capitale  di  relazioni,  in  basso  (i  borghigiani)  e  in  alto  (politici,  aristocratici, professionisti) c’è chi si presta, nonostante tutto, a testimoniare a discarico. Gli imputati sono gente perbene, dicono i testimoni,  e  religiosa.  In  effetti  molti  di  loro  svolgono  ruoli  importanti  in  corporazioni  cattoliche.  Sarebbe  troppo lungo  citare  qui  anche  solo  i  più  importanti.  Diciamo  che  tra  gli  altri  troviamo  i  due  cugini  Francesco  Motisi  che conosciamo,  «u  miricanu»  e  «nasca  fradicia»;  uno  Stefano  Bontà  (altra  variante  del  cognome:  Bontate)  e  un Gioacchino Pennino, esponenti di illustri dinastie mafiose su cui torneremo in maniera articolata a suo tempo. Gli uffici giudiziari non dispongono di spazi sufficienti a ospitare centinaia tra imputati, parenti, curiosi, magistrati, avvocati, tutori della legge, e un’infinità di testimoni. Il processo viene celebrato nella chiesa di Santa Cita, «tripudio del barocco siciliano, bianca di stucchi del Serpotta»49. Comincia il 25 novembre del 1930 e si conclude il 4 febbraio del 1931. Nemmeno tre mesi per giudicare 263 persone! Anche qui, condanne miti, la massima a otto anni. Bontà e Pennino, per quanto siano rubricati tra i capi dell’associazione, se la cavano con tre anni. E poi, dobbiamo considerare che la repressione venne allora essenzialmente affidata alla discrezionalità poliziesca, cioè alle misure «amministrative», con un perfezionamento dell’istituto del domicilio coatto attuato con una legge del 1926,  specifica  per  le  «province  siciliane»,  la  quale  prevedeva  il  confino  nelle  isole  minori  per  coloro  che  la  solita «voce  pubblica»  indicava  come  «capeggiatori,  partecipi,  complici  e  favoreggiatori»  delle  organizzazioni  criminose. Come si vede, ancora una volta la strumentazione usata per reprimere il sovversivismo politico (l’antifascismo, nella fattispecie) veniva riutilizzata nei confronti dei mafiosi. «Il confino – ribadì Giampietro – “è” l’arma micidiale»50 da usare contro gli assolti e i condannati a pene di «modesta» entità. Si andava al confino per un quadriennio, ci si poteva essere riassegnati per un altro quadriennio. Qualcuno ci restava sino alla morte51. 5. La segreta società. Nel 1929 Mori lasciò la prefettura di Palermo. Forse le condizioni politiche non erano più quelle giuste, da quando il suo vecchio nemico, Arpinati, aveva preso le redini del ministero degli Interni. Però sarebbe eccessivo dire che sia stato  messo  a  riposo  per  punizione,  magari  perché  aveva  colpito  troppo  «in  alto».  La  verità  è  che  colpì  dove  era previsto  che  colpisse.  Rimase  a  Palermo  quattro  anni,  più  della  media  dei  suoi  colleghi:  il  fascismo  non  lasciava troppo a lungo i suoi funzionari in uno stesso posto, temendo l’incancrenirsi di fazioni locali. E fu promosso al rango di senatore, al pari di Giampietro, in un modo che non può suonare come una sconfessione. Come  valutare  l’operazione  nel  suo  complesso?  Sul  piano  simbolico  o  propagandistico,  fu  un  grande  successo. Resta  il  fatto:  alla  fine  ebbe  sulla  mafia  un  impatto  minore  di  quello  che  ci  si  sarebbe  potuto  aspettare.  Qualche esempio.  Cascio­Ferro  e  Ferrarello  finirono  all’ergastolo.  Cuccia  venne  prosciolto  in  sede  istruttoria  (sezione d’accusa) nel 1930 per una ventina di omicidi, mentre fu per le tante accuse di associazione a delinquere che nel 1930 gli furono affibbiati 11 anni. Però anche lui (come tanti altri) non se li fece tutti, credo per la sopravvenuta amnistia del 1932, tant’è che nel 1933 venne assegnato a 5 anni di confino. Non molto, per uno cui era stato attribuito il ruolo di  numero  uno…  Don  Calò  Vizzini  la  raccontò  in  questo  modo  a  Montanelli,  nella  citata  intervista:  «Fui  assolto quattro volte di seguito. Ma la faccenda mi costò ugualmente cinque anni di prigione e la metà dei miei beni»52. Nei processi che lo videro imputato e assolto (1929­31), a essere indiziati per vari reati erano in effetti zolfatari e campieri che lavoravano per lui, ma nulla emerse su sue specifiche responsabilità. Andò anche lui al confino, e tornò a casa nel 1937. Va  rilevato  il  diverso  impatto  della  repressione  nelle  diverse  aree  territoriali.  Nel  totale  (105  processi)  furono inflitte  anche  pesanti  condanne,  compresi  54  ergastoli,  ben  21  dei  quali  dal  Tribunale  di  Sciacca  (Agrigento).  In maggioranza gli ergastoli andarono a colpire le mafie dell’interno, quella di Gangi tra le altre. Non è un caso, credo, se la mafia delle Madonie non recuperò mai la centralità che aveva avuto in periodo prefascista. Il grande rapporto di polizia del 1938, la cui natura tra poco illustreremo, spiega che nel periodo di Mori la mafia della provincia di Trapani non venne «attaccata in profondità», che negli anni trenta era ancora «con tutti i suoi quadri al completo»53. Noi già sappiamo  della  scarsa  incidenza  della  repressione  a  Castellammare,  roccaforte  siculo­americana.  La  mafia  del Trapanese  era  pronta  per  riassumere  un  ruolo  centrale  nel  cinquantennio  successivo.  E  modesto  fu  l’impatto  della repressione Mori­Giampietro nell’agro palermitano, il luogo in cui la mafia era maggiormente innervata di relazioni con la classe dirigente, il terreno della sua più pericolosa riproduzione attraverso il tempo. Gli investigatori del 1938 descrissero  il  modo  in  cui  in  quest’area  decisiva  i  mafiosi,  man  mano  che  uscivano  di  prigione  e  tra  un  periodo  di

confino e l’altro, riottenevano le gabelle, tornavano a occuparsi dei propri affari, si impegnavano in nuove guerre di mafia. Molto  rumore  per  nulla?  Per  ottenere  risultati  modesti,  diciamo.  Basterà  comparare  le  pene  erogate  nel  contesto dell’operazione  Mori  con  le  centinaia  di  ergastoli  inflitti  nella  tarda  età  repubblicana,  dopo  il  maxiprocesso palermitano  del  1985­87.  Mi  riservo  di  tornarci  a  suo  tempo;  possiamo  però  dire  sin  d’ora  che  dal  confronto  esce radicalmente smentita la tesi – così inquietante per la nostra coscienza civile – stando alla quale la repressione di una patologia così profondamente radicata sarebbe possibile solo per un regime super­autoritario, e impossibile per uno democratico. Statistica criminale. Sul breve termine, si ebbe un calo verticale dei reati dopo il 1925, anche se poi, già all’inizio degli anni trenta, la mafia fornì non dubbi segni di vita. Citiamo un po’ a caso dagli archivi di polizia. Nel 1932, nel centro  di  Canicattì,  furono  consumati  tre  omicidi  «le  cui  modalità  di  esecuzione  ed  il  mistero  profondo  in  cui rimangono tuttora avvolti» rimandano a «delitti tipici di organizzazioni mafiose»; intorno a Partinico, alla metà degli anni  trenta,  si  verificarono  «incendi,  danneggiamenti,  omicidi  […]  a  sfondo  eminentemente  associativo»54.  Proprio nel  1932  fu  emanata  l’amnistia  che  consentì  a  tutti  i  condannati  per  associazione  negli  anni  precedenti  di  uscire. Assassinî di mafiosi di primo piano si susseguirono nell’agro palermitano dopo il 193455.  Su  questa  recrudescenza, alla stampa fu ordinato di tacere. Va rilevato un aspetto importante: a Mori era stata assegnata una funzione di coordinamento interprovinciale delle forze  di  polizia,  che  spezzava  l’ordinamento  tradizionale  dell’amministrazione  statale.  Il  suo  successore  alla  guida della  prefettura  palermitana  non  aveva  il  suo  carisma  (tra  l’altro,  veniva  dal  Partito  fascista,  non  dalla  «carriera»), donde i conflitti di competenza che lo opposero ad esempio al prefetto di Trapani. Per un funzionario della carriera civile, d’altronde (già ai tempi di Mori) non era facile controllare i carabinieri. Il governo cercò di sopperire creando un  Ispettorato  interprovinciale  di  Ps  per  la  Sicilia,  affidandolo  all’ex  collaboratore  di  Mori,  il  già  citato  Giuseppe Gueli, affiancato da un alto ufficiale dei carabinieri. Si mosse nella logica che Coco, in sede storiografica, ha detto delle polizie speciali. Ma non per questo i contrasti tra la polizia e l’Arma ebbero fine56. Va qui sottolineato l’ennesimo intreccio – dallo Stato liberale a quello fascista – di personale e metodi utilizzati nella  caccia  ai  sovversivi  e  nella  caccia  ai  mafiosi.  Gueli  aveva  fatto  esperienza  di  polizia  politica  nella  delicata frontiera  statale  ed  etnica  dell’Alto  Adige.  E  l’organizzazione  dell’Ispettorato,  che  era  di  base  regionale  come  (in generale) quella dell’Ovra (la polizia politica del regime), si ispirò alle stesse metodologie. Gueli, pur proclamandosi allievo  e  ammiratore  di  Mori,  non  mancò  di  criticarne  l’eccessiva  tendenza  alla  spettacolarizzazione.  Come  l’Ovra, l’Ispettorato voleva essere un istituto che agiva in maniera sotterranea, composto da investigatori super­specializzati, «snello e dinamico», «con disponibilità ristretta al minimo indispensabile»57. E torniamo alla valutazione retrospettiva dei risultati dell’operazione Mori contenuta nel grande documento stilato dagli  investigatori  dell’Ispettorato  nel  1938,  che  già  abbiamo  citato.  La  valutazione  è  questa.  La  mafia  allora  «fu sfrondata, potata, quasi intaccata al tronco, ma la base e le radici rimasero intatte, perché costituite dai cosiddetti “stati maggiori” ormai notoriamente composti da professionisti, titolati e da individui, in genere, di elevata classe sociale». Di  fronte  alle  iniziative  rinnovatrici  del  regime  fascista  «le  cricche  politico  mafiose  non  hanno  mai  disarmato,  pur predicando ostentatamente il contrario». Sono seguite manovre intese a «impietosire la cosiddetta opinione pubblica», vari (inopportuni!) «provvedimenti di clemenza», e (a partire dal 1933) l’«immancabile rallentamento da parte degli organi di polizia, già tacciati e calunniati di presunti eccessi». La mafia ne ha approfittato per riorganizzarsi e ripartire. Forse oggi non è meno pericolosa di ieri58. Sono  stato  colpito,  e  non  per  il  gusto  delle  facili  analogie,  dalla  somiglianza  tra  questi  dubbi  sull’efficacia dell’operazione antimafia del fascismo del 1926­29 e quelli sull’efficacia dell’antimafia di età repubblicana culminata nel  1993.  Ci  torneremo.  Comunque,  per  restare  al  documento  del  1938,  si  noti  il  riferimento  alla  capacità  di condizionamento degli «stati maggiori» politici, alto­borghesi, «titolati». Per  capirne  di  più  vorrei  ripartire  da  uno  dei  processi,  riguardante  non  un’associazione  ma  un  singolo  omicidio perpetrato  nella  Conca  d’oro  nel  giugno  del  1927,  cioè  dopo  la  grande  retata  dell’aprile­maggio  1926.  Ne  è  teatro Villa Adriana, residenza del barone Luigi Bordonaro di Gebbiarossa. Ne è vittima un amministratore di ceto borghese, assunto dal proprietario di recente, appunto dopo l’avvio dell’operazione antimafia. Il colpevole è il figlio di Salvatore Sciacca detto Cola Innusa, il quale da quasi trent’anni è il curatolo (gestore) della villa59. Evidentemente la famiglia Sciacca considerava Villa Adriana di propria pertinenza, tanto da non tollerare l’intruso. Sciacca padre ha un alibi, il migliore:  al  momento  del  delitto  scorta  il  suo  padrone,  in  giro  per  affari  in  provincia.  Invece  Sciacca  figlio  è  reo confesso. Il punto è: avrà agito A) di propria iniziativa, «d’impeto», o B) su mandato del padre? La difesa cerca di accreditare l’ipotesi A, in due arringhe. Nella  prima  arringa,  il  primo  avvocato  racconta  un  apologo,  basato  su  una  immaginaria  discussione  tra  giurati connotati per estrazione regionale: il napoletano, il lombardo, il palermitano. Attribuisce al palermitano (ovviamente)

il  compito  di  spiegare  agli  altri  l’essenza  antropologica  della  questione.  Cola  è  in  effetti  mafioso,  «se  per  mafioso intendiamo uomo che divide i sentimenti di campagna, omertà, farsi i fatti propri, procurare qualche testimonianza. Questo sì, collega. Uomo di giardino era». Però «il Presidente ci ha dato incarico di esaminare non se era mafioso ma se  era  delinquente.  Vi  dimostro  invece  che  era  costretto  a  lottare  contro  la  delinquenza».  A  Villa  Adriana,  in trent’anni,  non  si  era  verificato  alcun  furto.  «I  delinquenti  della  contrada  sapevano  che  non  dovevano  fare  male  ai componenti  di  essa  [famiglia  baronale]  altrimenti  l’uomo  del  giardino  li  avrebbe  fatti  ammazzare  per  proteggerli  e difenderli»60. Seconda arringa. «L’uomo di campagna resta sempre primitivo», mentre Cola si è civilizzato. Viaggia  col  barone  Gebbiarossa,  conosce  città,  vi  dimora  per  lunghi  tratti,  fa  operazioni  in  banca,  si  affianca  sempre  al padrone, con lui alloggia negli stessi alberghi, viaggia nello stesso scompartimento ferroviario, fuma gli stessi sigari, è invitato a pranzo insieme col barone, si asside alla stessa mensa di casa Gangitano […] Non è più, non può essere più «u zu Cola» ma è per opera dello stesso padrone, per volontà del padrone, divenuto don Cola61.

La difesa vuol dimostrare che don Cola è in tutto e per tutto una creatura del suo padrone, capace di uccidere per lui ma non per proprio conto. Quale indicatore essa assume a riprova che si tratta veramente di un fidato difensore della proprietà? Il fatto che il barone Gebbiarossa non si sia liberato di lui per quanto già da un anno, con le retate, il fascismo  abbia  liberato  lui  e  gli  altri  proprietari  da  ogni  costrizione.  L’accusa  non  ipotizza  nemmeno  una  qualche responsabilità penale del barone (noi diremmo: un concorso esterno in associazione mafiosa). La difesa sostiene che su questa base andrebbe assolto anche il mafioso. In margine al processo per il delitto di Villa Adriana, due mie considerazioni più generali. Prima considerazione. Nessun grande proprietario fu condannato, e neppure incriminato, nei processi fascisti. D’altronde l’intera operazione Mori  aveva  come  finalità  di  base  il  recupero  al  fascismo  di  questo  ceto  sociale,  come  abbiamo  visto  ragionando  di Sgadari, dei risultati dell’epurazione di Cucco, e dell’aumento della rendita fondiaria. Diciamo che venne colpita la mafia militante, ivi compresa quella dei più agiati facinorosi della classe media, e furono salvati i grandi manutengoli collocati nella fascia alta della scala sociale. Seconda considerazione. Dipingendo la figura dell’«uomo di campagna» o «di giardino», barbaro ma fedele, gli avvocati difensori, questa parte così importante della classe dirigente locale, tornarono a schierarsi sul fronte dell’identità etnica e dell’immaginazione antropologica, la posizione migliore da cui contrastare (come sempre avevano fatto) l’idea della mafia come fenomeno associativo criminale. Non  disdegnarono  clamorose  manifestazioni  collettive  poco  consone  allo  spirito  dei  tempi,  come  l’abbandono della  cerimonia  di  inaugurazione  dell’anno  giudiziario  1927,  polemico  con  le  linee­guida  esposte  da  Giampietro  in tema  di  riapertura  dei  procedimenti  chiusi  per  insufficienza  di  prove,  e  di  super­valutazione  dei  rapporti  di  polizia come elementi probatori62. La protesta era guidata dal presidente dell’ordine Vincenzo Puglia. Si trattava del figlio di Giuseppe Mario Puglia, che abbiamo già conosciuto come difensore dei diritti della Sicilia al tempo del malgoverno della Destra, e del padre di Vincenzo Puglia, cui si deve il più temerario degli interventi pubblicistici anti­Giampietro, esplicitamente  intitolato  Il  mafioso  non  è  un  associato  a  delinquere.  Centrale  era  qui  il  richiamo  al  «vero  e insostituibile conoscitore dell’anima siciliana» – ovvero, come al solito, a Pitrè63. E naturalmente il teatro delle più esplicite manifestazioni in questa direzione fu quello processuale. Abbiamo citato il processo di Villa Adriana, citiamo anche quello contro la mafia di Bisacquino (1930), nel corso del quale l’avvocato di Vito Cascio­Ferro affermò che nel suo assistito la mafia rappresentava «un atteggiamento di spiccato individualismo spavaldo, spoglio di cattiveria, di bassezza e di criminalità». Anche qui non poteva mancare la citazione di Pitrè64. Fallirono, gli avvocati? Direi di no. La loro fu la parte più visibile della mobilitazione della classe dirigente, della «cosiddetta opinione pubblica» chiamata in causa dagli investigatori dell’Ispettorato, intesa a ridimensionare gli effetti dell’operazione Mori. E a rilegittimare le relazioni tra i tanti omologhi del barone di Gebbiarossa e i tanti omologhi di Salvatore Sciacca; il loro mantenersi, il loro rinnovarsi. Gli estensori del rapporto del 1938 erano ben consapevoli del problema. Proprio per questa ragione, si collocarono con maggiore radicalismo sulla linea dei loro predecessori di età liberale, nella polemica antica quanto la mafia stessa, pro e contro gli «stati maggiori» isolani (avvocati, intellettuali, politici) e la loro illustre tradizione culturale. La mafia, dissero,  «non  è  un  semplice  stato  d’animo  o  un  abito  mentale,  ma  diffonde  l’uno  e  l’altro  da  una  base  di  piena organizzazione»65.  E  si  tratta,  scrissero,  di  un’organizzazione  integrata,  che  va  considerata  e  combattuta  nel  suo insieme.  Certo,  l’Ispettorato  era  un  istituto  di  polizia  «speciale»,  creato  da  un  regime  totalitario,  che  per  opinione diffusa  faceva  ricorso  alla  tortura,  che  di  certo  non  coltivava  scrupoli  legalitari.  Basò  comunque  la  sua  tesi  su  una quantità  di  testimonianze  dall’interno  e,  tra  l’altro,  sulla  confessione  del  dottor  Allegra,  che  noi  già  parzialmente conosciamo. La  struttura  dell’organizzazione  mafiosa  che  i  testimoni  ci  descrivono  è  uguale  a  quella  di  Cosa  nostra,  quale risulterà venticinque anni più tardi dalla testimonianza di Joe Valachi (Stati Uniti, 1963), e quarantacinque anni più tardi  da  quella  di  Tommaso  Buscetta  (Sicilia,  1984).  In  questo  senso  il  documento  del  1938  è  di  straordinaria

importanza, quanto e più di quello firmato da Sangiorgi nel 1898­1900. La mafia, ci dice, è articolata in «Famiglie» ognuna  delle  quali  ha  al  suo  interno  gruppi  minori,  detti  «decine»,  ed  elegge  un  «presidente»  o  «rappresentante»  – delegato  appunto  a  rappresentarla  in  un  qualche  istituto  direttivo.  I  membri  della  società  si  chiamano  «fratuzzi»  o uomini d’onore. L’organizzazione esiste in Sicilia come negli Stati Uniti (oltre che in Francia e in Tunisia)66. Qualche osservazione sul termine «Famiglia». Non vuole qui indicare un’entità parentale più o meno allargata, ma il gruppo­ base  dell’organizzazione  settaria­mafiosa  in  cui  si  entra  mediante  il  rituale  di  affiliazione.  Il  modello,  per  gli inquirenti, è quello massonico. Come abbiamo visto, per spiegare la forza della mafia gli investigatori chiamano in causa innanzitutto la grande tenuta della rete protettiva degli «stati maggiori». Però tengono ben conto anche del nucleo duro della rete mafiosa, l’organizzazione segreta i cui confini sono sanciti dalla cerimonia dell’affiliazione. La rete «esterna» è interclassista ma anche questo suo nucleo lo è. Comprende proprietari, professionisti, medici. Uno  dei  medici  è  il  dottor  Allegra,  alla  cui  testimonianza  possiamo  tornare  per  quanto  attiene  al  rito  della  sua affiliazione,  avvenuta  poco  dopo  che  Giulio  D’Agati,  boss  della  mafia  di  Villabate,  e  Francesco  Motisi,  boss  della mafia di Pagliarelli, l’avevano contattato. Motisi, insieme a certo Vincenzo Di Martino, lo portò in un magazzino di agrumi  sito  in  una  traversa  di  via  Crispi  (vicino  al  porto)  di  sua  proprietà.  Lì  gli  fu  spiegato  che  la  mafia  era  «una associazione molto potente, che comprendeva molta gente di tutte le categorie sociali, non escluse le migliori». Gli fu detto  delle  sue  ramificazioni  in  Tunisia,  nelle  Americhe,  in  qualche  centro  del  continente,  a  Marsiglia,  e  della  sua articolazione in «Famiglie»: ogni paese aveva la sua, ma a Palermo ce n’erano parecchie, una per ogni rione. C’era – spiega il medico ai funzionari che lo interrogano – un «collegamento sostanziale e non formale che attraverso i capi, legava in tutte le province i gruppi»67. Fu  chiesto  ad  Allegra  se  voleva  aderire,  e  lui  rispose  di  sì.  Venne  così  sottoposto  al  rituale,  di  cui  possiamo prendere cognizione attraverso le sue stesse parole: il signor Di Martino, dietro invito del signor Motisi, con uno spillo o ago che fosse, mi punse il polpastrello del dito medio di una mano, facendo uscire una goccia di sangue con la quale venne intrisa una immagine in carta di una santa. Tale immagine sacra,  venne  infiammata  ed  io  dovetti  tenerla  in  mano  mentre  ripetevo  una  formula  di  giuramento  suggerita  dagli  altri;  dissi presso a poco questo: «Giuro di essere fedele ai miei fratelli, di non tradirli mai, di aiutarli sempre, e se così non fosse, io possa bruciare e disperdermi, come si disperde questa immagine che si consuma in cenere». Dopo di questo ci fu un abbraccio e un bacio generale e quindi il seguito delle istruzioni68.

Altre testimonianze su giuramenti troviamo nella documentazione dell’Ispettorato. Il caso più antico documentato risale  al  1894.  L’affiliando  viene  sempre  preparato  con  discorsi  analoghi  a  quelli  fatti  ad  Allegra,  anche  se  forse  il dottore ha più bisogno di questa preparazione dei neofiti provenienti da dinastie mafiose citate nel rapporto del 1938, che ne sanno già molto. Il  giuramento  peraltro  raggiuge  luoghi  ben  più  remoti.  Al  proposito,  facciamo  un  salto  attraverso  l’oceano,  e arriviamo in una grande casa situata in una zona rurale, nella parte interna dello Stato di New York, alquanto distante dalla  metropoli.  Siamo  nel  1931.  Qui  troviamo  Joe  Valachi  (il  futuro  super­testimone),  criminale  di  piccolo  calibro aggregatosi  alla  banda  dei  castellammaresi  in  previsione  della  prossima  gangwar.  La  mafia  non  usa  fare  ricorso  a killer a pagamento, e i castellammaresi hanno deciso di far giurare la recluta come si usa dalle parti loro. Nella grande casa,  egli  trova  un  gran  numero  di  persone  riunito  intorno  a  un  enorme  tavolo  sul  quale  stanno  un  coltello  e  un pugnale.  Presiede  Maranzano.  Parole  solenni  vengono  pronunciate  sugli  obblighi  e  sui  vantaggi  che  deriveranno  al neofita dall’appartenenza al gruppo. Gli viene chiesto di bruciare un pezzetto di carta, e un «padrino» estratto a sorte tra i presenti – Bonanno – gli punge un dito facendo fuoriuscire un po’ di sangue, dopo di che tutti battono le mani e si baciano69. Noi già conosciamo il rito. Rileviamo però una differenza rispetto alla testimonianza di Allegra e alle altre su cui si basano gli investigatori dell’Ispettorato. Delle cose dette, della formula dettatagli e da lui stesso ripetuta, Valachi non capisce  quasi  nulla  perché  le  parole  sono  in  siciliano  –  dialetto  che  non  conosce  come,  sembra,  ben  poco  conosce l’italiano. Solo quando tutto è compiuto gli viene detto in inglese che l’affiliato vive di pistola e coltello, e di quelli deve aspettarsi di morire; che non può avere relazioni con le mogli di altri affiliati, né tradire la società o rivelare il segreto del giuramento, altrimenti brucerà come quel pezzo di carta70. Il nome.  Allegra  precisò:  l’associazione  da  lui  descritta  era  proprio  quella  che  all’esterno  (da  chi  non  ne  sapeva gran che) veniva indicata come «mafia». Usò poi lui stesso, in diverse occasioni, questa parola ma il più delle volte mettendola  tra  virgolette,  come  a  beneficio  dei  verbalizzanti.  Come  altra  volta  ho  osservato,  gli  affiliati  non  amano usare  la  parola  mafia.  Il  testimone  spiegò  che  i  membri  dell’organizzazione  «erano  chiamati  uomini d’onore»  ed  è possibile che costoro (al pari di Nick Gentile) la chiamassero «onorata società», o con qualche nome analogo. Nessun indizio porta a pensare che dicessero «Cosa nostra», come avrebbero fatto decenni più tardi Valachi e Buscetta.

1 Non posso che rimandare a Lupo 2000. 2 A. Cortesi, The Mafia Dead, a New Sicily Is Born, in «New York Times», 4 marzo 1928; anche Mori War on the Mafia, ivi, 17 gennaio 1928. 3 «Giornale di Sicilia», 22 gennaio 1926; ivi, 15 gennaio 1928. 4 Coco 2017. Spanò 1978, scritto dal figlio del poliziotto, attinge a documenti dell’archivio paterno. 5 Mori 1932, p. 242. 6 Discorso pronunciato ad Alcamo, ibid., pp. 268­71. 7 Ibid., p. 244. 8 Ibid., p. 338. 9 Ibid., pp. 351 sgg. 10 S. Sirena, L’azione della Commissione per le affittanze agrarie, in «Giornale di Sicilia», 18 febbraio 1928. 11 Lettera di G. Guarino­Amella a Mori, cit. da Duggan 1986, pp. 202­3. 12  Relazione  del  viceprefetto  Di  Feo,  cit.  ibid., 

p.  87.  Commento  cinico  di  Mori  1932,  p.  365:  la  gente  deportata  si  trovava  come  in «villeggiatura». 13 Gower Chapman 1985, pp. 29­31. 14 Raccolto e pubblicato da Naro 1991, pp. 62­3. 15 Verbale di denuncia del 15 settembre 1921, ASPA, sez. Termini I., Corte di Assise di TI, 1928, fasc. 26. Scognamillo 2013­14. 16  Un  anonimo  «proprietario  minacciato»  al  prefetto,  giugno  1912,  in  ACS,  PG,  1913,  b.  374.  Relazione  Di  Blasi,  15  settembre  1926,  I,  in Antimafia, Doc., IV, t. 5, 339. 17 Relazione Di Blasi, 26 febbraio 1928, II, in Antimafia, Doc., IV, t. 3, p. 371. 18 Lettera di V. Franco cit. da Spanò 1978, p. 33. Il mafioso in questione si chiamava Pietro Palazzolo. 19 Spanò 1978, pp. 42 sgg. 20 Duggan 1986, p. 203. 21 La lettera in ACS, AC, Podestà: Palermo, Gangi. 22 Montanelli 1955, p. 284. 23 Si vedano i tre documenti cit. in Petrotta 2001, pp. 136­8. 24 Ricorso della cooperativa del 19 ottobre 1927 e replica di Mori del 13 dicembre in ACS, PS, cat. G1 (Associazioni), b. 141. 25 Cucco, Il mio rogo, pubblicato in appendice a Di Figlia 2007, p. 195. 26 Lupo 2000, pp. 247 sgg. 27 Cucco, Il mio rogo, pubblicato in appendice a Di Figlia 2007, p. 199. 28 Alla testa della federazione fu messo un triumvirato formato dal duca Ugo Parodi di Belsito, dal marchese Paternò di Spedalotto, oltre che da Concetto Sgarlata, uomo di Mori. 29 Ricorso dell’aprile 1927, in ACS, Segreteria CR, b. 39, fasc. personale di Cucco, p. 2. In questo senso anche Spanò 1978, p. 38. 30 Nota del 23 gennaio 1927 di T. Whitaker Scalia, in Trevelyan 1977, p. 357. 31 Lettera di Di Giorgio a Mussolini del 19 marzo 1928, in Caprì 1977, p. 48 e passim. 32 Lettera del questore A. Crimi, 25 settembre 1927, cit. in Coco 2017, p. 61. 33  Di  Figlia  2008,  pp.  29­30.  Peraltro  il  leader  fascista  venne  anche  coinvolto  nel  grande  affare  dell’emigrazione  clandestina,  per  cui  venne condannato un suo stretto collaboratore. 34 Mori 1932, p. 84. 35 Duggan 1986, pp. 95 sgg. 36 Cfr. anche Andretta 2005, pp. 225­6. 37 Coco ­ Patti 2008. 38 Cit. da Blando 2008. 39 Ibid. 40  Rapporto  del  1927  collazionato  in  Memorandum  on  Sicily  under  Italian  Rule,  in  Public  Record  Office,  Foreign  Office,  371/33251.  Tra  i riferimenti a torture rinvio a quello dell’avvocato ed ex deputato radicale A. Abisso, pure impegnato nel fiancheggiamento dell’operazione Mori, in «Giornale di Sicilia», 11 gennaio 1929. 41 Arringa dell’avvocato F. Trigona della Foresta, ivi, 25 dicembre 1930; accuse in qualche modo confermate dallo stesso pubblico ministero, ivi, 27 novembre 1930. 42 Scalia 2008, pp. 101 sgg. 43 Blando 2008, p. 65. Questa impostazione veniva sistematizzata da uno dei suoi sostituti procuratori di punta, Lo Schiavo 1933. 44 Di Blasi 1930; Lo Schiavo 1933. 45 Intervento di I. Messina, giudice istruttore dei processi contro le cosche di Bisacquino e Corleone, in Antimafia, Doc., III, t. 1, p. 367. 46 Anche nella dottrina, qualche risultato la tesi della mafia come associazione lo ottenne: Visconti 2003, pp. 60 sgg. 47 «Giornale di Sicilia», 6 maggio e 7 giugno 1929. 48 Patti 2008, pp. 79­80. 49 Ibid., p. 75. 50 «Giornale di Sicilia», 13 gennaio 1928. La legge è la n. 1254 del 15 luglio 1926.

51  Fu  il  caso  di  Mauro  Farinella,  appartenente  a  una  dinastia  di  capi­mafia  di  San  Mauro  Castelverde  che,  dopo  aver  scontato  otto  anni  di

prigione, morì nel 1940 mentre scontava il suo secondo quadriennio di confino. 52 Montanelli 1955, p. 283. 53 Verbale Ispettorato 1938, p. 59. 54 ACS, MI, CPM; le citazioni dalle bb. 138 e 85. 55 Coco ­ Patti 2010, pp. 36­8. 56  Coco  2017.  Su  questa  nuova  fase  della  repressione  accenni  già  in  due  libri  scritti  rispettivamente  da  un  ufficiale  dei  carabinieri,  Candida 1966, e dal figlio di un funzionario di polizia, Spanò 1978. 57 Coco 2017, p. 85. 58 Verbale Ispettorato 1938, pp. 55­7. 59  Le  cronache  del  processo  in  «Giornale  di  Sicilia»,  12  marzo  1928  sgg.  Sciacca  era  suocero  di  quel  Giuseppe  Biondo  già  da  Sangiorgi descritto quale alto papavero della fazione Giammona a fine Ottocento. 60 Ivi, 31 marzo 1928. L’avvocato si chiamava Ferdinando Li Donni. 61 Ivi, 26 marzo 1928. L’avvocato si chiamava Berna. 62 Telex di Mori del 24 gennaio 1927: «dietro avvocati stanno mafia, delinquenza, affarismo che sperano respiro», in  ACS, PS, cat. G1, 1927, b. 128. 63 Puglia 1930, p. 5. 64 Arringa dell’avv. G. Russo Perez, in «Giornale di Sicilia», 6 giugno 1930. 65 Verbale Ispettorato 1938, p. 63. 66 Ibid., pp. 63, 136 (testimonianza di Salvatore Anello detto maistreddu), e passim. Non moltissimo vien fuori dal documento sulle relazioni con l’America. Vi si narrano comunque casi di mafiosi rifugiatisi oltre oceano e anche di reduci dal nuovo mondo subito cooptati in ruoli dirigenti negli organigrammi palermitani. 67 Testimonianza Allegra. 68 Ibid. 69 Sua testimonianza in McClellan Hearings, pp. 180 sgg. 70 Ivi, pp. 181­5.

VII. Gangster e mafiosi

Torniamo  in  America.  Nel  1932,  quando  viene  abolito  il  proibizionismo,  o  nel  1935,  quando  Maurice  Berger, giornalista  del  «New  York  Times»,  delinea  la  figura  del  «racketeer  moderno»,  cioè  dell’età  post­proibizionista.  Lo descrive mentre lavora in ufficio come un manager, dopo aver abbandonato la strada; mentre si mostra nei locali o nei club politici senza più temere per la propria vita; mentre si mischia alle classi superiori sul campo da golf o alle corse dei  cavalli.  «I  boss  del  racket  hanno  in  gran  parte  ambizioni  sociali»,  e  massimamente  desiderano  che  il  mondo  li consideri «veri businessmen»1. Berger dà grande rilievo alla figura emergente nel settore italiano, Lucky Luciano2. Lo dipinge come un «personaggio così popolare a Broadway», frequentatore abituale dei night club di sua proprietà o dei posti  di  prima  fila  del  Madison  Square  Garden,  o  altrimenti  di  Miami  per  le  vacanze  al  mare.  Dice:  lo  si  può incontrare  sì,  ancora,  in  qualche  caffè  italiano  dell’East  Side,  però  non  perché  ce  lo  porti  la  nostalgia,  bensì  per  un calcolo,  «per  mostrare  agli  amici  che  il  successo  non  ha  fatto  di  lui  uno  snob»3.  Fa  coincidere  la  modernità  con l’uscita dal ghetto fisico e mentale del vecchio mondo. Con l’americanizzazione, insomma. Lo dico subito. Il quadro è intrigante, ma non del tutto convincente. Esprime il bisogno di normalità dell’opinione pubblica dopo gli sconvolgimenti degli anni venti. Riflette certo l’aspirazione dei boss del gangsterismo, emanciparsi dalla sporcizia della strada e dal lezzo dei morti ammazzati. Ma resta distante dalla realtà. Quanto a Luciano: in effetti ha  cercato,  cerca  e  cercherà  di  dare  di  se  stesso  l’impressione  dell’uomo  emancipatosi  dal  retaggio  del  «vecchio paese». Però resta un gangster siciliano d’America e la sua storia si intreccia indissolubilmente con quella della mafia o – come si diceva in America tra le due guerre – dell’Unione siciliana. Per  capirlo  dobbiamo  fare  un  passo  indietro,  tornando  a  quel  1930­31  in  cui  a  New  York  la  conflittualità,  nel gangsterismo  italiano,  raggiunse  una  misura  che  ai  contemporanei  sembrò  superiore  a  «qualsiasi  cosa  questa  città abbia mai conosciuto in passato»4. 1. Guerra castellammarese. Il principale tra gli scontri tra gang, nella New York del 1930­31, ebbe protagonisti siciliani: da un lato il boss per eccellenza, Joe Masseria; in mezzo appunto Luciano; sul versante opposto l’ultimo castellammarese giunto nel nuovo mondo, Salvatore Maranzano. Da qui il termine «guerra castellammarese». Ripartiamo  dal  punto  del  Luciano  Testament,  di  cui  abbiamo  detto  nel  capitolo  quarto,  in  cui  il  giovane  boss, Luciano, esprime grande antipatia per quell’old bastard, Maranzano, per la sua mafia e per tutte le sue diavolerie da vecchio  mondo5.  Lo  incontrò  per  la  prima  volta  (1926?)  al  ristorante  Palermo  di  Brooklyn,  vestito  in  maniera ricercata,  con  al  dito  un  anello  di  diamanti  con  iniziali.  Fu  infastidito  nel  sentirsi  chiamare  «giovane  Cesare», vedendolo  prodigarsi  in  citazioni  in  latino.  Non  seppe  che  rispondergli  quando  gli  fu  chiesto  perché  mai  avesse abbandonato il nome che li accomunava – Salvatore. Non voleva spiegare il suo desiderio di tenersi lontano da tutte le sicilianerie, e non accolse l’invito del suo interlocutore a farla finita con le amicizie ebraiche. Solo, accettò di brindare insieme a lui con vino rosso siciliano, secondo l’antica usanza siciliana. Uscendo, Luciano pensò che il vino era acido e che, «con tutta la sua cultura […], quello era un dago cui potevi dare piscia o aceto e l’avrebbe bevuto, purché fosse rosso e venisse dalla Sicilia». La considerazione valse a placare i suoi  complessi  d’inferiorità:  confidava  che  anche  le  altre  componenti  di  quell’armamentario  portato  dal  vecchio mondo  potessero  rivelarsi  imbevibili  nel  nuovo.  Reagì  ancor  peggio  nel  corso  di  un  secondo  incontro,  quando Maranzano fece ricorso alla retorica familista tipica dei suoi pari definendolo «il suo bambino»: Che diritto aveva quel coglione di prendere il posto del mio vecchio? Una cosa era fare un affare, un’altra cosa giocare al papà con me – in italiano «papà» significa Papa. Stava giocando con me un’altra volta lo stesso dannato gioco. Gli avrei sparato all’istante6.

Una  terza  volta  Luciano  fu  oggetto  di  un’attenzione  di  Maranzano  di  tutt’altra  natura,  quando  fu  sottoposto  dai castellammaresi a un pestaggio da cui uscì vivo per mera fortuna, guadagnandosi il soprannome Lucky. Comprese in quell’occasione  (o,  almeno,  così  leggiamo  nel  Testamento)  che  bisognava  farla  finita  con  le  logiche  di  «vendetta»

portate da quella gente immancabilmente provvista di baffi («old mustaches»), proveniente dal vecchio paese. «Tutti noi giovani odiavamo gli old mustaches e quello che stavano facendo. Noi cercavamo di portare avanti un business al passo  coi  tempi  e  loro  ancora  vivevano  al  livello  di  cento  anni  prima»7.  Per  il  momento  comunque  non  trovò  di meglio che allearsi con Joe the boss Masseria, un altro che considerava un rottame del vecchio mondo, ma del quale rispettava la forza – sapeva che lui e i castellammaresi stavano andando allo scontro. Qui lasciamo un attimo da parte il Luciano Testament, e affidiamoci alle informazioni di un altro dei reduci della guerra castellammarese, Valachi, il quale entrò nel gruppo di fuoco di Maranzano, che eliminò diversi luogotenenti di Masseria8. A questo punto (sembra) Luciano, coadiuvato dai fidi Costello e Genovese, decise di mollare Joe the boss e lo fece uccidere (15 aprile 1931) per andare a una mediazione con la controparte, e riprendere gli affari «as usual». I giornali americani e quelli palermitani che osservavano il tutto da oltreoceano, interpretarono questo delitto come un segnale che l’«Invisibile governo» del racket intendeva restaurare l’ordine. E le forze dell’ordine ufficiale? In sostanza si guardavano dall’interferire, quasi che quelle vicende non le riguardassero9. Segnaliamo  gli  elementi  d’ambiente  e  se  volete  di  colore.  Joe  the  boss  trovò  il  suo  destino  nello  scenario  di  un ristorante italiano di  Coney  Island,  Nuova  Villa  Tammaro,  nella  saletta  riservata dove tipicamente stava giocando a poker  dopo  aver  consumato  una  cena  per  nulla  frugale10.  Seguì  l’altrettanto  tipica  manifestazione  etnica  del  suo funerale, cui nel Lower East Side parteciparono ben cinquemila persone, con il morto «portato alla tomba al suono di canti mesti», con una sua immagine che faceva bella mostra di sé «su un carro da sei cavalli, tirato dai fedelissimi»11. Chi  esprimeva  la  propria  solidarietà  nell’ultima  ora  di  un  top­gangster?  Altri  criminali,  certo,  ma  anche  politici, uomini d’affari, gente comune. Ancora  elementi  di  colore,  stavolta  sul  fronte  dei  vincenti,  troviamo  tornando  al  Luciano  Testament,  stando  al quale Maranzano convocò un’assemblea con cinquecento partecipanti, nella «grande sala per ricevimenti del Grand Concourse  nel  Bronx».  Il  lettore  troverà  inverosimile  che  i  gangster  discutessero  di  temi  delicati  nel  corso  di un’assemblea così affollata, eppure narrano di aver partecipato al meeting – o ad altro analogo – anche gli altri reduci della  guerra  castellammarese,  Valachi,  Gentile  e  Bonanno12.  Lo  fecero  magari,  dunque,  in  margine  alla  riunione  di una  di  quelle  associazioni  di  «paesani»  che  si  richiamavano  a  qualche  santo  patrono.  È  in  effetti  di  questa  natura l’ambiente descritto nel Last Testament: Tutto l’ambiente era praticamente ricoperto di croci, immagini religiose, statue della Vergine e di santi di cui non avevo mai sentito parlare. Maranzano era il più grande patito di croci al mondo – portava croci al collo, ne aveva nelle tasche, dovunque fosse c’erano croci dappertutto13.

Maranzano,  sempre  stando  alla  nostra  fonte,  era  un  «fanatico»  della  religione,  e  pretendeva  che  i  suoi frequentassero assiduamente la chiesa, senza curarsi della naturale obiezione – come può accostarsi all’altare chi ha le mani  sporche  di  sangue?  Noi  già  sappiamo  dell’importanza  del  cattolicesimo  nel  corredo  identitario  mafioso.  La immaginiamo  tanto  maggiore  per  gente  che  si  trovava  a  dover  agire  in  terra  straniera,  protestante,  e  in  un  campo periglioso come quello criminale. Perché lo pseudo­testamento rappresenta tutto questo in modo così negativo? Per mostrare l’avanzamento di Luciano nel processo di americanizzazione, il suo rifiuto della cultura del vecchio mondo. Sempre il Luciano Testament racconta della riorganizzazione del sistema, sancita dal nuovo boss, in cinque gruppi ribattezzati  «Famiglie»:  «eufemismo»  con  cui,  precisa,  intendeva  evitare  vocaboli  di  per  sé  connotati  in  senso negativo quali «gang» o «mob». La fonte spiega che Maranzano enunciò le regole che avrebbero dovuto garantire la convivenza pacifica tra i gruppi e il reciproco rispetto tra i membri di ogni singolo gruppo; che si autonominò «capo dei  capi»  secondo  l’antico  uso  della  mafia  siciliana14.  Altri  reduci  della  guerra  castellammarese  non  l’hanno raccontata molto diversamente. La nostra vecchia conoscenza Nick Gentile dipinge il boss castellammarese come un «presidente  di  corte  d’assise»  pronto  a  condannare  i  suoi  avversari  alla  pena  capitale,  come  un  «Pancho  Villa» impegnato in ribellioni insensate15. Persino Bonanno ammette che, chissà, Maranzano può essersi lasciato trasportare dalla  vertigine  del  successo,  pur  ribadendo  che  si  trattava  di  un  vero  leader,  dell’alfiere  di  una  tradizione  in  cui  al massimo alcuni capi esercitano «maggiore influenza» e vengono «consultati più degli altri»16. Luciano si mosse d’anticipo  quando  Maranzano  cominciò  a  sconfinare  nel labor racket  ebraico  di  Manhattan  di Lepke  e  Gurrah.  Un  commando  composto  proprio  da  ebrei,  sconosciuti  dunque  alle  guardie  del  corpo  del  boss castellammarese,  e  travestiti  per  giunta  da  poliziotti,  penetrò  nel  lussuoso  ufficio  del  boss  castellammarese  in  Park Avenue e lo eliminò (10 settembre 1931). I  detective  del  Dipartimento  di  polizia  presero  atto  che  il  morto  era  stato  «uno  dei  pezzi  grossi  del  racket  nel paese». Consultarono i documenti del suo ufficio e la famosa agendina nera con i nomi dei suoi contatti nel mondo «di sopra». Rivelarono alla stampa che era stato eletto nel giugno precedente a Coney Island (un’altra riunione pubblica?)

capo  dell’«Unione  siciliana»  al  posto  di  Lucky  Luciano.  Lasciarono  intendere  che  l’assassinio  chiudeva  la  lotta  al vertice dell’organizzazione17. 2. Sotto processo anche in America. Sino a quel momento, la criminalità newyorkese andata al potere col proibizionismo aveva goduto di sostanziale impunità.  Può  dirsi  che  le  varie  fazioni  si  selezionassero  da  sé,  accumulando  denaro  e  amicizie,  eliminando  i concorrenti  a  raffiche  di  mitra.  Nel  corso  degli  anni  trenta  le  cose  cambiarono  radicalmente,  e  non  solo  per l’abolizione del proibizionismo ma per un nuovo attivismo delle istituzioni pubbliche sul fronte della repressione. La legge,  e  non  la  concorrenza  mise  fuori  gioco  i  top­gangster  di  Manhattan  nella  fase  successiva.  Nei  nuovi  tempi, sopravvissero quelli che seppero evitare l’urto. Va considerato il mutamento della situazione politica generale. Nel ’29 era crollata la borsa, la grande depressione aveva  afferrato  alla  gola  il  paese.  L’opinione  pubblica  era  assai  meno  disponibile  a  tollerare  la  corruzione metropolitana  così  ben  rappresentata  dal  sindaco  Walker.  I  repubblicani  cercarono  di  cavalcare  la  protesta,  la  quale peraltro trovò udienza all’interno dello stesso campo democratico in Franklin D. Roosevelt, membro della tradizionale élite politica e sociale, all’epoca governatore dello Stato. D’altronde anche in passato da quel punto si erano sviluppati movimenti moralizzatori o riformatori, sollevamenti contro la macchina politica che aveva conquistato il ventre della metropoli. Roosevelt  commissionò  un’inchiesta  sulla  corruzione  tra  i  pubblici  ufficiali  che  non  mancò  di  rilevare  «quanto profondamente  il  racket  pervadesse  la  struttura  economica  di  New  York»,  la  grande  quantità  e  varietà  dei  settori «soggetti all’estorsione organizzata»18. Le stesse autorità che negli anni precedenti si erano mostrate così distratte si dissero preoccupate non solo del fiorire di un’economia illegale, ma anche della situazione in quella legale: vennero dichiarati  affetti  da  racket  –  cito  un  po’  a  caso  –  negozi  di  fiori,  industrie  tessili  di  varia  natura,  pompe  funebri, macellerie kosher, lavavetri, società di taxi, barbieri, lavanderie di Brooklyn, latterie del Bronx…19. Roosevelt fece il passo decisivo nel 1932, dopo aver conseguito la nomination del partito alla presidenza dell’Unione ma ancora nella sua veste di governatore. Mise alla gogna Walker in pubbliche udienze ottenendone le dimissioni, così mostrando la propria autonomia dai dettami della macchina politica metropolitana che pure in molti casi l’aveva sostenuto20. Eletto Roosevelt presidente,  avviatosi  il  New  Deal,  si  rafforzarono  i  movimenti riformatori con la confluenza di repubblicani progressisti e democratici desiderosi di emanciparsi da Tammany. Democratico e riformatore era il nuovo governatore  Herbert  Lehman,  ostentatamente  autonomo  dagli  apparati  dei  due  partiti  (si  definiva:  «fusionista»  o repubblicano progressista «nello stile di Lincoln») il nuovo sindaco Fiorello La Guardia (1882­1947). La  Guardia  divenne  un  simbolo  di  integrazione  e  successo  per  la  comunità  italo­americana.  Già  avversario  di Walker  nelle  precedenti  elezioni  municipali,  aveva  rappresentato  al  Congresso  l’East  Harlem,  intercettando  una crescente  domanda  di  partecipazione  e  riforma  sociale,  una  crescita  della  società  civile.  Si  misurava  su  un  registro plurietnico,  magari  rivolgendosi  ai  suoi  elettori  sia  in  italiano  che  in  yiddish  (la  madre  era  un’ebrea  triestina). Sosteneva il nuovo corso anti­corruzione e anti­criminalità, facendosi fotografare mentre distruggeva personalmente slot­machine e fucili mitragliatori. I funzionari da lui messi a capo del New York Police Department «condividevano un’assenza  di  remore  nella  lotta  contro  la  criminalità  organizzata»21,  il  che  non  scosse  la  sua  popolarità  –  anzi,  di certo la accrebbe. Intanto  (1935)  Lehman  nominava  il  giovane  avvocato  repubblicano  Thomas  Dewey  special  prosecutor,  faceva cioè  la  stessa  mossa  che  Roosevelt  aveva  fatto  tre  anni  prima:  scavalcare  le  istituzioni  investigative  «normali» dichiarandole  incapaci  o  restie  a  svolgere  il  loro  dovere.  A  Dewey  venne  assegnato  il  compito  di  «beccare»  Dutch Schultz.  Abbiamo  parlato  a  suo  tempo  (capitolo  IV)  di  questo  top­gangster  di  origine  ebraica,  e  del  suo  avvocato  e consigliere  Richard  Dixie  Davis.  Mentre  cercava  di  eludere  Dewey,  Dutch  Schultz  abbassò  la  guardia  e  finì ammazzato insieme ai suoi guardaspalle (ottobre 1935). Inizialmente lo stesso comandante del Dipartimento di polizia ipotizzò che il delitto si inquadrasse in una «guerra di sterminio razziale» condotta dagli italiani contro gli ebrei22. La teoria  però  si  sgonfiò  ben  presto.  Non  era  quella  etnica  la  linea  del  conflitto.  Eliminato  Schultz,  l’avvocato  Dixie Davis  cercò  di  rilevarne  il  giro  d’affari  ma  senza  successo:  dovette  darsi  alla  latitanza,  e  quando  Dewey clamorosamente  pose  via  radio  una  taglia  sulla  sua  testa  si  consegnò  e  si  decise  a  collaborare.  Incastrò  così  il  suo contatto ai vertici di Tammany Hall, Hines. I riflettori si erano però a quel punto spostati su Luciano. Era descritto come il numero uno, il «leading racketeer», e  non  solo  dal  giornalista  Berger.  Teneva  corte  alle  Waldorf  Towers,  forte  delle  ricchezze  accumulate  col proibizionismo, impegnato in trattative con soci di Chicago e di altre grandi città23. Si era creato una forza politica autonoma  sostenendo  in  prima  persona  con  minacce  e  lusinghe  l’ascesa  in  Tammany  Hall  di  Albert  C.  Marinelli;

accanto al quale aveva partecipato alla Convenzione nazionale democratica del 1932, schierandosi per Roosevelt24. Fu  arrestato  e  processato  nel  1936  per  sfruttamento  della  prostituzione  aggravato  dall’utilizzo  di  metodi  costrittivi («compulsory prostitution»). Non  so  se  davvero  (come  è  stato  scritto)  Dewey  puntasse  a  sminuire  il  boss  accusandolo  per  quel  business «disonorevole» agli occhi dei benpensanti e magari di qualche settore tradizionalista dell’underworld. Sta di fatto che su quello riuscì a trovare prove e testimonianze contro di lui, senza rinunciare a evidenziarne il ruolo in racket ben più grandi25. Interrogandolo, dimostrò che le sue ricchezze non potevano venire che dal crimine, visto che non si sapeva di  alcuna  sua  occupazione  legittima  a  partire  dal  1920.  Gli  fece  ammettere  le  frequentazioni  con  Masseria,  Lepke, Gurrah, e altri; confutò prove alla mano la sua pretesa di non aver conosciuto Terranova e Al Capone26. Alla fine la giuria trovò l’imputato colpevole e il giudice lo condannò a una pena di spropositata entità – da trenta a cinquanta anni di reclusione da scontarsi in un carcere di massima sicurezza. Tale fu l’impressione suscitata della condanna, che Vito Genovese, primo candidato alla successione, preferì nel 1937 rifugiarsi in Italia piuttosto che affrontare un processo per omicidio. È stato scritto in sede storiografica che il procuratore aveva tutto l’interesse a fare di Luciano, gangster non poi così diverso da altri, il nemico pubblico numero uno: tanto più grande era l’allarme, tanto più veniva valorizzata la sua figura del difensore della legge27. Veramente, Luciano non era un gangster come gli altri. Il ragionamento comunque ha la sua logica. L’opinione pubblica poi non si lasciò turbare più di tanto dai metodi «disinvolti» con cui l’accusa venne costruita. Come avrebbe scritto un giornalista qualche anno più tardi, il  pubblico  non  era  interessato  da  queste  piccolezze.  Se  Luciano  non  era  colpevole  di  sfruttamento  della  prostituzione,  era certamente  colpevole  di  qualcos’altro.  La  gente  pensava  –  grazie  a  Dio  ce  ne  siamo  liberati.  Il  giovane  Dewey  divenne  il beniamino del giorno28.

I successi sul fronte giudiziario rafforzarono il fronte politico riformatore. In ambienti vicini a La Guardia, venne fondato proprio nel 1936 un American Labor Party che a New York ottenne notevoli consensi basandosi sul sostegno di alcune organizzazioni sindacali29. Il nuovo partito optò di volta in volta per candidati repubblicani o democratici: così nel 1936 sostenne la rielezione di Roosevelt come presidente e ancora di La Guardia come sindaco, mentre puntò su  Dewey  per  la  carica  di  District  Attorney  della  New  York  County,  cioè  di  rappresentante  della  pubblica  accusa  a Manhattan. Non si poteva vivere, disse Dewey, in un mondo in cui i soli nomi di Lepke e Gurrah «erano quasi leggenda», nel quale  bastava  a  un  gorilla  dire  a  un  businessman  «vengo  da  parte  di  L  &  G»  per  ottenere  quello  che  voleva.  Virtù pubblica ci voleva, e spirito di reazione. D’altronde, spiegò il giovane procuratore, i boss del gangsterismo non erano gli unici parassiti, c’erano anche i boss politici a inquinare la vita pubblica di New York come di altre grandi città. Ricordò: nel 1933 Tammany Hall era stata battuta nelle elezioni a sindaco perché un milione di nuovi elettori erano entrati come dall’esterno a spezzare il sistema, schierandosi a difesa dell’interesse generale30. Riforma  politica  e  morale,  mobilitazione  della  società  civile.  Noi  diremmo  antimafia,  ma  ovviamente  non  era quello il termine in uso in quei tempi e a quelle latitudini. Possiamo paragonare quest’operazione a quella realizzata dal  fascismo  dieci  anni  prima  sull’altra  sponda  dell’oceano?  Solo  alla  lontana.  L’idea  di  base  era  quella  opposta, tipicamente  americana,  intesa  a  emancipare  il  governo  locale  per  consentirgli  di  svolgere  il  suo  ruolo  decisivo  nel processo democratico. Dewey andò così a una campagna molto aggressiva31 per ottenere la nomina a procuratore. Era l’inizio di una grande carriera politica. In conclusione. La lotta venne rappresentata come americana e con protagonisti americani quand’anche di origine italiana – si trattasse dei buoni (La Guardia) o dei cattivi (Luciano). Nondimeno l’origine etnica di quest’ultimo entrò in qualche modo nello scenario del processo del 1936, a cominciare dalla strana contraddizione linguistica per cui fu portato alla sbarra con il nome americano da lui scelto ma anche con il cognome italiano da lui detestato, insomma come «Charlie Lucania». Vuole la cronaca che il boss, generalmente imperturbabile, recuperasse d’un tratto l’uso della lingua al momento dell’arresto, quando si rese conto che a mettergli le manette era un poliziotto di origine italiana: «Tu! – sbottò. – Sei un  accidente  di  italiano!».  «L’insulto  si  cumulava  all’ingiuria»,  commentò  il  cronista  rilevando  quanto  fosse disdicevole un tale esito per il capo dell’Unione siciliana, per il successore di Al Capone e Masseria32. Intrigante  il  profilo  psicologico  tracciato  dagli  investigatori.  Falsamente,  leggiamo  in  esso,  Lucania  sostiene  di essere  nato  a  New  York,  perché  in  realtà  è  siciliano.  Si  tratta  di  un  contadino  che  del  suo  ceto  e  della  sua  razza conserva i tratti tipici – infantilismo, istintività, primitivismo, servilismo, pigrizia, scarsa reattività al dinamismo degli eventi.  È  questa  cultura  che  lo  rende  inassimilabile  e  lo  spinge  alla  devianza.  Viene  ritenuto  un  leader  solo  perché quella  sua  passività  viene  scambiata  per  forza,  procurandogli  «quel  tanto  di  rispetto  nell’underworld».  Dimostra  il

massimo della sua estraneità rifiutando esplicitamente di identificarsi nell’americano medio, perché «i suoi ideali di vita  si  esauriscono  nell’avere  soldi  da  spendere,  belle  donne  di  cui  godere,  biancheria  di  seta  e  posti  di  lusso  dove andare» (noi veramente penseremmo che molti americani, e in genere molti esseri umani a prescindere dall’estrazione etnica, possano condividere questi desideri). Non a caso si tratta del capo «dell’Unione Siciliana, organizzazione di gangster italiani», prima ancora che di una «figura dominante» nella criminalità organizzata americana33. 3. Unione siciliana. Sembra  che  «Unione  siciliana»  fosse  la  denominazione  ufficiale  di  un’associazione  di  Chicago  accusata  di fiancheggiare Al Capone; peraltro di associazioni del genere, con nomi del genere, negli Stati Uniti ce n’erano tante. Noi abbiamo già visto l’espressione adoperata dai detective del New York Police Department nel 1931, di fronte al cadavere  di  Maranzano;  e  la  vediamo  ancora  in  uso  nel  dibattito  pubblico  intorno  al  processo  Luciano.  La  parola mafia era scomparsa con la guerra dal dibattito pubblico americano. Ma il concetto scacciato dalla porta tornava dalla finestra con un altro nome, e il retaggio del vecchio mondo, nonostante tutto, continuava ad aleggiare sul nuovo. Nel 1939, tre anni dopo il processo Luciano, Richard Dixie Davis decise di rivelare i segreti dell’Unione siciliana, «things  I  couldn’t  tell  till  now»  –  per  usare  le  sue  stesse  parole  –  all’opinione  pubblica,  in  una  serie  di  articoli  del «Collier’s Magazine». Il racconto fece perno sulla guerra castellammarese di sette anni prima. Come sappiamo, Davis era  un  avvocato  proveniente  dal  Sud  degli  States,  consigliere  di  un  top  gangster  ebraico  (Dutch  Schultz),  uomo  di fiducia di un importante politico irlandese (Hines), che molto doveva alle informazioni fornitegli da «Bo» Weinberg, killer  della  banda  Schultz.  Questa  storia  siciliana,  raccontata  attraverso  il  filtro  multietnico  dell’underworld newyorkese,  ebbe  molta  fortuna  nella  pubblicistica.  Dodici  anni  più  tardi  (1951),  venne  riproposta  con  qualche modifica in un libro pubblicato da un magistrato di Brooklyn, Burton Turkus, e da un giornalista, Sid Feder, intitolato Murder  Inc.  (tradotto  in  italiano  come  Anonima  assassini)34.  Venne  poi  rielaborata  nel  Luciano  Testament  (1974), come in una serie di altri testi. Interpretava la storia della criminalità organizzata newyorkese alla luce dei concetti di americanizzazione  e  riorganizzazione  manageriale.  Per  chiarezza  espositiva,  chiameremo  A  questa  linea interpretativa. Dunque  secondo  Davis  l’Unione  siciliana  era  un’organizzazione  composta  da  gruppi  territoriali  o  di  «distretto», ognuno retto da un «minor boss, noto come compare o padrino». Nel 1931 vi si erano contrapposti due gruppi: quello giunto  nell’anteguerra  degli  «old­line  mobsters»,  americanizzati,  guidato  da  Masseria,  quello  dei  criminali  giunti clandestinamente dalla Sicilia dopo la guerra, «non assimilati», etichettati con espressioni spregiative in uso anche tra gli  italo­americani  di  seconda  generazione  –  «greasers»  (coi  capelli  impomatati),  oltre  che  «mustache  Petes»  (dai lunghi  baffi)35.  Sin  da  questo  suo  primo  apparire  sulla  scena  pubblica,  il  racconto  segue  lo  schema  della contrapposizione etnica e culturale. E veniamo alle confidenze fatte a Davis da Weinberg. Aveva rivendicato di aver partecipato  all’assassinio  di  Maranzano  con  orgoglio  quasi  patriottico,  descrivendolo  come  un  passo  necessario  per sancire l’americanizzazione del crimine – «Americanizzation of the mob». D’altronde, aveva aggiunto, ben novanta di quei barbari stranieri erano stati massacrati simultaneamente, in quello stesso giorno, «in tutto il paese»36. Col  suo  nome  impronunciabile,  Maranzano  (altrimenti  detto  Mirinzano,  o  Maramanenza)  rappresentava  l’ombra del vecchio mondo che ancora premeva sul nuovo. I suoi successi rimandavano all’idea preoccupante del trapianto, la sua  sconfitta  finale  a  quella  rassicurante  del  rigetto.  Il  momento  del  passaggio  andava  identificato,  doveva corrispondere a un giorno preciso, e non poteva assumere se non la forma traumatica della grande, ultima Faida. Il trauma  aveva  sancito  la  vittoria  di  Lucky  Luciano,  eroe  dell’americanizzazione  e  modern  raketeer  per  eccellenza. Davis e i suoi informatori danno forma alla leggenda – molto americana davvero – del gangsterismo manageriale per la  prima  volta  abbozzata  nel  1935  da  Berger.  Turkus  e  Feder,  e  poi  il  Luciano  Testament  di  Gosch  e  Hammer,  si accoderanno.  Contribuiranno  buoni  e  cattivi,  giornalisti,  magistrati,  avvocati  più  o  meno  legati  alla  delinquenza, gangster. E Luciano stesso, naturalmente. Vediamo come interpreta se stesso in un’intervista del 1954­55: Ai tempi del proibizionismo non esisteva un sindacato nazionale, c’erano solo un sacco di bande che si ammazzavano tra loro e  si  facevano  guerra  una  contro  l’altra.  Così  dopo  la  prima  grande  guerra  [?!]  io  organizzai  il  sindacato  nazionale.  Divisi  i ragazzi in famiglie e diedi qualche regola. Poi creai la Commissione, il consiglio supremo, con i grandi boss e gli altri membri, per risolvere i contrasti tra le famiglie e mantenere l’ordine37.

Veramente il Testamento  calca  di  più  la  mano.  La  Commissione,  dice,  funzionava  «alla  stregua  del  consiglio  di amministrazione  di  una  corporation  legittima»38.  Comunque  il  Syndicate  di  cui  Luciano  rivendica  la  paternità  è interetnico, a cominciare dalla componente ebraica della sua stessa gang, da Lansky e Siegel, e dalla sua alleanza con Lepke e Gurrah. Frank Costello, vecchio sodale del boss, come lui formatosi alla corte di Rothstein e sul modello del

«moderno  racketeer»,  spiega  al  suo  avvocato  che  al  vertice  dell’organizzazione  italiani  ed  ebrei,  grazie  a  una «relazione informale», coesistono «allo stesso livello»39. Resta da spiegare la persistenza di quel nome, Unione siciliana, che di certo non è interetnico e tanto meno evoca modelli  manageriali.  Il  Testamento  fornisce  una  spiegazione  alquanto  goffa.  Luciano  avrebbe  voluto  chiamare l’organizzazione  con  un  semplice  termine  inglese  (outfit,  Syndicate),  poi  finì  per  prevalere  il  suggerimento paradossalmente offerto da un ebreo come Lansky, stando al quale era tatticamente opportuno che la nuova creatura conservasse un nome tradizionale. Un espediente. Questa  la  linea  interpretativa  definibile  come  A,  impasto  tra  elementi  storici  ed  elementi  mitologici  dal  quale emergono elementi di natura etnocentrica. Tale natura emerge particolarmente dal ruolo centrale attribuito alla grande purga, che la verifica storico­empirica ha mostrato non­esistente. Non se ne trova traccia nelle cronache giornalistiche del  tempo  o  negli  archivi  del  Dipartimento  di  polizia  di  New  York;  non  è  confermata  dai  reduci  della  gangwar del 193140.  Non  si  è  verificata  la  grande  purga  e  nemmeno  quello  che  il  mito  vuole  simboleggiare:  la  svolta  verso l’americanizzazione, e la fine di un gangsterismo straniero arcaicizzante e «unassimilated». La  realtà  è  differente  perché  all’eliminazione  di  Maranzano  (possiamo  dire)  segue  non  la  Vendetta  ma  la Riconciliazione,  non  il  taglio  netto  con  i  portati  del  vecchio  mondo  ma  una  nuova  ibridazione  siculo­americana.  È vero che, delle cinque Famiglie newyorkesi, due sono guidate da siciliani della seconda ondata (Profaci e Bonanno), una dal loro più stretto alleato (Mangano), e solo quella inizialmente guidata da Luciano conserva il proprio carattere americanizzato,  finendo  poi  egemonizzata  da  non­siciliani  come  Genovese  e  Costello41.  Siamo  sulla  linea interpretativa definibile come B. Si basa sulle rivelazioni di Valachi, e su molte altre, prodotte più avanti nel tempo, a grande  distanza  dagli  eventi  (1962  e  seguenti).  Condivide  con  l’altra  l’idea  che  intorno  al  1932,  nell’ambito  di  un processo  di  riorganizzazione  e  gerarchizzazione  del  crimine  organizzato  gestito  da  Luciano,  si  sia  formata  una Commissione, composta dai boss newyorkesi e anche da quelli di altre città, cui sarebbe stato affidato il governo del sistema su scala nazionale. Ma per molti altri aspetti le due linee (strano che molti non se ne rendano conto) appaiono incompatibili.  La  linea  B  si  riferisce  a  un’organizzazione  rigidamente  monoetnica,  ispirata  allo  stesso  modello mafioso  siciliano  che  emerge  dalle  coeve  indagini  dell’Ispettorato  di  Ps:  stesse  regole,  rituali,  terminologie.  Tutto quello che Luciano detestava. Come sciogliere la contraddizione? Innanzitutto storicizzando. Nei primi anni trenta Luciano e i suoi alleati ebrei formavano  sicuramente  l’élite  del  crimine,  mentre  gli  uomini  della  seconda  ondata  erano  ancora  all’inizio  del  loro percorso. E la situazione era ancora conflittuale, sia sul fronte interno (le relazioni delle gang tra loro) sia su quello esterno  (le  relazioni  tra  i  criminali  e  la  legge).  Le  ricostruzioni  più  usuali  sono  inclini  ad  attribuire  alla  grande criminalità una capacità totalitaria di controllo, ragion per cui sono paradossalmente restie a tenere conto del fronte esterno.  Ma  la  verità  è  che  Dutch  Schultz  dovette  fronteggiare  le  autorità,  e  solo  dopo  (di  conseguenza)  venne assassinato. Poi fu la  volta  di  Luciano  a  dover  cedere  alla  legge,  finendo  in  galera come un qualsiasi ruffiano, e di seguito Genovese fu spinto alla fuga. Direi che la storia della grande criminalità newyorkese negli anni trenta è frutto, più che del celebrato talento manageriale di Luciano, dell’energia di Dewey & C., che in questa storia di tanti misteri rappresenta l’unico dato di fatto innegabile. Fu in questo passaggio che scomparve la figura del top­gangster di origine ebraica. La spiegazione più nota attiene a fattori macro­sociali: molto più degli italiani, gli ebrei investivano nell’istruzione dei figli, e tirandosi fuori per primi dai bassifondi della società cessarono a un certo punto di fornire nuove leve al racket. Io cercherei però spiegazioni più specifiche, partendo da uno strano episodio – quello della conversione di Dutch Schultz al cattolicesimo, di poco precedente  al  suo  assassinio.  Ebbe  davvero  una  crisi  religiosa?  O  sperava  di  entrare  nel  reticolo  identitario  dei colleghi­concorrenti  italiani,  di  trovare  in  qualche  modo  protezione  all’interno  di  esso?  Percepiva  forse  che,  man mano  che  la  repressione  si  faceva  più  dura,  più  identità  voleva  dire  più  accordo  tra  i  gruppi  e  più  compattezza all’interno di essi, più segretezza, qualità possedute in massimo grado dalle società segrete di modello mafioso, e dalla rete vista in opera tra Sicilia e America nel tempo dell’operazione Mori, del proibizionismo e del post­proibizionismo. Tutto  questo,  naturalmente,  riguardava  ben  poco  i  Luciano  e  i  Genovese,  i  quali  –  stando  a  un’interessante notazione  di  Gentile  –  erano  originariamente  estranei  all’onorata  società  siculo­americana  e  ancor  più  a  quella siciliana, non avevano tratto la loro «forza» da essa42. Riguardava gli uomini della seconda ondata, e il patrimonio di esperienze e relazioni che si erano portati dietro dal vecchio mondo. La mia idea è che, spazzando via la prima fila del gangsterismo post­proibizionista, la repressione abbia selezionato nella seconda gli elementi più adatti a resisterle. In  questo  senso  trovo  interessante  l’organigramma  dell’élite  criminale  italiana  al  momento  del  delitto  Schultz tracciata  da  una  fonte  confidenziale,  che  collocava  Vincenzo/Vincent  Mangano  accanto  a  Luciano,  Terranova, Genovese43. Era l’ottobre del 1935. Noi abbiamo già individuato Mangano come il trait­d’union tra la mafia siculo­ americana della prima e quella della seconda ondata. Il fatto che gli si attribuisse quel rango rappresenta, a mio parere,

l’indicatore  di  un  mutamento  degli  equilibri.  Si  aggiunga  che  di  lì  a  poco  Luciano  e  Terranova  furono  costretti  ad abbandonare la ribalta. Restarono sul campo Genovese e appunto Mangano. Sui rapporti tra i due può fornirci qualche indicazione Gentile, che non andava d’accordo col primo mentre era in intimità col secondo, tanto che intorno al 1935, tornato a New York, entrò nella «borgata» da lui guidata dove trovò vecchi  amici  ora  in  carriera.  Le  cose  però  non  si  misero  bene.  Quando  Mangano  lo  ammonì  che  non  bisognava scontrarsi con Genovese, il quale disponeva «di tutta la malavita di New York», Gentile si rese conto che i due boss agivano  in  buon  accordo,  che  «i  papaveri  della  mafia,  vecchi  volponi  di  New  York,  si  erano  accaparrati  i  posti  più redditizi»44. A questo punto per lui ci fu la svolta. Ripartì nel 1937 per il Texas e New Orleans per un affare di droga, condotto in società con Mangano e gli altri confratelli, ma gli agenti del Narcotic Bureau si accorsero finalmente di lui: arrestato e rilasciato sulla parola, decise che era meglio riparare in Sicilia piuttosto che fare la fine di Luciano, o peggio  incorrere  nel  rischio  che  Mangano  lo  considerasse  uno  spione45.  Come  sappiamo,  nel  1937  anche  il  suo nemico  Genovese  ritenne  prudente  fuggire  in  Italia,  dove  sarebbe  rimasto  molti  anni.  Dei  cinque  personaggi  sopra indicati come membri dell’élite, restò solo Mangano. Dietro di lui, i boss della seconda ondata. Che Mangano già in quella fase fosse un boss ce l’ha confermato Gentile e, più di recente, il più importante tra i pentiti americani, il settantaseienne Angelo Lonardo, in un importantissimo processo celebratosi nel 1986 e anche di fronte a una Commissione parlamentare d’inchiesta. Abbiamo già accennato a Cleveland anni venti, e al boss Peppino­Joe Lonardo, padre di Angelo, che in società con Nick Gentile organizzava traffici tra Sicilia e America. Lonardo sr. fu assassinato nel 1927. Lonardo jr. ci dice della sequela  di  delitti  che  segnarono  le  successioni  al  vertice  della  Famiglia,  l’ultimo  dei  quali  venne  perpetrato  da  lui stesso e da alcuni suoi cugini nel 1936; e della missione che portò il nuovo capo della Famiglia di Cleveland a New York, Al Polizzi, per perorare la causa degli assassini (che evidentemente erano amici suoi) di fronte a Mangano e ad «altra  gente».  «Si  trattava  della  Commissione?»  –  chiede  la  pubblica  accusa  nel  1986;  «sì»  –  concede  il  testimone. Polizzi, aggiunge costui, spiegò il come e il perché fosse accaduta quella cosa (l’eliminazione di un capo) che stando alle regole recentemente introdotte non sarebbe dovuta accadere; Mangano e soci emanarono una condanna con molti distinguo,  che  venne  peraltro  revocata  in  occasione  di  una  successiva  riunione  tenutasi  a  Miami,  nella  quale  erano presenti, oltre ai boss di New York, anche quelli di Chicago46. Nel 1986 Lonardo jr. dipinse Mangano come il membro più autorevole di una Commissione che è sembrato ovvio identificare  con  quella  che  la  tradizione  vuole  creata  da  Luciano.  L’identificazione,  veramente,  tanto  ovvia  non  è. Realisticamente,  il  termine  Commissione  può  essere  attribuito  a  gruppi  che  potrebbero  anche  essere  diversi. Chiediamoci  piuttosto  se  l’autorità  di  quest’istituto,  o  fazione,  fosse  di  tipo  nazionale.  Chiediamoci  anche  se  fosse «assoluta»  come  vorrebbero  la  tradizione,  le  autorità  e  molti  analisti.  All’una  e  all’altra  domanda,  la  risposta sembrerebbe no. La ricostruzione di Lonardo e anche quella (dello stesso episodio) fatta indipendentemente da Gentile sembrano attribuirle funzioni più che altro mediatrici47. Conseguenza interpretativa anche generale: la mafia si basa su un network gerarchicamente strutturato ma il potere della gerarchia stessa non è quasi mai così «totalitario» come lo si presenta. Su quest’argomento, oltre a queste ricostruzioni ex­post, disponiamo anche di una fonte coeva, datata 29 gennaio 1940. Si tratta di una lettera indirizzata dal «supervising Customs agent» di New York al suo omologo di Chicago, contenente informazioni fornite dal «Rappresentante del Ministero del Tesoro, Milano, Italia» su un «Gran Consiglio della criminalità siciliana negli Stati Uniti» (Grand Council of the Sicilian underworld gang in the United States), che dirigeva «tutti gli affari gestiti da questa gang negli Stati Uniti e in Europa». In tale istituto, stando alla nostra fonte, sedevano nove individui: sempre Mangano era indicato come il capo, gli altri componenti essendo il fratello di costui, Filippo, e poi Profaci e Bonanno, tutti di Brooklyn. C’era Magaddino, di Buffalo. Due erano di Cleveland (tra loro Al Polizzi, a noi già noto) e uno solo di Chicago48. Bisogna  dire  che  dal  ministero  del  Tesoro  degli  Stati  Uniti  dipendeva  il  Narcotic  Bureau.  La  partecipazione  di mafiosi siciliani o siculi­americani al narcotraffico non era una novità. Noi sappiamo che già negli anni venti giungeva negli Stati Uniti droga dalla Sicilia nascosta in cassette di agrumi (o magari in barili di olio, quelli importati dal padre di un informatore dell’Fbi). Abbiamo espresso i nostri sospetti sui commerci di cui sempre negli anni venti si erano occupati  Gentile  e  Angelo  Lonardo,  il  suo  compaesano  di  base  a  Cleveland.  Però  in  effetti  nei  tardi  anni  trenta  i segnali  si  infittirono.  Gentile,  Mangano  &  C.  si  misero  in  questo  commercio  in  Texas  e  a  New  Orleans.  Alcuni membri  della  Famiglia  Lucchese  si  fecero  beccare  per  questa  ragione.  Nel  Narcotic  Bureau  ci  si  convinse  che  «la componente italiana della criminalità organizzata» rappresentasse ormai «il fattore dominante nel narcotraffico negli Stati  Uniti  a  livello  locale  e  interstatale»  al  posto  dei  «raketeer  ebrei  di  New  York  City»  che  negli  anni  precedenti avevano goduto dei rifornimenti dei «baroni della droga» europei49. Perché  il  funzionario  del  Narcotic  Bureau  si  trovava  a  Milano?  Probabilmente  perché  la  città  lombarda rappresentava  una  piazza  importante  di  approvvigionamento  per  i  trafficanti  di  droga  che  si  procuravano  morfina

presso aziende farmaceutiche tedesche e italiane nel contesto semi­legale in cui (contrariamente che negli Stati Uniti) potevano ancora svolgersi questi traffici in Europa. Un caso a noi noto è quello del palermitano Pietro Davì – detto Jimmy  l’americano  –  che  ritornò  in  Italia  appunto  dall’America  nel  1934,  e  già  nel  1935  venne  tratto  in  arresto  a Milano per commerci in droga; un fronte sul quale peraltro lo ritroveremo impegnato, e in ruolo dirigente, anche dopo la guerra in accordo con Lucky Luciano50. Il  documento  sul  Grand  Council  della  mafia  siciliana  in  America  si  integra  con  le  rivelazioni  di  Lonardo, confermando la tradizione ma per alcuni cruciali aspetti anche ponendola in dubbio. Include la fazione siciliana della seconda  ondata  ma  esclude  quella  americanizzata  di  Luciano.  Ci  spinge  a  distinguere  l’una  dall’altra,  confermando quanto  già  per  conto  nostro  avevamo  pensato:  che  fosse  l’una,  e  non  l’altra,  a  caratterizzarsi  per  il  legame  con  la sponda  siciliana.  Noi  sappiamo  dei  grandi  risultati  sortiti  negli  anni  immediatamente  precedenti  dalle  indagini dell’Ispettorato  di  Ps,  e  delle  testimonianze  dall’interno  raccolte  in  quell’ambito,  stando  alle  quali  l’organizzazione mafiosa era diffusa in Sicilia come negli Stati Uniti (oltre che in Francia e in Tunisia). Può darsi dunque che l’agente statunitense  a  Milano,  nel  compilare  l’informativa  da  inviare  a  New  York,  si  sia  valso  di  informazioni  «fresche» provenienti da autorità italiane. In conclusione. Quindici­venti anni dopo la seconda ondata, i rapporti tra le due sponde restavano fitti. 4. Fronte del porto. Era attraverso il porto di New York che, stando al Narcotic Bureau, gli italiani importavano la morfina proveniente «da fonti europee», andando ad alimentare l’intero mercato della costa orientale51. Ben tre membri del Gran consiglio o  Commissione  (Vincent  Mangano,  suo  fratello  Philip  e  Joe  Profaci)  avevano  la  loro  roccaforte  in  quel  punto  di giunzione tra vecchio e nuovo mondo. Diciamo qualcosa sulle attività svolte da costoro. Vincent Mangano, dopo essere entrato in giri importanti con il proibizionismo,  si  era  convertito  agli  affari  legali,  venendo  annoverato  «tra  i  più  importanti  e  più  inseriti  esponenti dell’import­export  business  tra  Stati  Uniti  e  Italia»52.  Profaci,  suo  antico  socio  nel  contrabbando,  si  era  inserito nell’industria tessile di Manhattan ma soprattutto nel commercio dell’olio di oliva, donde il suo soprannome «olive oil king»53. E l’antica patria? Possiamo pensare che i tre restassero in contatto con essa non solo con questi commerci di prodotti agro­alimentari, e con altri più misteriosi; ma anche perché davano lavoro nei docks agli immigrati legali e più spesso clandestini. Lo slum circostante di Red Hook ne era pieno. Nel  porto  svolgeva  un  ruolo  dominante  il  sindacato  degli  scaricatori,  International  Longshormen’s  Association (Ila). L’Ila fu guidata per ben venticinque anni (1927­53) da Joseph P. Ryan, che era irlandese. Agli irlandesi spettava il  controllo  dei  moli  del  Nord  (o  dell’Hudson),  mentre  gli  italiani  controllavano  i  moli  di  Brooklyn,  detti  Camarda Locals dal nome del vicepresidente dell’Ila Emil Camarda. Costui era strettamente imparentato con i due Mangano, e nel sindacato Philip svolgeva un ruolo importante quale «business agent» nel «local 903». Dal punto di vista politico, costoro  facevano  riferimento  al  City  Democratic  Club  di  South  Brooklyn,  che  mantenne,  dal  momento  della  sua fondazione (1929), il controllo del terzo nonché del quarto Distretto comprendente Red Hook. Vincent Mangano era un suo dirigente, Profaci lo frequentava abitualmente54. Il  sindacato  concedeva  o  negava  quotidianamente  la  possibilità  di  sbarcare  il  lunario  a  ben  trenta­quarantamila lavoratori, in gran parte precari, inquadrati in 31 local sindacali. Trattando singolarmente con le imprese le prestazione di questi singoli gruppi, i delegati sindacali o boss erano come «trentuno piccoli re che, nel loro linguaggio, potremmo chiamare i “proprietari” dei trentuno differenti moli»55, tra i quali a tratti regnava l’accordo, a tratti la discordia e il conflitto per la «conquista e occupazione militare»56 degli spazi istituzionali e fisici – ovvero dei moli e quindi della gran quantità di affari leciti o illeciti che su essi si svolgevano, sui quali si riscuotevano tangenti. Il mix di monopolio e concorrenza, garantendo il precariato e il livello basso dei salari, era ben gradito alle imprese; così come era gradita la presenza di «duri» alla testa delle squadre, secondo la logica spiegata da un manager: Se  devo  scegliere  tra  l’ingaggiare  un  duro  uscito  dalla  galera  o  un  uomo  con  la  fedina  penale  pulita  io  preferisco  l’ex­ detenuto. Sapete perché? Perché se farà il capo­squadra terrà gli uomini in riga e otterrà da loro il massimo rendimento. Avranno paura di lui57.

Al  porto  il  duro  per  eccellenza  era  Albert  Anastasia  (vero  nome  Umberto  Anastasio),  unico  boss  della  seconda ondata che fosse immigrato non dalla Sicilia ma dalla Calabria, nel 1919 quand’era diciassettenne. Nel 1921 era stato condannato  a  morte  per  l’assassinio  di  uno  scaricatore  ma  finendo  assolto  in  seconda  istanza  perché  il  principale testimone dell’accusa era tornato terrorizzato in Italia. Negli anni seguenti schivò con maggior margine altre accuse anche di omicidio, sempre intimidendo i testimoni o peggio facendoli assassinare.

In un caffè di proprietà di uno dei suoi più stretti collaboratori, Anastasia nel 1928 incontrò Abe Reles, un ebreo nato nel 1906 a Brooklyn che con alcuni suoi pari, di origine ebraica ma anche italiana, si guadagnava da vivere con le estorsioni  ai  danni  dei  commercianti  nel  vicino  slum  di  Brownsville.  Commissionò  alla  gang  qualche  lavoretto consistente nel derubare o pestare chi non si piegava ai voleri suoi e dei suoi amici. Poi Reles e i suoi passarono agli omicidi. Anastasia e Reles facevano parte di una stessa gerarchia, bisogna però capire di che tipo. Anche qui abbiamo due  possibili  interpretazioni,  l’una  (A)  «centralistica»,  l’altra  (B)  che  sottolinea  le  logiche  autonome  di  gruppi  e singoli. La  tesi  A  è  ben  rappresentata  nel  libro  già  citato  del  magistrato  Turkus  e  del  giornalista  Feder,  i  quali  vedono  i pesci piccoli che si agitano in basso, negli slum, come pienamente subordinati al comando proveniente dall’alto, dal «sindacato»  del  crimine.  In  quest’ottica  dipingono  Reles  &  C.  come  meri  esecutori  degli  ordini  provenienti  da Anastasia e dagli altri boss, come impiegati della filiale della ditta incaricata degli assassinii, Murder Inc., appunto58. La tesi B è quella di Block, il quale rileva come la maggioranza dei delitti perpetrati dalla gang di Reles fosse legata a suoi contrasti con altre gang nel quartiere; concludendo che nel suo insieme la documentazione non giustifica l’idea di un’organizzazione  gerarchica  con  a  capo  Anastasia.  Block  prende  atto  delle  dichiarazioni  di  Reles  secondo  cui  i membri della banda avevano l’abitudine di consultare il boss italiano anche prima di commettere delitti per proprio conto, ma rileva che l’interpellato non disse mai di no, e ne deduce la mera «natura cerimoniale» della richiesta59. La tesi di Block, che legge queste vicende a distanza, con metodo storico, è intellettualmente molto più raffinata, ma  rischia  qualche  eccesso  di  radicalismo  interpretativo.  Io  devo  dire  ad  esempio  che  il  carattere  rituale  della transazione  Anastasia­Reles  sopra  descritto  non  ne  diminuisce  l’importanza,  anzi:  alla  luce  dei  codici  mafiosi  del vecchio  mondo  proprio  il  richiedere  rispettosamente  e  il  graziosamente  concedere  permessi  di  questa  natura  indica l’esistenza di una gerarchia. Il fatto che i giovanotti di Brownsville agissero non solo per conto di Anastasia, ma anche per proprio conto o per conto di qualche altro patrono di rango, ad esempio Lepke, non cambia la cosa. Anastasia  godeva  ben  più  dei  siciliani  della  seconda  ondata  della  fama  di  violento,  ma  è  anche  vero  che  la documentazione ce lo dipinge mentre cerca di mettere la gente d’accordo nella sede del Democratic Club, mentre ci rimette addirittura denaro di tasca propria per evitare che i suoi satelliti si scannino tra loro per debiti non pagati o solo per questioni di puntiglio. Il boss, il killer e il mediatore non sono evidentemente figure così lontane tra loro. La mia impressione è che egli fosse stato incaricato di portare ordine nei limiti del possibile, a farsi richiedere permessi sia pure  rituali,  a  concederli  in  cambio  del  riconoscimento  di  una  qualche  egemonia  sulla  schiuma  che  brulicava  nei sobborghi  di  Brooklyn  –  Brownsville,  Williamsburg,  Bensonhurst  –  dove  operavano  bande  italiane  e/o  ebraiche particolarmente agguerrite. Agiva in rappresentanza del sistema di potere strutturato del porto, al fianco di personaggi in  apparenza  più  rispettabili  come  i  due  Mangano,  Profaci,  Camarda.  D’altronde,  anche  lui  era  un  assiduo frequentatore del Democratic Club, anche lui aveva un fratello nell’Ila60. A riequilibrare il tono morale della famiglia, un altro fratello Anastasio faceva il prete. Il gangsterismo di Brooklyn rimase a lungo al riparo dell’offensiva lanciata a Manhattan da Dewey61. Poi anche qui partirono le indagini, e alla fine del decennio si profilarono importanti sviluppi con lo smascheramento della gang di  Brownsville,  che  apriva  la  strada  verso  l’altro  celebrato  top­gangster,  Lepke,  verso  Anastasia  e  attraverso  di  lui verso  l’élite  criminale  aggregatasi  intorno  al  fronte  del  porto.  Lepke  reagì  in  maniera  scomposta  ordinando l’assassinio  di  chiunque  fosse  sospetto  di  voler  vuotare  il  sacco  con  gli  inquirenti,  poi  si  diede  alla  macchia  e  vi  si mantenne per un lungo periodo, per consegnarsi nel 1939 al capo dell’Fbi in persona, Hoover. Se – come sembra – questo  suo  gesto  era  dettato  dalla  convinzione  di  poter  trattare  ancora,  bisogna  dire  che  cadde  in  errore:  non  solo infatti  venne  subito  condannato  a  una  lunga  pena  detentiva  per  traffico  di  stupefacenti,  ma  fu  anche  accusato  di omicidio.  Anche  Anastasia  passò  alla  latitanza  mentre  uno  special prosecutor  indagava  sulla  sezione  «italiana»  del fronte  del  porto,  e  sulla  scomparsa  di  un  sindacalista  che  aveva  capitanato  un  movimento  avverso  all’Ila,  il  cui cadavere venne ritrovato bruciato qualche tempo più tardi. All’inizio  del  1940  si  realizzò  –  come  accade  se  e  quando  la  pressione  delle  autorità  si  fa  dura  –  una  rottura dall’«interno» nell’organizzazione ad opera di Abe Reles, superkiller di Brownsville. Cominciò a vuotare il sacco con il  neo­eletto  District  Attorney  di  Brooklyn  William  O’Dwyer  e  con  il  suo  sostituto,  il  Burton  Turkus  a  noi  noto, spiegando  che  la  sua  gang  ammazzava  per  denaro,  e  cominciando  a  indicare  i  mandanti  dei  delitti:  in  particolare, durante un’udienza del processo contro i suoi ex amici, raccontò che era stato personalmente Anastasia a ordinargli l’eliminazione di un bookmaker. Costui – gli era stato spiegato – aveva avuto l’imprudenza di attraversare la strada a Vincenzo Mangano, «un protagonista della politica a Brooklyn nella sezione del fronte del porto»62. Le  rivelazioni  di  Reles  andavano  a  lambire  questo  gruppo  emergente  del  gangsterismo  newyorkese,  e  O’Dwyer sembrava il personaggio giusto per portare l’affondo e sotto il profilo giudiziario e sotto quello politico. In un sistema nel quale le magistrature sono elettive e l’azione penale non è obbligatoria, i due aspetti risultano talora indistinguibili l’uno  dall’altro;  e  in  quella  fase  l’esercizio  della  pubblica  accusa  nelle  grandi  inchieste  su  racket  e  corruzione  si

configurava come un trampolino di lancio per grandi carriere politiche. C’era saltato sopra a Manhattan, e sul versante repubblicano, Dewey, che sarebbe stato eletto nel 1942 governatore dello Stato di New York, che nel 1945 sarebbe stato addirittura candidato alla presidenza dell’Unione contro Truman. Voleva fare un salto analogo O’Dwyer, il quale partendo da Brooklyn e sul versante democratico si candidò a sindaco nelle elezioni di fine 1941 contro un La Guardia in fase calante. Se  non  che,  O’Dwyer  come  riformatore  non  appariva  sino  in  fondo  credibile,  almeno  stando  ai  malevoli: immigrato  ventenne  dall’Irlanda,  ex  poliziotto,  ex  avvocato,  nella  Brooklyn  dei  primi  anni  trenta  aveva  fatto  i  suoi esordi in politica tenendosi anche lui, come altri ambiziosi, in contatto con i più corrotti boss democratici63. Espresse in  particolare  i  suoi  dubbi  William  B.  Herlands,  investigatore  formatosi  nello  staff  di  Dewey,  poi  nominato  da  La Guardia Commissioner of Investigation della città di New York. I «terroristi di Brooklyn», dichiarò, rappresentavano palesemente «un anello della catena» che portava a quegli stessi club democratici assiduamente frequentati da alcuni membri dello staff di O’Dwyer. Questi poteva colpire «Murder, Inc., ma cosa avrebbe fatto con Politics, Inc.?». Era pensabile che distruggesse «la macchina politica che lo [stava] sostenendo nella sua carriera»?64 5. Ombre del fascismo nel nuovo mondo. Diciamo ora dei due castellammaresi che facevano parte del Gran Consiglio, o Commissione che dir si voglia, i cugini Stefano Magaddino e Joe Bonanno. Il primo, come sappiamo radicatosi a Buffalo, dopo l’accusa per omicidio del 1921 non ebbe più nessun guaio con la  giustizia  americana,  così  come  il  fratello  Antonio.  L’Italia,  dove  quest’ultimo  aveva  una  pesante  fedina  penale, pareva molto lontana. Neanche Bonanno era, a quei tempi, gran che conosciuto come gangster. Questo fa la differenza tra i cugini castellammaresi e i fratelli Mangano. Una mafia invisibile dall’esterno, quella dei primi due. Così  come  risultava  invisibile  quella  del  luogotenente  di  Bonanno,  Francesco­Frank  Garofalo,  nato  nel  1891  a Castellammare  del  Golfo  da  una  famiglia  di  artigiani,  e  giunto  in  America  nel  1909.  Aveva  fatto  anche  lui  fortuna grazie  al  proibizionismo  «rifornendo  le  fabbriche  clandestine  di  alcool  dei  prodotti  chimici  necessari  per  la distillazione»65. Anche Garofalo, al 1944, era stato arrestato una sola volta (nel 1926, per contrabbando di alcolici) e il suo nome risultava «relativamente sconosciuto alle varie istituzioni repressive a New York City». Godeva del porto d’armi. Il suo boss ne ricorda le doti – «sapeva parlare di letteratura e di storia, […] vestiva con la stessa eleganza di Cary Grant e i suoi modi erano impeccabili» – e soprattutto la padronanza dell’inglese66 per cui l’avrebbe negli anni seguenti  elevato  al  rango  di  luogotenente  o  consigliere.  In  una  foto  lo  vediamo  raffigurato  in  abito  da  sera  a  una riunione  dell’associazione  italo­americana  d’élite,  i  Sons  of  Italy,  accanto  ad  altrettanto  eleganti  signore.  Veniva considerato  un  normale  uomo  d’affari  interessato  alla  Canadian  Dry  Bottling  Company  e  alla  Colorado  Cheese Company67. Qualcosa,  della  perdurante  dimensione  intercontinentale  della  gang,  possiamo  capire  proprio  ragionando  su Garofalo, che l’autobiografia di Bonanno dice dedito ad attività di import­export per le quali si recava con qualche regolarità  in  Italia,  senza  spiegarci  molto  di  più.  Qualcosa  in  più  sappiamo  da  un’inchiesta  italiana  di  molto successiva. Nel corso di uno dei suoi viaggi (1929), Garofalo incontrò nella sede del circolo Margherita di Savoia di Castellammare il ventunenne Gaspare Magaddino, parente dei Magaddino di Buffalo, e dunque (per parte di madre) di Bonanno68. Certo portò il saluto dei cugini americani a quel rampollo di illustre schiatta destinato ad assurgere ben presto al rango di capo­mafia. La situazione non era semplice. Era appena partita in paese l’operazione antimafia, che non prese però la forma clamorosa  del  grande  processo  ma  quella  di  un’ondata  di  invii  al  confino,  che  colpì  tra  gli  altri  i  Magaddino  e  i Bonventre (altri parenti di Bonanno) nonché Totò Minore (che abbiamo già citato come esponente dell’Alta mafia). In teoria  il  regime  fascista  aveva  a  disposizione  tutti  i  mezzi  per  creare  una  nuova  classe  dirigente.  Nella  pratica,  il prefetto di Trapani si trovò in gravi difficoltà nella ricerca di elementi indipendenti dai «vecchi gruppi» da mettere alla guida  dell’amministrazione  municipale.  Si  impegnò  allora  nello  scioglimento  di  diverse  associazioni  paesane ritenendo che al loro interno si riproducessero «le beghe, i rancori, la maffia» dei «tempi passati»69. Tra esse c’era il Circolo Margherita. Possiamo  immaginare  quel  circolo  come  il  nodo  siciliano  in  un  network  intercontinentale  cui  corrispondeva sull’altra sponda il circolo castellammarese di New York, che Garofalo era parimenti solito frequentare. Lì aveva nel 1924  incontrato  Vincenzo  Martinez,  anch’egli  originario  della  provincia  di  Trapani  (era  nato  a  Marsala  nel  1896). Siamo davanti a un altro personaggio uso a muoversi da una sponda all’altra. Da bambino aveva vissuto in America, allo scoppio della guerra si era arruolato nell’esercito italiano, poi aveva disertato, venendo per questo condannato nel 1918  all’ergastolo.  Non  sappiamo  come  fosse  riuscito  a  cavarsela,  fatto  sta  che,  tornando  nel  1923  in  America,  si

spacciò  per  eroe  di  guerra  ed  entrò  nella  Lega  fascista  nord­americana,  in  particolare  della  sua  Commissione  di disciplina – che nel 1929 fu messa fuori legge dalle autorità statunitensi perché direttamente dipendente da Roma, e utilizzata per intimidire quanti tra gli italiani d’America insistevano a fare dell’anti­fascismo70. Nel  frattempo  l’ambasciata  italiana  rafforzava  la  posizione  delle  forze  filo­fasciste  negli  Stati  Uniti  pilotando l’acquisizione  del  «Progresso  italo­americano»,  il  più  grande  giornale  americano  di  lingua  italiana,  da  parte  di Generoso Pope (1931). Costui era il presidente di una grande ditta di costruzioni, che senza sentirsi in contraddizione si muoveva in sintonia con gli apparati del fascismo e a Tammany Hall. Martinez trovò lavoro quale giornalista nel «Progresso». Garofalo fu impiegato quale «body guard» di Pope. Questo almeno risulta dalla testimonianza di Carlo Tresca, un ex anarchico mantenutosi sempre su una linea di battagliero antifascismo, che accusò Pope di essere «un gangster  ed  un  racketeer»  che  per  intimidire  la  stampa  antifascista  italo­americana  utilizzava  «personaggi dell’underworld» come appunto Garofalo71. Citiamo a questo punto il caso di Vito Genovese, in cui le scelte politiche si cumularono a quelle affaristiche, nel settore del narcotraffico. Noi sappiamo dei legami tra questo top­gangster e Renato Carmine Senise, nipote del capo della  polizia  italiana,  intrecciatisi  nel  corso  del  lungo  e  misterioso  soggiorno  americano  di  costui72.  Se  dobbiamo credere  a  fonti  «riservate»  citate  da  uno  studioso  in  genere  attendibile  come  Nelli,  già  all’inizio  degli  anni  trenta Genovese cercò, nel corso di un suo viaggio italiano, di mettere a frutto questi contatti con gli apparati di sicurezza del regime. Una documentazione Fbi sostiene che, dopo essere rientrato nel 1937 in Italia, riuscì a realizzare l’intento, tra l’altro  finanziando  la  costruzione  della  casa  del  fascio  nella  sua  città  natale,  Nola.  Sarebbe  entrato  in  relazione  con Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero del duce. Avrebbe messo su «un business di molti milioni di dollari e uno stabile rifornimento di narcotici praticamente garantito dal governo italiano»73. In  conclusione.  In  barba  ai  codici  omertosi,  i  mafiosi  usano  trescare  con  gli  apparati  di  sicurezza.  In  barba all’antimafia del fascismo, i mafiosi italo­americani trescavano con gli apparati del fascismo, muovendosi tra l’una e l’altra sponda: abbiamo visto i casi di Martinez, di Garofalo, di Genovese. Non ci stupiamo più di tanto nel trovare il nome  dello  stesso  grande  boss  castellammarese,  Giuseppe  (Joe)  Bonanno,  tra  quelli  degli  informatori  stipendiati dell’Ispettorato  di  pubblica  sicurezza  per  la  Sicilia  nel  1938.  Non  credo  lo  facesse  per  denaro.  Lo  faceva  per  una ragione più politica, per mantenere i rapporti74. La  politica  dei  gangster  d’altronde  seguiva  quella  della  larga  parte  degli  italo­americani  che  considerava  il fascismo come parte del legame di solidarietà con l’antica patria. Su questa linea c’erano i corner boy di Little Italy, come quello intervistato dal sociologo Whyte, secondo cui Mussolini aveva fatto «più di ogni altro per ottenere che il popolo  italiano  sia  rispettato»75.  E  c’erano  i  notabili  della  comunità,  non  solo  i  più  compromessi  come  Generoso Pope.  Avevano  magari  una  posizione  più  sfumata  gli  italo­americani  emergenti  nel  fronte  interetnico  e  progressista rooseveltiano: tra cui citiamo Charles Poletti, avvocato, magistrato e uomo politico, per il ruolo di rilievo che avrebbe svolto negli anni a venire76. Poi  la  grande  storia  intervenne  a  cambiare  radicalmente  i  termini  della  questione,  tagliando  gli  equivoci  con l’ingresso  in  guerra  dell’Italia  al  fianco  dei  nazisti,  l’aggressione  giapponese  a  Pearl  Harbour,  la  dichiarazione  di guerra italiana agli Stati Uniti. A quel punto gli americani guardarono alle Litte Italy non più soltanto come a luoghi «di racketeer e politici corrotti, di povertà e crimine», ma come a enclave nemiche, dove c’era il rischio che la gente fosse  «più  devota  al  fascismo  e  all’Italia  che  alla  democrazia  e  agli  Stati  Uniti»77.  Per  gli  italo­americani,  il  filo­ fascismo non era più un’opzione plausibile. 1 M. Berger, Portrait of a Racketeer, in «New York Times», 10 novembre 1935. 2 Anche se i boss da lui chiamati in causa sono in maggioranza ebrei. 3 M. Berger, Portrait of a Racketeer, in «New York Times», 10 novembre 1935. 4 Racket Chief Slain by Gangster Gunfire, ivi, 16 aprile 1931. 5 Gosch ­ Hammer 1975, p. 46. 6 Ibid., pp. 47 e 60. 7 Ibid., pp. 100­1. 8 Suo interrogatorio in McClellan Hearings, passim. 9 Police Mystified in Slayng of «Boss», in «New York Times», 17 aprile 1931; Un capo della malavita ucciso a revolverate, in «L’Ora», 1­2 maggio 1931; Aspetti della campagna contro la malavita nel Nord­America, ivi, 11­12 settembre 1931. 10 Racket Chief Slain by Gangster Gunfire, in «New York Times», 16 aprile 1931. 11 M. Berger, Portrait of a Racketeer, ivi, 10 novembre 1935. 12 Anche secondo Valachi, in McClellan Hearings, p. 215, la riunione si tenne nel Bronx, in Washington Avenue. Si riferiscono ad altra località – dunque ad altra riunione, ma dallo stesso carattere – Gentile 1993, pp. 113 sgg. («in un albergo in montagna»); Bonanno 1985, pp. 132 sgg. (a «Wappinger Falls, nello Stato di New York»).

13 Gosch ­ Hammer 1975, p. 133. 14 Ibid., pp. 133­5. 15 Gentile 1993, pp. 111 e 116. 16 Bonanno 1985, pp. 86, 130­1, 147. 17 Seek Official Link in Alien Smuggling, in «New York Times», 12 settembre 1931. Anche a Palermo ci si aspettava che dopo il delitto Luciano

avrebbe  rimesso  ordine  nell’underworld.  Maranzano  sarebbe  stato  ucciso  quale  rappresentante  di  Al  Capone  a  New  York,  in  «L’Ora»,  30 settembre­1° ottobre 1931. 18 Block 1980, p. 44. L’inchiesta venne affidata al giudice Samuel Seabury. 19 E molte altre elencate dal New York Police Department e dal Manhattan District Attorney T. Crain nel 1930­31: cfr. Block 1980, p. 41. 20 Mitgang 2000. 21 Stolberg 1995, p. 49. 22 Dichiarazioni di Lewis J. Valentine, Schultz Dies of Wounds, in «New York Times», 25 ottobre 1935. 23 FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, Memorandum del 28 agosto 1935. 24 Stolberg 1995, p. 216. 25 Il vero problema, disse alla fine del processo, riguardava la latitudine degli interessi di Luciano e soci, il loro ferreo «controllo nel campo dei narcotici,  della  policy,  dell’usura,  dell’organizzazione  dell’Italian  lottery,  della  ricettazione  di  beni  rubati  e  di  certi  racket  industriali»:  Lucania Guilty, in «New York Times», 8 giugno 1936. 26 Lucania is Forced to Admit Crimes, ivi, 4 giugno 1936. 27 Stolberg 1995, p. 116. 28 R. Carter, The Strange Story of Dewey and Luciano, in «The Daily Compass», 4 settembre 1951. 29  Tra  gli  italiani,  aderirono  Luigi  Antonini,  leader  dell’International  Ladies  Garment  Workers  Union,  e  l’iper­radicale  Vito  Marcantonio,  ex District Attorney che aveva occupato al Congresso il seggio del collegio di East Harlem già di La Guardia. 30 Cito da un discorso riportato sul «New York Times», 29 aprile 1938, con il titolo T.E. Dewey’s Address. 31 Nel corso della quale formulò gravi accuse verso l’assistente procuratore generale, il democratico Charles A. Schneider. 32 M. Berger, The «Great Luciano» is at Last in Toils, in «New York Times», 12 aprile 1936. 33 Lucania is Called Shallow Parasite, ivi, 19 giugno 1936. 34 Qui peraltro il conto degli ammazzati viene un po’ ridotto, arrivando a quaranta: Turkus ­ Feder 1952, p. 73. 35  Per  l’anteguerra,  Davis  propone  la  genealogia  a  noi  nota,  che  parte  da  Piddu  Morello  e  Ignazio  Lupo.  Trovo  il  termine  greaser  anche  in Whyte 1955. 36 Davis 1939, 3 agosto. 37 Citiamo da un’intervista da lui concessa in quel periodo a Davis 1993, pp. 122­3. 38 Gosch ­ Hammer 1975, pp. 146 e 149­51. 39 Wolf ­ DiMona 1974, p. 11. 40 La ricerca sui giornali è stata effettuata da Block 1994, pp. 4 sgg., mentre sulle informazioni contenute negli archivi della polizia (o meglio da essi assenti) cfr. il detective Ralph Salerno in McClellan Hearings, p. 233. Vediamo i quattro reduci: del tutto negativo Luciano stando a Gosch ­ Hammer 1975, p. 143; minimizzante Valachi in McClellan Hearings, p. 232; Gentile 1993, p. 124, parla di un «eccidio» ma non fa che un paio di nomi di caduti; drasticamente negativo è Bonanno 1985. 41 Non saprei caratterizzare nello stesso modo la quinta gang, la Famiglia Lucchese. 42 Gentile 1993, p. 118, nota. 43 Block 1980, p. 73. 44 Gentile 1993, pp. 131­2. 45 Ibid., pp. 140 e 152­3. 46 La testimonianza di Lonardo in United States v. Salerno, pp. 111­9. I cugini di Lonardo si chiamavano John e Dominic DeMarco. Il boss assassinato nel 1936 si chiamava Joseph Romano. 47  Gentile  precisa:  non  c’era  nessuna  possibilità  pratica  che  Mangano  &  C.  ribaltassero  il  fatto  compiuto.  Gentile  1993,  p.  132.  Perplessità analoghe alle mie esprimono Jacobs, Panarella, Worthington 1994, p. 90: niente autorità decisionale, niente dimensione nazionale. 48  Si  veda  la  lettera,  firmata  Gerald  C.  Lundy,  in  GWP,  «US  Senate  Special  Commission  to  Investigate  Organized  Crime  in  Interstate Commerce», box 2, Miscellaneous correspondence. Ringrazio Peter Schneider per avermi aiutato a reperire il documento. Block 1994, p. 27, è stato il primo a citarlo. È possibile che l’espressione «Grand Council» traesse ispirazione dal «Gran Consiglio» del fascismo. Riporto i nomi degli altri tre membri di quest’istituto: Giuseppe Traina di Brooklyn, Francesco Milano di Cleveland, Paul Ricca di Chicago. 49  Il  riferimento  riguardava  i  fratelli  greci  Eliopoulos  che  avevano  quasi  monopolizzato  le  spedizioni  di  oppio  lavorato  nelle  loro  fabbriche europee  sia  verso  la  Cina  che,  appunto,  gli  Stati  Uniti:  The  Illicit  Narcotic  Traffic  from  New  York  City,  documento  del  Narcotic  Bureau,  in McClellan Hearings, pp. 917­30, e in particolare pp. 918­9. 50 Il quale comunque mentre era in carcere poco sapeva degli intrighi di Genovese, almeno stando allo pseudo­testamento, se non per qualche informazione fornitagli da Stefano Magaddino: Gosch ­ Hammer 1975, p. 273. 51 The Illicit Narcotic Traffic from New York City, in McClellan Hearings, p. 917. 52 Campbell 1977, p. 139. 53 FBI Files, Mafia Monograph, Section II, p. 82. 54 Cfr. ad esempio Peterson 1983, pp. 227­30.

55 Atto giudiziario del 1949, cit. da Block 1980, p. 184. 56 Così un art. cit. da Bell 1964, p. 167. 57 Ibid., p. 165. 58 Turkus ­ Feder 1952. 59 Block 1980, pp. 221 sgg., e in particolare p.230. 60 Anthony Anastasio, già scaricatore e poi caposquadra per la Jarka Stevedoring Company. 61 Bell 1964, pp. 131­2. 62 Reles Confesses 5 More Killings, in «New York Times», 17 settembre 1940; Two in Murder Ring Quickly Convicted, ivi, 20 settembre 1940. 63 Peterson 1983, pp. 269­70. 64 Link Democrats to Murder Ring, Herlands Charges Direct Tie, in «New York Times», 3 novembre 1941. In effetti con l’inchiesta «anonima

assassini» O’Dwyer ottenne risultati senza precedenti: sei condanne alla sedia elettrica, tra cui quella di Lepke – unico top­gangster cittadino che abbia avuto il dubbio onore di essere mandato a morte dallo Stato e non dai suoi pari (1944). 65 Così Garofalo stesso avrebbe ammesso molti anni più tardi davanti a un giudice italiano: Istruttoria Garofalo, p. 653. 66 Bonanno 1985, p. 209. 67 Memorandum del 29 marzo 1944, in FBI Files, f. 9. 68 Come risulta ancora dalla testimonianza di cui sopra di Garofalo, p. 654. 69 Relazione prefettizia dell’11 gennaio 1932, in ACS, MI, AC, Podestà, b. 284. 70  Mi  baso  sugli  atti  del  citato  processo  per  narcotraffico  che  vide  imputato  anche  Martinez:  Istruttoria  Garofalo,  e  in  particolare  sulle  sue dichiarazioni, pp. 668­71. Sul Martinez fascista cfr. Block 1994, pp. 153­4. 71 Si veda il suo articolo sul «Martello» del 28 ottobre 1934, We Accuse Generoso Pope, laddove però il nome di Garofalo non veniva fatto: lo si veda in  FBI Files, f. 6 (ivi anche numerose relazioni Fbi con riferimenti alle critiche di Tresca a Pope: cfr. ad esempio quella firmata da E. E. Conroy, 5 febbraio 1943, p. 1). Non era stato d’altronde l’unico a usare questi argomenti perché anche sull’opposto versante, nelle polemiche infra­ fasciste di fine anni venti, Pope era stato accusato di legami, via Tammany Hall, con la mafia: così Luigi Barzini in una lettera a Mussolini dell’8 novembre 1928, cit. in Diggins 1972, p. 106. 72 Ringrazio Mauro Canali per quest’informazione. 73 Nelli 1976, p. 238. 74 La lista, datata 15 maggio, 1938, in  ACS,  MI,  PS,  Segreteria  del  capo  della  polizia,  Ispettorato  generale  di  Ps  per  la  Sicilia,  b.  16.  Si  tratta proprio del boss, perché data e luogo di nascita corrispondono. Ringrazio Vittorio Coco per avermi indicato il documento. 75 Dichiarazione di Chick Morelli all’Italian Community Club in Whyte 1955, p. 353. 76  Ex­post,  in  un’intervista  rilasciata  a  G.  Puglisi,  costui  ha  sostenuto  di  aver  sempre  nutrito  sentimenti  anti­fascisti;  ma  non  so  quanto  sia fondata questa sua pretesa. Poletti 1993, pp. 18­9. Per altri casi di politici italo­americani cfr. Venturini 1990. 77 Whyte 1955, p. XVII. Dal punto di vista storiografico, cfr. Diggins 1972, p. 526 e passim.

VIII. Tempo di guerra

Dal 1940 o dal 1941, fu tempo di guerra su entrambe le sponde che teniamo insieme raccontando la nostra storia. Gli  effetti  però  furono  molto  differenti.  I  dubbi  sulla  tenuta  politica  e  morale  della  società  plurietnica  statunitense vennero  fugati  da  una  straordinaria  mobilitazione  collettiva  che  coinvolse,  con  gli  altri,  gli  italo­americani.  Dalla fornace del conflitto, gli Stati Uniti uscirono ben più forti, assurgendo al rango di massima potenza mondiale. Invece il regime fascista portò l’Italia a una catastrofica sconfitta, da cui venne esso stesso travolto. In fondo al tunnel, c’era l’avvento di una nuova democrazia repubblicana. In mezzo il dramma di un paese sul cui territorio vennero combattuti due anni di guerra guerreggiata, la quale fu anche guerra civile, con indicibili sofferenze collettive. La Sicilia fu il più importante dei teatri di guerra italiani perché fu lì che con l’Operazione Husky, all’alba del 10 luglio 1943, la grande armata anglo­americana mise per la prima volta il piede in Europa, sulla strada che li avrebbe condotti  nel  cuore  del  continente.  Fu  anche  la  prima  regione  europea  governata  dagli  alleati,  mediante  l’Allied Military Government, in sigla Amgot. Di converso, dal punto di vista italiano, fu la prima regione in cui – prima del 25 luglio – si avviò una transizione post­fascista. In Sicilia il nemico divenne amico, gli occupanti liberatori, quando ancora l’armistizio dell’8 settembre non era intervenuto a sancire il mutamento di fronte. La guerra mondiale vi finì molto prima che su scala nazionale decollasse la guerra di Resistenza. Molti episodi di insubordinazione collettiva (ad esempio la renitenza alla leva) si svilupparono nell’isola come altrove nel 1944­45. Ma la sfasatura del contesto non ci consente di collocarli nel processo di sviluppo di una nuova democrazia E le due mafie? Durante la guerra furono influenzate da fattori politico­generali come poche altre volte (o forse mai)  è  avvenuto.  Quella  americana  a  suo  modo  partecipò  dello  sforzo  bellico  nazionale.  Quella  siciliana  rinsaldò  i propri legami transoceanici e prese posizione nella caotica transizione tra vecchio e nuovo. Non parliamo però di una sua rinascita: infatti negli anni del fascismo non era affatto morta. 1. America: sovraprofitti di guerra. Ripartiamo  da  Generoso  Pope,  direttore  del  «Progresso  italo­americano».  Quasi  fino  a  Pearl  Harbour  cercò  di mantenere il piede in due staffe, quella del patriottismo americano e quella filo­fascista, nonostante polemiche e una serie di attacchi di stampa. Dopo una personale reprimenda di Roosevelt, si risolse a una tardiva conversione. Provò in particolare a entrare nella Mazzini Society, organizzazione antifascista formata da esuli politici italiani, da esponenti italo­americani dell’American Labor Party e, tra gli altri, da Carlo Tresca. Sappiamo dei contrasti pregressi tra i due. Esplosero di nuovo quando, proprio a una riunione della Mazzini Society, Pope si presentò in compagnia di Garofalo. Sembra che Tresca abbia esclamato: «non solo il fascista, anche il gangster!». Minacciò uno scandalo e si propose agli agenti dell’Fbi – usiamo la loro definizione – quale «causal informant»1. Cercava alleati. La sua protesta venne però bruscamente  interrotta  la  sera  dell’11  gennaio  1943,  da  un  agguato  a  colpi  di  pistola  all’uscita  dalla  sede  del  suo giornale. Subito dopo la polizia arrestò Carmine Galante (1910­1979). Si trattava di un gangster nato a New York da genitori castellammaresi, appena uscito da Sing­Sing dopo una condanna per rapina e aggressione; che aveva fatto parte del giro del Fulton Fish Market, e lavorava come scaricatore al porto. Il sospettato fu però subito liberato grazie a ben cinque  testimoni,  stando  ai  quali  era  impegnato  al  momento  del  delitto  in  una  riunione  (proprio)  della  Mazzini Society. Le indagini si impantanarono in una pluralità di piste inconcludenti. A tornare su quella castellammarese fu – in un pubblico discorso pronunciato un mese dopo il delitto – Ezio Taddei, anarchico livornese reduce dalle carceri fasciste, scrittore, rifugiatosi da qualche tempo a New York e qui divenuto amico di Arthur Miller nonché protetto di Tresca. Tresca disse: Galante era solo un gregario «dell’associazione a delinquere denominata la Marese» (ovviamente voleva  dire  «castellammarese»);  aveva  ucciso  su  mandato  di  Bonanno  e  Garofalo;  per  ragioni  legate  alla  questione della Mazzini Society2. L’ufficio  newyorkese  dell’Fbi  si  convinse  della  validità  di  quest’ipotesi,  e  per  questa  via  fu  portato  a  ragionare della gang castellammarese. Tra i molti documenti accumulati nel suo dossier scegliamo il più interessante. Si trattava, diceva,  di  una  «sezione»  dell’Unione  siciliana,  «organizzazione  assai  disciplinata  che  segue  certe  forme,  regole  e cerimonie fisse e inviolabili», in cui si era «accettati» solo dopo «rigorosa investigazione». Aveva due livelli: quello di

Bonanno, «l’uomo di ferro, l’elemento più violento», quello di Garofalo, che garantiva il collegamento con il mondo della politica (e dell’associazionismo italo­americano)3. Però a quel tempo la legge non attribuiva ai federali una competenza sulla criminalità organizzata, e tutto finì lì. E comunque, quell’inverno 1942­43 era lo stesso in cui le armate statunitensi, sbarcate in Marocco e in Algeria, stavano stringendo (insieme agli inglesi provenienti dall’Egitto) gli italo­tedeschi nel ridotto tunisino. Gli istituti preposti alla sicurezza degli Stati Uniti avevano ben altro a cui pensare che a perseguire le gang dell’Unione siciliana. Anzi, il tempo di guerra sancì la pace tra loro e le autorità. Fornì un potente alimento alle fortune dei gangster italo o siculo­americani. Joe Bonanno. All’inizio degli anni quaranta strinse un’alleanza con gli eredi di Al Capone a Chicago, ma anche con compaesani conosciuti come normali uomini d’affari, per acquisire il controllo di alcune società che producevano formaggio nel Colorado e nel Wisconsin, poi utilizzato nelle pizzerie nelle metropoli della costa nord­orientale. Affari pienamente  legali,  sembrava.  Solo  indagini  successive  mostrarono  come  il  successo  dell’operazione  fosse  stato garantito  da  agitazioni  sindacali  occultamente  promosse  ai  danni  dei  concorrenti,  e  da  una  sequenza  di  morti ammazzati4.  Nel  frattempo  (1945)  Bonanno  riusciva  a  regolarizzare  la  propria  posizione  nei  confronti  delle  leggi sull’immigrazione, conseguendo la cittadinanza, proprio perché a suo carico era riportata un’unica condanna, e solo per una controversia di lavoro: insomma per un white collar crime. Stefano Magaddino. In breve tempo, assunse il look dell’uomo d’affari che forniva servizi utili ai concittadini per la  vita  (Power  City  Distributing  Company  of  Niagara  Falls)  e  per  la  morte  (Magaddino  Memorial  Chapel),  che vendeva  olio  e  articoli  di  abbigliamento,  che  poteva  anche  frequentare  brutti  ceffi,  ma  solo  –  si  diceva  –  perché interessato  al  gioco  d’azzardo  e  ai  night­club.  Nella  generazione  successiva,  ad  esempio  nella  figura  del  genero,  il tratto  borghese  si  accentuò.  Era  entrato  nel  consiglio  municipale  di  Buffalo  già  nel  1928.  La  società  di  taxi  da  lui creata  nel  1930  divenne  la  più  grande  nella  parte  occidentale  dello  Stato  di  New  York,  acquisendo  un  «monopolio virtuale» del servizio in strutture strategiche come l’aeroporto di Buffalo e la Central Railroad Station di New York. Veniva considerato un pilastro della comunità. Gli accadde una volta di essere nominato «uomo dell’anno» addirittura dal Dipartimento di polizia cittadino5. Carlo Gambino.  Si  era  mantenuto  negli  anni  precedenti  più  al  riparo  dalle  attenzioni  della  legge  rispetto  al  suo boss, Mangano. Era finito nei guai con la giustizia solo per evasione delle imposte sui liquori nel 1934, nel 1937 e nel 1938 – unica ragione per cui conobbe, per un brevissimo periodo, la prigione. I suoi affari erano avvolti nel mistero: prima  della  guerra  venivano  trattati  attraverso  il  Banco  di  Sicilia  Trust  Company,  corrispondente  newyorkese  della banca  pubblica  isolana,  ma  di  cosa  esattamente  si  trattasse  non  riuscirono  a  sapere  nulla  nemmeno  gli  inquirenti, giunti  alla  conclusione  che  «le  sue  connessioni  con  i  funzionari  della  banca  erano  troppo  intime  per  consentire un’indagine  sui  suoi  affari  finanziari»6.  La  guerra  segnò  nella  sua  carriera  una  grande  discontinuità,  garantendogli profitti che sembra fossero notevolissimi. Corruppe i funzionari pubblici incaricati di organizzare la distribuzione ai consumatori  di  generi  razionati  come  carne  e  benzina,  in  modo  da  fare  incetta  degli  appositi  «bollini»  che  poi rivendette al mercato nero. Non saprei quando sia stato chiamato quale «labor consultant» da «clienti di alto livello» impegnati nella costruzione dei grattacieli nella città e nello Stato di New York, nel New Jersey e in Pennsylvania, e bisognosi di mano d’opera disponibile a lavorare di più, e a minori salari rispetto a quella ricavabile dai tradizionali circuiti sindacali. La cosa sarebbe venuta fuori solo molti anni dopo. A quel punto i rappresentanti di Levitt & Sons – una delle maggiori ditte di costruzioni newyorkesi – dichiararono che le grosse somme da loro elargite annualmente a Gambino andavano considerate non già tangenti, ma ricompense per servizi prestati7. Un evento misterioso e clamoroso. L’inchiesta su Murder Inc.,  che  come  abbiamo  visto  minacciava  il  fronte  del porto,  si  bloccò  l’11  novembre  del  1941,  un  mese  prima  di  Pearl  Harbour,  quando  il  super­testimone  Reles  morì cadendo  da  una  finestra,  per  quanto  si  trovasse  sotto  strettissima  protezione,  guardato  a  vista  da  una  miriade  di poliziotti. A O’Dwyer, che aveva tardato a incriminare Anastasia, non rimase nulla in mano. Ancora pochi giorni, e perse di misura contro La Guardia le elezioni a sindaco. Poi l’attacco giapponese fece passare d’un tratto tutto questo in secondo piano. O’Dwyer,  dimettendosi  da  procuratore,  si  arruolò.  E  lo  stesso  fece  il  boss  Anastasia,  assumendo  il  grado  di sergente: la stampa, quando lo venne a sapere, insinuò che gli fossero stati assegnati a Brownsville compiti di polizia militare  (!!)8.  Risolte  le  sue  pendenze  con  la  legge,  proprio  grazie  al  servizio  prestato  alla  patria  avrebbe  in  breve conseguito la cittadinanza americana. Nel frattempo, si poneva il problema della gestione del porto di New York. Si trattava di un nodo cruciale per lo sforzo  bellico  statunitense,  per  garantire  il  collegamento  con  alleati  e  teatri  di  operazioni  lontani.  Si  moltiplicarono ben  presto  le  vociferazioni  su  informatori  o  commandos  nemici,  che  sarebbero  approdati  in  città,  o  viceversa  su pescherecci  che  partendo  da  essa  avrebbero  rifornito  sommergibili  tedeschi  al  largo.  Le  domande  dell’opinione pubblica erano quelle che abbiamo già visto poste da Whyte: gli stranieri – tedeschi e in numero ben maggiore italiani

–  che  affollavano  i  docks,  che  lavoravano  quali  pescatori  o  marinai,  si  sarebbero  mostrati  fedeli  alla  loro  patria d’origine o a quella d’adozione? Le preoccupazioni raggiunsero il top già nel febbraio del 1942, quando andò a fuoco il piroscafo Normandie, ormeggiato mentre era in ristrutturazione per trasporto truppe. Entrò a questo punto in campo il comandante Charles R. Haffenden, direttore dell’ufficio newyorkese dei servizi segreti  della  marina.  Negli  anni  trenta,  costui  aveva  funto  da  coordinatore  in  un’associazione  per  la  sicurezza  della Grande New York, cui aderivano 115 «esponenti di primo piano del mondo degli affari cittadino», presieduta da uno dei  maggiori  investigatori  privati  del  paese;  la  quale  già  in  passato  aveva  offerto  senza  successo  i  propri  servigi all’Fbi9. Haffenden aveva anche lavorato nel management nell’industria metropolitana delle costruzioni, laddove da gran tempo veniva affidato alla criminalità il compito di mantenere l’ordine in certi settori, la risoluzione dei problemi di  relazione  tra  capitale  e  lavoro,  tra  anglosassoni  e  immigrati.  Trasse  di  certo  suggestioni  da  quest’esperienza formulando  il  suo  «Project  underworld».  Si  tratta  forse  del  caso  più  noto  di  collaborazione  tra  istituzioni  e  grande criminalità, e di certo del meglio documentato: grazie a un’inchiesta effettuata nel 1954 dall’investigatore Herlands, a noi già noto10; alla documentazione dell’Fbi e a quella del Narcotic Bureau. Prima  di  ogni  altro  gli  uomini  di  Haffenden  contattarono  lo  czar  del  Fulton  Market,  «Socks»  Lanza,  che  aderì entusiasticamente  all’appello  nel  marzo  appunto  del  1942,  e  addirittura  si  mostrò  pieno  di  patriottico  fervore rifiutando sdegnosamente ogni ricompensa monetaria per i suoi servigi. Un mese dopo, costui consigliò ai suoi nuovi amici  di  chiamare  in  causa  Lucky  Luciano,  suo  referente  ai  vertici  dell’underworld,  spiegando  che  lui  solo  poteva garantire  per  ogni  gruppo  o  singolo  necessario  al  buon  esito  dell’impresa11.  Haffenden  e  i  suoi  rivolsero  allora all’avvocato  del  boss  che  a  sua  volta  si  disse  disponibile  a  mobilitarsi  «senza  pretendere  alcun  compenso».  Si  creò così  un  contatto  diretto  con  Luciano,  che  per  prima  cosa  venne  trasferito  dal  carcere  di  massima  sicurezza  in  cui languiva in un più comodo luogo di detenzione, laddove gli venne concesso di intrattenersi con amici e collaboratori, tra  i  quali  citerò  Lanza  stesso,  Costello  e  Lansky12.  Attraverso  questo  canale,  i  membri  del  team  della  marina entrarono in contatto con l’Ila. Subito dimenticarono i misfatti dell’Anonima omicidi: servirsi di un banchiere o di un gangster  era  la  stessa  cosa,  avrebbero  poi  dichiarato  –  l’importante  era  il  risultato.  E  al  porto  anche  i  più  «duri», sembra, si piegavano al solo sentire il nome di Luciano13. Quella della difesa del porto da sabotatori o spie è la prima possibile spiegazione del Project underworld. Ma non la  più  verosimile.  Il  vero  problema  del  porto  era  la  mancanza  di  disciplina,  efficienza  e  continuità  del  lavoro, denunciata  nell’aprile  di  quell’anno  dalla  War  Shipping  Administration14.  Dunque  è  ben  più  credibile  una  seconda spiegazione,  quella  degli  agenti  dell’Fbi,  stando  ai  quali  l’accordo  tra  la  marina  e  l’Ila  si  risolse  in  una  sorta  di militarizzazione spuria della forza lavoro, intesa soprattutto a evitare scioperi e agitazioni da parte di elementi «non sotto  controllo»15.  Significativamente,  l’operazione  di  maggior  rilievo  promossa  dai  due  contraenti,  e  in  piena sintonia,  consistette  nell’espulsione  dai  docks  dell’organizzazione  sindacale  dissidente  guidata  da  un  sovversivo  di origine australiana che pretendeva (addirittura) di denunciare le infiltrazioni gangsteristiche tra i lavoratori!16 E poi c’è una terza spiegazione: era tutto un grande bluff, studiato per mettere Luciano sotto una luce favorevole di fronte  all’autorità  e  all’opinione  pubblica,  al  fine  di  ottenere  un  miglioramento  della  sua  situazione  carceraria  o  – chissà? – una sua scarcerazione. Dagli informatori dell’Fbi apprendiamo di frequentazioni amichevoli di Haffenden con  l’avvocato  di  Luciano  e,  sul  campo  da  golf,  persino  con  Frank  Costello17.  Già  conosciamo  costui  come  antico amico  e  collaboratore  di  Luciano.  Non  sappiamo  quando  queste  partite  ebbero  inizio  ed  è  un  peccato  –  potremmo meglio capire chi dei due sia stato l’originario artefice del complotto, o per meglio dire quali fossero le sue originarie finalità. Frank Costello.  Il  tempo  di  guerra  segnò  il  culmine  della  sua  influenza  politica.  Garantiva  che  i  suoi  amici,  ad esempio  quelli  che  gestivano  il  gioco  d’azzardo,  non  venissero  disturbati  dalla  polizia,  e  in  cambio  garantiva  alla macchina politica democratica i finanziamenti resisi più necessari di fronte alla diffidenza della business community verso il New Deal. Nel 1941 riuscì a portare il suo candidato alla guida di Tammany Hall18. Nel 1943 venne divulgata l’intercettazione  di  una  sua  conversazione  telefonica  con  un  candidato  alla  carica  di  giudice  alla  Corte  suprema cittadina  che  gli  prometteva  «eterna  gratitudine»  in  cambio  del  suo  appoggio,  e  che  venne  poi  eletto  nonostante  lo scandalo19. Casa Costello – come si sarebbe poi saputo – era il luogo in cui in quel periodo il procuratore di Brooklyn O’Dwyer si riuniva insieme ai leader di Tammany Hall. Sicuramente cercava sostegni elettorali per i cimenti futuri, anche se poi avrebbe dichiarato che (anche lui!) frequentava il gangster solo per averne informazioni atte a contrastare i sabotatori dello sforzo bellico nazionale… Nel 1951 George White, elemento di punta del Narcotic Bureau arruolato in tempo di guerra nei servizi segreti, avrebbe raccontato di essere stato contattato nel maggio del 1943 da un narcotrafficante per conto proprio di Costello, «il quale era a capo del movimento per fare uscire dalla prigione Luciano», e degli avvocati di costui; sarebbero stati costoro  a  offrirgli  informazioni  concernenti  la  sicurezza  nazionale  in  cambio  appunto  della  liberazione  del  boss20.

Aggiungiamo anche la versione (non necessariamente da prendersi per buona) contenuta nello pseudo­testamento di Luciano: il boss prigioniero aveva previsto subito che dallo scoppio della guerra gli sarebbe venuto qualcosa di buono, aveva chiesto ad Anastasia di escogitare qualcosa, ed era stato costui a far bruciare il Normandie21. L’esistenza di una simile trama di partenza  spiegherebbe  il  perché  Lanza  abbia  spinto  Haffenden  &  C.  a  un  giro  «vizioso»  attraverso Luciano per prendere contatto con Mangano e con i suoi amici dell’Ila: saremmo di fronte a una tattica tipicamente mafiosa, quella di offrire protezione da una minaccia creata ad arte. Sta di fatto che Haffenden si presentò molto presto (febbraio del 1943) davanti a un giudice per renderlo edotto in forma  confidenziale  dei  servizi  resi  da  Luciano  alla  patria,  insomma  per  sostenere  un’istanza  della  difesa  del  boss intesa a conseguirne l’immediata scarcerazione sulla parola. Il giudice si rifiutò di accogliere la richiesta, la marina fece sapere che il suo ufficiale agiva a titolo del tutto personale, e il colpo fallì22. Sarebbe stato ritentato tre anni dopo, questa volta con successo. 2. Gli americani incontrano la mafia nella sua terra d’origine. Abbiamo detto di tre spiegazioni possibili del Project underworld, trascurandone una quarta, quella più popolare, ciclicamente riproposta in una varia letteratura, in una quantità di opere giornalistiche e di fiction. Per essa, Luciano avrebbe funto da mediatore in vista di un accordo tra i servizi segreti americani e la mafia siciliana inteso ad agevolare lo sbarco degli alleati nell’isola, o addirittura per garantire loro una facile vittoria nella battaglia di Sicilia. Ora,  niente  nella  documentazione  Herlands,  e  a  maggior  ragione  nei  documenti  Fbi,  indica  che  le  trame newyorkesi  del  1942  abbiano  avuto  un  tale  effetto.  Su  Mangano  e  sui  suoi  rapporti  «commerciali»  con  la  Sicilia, sembra,  Haffenden  faceva  gran  conto  «per  sviluppare  il  sistema  informativo  relativo  al  teatro  mediterraneo  delle operazioni»; ma in sostanza a quei «siciliani che sembravano così strani, e che venivano chiamati Padroni», mobilitati via Ila, vennero richieste solo informazioni «molto minuziose sul territorio siciliano»23. Max Corvo, dirigente italo­ americano dell’Oss (il servizio segreto civile poi rinominato Cia) ricorda che il citato George White ne riferì nel corso di riunioni del team che stava cercando aiuti tra gli antifascisti italiani per operazioni di intelligence, «semplicemente passando  l’informazione  per  un  eventuale  nostro  interesse»;  ma  sostiene  che  non  se  ne  fece  nulla  perché  il  gruppo aveva già decretato l’esclusione sia dei comunisti che dei membri della criminalità organizzata24. Cito infine, sia pure con l’usuale prudenza, lo pseudo­testamento di Luciano, nel quale il boss rivendica di aver bluffato sia proponendosi come  protettore  del  porto  di  New  York  sia,  e  a  maggior  ragione,  proponendosi  come  consulente  per  l’invasione  di quell’isola da cui mancava dall’infanzia, dove non conosceva nessuno25. Non risulta che prima dello sbarco gli Alleati abbiano infiltrato nell’isola agenti segreti in grado di gestire trattative del  livello  presupposto  dai  sostenitori  del  grande  complotto,  e  se  è  per  questo  nemmeno  di  livello  inferiore26. Sappiamo  solo  di  un  commando  sbarcato  a  Gela  insieme  ai  reparti  alleati  di  prima  linea,  e  incaricato  di  contattare malavitosi già espulsi dagli Usa, i cui nomi erano stati forniti da contatti americani; peraltro nemmeno dietro questo episodio  possono  intravedersi  progetti  di  vasto  respiro,  considerando  che  il  gruppo  in  questione  era  stato  formato appena  un  mese  prima,  allorché  il  comando  della  flotta  aveva  scoperto  che  «non  aveva  ufficiali  del  servizio informazioni che parlassero italiano»27. La teoria del complotto molto si appoggia sul libro di Michele Pantaleone, che già abbiamo citato come socialista di Villalba, paese dell’interno, provincia di Caltanissetta. Pantaleone sostiene che gli americani avrebbero individuato già prima dello sbarco don Calò Vizzini, boss appunto di Villalba, come proprio interlocutore, aggiungendo particolari francamente inverosimili, smentiti da testimoni in loco28. Quanto al resto, non trovo prove del pactum sceleris  nella documentazione a me nota29. E di certo la mafia non ebbe niente a che vedere con l’andamento delle operazioni militari. La marina e le truppe territoriali italiane cedettero di schianto per ragioni legate alla crisi del fascismo, dei suoi rapporti con la monarchia e la  pubblica  opinione;  mentre  per  i  tedeschi  la  battaglia  di  Sicilia  rappresentò  un  successo,  visto  che  riuscirono  a sganciarsi nonostante la schiacciante superiorità nemica. Invece  la  documentazione,  sia  sul  versante  dell’Oss30  sia  su  quello  Amgot,  dimostra  che  gli  americani incontrarono  la  mafia  dopo  essere  sbarcati  nella  sua  terra  d’origine.  Se  ne  dovette  occupare  innanzitutto  Charles Poletti, che abbiamo conosciuto come politico rooseveltiano newyorkese, e che troviamo ora, con il grado di tenente­ colonnello,  nel  ruolo  di  capo  degli  «affari  civili»  della  Settima  armata  nella  Sicilia  occidentale.  Ricordando  quegli eventi  qualche  tempo  fa,  Poletti  ha  definito  la  mafia  una  mera  «costruzione  intellettuale»,  di  cui  l’Amgot  neppure avrebbe sentito parlare31. Ma si ricorda proprio male. Infatti  ci  furono  polemiche  già  al  tempo  sull’atteggiamento  dei  Cao  (Civil  Affairs  Officers)  italo­americani.  Il britannico  lord  Rennell  Rood,  massima  autorità  dell’Amgot,  lamentò  che  in  certi  casi  quel  personale  venisse  da

ambienti  mafiosi  americani32.  Lo  stesso  capitano  americano  W.  E.  Scotten,  autore  per  l’Amgot  di  un  importante Rapporto sul tema della mafia, ammise che qualcosa di vero c’era. Ci  consente  di  vedere  le  cose  più  da  vicino  la  nostra  vecchia  conoscenza  Nick  Gentile.  Allo  sbarco  alleato,  si trovava  nel  paese  natale  della  moglie,  Raffadali  in  provincia  di  Agrigento.  Venne  arruolato  dagli  americani  come interprete,  e  subito  intrecciò  un  rapporto  di  «collaborazione»  con  l’ufficiale  comandante,  con  il  quale  avrebbe «formato  un’amministrazione,  un  governo  di  quel  territorio».  Accadde  che  quel  governo  militar­mafioso  dovesse sciogliersi  quando  gli  inglesi  subentrarono  agli  americani  nella  zona,  ma  questo  non  rappresentò  un  problema  per Gentile,  che  seguì  il  suo  socio  a  Palermo  «con  tutta  la  merce»  (??).  In  una  difficoltà  maggiore  incorse  quando, «sfortunatamente», una lettera anonima indirizzata a lord Rennell lo portò in prigione. Lo zio Nick disponeva però di una  carta  di  riserva  nella  persona  di  un  ufficiale  «dei  servizi  speciali»,  che  gli  fece  restituire  la  libertà  e  garantì  la continuità  dei  suoi  traffici.  Un  particolare  un  po’  sorprendente:  né  l’uno  né  l’altro  degli  ufficiali  in  contatto  con Gentile avevano un cognome italiano33. Il  racconto di Gentile  mostra  comunque  un  riannodarsi  di  pregresse  relazioni  siculo­americane. Altre però se ne intrecciarono  ex­novo  nella  situazione  caotica  conseguente  all’invasione,  su  cui  abbiamo  alcune  descrizioni  dei carabinieri.  A  Partinico  i  mafiosi  liberarono  i  loro  accoliti  dalla  prigione.  A  San  Cipirrello  il  capo­mafia  Salvatore Celeste «in occasione dell’arrivo delle truppe americane ha ritenuto che le leggi fossero interamente decadute ed ha stretto di più le relazioni con i pregiudicati del luogo, da lui dominati, e con i componenti del comitato amministrativo comunale, formato, in parte, da elementi dimessi dal confino di polizia»34. Ritroveremo più avanti questo capo­mafia. Diciamo ora che era un uomo di condizione agiata, che era lui stesso reduce dal confino e proprio per questo poteva spacciarsi per antifascista;  per  l’una  e  per  l’altra  ragione  apparendo  come  un  interlocutore adeguato agli occupanti­ liberatori  in  cerca  di  una  classe  dirigente  locale  non  compromessa  col  fascismo.  Anche  in  altri  paesi  della  Sicilia occidentale,  elementi  di  mafia  o  vicini  alla  mafia  si  proposero  così  come  interlocutori  agli  ufficiali  statunitensi  che cercavano qualcuno cui affidare il suolo di sindaco, e se ne conquistarono la fiducia. L’Amgot si rese conto quasi subito del problema e chiese ai carabinieri – che cos’è la mafia, chi sono i mafiosi? Ne ricevette un impressionante elenco dei curricula criminali di centinaia di individui. La rotta venne corretta, e fu Poletti in persona a ordinare (oralmente) che i sindaci con precedenti penali rassegnassero le dimissioni. Qualche esempio. A Godrano quello nominato dopo lo sbarco mollò subito quando gli venne contestata una chilometrica fedina penale. A Marineo il capo della locale cosca, che si era limitato ad assumere la carica di vice­sindaco, rassegnò le dimissioni senza che però nessuno osasse farsi avanti per sostituirlo. A Villafrati «i leader della mafia si presentavano come veri amici degli Alleati e intransigenti nemici dei fascisti»; in forza a una petizione popolare, il posto di sindaco era stato in effetti assegnato al capo­mafia. Costui, quando gli fu chiesto di dimettersi, cercò «qualche aiuto al quartier generale per evitare la rimozione», e fu necessario cassarlo d’autorità. Però subito dopo gli occupanti­liberatori presero atto che il  suo  «partito»  aveva  fatto  un  buon  lavoro  per  gli  organismi  che  si  occupavano  della  distribuzione  dei  generi alimentari convincendo i paesani a consegnare il grano da loro imboscato35. Gli  approvvigionamenti  alimentari  erano  in  effetti  il  problema  del  momento,  e  al  crescere  del  mercato  nero  si accompagnava  una  nuova  ondata  di  banditismo.  Il  caso  più  gravido  di  futuro  fu  quello  del  giovane  borsanerista  di Montelepre Salvatore Giuliano (1922­1950), figlio di emigrati di ritorno da Brooklyn. Il 2 settembre del 1943 uccise un carabiniere che l’aveva intercettato in campagna, si diede alla latitanza senza mai allontanarsi dal suo paese e dai territori  montani  circostanti  (non  poi  così  distanti  dalla  stessa  Palermo),  creò  una  banda  dedita  in  particolare  ai sequestri di persona. Era composta in larga parte da compaesani, tra i quali svolgevano un ruolo particolare quelli che nella notte di Capodanno del 1944 aveva fatto evadere dal carcere di Monreale. Questa cittadina, come sappiamo, era ab  antiquo  uno  dei  grandi  centri  di  mafia.  Adeguato  dunque  il  commento  che  troviamo  in  un  libro  di  memorie  di Giovanni Lo Bianco, maresciallo dei carabinieri già impiegato nell’Ispettorato interprovinciale di Pubblica sicurezza, che sarà protagonista di un’interminabile caccia al bandito: quella «rocambolesca evasione» dimostrava «che Giuliano aveva incontrato il favore dell’onorata società» monrealese36. L’Amgot si chiese se fosse il caso di promuovere – in stile Mori – una massiccia operazione di repressione della mafia, o se non la si dovesse piuttosto utilizzare per contrastare il banditismo37. Scotten sconsigliò la prima ipotesi, che avrebbe richiesto una distrazione di forze inopportuna a guerra ancora in corso. Però fu ancor più netto nel dirsi contrario all’altra, innanzitutto per una ragione di principio: il governo militare alleato ne sarebbe uscito squalificato. Anche,  però,  per  una  ragione  di  fatto:  a  dire  di  Scotten  non  esisteva,  dopo  l’operazione  Mori,  la  mafia,  un’entità compatta, dalle strutture e dalle gerarchie definite, bensì un’infrastruttura «più orizzontale […] che verticale», «ancora notevolmente  smembrata  e  ridotta  a  una  dimensione  locale»38,  con  la  quale  dunque  un  accordo  «da  potenza  a potenza» sarebbe stato impossibile. Noi  invece  sappiamo  che  l’organizzazione  mafiosa  era  sopravvissuta  all’operazione  Mori,  e  si  era  riorganizzata negli anni trenta. Difficile dire però in quale situazione si trovasse al momento dello sbarco.

3. Separatismo siciliano. Parliamo ora del Movimento per l’indipendenza della Sicilia (Mis). Fu creato e guidato, all’indomani dello sbarco, da  elementi  della  classe  dirigente  pre­fascista.  Cito  il  suo  leader  Andrea  Finocchiaro­Aprile,  figlio  del  Camillo Finocchiaro­Aprile che era stato ministro con Giolitti già nel 1892, egli stesso ex deputato nittiano di Corleone. Cito il barone  Lucio  Tasca  Bordonaro,  che  abbiamo  già  incontrato  nei  primi  anni  venti  come  esponente  di  un  filo­fascista Partito agrario e poi dirigente del Consiglio provinciale dell’economia palermitano. Il Mis dipinse se stesso come un movimento  di  massa,  rappresentativo  dell’intero  «popolo  siciliano».  Nella  realtà  esso  apparve  forte  solo  in  una primissima fase, quando la politica di massa non esisteva e non era neanche possibile, viste le limitazioni poste dagli alleati all’attività politica, a ventitré anni dall’ultima occasione in cui elezioni libere avevano potuto testare la volontà popolare. Il Mis riuscì bene a giocare le sue carte nelle nomine degli alleati alle cariche di sindaco: sembra fosse separatista una netta maggioranza dei sindaci di nomina alleata in provincia di Palermo39. Citiamo i due casi più famosi. Il primo è quello del già citato Lucio Tasca, nominato sindaco del capoluogo, Palermo; il secondo quello di Calogero Vizzini, nominato sindaco di Villalba, paese sperduto nel centro dell’isola. Ma di un sostegno anglo­americano alle finalità di fondo  del  movimento  non  possiamo  parlare.  Già  Finocchiaro­Aprile  si  lamentò  della  «preconcetta  avversione»  di Poletti40.  Maggiormente  lui  e  i  suoi  protestarono  quando  nel  febbraio  1944  gli  alleati  riconsegnarono  l’isola all’amministrazione del governo italiano (allora retto da Badoglio), il quale a sua volta istituì un Alto commissariato per la Sicilia. Democristiani, socialisti e comunisti erano consapevoli della necessità di avviare l’isola verso una forma di autonomia regionale. Ma questo non implicò affatto una convergenza col Mis. Anzi, l’obiettivo era di fargli il vuoto intorno. La vicenda del Mis è particolarmente importante ai nostri fini perché in questo movimento si schierarono un po’ tutti  i  mafiosi  che  erano  segnalati,  o  si  sarebbero  in  seguito  segnalati,  all’attenzione  delle  cronache.  Potremmo aggiungere molti nomi a quello di Calogero Vizzini, allora il più noto41. Così, possiamo dire che con il separatismo la mafia, per la prima e l’ultima volta nella sua storia, si identificò con un partito anziché inserirvisi strumentalmente. Ne condivideva l’ideologia? In un certo senso sì. Sul lungo periodo, sappiamo del sottofondo, del retrogusto sicilianista che  sempre  aveva  avuto  il  discorso  dei  mafiosi,  d’altronde  corrispondente  a  quello  della  classe  dirigente  isolana (proprietari fondiari, politici, avvocati, intellettuali) con cui costoro si erano sempre mossi in sintonia. Non dimentichiamo peraltro le circostanze politiche assolutamente eccezionali del 1943: invasione straniera, crisi catastrofica dello Stato nazionale, separazione di fatto della Sicilia dal resto d’Italia, collasso di molte strutture civili. E,  naturalmente,  paura  di  chissà  quali  futuri  rivolgimenti.  In  questo  libro  l’ho  già  rilevato:  la  mafia  non  è,  come  si crede comunemente, una superpotenza politica, e in quella congiuntura i suoi ispiratori di sempre, i grandi proprietari fondiari,  non  mostravano  più  una  gran  lucidità,  si  avviavano  verso  il  loro  storico  tramonto.  Difficile  dire  quanto  i separatisti contassero di realizzare l’obiettivo massimo, la separazione appunto. E ribadisco che non era vero quanto sostenevano i loro propagandisti: che nel governo degli Stati Uniti ci fosse chi puntava all’annessione dell’isola42. Qui, come spesso ci capita, dobbiamo considerare probante la testimonianza di Nick Gentile, che venne messo al corrente da Calò Vizzini e da altri «amici» dei «contatti che avevano con esponenti dell’esercito americano, i quali – a sentir loro – avevano promesso tutto il loro appoggio per il movimento separatista e per l’annessione della Sicilia alla Confederazione  degli  Stati  Uniti».  Gentile  contattò  a  sua  volta  i  servizi  statunitensi,  ma  si  sentì  rispondere  che  si trattava  di  un  bluff  o  al  massimo  delle  iniziative  «di  qualche  stupido  sergente»,  da  cui  fu  invitato  a  «non  lasciarsi infinocchiare».  Disse  allora  agli  «amici»  che  «stavano  prendendo  un  grosso  granchio»  ma  non  riuscì  a  convincerli perché «erano troppo infatuati»43. Diciamo che si erano ubriacati del proprio stesso bluff. Calogero Vizzini.  Possiamo  ora  meglio  comprendere  le  ragioni  per  cui  il  mito  lo  assunse  a  parte  contraente  del patto tra mafia e americani prima dello sbarco, che sono almeno due. La prima motivazione emerge già dal racconto sopra  citato  di  Gentile.  Vizzini  dopo  lo  sbarco  millantava  il  proprio  ruolo  di  interlocutore  dei  servizi  segreti statunitensi, e in effetti la documentazione ce lo mostra impegnato in un continuo pressing sui funzionari dell’Oss. Li invitava  a  chiudere  al  più  presto  la  partita  con  «i  dannati  comunisti»44.  Insisteva  sui  danni  fatti  dal  fascismo  («Il fascismo ha diffamato la Sicilia con le leggi speciali di pubblica sicurezza. Eravamo considerati una colonia penale. Il prefetto Mori e i suoi agenti sono i responsabili del degrado morale, economico, e politico della Sicilia»). E indicava la soluzione («Al giorno d’oggi, gli americani devono poter giudicare l’isola come un gioiello del Mediterraneo»)45. Si offriva di bloccare con i suoi sistemi il banditismo («Ora basta! La Sicilia desidera tranquillità nelle campagne e sulle strade. Alcuni elementi sono già stati eliminati, ma altri devono ancora cadere»)46. Gli  agenti  dell’Oss  consideravano  rappresentative  dell’«Alta  mafia»  le  posizioni  sue  e  della  destra  separatista. Anche  Scotten,  versante  Amgot,  scrisse:  «il  movimento  separatista  così  come  si  presenta  oggi  è  principalmente sostenuto da due gruppi reciprocamente interessati e interdipendenti, i proprietari fondiari e la Mafia»47.

Don Calò aderì al movimento separatista ma senza tagliare i suoi antichi rapporti col movimento cattolico, dunque con  la  nascente  Democrazia  cristiana,  rappresentata  a  Villalba  da  suo  nipote.  Si  mantenne  (come  in  passato) nell’orbita di Lucio Tasca Bordonaro. Costui nel 1944 fece pubblicare un opuscolo, L’elogio del latifondo siciliano, nel  quale  dipingeva  come  un  complotto  anti­siciliano  le  leggi  di  colonizzazione  del  latifondo  emanate  dall’ultimo fascismo  soprattutto  al  fine  di  screditare  ogni  venturo  progetto  di  riforma.  Una  posizione  francamente  reazionaria, mentre stavano ripartendo le lotte contadine e un po’ tutti – intorno ai due partiti di sinistra (comunisti e socialisti) e alla  Democrazia  cristiana  –  convenivano  sulla  necessità  storica  di  una  riforma  agraria.  Don  Calò  l’avrebbe  detto scherzosamente a Indro Montanelli (di lì a un paio d’anni, nel corso dell’intervista che abbiamo già citato): lui non si sentiva un reazionario, ma si rendeva conto che la sua amicizia con Tasca lo esponeva al rischio di essere considerato tale48. In effetti noi sappiamo quanto ambigua fosse stata, sin dal dopoguerra precedente, la posizione sul latifondo sua e di quelli come lui: gabellotti, notabili, imprenditori politici paesani. Un  momento  di  svolta  si  ebbe  il  16  settembre  1944,  quando  Vizzini  e  i  suoi,  nella  piazza  di  Villalba,  a  suon  di revolverate  e  bombe  a  mano,  attaccarono  il  palco  da  cui  il  leader  comunista  siciliano  Girolamo  Li  Causi,  già esponente  dell’emigrazione  politica  e  della  Resistenza,  stava  parlando  avendo  accanto  Michele  Pantaleone,  che conosciamo come esponente socialista paesano. Li Causi fu ferito insieme ad altre tredici persone. Vediamo  come  il  giornale  separatista  «Sicilia  indipendente»  ricostruì  l’episodio.  Vizzini  e  il  nipote  Benedetto Farina (che come sappiamo guidava una locale Democrazia cristiana) non erano contrari a ospitare Li Causi e gli altri «forestieri»  giunti  in  paese.  Chiedevano  solo  che  essi  evitassero  di  riferirsi  a  questioni  locali  «per  rispetto  alla ospitalità che veniva loro offerta». Invece Li Causi non volle «rimanere all’altezza della propaganda ideologica», ed entrò in questioni che non lo riguardavano, criticando in particolare il modo in cui gli «amici» venivano privilegiati nella gestione dei subaffitti del feudo Miccichè. Vizzini avrebbe invitato alla calma e, finita la sparatoria, si sarebbe scusato con gli ospiti facendo in modo che potessero tornarsene tranquillamente in città. Rosario Mangiameli, in un suo studio da cui traggo la citazione di cui sopra, commenta: diversamente da quanto accade con «le normali imprese criminali della mafia, questa volta l’intimidazione e l’attacco erano stati portati a viso aperto,  al  cospetto  dell’opinione  pubblica»49.  Proprio  per  questo  l’attentato  segnò  una  svolta.  I  comunisti  non consideravano scontato che, nella lotta contro il latifondo di cui nel secondo dopoguerra si annunciava l’ultimo atto, i gabellotti dovessero per forza prendere posto accanto ai «feudatari», insomma ai latifondisti. Li Causi sperava che in un’Italia  democratica  «i  componenti  della  vecchia  maffia,  nella  lotta  per  la  conquista  della  terra,  non  [avrebbero avuto]  più  bisogno  di  mettersi  fuori  legge».  Per  questo  dopo  l’attentato  stigmatizzò  Vizzini  come  «indegno  di appartenere alla stessa maffia»50. La verità è che la mafia stava andando e non poteva che andare a scontrarsi con le forze di sinistra, come nel dopoguerra precedente. Si confronti questa posizione di Li Causi con quella di Bernardo Mattarella, un democristiano di Castellammare che  nel  suo  partito  stava  assumendo  un  ruolo  di  primo  piano.  Mattarella  diceva:  «quegli  elementi  di  Villalba  che guardavano  con  simpatia  al  movimento  democratico  cristiano,  nel  quale  forse  pensavano  di  rientrare,  non  sono  per niente reazionari. Trattasi in gran parte di contadini e di piccoli proprietari» solo per un accidente unitisi ai «feudatari» del Mis51. Il leader democristiano formulava un’analisi sociale non tanto diversa da quella del leader comunista. Però dal  punto  di  vista  politico,  e  a  breve,  ben  più  realistica  si  sarebbe  rivelata  la  sua  previsione  politica:  i  villalbesi sarebbero tornati alla Dc. Interessante, ma un po’ apologetica, la ricostruzione di un altro grande leader siciliano della Dc,  il  nisseno  Giuseppe  Alessi.  Sostiene  di  essersi  opposto  all’ingresso  in  blocco  nella  Dc  degli  ex  separatisti  del Vallone, ben sapendo che quello era «il mondo delle tre M: […] Mulino, Moneta, Mafia», ma di aver dovuto cedere di fronte ad altri democristiani che dicevano: «Abbiamo bisogno della protezione di persone forti per fermare le violenze dei comunisti»52. In conclusione. Intorno alla fine del 1944 Mario Scelba, democristiano di Caltagirone (compaesano cioè nonché allievo  di  Sturzo),  futuro  ministro  degli  Interni  dei  governi  del  centrismo,  dichiarò  che  per  battere  il  separatismo bisognava trovare una soluzione della questione siciliana senza attendere la convocazione di un’Assemblea costituente (nazionale) e senza aspettare che soffiasse forte il «vento del Nord»: vento che con il socialismo e il fascismo aveva nel  dopoguerra  precedente  provocato  ogni  genere  di  sconquassi.  Era  un  discorso  che  veniva  incontro  a  convinzioni radicate negli ambienti conservatori isolani, già allarmati dalla ventata giacobina proveniente appunto dal Nord e dalle prime  lotte  per  la  terra  in  casa  loro.  Per  prevenire  i  peggiori  sconvolgimenti,  il  compito  di  disegnare  l’istituenda autonomia fu demandato a una Consulta regionale, costituita prima ancora che la collettività si esprimesse in libere elezioni,  e  riunitasi  per  la  prima  volta  nel  febbraio  1945.  Era  composta  sia  da  elementi  dei  partiti  del  Cln  sia  da notabili prefascisti, ivi compresi elementi che avevano mostrato una certa simpatia per il Mis. Anche  nell’area  di  opinione  filo­separatista,  molti  pensarono  che  la  creazione  della  Consulta  implicasse l’esaurimento dell’esperienza del Mis. Invece i maggiorenti del movimento ritennero che fosse opportuno rilanciare, e nel  settembre  del  1945,  in  una  proprietà  Tasca,  decisero  di  utilizzare  alcune  delle  bande  brigantesche  che  ancora

percorrevano l’isola per rinsanguare l’Evis, una sorta di esercito clandestino separatista. Di certo la mafia fu chiamata a partecipare all’impresa, anche se non so quanto sia condivisibile l’equazione tracciata dall’antico collaboratore di Mori, Francesco Spanò, che scrisse in un suo appunto: «Quella sera si riorganizzò l’antica società di mafia nella quale erano rappresentate tutte le cosche della Sicilia»53. È un fatto che Salvatore Giuliano venne promosso da bandito a colonnello  nell’Evis,  avviandosi  verso  la  seconda  fase  della  sua  carriera.  Il  governo  Parri  (3  ottobre  1945)  replicò decretando l’arresto di Finocchiaro­Aprile e di altri capi del movimento. Lo Statuto regionale siciliano venne varato dalla Consulta alla fine dell’anno, e nella primavera seguente recepito dallo Stato. È tutt’oggi in vigore. 4. Il ritorno di Lucky Luciano nell’antica patria. Ripassiamo di nuovo l’oceano e torniamo negli Stati Uniti per rimetterci sulle tracce di Lucky Luciano. Come si ricorderà, nel 1943 il suo avvocato e il comandante Haffenden, artefice del Project underworld, non erano riusciti a ottenerne  la  scarcerazione.  Ci  provarono  di  nuovo  appena  finirono  le  operazioni  militari  in  Europa54. La situazione politica stava cambiando. Si ebbe la trionfale elezione a sindaco di New York di O’Dwyer, il quale nominò proprio Haffenden «Commissioner of Marine and Aviation», qualcuno disse su sponsorizzazione del suo compagno di golf, Costello.  Era  un  incarico  di  «estremo  rilievo»;  anche  se  di  fatto  poi  ci  furono  delle  complicazioni,  e  l’ex  agente segreto dovette dimettersi dopo pochi mesi55. Comunque, per quanto riguardava Luciano, il risultato venne conseguito nel gennaio del 1946, quando il boss uscì di  prigione  con  venti  o  anche  quarant’anni  di  anticipo  sulla  scadenza  della  pena.  Fatto  sommamente  simbolico,  a firmare l’atto di scarcerazione fu il suo antico accusatore Thomas Dewey, dal 1942 governatore dello Stato di New York.  La  stampa  rumoreggiò,  si  moltiplicarono  le  voci  sul  contributo  della  mafia  siciliana  alla  pianificazione  dello sbarco nell’isola, alla gestione delle operazioni militari, alla vittoria delle armate delle Nazioni Unite. Dewey dovette giustificarsi,  e  senza  citare  il  versante  siciliano  si  limitò  a  riferirsi  –  e  con  prudenza  –  a  servigi  resi  sul  versante americano: All’atto  dell’ingresso  degli  Stati  Uniti  in  guerra,  le  Forze  armate  richiesero  l’aiuto  di  Luciano  per  indurre  altri  a  fornire informazioni relative a possibili attacchi nemici. Sembra che egli abbia cooperato in questo sforzo, per quanto non sia chiaro il valore reale delle informazioni così procurate56.

L’accordo  era  che  Luciano  dopo  la  scarcerazione  venisse  immediatamente  espulso  verso  l’Italia,  di  cui  era cittadino  non  avendo  mai  preso  la  nazionalità  statunitense.  Le  autorità  speravano  che  tutto  si  risolvesse  con discrezione,  invece  il  momento  del  suo  imbarco  si  trasformò  in  una  pubblica,  clamorosa  cerimonia  di  omaggio tributatagli dai principi dell’underworld, Costello in testa, con i portuali schierati sul molo a mo’ di guardia d’onore per tenere lontani gli estranei – giornalisti e curiosi. Le polemiche ne vennero rinfocolate. I servizi segreti della marina aprirono un’inchiesta e Haffenden corresse il tiro: Luciano, disse, gli aveva procurato contatti con siciliani d’America che confidava potessero essere stati utili. La marina lo smentì sulla base delle carte conservate  nei  suoi  archivi,  ma  Haffenden  lasciò  intendere  che  trattandosi  di  un’operazione  top  secret  bisognava credere  alla  sua  parola.  La  marina  replicò  che  quanto  eventualmente  si  fosse  tramato  in  America  non  poteva  aver avuto ripercussioni sul teatro delle operazioni perché, come sapevano tutti coloro che hanno preso parte all’invasione della  Sicilia,  era  l’intelligence  inglese,  non  quella  americana,  a  fornire  le  informazioni  segrete.  In  un’atmosfera  di crescente  nervosismo,  l’Fbi  cominciò  anch’essa  a  indagare  acquisendo  per  vie  traverse  proprio  i  documenti  della marina. Le voci raccolte dai federali mettevano in discussione l’immagine di inflessibile persecutore della criminalità cui Dewey doveva i suoi successi politici. Un primo filone si incentrava sul verdetto del processo del 1936, in qualche modo inficiato dalla ritrattazione (ottenuta non sappiamo come) di gran parte dei testimoni d’accusa: c’era chi diceva che il governatore aveva voluto anticipare gli avvocati di Luciano e una richiesta di revisione del processo. Altre voci puntavano su 250 000 dollari che sarebbero stati stanziati dall’Unione siciliana per la liberazione del suo boss, e che sarebbero  stati  distribuiti  «circoli  politici»  repubblicani57.  L’unica  cosa  certa  è  che  Dewey  era  in  vista  di importantissime  scadenze  elettorali.  Nella  prima  venne  confermato  governatore.  Nella  seconda  (1948)  corse addirittura per la presidenza dell’Unione, e da favorito; finendo però sconfitto da Truman contro tutte le previsioni. Attraversiamo  l’oceano  per  l’ennesima  volta.  Quali  che  fossero  le  motivazioni  della  sua  liberazione,  Luciano giunse in Italia come altri gangster italo­americani, dichiarati «indesiderabili» dalle autorità statunitensi. L’antico boss dichiarò di non avere nessuna intenzione di stabilirsi nella barbara isola natia e optò per Roma, ma per l’opposizione del governo italiano dovette ripiegare su Napoli.

Passò poco più di un anno, e comparve d’improvviso a Cuba, dove il suo amico Lansky vantava relazioni politiche in alto loco, e lo attendevano, per organizzare casinò e commerci di varia natura, gangster americani di origine italiana ed ebraica. Convinti che egli stipendiasse una sorta di ufficio stampa, gli uomini del Narcotic Bureau organizzarono una  contro­campagna  intesa  a  mettere  in  dubbio  le  sue  credenziali,  il  «mito»  del  Luciano  patriota  che  rischiava  di avallare nuove tolleranze nei suoi confronti e soprattutto sue possibili spedizioni di droga dall’isola caraibica verso le vicine  coste  degli  Stati  Uniti.  La  polemica  chiamava  ancora  in  causa  Dewey,  i  cui  collaboratori  dichiararono  che  il loro capo non era stato «obbligato» a rilasciare Luciano dal suo contributo bellico, ma senza rinunciare del tutto a un argomento  che,  in  fin  dei  conti,  era  l’unico  che  potesse  giustificare  le  scelte  fatte58.  Più  facile  campo  trovò  il  gran capo del Narcotic Bureau, Harry Anslinger, nelle sue pressioni sulle autorità cubane, grazie alle quali, dopo parecchi mesi  di  permanenza  nell’isola,  l’antico  boss  fu  rispedito  in  Italia.  Dovette  capire  allora  che  i  suoi  progetti  non  si sarebbero facilmente realizzati. Non avrebbe in effetti traversato l’oceano mai più. Ma le polemiche non erano finite. Dewey era il numero uno del Partito repubblicano e i democratici non mollarono la presa. L’affare Luciano tornò sulla ribalta nel momento stesso in cui il tema della criminalità organizzata tornava sulla ribalta; anzi, la prima volta in cui venne messo nel mirino da un’autorità federale, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla criminalità organizzata presieduta dal senatore Estes Kefauver (che era appunto democratico). Siamo nel 1950­51. Vennero  convocati  sia  Dewey  che  Haffenden,  ma  il  primo  si  rifiutò  di  comparire  e  il  secondo  rese  una testimonianza  giudicata  «inconcludente»59.  Si  rivelò  invece  succosa  quella  di  George  White  il  quale,  come  già abbiamo detto, rivelò che l’iniziativa per la liberazione di Luciano era venuta da Costello. La stampa ostile a Dewey ebbe modo di ricamare su questo schema60. Quando i democratici provvidero a pubblicare la lista degli avvocati e dei criminali  cui  a  suo  tempo  era  stato  concesso  di  visitare  il  boss  in  carcere,  Dewey  decise  di  rispondere  affidando un’inchiesta ufficiosa sul Project underwold al detective Herlands, che già conosciamo come suo uomo e da cui certo si  aspettava  un  avallo  alla  tesi  del  patriottismo  del  gangster,  l’unica  che  potesse  giustificare  le  sue  scelte.  I  risultati però non furono forse quelli che si aspettava, tanto che il testo della relazione Herlands non venne reso pubblico, e ci si limitò a lasciarne filtrare i contenuti in maniera sommaria61. Con  Kefauver  molto  collaborò  il  Narcotic  Bureau,  che  molto  contribuì  al  ritorno  in  auge  nel  dibattito  pubblico statunitense del termine mafia. Sotto la sua insegna la Commissione unificò fenomeni non necessariamente connessi tra  di  loro:  l’accresciuto  potere  del  gangsterismo  etnico  di  origine  italiana/siciliana  nelle  grandi  città  dell’Est,  il rinnovato  attivismo  postbellico  di  bande  di  narcotrafficanti  siciliane  e  siculo­americane.  Per  dovere  d’ufficio,  il Narcotic Bureau sottolineava soprattutto il secondo pericolo. In un volume direttamente ispirato dall’agenzia, prefato dal  suo  stesso  gran  capo  Anslinger,  la  mafia  fu  descritta  come  una  potenza  nemica  intenta  a  pompare  veleni  verso l’America, una creatura sempre uguale a se stessa fatta di «tradizione» e di aliena «filosofia»; il cui gran capo era un siciliano di vecchia scuola, da chiamarsi non Charlie Luciano ma don Salvatore Lucania, per sottolineare come non fosse diverso dal suo avversario d’un tempo, Giuseppe Masseria, e dai suoi attuali colleghi di Sicilia62. Segnaliamo  che  nel  frattempo  Luciano  continuava  a  puntare  sull’immagine  opposta,  quella  del  gangster americanizzato. Un suo connazionale – che soggiornava per ragioni di lavoro nella Napoli di metà anni cinquanta – lo dipinge  intento,  nel  ristorante  di  sua  proprietà,  a  firmare  autografi  ai  marinai  americani  della  base  Nato,  a  farsi fotografare  accanto  a  qualche  ufficiale,  tra  parole  di  disprezzo  per  il  paese  barbaro  in  cui  è  stato  scaraventato  e rimpianti  per  i  «vecchi  tempi»,  per  il  palcoscenico  sfavillante  che  aveva  dovuto  abbandonare  –  «Io  sono  cresciuto povero come un mucchio di spazzatura nel Lower East Side. Gli Stati Uniti mi hanno reso ricco. Devo tutto agli Stati Uniti. […] Che cosa sarebbe successo se la mia famiglia fosse rimasta in Sicilia?»63. In quegli anni, scriveva anche in America per lamentare la persecuzione cui lo sottoponeva l’antidroga statunitense. A chi si rivolgeva? A colui che in antico era stato il suo arcinemico, Thomas Dewey. Conclusione.  Nel  1948,  stando  agli  informatori  del  Narcotic  Bureau,  Luciano  si  incontrò  a  Palermo  con  Carlo Gambino,  arrivato  segretamente  dagli  Stati  Uniti,  e  con  il  fratello  di  costui,  Paolo,  da  qualche  tempo  tornato  in patria64.  Il  riferimento  ai  due  boss,  quello  esiliato  e  quello  emergente,  personalizzava  un  meccanismo  forse  più generale nel quale qualcuno forniva l’eroina, e qualcun altro – utilizzando come corrieri i soliti emigranti clandestini – la faceva giungere a New York. L’agente  Charles  Siragusa,  che  dal  Bureau  venne  messo  alle  calcagna  di  Luciano,  puntò  il  dito  sulle  industrie farmaceutiche  del  Nord  Italia,  una  sorta  di  «filone  aurifero»  cui,  anche  sfruttando  qualche  vuoto  legislativo,  i trafficanti potevano attingere con relativa facilità; lo stesso cui, come si ricorderà, aveva attinto Vito Genovese prima della guerra. Quanto alle relazioni di cui l’antico boss poteva fruire in Sicilia, sappiamo che venne coinvolto in due importanti  affari  sviluppatisi  a  Palermo  sul  finire  degli  anni  quaranta:  la  costruzione  dell’ippodromo  cittadino  e  la vendita all’Università del Parco d’Orleans, complessa operazione da cui gli ex gabellotti del fondo ricavarono grandi profitti poi reinvestiti nel mercato dell’eroina. Tra gli altri, vi partecipava il corleonese Angelo Di Carlo, che aveva

fatto  anche  lui  carriera  in  America65.  Stando  alla  guardia  di  finanza  italiana,  questa  banda  di  narcotrafficanti comprendeva Pietro Davì, detto Jimmy l’americano perché ritornato nel 1934 dagli Stati Uniti, personaggio che già abbiamo visto attivo nel settore nell’anteguerra, già da allora considerato socio di Luciano; e che era il genero di Nick Gentile. Su  tutto  questo  torneremo.  Segnaliamo  invece  ora  i  risvolti  paradossali  del  caso  Luciano.  Era  stato  o  era  stato considerato  il  boss  dei  boss,  il  suo  arresto  aveva  segnato  la  clamorosa  vittoria  della  legge  sulla  criminalità  e  sulla corruzione politica. Poi era stato coinvolto nel gioco dei servizi segreti in tempo di guerra, e qualcuno l’aveva dipinto come  un  grande  patriota.  Qualcun  altro,  va  detto,  non  ci  aveva  creduto  per  nulla.  Di  seguito,  l’America  l’aveva liberato decenni prima della scadenza della sua pena, e l’aveva messo fuori dalla portata del proprio potente braccio. Ora lo indicava nuovamente come l’arcinemico che dal vecchio mondo minacciava con la droga la salute e la moralità dei suoi giovani. Paradosso su paradosso, come in un lontano passato accuse di lassismo vennero rivolte alla polizia italiana,  cui  un  superpoliziotto  con  specifiche  competenze  in  cose  siciliane  replicò  che  Lucania  si  era  guadagnato  i gradi sul suolo americano, che erano stati gli americani a spedire quel delinquente che giudicavano «così pericoloso» in Italia, non si sapeva per quale motivo «misterioso». «Forse in conto riparazioni di guerra»?66 Comunque  il  governo  italiano,  se  non  era  allarmato  dal  commercio  di  stupefacenti  tutti  destinati  a  un  consumo americano,  non  poteva  che  mostrarsi  rispettoso  di  ogni  richiesta  proveniente  dal  potente  alleato,  e  si  regolò  in conseguenza offrendo ogni collaborazione. 1 Appunto del 12 gennaio 1943, in FBI Files, Carlo Tresca, f. 5. 2 Il discorso di Taddei è riportato sia in versione inglese che in versione italiana nell’opuscolo The Tresca Case, in  FBI Files, Carlo Tresca. La

vicenda del contrasto tra Tresca, Pope e Garofalo è qui ricostruita in molti documenti FBI: scelgo il Memorandum del 13 gennaio 1943. 3 The Assassination of Carlo Tresca, in particolare pp. 10­1 e 16, in FBI Files, Carlo Tresca, f. 6. 4 La ricostruzione è di Kwitny 1979. 5 Si chiamava John C. Montana, ed era nato nel 1893 a Montedoro, provincia di Caltanissetta. Una pregevole ricognizione della struttura della Famiglia di Buffalo è quella del detective Michael Amico in McClellan Hearings, pp. 585­614; su Montana cfr. in particolare le pp. 589­93. 6 Scheda Fbi del 23 dicembre 1957, p. 9, in FBI Files, Charles Gambino. 7 FBI Files, Mafia Monograph, p. 82. Si veda anche C. Grutzner, Business Leaders, Mafia Firm, in «New York Times», 17 aprile 1965. 8 L’esercito dovette ammettere che le sue competenze erano state utilizzate nell’addestramento di scaricatori: S. Bohem, Murder, Inc. Ace Now Army Top Sergeant, in «New York Journal», 28 settembre 1943. 9 Memorandum Fbi del 22 marzo 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 2. 10 E poi riutilizzata in Campbell 1977. 11 Ibid., p. 65 e passim. 12 Ibid., pp. 89­110. L’avvocato di Luciano si chiamava Moses Polakoff. 13 Così uno degli uomini di Haffenden, Felix Sacco, intervistato nell’articolo Navy Officer Insists Lucky Luciano Aided War Effort, in «New York World­Telegram», 26 febbraio 1947. 14 Bell 1964, p. 163. 15 Memorandum Fbi del 22 marzo 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 4. 16 Si chiamava Harry Bridges: Campbell 1977, pp. 121­3. 17 L’agente E. E. Conroy a Hoover, 1° marzo 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 3. 18 Era Michael Kennedy, che pure era inviso a Roosevelt. Cfr. Wolf ­ DiMona 1974, pp. 133­47. Anche  FBI Files, Mafia Monograph, p. 58, e Bell 1964, p. 132 e passim. 19 Il giudice si chiamava Thomas Aurelio. Moore 1974, p. 197. 20 Lo fece nel corso delle udienze della Commissione Kefuver (il narcotrafficante si chiamava August del Grazio): Kefauver 1951, p. 48. 21 Gosch ­ Hammer 1975, pp. 255 sgg. 22 E. E. Conroy a Hoover, 1° marzo 1946 cit., p. 2. 23 Memorandum Fbi del 22 marzo 1946, in FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 4. 24 Corvo 1990, pp. 22­3. 25 Gosch ­ Hammer 1975, pp. 60­1 e 267. 26 D’Este 1990, p. 482; Mangiameli 1994; Patti 2013. 27  D’Este  1990,  p.  485.  Anche  la  testimonianza  di  Corvo  1990,  pp.  62  sgg.,  sul  caos  in  cui  si  trovarono  gli  ufficiali  dell’Oss  arrivati  sulle spiagge al seguito della prima ondata sembra escludere una gestione pianificata degli aspetti militari, spionistici e politici dell’operazione Husky. 28 Secondo Pantaleone 1960, pp. 48 sgg., aerei alleati nei giorni precedenti l’invasione avrebbero lanciato foulard sul paese ricamati con una «L»  come  Luciano,  precedendo  l’arrivo  nell’abitato  di  ufficiali  americani  incaricati,  sempre  nel  nome  di  Luciano,  di  coordinare  le  operazioni militari  con  don  Calò.  Tutt’altra  la  versione  dello  storico  villalbese  che  abbiamo  anche  in  precedenza  citato,  Lumia  1990,  II,  pp.  428­30:  gli americani presero Vizzini a bordo di un loro mezzo per farsi mostrare l’ubicazione di campi minati, e poi lo scaricarono in campagna senza troppi complimenti. 29 Così non ne trovano Mangiameli 1987 e 1994; Renda 1987, III; Patti 2013.

30 A me è nota la sua parte pubblicata da Tranfaglia 2004. 31 Poletti 1993, pp. 21 e 23. Lasciata la Sicilia, Poletti divenne governatore di Roma e di altre zone dell’Italia liberata. Su di lui si sono nel

tempo  moltiplicate  le  storie  anche  molto  fantasiose,  come  quella  che  lo  vorrebbe  paracadutato  in  Sicilia  prima  dello  sbarco  per  sottoscrivere  il pactum sceleris con la mafia. 32 Mangiameli 1987, p. 499. Come Mangiameli sottolinea, queste critiche non indicavano certo un più democratico progetto di governo della Sicilia.  Anzi  il  senior  partner  britannico  spingeva  l’Amgot  a  puntare  sulle  cosiddette  gerarchie  naturali  della  società  siciliana:  la  Chiesa  e l’aristocrazia. Max Corvo e altri dirigenti siculo­americani dell’Oss erano convinti viceversa della necessità di un’epurazione antifascista. Si veda in particolare il rapporto 14 dicembre 1943, firmato Vincent Scamporino, in Tranfaglia 2004, pp. 99­106 e in particolare p. 101. 33 Uno si chiamava Maeder Monroe, l’altro Max Brod: Gentile 1993, pp. 163­4. 34 Legione territoriale dei Carabinieri reali di Palermo, Elenco dei capi mafia e dei mafiosi più in vista, 4 settembre 1943, pp. 4 e 6, in ACS, ACC, bobina 689c, scat. 140, 143/28: Mafia. 35  Relazione  del  Cao  W.  Sullivan  al  colonnello  W.  R.  Jordan,  10  dicembre  1943,  p.  1,  ibid.  Il  sindaco  si  chiamava  Santomauro.  Una documentazione ampia e analitica sui casi dei paesi di Godrano, Prizzi, Bolognetta, Montemaggiore Belsito, oltre che appunto Villafrati, in  ACS, ACC, file Mafia. 36 Lo Bianco 1999, p. 71. 37  Anche  l’ufficio  palermitano  dell’Oss  si  chiedeva  se  mafia,  grazie  alla  sua  natura  interclassista,  potesse  essere  capace  «di  sopprimere  il mercato nero e di influenzare i contadini»: relazione del 13 agosto 1943, in Tranfaglia 2004, pp. 91­9 e in particolare p. 94. 38 Rapporto Scotten, p. 626. 39 Stando a Gaja 1962, p. 145, erano 62 su 76; percentuale analoga già nel Rapporto Scotten, p. 627. 40 Mangiameli 1987, p. 502, e la lettera di Finocchiaro­Aprile del 4 dicembre 1943 cit. da Renda 1987, p. 69. Questa documentazione si accorda (stavolta) con la versione data da Poletti 1993, p. 25. 41 Cito un po’ a caso: Giuseppe Genco Russo, Michele Navarra, Paolino Bontate, Salvatore Greco «ciaschiteddu», Tommaso Buscetta. 42 Si veda al proposito la disamina di Miller 1993, pp. 201 sgg. 43 Gentile 1993, p. 165. 44 Intervista del dirigente dell’ufficio palermitano dell’Oss, Joseph Russo, nella trasmissione Bbc, Gli Alleati e la mafia, ed. trasmessa dalla Rtsi (Radiotelevisione svizzera di lingua italiana) il 6 luglio 1993. 45 Rapporto Oss del 5 aprile 1945, in Tranfaglia 2004, pp. 157­9, e in particolare p. 159. 46 Rapporto Oss del 27 aprile 1944, ibid., pp. 117­22, in particolare p. 117. 47 Rapporto Scotten, p. 627. 48 Montanelli 1955. 49 Mangiameli 1987, p. 354. 50 «La voce comunista», 30 settembre 1944, cit. da Mangiameli 1987, p. 553. 51 B. Mattarella, Niente equivoci, niente speculazioni, in «Il Popolo», 24 settembre 1944, cit. ibid., p. 555. 52 Alessi 1984. 53 Spanò 1978, p. 89. 54 Luciano Plea Cities His Aid to US Armies, in «New York Times», 23 maggio 1945. 55 Rispettivamente, Memorandum 15 aprile 1946, in  FBI Files, Charles «Lucky» Luciano; e E. E. Conroy a Hoover, 1° marzo 1946, ivi, pp. 3 e 9. 56 Campbell 1977, p. 2. 57 E. E. Conroy a Hoover, 1° marzo 1946, in  FBI Files, Charles «Lucky» Luciano, p. 3; R. Carter, The Strange Story of Dewey and Luciano, in «The Daily Compass», 4 settembre 1951. La tesi è stata poi riproposta da Poletti: Poletti 1993, p. 21. 58 B. Andrews, Myth of Luciano’s Aid to the War Deflated by US Action on Drugs, in «New York Herald Tribune», 22 febbraio 1947. 59 Così Kefauver 1951, p. 48. 60 Ad esempio Carter, The Strange Story of Dewey and Luciano cit. 61 Ricordo però che noi conosciamo oggi questi documenti e le tesi di Herlands attraverso Campbell 1977. Si procedette poi senza esclusione di colpi, in accese discussioni di stampa: citiamo tra gli altri contributi, nella corrente favorevole a Dewey, Feder ­ Joesten 1954. 62 Sondern Jr. 1959. Qui si negava recisamente che il gangster avesse fornito un qualche aiuto alle operazioni belliche sul versante siciliano, mentre ci si manteneva sul prudente per quanto riguardava quello newyorkese. 63 Davis 1993, p. 123. 64 Testimonianza di John T. Cusack del Narcotic Bureau (1958), collazionata nella scheda Fbi del 13 marzo 1959, pp. 30­3, in FBI Files, Charles Gambino. 65 Antimafia, Relazione Zuccalà. Un altro nome: Antonino Sorci. Della società faceva parte Rosario Mancino, ex scaricatore di porto divenuto esportatore di agrumi e procacciatore di eroina mediante canali libanesi. 66 Relazione del prefetto Angelo Vicari al ministro degli Interni, Roma, 12 maggio 1951, in Antimafia, Doc.,  IV, t.14, parte  II, pp. 947­51 e in particolare p. 949.

IX. Il lungo armistizio, 1946­1960

Nel  corso  della  prima  età  repubblicana,  diciamo  dal  1946  al  1960,  il  governo  nazionale  fu  ininterrottamente controllato dalla Democrazia cristiana; quello della Regione siciliana «a statuto speciale» parimenti toccò alla Dc. La sinistra  socialcomunista  venne  sospinta  all’opposizione.  E  la  discussione  sulla  mafia  venne  inserita  nel  grande contenzioso  della  guerra  fredda.  Sul  versante  filo­governativo,  a  livello  regionale  (e  anche  nazionale),  in  tanti dicevano:  in  Sicilia  c’è  delinquenza  come  dappertutto,  il  resto  rappresenta  solo  una  grossolana  calunnia,  una  delle menzogne dell’arci­nemico comunista. Il più autorevole rappresentante di questa posizione era il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, che pure era mantovano di nascita1. Fu in questo nuovo contesto che venne riproposto l’argomento antico dalla classe dirigente isolana: la mafia non è un’organizzazione criminale, ma un comportamento, il residuo di un’arcaica cultura anti­statalista, che nell’immediato non è contrastabile dall’autorità e sul lungo periodo si dissolverà da sé. Il  precedente  dell’antimafia  fascista  appariva  ormai  remoto.  Sul  versante  dell’opposizione  si  fece  strada  l’idea  – molto  diffusa  tutt’oggi  –  di  una  naturale  tolleranza  dello  Stato  e  delle  forze  conservatrici  verso  la  mafia.  Se  i conservatori negavano l’esistenza della mafia, sembrò tipicamente progressista il solo parlarne. 1. Portella. Alla banda Giuliano si attribuiscono diverse centinaia di omicidi2. 124 furono i caduti tra gli uomini delle forze dell’ordine, di cui 98 i carabinieri: come quando una bomba anticarro fu fatta esplodere al passaggio di un convoglio a Passo di Rigano­Bellolampo, presso Palermo, facendo sette morti; o in agguati come quello in cui a Partinico cadde il tenente  colonnello  Luigi  Geronazzo.  Venne  uccisa  gente  comune,  supposti  informatori,  persone  che  in  vari  modi ostentavano la propria autonomia nelle zone che Giuliano sentiva come proprie. Il delitto più tristemente celebre fu quello del primo maggio del 1947. La banda, attestata su un’altura, aprì il fuoco con una mitragliatrice pesante, sul pianoro di Portella della Ginestra (vicino Piana degli Albanesi) assassinando 11 persone e ferendone molte altre: erano socialisti e comunisti provenienti da Piana e dai paesi vicini, che con le loro famiglie, donne e bambini, festeggiavano la Festa del lavoro. Fu un atto di feroce terrorismo politico, che molti hanno ricondotto alla stessa misteriosa volontà stragista destinata a insanguinare l’Italia negli anni settanta. A me sembra che il 1947 e il 1969 (strage di piazza Fontana) siano tra loro troppo distanti nel tempo, perché si possa ragionevolmente pensare a un’unica sequenza. Credo sia importante che il dramma  di  Portella  non  venga  decontestualizzato:  che  lo  si  mantenga  cioè  ben  ancorato  ai  conflitti  politici  locali, regionali, nazionali del suo tempo3. Politica  locale.  C’era  quella  di  Piana  degli  Albanesi,  comunità  dotata  per  definizione  di  una  propria  specifica identità, etnica (albanese, per l’appunto) e religiosa (di rito greco); che in quel secondo dopoguerra stava rinverdendo la propria tradizione rossa. Quanto alla tradizione, però, bisogna ricordare anche quella che nel dopoguerra precedente aveva portato i mafiosi di Piana ad assumere direttamente il potere con Ciccio Cuccia, assassinando diversi socialisti. E naturalmente c’era anche la politica locale di Montelepre, paese natale di Giuliano. I compaesani non mancavano di fornirgli  rifugio,  e  reclute  per  le  sue  imprese  di  morte;  in  cambio,  lui  raccomandava  ai  suoi  di  lasciare  in  pace  i possidenti locali, e giocava al Robin Hood mostrandosi generoso con contadini e pastori del luogo. Politica regionale. In vista dal referendum del 1946, il Mis si divise in due parti, l’una maggioritaria monarchica, guidata  da  Finocchiaro­Aprile  e  Tasca;  l’altra  molto  minoritaria,  repubblicana,  guidata  dall’avvocato  Antonino Varvaro4.  In  effetti  il  2  giugno  gli  elettori  siciliani  si  pronunciarono  a  larga  maggioranza  per  la  monarchia, contemporaneamente  premiando  (nelle  elezioni  per  l’Assemblea  costituente)  vari  movimenti  di  destra  oltre  che  la Democrazia cristiana, e punendo i due partiti di sinistra (comunisti e socialisti). Però, sommati, i due gruppi in cui si era diviso il Mis non andarono oltre il 10% dei voti. Non erano mai stati rappresentativi della volontà popolare come da tre anni pretendevano, e di certo erano entrati in una fase calante. Giuliano non mostrò gran fiuto politico. Diede indicazioni agli elettori di Montelepre di votare per Varvaro, insomma, per l’ala perdente del partito perdente. Disaggreghiamo  il  dato  elettorale  siciliano.  Il  voto  per  la  monarchia  fu  schiacciante  nelle  grandi  città  (Catania, Messina e Palermo), mentre la repubblica conseguì risultati incoraggianti in provincia e nelle aree rurali. Qui infatti

era  già  partita  la  nuova  ondata  di  lotte  bracciantili  e  per  la  terra,  incoraggiata  dai  governi  di  unità  nazionale  con  i decreti Gullo. Le cose cambiavano rapidamente e la situazione in cui nell’aprile del 1947 si tennero le prime elezioni per  la  neo­istituita  Regione  autonoma  era  già  diversa  da  quella  dell’anno  precedente.  L’alleanza  tra  i  due  partiti  di sinistra  sfiorò  il  30%  dei  suffragi,  superando  la  Dc  attestatasi  al  20%.  Però  rimase  pur  sempre  ben  dietro  l’area variegata della destra, giunta al 40%. Attenzione dunque: nel maggio 1947 non era in vista (come spesso si dice) una conquista della sinistra del governo regionale, ma un accordo delle destre con la Democrazia cristiana. Giuliano  era  intelligente  ed  energico,  ma  alquanto  ignorante;  né  poteva  aspettarsi  grande  aiuto  intellettuale  dai membri  della  banda,  tra  cui  c’era  un  solo  elemento  istruito,  suo  cognato.  Fino  ad  allora  era  stato  «nelle  mani»  dei maggiorenti del Mis, che come sappiamo nel 1945 l’avevano arruolato nell’Evis, e gli avevano fatto ogni genere di promesse  per  il  caso  che  le  cose  si  fossero  messe  bene.  Ora  magari  si  sentiva  isolato,  avendo  puntato  sul  cavallo sbagliato (Varvaro). La strage ebbe dei mandanti politici? Sarebbe logico cercarli nell’area della destra, interessata a una  radicalizzazione  dello  scontro,  che  giustificasse  la  creazione  di  un  largo  fronte  anticomunista.  Proprio  mentre stava per muovere verso Portella, Giuliano stesso lasciò intendere ai suoi accoliti che seguiva indicazioni superiori: ricevette un biglietto, ne sintetizzò il contenuto davanti ai suoi (ammazzando i comunisti «avrebbero conquistato la loro  libertà»),  anche  se  poi  lo  bruciò  (senza  rivelare  chi  glielo  avesse  inviato).  Però  non  escluderei  del  tutto  che bluffasse.  Magari  pensava  che,  prima  o  poi,  qualcuno  gli  sarebbe  stato  riconoscente,  promuovendo  un’amnistia analoga a quella emanata da Togliatti appena l’anno prima. Il cardinale Ruffini, già autorevole rappresentante dell’ala filo­monarchica della gerarchia, scrivendone al papa del giugno  1947,  si  riferì  alla  strage  dicendo  «inevitabile  la  resistenza  e  la  ribellione  di  fronte  alle  prepotenze,  alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti»5. Questa sua sconcertante protervia sarà  certo  stata  condivisa  a  destra.  E  Giuliano  guardava  in  quella  direzione.  Moltiplicò  gli  attacchi  alle  Camere  del lavoro  in  provincia  di  Palermo,  il  più  sanguinario  dei  quali  fu  diretto  contro  quella  di  Partinico.  Fece  circolare messaggi  in  cui  si  diceva  dispiaciuto  di  dover  colpire  i  carabinieri,  forze  «devote  al  nostro  Re»,  mostrandosi determinato a concentrare i suoi attacchi contro gli «agenti di Ps, che parte sono partigiani (traditori e assassini degli italiani)»6. A  Giuliano  può  essere  riconosciuta  la  qualifica  di  bandito  politico  e  anche  mediatico.  Ospitava  sulle  montagne giornalisti, e soprattutto giornaliste straniere. Era anche un bell’uomo, il che non guastava; e girava con una macchina fotografica, con l’idea di rendere pubbliche le immagini delle sue imprese. Indirizzava ai giornali lettere più o meno sgrammaticate,  per  rivendicare  le  proprie  azioni.  Ne  scrisse  una  addirittura  al  presidente  Truman,  in  cui  si  diceva militante  di  un  «partito  antibolscevico  pronto  a  tutto»  pur  di  non  cadere  sotto  il  giogo  di  Stalin,  e  chiedeva l’annessione agli Stati Uniti. Per tutti questi aspetti era ben diverso dai suoi predecessori dell’Ottocento o del primo Novecento, dall’Antonino Leone che impazzava intorno al 1876 nell’area di Termini Imerese o dal Gaetano Ferrarello che  dominava  le  Madonie  nel  1923.  Prese  anche  esplicitamente  le  distanze  da  quest’ultimo  in  un’altra  lettera indirizzata a Scelba, in occasione dell’arresto di sua madre e di sua sorella: riferendosi a «quei miserabili dei mafiosi del  ’26»  che  si  erano  consegnati  per  evitare  rappresaglie  sulle  loro  famiglie,  dichiarando  che  quegli  sleali  metodi polizieschi non avrebbero piegato lui, il grande guerrigliero7. Veniamo alla mafia, dunque. Giuliano, come abbiamo detto a suo tempo, sin dalla sua prima clamorosa impresa si mostrò  in  un  buon  rapporto  con  quella  di  Monreale.  Tommaso  Buscetta  e  altri  «pentiti»  di  fine  Novecento  hanno affermato che era lui stesso un mafioso, un «uomo d’onore» regolarmente affiliato alla Famiglia guidata dal Salvatore Celeste – che noi abbiamo già incontrato come capo­mafia di San Cipirello8. Può darsi, però non è questo il punto. Alla fine della guerra, Giuliano disponeva di una grande forza militare, di proprie influenti relazioni politiche, di un enorme fascino. Non possiamo immaginarlo come un mero strumento della mafia, e neanche importa se formalmente fosse il gregario di qualche Famiglia. Si trattava di un grande capo­banda, legittimato da una scelta politica, baciato dal successo. Buscetta racconta una storia che può essere vera o meno, ma comunque è indicativa del fascino che sugli elementi di mafia esercitava la figura di Giuliano. L’avrebbero incontrato nel 1947, lui e Salvatore Greco «ciaschiteddu», due giovani  rappresentativi  di  due  modelli  diversi  di  mafioso.  Buscetta  (1928­2000)  aveva  19  anni,  e  veniva  da  una famiglia  di  artigiani  residente  nel  centro  storico  di  Palermo,  priva  (a  quanto  sembra)  di  agganci  nel  mondo dell’onorata  società.  Era  stato  da  poco  affiliato  alla  Famiglia  palermitana  di  Porta  Nuova,  e  sarebbe  di  lì  a  poco emigrato in Argentina e in Brasile, dedicandosi (almeno così ha detto) alla stessa attività paterna, la fabbricazione di specchi.  Salvatore  Greco  aveva  ventiquattro  anni  (era  nato  nel  1923),  e  apparteneva  a  nobile  schiatta  mafiosa, solidamente insediata nella borgata di Ciaculli, sezione orientale dell’agro palermitano. Già studiava da boss. Giuliano avrebbe  proposto  ai  due  di  prendere  le  armi  al  suo  fianco,  in  difesa  della  Sicilia  oppressa,  Buscetta  si  sarebbe entusiasmato, Greco avrebbe lasciato cadere l’offerta pur dimostrando il dovuto rispetto per chi la faceva9.

Diciamo che, nel raccontare questa storia, Buscetta mostra una considerazione per la politica che nel raccontare le storie del dopo non mostrerà mai più. In effetti la mafia, schierandosi col e nel Mis, assunse tra guerra e dopoguerra una  politicità  che  non  aveva  mai  avuto  e  non  avrebbe  avuto  più.  La  versione  della  strage  di  Portella  fornita  da Buscetta,  ad  esempio,  non  si  distacca  dalla  storiella  raccontata  a  suo  tempo  dai  separatisti,  confutata  da  tutte  le risultanze  giudiziarie.  Il  pentito  spiega  che  l’intento  di  Giuliano  era  meramente  intimidatorio,  che  non  voleva  certo ammazzare  donne  e  bambini  «senza  colpa»;  solo  per  un  errore  di  puntamento  di  chi  manovrava  la  mitragliatrice  i colpi caddero sulla folla invece di perdersi in aria10. Si vede quanto possa essere fuorviante l’assunzione dei racconti dei pentiti come fonte storica: ingigantisce il rischio di assumere il loro stesso punto di vista, sempre glorificante una qualche  mafia  «buona»  del  passato.  A  credere  a  Buscetta,  ad  esempio,  mai  la  mafia  fu  ostile  ai  comunisti  e  al movimento contadino. Perché avrebbe dovuto? 2. Una trattativa Stato­mafia. Noi invece capiamo bene il perché la mafia si ancorò al fronte anticomunista e conservatore, ribadendo a Portella, con  ben  maggiore  ferocia,  la  scelta  fatta  tre  anni  prima  a  Villalba  con  l’attentato  a  Li  Causi.  Forse  gli  eventuali mandanti  si  compiacquero  quando,  nello  stesso  maggio  1947,  a  Roma  De  Gasperi  pose  termine  all’esperienza  dei governi di unità nazionale rompendo con entrambi i partiti di sinistra; e rimediando col voto di qualche qualunquista una  risicata  maggioranza  nell’Assemblea  costituente.  Di  lì  a  meno  di  un  anno,  però,  la  Dc  trionfò  nelle  elezioni politiche  dell’aprile  1948.  Fece  vedere  che  non  aveva  bisogno  della  destra  su  scala  nazionale,  si  preparò  a egemonizzarla  su  scala  regionale.  In  infuocate  discussioni  parlamentari,  la  sinistra  chiese  la  formazione  di  una Commissione  d’inchiesta  accusando  il  governo  di  sponsorizzare  il  banditismo  in  funzione  antipopolare.  I  deputati centristi, e personalmente il ministro dell’Interno Scelba, rispondevano che il governo non aveva alcuna responsabilità anche perché non c’era niente di nuovo: già nel dopoguerra precedente la parte occidentale dell’isola era stata affetta da un grave banditismo. Adesso la situazione stava migliorando: nel 1946 gli omicidi erano stati 1726, nel 1947 erano calati a 722, nel 1948 erano stati 49811. Si trattava pur sempre di cifre imponenti. Comunque l’Italia, andando verso la normalizzazione,  pensò  fosse  venuto  il  momento  di  farla  finita  con  Giuliano,  scheggia  impazzita  proveniente  dal passato. Ma non era un compito di facile realizzazione. Le  forze  messe  in  campo  dalla  Repubblica  coincidevano  singolarmente  con  quelle  a  suo  tempo  schierate  dal regime fascista. Fino all’estate del 1949, a coordinarle fu l’Ispettorato di Ps, ribattezzato Ispettorato generale di Ps per la  Sicilia,  nel  quale  ancora  erano  chiamati  a  collaborare  polizia  e  carabinieri.  Ripercorriamo  la  vicenda  di quest’istituto, che largamente coincide con la caccia a Giuliano. Fu inizialmente affidato a un poliziotto formatosi alla scuola  di  Mori,  Ettore  Messana,  il  quale  (al  pari  di  Gueli)  si  era  fatto  un’esperienza  di  polizia  politica  tra  Venezia Giulia  e  Slovenia,  distinguendosi  durante  la  guerra  nella  repressione  del  movimento  partigiano  slavo12.  Messana,  e anche  i  suoi  successori,  riproposero  i  metodi  di  Mori  e  dei  predecessori  di  Mori,  giù  giù  sino  all’Ottocento postunitario.  Nelle  sue  memorie,  il  già  citato  maresciallo  dei  carabinieri  Lo  Bianco,  che  pure  era  un  veterano dell’Ispettorato, definisce quei metodi incompatibili col nuovo clima di democrazia. Prevedevano arresti indiscriminati di cittadini di Montelepre, operati senza criterio, che venivano tenuti incatenati per ore all’aperto, sotto il sole  cocente,  appoggiati  ai  muri  delle  abitazioni  con  minacce  di  confino  di  polizia  e  che  non  ebbero  altro  risultato  che  di esasperare la popolazione e di esasperare le reazioni del bandito13.

L’altro corno della strategia di Messana riproponeva anch’esso modelli antichi, risalenti quanto meno a Malusardi. Scrisse già all’inizio del 1946: «Se Giuliano non cadrà ben presto nelle mani della giustizia dovrà rimanere vittima della mafia. […] In questi giorni, non è strana coincidenza, non pochi malfattori, alcuni di essi noti capibanda, sono stati  trovati  uccisi»14.  Il  funzionario  ex  fascista  che  rappresentava  lo  Stato  democratico  faceva  appello  alla  mafia d’ordine, le chiedeva di fare il proprio mestiere15. Negli intrighi che ne seguirono, si palesò incoercibile il dualismo  tra  polizia  e  carabinieri.  Messana  trattava  con Vincenzo  Rimi,  capo­mafia  di  Alcamo,  che  però  era  in  buone  relazioni  anche  con  i  carabinieri;  dunque  il  capo dell’Ispettorato  decise  di  puntare  su  Salvatore  Ferreri  detto  Fra’  Diavolo,  membro  della  banda  Giuliano  in  odor  di dissidenza. Fra’ Diavolo, seppur fornito di un salvacondotto appunto firmato Messana, fu intercettato dai carabinieri ad Alcamo (sembra per una soffiata proveniente dai Rimi), catturato dopo un sanguinoso conflitto a fuoco, e portato in caserma,  dove  di  lì  a  poco  morì  misteriosamente  nel  corso  di  una  «colluttazione»  con  l’ufficiale  comandante.  Un incidente? O il frutto tossico della concorrenza tra due polizie?16 Per  bocca  di  Li  Causi,  i  comunisti  definirono  Messana  «capo  del  banditismo  politico».  Comunque  neanche  il governo poteva esserne contento, e fu destituito. Dopo qualche tempo la guida dell’Ispettorato fu affidata a un altro

allievo di Mori a noi noto, Spanò. Negli anni venti aveva avuto anche lui i suoi bravi contrasti coi carabinieri, e anche adesso non ne aveva un’opinione gran che migliore17. Era anche lui un sostenitore dell’opportunità di accordarsi con la mafia, e cercava di riattivare i propri antichi contatti nelle Madonie. Questi però erano appunto troppo antichi e non lo portarono da nessuna parte. Dovette mollare (gennaio 1949). Gli successe un terzo super­poliziotto, Ciro Verdiani, il quale nell’agosto di quello stesso anno incappò nell’eccidio dei carabinieri di Bellolampo, e finì destituito pure lui. Stavolta  l’Ispettorato  venne  chiuso.  Prese  il  suo  posto  un  nuovo  organismo,  il  Comando  forze  repressione banditismo (Cfrb), affidato al comando del colonnello dei carabinieri Ugo Luca. I carabinieri avevano pagato il prezzo più duro alla ferocia di Giuliano e all’inefficienza dell’Ispettorato. Dunque toccava a loro. Però Verdiani, costretto a passare la mano, continuò a sviluppare indagini in proprio, certo col sostegno di qualche sponsor  governativo.  La  sentenza  del  Tribunale  di  Viterbo  (1952)  avrebbe  definito  i  suoi  intrighi  «inusuali  e abnormi». Nel dicembre del 1949 si incontrò addirittura personalmente con Giuliano, il quale l’aveva fatto prelevare da un’automobile a Marsala, e portare in una casa di campagna presso Castelvetrano. Erano presenti anche Gaspare Pisciotta,  cugino  e  luogotenente  del  capo­banda,  e  non  meglio  indentificati  capimafia.  Il  superpoliziotto  portò panettone e vari tipi di vino. Fu prodigo di promesse relative alla madre del suo ospite (che era in prigione) e lasciò intendere che avrebbe favorito l’espatrio dei banditi18. In  Parlamento,  i  ministri  dichiaravano  che  nulla  di  grave  stava  accadendo,  ma  agli  uomini  del  governo  che  si trovavano sul campo la situazione appariva molto grave. Carlo Alberto Dalla Chiesa (1920­1982), allora capitano dei carabinieri assegnato al Cfrb, pensava che l’arrivo di Luca avesse segnato una svolta: Nell’estate  del  1949  le  forze  dell’ordine,  dal  tramonto  al  mattino,  erano  giunte  a  trincerarsi  nelle  loro  caserme,  in  attesa dell’attacco dei banditi, [di modo] che, durante l’intera notte, centri urbani e campagne di quella vastissima plaga rimanevano di fatto nelle mani dei malfattori. […] Tale rinunzia dello Stato e della sua legge cessò con la costituzione e l’attività del Corpo Forze di Repressione del Banditismo al comando del colonnello dell’Arma, Ugo Luca19.

Precisiamo.  La  costituzione  del  Cfrb  coincise  con  l’abbandono  delle  più  scriteriate  incursioni  militari  nelle montagne intorno a Montelepre, che fino a quel momento avevano solo dato la possibilità a Giuliano di tendere con successo i suoi agguati. Luca puntò sull’intelligence, il ramo di cui era esperto: aveva tra l’altro lavorato per il Sim in sostegno del corpo di spedizione fascista nella guerra civile spagnola. Era anche lui (a dir poco) un conservatore, che al  governo  chiedeva  l’applicazione  generalizzata  del  codice  di  guerra,  e  più  che  altro  polemizzava  con  i socialcomunisti.  Costoro  accusavano  il  Cfrb  di  puntare  alla  «collaborazione  della  mafia»?  Si  trattava  di  una «menzogna»,  rispondeva  indignato20.  Invece,  ovviamente,  era  proprio  vero.  Diciamo  che  il  colonnello  seppe realizzare quel progetto meglio dei suoi predecessori. Luca  rimise  al  lavoro  il  maresciallo  Lo  Bianco  e  il  superiore  di  costui,  colonnello  Giacinto  Paolantonio,  che avevano abbandonato la prima linea per contrasti con Verdiani. E i due puntarono nella direzione giusta, la mafia di Monreale,  nelle  persone  di  Benedetto  Minasola  detto  Nitto,  e  di  Ignazio  Miceli.  Già  prima  della  guerra  (ci  dice  il rapporto dell’Ispettorato del 1938) il duo svolgeva nella cosca paesana un ruolo importante, con le dovute differenze di status: Miceli (che era un imprenditore agricolo) era dipinto come il «capoccia», Minasola (professione ufficiale: «vaccaro») come un gregario21. Nel 1949­50, mentre Miceli restava prudentemente sullo sfondo, fu Minasola a far sì che  parecchi  banditi  cadessero  nella  rete  stesa  da  Lo  Bianco.  Poi  i  mafiosi  misero  in  contatto  i  carabinieri  con Pisciotta, portandoli a due passi dal capo­banda. Nel frattempo il clima di rissa tra istituzioni faceva sì che Verdiani desse l’impressione di voler sabotare il lavoro di Luca. Evidentemente non era ininfluente chi sarebbe arrivato al bandito, e alla sua valigia di segreti. Alla fine Luca giunse  primo,  siglando  con  Pisciotta  un  accordo  –  dei  cui  termini  lo  stesso  Lo  Bianco  sostiene  di  non  aver  saputo niente22. E fu a quanto sembra Pisciotta, il 5 luglio 1950, a uccidere Giuliano sparandogli alle spalle mentre dormiva. La vicenda insomma finì nel modo più acconcio alle storie di banditi: come era accaduto diverse volte nella Sicilia ottocentesca nonché oltreoceano, ad esempio quando (1882) Jesse James era stato eliminato da uno dei suoi uomini più fidati. Luca organizzò una messinscena per accreditare l’idea che Giuliano fosse morto in un conflitto a fuoco con i carabinieri. Ma l’acume di un giornalista fece crollare ben presto la montatura. I mandanti di Portella non furono trovati, e veramente neanche cercati, nel corso del processo celebratosi a Viterbo nel 1952 contro 46 membri della banda. La sentenza curiosamente (dal nostro punto di vista) negò la natura politica della  strage  e  delle  altre  azioni  di  Giuliano.  Per  il  resto  fu  coraggiosa,  dati  i  tempi,  nel  criticare  i  funzionari  di polizia23.  Pisciotta  ebbe  un  blando  sostegno  da  Luca,  e  insieme  allo  stato  maggiore  della  banda  fu  condannato all’ergastolo. Gridò: «Siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il padre, il figlio e lo spirito santo». Promise di svelare al più presto segreti indicibili. Bluffava? Nessuno lo seppe mai perché nel 1954, nel carcere palermitano dell’Ucciardone, qualcuno lo mise a tacere per sempre con un caffè alla stricnina.

In  conclusione.  Abbiamo  due  complotti:  il  primo  portò  alla  strage  di  Portella,  il  secondo  vide  accordarsi  o competere, nella caccia a Giuliano, fazioni mafiose e fazioni o apparati della Pubblica sicurezza, con la benedizione governativa. Credo proprio si possa parlare, per il secondo complotto, di una Trattativa Stato­mafia, facendo ricorso a un’espressione destinata a venire in auge molto più tardi nella pubblica discussione. La mafia ne uscì legittimata, fu riconosciuta come strumento d’ordine, e poté stringere chissà quali legami, chissà quanto destinati a durare nel tempo. Un’ultima  considerazione:  furono  proprio  gli  apparati  speciali  creati  dal  fascismo,  che  l’avevano  un  tempo combattuta, a invocare il suo aiuto. Il pendolo oscillava verso la collaborazione. 3. I corleonesi. La sinistra siciliana ebbe altri caduti, dopo quelli di Portella. A Corleone si rinnovò la triste tradizione cominciata con  l’assassinio  di  Bernardino  Verro,  e  nel  1948  toccò  a  Placido  Rizzotto,  ex  partigiano,  socialista,  dirigente  della Camera del lavoro. Difficile dire perché la mafia locale si sia risolta a questo passo. Per rispondere all’occupazione di qualche feudo? Per intimidire gli avversari politici locali, in un paese in cui l’alleanza social­comunista (come da tradizione) era forte e  nel  dopoguerra  controllava  l’amministrazione  municipale?  Forse,  semplicemente,  qualcuno  volle  fare  pagare  a Rizzotto  la  troppa  passione  con  cui  viveva  la  promessa  di  libertà  che  caratterizzava  il  nuovo  tempo.  Suo  padre,  un contadino  che  a  suo  tempo  era  stato  perseguito  da  Mori,  conosceva  certe  dinamiche  e  aveva  cercato  di  metterlo  in guardia. Però lui non si era fermato. E  così,  la  sera  del  10  marzo  del  1948,  mentre  stava  rientrando  a  casa,  fu  prelevato  per  strada  dall’elemento emergente della cosca, Luciano Liggio, e da due altri sicari, e scomparve. Le indagini furono meno inconcludenti che in altri casi, grazie al contributo dato dal già citato capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa, dal Cfrb incaricato di dirigere la  «squadriglia»  di  Corleone.  Il  giovane  ufficiale  apprese  che  il  corpo  di  Rizzotto  era  stato  buttato  in  una  profonda caverna di cui la mafia aveva fatto il proprio cimitero: e dove venne in effetti rinvenuto, senza però poter essere con certezza  identificato.  Alla  fine  le  prove  contro  Liggio  e  due  suoi  complici  vennero  giudicate  insufficienti  dalla magistratura. Furono assolti. Luciano Liggio (1925­1993), all’anagrafe Leggio, aveva cominciato nel 1944 come ladro di covoni di fieno, come tale  fu  sorpreso  da  una  guardia  campestre  che  lo  portò  attraverso  tutto  il  paese,  «quasi  a  calci»,  alla  caserma  dei carabinieri24. La guardia fu assassinata meno di un anno dopo. La storia potrebbe assomigliare a quella di Salvatore Giuliano,  l’esito  fu  differente.  Lucianeddu  ottenne  un  posto  di  campiere  di  un  agiato  proprietario,  dopo  che  il  suo predecessore  venne  anche  lui  assassinato.  Era  il  1945,  aveva  vent’anni.  Si  inserì  nei  circuiti  dell’abigeato  e  della macellazione  clandestina.  Forse  sin  dai  suoi  esordi  godeva  della  protezione  del  capo­mafia  del  paese,  don  Michele Navarra, forse la ottenne un po’ più tardi. Era un duro, come i giovani di cui si contornava: Salvatore Riina detto Totò (1930­2017), Leoluca Bagarella (che sarebbe diventato suo cognato), e Bernardo Provenzano detto Binnu. Su  Navarra,  Liggio  e  la  mafia  del  Corleonese  abbiamo  un  aureo  libretto,  derivante  dalla  rielaborazione  degli appunti  stesi  da  Dalla  Chiesa  nel  corso  delle  sue  indagini.  Rappresentano  un  modello  di  indagine  sulla  mafia, imperniato sulla ricostruzione di genealogie e parentele, capace di tenere insieme attività e curricula criminali, affari e posizioni professionali, appartenenze politiche. Navarra  (1905­1958)  è  figlio  di  un  geometra  nonché  professore  in  una  scuola  del  paese,  è  lui  stesso  un professionista, un medico, e anche un uomo d’affari. In questo campo ha cominciato grazie ai suoi buoni rapporti con l’Amgot,  rilevando  gli  automezzi  dell’amministrazione  anglo­americana  per  creare  un’importante  ditta  di  trasporti. Secondo Dalla Chiesa, comunque, ostenta di più la «propria cultura liceale e universitaria» che la propria agiatezza economica.  E  fa  politica:  separatista  sino  al  1947,  liberale  poi,  solo  tardivamente  democristiana.  Svolge  un  ruolo importante  nella  Coldiretti  e  nel  Consorzio  di  bonifica  dell’alto  e  medio  Belice.  Riesce  persino  a  mantenersi «aggiornato  nella  scienza  medica»;  o,  almeno,  così  pare.  Si  crea  «d’intorno  un’atmosfera  di  considerazione  che, specie nei ceti più modesti», si traduce «in rispetto o in gratitudine»25. È e vuole essere un notabile. Valutiamo  gli  effetti  di  medio  periodo  della  repressione  fascista.  Da  una  parte  è  vero  quello  che  rileva  un  altro investigatore: «dopo la retata del prefetto Mori», «la delinquenza locale organizzata cessò ogni sua attività poiché […] furono  sradicati  anche  i  congiunti  degli  appartenenti  alla  cosca»26.  Dall’altra  è  vero  anche  che  sodali  o  amici  di Navarra – le cui biografie sono esposte da Dalla Chiesa – non hanno pagato alla repressione fascista prezzi elevati. Conosciamo il meccanismo. La mafia postbellica si affida a Navarra come se si volesse ripulire: non viene da famiglia mafiosa,  né  appartiene  a  una  dinastia  di  gabellotti  come  i  boss  del  passato.  Comunque  il  quadro  un  po’  cambia  se teniamo  conto  delle  linee  di  parentela  femminili  di  Navarra:  una  sua  zia  (sorella  di  sua  madre)  è  imparentata  con Angelo Gagliano, sua moglie con Michelangelo Gennaro. Parliamo di due dei grandi gabellotti che avevano tramato

l’omicidio di Bernardino Verro e guidato il «Circolo agricolo»27. Troviamo figli dell’uno e dell’altro coinvolti nelle attività navarriane. E poi c’è Angelo Di Carlo, di cui Dalla Chiesa rileva l’appartenenza alla famiglia di Navarra in un duplice senso: è suo  cugino  e  fa  parte  dell’organizzazione.  Abbiamo  già  presentato  questo  mafioso  reduce  dagli  Stati  Uniti  come appartenente  al  giro  di  narcotrafficanti  palermitani  in  affari  con  Lucky  Luciano.  Dalla  Chiesa  sottolinea  il  legame organico tra «la mafia corleonese e quella palermitana» ben rappresentato da Di Carlo28, il carattere provinciale, oltre che paesano, dell’organizzazione, la dimensione affaristica del network che la sostiene. Liggio  non  si  contenta  di  svolgere,  in  quel  giro,  solo  la  parte  del  killer  o  del  satellite.  Mette  su  una  società armentizia grazie ai soldi di Di Carlo, che poi taglia del tutto fuori dalla sua gestione; non lesina intimidazioni anche a imprenditori protetti da Navarra; continua a far votare per un candidato liberale mentre la leadership della cosca punta ormai  sulla  Dc;  mette  su  una  ditta  di  trasporti  per  sfruttare  le  possibilità  offerte  dal  progetto  di  una  diga  cui  don Michele dimostra contrarietà29. I navarriani organizzano un attentato contro Liggio, che però fallisce. La reazione è micidiale: Navarra, che non prende alcuna precauzione, viene crivellato di proiettili (1958). La guerra culmina in una furibonda sparatoria che coinvolge «una quarantina di delinquenti da una parte e dall’altra» in pieno giorno, nel centro di Corleone, senza alcun intervento delle forze dell’ordine30. I navarriani ne escono completamente disfatti. Dalla  Chiesa  (tra  gli  altri)  interpretò  la  guerra  Navarra­Liggio  in  termini  di  contrasto  Vecchia/Nuova  mafia.  Lo schema conservava la propria capacità euristica e i propri difetti, che abbiamo già rilevato. Proviamo a scomporlo. La mafia di Navarra era (parzialmente) nuova se rapportata al pre­fascismo, ma era antica perché notabilare, fornita di una (pseudo)rispettabilità sociale, con una sua forte dimensione politica. Liggio rappresentava una mafia nuova che veniva dal basso, nella quale la capacità di erogare violenza rappresentava la parte essenziale del capitale disponibile. Non fu mai un personaggio considerato rispettabile. Teniamo conto che si mantenne latitante, con qualche intervallo, dal  1948  in  poi,  che  anche  i  suoi  (a  cominciare  da  Riina)  vissero  per  periodi  lunghissimi  in  quella  condizione. Qualcuno disse: è l’emulo della tradizione del banditismo. Non per questo dobbiamo immaginarlo come un rozzo pecoraio, come vuole un certo cliché che riguarda lui e i suoi seguaci. Come risulta da sue interviste e dichiarazioni, parlava un italiano abbastanza corretto ed era in grado di argomentare anche in pubblico. Facciamo un brusco salto in avanti. Arriviamo al 20 marzo 1989, quando il boss, già da tempo rinchiuso in prigione, concesse un’intervista televisiva al giornalista Enzo Biagi. Alla  domanda  «che  cos’è  la  mafia?»,  Liggio  risponde  che  si  tratta  di  «fandonie»,  che  lui  comunque  non  ne  sa niente. Però precisa: «leggendo vari autori che hanno parlato su ’sta parola “mafia”, e rifacendomi al Pitrè, che è uno dei grandi cultori della lingua antica siciliana, “mafia” doveva essere una parola di bellezza, come bellezza non solo fisica,  ma  anche  bellezza  come  spiritualità».  Biagi  chiede  –  «Se  è  così,  lei  non  si  offende  se  io  dico  il  mafioso Liggio?». E lui: «No, no non mi offendo… Semplicemente mi duole, credo che non ho tutta quella ricchezza spirituale e fisica di esserlo un mafioso, insomma di essere mafioso nel senso bello della parola». Liggio non era così ignorante come si dice, ma non era neanche, ovviamente, un raffinato intellettuale. Perché dunque si trovava nel 1989 a citare il testo di un grande etnologo pubblicato esattamente un secolo prima? Perché faceva parte di un’organizzazione con la memoria  lunga.  Perché  puntava  anche  lui  a  nobilitarsi  con  un  richiamo  ai  valori  della  Famiglia,  dell’Onore  e  della Tradizione – così atti a creare un ponte tra i facinorosi, le classi dirigenti, la gente comune. E torniamo al 1958. Le questioni che interessavano la gang liggiana, prima e dopo la morte di Navarra, non erano relative  tanto  a  Corleone  in  sé  quanto  alla  sua  relazione  con  Palermo,  a  «quella  catena  che,  per  la  statale  118, conduc[e] nella capitale dell’Isola»31. I liggiani d’altronde mantenevano sin dall’inizio uno stabile presidio proprio nel cuore della vecchia mafia dei giardini, in una borgata palermitana, con una ditta di trasporti affidata a Giacomo Riina, membro  della  gang  e  zio  del  Salvatore  che  vi  stava  assumendo  un  peso  sempre  maggiore.  Di  seguito,  assunsero  il capoluogo  come  base  delle  loro  attività,  divennero  una  delle  fazioni  egemoni  della  mafia  palermitana.  Non  ne capiamo l’importanza se li immaginiamo segregati nel loro paese d’origine. Non rimase segregato nella natia Corleone, ma si trasferì sin dal 1950 a Palermo, un altro personaggio di spicco della  nostra  storia,  Vito  Ciancimino  (1924­2002).  Suo  padre,  secondo  molte  fonti,  faceva  il  barbiere.  Segnalo  la versione fornita dal figlio di Vito, Massimo, stando al quale si trattava invece di un emigrato tornato a Corleone dagli Stati Uniti, relativamente agiato, che si occupava di import­export; e che ai tempi dell’Amgot aveva messo a frutto la propria conoscenza dell’inglese ottenendo in cambio la possibilità di creare prima una ditta di trasporti, poi una ditta di  costruzioni.  Massimo  dice  anche  che  Vito  era  in  ottime  relazioni  con  Provenzano,  ma  diffidava  di  Riina,  che  gli aveva promesso di risparmiare la vita a un suo cugino, uno dei maggiorenti della fazione di Navarra, e invece lo aveva fatto  uccidere  (1958)32.  Non  ho  modo  di  riscontrare  questa  parte  del  racconto,  e  la  trovo  un  po’  sospetta:  a  Riina spetta nel racconto standard sulla mafia la parte del super­cattivo, e può darsi che Massimo abbia trovato opportuno non appiattire la figura del padre su di lui. La memoria funziona così.

4. Dinastie di borgata. E  spostiamoci  dunque  a  Palermo,  anzi  nelle  sue  borgate,  antiche  roccaforti  della  mafia.  Partiamo  da  una  fonte molto pregevole, il rapporto su 24 capi­mafia stilato nel 1963 dal tenente Mario Malausa, comandante della «tenenza suburbana di Palermo» dei carabinieri. Dà l’impressione di una notevole continuità storica pre e post­bellica. I boss in essa elencati sono tutti nativi della città o del suo hinterland, sono stati perseguiti (età permettendo) nei processi del periodo fascista, sono stati assolti per i reati gravi, qualche volta condannati a pene lievi per associazione e/o mandati al confino. Ora sono sempre lì, guidando le stesse cosche o Famiglie in quegli stessi territori. Sono tutti «facinorosi delle  classi  medie»  di  franchettiana  memoria:  vengono  cioè  da  un  ambiente  di  gabellotti,  proprietari  e  affittuari  di agrumeti, mediatori, trafficanti. In genere ostentano rispetto della legge (il tenente commenta sarcasticamente: della propria) e dell’autorità; si atteggiano a uomini d’ordine, e si definiscono persone «di massimo rispetto»33. Spesso la leadership della mafia delle borgate assume carattere addirittura dinastico. Ovvero, in quei luoghi certe famiglie di sangue (oltre che di mafia), su scala pluri­generazionale, hanno esercitato e continuano ancora negli anni sessanta a esercitare il proprio potere. Viene colpito da questa evidenza un mafioso di tutt’altra estrazione, il catanese Antonino Calderone: I mafiosi palermitani […] nascono, vivono e muoiono nello stesso posto. Il quartiere è la loro vita, la loro famiglia vive lì da generazioni e sono tutti parenti. I cognomi principali sono quattro o cinque, gli altri sono tutti aggregati. […] Non si sono mossi di un metro dal loro regno, dove sono i padroni assoluti da decenni e decenni34.

La  borgata  palermitana  che  forse  meglio  a  tutt’oggi  conserva  le  caratteristiche  tardo­ottocentesche  è  quella  di Ciaculli: stradelle contornate da alti muri, quello che resta dell’antico firriato, giardini di agrumi, puntellati da edifici che  in  origine  servivano  da  centri  aziendali,  cioè  bagli.  Ha  d’altronde  una  posizione  periferica  rispetto  all’asse  di espansione della città, situata com’è nell’area sud­orientale dell’agro palermitano, confinando a nord col quartiere di Brancaccio, oggi facente parte della città, e a est col paese di Villabate. E, forse non a caso, la famiglia che meglio impersona il concetto sopra citato della continuità dinastica è insediata appunto in quest’area. Mi riferisco ai Greco. Dice  sempre  Calderone:  «da  sempre,  i  Greco  esercitano  il  potere  effettivo»  nella  mafia35.  Nel  suo  mondo, insomma, è diffusa la sensazione di un grande e antico potere che certo è un po’ mitica, che sarebbe interessante per gli storici verificare. Il compito è difficile anche perché i Greco, dall’autorità di polizia, solo in certi periodi sono stati considerati dei criminali (dei mafiosi), rimanendo per periodi ben più lunghi nascosti nelle pieghe della società. È un apparire e scomparire che profondamente rispecchia la stessa natura del fenomeno mafioso36. Prendiamo  ad  esempio  un  Francesco  Greco  (fu  Francesco),  il  cui  nome  ritroviamo  nel  Rapporto  Malausa.  Pur essendo un uomo di età avanzata, nato nel 1887, di questo Greco troviamo poca o nessuna traccia negli archivi. Dal suo casellario penale non risulta niente: solo un arresto nel 1926, seguito da un proscioglimento nel 1928 e in quello stesso  anno  dalla  proposta  dell’ammonizione.  Nondimeno  quest’incensurato  è,  commenta  Malausa,  un  «tipico  ed autorevole mafioso». Del tipo dell’uomo ricco, proprietario di 20 ettari di agrumeto, dell’«uomo di molto rispetto» e di  grande  «ascendente  nella  contrada  di  Pomara  e  di  Acqua  dei  corsari»,  zona  orientale  dell’agro  palermitano, direzione Villabate. Del tipo che vanta aderenze e amicizie in questura, alla regione e in molti altri enti37. Aveva quasi trent’anni, questo Francesco Greco, nel 1916, data del documento di polizia più antico cui riesco ad attingere su un’«Alta maffia dei Ciaculli» impersonata dai Greco, più precisamente da un Salvatore e da un Giuseppe Greco sospettati di aver decretato l’assassinio di un sacerdote – che aveva denunciato durante la predica domenicale la loro  ingerenza  nell’amministrazione  delle  rendite  ecclesiastiche.  Particolare  degno  di  rilievo,  in  quell’occasione  i mafiosi  misero  in  atto  una  delle  loro  tecniche  preferite,  ridurre  le  questioni  d’interesse  a  questioni  d’onore:  fecero circolare la voce che si trattasse della vendetta di un marito tradito38. Come  si  vede  dall’albero  genealogico  qui  accanto,  le  famiglie  sarebbero  due,  ognuna  definita  coi  nomi  di  due borgate  contigue,  Ciaculli  e  Croceverde­Giardini.  Vediamo  le  due  famiglie  connesse  solo  per  il  matrimonio  tra Giuseppe Greco (di Ciaculli) e Santa Greco (di Croceverde); anche se il ricorrere degli stessi nomi di battesimo mi fa supporre che, risalendo indietro di qualche generazione, troveremmo un’ascendenza comune. Il capostipite dei Greco di Ciaculli, Salvatore, dovrebbe essere quello accusato (e poi assolto) per il citato omicidio del sacerdote. Sui Greco di Croceverde siamo in grado di risalire ancor più indietro grazie a un memoriale del loro rampollo Michele Greco detto il papa (1924­2008), che – come diremo a suo tempo – al passaggio tra anni settanta e ottanta fu il numero uno di Cosa nostra.

Figura 10. I Greco.

Fonte: Catanzaro 1988.

Sarà però il caso di premettere che il memoriale, più tardi pubblicato dal giornalista Francesco Viviano, fu scritto nel  1987,  data  del  maxiprocesso,  in  funzione  difensiva,  per  negare  ogni  cosa  che  potesse  apparire  compromettente. Parliamo insomma di una testimonianza ben più reticente e depistante di altre che abbiamo presentato in precedenza. Cercherò di confrontarla con altre fonti meno inquinate. Michele Greco narra dunque che il suo bisnonno nacque nella grande tenuta agricola della Favarella, che si trova appunto tra Croceverde e Ciaculli, e che era allora mantenuta a pascolo con qualche albero di olivo. Passa poi a suo nonno  Francesco,  nato  nel  1844,  che  avrebbe  alla  fine  del  secolo  curato  la  prima  trasformazione  ad  agrumeto  del terreno.  Racconta  che  questo  nonno  avrebbe  voluto  comprare  la  tenuta  quando,  all’inizio  del  nuovo  secolo,  il proprietario  (Michele  non  sa  chi  fosse)  decise  di  venderla,  ma  che  non  disponeva  di  una  cifra  sufficiente  ad acquistarla. Spiega che alla fine a comprare fu il conte Salvatore Tagliavia, il quale lasciò Francesco Greco nel ruolo di affittuario. Rivendica a suo padre, Giuseppe Greco detto Piddu u tinenti, la scelta di aver poi impiantato varietà di gran  pregio,  mandarini  del  tipo  tardivo,  richiestissimi  sul  mercato.  Spiega  che  i  Greco  di  Croceverde  non  si occupavano solo dell’aspetto agricolo, che nel 1920 si accordarono coi cugini di Ciaculli (l’altro ramo della famiglia) per la gestione di una ditta di esportazione di agrumi39. Usciamo un attimo dal memoriale per ragionare su quanto da esso viene trascurato e magari appositamente taciuto. Innanzitutto Salvatore Tagliavia conseguì il titolo di conte solo nel 1918: non si trattava di un aristocratico di antica schiatta,  bensì  di  un  uomo  d’affari,  nonché  rampollo  di  una  famiglia  di  grandi  armatori  e  finanzieri.  Era  anche  un uomo  politico:  fu  sindaco  di  Palermo  durante  la  prima  guerra  mondiale,  in  periodo  fascista  diresse  il  Consiglio provinciale  dell’economia.  Per  l’una  e  per  l’altra  ragione  può  aver  avuto  relazioni  pregresse  coi  Greco.  Il  nostro memorialista  afferma  che  Tagliavia  comprò  la  Favarella  per  una  cifra  molto  più  bassa  di  quella  richiesta.  È  lecito pensare  che  sia  stato  Francesco  Greco  a  ottenere  questo  ribasso  in  modo  da  garantire  la  continuità  della  propria gestione,  perché  in  buone  relazioni  col  nuovo  proprietario?  L’estensione  della  Favarella  sembra  fosse  di  cinquanta ettari,  enorme  per  un  impianto  super­intensivo  come  un  agrumeto.  Per  acquistarlo,  Tagliavia  fece  certo  un investimento  notevole,  quale  che  fosse  lo  sconto  ottenuto;  e  altri  interventi  finanziari  saranno  stati  necessari  per  i nuovi impianti. Il suo accordo con i Greco deve essere stato di largo raggio. Tagliavia poi aveva altre relazioni in ambienti di mafia, come desumiamo dalla ricerca di Patti sul processo degli anni venti per l’associazione di Santa Maria di Gesù. Testimoniò a favore di un Pietro Buffa, rampollo di famiglia di capi­mafia,  cui  aveva  concesso  in  affitto  un  altro  grande  agrumeto  (20  ettari)  nella  zona.  Sempre  a  favore  di  Buffa (diciamolo perché il network risulti più chiaro) testimoniò anche un Giuseppe Greco di Salvatore. Si osservi l’albero genealogico.  Dovrebbe  essere  quello,  appartenente  al  ramo  di  Ciaculli,  che  vediamo  nell’albero  genealogico congiungersi col ramo di Croceverde per via matrimoniale (con Santa Greco). Alla fine Buffa fu assolto, anche grazie all’arringa del suo avvocato, che sottolineò i suoi legami di «stima, fiducia, illimitato affetto» con il conte Tagliavia40. Dopo di che scomparve dal radar della legge. Trenta e più anni dopo ritroviamo il suo nome tra quelli dei capi­mafia

elencati dal tenente Malausa, con questa precisazione: a Ciaculli e dintorni un tempo era un uomo temutissimo, «la sua volontà era legge»; per quanto anziano (oltre che agiato), era pur sempre pericoloso, capace di organizzare ogni tipo di misfatto41. Torniamo al 1929. E ad Angelo Tagliavia, fratello di Salvatore, il quale parlò in difesa di Stefano Bontà/Bontate, «distributore d’acqua da quattordici anni [sic!]» in una sua proprietà, definendolo zelante e onesto42. Veramente Bontà era  un  possidente  e  un  esportatore  di  agrumi,  coinvolto  in  affari  complicati  anche  di  scala  internazionale.  Non abbiamo dubbi che si mostrasse «zelante», ma più che altro verso i propri affari. Stefano Bontà, come abbiamo a suo tempo detto, se la cavò con tre anni. Siamo qui davanti a un’altra delle grandi dinastie di mafia dell’agro palermitano. Si veda l’albero genealogico alla pagina seguente. Nel  Rapporto  Malausa  troviamo  il  figlio  di  Stefano,  Francesco  Paolo  Bontate,  comunemente  noto  come  don Paolino, nato nel 1914. Viene descritto come un uomo molto agiato e influente, che si atteggia a uomo d’onore ma che in realtà è un violento «per connaturato istinto alla sopraffazione»43. Noi aggiungiamo qualche altra informazione sul modo in cui colse le opportunità che gli si offrivano con la costruzione nella «sua» zona, Villagrazia, di una fabbrica di proprietà di una ditta genovese, l’Elettronica Sicula, destinata a impiegare innovative tecnologie. A quanto sembra, Bontate intervenne già per agevolare l’acquisto dei terreni su cui dovevano sorgere gli impianti, per poi superare le resistenze  locali  alle  trivellazioni  fatte  dai  tecnici  per  captare  le  vene  idriche,  e  naturalmente  per  reperire  la  mano d’opera. Glielo riconobbe lo stesso direttore, Aldo Profumo. Per questa ragione, quest’ultimo non si adontò quando, mentre  pronunciava  il  suo  discorso  di  inaugurazione,  si  trovò  d’improvviso  da  solo,  perché  il  «folto  gruppo  di rappresentativi funzionari della Regione e del Comune» che gli stava davanti si alzò e compattamente corse verso una porta, in una gara a chi per primo avrebbe omaggiato don Paolino che stava entrando nella sala. Si lamentò solo la Cgil,  cui  –  sembra  su  richiesta  dello  stesso  Bontate  –  fu  impedito  di  presentare  proprie  liste  per  la  commissione interna44. Don Paolino Bontate aveva a sua volta un figlio destinato a grande carriera: un altro Stefano Bontate, «il principe di  Villagrazia»  (1939­1981).  Su  di  lui  torneremo.  Per  ora  prendiamo  atto  dell’importanza  della  dinastia  e  delle  sue relazioni con quella dei Greco. Stando al curatore del memoriale, Viviano, don Paolino Bontate aveva «molte cose in comune»  con  Piddu  u  tinenti,  le  loro  proprietà  erano  confinanti,  «erano  amici,  le  loro  famiglie  si  frequentavano  da tempo». Scrive lo stesso Michele Greco: «Stefano per me era come un figlio»45. Questo non gli impedì di fornire un placet al suo assassinio, come vedremo a suo tempo.

Figura 11. I Bontate, o Bontade, o Bontà.

Fonte: Patti 2014, p. 244.

E  veniamo  all’ideologia  del  memoriale,  che  è  alquanto  melensa.  Michele  Greco  si  presenta  come  un  uomo profondamente  religioso,  un  patriarca  all’antica,  l’interlocutore  di  magistrati  e  alti  gradi  delle  forze  di  sicurezza, l’erede  di  una  famiglia  di  operosi  proprietari  terrieri.  Quanto  a  suo  padre,  dice:  era  «mafioso  sì  ma  di  bellezza.  Un tempo si usava questo termine in campagna, chiamare mafioso ciò che era bello» – una bella ragazza, ad esempio46. Citazione di Pitrè, seppure implicita; solita operazione depistante. Più solido l’altro argomento (anche se, lo abbiamo compreso, per nulla esaustivo): suo padre era «incensurato», come lo era lui stesso – Don Michele – almeno prima che il mondo si ribaltasse. Il memorialista si chiede per quale strano equivoco la sua famiglia così sana sia stata confusa con  un’organizzazione  criminale.  E  spiega  l’arcano  con  l’omonimia  con  i  Greco  di  Ciaculli,  in  cui  magari  qualche propensione delinquenziale c’era47. Invece,  come  abbiamo  visto,  le  due  sezioni  della  famiglia  Greco  erano  più  che  omonime,  e  avevano  molto  in comune. Avevano anche ragioni di contrasto, stando alla sequenza traumatica di eventi iniziata una sera del 1939. Ci

fu una banale disputa tra elementi anche molto giovani dell’uno e dell’altro ramo, sostenuti da qualche amico, su chi avesse il diritto di sedersi su una panca davanti alla chiesa durante la festa della borgata. Il contrasto ebbe un seguito sulla via del ritorno, i ragazzi tirarono fuori le pistole, e restò sul campo, morto, Giuseppe Greco, figlio diciassettenne del «tenente». La legge fece la sua parte e due dei colpevoli vennero condannati a pesanti pene detentive. Nondimeno, dal 1946 partì la faida fatta di incursioni, esecuzioni e «lupare bianche», che tra l’altro vide cadere (si guardi ancora l’albero genealogico) Giuseppe e Pietro Greco di Ciaculli. Momento­clou: l’assalto di un commando armato di mitra e bombe  a  mano  che  venne  respinto  dai  Greco  di  Ciaculli,  le  cui  donne  finirono  a  coltellate  un  ferito  del  gruppo avverso, lasciando però sul campo una di loro, Antonia (1947). Seguì l’uccisione di un fedelissimo di don Piddu48. La sequenza delle vendette sembrava non doversi mai fermare. Invece si fermò. Ogni faida finisce per annientamento di una delle due parti, o più di frequente grazie a una mediazione esterna, che consenta a entrambe di ritirarsi «con onore» dalla sequenza azione­reazione – a sua volta cominciata (nella fattispecie) per ragioni «onorifiche». La mediazione fu resa possibile dalla scelta di don Piddu di far sposare suo figlio Salvatore con  Maria  Cottone,  figlia  di  un  boss  di  Villabate49,  il  quale  a  sua  volta  chiamò  in  causa  Joe  Profaci,  che  come  si ricorderà  era  originario  appunto  di  Villabate,  e  si  trovava  temporaneamente  in  Sicilia.  I  mediatori  locali  e  quelli d’oltreoceano  fecero  intendere  alle  parti  che  avevano  interessi  comuni  (non  credo  si  trattasse  della  ditta  di esportazione di agrumi, chiusa nel 1954), che in generale il dilagare della violenza rendeva difficili gli affari a tutti. Come nulla fosse stato, i Greco posero fine alla loro guerra: che tanto ci dice sulla mafia, sul suo senso della famiglia, e sulle sue contraddizioni. 5. Storie democristiane. In tema di mafia palermitana, parliamo di continuità di persone e gruppi, ma anche di grandi mutamenti di contesto politico ed economico, dunque del tipo di affari nel quale i mafiosi erano impegnati. A metà anni cinquanta Palermo era già da un decennio non più soltanto un capoluogo provinciale, ma la capitale dell’Ente regione, il luogo dunque di un  nuovo  potere  politico,  che  decideva  dell’erogazione  di  una  crescente  spesa  pubblica.  Tale  spesa  tra  l’altro  si traduceva in espansione e speculazione edilizia. Ci fu dunque una convergenza sulla città di molti affaristi o criminali in cerca di occasioni di profitto e potere, provenienti dalla provincia (a cominciare dai corleonesi); gruppi che erano stati d’altronde sempre connessi al capoluogo da mille fili, che erano abituati a ragionare su scala provinciale. Quanto ai mafiosi delle borgate palermitane, non ebbero bisogno di spostarsi. Bastò che la città si spostasse verso i territori da loro controllati tradizionalmente. Con la costruzione di nuovi edifici e quartieri residenziali nell’antica Conca d’oro la rendita agricola di cui godevano gli amici­protettori dei mafiosi si valorizzò trasformandosi in rendita urbana. Su quei territori, le imprese agricole si trasformarono in imprese edilizie; proprietari, costruttori edili, acquirenti, decisori di politiche  pubbliche  dovettero  fare  i  conti  con  la  capacità  della  mafia  di  organizzare  network  politico­affaristici,  di proteggere, indirizzare, dissuadere, intimidire. L’espansione urbanistica si indirizzò lungo l’asse che dal centro storico andava verso ovest, attraverso quella che in antico si chiamava Piana dei Colli, oltre l’asse otto­novecentesco di via Libertà. Lo storico Coco, che ha studiato la mafia in quest’area, non vi ha riscontrato le stesse continuità dinastiche di quella orientale dell’ex agro palermitano. Le new entry dal basso erano qui molto più frequenti. Facciamo il caso più importante, quello dei fratelli Angelo e Salvatore La Barbera che, per quanto fossero nati nella borgata di Partanna (per tradizione ad alta densità mafiosa), non avevano alcun pedigree50. Fecero una carriera di delinquenti comuni prima, e di imprenditori d’assalto dopo. Più tardi,  il  giudice  Cesare  Terranova  avrebbe  interpretato  il  loro  sanguinoso  contrasto  con  i  Greco  sulla  base dell’immancabile schema vecchia/nuova mafia: «i Greco, si può dire, hanno i quattro quarti di nobiltà, rappresentano la mafia tradizionale, la mafia camuffata di rispettabilità […]. I La Barbera invece provengono dall’oscurità e la loro forza consiste soprattutto nella loro intraprendenza e nel seguito di una risoluta banda di sicari»51. Del loro entourage, diciamolo sin d’ora, entrò a far parte Tommaso Buscetta, il figlio di un vetraio anch’egli proveniente «dall’oscurità». Non  aveva  alcun  titolo  di  nobiltà  mafiosa  nemmeno  Francesco  Vassallo,  il  più  famoso  imprenditore  edilizio palermitano  del  tempo,  che  era  nativo  della  borgata  di  Tommaso  Natale52.  Non  disponeva  nemmeno  di  capitali, peraltro. A questa carenza rimediò costituendo cooperative inizialmente (1947) per il commercio dei latticini, poi di altri generi alimentari, e poi per le costruzioni edilizie. Il sistema consentiva la convergenza tra elementi appartenenti alla  mafia  militante  e  «soggetti  “collaterali”  all’organizzazione»53.  E  inglobava  qualcuno  tra  gli  amministratori municipali. Sarebbe sbagliato personalizzare oltre misura quello che fu l’operato di una classe dirigente: ma per questa ragione fu importante che Salvo Lima diventasse sindaco (1958) e Vito Ciancimino assessore ai Lavori pubblici (1959).

Già  sappiamo  qualcosa  su  quest’ultimo.  Diciamo  ora  che,  sebbene  nativo  di  Corleone,  Ciancimino  frequentò l’università  a  Palermo  (senza  laurearsi),  vi  si  trasferì  stabilmente  nel  1950,  e  qui  intraprese  la  sua  carriera  sia  di affarista  che  di  politico  professionale.  Sul  primo  versante,  cominciò  vendendo  carrelli  alle  Ferrovie  dello  Stato, continuò  anche  lui  nel  settore  degli  autotrasporti  e  –  usando  la  moglie  come  prestanome  –  partecipò  di  una  società finanziaria (Isep poi Cosifi) cui erano interessati i membri del giro di trafficanti legati a Lucky Luciano e, tra loro, il già  citato  corleonese  d’America  Angelo  Di  Carlo54.  Sul  fronte  politico,  Ciancimino  fu  eletto  nel  1956  consigliere comunale e fu assessore ai Lavori pubblici nel 1959­64. Nel 1970, per un brevissimo periodo, fu anche sindaco. Resta da dire di Salvo Lima (1928­1992). È stato spesso raffigurato come un professionista della politica, magari in contatto con ambienti mafiosi ma dall’esterno. In questo senso sono state ad esempio interpretate le sue relazioni con Buscetta, attestate da molte fonti. Io scelgo Franco Evangelisti, luogotenente romano di Giulio Andreotti, il quale dichiarò  che  Lima  in  persona,  parlando  con  lui,  ebbe  a  definire  Buscetta  «un  mio  amico,  uno  che  conta»55.  C’è peraltro da stupirsi che a lungo nessuno abbia ricordato (in una città in cui tutti sanno tutto sulle famiglie di tutti) il nutrito curriculum penale del padre di Salvo Lima, Vincenzo, nato nel 1894, impiegato del comune. Il rapporto tra i Lima e la mafia non era esterno. In particolare Lima padre era stato accusato di essere membro del commando che nel 1931  aveva  attentato  alla  vita  di  uno  dei  boss  della  mafia  palermitana  del  tempo,  Arturo  Mingoia  (su  cui  molto  si sofferma  il  Rapporto  dell’Ispettorato  del  1938),  insieme  a  due  degli  esponenti  della  dinastia  mafiosa  dei  Pennino, quartiere di Brancaccio, di cui meglio diremo più avanti56. Il  rapporto  dei  Pennino  con  Lima  figlio  rimase  saldo  anche  dopo  la  guerra  sebbene  fino  al  1956  i  membri  della famiglia  votassero  liberale.  Solo  dopo  si  schierarono  con  decisione  con  la  Dc  svolgendovi  (come  diremo)  un  ruolo importante. Non figurano nel Rapporto Malausa, ma poco importa: un po’ tutti i boss citati seguirono il loro percorso politico da destra verso il centro. Leggiamo ad esempio nella scheda su Benedetto Targia: «Fu un fervente sostenitore del separatismo, quando però tale movimento declinò di potenza seguì la scia di altri mafiosi passando di partito in partito  (liberale­monarchico­democristiano)».  Malausa  precisa  opportunamente:  «L’avversità  che  ha  per  la  legalità dimostra  chiaramente  che  non  è  il  sentimento  politico  che  lo  ha  spinto  verso  la  democrazia  cristiana,  ma  solo  la convenienza  personale».  Un  altro  esempio  può  essere  quello  di  Baldassarre  Motisi  proprietario  di  giardini, commerciante all’ingrosso di agrumi, consigliere comunale democristiano. Malausa nota che «ha molte aderenze con personalità di rilievo e ne approfitta […] allo scopo di consolidare sia la sua posizione di mafioso sia quella di uomo politico»57. Io aggiungo che questo Motisi ha lo stesso cognome, risponde allo stesso identikit del Francesco Motisi che  abbiamo  conosciuto  sul  finire  dell’Ottocento  come  esportatore  di  agrumi,  capo­mafia,  e  anche  lui  consigliere comunale. Soffermiamoci un attimo a ragionare della Democrazia cristiana siciliana: che rappresenta un po’ un contesto, e un po’  una  parte  integrante  della  storia  della  mafia  post­bellica.  Secondo  un’accreditata  e  –  direi  –  canonica interpretazione politologica, negli anni cinquanta la corrente legata ad Amintore Fanfani, detta dei «giovani turchi», svolse una funzione decisiva nella trasformazione della Dc da partito «dei notabili», proprietari fondiari o avvocati, espressione di una società antica, in partito­macchina guidato da politici professionali, di estrazione piccolo­borghese. Questo  gruppo  sarebbe  stato  più  adatto  a  gestire  le  moderne  opportunità  di  redistribuzione  clientelare,  e  quindi  di conquista del consenso58. Tra i cosiddetti notabili della Sicilia occidentale, vengono annoverati Mattarella e Salvatore Aldisio.  Tra  i  giovani  turchi,  sono  citati  Giuseppe  La  Loggia  e  Giovanni  Gioia,  oltre  che  Salvo  Lima  e  Vito Ciancimino. Veramente, ogni schema basato sul concetto delle brusche discontinuità poco si adatta alla nostra storia. Impersona ad  esempio  una  straordinaria  continuità  politica  familiare  Giuseppe  La  Loggia,  due  volte  presidente  della  Regione siciliana.  Suo  padre  era  quell’Enrico  La  Loggia,  avvocato  e  deputato  agrigentino  socialriformista  che  abbiamo  già citato come leader del movimento cooperativo nel primo Novecento; e che nel secondo dopoguerra (sebbene molto anziano) fu il cervello dello schieramento autonomista, finendo alla fine per approdare alla Dc59. Suo figlio, anch’egli di nome Enrico, proveniva dalla Dc quando, alla fine del Novecento, fu tra i leader di Forza Italia al Senato, venendo presentato – contro ogni verisimiglianza – come uomo nuovo della seconda Repubblica. Nemmeno  la  figura  di  Gioia  corrisponde  a  quella  dell’uomo  di  apparato  privo  di  status  precedente.  Si  trattava infatti  di  un  rampollo  dell’establishment  palermitano  otto­novecentesco,  nipote  del  celebre  industriale  molitorio Filippo  Pecoraino,  imparentato  con  i  Tagliavia;  da  qui,  con  ogni  probabilità,  veniva  anche  un  rapporto  della  sua famiglia con i Greco60. E ancor meno si adatta lo schema citato al contributo dato alla Dc, e particolarmente alla sua corrente  fanfaniana,  da  quel  potere  che  si  identificava  con  le  Famiglie  mafiose;  e  non  era  affatto  nuovo  né  traeva legittimità dalla forma­partito, ma casomai si attaccava ad essa come un’appendice parassitaria. È  il  momento  qui  per  introdurre  la  cosiddetta  «operazione  Milazzo»,  1956­60.  Silvio  Milazzo,  epigono  di un’importante dinastia politica di Caltagirone, «figlioccio» di Sturzo, fu uomo di confine tra cattolicesimo politico e separatismo  nel  dopoguerra,  prima  oppositore  del  concetto  stesso  di  riforma  agraria  e  poi  relatore  della  legge  di

riforma fondiaria siciliana:  la  quale  intese  anticipare,  evitandone  gli  effetti  più radicali, la legge nazionale. Milazzo non aveva alcuna intenzione di lasciare la Dc siciliana nelle mani degli uomini di Fanfani, che stavano assumendo il controllo del partito su scala nazionale. Così assunse la guida del governo regionale sostenuto da uno schieramento assai composito che comprendeva, oltre alla destra democristiana, quella monarchica ed ex separatista, e anche quella neo­fascista,  nonché  la  sinistra  comunista:  tutte  forze  interessate  a  spezzare  il  monopolio  del  potere  che  il  gruppo fanfaniano rischiava di conquistare. Espulso dalla Dc, Milazzo costituì una forza politica propria, l’Unione siciliana cristiano­sociale (Uscs). Lo  schieramento  milazzista  era  accomunato  da  un’accesa  ideologia  regionalista,  che  chiamava  tutti  i  siciliani  a raccolta  contro  il  «governo  di  Roma»  e  la  sua  presunta  volontà  di  favorire  il  capitalismo  settentrionale  a  scapito dell’imprenditoria  isolana.  Nondimeno,  restava  troppo  eterogeneo.  E  poi  dovette  subire  il  fuoco  concentrico  della Confindustria, della Chiesa cattolica, oltre che della Democrazia cristiana. Lo stesso Sturzo rinnegò il suo figlioccio. Alla fine Milazzo cadde perché nelle elezioni regionali del giugno 1959 il suo partito, l’Uscs, guadagnò voti ai danni dei monarchici e dunque perse il loro consenso61. Non bastò all’Uscs, per recuperare una maggioranza all’Assemblea regionale, un clamoroso e squalificante tentativo di comprare il voto di un paio di deputati a suon di milioni. La Dc riconquistò la perduta centralità formando anche alla regione siciliana un governo di centro­sinistra, e l’Uscs in breve scomparve, come era successo al Mis. Allo  specifico  del  nostro  argomento  ci  riporta  la  testimonianza  resa  nel  corso  dell’istruttoria  del  maxiprocesso palermitano  del  1987  da  Calogero  Mannino,  esponente  democristiano  che  è  stato  anche  ministro.  Mannino  ha sottolineato  il  ruolo  giocato  nella  vicenda  dall’elemento  mafioso  e  in  particolare  da  tre  personaggi:  don  Paolino Bontate (o Bontà che dir si voglia), e i cugini Nino e Ignazio Salvo. Già sappiamo molto del primo. Il padre di Ignazio Salvo,  Luigi  (morto  nel  1962),  era  stato  un  capo­mafia  di  Salemi,  paese  del  Trapanese,  ed  era  anche  finito  sotto processo negli anni trenta. I due cugini Salvo appartenevano al mondo della mafia ma anche a quello della finanza, almeno  dagli  anni  cinquanta  quando  costituirono  una  società  nell’intento  di  ottenere  dalla  Regione  la  concessione dell’esercizio delle esattorie. Stando  alla  ricostruzione  di  Mannino,  nel  corso  di  una  prima  fase  i  tre  avrebbero  sostenuto  Milazzo,  il  quale avrebbe concesso al gruppo Salvo l’esercizio delle esattorie. Poi però avrebbero cambiato politica, mobilitando i loro «referenti politici» per fare cadere Milazzo; ricavando da quest’episodio eterna riconoscenza da parte della Dc, e un aggio  sproporzionatamente  elevato  per  le  esattorie  medesime62.  Io  rilevo  che  Bontate  era  anche  lui,  come  gli  altri boss, un reduce del movimento separatista e di quello monarchico. Il suo «tradimento» di Milazzo si colloca in quello più generale perpetrato dai monarchici, propedeutico allo spostamento dentro la Dc di molti di loro e di molti mafiosi: tra gli altri dei Salvo, che entrarono nell’orbita in particolare di Lima. I rapporti dei carabinieri degli anni sessanta da un lato definivano Ignazio Salvo come «affiliato alla mafia e figlio di  mafioso»;  e  dall’altro  indicavano  lui  e  il  cugino  come  gente  che  aveva  ottenuto  una  notevole  «posizione economica» grazie a «aderenze politiche a ogni livello», ma che non aveva «rapporti di alcun genere» con «la vecchia mafia»63.  La  solita  espressione,  qui  usata  in  maniera  particolarmente  depistante:  cosa  intendevano  i  carabinieri usandola in questo contesto? Certo, sulle aderenze politiche e sulla posizione economica avevano ragione: erano state le prime a garantire la seconda. Ma la mafia, vecchia o nuova che fosse, andava inserita nel quadro. 6. Consenso e opposizione. La  sinistra  rimase  dal  1947  al  1960  fuori  dall’area  governativa,  e  si  schierò  all’opposizione  di  quello  che  ho chiamato il lungo armistizio, in forza del quale la Repubblica italiana consentì alla mafia di prosperare senza trovare particolare contrasto. I  comunisti  siciliani  avevano  puntato  nel  1944­46  su  due  prospettive,  quella  contadinista  e  quella  autonomista, contando  di  poter  mantenere  su  questi  terreni  una  relazione  con  la  Democrazia  cristiana.  La  rottura  del  1947  rese impraticabile questo progetto. La Dc procedette per suo conto con una riforma fondiaria, varata dalla Regione e, come sappiamo,  firmata  Milazzo.  Prima  di  quest’intervento,  anche  per  evitare  l’esproprio,  molti  grandi  proprietari vendettero  notevoli  quantità  di  terra.  Alla  fine,  ne  passarono  di  mano  500  000  ettari.  Nelle  compravendite  scattava spesso la prelazione di gabellotti e amministratori che riuscivano ad acquistare a prezzo «di affezione»64. Loro stessi, e altri, si impegnarono nel controllo dei flussi e nella selezione dei beneficiari, insomma nel favorire i vecchi amici e nel  farsene  di  nuovi.  Ci  riuscirono  grazie  al  rapporto  con  la  Democrazia  cristiana  e  la  Coldiretti,  alle  entrature nell’Eras (Ente di riforma agraria siciliana), all’accesso privilegiato ai finanziamenti regionali per la formazione della piccola proprietà contadina. Insomma, la riforma non ebbe gli effetti rivoluzionari pronosticati ma ugualmente mise fuori dal gioco un soggetto che per mezzo secolo era stato al centro dello scenario storico della Sicilia occidentale, il movimento contadino. La

ripresa dell’emigrazione all’estero, e il nuovo flusso verso Nord, fecero il resto allontanando molti degli elementi più giovani e dinamici. La sinistra ne prese atto tardi e malvolentieri. Celebrò i martiri di Portella e tanti altri caduti sotto il  piombo  mafioso.  La  sua  identità  anti­mafiosa  prese  forma  soprattutto  su  quell’elemento;  che  però  riguardava  più che altro il passato. Quest’epopea  affascinò  l’intellighenzia  di  sinistra  anche  su  scala  nazionale.  Ne  fu  preso  ad  esempio  il  torinese Carlo  Levi,  grande  protagonista  della  riflessione  sulla  questione  meridionale,  in  un  suo  saggio  pubblicato  dal  più grande editore di cultura nazionale (Einaudi) col titolo Le parole sono pietre. Qui la mafia era descritta come la legge arcaica  del  feudo,  contestata  dal  movimento  contadino  in  nome  della  legge  moderna,  fino  al  sacrificio  estremo.  Di Salvatore Carnevale, forse l’ultimo organizzatore socialista assassinato nel lungo dopoguerra (1955), Levi scrisse: si era convinto «che non si può venire a patti, che i contadini devono muoversi con le loro forze» e «l’intransigenza è, prima  che  dovere  morale,  una  necessità  di  vita»65.  «Sappiamo  che  cos’è  la  mafia  perché  sappiamo  a  chi  spara», aggiunse un altro intellettuale di sinistra, siciliano stavolta: Leonardo Sciascia (1921­1989)66. Presentiamo  questo  grande  protagonista  della  nostra  storia,  che  ha  fornito  alcuni  tra  i  più  importanti  contributi (letterari,  saggistici,  giornalistici  e  politici)  su  mafia  e  antimafia  nella  seconda  metà  del  Novecento.  Era  nato  a Racalmuto,  paese  della  provincia  di  Agrigento,  da  famiglia  piccolo­borgese,  e  per  diversi  anni  fece  il  maestro elementare. Possiamo bene inquadrarlo nel tipo dell’intellettuale impegnato a sinistra anni quaranta­cinquanta. Come altri,  vedeva  con  rabbia  che  la  fine  storica  del  latifondo  non  portava  al  previsto  sblocco  dello  sviluppo  sociale,  che l’avvento dell’autonomia regionale non portava alla prevista fuoriuscita dal sottosviluppo. Partiva dal luogo comune del  suo  tempo  e  della  sua  parte  politica:  l’ossessiva  ed  esclusiva  identificazione  della  mafia  con  la  dimensione «feudale»  del  latifondo,  con  gli  arcaismi  della  Sicilia  interna.  Però  prendeva  atto  che  non  si  estingueva  per  niente, smentendo tante facili previsioni. E, come vedremo, provò ben presto a complicare il discorso. Sciascia collaborava più o meno regolarmente con «L’Ora», il quotidiano palermitano di sinistra della sera, sin dal 1955,  cioè  da  quando  la  direzione  fu  assunta  dal  calabrese  Vittorio  Nisticò.  Il  nuovo  direttore  era  stato  mandato  a Palermo dal suo editore, cioè in sostanza dal Pci, con l’idea di creare un fronte antidemocristiano «largo» intorno ai due  temi  canonici  della  linea  comunista:  la  rivendicazione  della  centralità  del  movimento  contadino  e dell’autonomismo  regionale.  Logico  che  «L’Ora»  molto  si  spendesse  in  sostegno  di  Milazzo.  Nel  frattempo l’argomento  mafia  era  cresciuto  di  peso,  il  tema  aveva  assunto  importanza  in  sé,  e  il  giornale  era  divenuto  di  gran lunga il luogo principale della discussione su di esso. In un saggio memorialistico, di molti anni successivo, Nisticò ha spiegato come fosse riuscito a evitare che «L’Ora» si riducesse a foglio di partito: mobilitando le penne più aguzze, a prescindere dal loro posizionamento partitico67. Sulla  mafia  scrissero  sull’«Ora»,  tra  gli  altri,  tre  elementi  per  diverse  ragioni  definibili  come  irregolari.  C’era Michele Pantaleone, il socialista di Villalba che abbiamo già conosciuto come avversario di don Calò, le cui relazioni coi comunisti furono a tratti burrascose. Portò nelle pagine del giornale la sua versione impastata di mitologia della storia della mafia, poi esposta con grande successo nel libro Mafia e politica, stampato da Einaudi (e con introduzione di  Levi).  C’era  Felice  Chilanti,  originario  del  Polesine,  ex  fascista  di  sinistra,  ex  trockista,  ex  partigiano.  E  c’era  il pugliese Mauro De Mauro, che veniva da un fosco passato addirittura in una delle più sanguinarie milizie di Salò, e che si era rifugiato in Sicilia per salvare la pelle dopo il 25 aprile 1943. Sin dal 1949, dai tempi dell’affare Giuliano, la sinistra chiedeva sia all’Assemblea regionale che (soprattutto) al Parlamento nazionale una Commissione d’inchiesta sulla mafia. Voleva mettere pubblicamente i democristiani davanti alle  loro  responsabilità.  Sbatté  loro  in  faccia  l’esperienza  statunitense  della  Commissione  Kefauver,  l’esempio  del paese­guida del fronte occidentale. Di fronte alle repulse della maggioranza, nel 1958 Nisticò dichiarò che l’inchiesta l’avrebbe fatta «L’Ora». E la fece in effetti mobilitando i suoi cronisti di punta, riesumando anche vecchie leggende: quelle  riguardanti  Vito  Cascio­Ferro,  quelle  relative  a  don  Calò  Vizzini  e  al  suo  (presunto)  contributo  alla  vittoria anglo­americana  nel  1943.  Poi  puntò  su  argomenti  più  concreti  e  attuali,  ad  esempio  sulla  «legione  straniera»  della destra  para­mafiosa  che  stava  inquinando  la  Dc68.  Il  picco  di  attenzione  fu  dedicato  alla  guerra  di  mafia  che  stava squassando Corleone, e alla figura di Liggio che comparve in prima pagina accompagnata da un titolo a carattere di scatola  –  «Pericoloso!».  La  mafia  rispose  con  una  bomba,  il  19  ottobre.  Nessuno  fu  ferito  ma  l’avvertimento  era chiaro. L’esplosione avvenne solo cinque giorni prima che Silvio Milazzo venisse eletto presidente della Regione. Nisticò, nel  saggio  già  citato,  svela  che  in  quell’occasione  ebbe  la  «spiacevole  sensazione»  di  un  «certo  isolamento»  anche rispetto ai comunisti. Spiega: la questione mafiosa «non era musica per le orecchie di uno schieramento socialmente articolato come quello autonomista [milazzista], in cui la presenza o magari l’influenza di questo o quel ramo di mafia era  in  partenza  un  dato  di  fatto».  Contrariamente  a  Mannino,  non  chiama  in  causa  Bontate  e  i  Salvo,  ma  il  «clan trapanese  dei  Rimi».  Al  pari  di  Mannino,  spiega  che  questo  «spezzone»  mafioso  alla  fine  «rientrò»  nella  Dc, contribuendo alla caduta di Milazzo, e fu «ricompensato nei modi giusti»69.

Sempre  in  sede  di  considerazione  retrospettiva  Emanuele  Macaluso,  al  tempo  segretario  della  federazione regionale del Partito comunista in Sicilia, ha difeso la propria politica. Ha citato a merito dei governi Milazzo la scelta di allontanare Genco Russo e altri capi­mafia dalla direzione di due consorzi di bonifica, ribadendo che «la mafia che contava» si schierò con «il governo centrale», contro una linea politica autonomista, la quale propugnava l’alleanza tra la «classe operaia» e la «borghesia progressiva»70. Questo schema di ragionamento non è per nulla convincente. In linea  generale,  la  storia  siciliana  dell’Ottocento  e  del  Novecento  è  piena  di  borghesie  molto  autonomistiche  e  assai poco progressiste, da Palizzolo a Lucio Tasca. Io trovo più convincente l’analisi di uno dei più acuti (e isolati) ingegni della  sinistra  siciliana,  Mario  Mineo,  stando  al  quale  l’alleanza  milazzista  giunse  «fino  a  gruppi  e  personaggi notoriamente  mafiosi»  proprio  per  tale  ossessiva  ricerca  di  una  qualche  «borghesia»  sicilianista  con  cui  allearsi71. D’altronde  qui  abbiamo  anche  una  testimonianza  dall’interno.  Secondo  Calderone  la  mafia  avrebbe  «fortemente» appoggiato Milazzo proprio per i suoi provvedimenti in favore dell’imprenditoria regionale72. In conclusione. Per i comunisti, non era facile trovare una via d’uscita da una prospettiva di sterile opposizione e nel  contempo  fare  una  lotta  intransigente  alla  mafia.  Quanto  alla  Democrazia  cristiana  siciliana,  uscì  inquinata dall’ingresso  graduale  di  mafiosi  al  suo  interno.  L’armistizio  politico  fu  certo  condizionante  nei  confronti  degli apparati  di  sicurezza.  Cito  due  brani  di  relazioni  della  prefettura  di  Palermo  del  1958­59,  il  cui  minimalismo  fa evidente  contrasto,  non  dico  con  i  tempi  del  prefetto  Mori,  ma  con  l’età  liberale.  Una  riguarda  il  triplice  omicidio consumato  in  pieno  giorno,  a  Corleone,  nel  settembre  1958:  non  preoccupa  perché  «ricollegato  a  lotte  intestine  tra esponenti di determinati ambienti della malavita». L’altro si riferisce agli undici omicidi (sic!) palermitani del giugno 1959, ciascuno dei quali – si affretta a spiegare rassicurante il prefetto – va considerato come «episodio delittuoso a sé stante  […]  senza  le  caratteristiche  proprie  dei  delitti  di  mafia».  Aggiungo  una  notazione  del  prefetto  di  Enna  dello stesso  periodo:  le  relazioni  mafiose  di  cui  è  accusato  un  candidato  Dc  «rientrano  nei  limiti  della  normalità»73. Appunto, tutto sembrava normale. E in questa passività venne ampiamente coinvolta la magistratura, figlia della classe dirigente, ben più subalterna al governo di quanto sia oggi (il Consiglio superiore fu istituito solo nel 1958). Secondo il figlio, Ciancimino si beava di «una consuetudine e una vicinanza quasi familiare con le alte sfere della magistratura, fatta di viaggi, cene, feste e incontri a casa di Salvo Lima»74. Era un provinciale. Gli piaceva sentirsi accettato nella capitale. Nel suo memoriale, Michele  Greco  tiene  a  farci  sapere  quanta  gente  perbene,  nobili,  professionisti,  politici,  poliziotti,  e  appunto magistrati,  frequentasse  la  Favarella.  Dice  Viviano:  «frequentava  il  bel  mondo»,  però  Paolino  Bontate  aveva  più amicizie politiche di lui, e le lasciò in eredità al figlio Stefano75.  Sta  di fatto che, proprio  in  forza  dei  suoi  contatti politici, il fratello di Michele Greco, Salvatore, era soprannominato «senatore». Quanto  all’altro  ramo  della  famiglia  Greco,  quello  di  Ciaculli,  noi  sappiamo  da  Buscetta,  e  da  diverse  altre testimonianze successive, che Salvatore «ciaschiteddu» assunse nella seconda metà degli anni cinquanta un ruolo di primissimo piano negli organigrammi mafiosi. Però le autorità di polizia non se ne accorsero, almeno sino al 1960, quando  il  comandante  dei  carabinieri  della  sezione  di  Brancaccio  lo  descriveva  come  un  normale  possidente  e commerciante di agrumi, estraneo a «sodalizi mafiosi»76. Era invece decisamente agli onori delle cronache criminali il suo cugino ed omonimo, Salvatore Totò «il lungo», coinvolto ai massimi livelli in traffici di sigarette e di eroina, in collaborazione coi marsigliesi da un lato, con gli americani dall’altro. Non per questo finì in prigione. La mafia stava al seguito della Dc, e la Dc non aveva solo il consenso delle lobby e degli apparati. Stava guidando il paese sulla strada del più straordinario sviluppo economico mai conseguito, da cui anche il Sud e la Sicilia traevano i loro vantaggi. Aveva il consenso della parte maggioritaria dell’elettorato. Lima disse: «Palermo è bella facciamola più bella». Quella classe dirigente si presentava alla città, e alla regione di cui era capitale, con un progetto di modernità: strade asfaltate per camminare con motorette e automobili, case con elettricità  e  fognature.  A  noi  sembra  speculazione,  e  tale  era  in  effetti.  Il  centro  storico  fu  lasciato  in  uno  stato  di degrado e di abbandono, sia nei quartieri vecchi che in quelli nuovi non furono costruite infrastrutture indispensabili al vivere  civile,  e  vennero  distrutte  meravigliose  ville  liberty,  splendidi  giardini.  Ma  la  gente  comune  non  si  sentiva danneggiata da quel sistema; come non si sentiva danneggiata dall’altra attività di punta dei mafiosi, il contrabbando di sigarette. Però a un certo punto – diciamo all’inizio degli anni sessanta – l’armistizio si ruppe. Per capire il come, e il perché, elenchiamo qualche elemento, un po’ alla rinfusa. Nella seconda metà degli anni cinquanta crearono allarme sociale le nuove guerre per bande, ad esempio quella palermitana per il controllo dei mercati generali (1955 e seguenti) o quella corleonese  tra  navarriani  e  liggiani  (1958).  Molti  cittadini  non  si  contentarono  più  di  commentare  «tanto  si ammazzano tra loro», come avevano fatto nel lontano 1885 i difensori dei fratelli Amoroso. Sappiamo poi bene che quello  della  mafia  era  un  sistema  integrato  trans­atlantico.  Lo  vedremo  nel  prossimo  capitolo:  c’era  una  spinta  al disordine  che  dalla  mafia  americana  giungeva  a  quella  siciliana,  e  viceversa  una  domanda  di  repressione  che provenendo dal governo statunitense arrivava a quello italiano.

Torniamo al «sacco edilizio» di Palermo. Aveva meccanismi perversi che non potevano non venire fuori. Li rivelò nel  1964  l’inchiesta  ministeriale  affidata  al  prefetto  Bevivino:  manipolazione  dei  piani  regolatori,  appalti  truccati, licenze  facili,  società  di  comodo.  «L’Ora»  sarcasticamente  parlò  di  un  comitato  d’affari  VALIGIO  (Vassallo­Lima­ Gioia).  Venne  insomma  fuori  lo  scambio  tra  le  due  «nuove»  entità,  la  politica  fanfaniana  e  la  mafia  più  o  meno imprenditrice,  la  loro  sostanziale  omogeneità.  Per  citare  Macaluso:  «Angelo  La  Barbera  poteva,  facendo  politica, salire  le  scale  dell’assessorato  ai  lavori  pubblici,  così  come  un  assessore  ai  lavori  pubblici  degli  anni  ruggenti  di Palermo [Ciancimino] poteva ben fare il “costruttore” alla maniera di La Barbera»77. In questa situazione, l’armistizio si ruppe anche per ragioni interne al sistema politico, opposte a quelle per cui era stato stipulato. Alcuni gruppi democristiani si sentivano troppo condizionati da certi turbolenti interlocutori o alleati, ed emergeva in loro una spinta riformatrice che voleva essere in linea coi nuovi tempi; d’altronde si andava verso il centro­sinistra,  e  alla  Dc  toccava  doveva  fornire  qualche  segnale  in  senso  progressista  al  Psi  che  la  affiancava  al governo. Così Giuseppe D’Angelo, presidente del primo governo di centro­sinistra della Regione siciliana, decise di dare un segnale. Il 30 marzo 1962 i deputati dell’Assemblea regionale, in piedi e con un generale applauso, chiesero al Parlamento nazionale l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. E nel dicembre 1962 la Commissione venne in effetti costituita. Sull’altro  versante,  in  quello  stesso  dicembre,  a  Palermo  il  boss  Calcedonio  Di  Pisa  venne  assassinato.  Il  delitto diede il via a un nuovo, clamoroso conflitto tra le fazioni mafiose cittadine raccolte rispettivamente intorno ai Greco e ai La Barbera: quella che fu detta «prima» guerra di mafia. Anche  gli  apparati  repressivi  recepirono  i  segnali.  Cambiò  ad  esempio  misteriosamente  idea  il  sottufficiale  dei carabinieri che appena due anni prima aveva definito Salvatore Greco «ciaschiteddu» come un uomo d’affari molto perbene.  Ora  lo  indicò  come  «individuo  socialmente  pericoloso»,  «violento»,  sicuramente  «appartenente  alla mafia»78.  Il  tenente  Malausa  fu  richiesto  dai  suoi  superiori  di  scrivere  il  rapporto  che  ben  conosciamo.  Lo immaginiamo intento al lavoro, attingendo alla memoria lunga dell’Arma, mettendo i fatti recenti in connessione con quelli  di  trenta  o  quaranta  anni  prima:  pescando  documenti  da  archivi  polverosi,  ascoltando  colleghi  anziani  e misteriosi informatori, provando a farsi e a dare un’idea. 1 Stabile 1986. 2 Sarebbero 430 secondo Casarrubea 2007, p. 23. 3 Quanto a quelli internazionali, vanno segnalati i tentativi di attribuire una qualche responsabilità al governo o ai servizi segreti statunitensi, in cui in particolare si sono impegnati Casarrubea ­ Cereghino 2007. Però, senza ottenere risultati apprezzabili. 4 I capi del Mis avevano anche strizzato l’occhio a qualche generale che progettava un’azione di forza in favore del re – trame che peraltro, alla fine, non ebbero esito alcuno. 5 Lettera del giugno 1947, in Stabile 1992, p. 265. 6 Cit. da Mangiameli 1987, pp. 578­9. 7 Lettera appunto a Scelba cit. da Spanò 1978, p. 147. 8 Arlacchi 1994. Sull’appartenenza mafiosa di Giuliano insiste ora Petrotta 2018. 9 Arlacchi 1994, pp. 39­40. 10 Ibid., pp. 41­2. 11 L’intervento di Scelba in APS, seduta del 23 giugno 1949, p. 8637. Ma cfr. anche Barrese 1988, pp. 15 sgg. 12 Coco 2017, pp. 189 sgg. 13 Lo Bianco 1999, p. 157. 14 Rapporto del 17 febbraio 1946, cit. in Mangiameli 1987, p. 577. 15 In uno scritto del 1948, l’esponente socialista Simone Gatto rilevava la contraddizione: in quel momento, la mafia vedeva «quotidianamente comprovata» la «inesistenza di una sua funzione mediatrice e regolatrice». Gatto 1978, p. 53. 16 Secondo il magistrato G. Bellanca, Rimi era «uno dei principali favoreggiatori di Giuliano»: testimonianza in Antimafia, Doc., III, t. 1, p. 508. Ma cfr. anche la ricostruzione di Casarrubea 2007. 17 A proposito della misteriosa morte di Ferreri scriveva: Rimi era il «fiduciario per l’uccisione di Ferreri da parte dei Cc, perché temeva che Ferreri – arrestato – parlasse»: Spanò 1978, p. 113. 18 Sentenza di Viterbo, 3 maggio 1952, in Antimafia, Rel. Bernardinetti, Doc., pp. 126­7. 19 Dalla Chiesa 1990, pp. 24­5. 20 Relazione del 31 ottobre 1949, cit. da Barrese ­ D’Agostino 1997, p. 236. 21 Verbale Ispettorato 1938, pp. 103 e 124. 22 Lo Bianco 1999, pp. 222 sgg. 23 Sentenza cit. Cfr. anche Coco 2017, p. 198. 24 Testimonianza del giudice C. Terranova, in Antimafia, Doc., III, t. 1, p. 1188. La guardia si chiamava Calogero Comajanni. 25 Dalla Chiesa 1990, pp. 32 e 36­7. Anche Antimafia, Singoli mafiosi, pp. 65 sgg.

26 Relazione del brigadiere Vignali, in Antimafia, Doc., IV, t. 16, p. 164. 27 La zia di Navarra era sposata con Angelo Gagliano, la moglie era imparentata con Michelangelo Gennaro: Dalla Chiesa 1990, pp. 30­1 e 62. 28 Ibid., p. 39. 29  Sembra  che  gli  omologhi  e  corrispondenti  palermitani  di  Navarra  fossero  preoccupati  che  la  diga  mettesse  in  forse  il  loro  controllo  delle

acque irrigue della Conca d’oro. 30 Testimonianza del vicequestore A. Mangano in Antimafia, Doc., III, t. 1, p. 1147. 31 Relazione Vignali cit., p. 163. 32 Ciancimino ­ La Licata 2010, p. 31. 33 Rapporto Malausa. 34 Arlacchi 1992, p. 148. 35 Testimonianza Calderone, p. 5. 36 La difficoltà è accentuata dal fatto che il cognome Greco è diffuso, e in qualche caso c’è il rischio di scambiare per parentela quella che è solo omonimia. 37 Rapporto Malausa, p. 41. 38 Relazione del prefetto di Palermo, 16 marzo 1916, in ACS, PG, 1916­18, b. 236. Il sacerdote si chiamava Giorgio Gennaro. 39 Viviano 2008, pp. 30­3. 40 Ibid., p. 169. 41 Rapporto Malausa, p. 48. 42 Patti 2014, p. 183. 43 Rapporto Malausa, p. 43. 44 Sentenza di rinvio a giudizio contro P. Torretta e altri, 31 maggio 1865, in Antimafia, Doc., IV, t. 17, pp. 34­44. 45 Viviano 2008, p. 67. 46 Ibid., p. 126. 47 Ibid., p. 51 e passim. 48 Antimafia, Singoli mafiosi, pp. 137 sgg. L’ultimo caduto era Antonino Conigliaro, genero del Francesco Greco citato nel Rapporto Malausa. 49 Antonino Cottone, elemento che la polizia giudicava al vertice degli organigrammi mafiosi provinciali. Anche lui finì ammazzato nel 1956. 50 Coco 2013, pp. 116 sgg. 51 Istruttoria La Barbera, p. 543. 52 Però era mafiosa la famiglia della moglie, che ebbe due fratelli ammazzati nel 1961­62. Coco 2013, pp. 110 sgg. 53 Santino ­ La Fiura 1990, p. 133. 54 Si vedano i documenti collazionati in Antimafia, Doc., IV, t. 10. 55 Istruttoria Andreotti, p. 146. 56  In  questo  senso  ha  testimoniato  l’ispettore  di  polizia  Salvatore  Bonferrato,  citando  rapporti  di  polizia  e  documenti  del  tempo,  nel  corso dell’udienza del processo Andreotti del 22 maggio 1996. 57 Rapporto Malausa, pp. 40 e 41. 58 Chubb 1982; Caciagli 1977. Più articolata la posizione di Mastropaolo 1993. 59 Di Matteo 1958; La Loggia 1963. 60 Si vedano i rapporti tra i Greco e Luigi Gioia, fratello e successore di Giovanni, in relazione alla gestione dell’eredità Tagliavia in Istruttoria maxiprocesso, pp. 84 sgg. 61 In particolare quello del notabile e grande proprietario catanese Benedetto Majorana della Nicchiara, successivo presidente della Regione. 62 Istruttoria maxiprocesso, pp. 346­7. 63 Relazioni del 1965 e del 1969, cit. ibid., pp. 314­5. 64  È  l’espressione  del  magistrato  A.  Di  Giovana  relativamente  alla  quotizzazione  dei  feudi  del  barone  agrigentino  Cannarella,  in  Antimafia, Doc., IV, t. 1, p. 524. 65 Levi 1962, p. 162 e passim. Il volume è composto da contributi già editi nel 1951­55. 66 Sciascia 1961, p. 165. 67 Nisticò 2001. 68  Fu  denunciato  soprattutto,  in  polemica  con  Gioia,  l’assassinio  di  Pasquale  Almerico,  sindaco  democristiano  di  Camporeale,  oppostosi  al passaggio dal Pli alla Dc del capo­mafia Vanni Sacco (1957). 69 Nisticò 2001, pp. 53­4. Ricordo che i Rimi sono stati già evocati in questo capitolo come interlocutori degli apparati di sicurezza nella caccia a Giuliano. 70 Rispettivamente, Macaluso 1971, p. 106, e Id. 1995, p. 69. 71 Mineo 1995, p. 210. 72 Arlacchi 1992, p. 184 e passim. 73 Traggo le citazioni delle tre relazioni da Crainz 1997, pp. 17­8. 74 Ciancimino ­ La Licata 2010, p. 126. 75 Viviano 2008, p. 67.

76 Antimafia, Singoli mafiosi, p. 143. 77 Macaluso 1971, p. 105. 78 Antimafia, Singoli mafiosi, p. 143.

X. La Cosa nostra

Negli Stati Uniti la controffensiva del governo federale contro il gangsterismo italo­americano, già avviatasi nel 1950 con l’inchiesta Kefauver, si dispiegò a partire dal 1957. Qualche anno prima che in Italia (abbiamo cominciato a parlarne  nel  capitolo  precedente)  si  determinasse  una  prima  rottura  del  lungo  armistizio  tra  Stato  e  mafia.  Il  nuovo attivismo  delle  autorità  sull’una  e  sull’altra  sponda  determinò  un’ondata  di  rivelazioni  dall’interno,  sul  presente  e anche sul passato della mafia, che restano cruciali per ogni ricostruzione della sua storia. La testimonianza più importante fu quella resa nel 1963 dal gangster italo­americano Joe Valachi, che ricordiamo membro della squadra di killer di Maranzano nel corso della guerra castellammarese di trent’anni prima. Il testimone indicò  con  il  termine  Cosa  nostra  l’organizzazione  che  negli  Stati  Uniti  era  stata  in  precedenza  chiamata  in  varie maniere,  oltre  che  mafia.  Per  quanto  ne  so,  l’espressione  usata  da  Valachi  non  era  mai  comparsa  nella  discussione pubblica  americana,  né  in  quella  italiana  dell’Ottocento  o  della  prima  metà  del  Novecento.  Si  dovette  aspettare  il 1973,  la  confessione  del  mafioso  palermitano  Leonardo  Vitale,  perché  facesse  timidamente  la  sua  comparsa  nel vecchio  mondo.  E  solo  nel  1984  venne  canonizzata  da  Tommaso  Buscetta  nella  più  celebre  e  importante  delle confessioni di un protagonista del sottomondo mafioso. Buscetta precisò: è Cosa nostra il nome vero, in Sicilia «come negli Stati Uniti». Come diremo quest’altro testimone, contrariamente a Valachi (e un po’ come Nick Gentile), aveva un’esperienza  intercontinentale:  appunto  siciliana  e  statunitense,  oltre  che  sud­americana.  Fu  per  questo soprannominato «il boss dei due mondi». Sempre intorno al 1963, con la costituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta, comunemente chiamata antimafia,  introdusse  nel  linguaggio  pubblico  italiano  un’altra  parola  nuova.  Noi  abbiamo  già  utilizzato  questo termine per il periodo fascista, ma con qualche riluttanza. A quella fase storica infatti non si adatta il significato che esso  sempre  più  venne  ad  assumere  negli  anni  successivi  al  1963:  una  convergenza  di  istituzioni,  gruppi  politici  e società civile intorno al nodo della legalità. 1. La svolta, 1957­1963. Negli Stati Uniti, dunque, l’anno cruciale fu il 1957. Ma già prima, sin dal 1950­51, le cose erano in moto. E non soltanto sul fronte esterno (inchiesta Kefauver), ma anche sul fronte interno, come fu evidente con l’assassinio di una nostra  vecchia  conoscenza,  il  capo  della  Commissione  Vincenzo  Mangano1.  Sembra  che  a  sostituirlo  sia  stato Bonanno, boss castellammarese, esponente dunque di una mafia che – più di ogni altra – aveva capisaldi su entrambi i versanti dell’oceano. Forse al tentativo di presidiarle entrambe va ricondotto il ritorno nell’antica patria di due suoi luogotenenti:  suo  zio  Giovanni  Bonventre,  che  era  arrivato  a  New  York  nel  1933,  e  Frank  Garofalo,  che  già conosciamo soprattutto per il ruolo da lui avuto nel delitto Tresca (1941). Seguì, appunto nel 1957, un viaggio dello stesso Bonanno in Sicilia, a Castellammare e a Palermo. Il boss fece la sua comparsa al palermitano Hotel delle Palme, tra il 12 e il 16 ottobre, alla testa di una delegazione composta  appunto  da  Bonventre  e  Garofalo,  da  Carmine  Galante  detto  Lillo  o  Big  cigar  (anche  lui  a  suo  tempo coinvolto nel delitto Tresca), e da castellammaresi di Castellammare, a cominciare da suo cugino Gaspare Magaddino (abbiamo  già  conosciuto  pure  lui).  Incontrò  una  quantità  di  personaggi,  tra  i  quali  c’erano  il  giovane  Gaetano Badalamenti di Cinisi e il vecchio Genco Russo di Mussomeli. Un informatore sentì quest’ultimo sentenziare, rivolto a un suo compaesano d’America: «Quannu ci sunnu troppi cani supra un ossu, beato chiddu chi po’ stari arrassu» – ovvero,  «quando  ci  sono  troppi  cani  su  un  osso,  beato  chi  sta  indietro»2.  Voleva  dire:  gli  interessi  sono  grossi,  gli interessati tanti, si preannunciano conflitti. Il  summit  si  concluse  il  16  ottobre,  e  nemmeno  trenta  giorni  più  tardi  (14  novembre)  ne  cominciò  un  altro oltreoceano,  in  una  località  montana  dello  Stato  di  New  York,  chiamata  Apalachin,  nel  territorio  e  sotto  la responsabilità  della  gang  castellammarese  di  Buffalo  guidata  dall’altro  cugino  di  Bonanno,  Stefano  Magaddino. Straordinario incrocio intercontinentale, sequenza cronologica stringente. In mezzo, il 25 ottobre, ci fu l’assassinio di Albert Anastasia nel salone del barbiere di un lussuoso albergo newyorkese, che agli occhi di tutto il mondo restò a lungo l’immagine più familiare del delitto di mafia. Carlo Gambino divenne il numero uno della sua Famiglia3.

Direi  che  il  progetto  dei  castellammaresi  di  Sicilia  e  d’America  era  articolato  in  due  fasi.  Prima,  a  Palermo: riorganizzare con la collaborazione dei siciliani i flussi del narcotraffico, ammonirli a non azzuffarsi come i cani su cui ironizzava Genco Russo. Seconda, ad Apalachin: mettere l’élite criminale italo­americana di fronte agli accordi siglati oltreoceano, e guadagnarne in credibilità in una fase caratterizzata da grandi conflitti interni, da rivolgimenti di gerarchie. Un incidente (se tale fu) impedì la realizzazione della seconda fase. La polizia locale fece irruzione nella villa dove stava cominciando il meeting, fermando 61 persone (altri riuscirono a fuggire): gangster, sindacalisti, uomini d’affari, personaggi notissimi alle cronache o sconosciuti, forniti di poderosi record criminali o incensurati. Caso­limite, quello del  genero  di  Magaddino,  che  (come  abbiamo  detto  a  suo  tempo)  era  stato  da  poco  insignito  del  titolo  di  «uomo dell’anno» dal Dipartimento di polizia di Buffalo. Dei 61, erano 35 quelli che risiedevano nello Stato di New York, 8 nel New Jersey, 6 in Pennsylvania, 2 nell’Ohio, mentre quelli provenienti dal Sud e dall’Ovest del paese si contavano sulle  dita  di  una  sola  mano4.  Si  trattava  del  gruppo  dirigente  di  un’organizzazione:  ma  non,  come  fu  detto,  di  tipo nazionale,  bensì  di  tipo  regionale,  disposta  intorno  alla  grande  porta  di  entrata  di  Nord­est  degli  States.  Aveva carattere mono­etnico, visto che i fermati erano per metà nati in America ma di origine italiana, per l’altra metà nati in Italia  con  una  larghissima  maggioranza  di  siciliani.  Poteva  essere  chiamata  mafia,  come  avevano  fatto  negli  anni precedenti il Narcotic Bureau e Kefauver. Così  i  boss  della  seconda  ondata,  rimasti  per  più  di  trent’anni  in  una  protettiva  penombra,  finirono  per  la  prima volta sotto la luce vivida dei riflettori; venne identificato anche Bonanno, che era riuscito a dileguarsi, e i giornali gli affibbiarono  un  nomignolo  che  gli  spiacque  moltissimo  –  Joe  Bananas.  Per  lui  e  per  i  suoi  colleghi  cambiò  tutto perché  tutto  cambiò  per  l’opinione  pubblica,  per  il  governo  federale  e  per  l’Fbi,  l’agenzia  che  si  era  mostrata  negli anni precedenti scettica sul concetto di mafia nonché restia a usare la parola, ma che non poté non essere chiamata in campo  essendo  l’unica  a  possedere  i  mezzi  e  il  know­how  necessario  a  invertire  l’andazzo  prevalso  negli  anni precedenti.  Toccò  alla  sua  Central  Research  Section  mettere  ordine  dal  punto  di  vista  conoscitivo  e  concettuale elaborando nel giugno 1958 una Mafia Monograph dalla quale abbiamo già tratto molte informazioni. La questione della grande criminalità venne inserita, almeno dal punto di vista retorico, nell’agenda della guerra fredda.  Il  gran  capo  dell’Fbi,  Edgar  Hoover,  definì  un  «disastro  nazionale»  l’eventualità  che  all’impegno  contro  il comunismo  non  corrispondesse  quello  contro  il  crimine.  Disse  il  democratico  Robert  Kennedy,  che  si  preparava  a sostenere il fratello John nella vittoriosa campagna per la presidenza: la criminalità organizzata è un «nemico interno» (quello esterno era Chruščëv) che, penetrando nel mondo sindacale e in quello dell’impresa, rischia di indebolire «il libero sistema economico americano», la stessa «fibra morale della società»5. Fu portato il primo vero colpo dell’era postbellica contro un boss, nella persona di Vito Genovese, condannato a una lunga pena detentiva (quindici anni) per traffico di stupefacenti. Era il 1959. Di lì a poco, nel carcere di Sing­Sing, Genovese si trovò faccia a faccia con Valachi, suo gregario anche lui detenuto per narcotraffico, con cui era in pessimi rapporti. Valachi pensò che il boss avesse decretato la sua eliminazione, e accadde che ammazzasse con le sue mani un  innocente  compagno  di  detenzione  credendolo  un  killer.  Non  gli  restò  che  collaborare,  prima  con  il  Narcotic Bureau, poi con l’Fbi. Insomma, l’attivismo delle autorità incrinò la compattezza dell’underworld, com’era avvenuto ai tempi di Dewey. La  testimonianza  di  Valachi  di  fronte  alla  Commissione  senatoriale  sul  crimine  organizzato  presieduta  dal  senatore democratico  McClellan  (settembre  del  1963)  portò  a  compimento  la  svolta  cominciata  neanche  sei  anni  prima  con l’irruzione della polizia ad Apalachin. Il rito si consumò in un’aula affollata da cinquecento persone, che ascoltavano emozionate il super­testimone che rivelava i propri segreti: La testimonianza di Valachi è qualche volta incoerente. Spesso lascia le domande senza risposta. È espressa in una dizione gutturale, da illetterato, che qualche volta lascia confusi i suoi ascoltatori. Ma quella storia così sinistra ha preso tutti alla gola6.

Suonò sorprendente per il pubblico il quadro, disegnato da Valachi, di una società segreta riservata agli italiani, in cui  si  entrava  per  giuramento,  formata  da  Famiglie  (cinque  a  New  York,  una  in  altre  città  statunitensi),  con  una Commissione  che  le  dirigeva  tutte.  Risulterà  più  familiare  al  lettore,  sulla  base  di  quanto  è  stato  scritto  nei  capitoli precedenti. Io ribadisco la piena congruenza tra quel modello, che Valachi diceva affermatosi negli Stati Uniti negli anni  trenta,  e  quello  delineato  nello  stesso  periodo,  per  la  Sicilia,  nei  documenti  dell’Ispettorato  interprovinciale  di Pubblica sicurezza. Resta da capire perché Valachi abbia chiamato l’organizzazione non mafia ma La cosa nostra. 2. Uno sguardo nel sottosuolo. È possibile che «Cosa nostra» fosse un antico nome iniziatico della segreta società, rimasto sino ad allora ignoto ai profani. Io però non credo. In questo caso, sarebbe venuto fuori ben prima del 1963, almeno negli anni trenta, quando

in  Sicilia  era  in  effetti  venuta  fuori  la  parola­base  del  prima  e  del  dopo,  sull’una  e  sull’altra  sponda:  Famiglia.  Il termine Famiglia indica, quanto e più di Cosa nostra, un valore indiscusso nella società, bene rappresenta la necessità di  un’ampia  legittimazione  che  caratterizza  questo  tipo  di  criminalità.  Possiamo  citare  testimonianze  dall’interno stando  alle  quali  negli  anni  venti  l’organizzazione  mafiosa  era  definita  «Unione  siciliana»  dai  giornali,  però  dagli affiliati era detta La Famiglia7. Pare indicativo il fatto che il termine Cosa nostra si sia materializzato prima in America e dopo in Sicilia. Così la pensa il sociologo Diego Gambetta: a suo dire nel nuovo mondo i mafiosi sentivano il bisogno, più che nel vecchio, di un «nome» con cui definire se stessi, attraverso cui distinguersi dalle altre bande della criminalità etnica8. Di questo avrà  parlato  il  grande  capo  siciliano  Maranzano  col  gregario  italo­americano  Valachi  nel  1931.  Immaginiamo (mettendoci  magari  un  po’  di  fantasia)  le  sue  parole:  i  siciliani  e  gli  altri  italiani,  di  prima  o  seconda  generazione, hanno bisogno di essere difesi ma non da una gang, bensì da una specie di famiglia, parte di una più generale cosa nostra fatta di solidarietà e senso dell’onore, da distinguersi dalle cose loro, le ipocrite regole degli anglosassoni, la prepotenza della macchina politica irlandese. I  pentiti  siciliani  di  oggi  adoperano,  per  spiegare  il  reticolo  di  complicità  che  collega  mafiosi,  politici  o imprenditori, frasi ammiccanti come «era cosa mia (sua)», o «era cosa nostra (loro)», o «era nelle nostre (nelle loro) mani». Nella sua reticente autobiografia, Bonanno ammette di aver talora sentito l’espressione in bocca a Vincenzo Mangano, usata in un senso analogo a questo, in maniera generica. Chi è capace di intendere intende, come quando Frank Costello diceva al suo avvocato: «he’s connected»9. Valachi,  richiesto  di  tradurre  in  inglese  l’espressione,  la  rese  (correttamente)  «our  thing»,  ma  aggiunse (scorrettamente) che poteva anche tradursi «our family»10, inducendo in noi l’impressione che l’uso dei termini non fosse così consolidato come lui diceva, o come gli si voleva far dire. Teniamo insomma conto anche dell’influenza che avevano  su  di  lui  i  suoi  interlocutori  dell’Fbi.  Può  darsi  che  l’abbiano  scoraggiato  dall’utilizzare  la  vecchia  parola mafia, volendo far dimenticare all’opinione pubblica la propria passata sottovalutazione del problema, e viceversa i meriti  dei  loro  concorrenti  del  Narcotic  Bureau.  Sembra  abbiano  sentito  il  termine  nuovo  –  usato  in  una  qualche accezione,  formale  o  più  probabilmente  colloquiale  –  da  fonti  confidenziali  o  in  intercettazioni  ufficialmente  non utilizzabili perché ottenute con metodi illegali11. Al  proposito,  può  essere  interessante  l’uso  dei  termini  fatto  in  un  documento  immediatamente  successivo,  e  di straordinario  valore:  le  intercettazioni  ambientali  delle  conversazioni  tenutesi  nell’estate  del  1964  nell’ufficio  di Samuel Rizzo De Cavalcante, pezzo grosso del gioco d’azzardo nonché boss di una Famiglia di minore importanza, quella del New Jersey. Sentiamo il boss chiamare gli altri mafiosi, alternativamente in inglese o in italiano, «friends of ours» o «amici nostri», e nello stesso senso dire che un tizio è «cosa nostra»12. Però usa l’espressione anche in senso formale, come membro di un’organizzazione che chiama «Our thing» o in italiano «Cosa nostra» – oltre che in diversi altri modi – di cui richiama le regole, e cita l’organismo dirigente, la Commissione13. Un confronto con testimonianze di gangster rese successivamente, ma riferite a quel periodo, indica che l’espressione era usata da qualcuno, ma non da tutti e non sempre. Si affermò nel «vocabolario criminale» gradatamente, specularmente a una qualche decadenza del termine mafia14. D’altronde era più che altro l’America ufficiale ad aver bisogno di un nome ufficiale con cui indicare il nemico. Il nemico si adattò. I mafiosi sempre mettono insieme etero­rappresentazione e auto­rappresentazione. Qui  siamo  sulla  strada  per  cogliere  non  le  falsificazioni,  ma  le  forzature  interpretative  cui  fu  sottoposta  la testimonianza di Valachi. La prima riguarda l’estensione dell’organizzazione sul territorio. L’Fbi, istituzione addetta alla sicurezza federale, attribuì al nemico dimensione nazionale: per impressionare l’opinione pubblica ma anche per meglio giustificare il proprio attivismo nei confronti delle polizie locali. Mostrò dunque alla stampa maps raffiguranti 24 Famiglie organizzate secondo un unico modello gerarchico, sparse in forma simmetrica per l’America, governate da  una  sola  Commissione.  In  sostanza  la  Cosa  nostra  era  equiparata  agli  Stati  Uniti,  e  la  Commissione  al  governo federale. Però si trattava di una semplificazione e magari di una deformazione. L’esperienza di Valachi era limitata a New  York  e  a  qualche  località  circostante.  E  anche  le  indagini  successive,  come  era  accaduto  già  dopo  Apalachin, confermarono la centralità di New York, con cinque Famiglie forti di ben duemila affiliati15, cui si aggiungeva quella del  New  Jersey  e  il  fitto  presidio  mafioso  intorno  a  Buffalo,  Cleveland,  Boston  e  Philadelphia.  Chicago,  come  da tradizione, restava l’altra capitale del gangsterismo – autonoma, in quanto tale. Il disegno si faceva poi ben più rado man mano che si procedeva verso sud e ovest, a parte i casi di Reno, Las Vegas e (prima della rivoluzione castrista) L’Avana, dove i gangster dell’Est avevano grandi interessi nel gioco d’azzardo. Quanto alla Commissione, tutto indica che  si  trattava  di  un  coordinamento  delle  cinque  Famiglie  newyorkesi  tra  loro,  e  con  i  gruppi  operanti  nell’area circostante. Io  aggiungo:  la  rete  aveva  carattere  da  un  lato  regionale,  e  dall’altro  intercontinentale.  Di  questa  seconda dimensione il super­testimone non aveva cognizione, a essa l’Fbi non prestò grande attenzione.

Per Valachi i siciliani erano quella strana, barbara gente arrivata negli anni venti, che negli anni trenta aveva ancora così  strani  costumi:  «a  quei  tempi  usavano  baciarsi»,  raccontò  un  po’  imbarazzato  ai  membri  della  Commissione parlamentare. Per fortuna da allora si erano civilizzati: «Ora sono venuti fuori. Sono diventati ricchi, hanno imparato tutto negli ultimi 25 anni»16. Nulla in questo schema lasciava intendere il rinnovarsi delle relazioni tra le due sponde intorno al 1957, nonché (ci arriveremo tra poco) lo sbarco in America di nuovi greasers siciliani, proprio nel momento delle sue rivelazioni, quarant’anni anni dopo Bonanno o Gambino. Ma valutiamo anche l’aspetto ideologico, da cui risulta quanto forte fosse ancora a quel tempo l’input originario, quale risulta dalle intercettazioni nell’ufficio di Rizzo De  Cavalcante,  New  Jersey;  le  quali  ci  danno  la  possibilità,  per  la  prima  volta,  di  ascoltare  le  parole  usate  in  quel sottomondo nel momento stesso in cui i capi le pronunciano a beneficio dei gregari. Il boss presenta se stesso come uno che non violerebbe mai le regole, che lavora per la pace e l’armonia, che si ispira a criteri di ragionevolezza ed equilibrio. Afferma ad esempio che non farebbe pestare qualcuno solo per riaverne gli spiccioli dati in prestito. Chissà se dice sul serio. Comunque, si tratta di ideologia mafiosa che come sempre (come tante  altre)  si  nutre  della  contrapposizione  tra  un  passato  mitizzato  e  un  presente  deludente.  «Più  cose  vedi  più  ti disilludi. Tu lo sai, onestà, responsabilità. Tutte queste cose»17. I boss di oggi? Sono «lupi». Vale invece il modello della mafia del buon tempo antico, per rappresentare la quale De Cavalcante evoca l’antico suo boss, un businessman sì  ma  anche  un  amante  dei  buoni  libri,  siciliano  d’origine  e  tornato  in  Sicilia  dove  –  c’è  da  esserne  sicuri  –  «deve sentirsi a posto, a casa». Ricorda commosso come costui l’abbia affiliato nel 1942, ed è fiero di ripetere le parole dette allora in italiano, e poi di tradurle a beneficio di quanti tra i suoi non capiscono la lingua del vecchio mondo: «No, tu non devi abusare. Devi proteggere la gente perché non si abusi di loro». «Quando mi hanno fatto mi hanno fatto in italiano. Parlavano tutti in italiano», aggiunge lasciando intendere che l’italiano è l’unica lingua adatta ad esprimere l’ethos mafioso18. Siamo piuttosto distanti dalla rappresentazione fornita dalle agenzie governative, e da qualche intellettuale, di Cosa nostra  come  grande  corporation  o  syndicate,  capace  di  controllare  tutte  le  attività  criminali,  e  dei  suoi  capi  come grandi manager: che molto riproponeva i fraintendimenti del dibattito degli anni trenta culminati nel libro fortunato di Burton Turkus e Sid Feder, Murder, Inc.19. Questa  rappresentazione  «ufficiale»  non  corrispondeva  neanche  agli  elementi  empirici  ricavabili  dall’esperienza del super­testimone. Certo Valachi si valse della propria condizione di affiliato per scalare diversi gradini sulla scala sociale:  prima  rapinava  banche,  si  faceva  sparare  addosso  dai  poliziotti  e  passava  lunghi  periodi  della  sua  vita  in prigione; dopo entrò nella gestione del gioco d’azzardo e in quella dei night­club, comprò cavalli da corsa, e grazie a ottimi rapporti con le forze dell’ordine si mantenne lontano dalla galera – almeno finché Apalachin cambiò le regole del gioco. Ma nel suo racconto insistette sempre su un punto: gli affari in cui si impegnava, i capitali che impiegava, gli  oggetti  che  comprava  e  vendeva,  gli  avvocati  cui  faceva  ricorso,  erano  proprio  suoi,  non  della  Famiglia.  Non descrisse se stesso come la rotella di un compatto ingranaggio, bensì come un imprenditore che gestiva per proprio conto  e  nel  proprio  interesse,  che  costituiva  joint­venture  di  varia  natura  con  personaggi  di  varia  estrazione,  che  si muoveva  in  un  mondo  variegato  di  affari  e  clientele.  Pressato  perché  chiarisse  i  termini  della  sua  relazione  con l’organizzazione, fornì sia pure malvolentieri una definizione – «mutual protection»20. Questo è il quadro risultante anche da altre fonti. Lo ha sottolineato, sulla base appunto di una vasta casistica, il criminologo Abadinsky: Nelle cinque Famiglie di New York e forse anche in altri gruppi criminali di tipo tradizionale, ogni membro è un operatore indipendente, non un impiegato – egli non riceve alcun salario dal gruppo. Invece, l’elemento fatto o affiliato dispone di una sorta di «franchigia»: è autorizzato a far soldi usando le relazioni della Famiglia che derivano dall’esserne membro, sostenuto dallo status (cioè, dalla paura) derivante dalla sua appartenenza21.

Io  citerei  tra  l’altro  la  confessione  resa  nel  1980  da  un  «associato»  alla  Famiglia  Lucchese:  «Pressoché  tutti  gli affiliati erano impegnati, a un qualche livello, in affari di vario tipo. Erano tutti piccoli imprenditori». Non dipendenti. La  fonte  stessa  (come  altre  fonti  interne)  usa  poi  il  termine  «associato»:  a  indicare  elementi  che  non  sono  stati ammessi  al  giuramento,  e  che  si  collocano  sotto  la  protezione,  «under  the  umbrella»,  di  un  affiliato22.  Il  quadro  si complica. Per interpretarlo, riproporrei ancora la distinzione di Alan Block tra power syndicate ed enterprise syndicate.  Le Famiglie di Cosa nostra rappresentano il primo elemento, mentre al secondo partecipano sì gli affiliati, ma insieme ad affaristi borderline della più varia natura. Insomma, contrariamente a quanto pensavano Turkus e Feder e tutti i loro epigoni, le Famiglie non sono corporation e i loro boss non sono manager. Abbiamo, al loro interno, soggetti di rango più  elevato  che  svolgono  il  ruolo  dei  patroni  nei  confronti  di  quelli  di  rango  meno  elevato,  e  proteggono  il  loro business in cambio di tangenti, in un rapporto che non è «burocratico» ma personale. Fuori, ci sono elementi che a

loro volta si appoggiano (volenti o nolenti) ai mafiosi nella gestione delle loro attività (lecite o illecite). Si spiega il perché un Rizzo De Cavalcante si mantenga fedele a ideologie protettive e tradizionaliste. Le nostalgie del passato fanno parte della retorica mafiosa ma nella fattispecie venivano accentuate dal fatto che, come  sappiamo,  tra  il  1957  e  il  1963  il  sistema  andò  in  crisi.  La  crisi,  nell’ufficio  del  boss  del  New  Jersey,  la  si percepiva tutta. Da un lato c’era il panico per le iniziative dell’Fbi che stavano «mettendo insieme i pezzi» del puzzle mafioso. Dall’altro c’era lo sconcerto per i contrasti interni all’organizzazione, che molto ruotavano intorno alla figura di Bonanno. In  effetti  erano  stati  i  castellammaresi  a  volere  il  meeting  di  Apalachin,  con  le  sue  conseguenze  catastrofiche; logico che la credibilità del loro boss venisse meno. Come abbiamo detto, Bonanno perse il suo numero due, Galante, che finì in prigione nel 1960, condannato a una lunga pena detentiva per narcotraffico. Profaci, suo alleato e parente (erano  consuoceri),  morì  di  morte  naturale  nel  196223.  Persino  la  sua  tradizionale  alleanza  col  cugino  Stefano Magaddino  di  Buffalo  si  trasformò  in  ostilità,  la  sua  stessa  gang  si  spaccò,  tra  sparatorie  e  omicidi  cui  i  giornali  si riferirono come «Banana war» (1964­68). Venne sospettato di complottare per uccidere gli altri boss, e si trovò contro l’intera Commissione, capeggiata da Gambino. Salvò la pelle ma fu costretto a ritirarsi nella lontana Tucson, Arizona. Io direi che Bonanno perse le sue guerre perché i suoi colleghi respinsero entrambi i punti qualificanti della sua strategia:  a)  impegnare  più  organicamente  Cosa  nostra  americana  nel  narcotraffico;  b)  rafforzare  la  connection siciliana. I due punti erano in effetti connessi, come abbiamo visto e come meglio vedremo. Partiamo  dal  primo,  citando  la  discussione  tra  due  esponenti  di  massimo  livello  della  Famiglia  Lucchese,  che conosciamo grazie a un’intercettazione ambientale Fbi. Il boss dice: Non voglio che nessuno traffichi con la fottuta droga, altrimenti li farò ammazzare»; l’altro viene di rincalzo: «Certo, il fottuto problema è tutto qui. È la droga. Loro [le forze dell’ordine] non si curano del gioco d’azzardo e di tutte le altre stronzate»24. In effetti le polizie locali erano tolleranti verso molte delle usuali attività della mafia (gioco d’azzardo, labor racket, scommesse). Il traffico di droga invece destava l’allarme dell’opinione pubblica, confutava l’immagine che i mafiosi amano dare di se stessi, quella dei  difensori  dell’ordine  tradizionale,  e  mal  disponeva  l’autorità.  Era  sanzionato  molto  più  pesantemente  in  sede penale. E faceva scendere in campo le polizie federali, molto meno malleabili di quelle locali. In  questo  senso  è  plausibile  quanto  affermano  molte  fonti:  che  la  Commissione  abbia  proibito  alle  Famiglie  di partecipare  ai  commerci  di  droga.  Potremmo  datare  la  decisione  dopo  Apalachin  o  le  pesanti  condanne  per narcotraffico inflitte a Galante e anche a Genovese, magari prima delle rivelazioni di Valachi. Sta di fatto, però, che nella struttura «pluralista» e fluida degli affari delle Famiglie, per come l’abbiamo prima descritta, non era facile ai boss  impedire  davvero  ad  affiliati,  associati  e  satelliti  di  occuparsi,  tra  l’altro,  anche  di  droga.  Se  lo  dicevano  l’un l’altro i due membri della Famiglia Lucchese nella discussione sopra citata: «gli altri non sono come noi»25. E poi i boss  e  i  loro  inner  circle  erano  tutti,  e  fino  in  fondo,  disposti  a  rinunciare  a  quelle  opportunità  di  profitto?  Vale  il concetto: il fatto che una legge sia stata emanata non significa che sia sempre rispettata. 3. Narcotrafficanti. Passiamo  sull’altro  versante  della  connection  transatlantica  mafiosa,  quello  siciliano.  E  partiamo  dalla testimonianza di Buscetta26, che è di straordinaria importanza ma per cui vale l’avvertenza: va presa con prudenza e senso  critico,  tenendo  conto  dell’interesse  che  il  super­testimone  aveva  nel  dire  alcune  cose,  nel  tacerne  altre,  del sentire mafioso e dell’agire mafioso che, come disse bene Leonardo Sciascia, continuavano a ispirarlo anche dopo la sua decisione di collaborare con le autorità. Nemmeno  Buscetta  avalla  l’idea  che  gli  affari  dei  mafiosi  venissero  gestiti  da  un’unica  super­organizzazione centralizzata.  A  proposito  di  contrabbando  di  sigarette,  spiega  che  le  Famiglie  palermitane  «consentivano»  ai contrabbandieri  di  tabacco  di  operare,  in  cambio  di  un  «diritto»  dei  singoli  mafiosi  di  entrare  come  soci  in  quegli affari. Gli investigatori della guardia di finanza dicevano: le cosche imponevano sul contrabbando una tangente. Non siamo distanti dallo schema del criminologo Abadinsky che abbiamo sopra esposto. Ne consegue che ogni mafioso, per  usufruire  in  concreto  del  «diritto»  di  entrare  in  quegli  affari,  doveva  avere  del  denaro  da  investirvi:  impiegava risorse  individuali  e  ricavava  profitti  individuali.  Rileviamo  che,  per  questa  via,  l’enterprise  syndicate  metteva  in contatto mafiosi appartenenti a diverse Famiglie, oltre che con soci, fornitori, clienti esterni: creando nuovi incroci e nuove alleanze. Lo stesso Buscetta ha raccontato un’esperienza personale, indicativa delle possibili contraddizioni che ne potevano derivare.  Nel  1958  fu  temporaneamente  «posato»,  ovvero  sospeso,  dall’onorata  società,  per  la  sua  tendenza  a  fare affari  con  «persone  che  non  avevano  la  mentalità  mafiosa»  (i  marsigliesi?),  trascurando  magari  di  coinvolgere  i confratelli della Famiglia di Porta Nuova, cui era formalmente affiliato27.

E il traffico di droga? Buscetta ha affermato che non era un’attività di rilievo per i mafiosi siciliani, almeno per quanto  riguarda  gli  anni  cinquanta  e  sessanta.  Ancor  più  decisamente  ha  negato  di  aver  lui  stesso  commerciato  in narcotici, ammettendo invece di aver contrabbandato tabacco. Si è del tutto mantenuto sulla negativa anche per quanto attiene ai boss di Cosa nostra americana: si trattava, spiegò, di uomini d’affari poco inclini a usare la violenza nonché restii a impegnarsi in settori propriamente illegali, cui era fatto «assoluto divieto» di commerciare in droga28. Io penso invece che si debba prestar credito agli inquirenti di allora, i quali erano convinti che siciliani e marsigliesi trattassero insieme di tabacchi e droga; indicando proprio Buscetta come uno dei più impegnati in entrambi i settori29. Quanto agli  americani,  abbiamo  visto  e  vedremo  che  la  questione  era  molto  più  complicata  di  quanto  il  super­testimone volesse far credere. Buscetta  si  è  sempre  mantenuto  su  questa  linea  nella  sua  testimonianza,  anche  a  proposito  delle  riunioni  con Bonanno cui sostiene di aver partecipato a Palermo nel 1957, e nelle quali a suo dire non si sarebbe parlato mai di droga30. Non ho bisogno di ribadire che invece tutte le ipotesi investigative sul viaggio siciliano del boss newyorkese portano  sulle  piste  del  narcotraffico.  Stando  a  Buscetta,  Bonanno  insistette  perché  i  siciliani  costituissero  –  sul modello americano – una loro Commissione. Ne nacque in effetti una, anche se con competenza solo provinciale, e ad assumerne la guida fu Salvatore Greco «ciaschiteddu»31. Rilevo  che  la  Commissione  palermitana  si  mostrò  ancor  meno  efficiente  della  consorella  d’oltreoceano:  non prevenne né risolse il sanguinoso conflitto interno, scoppiato nel 1962, che passò alla storia come «prima» guerra di mafia,  tra  la  fazione  capitanata  proprio  dai  Greco  di  Ciaculli  e  quella  emergente  capitanata  dai  fratelli  La  Barbera, della quale lui stesso, Buscetta, faceva parte. I La Barbera ne uscirono disfatti. Uno di loro (Salvatore) finì vittima di «lupara  bianca»,  ovvero  il  suo  cadavere  sparì  e  non  venne  mai  ritrovato.  L’altro  (Angelo)  fuggì  a  Milano,  ma  la lontananza dalla Sicilia non lo salvò da un attentato, nel quale rimase ferito. Se la cavò, finì prima al confino e poi in galera dove, alcuni anni più tardi (1975), venne assassinato. Buscetta, neanche a dirlo, nega che la droga abbia avuto un ruolo nel generare il conflitto32, come sostenevano gli inquirenti di allora; e chiama in causa una sequenza complicata di manovre del boss Michele Cavataio intesa a mettere l’una contro l’altra le altre fazioni. Le due spiegazioni potrebbero essere complementari. I siciliani fungevano da intermediari tra i produttori della materia prima (localizzati in Estremo o Medio Oriente), i raffinatori (che erano marsigliesi), i distributori e i consumatori (statunitensi). Ogni partita di droga in partenza dalla Sicilia veniva finanziata in diverse percentuali da vari gruppi mafiosi, ad esempio sia dai Greco sia dai La Barbera. Accadde che da una spedizione organizzata da Calcedonio Di Pisa, membro della Commissione vicino ai Greco, si ricavassero  profitti  molto  inferiori  alle  aspettative.  Nel  tentativo  di  giustificarsi,  Di  Pisa  dichiarò  che  gli  acquirenti americani  l’avevano  truffato,  e  i  Greco  (la  Commissione)  presero  per  buona  la  sua  versione.  Ma  i  La  Barbera  la pensavano diversamente: ottennero da fonti d’oltreoceano una conferma dei loro sospetti che fosse stato proprio Di Pisa  a  imbrogliare  le  carte,  e  lo  uccisero  (dicembre  1962).  Da  qui  la  sequenza  delle  rappresaglie  reciproche,  che nessuna regola e nessuna Commissione riuscì a frenare33. La cinica previsione del vecchio boss, «Quannu ci sunnu troppi cani supra un ossu…», si rivelò corretta. La guerra andò avanti tra grandi clamori con raffiche di mitra esplose per le vie cittadine, auto lanciate al reciproco inseguimento, o imbottite di esplosivo per eliminare gli avversari. Palermo come Chicago anni venti, fu detto. Giunse il  30  giugno  1963,  quando  a  Ciaculli  un’Alfa  Romeo  Giulietta,  imbottita  di  tritolo,  esplose  uccidendo  sette  tra carabinieri  e  artificieri.  La  strage  produsse  un’ondata  repressiva  di  cui  diremo  più  avanti.  Diciamo  ora  che  la Commissione fu sciolta, le Famiglie paralizzate. Fuggirono nelle Americhe parecchi esponenti della segreta società, a cominciare  dai  Greco:  il  super­boss  Salvatore  Greco  («ciaschiteddu»),  rifugiatosi  in  Venezuela,  il  suo  cugino omonimo,  «l’ingegnere»,  e  l’altro  cugino  Nicola  Greco,  che  a  quanto  sembra  passò  poi  negli  Stati  Uniti.  Buscetta stesso  nell’estate  del  1963  lasciò  il  paese  attraverso  Milano  e  la  Svizzera,  munito  di  passaporto  falso,  per  poi raggiungere il Messico insieme alla sua compagna. Seguiamo  il  suo  racconto.  In  Messico  passò  a  trovarlo  Salvatore  Catalano,  mafioso  originario  di  un  paese  del Palermitano (Ciminna), rifugiatosi nel 1963 a New York, che gli portò in regalo una somma in denaro, da parte del super­boss newyorkese, don Carlo Gambino; che però Buscetta rifiutò preferendo far ricorso all’aiuto di corregionali che  si  trovavano  in  loco.  Si  fece  fare  anche  una  plastica  facciale,  per  rendersi  irriconoscibile.  Nel  1964  lasciò  il Messico e si portò in Canada. Poi passò il confine con destinazione New York, dove fu ospite del citato Catalano. Stabilitosi  nella  Grande  Mela,  avrebbe  finalmente  accettato  una  somma  donatagli  da  Gambino  per  aprire  una pizzeria e poi un’altra ancora, in modo da mantenere agiatamente se stesso, l’amante, la moglie, e i figli avuti dall’una e dall’altra. I suoi rapporti con lo stesso don Carlo e col fratello Paolo (da lui già conosciuto a Palermo), e anche con l’altro  grande  vecchio,  Joe  Bonanno,  sarebbero  consistiti  in  chiacchierate  rilassanti  nel  comune  dialetto  siciliano. Avrebbe invece avuto difficoltà a intendersi con la gran parte degli altri mafiosi locali, per ragioni culturali (li trovava

così americani) o anche solo linguistiche (loro non parlavano l’italiano, lui parlava l’inglese piuttosto male); avrebbe più che altro frequentato siciliani giunti da poco come lui, e per le sue stesse ragioni. In sostanza, Buscetta non ci ha fornito credibili spiegazioni sulle motivazioni dei propri spostamenti Milano­Città del  Messico­Toronto­New  York  nel  1963­64,  dei  regali  ricevuti  da  Gambino,  e  sui  modi  in  cui  in  quella  fase  si guadagnava da vivere. Però, pur depistandoci, ci ha lasciato degli indizi. Ha ammesso ad esempio di essere arrivato a Città del Messico con una lettera di presentazione firmata dal genero della vecchia nostra conoscenza Nick Gentile, anche lui noto come narcotrafficante. Si è detto stupito che il palermitano di cui era stato ospite in Messico, arrestato per traffico di droga, lo abbia anni dopo indicato come capo della banda per conto della quale aveva esportato negli Stati Uniti eroina per centinaia di chili. Eppure, ha commentato, sembrava un così «brav’uomo»…34. Altri indizi possiamo trarre dal modo in cui Buscetta ha raccontato di un suo breve soggiorno ancora in Canada, a Montreal. Ha detto di aver incontrato casualmente alcuni esponenti della famiglia dei Cuntrera­Caruana: in particolare colui che conosceva come capo della Famiglia mafiosa di Siculiana35, Pasquale Caruana, e Leonardo Caruana detto Nanà.  Pasquale,  abitualmente  residente  a  Caracas  ma  in  visita  in  Canada  per  le  feste  natalizie,  avrebbe  colto l’occasione per coinvolgere il futuro pentito in un affare di contrabbando di «latte in polvere» (sic!). Buscetta avrebbe accettato  non  senza  chiedersi  «come  facesse  a  sopravvivere  una  Famiglia  i  cui  maggiori  esponenti  erano  da  tempo fuori zona», secondo che logica il boss di Siculiana vivesse a Caracas36. È improbabile che si sia posto davvero una domanda del genere. I membri della famiglia Cuntrera­Caruana erano contrabbandieri  su  scala  intercontinentale,  non  di  latte  in  polvere  bensì  di  eroina.  Per  gestire  questi  traffici  erano sempre in moto tra Canada, Venezuela, Brasile, Svizzera, Inghilterra, Italia centrale, non senza periodici ritorni nella natia Sicilia. Rappresentavano  soci  collocati  in  vari  paesi  e  continenti:  soprattutto siciliani, che procuravano loro la materia prima in Medio ed Estremo Oriente, e americani, che distribuivano la merce all’ingrosso o al dettaglio negli Stati  Uniti.  Disponevano  di  aziende  e  attività  economiche  «pulite»  anch’esse  collocate  un  po’  dappertutto,  e finalizzate al riciclaggio del denaro accumulato con la droga. In conclusione. Buscetta commerciava in droga. Lo faceva in società con i Caruana e con Catalano. A questi stessi traffici  si  dedicava  con  qualcuno  della  corte  di  Carlo  Gambino,  se  non  personalmente  col  boss,  in  barba  al  decreto emanato dalla Commissione newyorkese. L’ha negato anche dopo essersi pentito? Evidentemente ha voluto occultare sino all’ultimo la natura degli affari suoi e dei suoi partner. 4. Filologia. Ripartiamo  da  Ciaculli,  30  giugno  1963,  esplosione  di  una  Giulietta  al  tritolo,  morte  di  sette  tra  artificieri  e carabinieri.  Morì,  tra  loro,  il  tenente  Malausa,  che  abbiamo  conosciuto  come  abile  investigatore.  Il  suo  Rapporto c’entrò qualcosa con questa sua tragica fine? Non conosco indagini che abbiano affrontato il tema. Certo è che una cosa del genere non accadeva dall’uccisione dei sette carabinieri a Passo di Rigano­Bellolampo nell’agguato teso dalla banda Giuliano (1949). Ma allora l’azione era stata classificata come banditesca, mentre adesso era indubitabilmente mafiosa.  Sembra  che  il  bersaglio  non  fossero  i  militari,  ma  i  Greco.  L’attentato  indicava  comunque  una  nuova pericolosità,  una  crescente  arroganza.  Ora  i  benpensanti  non  poterono  più  ripetere  il  mantra:  tanto  si  uccidono  tra loro. Al  momento  dello  choc  di  Ciaculli  la  Commissione  antimafia,  come  sappiamo,  esisteva  già.  Di  fatto  però  solo dopo  venne  riunita.  Di  seguito,  l’opinione  pubblica  oscillò  tra  ottimismi  e  pessimismi,  dilemma  bene  espresso  dal titolo di un libro edito nel 1965 a cura di un «Gruppo Sicilia domani»: Antimafia: occasione perduta? Qualche  risultato  venne  in  effetti  raggiunto.  In  quello  stesso  1965  (31  maggio)  fu  varata  una  legge,  la  prima espressamente rivolta a perseguire gli appartenenti ad «associazioni mafiose», che ripropose il concetto antico delle «misure preventive», insomma il confino di polizia. La polizia si era già attivata, e nel 1964­65 era stato messo nel mirino un gran numero di mafiosi delle diverse fazioni. Molti di loro si diedero latitanti (abbiamo già detto di quelli scappati in America), altri aspettarono il giudizio in galera. La leadership mafiosa, l’ultima generazione dei Greco e dei Bontate, nonché i La Barbera, i Buscetta, i Leggio (tutti nati tra il 1923 e il 1928), incontrò per la prima volta un antagonista  che  nel  corso  degli  anni  cinquanta  si  era  come  eclissato:  la  repressione  statale  mossa  non  da  spirito  di ordinaria amministrazione ma da specifica intenzionalità politica. In  Italia  si  attivava  la  Commissione  antimafia,  negli  Stati  Uniti  come  sappiamo  erano  in  corso  le  sedute  della Commissione  McClellan  (1963­65),  nel  corso  delle  quali  Valachi  non  solo  introdusse  nella  discussione  pubblica l’espressione  Cosa  nostra,  ma  si  soffermò  anche  sugli  eventi  remoti  che  avevano  portato  alla  nascita dell’organizzazione:  la  guerra  castellammarese  del  1932­33,  la  vittoria  prima  e  poi  la  sconfitta  di  Maranzano, l’avvento di Lucky Luciano, il padre fondatore. Nel suo esilio napoletano, proprio Luciano si era deciso a parlare di quelle stesse (e di altre) cose, sia pure con tutt’altri accenti e non con le autorità: bensì col cineasta Martin Gosch, in

vista di un film da realizzarsi sulla sua vita. Il progetto non venne ben accolto dai vecchi amici newyorkesi37, e l’ex boss dovette spiegare a Gosch che dovevano ripiegare su un’intervista da inserirsi in un libro, il quale però andava pubblicato dieci anni dopo la sua morte. Luciano morì nel gennaio 1962, e il volume venne in effetti pubblicato nel 1974 con il titolo The Last Testament of Lucky Luciano38. Noi l’abbiamo già ampiamente utilizzato. Dunque  Luciano  e  Valachi,  gangster  italo­americani  non  in  contatto  tra  loro,  collocati  in  due  diversi  continenti, rievocarono in uno stesso momento uno stesso remoto passato. Non lo avrebbero fatto, io credo, se la situazione non si fosse rimessa in moto nel presente. E lo stesso possiamo dire per il versante siciliano. «L’Ora» pubblicò tra l’altro, nel gennaio 1962, una fonte di cui conosciamo l’importanza, la confessione del dottor Allegra del 1937, per la cura di De Mauro. E fu in quell’ambito che vide la luce l’autobiografia di Nick Gentile. Anche qui c’era, a monte, un’iniziativa delle autorità. Nel 1958 il settantatreenne «carrettiere» aveva scritto una lettera  ai  suoi  vecchi  amici  newyorkesi  riesumando  (anche  lui!)  memorie  lontane  della  guerra  castellammarese  del 1932­33,  ricordando  il  ruolo  da  lui  svolto  nel  fronte  anti­Maranzano  «eseguendo  scrupolosamente»  gli  ordini superiori,  «come  un  soldato  svizzero»,  minacciando  tra  le  righe  qualche  rivelazione.  Non  so  se  la  lettera  sia  stata intercettata o se dall’inizio si trattò di una provocazione in cui Gentile era d’accordo con il Narcotic Bureau. Sta di fatto  che  la  collaborazione  portò  il  vecchio  Nick  alla  stesura  di  un  testo  autobiografico  che  tutt’oggi  si  trova  negli archivi Fbi. Però c’è anche un’iniziativa de «L’Ora», ovvero di Felice Chilanti, suo cronista di punta e di razza39. Questi prima intervistò  Gentile  e  poi  aggiunse  l’intervista  al  testo  destinato  alle  autorità  statunitensi,  creando  l’insieme  che  va  a costituire  il  libro  che  abbiamo  tante  volte  utilizzato  come  fonte40.  L’intervista  rappresenta  in  un  certo  senso  un confronto  tra  quell’antica  mafia  e  una  nuova  coscienza  antimafia.  Gentile  sostiene  il  concetto­base  suo  e  dei  suoi: l’onorata società serve a evitare il bellum omnium contra omnes, sa regolare la violenza, compresa la propria. Dipinge il vero capo come colui che sa imporre il rispetto della legge mafiosa e, prima di ricorrere alla violenza, «la trattativa per dissipare i malintesi, la mediazione saggia ed energica fra le parti in lotta cruenta fra di loro»41. Chilanti gli obietta che,  stando  al  suo  stesso  racconto,  i  mafiosi  sistematicamente  violano  le  loro  leggi  comportandosi  da  «belve sanguinarie»; osserva che la vera protagonista della sua storia è «la morte, […] momento per momento»42. E Gentile finalmente  prende  atto  delle  repliche  dei  fatti  all’ideologia.  Finisce  per  chiamare  in  causa  non  più  le  regole,  ma  la fortuna – «Sono stato fortunato […], tanto che sono ancora vivo, mentre quasi tutti gli altri sono morti»43. Nel 1961 Sciascia pubblicò Il giorno della civetta44. Un romanzo sì, ma pieno di riferimenti alla concretezza della questione  mafiosa.  Sullo  sfondo  c’è  il  precedente  della  repressione  fascista,  molto  inquietante  per  un  democratico: Sciascia  sottolinea,  magari  controvoglia,  che  è  stata  efficace  proprio  perché  non  condizionata  dalla  necessità  di rispettare  i  diritti  politici  e  civili.  Il  passato  recente,  e  per  larga  parte  il  presente,  è  invece  quello  del  regime democristiano, che viceversa convive pacificamente, e protegge. E i due personaggi­base del libro rappresentano una contrapposizione tra antimafia e mafia che dev’essere nuova. Solo  che  stavolta  a  rappresentare  il  primo  termine  del  binomio  è  un  uomo  delle  istituzioni,  il  capitano  dei carabinieri Bellodi, emiliano ed ex partigiano: in quanto tale consapevole del peso del precedente fascista, e proprio per questo impegnato a far capire a tutti (anche ai suoi) che non dev’essere quello il modello, che bisogna rispettare la Costituzione.  Bellodi  pensa  che  sia  necessario  incastrare  non  solo  il  capo­mafia  don  Mariano  ma  anche  i  suoi protettori altolocati. «Bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. […] Sarebbe  meglio  si  mettessero  ad  annusare  intorno  alle  ville,  le  automobili  fuori  serie,  le  mogli,  le  amanti  di  certi funzionari: e confrontarne quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso»45. Sciascia raffigura don Mariano come un uomo antico, sottile, cinico. E la catalogazione del carattere umano che l’autore  attribuisce  al  suo  personaggio  è  divenuta  proverbiale.  Don  Mariano  riconosce  che  il  suo  antagonista  (sul versante delle istituzioni) fa parte come lui (sul versante della mafia) della piccola minoranza dei veri uomini, quelli che non si piegano; il resto è formato da mezz’uomini e ominicchi, o peggio («con rispetto parlando») di pigliainculo e quaquaraquà46. C’è un reciproco riconoscimento che a molti bacchettoni dell’antimafia di qualche anno dopo non è piaciuto. Ma insomma Sciascia era un narratore: dipingeva personaggi e ne raccontava l’ideologia. In un’opera più tarda, avrebbe annotato  con  interesse  un  testo  distribuito  appunto  nel  1961  agli  amici  per  celebrare  il  boss  di  Riesi,  Francesco  Di Cristina, in occasione del suo funerale. Così recitava: Fece vedere al mondo quanto potesse/ un vero uomo/ […] operò sulla terra/ imponendo ai suoi simili/ il rispetto dei valori eterni/ della personalità umana/ nemico di tutte le ingiustizie/ dimostrò/ con le parole e con le opere/ che la mafia sua non fu delinquenza/ ma rispetto della legge dell’onore/ difesa di ogni diritto/ grandezza d’animo47.

Già  abbiamo  visto,  nelle  conversazioni  dell’ufficio  di  Rizzo  De  Cavalcante,  New  Jersey,  come  anche  sull’altro versante  dell’oceano  i  mafiosi  si  mantenessero  su  questo  sentiero  ideologico.  Lo  vedremo  ancora.  Rileviamo, nell’epitaffio di Di Cristina, l’uso senza remore della parola mafia, più spesso dai mafiosi evitata, perché adoperata dal nemico e con intento criminalizzante. Viene significativamente messa in connessione con l’idea di onore e di «vero uomo», come in Pitrè. Seguendo  questa  traccia  arriviamo  a  Filologia,  novella  scritta  da  Sciascia  nel  1964,  e  in  quello  stesso  periodo ambientata. Racconta del dialogo tra due personaggi che, per comodità espositiva, chiamerò il notabile (di condizione sociale  più  elevata,  più  colto,  più  vecchio)  e  il  capo­cosca  (di  condizione  sociale  più  modesta,  privo  di  istruzione formale,  più  giovane).  Il  notabile  ammaestra  il  capo­cosca  nell’eventualità  che  sia  interrogato  dalla  Commissione antimafia.  Dice:  quando  ti  sarà  chiesto  che  cos’è  la  mafia,  dovrai  fare  ricorso  a  quella  «scienza  delle  parole»,  o (appunto) filologia, che per tanti anni ha lavorato non a chiarire il significato della parola mafia, ma ad occultarlo; e tutt’oggi  può  fornire  il  suo  contributo,  «alla  confusione,  si  capisce».  Dovrai  in  particolare  fare  riferimento  agli argomenti di Pitrè48. Noi sappiamo che, per quasi un secolo, in età sia liberale che fascista che repubblicana, avvocati e protettori dei mafiosi  avevano  citato  il  grande  etnologo  appunto  per  «confondere»  i  loro  interlocutori,  sostenendo:  la  mafia  non esiste,  ma  se  esistesse  sarebbe  una  cosa  diversa  da  quella  che  voi  dite;  sarebbe  non  criminalità  ma  cultura;  non organizzazione ma comportamento. Abbiamo visto questi argomenti riproposti da Luciano Liggio in persona. Torniamo alla novella. Il capo­cosca ascolta con rispetto, ma anche con un po’ di insofferenza. Ritiene che la sua scienza, quella che insegna come fare i soldi e come usare la violenza, sia più importante della scienza delle parole. Il notabile ribatte: se troppo facciamo ricorso alla violenza ci scopriremo, lasciamo stare dunque le Giuliette al tritolo, «questi mezzi da terroristi». Il terrorismo cui pensa è quello alto­atesino (o sud­tirolese che dir si voglia, l’unico allora in azione nel nostro paese), che definisce «fascista». Noi non siamo fascisti, precisa, e tanto meno anarchici: «siamo persone d’ordine». Ma il capo­cosca non è convinto, e risponde: «Funzionava però la dinamite, funzionava»49. Siamo al  concetto­chiave:  la  violenza  funziona  nel  dar  voce  al  protagonismo  dei  «ragazzi»,  alla  loro  voglia  di  potere. Funziona, e pazienza se rivela la natura mistificatoria del complesso ideologico costruito nel secolo precedente. Tiriamo le somme. Lucky Luciano, Valachi e Gentile nel 1962­63 forniscono informazioni essenziali per ragionare della mafia a chiusura di una fase storica, come si dice post factum. L’anno dopo Sciascia ci introduce nella maniera più acuta alla fase successiva. Assume come discrimine da un lato la bomba di Ciaculli, e dall’altro la costituzione della  Commissione  antimafia.  Registra  una  dialettica  interna  alla  mafia  ed  esterna  ad  essa:  cioè  l’avvio  di  un meccanismo sfida­risposta con lo Stato del quale dobbiamo tenere conto, se vogliamo capire l’escalation successiva. 5. Senza unghie. Negli  Stati  Uniti,  le  rivelazioni  di  Valachi  non  furono  da  tutti  prese  sul  serio.  Non  pochi  intellettuali  non­ conformisti  pensarono  a  una  montatura  securitaria  e  xenofoba  dell’Fbi.  Le  organizzazioni  rappresentative  della comunità  italiana  promossero  proteste  di  varia  natura  ispirate  a  un  malinteso  «orgoglio  etnico».  In  Sicilia,  come sappiamo, c’erano sempre stati avvocati pronti a sostenere che le autorità sbagliavano a ridurre la mafia a criminalità, mentre si trattava di un problema culturale; in molti continuarono a farlo. La bomba di Ciaculli rappresentò un trauma e un punto di discontinuità. È vero anche, però, che venne riassorbito innanzitutto  dal  punto  di  vista  politico.  Lima,  che  aveva  dovuto  abbandonare  la  guida  dell’amministrazione municipale palermitana nel 1963, tornò a fare il sindaco tra il 1965 e il 1968. Passava per suo avversario politico il suo successore Franco Spagnolo, ex monarchico passato alla Dc, ma non certo sulla questione mafia. Nel settembre del 1969  dichiarava  al  «Corriere  della  Sera»:  «la  Commissione  antimafia  cerca  di  scoprire  una  cosa  che  non  c’è»,  che «non esiste, nel modo più assoluto». A suo dire era solo un modo di «denigrare» la città, che avrebbe fatto scomparire «quel poco di turismo che c’è»50. Dopo di lui (1970), Ciancimino divenne sindaco, sia pure per un breve periodo. E c’erano non soltanto avvocati, ma anche magistrati disposti a dare il loro contributo di «confusione» evocando Pitrè.  Cito  una  sentenza  penale  del  1964:  «Anche  i  mafiosi  hanno  i  loro  affetti,  anche  loro  vivono  la  loro  vita  di relazioni  che  può  essere  ispirata  anche  a  principi  di  socialità  e  liceità  se  non  anche  di  onestà.  Non  è  l’uomo  che qualifica l’azione, ma l’azione che qualifica l’uomo»51.  Per  inquadrare  quest’ambiente  facciamo  ricorso  a  un  aureo libretto  di  Giuseppe  Di  Lello,  nato  in  Abruzzo  nel  1940,  che  prese  servizio  in  magistratura  nel  1971,  prima destinazione in Sicilia. Si intitola Giudici. Di  Lello  ricorda  come  «sconvolgente»  il  primo  impatto  con  i  colleghi  palermitani  di  un  giovane  magistrato  di sinistra come lui. In prospettiva, ha un po’ rettificato il giudizio. «Oggi posso dire che i giudici palermitani non erano né sono peggiori o migliori di quelli di altre città, figli della loro società dominata da una sola borghesia identica nella sostanza  alle  altre,  con  la  loro  sola  specificità  di  essere  mafiosa»52.  La  specificità  non  era  da  poco.  Rendeva

particolarmente  incongruo  il  criterio  allora  corrente  tra  gli  inquirenti:  indulgenza  per  i  delitti  dei  «colletti  bianchi», specie  quando  vi  era  coinvolto  il  potere  politico,  severità  verso  quelli  degli  altri.  E  si  risolveva  in  una  qualche esasperante «pigrizia giudiziaria». Vanno qui ricordate le polemiche del tempo contro il procuratore palermitano Pietro Scaglione, che resse l’ufficio per  un  lunghissimo  periodo,  tra  il  1962  e  il  1971.  Polemiche  dell’opposizione  di  sinistra,  de  «L’Ora»  in  particolare che,  anche  per  le  amicizie  del  procuratore  in  campo  democristiano,  lo  assunse  a  rappresentante  di  un  potere giudiziario  cieco  e  sordo.  Polemiche  anche  interne,  di  ambiente  giudiziario  e  poliziesco,  che  sono  di  più  difficile lettura. Di Lello corregge il tiro. Parla di «strumentale denigrazione» di Scaglione, prende atto che il procuratore si batté  nel  1965  per  un  inasprimento  delle  misure  antimafia,  che  lo  stesso  Buscetta  lo  ha  poi  ricordato  come intransigente  avversario  dei  mafiosi53.  In  effetti  nelle  indagini  successive  non  sono  emerse  ombre  sui  suoi comportamenti. Nella sua disamina, Di Lello conferma le difficoltà nel portare in giudizio, e condannare, la stessa mafia militante. Fa il caso dell’inchiesta nata dal meeting del 1957 all’Hotel delle Palme: cominciò male per l’approccio distrattamente burocratico dei poliziotti presenti; venne rivitalizzata dagli input forniti dagli americani e dall’attivismo del giudice istruttore,  col  coinvolgimento  dei  castellammaresi,  Frank  Garofalo  &  C.;  fu  «affondata»  nel  1968  dal  processo risoltosi in generale assoluzione. Il giudice istruttore che più si distinse nel mettere sotto pressione la mafia fu Cesare Terranova (1921­1979). Fu lui a promuovere l’istruttoria alla base del processo (celebrato per legittima suspicione a Catanzaro) che nel 1968 portò alla sbarra l’establishment della mafia palermitana in massa, richiamando i precedenti di quelli celebratisi in periodo fascista. Ne derivarono alcune pesanti condanne: citiamo quelle di Pietro Torretta e Angelo La Barbera, e quelle di Buscetta e Salvatore Greco (che erano latitanti). Ma ci furono anche 44 assoluzioni e altre condanne miti, alcune delle quali già scontate con la scarcerazione preventiva. La maggior parte dei capi­mafia poté tornare subito al centro della scena54.  Il  saldo  complessivo  fu  negativo,  se  consideriamo  anche  l’altro  processo,  coevo,  derivante  da  sentenze istruttorie stilate da Terranova: quello contro i corleonesi. Traiamo alcuni spunti polemici particolarmente azzeccati dalle sentenze di Terranova. Leggiamo: la mafia «non è uno stato d’animo, ma è criminalità organizzata, efficiente e pericolosa, articolata in aggregati o gruppi o “famiglie” o meglio  ancora  “cosche”»;  «esiste  una  sola  mafia,  né  vecchia  né  giovane,  né  buona  né  cattiva,  esiste  la  mafia  che  è associazione  delinquenziale»;  troppi  le  attribuiscono  «una  funzione  addirittura  di  equilibrio  o,  comunque,  positiva nella società, in sostituzione o ad integrazione dei poteri carenti dello Stato»; troppi gli «atteggiamenti indulgenti e sentimentali,  a  volte  autorevoli,  pervasi  di  palese  simpatia  verso  la  mafia  o  la  vecchia  mafia»55.  In  positivo,  per confutare la mitologia dei mafiosi onorati e inflessibili, Terranova ricorda i processi del periodo fascista, le «bassezze» «degli imputati che gareggiavano nelle confessioni, nelle accuse, nelle ritorsioni e nelle implorazioni di clemenza e perdono»56. Queste citazioni, e lo stesso reverente richiamo a «S. E. Giampietro», possono apparire sorprendenti in un uomo  come  lui,  orientato  a  sinistra.  Servivano  ad  agganciarsi  all’unico  precedente  disponibile  di  repressione,  e all’idea di mafia come associazione a delinquere che l’aveva reso possibile. Detto della forza dell’argomentazione, bisogna anche dire della sua debolezza. Sappiamo che nel periodo fascista, come già nel periodo liberale, la repressione aveva avuto la sua punta di lancia nelle misure extragiudiziali di polizia; e  non  a  caso  fu  quel  metodo  a  essere  riproposto  nella  legge  del  1965,  ma  in  forma  enormemente  attenuata,  e nonostante  la  sua  dubbia  costituzionalità.  Invece  i  risultati  specifici  della  gran  parte  dei  processi  fascisti  erano  stati modesti,  e  modeste  le  condanne.  Anche  nei  due  grandi  processi  istruiti  da  Terranova,  lo  strumento­base  rimaneva quello del periodo fascista: il rapporto di polizia con le sue fonti confidenziali che tuttora non volevano né potevano «essere nominat[e]» in giudizio57. Logico che in età repubblicana quel tipo di «prova» risultasse in tribunale ancor più fragile. Contraddittorio anche il bilancio della Commissione antimafia. Il suo presidente, il democristiano Pafundi, prima annunciò  che  nei  suoi  archivi  si  andava  accumulando  una  «polveriera»,  poi  tardò  a  farla  esplodere,  finché  alla  fine della legislatura (1968) la montagna partorì il topolino di poche, anodine pagine di relazione. Un’occasione mancata, ribadì  Michele  Pantaleone,  stavolta  senza  punto  interrogativo.  Però  nella  legislatura  seguente  si  creò  un  qualche accordo  tra  il  presidente,  il  giovane  avvocato  democristiano  Francesco  Cattanei,  e  il  vecchio  leader  comunista  Li Causi. Nel 1972 fu pubblicata un’interessante relazione finale ma soprattutto venne avviata la pubblicazione di una documentazione di grande qualità e peso, decine e decine di volumi. Il convergere nelle aule parlamentari di «esperti» interrogati  dalla  Commissione  aumentò  di  certo  la  sensibilità  al  problema,  ed  elevò  a  problemi  politici  i  problemi tecnici che ostacolavano la lotta alla mafia. Voglio ricordare gli interventi dell’allora colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa, dal 1966 al comando della legione dei carabinieri di Palermo, e del suo fidato collaboratore Giuseppe Russo, capo dei servizi investigativi. (Avevano in comune  anche  un  nemico  come  Liggio,  ed  entrambi  sarebbero  finiti  uccisi  proprio  dai  corleonesi).  Dalla  Chiesa.

Sapere  chi  sono  i  boss  della  mafia  «non  è  difficile,  in  quanto  i  nomi  sono  sulle  bocche  di  molti».  Gli  inquirenti utilizzano anche un metodo giusto, quando seguono il filo indicato da genealogie, politiche matrimoniali, parentele, comparati  («che  valgono  più  delle  parentele»)  e  zone  di  provenienza.  Ma  questo  rappresenta  una  prova  valida  dal punto  di  vista  giudiziario?  No.  Dunque  «siamo  senza  unghie  ecco  […];  è  difficile  per  noi  raggiungere  le  prove»58. Russo.  «Quando  sono  notizie  fiduciarie  acquisite  da  noi,  la  notizia  fiduciaria  non  ha  peso;  le  intercettazioni [telefoniche], per legge, non hanno potuto essere sfruttate; la rivelazione non viene creduta. Che cosa si deve fare? Aspettare che il mafioso si confessi responsabile di determinati reati? Questo non lo farà mai»59. Così la mafia restò impunita e ben collocata nel potere locale, in aree non periferiche della macchina politica e del mondo degli affari, guadagnò in fiducia nel confronto con le debolezze dell’antimafia – e qui intendiamo il termine in senso lato, come insieme di opinione pubblica, forze politiche, istituzioni statali. E si riorganizzò. Nel dicembre 1969 un commando di killer travestiti da poliziotti fece irruzione negli uffici di una società edilizia ubicata a Palermo, in viale Lazio, uccidendo quattro persone tra cui il già citato boss Cavataio, che a quanto sembra pagò conti risalenti al 1963. Sappiamo, da rivelazioni successive, che il gruppo di fuoco era composto da uomini delle due fazioni emergenti: due corleonesi, tra cui Bernardo Provenzano, due della Famiglia di Santa Maria di Gesù. Di seguito, Cosa nostra istituì un triumvirato composto da Salvatore Totò Riina, Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. Riina rappresentava i corleonesi in assenza di Liggio, latitante nell’Italia settentrionale, dove aveva messo su una fruttuosa  industria  dei  sequestri  di  persona;  assunse  la  guida  della  gang  nel  1974,  quando  Liggio  finì  in  prigione. Stefano  Bontate  era  il  successore  alla  testa  della  Famiglia  di  Santa  Maria  di  Gesù  del  padre,  don  Paolino,  morto sempre  nel  1974:  rampollo  di  agiata  e  illustre  famiglia  mafiosa,  aveva  un  look  elegante,  tanto  da  essere  detto  «il principe di Villagrazia». Gaetano Badalamenti (1923­2004), detto Tano, era un boss paesano (di Cinisi), già negli anni cinquanta  tra  i  grandi  protagonisti  sia  del  contrabbando  di  tabacchi  sia  del  narcotraffico  di  scala  transatlantica. Metteva  qui  a  frutto  un’esperienza  giovanile  americana,  la  rete  di  parentele  che  aveva  a  Detroit  e,  come  meglio vedremo più avanti, buone relazioni a Brooklyn nella Famiglia Bonanno. Rilevanti i suoi contatti nei piani alti della mafia del Trapanese. Vediamoli espressi graficamente nella figura 12. Facciamo attenzione qui ai nomi di Cola Buccellato, nato a Castellammare nel 1902, e Salvatore­Totò Minore, nato anche lui a Castellammare nel 1923 e da sempre residente a Trapani. Il lettore ricorderà il modo in cui in tempi ormai lontani le sorti dei castellammaresi Salvatore Maranzano e dello stesso Joe Bonanno, transitati in America, si fossero intrecciate a quelle di altri mafiosi castellammaresi rimasti in patria, che si chiamavano appunto Buccellato e Minore. La coincidenza potrebbe essere significativa. I Rimi rappresentavano al meglio il concetto che nell’Ottocento veniva reso  con  l’espressione  «Alta  mafia».  Il  lettore  ricorderà  il  loro  ruolo  negli  intrighi  postbellici  che  avevano  portato all’eliminazione del bandito Giuliano. Badalamenti,  sempre  nel  1970  (luglio),  era  a  Milano  insieme  a  quattro  altri  capi­mafia,  due  dei  quali  erano appositamente  venuti  dalle  Americhe,  dove  erano  emigrati  nel  1963:  Salvatore  Greco  «ciaschiteddu»  e  Tommaso Buscetta. C’erano anche il catanese Pippo Calderone e il palermitano Gerlando Alberti.

Figura 12. La rete di alleanze di Gaetano Badalamenti in Sicilia.

Nella sua successiva testimonianza, Buscetta ha proposto questa spiegazione: all’ordine del giorno della riunione ci sarebbe  il  tentativo  di  colpo  di  Stato  neo­fascista  promosso  dal  principe  Junio  Valerio  Borghese,  cui  Cosa  nostra sarebbe  stata  invitata  a  partecipare  da  qualche  misteriosa  entità.  L’intera  storia  mi  è  sempre  sembrata  un  po’ improbabile  ma  gli  inquirenti,  sulla  base  di  diverse  testimonianze,  le  hanno  dato  credito  e  io  non  ho  elementi  per smentirla. Pare comunque più verosimile che quei narcotrafficanti si fossero riuniti per discutere di narcotraffico, nel momento in cui le autorità federali stavano distruggendo la cosiddetta French Connection, ovvero una grande linea di rifornimento del mercato americano dell’eroina che passava direttamente dalla Francia. Che abbiano parlato del come sfruttare la nuova quota di mercato a disposizione dei siciliani, di come coinvolgere i cugini d’America senza troppo comprometterli.

A Badalamenti venne affidata nel 1973 la guida di una ricostituita Commissione provinciale, segnale forse di una volontà  di  valorizzare  i  suoi  contatti  siculo­americani.  Seguirono  però  segnali  meno  decifrabili,  sequestri  di  alcuni familiari  di  imprenditori  siciliani  in  qualche  modo  collegati  ad  ambienti  mafiosi,  alcuni  dei  quali  (i  più)  vennero rilasciati dietro il pagamento di un riscatto, mentre altri ci lasciarono la pelle. Destò impressione, sembrò la violazione di  un  codice  onorifico,  il  rapimento  di  una  donna,  moglie  di  un  imprenditore  borderline60.  Seguì  immediata  la vendetta,  lo  sterminio  dei  presunti  membri  della  gang  dei  rapitori.  In  realtà  il  vero  codice  che  veniva  violato  era quello, basato sulla rinuncia al sequestro di persona, che già nel remoto periodo delle origini aveva segnato il patto tra mafia e classi dirigenti. A quanto sembra la Commissione di Badalamenti emanò un decreto che proibiva i sequestri di persona in territorio siciliano. Questo però non impedì che nel 1975 si consumasse quello più clamoroso, che colpì Luigi Corleo, suocero di Nino Salvo. Non tornò mai a casa. Più tardi, messo sotto accusa dalla magistratura, Salvo avrebbe detto: Fino al sequestro di mio suocero Luigi Corleo, avevo ritenuto di aver instaurato una tranquilla anche se scomoda convivenza con tali organizzazioni ritenendo a torto che fosse sufficiente comportarsi bene [sic!] per non avere problemi con chicchessia61.

Comportarsi bene non bastò ai Salvo perché c’era un crescente conflitto tra le fazioni mafiose. Segnaliamo la tesi di  Buscetta,  secondo  il  quale  il  sequestro  sarebbe  stato  promosso  dai  corleonesi  per  sminuire  la  leadership  di Badalamenti  e  anche  di  Bontate,  il  cui  padre  (come  si  ricorderà)  era  stato  strettamente  connesso  ai  Salvo.  Noi possiamo  ipotizzare  che  qualcosa  stesse  cambiando  anche  sulla  frontiera  tra  mafia,  finanza  e  Dc,  quella  presidiata dagli esattori di Salemi. Che  qualcosa  stesse  mutando,  che  la  mafia  fosse  interessata  sempre  più  a  quello  che  avveniva  nello  spazio pubblico, lo si era visto con il rapimento e l’assassinio di De Mauro, il giornalista de «L’Ora». E qualcosa di ancor più innovativo si era registrato nel maggio 1971, data dell’assassinio del procuratore Scaglione e del suo autista. L’assassinio  di  Notarbartolo  (1893)  e  quello  di  Petrosino  (1909)  rappresentavano  sì  dei  precedenti,  ma  troppo remoti. La contrapposizione frontale della mafia ai poteri dello Stato rivelò uno sviluppo tragicamente innovativo, il quale  peraltro  non  provocò  reazioni  –  come  invece  aveva  fatto  l’eccidio  di  Ciaculli.  Proprio  nel  1971  Sciascia pubblicò Il contesto, un romanzo che raccontava una sequenza di assassinî di giudici, dovuti a un complotto politico, non  mafioso.  Lo  scrittore  negò  di  aver  preso  spunto  dal  delitto  Scaglione,  eppure  la  connessione  prese  forma naturalmente  nella  mente  di  molti.  Cinque  anni  più  tardi  (1976),  Francesco  Rosi  trasse  dal  romanzo  un  film.  Era intitolato  Cadaveri  eccellenti:  due  parole  con  cui  vennero  definite  le  vittime  della  successiva,  terribile  escalation mafiosa. 6. Altre rivelazioni. Leonardo  Vitale  (1940­1984)  veniva  da  antica  famiglia  di  mafia,  nel  duplice  senso  della  cosca  e  del  gruppo  di consanguinei, della borgata palermitana di Altarello di Baida. Suo zio, Giovan Battista Vitale, capo del clan, era tra i boss  elencati  nel  Rapporto  Malausa,  dove  veniva  definito  «costruttore  edile  [che]  in  tal  campo  commette  abusi  e soprusi sia per l’acquisto di terreni edificabili sia per la vendita di appartamenti»62. Procedendo all’indietro nel tempo, troviamo membri della famiglia Vitale di Altarello indicati come capi­mafia nei processi fascisti, e prima ancora nel Rapporto Sangiorgi. Siamo nello schema di continuità storica che ben conosciamo: almeno dalla fine dell’Ottocento, nella borgata comandavano loro. Per  tutto  questo,  Leonardo  sembra  un  predestinato.  Non  lo  era  se  ci  riferiamo  allo  schema  culturale  imperniato sull’«ipertrofia dell’io», sul machismo, sul carisma, attraverso il quale i mafiosi leggono se stessi e sono letti da tanti esegeti. Era infatti venuto su come un ragazzo pieno di fragilità emotive, orfano fin da piccolo, affascinato dalla figura dello zio cui doveva dimostrare di essere «uomo» anche per respingere il sospetto di omosessualità che covava in se stesso63.  Un’osservazione.  Il  suo  caso  indica  come  l’adeguamento  ai  modelli  virili  possa  per  un  mafioso  rivelarsi problematico quanto quello di una persona «normale», e forse di più. Come ha scritto la sociologa Renate Siebert, «i valori  mafiosi  (o  dovremmo  più  correttamente  parlare  di  disvalori?)  appaiono  per  molti  versi  l’esasperazione  dei valori  che  fondano  l’identità  maschile  nella  nostra  civiltà.  La  mascolinità,  erroneamente  fraintesa  come “naturalmente” data, appare nei fatti un obiettivo assai duro da conquistare»64. Leonardo reagisce con un grande conformismo nei confronti dell’ambiente e del gruppo di mafia che lo circonda. Diviene  mafioso  perché  vuole  sentirsi  gregario.  Per  dimostrarsi  all’altezza  uccide  prima  un  cavallo,  poi  un  essere umano,  senza  conoscere  altro  perché  se  non  che  questo  si  vuole  da  lui.  Siamo  nel  1960,  Leonardo  ha  vent’anni. Qualche tempo prima lo zio ha forse inteso trattenerlo sull’orlo dell’abisso: «Vedi le mie mani? – ha detto. – Sono

sporche  di  sangue  e  quelle  di  tuo  padre  lo  erano  ancor  di  più».  Poi  è  lo  stesso  zio  a  commissionargli  il  primo assassinio, a portarlo per premio a caccia65. Subito dopo, Leonardo pronuncia il giuramento descritto da tante fonti ottocentesche e novecentesche a noi note, viene  punto  (quella  è  la  più  classica  mafia  dei  giardini)  non  con  uno  spillone  ma  con  una  spina  di  arancio  amaro, brucia il santino, bacia sulla bocca i confratelli. Si tratta, gli viene detto, del «rito dei Beati Paoli». Entra a far parte di un’organizzazione radicata in quel territorio attraverso le generazioni, che poi sono anche quelle della sua famiglia di sangue. Gli si chiede di annegarsi nel gruppo. Facciamo  qualche  esempio  delle  sue  attività  successive.  Una  volta  dà  fuoco  all’automobile  del  direttore  di  un cinema, un calabrese colpevole di non lasciarlo entrare gratis. Questa è l’unica occasione in cui prende un’iniziativa personale; per il resto i suoi delitti fanno parte del quotidiano di un’entità collettiva, la Famiglia Altarello­Porta Nuova guidata da Pippo Calò. Bisogna ottenere posti di guardiano presso giardini e cantieri, incassare il pizzo, fare telefonate e scrivere lettere minatorie, avvelenare i cani da guardia e dar fuoco a qualche macchinario, se necessario ammazzare con  la vecchia lupara  da  dietro  il  muro  di  cinta  o,  più  modernamente,  stando in piedi in una Topolino dopo averne aperto la capote. Come i loro padri e i loro nonni, Vitale e i suoi uccidono generalmente altri facinorosi, il ladro di limoni (sic!), il concorrente nella gerarchia mafiosa. Accade che Leonardo sia coinvolto in qualche intrigo di maggior sottigliezza. Lo zio gli spiega che il boss Pippo Calò, non potendo arrivare a Ciancimino, che si trova «nelle mani» di Totò Riina, progetta di sequestrarne il figlio: non tanto per fare qualche soldo, ma per aprirsi la strada in quella direzione. «Era previsto che, dati i loro rapporti, il Ciancimino si sarebbe rivolto al Riina e (esso Calò) avrebbe potuto a sua volta fare il gioco del mediatore, in realtà facendo, invece, i nostri interessi»66. Nel  1972  Leonardo  Vitale  fu  arrestato  per  sequestro  di  persona,  e  rilasciato.  Non  c’erano  prove.  Nel  1973  si presentò alla polizia e disse tutto: dei delitti commessi da lui e dagli altri della sua Famiglia, della struttura di Cosa nostra, dei suoi segreti giuramenti. Lo fece spontaneamente, senza concordare la propria collaborazione con le autorità, di modo che le sue rivelazioni ci appaiono più genuine di quelle di Valachi (di cui abbiamo detto) e anche di quelle di Buscetta (di cui man mano stiamo dicendo). Lui stesso ci appare un pentito vero. Rinchiuso in manicomio e dichiarato pazzo, mostra in quella sua pazzia un metodo e un sapore di verità: si cosparge di escrementi per purgarsi dal peccato, brucia i vestiti acquistati col  prezzo  del  sangue,  conserva  il  proprio  affetto  allo  zio  ma  maledicendo  il  loro  comune  retaggio.  Riflette  sulla propria  incapacità  di  percepirsi  come  singolo:  «non  mi  è  importato  niente  di  me,  della  mia  vita  […]  ossia  davo importanza solo agli altri», «ammiravo tutti gli altri». È consapevole di soffrire di un «male psichico» provocatogli da un «male sociale» e da un «male politico»: la mafia. Si convince del carattere menzognero della mitologia mafiosa. Io sono stato preso in giro dalla vita, dal male che mi è piovuto addosso sin da bambino. Poi è venuta la mafia con le sue false leggi, coi suoi falsi ideali: combattere i ladri, aiutare i deboli, e però uccidere. Pazzi! I Beati Paoli, Coriolano della Foresta, la massoneria […], Cosa nostra mi hanno aperto gli occhi su un mondo fatto di delitti e di tutto quanto c’è di peggio perché si vive lontano da Dio e dalle leggi divine67.

Però l’occasione offerta da Leonardo Vitale andò perduta. «Valachi di borgata», fu chiamato con tono svalutante, come se le borgate su cui si ironizzava non fossero quelle palermitane, cuore e luogo d’origine dell’infezione mafiosa. Poca  attenzione  fu  prestata  alla  sua  testimonianza  sui  rituali  e  la  struttura  interna  di  Cosa  nostra.  A  suo  tempo, d’altronde, non aveva fatto grande impressione (in Italia) quella di Valachi. Era come se la mente si ritraesse da quelli che la modernità vedeva come residui arcaici, e che invece erano parte integrante del presente. Intorno al 1973 la Repubblica italiana era davvero senza unghie. Queste generali remore ideologiche aggravavano le difficoltà specifiche del processo penale di valutare e perseguire la mafia in quanto organizzazione. Era forse un reato pungere un dito e bruciare un santino? L’autorità non sostenne Vitale e anzi alla fine il tribunale condannò a una dura pena detentiva lui (e suo zio), non i potenti della mafia e della politica che aveva denunciato. Quando uscì dal manicomio  criminale,  qualcuno  volle  dimostrare  che  non  era  poi  così  pazzo.  Un  commando  mafioso  lo  uccise  nel 1984 – proprio nell’anno in cui Buscetta confermò tante delle sue rivelazioni. 1 Nonché del fratello di costui, Filippo, e di Willie Moretti, cognato di Costello e suo luogotenente. 2 Istruttoria Garofalo, p. 908. 3 Il gioco si faceva duro. Qualche mese prima, Costello aveva salvato per miracolo la pelle in un attentato e si era ritirato lasciando campo libero a Genovese. 4 FBI Files, Mafia Monograph, Section X, p. 94. 5 Kennedy 1960, pp. 324­5; Bernstein 2002, p. 9. 6 E. Perlmutter, Valachi Names 5 as Crime Chiefs, in «New York Times», 2 ottobre 1963.

7 Selvaggi 1957, p. 67. 8 Gambetta 1992, pp. 178 sgg. 9 Wolf ­ DiMona 1974, p. 12. 10 McClellan Hearings, p. 80. 11 Maas 1972, p. 33. 12 De Cavalcante Tapes, ad es. p. 4.24. 13 Ivi, ad esempio alla p. 4.29. 14 Abadinsky 1981; Teresa 1973, p. 86. 15 Almeno questa è la stima proposta da Raab 2007. 16 McClellan Hearings, pp. 219, 226, 96. 17 De Cavalcante Tapes, pp. 3.90, 4.26. 18 Ivi, p. 1.15­17. Il vecchio boss si chiamava Joe Bruno. 19 Si veda ad esempio Anderson 1965; o Cressey 1969. 20 McClellan Hearings, pp. 115­7. 21 Abadinsky 1981, p. 33. 22  Pileggi  1987,  pp.  40­1.  L’associato,  Henry  Hill,  non  poteva  aspirare  al  rango  di  affiliato  perché  di  padre  irlandese  (anche  se  di  madre siciliana). 23 Anche nella Famiglia Profaci c’erano stati clamorosi contrasti, per l’emergere di una fazione dissidente guidata da colui che era stato il killer prediletto del vecchio boss, «crazy» Joe Gallo. Gallo salvò la vita grazie all’intervento della polizia; nondimeno il tribunale lo condannò a una lunga pena detentiva per estorsione. 24 La conversazione è riportata in Raab 2007, p. 273. 25 Cfr. ancora ibid. Dunque, il coinvolgimento di tanti mafiosi nel commercio e nello spaccio non significa che la proibizione fosse un «mito», come ritiene Jenkins 1992. 26 In due versioni ufficiali, Testimonianza Buscetta A e Testimonianza Buscetta B, e in due volumi­intervista, Biagi 1986 e Arlacchi 1994. 27 Testimonianza Buscetta B, I, p. 41. 28 Testimonianza Buscetta A, p. 251. 29 Si veda ad esempio, sui suoi rapporti con il marsigliese Pascal Molinelli, Rapporto GDF 1955­63, p. 232. 30 Biagi 1986, pp. 147 sgg.; Arlacchi 1994, pp. 60 sgg. Qui ci si riferisce in particolare a un incontro che si sarebbe svolto non all’Hotel delle Palme, bensì in un ristorante cittadino. 31  Buscetta  la  definisce  un’assoluta  innovazione.  Anche  qui,  è  contraddetto  dai  molti  precedenti  cui  si  riferiscono  fonti  antiche  e  recenti, particolarmente quelle dei tardi anni trenta. 32 Ha in particolare negato che Di Pisa avesse mai commerciato in droga. Si è limitato a tacere quando Falcone ha confutato la sua versione rilevando che il capo­mafia aveva offerto eroina anche a un agente «coperto» del Narcotic Bureau: Testimonianza Buscetta A, p. 299. 33 Istruttoria La Barbera; Antimafia, Singoli mafiosi, pp. 271 sgg. 34 Arlacchi 1994, pp. 144­7. Il genero di Gentile si chiamava Pietro Davì, il brav’uomo Giuseppe Catania. 35 Paese dell’Agrigentino in cui era nato anche Nick Gentile. 36 Testimonianza Buscetta A, p. 216. 37 Telefonate intercettate e lettere trovate tra le sue carte provano senza dubbio che «esistevano pressioni da parte di gruppi organizzati della malavita statunitense» perché il film non venisse realizzato: Rapporto GDF 1955­63, pp. 280 e 283­4. 38 Venne firmato da Gosch ma stilato dal giornalista Richard Hammer. Si veda l’introduzione a Gosch ­ Hammer 1975. Hammer attesta di aver lavorato sul testo dell’intervista, che però sarebbe poi finito distrutto per la trascuratezza della moglie di Gosch. Il volume è scritto nella gran parte in  terza  persona,  ma  con  una  serie  di  inserti  virgolettati  nei  quali  Luciano  parla  in  prima  persona,  e  che  dovrebbero  corrispondere  a  brani dell’intervista. 39 Molte delle cronache sue e del suo collega M. Farinella vennero raccolte in un volume molto pregevole: Chilanti ­ Farinella 1964. 40 Cfr. la lettera di Chilanti all’editore in Gentile 1993, p. 43. Lo storico Critchley, che ha consultato il documento Fbi, testimonia della sua corrispondenza con il libro: Critchley 2009. 41 Gentile 1993, p. 55. 42 Ibid., p. 120. 43 Ibid., p. 79. 44 Già nel 1957, però, aveva dedicato all’argomento un bel saggio: Sciascia 1961. 45 Id.1962, p. 100. 46 Ibid., p. 101. 47 Cit. in Sciascia 1962, p. 28. 48 Id. 1973, p. 91. 49 Ibid., pp. 94­5. 50 Cit. da Lodato 1992, pp. 209­10. 51 Cit. in Antimafia, Relazione Carraro, p. 169. 52 Di Lello 1994, p. 141.

53 Ibid., pp. 127 e 116 sgg. 54 Ibid., pp. 95 sgg. 55 Istruttoria Liggio, pp. 208­9. 56 Istruttoria La Barbera, pp. 506 sgg. 57 Istruttoria Torretta, p. 627. 58 Antimafia, Doc., VII, t. 2, p. 814. 59 Ibid., p. 872. 60 Giuseppe Quartuccio. 61 Istruttoria maxiprocesso, p. 340. 62 Rapporto Malausa, p. 47. 63 Traggo le citazioni dalla bella analisi dei verbali degli interrogatori di Vitale è quella fatta da Galluzzo, Nicastro, Vasile 1989, pp. 95 sgg. 64 Siebert 1994, p. 27. 65 Il verbale degli interrogatori di Vitale è riportato per lunghi stralci da Galluzzo, Nicastro, Vasile 1989, pp. 95 sgg. 66 Istruttoria maxiprocesso, p. 13. 67 Ibid., p. 14.

XI. Punto di snodo. La Repubblica e i suoi nemici

Abbiamo  visto  come  il  malaffare  e  i  conflitti  infra­mafiosi  del  secondo  Novecento  si  collocassero  in  una dimensione  transatlantica.  Sappiamo  della  loro  dimensione  locale.  Sull’una  e  sull’altra  torneremo  più  avanti.  Credo però sia necessario adesso fare una pausa per dire del contesto nazionale in cui il seguito della nostra storia andò a inserirsi.  A  cavallo  tra  anni  sessanta  e  settanta,  la  democrazia  italiana  molto  si  arricchì  sul  fronte  dei  diritti  civili  e sociali,  ma  incontrò  anche  crescenti  difficoltà.  La  Democrazia  cristiana  non  era  più  capace  di  legittimare  il  proprio monopolio  del  potere  governativo,  il  Partito  comunista  continuava  a  essere  incapace  di  proporre  un’alternativa.  In prospettiva storica, è chiaro che, a cavallo tra anni settanta e anni ottanta, i partiti rappresentavano di meno la società. È evidente, ma sarà opportuno ribadirlo qui, che la storia d’Italia in questi anni non si riduce a violenza, terrorismo, mafie e «poteri occulti». Ma è fatta anche di questo. E il nostro discorso su questo ci porta a concentrarci. 1. Politica e criminalità. Negli  anni  sessanta  in  Italia  gli  assassinî  erano  in  media  434  l’anno.  La  prima  metà  degli  anni  settanta  vide  un incremento,  poi  trasformatosi  in  boom.  Tra  1975  e  1993,  la  media  fu  di  1434  l’anno,  con  picchi  appunto  nel  1975 (1691), nel 1982 (1983), nel 1991 (1916)1. I terrorismi erano due. Quello neo­fascista, ben più feroce ovvero stragista, fece i propri esordi nel 1969 a piazza Fontana: fu il meno decifrabile nelle motivazioni di quanti misero le bombe e di chi  li  coprì  nei  servizi  segreti  cosiddetti  «deviati».  Quello  dell’estrema  sinistra  promosse  uno  stillicidio  di intimidazioni,  gambizzazioni,  assassinî  di  gente  indifesa,  svuotando  l’idea  di  legalità  e  strumentalizzando  quella  di garantismo. I terrorismi, il primo molto più del secondo, diedero il loro contributo alla prima fase dell’escalation dei delitti di sangue, ma entrambi lo fecero enormemente di meno delle mafie. Si pensi che nel picco del 1991, in un solo anno, si ebbero nel paese 700 morti per cause di criminalità organizzata2: numero ben superiore ai 490 che formano il totale dei morti per cause politiche nell’intero periodo  1969­85.  E,  come  vedremo,  per  quanto  riguarda  Cosa  nostra  i  dati potrebbero  essere  sottodimensionati  rispetto  alla  realtà.  Comunque,  anche  ragionando  solo  su  quelli  ufficiali, potremmo avere un numero totale di morti per cause di criminalità organizzata, nel 1975­92, oscillante tra i 5000 e i 60003. La  sequenza  cronologica  sembra  indicare  che  l’escalation  della  violenza  criminale  seguì  quella  della  violenza politica, e se ne alimentò. Non intendo con questo accreditare l’idea del super­complotto, cui molti indulgono e già allora  indulgevano,  non  so  quanto  sinceramente  o  per  esercizio  retorico.  Facciamo  il  caso  di  un  magistrato  come Domenico  Sica,  nominato  nel  1988  alla  carica  di  alto  commissario  per  la  lotta  alla  mafia:  il  quale  ipotizzava l’esistenza  di  un’«Agenzia  criminale»  composta  da  un  «numero  limitato  di  persone,  sostanzialmente  in  grado  di gestire (anche all’insaputa degli esponenti stessi delle organizzazioni malavitose) le grandi linee del crimine e persino del terrorismo di destra e di sinistra»4. Io direi piuttosto che ci fu uno scambio di modelli, simboli e valori – o meglio, disvalori.  I  criminali,  almeno  quelli  inclini  a  pensare  in  grande,  impararono  dalle  gesta  dello  stragismo  nero  e  del terrorismo rosso, riportate con grande evidenza dai media, o direttamente nelle comuni frequentazioni carcerarie. Fu per questa via che assunsero un ruolo da protagonisti, come mai in passato. Il trend fu comune, e il contesto in qualche modo unificante. Questa è la ragione per cui entrò nell’uso il plurale mafie per indicare l’insieme delle bande della criminalità organizzata dell’Italia meridionale, quelle siciliane insieme a quelle campane o calabresi: anche se più che altro le une vennero indicate pur sempre con il nome antico di camorra, mentre per le altre si impose nel discorso pubblico un termine in passato poco noto, ’ndrangheta. Tra anni settanta e anni  ottanta,  l’infezione  si  aggravò  nelle  aree  di  antico  insediamento:  Sicilia  occidentale,  Calabria  meridionale (Aspromonte e Piana di Gioia Tauro), Campania (Napoletano, Terra di Lavoro). Investì altre zone siciliane, calabresi e campane, tradizionalmente considerate immuni, ed ex novo altre regioni come la Puglia. Certe bande allargarono il loro  raggio  d’azione  verso  l’Italia  settentrionale,  e/o  verso  l’estero,  in  Europa  e  fuori  dall’Europa.  Le  mafie  si inserirono nei più diversi traffici, leciti e illeciti, inquinarono il tessuto sociale, la convivenza civile, la democrazia. E fecero ricorso alla violenza su scala ben più vasta che in passato.

Molte vicende, tra anni settanta e anni ottanta, potrebbero essere citate per dimostrare l’assunto della permeabilità tra  l’illegalismo  politico  e  quello  mafioso.  Voglio  evocarne  brevemente  una,  quella  di  Raffaele  Cutolo  e  della  sua Nuova camorra organizzata (in sigla: Nco)5. In concreto la Nco, al pari di altre organizzazioni criminali e politiche, usufruiva  di  larghi  spazi  di  tolleranza,  a  cominciare  da  quello  che  in  teoria  dovrebbe  essere  più  efficacemente presidiato dallo Stato: il carcere. Fu lì che i suoi adepti combatterono alcune delle più sanguinose battaglie con i loro nemici, senza che le autorità carcerarie, rassegnate o compiacenti, facessero un gran che per frenarli. Emblematico di un’epoca  e  delle  sue  contraddizioni  fu  il  caso  di  Ciro  Cirillo,  politico  democristiano,  già  presidente  della  Regione Campania, che venne rapito dalle Brigate rosse nel 1981, e che fu poi salvato grazie a un’oscura trattativa in cui fu coinvolto  Cutolo.  L’assassinio  del  vicequestore  Antonio  Ammaturo  da  parte  delle  Br  venne  interpretato  come  un ringraziamento nei suoi confronti. C’è  poi  anche  un  aspetto  ideologico.  La  sigla  Nco  richiamava  certe  sigle  politiche  della  nuova  sinistra  come «Autonomia  organizzata».  Cutolo  diede  sin  dall’inizio  all’organizzazione  un  carattere  di  compattezza  e centralizzazione,  reinventò  rituali  di  affiliazione,  adottò  una  sorta  di  ideologia  pseudo­meridionalista, propagandandola con interviste ai giornali e persino con un libro scritto di suo pugno, Poesie e pensieri6. Traggo da un’inchiesta del giornalista Luca Rossi a Ottaviano, paese natio del boss, notizie su certe interessanti contaminazioni tra nuova camorra e nuova sinistra. Abbiamo giovani che interpretano la prima all’insegna dello slogan «prendiamoci la  città»  in  auge  in  quegli  anni  nella  seconda.  Il  muratore  omosessuale,  già  simpatizzante  dei  Nap  (Nuclei  armati proletari),  spiega:  «questa  è  la  camorra,  è  prendersi  quello  che  non  hai  mai  avuto,  il  pane,  il  lavoro,  la  casa».  Una ragazza, passata dalla lettura di Mao a quella appunto di Cutolo, ribadisce: «ci prendiamo quello che non ci danno, ce lo prendiamo con la forza»7. Mi rendo conto che, da quest’angolazione, può risultare deformato il tema del rapporto tra le mafie e l’Italia dei movimenti, che invece in generale è stato di contrapposizione e – da un certo momento in poi – anche di resistenza. Mi  sembra  dunque  giusto  introdurre  qui  una  storia,  tra  le  tante,  che  qualcosa  di  importante  dice  su  questo  secondo aspetto: quella di Giuseppe Impastato detto Peppino (1948­1978). Peppino  nasce  a  Cinisi,  pochi  chilometri  a  ovest  di  Palermo.  Il  padre,  Luigi,  già  confinato  in  periodo  fascista,  è imparentato con mafiosi sia siciliani che americani; e tra gli altri con un elemento di spicco come Cesare Manzella, reduce dagli Stati Uniti, alleato dei Greco, morto nel 1963 per l’esplosione di una Giulietta al tritolo. Luigi fa parte dell’entourage di un boss che come sappiamo non è solo paesano, don Gaetano Badalamenti. Giovanissimo, Peppino si orienta verso la sinistra «nuova» e, se volete, estrema. Scelta politica che è causa o anche effetto del contrasto col padre. Scriverà: «Mio padre, capo del piccolo clan e membro di un clan più vasto […], aveva concentrato tutti i suoi sforzi, sin dalla mia nascita, nel tentativo di impormi le sue scelte e il suo codice comportamentale. […] Approdai nel Psiup  con  la  rabbia  e  la  disperazione  di  chi,  al  tempo  stesso,  vuol  rompere  tutto  e  cerca  protezione»8.  La contrapposizione padre­figlio, inizialmente politica, si accentra ben presto sul nodo della mafia. Peppino, su una radio privata  messa  su  da  lui  e  dai  suoi  compagni,  Aut  aut,  denuncia  le  speculazioni  di  Badalamenti  sui  terreni  intorno all’aeroporto di Punta Raisi, lo irride, lo smitizza. Il  padre  muore,  il  che  forse  gli  fa  mancare  una  qualche  protezione.  Peppino  viene  ucciso.  Gli  assassini  fanno esplodere il suo corpo con una carica di esplosivo su una linea ferroviaria, in modo che si creda che stesse perpetrando un  attentato.  E  le  autorità  trovano  facile,  o  conveniente,  crederci.  D’altronde  è  il  9  maggio  1978,  giorno  del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Post­scriptum. Ci vorranno ventiquattro anni perché, nel 2002, un tribunale riconosca Badalamenti mandante del delitto. La rivolta generazionale, il figlio che si schiera contro il padre, la rottura di gerarchie culturali antiche, la spinta emancipatrice e libertaria. L’esperienza di Peppino Impastato esprime nel profondo i caratteri generali e di fondo della svolta  culturale  dell’Italia  post­sessantottesca.  Conserva  pur  sempre,  certo,  la  specificità  delle  storie  di  mafia:  per l’intreccio tra la dimensione familiare e quella pubblica, e per il suo esito tragico. Per l’uno e per l’altro aspetto, la maggioranza  dei  suoi  compaesani  giudicava  Peppino  un  estremista.  Il  giorno  del  funerale  quella  maggioranza  restò ben chiusa in casa, e furono i compagni palermitani del movimento a scendere in piazza per gridare la propria rabbia. Del resto, a Palermo, formavano essi stessi una piccola minoranza. 2. Metastasi. Ai piedi dell’Etna. Quali i rapporti tra le mafie? Nel nostro discorso, centrali sono quelli tra i due rami di Cosa nostra, il siciliano e l’americano, le mafie più antiche. Troviamo una miriade di relazioni di affari tra trafficanti (soprattutto di tabacchi e/o droga) riconducibili a Cosa nostra siciliana, e varie bande di ’ndranghetisti calabresi o di camorristi campani. Alcuni tra  questi  ultimi  vennero  addirittura  affiliati  a  Cosa  nostra:  in  un  tentativo  di  creare  solidarietà,  di  portare  ordine centralizzando,  che  non  so  quanto  abbia  poi  dato  frutti  reali.  La  mafia  pretende  sempre  di  sapere  come  ottenere  il

risultato, ma il più delle volte non ci riesce. Non ci riuscì ad esempio in una delle aree della Sicilia occidentale di più antico insediamento mafioso, tra le province di Agrigento e di Caltanissetta, dove gli esponenti della rete collegata a Cosa  nostra  (a  Palermo)  vennero  ripetutamente  a  conflitto  con  quelli  della  cosiddetta  stidda  (stella),  formata  da elementi che dalla prima erano stati «allontanati o emarginati» in un più o meno recente passato: «picciotti svelti di pistola, affamati di soldi, pronti a comprare o a vendere droga, disposti a tutto pur di arrivare»9. Guardiamo  alla  Sicilia  orientale.  La  città  più  importante  di  questa  parte  dell’isola,  Catania,  aveva  una  sua tradizione  di  criminalità  più  o  meno  organizzata,  legata  soprattutto  al  controllo  della  prostituzione,  arruolata  in qualche  caso  per  la  gestione  delle  campagne  elettorali.  In  antico  però  nessuno  definiva  quella  criminalità  come mafiosa.  Nella  competizione  anche  campanilistica  con  Palermo,  i  catanesi  addebitavano  la  mafia  alla  rivale  e  in generale  alla  parte  occidentale  dell’isola,  meno  progredita  e  dinamica.  La  Catania  degli  anni  cinquanta  e  sessanta amava  dipingersi  come  la  Milano  del  Sud.  Commerciava,  costruiva,  faceva  affari,  speculava  sotto  la  regia  della macchina politica, rappresentata ai massimi livelli da Nino Drago, l’ennesimo fanfaniano10. Però a Catania esisteva sin dal 1925 una Famiglia di mafia. La notizia ci deriva dalla testimonianza di Antonino Calderone, che abbiamo  già  utilizzato  e  dalla  quale  dipendiamo  quasi  esclusivamente per sapere qualcosa delle sue origini. L’avrebbe costituita uno zio di Calderone, dopo aver preso lezioni nella Sicilia occidentale, al ritorno cioè da un  periodo  di  latitanza  nelle  Madonie11.  In  effetti  sappiamo  di  suoi  esponenti  coinvolti  negli  anni  cinquanta,  nel contrabbando di sigarette organizzato dai palermitani, accanto a Salvatore Greco l’ingegnere e a Badalamenti. Ne  divenne  il  numero  uno  Pippo  Calderone,  fratello  del  nostro  testimone.  C’era  anche  lui,  nel  luglio  1970, all’incontro milanese «di vertice» con Buscetta, Badalamenti e Salvatore Greco. E alla metà degli anni settanta venne messo addirittura alla testa di una neo­costituita Commissione regionale di Cosa nostra. Per quanto ne sappiamo però, e stando alla stessa testimonianza del fratello, l’autorità di tale Commissione era solo formale, perché il potere reale restava nelle mani dei palermitani. Non  so  se  le  relazioni  di  amicizia  e  comparaggio  tra  Calderone  e  Giuseppe  Di  Cristina,  erede  di  una  dinastia mafiosa  di  Riesi  che  già  abbiamo  citato,  derivassero  da  affari  comuni,  relativi  magari  agli  antichi  circuiti  del commercio  dello  zolfo.  Sembra  facessero  proprio  i  trasportatori  di  zolfo,  in  origine,  i  membri  della  famiglia Santapaola. Un suo membro, Benedetto Santapaola detto Nitto (nato nel 1938), assurse a un ruolo importante nella cosca  catanese,  sino  a  contestare  la  leadership  Calderone.  E  nel  1979  fu  verosimilmente  lui  a  organizzarne l’assassinio; anche se la contemporanea eliminazione di Di Cristina, entrato in contrasto coi corleonesi, fa pensare che entrambi  i  delitti  fossero  connessi  a  conflitti  e  ad  alleanze  di  scala  regionale.  Questa  comunque  è  la  versione  di Buscetta, che è divenuta canonica, e sulla quale torneremo meglio più avanti. Nel frattempo a Catania era tutto un crescere di reati e violenza. Come nelle altre parti del Mezzogiorno, e anche di più.  Presero  sempre  più  piede  bande  più  o  meno  grosse  e  strutturate,  emergenti  nel  ventre  della  città,  e  nelle  loro guerre si moltiplicò esponenzialmente il numero dei morti ammazzati. Ci fu un boom degli scippi, delle rapine in loco e  anche  (con  fulminee  trasferte  aeree)  nell’Italia  settentrionale,  del  pizzo  sui  negozi  e  sulle  imprese.  Nell’economia cittadina  si  realizzò  un’osmosi  tra  ambienti  delinquenziali  e  borghesi  che  non  aveva  nulla  da  invidiare  a  quella palermitana,  con  «il  formarsi  di  nuove  e  ingiustificate  ricchezze  […],  l’affacciarsi  di  nuovi  imprenditori  senza problema di finanziamento, il sorgere, anche in periferia, di attività commerciali gestite in lussuosi negozi, attività che spesso scompaiono dopo poco tempo e che sembrano piuttosto svolgere funzione di copertura di traffici illeciti»12. Non è mafia, molti continuarono ad affermare. La mafia è un’altra cosa, ribadirono i membri della classe dirigente, e  i  cronisti  de  «La  Sicilia»,  il  quotidiano  che  monopolizzava  l’informazione  in  città  e  nelle  zone  circostanti.  A intorbidare  le  acque  interveniva  il  pregiudizio  duro  a  morire  che  ben  conosciamo:  quello  secondo  cui  la  mafia  era indissolubilmente  legata  all’economia  primitiva  del  latifondo,  cioè  a  una  tradizione  «feudale»  da  cui  la  Sicilia orientale  si  sentiva  lontana.  Il  Partito  comunista,  nel  tentativo  di  dare  uno  sbocco  politico  a  una  certa  crescita elettorale,  si  baloccò  con  il  progetto  di  un  «patto  dei  produttori»  tra  sindacati  e  grandi  imprenditori,  i  cosiddetti «cavalieri del lavoro», che avrebbe consentito alla città di procedere sulla strada dello sviluppo economico13. Milazzismo in senso lato e anche, viene da dire, in senso stretto: se pensiamo alla storia dell’imprenditore Carmelo Costanzo  quale  ci  viene  raccontata  da  Calderone.  Costanzo  sarebbe  stato  in  relazione  con  lo  zio  di  Calderone,  e fondatore della Famiglia, già agli inizi della sua carriera, quando era ancora un capomastro. Poi giunse l’operazione Milazzo,  di  cui  già  qualcosa  sappiamo.  Anche  lui  avrebbe  profittato  dei  provvedimenti  varati  in  quel  periodo  per intraprendere  una  scalata  verso  il  Gotha  dell’imprenditoria  cittadina  e  regionale14.  E  Santapaola?  Si  trasformò  lui stesso  in  imprenditore  acquisendo  una  concessionaria  Renault.  Rimane  agli  atti  un  ritratto  di  città,  una  fotografia scattata al matrimonio di uno dei Costanzo che mostra, uno accanto all’altro, il sindaco di Catania, il presidente della provincia, il segretario provinciale della Dc, l’onorevole socialdemocratico, i nipoti di Costanzo, e lui stesso, il boss, Nitto Santapaola.

A proposito di tradizione. Come ogni mafioso all’antica, Santapaola qualche volta si eresse a tutore dell’ordine e molti  criminali  indisciplinati  vennero  uccisi  spietatamente.  Però  in  sostanza  l’idea  della  regolamentazione  si  rivelò abbastanza illusoria. Catania rimase il campo di battaglia di gruppi contrapposti. Anzi possiamo dire che si venne a determinare un effetto analogo a quello che nell’Agrigentino determinò la formazione della stidda. Come ricorda un pentito catanese, la cosca dei cursoti (di cui il pentito stesso faceva parte) si formò nel 1974­75 dalla convergenza di preesistenti gang determinate a opporsi ai tentativi del gruppo di Cosa nostra di fare «terra bruciata». Effetto degno di nota: alcuni di questi cursoti estesero le loro reti al Piemonte, così come più o meno nella stessa fase facevano gruppi di ’ndranghetisti. Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, per usare il titolo dato dal sociologo Rocco Sciarrone a un suo libro che centra alcuni dei meccanismi­base della vicenda delle mafie italiane negli anni settanta­ ottanta15. Facciamo per un attimo un brusco salto in avanti nel tempo. Arriviamo al 1995, quando Santapaola (al pari di altri capi­mafia  siciliani)  si  trova  da  un  paio  d’anni  in  galera,  dopo  una  lunghissima  latitanza.  In  prigione  gli  giunge  la notizia che sua moglie è stata assassinata. Da chi e perché? Da un malavitoso che, a quanto sembra, ha inteso punire il boss per avere autorizzato (o forse per non aver evitato) l’assassinio di sua madre. Insomma il malavitoso ha voluto denunciare l’incapacità del capo­mafia di fare quello che l’ideologia si aspetta da lui: impedire l’uccisione delle donne oltre che dei bambini, in generale l’escalation di una violenza animalesca e incontrollata. È interessante la risposta del boss, che viene affidata ai giornali, cioè non solo ai suoi sodali e satelliti (o avversari), ma a un’opinione pubblica più vasta. «Amo la mia città e lo grido, forte», proclama, e poi si chiede retoricamente: «Dov’è quella Catania fiorente, dove sono gli imprenditori, i commercianti che potevano vivere e lavorare senza avere paura?». Lamenta insomma i danni  provocati  dall’inopportuna  iniziativa  delle  autorità,  che  arrestandolo  ha  privato  la  città  di  prosperità  e sicurezza16. Una mia notazione. Il boss dimentica che negli anni in cui era in auge Catania era in preda a conflitti sanguinosi, i quali tutto dimostravano fuorché la sua capacità di mantenere l’ordine. Siamo come al solito davanti a una retorica che (in  quanto  tale)  può  prescindere  dai  fatti;  questo  è  il  modo  in  cui  –  siano  irriducibili  o  anche  pentiti  –  i  mafiosi provano a spiegare se stessi e a guadagnarsi il consenso altrui. Santapaola qualcosa dimentica e qualcos’altro ricorda: lo spirito municipalista, l’idea di un’identità cittadina che si cementa sotto l’egida di una malintesa idea di sviluppo, e che  per  tanti  anni  ha  impedito  ai  catanesi  di  vedere  i  mafiosi.  Ricorda  forse  in  particolare  una  sentenza  di  appena qualche anno prima (1991), in cui un magistrato catanese, accertata la fondatezza della gran parte delle rivelazioni di Calderone jr. sui rapporti tra lui e Costanzo, ha ritenuto i comportamenti del secondo non punibili in quanto dettati da stato di necessità, così argomentando: Il  rifiuto  di  un  qualsiasi  dialogo  finalizzato  al  raggiungimento  di  un  certo  punto  di  equilibrio  [coi  mafiosi]  condurrebbe l’imprenditore  a  rinunciare  all’esercizio  dell’impresa;  e  ciò  paradossalmente  avverrebbe  proprio  in  quelle  zone  del  territorio nazionale  in  cui  il  mantenimento  e  lo  sviluppo  dell’occupazione  dovrebbe  servire  ad  incentivare  l’affrancamento  delle popolazioni dalla presenza mafiosa17.

Siamo  alla  fallace  equazione  sottosviluppo=mafia,  da  cui  si  ricava  l’ancor  più  fallace  corollario  secondo  cui  lo sviluppo  contrasterebbe  la  mafia.  Come  sempre  nella  nostra  storia,  le  difese  più  appassionate  riguardano  quelli  che nell’Ottocento si dicevano i manutengoli. La  vicenda  catanese  peraltro  ci  dice  qualcosa  anche  sul  versante  opposto  della  questione,  sul  come  e  sul  perché qualcuno  a  un  certo  punto  veda  la  mafia,  diciamo  la  riconosca.  Questo  fece  Pippo  Fava  (1925­1984),  scrittore, commediografo e soprattutto giornalista professionista, di una certa fama in città. Si sentiva un po’ messo ai margini quando,  nel  1980,  fondò  «Il  Giornale  del  Sud».  Voleva  fare  un  quotidiano  dal  taglio  nuovo,  che  desse  risalto  ai misfatti della criminalità che stava sconvolgendo la città; anche in concorrenza con «La Sicilia», le cui cronache gli parevano  edulcorate  e  qualche  volta  omissive.  Andò  avanti  finché  i  membri  della  cordata  di  imprenditori  che possedeva la testata gli fecero capire che stava esagerando. Lo licenziarono e poi chiusero. Ma  Fava  non  mollò  e  cominciò  a  progettare  una  nuova  impresa  editoriale,  la  rivista  «I  Siciliani».  Era  un  tipo sanguigno, una persona coraggiosa, che conosceva bene l’establishment politico­affaristico cittadino e disprezzava il suo  spirito  omertoso.  Cercò  i  suoi  collaboratori  tra  giovanotti  che  professionalmente,  magari,  non  erano  tanto attrezzati, ma che vedeva combattivi e pieni di entusiasmo. Rappresentavano un’altra antimafia alla Impastato, anti­ istituzionale, radicalmente a sinistra. Tra loro c’era Claudio Fava, figlio di Giuseppe, che anche in seguito si sarebbe mantenuto su quel versante, come pubblicista e anche come uomo politico di una certa importanza18. Torneremo più avanti sul modo in cui questa vicenda catanese si intrecciò nel 1982 con quella palermitana e con l’ultima missione siciliana di Dalla Chiesa. Diciamo ora che il 5 gennaio 1984 qualcuno ordinò che una sequenza di revolverate  mettesse  Giuseppe  Fava  a  tacere  per  sempre.  Ci  vollero  quattordici  anni  perché  Santapaola  venisse condannato come mandante del delitto. Ma il mandante del mandante non è stato condannato.

3. L’antagonista. Due  citazioni.  La  prima  è  del  magistrato  destinato  ad  assurgere  a  simbolo  di  quell’epoca,  Giovanni  Falcone.  Il disordine è di massa, «basti pensare ai processi per contrabbando di petrolio, a quelli per traffico illecito delle fustelle dei medicinali, a quelli per violazioni valutarie, a quelli per truffa agli enti pubblici e così via»; terrorismo e mafie ne rappresentano la manifestazione più drammatica19. La seconda è di uno dei grandi del giornalismo dell’epoca, Giorgio Bocca. Ci vorrebbero «centomila o duecentomila» mandati di cattura «per fare pulizia» di terroristi e mafiosi, e sono «grandi  numeri»  che  rischiano  di  generare  «un  regime  di  nuovo  tipo:  democratico  concentrazionario,  garantista  ma con le sue prigioni­lager»20. Il punto era proprio quello. L’Italia era scossa da corruzione, terrorismo e mafie, disordini di massa in cui alcune forze politiche e parti di istituzioni erano coinvolte attivamente, da cui altre erano paralizzate. La  Repubblica  era  chiamata  a  trovare  in  sé  le  forze  per  riportare  l’ordine  ma  rispettando  la  Costituzione  e  i  diritti fondamentali. Non era ovvio né facile. Partiamo dal caso celebre dell’inchiesta «7 aprile», così detta perché fu il 7 aprile 1979 che un blitz della polizia portò  in  prigione  il  filosofo  Toni  Negri  insieme  ad  altri  leader  dell’estrema  sinistra  padovana,  della  cosiddetta «Autonomia  organizzata».  I  fatti  sono  questi:  diversi  gruppi  e  militanti  (a  Padova  e  non  solo)  si  organizzavano  in forma  più  o  meno  clandestina  per  compiere  una  miriade  di  azioni  violente,  altri  li  aiutavano,  altri  pubblicamente  li applaudivano invocando la «militarizzazione» del movimento. Ma come sistemare concettualmente questo coacervo? Nell’interpretazione  degli  inquirenti,  la  rete  dell’Autonomia  fungeva  da  coordinamento  operativo,  oltre  che ideologico,  per  le  azioni  terroristiche.  Meno  chiaro  era  il  rapporto  con  le  strutture  clandestine  delle  Brigate  rosse. Poliziotti e magistrati pensavano che, quanto meno, fosse di intesa e scambio di favori21. Negli anni precedenti, a partire dalla cosiddetta «legge Reale» (1975), erano stati varati diversi provvedimenti, più o meno straordinari, per l’ordine pubblico che aumentavano i poteri della polizia e diminuivano le garanzie a difesa. Il reato di «associazione sovversiva» tornava in auge insieme ai fatti politici cui poteva essere riferito. Venne riutilizzata (ad esempio contro i brigatisti) addirittura la fattispecie accusatoria della «banda armata», nell’Ottocento riferita alle scorrerie brigantesche nelle campagne, e da allora caduta in disuso22. Lo stesso Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva cominciato la sua carriera (come si ricorderà) nel Cfrb, corpo speciale deputato alla lotta contro il banditismo siciliano nel dopoguerra. Lo storico Nino Blando ha ricordato come lui stesso esplicitamente si richiamasse a quell’esperienza come modello per un’azione non­convenzionale, più da intelligence che classicamente di polizia, per fronteggiare le Brigate rosse. Fu in questo stile che creò nel 1974 un Nucleo speciale antiterrorismo  dei  carabinieri.  Il  Nucleo  riuscì  a  catturare  i  capi  delle  Brigate  rosse  (Renato  Curcio  e  Alberto Franceschini) proprio valendosi di un infiltrato, soprannominato «frate mitra»23. La successiva evasione dal carcere di Curcio, e le polemiche su quei metodi eterodossi, portarono nel 1976 allo scioglimento del Nucleo. Il generale chiese a questo punto che gli venisse attribuita la responsabilità del coordinamento del servizio di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena, che in effetti ottenne nel 1977. L’idea era che i terroristi andassero rinchiusi in carceri speciali, ubicate  magari  in  qualche  remota  isoletta,  per  impedire  loro  di  mantenere  relazioni,  far  circolare  informazioni, programmare delitti. Può essere interessante la testimonianza di Mario Mori, ufficiale dei carabinieri destinato anche lui a svolgere un ruolo importante sul fronte mafioso, che – provenendo dal Sid, il servizio segreto militare – entrò nel 1975 nel Nucleo antiterrorismo.  In  un  libro­intervista,  Mori  si  sofferma  sullo  stile  di  lavoro  non  ortodosso  incoraggiato  da  Dalla Chiesa. Racconta del danno («dispersione delle conoscenze» e del personale esperto) che derivò dal suo scioglimento nel 1976, della sua ricostruzione nel 1977, ancora dei suoi successi, e del suo nuovo scioglimento alla fine del 197924. Trae  anche  conclusioni  interpretative  da  questa  vicenda  un  po’  schizofrenica.  Quei  corpi  investigativi  ad  hoc,  dice, suscitavano  diffidenze,  anche  negli  apparati  ordinari  dello  Stato,  timori  che  l’innovazione  «avrebbe  sovvertito pericolosamente  l’ordinamento  collaudato  delle  strutture  di  polizia  tradizionali,  provocando  dualismi,  concorrenze potenzialmente disgreganti. […] Questa è stata la maledizione di tutti i reparti “speciali”, da quello del generale Dalla Chiesa, al Ros»25. Comunque  Dalla  Chiesa  ottenne  quello  che  fu  forse  il  suo  maggior  successo  dopo  lo  scioglimento  del  Nucleo antiterrorismo, nel 1980, quando convinse Patrizio Peci, capo colonna delle Br a Torino, a collaborare con l’autorità26. Fu  il  primo  pentito.  La  parola  era  impegnativa,  ben  più  di  quelle  adoperate  ad  esempio  negli  Stati  Uniti:  quali  ad esempio  turncoat,  che  semplicemente  vuol  dire  voltagabbana.  Il  pentimento  cui  si  si  riferiva  era  quello  (morale, ideologico o semplicemente politico) di militanti accortisi di aver calpestato la vita propria e quelle altrui perseguendo un progetto sbagliato. Non a caso la strada fu aperta da Dalla Chiesa. Chi si pone sulla strada della collaborazione ha bisogno di confrontarsi con interlocutori credibili, inclini (soprattutto nella prima fase) a uno stile non­convenzionale; e di poter contare su un beneficio, sulla promessa di una via d’uscita.

I metodi «premiali» erano usuali negli Stati Uniti: ti concederò qualcosa in cambio della tua collaborazione con la giustizia,  la  quale  ne  guadagnerà  in  efficienza  seppure  rinunciando  a  un  po’  di  equità.  Sino  al  1979,  erano  però sconosciuti  nell’ordinamento  italiano.  Ci  si  risolse  a  cambiare  rotta  perché  il  conseguimento  di  collaborazioni dall’interno si dimostrò una condicio sine qua non per conseguire successi sia sul fronte del terrorismo sia su quello mafioso.  Lo  ha  scritto  in  sede  consuntiva  Giancarlo  Caselli,  il  magistrato  torinese  (nato  nel  1939)  trovatosi  a combattere battaglie molto importanti su entrambi: Le  Br,  dunque,  come  Cosa  nostra.  […]  Organizzazioni  diversamente  strutturate  ma  che  pongono,  sul  piano  del  contrasto investigativo­giudiziario,  problemi  assai  simili.  Primo  fra  tutti,  in  un  caso  come  nell’altro,  quello  di  rompere  la  cortina  del segreto  che  ontologicamente  le  avvolge.  E  i  segreti,  tutti  i  segreti,  si  possono  conoscere  soltanto  se  c’è  modo  di  ascoltarli  in presa diretta – con intercettazioni telefoniche o ambientali – o se c’è qualcuno, il pentito appunto, che li racconta27.

Sul fronte della lotta al terrorismo, Caselli entrò in contatto con altri magistrati destinati anche loro a svolgere un ruolo  nella  lotta  alla  mafia,  come  Pier  Luigi  Vigna.  Ricordiamo,  una  tra  le  tante  occasioni,  una  tavola  rotonda  sul settimanale «L’Espresso» cui i due parteciparono alla fine del 1980, a confermarne la forte attenzione al confronto con l’opinione  pubblica.  Vigna  sottolineava  la  difficoltà,  data  la  legislazione  vigente,  di  «ricercare  le  prove  contro organizzazioni  che  hanno  strutture  clandestine  e  si  basano  su  rapporti  strettissimi  di  solidarietà  interna»28.  Con  lo scopo  di  razionalizzare  le  indagini  e  di  creare  specialismi  si  formavano  nel  frattempo,  nei  tribunali  delle  città  più colpite  dal  terrorismo,  pool  specializzati  di  magistrati,  che  agevolavano  anche  la  circolazione  delle  informazioni  su scala nazionale. Siamo anche qui alla sovrapposizione tra vecchio e nuovo, tra istituti «normali» e istituti costituiti ad hoc, tra ordinario e straordinario. Col rischio di sovrapposizioni stridenti quanto quelle tra gli organismi investigativi sottolineate da Mario Mori. Tiriamo  un  po’  le  somme.  Lo  scambio  tra  terrorismo  e  mafia  ebbe  un  corrispettivo  nel  campo  dell’antagonista, delle istituzioni. I percorsi di vita e professionali dei due personaggi sopra citati, Caselli e Dalla Chiesa (ma anche di Vigna  e  Mori,  e  di  altri),  rappresentano  concrete  esemplificazioni  di  un  più  generale  trasferimento  di  strumenti  e valori. Il  punto  principale.  La  Repubblica  venne  spinta  a  perseguire  comportamenti  collettivi  e  strutture  associative,  ad attribuire agli uni e alle altre carattere criminale. Rappresenta un’applicazione di questa logica innanzitutto la legge sulle associazioni mafiose, varata nel 1982 e comunemente detta Rognoni­La Torre, cui già ci siamo riferiti in apertura di questo volume. Fu un grande risultato, come ben sappiamo viste le precedenti difficoltà di combattere questo tipo di criminalità. E lo fu anche l’incoraggiamento del pentitismo da parte degli inquirenti e il suo riconoscimento da parte del  legislatore.  Va  da  sé  che  anche  le  idee  di  polizie  speciali,  magistrature  speciali,  carceri  speciali,  nate  per contrastare il terrorismo, si trasferirono dall’uno all’altro terreno. Queste  scelte  vennero  tutte  giustificate  con  la  necessità  di  far  fronte  a  una  situazione  storico­politica  di  tipo straordinario. Gli anni che videro il deflagrare del terrorismo politico prima, di quello mafioso poi, furono davvero di straordinaria minaccia per la Repubblica. Però, come ha sottolineato Blando, nel corso della storia italiana ordinarietà e straordinarietà si sono intrecciate più volte. Basterebbe pensare alle polizie speciali di cui ci ha raccontato Coco, che negli anni trenta erano state create per perseguire e i mafiosi e gli oppositori del regime fascista. E possiamo andare ancor più indietro nel tempo, al pre­fascismo liberale (o pseudo­liberale), alle misure di prevenzione di polizia, alle accuse di associazione rivolte sia contro socialisti e anarchici in chiave liberticida, sia contro i mafiosi. Si trattava di precedenti inquietanti, in verità, come già abbiamo rilevato in altre parti di questo lavoro; che richiamavano periodi il cui  venivano  negati  nella  pratica  o  anche  in  concetto  i  principî  garantisti  poi  risolutamente  affermati  nella  Carta costituzionale del 1948. Così, il «ritardo» storico con cui venne varata una legislazione contro l’associazionismo mafioso si spiega alla luce delle diffidenze storiche del pensiero giuridico italiano verso l’idea della criminalizzazione di comportamenti collettivi e  pratiche  associative.  E  non  si  tratta  solo  del  passato.  In  concetto,  dunque  anche  nel  presente,  il  reato  associativo rischia di mettere in crisi alcuni principî di fondo del diritto penale: determinatezza, proporzionalità tra gravità della sanzione  e  disvalore  del  fatto,  carattere  personale  della  responsabilità.  Altrettanto  degne  di  considerazione  sono  le polemiche  sulla  legislazione  premiale.  Veniva  e  viene  naturale  la  domanda:  i  risultati  così  ottenuti  sono  credibili,  o prevarranno a scapito degli imputati le finalità strumentali dell’accusa e dei pentiti stessi? Questo dico per rilevare le difficoltà del percorso compiuto dal nostro paese a cavallo tra anni settanta e ottanta. E per spiegare le polemiche, l’articolazione anche politica delle forze in campo. A sostegno della magistratura, del rafforzamento degli strumenti investigativi, e di una più severa legislazione, si schierò  il  Partito  comunista,  portando  a  termine  la  propria  conversione  alla  difesa  dell’ordine  repubblicano;  come parte  per  nulla  secondaria  del  progetto  del  compromesso  storico  o  unità  nazionale  perseguito  dal  suo  leader  Enrico Berlinguer. Non furono rari i casi di magistrati di punta eletti nelle liste del Pci. Noi già conosciamo quello di Cesare

Terranova. Significativa, anche sul piano politico­generale, la carriera di Luciano Violante (nato nel 1941), formatosi in inchieste torinesi di terrorismo, presidente della Commissione antimafia nel 1992­94 e poi della Camera di deputati. Sul  fronte  opposto,  si  schierò  un  «garantismo»  molto  eterogeneo.  Lasciamo  per  ora  da  parte  quello  di  cui  si ammantavano  strumentalmente  gli  interessi  offesi.  C’era  una  parte  che  perseguiva  sì  un’aggressiva  strategia anticomunista e antidemocristiana, ma alla quale non mancavano gli argomenti di merito: rappresentata dall’estrema sinistra, in parte dai socialisti, e soprattutto dai radicali. Facciamo due esempi di polemiche particolarmente accese. La prima riguarda il caso, a noi già noto, dell’inchiesta 7 aprile, che stando ai critici si incentrava sulle opinioni di Toni Negri  &  C.  anziché  su  fatti  penalmente  rilevanti  da  loro  compiuti:  donde  l’espressione  «teorema  Calogero»,  che voleva  indicare  la  logica  tutta  deduttiva  cui  si  sarebbe  ispirato  il  magistrato  che  coordinava  l’inchiesta,  Pietro Calogero29. La seconda attiene alla vicenda dello showman televisivo Enzo Tortora, accusato nel 1983 da un pentito di camorra, arrestato e lungamente detenuto in seguito al blitz che valse a demolire la Nco di Cutolo, del quale alla fine fu dimostrata la piena innocenza. Nel primo caso lo scontro sulla «questione giustizia» si infiammava sul versante della politica, nel secondo su quello delle mafie. E  qui  rincontriamo  Sciascia,  che  in  quegli  anni  veniva  riconosciuto  come  uno  dei  massimi  intellettuali  italiani, scriveva sui grandi giornali, era corteggiato dai partiti politici. Il Partito comunista lo convinse nel 1975 a presentarsi quale indipendente nelle sue liste al Consiglio comunale di Palermo – ma quell’esperienza durò poco, e lo scrittore si dimise bruscamente. D’altronde, nella strategia del compromesso storico e nella politica di solidarietà nazionale, ben poco si riconosceva. Pensava che i comunisti sbagliassero di grosso identificandosi con la caricatura di Stato esistente in Italia. Il  grande  vecchio  del  Pci,  Giorgio  Amendola,  lo  disse  epigono  della  storica  «viltà»  degli  intellettuali  italiani quando  si  rifiutò  di  condannare  i  cittadini  di  Torino  rifiutatisi  di  fare  i  giurati  in  un  processo  contro  le  Br.  Sciascia replicò a muso duro. Confermò il proprio rifiuto di schierarsi per «lo Stato» davanti al cadavere di Moro. Fu in prima fila nelle polemiche sul caso Tortora. Attaccò Dalla Chiesa e il pentitismo. Prese posizione accanto ai radicali, la sua fu la voce più autorevole del garantismo. La polemica tra Sciascia e Amendola rivelava le aporie di una cultura di sinistra posta per la prima volta negli anni settanta di fronte a concrete scelte di politica criminale, chiamata a fornire risposte nuove a questioni interpretative antiche. Io credo che, nel merito, Amendola vedesse più in profondo; nel metodo, però, non posso non apprezzare il rifiuto  espresso  apertis  verbis  da  Sciascia  della  funzione  pedagogica  ancora  rivendicata  dai  comunisti  per  il  loro partito­padre, e per il partito in generale. Un po’ come l’altro grande di quegli anni, Pier Paolo Pasolini, Sciascia non ripudiò  la  figura  dell’intellettuale  engagé  in  politica.  Non  volle  essere  più  –  in  fondo  non  era  stato  mai  –  un intellettuale «organico»30. Si sentiva di rispondere solo alla propria coscienza. 4. Poteri occulti. La  massonica  «loggia  propaganda  2»,  o  P2,  era  guidata  dal  «venerabile  maestro»  Licio  Gelli,  misterioso personaggio con un passato di doppiogiochista in tempo di guerra e di torbidi legami con golpisti sud­americani, poi al  centro  di  una  rete  di  malaffare  e  di  intrighi.  Due  magistrati  milanesi  «di  punta»,  Gherardo  Colombo  e  Giuliano Turone,  rinvennero  nel  1982  gli  elenchi  degli  affiliati  alla  loggia,  comprendenti  due  ministri  in  carica,  quaranta deputati,  pubblici  funzionari  e  magistrati  in  buon  numero,  imprenditori,  tanti  militari,  quasi  tutti  gli  alti  gradi  dei servizi segreti. Sembrò un potere sotterraneo o parallelo a quello dello Stato. I due magistrati stavano indagando su uno di questi affiliati, il banchiere Michele Sindona (1920­1986), cui sarà opportuno dedicare una certa attenzione. Era nato a Patti, provincia di Messina, esordì a Milano come fiscalista nel 1946,  si  trasformò  d’un  tratto  in  grande  finanziere  agli  inizi  degli  anni  sessanta  con  l’acquisto  della  Banca  privata finanziaria, una delle maggiori in Italia. Costruì un enorme quanto opaco sistema «a scatole cinesi» di società sparse ai quattro  angoli  del  mondo,  con  preferenza  per  i  paradisi  fiscali.  Si  impegnò  in  una  vertiginosa  scalata  ai  vertici  del capitalismo  italiano  (Italcementi,  Banca  nazionale  dell’agricoltura,  Bastogi).  Pur  essendo  già  sospettato  in  Italia  di vari illeciti, prese il controllo di uno dei massimi istituti finanziari degli Stati Uniti, la Franklin National Bank. Disse l’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli: Se  il  programma  fosse  stato  realizzato  si  sarebbe  costituita  una  delle  maggiori,  forse  la  maggiore  delle  società  finanziarie europee.  Ne  sarebbe  derivata  una  concentrazione  di  potere  esorbitante,  situata  in  un  sistema  costituito  dall’intreccio  di operazioni  vetuste,  in  larga  parte  ideate  agli  albori  del  capitalismo  italiano.  […]  [Ciò]  indusse  in  me  la  convinzione  che  la operazione  si  proponesse  obiettivi  di  dominio  e  che,  con  l’impiego  degli  scarsi  mezzi  disponibili,  fosse  mio  dovere contrastarla31.

Sindona  venne  dunque  contrastato  da  un’alleanza  capitanata  dalla  Banca  d’Italia  e,  tra  i  pesi  massimi dell’imprenditoria italiana, da Gianni Agnelli, da quella che con bizzarra espressione tutta italiana era detta la «finanza laica»  –  cioè  non  controllata  dalla  Democrazia  cristiana.  Sindona  infatti  sosteneva  finanziariamente  il  partito  di maggioranza e contava sul suo sostegno per tutelarsi dalla magistratura e magari dai controlli della Banca d’Italia. Il più importante dei suoi interlocutori era Giulio Andreotti, come dimostra, una fonte tra le altre, una lettera in cui il genero del banchiere scriveva al grande leader democristiano: «Quanto Ella ha voluto suggerirmi […] mi autorizza a pensare di avere noi, se mi consente, un sincero amico in Lei e un formidabile esperto con cui poter concordare di volta  in  volta  le  soluzioni  più  importanti»32.  Siamo  ai  vertici  della  politica  italiana.  Numerosissime  le  cariche governative da Andreotti ricoperte, soprattutto nel periodo che qui ci interessa: presidente del Consiglio nel 1972­73, nel 1976­79, nel 1989­92; e ministro della Difesa nel 1959­66 e nel 1974­75, dunque personalmente impegnato nella gestione degli apparati di sicurezza. Numerosi gli scandali in cui quest’uomo politico fu chiamato in causa dai suoi avversari, a lungo senza grandi risultati. Sindona fece appello alla protezione di Andreotti, in parte ottenendola, anche nella fase della rovinosa caduta del suo impero, caratterizzata da fallimenti a catena nella sezione americana come in quella italiana, dopo che il banchiere si era stabilito a New York perché in Italia era stato emesso nei suoi confronti un mandato di cattura33. Ma anche negli Stati Uniti le autorità si rivolsero contro di lui per il fallimento della Franklin e lo lasciarono (temporaneamente) libero solo dietro pagamento di un’enorme cauzione34. Storia  di  affari  oscuri,  elargizioni,  corruzioni  e  protezioni  politiche,  fallimenti  catastrofici,  quella  di  Sindona. Corrispondente  in  parte  a  quella  di  un  altro  iscritto  alla  P2:  Roberto  Calvi,  presidente  del  cattolicissimo  Banco ambrosiano,  la  maggiore  banca  privata  italiana.  Storie  che,  l’una  e  l’altra,  coinvolsero  non  solo  la  Democrazia cristiana ma persino il Vaticano, per gli stretti contatti a lungo mantenuti con i due da monsignor Marcinkus, vescovo americano  e  finanziere  per  conto  della  Santa  Sede.  Storie  debordanti  dalla  criminalità  finanziaria  a  quella gangsteristica. Nel 1979 Sindona fece assassinare da un killer italo­americano Giorgio Ambrosoli, un avvocato che, quale liquidatore della Banca privata finanziaria, a Milano stava scoprendo gli intrighi su cui il suo impero si era retto. Nel 1982 il vicepresidente del Banco ambrosiano fu vittima di un attentato messo in opera da un altro killer, uomo della banda della Magliana, che a sua volta cadde vittima di un guardaspalle del banchiere35. Infine, Calvi e Sindona sono accomunati dalla morte violenta. Il primo fu «suicidato» sotto un ponte londinese nel 1984. Il secondo uscì dalla scena per un caffè al cianuro consumato in carcere nel 1986. E la mafia? La ritroviamo nella storia dell’uno e dell’altro. Già alle origini delle fortune di Sindona, sembrerebbe. In questa direzione almeno ci indirizza l’informativa del capo dell’Interpol di Washington, che sin dal 1967 attribuiva al banchiere un ruolo nel finanziamento del narcotraffico36. Ma le relazioni tra Sindona e la mafia siculo­newyorkese si fecero ben più evidenti nei tardi anni settanta, come diremo nel prossimo capitolo. 1 Istat, Serie storiche, tav. 6.8, Omicidi volontari, 1955­2009. Dopo il 1991 cominciò una lenta de­escalation, che nel 2009 ha riportato il paese

quasi al punto di partenza del 1974. 2 MI, Rapporto 2006, p. 16 e grafico I.2. 3 Si tratta di una mia stima che vorrebbe essere indicativa, e potrebbe rivelarsi approssimativa. Infatti in  MI, Rapporto 2006, la percentuale dei delitti di mafia sul totale è rilevabile solo a partire dal 1983. Stando a questa fonte, nel picco del 1991 i delitti di mafia furono più che un terzo del totale dell’anno, nel 2009 sono stati un sesto; è possibile che nel complesso siano stati un quarto o un quinto, donde la mia stima. 4 Audizione della Commissione parlamentare stragi del 28 febbraio 1989 che trovo cit. in Calabrò 1991, p. 208. 5 Un’altra vicenda che potrebbe essere approfondita è quella della rivolta di Reggio Calabria, che a partire dal 1970, e per un triennio, creò un clima di illegalismo di cui potentemente si alimentò il revival della ’ndrangheta in città e nella provincia. 6 Sales 1988, p. 155. 7 Rossi 1983, pp. 76 e 82. 8 Cit. in Santino 2000, p. 235. 9 Savatteri 2016, p. 34. Il volume propone una bella ricostruzione della vicenda di una feroce guerra di mafia appunto tra aderenti a Cosa nostra e alla stidda, esplosa nel 1991 a Racalmuto (il paese natale di Sciascia e dello stesso Savatteri) come a rivitalizzare tardivamente un fenomeno che tutti supponevano fosse nel paese scomparso da decenni. 10 Caciagli 1977. 11 Testimonianza Calderone. Lo zio si chiamava Nino Saitta. 12 Antimafia, Relazione su Catania (1990), pubblicata in «Segno», 1990, 114­115, p. 83. 13 Battiato ­ Vara 1993. 14 Arlacchi 1992, p. 184 e passim. 15 Sciarrone 1998, in particolare alle pp. 218 sgg. per la testimonianza del pentito dei cursoti che si chiamava Nino Saia. 16 La lettera è pubblicata in «Diario della settimana», supplemento dell’«Unità», 30 ottobre­5 novembre 1996, p. 58. L’assassino della moglie di Santapaola si chiama Giuseppe Ferone.

17 Cito da un estratto della sentenza pubblicato in «Città d’utopia», 1° gennaio 1992, p. 29. 18 Fava 1992. 19 Conferenza del 3 aprile 1987, in Falcone 1994, p. 12. 20 G. Bocca, Dalla parte dei giudici, in «la Repubblica», 19 giugno 1983. 21 Calogero, Fumian, Sartori 2010. 22 Caselli 2009, p. 35. 23 Blando 2017b. 24 Mori ­ Fasanella 2011, p. 20. 25 Ibid., p. 25. 26 Ricordiamo che il fratello venne assassinato, con il che le Br inaugurarono la pratica delle «vendette trasversali» (sui parenti) che negli anni

seguenti sarebbe stata tragicamente percorsa dalle organizzazioni mafiose. 27 Caselli, Prefazione a Gruppo Abele 2005, p. 6. 28 P. Calogero, G. Caselli, A. Spataro, P. L. Vigna, A nostro modesto giudizio, in «L’Espresso», 7 dicembre 1980. 29 Di un qualche interesse il dato empirico ricordato in sede retrospettiva dal (cosiddetto) teoremista Calogero: il «crescendo impressionante» delle azioni violente degli autonomi, oltre un migliaio nel Padovano in un quinquennio, andò bruscamente a declinare dopo il 7 aprile per ridursi a zero alla fine di quell’anno. P. Calogero, La testimonianza, in Calogero, Fumian, Sartori 2010, p. 158. 30 Sciascia 1991, p. 84. 31 Relazione Sindona, p. 222. 32 Ibid., p. 267. 33 Inutilmente alcuni amici di Andreotti – tra cui una sua fiduciaria americana, Della Grattan – lo diffidarono dall’esporsi con un personaggio così squalificato: Istruttoria Andreotti, pp. 429 sgg. 34 Istruttoria Sindona. 35 Il banchiere si chiamava Roberto Rosone, il killer Danilo Abbruciati. 36 Istruttoria Andreotti, p. 411.

XII. Due mondi in subbuglio

Aprile­maggio 1973. Quattro mafiosi, tutti nati in Italia, si incontrano nel bar Reggio di Montreal, Canada. Non sanno che qualcuno li spia: sono gli inquirenti canadesi che tutto registrano, e tutto dei colloqui ci restituiscono. Tra  i  quattro,  due  vivono  a  Montreal:  il  boss  locale  Paul  Violi,  nato  in  Calabria  nel  1932,  e  un  settantasettenne, Pietro  o  Pietrino  Sciara,  cui  gli  altri  si  riferiscono  con  l’appellativo  di  «zio»,  e  che  è  anche  lui  nativo  di  Siculiana, provincia  di  Agrigento.  Gli  altri  due  sono  appena  arrivati  dalla  Sicilia.  Recano  una  lettera  di  saluti  del  capo  della «Commissione  provinciale»  (di  Cosa  nostra)  appunto  di  Agrigento.  Uno  di  loro,  il  quarantottenne  Carmelo  Salemi, comunica  orgoglioso  di  essere  stato  appena  nominato  «rappresentante»,  aggiungendo  che  l’altro  è  un  «operaio regolarmente  fatto»,  ovvero  un  affiliato.  Rassicura  i  suoi  interlocutori  della  regolarità  del  proprio  curriculum.  Dice: «Certo la nostra cosa, praticamente, si sa, è un po’ tradizionale, no? […] Intanto, prima di giudicare una persona […] si studia la persona, si fa lavorare e compagnia bella. È vero zio Pietro?». E gli altri: «Si, è vero», «è la verità». «M’è stato  insegnato  il  rispetto  –  aggiunge  –  […],  che  non  bisogna  approfittare  della  propria  abilità  o  dei  poteri  che  si hanno,  questo  mai,  vero  zio  Pietrino?».  Mai,  conviene  il  vecchio.  Poi  tocca  a  Violi  pronunciarsi:  «Zio  Pietrino,  la nostra  vita  è  fatta  sempre  per  ragionare,  per  sistemare  le  cose  per  un  verso  o  per  l’altro  […],  perché  una  persona, quando ha un affare con della povera gente e non sa dove mettere le mani, si sa che ci siete voi […] e sempre il nostro obbligo  è  di  mettere  ordine  negli  affari  […].  Allora,  quando  una  persona  viene  qui,  perché  viene?».  Adesso  tutti rispondono insieme: «Per ottenere giustizia, … per sistemare le cose, … certo». I quattro si sentivano rassicurati, quando si richiamavano a un’ideologia protettivo­tradizionalista, ragionando di norme che si pretendeva garantissero tutti. Era quello il terreno che consentiva loro di comunicare. Nondimeno, tra quelle regole, ce n’era una intesa a dividerli, piuttosto che ad accomunarli. I  siciliani,  dice  Violi,  non  possono  «appartenere»  alla  consorella  americana.  Salemi,  sorpreso,  replica:  va  bene «rispettare l’autorità e tutto», ma forse «sarebbe meglio se si pianificassero queste cose qui» riconoscendo i diritti dei siciliani in trasferta. Niente ma, ribatte bruscamente Violi. Deve valere il principio generale su cui la loro società, al pari dello Stato, si impernia: come «in Russia vi è un presidente russo», così nella mafia è bene che ognuno comandi a casa  propria.  Altrimenti,  ne  deriveranno  «imbrogli»,  «cose  trubole»,  come  ha  fatto  di  recente  il  loro  compaesano Nanà1. 1. Zips, insomma gente del vecchio mondo. Noi già conosciamo Nanà, ovvero Leonardo Caruana, membro della grande famiglia di narcotrafficanti, destinato a essere assassinato di lì a qualche anno a Palermo. Volendo contrapporre l’ideologia ai fatti, potremmo rilevare che, oltre  a  lui,  ben  tre  dei  quattro  mafiosi  che  abbiamo  incontrato  al  bar  Reggio  finirono  ammazzati:  lo  zio  Pietrino (addirittura ottantenne!) e Violi nella loro terra d’adozione canadese (1976 e 1978), Salemi nella natia Sicilia (1980). Nella realtà non furono le regole ma la violenza a «sistemare le cose», come spesso accade nelle storie di mafia. Ma  torniamo  alla  regola  territoriale  enunciata  da  Paul  Violi.  Era  più  o  meno  la  stessa  che  fu  comunicata  a Buscetta, stando alla sua stessa testimonianza, da Catalano al momento del suo arrivo a New York: l’uomo d’onore siciliano che si trova nel nuovo mondo è considerato un ospite, e deve comportarsi come tale senza compromettere l’organizzazione.  Immaginiamo  che  ne  sia  stato  informato  anche  Gaspare  Magaddino,  compaesano  e  parente  dei grandi  boss  americani  Joe  Bonanno  e  Stefano  Magaddino,  lui  stesso  boss  di  Castellammare  del  Golfo  nonché protagonista  del  meeting  dell’Hotel  delle  Palme,  un  altro  che  si  rifugiò  negli  Stati  Uniti  nel  1963.  Non  avrà  voluto intenderla. Finì ammazzato a New York nel 1970, a sessantasei anni – brutta fine un po’ analoga a quella fatta dal suo compaesano Salvatore Maranzano, più di un quarantennio prima. Il  richiamo  di  Paul  Violi  a  Nanà  Caruana  indica  che  la  regola  era  in  una  certa  misura  ispirata  dalla  necessità  di evitare  le  «cose  trubole»  (i  guai)  derivanti  dagli  «imbrogli»  della  droga.  Insomma  le  due  proibizioni  (niente  droga nelle Famiglie americane di Cosa nostra, e niente siciliani) erano connesse. Mi sembra evidente che di fatto i mafiosi siciliani Buscetta e Caruana provavano ad aggirare l’una e l’altra. Riprendiamo  il  filo  del  racconto  di  Buscetta  da  dove  l’abbiamo  lasciato,  da  quando  il  «boss  dei  due  mondi», giungendo dagli Stati Uniti, si incontrò a Milano con Salvatore Greco «ciaschiteddu», proveniente dal Venezuela, e

con altri tre mafiosi di alto bordo, tra cui c’era Gaetano Badalamenti. Correva il 1970. Dopo, Buscetta intraprese un breve viaggio per l’Italia, compreso un soggiorno a Palermo, e tornò a New York, dove venne finalmente identificato e  arrestato.  Rilasciato  dietro  pagamento  di  un’ingente  cauzione,  sparì  egualmente  per  ricomparire,  munito dell’ennesimo  passaporto  falso,  in  Brasile  dove  si  procurò  tra  l’altro  una  nuova  giovane  moglie  di  buona  famiglia locale.  La  polizia  brasiliana  lo  sospettava  come  capo  di  una  banda  narcotrafficante,  e  a  un  certo  punto  lo  arrestò rispedendolo con metodologia alquanto spiccia in patria nel 1972, dove lo aspettava la prigione. (Ci sarebbe rimasto otto anni: prima a Palermo, in condizioni molto comode, poi nel circuito assai più duro delle carceri «speciali» create da Dalla Chiesa). Altri siciliani presero il suo posto a New York come interfaccia delle Famiglie mafiose locali, contando anche sul fatto  che  gli  uomini  delle  sezioni  speciali  sul  crimine  organizzato  dell’Fbi  o  del  Nypd  mostravano  scarso  interesse «per  le  radici  siciliane  dei  criminali  americani  e  per  i  legami  transatlantici  che  tenevano  insieme  la  fratellanza»2. Furono invece gli investigatori più impegnati sul fronte della lotta al narcotraffico, nell’Fbi e nella Dea (nuovo nome del vecchio Narcotic Bureau), che li misero nel mirino. Seguirono le tracce della merce, dei corrieri, dei mediatori, e del denaro. Individuarono una catena di pizzerie, come quelle che aveva gestito Buscetta, che fungevano da attività di facciata: donde il nome di Pizza Connection dato alla più nota delle loro indagini. Diciamo subito che quest’indagine portava nei territori della Famiglia Bonanno. Alla Famiglia Gambino torneremo più avanti. La Famiglia Bonanno era la più piccola tra le cinque, e anche la più tormentata dopo l’esilio in Arizona del suo patriarca. Qualcosa si muoveva ai suoi vertici, con l’uscita dal carcere (1974) di Carmine Galante; e anche ai margini, nella  zona  di  Knickerboker  Avenue,  Brooklyn,  dove  si  formò  una  «fazione  siciliana»  di  neo­immigrati  guidati  da Salvatore Catalano, cugino nonché omonimo di colui che aveva introdotto Buscetta nella grande mela. Qui possiamo fare  ricorso  alla  testimonianza  dell’agente  Fbi  Joseph  Pistone,  alias  Donnie  Brasco,  infiltrato  nella  Famiglia  stessa. Mentre  era  al  seguito  dell’affiliato  incaricato  di  fargli  da  mentore,  in  un  «Social  club»  di  Brooklyn,  Brasco/Pistone incontrò  Catalano  con  i  suoi.  Chiese  chi  fossero,  il  suo  mentore  rispose  che  erano  «zips»,  membri  di  una  «fazione siciliana all’interno della Famiglia Bonanno», «vicini a Galante e coinvolti nel narcotraffico insieme a Galante»3. Noi aggiungiamo qualche ulteriore informazione a quelle raccolte da Pistone. Zip era un termine spregiativo usato per indicare i neo­immigrati, analogo insomma a quello a noi noto di greaser, che forse voleva riferirsi al loro dialetto siciliano troppo «veloce», difficile da intendersi per i cugini americani. Il broker da cui costoro si approvvigionavano era Gaetano Badalamenti, insomma un elemento di vertice della Cosa nostra siciliana. Galante si fornì di guardie del corpo  provenienti  da  Castellammare,  uno  dei  quali  era  un  membro  della  gang  di  Knickerboker  Avenue  che  si chiamava Cesare Bonventre – portava cioè lo stesso cognome della madre di Bonanno, ma non so se poi fosse con lei imparentato. Il nuovo boss, che era nato in America, fidava evidentemente nell’insegnamento del vecchio: la mafia del vecchio paese era la più dura ma anche la più leale. Il 12 luglio 1979 tre killer mascherati fecero irruzione nel ristorante italiano dove Galante stava consumando un lauto  pranzo  e  lo  ammazzarono.  I  castellammaresi  che  avrebbero  dovuto  proteggerlo  sparirono,  gli  inquirenti  ne arguirono che – in barba alla lealtà del vecchio mondo – erano d’accordo con gli assassini. Di seguito, la Famiglia Bonanno si spaccò in due gerarchie indipendenti, da un lato quella degli zips guidati dal loro «street boss» Catalano e da Bonventre, dall’altro quella dei locali, con conseguente moltiplicazione dei morti ammazzati. L’Fbi, temendo che Pistone stesso venisse coinvolto, finì per levarlo dalla mischia; avrebbe svolto un gran ruolo come testimone d’accusa negli anni seguenti. Nel  1986,  la  giuria  del  processo  United  States  v.  Salerno  avrebbe  condannato  i  membri  della  Commissione  per l’assassinio  del  boss  castellammarese.  Può  darsi  che  i  primi  abbiano  ritenuto  il  secondo  colpevole  di  aver  violato entrambe le regole: niente siciliani nelle Famiglie, niente droga. Teniamo però conto anche della spiegazione un po’ diversa data a Pistone: Galante rifiutava di dividere i profitti della droga. Le due motivazioni non sono incompatibili tra  loro.  Al  momento  dell’assassinio,  Carlo  Gambino  era  già  morto  da  tre  anni  (1976)  lasciando  la  guida  della Commissione  (nonché  della  sua  Famiglia)  al  cognato  e  antico  luogotenente  Paul  Castellano  che,  a  quanto  sembra, minacciava sì terribili sanzioni contro quanti tra i suoi vendevano droga, ma accettava dai siciliani qualche generosa tangente in cambio della sua tolleranza4. E  noi  in  effetti  sappiamo  dell’esistenza  di  un  canale  siciliano  Catalano­Buscetta  che  portava  nella  direzione  dei Gambino. Buscetta non era più a New York, ma in quel posto troviamo altri personaggi, imparentati tra loro nonché (sia pure alla lontana) con lo stesso Carlo Gambino. Vediamoli nella figura 13 alla pagina seguente. Nell’albero genealogico si scorgono i fratelli Gambino, anche loro giunti da Palermo nel 1964, stabilitisi a Cherry Hills (New Jersey), e in particolare Giovanni­John, nato nel 1940; nonché i membri del clan Inzerillo, in particolare Salvatore  Inzerillo,  nato  nel  1944,  che  era  a  sua  volta  nipote  per  parte  di  madre  di  Rosario  Di  Maggio,  capo  della Famiglia palermitana di Passo di Rigano.

In stretta relazione con i Gambino di Cherry Hills era Michele Sindona, che come sappiamo (si veda il capitolo precedente) si trovava a New York cercando di rimediare al crollo del suo impero finanziario, ricercato dalla polizia italiana e lasciato (per ora) in libertà provvisoria da quella statunitense. Ricordiamo che in quella fase Sindona diede a un killer italo­americano l’incarico di uccidere a Milano l’avvocato Ambrosoli – delitto effettivamente perpetrato nel luglio 19795. Nel frattempo, qualcuno minacciava di morte anche il gran regista del mondo bancario italiano, Enrico Cuccia,  spiegandogli  che  Sindona  stesso,  se  non  avesse  rispettato  i  suoi  impegni  con  certi  italo­americani,  era  «da considerarsi un uomo morto». Qui siamo al punto. Se dobbiamo credere alla successiva testimonianza di due pentiti, Stefano Bontate e i suoi «amici» di Cosa nostra palermitana avevano subito pesanti perdite con la crisi delle banche di Sindona, in cui avevano versato i proventi del narcotraffico, e pretendevano «la restituzione del denaro»6. Figura 13. Albero genealogico della famiglia Gambino­Inzerillo.

Fu  per  «aggiustare»  la  cosa  che  sempre  nel  1979  Sindona  si  fece  accompagnare  in  Sicilia  da  Giovanni/John Gambino di Cherry Hills. Possiamo immaginarlo d’accordo anche con gli Inzerillo, visto che a Palermo soggiornò in casa Di Maggio, e che  si  abboccò  con  i  loro  parenti  nonché  soci  in  affari  Vincenzo e Rosario Spatola. Sembra che abbia visto anche qualche elemento dell’entourage di Bontate. Qualcosa va detto del depistaggio inscenato in quell’occasione, con un comunicato fasullo firmato Brigate rosse nel quale si annunciava al mondo il rapimento e il «processo proletario» che stava subendo. Già da tempo, d’altronde, il  banchiere  attribuiva  le  proprie  disavventure  giudiziarie  alla  persecuzione  dei  comunisti.  All’atto  della  sua ricomparsa a New York (ottobre), aveva comunque pronta un’altra versione. La storia del rapimento, ammise, era una bufala intesa realizzare un piano concordato a New York con gli emissari di uomini d’affari «in gran parte massoni», i quali gli avevano chiesto di far uso del suo «carisma» in Sicilia per convincere «i centri di potere del voto che, come è a tutti noto, sono pochissimi» a sostenere un non meglio identificato «partito separatista», anche ottenendo che venisse concesso il voto agli italiani all’estero – cosa che avrebbe consentito il sostegno degli amici italo­americani7. Il tentativo di Sindona di trovare qualche indulgenza presso gli americani confondendosi nel fronte anticomunista non ebbe esiti. I giudici statunitensi lo condannarono a ben venticinque anni di prigione come bancarottiere, e poi lo estradarono in Italia. A questo punto era pronto a dire qualcosa che più somigliasse alla verità, ma senza rinunciare ai depistaggi. John Gambino, disse, fungeva da «messaggero delle Famiglie siculo­americane che con cui lui avevano rapporti negli Stati Uniti». Si rendeva conto, gli fu domandato, che si trattava di narcotrafficanti? No, rispose, anzi lo poteva escludere visto l’«alone di prestigio» di cui erano contornati. E citò in particolare gli Spatola, definendoli imprenditori di grande successo e grandi mezzi8.

2. Affari e fazioni. Abbiamo  a  suo  tempo  ipotizzato  che  Tano  Badalamenti  sia  stato  messo  nel  1973  alla  testa  della  Commissione proprio, al momento della sua ricostituzione, per valorizzare la connessione siculo­americana. In quello stesso 1973 tornò  a  Palermo  dagli  Stati  Uniti  Salvatore  Inzerillo,  che  già  conosciamo  come  uomo  di  punta  del  clan  siculo­ americano  degli  Inzerillo.  Lasciò  in  America  amici  e  parenti,  e  altri  trovò  ad  attenderlo  a  Palermo.  Lo  zio  materno Rosario Di Maggio, capo della Famiglia di Passo di Rigano, era anziano, e Inzerillo lo sostituì nel ruolo, ottenendo anche la nomina a membro della appena ricostituita Commissione. Evidentemente, sul versante siciliano non esisteva un corrispondente della regola vigente in America e che, sia pure tra tante ambiguità, sanciva la divisione tra le due mafie.  Prendiamo  dunque  atto  della  crescente  influenza  a  Palermo  dell’elemento  siculo­americano,  e  del rafforzamento del legame con la Famiglia Gambino. La figura distingue questo network da quello che ruotava intorno a Badalamenti. Visto che Buscetta, come al solito, tace o glissa quando si arriva alle connessioni Sicilia­America, faremo ricorso alla testimonianza di Calderone. La gestione Badalamenti, racconta costui, si aprì con l’uccisione del camorrista che un decennio prima aveva osato schiaffeggiare Lucky Luciano: l’offesa venne lavata «col sangue, seppure con ritardo» dal nuovo boss per comunicare agli americani che «per merito suo la provincia di Palermo si era sistemata», che era lui il «capo dei capi» in grado di risolvere le questioni. Spiacque però a molti palermitani, spiega sempre Calderone, che  sulla  base  di  questa  relazione  privilegiata  solo  alcuni  gruppi  si  arricchissero  «con  la  droga  nel  momento  in  cui molte  Famiglie  si  trovavano  in  difficoltà  finanziarie  e  molti  uomini  d’onore  erano  quasi  alla  fame»9.  Noi  già conosciamo il meccanismo: gli investimenti erano individuali, donde profitti distribuiti in maniera ineguale. Figura 14. Due connessioni mafiose tra Sicilia e America, anni settanta­ottanta.

Nel  1977,  così,  Badalamenti  non  solo  dovette  abbandonare  la  guida  della  Commissione,  ma  venne  addirittura «posato», ovvero espulso da Cosa nostra. Lasciò la Sicilia l’anno seguente, certo temendo per la propria vita. Nuovo capo della Commissione fu Michele Greco. Dopo che i Greco di Ciaculli (Salvatore ciaschiteddu, Totò l’ingegnere e Nicola) erano scomparsi nelle Americhe, in una latitanza che non ebbe mai fine, la guida della Famiglia di Ciaculli era passata a quelli di Croceverde. E Michele Greco si alleò coi corleonesi garantendo loro, coi suoi «quattro quarti» di nobiltà  mafiosa,  credibilità  e  prestigio  nell’ambiente  tradizionalista  di  Cosa  nostra.  L’alleanza  disponeva  della

maggioranza della Commissione e anche della squadra di killer più efficienti. Era più forte (come i fatti avrebbero a breve  dimostrato)  dell’opposta  fazione  guidata  da  Bontate  e  Inzerillo:  per  quanto  il  primo  le  garantisse  grande radicamento nella classe dirigente cittadina, nonché relazioni politiche, e il secondo un ruolo privilegiato nel grande affare dell’eroina, nonché relazioni oltreoceano. Il  sangue  cominciò  a  correre  in  periferia.  Come  già  sappiamo,  nel  1978  i  corleonesi  decretarono  l’assassinio  di Giuseppe  Di  Cristina,  figlio  del  già  citato  Francesco,  rampollo  di  antica  famiglia  mafiosa  di  Riesi;  e  consentirono quello di Pippo Calderone da parte del loro alleato catanese Nitto Santapaola. Gli eventi accelerarono nella primavera­estate del 1979. Nella primavera il capo della Squadra mobile palermitana Boris  Giuliano,  operando  in  stretta  collaborazione  con  la  Dea  statunitense,  scoprì  che  adesso  l’eroina  destinata  in America  veniva  non  solo  commercializzata  ma  anche  raffinata  nel  Palermitano  e  nel  Trapanese,  e  la  polizia  fece irruzione  in  alcune  delle  raffinerie.  Nel  luglio  venne  assassinato,  pagando  con  la  vita  la  sua  efficienza  e  il  suo coraggio.  Siamo  a  un  passaggio  cruciale,  ancor  più  brusco  e  concentrato  di  quello  che  ventidue  anni  prima  (1957) aveva  visto  gli  incontri  dell’Hotel  delle  Palme  e  di  Apalachin.  In  quello  stesso  luglio  1979,  ricordo,  vennero assassinati a New York Carmine Galante, e a Milano l’avvocato Ambrosoli. Tra l’agosto e l’ottobre, Sindona stesso passò dall’uno all’altro continente per il suo viaggio segreto siciliano. Gli interessi in gioco erano enormi. I profitti annui del traffico di eroina siculo­americano erano in quella fase di parecchie centinaia di milioni di dollari. Si inoltrò in quel gigantesco intrigo l’inchiesta condotta a partire dal maggio del 1980 dal giovane e brillante magistrato palermitano Giovanni Falcone (1939­1992). Falcone  capì  che  non  poteva  non  collaborare  con  i  colleghi  statunitensi  e  si  recò  a  tale  scopo,  alla  fine  di quell’anno, a New York dove apprese qualcosa delle gesta degli zips. Seguì i movimenti della merce a partire dalle scoperte di raffinerie di eroina nel Palermitano e nel Trapanese, dagli arresti di chimici marsigliesi e di mercanti come Gerlando  Alberti  (che  ricordiamo  partecipante  al  meeting  milanese  del  1970),  e  dai  sequestri  di  grandi  quantità  di droga in transito in Sicilia, a Milano, a New York. Mostrando grande capacità di indagare gli aspetti finanziari, trovò anche le tracce del denaro che si muoveva in direzione opposta, individuando i suoi movimenti tortuosi e vanificando gli espedienti intesi a fuorviare gli investigatori. Capì il ruolo svolto dagli Inzerillo nella fase A del circuito, e quello degli Spatola nella fase B10.  Completò  l’indagine  nel  gennaio  del  1982,  quando  il  quadro  era  radicalmente  mutato, come ora diremo. Qui  dobbiamo  chiamare  in  causa  ancora  la  testimonianza  di  Buscetta,  che  ha  finalmente  ammesso  per  gli  anni ottanta  le  responsabilità  dei  mafiosi  nel  narcotraffico,  dopo  averle  negate  per  gli  anni  sessanta.  Gli  inquirenti  del maxiprocesso  si  sono  fatti  l’idea  di  una  «gestione  unitaria  del  traffico  di  stupefacenti  da  parte  di  Cosa  nostra siciliana»11; ma, nella fattispecie, «gestione unitaria» non vuol dire proprietà collettiva, né tanto meno distribuzione egualitaria delle opportunità e dei redditi. Buscetta lo chiarisce bene. Seguiamo il suo racconto. L’approvvigionamento della materia prima in Medio ed Estremo Oriente veniva curato da  elementi  già  attivi  nel  contrabbando  di  sigarette,  i  quali  «lavoravano  ognuno  per  conto  suo  e  mantenendo gelosamente segreti i propri canali». Le Famiglie si limitavano a fornire ai loro aderenti «il permesso» di darsi da fare garantendo  a  ogni  affiliato  il  «diritto»  di  vedersi  inserito  negli  affari  dei  confratelli,  anche  se  poi,  in  pratica, quest’«opzione privilegiata» poteva essere fatta valere solo in presenza di capacità finanziarie adeguate – come per il contrabbando  di  sigarette,  anche  «per  il  traffico  di  stupefacenti  erano  autonome  tutte  le  persone.  Chi  aveva  più possibilità economiche lavorava di più», chi era più vicino ai boss veniva coinvolto negli affari migliori12. Il circuito dunque  non  era  per  nulla  lineare:  c’era  chi  vendeva  la  materia  prima  alle  raffinerie  e  poi  la  ricomprava  dopo  la trasformazione lasciando ai trasformatori i rischi e i guadagni relativi nella fase intermedia, c’era chi trasformava a proprie spese e a proprio rischio. Alla fine di questa fase, gli esportatori si trovavano in mano partite di merce la cui proprietà era attribuibile in diverse quote a diversi soggetti, la spedivano, aspettavano che i confratelli in America la vendessero all’ingrosso; e poi, quando il flusso tornava indietro in forma di denaro, provvedevano alla redistribuzione. Tutto  questo  Buscetta  avrebbe  saputo  da  Bontate  nel  1980,  il  quale  l’aveva  ospitato  a  Palermo  dopo  la  sua scarcerazione.  Ne  avrebbe  anche  ricevuto  il  caldo  invito  a  fare  fronte  comune  contro  i  corleonesi.  Però  il  super­ testimone non ha spiegato quale contributo don Stefano si aspettasse da lui, visto che non disponeva di alcuna forza, in quella Palermo da dove mancava dal 1963 (a parte il breve viaggio del 1970, e i quattro anni passati in galera), dove era  appena  rientrato.  Si  è  solo  vantato  di  possedere  quella  «cosa  in  più»,  il  carisma,  fornito  a  lui  personalmente  da «madre natura»13,  come  fanno  d’altronde  altri  protagonisti  nonché  testimoni  privilegiati  (Gentile,  Bonanno  e  anche Sindona)  quando  non  vogliono  spiegarci  davvero  le  ragioni  del  loro  successo.  Io  un’ipotesi  ce  l’avrei:  Bontate  lo chiamava in causa in forza dei suoi legami con gli amici d’oltreoceano, nella speranza che costoro potessero indurre i corleonesi alla moderazione al fine di garantire la continuità del grande affare del narcotraffico. Buscetta  dice  di  aver  rifiutato  l’invito,  consigliando  al  suo  ospite  e  agli  altri  suoi  amici  di  restare  tranquilli,  e ripartendo per il Brasile nel gennaio del 1981. Sta di fatto (lo sappiamo grazie a un’intercettazione) che, mentre era in

quel lontano paese, parlò per telefono (11 e 12 giugno 1981) con uno degli imprenditori del giro dei Salvo, dal quale ricevette  una  nuova  invocazione  di  aiuto.  A  quel  punto  l’atteso  show­down  era  già  cominciato.  Bontate  era  stato ucciso il 23 aprile. Salvatore Inzerillo pensava di essere al sicuro almeno finché Riina non avesse incassato quanto dovuto per la vendita di una partita di droga oltreoceano. Invece l’11 maggio finì ammazzato anche lui, mentre usciva dalla casa dell’amante. L’automobile blindata di cui si era dotato non gli servì a molto. 3. Il massacro. Cominciò così un massacro senza precedenti. La statistica ufficiale ne indica le dimensioni solo in parte: non ha potuto infatti registrare l’enorme numero dei cadaveri sciolti nell’acido o fatti altrimenti sparire per sempre. Stando all’opinione degli inquirenti (Falcone in primis) ci sarebbero stati solo nel Palermitano in due­tre anni tra cinquecento e mille morti. Perché? Ancora una volta, nella sua testimonianza del 1984 Buscetta ha negato che la strage derivasse dalla questione della droga: tutto si doveva, ha detto, alle «mire egemoniche» dei corleonesi14. In realtà l’una cosa è strettamente connessa all’altra. Di certo il massacro del 1981­83 non andrebbe descritto come una «seconda guerra di mafia», perché le differenze con  la  («prima»)  guerra  di  mafia  di  vent’anni  prima  sono  troppo  grandi.  Innanzitutto  per  la  mancanza  del  tipico meccanismo  delle  reciproche  rappresaglie.  Meglio  potremmo  parlare  di  un  golpe,  di  una  sorta  di  stretta  totalitaria intesa  a  rafforzare  col  terrore  le  gerarchie,  e  a  sradicare  il  dissenso.  La  testimonianza  dell’ex  boss  di  Caccamo Antonino Giuffrè, già legato ai corleonesi (poi risoltosi a collaborare), indica le due fasi: nella prima i corleonesi si impegnarono  in  una  guerra  lampo  per  eliminare  «il  gruppo  avverso»  che  teneva  «nelle  mani»  il  narcotraffico,  la seconda  vide  una  svolta  terroristica  intesa  a  garantire,  in  senso  più  generale,  il  controllo  del  «gruppo  ristretto  del Salvatore Riina» su tutti gli altri. Sulla prima fase, io già mi ero espresso in questo senso nella mia Storia della mafia edita per la prima volta nel lontano 1993; oggi posso confermare la tesi con fonti che allora non esistevano, o che non conoscevo. Buscetta non fu l’unico espatriato in America del dopo­Ciaculli a essere coinvolto. Provò una mediazione anche Nicola Greco, cugino dell’antico boss Salvatore Greco «ciaschiteddu», tornato nel 1979 a Palermo dagli Stati Uniti15. L’informazione  è  stata  confermata  da  Riina  in  persona  in  una  delle  conversazioni  con  un  compagno  di  prigionia intercettate mentre si trovava in carcere, nel 2013. Di più, il boss corleonese, se interpreto bene, si riferisce anche a un intervento dello stesso Salvatore Greco «ciaschiteddu», che sostiene di aver respinto con decisione16. In occasione dell’operazione Old Bridge del febbraio 2008, condotta contemporaneamente dall’autorità di polizia italiana e da quella statunitense, sono stati raccolti molti elementi utili alla ricostruzione degli eventi del 1981. Ci sono intercettazioni ambientali di conversazioni in cui, sul filo della memoria, i reduci dello schieramento filo­corleonese, i cosiddetti «vincenti», ricostruiscono la storia. Una potrebbe essere di grandissimo interesse, se purtroppo non fosse composta  da  frasi  «smozzicate»  e  incomplete.  I  mafiosi  esprimono  il  loro  imperituro  rancore  verso  Bontate, Badalamenti,  e  «quello  in  Brasile»  (Buscetta,  forse)17.  Quanto  a  Salvatore  Inzerillo,  si  ricordano  a  vicenda  come ancora dopo la morte di Bontate gli fosse stata data una possibilità di accordarsi. Non la colse e fu peggio per lui. Noi sappiamo che le cose andarono molto male anche a suo fratello Santo e a un suo figlio adolescente, Giuseppe, assassinati a Palermo, nonché a un suo zio e a un altro suo fratello, Antonino e Pietro Inzerillo, uccisi poco più tardi nel  New  Jersey.  Il  cadavere  di  Pietro  aveva  un  biglietto  da  cinque  dollari  sulla  bocca,  e  altri  due  sui  testicoli:  la simbologia mafiosa indicava che aveva parlato troppo, ed era stato troppo avido. Gli americani avevano intanto tentato una mossa, almeno stando al collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo che racconta  di  aver  partecipato  a  Palermo,  all’indomani  dell’assassinio  di  Salvatore  Inzerillo,  a  un  incontro  tra  John Gambino,  Rosario  Naimo,  «uomo  d’onore  della  Famiglia  di  Cardillo  che,  però,  viveva  negli  Usa»,  e  Rosario Riccobono,  boss  palermitano  appartenente  a  una  fazione  non  particolarmente  legata  ai  corleonesi  (tanto  che  venne assassinato di lì a poco). Gambino si sarebbe reso latore di una richiesta di indulgenza per gli «scappati» oltreoceano e particolarmente per gli Inzerillo – autore Paul Castellano, che ricordiamo capo della Famiglia Gambino Doc, quella «americana».  Riccobono  telefonò  in  America  a  uno  dei  condannati  proponendogli  di  dimostrare  la  propria  «buona volontà»,  ovvero  di  fornire  agli  amici  palermitani  notizie  utili  a  «beccare»  Buscetta.  Ne  ebbe  però  una  risposta evasiva. Dopo di che la Famiglia Gambino lasciò che la mannaia corleonese cadesse anche sugli Inzerillo «scappati». Mutolo ne dedusse che Cosa nostra americana, chiedendo «a Cosa nostra palermitana delle direttive a cui attenersi», ne riconosceva la supremazia18. Il fatto è probabilmente vero, l’interpretazione eccessiva. Castellano, come abbiamo detto, si aspettava molto dai traffici degli zips,  e  magari  cercava  solo  di  evitare  che  gli  sconquassi  palermitani  uccidessero  la  gallina  dalle  uova d’oro. Confidava di fare con i nuovi padroni di Palermo affari fruttuosi attraverso i loro corrispondenti (ad esempio Maino) a New York. Il business doveva andare avanti. Nel 1982 e nel 1983, eroina per un valore all’ingrosso di più di

333  milioni  di  dollari  giunse  a  New  York  da  fornitori  siciliani.  Tra  il  1980  e  il  1983,  più  di  40  milioni  di  dollari fluirono nelle banche svizzere destinati ad alcuni di questi fornitori. Così Castellano si guardò dall’interferire quando i siciliani sistemarono le cose a modo loro, con un tradimento consumatosi all’interno stesso della famiglia di sangue degli  Inzerillo.  Stando  agli  inquirenti  sarebbe  stato  infatti  uno  di  costoro,  alla  faccia  del  familismo,  ad  attrarre  nel tranello fatale due stretti congiunti, quelli assassinati nel New Jersey. E Badalamenti? Buscetta dice che per due volte, nell’agosto del 1982 e nel febbraio del 1983, lo andò a trovare in Brasile  per  proporgli  di  tornare  a  Palermo  «al  fine  di  dirigere,  in  virtù  del  [suo]  ascendente,  la  riscossa  contro  i corleonesi»19.  Dice  che  rifiutò,  giudicando  la  proposta  «pazzesca»,  visto  che  a  quel  punto  i  corleonesi  avevano stravinto.  La  proposta  appare  anche  a  me  così  pazzesca  che  mi  sembra  impossibile  sia  stata  davvero  formulata. Sembra  più  probabile  che  un  narcotrafficante  (Badalamenti)  abbia  comunicato  all’altro  (Buscetta)  che  avrebbe continuato il proprio profittevole business nonostante i nuovi equilibri palermitani. I  fatti  dimostrarono  che  a  Palermo  quest’ostinazione  non  era  gradita.  I  corleonesi  ordinarono  l’uccisione  di  una quantità di parenti di Buscetta (due figli, un fratello e diversi altri). Vennero uccisi in gran quantità parenti dello stesso Badalamenti.  Fu  sterminato  l’intero  establishment  della  mafia  di  Castellammare,  a  cominciare  dagli  elementi  che abbiamo  inserito  appunto  nel  network  di  Badalamenti  (fig.  12,  cap.  X):  tra  loro,  tre  figli  di  Cola  Buccellato,  e Salvatore Totò Minore con due sue guardie del corpo. I corleonesi, o per meglio dire i loro alleati locali, posero fine per sempre all’antica connection siculo­americana castellammarese. 4. Terrorismo mafioso atto primo. Mentre viveva questo feroce scontro interno, Cosa nostra si inoltrava al proprio esterno sulla strada del terrorismo mafioso. Certamente si era mossa anche in passato in una logica terroristica, ad esempio contro i capi del movimento contadino. Ma in questo caso uso il termine per indicare una strategia omicida rivolta contro personaggi eminenti del mondo «di sopra»: politici, giornalisti e uomini delle istituzioni. Tra i precedenti non remoti, ricordiamo l’assassinio di De Mauro (1970) e quello di Scaglione (1971). Precedente più prossimo, il 1977, quando fu ucciso il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, già collaboratore di  Dalla  Chiesa.  Era  in  aspettativa,  e  stava  per  lasciare  l’Arma.  Nondimeno,  provava  a  impedire  che  ditte  vicine  ai corleonesi  conseguissero  una  posizione  monopolistica  negli  appalti  per  il  grande  affare  della  costruzione  della  diga Garcia.  Quest’assassinio  era  certo  collegato  a  quello  del  cronista  Mario  Francese,  perpetrato  all’inizio  (gennaio) dell’annus horribilis 1979. Infatti Francese, in un articolo pubblicato sul «Giornale di Sicilia» nel marzo­maggio 1979 (cioè  dopo  la  sua  morte)  descriveva  con  abbondanza  di  riferimenti  i  contrasti  tra  le  fazioni  mafiose  e  l’ascesa  dei «liggiani» (così chiamava i corleonesi), molto basandosi su informazioni fornite da Russo. Scriveva addirittura che il colonnello  aveva  saputo  della  proibizione  dei  sequestri  di  persona  da  parte  della  «cosiddetta  Commissione  mafiosa presieduta  da  Gaetano  Badalamenti»20.  Insomma  i  due  erano  al  corrente  dei  verbali  (diciamo  così)  di  Cosa  nostra, dunque si valevano di fonti interne. Noi sappiamo che anche Di Cristina (il boss di Riesi che abbiamo già citato) stava vuotando  il  sacco  con  un  ufficiale  dei  carabinieri,  quando  venne  assassinato  nel  1978:  forniva  notizie  relative all’escalation dei corleonesi e, tra l’altro, all’attentato che costoro stavano organizzando contro Terranova21. Siamo davanti a un crollo del muro invalicabile dell’omertà? Tutt’altro. Anche in passato meccanismi del genere si erano  attivati,  quando  certe  fazioni  mafiose  cercavano  di  ribaltare  sfavorevoli  rapporti  di  forza.  Russo­Francese ricevevano confidenze e Di Cristina le forniva, magari insieme ad altri boss di orientamento anti­corleonese22. Ma la Repubblica  era  ancora  senza  unghie,  e  distratta.  Nessuna  misura  fu  presa  ad  esempio  per  proteggere  Terranova,  il quale in effetti finì assassinato nel settembre del 1979. Già lo conosciamo come grande protagonista delle inchieste sulla mafia degli anni sessanta, quando era considerato, persino negli ambienti giudiziari, un «persecutore» del povero Liggio. Dal 1972 al 1979 aveva seduto alla Camera, svolgendo un ruolo importante nella Commissione parlamentare antimafia. Leonardo Vitale ha spiegato quali fossero i difetti che Cosa nostra non poteva perdonargli: era incorruttibile ed era comunista. I corleonesi poi lo consideravano un nemico personale, e si mossero in anticipo per metterlo fuori dal gioco quando lasciò il Parlamento e tornò in magistratura, puntando sulla carica di consigliere istruttore a Palermo. Un  elemento  va  a  questo  punto  sottolineato.  Un  po’  tutte  le  rico  struzioni  successive,  anche  in  sede  giudiziaria, riprendono  lo  schema  interpretativo  proposto  da  Buscetta:  stando  al  quale  i  «perdenti»  della  guerra  di  mafia  si sarebbero  mantenuti  su  una  linea  collaborazionista,  «tradizionalista»  anche  nel  rapporto  con  il  potere  ufficiale23, laddove  la  scelta  terroristica  sarebbe  stata  un’esclusiva  dei  «vincenti»,  dei  corleonesi.  A  me  sembra  che  i  fatti contraddicano questa impostazione, almeno per quanto riguarda il gruppo Bontate­Inzerillo. Non voglio qui avanzare nessuna  tesi  «revisionistica»,  tendente  cioè  a  sminuire  il  ruolo  dei  corleonesi  nell’escalation  terroristica.  Dico  che anche prima del golpe del 1981, cioè nel 1979­80, Cosa nostra era spinta su quella china da una molla comune ai due maggiori gruppi in conflitto al suo interno.

Già  sappiamo  che  il  1979  fu  ricchissimo  di  delitti  mafiosi  su  scala  planetaria:  gli  assassinî  del  boss castellammarese Galante, dell’onesto avvocato Ambrosoli, del troppo capace commissario Boris Giuliano. E in quel periodo ci fu il viaggio di Sindona dall’America alla Sicilia, e ritorno. In questi intrighi avevano un gran peso le bande narcotrafficanti legate sul versante palermitano appunto a Bontate e Inzerillo. L’anno seguente giunse l’assassinio del procuratore  generale  palermitano  Gaetano  Costa  (1916­1980).  Venendo  da  Caltanissetta,  era  estraneo  ai  giochi palermitani, e aveva un passato di antifascista militante nonché di partigiano: un altro comunista a rompere le uova nel paniere.  Vantava  anche  un’esperienza  di  indagini  bancarie.  A  un  certo  punto,  per  superare  le  esitazioni  dei  suoi collaboratori, aveva firmato da solo, contro la prassi, l’ordine di cattura contro i membri della gang Spatola­Inzerillo. Buscetta dice che Inzerillo ordinò l’assassinio «per fare sfoggio della sua potenza», cioè per controbilanciare l’effetto propagandistico sul popolo di Cosa nostra degli attentati dei corleonesi24. Le due fazioni si muovevano dunque anche in una logica di concorrenza. Oltre  a  giornalisti,  magistrati,  poliziotti,  caddero  due  politici  democristiani:  il  segretario  provinciale  del  partito Michele Reina (marzo 1979) e il presidente della Regione Piersanti Mattarella (gennaio 1980). Poco si sa su mandanti e moventi specifici di questi delitti. Però qualcosa capiamo delle ragioni di fondo, politico­ generali,  che  rendevano  Mattarella  inviso  alla  mafia.  Nel  gioco  delle  correnti  democristiane,  era  sempre  stato  sulla linea  Moro,  favorevole  a  un’apertura  al  Pci.  Linea  che  aveva  un  che  di  paradossale  (almeno  in  apparenza),  perché Piersanti era il figlio di quel Bernardo che in passato era stato molto chiacchierato a sinistra, e tra gli altri da Danilo Dolci (il quale però, è giusto dirlo, era stato denunciato e condannato per diffamazione). Dalla Chiesa ne spiegava la morte in quell’ottica: «è accaduto che il figlio, certamente consapevole che qualche ombra avanzata nei confronti del padre,  tutto  ha  fatto  perché  la  sua  attività  politica  e  il  suo  lavoro  come  pubblico  amministratore  fossero  esenti  da qualsiasi riserva. E […] ha trovato il piombo della mafia»25. Falcone, considerando «veramente riduttivo pensare che l’omicidio  Mattarella  sia  stato  provocato  da  uno  o  più  appalti  concessi  o  rifiutati»26,  ha  chiamato  in  causa  un  suo tentativo di emancipare la classe politica isolana dal condizionamento mafioso. Aveva in mente in effetti un obiettivo politico­generale,  e  (io  credo)  anche  i  suoi  assassini  volevano  realizzarne  uno,  opposto:  bloccare  lui  ed  evitare  che altri fossero tentati dal suo esempio. I delitti Reina e Mattarella ci fanno capire che all’interno della Democrazia cristiana qualcuno stava provando a sottrarsi ai condizionamenti mafiosi. Pesanti restavano comunque le responsabilità passate e presenti degli uomini di questo partito, e i casi di fiancheggiamento. Noi abbiamo già messo a fuoco il caso di Lima e quello di Ciancimino. Il primo,  eletto  nel  1968  alla  Camera,  assunse  un  ruolo  nazionale,  e  passò  dalla  corrente  fanfaniana  a  quella andreottiana; seguito dai cugini Salvo. Anche il secondo, più palesemente colluso e universalmente discusso, rimasto una potenza su scala cittadina, fece qualche anno dopo lo stesso percorso, passando agli andreottiani. Giulio Andreotti era un grande leader democristiano ma la sua corrente personale non era consistente come altre. In essa, l’incidenza percentuale della componente siciliana risultò consistente. Cito un commento di Macaluso, stando al quale Andreotti non si sarebbe lasciato coinvolgere più di tanto: «Andreotti non produce politica. De Gasperi, Fanfani, Moro si sono cimentati con la complessa vicenda politica siciliana. Andreotti no, usava quel che trovava o che gli si proponeva. Nel 1968 arriva Lima. Ed è Lima a fare politica; Giulio gli conferisce autorevolezza e proiezione nazionale»27. 5. Il boss e lo statista. Dobbiamo anticipare qui l’evento traumatico che nel 1993 portò i magistrati di Palermo a incriminare Andreotti per concorso in associazione mafiosa, cioè per complicità con Cosa nostra. Ne parleremo a suo tempo. Della sentenza di  rinvio  a  giudizio,  ho  già  utilizzato  qualcosa  relativamente  al  caso  Sindona,  utilizzerò  ora  altri  elementi:  quelli comunque di cui è stata accertata la fondatezza dalla sentenza di appello del 2004, poi confermata in Cassazione. Anzi di  tale  sentenza  espongo  il  succo.  Andreotti  avrebbe  in  effetti  sostenuto  Cosa  nostra  sino  al  1980,  e  se  ne  sarebbe allontanato dopo. Alla fine è stato assolto solo perché i reati antecedenti al 1980 risultavano ormai prescritti – per essi, stando  al  tribunale,  gli  sarebbe  toccato  rispondere  «dinanzi  alla  Storia»28.  Un’espressione  retorica?  Io  penso  che  la storia sia stata giustamente chiamata in causa, perché Andreotti rappresentò sin dal dopoguerra, al massimo livello, la Democrazia cristiana e il suo governo. È un fatto che Andreotti proteggeva, tra gli altri, Sindona: in cambio magari del sostegno fornito dal banchiere alla Democrazia  cristiana  e  forse  anche  alla  finanza  vaticana.  Questo  peraltro  lo  portava  anche  nei  territori  della  mafia siciliana  e  newyorkese.  E  poi  c’è  l’altro  versante,  quello  di  Lima  e  dei  Salvo.  Andreotti  non  ha  potuto  negare  la propria  intimità  con  il  primo.  Ha  invece  negato  di  aver  conosciuto  i  secondi,  contraddicendo  fotografie  che  lo mostrano accanto a loro durante i suoi viaggi elettorali siciliani, testimoni che ricordano i suoi regali per le nozze dei loro rampolli, e i racconti di molti pentiti. Il tribunale ha ritenuto le sue goffe proteste del tutto inverosimili.

Ma  andiamo  alla  celebre  testimonianza  di  Marino  Mannoia,  killer  e  narcotrafficante  al  seguito  di  Bontate,  poi riconciliatosi coi corleonesi, infine passato a collaborare con le autorità. Mannoia ci mostra un Bontate che interviene in maniera tutt’altro che moderata nelle questioni della Democrazia cristiana. Ne avrebbe ad esempio ricevuto l’ordine di prepararsi a uccidere Rosario Nicoletti, segretario regionale della Dc («quel crasto se non mette la testa a posto lo dobbiamo  ammazzare»)29.  E  veniamo  al  famoso  incontro  tra  Bontate,  lo  stesso  Andreotti,  Lima  e  i  Salvo, all’indomani dell’assassinio Mattarella. Mannoia sarebbe rimasto fuori dalla stanza, ma all’uscita il boss gli avrebbe riferito  di  aver  così  apostrofato  il  grande  statista:  «In  Sicilia  comandiamo  noi,  e  se  non  volete  cancellare completamente la Dc dovete fare come vi diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli  di  Reggio  Calabria  e  di  tutta  l’Italia  meridionale.  Potete  contare  solo  su  quelli  del  Nord,  dove  tutti  votano comunista, accettatevi questi». Gli avrebbe detto di aver diffidato Andreotti «dall’adottare interventi o leggi speciali, perché altrimenti si sarebbero verificati fatti gravissimi»30. Come si vede, ho usato il periodo ipotetico per esprimere il ragionevole margine di dubbio che resta, anche se la sentenza  del  2004  ha  ritenuto  degna  di  fede  la  testimonianza  di  Mannoia31.  Saremmo  davanti  all’incontro  più ravvicinato tra potere politico e potere mafioso dopo quello tra Mussolini e Ciccio Cuccia del 1924. Magari Bontate esagerò nel riferirne i contenuti uscendo dalla riunione, con la tipica iattanza del boss che vuole rassicurare i gregari: gliele ho cantate chiare, non oseranno niente contro di noi. È comunque verosimile che la leadership di Cosa nostra pensasse (a torto o a ragione non importa) di condizionare il leader democristiano, quanto meno attraverso Lima e i Salvo; senza di che non si comprendono le successive frustrazioni, le reazioni che nel 1992 portarono all’emanazione della  sentenza  di  morte  appunto  contro  Lima  e  Ignazio  Salvo.  Invece,  evidentemente,  aveva  pensato  di  non  poter condizionare Mattarella. Traiamo qualche informazione dalla testimonianza resa nel 1994 da Gioacchino Pennino, mafioso di antica schiatta (su cui torneremo), ben inserito nella macchina politica democristiana. A suo dire, dopo l’assassinio di Mattarella, la leadership di Cosa nostra molto spinse per la convergenza tra Lima e Ciancimino. Pennino sostiene di aver seguito l’indicazione, ma malvolentieri: Ciancimino, a suo dire, era troppo compromesso, con lui non era concepibile alcuna operazione politica ad ampio raggio32.  E  in  effetti  Ciancimino  fu  l’unico  politico  democristiano  a  rivendicare  l’uso della violenza, in un discorso del 1981: Annunciamo con chiarezza che non accettiamo provocazioni. Questa è una guerra bieca e vile. E chi ci chiama a combattere con le armi, troverà armi. E chi intende seminare morte troverà morte33.

Ufficialmente, si riferiva all’eventualità (assai improbabile) di un’offensiva Br in Sicilia. Più probabilmente, il suo messaggio andava inserito nella guerra dichiarata da Cosa nostra per acquisire il controllo della Dc. Così la sua figura divenne troppo ingombrante, e Lima lo scaricò. Su tutto questo, Andreotti si è sempre mantenuto totalmente sulla negativa, negandoci qualsiasi informazione. In un’intervista rilasciata nel 1993, momento della sua incriminazione, ci ha fornito forse (con la solita nonchalance) un abbozzo di interpretazione: quella gente della mafia per quarant’anni non si era dimostrata «pericolosa», seppure certo non si trattasse di «angioli»; se non che, a un certo punto era «arrivata la droga»34. Forse anche prima la pensava così, come  lascia  intendere  una  fonte  meno  reticente:  le  note  vergate  dal  generale  Dalla  Chiesa  sul  colloquio  che  ebbe appunto con Andreotti il 6 aprile 1982, prima di partire per assumere l’incarico di prefetto di Palermo che gli sarebbe stato  fatale.  (Anche  se  –  indovinate?  –  Andreotti  ha  negato  persino  che  le  annotazioni  del  morituro  fossero veritiere)35. Leggiamo il diario. Dalla Chiesa ha spiegato ad Andreotti cosa intendeva fare. «Sono stato molto chiaro e gli ho dato la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori. Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno […] lo ha condotto e conduce a errori di valutazione di uomini e di circostanze». Andreotti ha risposto citando Sindona e raccontando di tal Inzerillo, «morto in America, [e] giunto in Italia in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca». Dalla Chiesa ha annotato stizzito: anche questo «depone nel senso» della superficialità di Andreotti, purtroppo in queste cose «prevale ancora il folklore»36. Commento. Dalla Chiesa ha invitato il suo interlocutore a prendere le distanze, proponendo in estrema sintesi una sua interpretazione dell’intera questione. Ha distinto tre livelli. 1) Andreotti stesso, che a suo parere ha con la mafia una  relazione  molto  mediata,  ovvero  strumentale,  ridotta  a  problema  elettorale.  2)  I  suoi  «grandi  elettori»,  Lima, D’Acquisto  (presidente  della  Regione),  Martellucci  (sindaco  di  Palermo),  i  membri  di  quella  che  in  altro  luogo  ha definito «la famiglia politica più inquinata dell’isola»37. 3) L’elettorato dei suoi grandi elettori, le famiglie di mafia distinte  appunto  da  quelle  politiche.  Andreotti  ha  risposto  a  tono,  in  maniera  tutt’altro  che  folkloristica.  Altro  che disinformato!  Ha  dimostrato  una  straordinaria  conoscenza  delle  dinamiche  che  abbiamo  analizzato  nei  paragrafi precedenti.  Ha  evocato  personaggi­chiave  come  Sindona  insieme  addirittura  al  Pietro  Inzerillo  ammazzato  nel  New

Jersey,  al  particolare  dei  dollari  messigli  in  bocca  dai  suoi  assassini.  Ha  voluto  suggerire  una  pista,  ma  il  grande investigatore non lo ha capito (forse non era informato quanto lui?). Gli ha spiegato che il pericolo vero veniva dalle fazioni mafiose in conflitto intorno al nodo del narcotraffico siculo­americano, non da Lima e dai politici più o meno collusi. 1 Ordinanza Caruana, pp. 70 sgg. Il secondo viaggiatore si chiamava Giuseppe Cuffaro. Questo testo, trasmesso dai canadesi alla Questura di

Agrigento, rimase qui a lungo a «dormire», finché venne valorizzato dalle inchieste degli anni ottanta. 2 Blumenthal 1988, p. 24 e passim. 3 Testimonianza di Pistone, in United States v. Salerno, pp. 105 e 109. Ma cfr. anche la sintesi delle altre testimonianze di Pistone fornita da Blumenthal 1988, pp. 40 sgg., nonché il libro dello stesso Pistone 1987. 4 Davis 1993, p. 182. 5 Istruttoria Sindona, pp. 24­6. Il killer di Ambrosoli si chiamava William Aricò, e di lui non so molto. Sembra che il bancarottiere si sia prima rivolto a un catanese emigrato a New York, che lavorava per gli zips, avendone un rifiuto: Sterling 1990, p. 180. 6 Si tratta dei pentiti Marino Mannoia e Gaspare Mutolo, la cui testimonianza è riportata in Istruttoria Andreotti, pp. 458­62. 7 Il testo dell’interrogatorio è in Istruttoria Sindona, pp. 257­83 e in particolare pp. 265 e 271. 8 Cit. interrogatorio di Sindona, ibid., pp. 269, 276 e passim. 9 Arlacchi 1992, pp. 27 e 94. 10 Istruttoria Spatola. 11 Istruttoria maxiprocesso, p. 213. 12 Testimonianza Buscetta B, I, p. 218. 13 Si veda ad esempio Biagi 1986, p. 125. 14 Testimonianza Buscetta A, pp. 35 e 36. 15 Testimonianze di Marino Mannoia e Salvatore Cancemi, in Istruttoria Andreotti, p. 798. 16 Intercettazioni Riina, p. 55. 17 Conversazione del 13 ottobre 2005 tra due alti papaveri di Cosa nostra, Antonino Rotolo e Antonino Cinà, in Ordinanza Casamento, p. 68. 18  Le  dichiarazioni  di  Mutolo  in  Ordinanza  Casamento,  pp.  76­7.  Parte  del  materiale  è  stato  anche  riportato  in  «S  –  Il  magazine  che  guarda dentro la cronaca», Palermo, febbraio 2008. Cfr. anche A. Bolzoni, Colpo mortale alla mafia italo­americana, in «la Repubblica», 8 febbraio 2008. 19 Testimonianza Buscetta A, p. 60. 20 Francese 2000, p. 94. 21 Istruttoria maxiprocesso. 22 Nelle confessioni rese dopo il 1996, Giovanni Brusca, uno dei killer corleonesi più feroci, spiega l’esplodere della guerra interna alla mafia come una risposta a queste «trattative»: Lodato 2009, pp. 50 sgg. Cfr. anche Palazzolo 2010, pp. 214 sgg. 23 Ad esempio in Istruttoria Andreotti, p. 757. 24 Testimonianza Buscetta B, p. 269. 25 Intervistato da G. Bocca, Come combatto contro la mafia, in «la Repubblica», 10 agosto 1982. 26 Cit. in Basile 2007, p. 72. 27 Macaluso 1995, p. 16. 28 Stralci sia della sentenza di primo grado che di quella di appello in Pepino 2005. 29 Istruttoria Andreotti, p. 735. 30 Ibid., p. 737. 31 Non ha invece prestato fede alla testimonianza di altri pentiti relativi a un successivo incontro di Andreotti con Riina, nel corso del quale i due si sarebbero scambiati il famoso bacio. 32 Istruttoria Andreotti, p. 835 e passim. 33 Traggo la citazione da Ciancimino ­ La Licata 2010, p. 141. 34 S. Bonsanti, Io Giulio Andreotti, in «la Repubblica», 17 dicembre 1993. 35 Le sue dichiarazioni in Istruttoria Andreotti, p. 156. 36 I brani del diario in Istruttoria maxiprocesso, p. 229. 37 È l’espressione usata in una famosa lettera a Spadolini. Ma su tutto questo cfr. la testimonianza e l’analisi del figlio Nando: Dalla Chiesa 1984.

XIII. Sfida e risposta

Molti hanno descritto Cosa nostra come una superpotenza elettorale. Il giudice Giuseppe Ayala, pubblico ministero nel maxiprocesso del 1986­87, provò una volta a calcolare il numero complessivo dei voti che aveva a disposizione a Palermo moltiplicando il numero dei suoi affiliati (forse 2700) per 70 (i voti influenzabili da ognuno di loro): totale, 180  000  all’incirca1.  Io  penso  che  queste  stime  siano  fuorvianti,  innanzitutto  per  ragioni  metodologiche:  mentre  è assai  facile  ammettere  che  il  primo  affiliato  possa  influenzare  70  o  più  voti,  che  il  secondo  e  il  terzo  facciano altrettanto,  è  sommamente  improbabile  che  il  centesimo  o  il  millesimo  riesca  a  trovare,  nell’ambiente  in  cui  in comune  pescano  lui  e  gli  altri,  ancora  70  voti  in  più,  che  non  siano  già  stati  conquistati  dai  suoi  sodali.  Ma  più importante è l’obiezione di merito di Falcone: «un’unità d’indirizzo, chiamiamolo politico, di Cosa Nostra nella realtà dei fatti non c’è. Non vi è una delibera del consiglio di amministrazione di Cosa Nostra che dice di volta in volta per quale partito o candidato votare»2. Cosa nostra non ha un consiglio d’amministrazione è non è nemmeno un partito, non ha ottenuto storicamente il consenso per se stessa, ma mettendosi al servizio di partiti essi sì in grado di proporre idee e programmi, di attivare scambi  anche  simbolici  di  vasto  raggio  con  gli  elettori.  Ripercorriamola,  questa  storia,  in  estrema  sintesi.  In  età liberale  i  mafiosi  agivano  come  galoppini  elettorali  di  grandi  notabili.  In  vista  del  fascismo  (ricordiamo  la  cronaca fatta dal dottor Allegra delle elezioni del 1924) cercarono vanamente di tenere il piede in due staffe. Al momento dello sbarco  anglo­americano  molto  si  indentificarono  col  Mis;  il  quale  durò  poco,  perché  il  suo  bluff  venne  scoperto  al momento delle prime consultazioni elettorali. Poi appoggiarono monarchici e liberali, e solo quando la Democrazia cristiana  già  trionfava  confluirono  nella  sua  macchina  politica:  come  diceva  il  tenente  Malausa,  per  «convenienza personale». Non sono mai stati in grado di giocare quel gioco da soli. Per  questo,  al  passaggio  tra  anni  settanta  e  ottanta,  i  mafiosi  scelsero  il  gioco  del  terrore,  forti  dei  propri narcodollari, speculando sulla debolezza materiale e morale del potere ufficiale. 1. Terrorismo mafioso atto secondo. Potremmo, schematizzando al massimo, distinguere nei delitti eccellenti due diverse tipologie. La prima. La mafia uccide persone da cui si sente minacciata sul piano politico­generale. La seconda. Uccide persone che la minacciano nell’immediato, nelle sue attività. Si vede in entrambe la «specifica politicità» di Cosa nostra rispetto ad altre forme italiane di criminalità organizzata3. La si vede nel 1979­80, quando è ancora un aggregato relativamente pluralistico di fazioni impegnate in una feroce lotta per il potere. La si vede nel 1982­83, quando assume un assetto monocratico. Sono  di  tipo  politico­generale  le  ragioni  che  inducono  la  mafia  a  uccidere  Pio  La  Torre.  Ha  fatto  parte  della Commissione antimafia e nel 1975 ne ha firmato una relazione finale (di minoranza), di grande rilievo. Si è a lungo, seppur  vanamente,  impegnato  in  Parlamento  nell’elaborazione  di  una  legge  contro  le  associazioni  a  delinquere  di stampo mafioso, privilegiando la tematica – fondamentale – del sequestro dei beni dei boss. Voglio segnalare un suo scritto di fine 1979, che esprime una precoce presa di coscienza sulla pericolosità degli scambi di metodi e tecniche in corso tra terrorismo e mafia4. Nelle drammatiche circostanze del 1981 viene richiamato da Roma e posto alla guida della Federazione regionale del partito. Finisce assassinato, insieme al compagno che gli fa da autista, il 30 aprile del 1982. Il giorno dopo, il primo maggio, Dalla Chiesa viene nominato prefetto di Palermo. Generale più prefetto. Il peso dei  suoi  poteri  reali  non  è  proporzionale  a  quello  nominale  dei  titoli.  Rilascia  un’intervista  a  Giorgio  Bocca, ricordando il precedente del prefetto Mori, lasciando intendere che anche a lui andrebbe attribuito un qualche ruolo di «coordinamento»  sovra­provinciale  e  inter­forze.  Spiega  di  aver  riflettuto  sulle  condizioni  che  inducono  la  mafia  a decretare la morte dei potenti: e di aver capito che la pena di morte viene decretata contro chi si trova isolato. Bocca annota che Dalla Chiesa, nel palazzo della Prefettura di Palermo, dà proprio quell’impressione5. Si trova contro tutto lo stato maggiore della corrente andreottiana siciliana, della «famiglia politica più inquinata» dell’isola, come dice lui. La logica emergenziale della sua nomina lo separa da una macchina che funziona (quando funziona) secondo criteri ordinari. Si rivela controproducente l’espediente, usato in altre fasi storiche, di tenere di riserva un funzionario che sa per mandarlo in Sicilia quando necessità richiede (pensiamo a Sangiorgi, ancora a Mori).

Adesso  colpire  un  bersaglio  così  ben  evidenziato  diventa  facile.  Prima  non  lo  era:  nessun  mafioso  avrebbe  mai pensato di sparare a Palermo a un prefetto che era anche un generale dei carabinieri, se in altri luoghi d’Italia e negli anni immediatamente precedenti non si fosse sparato a chiunque, se non fosse stato ucciso Moro. Dalla Chiesa, uomo di prestigio, di grande e conosciuta esperienza nel campo, viene spedito a Palermo più che altro per fare da simbolo, e subito viene simbolicamente eliminato. Cade in un agguato, insieme alla moglie e a un agente di scorta, il 3 settembre. L’opinione pubblica si convince che sia stato volutamente sacrificato da uno Stato incapace e/o complice. Il terrorismo mafioso sembra invincibile. Invece qualcosa di importante si muove anche sul fronte opposto, e noi – in prospettiva storica – cominciamo a vedere in atto il meccanismo sfida­risposta che tanti protagonisti di quel tempo non possono vedere. L’assassinio di La Torre non blocca l’iter della legge sulle associazioni mafiose, anzi lo sblocca, e la legge entra a far parte del codice penale all’articolo 416bis. Meno di due mesi prima dell’assassinio Dalla Chiesa, il 13 luglio, la Squadra mobile della polizia e il Nucleo investigativo dei carabinieri hanno presentato alla magistratura il rapporto «Greco Michele + 160», che ricostruisce con dovizia di particolari gli organigrammi dei «vincenti» della guerra  di  mafia  in  corso.  Fornisce  un  grande  contributo  di  capacità  investigative  il  vicequestore  Antonino  Cassarà detto Ninni (1947­1985), forte anche delle informazioni fornitegli da Salvatore Contorno, uomo d’azione già legato a Bontate, sfuggito agli agguati dei corleonesi: nome in codice Prima luce. Sul versante giudiziario, Rocco Chinnici fa un bel passo in avanti quando decide di valorizzare le competenze in indagini  finanziarie  di  Falcone  (che  viene  dal  civile)  affidandogli  nel  maggio  del  1980  l’inchiesta  a  noi  nota  sul narcotraffico siculo­americano. Pone poi le basi per la creazione di un pool specializzato di inquirenti nel quale siano applicate le metodologie che, come sappiamo, frutti importanti stanno dando nella lotta al terrorismo. Contrariamente ai  precedenti  caduti,  è  ben  protetto  da  una  scorta  e  da  un’auto  blindata.  Ci  vuole  una  potentissima  auto­bomba  per uccidere  lui,  due  uomini  di  scorta  e  il  portiere  di  uno  stabile  (29  luglio  1983).  Palermo  come  Beirut,  qualcuno commenta stavolta. Il fragore dell’esplosione conferma che è finita l’era della convivenza pacifica tra mafia e apparati statali. Il  Consiglio  superiore  della  magistratura  manda  a  Palermo,  per  sostituire  il  magistrato  assassinato,  il  fiorentino Antonino Caponnetto. «Sembra un magistrato d’altri tempi – commenta Di Lello – ma per fortuna di tutti non lo è»6. Caponnetto conferma la scelta per un pool antimafia cui chiama a partecipare quattro magistrati: Falcone che assurge a  leader  del  gruppo,  Paolo  Borsellino,  appunto  Di  Lello  e  Leonardo  Guarnotta.  Anche  l’assassinio  di  Chinnici, dunque, non blocca il nuovo corso, anzi lo conferma. Torniamo  per  un  attimo  nello  scenario  planetario  del  narcotraffico,  e  a  don  Tano  Badalamenti,  intercettato  nel gennaio del 1984 dall’Fbi mentre cercava di risolvere telefonicamente, con un suo nipote di Detroit, i problemi del finanziamento  di  certe  partite  di  droga7.  Le  due  parti  programmarono  un  incontro  diretto,  non  in  Brasile,  come  gli inquirenti  si  sarebbero  aspettati,  ma  in  un  altro  continente,  a  Madrid.  Qui  peraltro  intervenne  la  polizia  spagnola, allertata  dagli  americani,  che  arrestò  tutti.  Mentre  Badalamenti  veniva  estradato  negli  Stati  Uniti  (aprile  1984), Buscetta era da qualche mese ospite delle prigioni brasiliane. Ne uscì nel luglio per essere rispedito in Italia. Ciascuno dei due grandi perdenti finì così nelle mani dell’autorità di uno dei due paesi su cui la mafia distendeva le proprie reti da più di cento anni. Badalamenti sarebbe poi stato il principale imputato nel processo detto Pizza Connection, cominciato a New York nell’ottobre 1985. Dichiarò al suo avvocato: «non ho mai tradito e non tradirò mai i miei segreti». Buscetta invece si decise a parlare. Si intese prima col super­poliziotto Gianni De Gennaro, e poi con Falcone. I colloqui andarono avanti per  tre  mesi.  Nessuno  all’esterno  ne  seppe  niente,  ma  i  sotterranei  di  Cosa  nostra  si  scoperchiarono  davanti  agli inquirenti. La  notte  del  29  settembre  1984  partì  il  primo  grande  blitz  di  polizia,  con  gli  arresti  di  centinaia  di  mafiosi.  Di seguito, toccò anche a Ciancimino, che al termine di un breve periodo in carcere finì al soggiorno obbligato. Poi fu la volta di Nino e Ignazio Salvo. Michele Greco finì in manette nel febbraio 1986. I  boss  corleonesi  rimasero  latitanti,  ma  nel  complesso  una  grande  grande  caccia  all’uomo  mostrò  la  nuova efficienza e determinazione delle forze di polizia. Ancora un accavallarsi di sfida e risposta, altri tragici effetti. I boss non ammettevano che i poliziotti facessero sul serio, e vedevano nel loro particolare impegno un segno di personale inimicizia, da punire come usavano fare con i loro nemici personali. Il capo della squadra «catturandi», il commissario Giuseppe Montana detto Beppe, utilizzava anche le vacanze per spiare dal suo motoscafo le lussuose ville della costa dove pensava potessero nascondersi i latitanti. I sicari lo raggiunsero così, in pantaloncini e zoccoli (28 luglio 1985). Tutta la Squadra mobile si buttò alla loro ricerca e arrestò certo Salvatore Marino, che morì durante un pestaggio in questura. Di certo non è lecito ammazzare di botte un sospettato. Mi fa comunque un certo effetto pensare a quanto ne seguì: il leader radicale Marco Pannella partecipò al funerale di Marino invocando i principi di legalità fianco a fianco con mafiosi che magari avevano appena sciolto nell’acido il cadavere di qualche loro nemico, o progettato l’assassinio di qualche uomo delle istituzioni. Il ministro degli Interni Oscar Luigi Scalfaro si precipitò a Palermo e all’istante trasferì

ai  quattro  angoli  della  penisola  i  funzionari  di  polizia  comunque  coinvolti.  Anche  lui  aveva  ragione.  Fa  comunque impressione la radicalità e la tempestività della risposta, mai vista in altri consimili casi (in primis  quello  di  Pinelli, l’anarchico caduto dalle finestre della Questura di Milano nel 1969); e soprattutto agli antipodi rispetto alle incertezze con cui la Repubblica rispondeva a ogni passaggio della sanguinaria escalation mafiosa. Passaggio  successivo  del  dramma.  Cassarà  rientrava  a  casa  con  scadenze  imprevedibili,  girava  in  auto  blindata scortato da due agenti tra cui Roberto Antiochia, precipitosamente tornato dalle vacanze perché sapeva che le carenze di organico rischiavano di lasciare il suo capo privo di chi gli «coprisse le spalle». Non si saprà mai come un esercito composto da circa quindici sicari riuscisse ad avere l’informazione giusta per intercettarli proprio sotto casa Cassarà, e annientarli sotto un uragano di fuoco. Laura, la moglie del vicequestore uscita in balcone per salutare il marito, lo vide cadere,  e  corse  in  strada  solo  per  raccoglierne  l’ultimo  respiro.  L’agente  di  scorta  Natale  Mondo,  miracolosamente sopravvissuto,  sarebbe  stato  a  sua  volta  ucciso  nel  1988.  Un  altro  funzionario  della  Squadra  mobile,  Francesco Accordino, ha raccontato di recente quella storia con queste parole: Cassarà disse più di una volta: noi siamo morti che camminano. È inutile dire che non avevamo paura, noi avevamo paura, ma avevamo una grossissima volontà di andare avanti e di non farci né intimidire, né fermare da questi delinquenti. Soprattutto avevamo  una  grossissima  motivazione,  perché  noi  credevamo  veramente  di  portare  avanti  la  legge,  lo  Stato,  la  legalità.  Ma soprattutto [ci sentivamo] fra i migliori segugi affermati in Italia, e apprezzati dalla Polizia di mezzo mondo8.

Abbiamo  insomma  gente  che  lavora  nelle  vacanze,  che  rischia  la  pelle  per  difendere  gli  amici,  polemizza  con  i colleghi inetti, incontra il tradimento ma continua sulla propria strada pur prevedendo come andrà a finire – male. In quel momento gli uomini della Squadra mobile sono soli, come se fossero loro i devianti, i sovversivi su cui si abbatte l’enorme potenza di uno Stato moderno9. E  ai  sovversivi  vengono  subito  dopo  equiparati  anche  i  magistrati  del  pool,  spostati  fulmineamente  insieme  alle loro  famiglie  nel  supercarcere  dell’Asinara,  in  passato  destinato  appunto  ai  brigatisti,  perché  i  servizi  di  sicurezza hanno saputo che dai vertici di Cosa nostra è partito l’ordine di ucciderli. Con mezzi di fortuna, completano il loro lavoro. 2. Antimafia come movimento. Sfida e risposta. Il terrorismo mafioso rispose con ferocia al riarmo delle istituzioni ma per certi aspetti anche lo agevolò.  Mise  sotto  scacco  la  politica  ma  anche  determinò  crescenti  opposizioni.  All’assassinio  di  Piersanti Mattarella,  seguirono  all’interno  della  Democrazia  cristiana  altri  timidi  tentativi  di  correzioni  di  rotta.  Sulla  linea politica tracciata da Piersanti si collocò suo fratello, Sergio Mattarella, anche lui giurista, eletto per la prima volta al Parlamento  nel  1983,  e  destinato  a  giocare  ruoli  politici  molto  importanti  su  scala  nazionale  su  un  asse  di  centro­ sinistra. Il 1983 fu anche fu anche l’anno in cui la pediatra Elda Pucci venne eletta sindaca di Palermo in un momento di reciproca paralisi delle correnti del partito di maggioranza. Pucci inserì – sia pure timidamente – la questione della mafia nella propria agenda politica. Dal maggio del 1985, molto più si spese nel ruolo di sindaco «antimafia» Leoluca Orlando. Orlando, nato nel 1947, professore universitario di diritto, era stato vicino a Piersanti Mattarella come suo padre (Salvatore Orlando Cascio) – anche lui giurista nonché esponente democristiano – era stato vicino a Mattarella padre (Bernardo).  Il  riposizionamento  della  generazione  dei  figli  rispetto  alla  generazione  dei  padri  mi  sembra  molto significativo di una evoluzione storica. Caratterizzava una parte della generazione più giovane della classe dirigente palermitana, la quale viveva come una barbara regressione la conquista mafiosa della città. L’esperimento politico di Orlando godette dell’avallo del segretario nazionale democristiano De Mita, disponibile a una qualche apertura al Pci per controbilanciare il suo scomodo alleato, il Psi di Craxi. Ben presto Orlando ruppe coi socialisti appoggiandosi a una maggioranza cosiddetta «anomala», comprendente appunto il Pci. Pensava, come molti altri in tutt’Italia, che la contrapposizione tra i due maggiori partiti avesse immobilizzato un paese che aveva invece bisogno di cambiare. E credeva che la politica avesse bisogno di forze nuove, di un bagno vivificatore nella «società civile». Era  un’idea  che  si  faceva  spazio,  e  avrebbe  giocato  un  ruolo  ben  maggiore  nella  fase  successiva,  comunemente detta del passaggio dalla «prima» alla «seconda» Repubblica. Orlando ne sarebbe stato uno dei protagonisti su scala nazionale, formulando uno dei più appassionati appelli appunto per il «primato della società civile», e contro i residui della  vecchia  «forma­partito»10.  Però  il  concetto  era  stato  nelle  sue  corde  già  in  precedenza.  Ricorderò  un  suo intervento  del  1971  in  cui,  appena  ventiquattrenne,  collegava  il  problema  della  mafia  non  tanto  al  sottosviluppo economico,  quanto  alla  «inesistenza  nella  nostra  società  meridionale  di  gruppi  organizzati»:  questo  vuoto  lasciava l’individuo alla mercé della «società mafiosa, […] l’unico gruppo organizzato effettivamente funzionante» che dalle

rotture  indotte  dalla  modernità  nella  «chiusa  società  rurale  siciliana»  era  uscito  rafforzato,  piuttosto  che  demolito. Orlando  insomma  vedeva  nell’organizzazione  la  forza  della  mafia,  nella  disorganizzazione  la  debolezza  dei  suoi nemici,  e  identificava  la  soluzione  nel  rafforzamento  della  società  civile:  «la  via  dell’antimafia  passa  attraverso  la scoperta dell’associazionismo»11. La linea di pensiero era collegabile a quella da molti anni portata avanti da Danilo Dolci, che aveva detto: finché le forme di collaborazione più normali sono di tipo mafioso­clientelare (è molto significativo che si dica «associazione» [solo]  per  significare  «associazione  a  delinquere»  […])  se  non  si  ha  fondata  e  positiva  esperienza  alternativa,  è  ben comprensibile che le persone in genere vedano pericoloso e impossibile il gruppo, e ripetano: «chi gioca solo non perde mai»12.

Ma torniamo alla seconda metà degli anni ottanta. L’orlandismo giocò sulle contraddizioni interne alla Democrazia cristiana  ma  contemporaneamente  cavalcò  un  dissenso  che  assumeva  veste  radicale.  Un  dissenso  cattolico  e  anche comunista, perché si vide che il Pci, sebbene mobilitato contro la mafia su scala nazionale, veniva troppo influenzato su scala regionale dalle logiche compromissorie dei vari «patti autonomistici», e non era in grado di dare risposta alla domanda di una nuova politica13. Il dissenso ebbe il suo luogo di massima espressione nei funerali delle vittime di mafia, momento di lutto ma anche di rabbia. Durante quello di Pio La Torre la piazza ricolma di bandiere rosse protestò a gran voce contro i dirigenti democristiani  presenti  sul  palco  contestando,  implicitamente  o  esplicitamente,  anche  i  dirigenti  comunisti  che  li avevano invitati. Durante i funerali di Dalla Chiesa il cardinale palermitano Salvatore Pappalardo dimostrò (seppure, dice  qualcuno,  ancora  con  troppa  prudenza)  di  voler  cambiare  strada  rispetto  ai  tempi  di  Ruffini:  pronunciando  la celebre  omelia  «di  Sagunto»,  che  lamentava  l’assenza  dello  Stato  di  fronte  al  pericolo  mortale  che  minacciava  la società.  La  folla  gettò  monetine  contro  le  auto  blu  dei  ministri,  gridò  «assassini»  rivolgendosi  non  tanto  ai  mafiosi (che  lì  non  c’erano,  o  non  si  vedevano)  quanto  allo  Stato  accusato  di  essere  «assente»  o  forse  di  essere  il  «vero» colpevole.  Salvò  soltanto  il  presidente  della  Repubblica  Sandro  Pertini,  assunto  a  rappresentante  dello  Stato  che  ci sarebbe  voluto.  Paradosso  voleva  che  a  lanciare  tali  accuse  non  fossero  solo  studenti  estremisti  ma,  tra  gli  altri,  gli uomini dello Stato. Ad esempio i poliziotti ai funerali di Cassarà, che tumultuarono e affrontano i carabinieri quasi armi  alla  mano,  sottraendo  la  bara  del  giovane  Antiochia  «all’ufficialità  della  questura»  e  trasportandola  alla  sede della Squadra mobile, avvolta nel tricolore14. Io  non  analizzerò  una  per  una  le  componenti  della  galassia  di  istituzioni,  circoli  e  gruppi  «antimafia»  che rappresentò l’interlocutrice della «primavera palermitana», ovvero dell’esperienza politico­amministrativa orlandiana. Citerò (senza alcuna pretesa di esaustività!) alcuni dei personaggi emergenti: Carmine Mancuso, un poliziotto (figlio del Lenin Mancuso, autista e guardia del corpo di Terranova, caduto al suo fianco); Umberto Santino, un reduce del Sessantotto, che si stava trasformando in valido studioso del fenomeno mafioso; i padri gesuiti Bartolomeo Sorge ed Ennio Pintacuda. Questi ultimi, tra gli altri, promossero nel 1980 la formazione di un gruppo «Città per l’uomo», che qualche successo avrebbe ottenuto, appunto fiancheggiando l’orlandismo, anche a livello elettorale. Più chiaramente orientata  verso  una  prospettiva  catto­comunista  la  voce  di  «Segno»,  rivista  palermitana  diretta  dal  teologo  Nino Fasullo. La spiegazione che dava del terrorismo mafioso non era così diversa da quella data in altre parti d’Italia della strategia della tensione: Nel momento in cui le istituzioni democratiche – il potere legale – subiscono il condizionamento crescente della sinistra e delle  forze  popolari,  i  centri  di  potere  extralegali,  non  disdegnando  l’omicidio  e  la  strage  come  arma  politica,  scendono  in campo per dire la loro sull’esito e sullo sbocco della crisi politica del nostro paese15.

Fu  quasi  naturale  la  convergenza  di  questa  autoproclamatasi  «società  civile»  con  la  magistratura,  o  meglio  con quella  parte  di  magistratura  schierata  in  prima  linea.  Con  «Segno»,  ad  esempio,  collaborava  nel  1981  Chinnici, invitando  a  «un’ampia  opera  di  sensibilizzazione»  perché  «i  giovani»  –  «credenti,  non  credenti,  della  sinistra, democratici, di nessuna militanza politica» – fossero indotti a ribellarsi contro «il potere della mafia»16. Protagonismo.  Nel  momento  storico  in  cui  scrivo,  questo  termine  è  usato  per  stigmatizzare  il  personalismo  dei magistrati nella gestione delle inchieste, ma anche le eccessive loro esposizioni nel dibattito pubblico. In questo senso potrebbe  dirsi  che  peccarono  di  protagonismo  sia  Chinnici  che  (su  un  altro  versante)  Dalla  Chiesa,  con  le  sue interviste  e  le  sue  conferenze  nelle  scuole.  Dopo  che  l’uno  e  l’altro  vennero  assassinati,  peccarono  maggiormente Falcone e Borsellino, che non si può dire parlassero solo «attraverso le sentenze», come i bravi giudici di una volta. Parlavano attraverso libri, saggi e interviste, sui giornali o in televisione, e polemizzavano apertamente su questioni di politica  giudiziaria  che,  peraltro,  acquisivano  sempre  maggior  rilievo  politico­generale.  Puntavano  a  mobilitare  le forze disponibili. Si appellavano all’opinione pubblica e alla buona politica (alla società civile, usiamo ancora questo

termine),  temendo  di  essere  schiacciati,  in  caso  contrario,  dal  peso  degli  apparati  e  della  cattiva  politica,  oltre  che naturalmente dalla mafia. Volevano, l’espressione è proprio questa, «tenere alta la tensione». Falcone  era  un  uomo  vagamente  di  sinistra17,  Borsellino  veniva  da  destra.  Solo  una  polemica  faziosa  ha  potuto indicarli come «toghe rosse». In conclusione. Il passaggio a un’attiva opposizione alla mafia non era facile da realizzarsi (come non lo è oggi, in tutt’altra  situazione).  Al  proposito,  qualcuno  usò  allora  il  termine  «palude»,  e  in  effetti  bisogna  tenere  conto  della funzione  immobilizzante  degli  interessi  politico­clientelari  e  affaristici  che  con  i  gruppi  mafiosi  si  collegavano  in maniera  più  o  meno  occulta.  Pensiamo  alla  miriade  di  persone  che  nei  quartieri  popolari  guardava  alle  cosche  per trovare  lavoro  nel  piccolo  contrabbando,  o  che  semplicemente  usufruiva  delle  raccomandazioni  degli  «amici  degli amici» per trovare lavoro nelle amministrazioni pubbliche o controllate dalla mano pubblica. Pensiamo alle imprese «inquinate», cioè gestite o comunque controllate da mafiosi. Il sistema generava un indotto, dando lavoro a tecnici, professionisti, a una massa di operai. Tutti costoro erano consapevoli di esservi in qualche modo coinvolti, donde le proteste per i danni che le inchieste giudiziarie potevano provocare all’economia. Quest’argomento fu molto usato, ad esempio dagli andreottiani quando Dalla Chiesa giunse in Sicilia, a Catania in difesa dei «cavalieri del lavoro», contro Falcone e gli altri magistrati del pool antimafia. Successe perfino che nelle manifestazioni operaie in difesa del posto di lavoro si invocasse – per convinzione o per provocazione? – il ritorno di Ciancimino, si gridasse «viva la mafia»18. Si spiegano le oscillazioni del mondo politico isolano di fronte all’esplosione del conflitto e delle inchieste degli anni ottanta, con il moltiplicarsi di quelle che solo in apparenza si presentavano come posizioni terze. O che venivano interpretate  così  da  chi  stava  maturando  posizioni  radicali.  Leggiamo  ad  esempio  come  uno  dei  partecipanti  a  un convegno  antimafia  del  1982  ha  ricordato  l’intervento  di  Rosario  Nicoletti,  segretario  regionale  della  Dc  (poi suicidatosi): «sembrava un appello neutrale a due parti in guerra, lo Stato e la mafia, perché cessassero le ostilità»19. Nel  momento  della  più  forte  polemica  sulla  questione  della  «contiguità»  tra  mafia  e  imprese,  Michelangelo  Russo, uno dei leader del Pci all’Assemblea regionale siciliana, si trincerò dietro una supposta impossibilità di fare «l’analisi del  sangue»  alle  imprese  con  cui  la  pubblica  amministrazione  e  le  stesse  cooperative  rosse  entravano  in  rapporti d’affari. Il  ragionamento  più  usuale  era  questo:  per  combattere  la  mafia  non  c’è  bisogno  di  polizia,  ma  di  maggiori finanziamenti  pubblici  alle  imprese  e  al  lavoro  siciliano.  Non  mancarono  i  richiami  alla  vecchia  teoria  della  mafia come  costume  regionale  tradizionale,  impossibile  da  sottoporre  a  repressione  penale.  Tra  essi  segnaliamo  quello  di Lima, in risposta alla domanda di un giornalista: «La mafia che cos’è? È una parola, scusi: come si fa a rispondere a una domanda del genere. La mafia è il comportamento di chi vuole imporre la sua visione…»20. 3. Maxiprocesso. Era questa la situazione quando, delle 707 persone (Abbate + 706) oggetto dell’istruttoria del pool antimafia, 475 vennero messe alla sbarra nel maxiprocesso, il 10 febbraio del 1986. Mentre le centinaia di imputati prendevano posto nelle  grandi  «gabbie»,  in  un’enorme  aula­bunker  nuova  di  zecca,  in  strada  scese  una  tranquillità  che  faceva  strano contrasto con gli anni precedenti: mutamento non so se indotto dallo spiegamento delle forze dello Stato, o soltanto dall’attesa degli eventi, dalle incertezze sul futuro. Sotto  processo  a  Palermo  non  era  un  comportamento  vagamente  interpretabile  in  chiave  socio­antropologica, indefinibile e non­delimitabile in chiave penalistica, ma diverse centinaia di persone appartenenti a un’organizzazione: Cosa nostra. La nuova legge Rognoni­La Torre definiva appunto penalmente un tal genere di associazione, e stabiliva che farne parte rappresentava un reato grave. La magistratura inquirente propose a quella giudicante un’idea di mafia come  sistema  unitario  quale  (scrisse  Borsellino)  «via  obbligata»  per  rimediare  alla  «inerzia  investigativa  del precedente decennio»21. Alla luce di quello schema rese interpretabile l’enorme massa di prove e indizi accumulata nei  primi  anni  ottanta,  la  testimonianza  del  grande  pentito  Buscetta,  nonché  da  quella  convergente  di  Salvatore Contorno,  l’uomo  di  Bontate  che  aveva  a  suo  tempo  collaborato  con  Cassarà.  L’energia  del  presidente  Alfonso Giordano  e  addirittura  un  intervento  del  Parlamento  per  allungare  i  termini  previsti  dalla  legge  vanificarono  le obiezioni, i vari espedienti con cui i difensori provarono a far collassare il maxiprocesso sotto il suo stesso peso. Seguiamo qualche momento della testimonianza di Buscetta. Siamo nell’aprile del 1986. Lucido e autorevole, il teste espone una quantità di fatti, la struttura e le vicende dell’organizzazione nonché, in maniera un po’ apodittica, le sue regole. Due di esse hanno un rilievo immediato per l’andamento del processo: 1) gli affiliati possono compiere un’azione delittuosa importante solo con l’autorizzazione della Commissione; 2) hanno l’obbligo di dirsi l’un l’altro la verità. L’una e ancor più l’altra sembrano fatte apposta per rafforzare la credibilità dell’accusa e lo stesso contributo del  super­testimone.  I  difensori  obiettano:  molte  volte  queste,  e  altre,  vengono  contraddette  dai  fatti  raccontati  da

Buscetta stesso22. Lui potrebbe rispondere: in ogni sistema giuridico l’inosservanza della norma non implica la sua inesistenza. Tra le sue risposte alle contestazioni dei difensori, trovo particolarmente efficace quella fornita a un avvocato che ostenta incredulità verso il giuramento di mafia: «Ho letto sui giornali che un avvocato, presente qua in aula, una volta per una sciocchezza giovanile si è iscritto alla massoneria e ha riso tanto per il giuramento. È un fac­simile del nostro giuramento»23.  Traduco:  anche  nel  vostro  mondo  succedono  cose  strane,  avete  poco  da  stupirvi.  Più  drammatico  il confronto  di  Buscetta  con  Pippo  Calò,  capo  della  sua  Famiglia:  lo  indica  come  complice  dell’assassinio  dei  suoi congiunti,  ed  è  da  lui  indicato  come  infame.  Il  super­testimone  vuol  dimostrare  il  suo  punto:  è  stato  costretto  a rivolgersi all’altra  giustizia,  quella  statale,  proprio  perché  capi  come  Calò,  e  a  maggior  ragione  come  Riina,  hanno abbandonato l’ottimo fondamento della «vecchia mafia», la supremazia del principio della mediazione su quello della violenza, la fedeltà alle regole, per mettersi sulla strada di una violenza incontrollata e sadica, incapace di tener fede ai patti e alle regole. Ci tiene che la spiegazione sia questa, semplice, e si rifiuta di complicarla: «non c’è un movente importante. C’è una presa di posizione dei corleonesi»24. Una specie di volontà di potenza. Lo  stesso  dice  Contorno  nel  suo  dialetto  strettissimo,  antico,  incomprensibile  anche  per  molti  palermitani. L’impressione  è  che  il  teste  potrebbe,  se  volesse,  esprimersi  in  italiano,  in  maniera  più  accessibile.  Ma  lui  rifiuta enfaticamente. Dice: «io sugnu ’na me terra e parru siciliano», e ancora: «No, signor presidente, italianu ’nni sacciu! […] Sugnu zero italianu! E come mi fici matri natura, parlo!». Traduco così: io sono nella mia terra e parlo siciliano. L’italiano non lo so, sono zero italiano, e parlo come mi ha fatto madre natura. Convengo con l’interpretazione data da un filosofo del linguaggio, Salvatore Di Piazza: Contorno vuole dare un segnale identitario innanzitutto ai suoi pari, conferma la propria adesione a un gruppo e a un’ideologia, dunque a un linguaggio, che ha nel sicilianismo in stile Beati Paoli il suo retroterra «nobile». Si porta su questo terreno per rivendicare le proprie scelte: infami siete voi, non io – «un sugnu io l’infame»25. Arriviamo  alla  fine.  Il  16  dicembre  1987  furono  emanate  dure  condanne,  per  un  totale  di  circa  2500  anni  di prigione, e 19 ergastoli. Tra gli altri, Ignazio Salvo venne condannato a sette anni. Particolare per nulla irrilevante, la gran parte dei condannati finì davvero in carcere anziché godersi facili latitanze. 114 imputati peraltro vennero assolti, ivi  compreso  l’antico  boss  Luciano  Liggio  –  a  dimostrazione  del  fatto  che  processo  vero  era  stato  e  non  mera rappresentazione, come da parte di alcuni si voleva o si temeva. Fu un risultato senza precedenti. La mafia, adusa ad agire  nell’ombra  e  nell’impunità,  venne  riconosciuta  e  colpita  in  quanto  tale,  in  centinaia  di  suoi  leader  e  quadri intermedi. Completiamo  guardando  oltreoceano,  verso  quella  New  York  in  cui  contemporaneamente  si  celebrarono  due processi che segnarono parimenti il riconoscimento dell’esistenza della mafia/Cosa nostra in quanto organizzazione. Furono  molto  meno  imponenti  di  quello  di  Palermo,  ma  il  primo,  detto  della  Pizza  Connection,  cominciato  il  30 settembre 1985, ugualmente risultò di inusitata lunghezza e complessità per la tradizione giudiziaria degli Stati Uniti. Cadde anch’esso in una situazione tesa, tanto che alcuni mafiosi in esso coinvolti furono assassinati. E subito dopo l’inizio delle udienze, il 16 dicembre 1985, ben otto killer «fecero fuori» il grande boss della Famiglia Gambino, il settantenne Paul Castellano. A quanto sembra agivano su mandato del suo numero due, John Gotti. Pizza Connection ovvero United States v. Badalamenti. Venne perseguito come grande boss del narcotraffico Tano Badalamenti,  insieme  ai  suoi  parenti  di  Detroit,  e  ad  alcuni  esponenti  di  primo  piano  della  fazione  siciliana  dei Bonanno, gli zips, a cominciare dal loro «street boss» Salvatore Catalano. Secondo l’accusa, sia nel periodo in cui si trovava  in  Brasile,  sia  da  Madrid,  Badalamenti  aveva  spedito  agli  zips  1650  libbre  di  eroina,  per  un  valore  di  un miliardo e mezzo di dollari; mentre una quantità di denaro inferiore ma pur sempre consistente, 60 milioni di dollari solo  tra  il  1980  e  il  1983,  era  rifluito  in  Sicilia  attraverso  compiacenti  canali  finanziari  svizzeri.  La  procura  aveva buone  prove  e  usò  solidi  argomenti.  Spiegò  che  era  stata  la  mafia  a  garantire  la  disciplina,  la  segretezza,  la  fiducia necessaria  per  gestire  lo  straordinario  giro  di  droga  e  dollari  di  cui  si  parlava;  che  era  stato  il  sistema  di  relazioni mafiose «a mettere quegli individui insieme, a tenerli tutti uniti anno dopo anno dando loro un chiarissimo vantaggio su  ogni  concorrente  privo  di  quella  risorsa  organizzativa  di  base».  Invitò  a  riflettere  sull’enorme  danno  sociale derivante dal narcotraffico: «ci sono in questa città come delle zone di guerra che sono state devastate dagli imputati. Potremmo riempire quest’aula, persino il Madison Square Garden, con le loro vittime»26. I giurati si convinsero e nel febbraio 1987 gli imputati vennero condannati. A Badalamenti toccarono ben quarantacinque anni di prigione. Nel frattempo a New York era cominciato e terminato l’altro processo, United States v. Salerno, che si incentrava sui delitti organizzati dalla Commissione di Cosa nostra, anche se di fatto metteva alla sbarra i capi di tre delle cinque Famiglie  newyorkesi  (i  Gambino  e  i  Bonanno  ne  rimasero  fuori).  L’accusa  si  valse  del  contributo  di  due  testimoni diretti, che noi già conosciamo. Il settantasettenne Angelo Lonardo jr., capomafia e figlio di capomafia di Agrigento­ Cleveland, raccontò della Commissione presieduta da Vincenzo Mangano nei secondi anni trenta, degli intrighi e dei delitti di quel periodo remoto. Su vicende più recenti testimoniò Joe Pistone, forte della sua straordinaria esperienza di

agente Fbi infiltrato nella Famiglia Bonanno. Si aggiunsero inconfutabili intercettazioni telefoniche e ambientali. Alla fine  la  giuria  si  convinse  ed  emanò  condanne  a  un  secolo  di  prigione  ciascuno  contro  i  maggiori  imputati.  Era  il novembre del 1986. In questo processo fu chiamato a testimoniare il patriarca, il più che ottantenne Joe Bonanno. Come si ricorderà, aveva dovuto abbandonare New York per l’ostilità della Commissione, era un esiliato. Noi ben sappiamo del modo in cui  mise  il  proprio  sigillo  sul  ciclo  di  rivelazioni  apertosi  nei  primi  anni  sessanta  con  Valachi,  Gentile  e  Luciano: lasciandosi  intervistare  nella  trasmissione  televisiva  60 Minutes  e  subito  dopo  pubblicando  il  suo  libro  (1983).  Nel 1986, aveva già violato ogni codice omertoso. Però al processo non si presentò, preferendo farsi un po’ di prigione per offesa  alla  corte  piuttosto  di  dover  chiarire  in  un  pubblico  dibattimento  quanto  nel  suo  racconto  era  rimasto  ben occultato. Le rivelazioni di Bonanno sono coeve a quelle di Buscetta. E per gli aspetti ideologici le storie raccontate da questi due perdenti nella competizione infra­mafiosa si somigliano. Entrambi propongono un’idea fantastica di mafia come sicilianità  (con  un  esplicito  riferimento  di  Bonanno  al  Padrino),  come  strumento  secolare  di  difesa.  Entrambi  si appellano al mito della Tradizione antica da contrapporre alle degenerazioni del tempo presente, alla pochezza morale degli epigoni. Ed entrambi respingono con indignazione l’accusa di aver commerciato in droga. A  beneficio  di  chi  rischi  di  lasciarsi  troppo  coinvolgere  nella  melensa  rappresentazione  di  Bonanno,  possiamo introdurre un tocco di realismo – il commento al suo outing televisivo di due persone competenti, due alti papaveri della  Famiglia  Lucchese,  che  conosciamo  grazie  a  un’intercettazione  Fbi:  «Sono  scioccato.  Che  cosa  cerca  di dimostrare?  Che  era  un  Uomo  d’onore?  Ma  in  questo  modo  ammette  lui  stesso  …  sì,  ammette  spontaneamente  di essere il boss di una Famiglia […] anche se dice […] ero come un padre»; «Sta cercando di sbarazzarsi dell’immagine del gangster. Sta cercando di tornare indietro, ahh, come in Italia. Ad esempio quando dice: me lo ha insegnato mio padre»;  «È  tutta  merda,  perché  io  lo  sapevo  che  era  un  ciarlatano  …  Lo  sai,  come  quando  dice  di  non  essersi  mai messo  nella  droga,  dice  tutte  stronzate.  La  sua  solita  fottuta  abitudine,  stava  facendo  mucchi  di  soldi».  Gioca  al Padrino, ironizzano i due27. Insomma,  i  due  mafiosi  sanno  bene  che  Bonanno  si  atteggia  a  ideologo,  si  richiama  alla  tradizione  siciliana, nell’intento di «sbarazzarsi dell’immagine del gangster», e mente spudoratamente quando sostiene di essere estraneo al narcotraffico. Noi già sappiamo il perché suoni inverosimile anche l’analoga pretesa di Buscetta. Chiamato a testimoniare nelle aule  del  processo  Pizza Connection,  sembrò  anche  lui  un’incarnazione  del  padrino,  «com’era  uscito  dalla  penna  di Mario Puzo»28.  Confermò  che  Badalamenti  era  stato  in  Sicilia  a  capo  della  Commissione;  però  ribadendo  che  quel vecchio  suo  amico,  da  vero  uomo  d’onore,  non  era  mai  stato  coinvolto  in  questioni  di  droga29.  A  sua  volta Badalamenti non confermò né smentì quanto Buscetta diceva, precisando che non era solito rivelare segreti propri o altrui. Gli fu chiesto: poteva almeno dire quali affari aveva trattato al telefono con suo nipote? Non poteva, rispose quieto; assicurava comunque che il detestabile commercio della droga non c’entrava nulla30. Invece l’imputato si dilungò sul passato remoto del periodo bellico. Raccontò di aver disertato dopo essere stato contattato  dall’Oss,  di  essersi  dato  alla  guerriglia  contro  i  tedeschi,  al  fianco  di  quegli  stessi  americani  che  ora  lo processavano. Cercò insomma di riprodurre in sedicesimo l’operazione fatta con successo tanti anni prima da Lucky Luciano. Io non posso qui che applicare a lui il giudizio dato su quell’operazione dal già citato agente del Narcotic Bureau,  Harney:  la  mafia  aveva  prodotto  quella  mitologia  nell’intento  di  «diluire  l’odore  mefitico  della  sua reputazione con il fresco profumo del patriottismo»31. Luciano, d’altronde, non era l’unico precedente. Io ricordo che, qualche  anno  prima  di  lui,  anche  Sindona  aveva  provato  a  sottrarsi  alle  sue  responsabilità  di  bancarottiere richiamandosi  alle  vicende  belliche  e  postbelliche  del  separatismo  siciliano,  ai  presunti  meriti  acquisiti  in quell’occasione dai mafiosi. Si era candidato a guidare un movimento analogo sostenendo che le autorità statunitensi avrebbero potuto ancora fornire un «appoggio finanziario e morale»32.  Ma non  era stato preso  sul  serio.  E  anche  il tentativo di Badalamenti non funzionò: fece molta confusione tra il periodo antecedente e quello seguente lo sbarco, con le date e i fatti, e non fu creduto33. L’avvocato difensore di Badalamenti, di nome Michael Kennedy e di origine irlandese, mise le favole raccontate dal suo assistito sullo stesso piatto dei due recentissimi contributi di conoscenza e mistificazione insieme, il libro di Bonanno  e  la  confessione  di  Buscetta.  Spiegò  che  la  droga  non  poteva  entrarci  in  nulla  con  la  «Badalamenti’s Tradiction»,  la  tradizione  antica  dei  Beati  Paoli,  quella  incentrata  sulla  difesa  della  famiglia  e  contemporaneamente del popolo siciliano oppresso. La famiglia è la fonte di energia, la fonte del potere, la fonte dell’onore. Per difendere l’onore della famiglia siciliana, non bisogna  rivolgersi  alle  autorità.  Il  governo  in  Sicilia  è  oggetto  di  sfiducia,  e  spesso  di  discredito.  In  Sicilia  se  uno  ha  un problema,  se  lo  risolve  da  sé.  […]  Ci  sono  siciliani  che  non  si  considerano  italiani.  Il  dialetto  siciliano,  del  tutto  differente

dall’italiano,  è  uno  strano  dialetto.  È  un  linguaggio  segreto.  Come  l’Yiddish,  come  il  Gaelico,  viene  da  una  storia  di oppressione34.

E le intercettazioni telefoniche, le parole pronunciate da Badalamenti e che palesemente lo mostravano impegnato a vendere una (chissà quale) sostanza proibita? «Ricordate che le parole hanno più che un significato. Ricordate che la lingua siciliana serve per evitare di essere compresi»35: così Kennedy ammonì i giurati. Forse lui non lo sapeva, ma era l’ultimo di una lunghissima serie di avvocati di mafia impegnatisi in difese ideologiche analoghe alle sue. 4. Professionisti dell’antimafia. I  processi  alle  associazioni  danno  adito  a  preoccupazioni  garantiste,  perché  in  essi  risulta  difficile  accertare  le responsabilità o l’innocenza dei singoli. Preoccupazioni del genere vennero fatte valere sul versante statunitense nel processo Pizza Connection. Molto più brucianti furono le polemiche sul versante italiano, perché andarono a inserirsi in più vasti contrasti politici e ideali. Il  maxiprocesso  venne  recepito  per  quello  che  era,  una  svolta  storica,  di  straordinaria  importanza  da  un  fronte antimafia  eterogeneo,  di  dimensione  locale  e  nazionale,  orientato  in  larga  parte  a  sinistra,  schierato  al  fianco  della magistratura di prima linea, vicino al Pci ma anche impegnato a stimolarne la combattività. I sociologhi Pino Arlacchi e  Nando  Dalla  Chiesa  (figlio  del  generale  assassinato)  presero  posizione  con  grande  decisione,  esprimendo  la preoccupazione  che  il  peso  politico  della  Dc  e  quello  economico  della  lobby  mafiosa  vanificassero  la  grande occasione36. Con loro Giampaolo Pansa di «Repubblica», uno dei grandi giornalisti «scesi» per l’occasione in Sicilia, dipinse Palermo come una «Palude» pronta a «inghiottire il processone»37. In realtà Palermo era divisa. Alla protesta garantista prestò una voce autorevole il preside della Facoltà di Giurisprudenza Giovanni Tranchina che,  inaugurando  l’anno  accademico  1986,  trattò  i  pentiti  alla  stregua  di  «spie  e  delatori».  Disse:  «siamo  in  piena involuzione:  si  fa  sempre  più  inquisizione  e  meno  processo»38.  Mentre  si  tenevano  le  udienze,  molti  interventi  sul «Giornale di Sicilia» e ancor più sul «Giornale» (il quotidiano milanese di centro­destra diretto da Indro Montanelli) misero in guardia sull’eventualità che tutto si riducesse a «giustizia vendicativa», a «manovra propagandistica», che prevalessero  «il  clima  e  i  riti  della  crociata»39.  Le  critiche  più  vivaci  vennero  dall’area  socialista­radicale,  che  già sappiamo  (si  veda  il  capitolo  XI)  polemicamente  contrapposta  all’asse  tra  magistratura  «di  prima  linea»  e  Partito comunista. Cominciamo da un pamphlet scritto da Mauro Mellini, avvocato e dirigente radicale. Ne sintetizzo gli argomenti: la  legge  Rognoni­La  Torre  è  «un’assurdità»,  perché  pretende  di  «definire  per  legge  fenomeni  naturali,  sociali, extragiuridici» come l’omertà e la mafia stessa40; il pentitismo è da equipararsi a un «ritorno al medioevo», si tratta di uno strumento del «protagonismo di molti magistrati che gestiscono le inchieste»41. Un commento. Mellini mescola in modo disinvolto l’argomento garantista con quello antropologico. Ovviamente la mafia e l’omertà non hanno niente di «naturale»  e  il  ricorso  a  collaboratori  di  giustizia  (e  al  patteggiamento)  rappresenta  un  metodo  tutt’altro  che «medievale»: è nella tradizione di altri ordinamenti moderni democratici, come quello statunitense. Mellini mostra di credere  che  davvero  i  mafiosi  non  parlino  con  l’autorità  per  un’insuperabile  preclusione  morale.  Invece,  come sappiamo,  hanno  sempre  parlato  con  i  poliziotti,  nel  chiuso  dei  commissariati  o  in  qualche  luogo  più  segreto.  Il pentitismo, si può dire, ha portato queste transazioni extra­giuridiche (e qualche volta illegali) nel quadro garantista o quanto meno pubblico del processo penale. Presero  posizione  sul  fronte  garantista  personaggi  che,  in  passato,  avevano  goduto  di  grande  credito  presso l’opinione pubblica di sinistra. Fu una sorta di rovesciamento delle parti. Il giornalista Lino Jannuzzi, già elemento di punta  dell’«Espresso»,  divenuto  celebre  negli  anni  sessanta  per  la  denuncia  del  «Piano  Solo»,  tuonò  contro  il «teorema Buscetta», ovvero contro i metodi di Falcone e dei suoi colleghi, riadattando alla fattispecie lo slogan contro il  giudice  Calogero  sul  caso  Toni  Negri  cui  abbiamo  a  suo  tempo  accennato42.  Su  questa  linea  si  schierò  anche Michele Pantaleone, che tutti conoscevano per il suo impegno pregresso contro la mafia43. E lo fece, più autorevole di tutti, Leonardo Sciascia. Possiamo dire che Sciascia tenne fermi alcuni postulati antichi della cultura di sinistra. In particolare, il fatto che un movimento politico nella Palermo degli anni ottanta inneggiasse alla repressione gli ricordava quegli anni venti in cui  il  fascismo  aveva  promosso  l’operazione  Mori:  la  quale  appunto,  tra  gli  intellettuali  di  sinistra  della  sua generazione, non aveva mai goduto di buona stampa. E quel precedente gli tornava in mente nel momento in cui Dalla Chiesa assumeva la carica di prefetto di Palermo, vedendolo impegnarsi in sermoni educativi nelle scuole come aveva fatto a suo tempo Mori, ascoltando da lui e per lui la richiesta di poteri «straordinari». Non mutò linea nemmeno dopo l’assassinio del generale, impegnandosi anzi in una durissima polemica col figlio del morto, Nando Dalla Chiesa.

Giunse il maxiprocesso e Sciascia seguì il dibattimento con impegno. Si disse fiducioso nel giudizio del tribunale, e  del  suo  presidente  Alfonso  Giordano,  magistrato  proveniente  dal  civile,  la  cui  immagine  poco  si  accordava  con quella del giudice pasdaran. Alla fine riconobbe che le condanne, pur così pesanti, erano eque44. Fece tutto questo mostrando il suo grande spirito critico. Scrisse una prefazione al pamphlet di Jannuzzi, con cui condivideva  l’idea  che  il  problema  principale  fosse  quello  della  giustizia,  «ormai  grave  e  allarmante».  Quanto  allo specifico,  lui,  intellettuale  nutrito  di  letture  libertarie,  non  poteva  non  considerare  sospetta  la  deduzione  da un’ipotetica  super­direzione  mafiosa  delle  responsabilità  penali  dei  singoli.  Sospetta  e  contraddittoria.  Disse:  da  un lato  Buscetta  asserisce  la  capacità  della  «Cupola»  (la  Commissione)  di  rendere  la  mafia  un  «fatto  unitario», ordinatore,  dall’altro  fornisce  «una  rappresentazione  di  disordine,  di  micidiali  differenze  interne,  di  interne prevaricazioni  e  sopraffazioni»45.  Si  rifiutò  di  seguire  lo  schema  proposto  dal  super­testimone,  l’idea  di  una contrapposizione  tra  mafia  «buona»  (quella  di  Bontate)  e  mafia  «cattiva»  (quella  corleonese).  Disse  che  la  «qualità eversiva  dei  delitti  di  mafia  avvenuti  negli  ultimi  anni»  si  spiegava  con  uno  storico  distacco  della  mafia narcotrafficante (tutta) dai suoi tradizionali referenti politici46. Prese  così  le  distanze  dagli  inquirenti  del  maxiprocesso,  molto  determinati  a  tutelare  il  loro  testimone­chiave, oggetto di calunnie e insinuazioni di ogni genere. E a maggior ragione da quella parte del movimento antimafia che ne faceva un eroe: dai ragazzi del movimento che gridavano per le strade un paradossale «Buscetta fai giustizia». Da un grande  giornalista,  Enzo  Biagi,  che  gli  rivolgeva  domande  improbabili  di  questo  genere  –  «Lei  crede  che  si  possa essere  mafiosi  buoni,  miti  e  sentimentali?»,  accontentandosi  della  sua  improbabile  risposta  –  «Sì,  perché  io  lo sono»47. E, in linea di principio, confermò le sue riserve verso gli scambi tra testimonianza e benefici che stava alla base dell’uso dei pentiti48. Peraltro  Sciascia  non  mostrava  la  preconcetta,  livorosa  ostilità  di  Jannuzzi  nei  confronti  di  Buscetta:  registrava senza  problemi  in  lui  una  permanenza  dell’«agire  mafioso»,  era  interessato  al  suo  «sentire  mafioso»,  era  insomma disponibile a starlo a sentire49. Come tutti gli osservatori in buona fede, sapeva che diceva molte e importanti verità, sulla struttura di Cosa nostra e sull’ascesa dei corleonesi. E veniamo alla più famosa delle polemiche di Sciascia, espressa nel bel mezzo del maxiprocesso in un articolo del «Corriere della Sera», redazionalmente intitolato ai Professionisti dell’antimafia.  L’articolo ha una struttura  curiosa, come se derivasse da una giustapposizione di parti diverse. Sciascia parte con una serie di «autocitazioni, da servire a coloro che hanno corta memoria e/o lunga malafade», intese a comprovare il proprio costante impegno nell’analisi del fenomeno mafioso. Continua con una recensione al libro di Christopher Duggan La mafia durante il fascismo: che gli pare  un  salutare  antidoto  a  tante  chiacchiere  dell’antimafia,  dal  punto  di  vista  metodologico  (il  libro  cita  fonti d’archivio e ricostruisce contesti come fanno i veri libri di storia) e ancor più da quello dei contenuti. Duggan infatti, come  si  ricorderà,  inquadra  l’operazione  Mori  in  una  lotta  fazionaria,  interna  al  Pnf,  sottolineando  la strumentalizzazione politica che ispira molte accuse di mafiosità lanciate in quel tempo, in particolare quelle contro il federale palermitano Alfredo Cucco. Sciascia generalizza: «l’antimafia» può rappresentare uno «strumento di potere», in regime fascista come «in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando». E fa l’«esempio ipotetico» di un sindaco che spaccia per antimafia la propria azione amministrativa, e delegittima ogni critica dei suoi avversari come apologia della mafia. Ovviamente si riferisce a Orlando. Il ritmo cambia nella terza parte dell’articolo, dove non si fanno più esempi «ipotetici» ma, con nome e cognome, viene attaccato Paolo Borsellino, numero due del pool degli inquirenti del maxiprocesso, appena nominato dal Csm procuratore della Repubblica di Marsala. A favore di Borsellino, dice Sciascia, depone «solo» la maggior esperienza in processi di mafia, mentre equità vuole che sia premiata la maggiore anzianità dei suoi concorrenti. In conclusione, lo  scrittore  invita  perentoriamente  i  suoi  lettori  a  prendere  atto  «che  nulla  vale  di  più,  per  far  carriera  nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso»50. Non  poteva  non  accendersi  la  polemica.  In  un  manifesto,  i  giovanotti  del  Coordinamento  antimafia  palermitano diedero  allo  scrittore  del  voltagabbana,  anzi  del  «quaquaraquà»,  usando  il  termine  da  lui  stesso  reso  celebre  nel Giorno della civetta; e ne sancirono enfaticamente l’espulsione dalla «società civile». Erano mossi da una specie di amore tradito, dalla delusione per il rifiuto di sostenerli dell’intellettuale che avevano considerato un «padre nobile», un antesignano delle loro battaglie51. Ma la realtà era che non avevano percepito per tempo l’enormità della distanza che li separava dal loro antico idolo. La  risposta  di  Sciascia  fu  dura  quanto  efficace.  Gli  argomenti  sulla  base  dei  quali  veniva  attaccato,  scrisse, dimostravano che le sue preoccupazioni non erano infondate. Definì il Coordinamento antimafia «frangia fanatica e stupida di [un] costituendo potere» mascherato da antimafia, che odorava tanto di 1927. E aggiunse: è chiaro che non da loro né da chi sta dietro di loro – e ne è riconoscibile (si dice per dire) lo stile – verrà una lotta radicale alla mafia. Loro sono affezionati alla «tensione», e si preoccupano che non cada. Ma le «tensioni» sono appunto destinate a cadere;

e specialmente quando obbediscono a giochi di fazione e mirano al conseguimento di un potere52.

Proviamo  a  tirare  le  somme.  L’ultima  parte  dell’articolo  sui  Professionisti  dell’antimafia  era  davvero sproporzionata  e  sbagliata:  la  nomina  di  Borsellino  corrispondeva  alle  sue  capacità  professionali  (non  politiche  né clientelari),  di  cui  c’era  necessità  vista  la  gravità  dell’ora.  Il  resto  invece  merita  un’attenta  riflessione,  nei  suoi  due aspetti: quello storico (relativo allo specifico di quel tempo) e quello attuale. Quello era il tempo in cui anche un democratico di sicura fede come Giorgio Bocca chiedeva che la Repubblica prendesse  atto  che  «nelle  terre  di  mafia»  era  in  atto  una  guerra,  e  proclamasse  a  sua  volta  «lo  stato  di  guerra», adottasse  «le  leggi,  i  metodi  atti  alla  guerra»53.  Prendiamo  atto  che  alla  fine  queste  posizioni  (e  altre  peggiori  di queste) non passarono, e i diritti degli individui e le pubbliche libertà non vennero sostanzialmente intaccati sul fronte del terrorismo come su quello della mafia. Resta da capire quanto al risultato finale abbiano contribuito le battaglie garantiste di Sciascia e degli altri radicali. Quanto all’uso politico della giustizia, gli ammonimenti di Sciascia mi sembrano più validi oggi, che l’emergenza è passata, di quello che mi sembrava allora. In effetti, «retorica aiutando e spirito critico mancando», l’antimafia può farsi professionismo, risolversi in strumento di lotte di potere e di affermazioni personali. Anche  qui  però  è  necessaria  una  precisazione:  tali  meccanismi  non  hanno  carattere  necessariamente antidemocratico.  Non  lo  hanno  ad  esempio  nell’ordinamento  statunitense,  laddove  –  contrariamente  che  in  quello italiano – le magistrature sono elettive, e la connessione tra politica e giustizia fa parte delle regole del gioco. Quanto al passato, noi ben conosciamo la figura di Thomas Dewey che, partendo dal ruolo di persecutore di Dutch Schultz e Lucky Luciano nella New York degli anni trenta, si era costruito una carriera politica di primissimo piano, giungendo alla carica di governatore dello Stato di New York e a sfiorare la presidenza dell’Unione. Nel presente, qualcosa di simile  stava  facendo  un  altro  repubblicano,  stavolta  italo­americano,  il  procuratore  Rudolph  Giuliani:  il  quale  si impegnò  nella  lotta  contro  Cosa  nostra,  promuovendo  in  particolare  il  processo  contro  la  Commissione;  e  nel contempo intraprese una carriera politica che nel 1994 l’avrebbe portato alla carica di sindaco di New York. 5. Falcone. Giovanni Falcone è stato senz’altro il personaggio più rappresentativo dell’antimafia degli anni ottanta. Ha fornito un grande contributo di azione ma anche di conoscenza del fenomeno mafioso. Possiamo valutarlo leggendo sentenze, saggi  e  interventi  vari,  nonché  il  libro­intervista  da  lui  scritto  insieme  alla  giornalista  francese  Marcelle  Padovani, Cose di Cosa nostra. Cominciamo  col  tema  della  «nuova  mafia»  imprenditrice  e  dinamica,  insomma  moderna,  che  stando  ad  alcuni interpreti  dei  primi  anni  ottanta  (al  sociologo  Pino  Arlacchi,  ad  esempio)54  avrebbe  preso  il  posto  della  «vecchia mafia»,  irrimediabilmente  superata  perché  tradizionale.  Falcone  accettò  per  alcuni  versi  quest’interpretazione,  ma colse  anche  gli  elementi  che  la  contraddicevano.  Rilevò  come  logica  d’impresa  e  logica  familista  andassero  a braccetto nella gang narcotrafficante degli Inzerillo, che formava l’oggetto della sua prima grande inchiesta. Ipotizzò che in essa l’endogamia fosse scientemente perseguita nell’intento di «rendere più stretti i vincoli tra gli associati», rilevando  «l’intrico  incredibile  delle  parentele  […],  tale  che  si  fa  fatica  a  raccapezzarsi»:  «ad  ogni  ulteriore generazione, i collegamenti si fanno sempre più fitti a seguito di matrimoni tra cugini». Definì «strumentale», soltanto «apparente»,  il  «recupero  di  valori  tradizionali»  e  preferì  un  paragone  modernissimo:  il  familismo  rappresentava l’«equivalente di quello che, per il terrorismo politico, è l’ideologia»55. A rilevare lo strettissimo legame tra nuova e vecchia  mafia,  citò  un  testo  sequestrato  in  carcere  a  Spatola  –  l’imprenditore  che  riciclava  i  narcodollari  –  dove  si riproponeva l’antica apologetica sugli uomini d’onore intenti a proteggere i deboli, e perseguitati «dall’ingiustizia». Vogliamo definire quello che i giudici e i governatori chiamano mafia? Non si chiama mafia, si chiama omertà, cioè uomini d’onore, che aiutano e non profittano dei deboli, che fanno sempre del bene e mai del male. Ed è per questo che li vogliono distruggere, così il potere dell’ingiustizia resta nelle mani dei giudici e dei governatori, che si servono della parola mafia come legge del potere sui deboli56.

Questo  testo  si  colloca  in  effetti  in  un  luogo  retorico  luogo  a  noi  ben  noto.  Afferma:  la  parola  che  loro usano è pericolosa perché serve per aumentare il loro potere; sta a noi esorcizzarla facendo ricorso a un termine differente. E lo  fa,  credo,  con  piena  consapevolezza  perché  la  Famiglia  Spatola­Inzerillo  costruisce  il  proprio  potere  planetario partendo da uno dei luoghi della massima continuità storica della mafia, la borgata di Passo di Rigano in cui in antico regnava Antonino Giammona. Mentre si dedica a quest’indagine, Falcone sa ancora poco dell’organizzazione di Cosa nostra. Solo, registra che Salvatore Inzerillo è un elemento di punta di una banda affaristica transcontinentale e contemporaneamente anche il

«capo di una potentissima organizzazione mafiosa palermitana»57. E sa bene che Inzerillo, tornato dall’America nel 1973, è nipote di Rosario Di Maggio, vecchio boss di Passo di Rigano. Rileva che Inzerillo è socio della Recredit, «Società  di  riscossione  crediti  per  conto  di  aziende  private»58:  noi  lo  immaginiamo  impegnato  nella  più  classica attività del capo­mafia, trovare un punto di mediazione tra soggetti con interessi diversi (debitori e creditori), alternare minacce  e  promesse,  garantire  gli  accordi.  E  Falcone  ricostruisce  proprio  un  caso  di  debiti  e  crediti,  per  chiarire quanto  sia  fuorviante  la  dicotomia  vecchia/nuova  mafia.  Un  imprenditore  edile  a  corto  di  contante,  pressato  dai creditori,  chiede  aiuto  a  Di  Maggio.  Costui  subito  si  offre  di  «aggiustare»  la  cosa;  all’ingegnere,  piacevolmente sorpreso, spiega di essere stato «amico» di suo padre e grande elettore di suo nonno, un deputato indicato dalle fonti come  protettore  della  mafia  del  primo  dopoguerra59.  Gli  interessi  saranno  cancellati,  i  pagamenti  agevolmente dilazionati.  Il  compito  viene  assegnato  da  Di  Maggio  a  Rosario  Spatola:  ne  sarà  certo  uscito  rafforzato  l’«alone  di prestigio» che secondo il loro illustre ospite, Sindona, circonda i due. E veniamo all’istruttoria del maxiprocesso. Falcone e gli altri inquirenti videro che i confini tra mafia e affarismo si  facevano  più  elastici,  che  l’inquinamento  era  crescente.  Constatarono  che  molti  degli  imprenditori  dipinti  nelle inchieste  di  Terranova  degli  anni  sessanta  come  vittime  di  estorsione,  ora  apparivano  pienamente  partecipi dell’economia  criminale.  Provarono  a  superare  il  confine  storico  tra  Sicilia  occidentale  e  Sicilia  orientale  al  fine  di verificare le intuizioni di Dalla Chiesa sull’influenza dei «cavalieri del lavoro» catanesi sugli equilibri della mafia – mi sembra, senza cavarne un gran che. Rilevarono comunque che le società catanesi impegnate nel realizzare grandi opere pubbliche in tutta l’isola «non sceglievano autonomamente i propri subappaltatori e fornitori, ma seguivano le designazioni  ed  i  voleri  dei  capi­mafia  locali».  E  aggiunsero:  «Se  questa  è  la  triste  condizione  delle  imprese  che eseguono opere pubbliche in Sicilia, oppresse dai condizionamenti mafiosi, il discorso cambia quando ci si accorge che il contatto con gli elementi mafiosi viene accolto di buon grado ed anzi sollecitato»60. Imprenditori  oppressi  e  imprenditori  collusi,  meccanismo  protezione/estorsione  con  annesse  ambiguità pirandelliane.  Sappiamo  quanto  fosse  antico  il  meccanismo  e  anche  il  problema  interpretativo,  sebbene  applicato  a vicende nuove. Non so dire se Falcone e gli altri del pool avessero più l’impressione del mutamento o della continuità. Comunque  a  quel  punto,  mentre  stilavano  la  sentenza  istruttoria  in  vista  del  maxiprocesso,  avevano  già  ben recepito l’immagine proposta da Buscetta di una segreta società ancorata alle proprie regole, cosciente della propria antica storia e del proprio consolidato ruolo sociale, che pretendeva di risalire ai Vespri siciliani e ai Beati Paoli. Più continuità di quella. Buscetta disse a Falcone, già il giorno del suo primo interrogatorio, il 21 luglio del 1984: Intendo premettere che non sono uno spione, nel senso che quello che dirò non è dettato dal fatto che intendo propiziarmi i favori della Giustizia. E non sono nemmeno un «pentito», nel senso che le mie rivelazioni non sono dettate da meschini calcoli d’interesse61.

La dichiarazione ha ai nostri occhi un che di paradossale, dato che consideriamo Buscetta il prototipo del pentito di mafia. Il paradosso si scioglie se teniamo conto della sua precisazione: non sono uno spione o un pentito perché non sono  mosso  da  «meschini  calcoli  d’interesse».  Questo  voleva  che  i  suoi  interlocutori  gli  riconoscessero.  E  il  suo interlocutore, Falcone, non lo contraddisse esplicitamente. Anzi qualcosa gli concesse. Leggiamo la sentenza di rinvio a giudizio: Egli, mafioso di vecchio stampo, si era reso conto che i principi ispiratori di Cosa Nostra erano stati ormai irrimediabilmente travolti  dalla  bieca  ferocia  dei  suoi  nemici,  che  avevano  trasformato  l’organizzazione  in  un’associazione  criminale  della peggiore specie, in cui egli non si riconosceva più62.

Falcone prese atto della pretesa del suo testimone mafioso – il nostro è un sistema di valori, non di disvalori – con l’idea di volgerla a vantaggio proprio e della Repubblica. L’esigenza primaria era quella di rassicurarlo, di stabilire con  lui  un  codice  comunicativo:  come  era  avvenuto  per  il  terrorismo,  ne  sarebbero  seguiti  altri  pentimenti,  ben  più vasti  smottamenti,  defezioni  di  massa.  E  a  quel  punto  il  termine  pentito  sarebbe  stato  applicabile  ai  transfughi dell’estrema  sinistra  come  a  quelli  di  Cosa  nostra.  Falcone  ribadì  il  punto:  se  i  terroristi  avevano  motivazioni ideologiche, anche i mafiosi, contrariamente all’opinione comune, non ne erano privi. E agli uni e agli altri bisognava lasciare  la  possibilità  di  dire  che  l’idea  in  sé  era  stata  giusta  ma  il  mezzo  si  era  rivelato  controproducente.  Così Buscetta spiegò che la mafia in sé rifletteva un nobile ideale e nel passato aveva anche funzionato bene; ma di fatto si era  allontanata  dalle  proprie  finalità  originarie  a  causa  dell’avidità  di  potere  e  della  ferocia  animale  dei  corleonesi. Bisognava uscirne. Nel libro­intervista pubblicato insieme a Padovani, Falcone riformulò il discorso. La mafia, disse, esprime un sia pur  distorto  «bisogno  di  ordine  e  di  Stato»,  cui  occorre  dare  la  risposta  giusta.  «Io  credo  nello  Stato»,  aggiungeva polemizzando con Sciascia «che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia». Non temette di dare

risposta alla maliziosa domanda dei suoi avversari – il giudice condiziona il suo pentito? Spiegò il proprio rapporto con Buscetta a partire dalla sicilianità, vista come comune codice simbolico e culturale che consentiva all’uomo delle istituzioni  e  a  quello  della  mafia  di  comprendersi  e  di  costruire  una  reciproca  fiducia63.  Intervistato  dalla  storica Giovanna Fiume, affermò orgogliosamente: «Sono palermitano e figlio di palermitani»; e quando la sua interlocutrice gli chiese a quali dei codici tradizionali e «popolari» della società siciliana si sentisse legato, rispose: a «quasi tutti»64. Voleva intendere che quello era il brodo di coltura della mafia, ma anche dell’antimafia. Era  una  battaglia  per  il  consenso  che  andava  combattuta.  Disse  Falcone  nel  1986,  nel  corso  di  un  seminario  a Ottawa: La  cooperazione  di  alcuni  esponenti  mafiosi  non  è  stato  un  dono  inaspettato  né  un  evento  fortunato,  ma  il  risultato  di  una paziente  attività  investigativa  che  ha  gettato  luce  sui  punti  deboli  dell’organizzazione.  È  stato  anche  il  risultato  di un’instancabile opera di persuasione che ha tenuto presenti le caratteristiche della mentalità mafiosa, e ha sfruttato le tensioni esistenti all’interno dell’organizzazione mafiosa stessa65.

E veniamo alla questione centrale nel pensiero di Falcone. Sin dal 1982, in un importante intervento scritto insieme a  Giuliano  Turone,  aveva  ribadito  la  priorità  cronologica  e  logica  «di  una  puntigliosa  e  faticosa  ricostruzione  degli aspetti più propriamente criminali delle organizzazioni mafiose» sulla «rete di complicità e connivenze», e dunque a maggior  ragione  sugli  aspetti  politici  e  contestuali66.  Anche  in  seguito  stette  ben  attento  a  tenere  fermo  il  mirino sull’organizzazione mafiosa; evitando di allargare un po’ all’infinito la ricerca delle responsabilità esterne, nel timore che  l’azione  penale  finisse  per  annacquarsi,  perdendo  efficacia.  Non  considerava  la  lotta  a  Cosa  nostra  un  mero passaggio  intermedio  per  attaccare  il  sistema  politico,  così  come  non  pensava  che  Cosa  nostra  fosse  una  mera dependance del sistema politico. Su questo punto venne molto frainteso, ma in realtà il suo pensiero fu sempre chiaro. «Al di sopra dei vertici organizzativi – spiegò nel saggio Il fenomeno mafioso (1988) – non esistono “terzi livelli” di alcun genere, che influenzino o determino gli indirizzi di Cosa nostra»67. Fu ancor più chiaro nel libro­intervista con Padovani:  l’idea  del  «grande  vecchio»,  del  «burattinaio  che  dall’alto  della  sfera  politica  tira  le  fila  della  mafia», rappresenta il frutto di una grande «rozzezza intellettuale»68. Sappiamo  delle  polemiche  di  cui  era  stato  oggetto  Falcone  nel  corso  del  maxiprocesso.  Non  cessarono  neanche dopo la sua conclusione. Alcune sono riconducibili alle trame della mafia e dei molti suoi complici o fiancheggiatori. Non tutte e non in tutto, però: contrariamente a quanto spesso si dice. Partiamo da episodi forse minori, ma giudicati già allora molto significativi. Quando venne ritrovata una bomba nel  villino  a  mare  di  Falcone  (1989),  i  bene  informati  sussurrarono  che  se  l’era  piazzata  da  solo,  per  smania  di protagonismo. Altri (anche scrivendo lettere ai giornali) protestavano per il modo in cui lui e Borsellino, girando con la  scorta  per  le  vie  della  città,  mettevano  in  pericolo  i  cittadini  «innocenti».  Si  moltiplicavano  le  lettere  anonime contro di lui, come quelle particolarmente calunniose firmate «Il Corvo» (sempre del 1989), stando alle quali aveva consentito a Contorno di tornare a Palermo in armi per regolare qualche vecchio conto. Attacchi gli vennero ancora dal «Giornale». Citiamo quello del 19 novembre 1988 della giurista ed esponente democristiana Ombretta Fumagalli Carulli contro il «maccartismo» «dei giudici capitanati da Falcone»69. A  tutti  i  livelli,  poi,  pezzi  della  magistratura  si  rivelavano  restii  ad  abbandonare  le  logiche  tradizionali  di organizzazione  degli  uffici  giudiziari,  ivi  compreso  il  principio  dell’anzianità,  per  accettare  quelle  nuove  della specializzazione,  il  principio  della  competenza.  Il  nodo  venne  in  evidenza  nel  1988,  quando  per  la  successione  a Caponnetto  alla  guida  dell’ufficio  istruzione  si  candidarono  Falcone  e  Giovanni  Meli,  di  lui  molto  più  anziano  ma molto meno qualificato per le inchieste sulla mafia. Con una votazione sul filo di lana (15 luglio 1988), il Csm optò per  Meli,  dopo  aspre  polemiche  destinate  a  rinnovarsi,  con  l’attiva  partecipazione  prima  di  Borsellino  e  poi  dello stesso  Falcone,  quando  Meli  sembrò  puntare  su  un  sostanziale  smantellamento  del  pool,  con  l’abbandono  dei  suoi metodi  di  azione  integrata  in  favore  di  una  metodologia  antica,  formalista  e  burocratica.  Su  un  analogo  terreno  si svilupparono nel 1990­91 i conflitti tra Falcone e il procuratore generale Pietro Giammanco. Così, Falcone, Borsellino e diversi altri impegnati sul fronte dell’antimafia ebbero l’impressione di una mancanza di compattezza delle istituzioni e delle forze politiche; come di un sabotaggio. Paradossalmente, era come se il grande successo del maxiprocesso nascondesse sotto di sé il rischio o la realtà di una sconfitta. Sembrava che il vecchio fosse in grado di soffocare il nuovo con la semplice forza d’inerzia. Sembrava che il nuovo potesse salvaguardare se stesso solo  alzando  permanentemente  la  temperatura  del  dibattito,  perché  il  paese  trovasse  il  minimo  di  determinazione necessario per combattere la difficile battaglia contro «il nemico». Falcone dovette peraltro prendere atto che il gioco poteva anche ritorcersi contro di lui. Nel maggio 1990 Leoluca Orlando,  già  suo  grande  sostenitore,  lo  accusò  di  tenere  «nel  cassetto»  presunti  risultati  scottanti  di  indagini  sulla mafia «politica» (democristiana e particolarmente andreottiana). Orlando si preparava a uscire dalla Dc, voleva che il

fuoco  si  concentrasse  su  Lima.  Gli  andarono  dietro  molti  militanti  del  movimento  antimafia,  tra  cui  il  leader  del Coordinamento  antimafia  Carmine  Mancuso.  Falcone  ne  fu  molto  amareggiato.  Il  giornalista  Francesco  La  Licata riporta un suo commento: «Orlando ormai ha bisogno della “temperatura” sempre più alta. Sarà costretto a spararla ogni giorno più grossa. Per ottenere questo risultato, lui e i suoi amici, sono pronti a tutto, anche a passare sui cadaveri dei  loro  genitori»70.  Sciascia  era  appena  morto.  Non  posso  non  rilevare  come  questo  concetto  di  un’antimafia bisognosa  di  tenere  la  temperatura  artificialmente  elevata  corrispondesse  a  quello  richiamato  da  Sciascia  proprio  in polemica col Coordinamento antimafia. 6. Riina. Falcone fu l’elemento più rappresentativo dell’antimafia, così come Salvatore Riina detto Totò lo fu della mafia. La  qualifica  di  Capo dei capi  gli  è  stata  attribuita  da  una  massa  impressionante  di  testimonianze,  e  di  sentenze  dei tribunali della Repubblica (nonché, last but not least, da un libro e da una fiction televisiva)71. Prendiamone atto, ma senza  farne  una  professione  di  fede.  Non  so  quanto  si  possa  credere  che  un  singolo  individuo  abbia  interamente dominato  la  Cosa  nostra  palermitana  e  provinciale,  nonché  il  resto  della  rete  mafiosa  siciliana:  ivi  comprese  le  sue sezioni periferiche, i protettori politici, i consulenti e i soci in affari. Diciamo che il larghissimo ricorso alla violenza rese più forte in quella fase il vertice della gerarchia di Cosa nostra, che era appunto da Riina saldamente occupato. Sembra che quella di Riina fosse già alla metà degli anni settanta una figura controversa negli ambienti mafiosi. Buscetta  gli  attribuiva  il  poco  onorifico  soprannome  u  viddanu  (il  villano),  allusivo  non  solo  alla  sua  origine provinciale,  ma  anche  a  una  sua  rozzezza.  Il  pentito  Gaspare  Mutolo  racconta  che  il  vecchio  Di  Maggio  (lo  zio  di Salvatore Inzerillo) si riferiva a lui con tono di sufficienza: «Lui qui a Palermo che deve fare, se siamo tutti d’accordo. Lo prendiamo a calci nel sedere e lo rimandiamo a Corleone a fare crescere il grano»72. Però  lo  stesso  Mutolo  ci  dice  anche  del  grande  prestigio  di  cui  Riina  godeva.  Racconta  di  quanto  si  sentisse onorato nell’essergli assegnato come autista; e ce lo descrive come un uomo che, almeno fino al 1974­75, «nella sua ingenuità  è  sempre  stato  un  po’  dolce»73.  Sic!  Le  informazioni  fornite  da  Leonardo  Vitale  ci  propongono  un  Riina particolarmente  impegnato  sul  fronte  della  mediazione.  Incaricato  di  risolvere  una  controversia  tra  la  Famiglia  di Altarello­Porta Nuova e quella di Noce sull’esazione delle tangenti su una certa zona, diede un responso favorevole alla seconda ma rassicurò la prima che comunque avrebbe «assaggiato» qualcosa74. Calderone ci dice che nel 1977 i corleonesi  conquistarono  i  vertici  dell’organizzazione,  a  scapito  di  Badalamenti,  capitanando  la  protesta  di  chi  era escluso dalla redistribuzione dei profitti (crescenti) del narcotraffico. Nel corso delle sue conversazioni intercettate in carcere, Riina l’ha raccontata così: «In Cosa nostra siamo arrivati a un punto che i soldi ce li tiravamo in faccia, i soldi a Palermo ce li tiravano in faccia […], mentre quelli più scarsi più disgraziati furono». Ovvero: persino nella fase alta del business mafioso gli elementi più deboli venivano tagliati fuori. E ha illustrato la sua alternativa: «Perché io non devo dare niente a nessuno? […] Collabora, dai una mano a tutti»75. Consideriamo questo come il programma politico redistributivo  dello  «schieramento»  (la  precisazione  terminologica  è  di  Buscetta)  corleonese,  ma  che  aveva  molti aderenti a Palermo nonché in vari paesi della provincia. La  vittoria  di  questo  schieramento  sradicò  molti  degli  antichi  poteri  che  abbiamo  definito  dinastici  del  vecchio agro palermitano: gli Inzerillo di Passo di Rigano (ne rimasero solo negli Stati Uniti), e i Bontate di Santa Maria di Gesù76.  Sempre  nelle  chiacchere  rubategli  in  galera,  Riina  ricorda  Stefano  Bontate.  «Questo  Stefano  era  ricco  di famiglia,  lo  sa  era  ricco  di  prima,  prima  che  lui  era  nato  era  ricco  di  suo  padre  e  dei  suoi  zii»77.  Ne  sottolinea sarcasticamente  l’appartenenza  massonica,  nodo  di  collegamento  con  il  potere  «di  sopra»:  «Questo  signor  Stefano Bontate,  capo  dei  capi,  che  comandava,  che  dirigeva  …  capo  siciliano  della  massoneria».  Si  sente  fiero  di  aver distrutto lui e il vecchio establishment: gente che «sfruttava a suo padre, sfruttava la comunità, sfruttava i beni di una vita». Lui che ha perso suo padre quando aveva solo tredici anni, finito in galera a soli diciott’anni, si auto­interpreta alla luce del proverbio: «Il cielo mi ha buttato e la terra mi ha abbeverato»78. Dal carcere, Riina rivendica anche il proprio rifiuto di trattare con chi è «scappato» oltreoceano, ivi compreso il grande boss del passato, Salvatore Greco «ciaschiteddu»: «era una potenza», ammette, però, se sei «un capo­mafia … tu non puoi lasciare […], tu sei uno qua e devi dare soddisfazione a noialtri […]. Ma che parli? Ma che fai? Vatti a fare lo scappato»79.  Nel  1985  fece  uccidere  un  altro  Greco,  Pino  Greco  scarpuzzedda  (che  sembra  fosse  parente  di Michele  Greco),  il  quale  pure  aveva  svolto  un  ruolo  importante,  quale  killer,  nei  grandi  delitti  del  1979­82.  Fece eliminare molti altri dei suoi alleati della prima ora80. Al suo alleato Michele Greco invece pensò la legge, mettendolo dietro le sbarre nel 1986. Alla fine anche i Greco sparirono da Ciaculli. Altri due esempi di rottura di tali continuità possiamo fare, dal finale meno tragico. Il primo è quello della famiglia Pennino (cui già abbiamo accennato), insediata da un secolo nel quartiere palermitano di Brancaccio e al vertice dei

suoi  organigrammi  mafiosi.  Molto  ne  sappiamo  grazie  alla  testimonianza  di  Gioacchino  Pennino,  che  cominciò  a collaborare  con  le  autorità  nel  199481,  e  alle  ricerche  storiche  di  Manoela  Patti.  Ne  propongo  così,  sia  pure sinteticamente, la storia su tre generazioni: quella del pentito, Gioacchino Pennino (nato nel 1938), che chiameremo terzo; quella di suo padre Gaetano (nato nel 1903) e di suo zio, anche lui di nome Gioacchino (nato nel 1908), che chiameremo secondo; quella di suo nonno, sempre di nome Gioacchino (nato nel 1864), che chiameremo primo. Gioacchino Pennino primo cominciò come operaio. Però fu protagonista di una vigorosa ascesa sociale che ebbe un’accelerazione nel primo dopoguerra, quando si impadronì con i suoi accoliti dei beni di un barone. Non risparmiò la violenza: fu accusato ad esempio di aver organizzato un assalto a fucilate contro le donne (la moglie e due bambine) di  un  concorrente  –  alla  faccia  dei  valori  onorifici  della  mafia  antica.  La  polizia  riteneva  che  gestisse  la  «cassa» dell’organizzazione. Al 1928 era divenuto un agiato proprietario, di aziende agrumetate, imprese varie e anche di un villino  settecentesco,  ragion  per  cui  lo  si  vedeva  inserito  nella  classe  dirigente,  fianco  a  fianco  di  autorità  civili  e religiose,  di  «cavalieri  e  commendatori,  professori  e  dottori»  in  occasione  delle  feste  della  borgata.  Quando  fu imputato  nel  processo  contro  la  cosca  di  Santa  Maria  di  Gesù,  usufruì  della  testimonianza  a  discarico  di  molti proprietari, persino del maresciallo dei carabinieri, e se la cavò con tre anni. Come lui fu processato anche il figlio Gaetano. Abbiamo già detto come i due siano stati subito dopo accusati, al fianco di Vincenzo Lima (padre di Salvo), per il tentato omicidio del boss Mingoia82. Negli anni sessanta il ruolo di capo­Famiglia di Brancaccio toccò a Gioacchino Pennino secondo, che troviamo al centro di un fitto network di relazioni mafiose e politiche, e di importanti inchieste della polizia. Buscetta si è risolto a parlarne solo nei primi anni novanta, come di un suo grande amico e sodale. Gioacchino terzo fu affiliato in età adulta, intorno ai quarant’anni, e con una metodologia particolare, tendente a mantenerla segreta, la sua affiliazione, anche all’interno di Cosa nostra, almeno ai ranghi inferiori. Perché? Forse per lasciargli più spazio per muoversi nel mondo «di  sopra».  Era  un  medico  (come  il  vecchio  Allegra!),  titolare  di  laboratori  di  analisi,  iscritto  alla  massoneria,  e ricopriva  ruoli  di  responsabilità  nella  Cisl.  Nella  Democrazia  cristiana,  apparteneva  alla  corrente  di  Lima  sebbene dovesse malvolentieri (spinto dai leader di Cosa nostra) sostenere anche quella di Ciancimino. Diresse la sezione Dc di Ciaculli, che ci viene descritta a esclusiva trazione mafiosa. Quando  Bontate  e  Inzerillo  vennero  fatti  fuori  e  cominciò  la  mattanza,  vedendo  che  «i  vecchi  [venivano]  tutti trucidati»,  Gioacchino  terzo  temette  per  la  vita  di  suo  zio,  Gioacchino  secondo,  e  anche  per  la  propria.  Dovette mettersi a disposizione di Provenzano, cui toccava per i corleonesi la gestione delle relazioni politiche. Maggiormente si  fidava  di  Pino  Greco  scarpuzzedda,  che  gli  spiegò:  «simo  tutti  ’nta  stissa  pignata»,  siamo  tutti  nella  stessa pentola83. Però, come abbiamo detto, quest’altro Greco finì lui stesso assassinato. Riina evidentemente ritenne che le rispettive pignate fossero differenti. Pennino si sarebbe risolto a collaborare con le autorità nel 1994. Il secondo caso di rampollo di élite mafiosa, però originaria della provincia, è quello di Angelo Siino, passato a collaborare  con  le  autorità  nel  1997.  Parliamo  anche  della  sua  storia,  per  come  lui  stesso  l’ha  raccontata  in un’intervista. Siino nasce nel 1944 a San Giuseppe Jato (provincia di Palermo, a sud­ovest del capoluogo) e la famiglia è di capi­ mafia per parte di madre. Suo nonno appunto materno, Giuseppe Celeste, è stato ucciso nel 1921. Noi già conosciamo il fratello di suo nonno, Salvatore Celeste, confinato sotto il fascismo, nominato sindaco di San Cipirrello all’arrivo degli  alleati,  indicato  da  Buscetta  come  il  capo  della  Famiglia  di  cui  faceva  parte  Salvatore  Giuliano.  Intrigante  il quadro d’ambiente che Siino ci restituisce a partire da questa figura: Era  un  personaggio  che  già  per  censo  stava  benissimo,  anche  perché  nella  sua  famiglia  erano  dei  grossissimi  proprietari terrieri e di animali. Ho ancora l’atto di eredità di mia madre, dove le lasciavano 400 ettari di terreno, 3000 vacche e 30 000 pecore. Questo prozio era un grosso borghese che conosceva molti nobili. Non immaginate cosa succedeva in queste famiglie, tragedie greche, uccisioni continue … Ci sarebbero da scrivere tomi84.

Altro  che  i  pecorai  o  i  delinquenti  di  ora,  commenta  l’erede…  Era  gente  che  conosceva  altri  linguaggi,  oltre  a quello  della  forza.  Se  non  che,  «a  un  certo  punto  c’è  stata  l’involuzione  che  è  cominciata  dal  dopoguerra  fino  ad arrivare  ai  livelli  minimi  di  ora».  Siino  tiene  a  dirci  che  lui  stesso,  alla  pari  del  prozio  capo­mafia,  si  è  formato  a cavallo tra due mondi. Solo che l’ha fatto cinquant’anni e due generazioni più tardi di lui, quando «il mafioso tizio, [già]  amministratore  del  principe  caio,  del  barone  sempronio»,  aveva  già  preso  il  sopravvento,  e  accadeva  che  lui stesso, pur frequentando rampolli di nobili casate, avesse più soldi in tasca di loro. Il padre «si era creato un piccolo feudo nell’Ente di sviluppo agricolo», tipico carrozzone regionale derivante dalle leggi di riforma fondiaria del 1950, «e tutti i lavori dell’Ente li facevamo noi», grazie anche alla discreta protezione del parente capo­mafia. Affarismo e aggancio con la Democrazia cristiana85. In questi luoghi Angelo Siino investe una parte importante del suo capitale, la «capacità di relazione» tra i diversi soggetti impegnati a mandare avanti la macchina affaristica. Il prozio gli raccomanda di non lasciarsi affiliare. Si tratta

di  un’altra  variante  della  strategia  adottata  per  Pennino:  il  mafioso  ben  inserito  nei  circoli  sociali  che  contano  va sottratto  a  controlli  mafiosi  troppo  rigidi,  è  opportuno  che  abbia  le  mani  più  libere.  Siino  così  può  inventare  un sistema, poi divenuto proverbiale, per la spartizione ordinata degli appalti pubblici e delle tangenti: 2 per cento alla mafia, 2 per cento ai politici, 0,50 per cento agli organi di controllo. Lo chiamano «il ministro dei lavori pubblici» di Cosa nostra. A chi gli chiede perché non sia stato ammazzato nel momento più caldo, come tanti altri che si trovavano in  posizioni  analoghe  alla  sua,  ha  risposto:  «perché  non  avevo  mai  interessi  precisi»,  ovvero  personali,  nella redistribuzione  che  organizzavo86.  Il  notabile  della  mafia  si  era  messo,  o  era  stato  messo  ai  servigi dell’organizzazione. Viene arrestato nel 1991. In  conclusione,  qualcos’altro  abbiamo  capito  dell’escalation  mafiosa,  nella  quale  gli  elementi  di  rottura  si sovrapposero  a  quelli  di  continuità.  Nel  1989  la  storica  Giovanna  Fiume  chiese  a  Falcone  una  valutazione  appunto storica. Falcone rispose che, rispetto al passato, ai vertici delle cosche c’era una maggior percentuale di elementi di estrazione  più  propriamente  criminale,  anche  se  nei  luoghi  di  maggiore  tradizione,  in  certi  paesi  e  nelle  borgate palermitane,  vi  si  trovavano  pur  sempre  «individui  molto  influenti,  proprietari  terrieri,  grossi  imprenditori»87. Parafrasando  Franchetti,  possiamo  parlare  di  un  processo  di  democratizzazione  della  violenza,  dell’accesso  di elementi di più basso rango sociale agli alti gradi della mafia. Rifletteva d’altronde quanto molto più in generale era avvenuto  nella  società  siciliana:  l’esaurimento,  magari  più  lento  che  altrove,  del  potere  della  grande  proprietà fondiaria,  che  della  mafia  era  stata  modello,  interfaccia,  protettrice.  L’organizzazione,  che  si  era  mantenuta  per  un secolo e più all’ombra di quel potere sociale, si trovò a fare i conti con se stessa. Si svilupparono al suo interno spinte a  una  brutale  omologazione.  Ne  fecero  le  spese  le  gang  intercontinentali  e  il  notabilato  che  nelle  singole  Famiglie rappresentava il lascito del passato. Chiudiamo ancora con Riina. Mi fa pensare a un sottufficiale «di colore» di un esercito coloniale, che al momento della decolonizzazione, mentre l’antico potere che l’ha reclutato si disintegra, si trova una forza a disposizione, e la utilizza in proprio, contro la borghesia compradora. 1 Ayala 1988, p. 15. 2 Falcone ­ Fiume 1989, p. 202. 3 Violante 1994, p. 37. 4 Lo si veda in La Torre 1982, pp. 25­9. 5 G. Bocca, Come combatto contro la mafia, in «la Repubblica», 10 agosto 1982. 6 Di Lello 1994, p. 169. 7 Blumenthal 1988, pp. 221 e 236. 8 Cito da un’intervista da lui concessa l’8 novembre 2007 alla mia allieva Maria Simona Gargano. 9 Tra le ricostruzioni di quella tragica sequenza scelgo quella di Lodato 1992, pp. 159 sgg. 10 Orlando 1990, p. 170. 11 Il suo intervento in Pintacuda 1972, pp. 49­50. 12 Dolci 1966, p. 278. 13 Blando 1996; Santino 2000, pp. 245 sgg. 14 Lodato 1992, pp. 171­2. 15 Il modello mafia, in «Segno», 1982, 33, p. 6. 16 Chinnici 1990, p. 44. 17 Aveva aderito al comitato per il divorzio in occasione del referendum del 1974, sostenne nel 1979 il collega Giovanni Rizzo, presentatosi alle

elezioni come indipendente nelle liste del Pci. L’associazione di cui faceva parte, «Terza posizione», era comunque rappresentativa di una corrente centrista della magistratura. 18 Cfr. la cronaca della manifestazione degli operai dell’azienda Lesca in «L’Ora», 1° febbraio 1986. 19 Battiato ­ Vara 1993, p. 23. 20 P. Guzzanti, «Palermo, una città modello», in «la Repubblica», 10 settembre 1982. 21 Borsellino, Prefazione a Chinnici 1990, p. 12. 22 Cfr. ad es. l’obiezione dell’avv. Fragalà, in Testimonianza Buscetta B, III, pp. 62­3. 23 Testimonianza Buscetta B, p. 37. 24 Ibid., p. 28. 25 Di Piazza 2010, pp. 47­8. 26 Arringa di Robert Stewart, in United States v. Badalamenti, pp. 148­9; dichiarazione di Louis Freeh, cit. da F. J. Prial, Judge Orders in Pizza Case, in «New York Times», 23 giugno 1987. 27 A parlare sono Salvatore Santoro e Sal Avellino, in data 28 marzo 1983. Traggo la citazione da Raab 2007, p. 259. 28 Alexander 1988, p. 43.

29 A. H. Lubash, Drug Defendant Termed Ex­Boss of Sicilian Mafia, in «New York Times», 31 ottobre 1985; e Id., Pizza Case Figure Called

Opponent of Drug Dealing, ivi, 8 novembre 1985. 30 Id., Drug Defendant Reticent of Mafia Past, ivi, 19 ottobre 1986. 31 Lettera cit. del 13 marzo 1964, in GWP. 32 Il testo dell’interrogatorio è riportato in Istruttoria Sindona, pp. 257­83 e in particolare pp. 265 e 271. 33 Blumenthal 1988, pp. 51­2. 34 Cito dai brani dell’arringa di Kennedy del 24 ottobre 1985, riportati in Alexander 1988, pp. 30­2. 35 Cit. ibid., p. 32. 36 Arlacchi ­ Dalla Chiesa 1987, pp. 78 sgg. 37 Pansa 1986. 38 Si veda il discorso nella cronaca fattane da «L’Ora», 30 gennaio 1986. 39 Si veda ad esempio G. Lo Porto, Se  la  lotta  alla  mafia  diventa  un  grande  spettacolo,  in  «Giornale  di  Sicilia»,  16  novembre  1986,  poi  in Monti 2007, p. 37. S. Scarpino, Cosa nostra cosa loro, in «Il Giornale», 10 gennaio 1986. 40 Mellini 1986, p. 78. 41 Ibid., p. 140. 42 Jannuzzi 1986. 43 Pantaleone 1985. 44 «Corriere della Sera», 27 dicembre 1987, ora in Sciascia 1989, pp. 147­9. 45 Sciascia, Prefazione a Jannuzzi 1986, pp. 9 e 10. 46 «Corriere della Sera», 19 settembre 1982, p. 46. 47 Biagi 1986, p. 97. 48 «Corriere della Sera», 2 gennaio 1987, in Sciascia 1989, p. 119. 49 Si veda ancora la Prefazione a Jannuzzi 1986, p. 8, e gli articoli in «Corriere della Sera», 18 aprile 1986 e su «Panorama», 7 settembre 1986, in Sciascia 1989, pp. 97­109 e 115­8. 50 «Corriere della Sera», 10 gennaio 1987, in Sciascia 1989, pp. 123­30. 51  Si  veda  la  successiva  testimonianza  di  uno  degli  autori  del  manifesto,  Francesco  Petruzzella,  intervistato  da  A.  Bolzoni,  Fui  io  a  dare  a Sciascia del quaquaraquà, in «la Repubblica», 7 gennaio 2007. 52 In «Corriere della Sera», 14 gennaio 1987, ora in Sciascia 1989, p. 131. 53 In «la Repubblica», 31 marzo 1989. 54 Arlacchi 1983. 55 Istruttoria Spatola, p. 365. 56 Ibid., p. 485. 57 Ibid., p. 365 e passim. 58 Ibid., pp. 599 e 787. 59 Si chiamava Giovanni Lo Monte. Ibid., pp. 493 sgg. 60 Istruttoria maxiprocesso, p. 288. 61 Testimonianza Buscetta A, p. 5. 62 Istruttoria maxiprocesso, p. 39. 63 Falcone 1991, pp. 67­8 e passim. 64 Falcone ­ Fiume 1989, p. 209. 65 Falcone 1994, p. 278. 66 Ibid., p. 228. 67 Ibid., p. 321. 68 Falcone 1991, p. 169. 69 O. Fumagalli Carulli, Maccartismo a Palermo, in «Il Giornale», 19 novembre 1988, in Monti 2007, pp. 125­7. 70 La Licata 1993, p. 166. 71 Il libro: Bolzoni ­ D’Avanzo 2017. Il film è andato in onda su Canale 5 tra ottobre e novembre 2007. 72 Testimonianza Mutolo, p. 1231. 73 Intervistato in Gruppo Abele 2005, p. 324 (corsivo mio). 74 Istruttoria maxiprocesso, pp. 79­80. 75 Intercettazioni Riina, p. 55. 76 Giovanni Bontate, fratello di Stefano, accordatosi coi vincitori nel 1981, nel 1988 finì ammazzato pure lui. 77 Intercettazioni Riina, p. 48. 78 Ibid., pp. 33 e 48. 79 Ibid., p. 55. 80 Tra cui l’altro super­killer Mario Prestifilippo, parente e amico di Scarpuzzedda, assassinato nel 1987. 81 Mi riferisco sia alla testimonianza in Istruttoria Andreotti, pp. 791 sgg., sia alla sua intervista in Gruppo Abele 2005, pp. 334­48.

82 Patti 2014, pp. 171 sgg. 83 Gruppo Abele 2005, pp. 341­2. 84 Ibid., p. 350. 85 Ibid., pp. 351­3. 86 Ibid., p. 356. 87 Falcone ­ Fiume 1989, p. 200.

XIV. Epilogo

La  storia  dell’incontro  tra  Stefano  Bontate  e  Giulio  Andreotti  nel  1980  può  essere  vera  o  no.  In  ogni  caso,  non credo  che  il  boss  abbia  davvero  detto  al  senatore:  non  ci  date  fastidio,  perché  sennò  leveremo  alla  Dc  i  voti  della Sicilia  e  di  tutto  il  Mezzogiorno.  Magari  avrà  pronunciato  frasi  di  quel  genere  all’uscita,  rivolgendosi  ai  gregari rimasti fuori dall’uscio, per vantarsi. Sembra che, sette anni dopo, Riina abbia provato a mettere in atto una minaccia di quel genere. Era il 1987, non sapeva come rispondere all’inesorabile incedere delle udienze del maxiprocesso, ed erano  in  vista  le  elezioni  nazionali  (giugno).  Avrebbe  così  ordinato  che  i  voti  controllati  dall’organizzazione  si spostassero dalla Dc verso il garantismo di socialisti e radicali, in particolare favorendo Claudio Martelli, numero due del Partito socialista, alfiere di Craxi. Stavolta gli spostamenti ci furono, ma non certo dell’ordine delle centinaia di migliaia di voti che si diceva fossero sotto controllo mafioso: a Palermo i socialisti crebbero del 6,6%, i radicali del 3%, con punte più elevate nei quartieri più esposti all’influenza mafiosa (i radicali conseguirono un +7% nel carcere cittadino dell’Ucciardone)1. (Tra l’altro, essendo il successo degli uni e degli altri di dimensione generale­nazionale, è difficile dire quanto questo dato palermitano fosse dovuto alle strategie di Riina). Si confermò il concetto che abbiamo già in precedenza esposto: la mafia non sa utilizzare la leva elettorale per spostare macigni politici, nemmeno nella sua roccaforte palermitana. Così,  nel  1988,  fece  ancora  ricorso  al  terrore  nel  tentativo  di  condizionare  la  politica,  con  l’assassinio  di  un democristiano, l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco. Seguendo le stesse logiche si mosse sul fronte giudiziario. Dopo  le  dure  condanne  inflitte  dalla  corte  al  maxiprocesso,  in  vista  dei  giudizi  di  appello  e  della  Cassazione,  non trovò di meglio che assassinare due magistrati, Antonino Saetta e Antonino Scopelliti. Una strategia diversa avrebbe avuto bisogno del contributo di Salvo Lima, antico trait d’union con i palazzi romani. Ma costui in pubblico mostrava di  approvare  la  linea  dura  seguita  dal  governo,  e  solo  parlando  in  privato  con  Marco  Pannella  insisteva  sul  tasto garantista: «non ti nascondo che sono molto preoccupato. Li si tratta con ferocia, contro quel che dettano la legge e le leggi  nostre.  Come  sorprendersi  se  ritenessero  di  dovere  loro  reagire  con  la  ferocia  delle  bestie?»2.  Nel  frattempo, almeno stando ai pentiti, assicurava i boss che la Cassazione avrebbe annullato la sentenza, che le cose sarebbero state aggiustate dallo «zio» Giulio, Andreotti insomma. Invece lo zio Giulio, dal 1989 per l’ennesima volta alla guida del governo, non mosse un dito per loro e anzi lasciò che Martelli – suo ministro guardasigilli – chiamasse a Roma Falcone, assegnandogli la carica di direttore dell’ufficio Affari penali presso il ministero di Grazia e giustizia. Era il marzo del 1991. 1. I bagliori di Capaci. Io la direi così: Falcone aveva deciso che non voleva essere un «profeta disarmato». Sceglieva un alleato potente come Martelli sapendolo interessato a qualificarsi davanti all’opinione pubblica come avversario della mafia. E non aveva remore a puntare su Roma, tirandosi fuori dagli incancreniti conflitti del «palazzo dei veleni» palermitano, per ottenere i risultati generali di politica giudiziaria che considerava ineludibili. Insediatosi in quella posizione centrale, cominciò a pensare a una modifica del sistema carcerario tale da interrompere la comunicazione tra i boss detenuti e le loro truppe sul territorio. E avviò un cosiddetto «monitoraggio» della divisione del lavoro tra le sezioni della Corte di Cassazione, inteso a evitare che i processi per mafia finissero tutti in quella presieduta da Corrado Carnevale – il quale già in passato aveva destato scandalo annullando sentenze considerate solide. L’operazione era urgente, perché era in vista il vaglio di quella del maxiprocesso, che in effetti non toccò a Carnevale. Falcone mise certo nel conto la possibilità di un contrasto con molti dei suoi tradizionali amici e sostenitori. Come si ricorderà, aveva già fatto l’esperienza con Orlando, il quale aveva lamentato che le indagini sull’andreottiano Lima fossero rimaste nel chiuso dei suoi «cassetti». Ora, andando a collaborare col governo, rischiava la collisione con chi temeva che il controllo dell’esecutivo sulla magistratura si risolvesse in un bavaglio alla giustizia. Finì in particolare sotto il fuoco delle critiche, per questa ragione, il suo progetto di una Procura nazionale antimafia. Quando si trattò di nominare il procuratore (febbraio 1992), il Csm gli preferì Agostino Cordova. Però nel frattempo la Cassazione (gennaio 1992) aveva confermato definitivamente la sentenza del maxiprocesso, sancendo  un  risultato  di  portata  storica.  La  leadership  corleonese,  viste  smentite  le  pseudo­garanzie  di  impunità

propinate al popolo di Cosa nostra, decise di reagire con i metodi che meglio conosceva: annientando il nemico. Il 23 maggio  del  1992,  sull’autostrada  tra  l’aeroporto  di  Punta  Raisi  e  Palermo,  in  prossimità  dello  svincolo  di  Capaci, un’apocalittica esplosione pose fine alla vita di Falcone, della moglie Alessandra Morvillo e di tre poliziotti di scorta. In quel tragico momento la storia della mafia andò a intrecciarsi con la storia d’Italia in maniera indistricabile, come mai era successo. La Repubblica si trovava già in una situazione di crisi politica e morale senza precedenti. Qualche mese prima (17 febbraio),  all’altro  capo  del  paese  (Milano),  Mario  Chiesa,  elemento  di  medio  livello  della  macchina  politica socialista,  era  stato  beccato  con  le  mani  nel  sacco  mentre  intascava  una  tangente.  Da  quell’episodio  minore,  ma sintomatico di un sistema di corruzione, derivò il grande scandalo di Tangentopoli; che, unendosi a quello – diciamo così  –  di  Mafiopoli,  ingigantì  il  bisogno  di  riscatto,  la  domanda  di  una  politica  nuova  e  migliore.  Di  una  seconda Repubblica, si disse allora ed è stato detto anche in seguito (non so quanto in maniera congrua). Andreotti aveva appena lasciato la guida del governo e Francesco Cossiga la presidenza della Repubblica. A soli due  giorni  dalla  strage  di  Capaci,  fu  sorprendentemente  eletto  alla  prima  carica  dello  Stato  Oscar  Luigi  Scalfaro, tutt’altro che un uomo nuovo (era un democristiano che aveva fatto parte dell’Assemblea costituente), ma che nuovo apparve, perché estraneo al «giro» del cosiddetto Caf (Craxi­Andreotti­Forlani). Scalfaro impose a Craxi di dare il via libera, per la guida del governo, a Giuliano Amato, socialista sì, ma non coinvolto nelle inchieste, il cui profilo tecnico sembrava utile per controbilanciare la dilagante crisi di sfiducia nei partiti. Nel dicembre, Craxi avrebbe ricevuto dagli inquirenti milanesi un avviso di garanzia; nel febbraio dell’anno seguente, avrebbe abbandonato la direzione del Psi. Nel  frattempo  a  Palermo  Cosa  nostra  aveva  sferrato  il  suo  secondo  colpo.  Il  19  luglio  1992,  un  altro  attentato dinamitardo  uccise  Borsellino  sotto  casa  della  madre  in  via  d’Amelio,  e  con  lui  caddero,  ancora,  i  poliziotti  della scorta.  Perché  tutto  fosse  chiaro  Riina  &  C.  uccisero,  oltre  ai  due  nemici  rivelatisi  troppo  capaci,  anche  due  amici rivelatisi incapaci: Lima il 12 marzo, Ignazio Salvo il 17 settembre. Lo  stesso  Antonio  Caponnetto,  al  funerale  di  Borsellino,  si  lasciò  sfuggire  uno  sconsolato  «è  tutto  finito».  Le modalità degli attentati di Capaci e via d’Amelio erano – io credo – studiate appositamente dalla leadership di Cosa nostra per celebrare la propria potenza di fronte al mondo, tirare su il morale alla truppa, atterrire e/o scoraggiare i nemici. In carcere, i mafiosi detenuti brindarono a champagne al 2­0 inflitto allo Stato. Nondimeno, toccò proprio a loro  fronteggiare  la  risposta,  in  una  sequenza  azione­reazione  che  stavolta  fu  serratissima.  Il  Parlamento  varò  i provvedimenti lungamente richiesti da Falcone, un regime carcerario speciale per i detenuti di mafia (articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario). Il giorno stesso della morte di Borsellino Martelli decretò il trasferimento di centinaia di loro, destinazione le isolette di Pianosa e dell’Asinara, le «carceri speciali» in cui erano stati rinchiusi i brigatisti: il blitz fu realizzato alle tre di mattina del 20 luglio, con uno spettacolare spiegamento di forze3. Un paio di giorni dopo, Amato  ordinò  la  cosiddetta  «operazione  Vespri  siciliani»,  cioè  il  dispiegamento  di  reparti  dell’esercito  nelle  strade siciliane, a difesa di obiettivi sensibili. Ci voleva qualcuno che assumesse il ruolo di procuratore capo a Palermo. Si candidò, e fu in effetti nominato dal Csm,  Giancarlo  Caselli,  il  magistrato  torinese  cui  abbiamo  già  accennato  per  la  sua  esperienza  nel  contrasto  alle Brigate  rosse.  Caselli  era  in  buona  relazione  con  il  colonnello  Mario  Mori,  vice­comandante  del  Ros  (Reparto operativo  speciale)  dei  carabinieri,  che  lo  informò  della  «caccia  senza  quartiere  ai  grandi  boss  latitanti»  in  atto4. Appena arrivato a Palermo, apprese la grande notizia: il super­boss, Totò Riina, era stato preso appunto dai carabinieri del Ros in una via del centro di Palermo. Era 15 gennaio del 1993. Non  per  questo  finì  l’offensiva  di  Cosa  nostra  che  anzi,  nel  corso  del  1993,  assunse  una  veste  clamorosamente innovativa.  Attentati  dinamitardi  andarono  a  colpire  illustri  monumenti  nel  continente,  a  Firenze  il  27  maggio,  a Milano e Roma il 27 luglio, distruggendo vite umane e valori culturali insostituibili. Altri attentati (ad esempio quello al giornalista Maurizio Costanzo) fallirono di un pelo. Poi  l’offensiva  si  placò.  Provenzano  rimase  uccel  di  bosco  ma  molti  altri  boss  furono  arrestati.  Cito  tra  gli  altri Leoluca  Bagarella,  altro  rappresentante  della  triade  corleonese  nonché  cognato  di  Riina;  Giovanni  Brusca,  erede  di una dinastia mafiosa di San Giuseppe Jato da sempre alleata con Riina, killer di straordinaria efferatezza, colui che materialmente aveva provocato l’esplosione di Capaci. Diversi di questi membri della fazione filo­corleonese decisero di collaborare con la giustizia; alcuni cambiarono fronte immediatamente dopo essere stati arrestati. Lo smottamento, cominciato  già  prima,  accelerò  dopo  il  1992,  tanto  che  Franco  La  Licata,  uno  dei  più  acuti  cronisti  del  fenomeno mafioso,  ha  parlato  di  una  «diserzione  di  massa»5.  Questo  molto  ci  dice  degli  sconvolgimenti  provocati  dalla  linea stragista nella «politica interna» di Cosa nostra. Una fase storica finì. Magari potremmo persino indicare il momento esatto, quel 15 settembre 1993, quando Pino Puglisi,  parroco  del  quartiere  palermitano  di  Brancaccio,  fu  punito  con  la  morte  dai  boss  locali  per  essersi pubblicamente  schierato  contro  la  mafia.  Da  allora,  Cosa  nostra  non  ha  più  ha  ucciso  a  Palermo  in  base  a  logiche simboliche, propagandistiche, in senso lato politiche. Aggiungiamo che i mafiosi non si sono più neanche ammazzati

tra loro così di frequente. In città (ma anche in altre aree della Sicilia), ci sono stati anni in cui non si è avuto nemmeno un omicidio per causa di criminalità organizzata: credo che in nessun’altra fase del centocinquantennio unitario si sia registrato un dato del genere. Si consideri d’altra parte il dato proposto dal magistrato Gioacchino Natoli: dal 1993 al 2006 nel solo distretto di Palermo si sono avute oltre 450 condanne all’ergastolo per fatti di mafia, contro una decina appena nei cento anni antecedenti il maxiprocesso6. Riina, arrestato appunto nel 1993, è morto in carcere nel 2017; come  è  accaduto  a  Michele  Greco  e  a  diversi  altri  boss.  Un  gran  numero  dei  mafiosi  imprigionati  in  quella  fase  si trova ancora dietro le sbarre. La durezza della repressione è stata senza precedenti. Possiamo ragionevolmente ricondurla alla scelta terroristica fatta con sempre maggiore pervicacia da Cosa nostra a partire dal 1979 (la fase di cui abbiamo parlato nei due precedenti capitoli), e ancor più nel 1992­93 (quella di cui ci siamo occupati nel capitolo presente). La drammatica escalation realizzò l’effetto di compattare il fronte antimafia e di disgregare il fronte mafioso stesso, incrementando il pentitismo. Forse la repressione ha colpito di meno le altre mafie italiane, la camorra o la ’ndrangheta, proprio per questo: perché non si sono incamminate sulla strada del terrorismo. Forse  per  questo  oggi  esse  hanno  potuto  superare  la  mafia  doc  nei  mercati  illegali  internazionali,  e  appaiono  in generale più minacciose. Influisce peraltro anche la crisi profonda, senza precedenti, in cui è precipitata Cosa nostra americana  (la  quale,  pure,  si  è  sempre  mantenuta  estranea  a  logiche  terroristiche).  Anche  qui  sono  finiti  in  galera leader e gregari in quantità, e tra loro l’ultimo vero boss, John Gotti, che vi è morto nel 2002. Joseph Massimo, capo della Famiglia Bonanno, arrestato nel 2003, ha addirittura scelto di collaborare con le autorità. Si può dire che a New York il sistema delle cinque famiglie con relativa Commissione non esista più. Facciamo  un  passo  in  avanti  e  arriviamo  all’11  aprile  del  2006,  quando  fu  catturato  Bernardo  Provenzano.  Era l’ultimo  boss  corleonese  a  piede  libero  e  veniva  considerato  il  successore  di  Riina.  Era  ben  protetto,  e  ci  volle  una complicata  caccia  all’uomo  perché  (finalmente)  venisse  preso.  Pochi  mesi  dopo  (giugno),  a  Palermo  le  forze dell’ordine  portarono  a  termine  l’«operazione  Gotha»,  scompaginando  appunto  il  Gotha  di  Cosa  nostra.  Seguì,  nel 2008, la brillante operazione congiunta tra Fbi e polizia italiana denominata Old Bridge,  da  cui abbiamo già  attinto molte  informazioni.  Le  due  fazioni  più  importanti  di  Cosa  nostra  palermitana  post­corleonese  erano  entrate  in contrasto  su  un  tema  che  sappiamo  così  rilevante  storicamente:  le  relazioni  tra  le  due  componenti  della  rete intercontinentale  mafiosa.  Bisognava  consentire,  come  richiesto  da  confratelli  d’oltreoceano,  il  ritorno  in  patria dall’America degli ultimi Inzerillo? O il ventennale esilio andava confermato, per evitare vendette, perché il traffico tra le due sponde non tornasse all’antica, eccessiva fluidità? Già si oliavano le armi quando le autorità intervennero arrestando  i  maggiorenti  di  entrambe  le  fazioni.  E  rivelando  quanto  entrambe  le  organizzazioni  già  segretissime  – Cosa nostra americana e Cosa nostra siciliana – fossero nel 2008 «aperte» davanti alle indagini e agli inquirenti. Questa  storia  della  mafia  potrebbe  finire  qui,  con  questi  successi.  Io  spero  che  il  futuro  non  ci  porterà  in  sorte nuove  stagioni  di  protagonismo  di  Cosa  nostra,  ma  si  tratta  appunto  di  una  speranza,  perché  lo  storico  non  è  –  per definizione – abilitato a prevedere il futuro. Piuttosto possiamo ragionare di un argomento che fa parte del territorio dello  storico,  quello  della  memoria.  Nel  venticinquennio  successivo  al  1992­93,  i  diversi  soggetti  coinvolti  si  sono molto affannati a rielaborare quei tragici eventi, per cercarvi un senso e una verità. Ragioneremo dunque di memoria dell’antimafia. E di memoria della mafia. 2. La memoria dell’antimafia. L’aeroporto palermitano di Punta Raisi è stato rinominato «Falcone e Borsellino». I turisti che da lì vanno in città attraverso l’autostrada non possono non vedere il grande monumento che si leva sulla curva in cui la strage di Capaci si è consumata. Il governo, la Fondazione Falcone, l’Associazione Libera organizzano ogni anno il viaggio di migliaia di  studenti  su  una  «nave  della  legalità»,  da  Civitavecchia  a  Palermo,  per  l’anniversario  del  23  maggio.  Questi confluiscono con altri, a Palermo, in una manifestazione che comprende una sosta all’aula­bunker dell’Ucciardone e una davanti alla casa del magistrato assassinato, dove è stato piantato un albero, detto appunto «albero di Falcone». C’è un grande concorso di autorità. Il 23 maggio rappresenta un po’ il punto culminante di un rituale che si ripropone negli anniversari della morte di Borsellino,  di  Dalla  Chiesa,  e  in  tanti  altri  giorni  dedicati,  in  manifestazioni,  rievocazioni,  commemorazioni,  nelle piazze, nelle scuole, nei tribunali e in altre sedi istituzionali, sui giornali e in televisione. Impossibile sapere quanti magistrati, prefetti, sacerdoti, giornalisti, studiosi a vario titolo, professori, membri di associazioni, comuni cittadini vi siano stati coinvolti. A Palermo innanzitutto, ma in Sicilia e in tutta Italia. Vengono ricordati i caduti delle istituzioni e anche quelli di un’antimafia che poco o niente aveva a che vedere con quella istituzionale. Gente come Pippo Fava e Peppino Impastato. O come Pino Puglisi, elevato al rango di santo dopo che in passato la Chiesa cattolica tante volte aveva mantenuto rapporti di tolleranza e buon vicinato con la mafia. E come  Libero  Grassi:  proprietario  di  un’impresa  palermitana  dell’abbigliamento  di  media  dimensione,  con  un  lungo

passato di presenza intellettuale e politica nell’area laica, tra repubblicana e radicale; uomo davvero libero, tutto d’un pezzo,  che  non  solo  si  rifiutava  di  pagare  il  pizzo,  ma  aveva  giustificato  la  propria  scelta  pubblicamente,  anche  in televisione. Prima che pagasse il più duro prezzo di sangue, il 29 agosto 1991, era stato trattato come un appestato dalle  associazioni  imprenditoriali7.  Dal  suo  sacrificio  è  nato  un  mutamento  epocale:  che  ha  visto  moltiplicarsi  le associazioni antiracket, la Confindustria isolana promuovere campagne contro il «pizzo», tanti imprenditori rifiutarsi di pagare e denunciare gli estortori, come mai era successo nelle zone di più antica infezione mafiosa. Devo peraltro segnalare il fenomeno della gelosa «privatizzazione» della memoria di alcune di queste figure, ad opera di specifici gruppi. È indicativo di fratture più vaste. Non sempre il richiamo ai valori dell’antimafia è comune ai  vari  schieramenti  politici  o  d’opinione:  non  sempre  è  trasversale  o  di  tipo  «repubblicano»,  per  richiamare espressioni  in  uso.  In  particolare,  il  nucleo  che  possiamo  definire  antimafia  militante,  o  anche  radicale,  non  vuole omologarsi con l’Italia ufficiale, si sente e vuole sentirsi forza di opposizione. Proviamo a chiarire questo concetto. La militanza  antimafia,  come  già  in  parte  sappiamo,  si  sviluppò  secondo  una  logica  emergenziale,  nei  momenti  più tragici,  come  quello  dell’assassinio  di  Dalla  Chiesa.  La  mobilitazione  collettiva  raggiunse  il  suo  picco  in corrispondenza con la micidiale sequenza del 1992­93. Però di seguito non smobilitò, anche se – come abbiamo detto – l’emergenza man mano venne meno, e la minaccia si attenuò. Tra  le  riflessioni  su  questo  movimento  segnalo  quella  degli  antropologi  americani  Jane  e  Peter  Schneider.  I  due rilevano  il  legame  con  un’altra  tradizione  politica  e  ideale  siciliana,  quella  del  conflitto  sociale,  politico  e  culturale postbellico, delle lotte per la terra e del movimento contadino; ma anche le grandi differenze, derivanti dalla natura borghese e intellettuale, post­materialista, di questa nuova fase. Tra i casi citati dai due studiosi, riprendo quello del «Comitato  dei  lenzuoli»:  gruppo  di  donne  che,  come  «spontanea  manifestazione  di  dolore  e  di  rabbia»,  dopo l’assassinio di Falcone stesero appunto ai balconi dei lenzuoli bianchi con scritte di protesta, coinvolgendo a macchia d’olio una parte sorprendentemente larga della città8. Segnalo che quello degli Schneider è un approccio simpatetico nei confronti della cultura isolana. Ragionano in termini di Reversibile Destiny, espressione che in italiano è stata resa come Destino reversibile9: la società siciliana, intendono dire, non è (come tanti hanno pensato, in Italia e all’estero) ineluttabilmente  schiacciata  da  codici  culturali  filo­mafiosi.  Ha  dimostrato  di  saper  generare  circuiti  nuovi  di comunità, di socialità, di partecipazione civile. Il  movimento  peraltro,  come  accade,  ha  provato  a  farsi  istituzione.  E  ha  assunto  carattere  nazionale,  oltre  che regionale­siciliano, andando a cumularsi con quelli intesi a combattere la corruzione politico­affaristica, ad agitare una più generale questione morale. Prendiamo il caso di Leoluca Orlando, che nel 1991, abbandonando la Dc, fondò la Rete  –  quella  cosa  nuova  che  voleva  concretizzare  il  suo  già  citato  progetto  di  abbandonare  la  «forma­partito» rendendo protagonista la «società civile»10. Aderì Claudio Fava, figlio nonché collaboratore di Pippo Fava, insieme a molti  altri  elementi  coinvolti  nel  moto  di  resistenza  degli  anni  precedenti.  Ma  anche  l’associazione  denominata appunto «Società civile», che dal 1985 a Milano faceva capo a Nando Dalla Chiesa, figlio del generale assassinato, nella  quale  operavano  magistrati  di  punta  come  Gherardo  Colombo.  Va  rilevato  comunque  che  alla  fine  la  Rete  fu, magari  suo  malgrado,  un  gruppo  politico  minore,  collocato  sul  versante  di  una  sinistra  più  o  meno  radicale,  che riscosse un discreto successo elettorale ma dopo qualche tempo scomparve. Più diretto e duraturo il modo in cui l’idea venne  concretizzata  da  don  Luigi  Ciotti,  sacerdote  che  già  aveva  assunto  un  ruolo  di  punta  nella  lotta  alle tossicodipendenze, che nel 1992 fondò la rivista «Narcomafie» e nel 1995 «Libera», la quale è appunto un network di centinaia  di  associazioni  variamente  ispirate  all’idea  del  contrasto  alle  mafie.  Un  moto  dal  basso  veramente imponente. Molti altri esempi potremmo d’altronde citare di persone, gruppi, associazioni, organi di stampa o luoghi della rete informatica che si sono ispirati e tutt’oggi si collocano sulla stessa linea. C’è  peraltro  un  aspetto  negativo,  di  cui  bisogna  prendere  atto;  magari  senza  eccedere  con  le  grida  di  scandalo, senza passare dall’esaltazione allo sconforto. La questione morale (l’antimafia questo è) ha rappresentato una risorsa identitaria importante ma troppo facilmente disponibile sul mercato, soprattutto man mano che il picco della minaccia mafiosa si è allontanato nel tempo. Nel trascorso venticinquennio, è accaduto che molti opportunisti abbiano trovato comodo  indossare  la  casacca  dell’antimafia.  Non  poche  imprese  mafiose  hanno  cercato  di  camuffarsi  aderendo  ad associazioni  antiracket11.  Si  sono  registrati  abusi  nella  gestione  dei  beni  confiscati  alla  mafia.  Su  questo  Sciascia avrebbe certo avuto qualcosa da dire. E veniamo al contributo dei magistrati. Sembrerebbe logico considerare la loro antimafia come quella istituzionale per  eccellenza.  Teniamo  però  conto  dell’andamento  della  storia  italiana,  del  ruolo  di  rappresentante  della  società civile,  insomma  politico,  da  molti  assegnato  alla  magistratura  (soprattutto  inquirente).  Nella  trincea  palermitana, laddove tanto sangue è stato versato, quest’aspetto è stato più fortemente sentito. Il dato apparve particolarmente evidente nel momento (marzo 1993) in cui il pool palermitano, diretto da Caselli, presentò  al  Senato  la  richiesta  di  incriminazione  di  Andreotti.  Fu  «l’episodio  forse  più  emblematico  della  brutale delegittimazione  dell’Antico  Regime»12  consumatasi  in  quell’anno  e  nel  precedente:  d’altronde  Andreotti  era  stato

fino a pochi mesi prima il capo del governo, e il candidato alla presidenza della Repubblica. Antonio Ingroia, uno dei giovani magistrati palermitani che si stavano allora mettendo in luce attorno a Caselli, ha affermato: fu anche un modo per  «dare  una  svolta  radicale,  sempre  più  incisiva  alle  inchieste,  oppure  quel  terribile  tiro  al  piccione  sarebbe continuato»13. Diciamo  delle  basi  su  cui  venne  costruita  l’accusa.  Marino  Mannoia,  arrestato  nel  1985,  disse  (come  sappiamo) dell’incontro tra Andreotti e Bontate. Nuovi pentiti ex corleonesi, tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993, raccontarono di un altro incontro, che il leader Dc avrebbe avuto con Riina nel 1987. E rivelazioni importanti, soprattutto su Lima, fece Buscetta, il quale in passato si era rifiutato di parlare di questi argomenti. Caselli e i suoi ritennero di aver trovato i riscontri. Destò  grande  sconcerto  nell’opinione  pubblica  il  particolare  del  bacio  che,  nel  1987,  si  sarebbero  scambiati Andreotti  e  Riina.  Stando  all’interpretazione  dell’accusa,  avrebbe  confermato  un  preesistente  «patto  di  fedeltà  e  di scambio»,  avrebbe  dimostrato  che  il  leader  democristiano  si  sentiva  «sempre  a  disposizione,  come  in  passato, dell’organizzazione»14.  Una  mia  osservazione.  Io  trovo  forzata,  anzi  irrealistica,  l’idea  di  un  Andreotti  «a disposizione» di Riina. Ripropone più che altro, in forma un po’ acritica, una pseudo­verità formatasi all’interno di Cosa nostra, e ancora una volta riflette quello che i capi dicevano ai gregari per rassicurarli: che il grande politico era nelle loro mani, che l’avevano baciato, o anche che era bastata qualche minaccia per rimetterlo in riga. Ignora il fatto che durante il maxiprocesso, e a maggior ragione dopo, Andreotti non fece niente per Cosa nostra, e anzi come capo del governo fece qualcosa contro di essa. È anche su questa consapevolezza (oltre che su altre considerazioni sulla intrinseca affidabilità dei vari testimoni) che alla fine si è basata la sentenza d’appello, recepita dalla Cassazione: la quale ha giudicato il racconto sull’incontro Andreotti­Bontate credibile, quello sull’incontro Andreotti­Riina no. L’affare Andreotti, nei molti anni intercorsi tra l’atto di incriminazione e la sentenza della Cassazione, portò con sé una gran quantità di polemiche, dimostrando quanto peregrino sia parlare di una concordia dell’opinione pubblica in tema  di  antimafia.  Da  un  lato  c’era  chi  indicava  nei  giudici  palermitani  i  campioni  della  giustizia  che  finalmente svelavano gli arcana imperii,  il  volto  criminale  del  potere.  Dall’altro  c’era  chi  li  vedeva  come  la  personalizzazione dello spirito persecutorio e della strumentalizzazione politica della giustizia, insomma (questo il termine in uso) del giustizialismo.  Accadde  persino  che  la  sentenza  finale  fosse  assunta  come  una  conferma  da  entrambi  gli  opposti schieramenti: perché assolveva l’imputato, e nel contempo ne riconosceva le relazioni con Cosa nostra. Sul  versante  innocentista  si  schierò,  insieme  a  molti  uomini  della  vecchia  politica  democristiana  e  socialista,  il grande  leader  della  nuova  destra  italiana,  Silvio  Berlusconi.  Non  era  certo  un  uomo  che  potesse  accettare  l’idea dell’equivalenza  tra  questione  politica,  questione  morale  e  questione  penale  su  cui  si  basava  l’antimafia  militante. Anzi, si caratterizzava per le sfuriate post­craxiane contro il moralismo e il giustizialismo; che peraltro gli valevano il sostegno  di  un  gran  flusso  di  opinione  pubblica,  poco  preoccupato  dal  suo  profilo  non  sempre  limpido  di  uomo d’affari, e dalle sue varie pendenze giudiziarie. Diremo più avanti del modo in cui Berlusconi venne chiamato in causa per  lo  specifico  della  questione  mafia.  Segnalo  ora  il  modo  in  cui  vi  furono  coinvolti  direttamente  i  potentati  post­ democristiani siciliani confluiti accanto a Forza Italia nel centro­destra: che, sotto la guida di Salvatore Cuffaro prima, di  Raffaele  Lombardo  poi,  hanno  governato  la  Regione  rispettivamente  nel  2011­2008  e  nel  2008­12.  Cuffaro,  in particolare, è stato condannato a sette anni di prigione, ed è in effetti rimasto in carcere dall’inizio del 2011 alla fine del 2015. E il centro­sinistra? Nel venticinquennio successivo al grande choc del 1992­93, ha dato uno spazio ben maggiore a idee, simboli e persone dell’antimafia, a livello sia siciliano che nazionale. Posizioniamoci per un attimo al 2015. In quell’anno, presidente della Repubblica italiana era Sergio Mattarella, presidente del Senato Pietro Grasso, presidente della  Regione  Sicilia  Rosario  Crocetta,  sindaco  di  Palermo  ancora  Leoluca  Orlando.  Il  primo  è  il  fratello  e  l’erede politico di una delle grandi vittime della mafia. Il secondo è stato giudice a latere nel maxiprocesso, elemento di punta della magistratura palermitana, procuratore nazionale antimafia. Il terzo si è sempre qualificato su una linea politica anti­mafiosa, sin da quando era sindaco di Gela. Ancor più, da più tempo lo ha fatto (come sappiamo) il quarto, sia a Palermo  sia  su  scala  nazionale.  Eppure  non  sempre  il  centro­sinistra  è  stato  considerato  un  buon  interlocutore  dal radicalismo antimafia. È stato accusato di moderatismo, di indulgenza se non di simpatia per i progetti berlusconiani di  controllo  e  normalizzazione  della  magistratura.  Non  ha  saputo  dare  risposta  alla  domanda  di  riforma  politica  e morale. In  conclusione.  Molti  paventano  una  cancellazione  della  memoria.  A  me  sembra  che  il  vero  problema  sia:  che senso  dobbiamo  attribuirle?  Chi  ha  titolo  per  rivendicarla?  Il  bilancio  etico­politico  del  presente  non  è  così soddisfacente e quello retrospettivo non si presenta così chiaro. Non sono in pochi a chiedersi se veramente abbiamo conseguito una vittoria. 3. La macchina del complotto.

Il 26 ottobre 2014, parlando alla folla a Palermo, davanti all’Assemblea regionale siciliana, Beppe Grillo ha detto: «La mafia è stata corrotta dalla finanza. Prima non metteva le bombe nei musei o uccideva i bambini nell’acido. Prima aveva  la  sua  morale».  Nelle  associazioni  a  delinquere,  ha  aggiunto,  non  ci  sono  più  i  criminali  propriamente  detti, quelli  che  sono  fuori  dalla  legge  e  lo  sanno.  La  vera  associazione  a  delinquere  è  quella  dei  politici  e  degli  uomini d’affari, che si sentono e sono parte del sistema. Lasciamo  pure  da  parte  l’immaginario  sulla  mafia  buona  di  una  volta,  che  ben  conosciamo  nella  sua  natura apologetica e depistante. Confrontiamo la tesi di Grillo con quella (opposta) di Falcone, base del maxiprocesso e delle grandi  vittorie  della  Repubblica  sulla  mafia,  che  possiamo  sintetizzare  così:  Cosa  nostra  non  è  affatto  manovrata  o manovrabile da un «terzo livello» collocato nell’empireo della grande politica o della grande impresa, bensì agisce in proprio,  perseguendo  un  proprio  autonomo  progetto  di  potere.  Falcone  era  un  magistrato  di  punta  e  un  fine intellettuale, Grillo è uno showman nonché un grande leader politico, e in questo suo duplice ruolo ha mostrato un fiuto finissimo. Sa quanto sia oggi distante nel tempo l’escalation mafiosa del 1979­93, e quanto la memoria pubblica si sia nel frattempo convinta che in quei drammatici, ormai remoti passaggi, i capi di Cosa nostra siano stati solo gli «esecutori» di ordini provenienti dai vertici del sistema politico e/o finanziario. Prima di approfondire il tema, devo rilevare il paradosso. Proprio il trauma della morte di Falcone ha impedito a molti di accettare la sua tesi­base (della quale peraltro, sia detto per inciso, io personalmente rimango ben convinto). Le  prime  perplessità  emersero  già  all’atto  dell’arresto  di  Riina.  Sembrò  strano  quel  boss  che  non  viveva  in  un «covo», ma in un appartamento in zona residenziale, insieme alla famiglia, come un innocuo impiegato; che girava disarmato, sprovvisto di guardaspalle e di qualsiasi altro dei simboli del potere criminale o economico. Come mai la sua immagine corrispondeva così poco a quella che la pubblica opinione si era fatta del capo dei capi della terribile piovra? C’era qualcosa o qualcun altro dietro di lui? Quando, in quello stesso anno, fu preso il boss catanese Nitto Santapaola, Claudio Fava, lui stesso vittima di mafia in quanto figlio di una vittima, disse: non può essere stato lui. Nel frattempo, gli attentati terroristici del 1993, consumatisi sul continente, al di fuori cioè del territorio della mafia, riportavano alla mente piazza Fontana e le strategie della tensione del passato. Rinverdivano il concetto delle «stragi di Stato». Man  mano  che  il  climax  del  1992­93  si  è  allontanato  nel  tempo,  si  è  fatta  ulteriormente  strada  in  questa  parte dell’opinione pubblica l’idea stando alla quale la potenza distruttiva allora palesatasi non poteva essere stata generata solo  dalla  banda  criminale  denominata  Cosa  nostra,  quella  chiamata  alla  sbarra  nel  corso  del  maxiprocesso,  ormai sotto i colpi della repressione. Nell’ultimo anno del secolo, un giornalista che molto e bene aveva scritto sul nostro tema,  Saverio  Lodato,  intitolò  La  mafia  ha  vinto  il  libro­intervista  contenente  l’ultimo  messaggio  del  vecchio Buscetta15. I fatti dicevano che la mafia non aveva vinto per nulla. Ma quel titolo dava voce a una soggettività, a una sensazione diffusa. Tale sensazione emerse con forza ancor maggiore (rispetto al precedente della cattura di Riina) nel 2006, quando il vecchio  Provenzano  giunse  al  termine  di  una  lunghissima  latitanza/invisibilità,  e  si  materializzò  in  carne  e  ossa  di fronte  alle  forze  dell’ordine  e  all’opinione  pubblica.  Ancor  più  gli  italiani  si  chiesero:  non  è  troppo  misero,  troppo vecchio, troppo ignorante? La stampa ci mise del suo, ricamando sui particolari d’ambiente. In particolare sulla stalla, ubicata nelle campagne prossime a Corleone, in cui il boss era stato preso, sugli arredi primitivi, sugli strumenti rustici di cui era fornita, e sul menù di Provenzano: che non era a base di caviale e champagne ma, più modestamente, di ricotta e cicoria. Qualcuno lo vide come un poveraccio, come un fossile preistorico, con la sua mafia rurale e la sua etica anticonsumistica. Qualcuno si stupì che comunicasse con i suoi accoliti non via mail o satellitare ma con pizzini di carta, come i bisnonni. La  mafia  viene  usualmente  raffigurata  secondo  schemi  tradizionalisti,  e  in  questa  veste,  da  sempre,  la  si  vende meglio; però nella fattispecie quest’usurata mitologia si risolse in un minimalismo decisamente fuorviante. Indicava una sorta di bisogno di rimozione della storia drammatica conclusasi tredici anni prima, di sua espunzione dalla storia della  modernità  italiana,  cui  apparteneva  a  pieno  titolo.  Dire  che  Provenzano  governava  la  mafia  da  quella  stalla sarebbe  come  dire  che  Saddam  Hussein  governava  l’Iraq  dalla  fossa  sotterranea  in  campagna  nella  quale  venne rinvenuto dagli americani, e che da quella fossa, e dall’odore che faceva quando ne uscì, andava dedotta la sua vera identità politica e sociale… Palesemente, la stalla era il posto nel quale in ultimo Provenzano si era rifugiato (o era stato scaricato?) quando «la rete di protezione» che lo circondava era stata demolita, quando la pressione si era fatta insostenibile,  mentre  si  profilava  la  sconfitta16.  Quanto  al  resto,  non  risiedeva  nel  Corleonese  da  decenni,  e  come sappiamo lui e gli altri della gang avevano costruito le proprie fortune a Palermo. Comunicava con i suoi mediante pizzini  non  per  primitivismo  ma  per  ragioni  di  sicurezza:  riteneva  che  i  pizzini,  contrariamente  a  qualsiasi  mezzo elettronico, telefono compreso, non avrebbero lasciato tracce. (La stampa si guardò bene dal correggersi quando, di lì a pochi mesi, l’operazione Gotha fornì della mafia un’immagine opposta, ben più consona alla sua storia: quella di un gruppo urbano, del cui stato maggiore facevano parte imprenditori e persone istruite, tra gli altri due medici).

Di seguito, è stato detto che gli uomini dei servizi segreti abbiano pilotato le azioni di Capaci o via d’Amelio dal Castello Utveggio, che sorge sopra la città, in cima a Monte Pellegrino. È stato detto che una super­spia abbia sottratto l’agenda  rossa  in  cui  Borsellino  appuntava  informazioni  decisive.  Un  giornalista  ha  annunciato  trionfante  di  aver individuato in un vecchio filmato della strage l’agenda in questione tra le macerie dell’auto, senza spiegare come fosse rimasta miracolosamente intatta. (Poi si è capito che si trattava di un oggetto di tutt’altra natura). È stata addebitata a un agente segreto dalla «faccia di mostro» una responsabilità per tutte le fasi più oscure dell’intrigo mafioso. Massimo Ciancimino (figlio di Vito) ha cominciato a collaborare con le autorità nel 2008 rivelando che suo padre era sempre seguito e consigliato in parallelo da Provenzano e da un agente dei servizi segreti, convenzionalmente chiamato signor Carlo o signor Franco. Dopo avere a lungo detto e non detto, quando ha provato goffamente a dare un nome a questo misterioso signore, è stato anche condannato per calunnia. Vette  che  tutto  dominano,  documenti  che  tutto  avrebbero  spiegato  dei  misteri  d’Italia  se  qualcuno  non  li  avesse occultati,  mostri  umani,  ovvero  super­spie  senza  nome.  Simbologie  davvero  troppo  trasparenti.  Naturalmente  è probabile che negli apparati statali qualcuno si sia venduto a Cosa nostra, e/o che (ipotesi minore) qualche funzionario di polizia, nell’antico stile dello scambio di informazioni e favori con mafiosi e pezzi di mafia, si sia trovato alla fine impigliato nelle sue stesse reti. C’è il caso di Bruno Contrada, già ai vertici della polizia di Stato a Palermo, poi del servizio segreto civile, che nel dicembre 1992 è stato accusato e poi condannato per concorso in associazione mafiosa. Resta per me impossibile entrare nella questione della sua colpevolezza o innocenza17. D’altronde l’antimafia radicale punta  più  in  alto.  Sempre  più  si  è  orientata  verso  l’idea  del  super­complotto  ordito  in  prima  persona,  per  proprie finalità,  da  poteri  occulti  (politici,  finanziari,  massonici)  e  appunto  da  «pezzi  dello  Stato»;  in  cui  i  contadinotti  di Corleone avrebbero svolto il ruolo degli esecutori, e forse nemmeno quello. Moderati  e  radicali.  Alla  luce  di  questa  dicotomia  sono  stati  letti  anche  i  contrasti  interni  alla  magistratura inquirente  palermitana,  tra  gruppi  legati  all’uno  o  all’altro  dei  due  giudici  che  in  successione  hanno  ricoperto l’incarico  di  procuratore  della  Repubblica  –  Giancarlo  Caselli  (1993­1999)  e  Pietro  Grasso  (1999­2005)  –  per  poi impegnarsi in un’aspra competizione per la carica di procuratore nazionale antimafia, che tra mille polemiche è alla fine toccata a Grasso (2005). Il primo gruppo è stato appunto definito come radicale e l’altro come moderato ma ciò non ha impedito che Ingroia, già stretto collaboratore di Caselli, e Grasso in persona siano alla fine «scesi» in politica, entrambi a sinistra. Il primo è stato candidato premier alle elezioni del 2013 da una lista di sinistra radicale – invero con  risultati  decisamente  cattivi.  Il  secondo  in  quell’occasione  è  stato  eletto  per  il  Partito  democratico  al  Senato, diventandone (come abbiamo detto) il presidente. Peraltro nelle successive elezioni, quelle del 2018, anche Grasso è stato candidato alla premiership, e non per il Pd ma per una lista alla sua sinistra; e, anche lui, con risultati tutt’altro che buoni. Il rischio della sovrapposizione tra antimafia giudiziaria e antimafia politica è apparso tanto più grave nel caso  di  Ingroia,  passato  dall’esercizio  dell’azione  penale  alla  mischia  elettorale  quasi  senza  soluzione  di  continuità. Anche di questo, chissà Sciascia cosa avrebbe pensato. Sia  Caselli  che  Grasso  sono  stati  magistrati  valorosi,  che  valorosamente  hanno  combattuto  –  loro  e  i  loro collaboratori – la mafia. Io non so dire in che misura le differenze tra i due gruppi abbiano giocato nella gestione delle inchieste  giudiziarie.  Quello  che  qui  mi  interessa  è  il  loro  contributo  al  dibattito  pubblico,  in  particolare all’elaborazione  della  memoria.  Segnalo  la  linea  equilibrata  di  Pignatone:  è  finita  un’epoca,  sfidando  le  istituzioni Cosa nostra si è esposta a una forte repressione, oggi sulla breccia è piuttosto la ’ndrangheta. Grasso si è mantenuto sulla strada indicata da Falcone e Borsellino nel momento del maggior pericolo, mettendo in guardia la società civile contro i «cali di tensione»18.  Per  quanto  attiene  alle  trasformazioni  della  fase  post­corleonese,  ha  ipotizzato  che,  in una  sfera  «sempre  più  segreta»,  al  riparo  dalla  repressione,  si  stesse  sviluppando  una  «Cosa  nostra  nuova»  o addirittura  una  «Cosa  nuova»  tendente  a  «influenzare»  le  istituzioni  «attraverso  il  potere  economico  e  il  consenso elettorale», a consolidare il proprio rapporto «con imprenditori, professionisti, consulenti, funzionari e amministratori pubblici e, perché no, politici» per meglio investire le proprie risorse «in attività completamente lecite o illecite»19. Veramente,  questa  descrizione  si  attaglia  proprio  alla  «Cosa  vecchia»,  alla  mafia  nella  sua  accezione  più  classica, precedente  all’ondata  corleonese.  Ma  è  utile  presentare  le  cose  vecchie  come  fossero  nuove,  perché  appaiano  più pericolose.  Grasso,  nel  gioco  sempre  conflittuale  delle  correnti  del  Palazzo  di  giustizia  palermitano,  non  voleva apparire come quello che sottovalutava il pericolo. Tra  gli  ex  collaboratori  di  Caselli  va  citato,  oltre  a  Ingroia,  Roberto  Scarpinato.  Particolarmente  significativa un’intervista da lui rilasciata a «l’Unità» nel 2006, all’indomani appunto della cattura di Provenzano: «L’innegabile ridimensionamento  della  mafia  militare»  determinato  dalla  repressione  degli  anni  passati  –  affermava  –  «non  ha sconfitto la mafia». Ne sarebbe derivato piuttosto un «ritorno del principe», un ripristino della «fisiologia del sistema di  potere  mafioso»,  la  restaurazione  della  tradizionale  supremazia  del  «piano  alto»  economico  e  sociale  sul  «piano basso», quello della «mafia militare» che per un momento nell’era Riina aveva cercato di fare da sola. L’idea «di una grave crisi di tutto il sistema mafioso» rappresentava un’«illusione», perché riguardava «solo i piani bassi»20. Il già

citato giornalista Lodato, che aveva dato voce alla linea Grasso in un libro­intervista, fece lo stesso per questa linea Scarpinato, con la quale forse si trovava in migliore sintonia21. Possiamo constatare una corrispondenza tra l’approccio di Scarpinato nel dibattito pubblico e un’inchiesta, detta Sistemi  criminali,  avviata  dalla  procura  palermitana  già  nel  1996.  Aveva  confini  larghi,  labili,  seguiva  un  insieme eterogeneo  di  piste  e  significativamente  annoverava  tra  gli  inquisiti  –  al  primo  posto  –  Licio  Gelli,  il  gran  maestro della P2, il Belzebù di tutte le complottologie. Si risolse in un’archiviazione nel 2001. Ebbe però una ripresa alla luce delle successive rivelazioni di Massimo Ciancimino sui colloqui avvenuti tra Roma e Palermo, nel 1992, tra suo padre Vito  e  due  alti  ufficiali  del  Ros  dei  carabinieri,  Mario  Mori  e  Giuseppe  De  Donno.  L’incrocio  tra  l’antico rappresentante  della  mafia  nel  mondo  della  politica  e  i  due  super­poliziotti  sembrò  concretizzare  l’idea  di  una trattativa  Stato­mafia22.  E  in  effetti  questa  fu  l’espressione  usata  nel  pubblico  dibattito  per  indicare  l’inchiesta giudiziaria che trasse spunto (tra l’altro) da queste rivelazioni, e i processi che ne seguirono. Massimo Ciancimino ha sostenuto che suo padre consegnò a Mori un cosiddetto papello, ovvero un documento nel quale  in  buona  sostanza  Cosa  nostra  chiedeva  una  revisione  della  sentenza  del  maxi­processo,  l’annullamento  del 41bis, correzioni nella legge Rognoni­La Torre e in quella sui pentiti. Va detto che Mori ha negato gli sia mai stato presentato  un  documento  del  genere.  Secondo  lui,  il  testo  messo  agli  atti  da  Ciancimino  jr.  deriva  da  una  sua manipolazione delle carte del padre (Massimo in effetti si è rivelato per molti aspetti un testimone inattendibile). Per quanto  mi  riguarda,  il  papello  potrebbe  essere  opera  del  figlio,  del  padre,  o  davvero  dell’entourage  di  Riina:  resta comunque un documento interessante perché, con ogni probabilità, ne vengono fuori le rivendicazioni­base di Cosa nostra. Dopo la strage di via d’Amelio, sempre stando a Ciancimino jr., suo padre avrebbe consigliato ai due ufficiali dei carabinieri di rivolgersi, piuttosto che alla fazione estremista di Riina, a quella più moderata di Provenzano, che poi era il suo personale interlocutore. In un libro­intervista del 2013 Ingroia, che nelle indagini su questi intrighi ha avuto un  gran  ruolo,  si  è  detto  certo  che  l’arresto  di  Riina  fu  dovuto  a  «soffiate  provenienti  dall’interno  di  Cosa  nostra», probabilmente  da  Provenzano23.  Noi  sappiamo  bene  quanti  fossero  i  precedenti  di  questo  genere  nella  storia  della relazione tra la mafia e l’autorità – il più clamoroso di tutti, l’affare Giuliano. Nondimeno, non sono tanti gli elementi di fatto che nella fattispecie confermano la tesi, visto anche che dall’intrigo non è derivato (come ci si sarebbe potuto aspettare) uno scontro tra le due fazioni. Nelle conversazioni intercettate in carcere, Riina dà su Provenzano giudizi un po’  sprezzanti,  ma  non  mi  pare  mostri  particolare  ostilità.  Aggiungiamo  che  alla  fine  di  quell’anno  terribile,  il  19 dicembre,  Vito  Ciancimino  venne  arrestato  in  esecuzione  di  una  precedente  condanna  per  associazione  mafiosa. Sarebbe restato in carcere fino al 1999. Non pare una ricompensa per una trattativa andata a buon fine. In conclusione. I processi in corso sulla trattativa Stato­mafia vorrebbero concretizzare l’idea del grande complotto inteso  a  salvare  la  mafia  nella  transizione  tra  prima  e  seconda  Repubblica.  Però  non  so  quanto  possano  riuscirci. Difficilmente i colloqui tra Ciancimino­Mori sono indentificabili con un organico progetto criminale dello Stato, del Potere. Innanzitutto perché queste sono parole troppo grosse. E poi perché la fase politica del 1992­93 era di confusa transizione, e da essa ben poco di organicamente progettuale poteva nascere. Lo stesso può dirsi per gli atti successivi di uomini di governo che un po’ caoticamente sono stati inseriti nell’inchiesta giudiziaria. Nelle aule di giustizia, il punto dovrebbe essere questo, ben più limitato: quegli uomini delle istituzioni fecero qualcosa di contrario alle leggi vigenti, per bloccare Riina e convincere Cosa nostra a fermare le stragi? O agirono nell’ambito delle competenze di ognuno? Registro che nel 2018 Mori e alcuni altri sono stati condannati in prima istanza, dopo che altri procedimenti penali ne  avevano  riconosciuto  l’innocenza.  Mi  astengo  dal  commentare  queste  sentenze  per  mancanza  di  competenza, perché non è il mio mestiere24. Dico solo che, concentrando l’attenzione sulle (eventuali) colpe di Mori, di qualche altro super­poliziotto o ministro del tempo, rischiamo di rimuovere il problema storico cruciale, il protagonismo che sin  dagli  anni  settanta  spinse  Cosa  nostra  sulla  strada  dell’escalation.  Può  essere  significativo  di  tale  rimozione  lo scambio  di  battute  tra  Ingroia  e  i  suoi  intervistatori,  nel  libro  sopra  citato.  I  giornalisti  affermano:  la  strage  di  via d’Amelio  ha  avuto  un  «esito  controproducente»  per  Cosa  nostra;  e  chiedono:  non  sarà  il  caso  di  dedurne  che  a ordinarla è stato qualcun altro? Il magistrato risponde: in effetti quella strage pare «gravida di suggerimenti esterni a Cosa nostra»25.  L’espressione  è  terribilmente  involuta  ma  il  concetto  è  chiaro.  È  stato  d’altronde  ribadito  anche  in diversi atti giudiziari. A me sembra che ugualmente l’argomento dell’«effetto controproducente» lasci, dal punto di vista logico, molto a desiderare. È infatti possibile che la leadership mafiosa sia stata incapace di calcolare gli effetti della propria iniziativa (di quella come di altre) perché in preda a una sorta di coazione a ripetere che prevedeva un’unica tattica, colpire e poi colpire  ancora.  Così  aveva  d’altronde  conquistato  il  potere.  Così  si  legittimava  agli  occhi  dei  quadri  e  dei  gregari. Contrariamente a quello che si sente spesso dire, l’assassinio sia di Falcone che di Borsellino era palesemente in linea con quanto Cosa nostra aveva fatto nel quindicennio precedente: abbattere l’elemento di avanguardia (spesso isolato,

per dirla con Dalla Chiesa) nella convinzione che il terrore conseguente avrebbe paralizzato chi stava dietro. Stavolta la sfida fu più clamorosa, la contro­spinta più forte. 4. La memoria della mafia. Per  ragionare  del  modo  in  cui  i  mafiosi  hanno  rielaborato  la  memoria  di  tutti  questi  sconvolgimenti  tardo­ novecenteschi,  è  necessario  partire  da  lontano.  Magari  da  Filologia, la novella di Sciascia di cui abbiamo detto nel capitolo X. Come si ricorderà, descrive il dialogo tra un giovane e un vecchio capo­mafia. Il primo si esalta di fronte al fragore delle bombe. Il secondo risponde che l’iper­violenza rischia di vanificare il contributo fornito per un secolo dalla «scienza delle parole», la filologia (noi possiamo chiamarla ideologia), «alla confusione». Spiega che, facendo ricorso  al  metodo  terroristico,  la  mafia  potrebbe  non  essere  più  in  grado  di  occultarsi  nelle  pieghe  delle  relazioni sociali e nei meandri nascosti del potere. E in effetti proprio questo avvenne nel corso dell’escalation successiva. Sciascia in Filologia richiama Pitrè, e la radice ottocentesca dell’ideologia mafiosa, ma anche – in altro luogo che abbiamo citato – la sua tenuta nel tempo, l’elogio funebre del boss Di Cristina (1961). Noi abbiamo ritrovato questa stessa  ideologia  in  anni  seguenti  in  un  bar  di  Montreal  (quello  della  conversazione  tra  Paul  Violi  e  i  suoi  ospiti agrigentini),  in  un  ufficio  del  New  Jersey  (quello  di  Samuel  Rizzo  De  Cavalcante),  nel  carcere  di  Palermo  (dove Rosario Spatola scrisse un testo che gli venne poi sequestrato). Si nutriva sempre degli stessi argomenti: questa società onorata, questa «cosa tradizionale», è intesa a «ottenere giustizia», a «proteggere la gente dagli abusi». Il riferimento a Pitrè ci riporta a un aspetto che ho rilevato già in sede introduttiva: l’ideologia mafiosa è stata in varie forme rielaborata da soggetti in grado di raggiungere un grande pubblico. Pensiamo in antico a Natoli e ai Beati Paoli, per periodi più recenti al Padrino di Puzo e Coppola. I mafiosi stessi si sono a un certo punto portati su questo terreno:  il  primo  a  farlo  fu  Nick  Gentile,  poi,  con  maggior  successo,  toccò  a  Joe  Bonanno.  E  naturalmente  lo  fece Masino Buscetta, le cui rivelazioni ebbero straordinaria importanza giudiziaria e corrispondente rilievo mediatico. L’outing  di  Bonanno  e  Buscetta  risale  al  1983­84.  La  data  colpisce:  storicamente,  la  mafia  era  nel  punto  di giunzione tra parabola ascendente e parabola discendente. Invece la parabola personale dei due testimoni si trovava decisamente  nella  fase  calante,  visto  che  dalla  competizione  infra­mafiosa  erano  stati  messi  nella  condizione  dei perdenti.  Fu  questo  che  spinse  i  due  a  violare  la  regola  del  silenzio  allontanandosi  dalle  regole  della  mafia.  Però consentì loro di adottare più facilmente lo stile tradizionalista che è tipicamente mafioso, contrapponendo il passato al presente, la purezza dell’ideale antico alle brutture dei fatti dell’oggi. Pitrè l’aveva detto cento anni prima: la mafia una volta era una cosa buona, oggi non so. Bonanno e Buscetta riproposero questa retorica come fosse nuova di zecca. La droga viene comunemente considerata una nemica della stabilità sociale che viene a sua volta considerata tipica del mondo tradizionale. Per presentarsi all’esterno all’insegna della coerenza, sia Bonanno che Buscetta dovettero sino all’ultimo,  contro  ogni  evidenza,  dichiararsi  estranei  al  narcotraffico.  Anche  l’altro  grande  perdente,  Tano Badalamenti, negò indignato di aver mai avuto a che fare con quel disgustoso commercio; e per converso, sostenuto dal suo avvocato irlandese Kennedy, fece balenare agli occhi di chi lo doveva giudicare l’immagine accattivante di una mafia capace nel momento cruciale della storia, nella seconda guerra mondiale, di dare il proprio contributo alla vittoria della libertà. Insomma,  i  tre  mafiosi  transcontinentali  insistettero  sino  all’ultimo  su  questa  linea  per  rendersi  accettabili  alle autorità e/o all’opinione pubblica. Misero insieme il codice tradizionalista ai comportamenti collaborazionisti. Fecero come quel top­gangster proveniente da Chicago, di cui dice il sociologo Daniel Bell: in trasferta a Dallas per mettere su  un  business  onorevole  nel  gioco  d’azzardo,  avrebbe  sussurrato  a  uno  sceriffo  locale:  «Se  c’è  qualcosa  che  odio sono gli spacciatori di droga, i borsaioli, e gli assassini a pagamento»26. Identificandosi  con  un’ideologia  antica  e  ben  testata  dall’esperienza,  i  pentiti  di  Cosa  nostra  poterono  sostenere anche davanti ai loro pari (e a se stessi) che i veri traditori non erano loro, ma i loro nemici. E i vincenti del 1981? I vincenti, per grande che fosse la loro efficienza militare, dimostrarono le previste difficoltà nel manipolare l’ideologia e anche nel fare i conti con la politica, almeno a partire dall’assassinio di Mattarella. Vecchia politica. I capi provarono a nascondere i propri errori continuando a dire ai gregari che Andreotti era nelle loro mani. Invece il grande leader Dc, quando  le  cose  si  misero  al  brutto,  non  fece  niente  per  loro,  o  perché  non  poteva,  o  perché  non  voleva,  o  perché nemmeno  sapeva  di  certe  promesse  fatte  in  suo  nome  da  Lima.  Fase  di  transizione.  Di  seguito,  nonostante  le assicurazioni fatte da misteriosi personaggi ai boss, e dai boss ai gregari, in barba a ogni trattativa vera o presunta, per quante  bombe  siano  scoppiate,  per  quante  promesse  siano  state  fatte  perché  non  scoppiassero  più,  nessuna  delle richieste del papello è stata accolta: non è stata rivista la sentenza del maxiprocesso, non sono state abolite la legge Rognoni­La Torre e quella sui pentiti, e neanche il 41bis. Nuova politica. Non hanno concesso gran che a Cosa nostra nemmeno  le  forze  politiche  affermatesi  nel  1994  dopo  la  brusca  liquidazione  della  Dc,  e  nominalmente  Silvio Berlusconi.

Bisogna dirlo: le voci che spiegano con un’iniezione di capitali mafiosi la molto misteriosa origine delle fortune di Berlusconi  non  hanno  trovato  alcuna  conferma  nelle  tante  indagini  fatte.  È  invece  un  fatto  che  Vittorio  Mangano, narcotrafficante  e  alto  grado  di  Cosa  nostra,  dimorò  nella  villa  berlusconiana  di  Arcore  nel  1973­76,  senza  che nessuno abbia mai spiegato in maniera convincente a che fini. Era stato presentato dal palermitano Marcello Dell’Utri, già  allora  pezzo  grosso  dell’impero  finanziario  di  Berlusconi,  che  poi  diede  un  gran  contributo  alla  creazione  della macchina elettorale di Forza Italia nel 1994; e ne divenne poi uno dei leader. (Dell’Utri è stato poi condannato per concorso in associazione mafiosa). Le testimonianze dei pentiti attestano che quasi vent’anni più tardi, al momento della discesa in campo di Berlusconi, i boss chiesero ai loro gregari di sostenere Forza Italia, nella convinzione che sarebbe stata condizionabile. I boss spiegarono che il duo Dell’Utri­Berlusconi avrebbe annullato le sentenze, avrebbe liberato i carcerati, avrebbe fermato i magistrati comunisti e gli sbirri, insomma avrebbe soddisfatto le richieste del papello.27 Ma anche a quel punto nessuna delle richieste venne soddisfatta. E Cosa nostra continuò sempre più stancamente sulla propria linea: richiamare i protettori veri o presunti alle loro responsabilità, lamentare il loro tradimento (vero o presunto)  della  parola  data.  Lo  fece  in  particolare  nel  2002,  subito  dopo  la  più  netta  delle  vittorie  elettorali  di Berlusconi – quasi si trattasse dell’ultima replica della vecchia rappresentazione, ma senza stragi per fortuna. Il boss Pietro Aglieri chiese «allo Stato» di fornire ai mafiosi la possibilità di una collettiva dissociazione, coi benefici relativi – senza denunciare nessuno, per carità. La proposta stava già nel papello. Lo stesso Aglieri e altri capi lamentarono il trattamento  troppo  duro  subito  dai  detenuti,  richiamandosi  alla  Costituzione  e  ai  diritti  dell’uomo.  Il  super­duro Leoluca Bagarella ribadì in un pubblico proclama la protesta contro il 41bis, affermando che i suoi erano «stanchi di essere  strumentalizzati,  umiliati,  vessati,  e  usati  come  merce  di  scambio  delle  varie  forze  politiche».  Alla  fine dell’anno,  comparve  allo  stadio  di  Palermo,  prima  dell’inizio  di  una  partita  di  campionato,  uno  striscione  così concepito:  «Uniti  contro  il  41bis.  Berlusconi  dimentica  la  Sicilia».  I  boss  intanto  rimbrottavano  pubblicamente  gli avvocati  penalisti,  a  loro  dire  dimostratisi  incapaci  di  difendere  il  popolo  di  Cosa  nostra  (e,  ancora,  le  garanzie previste dalla Costituzione) in processi somiglianti «a plotoni d’esecuzione»28. Si temette qualche clamorosa vendetta, qualche delitto eccellente. Invece non se ne consumò alcuno. Tra  i  mafiosi  rimasti  sino  all’ultimo  irriducibili  possiamo  collocare  lo  stesso  Riina,  che  –  almeno  per  come  ci risulta  dalle  sue  intercettazioni  in  carcere  (nel  2013)  –  un  po’  corrisponde  al  modello  delineato  da  Sciascia  in Filologia, quello del capo­cosca eccitato dal fragore delle bombe, disinteressato a riconoscimento sociale e tolleranza istituzionale. Riina ricorda con particolare irritazione il momento in cui Falcone si è trasferito al ministero: «se ne è andato a Roma,  se  ne  è  andato  là…  dirigeva  qua,  dirigeva  là,  dirigeva  tutti…  ah  va  bene,  va  bene»29.  Vanta  la  propria determinazione: se il suo arci­nemico si fosse andato a nascondere sulla luna, «ci andavo sulla luna, ci andavo io là. […]  Ero  così  infernale,  ero  così  imbestialito».  Rievoca  l’orgasmo  provato  nel  momento  in  cui  ha  capito  di  essere riuscito  a  farlo  uccidere  –  «la  sera,  quando  ho  cominciato  a  sentire  le  sirene,  le  sirene,…  uh…  uh…,  minchia!». Celebra l’effetto: «È partita questa autostrada, l’autostrada tutta». E Borsellino? «Subito pronti, pronti all’erta per la seconda.  Minchia,  cinquantasette  giorni.  Gli  ho  detto  [ai  sicari]:  mettici  qualche  cento  chili  in  più.  Se  lo  immagina centocinquanta chili cosa fici? Fici [fece]… Ci ha dato aiuto buono». Se la ride: «Eh, Eh»30. In  qualche  momento,  nella  memoria  del  boss  imprigionato,  le  figure  dei  due  suoi  nemici,  Stefano  Bontate  e Giovanni Falcone, sembrano quasi sovrapporsi. Nella sua logica l’uomo delle istituzioni che si impegna in maniera speciale viene equiparato al membro di una gang avversa. Lo stesso sentimento d’altronde ritorna in un testo scritto, dopo la morte di Falcone, da Vito Ciancimino, cui è attribuito un ruolo non di boss di Cosa nostra (chissà…), ma di fiancheggiatore. Si tratta di un dattiloscritto intitolato Le mafie. Come altri testi che abbiamo analizzato, mi sembra rivelatore non tanto del punto di vista vero della mafia, ma della sua retorica, del suo modo di presentare le cose. Ciancimino dice: «Falcone, più che un magistrato, era un uomo di potere che non esitava affatto a strumentalizzare la “giustizia” a fine di ambizione personale». Applica a proprio uso e consumo il principio del cui prodest: l’uccisione di La Torre e Dalla Chiesa, argomenta, ha determinato l’approvazione di una legge «iniqua» (quella sull’associazione mafiosa), ergo li hanno ammazzati proprio quelli che se ne volevano servire in una logica liberticida, per valersene come di «uno strumento docile per assoggettare i loro avversari»31. Insomma, il problema non sarebbe la mafia ma le indegne montature dei professionisti dell’antimafia. Ciò  detto,  Ciancimino  ritorna  senza  alcuna  credibilità  sul  registro  tradizionale,  per  cui  la  mafia  si  candida  come collaboratrice  dell’autorità  nella  difesa  dell’ordine.  I  delitti  eccellenti  non  sarebbero  «classificabili  tra  i  delitti  di mafia» («al più qualche cosca avrà prestato i killer»). I responsabili, sentenzia l’ex sindaco, vanno cercati nei servizi deviati, o magari in Gladio. E la droga? Il punto, come sappiamo, è dirimente, e su questo la posizione dell’ex sindaco è quella abituale per la gente come lui. Anche Ciancimino dice: quando voi definite mafia quella cosa mentite,

si tratta di usurpazione… di titolo. La MAFIA mai si è occupata di droga. Mai sarebbe seminatrice di «morte». La prima regola di questa  organizzazione,  il  senso  dell’onore,  non  consentirebbe  simili  attività.  Mai  la  MAFIA  farebbe  stragi.  […]  Mai  farebbe guerra  allo  Stato  ma  sarebbe  inesorabile  verso  quanti  dello  Stato  se  ne  [sic]  servono  per  esercitare  soprusi,  prevaricazioni  e ingiustizie.32

E  veniamo  a  Provenzano.  Nei  tredici  anni  successivi  alla  cattura  di  Riina,  come  risulta  da  atti  giudiziari  e intercettazioni,  dava  ai  suoi  accoliti  indicazioni  di  buon  senso  sul  modo  migliore  di  spartirsi  gli  appalti  e  gli  altri affari; e sul come meglio garantire la sua latitanza33. Mi sembra ne risulti una figura più di grande mediatore che di grande  capo.  Invitava  anche  boss  e  gregari  a  mantenere  atteggiamenti  prudenti,  a  evitare  azioni  violente  per  non esporsi ulteriormente alla repressione. L’ultimo corleonese dettava una linea anti o (meglio) post­corleonese. Chi non riesce  ad  ammettere  che  la  mafia  possa  mai  essere  sconfitta  riduce  la  crisi  epocale  di  Cosa  nostra  a  un  volontario «inabissamento»  appunto  pianificato  da  Provenzano.  Io  penso  invece  che  l’organizzazione  si  sia  solo  adattata  alla situazione, piegandosi come nell’attesa che passasse la piena. «Calati juncu ca passa la china». Ma la piena, finora, non è passata. Abbiamo spiegato che Provenzano comunicava con pizzini di carta per ragioni di sicurezza. Però certo quel mezzo, il suo stile più da vecchio zio che da superboss, le perle di banale saggezza che andava distribuendo, molto odoravano di  tradizione.  Quel  tradizionalismo,  è  stato  scritto  giustamente,  provava  a  far  dimenticare  la  sua  responsabilità  nei disastri  del  passato34.  Era  un  modo  di  riposizionarsi  rispetto  alle  sconfitte  pregresse.  Ascoltiamo  le  personali considerazioni  aggiunte  in  margine  da  uno  dei  suoi  messaggeri,  inconsapevole  di  essere  sotto  intercettazione. «Prenditela  con  chiunque,  ma  lo  Stato  non  si  tocca.  […]  Dico,  gli  sbagli  si  fanno  nella  vita,  ma  non  era  meglio  se all’epoca  Falcone  non  finiva  così?».  Prima  certe  questioni  si  sarebbero  risolte  diversamente.  «La  cosa  era  sacra  un tempo». Allora sì che funzionava35. Per quanto alcune testimonianze vogliano Provenzano in grado di esprimersi in un discreto italiano, i pizzini sono pieni  di  errori  di  grammatica.  Possiamo  pensare  che,  concedendoseli  senza  problemi,  il  boss  volesse  fare  sfoggio ancora  di  tradizionalismo36.  Citava  sempre  il  vangelo  e  mai  (credo)  Pitrè,  comunque  puntando  a  mimetizzarsi  in quello  che  il  suo  predecessore  Liggio  chiamava  «lingua  siciliana  antica»,  un  po’  come  faceva  Contorno  quanto utilizzava il dialetto più stretto durante le udienze del maxiprocesso. I suoi talvolta lo seguivano anche in questo. Uno, nel corso di un colloquio intercettato in carcere, spiegava al figlio: «Io sgrammaticatizzo… è fatto apposta, hai capito? Sbagliare qualche cosa, qualche verbo, mi hai capito, Arturo?». Bisognava tornare all’antico. «Andare a mettere una bomba in una chiesa, che cosa è?»37. Infine  traggo,  dai  materiali  dell’inchiesta  Old  Bridge,  uno  particolarmente  significativo,  l’intercettazione  delle parole rivolte a un nipote da un Francesco Inzerillo detenuto in carcere. Lo invita ad «andarsene dall’Europa». In Italia «ormai è tutta una catena e catinella»: «basta essere incriminato per l’art. 416 bis, automaticamente scatta il sequestro dei  beni  …  cosa  più  brutta  della  confisca  dei  beni  non  c’è»38.  Vi  leggiamo  lo  sconforto  diffusosi  nelle  file  del tenebroso  sodalizio,  sul  versante  dei  perdenti  del  1981.  Ma  non  è  che  sul  versante  dei  vincenti  di  allora  ci  si  senta tanto  meglio.  Vediamolo  nell’intercettazione  di  una  conversazione  in  cui  un  capo­mafia,  già  appartenente  allo schieramento corleonese, spiega a uno degli antichi nemici di essere indisponibile a passare sopra al passato: «A voi vi  restano  i  beni  e  a  noi  li  hanno  levati  a  tutti.  [Ma],  […]  voi  siete  voi  e  noi  siamo  noi»39.  In  un’altra  occasione, conversando tra loro, due di questi ex vincenti dicono: senza gli errori di Bontate, Badalamenti e Buscetta «avremmo avuto  un  mondo  sano  ancora».  Ancora  la  nostalgia  del  mondo  sano  (integro)  di  una  volta.  Scarsa  consolazione, stavolta. 1 Montemagno 2014, pp. 59­61. 2 Pannella, Prefazione a D’Elia ­ Turco 2002, p. 16. 3 Ardita 2011, pp. 24 sgg. 4 Caselli ­ Ingroia 2001, p. 41. 5 La Licata 2006, p. 71. 6 Natoli 2006, p. 62. 7 Ravveduto 2012. 8 Schneider ­ Schneider 1996, p. 58. 9 Idd. 2009. 10 Orlando 1990, p. 170 e passim. 11 Alcuni esempi in Sciarrone e altri 2011, pp. 127­74. 12 Briquet 2007, p. 23 (traduzione mia). 13 Caselli ­ Ingroia 2001, p. 37.

14 Istruttoria Andreotti, p. 768. 15 Buscetta ­ Lodato 1999. 16 In questo senso M. De Lucia, uno dei pm impegnati nell’inchiesta, nell’intervista Da Provenzano alla fine della mafia, in «Segno», aprile 2006, 274, pp. 7­24 e in particolare pp. 9 e 12. 17 Contrada ha scontato questa condanna dal 2007 al 2014. Però in seguito ci sono state sentenze a lui favorevoli della Corte europea dei diritti dell’uomo e poi della Cassazione. 18 Pignatone 2017; Lodato ­ Grasso 2001, p. 9. 19 La relazione è stata pubblicata con il titolo Cosa nuova e la giustizia che piace al governo, in «Segno», 2003, pp. 11­5 e in particolare p. 11. 20 L’intervista, intitolata «Mafia, al comando è tornato il principe», è in «l’Unità», 2 novembre 2006, p. 8. 21 Rispettivamente, Lodato ­ Grasso 2001 e Lodato ­ Scarpinato 2008. 22 Ricordo che dopo l’arresto di Riina il Ros, sotto il comando di Mori, non provvide a perquisire l’abitazione con cui il boss viveva con la famiglia.  Molti  assumono  quest’omissione  a  riprova  che  c’era  qualcosa  di  marcio.  Mori  dice  che  si  trattò  di  un  espediente  investigativo:  Mori  ­ Fasanella 2011, pp. 88­92. 23 Ingroia 2012, p. 35. 24 Rimando a quanto io stesso ho scritto qualche anno fa sullo stato del pubblico dibattito sul tema in Lupo 2014, e ai materiali giudiziari là citati, che non citerò di nuovo qui. Quanto al resto, cfr. le critiche all’impianto dell’accusa di un grande giurista, Fiandaca 2014. 25 Ingroia 2012, pp. 50­1. 26 Bell 1964, p. 118. 27 Rimando ancora ai documenti cit. in Lupo 2014. 28 Si vedano le fonti relative, e l’importante analisi comparativa col periodo fascista, in Blando 2008, pp. 68­72. 29 Intercettazioni Riina, p. 33. 30 Ibid., pp. 18­20. 31 Ciancimino 2014, pp. 223 e 203. 32 Ibid., p. 171, 183, 178. 33 Un florilegio di questi interventi in Bellavia ­ Palazzolo 2004. 34 Palazzolo ­ Prestipino 2007. 35 Cit. ibid., p. 68. 36  Il  dato  sarebbe  questo  anche  se  fosse  giusta  l’ipotesi  che  gli  errori  fossero  parte  di  un  codice  inteso  a  rendere  l’autore  del  messaggio identificabile con certezza dal destinatario. 37 Si tratta di Pino Lipari, cit. in Palazzolo ­ Prestipino 2007, pp. 44­5. 38 Conversazione tra Francesco Inzerillo e due suoi nipoti, intercettata il 30 agosto 2007 presso il carcere di Torino dove Inzerillo era detenuto. In Ordinanza Casamento, p. 104. 39 Il capo­mafia si chiamava Antonino Rotolo, Palazzolo 2010, p. 40.

Fonti e bibliografia

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I personaggi: i buoni e i cattivi

Badalamenti, Gaetano detto Tano (1923­2004). Boss di Cinisi, ma anche grande regista del narcotraffico su scala transatlantica, laddove mette a frutto parentele e amicizie americane. Guida la Commissione provinciale palermitana di Cosa nostra dal 1973 al 1977, quando viene destituito. Poi cerca di formare insieme a Buscetta un’alleanza anti­corleonese. Nel 1985 viene condannato a 45  anni  nel  processo  newyorkese  Pizza  Connection,  quale  numero  uno  del  commercio  siculo­americano  di  eroina.  In  Italia  è condannato all’ergastolo nel 2002, come mandante dell’assassinio Impastato. Muore nel carcere americano di Devens. Bonanno,  Giuseppe/Joe  (1905­2002).  Nato  a  Castellammare  del  Golfo,  giunto  a  New  York  nel  1924,  boss  della  Famiglia castellammarese di Brooklyn a partire dagli anni trenta. Negli anni cinquanta rappresenta l’ala della mafia americana più aperta nei confronti della connection siciliana e nel 1957 organizza gli incontri dell’Hotel delle Palme e di Apalachin. All’interno della Cosa nostra newyorkese, la sua linea negli anni sessanta risulta perdente, e viene esiliato in Arizona. Il suo libro autobiografico del 1983 rappresenta una delle più interessanti (e spudorate) esposizioni dell’ideologia mafiosa. Bontate, Stefano, detto il principe di Villagrazia (1939­1981). Erede di una delle più importanti dinastie mafiose delle borgate palermitane, risalente all’Ottocento. Capo della Famiglia di Santa Maria di Gesù, è forse il boss più capace di intrecciare alleanze nel  mondo  delle  classi  dirigenti,  della  finanza  e  della  politica,  negli  anni  settanta.  Il  suo  assassinio  nel  1981  apre  la  strada  alla conquista del potere mafioso da parte dell’alleanza tra Totò Riina e Michele Greco. Buscetta, Tommaso (1928­2000). Viene da una famiglia palermitana di artigiani, a quanto sembra priva di connessioni mafiose. Noto come il «boss dei due mondi» per i suoi lunghi soggiorni sudamericani e nordamericani, nonché per il ruolo svolto nei traffici e  di  tabacchi  e  di  droga.  Il  suo  conflitto  con  i  corleonesi  lo  porta  a  collaborare  con  Falcone,  a  rivelare  i  segreti  di  Cosa  nostra assumendo il ruolo del grande pentito, del super­testimone del maxiprocesso. Ciancimino,  Vito  (1924­2002).  Elemento­chiave  della  connection  tra  mafia  e  Democrazia  cristiana.  Dalla  natia  Corleone,  si sposta  a  Palermo,  dove  negli  anni  cinquanta  e  sessanta  fa  carriera  come  uomo  d’affari  e  amministratore  comunale.  Nell’una  e nell’altra  veste  è  uno  dei  principali  artefici  del  «sacco  edilizio»  della  città.  Dal  1984,  è  oggetto  di  provvedimenti  giudiziari  e condanne. Viene coinvolto post mortem dall’inchiesta sulla trattativa Stato­mafia. Cuccia, Francesco detto Ciccio (1876­1957). Boss mafioso e sindaco di Piana dei Greci dal 1922. Le fonti di polizia del tempo rivelano la dimensione provinciale dell’organizzazione mafiosa indicando Cuccia come elemento di vertice non solo nel suo paese ma anche a Palermo città. A lungo è ben visto dai fascisti per la sua linea violentemente antisocialista. Mussolini segna il cambio di linea  nel  discorso  dell’Ascensione  del  maggio  1927,  assumendolo  a  personificazione  del  rapporto  perverso  tra  mafia  e  politica democratica. Cucco,  Alfredo  (1893­1968).  Leader  del  fascismo  intransigente  palermitano  negli  anni  della  presa  del  potere,  entra  poi  in conflitto  col  prefetto  Mori  incaricato  di  «normalizzare»  il  partito.  Accusato  di  illeciti  e  collusioni  mafiose,  è  espulso  dal  Pnf. Rientra però a fine anni trenta con il rango di vice­segretario nazionale, aderisce alla Repubblica sociale, e nel secondo dopoguerra è tra i fondatori del Movimento sociale. Dalla Chiesa, Carlo Alberto (1920­1982). Il grande esperto della lotta sia alla mafia che al terrorismo nell’Arma dei carabinieri, mostra grandi capacità nel 1949 quando, giovane capitano del Cfrb, si trova a Corleone a indagare sull’assassinio del sindacalista Placido Rizzotto. Torna sul campo quale comandante della legione di Palermo tra il 1966 e il 1973. Poi si impegna nella lotta alle Brigate  rosse,  costituendo  gruppi  di  investigatori  specializzati  e  adottando  metodi  investigativi  anticonvenzionali.  Nel  maggio 1982,  nel  momento  cruciale  dell’escalation  mafiosa,  viene  inviato  a  reggere  la  Prefettura  di  Palermo.  Pochi  mesi  dopo  viene assassinato insieme alla moglie. Dewey, Thomas (1902­1971). Avvocato repubblicano newyorkese, nel 1935 viene nominato special prosecutor per la caccia ai top­gangster, e l’anno dopo sostiene l’accusa nel processo contro Lucky Luciano ottenendo una pesante condanna. Questo successo agevola la sua successiva elezione a governatore dello Stato di New York, e in questa veste nel 1946 è lui stesso a firmare l’atto che sancisce  la  molto  anticipata  scarcerazione  di  Luciano.  Le  polemiche  politiche  conseguenti  saranno  durature.  Candidato  alla presidenza dell’Unione due volte, è sconfitto due volte: da Roosevelt nel 1944 e da Truman nel 1948. Falcone,  Giovanni  (1939­1992).  Nato  a  Palermo,  è  il  magistrato  che  ha  fornito  il  massimo  contributo  alla  lotta  contro  Cosa nostra  siciliana,  e  anche  alla  sua  conoscenza.  Proviene  dal  settore  civile  quando,  nel  1980,  gli  viene  affidata  l’inchiesta  sul narcotraffico  siculo­americano,  e  poi  la  guida  del  pool  che  istruisce  il  maxiprocesso.  Nel  1991  assume  un  ruolo  altrettanto importante quale direttore dell’Ufficio affari penali presso il ministero di Grazia e giustizia. Muore nell’attentato di Capaci, insieme alla moglie e a tre agenti di scorta.

Franchetti, Leopoldo (1847­1917). Intellettuale dell’alta borghesia livornese, vicino alla Destra storica, si impegna nel 1876 in un  viaggio­studio  in  Sicilia  con  Sidney  Sonnino  da  cui  scaturiscono  due  celeberrimi  volumi.  In  particolare  quello  di  Franchetti assurgerà al rango di grande classico degli studi sulla mafia. Evidenzia il retroterra culturale e sociale del problema, collocandolo nel  quadro  della  grande  transizione  storica  tra  due  mondi,  il  feudale  e  il  borghese.  Mette  in  luce  le  responsabilità  delle  classi dirigenti aristocratiche. Definisce i capi­mafia «facinorosi delle classi medie» e la mafia stessa «industria della violenza». Gambino,  Carlo/Charles  (1902­1976).  Nasce  a  Palermo  da  una  famiglia  di  solide  radici  mafiose.  Nel  1921  emigra clandestinamente negli Stati Uniti, e in collaborazione coi parenti di Brooklyn mette su un’impresa per il contrabbando di alcolici. La sua scalata al potere criminale vede un momento cruciale durante la seconda guerra mondiale, grazie al traffico illecito di beni razionati. Negli anni cinquanta prende la guida della Famiglia di Cosa nostra che era stata di Vincent Mangano prima, e di Albert Anastasia poi; e della stessa Commissione direttiva di Cosa nostra americana. Gentile, Nicola/Nick (1885­1976). Nato a Siculiana (Agrigento), sbarca negli Stati Uniti per la prima volta a 18 anni. Il suo libro autobiografico del 1963 colloca meglio di ogni altro gli affari, gli intrighi e i conflitti della mafia in un quadro intercontinentale. Dice  del  ruolo  svolto  da  Gentile  su  entrambe  le  sponde,  la  siciliana  e  l’americana,  nel  corso  di  ripetuti  spostamenti  che  nel  suo mondo gli valgono il soprannome di «carrettiere». Chiude raccontando di come lui stesso abbia collaborato con l’amministrazione alleata della Sicilia. Giammona, Antonino (n. 1830 ca.). È il primo capo­mafia palermitano di cui le fonti permettano di individuare il profilo con una certa precisione. La sua ascesa coincide con i moti rivoluzionari del 1848 e del 1860 ma anche con la restaurazione dell’ordine immediatamente  successiva.  In  questa  Giammona  svolge  un  ruolo  cruciale,  riconosciuto  da  numerosi  esponenti  delle  classi dirigenti, con i quali rimarrà legato anche nel periodo seguente. Molto corrisponde al modello di Franchetti del «facinoroso della classe  media».  Nel  suo  gruppo,  insediato  nelle  borgate  palermitane  di  Uditore­Passo  di  Rigano,  è  in  uso  il  giuramento  mafioso, quale viene registrato per la prima volta in fonti di polizia (1876). Giuliano, Salvatore (1922­1950). Il più celebre dei banditi siciliani. Nato a Montelepre da una famiglia di immigrati «di ritorno» (dall’America),  nel  1943  si  dedica  al  mercato  nero,  uccide  un  carabiniere  e  si  dà  alla  latitanza  formando  una  banda.  Entra  in contatto  col  movimento  separatista  (il  Mis)  e  viene  nominato  colonnello  del  suo  esercito  clandestino  (l’Evis).  Si  macchia  di centinaia di omicidi. I più efferati, quelli perpetrati ai danni di una massa inerme di contadini il 1° maggio 1947, a Portella della Ginestra. La caccia a Giuliano configura la più celebre delle trattative tra gli apparati di sicurezza e la mafia. Gaspare Pisciotta, suo cugino e luogotenente, lo uccide nel sonno. Greco,  Michele,  detto  il  papa  (1924­2008).  È  l’erede  della  dinastia  storicamente  di  maggior  rilievo  della  mafia  palermitana, quella dei Greco; e precisamente del ramo della famiglia detto di Croceverde­Giardini. Si atteggia a patriarca, cita il Vangelo, ha un tenore di vita aristocratico, vanta i propri rapporti con molti esponenti dell’establishment sia sociale che istituzionale palermitano. Il blasone agevola la sua nomina a capo della Commissione provinciale di Cosa nostra, nel passaggio decisivo del 1979­82, ma non gli impedisce di allearsi coi corleonesi. Al termine del maxiprocesso, è condannato all’ergastolo. Muore in carcere. La Guardia, Fiorello (1882­1947). Nasce a New York da una famiglia di origini italiane. Dopo una parentesi giovanile nelle ambasciate di Trieste e Fiume, torna negli Usa, laddove lavora come interprete a Ellis Island (1907­10). La sua fortunata carriera politica viene assunta dai contemporanei a riprova dell’inserimento della comunità italo­americana. Milita nel Partito repubblicano, dandosi però un’immagine di stampo fortemente progressista. Quale sindaco di New York tra il 1934 e il 1945, si identifica con la lotta a corruzione e criminalità. Liggio, Luciano ­ nato Leggio (1925­1993).  Fondatore  della  banda  corleonese,  rappresenta  agli  occhi  dei  contemporanei  una nuova  mafia  dal  volto  più  chiaramente  gangsteristico,  più  capace  di  farsi  strada  con  la  violenza:  ad  esempio  a  spese  del  più consolidato establishment paesano guidato dal dottor Michele Navarra. Gravita poi coi suoi sodali su Palermo e, nel corso di uno dei suoi diversi periodi di latitanza, organizza un’industria di sequestri nel Nord Italia. Finisce definitivamente in carcere nel 1974. Luciano, Charlie detto Lucky ­ nato Salvatore Lucania (1897­1962). Nato in Sicilia, a nove anni sbarca con la famiglia a New York.  Finito  il  proibizionismo,  finisce  per  impersonare  la  figura  del  top­gangster  per  eccellenza.  Arrestato  nel  1936  per sfruttamento della prostituzione, è condannato a una pena da trenta a cinquant’anni, ma alla fine della guerra viene scarcerato, si dice in ricompensa di una sua collaborazione con i servizi segreti. Vera? Presunta? Le polemiche pro e contro non finiranno mai. Rientrato in Italia, agisce da trait d’union tra la mafia americana e quella siciliana. Muore a Napoli per un infarto. Maranzano,  Salvatore  (1886­1931).  Nato  a  Castellammare  del  Golfo,  è  l’unico  mafioso  cui  i  contemporanei  abbiano riconosciuto il rango di boss su entrambi i versanti: su quello siciliano (tra Castellammare e Palermo) nella prima metà degli anni venti, su quello newyorkese a partire dal 1925. Prevale inizialmente nella «guerra castellammarese» combattuta a New York nel 1931 tra i suoi seguaci, quelli di Masseria e quelli di Lucky Luciano; ma alla fine viene ammazzato. Una tradizione nata all’interno stesso  dell’underworld  rappresenta  questo  conflitto  come  la  storia  delle  storie  della  mafia  americana,  come  il  momento  di un’epocale resa dei conti tra nuovo e vecchio mondo. Mori, Cesare (1872­1942). Nato a Pavia, fa carriera nella polizia quale esperto in questioni politiche delicate e in mafia. Nella Sicilia  nel  1917,  le  «squadriglie»  da  lui  guidate,  facendo  ricorso  a  metodi  non  convenzionali,  conseguono  importanti  successi contro il banditismo. Seppur inviso a molti elementi del Partito fascista per la sua vicinanza a Nitti nel periodo postbellico, a partire

da  fine  1925  viene  messo  alla  guida  dell’operazione  antimafia  del  fascismo,  quale  prefetto  di  Palermo  con  competenze straordinarie. I suoi successi sono gonfiati da un enorme apparato propagandistico. Viene messo a riposo nel 1929. Mosca, Gaetano (1858­1941). Nato a Palermo, professore universitario a Torino, parlamentare orientato verso la destra liberale, è considerato uno dei fondatori della scienza politica a livello mondiale. Si ispira a criteri moderati non solo sotto il profilo politico, ma anche sotto quello interpretativo, nell’infuocata discussione sul caso Notarbartolo­Palizzolo. Nel libretto intitolato Che cosa è la mafia (1900), mette in relazione il problema della mafia con quelli più generali dell’allargamento del potere ai ceti sociali intermedi su base municipale. Considerato dai fascisti un precursore per le sue teorie elitiste e anti­democratiche, dopo il 1922 si mantiene tuttavia su una linea liberale negando il proprio sostegno a Mussolini. Palizzolo, Raffaele (1843­1918). Il personaggio più rappresentativo del legame politico­mafioso in età liberale. Nasce a Termini Imerese, da famiglia agiata. Viene eletto alla Camera dei deputati, ed entra a far parte del consiglio generale del Banco di Sicilia. Si impegna in spericolate operazioni finanziarie, per occultare le quali organizza l’assassinio dell’ex­direttore Emanuele Notarbartolo (1893).  Lo  scandalo  per  le  protezioni  di  cui  ha  goduto  porta  la  questione  della  mafia  al  centro  dell’attenzione  pubblica  italiana. Condannato a 30 anni a Bologna del 1902, viene assolto in un nuovo processo che si tiene a Firenze nel 1904. Petrosino,  Joe  (1860­1909).  Nasce  a  Padula  (Salerno)  da  una  modesta  famiglia,  che  emigra  presto  a  New  York.  Qui  vende giornali  e  fa  il  lustrascarpe,  finché  entra  a  far  parte  del  Dipartimento  di  polizia  cittadino.  Acquisisce  grande  fama  nell’opinione pubblica quale capo di una «Squadra italiana» impegnata contro il crimine organizzato. Per indagare sulla Mano nera è inviato in missione segreta a Palermo, dove viene assassinato nel 1909. Il delitto fa della mafia uno scandalo di dimensione internazionale. Pitrè, Giuseppe (1841­1916). Nasce a Palermo, esercita la professione medica, si schiera politicamente al seguito di Garibaldi e poi di Crispi. Quale cultore di studi folkloristici, la sua fama è mondiale. Dà il suo contributo interpretativo, in un celebre scritto del 1889,  inquadrando  la  questione  mafia  nella  cultura  popolare  siciliana,  anche  se  il  suo  rifiuto  di  ammettere  che  si  tratti  di un’organizzazione criminale e la stessa insistenza su un (presunto) significato originariamente positivo delle parole mafia e omertà configurano un’operazione apologetica, dalle forti tinte regionaliste. Ribadirà il punto qualche anno più tardi, quale intellettuale di punta del «Comitato Pro­Palizzolo e Pro­Sicilia». Riina, Salvatore detto Totò (1930­2017). Nato a Corleone da famiglia contadina, luogotenente di Liggio nella gang impegnata a Corleone nella scalata al potere mafioso al passaggio tra anni cinquanta e sessanta. A Palermo diventa lui stesso un boss quando il suo  capo  finisce  in  prigione.  In  alleanza  con  Michele  Greco  e  altri  gruppi  di  mafia  palermitani,  conquista  il  vertice dell’organizzazione criminale. Sotto la sua guida, Cosa nostra perpetra delitti clamorosi, stragi di ogni genere, abbandonando ogni prudenza nei confronti delle istituzioni. Viene arrestato nel 1993 dopo un’interminabile latitanza. Sangiorgi,  Ermanno  (1840­1908).  Romagnolo  (di  Riolo),  entra  in  polizia  nel  1860.  Dotato  di  grandi  abilità  investigative, adottando uno stile non convenzionale, partecipa alle più importanti indagini sulla mafia a Palermo e nell’Agrigentino negli anni settanta  dell’Ottocento.  Viene  destinato  a  reggere  la  Questura  di  Palermo  nel  1898  con  l’incarico  di  troncare  le  complicità  con Palizzolo, e stila tra l’altro un grande rapporto che rappresenta una delle fonti più importanti per la storia della mafia. Sciascia, Leonardo (1921­1989). Nato a Racalmuto (Agrigento), è artefice, in sede sia narrativa che saggistica, di alcune delle riflessioni più scomode e acute sulla mafia. Formatosi in una cultura di sinistra, partecipa delle sue polemiche contro le complicità della Dc, però inserendole in un più vasto discorso sulla vocazione degenerativa del potere. Al passaggio tra anni settanta e ottanta si schiera accanto ai radicali su una linea libertaria e garantista, sul versante del terrorismo e anche su quello mafioso. In questo senso resta celebre il suo ammonimento contro i rischi e gli eccessi del professionismo antimafia. Sindona, Michele (1920­1986). Nato a Patti (Messina), si trasferisce nel dopoguerra a Milano dove nei primi anni sessanta si trasforma misteriosamente da fiscalista in grande finanziere, acquisendo alcune delle più grandi banche italiane e statunitensi. Per la  costruzione  del  suo  impero,  importanti  appaiono  i  legami  con  il  Vaticano,  la  Democrazia  cristiana  e  in  particolare  Andreotti. Nella  seconda  metà  degli  anni  settanta,  mentre  l’impero  va  in  crisi,  maggiormente  si  palesano  i  suoi  legami  con  la  mafia narcotrafficante  siculo­americana.  Nel  1979  fa  uccidere  l’avvocato  Ambrosoli,  liquidatore  della  sua  Banca  privata.  Muore  in carcere avvelenato dal cianuro. Terranova,  Cesare  (1921­1979).  Nasce  a  Petralia  Sottana  (Palermo)  ed  entra  in  magistratura  subito  dopo  la  guerra.  Quale giudice istruttore a Palermo, mostra particolare consapevolezza della gravità del problema mafioso ed è il protagonista della prima controffensiva dello Stato in età repubblicana. Nei processi derivanti dalle sue inchieste, peraltro, emerge la difficoltà di provare in giudizio i crimini dei mafiosi. Si registrano poche condanne e molte assoluzioni. Nel 1972 viene eletto alla Camera dei deputati quale  indipendente  nelle  liste  del  Partito  comunista.  Svolge  un  ruolo  di  grande  importanza  nella  Commissione  antimafia.  Viene assassinato mentre sta per rientrare in magistratura. Turrisi  Colonna,  Nicolò  (1817­1889).  Nato  a  Castelbuono  (Palermo),  aristocratico  di  lignaggio  non  particolarmente  illustre, agronomo  e  innovatore  agrario,  patriota  che  svolge  un  ruolo  importante  nell’organizzazione  della  Guardia  nazionale  nelle rivoluzioni del ’48 e del ’60. In età postunitaria, si schiera con l’ala moderata della Sinistra, è senatore e sindaco di Palermo. Uomo di grandi contraddizioni: da un lato viene accusato non a torto di far ricorso a mafiosi per la protezione delle sue aziende agrarie, dall’altro  ci  fornisce,  nel  suo  opuscolo  del  1864  sui  problemi  dell’ordine  pubblico  in  Sicilia,  la  prima  raffinata  analisi  del fenomeno.

Valachi, Joe (1904­1971). Di origine campana, nasce ad Harlem dove inizia una carriera di gangster di rango non molto elevato. Entra in contatto con la mafia newyorkese quando Maranzano lo recluta come killer nella guerra castellammarese del 1931; fa poi carriera  nell’organizzazione.  Nel  1959  finisce  in  prigione  per  narcotraffico.  Nel  1963,  quando  decide  di  collaborare  con  la Commissione  McClellan,  fornisce  alle  autorità  e  all’opinione  pubblica  informazioni  essenziali  sul  passato  e  sul  presente dell’organizzazione stessa. In particolare, introduce per primo nel dibattito l’espressione Cosa nostra. Vizzini,  Calogero,  detto  don  Calò  (1877­1954).  Nella  raffigurazione  standard  della  mafia,  e  già  agli  occhi  dei  suoi contemporanei, impersona la mafia del latifondo. Nella natia Villalba (Caltanissetta), si comporta nel primo dopoguerra da notabile, favorisce  gli  amici,  gestisce  come  affittuario  e  come  proprietario  aziende  agricole  e  zolfare.  Si  schiera  precocemente  nel movimento cattolico e nell’orbita della Chiesa nissena. Viene processato in periodo fascista, ma senza grandi risultati. Il momento clou  della  sua  carriera  è  il  secondo  dopoguerra:  nominato  sindaco  dagli  Alleati,  aderisce  al  movimento  separatista,  ed  è protagonista  della  famosa  aggressione  nella  piazza  di  Villalba  al  leader  comunista  Li  Causi,  che  segna  visivamente  il posizionamento politico della mafia.