La macchina per pensare. Alla scoperta del cervello

Un saggio del 1983 che si propone di far comprendere al lettore le dinamiche del cervello e del comportamento. Il libro

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La macchina per pensare. Alla scoperta del cervello

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Piero Angela LA MACCHINA PER PENSARE

Garzanti

Disegni di Eligio Brandolini

•,é) Garzanti Editore s.p.a., 1983 su

Edizione CDE spa - Milano l cenza della Garzanti

i

Editore

Indice

Introduzione

5

1. I primi 4 miliardi di anni

8

2. Il cervello comincia a funzionare

29

3. Il lungo viaggio verso l'uomo

45

4. Il lunguaggio, il fuoco, le migrazioni

68

5. Dentro il cervello

92

6. La costruzione delle memorie

103

7. La macchina per pensare

114

8. Il gioco delle parti

128

9. La macchina degli istinti

142

10. Uomini e crostacei (Amore, amore, amor...)

155

11. Noi e gli altri

168

12. Quella certa età...

187

13. Arriva la microelettronica

203

14. L'intelligenza artificiale

227

15. Due o tre cose sull'apprendimento

245

16. Verso il futuro

264

INTRODUZIONE

Un chilo e mezzo di cellule nervose , 4 miliardi d'anni di evoluzione . Il nostro cervello , proiettato nel futuro dell'elet­ tronica , porta ancora stratificata dentro di sé la storia della vita. Istinti , emozioni , strutture arcaiche e recenti si sovrap­ pongono e si intrecciano , in uno scambio di influenze e retro-azioni che determinano , in definitiva, il comportamen­ to . Ma da dove veniamo? E, soprattutto , dove andiamo? Questo libro , che rielabora in modo nuovo e originale un vasto materiale scientifico che è stato alla base , tra l'altro , del programma televisivo « Quark » (oltre che di numerosi inter­ venti giornalistici) , intende seguire le orme dell'Homo sa­ piens , cominciando dalle prime incerte impronte della sua lontana origine , per accompagnarlo verso quel nuovo orizzon­ te tecnologico dove lo attendono , insieme a molti rischi , anche grandi opportunità di sviluppo . L 'itinerario seguito nel racconto è dei più affascinanti : partendo dalle origini della vita (e dai più recenti studi sulla storia dell'evoluzione) vedremo come l'adattamento abbia

portato gli esseri viventi a sviluppare comportamenti sempre più complessi , fino alla comparsa di quella straordinaria facoltà che ha piano piano cambiato la storia evolutiva : l'apprendimento . Con l'uomo , infatti , questo fenomeno è esploso . Alzatosi in piedi dopo un lungo percorso , l'uomo eretto nel giro di pochi milioni di anni ha sviluppato enorme­ mente il suo cervello e la sua capacità di apprendere , adattan­ dosi a ogni ambiente, migrando in tutto il pianeta e inventan­ do linguaggi , strumenti , tecnologie , culture. 5

Esploreremo da vicino la macchina cerebrale umana , cer­ can do di capire come tra le cellule nervose si annidi l'intelli­ genza , la creatività, l'astrazione , l'invenzione; e anche quali siano le radici del rappo rto di coppia, deJJ'aJtruismo, deJJa solitudine , della timidezza . Vedremo come gli antichi istinti e le emoz i on i conti nuino a essere present i in ogn i t ipo di

comportamento, individuale o sociale.

M a l'uomo , con q uesto suo bagaglio di cellule immaginanti e di cellule primordiali , con le sue vocazioni futuribili e i suoi ri flessi paleolitici , come sta entrando nel nuovo mondo tecno­ logico che gli si sta ora aprendo? Le immense e rapid issime trasformazioni che si sono verificate in breve tempo nel nostro ambiente (e quelle che s tanno per verificarsi con le nuove rivoluzioni tecnologiche , come la micro-elettronica) non ci trovano per caso in fuori-sincrono cerebrale? Il nostro cervello , in teoria, è pronto a questo nuovo salto d'epoca, perché è ben lontano dall'avere esaurito Je sue

immense potenzialità ; del resto con certe nuove tecni che di apprendimento il processo di adattamento mentale potrebbe essere oggi molto accelerato . Il problema è piuttosto quello di diffondere una cultura che sia in grado di stimolare davvero l'uomo ad affrontare razionalmente questi cambiamenti : una cultura, cioè, che lo abitui a capire rapidamente l'essen za dei nuovi problemi man ma no che si po ngono , ad aggiornare ogni volta i suoi comportamenti , a vedere meglio le conseguenze lontane dei suoi gesti e a comprendere le conne ssio ni tra i vari fattori (e anche le loro incompatibilità ) .

È

lungo questo percorso che si snodano i vari capitoli del

libro , toccando gli aspetti significativi di questo tracciato: le o rigi n i della vita, l'evoluzione, la comparsa dell'apprendi­

mento negli animali , l'apparizione dell'uomo, l'adattamento all'amb i ente , le strutture cerebrali , gli istint i e l'emotività , l ' amore , l' i nvenzi one te cn ol ogic a la micro-elettron i ca, i nse­ ,

gnamento e apprendimento, il ruolo della scienza, la cultura

industriale. È insomma una grande p l anata sopra miliardi di anni e den tro miliardi di cellule, con un sorvolo a bassa quota del 6

paesaggio umano e una serie di atterraggi sui picchi emer­ genti . Al centro di questo paesaggio finiremo sempre per ritrova­ re la nostra «macchina per pensare» che , formatasi attraverso un lungo bricolage di cellule , rimane in definitiva il solo strumento che può permetterei di adattarci ai cambiamenti ambientali . Il libro cercherà (come è avvenuto spesso nel programma « Quark ») di collegare insieme ricerche a volte assai diverse tra loro , ma che in realtà si ricompongono in un unico discorso : quello della grande avventura umana , che partendo dalle molecole primordiali sta arrivando ora alle civiltà post­ industriali . Desidero ringraziare , per il loro contributo a questo libro , Franco Foresta Martin , Danilo Mainardi , Lorenzo Pinna, Giangi Poli e Marco Visalberghi . I loro interventi verranno di volta in volta evidenziati . Il mio grazie a Rosanna Faraglia, Cecilia Cappelli e Dona­ tella Levi , che anche quest'anno hanno così intelligentemente collaborato al difficile progetto di diffusione della scienza nel nostro paese .

7

l

·

l PRIMI

4

MILIARDI DI ANNI

La moviola del temp o

Da dove vengono le cellule che compongono il nostro corpo e anche il nostro cervello? I n questo primo capitolo cercheremo di salire e scendere tra le ere con la moviola dell'evoluzione . Prima risalendo rapida­ mente fino in testa alla bobina, cioè all'origine della vita , poi ridiscendendo qua e là tra le varie sequenze per cercare di capire come si sono organizzate le scale evolutive , e anche come si è passati da un fotogramma all'altro . È un percorso molto lungO e complesso , e naturalmente non entreremo nei dettagli , poiché non è questo il nostro scopo : più che altro daremo una rapida occhiata d'insieme a certi meccanismi dell 'evoluzione per rivedere come possono essere avvenute le trasformazioni che hanno portato all 'appa­ rizione di tante forme viventi , compresa quella umana , e anche come l'adattamento sia stato sempre l'esigenza di fondo per la sopravvivenza della vita.

Il discorso cercherà di essere il più semplice possibile , ma questo primo capitolo richiederà forse un po' più di buona volontà da parte del lettore , data la complessità dell'argo­ mento . Il punto di partenza potrebbe essere p ro prio il nostro corpo . Da dove vengono dunque queste nostre cellule? Se potessimo andare all'indietro nel tempo con una imma­ ginaria « moviola biologica » ci renderemmo conto che in pratica noi siamo fatti di copie di cellule che erano già vive in 8

tempi remotissimi , e che sono giunte sino a noi come in una corsa a staffetta ; lungo la quale sono avvenute continue mutazioni e modifiche . Infatti , cominciando ad andare a ritroso nel tempo fino alla nostra nascita individuale , vedrem­ mo a un certo momento le cellule convergere verso un solo punto : l'ovulo fecondato che ci ha dato origine . Ma l'ovulo fecondato era , a sua volta , il risultato di due cellule che già esistevano : cioè Io spermatozoo e l'ovulo femminile . E queste due cellule, a loro volta , provenivano per « distacco » da due individui già vivi (i genitori). I quali erano nati anch'essi da un ovulo fecondato , che derivava da due cellule di individui preesistenti (i nonni) , e così via . Percorrendo così all'indietro questo itinerario cellulare della vita , finiremmo per risalire il grande fiume dell'evoluzio­ ne , incontrando a un certo momento i nostri progenitori mammiferi, rettili , anfibi , pesci , invertebrati , su su fino alle prime forme cellulari e ai batteri primordiali . E poi ? Poi si La grande piramide dell'evoluzione potrebbe avere al suo vertice una sola molecola capace di replicarsi (DNA). Attraverso i cc montaggi» più diversi essa

ha finito per dar origine a quell'immenso repertorio vivente che oggi vediamo in natura.

9

arriverebbe a un punto in cui tutte le forme viventi teorica­ mente convergono : l'origine della vita . Cosa c'era in quel punto? Negli ultimi decenni i ricercatori hanno scoperto una cosa sorprendente : tutte le forme viventi esistenti sulla Terra , dalle fragole agli elefanti , hanno lo stesso « marchio di fabbrica cioè sono strettamente imparentate . In altre parole , malgrado le immense diversità esterne , la loro struttura intima è la stessa : tutti usano gli stessi amminoacidi per costruire le loro proteine e le stesse 4 basi per costruire la loro informazione genetica. L' alfabeto biochimico è esattamente lo stesso , an­ che se le varie lettere si associano poi in modo diverso , così come avviene in un linguaggio, dove variando le combinazioni delle lettere si costruiscono infinite parole , frasi , discorsi . Un dato significativo sembra dunque emergere : tutto ciò che vive oggi in natura (balene , piselli , coccodrilli , ortensie) ha avuto con ogni probabilità un antenato comune . Chi era? >>

L'origine della vita

Gli studi sull'origine della vita continuano attivamente , anche se la strada è lunga e difficile . Esistono varie ipotesi , come è noto : quella prevalente è che circa 4 miliardi di anni fa nel « brodo caldo » iniziale (cioè negli oceani pieni di moleco­ le organiche , prodotte dall 'azione dei fulmini e delle radiazio­ ni sui gas primitivi della Terra) sia a un certo punto nata una molecola capace di auto-replicarsi , sotto l'azione dell'energia solare : il DNA. Il nostro lontano « antenato » sarebbe appunto questa molecola di base , che associandosi chimicamente ad altre strutture in modo sempre più complesso ha continuato per miliardi di anni a sdoppiarsi , trasformarsi e ricombinarsi nei modi più diversi , scrivendo così pian piano la storia dell'evoluzione . Naturalmente mancano le prove materiali che all'origine questa struttura molecolare fosse sostanzialmente la stessa di 10

quella attuale (non esiste infatti la possibilità di esaminare il codice genetico dei fossili) ma il confronto fra le forme viventi di oggi e quelle più antiche (per esempio tracce di batteri ritrovati in rocce di 3 miliardi e mezzo di anni fa) fa ritenere che il meccanismo fosse effettivamente dello stesso tipo . Alcuni pensano che questo innesco )) primordiale , questo montaggio spontaneo di molecole nel brodo caldo , sia da considerarsi un evento con basso indice di probabilità, perché avrebbe richiesto tempi troppo lunghi . Per questa ragione sono state fatte ipotesi secondo le quali la materia prima )) di b.ase avrebbe potuto essere fornita direttamente dallo spazio , sotto forma di molecole organiche già più complesse trasportate dalle comete (si è visto infatti che lo spazio è pieno di molecole organiche : ne sono state contate varie decine di tipi diversi e alcune sono arrivate sino a noi dentro i meteori­ ti ) . O addirittura la vita avrebbe potuto arrivare qui sulla Terra con una sonda extraterrestre sotto forma di batteri ( questa è la sorprendente e fantasiosa tesi avanzata recente­ mente dal premio Nobel Francis Crick , uno degli scopritori della struttura a doppia elica del DNA, il quale , partendo dall'idea che dei batteri congelati possono viaggiare anche diecimila anni nello spazio , ipotizza che in questo modo un' antica civiltà , vissuta miliardi di anni fa , avrebbe potuto disseminare la vita su certi pianeti della Galassia adatti a ospitarla , come appunto la Terra . . . ) . Altri ritengono , più semplicemente , che il montaggio spon­ taneo abbia invece avuto largamente il tempo di prodursi sulla Te rra primordiale : in laboratorio - dice uno dei più noti ricercatori del settore , Cyril Ponamperuna - è possibile creare spontaneamente amminoacidi in sole 24 ore; qualche milione di anni (o anche molto meno) è forse bastato in natura per generare una molecola capace di autoreplicarsi come appunto il DNA. Nei prossimi anni ne sapremo forse di più . Tuttavia sembra esserci sin d'ora un punto comune a queste varie ipotesi : e cioè che tutte le forme viventi sembrano discendere da una sola parte nza . In altre parole. la grande piramide dell'evolu«

«

11

zio ne avrebbe al suo vertice un 'unica famiglia di molecole (o forse una sola molecola) ; e ciò spiegherebbe la grande unitarietà dei processi vitali . Nel corso dell'evoluzione . i vari filoni , ramificandosi e montando i vari pezzi in un'infinità di combinazioni diverse , hanno poi finito per costruire quell'im­ me nso repertorio di animali e vegetali che oggi vediamo intorno a noi , e che ritroviamo nei giacimenti fossili . Ma perché proprio quelli e non altri? Il bricolage dell'evoluzione

Probabilmente se , per ipotesi , oggi tutto ricominciasse da capo si avrebbero montaggi » molecolari diversi , tra i tanti ipotizzabili . Cioè altri animali , fiori , piante . La lotteria gene­ tica , infatti , si è sviluppata lungo agganci casuali , mutazioni , ricombinazioni , frammenti inutili trascinati alla deriva per generazioni e poi improvvisamente rientrati in gioco in strut­ ture nuove . Una volta imboccata una certa strada, però . questo « gioco dei possibili » , come lo chiama François Jacob, premio Nobel per la biologia, si è orientato in un determinato modo e ha cominciato a costruire sull'esistente . In altre parole l'evoluzione - per usare sempre una immagine di Jacob - procede in larga misura attraverso una specie di bricolage biologico che permette di assemblare in modo nuovo cose vecchie . Senza un progetto particolare . L'evoluzione non sa cosa produrrà , ma recupera tutti i pezzi che trova per costruire cose diverse , così come si può costruire un ventilatore partendo da una ruota o un ombrellone parten­ do da un tavolo . Analogamente da una zampa può nascere un'ala, da un frammento di mascella un pezzo di orecchio . Certe parti, leggermente modificate , possono essere utilizzate per altre funzioni , tagliando , allungando , ritoccando . Un esempio significativo : il polmone . Il polmone sembra essersi formato , secondo certi studi , a partire dall'esofago di antichi pesci d'acqua dolce , che vivevano in paludi . Per «

12

pr oc urarsi

più ossigeno questi pesci cominciarono a inghiotti­ re aria e assorbirla attraverso le pareti dell'esofago: per progressiva selezione si svilupparono dei diverticoli (delle « ernie » ) che diedero pian piano origi ne a dei p ol moni . « Fabbricare un polmone con un pezzo di esofago, » com ­ menta a questo punto Jacob, « assom igli a molto a fare una gon n a con una tenda della nonna ...

>>.

Alla base di questa « fabbrica delle diversità

>>

esistono vari

meccanismi: que l l o fonda menta l e è. come è noto, la mutazio­

ne . Per esempio un errore di copia nella ca t e na mole colare d e l DNA, nel corso de lla replicazione, poteva dar origine a un individuo con caratteristiche leggermente diverse: il più delle vol te si trattava di m u tazioni letali (malformazioni, difformi­

esse venivano acce ttate (o addiritt ura esaltate ) d all 'am bie n t e . Com e dice il proverbio,« non tutte le ciambelle riescono col buco »: m a se con queste cia mbelle sbagliat e si possono fa re a ltre cose, allora « non tutto il male vien per nuocere ». E « da cosa nasce cosa ». tà) ma alle

volte

Le m utazioni. gli errori di copia, gli « agganci » sono

stati

in pr atica alla base di questa produzione di diversità biologica

sulla quale poteva poi operare la selezione . Ma nel corso dell'evoluzione sono apparsi anche altri meccanismi, per modificare le diversità: uno di questi è la ri prod uzione sessuale. Vi siete mai chiesti perché l'uomo e la donna possiedono ognuno soltanto una metà del l o rgano di riprodu­ zione ? E debbono impegnare tanto tempo (e e ne rgie) per mettere insieme le loro due parti? La risposta, ovvi a me nt e . è '

che questa riproduzione a due ha permesso di rimescolare i

cromosomi e quindi di ridistribuire le m utazioni favorevo­ li che altrimenti sarebbero rimaste se parate in individui di­ verst. Così ognuno di noi, at traverso i riti del corteggiamento

c

dell'accoppia mento (con tutto quell o che ciò com porta: inve­

stimenti, stratagemmi, emozioni, ma ga ri anche che),

diventa

stru m ento

inconsapevo le

poesie e m usi­

di quelr esigenza

fondam entale della nat ura che è la produzione di diver­ sità.

13

L'uomo

e

lo sCimpanzé

La cosa sorprendente , nei meccanismi genetici , è che basta a volte un piccolo cambiamento per produrre grandi differen­ ze: è un po' come nel gioco degli scacchi, dove è sufficiente che un pezzo sia spostato magari di una sola casella per modificare totalmente la situazione del gioco . U n esempio può illustrare bene questo discorso: la differen­ za tra lo scimpanzé e l' uomo. Tra lo scimpanzé e l 'uomo infatti le differenze genetiche sono minime: mediamente nell'uomo una catena proteica (cioè la « proiezione » del DNA) è per il 99 per cento identica alla sua omologa dello scimpanzé (le diversità , del resto , corrispondono in gran parte a delle ridondanze del codice genetico) . Dove sta allora la vera differenza? Forse , dicono alcuni studiosi , sta nella diversità di alcuni « geni di regolazio­ ne ». Per esempio dei geni che regolano in modo ritardato lo sviluppo umano , vale a dire che agiscono un po' come un potenziometro che regola in modo diverso i tempi di certi processi . È stato spesso fatto notare, i n proposito . che gli esseri umani assomigliano molto più a uno scimpanzé neonato che a uno scimpanzé adulto: è come se l'embrione umano si svilup­ passe seguendo uno schema ritardato . Alla nascita infatti il neonato umano non è ancora maturo (le cellule del cervello continuano a « maturare >> durante tutto il period o dell 'infan­ zia). quasi che il bambino fosse nato anzitempo, e conservasse nell'infanzia il modo di espressione dei geni che caratterizza­

no l'embrione . Ciò ha probabilmente permesso. ritiene Ja­ cob , il fissarsi di caratteri tipicamente umani , come la mascel­ la di dimensioni ridotte. i canini piccoli . la pelle nuda e la posizione verticale . La conseguenza di questo schema ritardato è che , nell'uo­ mo, l 'infanzia risulta particolarmente lunga e i genitori devo­ no occuparsi per molti anni dei propri piccoli, creando così indirettamente le condizioni più adatte allo sviluppo cultura­ le. Volendo fare un esempio semplice, immaginiamo di avere 14

un gesso a presa rapida e uno a presa lenta : lo scultore avrà più tempo di modellare e cesel lare quello a presa lenta , e a farne un'opera più elaborata. La stessa cosa avviene per un cervello che matura più lentamente. Lo svantaggio di una tale sit uazi on e è che in questo modo i piccoli dell'uomo sono diventati assai più vulnerabili degli altri animali (molti dei quali , già poco dopo la nascita, sono in g r a do di camminare da soli e procura rsi il cibo) : i piccoli dell'uomo sono dipendenti dalle cure pa rental i quasi come un fet o che continua a svilupparsi . Tuttavia questo svantaggio è stato di gran lunga compensato dalle possibilità offerte dallo sviluppo mentale Sì ritiene del resto che sia proprio questo uno dei meccanismi che hanno creato quella « pressione selettiva (cioè quella continua gara a eliminazione) che ha portato a cervelli sempre più idonei a usufruire di questo vantaggio , e .

>>

quindi a cervelli sempre più capaci di« intelligenza

»

(riprende­

remo l'argomento in un successivo capitolo) . Il tagliacarte di Darwin

Certo che se Darwin potesse affacciarsi un attimo nella nostra epoca � vedere tutto quello che di nuovo si è capito nei cent'anni che hanno seguito la sua morte , non finirebbe di stupirsi e anche di rallegrarsi nel vedere quanto la sua opera sia stata portata avanti . E, da buon scienziato , si rallegrereb­ be anche nel vedere come molti aspetti del suo lavoro hanno dato origine , a volte , anche a nuove teorie capaci di superare

certe sue visioni che erano necessariamente limitate dalla mancanza di certe conoscenze. Basta pensare che cento anni fa praticamente non esisteva la gene t ica s enza p a rla r e di t utte le nuove acquisizioni nel ,

campo della paleontologia e dell'etologia. Darwin ha offerto

ai ricercatori un prezioso tagliacarte per cercare di le ggere nel libro della natura: e graz ie al suo lavoro possono oggi esse re aperte nuove pagine che magari raccontano cose nuove e anche n on p re v ist e . 15

Una delle teorie più interessanti , emersa negli ultimi anni , è quella cosiddetta dell'« equilibrio puntuato ». Essa si iscrive nel quadro ge nerale dell'evoluzione darwiniana (i suoi autori sono convinti evoluzionisti ) , ma contrasta con le idee di Darwin sulla durata dei tempi evolutivi . Darwin riteneva che il passaggio da una specie all'altra richiedesse tempi molto lunghi , milioni di anni , a causa della gradualità dei cambia­ menti : questa gradualità però non era confermata da ritrova­ menti fossili . Mancavano molti « anelli », vale a dire quelle forme intermedie che testimoniassero dei vari passaggi da una specie all' altra . Darwin attribuì ciò alla insufficienza di ritro­ vament i fossili . Due paleontologi americani , Stephen J . Gould e Niles Eldredge , hanno invece avanzato l'idea che questi anelli mancanti probabilmente non sono quasi mai esistiti : nel senso che l'evoluzione potrebbe essere stata caratterizzata da perio­ di di relativa stabilità punteggiati da squilibri improvvisi durante i quali avrebbe potuto apparire rapidamente una nuova specie (per nuova specie si intende qui , naturalmente , una forma vivente molto simile a quella precedente ma con sufficienti differenze nei cromosomi da non potersi più accop­ piare con essa e dar luogo a una prole fertile) . Ebbene , partendo alla ricerca di prove che dimostrassero la validità di questa teoria. qualche anno fa si sono scoperti nella Valle della Morte , tra il Nevada e la California, dei pesciolini che sembrano dar ragione (almeno in questo caso) ai due paleontologi . Si chiamano « pesci-cucciolo » e sono miraco­ losamente scampati all'est i nz i one rimanendo in trappolat i 50 . 000 anni fa in una buca d'acqua alimentata da una sorgen­ te , mentre tutt'intorno avanzava il deserto . Nella zona si sono evoluti almeno altri 4 gruppi di questi « pesci-cucciolo Rimasti così isolati in piccole comunità (poche centinaia di individui) , questi pesci hanno conosciuto un'evoluzione sepa­ rata, che nel giro di poche migliaia di anni li ha portati a d i ventare così d iversi da costituire vere e proprie specie differenti (e forse in alcun i casi dei generi diversi ) . Cioè è accaduto qualcosa di analogo a quanto era avvenuto >>.

16

coi famosi fringuelli delle isole Gahipagos, che Darwin aveva studiato cos ì bene (questi uccelli svilupparono becchi diversi come adattamento evolutivo ai diversi cibi di cui si nutriva­ no): la differenza notevole però è che nel caso dei « pesci­ cucciolo » è stato possibile avere la prova che questi cambia­ menti si sono prodotti in tempi relativamente molto brevi : forse solo poche migliaia di anni . E hanno coinvolto l'intero gruppo . Va comunque detto che questo procedere a salti » no n significa che , nell'insieme , i1 movimento non sia graduale . In altre parole la differenza tra il gradualismo e questo « salta­ zionismo >> sembra, in un certo senso , essere quella che esiste tra un lungo piano inclinato e una lunga scalinata : entrambi p artono dallo stesso punto e arrivano alla stessa destinazione , seguendo la stessa pendenza . Visti da lontano posso n o persi ­ no sembrare la stessa cosa . I gradini, del resto , possono essere a v o lt e così piccoli e numerosi da rendere le due immagini simili anche da vicino (per esempio , molti paleontologi , come Cronin , Boaz, Strin­ ger, Rak, co nt e st ano la teoria di Gould degli equilibri puntuati » per quanto riguarda la nascita dell'uomo : vi sono sufficienti reperti , essi dicono , che indican o la gr adualità dei vari passaggi, non c'è prova di lunghi pe r iodi di stasi con improvvisi « s c alin i >>) . Comunque sia, questa difficoltà dì ritrovare i vari «anellì» intermedi nei reperti fossili ha probabilmente una spiegazione tecnica. In natura , infatti , esistono non soltanto delle muta­ zioni fav o r ev o li o dannose , ma anche delle mutazioni «neu­ tre» , che un individuo può portarsi addosso senza conseguen­ ze e trasmetterle alla disce ndenza senza che esse si affermino o si diffondano: questi graduali cambiamenti neutri )) (e magari il loro accumulo) a un certo momento possono risultare favorevoli in un particolare ambiente , e diffondersi rapidamente . Ecco come da pochi individui gradualmente « mutanti >> può nascere a un certo punto una nuova specie. Andare a ritrovare questi individui d i transizione diventa allora come vincere un terno al lot t o . Perché la massa di «

«

«

17

animali vissuti sulla Terra è incredibilmente immensa (miliar­ di di miliardi) mentre i resti fossili trovati e catalogati sono relativamente pochi : è come disporre di solo un milionesimo di miliardesimo dei pezzi nella ricostruzione di un puzzle. Dall'anfibio al rettile, all'uccello

Malgrado tutto , un certo numero di « strategie )) evolutive sono state individuate , che indicano in quale modo possono essere avvenuti passaggi assai importanti , come per esempio quello dall'anfibio al retti le , o dal rettile all'uccello . Esse ci danno un'idea di come può operare l'evoluzione . Gli anfibi sono animali, come si sa, in posizione intermedia tra l'ac qua e la terra : da piccoli vivono in pratica come pesci e da adulti come animali quasi terrestri. Si può supporre che trecento milioni di anni fa alcuni anfibi abbiano cominciato a deporre delle uova fuori dall'acqua, evitando così che fossero predate dai pesci , e che tra i piccoli nati se ne sia a un certo punto sviluppato qualcuno capace di abbreviare lo stadio acquatico iniziale ( « concentrando )) la fase della respirazione con le branchie al pe riodo in cui era chiuso nell'uovo). In tal caso l 'evoluzione verso il rettile avrebbe compiuto il suo passo decisivo . Ma chi può provare che a un certo punto degli anfibi cominciassero davvero a deporre delle uova fuori dall'acqua (dal momento che oggi non possiamo averne una traccia fossile)? Ebbene, nel mondo degli anfibi attuali esistono pro prio delle uova resistenti all'essiccamento, che possono essere deposte fuori dall'acqua, in zone marine. Non si tratta di un « anello mancante )) , certo , ma di un 'indicazione abbastanza si gnificativa di come p uò essere avvenuto in passato il passag­ gio dall'anfibio al rettile . Per il passaggio dal rettile all' uccello si hanno invece indicazioni assai più probanti . Qualcuno , del resto , dice scherzosamente che basterebbe spennare un pollo, per accor­ gersi quanto assomiglia a un piccolo dinosauro. . . In realtà 18

esistono dei reperti fossili (il famoso Archaeopteryx) che mostr an o tracce di que sti anelli intermedi: l'Archaeopteryx aveva lo scheletro di un rettile (con denti e arti anteriori ) ma i l corpo era ricoperto di penne . E presentava già una saldatura delle clavicole che avrebbe poi permesso agli uccelli di battere rapidamente le ali . Ma come mai a un tale rettile sarebbero a un certo punto spuntate le penne? Si ritiene che si trattasse di una trasforma­ zione delle scaglie della pelle. favorita dal fatto che le penne potevano servire come isolante termico . La loro prima funzio­ ne , in altre parole, non era quella di permettere il volo , ma di tener caldo il corpo . Ciò spiega come può essere avvenuta la transizione . Non dobbiamo infatti pensare che una trasformazione così com­ plessa come quella dal rettile all'uccello possa essere avvenuta di colpo : per volare sono necessarie troppe cose contempora­ neamente perché ciò avvenga grazie a una serie di mutazioni simultanee. Oggi ci s on o v ari e ipo tesi su come un rettile piumato può avere , a un certo punto , spiccato il volo. Alcuni ritengono che inizialmente fosse un corridore, che inseguiva le sue prede e le afferrava con g li arti gli : questi primi abbozzi d'ala cominciarono a servire per compiere balzi più efficienti, e solo in seguito divennero un supporto per qualche prima planata e infine per i l volo . Un'altra teoria, invece, è che l'Archaeopteryx fo ss e un abitatore degli alberi (le sue zampe sembrano essere quelle di un arrampicatore) che cominciò a planare da un ramo all'al� tro , facilitato dal suo piumaggio : in questo modo sviluppò pian piano le altre caratteristiche del volo . Il volo, del resto , è apparso in modo indipendente in vari altri tipi di animali , nel corso dell 'evoluzione : basta pensare agli insetti , agli pterosauri (r e tti li volanti con membrane) e ai pipistrelli . Senza contare naturalmente le grandi planate degli scoiattoli volanti e dei pesci rondine . Insomma , l'evoluzione sembra dimostrarci una certa faci� lità » nel realizzare dei passaggi evolutivi che a noi sembrano così complessi . Basta pensare che un passaggio ancora più «

19

l'Archaeopteryxè ritenuto una delle forme di transizione tra i rettili e gli uccelli. Le penne, derivate dalle scaglie, non erano destinate inizialmente a facilitare il

volo ma, probabilmente, a tener caldo il corpo.

spettacolare, come que llo che ha portato all'occhio, è st ato realizzato ben tre volte in modo indipendente , nel corso dell 'evoluzione: nei molJuschi , negli insetti , nei vertebrati . Le infinite strade dell'evoluzione

Può anche darsi che oggi non riusciamo a capire a fondo certi meccanismi evolutivi perché non sappiamo ancora bene come funzioni tutto ciò a livello di DNA, di mutazioni; può darsi che in futuro una migliore comprensione renda il processo più chiaro . Un solo esempio : nell 'organismo umano soltanto l'l ,7 per cento del

DNA

è« attivo »,cioè serve a dare

le informazioni per le proteine . E l'altro 98,3 per cento , a che cosa serve? Cosa nasconde? Sembra che in larga maggi ora n za questo materiale genetico silenzioso » racchiuda sequenze identiche , ripetute centinaia o migliaia di volte . Ma molte cose restano da chiari re . «

20

Quello che risulta in sostanza d a tutto ciò , è che i meccani­ smi evolutivi dispongono di un 'immensa capacità di adatta­ mento . In ogni direzione . Infatti , non bisogna pensare che l'evoluzione abbia una direttrice di marcia. dal basso verso l'alto , dall 'acqua verso la terraferma , sempre verso la m agg ior complessità. In realtà l'evoluzione non sembra avere una finalità : spinge semplice­ mente le forme viventi mutanti verso certe nicchie ecologiche a loro più favorevoli , là dove c'è cibo , sicurezza , possibilità di sopravvivenza .

Può succedere , per esempio , che un animale ripercorra la strada inversa , e iiopo essere diventato un mammifero terre­ stre ritorni negli oceani prenden do nuovamente l'aspetto di un pesce : è quello che è c apitato alla balena. Recentemente

sono stati trovati nel Pakistan i resti fossili di un animale inte r me dio , che viveva sulla terraferma 50 milioni di anni fa, e che è forse la forma di transizione tra un mammifero terrestre e le balene.

È stato chiamato Pakiceto.

Del resto basta guardarsi intorno per rendersi conto che mo ltissime forme viventi non so no quasi cambiate , nel corso di miliardi di anni : non hanno avuto bisogno di evolversi , per sopravvivere. Possiamo, infatti, ancora oggi vedere rettili, anfibi , pesci , molluschi o anche batteri , non molto diversi da quelli primordiali . L'importante è essere adatti al proprio ambiente . E produrre continuamente una sufficiente variabilità genetica, in ogni direzione, in modo che quali che siano i cambiamenti ambientali ( non prevedibili) ci sia sempre qualcuno capace di occupare nuove nicchie ecologiche e di adattarsi (in modi magari diversi , perché possono esistere molte soluzioni per uno stesso proble­ ma: così come possono mancare le soluzioni adatte a un problema del tutto nuovo , e allora una specie entra in crisi) . Questa regola dell'adattamento ha, a volte , dovuto faticare non poco per affermarsi . Durante la storia della vita , infatti , si sono verificate delle estinzioni in massa. È successo , cioè , che in un tempo relativamente molto breve sono scomparse moltissime specie , quasi tutte insieme: come mai? 21

l'estinzione dei dinosauri fu solo una delle g rand i crisi che colpi rono la Terra. Nella storia della vita ne sono awenute almeno altre quattordici . E per sei volte la vita ha rischiato di scomparire del tutto.

Come si sa l'estinzione dei di nosauri, e dei grandi rettili che hanno dominato la Terra per oltre 1 00 milioni di anni. ha fatto discutere molto , e le ipotesi più disparate sono state avanzate . Cosa può essere veramente successo? Lo studio di questa catastrofe biologica può forse essere utile per capire meglio quanto sia sottile il filo d'equilibrio su cui cammina o gni forma vivente, e come sia anche facile passare , come è avvenuto per i dinosauri . dal dominiò assoluto alla morte totale.

Lo studio delle catastrofi del passato , del resto, può essere utile per capire anche un'altra cosa : e cioè come nel gioco dell 'evoluzione un 'estinzione biologica possa rilanciare nuovi sviluppi della vita , così come in una partita a scacchi la 22

«

scomparsa

»

di alcuni pezzi dominanti può permettere lo

sv i luppo di nuove geometrie di gioco, prima non possibili. In

tal senso, qualcuno ritiene che tutta l'evoluzione dei mammi­

feri (e quindi l'origine stessa dell'uomo) sia stata indiretta­

mente influenzata da quel lontano avvenimento , verificatosi

65 milioni di anni fa .

La scomp arsa dei dinosauri (di Giangi Poli)

È po ssibi le che l'estinzione dei dinosauri, avvenuta circa 65

milioni di anni fa , abbia condizionato a tal punto lo sviluppo e dei mammiferi più evoluti , incluso l'uomo? È possibil e , in altre parole, che la nostra presenza sul pianeta sia dovuta (o almeno sia stata parzial m ente favorita) dalla scomparsa di q ue i giganteschi bestioni? Secondo alcuni ricercatori , fra i quali il professor Dale Russell de l Museo Nazionale Canadese di Scienze Naturali, la grande crisi biologica che portò alla sparizione di quei rettili permise lo svilu pp o di altri animali fino allora tenuti in sottordine , per così dire , dai dinosauri . Alcuni studi del professor Russe)) hanno dimostrato. fra l'altro, un progressi­ vo ingrandimento del cervello di alcuni dinosauri prima della loro scomparsa , l'acquisizione della posizione eretta , la pre­ senza di un dito opponibile per afferrare ecc . Russell ritiene che, p ro b a b il m e n te se non fossero sco m p a rsi , i dinosauri dominerebbero oggi la Terra al posto dell'uomo . È un'ipotesi affascinante , e naturalmente non dimostrabile : ma che ricalca quanto è avvenuto moltissime altre volte nel corso dell'evoluzione animale e vegetale . Specie più vecchie, o più deboli , si sono più o meno rapidamente estinte , mentre specie più robuste , o più adattabil i , si sono fatte strada (si parla spesso di milioni d'anni, di decine di milioni d'anni ) , per poi essere sopravanzate, a loro volta, da altre specie . È il grande gioco della selezione naturale, un gioco spietato con Je l'evoluzione de lla vita sulla Terra da portare alla comparsa

,

23

sue leggi ferree che eliminano inesorabilmente i più deboli e che favoriscono la sopravvivenza dei più resistenti, dei più adatti , dei più furbi ». La grande estinzione dei dinosauri va vista in questa ottica , un'ottica nella quale debbono essere viste anche le altre crisi de lla vita avvenute nel passato (quella dei dinosauri non è né l'unica , né la maggiore , anche se colpisce di più la fantasia per le enormi dimensioni degli animali che vi furono coinvolti ) . Nella storia della Terra , grazie alla documentazione fornita dai ritrovamenti fossili di animali e piante , si contano almeno 15 grandi crisi biologiche ; delle quali almeno 6 di proporzioni tali da aver quasi portato alla scomparsa dell'intera vita animale e vegetale sul nostro pianeta . Quello che però va precisato ( e solitamente non viene detto) è che i tempi di queste estinzioni furono molto lunghi. Infatti . in ognuna di queste crisi gli animali e le piante non sparirono certo nel corso di una notte , e nemmeno di un anno . Se si fa eccezione per l'ultima , avvenuta circa 11.000 anni fa (che coinvolse però poche specie e che durò solo qualche migliaio di anni ) , le altre estinzioni di massa richiese­ ro milioni di anni ; cioè tempi lunghissimi , che sfuggono alla nostra comprensione . A questo proposito è bene ricordare che, secondo molti ricercatori , la completa sparizione dei dinosauri richiese ben 5 milioni d'anni . In 5 milioni d'anni possono accadere tante cose . Ma cosa può essere successo veramente? Le cause e le concause delle estinzioni di masse così grandi di animali e piante sono oggetto di continue discussioni . Le teorie si dividono , grosso modo , in tre filoni. Il primo è quello delle cause , diciamo così , interne » al mondo animale. Per esempio : le troppo grandi dimensioni raggiunte da certi animali , l'invasione di specie più resistenti o più sveglie », l'arrivo di epidemie distruttive (dovute a malattie portate da animali già a esse assuefatti ) ecc. Un secondo filone è quello relativo alle variazioni di temperatura , di umidità ecc . dovute ai cambiamenti di clima «

«

«

che avrebbero privato gli an imali del loro cibo abituale,

24

portandoli alla morte . Si deve però obiettare che i n 3 o 4 milioni di anni (ma anche in molto meno) gli animali avrebbe­ ro risposto a questo lento cambiamento di clima spostandosi , migrando in aree più adatte . C'è comunque una spiegazione più sottile che alcuni pro­ pongono : il lentissimo cambiamento di clima (se è esistito), più che i nfl ui re sulla sparizione del cibo , potrebbe aver influito sulla riproduzione degli animali , fino ad alterarla irrimediabilmente. Potrebbe, per esempio, essere àvvenut o per i dinosauri ciò che ora accade ai loro più lontani discen­ denti, i coccodrilli . Si è infatti scoperto che, nella riproduzio­ ne dei coccodrilli , un piccolo aumento o diminuzione di temperatura , durante la cova delle uova , può portare alla nascita di più maschi o più femmine del normale . Con conseguenze disastrose per la sopravvivenza della specie , nel caso di un prolungarsi dì tali alterazioni della temperatura . Altre cause di estinzione potrebbero essere state , secondo alcuni, l'aumento della salinità de lle ac qu e degli oceani , la loro acidità ecc . Anche in questo caso, però, ci si può chiedere come mai gli animali marini non si siano spostati in altre zone, dal momento che questo processo ha richiesto milioni di anni . Un ultimo gruppo di teorie, che ha largo seguito per il suo fascino, è quello legato al catastrofismo . Grandi eruzioni vulcaniche , terremoti, alluvioni e ultimo, ma pe r questo non meno importante , l' arrivo di un meteorite o l'esplosione di una stella supernova . Ci sembra difficile pensare che terremo­ ti, eruzioni e alluvioni siano durati milioni d'anni e che siano

avvenuti contemporaneamente su tutto i l p ia neta . Resta

avrebbe sconvolto la Terra . È un i pot esi affascinante sostenuta anche da molti ritrovamenti di un elemento chimico, l'iridio , che sembra di origine extraterre­ stre . Resta , però , da dimostrare come mai una tale catastrofe , se avvenuta , non abbia fatto sparire i dinosauri (e quasi tutti gli animali e piante spari t i allora) in pochi giorni o mesi , come ci si aspetterebbe , e ci abbia invece messo milioni d'anni ,

l'aste roide che

'

come sembra essere ormai dimostrato .

L'esplosione di una stella arrivata alla fase di supernova, 25

con l' arrivo sulla Terra di una gr a nde quantità di radiazioni dallo spazio , potre bbe aver dato luogo a una serie di mutazio­ ni genetiche tali da far sparire lentissimamente molte specie e da farne apparire molte altre completamente nuove . Ma le grandi crisi sono state almeno 15 nella storia della Terra e bisognerebbe ammettere almeno 15 esplosioni di supernova e a distanza ravvicinata . Per ora, insomma, non ci sono ancora sufficienti elementi per d imostrare la valid ità di questa o quella teoria . Quali che siano stati però i motivi naturali che hanno portato centinaia di specie all'estinzione o alla crisi biologica , essi hanno comun que funzionato come ostacoli posti dalla selezione naturale per favorire » l'evoluzione di specie sempre più re siste nti, più adatte , più (( int e llig e n ti Le grandi crisi biologiche del passato, cioè, sono state, in definitiva, delle strettoie obbligate nelle quali s'è infilata e destreggiata tutta «

».

·

Noi possedi amo molti geni in comune non solo con gli animali, ma anche con le piante, e persino coi batteri . Malgrado le diversità dovute all'evoluzione, la loro origine comune risulta abbastanza evidente.

26

l'evoluzione , dalle forme più primordiali di vita fino a tutte quelle che ci circondano. Per eliminazione , queste ricorrenti difficoltà avrebbero così fondamentalmente contribuito a far giungere fino a oggi il filone della vita . L'evoluzione del comportamento

Da tutto il discorso che abbiamo fatto sinora sui meccani­ smi evolutivi , sull'adattamento , o sul disadattamento , sarebbe bene trarre ora una piccola conclusione per quanto riguarda non solo le strutture fisiche ma anche quelle comportamen­

tali . Infatti le mutazioni avvenute nel corso dell 'evoluzione hanno via via modificato non soltanto le caratteristiche del corpo (per esempio tr a sfo rm an d o le scaglie della pelle in penne, o sviluppando me mb rane per p lanare ) , ma hanno via via modificato anche le caratteristiche del sistema nervoso , creando continuamente nuove risposte istintive. In altre parole l'evoluzione ha giocato sul patrimonio genetico il suo gioco de i p ossibi l i costruendo in continua­ zione non solo nuovi esseri , ma anche nuovi comportamenti . Noi tendiamo spesso a dimenticare infatti che l'attività cerebrale si basa sulle cellule nervose , le quali non sono altro «

»

che cellule come tutte le altre: risultano cioè dalla sequenza

chimica del DNA sottoposta a continui rimescolamenti e cambiamenti . Perciò se cambia qualcosa nella sequenza chi ­ mica che regola una risposta genetica nervosa, c am bi a anche il tipo di comport amento d e ll ' individu o (così come modifican­ do delle lettere in una frase se ne modifica il senso). Sono sufficienti , a volte , piccoli cambiamenti in certe strutture neurofisiologiche per creare , a valle differenze assai importanti . Basta pensare alle conseguenze che possono «

»,

derivare da mutazioni che colpiscono per esempio i geni che

regolano i livelli di emotività, o di aggressività o del ciclo sonno-veglia , o dei comportamenti alimentari . È evidente che il modo di comportarsi di un individuo ( o di 27

una specie , se la mutazione si afferma ) sarà assai diverso da quello che era prima . Esistono in natura vari esempi che mostrano come certe specie , apparentemente molto simili fisicamente , siano poi molto diverse nel comportamento . Basta guardare le grandi scimmie antropomorfe , che sembrano così imparentate tra loro , per rendersi conto che hanno in realtà comportamenti sociali assai diversi : l'orango è solitario , il gorilla vive in bande e ha un hare m , il gibbone vive in coppia monogama perfetta . Lo scimpanzé , pur essendo geneticamente simile a noi al 99% , ha dei comportamenti sociali del tutto diversi dai nostri , mentre , curiosamente , il leone ci assomiglia molto di più , da questo punto di vista : anche lui suddivide il cibo con il partner e con la prole , insegna ai piccoli , gioca con loro , va a caccm m gruppo ecc . Insomma , la lotteria genetica , con il suo bricolage tra le sequenze chimiche dei geni , non ha creato soltanto rispo­ ste » diverse a livello del pelo . delle zampe , delle orecchie o della dentatura , ma anche a livello dei comportamenti istin­ tivi . Cosa ancor più importante , questo progressivo montaggio ha portato a strutture neurologiche così complesse da consen­ tire un gioco dei possibili ancora più vasto : quello dei neuroni che sono alla base dell'apprendimento, con la nascita in definitiva della cultura (e quindi della capacità di non dipendere più totalmente dall'ambiente ma di riuscire ad adattare l'ambiente a sé ) . È qui che si situa uno dei punti cruciali dell'evoluzione : quello che ha permesso il decollo » dell'intelligenza , con una serie di passaggi biologici che forse non sono stati concettualmente molto diversi da quelli che hanno permesso all'Archaeopteryx di decollare dal suolo ed entrare nella sua nuova dimensione aerea . Questa lunga storia dell'intelligenza , che ha portato in definitiva all'uomo moderno , ha preso il suo avvio con la nascita delle prime strutture nervose che hanno permesso agli animali di cominciare a imparare . Come? Vediamo . «

«

»

«

28

II



IL CERVELLO

COMINCIA A FUNZIONARE

L 'origine del sistema nervoso

Un sedano, come si sa, non impara. A nche se viene messo in un ambiente culturalmente molto stimolante . Come mai , invece , gli animali (e l'uomo più d i tutti) riescono a imp a r a re e a i mmagazzinar e i ricordi? Esistono particolari geni che regolano l'apprendimento? Cosa ci dice la storia della vita sull'origine di questa capacità?

Ben poco . Si suppone che la lo nta n a origine del sistema nervoso vada ricercata in certe « cellule sensibili » che cominciarono ad apparire sulla superficie di certi primordiali o rga nis m i acqua­ tici , e che procuravano loro certi vantaggi di sopravvivenza (per esempio percepire in tempo la presenza di un nemico , o di una preda) . Queste cellule . ovviamente , dovevano essere il risultato di una o più mutazioni a livello del patrimonio genetico.

Successivamente la rete si ampliò, diventando più comples­

sa , e si sviluppò probabilmente una centralina » di raccordo tra le varie cellule (il cervello) . Apparve forse qui un'altra caratteristica dalle conseguenze i nc a l c o l a bi l i : la re t e reagendo agli stimoli , poteva venire modificata chimicamente dal loro passaggio , conservando così traccia d eli' esperienza . Nasceva in questo modo la capacità di memorizzare . E quindi di imparare . La natura , è ben noto , tende a conservare le cose che «

,

29

funzionano . Colleziona » , c10e , le mutazioni favorevoli (magari apparse una sola volt a . in un solo individuo). Una volta acquisite esse si diffondono ne1le generazioni , viaggiano nei millenni e si ramificano ovunque , seguendo gli imprevedibili itinerari dell 'evoluzione . S e infatti guardassimo a fondo dentro i nostri cromosomi (cosa che i genetisti stanno facendo) ci renderemmo conto che il nostro patrimonio genetico è. per così dire . ad abito d'Arlecchino », nel senso che noi possediamo ancora molti geni in comune non solo con gli animali , ma anche con le «

«

piante (pur esse ndo ora , naturalmente , in qualche misura

diversi) . Certi geni umani , addirittura . sono rimasti quasi identici a quelli dei batteri ; così come è rimasta uguale , per esempio . la proteina (e quindi il relativo gene ) che regola la capacità retrattile di un tessuto . È la stessa sia in un ameba che in un concertista. Partendo da quest'idea certi ricercatori si sono chiesti se non era possibile individuare e studiare , in organismi molto semplici come i moscerini , quei particolari geni che regolano l'apprendimento . Trattandosi di un meccanismo fondamentale per tutti gli esseri che

«

imparano

»

(quindi praticamente per tutti gli

animali ) , si può supporre che esista per tutti , a1la base . una biochimica rimasta sostanzialmente simile? Il

moscerin o

«

sapiens

»

È un po' la nostra scommessa .

dice William Ouinn , biologo all ' U niversità di Princeton . La nostra ipotesi è che il meccanismo mediante il quale per esempio i moscerini imma­ gazzinano i ricordi non sia molto diverso dal meccanismo grazie al q ua le lei e io immagazziniamo i ricordi nel nostro cervello . Naturalmente l ' uomo è in grado di immagazzinare ricordi molto più complessi , e ha un repertorio assai più ricco : ma sarei pronto a scommettere che il meccanismo di base è lo stesso . così come una calcolatrice tascabile memorizza le «

«

30

»

informazioni con lo stesso meccanismo di un enorme elabora­ t o re . » Vediamo qual è la tecnica con cui William Quinn e il suo collabo ratore Duncan Bayer procedono. L'idea generale è que lla di provocare n el patri m o nio genetico dei moscerini della frutta (le famose drosofile , tanto usate negli esperimen­ ti) delle mutazioni casuali , e vedere poi cosa succede . È un po' come dare una martellata alla ci e c a sulla tastiera di un pianoforte e ascoltare in seguito la musica che ne esce . per capire a quali note corrispondevano i tasti che non suonano più . L'obiettivo , naturalmente , è di « centrare » un solo tasto (un gene) che corrisponda all'apprendimento , e capirlo dal fatto che il moscerino rimane normale in tutto , tranne che nella capacità di imparare . Per questo esperimento occorrono innanzitutto dei mosce­ rini che dimostrino di possedere una buona capacità di apprendimento . Come fareste voi a fare un esame d'ammis­ sione a un moscerino? Ecco come procede Quinn . Utilizzando una serie di tubi di vetro , mette in comunicazione i moscerini candidati con due buoni odori che li attirano. Il primo odore è situato in un tubo di vetro normale, il seco nd o si trova in un tubo rivestito di filamenti elettrici che producono una scossa una volta che i moscerini sono penetrati all' interno . Dopo qualche ripetizione dell'esercizio , i moscerini impara­ no rapidamente che possono andare tranqui l lamente verso l'odore n . l , ma non verso quello n . 2 , dove li può aspet ta re una scossa . H anno associato l ' o do r e n . 2 con una futur a punizione ; e quindi quando lo annusano, malgrado siano attratti, non entrano più nel tubo . «

»

Scelti quindi i mo scerin i che hanno mostrato questa capaci­

tà di apprendimento viene somministrata loro una sostanza mutagena, cioè una sostanza che dà « martellate » a caso nel loro DN A . Poi si aspetta la prossima generazione � co me saranno i figli di questi moscerini? 31

Le mutazioni del comportamento

Su 600 nuovi nati mediamente 400 muoiono . perché le mutazioni hanno colpito qualche gene fondamentale per la loro sopravvivenza . l restanti duecento mostrano varie ano­ malie , sia fisiche che di comportamento (come nel corteggia­ mento sessuale , nel riconoscimento della specie , o in una serie di movimenti ecc . ) , ma mediamente uno su duecento di questi superstiti moscerini mostra proprio l'anomalia ricercata : non è più in grado di imparare . Cioè è attirato dai due odori , reagisce alla scossa . ma non è in grado di associare la scossa all'odore n . 2 . Quindi continua a entrare nel tubo sbagliato È stupido . Ciò vuol dire che è stato colpito casualmente proprio il gene o i geni che regolano l 'apprendimento? Per capirlo questi moscerini stupidi (e i loro genitori ) vengono inviati per aereo a Bosto n . alla Harvard Medicai School . dove la dottoressa Marge Livingstone confronta le due generazioni alla ricerca di diffe renze di qualsiasi tipo . in particolare biochimiche . - Cosa viene fuori da questi studi? Viene fuori che questi moscerini >

. . .

Istinti

e

app rendimento

Bene . Ora prometto che non parlerò più dì genetica (o quasi ) per tutto il resto del libro . Questi concetti , infatti , rischiano di risultare astratti, proprio perché noi non possia­ mo vedere il codice genetico così come si vede agire una squadra di p a ll aca nest ro , in c ui si c apiscon o le sequenze di gioco , si vedono entrare in campo i nuovi giocatori e si seguono le azioni che portano a canestro. Quello che era utile chiarire , concettualmente , era che anche il cervello . come il corpo , è in definitiva una costruzio­ ne regolata dai geni . E che questa azione dei geni produce da un lato dei circuiti nervosi che reagiscono automaticamente agli stimoli (istinti) ma dall' altro dei circuiti nervosi che si lasciano attraversare e modellare dalle esperienze ambientali (apprendimento) .

Uno dei grandi problemi che si sono sempre posti i ricerca33

tori guardando agire dall'esterno un individuo è appunto : quanta parte del suo comportamento è dovuta agli istinti e quanta parte invece è frutto di un apprendimento? In passato , per esempio , molti sostenevano che gli animali agivano semplicemente per istinto . Poi si è capito che invece essi erano capaci di apprendimento. Non solo , ma si è visto che certi animali dimostravano anche intelligenza , cioè capa­ cità di risolvere dei problemi ( i primati in particolare). Oggi si sta scoprendo che certi animali posseggono dei piccoli patri­ moni di conoscenze acquisite grazie all'apprendimento , e che addirittura essi le tramandano da una generazione all'altra , così come facciamo noi. Uno studio di notevole interesse è stato condotto in propo­ sito sulle formiche . Le formiche , lo sappiamo , sono capaci di cose straordinarie : la loro vita sociale non finisce di sorpren­ dere , per complessità e organizzazione. Si è però spesso detto , parlando delle formiche o di altri insetti , che i loro comportamenti sono soltanto istintivi , automatici , indotti da circuiti rigidi , da segnali-stimolo ecc . Cioè , che si tratta di comportamenti programmati dalla specie , così come un gatto alza automaticamente la coda quando vede il cibo , o arruffa il pelo quando vede un cane , senza avere mai avuto bisogno di impararlo . In realtà sembra che le formiche , pur coil il loro piccolissi­ mo cervello (solo qualche milligrammo ) , riescano a insegnare qualcosa che può essere tramandato nelle generazioni. E può persino essere insegnato a formiche di specie diversa. Questi studi riguardano , in particolare , un aspetto vera­ mente sorprendente della loro organizzazione sociale : lo schiavismo. Vediamo. Schiave per cattiva educazione (di Danilo Mainardi

e

Marco Visalberghi)

Gli insetti quando nascono sanno già tutto , o quasi , quello che serve loro sapere ; non hanno bisogno di imparare come 34

comportarsi e cosa fare perché il loro programma genetico dice loro come agire nelle diverse situazioni . La programma­ zione è così dettagliata e precisa che è in grado non solo di regolare la vita del singolo insetto , ma addirittura di sincroniz­ zare organizzazioni sociali molto complesse come quelle delle api e delle formiche . Forti di queste considerazioni per molto tempo si è pensato che l'apprendimento svolgesse tra gli insetti un ruolo quasi inesistente , limitandosi a colmare quelle necessità che risultano troppo legate alle condizioni ambienta­ li per essere programmate a priori . Come , nel caso delle api , riconoscere il colore e l'odore della propria arnia da quella accanto . Esistono però dei comportamenti , per esempio il fenomeno dello schiavismo nelle formiche , che non possono essere spiegati senza riservare all'apprendimento un ruolo ben più decisivo . Già Darwin aveva descritto il fenomeno dello schiavismo e aveva ipotizzato che potesse essere la diretta conseguenza del comportamento predatorio . Le formiche hanno una spiccata tendenza a muovere guerra contro altre colonie : uccidono gli adulti , penetrano nel formicaio nemico , e fanno razzia di cibo e bozzoli . I bozzoli vengono portati , insieme al bottino , nelle riserve alimentari dei vincitori per essere consumati più avanti come carne fresca . Alcuni però si schiudono prima di essere divorati . Questa è l'occasione che , da un punto di vista evolutivo , ha dato origine allo schiavismo . Ma perché mai le nuove nate in terra straniera diventano schiave? Perché accettano un ruolo subalterno che non offre loro alcun vantaggio? È la domanda a cui gli studiosi da Darwin in poi hanno cercato una risposta . Il punto da chiarire era: come può essersi affermato nel corso dell'evoluzione un comportamento che danneggia chi ne è portatore , e favorisce il suo nemico giurato? La domanda acquista un significato del tutto particolare se si pensa che l'utilizzazione delle schiave è diventata , presso alcune specie , una pratica sistematica . La formica Teleutomirmex , tanto per fare un esempio , si è così bene specializzata nello sfruttamento delle schiave che 35

senza di loro non potrebbe più sopravvivere. La regina non produce più nemmeno le operaie necessarie alla colonia: produce solo maschi e regine , abituata come è a contare sulle schiave . Una risposta a questi interrogativi ci è venuta da due ricercatori dell'università di Parma : Francesco Le Moli e Alessandra Mori , che hanno dimostrato come . alla base del fenomeno dello schiavismo , vi sia un condizionamento cul­ turale ». In altre parole le formiche straniere » nate nel formicaio (cioè uscite dai bozzoli predati ) apprendono un comportamento distorto che fa di loro delle schiave per il resto della vita . Per capire appieno come agiscono i meccanismi che rendo­ no schiave le formiche va detto innanzi tutto che i due comportamenti fondamentali che sono alla base della società delle formiche sono : la difesa del formicaio e la cura dei bozzoli. Le formiche (a eccezione della regina e di alcuni maschi) sono sterili . cioè non possono riprodursi. Per cui l'unica possibilità che hanno di tramandare il loro patrimonio genetico è quella di farlo per interposta persona » : vale a dire tramite la regina. Quindi . lottare fino alla morte per difendere il nido e curare amorevolmente i bozzoli che contengono le loro future sorelle è l'unico modo che le formiche hanno per assicurare la sopravvivenza dei propri gem. Normalmente una formica sa riconoscere a colpo d'occhio le sue sorelle di nido , e sa distinguere senza tema d'errore i bozzoli della propria specie ; così quando incontra una formica o anche una larva sconosciuta l' attacca e la distrugge . Le schiave , invece , fanno tutto il contrario : difendono le padrone e i loro bozzoli . anche a costo di attaccare le proprie sorelle di specte. Gli esperimenti fatti nei laboratori di Parma hanno preso in esame le interazioni tra le due specie di formiche che popola­ no i nostri boschi . la formica Lugubris e la formica Rufa , che sove nte presentano casi di schiavismo. Cominciamo a vedere ciò che avviene nei casi normali. l ) Quando due formiche «

«

«

36

Lugubris che abitano lo stesso formicaio si incontrano basta una veloce annusata con le antenne perché ciascuna riconosca nell 'altra l'odore di casa e , rassicurata , prosegua per la ' propria strada . 2) Quan do a incontrarsi sono pur sempre due formiche della stessa specie , ma che abitano formicai diversi , l'investigazione con le antenne si fa più attenta e sospettosa . Le formiche assumono una posizione quasi eretta , gli addomi si protendono in avanti pronti a schizzare l'acido formico . Ma i sospetti iniziali sono ben presto messi in fuga dal riconoscere nell'estranea un· odore di base comune e l'accettazione si fa strada . 3) Se l'incontro avviene invece tra due specie diverse (una Lugubris e una Rufa ) , basta una frazione di secondo per riconoscersi come nemiche , ed è subito lotta aperta. I combat­ timenti sono ferocissimi e terminano con la morte di una e talvolta di entrambe le contendenti . Per controllare fino a che punto questi comportamenti siano innati o vengano in qualche modo acquisiti , Le Moli ha fatto nascere alcune formiche Lugubris in un nido di Rufa e ha provato a vedere cosa succedeva quando si incontravano . Ebbene . le giovani Lugubris che fin dalla nascita hanno avuto le Rufa come modello . hanno finito per credere » di appar­ tenere alla stessa specie della padrona di casa . Potremmo dire che vivendo in casa Rufa hanno imparato a parlare lo stesso linguaggio olfattivo . Ogni volta che si incontrano, un ve loce saluto con le antenne basta a riconoscersi come amiche . Le Lugubris . quindi . tradiscono la loro specie , convivendo pacifi­ camente con le loro tradizionali nemiche . Quando poi vengo­ no messe a confronto con le loro sorelle di specie (nate in quella stessa colonia dalla quale loro stesse erano state prelevate ancora allo stadio di larva) non le riconoscono come sorelle ; anzi si comportano come se appartenessero a una specie nemica . . . Ne seguono morsi , trascinamenti , amputa­ zioni , fino alla distruzione dell 'avversaria . Quindi esistono evidentemente dei periodi sensibili . duran­ te i quali le giovani formiche imparano chi è l'amico e chi è il nemico verso cui volgere la propria aggressività . E non è tutto : l'apprendimento svolge tra q uesti insetti «

37

1 . L ' incontro tra due formiche della stessa specie che abitano la stessa colonia. Basta una veloce annusata per riconoscersi amiche.

2. L ' incontro tra due formiche della stessa specie che abitano colonie diverse.

Il sospetto iniziale (mandibole aperte e addome proteso in avanti) lascia ben presto il posto all'accettazione.

3 . L ' incontro tra due formiche d i specie diversa : si combattono accanitamente.

4. L ' incontro tra due formiche di specie diversa, ma allevate nella stessa colonia: si riconoscono come amiche.

38

sociali un ruolo ancora più complesso . Lo si vede in un comportamento così importante come è la cura dei bozzoli . Se , per esempio , alcune formiche vengono isolate fin dalla nascita e vengono così private dell'opportunità di vedere le loro sorelle maggiori prendersi cura amorevolmente dei boz­ zoli , una volta messe di fronte alle larve si riveleranno del tutto indifferenti , e incapaci di sviluppare quei comportamen­ ti di cura indispensabili alla sopravvivenza della colonia . Basta però introdurre in mezzo a loro delle formiche compe­ tenti perché l'esempio venga subito imitato , e ben presto anche le formiche isolate si dimostrino capaci di curare amorevolmente i bozzoli . All'inizio dicevamo che le formiche curano con abnegazio­ ne i bozzoli della propria specie mentre usano come carne fresca quelli di altre specie . Ebbene , anche la capacità di distinguere tra gli uni e gli altri sembra dipendere dall'espe­ rienza , e , a seconda delle esperienze precoci , la situazione si può rovesciare completamente . Quando infatti vengono mes­ se a contatto fino dalla nascita con larve di altra specie , le formiche imparano a curare amorevolmente le loro future sorellastre : mentre da adulte sono pronte a divorare le larve che contengono le loro sorelle di specie , se non le hanno mai viste prima. In conclusione , sembra quindi esserci u n a predisposizione

genetica che può essere attivata e modellata in un senso o nell'altro dalle esperienze precoci . È così che per una formica Lugubris nascere in casa Rufa significa identificarsi con la padrona di casa, imparare a comportarsi come lei, sposare la sua stessa causa arrivando a quell'assurdo biologico che è lo schiavismo . Si potrebbe , per concludere , osservare che questa capacità di adattamento precoce è così vantaggiosa , in generale , per gli individui e per le specie , che il fatto eh� a volte venga utilizzata in modo distorto (o possa produrre addirittura lo schiavismo) è un prezzo da pagare per i vantaggi che compor­ ta in altre situazioni di apprendimento , quelle della vita normale . 39

l

duetti degli uccelli

Negli animali esistono varie altre forme di apprendimento che gli etologi stanno scoprendo e che , sia pure con molta cautela , alcuni ritengono possano definirsi di tipo cultura­ le >> . O meglio pre-culturale. Di notevole interesse è per esempio il caso degli animali che praticano i « duetti >> . Di che si tratta? Wolfgang Wickler , successore di Konrad Lorenz nella direzione del famoso istituto di Seewiesen , nei pressi di Monaco di Baviera , ha studiato a lungo questi duetti , in varie parti del mondo , ed ecco quel che sembra uscirne fuori . « I duetti avvengono in molti animali , >> dice Wickler, ma soprattutto tra gli uccelli . Sono veri e propri canti che si intrecciano e si completano in modo così perfetto che ad ascoltarli sembra un solo canto collegato . Ogni coppia ha un suo duetto , diverso da tutti gli altri . E lo ripete ogni 3-5 minuti , a volte dall'alba al tramonto . « Per 10 anni abbiamo seguito questi uccelli , abbiamo registrato e analizzato questi canti alla ricerca di un significa­ to . E siamo arrivati alla conclusione che non c'è un significa­ to : ripetono sempre la stessa cosa in continuazione , come una poesia o una preghiera. Questi duetti avvengono però solo tra monogami , cioè tra uccelli che vivono in coppia fissa . Perché? La nostra idea è che si tratti di un apprendimento che obbliga il maschio a impegnare tempo ed energia per la conquista della femmina . Infatti la femmina non permette l'accoppiamento del maschio se prima non ha imparato a : è in pratica un lungo periodo di fidanzamento , destinato a legare il maschio e creare le condizioni per un matrimonio duraturo . » - In altre parole se il maschio , dopo aver finalmente fecondato la femmina , la abbandonasse per andare a cercarse­ ne un'altra dovrebbe ricominciare tutto da capo , e imparare un nuovo duetto? E quindi , in termini di riproduzione , gli conviene restare con la p n ma femmina perché a conti fatti riesce ad avere più figli? «

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Esattamente . Siccome la femmina deve difendersi dal possibile abbandono del maschio per assicurare una buona sopravvivenza della prole , questa strategia di obbligare il futuro sposo a un lungo apprendimento finisce per modificare la tendenza innata del maschio ad accoppiarsi e disertare . La cosa interessante è che , in questo modo , l'evoluzione genetica viene influenzata da un apprendimento . Vale a dire che nel meccanismo riproduttivo si inserisce una tradizione ; o , se si vuole , una forma primordiale di , che ha un ruolo molto importante nel rapporto di coppia e che influisce sulla replicazione dei geni . » «

«

Le sorprendenti capacità degli animali

Ma queste capacità di imparare che esistono nelle società animali , fin dove si possono spingere? In altre parole , questi abbozzi di apprendimento che esistono nei moscerini , nelle formiche , o negli uccelli in condizioni naturali , quali limiti hanno , in realtà? I ricercatori , negli ultimi tempi , si sono accorti con sorpresa che questi limiti non sono così ristretti come si pensava in passato . Per esempio la capacità di memorizzare cose diverse sembra essere molto grande in certi uccelli . Recenti studi hanno mostrato che certe specie di uccelli sono capaci di ricordare anche per vari mesi migliaia di luoghi diversi in cui hanno nascosto provviste per l'inverno.

È il caso della « nocciolaia » , un uccello simile al corvo , che

d'estate si riempie il gozzo di pinoli e va a seppellirli a molti chilometri di distanza ( i n terreni in pendenza esposti a mezzogiorno , in modo che la neve non si accumuli troppo) . Smuove l a terra col becco , seppellisce quattro o cinque pinoli , poi ricopre il tutto con terriccio d'erba e vi posa sopra un sasso . Una nocciolaia sembra riesca , in questo modo , a nascondere fino a 33 . 000 pinoli , in migliaia di nascondigli diversi, che poi riesce puntualmente a ritrovare nei mesi invernali . . . 41

Con una serie di astuzie gli sperimentatori hanno cercato allora di verificare se il ritrovamento dei luoghi non fosse dovuto a qualcos' altro (odorato ecc. ) : ma sono arrivati alla conclusione che è proprio la memoria a essere all'origine di questa performance (che noi stessi non saremmo probabil­ mente in grado di realizzare). Del resto esistono moltissimi altri esempi di queste capacità di memoria che vari tipi di animali mostrano nel loro ambien­ te naturale. Per esempio la memoria spaziale che dimostrano i ratti nel localizzare oggetti e itinerari , o nell 'imparare a evitare alimenti nocivi. Senza parlare poi delle capacità mnemoniche e di apprendimento che dimostrano tutti gli animali in laboratorio , o comunque sotto esperimento. Si è visto , per esempio , che un elefante è in grado di memorizzare e riconoscere centinaia di simboli diversi. E non è il caso di elencare qui i risultati ottenuti col condizionamento , che ha persino permesso a dei piccioni di imparare a giocare a ping pong o a guidare dei missili . . . Per non parlare dell'insegna­ mento del linguaggio dei sordomuti a certi scimpanzé ; e addirittura dei primi tentativi di un dialogo » simbolico a distanza , via computer, tra uno scimpanzé e uno sperimenta­ tore. Le osservazioni fatte direttamente in natura mostrano inoltre che esistono anche molte forme di collaborazione sociale tra animali : non solo istintive ma dovute , almeno in parte , all'apprendimento e all'imitazione familiare. Non passa anno senza che gli etologi raccontino cose e nuove e straordi­ narie di ogni tipo sul comportamento animale , fi n or a così poco conosciuto : dai gabbiani che spaccano i gusci di conchi­ glia lasciandoli cadere dall'alto sulle rocce , agli animali che vanno a caccia in gruppo (con strategie molto simili a quelle che usavano gli antichi cacciatori umani ) ; fino alla recente scoperta di un tipo di airone che va a pesca usando una tecnica molto simile alla nostra : si piazza ai bordi dell'acqua con una piuma nel becco e quando vede un pesce nei paraggi la lascia cadere , usandola come una vera e propria esca. Il pesce abbocca , e l'airone zac ! lo acchiappa ... «

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A rriva l'uomo

Tutto quest'insieme di osservazioni sull'apprendimento e il comportamento animale mostra bene come la storia dell'evo­ luzione abbia per un tempo lunghissimo sviluppato un sistema nervoso capace di prestazioni sempre più complesse . Quando l'uomo è apparso , il terreno , prima di lui . era stato ben preparato e fertilizzato da una serie di mutazioni e selezioni che avevano creato dei cervelli già molto evoluti � come quello delle grandi scimmie che hanno preceduto gli antenati del­ l ' Homo

sapiens .

È quindi forse arrivato il momento . dopo questo itinerario

tra molecole e cellule nervose . tra cromosomi e

brìcolages

Un tipo di airone usa una piuma come esca per attirare il pesce e poi acchiapparlo.

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� ��� 43

evolutivi , di avvicinarci a questo grande evento che ha provocato una svolta così importante nella storia del nostro pianeta : la comparsa di un gracile mammifero che ha basato sempre più la sua sopravvivenza (e quindi la selezione della sua specie) sullo sviluppo delle formidabili capacità del siste­ ma nervoso . In modo da aumentare sempre più le sue possibilità di difesa e di attacco . Prima sugli alberi . poi nella savana . I nfine , nella stanza dei bottoni .

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III

·

I L LUNGO VIAGGIO VERSO L ' UOMO

Per capire l'evoluzione cerebrale

Per capire l'evoluzione del cervello umano , cioè per capire quella straordinaria crescita di cellule nervose che ha portato all'apparizione dell'uomo moderno , occorre forse un piccolo sforzo di modestia . Noi tendiamo infatti ad attribuire a l cervello u n posto di assoluto privilegio ; una collocazione del tutto speciale , nel contesto della storia della vita : ed è giusto che sia così , per ovvie ragioni . Ma tendiamo spesso a dimenticare che , dal punto di vista biologico , il cervello è in realtà un organo come tutti gli altri . Le cellule nervose cioè non sono cellule speciali : esse derivano (come quelle del fegato o delle dita dei piedi ) da un'unica cellula ovulo fecondata , che per sdoppiamenti suc­ cessivi ha creato una struttura formata da miliardi e miliardi di cellule di vario tipo , ognuna delle quali si è pian piano specializzata in certe funzioni . Così come le cellule delle ossa si sono specializzate in funzioni di sostegno , o quelle dei muscoli nel movimento , o

quelle dello stomaco in digestione , quelle nervose si sono specializzate in funzioni di percezione , di memorizzazione , di associazione . In altre parole le cellule del cervello non sono cellule speciali, ma solo specializzate. Se si parte da questo presupposto , diventa allora più facile capire come mai , a un certo punto , il cervello abbia cominci�­ to a crescere di volume . Come è noto l'antico proverbio « la funzione sviluppa l'organo » si applica solo ai singoli indivi­ dui , non alla specie : se per esempio un ten nista professionista 45

a forza di giocare sviluppa i muscoli dell'avambraccio destro . non per questo suo figlio nascerà già con un braccio più grosso dell' altro (né il figlio del contadino nascerà già coi calli alle mani , né il figlio di un intellettuale già col cervello più sviluppato) . Questo perché . come dice il darwinismo , i caratteri acquisiti non si trasmettono » . M a se , come abbiamo visto , u n cambiamento casuale avviene invece n ei cromosomi (delle cellule germinali ) e produce reali vantaggi , esso viene favorito dalla selezione naturale : gli individui portatori di questa mutazione sono avvantaggiati e diffondono allora i loro geni nella discenden­ za. Per « pressione selettiva >> , nelle generazioni successive , si verificano ulteriori selezioni a catena che esaltano questo carattere . Noi non ci stupiamo , per esempio , che proprio in questo modo si siano sviluppate le zanne del leone , o lo strato di grasso delle foche , o la corazza delle tartarughe , o gli aculei dell'istrice , o che si sia sviluppato il collo delle giraffe . Analogamente non dobbiamo stupirei che si sia sviluppato il volume del cervello negli ominidi , dal momento che essi cominciarono a usare l'intelligenza come arma di sopravvi­ venza , cioè appunto come zanna, guscio , aculeo (e quindi a essere selezionati su questa base ) . D e l resto, basta mettere a confronto dei fossili per rendersi conto che in natura si verificano continuamente dei cambia­ menti (anche molto complessi) in ogni specie : basta pensare all'evoluzione dello scheletro in una qualsiasi « catena » di mammiferi . Per esempio negli stessi primati (ai quali appar­ tengono le scimmie e l'uomo) si possono osservare complicati cambiamenti che riguardano l'organizzazione delle cellule dell'anca , o dell 'articolazione del ginocchio , o l'evoluzione della dentatura . Perché dovremmo allora stupirei dei cambia­ menti che riguardano l'organizzazione delle cellule del cervel­ lo? Dal momento che non sono diverse dalle altre , è normale che anch'esse evolvano in continuazione , così come evolvono i denti molari a seconda dell 'alimentazione disponibile in una particolare nicchia ecologica . «

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Più volume, più intelligenza?

Detto questo , bisogna anche precisare che sull'evoluzione del cervello (come su quella, in generale , degli organi interni) ne sappiamo ancora poco ; per la semplice ragione che , contrariamente alle ossa e ai denti , il cervello non si fossiliz­ za » . E quindi non possiamo oggi analizzare l'interno dei cervelli arcaici . Possiamo soltanto dedurre l'aumento progres­ sivo del loro volume osservando il loro contenitore , cioè il cranio (e magari farne uno stampo » per dedurre quale era la forma esterna del cervello , con i suoi vasi sanguigni ) . Del resto , anche se possedessimo dei cervelli fossili sarebbe difficilissimo capire quali potevano essere internamente le differenze a livello di strutture nervose , poiché in un sistema così miniaturizzato il wiring (cioè la rete di connessione tra le cellule) svolge un grande ruolo ; ed è difficilmente osserva bile negli stessi esseri oggi viventi . Tuttavia il volume del cervello di per sé è già in grado di darci un'informazione di base sul livello d'intelligenza di una specie (naturalmente va detto che il volume del cervello deve essere sempre considerato in relazione al peso corporeo, altrimenti un elefante sarebbe più intelligente di noi : il cervello dell'elefante è infatti più grosso del nostro , ma è più piccolo se paragonato alle dimensioni del corpo) . Non c'è dubbio, per esempio , che dalla gallina, al gatto , allo scimpan­ zé , all 'uomo c'è un aumento del peso relativo del cervello . Tal uni ricercatori , come Harry J . Jerison , dell'Università di «

«

California , uno dei più autorevoli studiosi dell'evoluzione del cervello , ritengono anzi che il wiring, in definitiva , non sia

altro che il risultato automatico dell 'aumento del volume cerebrale : vale a dire che più il cervello di una specie è sviluppato , più si hanno strutture complesse e intrecciate . Ogni specie svilupperà magari certi suoi settori » specializ­ zati , caratteristici del proprio comportamento ; ma, dice Jeri­ son , costruendo sempre con gli stessi tipi di cellule nervose . Quello che cambia è la proporzione, cioè la diversità nella crescita di certe zone rispetto ad altre . Ecco quindi , a suo «

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r-------. l due fattori riten uti

alla base del l ' intel li­ genza: 1 - i l peso relativo del cervello; 2 - la trama e l 'e· stensione dei neu­ roni della corteccia. Il peso relativo pre­ senta, tuttavia, una certa variabi lità al­ l ' i nterno di ogni specie, anche in quella umana.

avviso , l'importanza del volume relativo del cervello , che può essere considerato (mediamente) un indice generale dello sviluppo della complessità. E quindi dell'intelligenza . Naturalmente esistono altri fattori , che possono in teoria aumentare l'intelligenza senza richiedere un aumento del volume ce re b ra l e Per ese mpio per quanto riguarda la cortec­ cia basta pensare che questo strato « nobile )) del cervello umano (dove hanno sede attività come il pensiero , il ragiona­ mento , l'astrazione , l'analisi , il linguaggio , la musica , l'arte, l'umorismo ecc . ) è spesso soltanto . . . poco più di due millime­ tri ! È evidente che sviluppare anche di poco questo « strato » potrebbe voler dire aumentare notevolmente la resa del cervello , senza modificare quasi il suo volume . Analogamente allungare i tempi di « maturazione » del cervello (ne abbiamo parlato nel primo capitolo) significa mettere a disposizione di .

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un individuo un organo molto più plastico , capace d i assorbire un maggior numero di apprendimenti nell'età infantile . An­ che ciò non richiede un cervello più grande , ma semplicemen­ te un diverso ritmo di maturazione ». «

La

«

cilindrata

»

individuale

C'è poi ancora un elemento , da tener presente : esistono individui che hanno cervelli più grandi di altri , senza che ciò significhi necessariamente una maggior intelligenza . Esiste , cioè , una certa variabilità )) individuale del volu­ me , sia negli uomini che negli animali (così come c'è gente che ha occhi più grandi o più piccoli , senza che ciò significhi che ahbia una vista migliore o peggiore) . Si conoscono addirittura dei casi estremi : per esempio lo scrittore francese Anatole France aveva un piccolo cervello , circa 1000 cm3 (la media nell'uomo è di circa 1 500 cm3) , mentre un altro scrittore francese altrettanto noto , Victor Hugo , aveva una cilindrata » cerebrale di 2000 cm3 • È evidente che , essendo entrambe persone di altissimo livello intellettuale . in casi come questi non può esservi una relazione diretta tra volume del cervello e intelligenza . Alcuni ricercatori ritengono che queste situazioni estreme siano , in realtà . dovute a malattie infantili , che hanno lasciato delle tracce nelle dimensioni della scatola cranica . Quello che conta , in sostanza , è la media della cilindra­ ta >> cerebrale di una sp ecie, al di là della variabilità individua­ le (del resto c'è l'esempio i lluminante dei nani : essi sono d int e lligenza normale , pur avendo un cervello molto più piccolo) . C'è infine una curiosità, che va citata per capire l'importan­ za del wiring e non soltanto quella del volume : il delfino . Il delfino , caso unico , ha proporzionalmente un cervello più grosso del nostro . Non solo , ma ha una corteccia (la parte nobile » ) più sviluppata della nostra . . . Dovrebbe allora essere più intelligente di noi? In realtà questo sviluppo della «

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corteccia , probabilmente , riguarda la zona del cervello che controlla i segnali acustici . I delfini , infatti , hanno un compli­ catissimo sistema sonar » per la loro vita subacquea, e sembra che lo sviluppo della loro corteccia sia legato a questa particolare attività sensoriale . La nostra corteccia , invece , è particolarmente sviluppata nella zona dei lobi pre-frontali , là dove si svolge l'attività associativa . Ed è quello , in definitiva . il punto più importante del cervello : infatti , certe straordinarie qualità come l'intelli­ genza o l'immaginazione si basano proprio sulla capacità di associare » precedenti esperienze , assemblandole nei modi più diversi . Ed è appunto lo svi luppo di queste zone associati­ ve (come anche di quelle collegate al linguaggio) che ha permesso la nascita dell 'uomo moderno (riprenderemo più avanti questo discorso) . Per riassumere questa chiacchierata iniziale sul cervello , si potrebbe dire che : l ) il cervello si è modificato durante l'evoluzione così come si sono modificati i denti molari , o i ginocchi o l'articolazione della spalla; 2) l'aumento relativo del volume cerebrale può essere considerato di per sé un sintomo dello sviluppo dell'intelligenza (pur con tutte le variabilità individuali) ; 3) l'importante , per arrivare a un essere evoluto come è l'uomo , è che questo aumento del volume e della complessità coinvolga quelle particolari zone del cervello (associative , del linguaggio ecc. ) che sono sede delle attività superiori . Detto questo possiamo passare a vedere cosa è successo in «

«

natura negli ultimi milioni di anni . O perlomeno cosa riuscia­

mo a capire attraverso i ritrovamenti fossili. Cosa raccontano i primi fossili

Da quando Darwin , nel 1 87 1 , scrisse la sua famosa frase « L 'uomo ha una struttura estremamente simile a quella delle grandi scimmie. vi è dunque tra loro una reale parentela, egli discende da una di queste » , parecchie cose sono state scoper-

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te , specialmente negli ultimi anni . I paleontologi hanno trovato molti scheletri , pietre tagliate , siti , frammenti , teschi di esseri oggi scomparsi , che per le loro caratteristiche avreb­ bero potuto essere nostri antenati diretti , o comunque nostri parenti stretti . Una delle cose che emergono chiaramente è che non c'è stato un solo e unico filone in direzione dell 'uomo , bensì tanti rami collaterali che si sono persi per strada (così come è certamente avvenuto per ogni altra specie oggi vivente) . In altre parole , cercando tra i nostri progenitori diretti noi stiamo scoprendo una folla di individui , e non sappiamo ancora bene quali collocare nella nostra galleria di antenati e quali no . Ogni tanto appare un nuovo ritratto , un nuovo personaggio , e i paleontologi cercano ogni volta di capire se , e come , si inserisce in questo albero genealogico . Da dove cominciare? Gli studiosi che si occupano del problema iniziano il loro itinerario partendo dai primati apparsi 70 milioni di anni fa . Si tratta di piccoli mammiferi che già si distinguono per certe tipiche caratteristiche : sviluppo del cervello (con conseguente riduzione della faccia) , presenza di un pollice apponibile , sostituzione degli artigli con le unghie , localizzazione pettora­ le delle mammelle . Sono gli antenati delle scimmie , che appaiono circa 40 milioni di anni fa . Con l'arrivo delle scimmie aumenta la statura , gli occhi diventano frontali , migliora la vista . Trentacinque milioni di anni fa vi sono già due grandi rami evolutivi di scimmie : in Africa e nell'America Meridionale . Come hanno potuto

questi animali attraversare l'Atlantico , e arrivare fin nel Nuovo Mondo? Su una zattera naturale - azzarda l'antropologo Yves Coppens del Musée de l'Homme di Parigi - quando l'oceano era meno largo di oggi . Ma il Nuovo Mondo è un ramo sterile : la culla dell'uomo rimane l'Africa . Tra 35 e 25 milioni di anni fa, nel Faiyiìm , a sud del Cairo , cominciano ad apparire dei primati con 32 denti , come noi . Di questi primati ve ne sono almeno 3 tipi . E qui incominciano le 51

difficoltà e le ipotesi : dove si stacca la linea evolutiva che ha portato all'uomo? I pareri sono discordi . Un po ' più tardi , sempre in Africa , si trovano tracce di primati che già sembrano chiaramente evolversi verso gli ominidi; in particolare gli oreopitechi e i ramapitechi . In essi appaiono già visibilmente certe caratteristiche che si accen­ tueranno in seguito . Per esempio l'oreopiteco (di cui è stato trovato in Italia un bellissimo scheletro completo) dispone già , 15 milioni di anni fa , di un cervello da 400 cm- \ e presenta , sia pure occasionalmente , un' andatura bipede , co­ me risulta dalle caratteristiche del bacino e degli arti . È alto l metro e 20 e pesa circa 40 chili . Più piccolo di lui , con un peso di circa 20-30 chili , il ramapiteco presenta caratteristiche ancora più interessanti . I denti e le mascelle ritrovate (purtroppo i reperti sono molto frammentari) mostrano chiaramente l'evoluzione verso gli australopitechi : incisivi e canini piccoli , faccia alta e corta, mascella arrotondata ecc . Noi discendiamo dunque da questi antichi ramapitechi? È una domanda difficile . Il problema della paleontologia è che per ricostruire l'albero genealogico si dipende quasi unica­ mente dalle ricostruzioni anatomiche (forma del bacino , del ginocchio , della mascella ecc . ) : ma su tempi evolutivi così lunghi si può andare facilmente fuori strada . Non ci sono altri metodi di indagine?

l

gradi di parentela biologici Sì . Un

ricercatore ha da poco scoperto una nuova strada . Vale la pena di illustrarla perché è una novità assoluta , in termini di indagine nel passato : essa si basa su studi di biologia molecolare , finora applicati solo agli esseri viventi . L 'idea di base , sostanzialmente , è questa: due individui sono tanto più simili quanto più i loro D N A (cioè i loro geni) sono simili . Si può andare da un caso estremo come quel1o dei gemel1i monozigoti (che sono in pratica due esemplari dello 52

stesso individuo) fino ad arrivare a esseri così diversi come un virus e una balena : la loro diversità è dovuta appunto alla diversità del loro DNA. Analizzando quindi il DNA (o analiz­ zando le proteine , la cui sequenza di amminoacidi è determi­ nata dal DNA) si puç> determinare quale è il grado di parentela genetica tra due specie . Studiando gli esseri viventi si è così scoperto , per esempio , che la differenza genetica dell'uomo dallo scimpanzé è di 0,3 . dal gorilla 0,6, dall'orango 2 , 8 , dal macaco 3,9, dalla scimmia cappuccino 7,6 ecc . Sarebbe possibile al lora applicare questo metodo ai fossili . per cercare · di identificare i nostri più lontani antenati? Un gruppo di antropologi molecolari sta attualmente lavoran­ do proprio in questo campo : il dottor Jerald M. Lowenstein , dell'Università di California, ha infatti dimostrato che (mal­ grado lo scetticismo iniziale) esistono ancora piccole tracce di proteine nei resti fossili degli o mi nidi e pre-ominidi . Ed è quindi possibile analizzarle . Grazie a una tecnica di radio-immunologia è così diventato possibile oggi valutare su base più oggettiva la parentela genetica di questi esseri scomparsi , e tentare di ricostruire un più accurato albero genealogico . Basandosi anche sul cosid­ detto orologio biologico (cioè il tempo di evoluzione delle proteine in tutte le specie) Lowenstein è arrivato alla conclu­ sione che la biforcazione umana non risale al ramapiteco , ma è molto più recente : gli esseri umani , gli scimpanzé e i gorilla - dice Lowenstein - si sono separati probabilmente da un comune antenato solo cinque o sei milioni di anni fa . Bisogna dire che proprio di quel periodo si hanno , purtrop­ po , ben poche tracce . C'è una sorta di buco nero nei reperti fossi li tra 4 e 10 milioni di anni fa : mancano cioè ancora quei ritrovamenti che dovrebbero documentare la transizione verso gli australopitechi (letteralmente scimmie del Sud » , per il fatto che il primo esemplare fu scoperto in Sudafrica) . Si tratta di un periodo molto importante , poiché in esso è avvenuto , probabilmente , il passaggio dalla locomozione a «

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In una località della Tanzania le ceneri vulcaniche, solidificandosi , hanno conservato traccia di tre file di passi di australopitechi risalenti a 3,6 milioni di anni fa (qui in una ricostruzione immaginaria). Le impronte sono sorprendente­ mente simili a quelle umane , pur essendo pi ù piccole .

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quattro zampe alla bipedalità . Quella bipedalità che appare nettissima nelle impronte più antiche di ominide che si conoscano : quelle trovate in Tanzania dall'équipe di Mary Leakey , e risalenti a 3 ,6 milioni di anni fa . Sono impronte di piedi del tutto simili a quelle umane (ma molto più piccole) e quasi indistinguibili da quelle che i paleontologi provarono a · ripetere camminando sul terreno . Una successiva spedizione ha poi trovato (sempre su una cenere vul c anica solidificata) numerose altre impronte : tre file di passi , lunghe 25 metri , di adulti e bambini . Una famiglia di australopitechi in marcia mentre un vicino vulcano aveva da poco eruttato le sue ceneri . Ma come erano questi ominidi , che già camminavano eretti nella savana 3 o 4 milioni di anni fa? La scoperta di Lucy

I fossili d'epoca qualcosa cominciano a dirci . Ci dicono per esempio che questi esseri , pur camminando come noi o quasi , avevano in realtà un cervello ancora di dimensioni scimmie­ sche . Tuttavia recenti studi dell'americano R. Holloway invitano a essere cauti nel giudizio, poiché , come dicevamo prima, nello sviluppo dell'intelligenza non conta solo il volu­ me cerebrale ma anche il suo wiring, il tipo di struttura interna: ebbene dai calchi cerebrali di certi australopitechi sembra risultare che i lobi frontali (così fondamentali nello sviluppo umano) erano già più grandi e più complessi che nelle scimmie antropomorfe . E analogamente i lobi parietali . Insomma, c'era già una partenza verso l'uomo (anche se molti di questi australopitechi si sono poi estinti per strada) . Il più celebre degli australopitechi (e uno dei più primitivi) è naturalmente « Lucy » , l'eccezionale esemplare femmina di 3 , 2 milioni di anni trovato intero al 40% , in una zona dell' Africa orientale chiamata Afar (da cui il nome di A ustra­ lopithecus afarensis) nel 1974 . Lucy , alta un metro e con un peso di 25 chili circa , aveva un cervello simile , per volume , a 55

quello dello sci m p anzé ; la faccia era a forma di muso ,

i canini si incrociavano , non aveva mento , la fronte era sfuggente e aveva prominenze ossee sopra le orbite , come le grandi sci m m ie I nsomma incontrandola nella savana un cacciatore l' avrebbe data senz'altro in consegna a uno zoo . Si potrebbe dire che Lucy, in pratica , era una « scimmia e re tt a »: co n una testa animale (almeno in apparenza) su un corpo che comin­ ciava ad assomigliare a quello umano . .

I l ritrovamento di Lucy (e quello altrettanto clamoroso l'anno successivo di un'intera banda di suoi simili , 1 3 i n d i vi ­ dui , oltre ad altre analoghe ossa ancora più antiche , trovate da Mary Leakey a Laetoli . in Tanzania) ha aperto una serie di discu s si o n i sulle i n terpretazioni da dare a q u est i australopite­ chi afarensis . In particolare : sono davvero nostri antenati? O sono già un ramo collaterale ? Come abbiamo visto , di tutto questo periodo mancano fossili che forniscano una documentazione sufficiente . anche se taluni nuovi frammenti cominciano ora ad apparire (sem­ pre in E t io p ia il paleontologo americano Desmond Clark ha recentemente trovato un au s t ra l o pite co forse ancor più a nti­ co , che risalirebbe addirittura a 4,2 milioni di anni fa , e che è nonno di Lucy » : anche lui , s u b i to stato battezzato il probabilmente , camminava già in posizione eretta . e aveva un cervello ancora più piccolo , 350 cm ) Questi ritrovamenti evidenziano comunque un punto im­ portante : indicano che non è stato l'uomo ad alzarsi in piedi . m a la scimmia . Non solo . m a per u n tempo lunghissimo (circa un milione di anni) questi p r i m i esseri bipedi non hanno forse «

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u tilizzato le mani per costruire e util izzare strumen ti in pietra :

p iet ra appaiono infatti soltanto verso i 2 m i lion i e mezzo di anni fa . Questo contraddice la teoria, fino a poco tempo fa assai diffusa , che la posizione eretta fosse proprio la conseguenza della manipolazione di strumenti . Non bisogna però dimenticare che è molto pr obabil e che certi p r e omini d i utilizzasse ro già da tempo strumenti in legno , di cui non con se rvi amo traccia. E ciò rimetterebbe nuovamente tutto in discussione perché si può anche supporre i primi strumenti i n

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che la loro tecnologia del legno » fosse già avanzata (e che magari utilizzassero anche li a ne , spine ecc. ) . C'è tuttavia un'altra ipotesi che sembra abbastanza ragione­ vole e cioè che questi primi australopitechi si siano forse alzati in piedi . . . per i fatti loro , ben lontani dall'idea di usare strumenti in pietra o in legno o di sviluppare il cervello : ciò sarebbe avvenuto molto più tardi . Ma sul momento le ragioni della nascita della bipedalità potevano essere altre . Quali? Secondo alcuni la posizione eretta poteva essere diventata un vantaggio , nella savana , per procurarsi il cibo : c'erano arbusti alti , in cima ai quali si potevano cogliere delle bacche o dei frutti , senza entrare in competizione coi temibili babbuini (questa è l'ipotesi del paleoantropologo David Pilbeam ) . C ' è anche u n ' a ltra ipotesi , più suggestiva , suggerita dallo scopritore di Lucy , Donald Johanson , e dal suo collaboratore Owen Lovej oy ; sarebbe stato l'amore a far alzare in piedi i nostri lontani antenati . . . Come? «

Il rapp orto di copp ia

Johanson e Lovej oy partono dall'osservazione che molte cose , nelle relazioni tra i sessi , distinguono gli uomini dalle grandi scimmie antropomorfe : negli esseri umani la sessualità è continua (e non è limitata solo a certi periodi dell'anno) , i rapporti sono sostanzialmente di coppia e determinano l'in­ sorgere di famiglie nucleari , mentre nelle grandi scimmie gli accoppiamenti sono indiscriminati (eccetto che nei gibboni ) . N é esiste nelle scimmie l a ripartizione del cibo : ognuno deve procurarsi il suo . Inoltre la coppia umana è in grado di allevare molti figli contemporaneamente , mentre le madri scimpanzé o gorilla allevano un solo figlio alla volta , fin quando questi non è indipendente ( hanno un figlio solo ogni 5-6 anni) . L'ipotesi di Johanson e Lovej oy è che la posizione eretta si sia sviluppata in concomitanza con una serie di fattori collega­ ti al rapporto maschio-femmina, e alla riproduzione . Essi 57

ritengono , cioè , che in questi esseri pre-umani siano comin­ ciati a emergere , a un certo punto , dei segnali sessuali più personalizzati . Segnali d'« amore »? A un certo punto deJJ 'evoluzione, indubbiamente deve essere apparsa anche questa novità : un rapporto a due . Personalizzato . C'è un'indicazione significativa , in proposito : l'assenza dì estro nella specie umana. In quasi tutti i mammi­ feri infatti (ma non nella specie umana) esiste l'estro , cioè il periodo cosiddetto delle « femmine in calore » , destinato a eccitare in certe occasioni tutti i maschi , e provocare dei tornei (con la vittoria del maschio dominante) . A un certo punto deve essere apparso invece un sistema di accoppiamen­ ti stabili , con un legame monogamo di coppia , che avrebbe favorito l'insorgere della cooperazione : sia nell'allevare la prole che nel condividere il cibo .

In altre parole , la possibilità per ogni maschio di possedere una propria « banca » esclusiva, in cui depositare il proprio seme riproduttivo , avre b be favori to nei primi aus tralopite­

chi l'unione di coppia , rafforzata anche dalla continua sessua­ lità. E avrebbe dato l'avvio a quel processo di distribuzio­ ne dei ruoli (il maschio procacciatore e trasportatore di cibo , la femmina allevatrice e trasportatrice di piccoli ) che pian piano avrebbe favorito la bipedalità . È un'ipotesi , ovvia­ mente . Tuttavia alcuni ribattono che molti altri animali , con nuclei familiari , traspor t ano il cibo senza avere bisogno di essere bipedi . D'altra parte si dimentica spesso che certe caratteristi­ che possono insorgere casualmente , senza una vera esigenza ambientale , purché non siano nocive . Solo più tardi possono innescare sviluppi inattesi . La posizione eretta , in sostanza, potrebbe benissimo essere apparsa senza alcuna ragione precisa. Sarebbe stata semplice­ mente un'anomalia « tollerata » dall'ambiente ; i primi pre­ ominidi bipedi , infatti , avevano mostrato di saper sopravvive­ re in quella curiosa posizione senza troppi danni . A questo punto tutto è pronto per la vera svolta verso gli ominidi e l'Uomo . La savana (nata per il cambiamento di 58

clima che ha fatto scomparire gran parte delle foreste in Africa e in Europa) sembra essere l'ambiente adatto per accelerare lo sviluppo dell 'evoluzione cerebrale : infatti la vita in larghi spazi aperti , con molte opportunità , rischi e una forte competizione , richiede maggiore ingegnosità di quella sugli alberi ; e fornisce un contesto più stimolante per cominciare a usare attrezzi . Da Lucy all'Homo erectus

Ricostruire le peripezie di varie ramificazioni di australopi­ techi che si sono susseguiti dopo gli afarensis (Lucy e comp a ­ gnia) è un'impresa davvero ardua . Molti ritengono che i loro discendenti abbiano portato dapprima all'A ustralopithecus africanus (vissuto tra 3 e 2 milioni di anni fa) e poi all A ustra ­ lopithecus robustus e all 'A ustralopithecus boisei (vissuti tra 2 e l milioni di anni fa) . Si trattava di individui ancora molto scimmieschi , con un piccolo cervello . I tratti della faccia sono un po' più addolciti , ma la « cilindrata » cerebrale è ancora intorno ai 450 cm3 • Troppo poco per decollare come inventori di strumenti di pietra . Si ritiene che questi tipi di australopite­ chi si siano persi per strada e si siano estinti . Ma ecco invece che dopo questi esseri primitivi compare (circa 2 milioni di anni fa) un personaggio del tutto diverso , molto più intelligente ed evoluto. È anche lui un discendente di Lucy e amici? Certo , dice Johanson . No , dicono altri . Deve venir fuori da un ramo evolutivo parallelo , separatosi molto prima: forse addirittura 5 milioni di anni fa. Quello che è certo è che questo nuovo tipo di australopiteco riesce a fare cose che ancora nessuno era riuscito a fare : in particolare è il primo a costruire strumenti di pietra . I suoi resti vengono trovati da Richard Leakey presso il lago Turkana , in Etiopia. È alto un metro e mezzo , pesa 50 chili , la fronte è molto più dritta, il volume cranico è di 680 centimetri cubi . Alcuni esemplari superano i 700. Il famoso esemplare numerato da Leakey 1 470 » raggiunge i 775 '

«

59

cen time tri cubi . Questo n uovo essere , ormai , non viene più

neppure chiamato australopiteco : viene denominato Homo abilis . La parola Homo fa così il suo ingresso per la prima volta nella genealogia preistorica , e a buon diritto : l'Homo abilis , infatti , segna una svolta decisiva in questo panorama affollato di esseri di transizione perché non soltanto sa scheggiare le pie tre , ma forse sa addiri ttura costruire rudimentali capa n n e .

Le prime incerte tracce di queste capanne risalgono a 2 milioni di anni fa , a Olduvai (un cerchio di pietre di 4 metri di diametro che doveva forse servire da base a un tetto di frasche ) . Altri resti di capanne sono stati trovati in un giacimento risalente a l , 7 milioni di anni fa . È sorprendente pensare che questo ominide , nella savana , ha forse incrociato al tri esseri preistorici , come J 'A ustralopi­

thecus robustus : un incontro ravvicinato molto particolare . Accanto ai suoi « accampamenti » vengono ritrovate ossa di grandi animali : l'Homo abilis è già cacciatore? Forse all 'inizio contende alle iene e agli avvoltoi i resti dei pasti dei grandi predatori . Ma a un certo punto , nei giacimenti d'epoca e successivi , si cominciano a scoprire crani di antilopi sfonda­ ti , co n un tipo di fratture che sem brano i l risultato del lancio di pietre sferoidi . Intanto spunta a l l o ri zzon t e il suo successore : l'Homo erectus . '

Dall'Homo erectus al Neanderthal L'Homo erectus compare circa un milione e mezzo di anni e se ne hanno tracce fino a 300. 000 an n i fa . Lo si trova ormai un po' dappertutto : a partire dal centro di irradiazione africano cominciano infatti le prime migrazioni in Europa e i n Asi a . E , da allora in poi , si trovano un po' ovunque tracce di ominidi che presentano un aumento graduale del volume del cervel1o (e un aumento de11a complessità degli strumenti : raschiatoi , punteruoli , bulini , raschietti ecc. ) . fa ,

60

Con l ' Homo erectus, tra un mi lione e mezzo e 300 . 000 anni fa, comincia la grande migrazione nel pianeta e la dominazione del fuoco. I l cervello passa da

800 a 1 200 cm3 • Nel disegno la ricostruzione immaginaria di un piccolo accampamento .

61

Si ritrova a Giava l'« Uomo di Giava » e a Pekino l ' « Uomo di Pekino » . L'Homo erectus si diffonde ovunque grazie alle sue tecnolo­ gie , ormai ben collaudate ; non solo le pietre lavorate (ormai trasformate anche in armi) ma il fuoco , che gli consente di tener lontane le fiere e di spingersi sempre più in regioni fredde . Questo Homo erectus possiede ora un cervello molto sviluppato : nell'arco di un milione di anni i ritrovamenti mostrano crani da 800 a 1200 cm3 • Ufficialmente però non è ancora un Homo sap iens : l'Homo sap iens appare , in una forma arcaica, forse 300. 000 anni fa . I fossili mostrano che la fronte diventa , nel corso dei millenni, sempre più dritta e le ossa orbitali si attenuano . Verso i 100. 000 anni fa questo antico Homo sap iens dà origine , secondo certe tesi prevalenti , a due rami : quello di Neander­ thal e quello che doveva portare a noi ( 1 500 cm3) . Tra i 100.000 e i 35 .000 anni fa coesistono quindi , sulla Terra , due sottospecie dell'Homo sap iens . Il Neanderthal , che ormai si veste con pelli d'animale , seppellisce i morti , ha riti magici (e un cervello forse più voluminoso del nostro) , a un certo punto si estingue . Ed è la nostra specie , Homo sapiens sapiens , a rimanere sola . Per popolare e dominare il pianeta . Questo tipo di evoluzione , come si vede , non si è svolto come una corsa a staffetta, in cui ogni individuo ha consegna­ to il bastoncino al successivo , e così via . In realtà ogni corridore , dopo il relais , ha continuato a correre per conto suo , ha fatto partire altri corridori verso altre direzioni . Molte forme si sono evolute in ambienti geografici isol a ti , come in Indonesia, Australia, Africa meridionale , fino a epoche molto recenti : 100.000 o forse anche 10.000 anni fa . . . L'Australia, per esempio , secondo alcuni sarebbe stata popolata fino a 30. 000 anni fa da due tipi d'uomo : l'Homo sapiens e gli ultimi discendenti dell'Homo erectus , discendente a sua volta dal­ l'Uomo di Giava . Ecco quindi il perché di questo affollarsi di antenati , cugini e parenti nell'ultimo milione di anni . 62

Ma come mai ora sono scomparsi tutti , ed è rimasto solo più l'Uomo di Cro-Magnon (cioè noi)? Sono stati sterminati in una lotta fratricida? Forse no. L'uomo era un animale raro a quel tempo , non c'era competizione vitale sul territorio . Si calcola, per esempio, che in Francia al tempo dell'ultima glaciazione la popolazione non superasse le 50.000 unità . E così in Italia. Mentre la selvaggina era abbondantissima . Si è trattato, con ogni probabilità , di estinzioni naturali (o forse , secondo alcuni , l'Uomo di Neanderthal si è anche in parte incrociato con noi : noi europei , in particolare , porteremmo ancora le sue tracce nell'attaccatura grossa e prominente del naso) . Che la vita non fosse facile , del resto , lo mostrano le tracce di malattie ancora visibili negli scheletri (in particolare artriti e artrosi) ; si calcola, per esempio , che più della metà degli uomini di Neanderthal morisse prima dei vent'anni , e che solo il 5 % arrivasse alla soglia dei 50 anni . La nuova frontiera: la foresta

Cercando di riassumere un po' queste varie tappe dell'evo­ luzione umana che cosa si può dire? Ci sono forse due aspetti che , in definitiva , sembrano emergere : l ) il crescente numero (e diversità) di esemplari che gli scavi portano alla luce ; 2) il buco nero » che esiste fra 10 e 4 milioni di anni fa , periodo in cui si trova presumibilmente l'antenato comune dei primi ominidi e delle grandi scimmie . Per quanto riguarda il primo punto si può osservare che i crani fossili di ominidi ritrovati documentano un progressivo aumento del volume cerebrale : da 350 cm3 a 400 , a 600, a 700 , a 750, 800, 1000, 1200, 1500. Esiste cioè una chiara indicazio­ ne che sono vissuti in passato degli esseri che possedevano delle cilindrate » intermedie tra le grandi scimmie e l'uomo . Più si va indietro nel tempo più questi crani diventano piccoli e animaleschi , più si viene avanti più diventano grandi e di tipo umano . Tutto ciò richiederà ancora un po' di tempo per e ss e re «

«

63

2 . 800.000 anni

1 . 700.000 a n n i

1 . 500. 000 a n n i

750.000 anni

5 0 . 000 a n n i

oggi

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Alcuni dei crani ritrovati dai paleo- antropologi (visti di fronte e di profilo) . A sinistra t 'epoca cui si riferiscono. È percepibile t 'aumento progressivo del volume cranico.

codificato in un vero e proprio albero genealogico , poiché la

rel ativa scarsità dei reperti e le difficol tà di precise datazioni

l asciano ancora

A «

sp a zi o

a varie interpretazioni .

partire dagli australopitechi , comunque , esistono v a ri

al beri

»

moderno .

che sono stati proposti per arrivare fino all 'uomo

Queste linee . però . non risalgono oltre gli australopitechi . E prim a ? Si en tra qui nel secondo aspetto cui accennava­ m o : cioè il « b u co n e ro » che e s i s t e tra 10 e 4 milioni di anni fa per quanto riguarda i ritrovamenti fossili dei primati . Co­ me mai ? Forse la spiegazione potrebbe essere questa . La ricerca d e g l i antenati dell 'uomo si è svolta soprattutto n e l le re gi o ni

64

orientali dell'Africa : in particolare negli anni Trenta con i Leakey , e poi nei decenni successivi con molte altre spedizio­ ni , sono state regioni come il Kenia, la Tanzania , l'Etiopia a fornire la più grande messe di resti di ominidi . Ed è stato certamente un risultato molto importante . Ma queste regioni , al tempo in cui sono vissuti gli australopitechi , erano già savana . Vale a dire che questi esseri si erano già allontanati dalla foresta , e avevano cominciato a camminare su due piedi . Non è quindi nelle regioni della savana che si possono trovare gli antenati degli australopitechi : bisogna cercare in altre zone , nelle zone .appunto in cui c'era foresta , perché è da lì che probabilmente sono venuti gli antenati degli australopite­ chi dopo essere scesi dagli alberi e aver assunto la posizione eretta. In altre parole l'antenato comune , il punto di biforcazione tra i grandi primati e l'uomo va forse ricercato in Africa centrale , o occidentale , laddove 5-10 milioni di anni fa esistevano le grandi foreste che si affacciavano sulle regioni di sa vana. In queste zone si è cercato poco , anche perché la ricerca è più difficile : il terreno delle foreste è poco adatto alla fossilizzazione (è acido e le ossa si dissolvono) . Tuttavia si possono ancora trovare fossili , quando per qualche ragione c'è stata una rapida sepoltura naturale . Un paleoantropologo americano , Noel T . Boaz , ha cominciato ora a ricercare nella zona centrale dell'Africa : a Ishango . sulle rive del lago Amin , nello Zaire . Questa zona infatti si è trovata fin da tempi antichissimi lungo la linea di demarcazione tra savana e foreste equatoria­ li , in mezzo alla « spaccatura » in cui si sono formati i grandi laghi africani . È forse in una regione di questo tipo che il primo vero antenato dell'uomo ha mosso i primi passi , passando dall'al­ bero al terreno . Cioè cominciando forse a cibarsi a terra di bacche e radici utilizzando le mani (così come fanno oggi i �abbuini , secondo l'ipotesi di alcuni ricercatori) e poi assu­ mendo man mano la posizione eretta . 65

La regione è ancora ve rgine dal punto di vista della rice rca ;

tuttavia le pri me scope rte sono molto incoraggi anti .

I l rece nte rinvenimento di pietre scheggiate vecchie di due milioni di anni . lavorate probabilmente dal l ' Homo habi l i s , prova c h e questa parte d e l l ' A frica e r a g i à abitata allora . cont rariamente a un ge nerale sce tticism o .

È u n a zona ricca d i fossili e u n a rice rca paziente e fortunata

perme tterebbe forse di risalire indietro nel tempo . fi no a q u e l l a zon a d ' ombra di 4 - 1 0 milioni di anni fa dove potrebbe trovarsi l ' an t e n ato comune .

Q u anti miliardi di ominidi? Questa cavalcata n e l l a preistori a . al seguito dello svi l u ppo cerebrale , ci ha mostrato che . tutto sommato . un q uadro d ' i nsieme d e l l ' evoluzione umana oggi è possibile averl o , grazie a l l a paleontologi a , a l l ' a n tropol ogi a , alla biologi a . Certo , man­ cano ancora molti fossi li : come abbiamo avuto occasione di dire i n precedenza , per ora disponiamo solo di una piccola parte dei pezzi del puzzle , ed è q u asi un prodigio esse re già riusciti . con così pochi pezzi , a ricost ruire così tanta pre istori a . B asta fare un po' di calcoli , per re ndersene conto . A ve te mai pensato a quanti o mi nidi e pre-om inidi sono vissuti s u l l a Te rra?

A

una domanda del genere si è tentati di

rispondere : non moltissimi . I n vece ne sono forse vissuti molti mili ardi . . . Supponiamo i n fatti che n e l l ' i ntera Africa ci sia stata costan­ temente una popolazione complessiva da 10.000 a 100.000

australopitechi di vari tipi (cifra più che ragionevole . poiché

una specie non può scendere a l di sotto di un certo ordine di grandezza se non a rischio di esti nguersi ) . Ebbene . tenendo conto del fatto che la mortalità precoce era molto e levata si può calcolare una vita media di 1 5 -20 anni (ed è una stima molto prudente ) . Ciò significa 5-6 ge nerazioni per secolo . Cioè tra 50. 000 e 500 . 000 individui vissuti in ogni secolo . Se si

considera che gli australopitechi sono durati almeno 4 milioni

66

di anni . ciò significa 40 .000 secoli . Moltiplicando 40. 000 secoli per 50 .000 o per 500. 000 individui si arriva a 2 o 20 miliardi . Cioè nella sola Africa sono forse vissuti 2 o 20 mi liardi d i australopitechi : da due a venti volte la popolazione attua le della Ci na ! Di fronte a questa massa enorme di individui vissuti . noi cosa possediamo , come testimonianze fossili? Racimolando tutti i frammenti di teschio , di denti , di pezzi di mascella arriviamo a circa due mila pezzi . . . Un mucchietto di ossa sparse che potrebbero essere ri unite tutte sul pavimento di un solo stanzone . Ciò significa almeno due cose : che non si può pretendere . con questa semplice cartocciata di ossicini , di ricostruire per esteso l'intero puzzle dell'evoluzione umana (ed è già straor­ dinario quanto è stato fatto) . Ma significa anche che c'è ancora moltissimo da scoprire . Malgrado la degradazione organica che ha colpito la maggior parte degli scheletri , ci sono certamente ancora molti fossili sottoterra . I paleontologi hanno ancora molto da scavare . E noi ancora molto da Imparare . C'è comunque una cosa che i fossili probabilmente non potranno mai dirci : come l'uomo ha imparato a parlare . La nascita del linguaggio , di cui ora ci occuperemo , è forse il fatto centrale dell'evoluzione della specie umana. Il linguag­ gio ha infatti permesso di moltiplicare enormemente le possi­ bilità dell'uomo ; in ogni campo . Ha permesso , in particolare , di sviluppare tutte quelle capacità che sono all'origine della socialità , dell'organizzazione di gruppo , della trasmissione delle conosce nze , e in definitiva della nascita della cultura . Sono del resto proprio alcune grandi invenzioni come il linguaggio (e il fuoco ) che hanno praticamente consentito all'uomo di dominare il pianeta, di espandersi ovunque . di adattarsi sempre meglio alla natura . E anche di cominciare ad adattare la natura a sé . Con un cervello ormai sopra i mille centimetri cubi e un linguaggio in via di evoluzione comincia per l'Homo sapiens la grande avventura : quella della conqui­ sta e della colonizzazione del pianeta . 67

IV



IL LING U AGGIO , I L FUOCO , LE MIGRAZIONI

La macchina per parlare

Come è nato il l i nguaggio nell'uomo? In tutti gli studi sull 'evoluzione , la nascita del lin g ua ggi o vie ne se mpre indicata come uno d e i momenti cruciali pe r l ' e m e rge re de l l ' Homo sapiens . Con il l ing u agg io infatti diven­

ta pian piano possi bile a c q uisire n on sol tanto e sperienz e in proprio , m a anche attra verso gli altri . Diven ta inoltre po ss i b i ­ le costruire dei suoni che , a ss o ci a t i forse i n un p ri m o te mpo alla m i mica , diventano poi simboli a sé stanti . E permettono

così la progressiva nascita dell 'astrazione . I n somma , non c ' è bisogno di fare l ' e l o g io del linguaggio , anche per il contributo che ha dato a quel processo evolutivo ( grazie ai vantaggi di sopravvivenza che o ffri v a ) verso cervelli

se mpre più ricchi di corteccia e di connessioni , che costituisco­ no oggi il patrimonio dell' uomo moderno.

Ma che cosa c'è alla base della capacità di parlare , di

articolare i suoni e le parole? Per cercare di capire qualcosa è i nteressante comparare l ' uomo con le grandi scimmie (che non parlano ) , per esempio lo scimpanzé , e vedere cosa ha

l ' uomo di così diverso . Ci si rende coQto allora che queste

differenze esistono non in un solo punto, ma in vari punti delle strutture nervose . La parte forse più sempl ice da studiare è , per così dire , l ' « a lt o pa rl a nte » : cioè l ' a pp ar a t o vocale che emette ì suon i . Qui s i vedono ch iaramente l e di fferenze tra l o sci mpanzé e l ' uom o . Se nza entrare nei dettagli , si vede per esempio che

68

Nella scimmia ! ' «altoparlante , (l 'apparato vocale per esprimere il linguaggio) è molto rudimentale, ed è collegato al cervello da poche fibre nervose.

Nell 'uomo i collegamenti sono molto più ricchi e, soprattutto, riflettono la capacità di elaborazione della cor­ taccia.

esiste nell'uomo un sistema di muscoli molto più raffinato . che consente di modulare in vari modi la tensione delle corde vocali ; mentre nello scimpanzé questa capacità di modulare non esiste quasi , perché i muscoli si contraggono in modo rudimentale a causa del minor numero di fibre nervose . Inoltre nell'uomo esiste un'ampia cavità laringea (dovuta forse agli adattamenti provocati dalla posizione eretta) . per cui le vibrazioni dell 'aria possono essere elaborate dalla cavità della bocca attraverso il gioco della lingua , dei denti e delle labbra , producendo così vocali e consonanti . Ma è evidente che tutto questo è solo il punto terminale , è l'« altoparlante » di un sistema che ha il suo centro o p e r a tiv o a un altro livello : cioè nel cervello. In altre parole tutto l'apparato vocale è come un teatrino che si muove attraverso dei fili (nervosi) che vengono tirati da certe zone superiori del cervello . Quali ? Al Max Plank Institut di Monaco , al dipartimento di ricerca sul comportamento dei primati , il professor D . Ploog e il dottor U. Jiirgens studiano appunto i meccanismi del linguag­ gio nell'uomo e nelle scimmie . Dai tempi di Paul Broca , chirurgo francese dell '800, si sa che l 'uomo possiede nel lobo 69

frontale sinistro (per i non mancini) un centro che presiede alle funzioni del linguaggio . La prima domanda che ci si può dunque porre è : questa area di Broca » esiste , sia pure in misura ridotta, anche negli altri primati (cioè nelle scimmie ) , oppure no? E bbene , quest'area esiste anche nei primati , almeno dal punto di vista morfologico e architetturale , » dice U . Jiirgens , « ma ha un'altra funzione che non abbiamo ancora potuto capire . Comunque non serve per il linguaggio . Ciò significa probabilmente che durante l'evoluzione c'è stato un cambia­ mento di funzioni in quest'area, anche se l'architettura di base è rimasta quella . » - Questo vuoi dire che le scimmie hanno un altro centro che regola le loro vocalizzazioni? Sì , e in proposito ci sono osservazioni molto interessanti anche per quanto riguarda l'uomo . Dietro l'area di Broca , infatti , c'è una piccola zona che fa parte della corteccia motoria (cioè di quella ampia parte del cervello che presiede ai movimenti del corpo) : se quella piccola zona viene distrut­ ta , ne consegue una paralisi dei muscoli della faccia , sia nell'uomo che nell 'animale . Ma con una differenza fonda­ mentale : se questa distruzione è bilaterale l'uomo diventa anche muto , la scimmia no. « Questa differenza mostra bene che i centri del linguaggio nell'uomo e della vocalizzazione nella scimmia sono situati in punti diversi , poiché la scimmia può continuare a emettere i suoi suoni , l'uomo no . I nfatti , i centri di vocalizzazione della «

«

·

«

scimmia si trovano nella parte antica del cervello . Ma la cosa

significativa è che l'uomo , dopo qualche settimana di mutismo assoluto , recupera la capacità di produrre suoni . Ma non è più capace di modularli . » - Q uindi l'uomo , in un certo senso , riprende a usare le sue strutture arcaiche , e torna a esprimersi in modo pre-umano come facevano i suoi lontani antenati ? Sì . Diciamo che , in pratica , non es prime pi ù altro c h e emozioni , così come fa la scimmia . Per dirla in modo pi ù semplice , l'apparato vocale della scimmia è l'e q uivalente di «

70

quello che esiste nell'uomo quando esprime , per esempio , il pianto , il riso , il dolore . In questo senso le strutture nervose della scimmia possono costituire un modello utile per studiare l'organizzazione di queste funzioni . » L 'evoluzione del linguaggio

Possiamo naturalmente chiederci com'è avvenuto il passag­ gio tra un linguaggio emotivo » (regolato dalla parte arcaica del cervello) e quello della parola (regolato dalla corteccia) . Questa evoluzione del sistema nervoso ha avuto luogo negli ominidi? Gli australopitechi disponevano già di strutture di tipo transitorio? Cioè cominciavano già a usare un po' di corteccia nell'emettere suoni , e quindi cominciavano già a parlare? « L'evoluzione del linguaggio , penso , cominciò con suoni em otiv i , » dice Jiirgens . Poi ci fu forse una produzione volontaria di questi suoni . E qualche inizio di modulazione . In questo modo si cominciò a disporre di un maggior repertorio : per esempio una diversità tra il riso , il giubilo e la gioia ecc . Così , passo dopo passo , i pre-ominidi acquisirono un maggior controllo sulla loro produzione vocale . Questo può e ssere stato il primo (e notevole) passo , perché sappiamo che la scimmia non ha praticamente alcuna capacità di controllo sui suoi suoni : sono tutti innati . Esperimenti condotti al Max Plank lnstitut mostrano che le vocalizzazioni della s ci m m ia (come degli altri animali) so no presenti già alla nascita , cioè non hanno bisogno di essere imparate . Anche l'uomo, del resto , ha un suo repertorio vocale innato : non solo il pianto , il riso , le grida ecc. , ma anche il ciangottare tipico dei bambini , cioè quel gioco libero di suoni che precede il linguaggio e che dura molti mesi . Si è infatti visto che anche i bambini sordi , figli di genitori sordi , hanno questo periodo di ciangottio (che è quindi innato , non «

«

»

acquisito) .

Per la verità bisogna dire che questo programma innato di 71

suoni e vocalizzazioni non è così rigido , neppure negli anima­ li . Abbiamo visto , per esempio , che le formiche hanno un l i n g u a ggio » che può essere i m p a ra to e che presenta diver­ sità persino tra gruppi appartenenti alla stessa specie � abbia­ mo anche visto che gli uccelli hanno dei duetti , molto personalizzati , diversi in ogni coppia. Si sa anche che l e scimmie della stessa specie , nelle varie aree geograficne , hanno per così dire dialetti » diversi . Naturalmente è sempre difficile distinguere tra innato e acquisito , ma recenti osservazioni (di cui abbiamo parlato in un precedente libro) sembrano indicare che certe scimmie siano già capaci di « inventare » suoni nuovi . Si tratta dei famosi macachi delle isole giapponesi (quelli che hanno imparato a lavare le patate , a separare i semi nell'acqua , e a trasmettere questi apprendimenti alle generazioni successi­ ve ) : i ricercatori che li osservano da anni dicono di avere scoperto un suono che viene prodotto quando la barca arriva nell'isola, per portare cibo supplementare . È un suono che significherebbe , in sostanza : Arriva la barca ! )) e che viene imparato dalle nuove generazioni (cioè solo dai giovani , non dai vecchi) . La cosa interessante è che questo fatto si è verificato sulle diverse isole sotto osservazione : e, cosa ancora più sorpren­ dente , il suono in ogni isola è diverso ! Come se si trattasse della stessa « parola ma in lingue diverse . Che ne pensa il dottor Jiirgens? Credo che è in questa direzione che bisogna guardare per «

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l 'origi ne delJa parol a . Questi suoni sono certamente varian ti

del loro repertorio normale , sono modifiche . Il primo passo , in questa evoluzione , credo sia stata l'apparizione di suoni strettamente correlati a suoni emotivi . »

Una nuova partita a poker Naturalmente il passo decisivo è stato l'aumento del volu­ me cerebrale , e in particolare della corteccia. 72

Con il conseguente « passaggio dei comandi » del linguag­ gio dalle zone arcaiche all'area di Broca . Quest'area di Broca , come abbiamo sentito , esiste , dal punto di vista strettamente « geografico » , anche nel cervello degli altri primati : ma ha funzioni diverse , non ben chiare . Viene in mente qui quanto diceva F. Jacob a proposito dell'evoluzione biologica : il bricolage evolutivo spesso utilizza vecchi pezzi per creare cose nuove , così come si può costruire un ventilatore con una vecchia ruota o un ombrellone con un tavolo (oppure dei polmoni con delle « ernie » dell'esofago ) . Forse per i centri del linguaggio può essere accaduto qualcosa di analogo . Una crescita generale della corteccia cerebrale , con l'au­ mento delle cellule nervose e delle connessioni , può aver finito infatti per avere ripercussioni in tutti i settori del cervello , compreso quello del linguaggio. È come giocare a poker con due mazzi , distribuendo ai giocatori dieci carte anziché cinque : i tris, le scale e i poker diventano allora molto più facili . Si può così ipotizzare che questa maggior ricchezza di neuroni e di ramificazioni nervose abbia « allacciato in modo nuovo anche l'area di Broca ad altre zone (compresa quella dell'« altoparlante » ) , coinvolgendo la corteccia nel meccanismo del linguaggio . Qualcosa di analogo , del resto , è forse successo per altre funzioni : l'aumento dei neuroni della corteccia ha infatti permesso probabilmente anche un miglior controllo di altre zone , come per esempio quella della mano e delle dita per produrre manipolazioni più raffinate . Ma a che punto l'emer­ gere di questi nuovi circuiti e tracciati è stato abbastanza sviluppato per produrre parole? « Effettivamente è una questione di allacciamenti, e non solo di volume , spiega il professor Ploog . « Ci sono indivi­ dui con un cervello di 700 grammi che possono comunque imparare le basi del linguaggio . Oggi possiamo fare soltanto delle ipotesi sull'evoluzione di questo wiring cerebrale , per­ ché non siamo in grado di analizzare i cervelli vivi degli esseri di transizione tra i primati e l'uomo . Ci deve essere stata »

»

73

probabilmente una fase iniziale in cui la vocalizzazione innata è stata modificata , così da usarla in modo diverso a seconda delle situazioni : per esempio , nemici , cibo , allarme . Ma poi , in qualche modo , queste strutture innate debbono essere state superate da nuovi collegamenti , in modo che il comando per la modulazione dei suoni è stato introdotto nel sistema nervoso . Cosa questa che non esiste nello scimpanzé : lo scimpanzé non può i collegamenti del suo apparato primordiale e m e tte rs i a gioca re con le componenti de] suono. » La nostra macchina per parlare » , in sostanza , è formata da tante parti : alcune antiche , altre più recen ti . Gli antichi sistemi di vocalizzazione , tipici degli anima1i, sono ancora presenti nell'uomo e possono riemergere in certe situazioni : quando i centri superiori sono lesi , come abbiamo visto , l'uomo torna a vocalizzare in modo pre�umano , quasi come una sctmmta. Non solo , ma si è fatta una scoperta molto significativa : in caso di lesioni gravi questi suoni arcaici non possono neppure essere prodotti volontariamente . Per esempio l'individuo (perfettamente cosciente e intelligente) grida solo se viene sottoposto a uno stimolo doloroso , ma è incapace di gridare volontariamente. Come l'animale , appunto . Lesionando , cioè , certe zone si sopprimono del tutto i collegamenti con la corteccia e rimangono solo i circuiti automatici innati , che funzionano un po' come un campanello, che suona quando (e solo quando) si pigia il bottone . Si sono osservati anche casi in cui , a causa di certe les i on i nell 'emisfero destro , il linguaggio rim a n e integro (poiché l' area di Broca , che si trova nell'emisfero sinistro , non è stata toccata) , ma viene privato di intonazioni , di colorazioni emotive . L'individuo parla , per così dire , come una fredda macchinetta . In altre parole , l'apparato che presiede al linguaggio è un assemblaggio di p art i diverse ( c he si sono sviluppate in stadi evolutivi diversi ) : non solo l'« altoparlante » laringo-boccale , «

m a una

serie di sistemi e sottosistemi affluenti che portano un 74

contributo essenziale : i suoni innati , la colorazione emotiva, il controllo corticale ecc . Quello che esce attraverso la voce riassume tutto ciò. E nel passaggio dall'animale all'uomo questi sistemi sono stati allacciati da una fitta rete di neuroni , che hanno finito poi per spostare i centri di comando dalla parte arcaica del cervello a quella della corteccia. ormai in pieno sviluppo . C'è infine da dire che il linguaggio non è fine a se stesso , ma è uno strumento per esprimere dei processi mentali molto elaborati che avvengono in altre zone del cervello : l'altopar­ lante infatti diffonde non solo vocali e consonanti , ma idee , pensieri , poesie , invenzioni . matematiche . Questo sviluppo . da un lato della macchina per parlare e dall'altro della complessità cerebrale , è avvenuto quasi certamente in modo parallelo nel corso dell'evoluzione umana (le due cose si sono probabilmente influenzate a vicenda) . Le migliaia di lingue diverse apparse sulla Terra sono il riflesso di questa capacità genetica di produrre suoni e idee . qualunque sia il significato particolare che ognuno ha poi voluto assegnare a questo o quel suono ( montando » insie­ me . in un interminabile gioco dei possibili , una quarantina di fonemi di base ) . Con una tale macchina a disposizione . si può dire , lo sviluppo culturale diventava praticamente uno sbocco inevitabi le . «

La scoperta del fuoco

In questo percorso verso la civiltà . c'è naturalmente un altro elemento che si inserisce in modo determinante nell 'in­ sieme del discorso : la scoperta del fuoco . L'antico mito di Prometeo , che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini e cambiare così il loro destino , ha, al di là della leggenda , un certo riscontro tecnico . Nel senso che la scoperta del fuoco , o meglio la capacità di controllarlo e produrlo , è stata effettivamente una delle innovazioni che più hanno contribuito a modificare la storia dell'umanità . Domina 75

re il fuoco voleva dire poter cominciare a costruire del vasella­ me , e voleva dire soprattutto poter fondere i metalli . Senza i metalli la tecnologia moderna non poteva nascere . Di conse­ guenza non potevano nascere neppure quei cambiamenti e quegli oggetti che hanno caratterizzato nei millenni la civiltà umana : dai vasi decorati al vetro , dai monili al bitu­ me , dalle corazze ai cannoni . dai radiotelescopi alle sonde spa­ ziali . Tutte queste cose si basano infatti sul dominio del fuoco ; un avvenimento che ha preso origine in qualche lontanissima epoca del passato . a opera di uno sconosciuto Prometeo . Dove e quando? L'ipotesi più semplice che si può fare è che i primi fuochi gli ominidi se li siano trovati belli e pronti , senza dover inventare alcuna tecnica per accenderli : erano rappresentati dagli incen­ di prodottisi per autocombustione di arbusti secchi , o dal­ le fiamme provocate dai fulmin i , o dalle eruzioni vulcaniche . È possibile che qualcuno abbia cominciato a pensare di recuperare dei tizzoni ardenti per alimentare un proprio fuoco? Non esistono prove , naturalmente , di un'ipotesi del genere : ma un ritrovamento recente la rende plausibile . Fino a poco tempo fa la più antica testimonianza di fuoco umano era quella scoperta nel Sud della Francia. presso Marsiglia . In una grotta vicino a Escale venne ritrovato un vero e proprio focolare del diametro di un metro . con varie zone bruciate e cosparse di cenere e carbone : risaliva a circa 750 .000 anni fa (si trattava quindi di un Homo erectus) . Recenti ritrovamenti , però , hanno arretrato di molto la data di nascita del primo focolare . In Africa nella zona di Chesowanj a . nel Kenia . un gruppo di ricercatori inglesi . canadesi e americani ha scoperto un sito che risale a l ,4 milioni di anni fa e che porta chiarissime tracce di un focolare . Ci sono frammenti di terra combusta a lungo . e a più riprese (con temperature probabilmente tra i 400 e i 700 gradi . tipici della legna. appunto ) . Tutt'intorno ci sono ossa di ippopotami , coccodrilli . bovini e un grandissimo numero di 76

rudimentali pietre scheggiate . A quell'epoca nessuno era ancora in grado di accendere un fuoco , ovviamente : le tecniche necessarie (la scintilla di una pietra focaia o lo sfregamento di due legni secchi) erano troppo raffinate per i piccoli cervelli degli ominidi del tempo . In quella regione , del resto , abitavano all'epoca degli australopitechi : troppo stupidi per un exploit del genere . L'ipotesi dei ricercatori è che questo fuoco sia forse da collegarsi alla nascita dei primi Homo erectus : magari una banda nomade arrivata sul posto e forse scontratasi con gli australopitechi (che occupavano a quel tempo i si ti circostan­ ti) . Neppure loro avrebbero potuto , probabilmente , accen­ dere » dei fuochi : ma forse , gestirli sì . «

I viaggiatori della preistoria

La capacità di gestire il fuoco , magari trasportarlo , e infine accenderlo, doveva rivelarsi poco alla volta di basilare impor­ tanza non solo per difendersi dagli animali notturni , per cuocere i cibi , per ritrovarsi intorno al focolare , per distribui­ re i frutti della caccia, e parlare (sviluppando così il linguaggio e la comunicazione) : ma la padronanza del fuoco doveva rivelarsi essenziale anche per un altro aspetto dell'evoluzione umana : la migrazione . Allontanarsi infatti dai climi caldi afric ; m i così come h a fatto l'Homo erectus, e cominciare a viaggiare per il mondo , spingendosi a nord , tra i climi freddi dell'Europa , significava far fronte a una situazione completamente nuova , che solo il fuoco forse poteva permettere di superare . Di tracce di migrazione in terre lontane se ne trovano oggi molte . risalenti a tempi remoti . A Marsiglia , per esempio , 750 .000 anni fa . A Isernia , alla stessa epoca . A Pekino e Giava , poco più tardi . Di fronte a questi incredibili viaggi . naturalmente , noi rimaniamo sbalorditi . Come potevano uomini così primitivi (con o senza fuoco) compiere viaggi così lunghi ? Come era ,

77

possibile andare a piedi dall'Africa alla Cina , o all'Indonesia? Probabilmente visto in questo modo il problema è male impostato . A quel tempo , infatti , non c'erano dei Marco Polo , che viaggiavano per commercio o per curiosità cultura­ le . C'erano solo delle bande nomadi che si spostavano se­ guendo la selvaggina o sfuggendo alla siccità . E , dati i lunghissimi tempi a disposizione (centinaia di migliaia di anni, o milioni di anni ) , di strada se ne poteva fare effettivamente parecchia. Esiste , in proposito , un piccolo calcolo significati­ vo : supponendo che un individuo si sposti di soli cento metri ogn i anno , sapete quanta strada potrebbe fare in un milione di anni? L'equivalente di due volte e mezzo il giro del mon­ do . . . Di strada i nostri antenati ne hanno fatta tanta , in tutte le epoche . Se i primi Homo erectus non scherzavano , con le loro traversate a piedi da un continente all'altro , anche i loro discendenti non erano certo da meno . I reperti fossili mostra­ no che l'uomo preistorico ha avuto , in un certo senso , la vocazione dell'emigrante . E che a un certo punto queste migrazioni non sono state più soltanto il fatto di piccoli gruppi , ma di inter� popolazioni . Le ossa , i denti , le mascelle , i crani raccontano spesso la storia dei nostri progenitori in marcia e ci danno anche un 'idea di come hanno cominciato a diffondersi sulla Terra . Ma esiste oggi un altro metodo per individuare queste migra­ zioni e tentare di rifarne una mappa : un metodo biologico . Accanto allo studio delle ossa dei morti si sta infatti" ora sviluppando lo studio delle cellule dei vivi . È cioè diventato possibile . con certe tecniche , penetrare dentro il nucleo delle cellule e cominciare a leggere i cromosomi come se fossero libri di storia . Nei nostri cromosomi , a guardar bene , s i può trovare ancora oggi la traccia del passaggio di antiche popolazioni , o di certe grandi migrazioni umane . È una nuova tecnica di grande interesse . I ricercatori di punta in questo settore sono degli italiani . Vediamo di cosa si tratta . 78

La preistoria nei cromosomi (di Lorenzo Pinna)

Oggi l'uomo abita in quasi tutte le regioni del pianeta Terra . Anche nelle vicinanze dei Poli alcune basi scientifiche , con i loro ricercatori . costituiscono un avamposto umano in zone climaticamente impossibili per un essere vivente . Ricostruire la storia di tutti questi spostamenti e viaggi dell'uomo sulla superficie terrestre è molto semplice solo se consideriamo gli ultimi 500 anni . I grandi viaggi dei navigatori alla scoperta di nuove terre hanno aperto la via , dal 1 500 in poi , a gigantesche migrazioni di uomini che hanno popolato interi continenti . Simbolico il caso dell'America , oggi abitata per il 99 per cento da uomini arrivati negli ultimi secoli da Europa , Africa e Asia. Ma prima che i grandi navigatori scoprissero l' America , l'Australia o le Isole Polinesiane , altri uomini molte migliaia di anni prima le avevano già trovate e vi si erano insediati . In un certo senso l'esplorazione della Terra , cominciata nel 1 500 , è un secondo giro del pianeta. Chi compì il primo? E quando? Naturalmente i primi ominidi , l 'Hom o abilis e l'Homo erectus , avevano già scorrazzato in Africa , Europa e Asia , senza tuttavia spingersi così a nord quanto l'Homo sapiens sapiens , cioè noi stessi . E anche il continente america­ no probabilmente ebbe un unico colonizzatore : l'uomo della nostra specie . Ma allora quando entrarono nella foresta amazzonica, per non uscirne mai più , per esempio i Nambik­ wara? E da dove venivano? Questa domanda la potremmo ripetere per i polinesiani o gli aborigeni dell'Australia . Cosa sappiamo oggi dei viaggi e delle migrazioni dei nostri lontani progenitori che da 50 .000 a 30 .000 anni fa portarono la nostra specie a popolare la Terra? In altre parole da dove cominciò il suo avventuroso cammino l ' Homo sapiens sapiens : da una sola regione o da più regioni sparse per il pianeta? Accanto agli studi archeologici , oggi alcuni metodi , in certo modo sorprendenti , stanno dando i primi risultati . Gli scavi , 79

invece di a vvenire in q ualche zona remota ,

avvengono d e n tro

il nostro corpo , nelle nostre cellule dove si trova il DNA , il codice ge n e tico : la lunga molecola , cioè , che conserva tu tte quelle informazioni che servono a costruire le strutture del nostro organismo . In questo lungo filamento , in una lingua biochimica che oggi gli scienziati cominciano a decifrare , non c'è scri tto soltanto il presente ma anche il passato . Le informazioni contenute vi sono state lasciate dai nostri genitori . dai genitori dei nostri genitori e così via . La lunga molecola del DNA ha dunque registrato i vari incontri di geni avvenuti nel tempo attraverso la riproduzione sessuale . Per ricostruire le vicende dei nostri lontani progenitori non è tuttavia necessario saper leggere direttamente il codice genetico . Il DNA infatti , attraverso una complicata catena molecolare , controlla la costruzione delle proteine , i mattoni fondamentali del nost ro organismo . Analizzando in varie popolazioni queste proteine , che per esempio determinano i gruppi sanguigni , è possibile capire se vi siano state migrazio­ ni e mescolanze di g e ni L'irraggiarnento di un ce rto patrimo­ nio genetico da una regione indica una migrazione a partire da .

quel punto.

Una prima applicazione di questo metodo genetico-statisti­ elaborato da un 'équipe di ricercatori italiani diretta dal professar Cavalli Sforza e composta da Alberto Piazza e

co ,

Giancarlo Menozzi ,

ha

sciolto i dubbi che ancora esistevano

fra gli archeologi a proposito della diffusione dell'agricoltura

in

Europa . Questa prima grande rivoluzione tecnologica

nacque fra i 10.000 e gli 8000 anni fa in Medio Oriente , e p e rm ise quell 'aumento di produttività e dì ricchezza che rese possibile il sorgere di grandi civiltà , come l'egiziana e l'assiro­ babilonese . Ma co m e si di ffu s e in Europa ? Vi fu una migra­ zione di contadini mediorientali o semplicemente questi con­ tadini vennero imitati dai popoli e urop e i ? Nel caso di migrazioni i patrimoni genetici si sarebbero mescolati , nel secondo sarebbero rimasti distinti . I l professar Cavalli Sforza , analizzando con il suo metodo i patrimoni 80

I mmagine schematizzata, ottenuta attraverso l ' analisi dei cromosomi, che mostra la diffusione dei geni mediorientali in Europa. Questa diffusione diminuisce man mano che si sale verso i l Nord (zone sempre più scure).

genetici- di popolazioni europee e mediorientali , ha visto che questa diffusione era avvenuta con la migrazione e il conse­ guente mescolamento di geni. Infatti nelle nostre cellule esiste ancora la traccia di quei lontani avvenimenti . Una mappa realizzata al calcolatore e che sintetizza tramite il colore tutti i dati , mostra in maniera efficace ]a diffusione dei geni medio­ rientali (zona chiara) che rallentano la loro corsa via via che ci si dirige verso il Nord (zone scure) , per scomparire poi definitivamente in zone come la Scandinavia , la Gran Breta­ gna e l'Irlanda . È possibile ripetere su scala mondiale Io studio realizzato sulle popolazioni dell'Europa e del Medio Oriente? È cioè possibile rispondere all'interrogativo : quando e come i Nam­ bikwara si infilarono nel l a foresta amazzonica? E più in generale possiamo trovare la region e , o le regioni , di dove 81

cominciò quella prima grande migrazione che portò la nostra specie a popolare il pianeta Terra? A questo punto bisogna fare una precisazione . II metodo del professor Cavalli Sforza può parlarci dei viaggi dell'Homo sapiens sapiens , cioè di noi stessi , ma non degli ominidi come gli australopitechi, l'Homo habilis o l'Homo erectus . Anche queste specie di uomini, che precedettero l'Homo sapiens sapiens , come abbiamo visto compirono numerosi viaggi in Africa e in Asia, dove è possibile trovare i loro resti fossili . Ma , con il metodo genetico statistico , di loro non è più possibile sapere niente perché il DNA delle loro cellule è scomparso insieme alla loro specie . L'analisi di patrimoni genetici in numerose popolazioni sparse per tutto il mondo , ha mostrato , fatto sorprendente , che gli europei assomigliano geneticamente (anche se non nell'aspetto esteriore) agli africani , un po' meno agli asiatici , e Gli europei assomigliano geneticamente più agli africani che agli asiatici. E sono molto lontani dagli aborigeni australiani e dagli indiani d'America.

82

sono molto lontani dagli aborigeni australiani e dagli indiani d'America . Geneticamente gli asiatici occupano una posizione equidi­ stante sia dagli europei e dagli africani sia dagli aborigeni australiani e dagli indiani americani . Questi dati hanno con­ fermato le ipotesi che già i ritrovamenti archeologici avevano permesso di formulare . L'ipotesi è che fra 50.000 e 30.000 anni fa partirono dall'Asia nordorientale diverse ondate migra tori e dei primi esemplari di Homo sapiens sapiens apparsi sulla Terra . Que­ ste ondate umane attraversarono lo stretto di Bering, allora ghiacciato , e popolarono il continente americano . Da queste popolazioni discesero , fra l'altro , i Nambikwara . Ma all'incir­ ca nello stesso periodo altri gruppi della specie Homo sapiens sapiens dall'Asia sudorientale si diressero verso l'Australia e le isole del Pacifico , altri ancora verso l' Europa e l'Africa, soppiantando le altre specie di uomini , come quello di Nean­ derthal . Nelle migliaia di anni successivi le diverse situazioni climatiche e l'isolamento dei vari gruppi partiti dall'Asia provocarono quelle differenze nell'aspetto fisico che ancora oggi possiamo notare . Ma è proprio certo che la nostra specie abbia avuto origine in Asia? Secondo altri ricercatori 30 .000 anni sono pochi per spiegare le grandi diversità oggi esistenti fra i vari tipi umani . L'unica cosa da fare per risolvere questi dubbi è decifrare in modo più completo la nostra storia scritta in linguaggio biochimico nella lunga molecola del DN A . In viaggio attraverso i paralleli

È davvero straordinario riuscire a capire , grazie a queste

raffinate e astute tecniche biologiche , quello che è successo così tanto tempo fa , quando nessuno storico era là con la sua penna a raccontare quello che accadeva . Del resto le tecniche di « mappatura » dei geni stanno oggi avanzando molto rapidamente , ed è probabile che questa lettura del li bro della 83

vita attraverso i cromosomi ci porti in futuro molte altre informazioni sul nostro passato . Naturalmente queste prime popolazioni umane , comincian­ do a vi aggi are da un punto aiJ 'altro della Terra con migrazioni lente ma capillari , dovevano adattarsi all'ambiente . Chi andava verso nord , per esempio , doveva possedere un organismo particolarmente adatto ai climi fredd i ; viceversa chi si insediava all'equatore doveva adattarsi a condizioni del tutto diverse . Un po' come è successo per l'orso bruno e l'orso polare . Sappiamo che , nell'adattamento delle forme viventi all'am­ biente , è stata la selezione naturale che ha agito da se­ taccio lasciando sopravvivere ogni volta solo quelli che casual­ mente erano i più adatti , ed è così che sono sorti pian pia­ no dei gruppi che meglio rispondevano al le ri chieste del l ' a m ­ biente . Questo adattamento ha richiesto , naturalmente , tempi mol­ to lunghi perché è stato il frutto , appunto , di mutazioni genetiche . Non è certo per il solo fatto di spostarsi al Polo Nord , per esempio, che un africano cambierebbe colore della pelle : suo figlio e suo nipote continuerebbero a essere neri come lui . Infatti i neri d'America , pur vivendo in climi nordici , con ti n u a n o a essere u g u al i a quelli africani (l'even­ tuale diversità è dovuta solo agli incroci con i bianchi , che si sono verificati soprattutto èlurante il periodo della schia� vitù) . In altre parole , così come è avvenuto durante tutta la storia deJJ 'evoJ uzione , l 'adattamento deJJe popolazioni ai climi pote­

va avvenire soltanto grazie allo stesso meccanismo che ha consentito alle diverse specie di adattarsi aile differenti nic­ chie ecologiche : mutazioni , selezioni , adattamenti . Influendo così non solo sul colore della pelle , ma probabilmente anche su certe trasformazioni avvenute in altre parti del corpo . Il fatto è che i tempi evolutivi per l'uomo sono stati relativamente brevi , e la graduale introduzione della tecnolo­ g ia ha indubbiamente falsato le regole del gioco . Detto questo possiamo comunque porci qualche domanda. 84

L 'adattamento ai climi

(di Giangi Poli)

È possibile che l'altezza , il peso del corpo , la forma della

testa e degli occhi , la lunghezza delle braccia, delle gambe e del naso , il colore della pelle ecc. siano dovuti all'influenza del clima nel quale le diverse popolazioni si sono evolute? È una risposta molto difficile , dicono gli studiosi del problema, perché , tanto per cominciare , gli uomini (come d'altra parte moltissimi animali) sono continuamente andati in giro per il pianeta migrando e passando attraverso tutti i tipi di clima. Basta ricordare la grande migrazione dei popoli asiatici che attraverso lo stretto di Bering passarono in America e la discesero tutta fino alla più lontana Patagonia passando per climi gelidi , temperati , caldo-secchi , caldo­ umidi e poi ancora temperati e gelidi . Un'altra difficoltà è data dal tempo relativamente breve della storia umana . Da quando gli antenati dell'uomo hanno cominciato le loro migrazioni , partendo probabilmente dal­ l' Africa, la selezione naturale e l'evoluzione hanno avuto relativamente poco spazio per manovrare , se non in certi casi riguardanti particolari caratteristiche quali il colore della pelle , la forma del naso ecc. ecc. Un'ulteriore difficoltà è il grande mescolamento delle po­ polazioni , che ha confuso le caratteristiche originali di ciascu­ na di esse rendendo difficile una indagine accurata. La situazione attuale è quindi complessa, ma in alcuni casi si possono fare dei tentativi di interpretazione .

Un esempio che sembra essere pienamente legato all'in­ fluenza del clima è il colore della pelle . Supponiamo , come sembra, che i primi uomini siano apparsi in un clima africano molto caldo , con sole molto forte . Questi uomini si erano evoluti in quel clima e quindi erano , per definizione , in armonia con il loro ambiente . Se non ci fosse stata questa armonia, questo equilibrio , si sarebbero sviluppati uomini diversi . Le perfette relazioni fra i primi uomini e il loro ambiente permettevano loro di sopravvivere . Ogni loro carat85

teristica fisica doveva per forza di cose rispettare l ' ambiente . In un clima con sole molto forte la loro pelle doveva obbliga­ toriamente essere nera . E perché mai ? Una parte della radiazione solare , della luce solare , penetra nella nostra pelle e , attraverso un mecca nismo complesso , forma la vitamina D che regola l' assorbimento dell 'elemento chimico calcio nell'intestino e la deposizione di minerali nelle ossa durante la loro crescita . In altre parole senza la vitamina D le ossa non si formano bene e appare una grave malattia , il rachitismo, la caratteristica più appariscente della quale sono le gambe storte . Se la quantità di luce solare che passa nel­ la pelle è nelle dovute proporzioni non ci saranno proble­ mi di rachitismo e i bambini verranno su con le loro gambe dritte . Secondo il professor Loomis, che per anni ha insegnato all'Università Brandeis vicino a Boston negli Stati Uniti , il colore scuro della pelle serve proprio a fare da giusto schermo alla forte luce del sole , permettendone solo il passaggio in quantità ottimale . Se la pelle fosse più chiara la quantità di luce che entrerebbe sarebbe troppa , anche la vitamina D sarebbe troppa e i livelli degli elementi chimici calcio e fosforo nel sangue aumenterebbero fino a portare alla calcificazione e quindi all'indurimento di molte parti del corpo , quali le arterie , le valvole cardiache ecc . . che debbono invece rimane­ re elastiche . Questi indurimenti , assieme alla contemporanea formazione di grossi calcoli renali , potrebbero portare alla morte . Ecco perché sotto il sole molto forte possono vivere bene solo uomini dalla pelle molto nera che permette un

giusto equilibrio fra intensità di luce e produzione della vitamina D. È questo un tipico caso di dipendenza dal clima di una caratteristica del corpo umano . Supponiamo che nel passato moltissimi uomini dalla pelle nera si siano spostati , lèntamente , in cerca di cibo verso altre regioni , verso l'Asia, per esempio , dove la luce solare era meno forte , e poi verso l' Europa del Nord dove la luce del sole era ancora meno forte . È evidente che la luce solare più debole , non potendo più passare attraverso la loro pelle 86

scura , non creava più la quantità sufficiente di vitamina D . Ciò impediva l a corretta formazione delle ossa , faceva appari­ re il rachitismo , le famose gambe storte e , cosa peggiore , creava delle malformazioni alle ossa del bacino delle donne tali da impedire la regolare nascita dei figli . In più , il freddo , obbligando i popoli dalla pelle nera a coprirsi , fece il resto riducendo moltissimo la parte della pelle esposta al sole e quindi la già scarsa quantità di vitamina D e aumentando ancora di più il rachitismo . Le cose sembrano essere andate proprio così , secondo il professor Loomis . Le ferree leggi della selezione naturale si abbatterono su quei popoli migranti . Chi aveva le gambe storte non poteva correre bene per procurarsi il cibo , o fuggire velocemente davanti ai predatori , né poteva valida­ mente c,ompetere con altri uomini . Doveva quindi soccombe­ re in giovane età , fisicamente eliminato dalla selezione natu­ rale . Le donne rachitiche , d'altra parte , che non potevano fare figli con facilità a causa delle malformazioni delle ossa del bacino , venivano trascurate dai maschi e a loro volta soccom­ bevano . Se non fosse intervenuto un fattore fon d amenta l e delle leggi dell'evoluzione , i popoli migranti verso l'Asia e poi verso l'Europa del Nord si sarebbero estinti . Questo fattore , una delle regole base dell'evoluzione , è la mutazione casuale . Chi nasceva per caso con la pelle un po' più chiara sopravviveva meglio . La pelle un po' più chiara permettava alla più debole luce solare di attraversarla e di produrre quel po' più di vitamina D necessaria per evitare il rachitismo . Uomini e donne con questa preziosa caratteristica

potevano avere a loro volta alcuni figli con la pelle più chiara degli altri . Mentre questi ultimi venivano eliminati dal clima, i primi sopravvivevano . Così pian piano uomini e donne che nascevano con la pelle sempre più chiara man mano che le migrazioni si spostavano sempre più a nord diedero origine a popolazioni bianche che , come le popolazioni nere , erano e sono , dal punto di vista deila produzione della vitamina D , in perfetto equilibrio con il proprio clima , un perfetto esempio della sua influenza sulle caratteristiche del no st ro corpo. 87

L'esempio della pelle è , a detta dei ricercatori , quello che più si presta a una evidente correlazione fra corpo e clima .

Altre caratteristiche del corpo umano legate al clima . anche se non così chiaramente , s a re bbe ro il pe so e la l un gh ezza del tronco e delle gambe . Sembra che coloro che vivono in climi più freddi siano più pesanti , abbiano ga m be e braccia più corte e tronco più lungo di quelli che vivono in climi più caldi : un trucco dell 'evoluzione per mantenere più caldo il corpo in un clima freddo diminuendo la dispersione dì calore . Anche il naso di chi vive al freddo sembra essere più stre tto di quello di chi vive al caldo . per permettere un maggior riscaldamento dell 'aria fredda respirata . In tutti q u e s t i casi si sarebbe ripetuto il meccanismo evolutivo che ha agito nel caso del colore della pelle . In un clima fre dd o per esem pio , chi nasceva casualmente con il corpo un po' più grosso , le braccia un po ' più corte , il naso un po ' più stretto so pravviveva me g lio degli altri , che venivano man mano eliminati dal clima , e dava origine a una popolazione più adatta a q uel cli ma . Oggi le cose sono molto cambiate e alle dure leggi dell'evo­ luzione naturale si sono sostituite quelle dell 'evol uzione cultu ­ rale che fornisce riscaldamento , abiti , vitamina D sintetica ecc. Tu t t i possono vivere bene e ri prod u rsi bene dappertutto. Ma tant'è . Quanto è accaduto nel lungo periodo preistorico del l ' uomo s u l l a Terra sarà ancora per moltissimo t e mpo responsabile dell'aspetto e delle caratteristiche fisiche delle ,

v arie

popolazioni del pi a n e t a

.

Il pìtecantropo e il computer

Questo tipo di adattamento biologico dell 'uomo al clima è dunque in pratica finito. Nessuno infatti oggi muore perché è inadatto al proprio clima: la tecnologia, le invenzio­ ni , la medicina hanno creato modi completamente nuovi di adattamento , azzerando quasi la mortalità infantile . Oggi siamo addirittura capaci di creare degli am bienti artificiali per riuscire a vivere sotto i ghiacci o nella stratosfe«

88

»

ra , in fondo al mare o sulla superficie della Luna , senza dover aspettare mutazioni casuah dei nostri cromosomi per adattarci biologicamente . Sono occorsi milioni d'anni alla tartaruga per sviluppare il proprio guscio , o alla foca per avere il proprio grasso ; all'uomo , invece , una volta partito il processo tecnologico , sono bastati tempi brevissimi per arrivare ad avere una grande varietà di gusci protettivi a scelta (dal batiscafo alla tuta spaziale) . Così l'invenzione culturale si è sostituita ali'« invenzione » biologica . L'associazione delle idee si è sostituita all'associa­ zione casuale delle molecole di DNA . Con un'immagine un po' ardita si potrebbe proprio dire che la tecnologia è diventata una sorta di « DNA esterno » , che noi possiamo manipolare a piacimento per renderei adatti a qualsiasi ambiente . Naturalmente ciò comporta un prezzo da pagare : la dipen­ denza dalla tecnologia. Non si può « sbagliare » il batiscafo o la tuta spaziale , perché ciò significa la morte : ma analogamen­ te non si possono « sbagliare » quei comportamenti che presiedono alle decisioni (complesse e interconnesse) che regolano una società tecnologica . Cioè non si può sbagliare epoca. Uscendo dalla sua animalità preistorica l'uomo ha innesca­ to , attraverso la tecnologia , l'organizzazione sociale e la cultura , un processo di cambiamento estremamente rapido , che deve continuamente essere capito , orientato , guidato. È sufficiente qualche dato per capirne le dimensioni . È bastata l'invenzione dell'agricoltura , in Medio Oriente , per scardinare completamente il rapporto uomo-chilometro qua­ drato . Nella « Mezzaluna fertile » (cioè quel semicerchio che dalla Giordania arriva alla Persia, toccando la Turchia) nell'anno 8000 avanti Cristo gli abitanti si presume fossero all'incirca 100.000 : dopo l'avvento delle tecniche agricole, nel 4000 avanti Cristo, in quella stessa zona gli abitanti erano diventati 3 milioni . . . Con la seconda grande rivoluzione , quella industriale , la dipendenza dalla tecnologia è diventata ancora più grande , e 89

2000

a.C.

1 000

a.C.

3 milioni

og g i

4 m i l iard i

L'invenzione del l ' agricoltura, nel Medio Oriente, ha fatto salire di 30 volte la popolazione locale i n 4000 anni (da 1 00.000 a 3 milioni ) . La rivoluzione industriale ha creato una seconda esplosione demografica, portando la

popolazione mondiale a oltre 4 miliardi.

l'esplosione demografica ancora più forte : abbiamo superato i 4 miliardi e ci avviamo verso un ulteriore raddoppio . La terza rivoluzione che è alle porte , quella della micro­ elettronica , può forse aiutarci a risolvere alcuni dei problemi del nostro sviluppo , spesso pieno di contraddizioni . Ma a una condizione : quella di saper adeguare il nostro cervello . ancora così primitivo , alla nuova cultura tecnologica . Il pitecantropo

e il computer non possono entrare l 'uno dentro l 'altro : la razionalità dei processi di una tecnologia avanzata mal si adattano a strutture mentali arcaich e E, peggio ancora , culture e mentalità pre-scientifiche non sono in grado di inserirsi dentro una tecnolo g ia così sofisticata e così densa di conseguenze . Riprenderemo questo discorso nell 'ultima parte del libro . Intanto , continuando il nostro percorso siamo giunti a un punto cruciale : perché è ormai ora che entri in cam p o . in .

90

primo piano , l'oggetto che è in definitiva al centro di tutto il nostro discorso : il cervello . Nel corso dei prossimi capitoli compiremo quindi un lungo viaggio al suo interno , per capire come funziona e soprattutto per comprendere quali sono le sue capacità (e i suoi limiti) di elaborazione e di immaginazione . È infatti solo un buon uso (e quindi una migliore conoscenza) della nostra macchina per pensare che può migliorare le nostre possibilità di adattamento a un ambiente in continua trasformazione . Entriamo quindi nella scatola cranica , per tentare di capire cosa avviene al suo interno . «

»

91

V



DENTRO IL CERVELLO

La fioritura dei neuroni

Quando un bambino nasce , il suo cervello è già in gran parte pronto . È vero che continuerà a « maturare » per molti anni ancora , completando il suo sviluppo e lasciandosi pla­ smare dalle esperienze ambientali, ma alla nascita la macchi­ na è già funzionante e pronta per partire al « via Appena 9 mesi prima, tutto questo non esisteva: c'erano soltanto delle cellule in proliferazione che davano pian piano origine all'em­ brione. Il sistema nervoso di un individuo , con tutta la straordinaria fiori tura dì neuroni. radici , co nne ss i o n i si forma in quei nove mesi , partendo da un minuscolo solco che appare al diciottesi­ mo giorno, quando l 'embrione è lungo meno di 2 miJ l im e tri : questo solco , sprofondando , si rinchiude e forma un « tubo neuronale da cui prenderanno poi o ri gin e il mido1Jo spinale e il cervello . >> .

,

»,

Ma come mai , 9 mesi dopo , esiste una

«

centralina

»

cerebrale così i n c redi b il m ente complessa , composta da dieci miliardi di ce l l u le nervose co l le ga te tra loro da mi g l i a i a di miliardi di connessioni? Come fanno questi « spinotti » ad andare a trovare gli a ll acc i a m en ti gi usti ? Nei capitoli precedenti abbiamo parlato dell'importanza del wiring cerebrale , cioè dell 'importanza dell 'intreccio d i tutti questi filamenti nervosi che partendo da ogni singola cellula (così come da un albero partono i rami o le radici) vanno a collegarsi con certe altre cellule o ramificazioni per formare 92

una fittissima rete . Questa rete non è costruita a casaccio: ha una sua logica . Così come ha una sua logica l'intreccio dei fili in un pannello elettrico , o lo schema delle connessioni in un calcolatore . Ebbene , questi piani architettonici che regolano lo sviluppo dell'embrione (e quindi anche del sistema nervoso) sono contenuti nel codice genetico , nel DNA : infatti il cervello di ogni individuo (e non solo il suo corpo) è il frutto di una costruzione automatica che avviene nel ventre della madre . È un po' quello che succede anche per i fagiolini : mettendo un seme nel ventre della terra, e fornendo l'ambiente giusto (temperatura , umidità , luce , concime) nascerà « automatica­ mente » una pianta di fagiolini (o di pomodori , o di fragole , a seconda del seme messo) , in base a una costruzione guidata dal suo DNA , grazie a un gioco biochimico di « induzioni » e « inibizioni » che resta ancora in gran parte da chiarire . Un ricercatore americano , E . R . Kandel , lavorando su cervelli semplici (formati da un piccolo numero di cel lule nervose , e quindi più facili da osservare ) , ha mostrato che in un invertebrato come l'Aplysia , una sorta di lumacone acqua­ tico , è possibile contare il numero totale dei neuroni e prevedere lo sviluppo delle varie connessioni : per esempio stabilire che i l neurone numero 27 svilupperà un assone (un lungo filamento) che andrà al numero 96 , e un altro ancora che andrà al numero 755 ecc . La caccia al bersaglio

Si tratta, insomma , di una crescita assai ben programmata geneticamente . Ed è molto probabile che nello sviluppo del cervello umano accada la stessa cosa . Naturalmente questo programma di crescita è solo uno schema di massima , un telaio sul quale le situazioni locali possono tessere trame diverse . Varie circostanze , infatti , posso­ no intervenire continuamente per modificare o alterare questo sviluppo . Durante questo periodo fetale , per esempio, accade 93

una cosa sorprendente : il numero delle cellule cerebrali dimi­ nuisce enormemente . Cioè si perdono più neuroni durante la

vita fetale che durante tutto il resto della vita . La dottoressa Patri cia Goldman , della Yale University, che lavora in questo settore di ri�erche , ci spiega cosa si è osservato . Non siamo certi che ciò sia assolutamente vero per tutte le strutture del cervello , ma laddove è stato possibile studiare il fenomeno (generalmente su animali molto piccoli) si è potuto contare il numero dei neuroni , e si è scoperto che durante lo sviluppo il numero di queste cellule diminuisce molto rapidamente . Molti rite ngono che la sovrabbondanza iniziale sia necessaria per consentire una competizione tra. i neuroni , in vista della costruzione dei collegamenti . - Cioè avverrebbe un po' quello che avviene con gli spermatozoi , che sono sovrabbondanti , in modo che qualcuno c om u nq ue arrivi aiJ'ovulo (e possibilm e nte arrivi il pi ù svelto)? «

»

«

Precisamente . Si potrebbe parlare di sopravvivenza del

più adatto . Le cellule cerebrali sono in concorrenza tra loro per ra ggi un gere determinati bersagli: le più sane, o quelle che arrivano prima , stabiliscono le connessioni e sopravvivono . È anche possi bile che questa selezione continui ulteriormente : e che tra le cellule sopravvivano le più attive . - Ma come mai queste ramificazioni riescono a trovare la strada giusta verso il bersaglio? Ci sono varie ipotesi . Alcuni pensano che la struttura invii un segnale chimico specifico che viene raccol­ to dal neurone , e che lo fa migrare lungo il segnale . Si ritiene anche che le fibre nevrogliche , che si estendono attraverso il cervello , possano fungere in un certo senso da per queste migrazioni . Che certi segnali chimici fungano da richiamo specifico , lo si osserva continuamente in natura . Basta pensare agli odori . Le gatte in calore , si sa , attirano tutti i gatti del vicinato . Così pure l'odore del buon cibo attrae gli animali da grande distanza . Gli insetti , dal canto loro , utilizzano continuamente i feromoni (piccole molecole liberate nell'aria) per effettuare richiami da »

«

»

94

distanze astronomiche, tenuto conto delle loro piccole dimen­ sioni : quasi un chilometro . . . D'altro canto vediamo come mol­ tissime piante prolunghino le l oro ramificazioni servendosi di tralicci , o si sviluppino lungo direttrici determinate da certi « richiami » (luce , temperatura , umidità ecc . ) . Ma per l e cellule nervose , quali possono essere i segnali chimici che creano lo sviluppo delle ramificazioni? Per il momento se ne sa ancora poco : ma un contributo fondamen­ tale lo ha fornito già 20 anni fa una ricercatrice italiana , Rita Levi Montalcini , con la scoperta dell'ormai famoso « Nerve Growth Factor » ( NGF ) o fattore di crescita nervosa » . Si tratta di una sostanza che stimola la crescita delle cellule nervose del sistema simpatico , cioè di quelle cellule che controllano il cuore , i vasi sanguigni e via dicendo . Un esperimento mostra bene come agisce questa sostanza. «

Se si prelevano alcune cellule del sistema simpatico di un ratto

appena nato e si mettono in un liquido nutriente di coltura esse , poco dopo , muoiono : ma se si aggiunge il magico NGF non solo sopravvivono , ma cominciano a crescere in modo esuberante . Le estremità si ramificano e danno origine a un « albero » rigoglioso di terminazioni nervose ! Questo « fattore Levi Montalcini » , che riguarda il sistema simpatico , può esistere anche per le cellule della corteccia cerebrale (cioè quei neuroni che sono alla base delle attività mentali superiori)? Molti sono convinti di sì , anche se un tale fattore di crescita non è stato ancora scoperto . Tutto ciò è un indice dell'importanza della biochimica nello sviluppo cerebrale . Il nostro cervello è un laboratorio chimico in cui awengono in continuazione miliardi di reazioni al secondo , ed è questo uno dei campi più promettenti per la futura ricerca sul cervello (anche se uno dei più difficili) . La rete ferroviaria cerebrale

Durante il periodo fetale , dunque , queste ramificazioni nervose partono dalle varie cellule e si prolungano alla ricerca 95

delle connessioni giuste ; ma che cosa accade se qualcosa viene a perturbare la crescita di questa « rete ferroviaria » cere­ b ra l e ? Le osservazioni fatte indicano che in caso di difficoltà o incidenti di percorso subentrano probabilmente altre cellule nervose , che sviluppano i loro propri tracciati . Ma l'architet­ tura finale risulterà ovviamente diversa, come hanno del resto mostrato gli studi deJla dottoressa Patri ci a Goldman : nel senso che in questo modo potranno crearsi dei collegamenti di tipo insolito . Può questa variazione avere ripercussioni sull'attività men­ tale futura? L'impressione è che effettivamente ciò avvenga. E la cosa sorprendente è c h e un 'anomalia nell org ani zza z ion e dei circuiti sembra poter provocare non solo danni , ma in certi casi , paradossalmente , anche un maggiore sviluppo di certi talenti . . . Il professor Norman Geschwind, della Harvard Medicai School , che è co n s i de ra t o uno d e i massimi esperti nel campo delle strutture cerebrali , ha studiato il caso dei bambini dislessici . Cioè bambini normali ma che hanno grosse difficol­ tà nell'imparare a leggere . Con i suoi collaboratori è riuscito a dimostrare che questi bambini hanno anomalie di circuiti nella zona del cervello preposta alla parola: e queste a n om al i e si presentano sotto forma di strutture nervose bizzarre e insolite , dovute a difetti di coll �gamento . La cosa curiosa è che tra questi bambini (specialmente se provengono da fami­ glie medio-alte ) è probabilissimo trovare un 'alta percentuale di t al e n t i artis tici . - Professar Geschwind, è possibile ipotizzare che que­ sta maggior tendenza ai talenti artistici nei dislessici sia in qualche modo dovuta alle loro anomalie dei collegamenti nei circuiti? Effettivamente il fa tt o che certi coJ J egamenti in tal une regioni non si siano sviluppati bene , può indurre a pensare che certe altre regioni , situate in diverse aree del cervello , abbiano avuto uno sviluppo eccessivo. » - Cioè questa crescita anomala potrebbe influenzare lo '

«

96

sviluppo delle connessioni in altre parti del cervello , influen­ zando magari talenti artistici o di altro tipo? «

Sì , sembra proprio che l'incapacità di alcune regioni di

svilupparsi adeguatamente durante la fase fetale porti a una sorta di (o , se vuole , a altre regioni .

un

) in

»

I giardinieri co no sc ono bene questo fenomeno: infatti è proprio potando le piante in certi punti che essi stimolano una maggior _crescita in altre parti . Alcuni , però , ritengono che il dedicarsi ad attività artistiche sia un meccanismo di compenso : cioè i bambini che non leggono- scrivono si sfogherebbero » in altre attività, espri­ mendosi così in altri modi . In ogni caso , questo semplice esempio della dislessia mostra chiaramente quanto l'intreccio (il wiring) cerebrale sia impor­ «

tante : è infatti questo schema di connessioni a essere aUa base

delle varie capacità del cervello . Basta che venga modificato da un qualunque incidente di percorso perché i risultati cambino e la rete ferroviaria » cerebrale finisca per svilup­ «

parsi in modo diverso . Tutto ci ò ,

abbiamo visto , avviene dunque durante lo svilup­ po fe t ale , qu an do il cervello è ancora avviluppato dall'involu­ cro materno e non è a n cora in contatto diretto con gli stimoli esterni . Durante lo sviluppo fetale , per la verità, il bambino risente già dell'ambiente esterno (non solo certe sostanze chimiche che entrano nel circolo sanguigno materno , come fumo , alcool , farmaci o stress d e ll a madre , ma anche rumori , musiche , voci ecc . ) ; tuttavia

è quando nasce che il bambino

un vero e proprio oceano di sensazioni , sensazioni ne l suo ce rve ll o vi aggi an do lungo tutti i canali della percezione : odori , gusti , suoni , temperature , contatti . E soprattutto im mag i ni Cosa succede nel cervello quando arriva questo flusso di entra in

che confluiscono

.

stimoli? Se , come abbiamo visto , le cellule nervose sono già

così sensibili alle variazioni del loro ambiente interno , cosa accade quando sono attraversate , come un brivido, da questi

stimoli sensoriali? 97

In viaggio dall'occhio al cervello

Ci sarebbero molti modi per entrare in questo discorso . Noi utilizzeremo la chiave di accesso fornita da due famosi ricercatori , che per i loro lavori sulla percezione visiva hanno ricevuto il premio Nobe l : David Hubel e Thornton Wiese l . La percezione visiva è infatti la via maestra degli stimoli ambien­ tali . Hubel e Wiesel hanno esplorato in particolare due aspetti di questo problema : innanzitutto come sono organizzate le vie di comunicazione visive (cioè come un 'immagine viene trasmessa dall'occhio verso il cervello) , e poi quali cambia­ menti possono venir provocati nella rete nervosa dal passag­ gio di questi stimoli , soprattutto nel primo periodo di vita . Dai loro studi appare molto chiaro quanto sia grande la specializzazione delle cellule nervose : la corsa a staffetta che porta l'immagine verso il cervello è in realtà una catena di smontaggio in cui l'immagine viene via via disaggregata , nel senso che ogni cellula nervosa reagisce solo a certi aspetti del messaggio luminoso . Sentiamo cosa si è scoperto pedi­ nando i segnali visivi nelle varie tappe del loro percorso verso il cervello . « Per ora sappiamo solo quello che accade a poca distanza dagli occhi , dice David Hubel. È un sistema assai com­ plesso . Già nell'occhio comunque si verificano tre fasi della trasmissione . Oltre a queste ne conosciamo altre quattro o cmque . « Per esempio nella retina alcune cellule rispondono a determinate lunghezze d'onda , e quindi sono specializzate per l'azzurro , oppure per il rosso ; altre per la luce debole oppure per quella forte . Oltre la retina ci siamo accorti che le cellule sono ancora più specializzate ; per esempio rispondono ai contrasti di luce , o ai margini tra luce e oscurità . Man mano che si procede nel cervello le cellule diventano ancora più specializzate : per esempio alcune tendono a rispondere all'orientamento della luce , alle linee verticali , o alle linee orizzontali eccetera . «

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98

- In altre parole , man mano che il segnale luminoso penetra nel cervello viene sempre più scomposto nei suo i elementi semplici ; e quando arriva aJia corteccia è stato praticamente suddiviso in una serie di informazioni detta� glia te? « Precisamente . » - E il cervello come riesce poi a fare la sintesi di tutti questi frammenti , ricomponendo nuovamente l'immagine? « Bisogna dire che in realtà nessuno sa come tutto ciò avvenga . Stiamo andando avanti un passo alla volta . » Una serie di ricerche hanno mostrato che il passaggio di questi impulsi visivi , specialmente quando il sistema è molto giovane , può provocare importanti modificazioni nelle cellule nervose . Si è da tempo scoperto , infatti , che il cervello è un organo dinamico , in continua trasformazione . Non è come un computer, dove lo schema dei collegamenti è fissato una volta per tutte e non cambia più: il cervello è piuttosto come un albero dove rami e rametti possono continuare a crescere e ad arricchire continuamente la rete . Questo processo di crescita avviene in modo particolare nella prima età (quando il cervello sta maturando) ed è reso più attivo dagli stimoli ambientali . L'esperimento fatto in proposito da Hubel e Wiesel coi gatti è molto significativo . Se a un gattino , appena nato , viene impedito di usare un occhio (per esempio bendandolo) in modo che per vedere debba usare soltanto l'altro , anche solo per pochi giorni, ci si accorge che grandi cambiamenti si producono nelle cellule nervose interessate : infatti , nel cervello , le connessioni del­ l'occhio rimasto chiuso risultano anomale , meno estese . Men­ tre quelle dell'occhio rimasto aperto si sviluppano e si ramifi­ cano . Se questa situazione si prolunga , l'occhio rimasto chiuso può perdere quasi del tutto la sua capacità di vedere . La mancanza di stimoli e di esperienze nella prima età inaridisce , per così dire , la funzione. « Questo dimostra , » dice T. Wiesel , « che anche quando nasciamo con un sistema nervoso normale , se non lo usiamo 99

Se un gattino neonato viene bendato, anche solo per pochi giorni , subirà seri danni alla vista. Nel cervello, infatti , le connessioni del l ' occhio bendato risu lteranno meno svilu ppate, mentre q uelle del l 'altro occhio si ramificheranno riccamente.

correttamente possono prodursi delle disfunzioni anche molto gravi . Si è visto , per esempio , che quando un bambino nasce con una cataratta a entrambi gli occhi , se viene operato all'età di 3 o 5 ann i , è già troppo tardi : rimane quasi cieco , pur non av en do alcuna l e sion e agli occhi . - Dottor Hubel, si può a questo punto fare l i p o t es i inversa: che cioè più il siste ma nervoso è stimolato più si svilu p pa? E poss i b il e Noi conosciamo il fenomeno solo dal punto di vista negativo , nel senso che una deprivazione crea proble­ mi. Non sappiamo esattamente che cosa accadrebbe in una situazione più ricca di stimol i . È però verosimile ritenere che un bambino cresciuto in un orfanotrofio, dove passa il tem ­ po a fissare il soffitto anziché a giocare con altri bambini , subirà dei danni non solo al sistema visivo , ma anche al cer­ »

'

«

vello .

.

>>

100

Intelligenti si nasce

o si diventa?

Tutta la neurobiologia moderna mostra effettivamente che

la mancanza di stimoli culturali , specialmente nella prima infanzia (ma anche lungo tutto il corso della vita) , impedisce all' « albero » nervoso di crescere , svilupparsi , creare nuove ramificazioni , connessioni . E quindi di sviluppare le sue potenzialità mentali . Molte ricerche hanno mostrato che esistono notevoli (e a volte drammatiche) differenze tra bambini allevati in ambien­ ti culturali diversi . Naturalmente ci si può chiedere , a questo punto , se nell'uo­ mo una maggiore o minore ca pa ci t à mentale sia do vu t a al fatto di avere sin dalla nascita una buona macchina cerebrale , oppure se sono piuttost o gli stimoli culturali che contano . In altre parole : quale può essere il ruolo rispettivo dell'ere­ dità e dell'ambiente? Intelligenti « si nasce o si diventa »? È una q u e st i on e s u l la q u a le le po s i zi on i sono, come è noto, contrastanti (soprattutto per le implicazioni socio-politiche che ne derivano , in particolare quando si parla di ereditarietà dell'intelligenza nei diversi gruppi umani , poiché qui si tocca­ no problemi come l'uguaglianza , la parità di diritti , il razzismo ecc. ) . Sostanzialmente , però , c'è accordo sul fatto che ogni individuo è inevitabilmente diverso da ogni altro , dal momen­ to che il suo DNA è diverso . Quindi ogni cervello non può che essere unico , dal momento che è il risultato di un codice genetico unico , il quale ha costruito di conseguenza la propria

macchina cerebrale in modo personale . C'è anche accordo , naturalmente , sul fatto che l'ambiente abbia una grande importanza per stimolare le qualità innate attraverso l'educazione , l'ambiente familiare , la scuola , le esperienze , e attraverso le storie p erson a l i (anche affettive) di tipo diverso . I n quale percentuale , però , le varie componenti incidono sul risultato finale è difficile dirlo . Alcuni psicologi (molto contestati) , basandosi sui tests di intelligenza , affermano che 101

l ' intelligenza è d ov uta per due terzi alla macchina cerebrale che ognuno si trova alla nasci t a , e solo per un terzo all'in­ fluenza dell'ambiente . Altri sono su posizioni total mente

opposte . In realtà è una domanda alla quale non si può rispondere . Perché entrambe le cose sono ovviamente molto importanti : si tratta di un gioco incrociato difficilmente valutabile . Infatti « inte lligenti s i nasce e s i di ve n t a E questo cocktail tra cultura e cromosomi può variare probabilmente molto a seconda delle storie personali (sia ambientali che genetiche) . È evidente che ci sono persone che hanno talenti innati molto più marcati di altre ( perché questo corrisponde a un loro diverso wiring, a una diversa struttura dei loro circuiti cerebrali) . Tutta la storia, del resto , è piena di uomini geniali in ogni campo , che sono emersi per le loro qualità innate e non per avere ricevuto un'educazione particolarmente brillan­ te (Einstein , del resto , andava male a scuola . . . ). Questo è vero non solo per l'intelligenza , ma per tutta una varietà di altri talenti « iscritti » n e i circuiti cerebrali: musica , matemati­ ».

ca , linguaggi o , disegno ecc .

È altrettanto evidente però che nessuno è in

gr ado di fare de lla musica o della matematica , di dipingere o persino di

p a rl a r e se non ha imparato queste cose attraverso l'am­ b i en t e . L' ambiente ha un ruolo immenso perché è in g r a do di sviluppare (oppure no) le predisposizioni individuali . Da zero all'infinito . Tentare perciò di stabilire , allo stato attuale , de lle percen­ «

»

tuali precise sull 'influenza dell 'una o dell 'altra componente in

un individuo , ha osservato argutamente un biologo , sarebbe come voler stabilire quale era la percentuale di e re di tà e di ambiente nell' amore tra Giulietta e Romeo . . .

102

VI

Le pistole

a

·

LA COSTRU ZION E DELLE MEMORIE

spruzzo

Il passaggio degli stimoli ambientali nel sistema nervoso può dunque provocare modificazioni in vari modi . È ben noto , ormai , che i punti di contatto in cui le ramificazioni . nervose si « toccano » , per passarsi il messaggio dall'una all'altra , si chiamano « sinapsi » . Cioè la cellula che trasmet­ te , in quel preciso punto possiede (per usare un'immagine un po' fantasiosa ma efficace) una « pistola a spruzzo » : vale a dire un sistema che spruzza sulla membrana dell'altra cellula delle sostanze chimiche . Esistono molti tipi di queste sostanze chimiche (acetilcoli­ na, dopamina , serotonina , noradrenalina ecc. ) , ognuna delle quali provoca reazioni diverse . Queste sostanze si chiamano neuro-trasmettitori chimici . La cellula che riceve lo spruzzo , ha in quel punto un « ricettore » che è sensibile a questo messaggio chimico : e attraverso un gioco di eccitazioni e inibizioni questo stimolo può agire come un grilletto , provo­ cando nella cellula nervosa ricevente una scarica elettrica

(dovuta alla polarizzazione e depolarizzazione della membra­ na) . Questa scarica elettrica correrà lungo le ramificazioni e provocherà a sua volta altri « spruzzi » sui punti di contatto con altre cellule nervose , e così via. Tutto ciò probabilmente lascia qualche traccia nel sistema . Infatti il passaggio del segnale mette in moto una serie di meccanismi che interessano le membrane , i punti di trasmis­ sione e ricezione , la produzione di sostanze chimiche , il loro riassorbimento ecc. 103

Le sinapsi , come spinotti biologici , rappresentano i punti di contatto tra le cellule nervose . Una cellula può avere oltre un migliaio di questi pu nti di contatto .

Recenti ricerche hanno mostrato che , solo a livello delle sinapsi , sono coinvolte in questa attività almeno una dozzina di fasi . È in questo modo che vengono immagazzinate le informa­ zioni? Cioè queste modificazioni rappresentano, per così dire , una nuova

«

messa in forma

»

dei circuiti , e quindi costitui­

scono una traccia del passaggio dei precedenti stimoli? La memoria, allora , potrebbe essere il frutto di queste alterazioni strutturali e anche chimiche? Sentiamo cosa ne pensa uno dei più noti ricercatori in questo campo , il dottor Edward Fursh­ pan , della Harvard University. La maggiore parte di noi è convinta che un giorno si scoprirà che la memoria è il prodotto di queste modificazioni delle sinapsi ; o magari , in certi casi , il prodotto dell'emergere di n u o ve sinapsi . I n altre parole pensiamo che l'attività «

104

mentale , l'apprendimento , o i ricordi , siano impulsi che viaggiano attraverso questa rete di comunicazione . Quando ricordiamo o impariamo qualcosa - per esempio ci sediamo al pianoforte e impariamo a suonare qualcosa che prima non sapevamo - vuoi dire che gli impulsi nervosi hanno preso strade che prima non avevano mai percorso . « Vorrei farle un esempio semplice : la famosa associazione del cane di Pavlov tra la presentazione della carne e il suono di un campanello . Il fatto che , dopo un certo numero di ripetizioni , basti il suono del campanello per provocare la salivazione nel cane significa che è stato stabilito (o rafforza­ to) un collegamento tra il sistema uditivo e i neuroni che controllano le ghiandole salivarie ; un'associazione che prima non esisteva. Gli impulsi nervosi , cioè , diventano capaci di percorrere un sentiero che non avevano mai percorso prima . E tutto ciò rappresenta un apprendimento . - Secondo lei , può trattarsi di un collegamento già poten­ zialmente esistente e che viene attivato , oppure della crescita vera e propria di un nuovo collegamento? « Pensiamo piuttosto a un'attivazione di connessioni che già esistevano , perché nuove connessioni sinattiche richiedo­ no più tempo per svilupparsi . Tuttavia è un campo aperto alle ipotesi , perché alcuni ricercatori hanno mostrato che in certi tessuti di coltura possono stabilirsi nuove connessioni nervose in tempi rapidissimi : da qualche minuto a mezz'ora . Quindi un'efficace sinapsi si può stabilire in 10- 1 5 minuti . È un campo di studi in pieno sviluppo . » - Ed è , in sostanza , la sterminata complessità della nostra rete nervosa che permetterebbe la possibilità di combinazio­ ni e di tracciati (e quindi di apprendimenti) pressoché infi­ nita? « Certo . Mettendo insieme elementi semplici si può arriva­ re a risultati estremamente complessi . Con sole 26 lettere dell'alfabeto possiamo scrivere tutte le opere letterarie imma­ ginabili . Il nostro cervello ha a disposizione miliardi e miliardi di neuroni , con un numero così elevato di possibili tracciati e di combinazioni che non riusciamo neppure a immaginare . » »

105

Alla ricerca del pensiero

Ma come operano insieme nel cervello questi tracciati e queste connessioni? Qui arriviamo alla frontiera più avanzata della ricerca : perché il passo seguente è quello di capire , in pratica , come si organizza il pensiero , cioè l'attività interna della rete nervosa . Qualcuno cerca già di entrare in questo campo . Partendo dall'idea che un processo mentale superiore (co­ me , per esempio , la riflessione su un problema) non può essere ovviamente il frutto di una sola connessione o di un solo tracciato , bensì di un insieme di tracciati , si sta cercando di vedere se un certo stimolo , anziché passare come una meteora nel cervello e scomparire , non cominci a « rimbalza­ re » , per così dire , nella rete , analogamente a quanto avviene per la pallina di un flipper, che va a colpire con una elaborata geometria vari punti , e torna poi magari sui rocchetti già toccati . Naturalmente questi esperimenti (che richiedono l'introdu­ zione di sottilissimi elettrodi nel cervello) non possono essere fatti sugli uomini . Alcuni ricercatori , specialmente in Giappo­ ne , studiano però animali impegnati in processi cognitivi , osservando il comportamento di certe singole cellule della corteccia cerebrale durante l'apprendimento . Ebbene, hanno scoperto che in certe cellule l'attività aumenta dopo qualche secondo dallo stimolo . Ciò sembra indicare l'esistenza di un processo , appunto , di elaborazione dell'informazione (attra­ verso una se rie di « rimbalzi » nel sistema int e r ess a to ) . È come se la cellula , attraverso tutti i suoi punti di contatto, ricevesse dalle altre un'onda di ritorno che « riflette » l'attivi­ tà della complessa rete di cui fa parte . È questa forse una delle chiavi d'accesso alle attività superiori del cervello . Per cominciare a capire come le strutture nervose possano codificare ed elaborare l'informa­ ZIOne . I n altre parole come la rete nervosa possa immagazzinare apprendimenti e produrre attività mentali . 106

Come ti modifico il cervello

Da tutto ciò si può trarre una piccola morale : quando parliamo con qualcuno gli modifichiamo fisicamente il cervel­ lo . . . Cioè gli creiamo tutto un ribollio biochimico tra le cellule nervose , con la conseguenza di stimolare lo sviluppo di nuovi rametti , nuove sinapsi , nuovi collegamenti . Il fatto è che un cervello , dopo queste modificazioni, non sarà più esattamente lo stesso (mentre in un computer i circuiti rimangono sempre uguali , malgrado il continuo pas­ saggio di informazioni) . Le cellule cerebrali perciò, dopo un apprendimento , reagiscono diversamente . Questo vuoi dire che con la parola è possibile manipolare fisicamente i cervelli altrui , inserendo (o cercando di inserire) dei circuiti di un certo tipo piuttosto che di un altro . È tutto il problema dell'educazione . E anche del condizionamento . In realtà nessuno mai riuscirà a far agire a piacimento un individuo (proprio perché ciascuno di noi è formato da tante memorie accumulate nel corso della vita, ognuna delle quali influenza il comportamento) : certo è che c'è sempre tendenza a far agire gli altri nel modo in cui si vorrebbe . Le dittature , o certe dottrine , con una massiccia azione « educativa » sono spesso riuscite a inserire riflessi ben pro­ grammati . Ma non dimentichiamo che anche ognuno di noi , nella vita quotidiana , cerca molto spesso di « convincere » gli altri : cioè cerca , senza rendersene conto , di manovrare il cervello altrui per inserirgli (o modificargli) idee e comporta­ menti . Tutti usano , in pratica, la stessa biochimica cerebrale :

il dittatore , il commesso viaggiatore , il seduttore , l'uomo politico , il predicatore , l'insegnante , gli stessi genitori . . . In altre parole l'educazione e il condizionamento si basano sulla stessa meccanica . La sola differenza è che il condiziona­ mento è solitamente a vantaggio di chi lo opera: mentre l'educazione è (o dovrebbe essere) a vantaggio di chi la riceve . Si tratta però di un confine a volte sottile ; che si basa, in ogni caso , su un semplice giudizio di valore . Ma la meccanica è la stessa . 107

Condizionare a esser liberi?

È chiaro , a questo punto , come attraverso l'educazione e il condizionamento si possano creare neH'individuo una serie di riflessi condizionati di base . Si possono infatti , sin dall'infan­ zia , inculcare pregiudizi , luoghi comuni , ideologie , giudizi di valore , che formeranno il tessuto di fondo delle reazioni individuali . Naturalmente si può anche educare ( condizio­ nare ») a essere liberi , curiosi , indipendenti , e ritici , tolleranti . Il cervello umano è pronto a essere messo in forma » dal tipo di informazione che riceve . Più essa sarà a senso unico , meno l'individuo avrà possibilità di confrontare e di scegliere : meno avrà elementi a sua disposizione , più sarà quindi ostacolato nel creare cose nuove (idee , pensieri , critiche , giudizi personali) . Esprimerà solo degli automatismi . Magari anche con un linguaggio colto . Il valore della libera circolazione deHe idee e del confronto continuo non è quindi solo un valore astratto : esso ha deHe ripercussioni fisiche nel cerveJlo degli individui , modificando la loro rete ferroviaria » nervosa , creando nuovi binari , nuovi percorsi ; e trasformando così ogni volta anche la geografia del traffico . È pure chiaro che questo meccanismo rivela i limiti deJla nostra libertà » : se non abbiamo potuto scegliere i nostri cromosomi né dirigere la costruzione della nostra rete nervo­ sa , né abbiamo potuto scegliere i genitori , le scuole , la cultura , l'ambiente , qual è la nostra parte nella scultura del cervello » (e quindi nella costruzione delle scelte)? Vedremo nel prossimo capitolo che il cervello ha comunque un margi­ ne : quello di associare » in infiniti modi le esperienze tra loro , e di montare nuove. idee in modo originale e creativo (non solo : ma di memorizzare » questi pensieri , e quindi di auto-trasformarsi) . Occorre però , anche i n questo caso , che i l cervello sia messo in grado di fare queste cose . E ciò dipende non soltanto dai cromosomi , ma anche e soprattutto dall'educazione (due cose che , in teoria, non possiamo scegliere . . . ) . «

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È

pe r questo che alcuni biologi e psicologi mettono in guardia contro quell 'eccessivo ottimismo che solitamente abbiamo su lla >

152

possibile soltanto esplorando a fondo questi condizionamenti , imparando a capire come e quando agiscono . Abituandosi così a controllarli e a orientarli , anziché lasciarsi inconscia­ mente controllare da essi . In modo da essere u n po ' meno marionette e un po' più burattinai di se stessi . Per quanto possibile . L 'immondizia del giorno prima

In proposito andrebbe anche precisato che se per comodità espressiva abbiamo usato finora l'immagine un po' colorita di un « animale che ci portiamo dentro (o di un dottor Jekyll e Mr. Hyde ) non bisogna ovviamente pensare che questa parte arcaica sia un'entità m a l efi c a , o un residuato m ale odor an te , rimasto stratificato dentro il nostro secchio cerebrale come l'immondizia del giorno prima . L'evoluzione non si trascina dietro cose inutili i n dosi così massicce : funziona piuttosto come un setaccio che elimina man mano i perdenti nelle el i minato ri e . In altre parole se abbiamo dentro al cerve llo tutta questa armata Brancaleone di amigdale , ippocampi , reticoli ascendenti , midolli allungati ecc . vuoi dire che essi fanno p arte di noi , che sono parte integrante dell 'uomo . E infatti senza di essi saremmo incapaci di vivere . Non solo, »

ma senza di e ssi la nostra pe rsonali tà sarebbe probabilmente

simile , più o meno, a quella di un grigio calcolatore elettro­ nico . Infatti la neo-corteccia da sola, in p ra t ica , è soltanto uno straordinario registratore ed elaboratore di memorie : è invece la « colorazione » emotiva e affettiva proveniente dalle zone sottostanti a profondere quella « umanità che rende l'uomo così diverso da una macchina : che rende l'uo mo appassionato , sofferente , dolce , allegro , collerico , affettuoso , eccitato , tri­ ste , entusiasta . E innamorato . L'amore affonda infatti le sue radici in questo antichissimo labirinto biol ogi co . Ris a len do lun go gli strati porta fino alla »

153

corteccia quegli umori che vengono poi tradotti

in poe s i e ,

musiche , parole e comportamenti . Il cervello , insomma (con i suoi istinti , le sue emozioni e il suo elaboratore corticale) , è un insieme unico , non divisibile . Non si può spegnere (sotto) la caldaia senza inaridire (sopra) l'amore . Non si può eliminare il paleoencefalo senza uccidere il poeta . . . Ma in quale misura questa caldaia regola ancora oggi 1 nostri comportamenti riproduttivi? Cosa ci portiam o ancora d entro , dopo milioni di anni di evoluzione , di sessualità , di tornei amorosi , di lotte per l' accoppiamento?

È un

campo ancora poco esplorato. Curiosamente sappia­

mo molte più cose sulla maggior parte degli altri comporta­ menti istintivi , che non su questo . Per il semplice fatto che sono stati condotti finora pochi studi suHa bi ol ogia dell'amore e dei legami di co ppia . Può forse essere interessante , quindi , cercare di inoltrarsi con un lanternino , in questo campo . Un lanternino molto piccolo , perché le nozioni che si hanno sono ancora assai scarne , e uno dei pochi punti di riferimento (da prendersi però con mille p re c auzioni ) è quello del comportamento animale .

Che basi genetiche può avere , dunque , questo rapporto dì coppia? Come è nata e come funziona questa struttura a due , in apparenza così semplice ma in realtà così com p le ss a ?

154

X

·

UOMINI E C ROSTACEI

( AMORE ,

AMOR E , AMOR . . .

)

La coppia fissa

II rapporto di coppia ha origini lontanissime , nella specie umana. Secondo alcuni ha accompagnato l'evoluzione dall'o­ minide all'uomo (risalirebbe forse addirittura agli australopi­ techi , come abbiamo visto in un precedente capitolo) . I n realtà l'epoca precisa non la conosciamo , né ci aiuta osservare come sono organizzati da questo punto di vista gli animali a noi più affini , cioè i primati : poiché il gorilla ha l'harem, l'orango è solitario, il gibbone vive in coppia fissa e lo scimpanzé ha un regime misto . Comunque il fatto è che da tempi immemorabili noi viviamo in coppia, sia pure con tutte le varie eccezioni di poligamia , di poliandria, e di promiscuità , dovute più che altro a situazioni particolari . Questa formula della coppia fissa, monogamica, che ha resistito così bene attraverso la nostra storia , sembra oggi incontrare un certo numero di difficoltà: unioni precarie , aumento delle separazioni , dei divorzi , degli adulteri ecc .

Malgrado tutto , però , il rapporto di coppia ha ancora una sua notevole solidità . Naturalmente sappiamo bene che la cultura (attraverso l'educazione , i valori , le morali , le influenze sociali e psicolo­ giche) determina in larga misura il comportamento umano . Ma quale ruolo può giocare , oggi ancora , la base genetica , innata , che è sempre presente dentro di noi? Sembra ragionevole pensare che in un comportamento così importante come è quello sessuale e riproduttivo (che è alla 155

base stessa della trasmissione della vita e quindi dell'evoluzio� ne) il ruolo dei geni non possa essere trascurabile . Anche perché i tempi evolutivi sono stati così lunghi , che non è certo qualche secolo di civiltà che può cancellare delle memorie » biologiche vecchie di milioni di anni . Nei nostri cromosomi abbiamo geni in comune persino con le piante o i batteri , come dicevamo in un precedente ca p i to l o : figuriamoci se qualche predica morale o s oc i o l ogica p uò azzerare delle spinte comportamentali che sono state attive in t ut t o il c o rso dell'evoluzione . È , anzi , più facile ipotizzare l ' inv e rso : cioè che sia la cultura ad aver costruito i su oi model1i comporta­ mentali tenendo conto inconsapevolmente d e J Ja genetica. Detto qu e s t o , è ovvio che l'uomo non è né un canarino né u n c rosta c eo , e q u i nd i ha una complessità che non può essere sottovalut a ta. Ma è lecito studiare la monogamia nelle specie animali per trarre qualche indicazione anche per l'uomo? Per il professar Wolfgang Wickler sì , è lecito . E Wickler ha preso come modello appunto i crostacei. I crostacei non sono uomini. ma offrono un esempio utile (e finora sottovalutato) per approfondire le nostre conoscenze sulla monogamia in generale e sulle sue basi evolutive . » Wolfgang Wickler dirige a Seewiesen , presso Monaco di Baviera , l'Istituto Max Planck per lo studio del comportamen­ to animale ; e ha realizzato insieme a Uta Seibt un approfondi­ to studio sulla monogamia nei crostacei . Si dirà: ma come si possono fare paragoni tra l'uomo e un granchio o un gambe­ retto? Ebbene , state a sentire quello che racconta Wickler sul comportamento dei crostacei , e poi traducete il t u tto - anche se è ufficialmente illecito - in termini umani . «

«

«

»

Le ragioni del maschio e della femmina

Per cominciare s a re bbe bene tener presente un p a i o di solidi principi che si sono rivelati fondamentali per tutti gli e s s e ri viventi in natura , nel corso dell 'evol uzione (ominidi e uomini com pre s i ) : e cioè c h e i più adatti sono stati quelli che:

156

l ) si riproducevano di più ; 2) facevano in modo che la prole sopravvivesse meglio . Riconoscere l'importanza di questi due fattori significa implicitamente riconoscere l'importanza del­ l'accoppiamento e delle cure parentali . E qui emerge subito uno dei punti centrali del discorso. Nella maggior parte delle specie , infatti , il maschio può avere , in teoria, moltissimi figli accoppiandosi con numerose femmine ; mentre la femmina può avere soltanto un numero limitato di figli . Per lei il fatto di accoppiarsi con uno o più maschi non modifica la situazione . Questa asimmetria crea perciò una diversa tendenza , nel comportamento innato del maschio e della femmina. La femmina ha interesse a trattenere il maschio per due ragioni: l ) le basta un solo maschio per avere il massimo della prole ; 2) ha bisogno del suo aiuto per allevare questa prole (si è visto che , negli animali che vivono in coppia , la metà dei piccoli rischia di morire se manca un genitore) . L'interesse teorico del maschio, invece , è esattamente contrario. E cioè : l ) accoppiarsi col maggior numero possibile di femmine ; 2) disertare il nido ogni volta , perché anche se metà dei piccoli morirà il suo bilancio sarà comunque attivo , nel caso abbia fecondato due o tre femmine (e non dovrà neppure occuparsi dell'allevamento dei piccoli) . Naturalmente la teoria è una cosa, e la pratica un 'altra. Contro questa tendenza da sultano » del maschio giocano vari fattori . In particolare il fatto che per avere molte femmine bisogna fare i conti con la rivalità degli altri maschi . E che per disertare b i sogna fare i conti con una serie d i astuzie femminili (che vedremo tra poco) . Che cosa fanno i crostacei maschi per risolvere i loro problemi e cercare di riprodursi il più possibile? Essi hanno a disposizione tre tattiche : a) andare in giro in cerca di una femmina pronta per l'ovulazione , accoppiarsi e partire alla ricerca di un'altra ; b) cercare una qualunque femmina , stare con lei fino al momento in cui è pronta per l'ovulazione , accoppiarsi e andarsene (e ricominciare poi con un'altra) ; c) stare con una sola femmina in monogamia «

157

pe rm a n e n t e e fertilizzare tutte le sue ovulazioni . Quest'ultima

soluzione (la monogamia fedele) potrebbe diventare per il maschio la più conveniente ai fini riproduttivi nel caso incon­ trasse delle difficoltà per mettere in pratica le altre due . Una difficoltà , lo abbiamo detto, p ot rebb e essere una eccessiva competizione con altri maschi (che renderebbe faticosa e difficile la « dolce vita » da sultano) ; l' altra difficol­ tà potrebbe essere un eccessivo sincronismo delle ovulazioni. È q ue s ta una formidabile « astuzia fe m m i n i le che fa sì che in certe specie le femmine diventino fertili tutte insieme , contemporaneamente . E per un periodo breve . Se il maschio , dopo aver fecondato una femmina, se ne andasse in giro per cercarne un'altra, si troverebbe sp i azza to , pe rch é il p e ri odo dell'ovulazione ormai sarebbe finito e i suoi successi amorosi non funzionerebbero più . . . È un'astuzia (regolata spesso da meccanismi climatici) che ricorda quella di certe squadre di calcio in cui tutta la difesa scatta contemporaneamente i n avanti , mettendo « fuori gioco » l 'attaccante che scende trafe­ lato col suo pallone . . . »»

Dal tombeur de femmes al maschio

,

fedele

Come si comportano allora in pratica i crostacei che vogliono essere « vincenti »? Dipende . Varie specie hanno adottato soluzioni diverse , a seconda delle circostanze . Per esempio l' Eubranchipus maschio riesce a compiere una per­ formance da far impallidire i più dotati tombeurs de femmes : riesce ad accoppiarsi con quattro diverse femmine nel giro di soli 90 minuti . . . Altri crostacei , invece , si creano degli harem , come il Sifonocetes , un anti pode che vive in tubi che si costruisce da solo: unisce insieme vari tubi , dove sistema le varie femmine , che difende contro i rivali ; e quando parte alla ricerca di nuovi territori per il cibo , sposta l'intero harem . In a l t ri crostacei , la forte rivalità s pi n ge invece tutti quanti verso la monogamia: altrimenti detto , quando è troppo difficile procurarsi nuove fem m ine e difenderle , diventa allora 158

più remunerativo stare con una sola. La monogamia diventa , per così dire , un harem con uha sola femmina . . . (da sorveglia­ re continuamente) . Anche i n questo caso possono esserci , ovviamente , compe­ tizioni aggressive , dove il più debole può soccombere ; presso certi crostacei , come l'Asellus aquaticus , i più piccoli hanno adottato una strategia di ritorsione : non difendono il nido , ma vanno in giro in cerca di nidi non sorvegliati . Si è , in proposito , osservato che il « guardianaggio » è un comportamento che , generalmente , porta verso una situazio­ ne stabile : verso l'harem permanente o verso la monogamia permanente . La sorveglianza stretta , cioè , tende a fissare un rapporto , sia esso singolo o plurimo . Questo intenso periodo di vita comune non dura però necessariamente tutta la vita : la coppia sta magari insieme solo un ciclo riproduttivo , e si ha così una serie di monogamie successive . Qualcuno la definisce anche « poligamia sequenziale » nel senso che ognuno ha, nel corso della vita , vari partner che si susseguono uno alla volta (è quella tende n za che attualmente nelle società umane sta spingendo molti verso due o tre « matrimoni » successivi , cioè due o tre monogamie in sequenza) . Può succedere invece che il periodo in cui una coppia sta insieme sia assai più breve , anzi brevissimo: solo il tempo dell'accoppiamento . È il caso di taluni gamberetti che posso­ no avere , nel corso di un ciclo riproduttivo , molteplici accop­ piamenti : cioè vivono in promiscuità. E la monogamia perfetta? Esiste in un altro anfipode , l' Hemilep istus . In questi crostacei il maschio deve scavare il nido prima delle « nozze », e la femmina non si lascia fecondare prima di 10 giorni : c'è quindi un forte investimento di energie e di tempo da parte del maschio (che ricorda un po' quello degli uccelli che debbono imparare i duetti , per potersi accoppiare) . Se egli disertasse , dopo la fecondazione , dovreb­ be ricominciare tutto da capo con un'altra femmina; con il rischio di non trovarne una fertile , a causa della contempora­ neità dell'ovulazione . In compenso , l'Hemilepistus è aiutato dalla sua femmina nella guardia del nido e nel foraggiamento : 159

ed è ga ran t i t o nella certezza de l l a p a t ern ità perché la femmi­ na si lascia fecondare solo nel ni d o . Ma il maschio non potrebbe comunque andarsene via , dopo la fecondazione? No , perché {ecco un'altra delle « astuzie genetiche femminili) nell'Hemilepistus femmina l 'ovulazione è nascosta : cioè può avvenire in qualunque momento tra i 40 e i 4 giorni prima del « parto » . Quindi il maschio deve rimaner­ le accanto durante tutto quel periodo , se vuol essere sicuro di averla davvero fecondata . . . Egli deve inoltre collaborare all 'allevamento della prole , altrimenti il 50% dei piccoli morirà . E siccome l' Hemilepistus femmina ha un solo ciclo riproduttivo nella vita , il maschio andandosene via perdereb­ be il 50% del suo investimento . La monogamia fedele diventa così , per il maschio , la tattica migliore . In questo modo la coppia condivide fino alla morte (che avverrà l ' anno dopo) la vita in comune : per tro-vare il cibo , difendere il nido , pulirlo, nutrire i piccoli . ,

»

Uomo e donna Vi siete riconosciuti in q u a l cu no di que sti crostacei ? O in

diversi contemporaneamente? Naturalmente in questi anima� letti il comportamento sessuale è osservabile allo s ta to puro , istintivo , senza interferenze culturali . Nella specie umana, invece , la cultura ha un grande ruolo . S i s a che i modelli di comportamento » maschile e femminile vengono inculcati sin d a piccoli , e preve d ono una d istribuzione dei ruoli e degli atteggiamenti che condiziona profondamente la perso� nalità. Ma i nostri comportamenti possono essere davvero total� mente staccati da un antico sottofondo genetico? E allora non è possi bile che la stessa cul tura , i modelli educativi , sociali , morali , finiscano per tener conto di tutto ciò e si modellino essi stessi sul « pro fil o di certe spi n te genetiche che si sono rivelate utili nel corso dell'evoluzione? Proviamo a fare qualche « iHazione illecita Non tanto per andare a rovistare «

»

».

160

nei cassetti della biologia, ma per cercare di capire da dove possono prender origine certi comportamenti ; e per vedere se una loro migliore comprensione può aiutarci a chiarire certi problemi e conflitti che stanno nascendo nei rapporti di coppia in modo da risolverli meglio . Anche nella specie umana , infatti , dal punto di vista biologico la riproduzione e la sopravvivenza della prole sono state certamente due fattori importantissimi per la nostra storia evolutiva . E anche nella nostra specie ogni maschio potrebbe avere , in teoria , centinaia o anche migliaia di figli , accoppiandosi con molte donne diverse . La donna , invece , è in tutt'altra posizione : può avere solo pochi figli , quelli che lei stessa è in grado di generare . Per l'uomo , quindi , c'è un interesse genetico » a essere poligamo , cioè a disseminare il più possibile il suo seme (e magari anche a disertare) , perché più donne feconda , più può riprodursi ; mentre per la donna il discorso è completamente diverso : il fatto di avere un solo maschio fisso o più maschi passeggeri non cambia il suo numero totale di figli possibili . Anzi crea un'instabilità nociva all'allevamento dei piccoli , che hanno bisogno delle cure continue dei genitori . Dal punto di vista puramente biologico c'è dunque una convenienza per l'uomo ad avere molte donne , e una convenienza » per la donna ad avere invece un solo uomo , selezionato in base a questo criterio di stabilità. Fin qui le convenienze » biologiche (che probabilmente hanno dato origine, per selezione naturale , anche a una diversa « orologeria » del desiderio) . Ma in quale misura esse traspaiono nella nostra vita reale? Beh , bisogna riconoscere che mediamente (con tutte le eccezioni del caso) non si può negare che esista una tendenziale diversità di atteggiamento , nel comportamento sessuale : spesso l'uomo , come si dice , pensa solo ad andare a letto » , mentre la donna ha bisogno di qualcos'altro » (cioè di un legame affettivo che , incon­ sciamente , esaudisca forse proprio quel bisogno genetico di stabilità) . La donna, infatti , mostra solitamente non soltanto una più «

«

>>

«

«

«

«

161

Un uomo può generare teoricamente centinaia di fig li (se si accoppia con molte donne) ; mentre una donna può generare solo pochi fig li (i suoi ) , e le basta un solo uomo. Questa asimmetria può influenzare il comportamento sessuale?

stretta selezione del partner ma anche , il più delle volte , un coi n vo l g i m e n to sen t i m en t a l e : mentre il maschio , tendenzial­

mente , è molto più disponibile a dei rapporti saltuari ed episodici , fine a se stessi . Tuttavia anche nella specie umana questa vocazione del maschio a essere farfallone è in contrasto (analogamente a q uanto avveniva nei crostacei ) non solo con gli interessi della femmina, ma anche , in definitiva , con quelli dei piccoli . Nei crostacei abbiamo visto che esiste tutta una serie di strategie biologiche per controbilanciare questa esuberanza riprodutti­ va maschile . Nelle società umane non è difficile intravedere delle s trategie culturaJi che , sia pure in modo diverso , opera­

no nella stessa direzione (oltre a certe altre spinte biologiche , come l'amore per la donna e per i figli , che operano a un altro livello) . Quali sono queste costrizioni culturali? Poligamo per vocazione, monogamo per necessità

La monogamia , nelle società umane , si identifica sostan­ zialmente con il concetto di famiglia : e la famiglia è stata 162

vista , dalla stragrande maggioranza delle società , come l'ele­ mento di base dell'edificio sociale . Un elemento che deve essere solido , quindi , per assicurare stabilità a !la struttura (e all allevamento dei figli) . È forse proprio per queste ragioni che la fedeltà , in passato , è sempre stata resa « conveniente » da un gran numero di regole . Queste regole richiedono al maschio un « investimen­ to nuziale » che lo scoraggi fortemente dal ricominciare ogni volta la trafila : egli deve sottoporsi , per esempio , a una lunga attesa (il fidanzamento) , a una costosa preparazione del « nido » , a un impegno solenne davanti a Dio di fedeltà , e via elencando . Esiste poi tutto un arsenale morale e legale che cerca di rendere assai gravosa una sua eventuale diserzione : il biasimo sociale , il dovere di corrispondere degli « alimenti l 'impossibilità ( o l a difficoltà) d i contrarre un altro matrimo­ nio se non dopo tempi lunghi di separazione , co n d i s pe n di ose cause in tribunale ecc . E la condanna di un'eventuale altra co nvivenza provvisoria , bollata come « concubinaggio » . Questa serie d i regole sociali (molto severe fino a qualche tempo fa) erano destinate sostanzialmente a proteggere la monogamia dal punto di vista della donna e dei figli . Ma esiste anche un altro arsenale di regole , scritte e non scritte , destinate a tutelare la monogamia (cioè la famiglia) anche dal punto di vista del maschio . Infatti nel rapporto di coppia c'è un'altra « asimmetria »: quella della certezza o meno di essere veramente i genitori dei propri figli . La donna non ha problemi , poiché come dicevano i romani , « mater semper certa »: è lei che mette al mondo i figli , quindi è certa di esserne la madre. Il padre , invece , potrebbe essere un perfetto estraneo , se qualcun altro di nascosto si fosse infilato al suo posto tra le lenzuola . In tal caso tutto il suo investime n ­ to per riprodurre i suoi geni sarebbe stato inutile . Per garantire questa certezza della paternità sono nati , nelle varie culture , dei meccanismi « garantisti » in favore del maschio , destinati ad assicurargli l 'esclusività del territorio sessuale : per esempio la verginità della sposa , la sua sorve­ glianza da parte di padri e fratelli , la segre g azione post'

»,

,

163

matrimoniale per evitare il contatto con altri maschi (segrega­ zione non solo psicologica ma anche fisica , come il velo , l a cintura di castità o l'infibulazione , praticata ancora oggi in certe regioni dell'Africa e che consiste nella cucitura » del corpo femminile . . . ecc . ) In difesa della monogamia si è poi accumulata nel tempo tutta una serie di valori di rinforzo » , cui hanno contribuito «

«

l 'educazione , la religione , la sc u ol a , le leggi , la letteratura

ecc . Per esempio l 'esaltazione del concetto della famiglia e dei doveri verso i figli , la condanna dell 'adulterio , il concetto di peccato » , irto di punizioni ultraterrene ecc . Ce n'era insomma abbastanza per indurre un maschio , per quanto ram pante , a considerare « co nve n i e n te la monoga­ mia (anche per l'estrema difficoltà di mettere in pratica altre scelte ) . Tutto questo arsenale culturale h a quindi favorito il perpe­ tuarsi attraverso i tempi del rapporto monogamo di coppia. M a attualmente, come stanno andando le cose? «

»

Sviluppo tecnologico e monogamia

Lo sviluppo tecnologico , bisogna riconoscerlo , ha creato una situazione nuova . E alcuni puntelli » che reggevano la «

solidità monogamica si sono probabilmente incrinati . Vedia­

mo qualche esempio . Per quanto riguarda la prole , se il maschio oggi diserta non muore più per fame il 50% dei piccoli : lo Stato , ormai reso ricco dalla tecnologia, può sostituirsi al padre non solo per il cibo ma anche per gli altri co m piti : studio , posti di lavoro , assistenza medica ecc . D' altra parte , oggi non è più necessario avere molti figli com e in passato : sia perché non esiste pi ù quell 'alta mortalità infantile che un tempo obbligava a essere prolifici , sia perché i figli (che una volta erano intesi anche come il bastone della vecchiaia » , cioè erano intesi come INAM e INPS ) ora sono sostituiti , anche se male , dagli enti previdenziali . Oggi ci «

164

sono , anzi . incentivi a non prolificare (i figli costano troppo , impediscono alla donna di avere altre attività ecc . ) . M a allora l a monogamia, i n questo modo, non viene a essere meno protetta e incentivata? Effettivamente basta dare un'oc­ chiata in giro per rendersi conto che esistono delle forti tenden­ ze centrifughe : le separazioni sono in aumento ovunque (e non sono più biasimate come prima) , si accettano le unioni non matrimon iali senza scopi riproduttivi , si diffondono (e si lega­ _ lizzano) le tecniche an_t i- concezionali e abortive . C'è un'atte­ nuazione persino del concetto di verginità , c'è depenalizzazio­ ne dell'adulterio femminile , c'è emancipazione della donna da vari tipi di segregazione (e anche il « delitto d'onore >> ha perso le sue attenuanti legali) . Inoltre , una crescente indipendenza economica porta la donna a una minore dipendenza da certe tradizionali regole familiari . Infine una diminuita religiosità di entrambi i sessi porta a un'obbedienza meno stretta ai tradizio­ nali dettami della Chiesa . Insomma, gran parte dei presidi culturali che favorivano un tempo la monogamia sembrano oggi funzionare meno bene di prima. Ma ciò significa veramente che la monogamia tenderà a essere superata? In realtà sembrano esservi altri meccanismi genetici che , malgrado tutto , tendono a favorire nella specie umana il rapporto fisso di coppia. Lo si osserva, del resto , anche nei crostacei . Il professor Wkkler ha studiato vari esempi di « monogamia sociale >> , vale a dire di animali che vivono in coppia senza dover allevare i piccoli . È una cosa che anche noi osserviamo molto bene nelle coppie senza figli . Non è questa una indicazione che nell'essere umano può esistere una predisposizione genetica al rapporto stabile a due? C'è in proposito un fatto molto significativo , che mostra probabilmente un'antichissima tendenza a questo rapporto di coppia nella specie umana: l'ovulazione nascosta. La donna infatti (caso unico tra i primati) non ha l'estro , cioè non emana profumi sessuali quando è nel momento fertile , cosa che avviene invece in quasi tutti i mammiferi (basta pensare , come dicevamo , alle gatte in calore , che fanno accorrere 165

spasimanti da tutto il quartiere) . Nessuno , invece , è in grado di dire quando la donna è nel suo momento di fertilità (anche se certi studi indicano che il 30% delle donne producono acidi che segnalano debolmente l'ovulazione) . Ciò significa che solo un partner sta bile può giocare a questa roulette deJJa fecondazione con successo . E quindi è probabile che questo fatto costituisca una significativa indicazione dell'esistenza di un antico rapporto personalizzato (e forse monogamico) nella specie umana. Un rapporto stabile reso necessario forse anche dalle lunghe cure parentali .

Il poeta e la pompa idraulica

Tutto quanto detto in questo capitolo, naturalmente , è solo una rapida « planata » su una giungla ancora inesplorata ; mancano osservazioni sistematiche e riscontri , per verificare certe ipotesi. Però le prime perlustrazioni mostrano che esiste un grande campo di ricerche per tentare di capire meglio il ruolo della biologia nel comportamento di coppia . Forse questo tipo di studi potrebbe sfociare anche su un terreno del tutto nuovo : quello dell'amore . In proposito , è interessante notare che l 'amore esiste tra due esseri indipen­ dentemente dal fatto di avere o non avere figli. L'amore (che è stato una delle forze che più hanno mosso le leve del comportamento umano) esiste cioè indipendentemente dalle sue eventuali finalità procreative (del resto lo si vede bene tra coppie sterili , o rese sterili dagli anti -concezionali ) .

Anche la gelosia, che è servita per difendere la certezza della paternità, continua a funzionare anche quando non si vogliono più avere figli (tuttavia qui le cose sono forse assai più complicate , perché si intrecciano molti altri fattori : dal senso d e l l a terri torialità a q uello del possesso ai modelli culturali che spesso indicano nel marito cornificato un personaggio ridicolo ecc. ) . Insomma , se da un lato bisogna stare molto attenti alle estrapolazioni , dall'altro non possiamo neppure chiudere «

»

166

«

»,

completamente gli occhi di fronte a certi substrati biologici . che probabilmente agiscono sempre in profondità nella parte emotiva del nostro cervello . Questo , naturalmente , non deve portarci a essere (pe r carità ! ) dei ragionieri del comportamento o dei farmacisti della biochimica , intenti a osservare l'amore , i sentimenti o le passioni come delle reazioni in provetta . Saremmo ben stupidi se vivessimo in questa dimensione riduttiva. Nella nostra vita dobbiamo sanamente « dimentica­ re » il D N A , l'amigdala , il midollo allungato , il reticolo ascen­ dente , la corteccia e i neurormoni . Così come il poeta dimentica che il cuore è una pompa idraulica e che quella sensazione che « fa tremar le vene e i polsi » è in realtà una scarica di adrenalina proveniente dalle capsule surrenali . Dobbiamo invece vivere con la nostra dimensione umana , che è straordinariamente bella e densa di colori emotivi , spontanea e piena di sensazioni (e magari anche di illusioni e di ingenuità) . Ma è questa la nostra lunghezza d'onda . Ciò non esclude che , così come facciamo ogni tanto una radiografia per guardarci « dentro » in modo diverso dal solito , analogamente , con qualche altro tipo di « raggi x » , si possa forse ogni tanto dare un'occhiata a quel lato nascosto che è in noi , e che « preme » per ottenere la sua parte . Esso non possiede un alfabeto , non ha un «centro del linguaggio », come la cortecCia , per parlare : però si esprime . Anche se in modi che spesso non riusciamo a interpretare . Cercare di capire questo linguaggio sarebbe forse utile non soltanto per migliorare le cose nei rapporti di coppia , ma anche per capire molti altri « discorsi » che provengono dalle zone profonde delle nostre emozioni e dei nostri istinti , e che riguardano le nostre relazioni affettive , le nostre pulsioni , la nostra emotività . E anche le nostre contraddizioni . Tutte queste cose , per la verità , affiorano in una quantità di comportamenti istintivi , di atteggiamenti , di gesti , di espres­ sioni che escono a getto continuo non soltanto attraverso il filtro della corteccia , ma anche direttamente dal corpo . Vediamo come . 167

XI



NOI E GLI ALTRI

Il corpo parla

Il corpo parla. Parla in continuazione , e racconta un sacco di cose . È un linguaggio parallelo a quello verbale : lo accompagna, lo sottolinea, e a volte persino lo contraddice . Anche quando stiamo zitti , il nostro corpo continua a parlare e a fornire una quantità di informazioni, spesso senza che ce ne rendiamo conto . Da tempo esistono ricerche sulla comunicazione non verbale » , e sappiamo benissimo per esempio che esiste una gamma di espressioni facciali che trasmettono chiaramente uno stato d'animo : felicità , sorpres.a , paura, tristezza , rabbia, disgusto , disprezzo , interesse . A queste espressioni se ne potrebbero aggiungere molte altre : divertimento , noia, colpa , vergogna , imbarazzo , impa­ zienza, soddisfazione, dolore , nausea, stanchezza , fame , sete , fiducia in se stessi , concentrazione , confusione , eccitazione «

sessuale ecc .

Ognuno di noi comunica tutte queste cose attraverso una serie di espressioni , gesti o atteggiamenti che spesso non controlliamo ( perché sono spontanei ) ma che hanno un loro codice ben preciso , un loro « alfabeto È una specie d i linguaggio d a sordomuti , con l a differenza che non è stato necessario imparare a uno a uno questi gesti : essi sono il risultato di un programma innato ( o anche , a ».

volte , di un' acquisizione inconsapevole , che abbiamo assorbi­

to per imitazione d a l J ' amb i e nte 168

culturale che ci circonda) .

Questo alfabeto di gesti , che combina nel modo più diverso le varie « lettere » della tastiera (bocca , sopracciglia , movi­ menti facciali , apertura degli occhi , dilatazione delle pupille , quantità di sguardo) non si esprime soltanto attraverso il linguaggio del viso , ma attraverso quello d e ll e mani (a volte anche dei piedi) e attraverso la pastura , i movimenti del corpo , i toni della voce , il loro volume , ritmo , tonalità, velocità. È insomma un vero torrente di informazioni che esce in continuazione , spesso in modo incontrollato , e che viene perfettamente recepito e capito dall'interlocutore . La cosa curiosa, appunto , è che noi siamo perfettamente in grado di captare e decodificare questi segnali senza a nostra volta rendercene conto . Spesso tutto ciò viene definito impro­ priamente intuizione. Ti ho letto nel pensiero. In realtà si tratta di una lettura del corpo , o magari della voce . Nello studio del cervello questo linguaggio del corpo ha un notevole interesse : perché è un modo per cercare di capire in «

»

le espressioni facciali di base sono le stesse in tutto il mondo . Gruppi umani molto lontani tra loro (e mai venuti in contatto) riconoscono immediatamente le altrui espressioni di tristezza, stupore, alleg ria, paura e collera ecc . anche g uardando delle semplici foto.

169

quanta parte questi gesti ed espressioni sono « automatici » , cioè puramente istintivi , genetici ; e quindi iscritti nei circuiti nervosi sin dalla nascita. Naturalmente per riuscire a suddividere la parte innata da quella acquisita bisognerebbe anche qui fare uno di quegli esperimenti impossibili , cioè allevare vari individui separata­ mente , in totale isolamento cul tural e , e ved e re poi da adulti in quale misura i loro gesti e le loro espressioni sono davvero simili oppure diversi . Questo esperimento , in pratica , può e ssere realizzato in un modo diverso : andando a studiare le popolazioni primitive che ancora vivono in isolamento , e poi confrontarle tra loro . È quello che ha fatto l'etologo tedesco l . Eibl Eibesfeldt , recandosi con la cinepresa nei punti più remoti del pianeta alla ricerca degli ultimi primiti vi .

Egli ritiene che l'isolamento in cui sono vissute da sempre queste popolazioni , senza contatti con altre culture , consenta di paragonare i loro gesti e comportamenti per verificare se esistono similitudini o diversità . Questi studi sono possibili solo per poco tempo ancora : perché ormai la comunicazione culturale sta dilagando , e tra poco non saremo più in grado di separare le due cose . In proposito Eibesfel dt si rammarica che le riprese cinematogra­ fiche effettuate sinora dagli etnologi documentino il più delle volte delle scene costruite , come la tornitura di vasi , la p re pa ra z i o n e del pane , l a cos truzione delle capanne, e al tri avvenimenti simili . Invece tanti altri momenti della realtà spontanea - per esempio come si salutano due persone , come nelle varie culture le madri coccolano i loro bambini , o come i fratelli gi oc a no e bisticciano tra loro - non sono mai stati raccolti sistematicamente . E con gran danno per la ricerca - dice Eibesfeldt - perché la possibilità di elaborare tali documenti è oggi quasi irrimediab ilmente perduta . Per raccogliere il suo materiale espressivo Eibesfeldt ha girato decine di migliaia di metri di pellicola , con varie tecniche , anche di accelerazione e di ralenti, e soprattutto con uno s pe ci al e ob i ett i vo a specch i o » (vecchio trucco degli «

«

170

»

operatori) che consiste nel filmare lateralmente , o anche volgendo l e sp a ll e , in modo che una persona non si renda conto di essere ripresa e conservi così un atteggiamento naturale.

Ebbene , analizzando i films , fotogramma per fotogramma . e comparando gruppi umani che vivono totalmente separati gli uni dagli altri (per esempio i boscimani del Sudafrica , i t asaday delle Filippine , gli yanohama dell'Amazzonia e varie popolazioni dell'Indonesia, della Nuova Guinea e dell' Au­ stralia) , si vedono sequenze di comportamento che appaiono uguali praticamente in tutti . Il pianto blocca l'attacco Al di là delle diversità culturali , dice Eibesfeldt , tutti gli uomini bano molte cose in comune . Egli descrive nel suo libro L 'avventura umana il suo incontro con abitanti di un villaggio amazzonico che non avevano mai visto un europeo ; e spiega come attraverso espressioni , gesti , comportamenti , sia stato possibile scoprire un linguaggio comune , fatto di vere e proprie sequenze comportamentali . Ecco una breve descrizio­ ne significativa. « Anche le donne e le ragazze si avvicinano . Tra loro ce n'è una graziosa alla quale sorrido . Per un istante le si illuminano gli occhi e ricambia il mio saluto con queUo sguardo esp re s s i ­ vo di cui ho gi à parlato ; poi china la testa, guarda pudicamen­ te a terra e dopo un po' , timidamente , con la coda dell'occhio torna a guardarmi . Cerca di contenere un sorriso , e siccome non le riesce , nasconde il viso dietro la mano . È una sequenza che si può ritrovare ovunque : tra gli indiani , nei boscimani o negli europei. Anche il bacio , dice Eibesfeldt , è una manifestazione universale di tenerezza ; le madri di tutto il mondo baciano i loro b a m bi n i . Questo atteggiamento , secondo l 'etologo tedesco , deriva dall'atto di porgere il cibo con la bocca . Ma uno dei comportamenti più interessanti , a suo avviso , è >>

171

quello che si potrebbe defini re l'impedimento biologico a uccidere . Esistono degli « appelli » universali , nella specie umana , che frenano il comportamento aggressivo e che sono iscritti biologicamente nei comportamenti istintivi . Per esem­ pio è possibile frenare un attacco con il pianto , con un'aria imbronciata , o con atteggiamenti infantili . Ma come mai l'uomo è allora capace di aggressioni distrut­ tive , in guerra ? Aggressioni che non conoscono inibizioni ? Secondo Eibesfeldt la guerra , attraverso l'indottrinamento , viene vissuta come una realtà diversa: non una lotta tra individui ma piuttosto tra specie diverse . È questo un tipo di aggressione che anche nel regno animale non conosce inibi­ zioni . Sono due co m port a me n t i , del resto , che neiJ'uomo si trovano spesso in conflitto tra loro . Certe espressioni , gesti o sguardi , sembrano costituire insomma un linguaggio universale . Qualcuno in proposito ha fatto un piccolo esperimento : ha provato a far vedere a degli indigeni della Nuova Guinea una serie di foto d i americani che esprimevano collera , contentezza , paura , stupore , disgu­ sto e gli indigeni hanno capito immediatamente il significato di queste espressioni ; anche gli americani hanno subito rico­ nosciuto il senso di analoghe espressioni dei guineani . Ci si può chiedere se questa lettura universale del viso vale anche per altre cose : per esempio per il concetto di bellezza o di attrazione . Esistono particolari segnali , linee e lineamenti che fanno scattare certe reazioni emotive interne? Come mai gran parte della gente si trova d'accordo sul fatto che una persona è bella o brutta o ha fascino? L 'attrazione

fisica

In gran parte ciò rimane per ora una cosa poco chiara (forse anche perché è stata poco studiata) : infatti , se è facile capire come l 'attrazione venga meno quando certe deformità fisi­ che allon tanano troppo una donna o un uomo dalle misu­ re standard , è meno facile capire come mai certe per172

sone vengano considerate attraenti (magari senza essere bel­ le ) e altre no , pur avendo analoghi nasi , bocche , occhi , c apel ­ li ecc . Certamente i modelli culturali hanno la loro importa n za : ma c'è qualcos'altro di istintivo, di genetico? Per saperlo bisognerebbe anche qu i fare un esperimento all u c i nan t e : per esempio isolare un gru p po di individui sin dalla nascita e rovesciare completamente il modello culturale di bellezza, mostrando loro per 20 an ni films, Jibri , riviste , in cui i protagonisti più corteggiati sono person a ggi con enormi nasi , occhi s to rt i , gam be corte ecc. E poi « l i b erar l i » e reinse rirli nella nostra società . Cosa accadrebbe? Preferirebbero il tipo Marilyn Monroe o il ti po Gol da Meyr? . . .

Al di là dei paradossi , vorrei avanzare una piccola propo­ sta: lasciamo che la bellezza e l 'attrazione ri mangan o un campo protetto dalla curiosità dei ri cercat ori . . . È forse questo un settore in cui è m e glio non sperimen t are . E forse non conoscere . L'attrazione non si basa infatti soltanto su certi « parame­ tri » fisici , ma anche su un certo modo di essere , di sorridere , di guardare , di muoversi , di parlare , di ritrarsi , di offrirsi , di comunicare , di sfuggire , di penetrare , di lasciarsi sp e­ rare . . . Se tutto questo sottile gioco di scherma venisse codificato in un ponderoso rapporto p ie n o di diagrammi sull a rotazione angolare della pupilla o sulle misure delle contrazioni dei muscoli della facci a , non a vre mm o fa tto un passo avanti . Ma probabi lmente un passo indietro . Anche la scienza ha un limite : quello del buon gusto . . . l toccamenti e le distanze

Alcuni ricercatori , come

lo

psicologo inglese Michael Argy­

le , hanno comunque cercato di c apire in che modo ques t o li nguaggio del corpo influenzi le nostre reazioni e i nostri comportamenti . Argyle ha ra cco lto studi del p assat o e del

173

presente mostrando tutta l'estensione di questo linguaggio sotterraneo , nelle sue varie ramificazioni . C'è per esempio tutta una serie di osservazioni e studi che riguardano il contatto corporeo e il comportamento spaziale degli uomini (e degli animali) . E non c'è da stupirsi che questa comunicazione non verbale sia così importante , dal momento che è nata prima del linguaggio parlato , e ha quindi una lunga storia evolutiva alle spalle . Molti contatti corporei sono utilizzati per comunicare senti­ menti o stati d'animo : dalle carezze alle strette di mano , dagli abbracci al solletico , dalle pacche sulle spalle al ganasci­ no » . Per i bambini piccoli toccare è il più importante dei mezzi di comunicazione : fino all'età di 10-12 anni essi conti­ nuano a toccare i loro genitori . Questi contatti corporei variano con il tipo di cultura . Qualche anno fa è stata condotta una ricerca sulla frequenza con la quale le coppie si toccavano nei caffè : a San Juan de Portorico esse si toccarono 1 80 volte in un'ora , a Parigi 1 10, a Londra zero . . . Uno psicologo americano , E.T. Hall , fece una ricerca invece sulla distanza cui si tengono solitamente le persone , a seconda del grado di relazione . La distanza intima » risulta essere meno di mezzo metro (facile contatto fisico , si può sentire l'odore dell'altro e cogliere l'intensità delle sue emo­ zioni , si può parlare sottovoce) . C'è poi una distanza per rapporto personale » , da mezzo metro a l metro e 20; poi una distanza sociale » , fino a 3 metri (cosa che richiede un tono di voce più alto) , e infine una distanza pubblica » , oltre i 3 metri , per apparizioni in pubblici avvenimenti . Curiosi esperimenti hanno mostrato che ognuno regola le proprie distanze in funzione di questi tipi di rapporto , e « comunica » così la sua disponibilità (o meno) a rendere più personale la propria relazione . In proposito , una ricercatrice fece uno studio sull'« invasione dello spazio » nelle bibliote­ che , andando a sedersi vicino a lettrici appartate e osservando le loro reazioni . «

«

«

«

«

174

La distanza tra due i nterlocutori indica generalmente il loro tipo di rapporto . Meno di 50 cm : rapporto intimo. Fino a 1 ,20 m : personale . Oltre 1 ,5 m : sociale. Oltre i 3 metri : pubblico. (M. Argyle)

175

Gli occhiali, il cavallo

e

la chiromante

La comunicazione non verbale si esten de n aturalm e nt e anch e a ll ' a s p e tto fisico e agli abiti . Il modo di tagliarsi i c ap e l l i , di vestirsi , di camminare , di truccarsi , trasmette una serie di m e ssaggi in codice , che vengono poi i nt e rpret ati anche a se con d a dell ' ambiente in cui agi scono . Si è anche visto che a s e cond a del modo di vestirsi si ottengono comportame n ti differenti da parte di un interlocu­ t o re . Un attore , t ru cc a t o d a pe rsonaggi diversi , alla stazione di Paddington ottenne ti pi d i ve rs i d i ri spo ste alle sue domande di informazione , a s econda della classe so ci a l e cui se mb r av a a p p a rt e n e r e . Un altro cu rioso e s p eri m e nto ha m os t r ato che le persone os se rv at e per 1 5 s ec on di , mentre non fanno alcunché , so n o gi u d i cate più intelligenti (e o t t e ng on o una m e di a d i qu att or d ici punti in più nel q uo zi ente intellettivo) se portano gl i occhiali . . . Del re s t o è b e n noto che certi simboli o ornamenti che un individuo porta su di sé ten d o n o a comun i care agl i altri la sua ap partene n za a un gru pp o sociale e cu l t ural e . Insomma , osservando la vastità delJa comunicazione non v e r bal e , in t ut t e le sue ramificazioni e in t ut te le sue combina­ zioni ( dal mo m e n t o che le v ari e l e tt e re » di questo alfabeto si possono co m b i nare nei modi più d i v e rs i ) , ci si rende conto c h e , in fin dei conti , iJ li n gu a ggi o p a rl a to è s ol o una parte del nostro modo di trasmettere : e che talvolta può essere addirit­ tura contraddetto in modo evidente da altri segnali , che non siamo in grado di controllare come le parole . Per ese m pi o , al di l à di quello che una p e rs o n a ci sta di ce n do verbalmente siamo in grad o di sentire » ( a t trav ers o i suo i s e gnali i nv o l ontar i ) se questa persona è si n ce ra . O se prova anti patia per noi . O s e cerca di adul a rci . O se ci ama . . . In p as sato ci sono stati esempi clamorosi di q uest a inconsa­ pevo l e lettura del corpo : persi n o un cavallo , chiamato Hans , fu a l u n go considerato un prodigio perch é sapev a rispondere , battendo lo zoccolo , ai problemi di aritm e t i ca che gl i poneva­ no mentalmente i visitatori . Uno psicologo poi d i m ostr ò che «

«

176

non c'era alcun mistero : il cavallo semplicemente seguiva gli impercettibili e involontari movimenti della testa di coloro che lo interrogavano (essi contavano mentalmente i colpi fino a quello giusto ) , e si fermava quando loro si fermavano . . Le chiromanti , del resto , utilizzano (anch'esse spesso in­ consapevolmente ) questi impercettibili segnali dei clienti per in se r ir si sui canali giusti e dare rispost e approp riat e . In una puntata di Quark » abbiamo addirittura mostrato un giova­ notto in grado di trovare un certo libro in una biblioteca utilizzando le espressioni e i gestì involontari dei presenti che sapevano quale libro doveva cercare , e lo guidavano senza rendersene conto . James Randi , il famoso prestigiatore e indagatore sui presunti fenomeni paranormali , si recò una volta da una chiromante , e semplicemente attraverso pi cco l e reazioni del viso e del corpo (interesse , perplessità, indifferenza , eccita­ zione) « guidava » la chiromante verso la descrizione di una situazione personale (del tutto inventata) che egli aveva depositato in precedenza da un notaio . . . .

,

«

Tra gli esseri umani esiste , insomma, un enorme flusso di comunicazioni : non solo quelle culturali del linguaggio ma quelle istintive delle espressioni , dei gesti , degli atteggiamen­

ti , dei toccamenti ecc. Tutto ciò mostra chiaramente il gran bisogno che abbiamo di scambiarci informazioni , di parlare , di stare insieme , di comunicare . L'uomo , in altre parole , è un animale estremamente socia­ le , e tutta l'evoluzione (genetica e cu ltu r a le ) gli ha fornito i mezzi per sviluppare al massimo questa sua vocazione alla socialità . Eppure c'è spesso , in quasi tutti noi , anche una certa difficoltà nello stabilire rapporti con gli altri , una specie di diaframma che rende il primo approccio difficile . A volte questa difficoltà può diventare addirittura dramma­ tica , insormontabile . È il blocco » provocato dalla timi­ dezza . Come mai? Cos'è realmen te la timidezza? «

177

Siamo tutti timidi ?

Un ricercatore americano , qualche anno fa, cominciò a fare ricerche sulla timidezza , e si accorse che non esistevano quasi s t u d i in proposito .

u n a serie di so n d aggi e sco prì che negli Stati Uniti il 40% delle persone si considerano timide . IJ 4% lo sono in modo patologico . Solitamente questo comportamento comincia da piccoli , per esempio con la paura degli estranei . Certi individui raccontano che da bambini , quando arrivavano in casa amici e par e n t i , scappavano a nascondersi negli armadi , nei cesti d e ll a biancheri a , sotto il letto o nei gabinetti . Oggi da adulti hanno difficoltà di ra ppo r to : per esem pi o non osano contraddire un interlocutore : c'è gente che nei negozi compera cose che non vorrebbe comperare , perché non osa dire di no al commesso quando questi gli assicura che fanno al caso suo . C'è gente persino che non osa dire al t a s s ista di non aver capito l'indirizzo e si rassegna ad andare in una direzione sbagliata , p i u tt ost o che correggerlo . Realizzò allora

La timidezza sembra avere sia una componente innata (lo dimostrerebbero certi studi sui gemelli) sia una com pone nte ambientale. In Giappone ben il 60 % delle persone si dichiarano timide, negli Stati Uniti il 40 % , in I sraele solo il 27% .

178

Questa difficoltà di rapporto con gli estranei può rovinare , in certi casi , l'esistenza . Racconta una signora sessantenne : Per tutta l a vita sono stata terribilmente timida . Non mi consideravo all 'altezza. delle sit uazioni . Mi sentivo i n ade guata e non riuscivo a trovarmi a mio agio con la gente . E così venivo considerata anti-sociale . Per timidezza non riuscivo a comport ar m i in modo si mpa tic o , neppure con gli amici di mio marito . E così , in definitiva , venni tagliata fuori dal circuito . Anche da mio marito , che finì per divorziare . » La timidezza h a , almeno in parte , un'origine genetica , cioè innata? Sembra di sì , anche se è sempre difficile stabilire in quale misura certi comportamenti siano innati . Degli studi sono stati fatti su vari gruppi di gemelli . Per esempio, registrando le loro reazioni di fronte a degli estra­ nei . E si è trovata una corrispon denza più tra i gemelli monozigoti (quelli veri ) che tra i dizigoti . Altri 700 gemelli , all'età di 1 8 anni sono stati esaminati . E attraverso dei tests si è visto anche qui che i veri gemelli erano più simili tra loro per quanto riguarda la timidezza . Ricerche sono state fatte anche con gli animali . Con i cani per esempio : si è visto che esistono cani più timidi di altri ; e che incrociandoli tra loro si ottengono cagnolini timidi . La stessa cosa si è osservata con i topi e con i r atti . Naturalmente l'ambiente ha un grande ruolo nel condizio­ nare il comportamento . E così la cultura. Si è visto , per esempio , che gli orientali sono in generale molto più timidi . In Giappone il 60% delle persone si dichiarano timide , e il 10 % lo sono sempre , in ogni circostanza. È opinione che il tipo di cultura che esiste in Giappone sia all 'origine di questa mag­ gior timidezza , non solo perché impone rapporti molto rispet­ tosi e formali con il prossimo , ma perché in Giappone è considerata una vergogna sbagliare . E questa paura di sba­ gliare o di mancare di rispetto finisce per portare a una maggiore chiusura nei rapporti e nel comportamento. In Israele invec� solo il 27% delle persone si considerano timide : molto poco se paragonato a1 40% degli Stati Uniti e al 60 % del Giappone . «

179

Si rit i ene che anche ciò sia dovuto a fattori culturali : in Israele infatti si in se gn a a puntare al successo . E che non è

una vergogna s ba g lia r e . Naturalmente l 'ambiente fa m ili a re è particolarmente im­ portante . Si ri ti e n e pe r e s e m p io che un atteggiamento troppo autori t a ri o possa provocare nel bambino una ma n ca nza di fi du c i a in se stesso , e quindi una minor s i cu rezz a nel rapporto con g l i altri . Ma a n c h e un a tt e ggi a m e nt o t rop p o p e r m issivo può cre are nel bambino una ma n c an z a di punti di riferimento per m isur are i propri s b a gli o i su cce ss i . E ci ò può portare a es p e ri e n ze negative e a d i ffi col t à di ra pp o rti .

Come vincere la timidezza Ma sono più timidi g l i uomini o l e donne ? Sembra che non

c i siano grandi differenze , tranne durante l'età puberale . Tra gli 1 1 e i 1 5 anni le bambine infatti diventano molto p i ù timide dei ragazzi . Si pe n s a che questo sia le g at o aJle pressioni psicol ogi che de l l am bi e nt e in un e t à in cui n e l le ragazze nasce il p roblema di essere attraenti , e n asc o n o i primi problemi di re lazione con l' altro sesso . Il t i m ore di non e s ser e attraenti può far nascere , in questo p e ri o do , dei comportamenti di isolamento che si possono p oi ri percuotere sulla vita futura . Naturalmente g l i s t u d i o s i s p i e g a n o che è il livello di timi­ dezza che può determinare (oppure no) dei problemi di comportamento . Per e sem p i o è naturale che ognuno soffra di ti m i d e zza se deve salire per la prima volta su un palcoscenico a fare un discorso . Quasi tutti , del resto , ammettono di essere stati timidi in q u al c he circostanza della vita. I veri problemi sorgono invece per coloro che lo sono in modo permanente o ad d iritt u ra in modo o ss es si v o . Quando la timidezza supera una certa soglia infatti può provocare conseguenze veramente sp iac e voli . Non solo a nsi a e difficoltà nell' avere relazioni con il '

,

'

,

180

prossimo (in particolare con l' altro sesso) , ma anche solitudi­ ne . con tutto ciò che la solitudine può comportare . Cioè mancanza di amici , di relazioni , e quindi di aiuto sociale . Si è per esempio visto che i timidi sono colpiti mediamente più degli altri da depressioni e da malattie cardiache e tumorali . Alcuni si rifugiano anche nel bere : sia per consolare la propria solitudine , sia per farsi coraggio nei rapporti con gli altri . I grandi timidi possono cadere più facilmente nell'alco­ lismo . In ogni caso , anche quando le conseguenze della timidezza non sono gravi , il timido conosce una serie di handicap : non riesce a esprimere le proprie idee e i propri diritti , non riesce a dimostrare il proprio valore . E anche a conoscere gente nuova , a crearsi situazioni nuove . I nfatti molti timidi non hanno la vocazione all'isolamento ; vorrebbero veramente avere buone relazioni sociali . Ma hanno una difficoltà nello stabilire rapporti . Si può fare qualcosa per aiutarli? Negli Stati Uniti , alla Stanford University esiste un centro per la terapia della timidezza , creato dal professor Philip G . Zimbardo , dove si cerca d i indagare nella psicologia persona­ le e trovare il modo di migliorare le cose . Si ritiene che molti timidi manchino semplicemente di talento nella comunicazione con gli altri . Cioè non sappiano come iniziare a portare avanti una conversazione : e questo impedisca loro di abituarsi a parlare con gli estranei . Vengono allora spiegate delle tecniche per attaccare un discorso, o per entrare in una conversazione efficacemente . Ecco alcuni consigli che vengono dati ai timidi . l ) Per esempio , preparare in anticipo certi argomenti interessanti , sui quali essi sono competenti e che possono affrontare a proprio agio . 2) Compiere una serie di esercizi di conversazione , comin­ ciando a parlare a un registratore o davanti allo specchio . 3 ) Annotarsi delle buone barzellette e raccontarle a una sedia vuota . 4) Esercitarsi poi al telefono. protetti dall 'anominato . e 181

chiedere informazi oni di vario tipo ,

a giornali , teatri , bibliote­

che , ristoranti , negozi . 5) Esercitarsi quindi dal vivo , inserendosi in code davanti a cinema , muse i , teatri , e attaccando conversazione con la gente . 6) Cercare nuove relazioni in ambienti in cui sì hanno affinità di i n t e re ss i : siano essi scacchi , li ri ca o filatelia . Alcuni psicologi hanno ora persi n o i ncomi nciato a d andare i n giro con dei timidi , accompagnandoli nei negozi e nei ricevimenti , in modo da a i u tarli ad ag i re nel modo migl i or e . Insegnando loro , per esempio , come fronteggiare ce rte situa� zioni in cui la t i m id ezza può avere il sopravvento . Insegnando come avere più fiducia in se stessi ; ricordando loro che q u asi metà della gente (magari dietro una diversa maschera} ha dei problemi di timidezza . La conclusione di tutti questi s tud i è che il timido può es se re aiutato a u sc i r e dal suo isolamento . Un i sol a m e n to che lo può portare a molte rin unce , o a volte anche a veri e pro pri p roble m i esistenziali . Pe r miglio r a re le cose non solo gli psicologi ma anche l'informazione e la stessa scuola potrebbero svolgere u t i l men ,

­

te il loro ruolo.

Milioni di anni in

gruppo

L'isolamento , del resto , non è s ol o un problema dei timidi , ma di molte altre persone che malgrado tutta Ja loro v o c azi o ­ ne genetica a esprimersi come esseri soci ali (e a dispo rre d i ce n to canali di com uni cazi one v erb ali e non verbali , corporei , espressivi e linguistici) fi niscono a vol te pe r trovarsi in solitu­ dine . Magari in solitudine totale . IJ pro bl e m a della solitudine non è pro b abilmente n uovo : sentirsi soli « den t ro » è ti pi co del l ' uomo . Ciò può capitare in particolari m o m en t i della vita, anche quando sì è circondati da molte persone . Ma certamente il p rob l e m a è stato acuito dal modello di vita delle società industriali , dove il problema 182

della solitudine è diventato , per così dire , il sottoprodotto della polverizzazione della famiglia. I nostri antenati ominidi , milioni di anni fa , vivevano in bande probabilmente di una trentina di individui . Anche l'Homo sapiens ha perpetuato per decine di millenni questa organizzazione di gruppo di una trentina di individui {lo si vede ancora oggi nelle società primitive di cacciatori-raccogli­ tori) . Più o meno della stessa entità erano i gruppi di nomadi . Con l'agricoltura è poi venuta la prima esplosione demogra­ fica ; ma anche qui gli uomini continuavano a vivere in gruppo , nelle grandi famiglie contadine patriarcali , con molti figli . Ed esse sono durate fino a tempi molto recenti . La rivoluzione industriale e la concentrazione delle attività nelle grandi città ha rapidamente distrutto quello « stare insieme » che era tipico dei cacciatori , e degli agricoltori , con le loro tribù e i loro villaggi . Questo trauma dell'isolamento , che in pochissime genera­ zioni ha tagliato le « prolunghe » all'uomo , come viene vissuto oggi? Siamo veramente più soli di ieri? Di quante persone ha bisogno un essere umano per collegarsi al mondo e alla vita?

Quante persone conosciamo? (di Lorenzo Pinna)

Quante persone incontriamo ogni giorno? Quanti nostri simili vediamo nelle strade , negli autobus , nei negozi , negli uffici? Un calcolo del genere forse non è mai stato fatto , ma sicuramente ogni giorno ci imbattiamo in centinaia, se non migliaia di esseri della nostra specie . Di questa grande massa di persone ben pochi dettagli rimarranno nella nostra memo­ ria . Forse qualche viso inconsueto o qualche acconciatura bizzarra . Tutto il resto scomparirà o forse non sarà stato nemmeno registrato . Nelle grandi metropoli , e può essere Roma o Londra , Mosca o Pechino, la maggior parte degli esseri umani che si incontrano vengono cancellati . 183

È infatti i m pos s i bi le pe r un uomo conosce re o pens a re alle migliaia d i persone che casualmente gl i accade di vedere . D i questa gr and e cancellazione che ogni giorno effettuiamo sui nostri simili quante persone si salvano? Fra i milioni e milioni di abitanti di una grande ci ttà , qu a n t i sono quelli che pos s ia ­ mo definire nostri amici ? A quanti potremmo affidare il gatto durante una nostra vacanza o a quanti potremmo chiedere , con qualche ragionevole speranza , un prestito consistente? Naturalmente fra le persone che si salvano dalle cance l l a ­ zioni ci sono i parenti più stretti . Diciamo una decina fra padri , madri, fratelli , sorelle , figli e figlie . E poi quanti amici? A quante persone potreste telefonare nel cuore della notte pe r metterli al co rre n te di q uaJche vostra a n gos ci a ? Le risposte a questi interrogativi sono molto incerte , tutta­ via alcune ricerche condotte in alcune zone degli Stati Uniti hanno permesso di calcolare quante siano , compresi i parenti , Je persone i m po rt a n t i e significative n e l l a vita di una persona . Secondo il p rofe ss ar Claude Fisher (Università d i Berkeley , California) un individuo conosce bene da 10 a 25 persone , m ent re può essere i n contatto , per varie ragioni , con 100/ 1 50 persone . Comunque è nell 'ambito del primo gruppo che qu e ll ' indi vi d u o cercherà a iu t o , consiglio o conforto . Di q u ell e 10-25 p e rso n e che costituiscono la rete di c on o ­ scenze fondamentali circa il 40% sono p a re n ti . Tuttavia, ci

diceva il professar Fishe r , se la rice rca fosse s tata fatta in

Italia , i paren ti avrebbero rappresentato con ogni probabilità , u na parte p roporzio n al ment e m aggi o re . Sebbene le statistiche ci assegnino in media 1 0-25 persone di cui fid ars i , molte persone si sentono sole . Anzi la solitudine sembra una delle malattie tipiche della società contem pora­ nea . A quale età si soffre più di solitudine? Anche in questo caso i risultati delle ricerche , svolte negli USA , possono essere molto discutibili . Caren Rubinstein , la coautrice di questa ricerca , c i h a detto che l 'e tà i n cui si è più

alla s o lit u d i n e è l' adolescenza e i p rimi anni dell'età adulta (fino ai 25-26 anni ) , mentre per esempio le persone anziane , sopra i s essa n t ' a n n i , ne soffrono meno . Questi esposti

184

risultati , alquanto sorprendenti , possono spiegarsi , secondo Caren Rubinstein , con due ragioni . I giovani si trovano in un periodo critico , si stanno staccando dalla famiglia d'origine per crearsi una propria vita . Una situazione , questa , che può provocare crisi di solitudine . Inoltre le persone giovani gene­ ralmente hanno grandi attese : gran d i amori , grandi amicizie , grandi successi . Nella vita le cose non si svolgono come in un telefilm . E anche le delusioni o l'insoddisfazione possono spingere verso la solitudine . Si può anche aggiungere che solitudine è una parola che ha molti significati . Ci si può sentire soli e disperati in mezzo a una festa rumorosa e spumeggiante , cioè in mezzo a compa­ gnie numerose e apparentemente piacevoli . È questo il caso dei giovani ; mentre pur essendo relativamente isolati , con uno o due amici con cui chiacchierare , si può star benissimo e non sentire il peso della solitudine . È questo probabilmente il caso degli anziani . Vi sono poi situazioni di crisi che possono far precipitare un individuo nella solitudine : quando crolla un rapporto fonda­ mentale con separazioni , divorzi o la scomparsa di persone care . In questi casi è facile entrare in un periodo di solitudine dove la sensazione prevalente è quella di vuoto, di mancanza , di assenza . Chi reagisce meglio a questi periodi critici della vita : gli uomini o le donne? Altra sorpresa . Secondo le ricerche della dottoressa Rubinstein le donne superano me­ glio queste crisi . Infatti , al contrario degli uomini , sono più brave nello stringere nuove amicizie o nel riallacciare vecchi rapporti con amici e parenti . In un certo senso questa ricerca indica che gli uomini hanno più bisogno delle donne di quanto le donne abbiano bisogno degli uomini . Per questa ragione gli uomini sono più esposti alla solitudine . Ma perché , possiamo chiederci , una persona sola, che abbia disperato bisogno di compagnia , di amici , di affetto , non riesce a procurarsi ciò che tanto desidera? Anzi , spesso sembra che più grande è il senso di solitudine più difficile è uscirne ? Si direbbe che più abbiamo bisogno degli altri , più questi ci sfuggano. Perché? Il p r o fes so r Warren Jones , deli 'U185

v i d e o - t a p e i colloqui di i alcuni studenti che non s co n osce v a no fra loro , e alcuni dei q u al i avevano una grande t e n de n za alla s ol it u d i n e . Quali errori com pi e la persona s o l a q u a nd o si trova di fron t e all 'altro che po t re bbe anche d i ve nta re s uo a m i c o ? niversità

di Tulsa , ha ripreso con il

Ebbene ,

d agli studi

d e l professor Jones emerge che gli

errori sono essenzialmente quattro. La persona sola presta

poca a tte nz i o ne alle domande e aHe affermazioni d e l l ' a l t ro . Cambia spesso e senza ragi o n e l 'argomento di co n vers azi o n e ; salta ci o è troppo frequentemente di palo in frasca . Pone poche domande all'in terlocu tore . E ri spo n de lentamente ed

evasivamente alJe domande che le vengono fatte . A causa dì questi comportamenti la persona sola rischia di rimanere sempre più sola. Infatti - dice il professor Jones - per rimuginare la propria afflizione la persona sola non presta abbastanza attenzione all' altro , e si fa sfuggire le occasioni di allacciare nuovi rapporti . Quindi uno dei pochi consigli che si possono dare a chi soffre di solitudine è tentare di guardarsi intorno e di non sprofondare nella propria tristezza . In questo modo forse riuscirà a strappare qualcuno dal gran mare di cancellazioni che ogni giorno vengono effettuate sui nostri simili . E a inserire questo qualcuno nel piccolo numero delle persone che contano nella sua vita .

186

XII

Il

«

boom

»



Q UELLA CERTA ETÀ . . .

dei vecchi

È dunque importante prepararsi un buon eco-sistema psico­

logico , per quando si diventa vecchi , non solo per affrontare meglio una crescente solitudine (che sarà probabilmente tipica delle persone anziane in una società industriale) ma anche per riuscire a mantenersi in forma il più a lungo possibile .

Un tempo la selezione naturale eliminava la maggior parte degli individui , e solo i più sani riuscivano ad arrivare alla ce la « terza età » . Oggi un numero crescente di persone fa » , grazie ai vari sottoprodotti della scienza e della tecnolo­ g ia (farmaci , alimentazione , igiene , lavori meno duri , chi ru r­ gia ecc . ) . Basta qua lc h e dato per rendersene conto : nel secolo scorso , in Italia, le persone sopra i 65 anni erano circa il 4-5 % de lla popolazione . Oggi superano già il 1 3 % . E questa crescita continuerà ancora in futuro . Siamo i n pieno « boom » dei ve cc h i ( e i n pieno s b oo m » de ll e nascite , cosa questa che accentua ancora più il feno­ meno) . Molto d i v ers i Si tratta però ormai di v e cc hi tecnologici da que ll i del passato. Per comprendere meglio questo concet­ to basta pensare a ciò che avveniva (e avviene) in natura: un leone , per esempio , malgrado la sua forza e la sua velocità , quando perde i denti , la vista , l o scatto perde anche l a sua capacità di raggiungere le sue prede , e di conseguenza il suo «

«

«

187

>>.

invecchiamento com p rome t t e drammaticamente le sue

pre­

stazioni dì sopravvivenza .

Un uomo, invece , se in ve cc h i a n do perde la vista può mettere gli occhiali , se pe rd e i denti c'è la dentiera . A settant 'anni può correre più veloce di una g a zzel l a (in a ut o ) ,

può muoversi nell'acqua più veloce di un delfino (in motosca­ fo) , o può volare più alto dell 'aquila (in aereo) . Può addirittura sollevare u n blocco di cemento di una tonnellata con una sola mano , azionando le leve dì una gru . Le tecnologie , in altre parole , gli hanno messo a disposizione un tale arsenale di « p rotesi » muscolari , da cancellare in gran parte le consegu e nze fisiche dell'invecchiamento . A tal punto che , durante l'ultima guerra , il gran capo della nazione più potente del mondo , il « re della foresta » , era un uomo in carrozzella: Franklin Delano Roosevelt . Questo perché la diffe renza , tra l i n vecchiamento animale e quello umano , risiede nel cervello . Se le capacità mentali possono rimanere gi ovan i più a lungo del corpo (come avviene in individui che tutti conosciamo , e non è necessario scomodare il solito Bertrand Russell) allora il gioco è fatto . L orologio dell ' invecchiamento non è più quello che scandisce la perdita dei ca p e l li o dell'efficienza muscolare , o della vista : il vero orologio è quello che scandisce l'invecchiamento dei ne u ro n i e delle idee . È poss i bile allora agire più efficacemente in questa direzione per man tenersi giovani? Il discorso , impostato in questo modo , sembra diventare molto più interessante . Anche perché mantenere giovane il cervello (e q uindi il modo di pensare , di immaginare , di capire , d i com portarsi ) sig nifica ag ire p ro p rio su quella « ta­ stiera » che è tipica dell'uomo . Come è possibile ague sull'invecchiamento dei neuroni e del1e idee? '

'

Il

futuro di un giovane: la vecchiaia . . .

capitolo tratterà , in modo ottimistico , del problema dell 'invecchiamento : m e tt e n d o soprattutto in evi d enz a le cose Questo

188

che sì possono fare per cercare di invecchiare bene dal punto di vista psicologico . I giov ani lettori potranno s a lt ar e a piè pari questo capitolo. Ma non glielo consiglio . Per d ue ra gio ni . lnnanzitutto pe rch é anch'essi sono destinati a invecchiare , c quindi è bene che « esplorino » , anche da questo punto di vista, il loro futuro . E in secondo luogo perché i giovani di oggi , una volta ad ul ti vivranno in una società di vecchi : fatto unico , mai accaduto da l l i n iz io della storia della vita . Perciò dovranno imparare a c oa b i ta re con l e persone anziane � a ca p i re i loro problemi , a valutare le loro possibilità . Anche perché gli anzi ani avranno un crescente peso elettorale , e quindi un crescente potere politico . . . Si può invecchiare bene? Sì . Ogni età ha una su a b el l e zz a . Personalmente de vo dire che non ri mpi an go affatto i m i e i vent'anni : non farei il cambio . L u ni ca scocciatura è c he il fi l o rimasto si accorcia sempre più . . . Ma per il resto è po s s i bile difendersi bene (salute permettendo) . Sarebbe b e n e cominciare questo capitolo con quella che , in p ass at o , è stat a spesso considerata per la donna la porta d in gre sso della terza età : la me nop au s a . Cioè il periodo che c oin c id e con la fine della fe r t i li t à , e quindi con l'esaurirsi del suo ruolo riproduttivo . Cosa si sa oggi della menopausa? In quale misura incide nella fisiologia e anche nella psicologia femminile? Oggi il mondo è p i eno di splendide donne che varcano danzando questa soglia: e non c' è ragione perché non continuino a farlo anche in seguito . Prendendo magari le precauzioni del caso. ,

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'

'

Il meccanismo della menopausa

(di Marco Visalberghi)

L'intento delle pagine che seg uiran n o è quello di fare un po' di luce sull'argomento , eliminando alcuni preg i udi zi e riportando il p ro b l e m a nei suoi termini reali . 189

In un periodo compreso tra i 45 e i 55 anni termina il ciclo mestruale e con esso termina la possibilità di mettere al mondo dei figli ; questi sono gli unici dati (veri per qualunque donna) che caratterizzano la menopausa. È facile ca p i re come la perdita di una prerogativa c osì importante come quella di procreare possa essere vissuta come una sorta di menomazio­ ne , e abbia fatto nascere alcuni di q ue i pregiudizi cui accenna­ vamo prima. In Florida , nella c i ttà d i Gainsville , è sorto un centro , sovvenzio nato con fondi federali , che assolve alla d op pi a funzione di ricerca sci e nt i fi ca avanzata e di orientamento pratico . Ogni volta che una donna si riv o lg e a questo centro , la p ri m a preoccupazione degli organizzatori è quella di sgom­ brare il campo da questi pregiudizi . Nel corso di alcuni colloqui viene spiegato alla donna che la menopausa è un normale processo fisiologico che ogni d onn a attraversa e che deve essere visto come l 'inizio di un nuovo modo di vivere , come una nuova fase della vita in cui tra l ' altro la donna è finalmente libera dalla schiavitù dell'uso di anticoncezio­ nali . Il direttore d e l l a clinica , p ro fe ssar Morris Notelovitz , ama ripetere che gli anni deJJa menopausa vanno considerati una sorta di ricompensa . Le donne hanno infatti passato la prima parte della loro vita ad allevare i figli e aiutare i mariti a raggiungere i loro traguardi professionali ; ora possono final­ mente dedicarsi a se stes se . Non c'è ra gi o ne è solito concludere i colloqui con le donne che si rivolgono al centro , «

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Esistono negli Stati Uniti prototipi di auto (già funzionanti) che riescono a percorrere 52 km con un litro, g razie soprattutto all 'ottimizzazione consentita dai dispositivi elettronici .

inoltre si potranno fare riunioni o pranzi d'affari standosene o gnuno seduto a casa propria e conversando attraverso de i collegamenti simultanei multicanale ecc . I costi decrescenti della micro-elettronica metteranno a disposizione un numero praticamente illimitato di nuove possibilità tecnologiche , in ogni campo . E c'è da aspettarsi veramente che esse entreranno poco alla volta nella nostra realtà , anche perché probabilmente corrisponderanno a un 'al­ tra esigenza del nostro tempo : quella di risparmiare energia e materie prime . Non dimentichiamo infatti che la micro-elettronica si basa su una materia prima che è diffusa quanto la sabbia , cioè il silicio ; e permette di realizzare sistemi a basso consumo di energia (o di diminuire i consumi dei sistemi già esistenti) . Tipico è l'esempio dell'automobile : esistono già dei prototipi s pe rime ntali d' automobile , negli Stati U niti , che grazie so­ prattutto a dispositivi elettronici di ottimizzazione permetto­ no di percorrere 52 chilometri con l litro di benzina ! Naturalmente ogni tecnologia , d a che mondo è mondo , porta con sé vantaggi e rischi : la micro-elettronica non fa ecceziOne . 224

Essa rappresenta però una nuova opportunità di sviluppo . non solo tecnologico e industriale, ma anche culturale e umano . Naturalmente sta a noi saperla cogliere : cercando di capire e orientare in modo tempestivo le scelte necessarie . L'Italia può fare molto . perché nel nostro paese ci sono i talenti e le capacità per entrare in questa nuova dimensione : ma occorre mettere le industrie (e i cervelli) in condizione di saper esprimere tutte le loro potenzialità . Non siamo più stupidi degli altri . Anzi . . . Lo sapete chi è uno degli inventori del microprocessore (cioè dell'elemento di base di questa nuova rivoluzione tecnologica) ? È un veneto . che si chiama Federico Faggin . Ora lavora negli Stati Uniti , dove ha una sua compagnia privata. In Italia esistono aziende , ricercatori e ideatori di sistemi di primissimo ordine . In alcuni casi all 'avanguardia . Purtroppo essi si muovono all'interno di un sistema culturale e politico ancora pre-scientifico . Questo sembra essere proprio il punto essenziale : se non si crea rapidamente un clima mentale adatto alle nuove trasfor­ mazioni che stanno avanzando , non riusciremo certo a trarre i benefici di questi cambiamenti . Anzi , forse finiremo per subirne solo gli svantaggi . Perché non dimentichiamo che gli altri si sono già avviati su questa strada, con speciali politiche di finanziamento (e non solo in Giappone , che in questa corsa appare come il più deciso e preparato) . E saranno i nostri concorrenti sui mercati mondiali . È vero che potremo consolarci utilizzando calcolatori più potenti per prevedere il futuro attraverso l'oroscopo . . . Sareb­ be però un peccato . Perché questa nuova epoca spalancata dall'elettronica è piena di opportunità di sviluppo , di trasfor­ mazioni : come dicevamo all'inizio, si sta aprendo un periodo analogo a quello dell'invenzione della ruota o della stampa . Restare a terra perché non si è capaci di guidare questa nuova macchina è abbastanza triste . Soprattutto per un paese che si ritiene così intelligente . . . Non solo . Ma la micro-elettronica rappresenta oggi un campo di riserva estremamente stimolante anche dal punto di vista intellettuale . I modelli di intelligenza artificiale » che «

225

stanno emer gendo da gli studi più avanzati costituiscono una nuova avventura scientifica di estremo interesse , che consente anche una nuova riflessione sui m e ccan i s mi che sono alla base dei proce ss i logici .

Entriamo quindi , a que s to punto , nel campo della cosiddet­ ta « intelligenza artificiale » .

226

XIV

' L INTELLIGENZA ARTIFICIALE



La macchina pensante Nel 1995 il campione del mondo di scacchi non sarà più un uomo , ma un calcolatore elettronico. Già oggi i calcolatori danno filo da torcere ai bravi giocatori , ma tra non molto quello che è considerato il gioco umano più intelligente avrà come protagonista una macchina . Una macchina che saprà prevedere le mosse dell' avversario , le sue astuzie , i suoi tranelli, e saprà controbattere con mosse ancora più efficaci per farlo capitolare . Questa è la previsione degli esperti . Altre macchine sapranno capire la voce umana , risponde­ re con la parola , tradurre dal russo in inglese , fare riassunti dei testi d'agenzia, comporre musica , disegnare grafici , can­ tare . . . Tutti questi straordinari risultati si possono (e si potranno sempre più) ottenere mettendo insieme dei semplici pezzi di silicio , di metallo e di altri materiali .

A rifletterei sopra è una cosa abbastanza sconvolge nt e .

Perché , in fondo , è un po' come se si andasse con pala e piccone a prendere per strada qualche carriola di minerali : poi , lavorandoli e

«

montandoli

»

insieme in un certo modo ,

si ottenesse un'entità che può parlare , muoversi , tradurre , fare i riassunti , cantare e giocare a scacchi meglio di noi . Tuttavia , a pensarci bene , anche per quanto riguarda l'uomo avviene un po' la stessa cosa : se noi « smontassimo » un individuo otterremmo una serie di mucchietti di minerali, di sali , di polv eri n e , oltre a qualche secchio d ' acq ua .

227

Se fossimo capaci a quel punto di « rimontare » tutte queste cose rimettendo i vari atomi esattamente allo stesso posto in cui erano , probab il me n t e riotterremmo lo stesso individuo di prima (anche se è un esperimento che non sapremo forse mai realizzare tecnicamente ) . M a se noi non siamo capaci di farlo , la natura lo fa in continuazione : essa prende certi materiali inerti » dall'am­ biente (il cibo e le bevande che noi ingeriamo , l'aria che respiriamo) e li monta » in modo da trasformar li in strutture « viventi » . In questo passaggio dall'inanimato al vivente , quello che conta (e questo è il trucco) non è la materia prima: ma il modo in cui essa viene « messa in forma » cioè quello che conta è l'« in-formazione » . E il DNA è appunto l'informa­ zione genetica , che comanda la messa in forma dei materiali inerti presi dall'ambiente . Questo vale naturalmente anche per il cervello . In conti­ nuazione il nostr o cervello viene « smontato e « rimonta­ to » con nuovi materiali . Infatti , se è vero che le nostre cellule nervose sono quasi tutte perenni (cioè non si sdoppiano e non vengono sostituite , come quelle della pelle , per esempio ) , è altrettanto vero che ogni cellula nervosa è sottoposta a un continuo ricambio attraverso il metabolismo . Vale a dire che si nutre coi materiali portati in circolo dal sangue ed espelle i rifiuti . Questo significa che continuamente vi sono atomi che arrivano nella cellula e altri che se ne vanno , così come avviene nel nostro corpo , quando assumiamo cibo ed espellia­ mo rifiuti . Questo processo d i ricambio è così veloce che nel giro di qualche settimana (e anche meno) una cellula nervosa cambia tutti i suoi atomi. In questo modo . ogni mese abbiamo praticamente un cervello nuovo . . . Gli atomi che compongono . in questo preciso momento , il nostro cervello (con tutte le sue memorie , emozioni , intelli­ genze ) qualche mese fa non erano altro che dei sem plici atomi inerti » che si trovavano in un barattolo di marmellata , in un «

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pacchetto di sale da cucin a , in una bottiglia d' acqua minerale ,

ne ll'ossigeno dell'aria ecc . 228

Poi ognuno è andato a collocarsi in un certo posto , in base a un'informazione fornita dal DNA (anche esso in continuo ricambio) . E in questo modo è stato rimontato )) un cervello umano . «

l limiti attuali

Tutto questo discorso è utile per capire che quando si parla di intelligenza artificiale » si parla in sostanza della capacità di montare insieme delle strutture (cioè degli atomi ) per imitare alcune delle capacità che noi possediamo. Per adesso questi montaggi sono ancora abbastanza rudi­ mentali : ma nessuno può escludere che in avvenire (e l'umani­ tà ha ancora davanti a sé , in teoria, tempi lunghissimi) i nostri posteri siano in grado di montare così bene questi materiali da farne delle strutture molto più intelligenti » di quelle che noi possediamo oggi nel cervello , e capaci (perché no?) di superare le nostre stesse prestazioni mental i . Del resto già oggi sappiamo costruire delle macchine che superano le nostre prestazioni fisiche: macchine per esempio che volano , che corrono più in fretta di noi , che si calano negli abissi degli oceam ecc . Visto in questo modo , il problema dell'intelligenza artificia­ le appare in tutta la sua immensa portata . È u n a strada aperta. Anche se non sappiamo dove porterà e quali saranno in realtà i limiti . Per ora abbiamo montato » solo dei giocattolini , capaci di fare i primi giochetti : sarebbe quindi un errore paragonare il cervello ai calcolatori attuali , traendone la conclusione che la mente umana è una barriera invalicabile dalla macchina. In teoria, esistono montaggi » molto più sofisticati del nostro , soprattutto se si pensa che in avvenire i calcolatori potranno essere composti anche da materiali biologici . . . Non spingiamoci però troppo in là, e vediamo cosa sono capaci di fare adesso (o nel giro di pochi anni ) questi sorprendenti elaboratori elettronici . «

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229

Parlare , capire, tradurre, riassum ere (di Franco Foresta Marti n )

Bisogna ammettere che l a cosiddetta letteratura d i anticipa­ zione , quando esce dalla penna di valenti autori , propone temi di grande attualità. Prendiamo il famosissimo 200 1 odissea nello spazio » , li b ro di Arthur C . Clarke pubblicato n el 1 968 e tratto dalla sceneggiatura dell'omonimo film. Vi incontriamo Hal 9000 , cervello e sistema nervoso dell'astro­ nave in missione verso Giove , capace non solo di ragionare come e meglio di un uomo , ma di nutrire anche pericolosi s en time nti di ambizione e di odio . Clarke immagina che l'intelligenza artificiale di Hal sia un traguardo raggiunto attorno agli anni D u emi l a , con la terza generazione dei calcolatori elettronici . Oggi che i computer sono penetrati in o gn i aspetto della vita quotid ian a negli uffici , nelle fabbriche , nelle c ase , sulle automobili e nelle ricevitorie del totocalcio , che valore possia­ mo attribuire alle previsioni di Clarke ? Siamo davvero alla vigilia della nascita dell'intelligenza artificiale? Il salto di qualità ottenuto in meno di quarant ' anni è sensazionale : mentre i primi calcolatori a valvole erano ingombranti , lenti nell'eseguire i calcoli , con scarsa memoria e capaci di svolgere solo problemi numerici consumando tantissima energia (l' Eniac , per esempio , era in grado di risolvere solo calcoli balistici e consumava 1 50 kWh , cioè l'energia assorbita da una cinquantina di appartamenti) , i lo ro odierni successori sono compatti , veloci ed economici , posso­ no immagazzinare una grande quantità di d ati e risolvere non solo problemi numerici ma di varia natura : dalla gestione di un archivio alla traduzione di un testo . Forse nessun altro settore della tecnologia moderna ha conosciuto , nello stesso periodo di tempo , progressi così rapidi . Ma ciò che p i ù colpisce in questi strumenti capaci di svolgere , potenziandole enormemente , alcune funzioni tipi­ che del nostro cervello , è che col passare del tempo si vanno facendo sempre più simili all'uomo finanche se ci è «

,

-

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consentito di esprimerci in questo modo - nel comportamen­ to esteriore . Consideriamo , per esempio , il dialogo uomo-computer. Prima per d i alogare con un com p ute r e ra i n d ispe n s abi l e seguire un corso di specializzazione , apprendere un linguag­ gio logico particolare , trasformare le domande in schede · perforate e saper leggere le risposte date dal computer su altre schede perforate . In tempi più recenti il dialogo è stato agevolato dall'introduzione di una tastiera del tutto simile a una macchina per scrivere , da un video e da una stampan­ te . Ora stanno per cadere le barriere di questi linguaggi spe­ cializzati ; già vengono costruiti computer in grado di dare ri­ sposte parlate . E, sia ben chiaro , quando diciamo che il computer parla non intendiamo riferirei a frammenti di re­ gistrazioni ricombinati mecca nicamen te (come avviene in cer­

ti giocattoli) ma a una sintesi elettronica della voce a parti­ re dalle unità fondamentali che compongono il linguaggio umano . A Torino , presso i laboratori CSELT , ho avuto il piacere di fare la conoscenza con Musa , computer che muove i primi passi sul difficile terreno dell' apprendimento vocale . Nella sua memoria sono stati immessi 156 suoni fondamentali , detti fonemi , con i q uali è p ossibil e ricostruire tutte le p arole della lingua italiana . Quando la soluzione del problema è pronta , Musa trasforma quella che solitamente è una risposta scritta in una risposta parlata, mettendo insieme le varie unità sonore e sintetizzando così parole e frasi . Mentre per un bambino è più facile cominciare a capire i discorsi degli adulti che esprimersi , per un computer è tutto l'opposto. Pur avendo imparato a parlare , infatti , una macchi­ na come Musa stenta a c ompre n d e re il nostro parlato: è disorientata dalla ridondanza del discorso umano , dall'ambi­ guità di alcune parole o di alcuni costrutti , dalla variabilit à sonora dei segnali vocali sia quando sono emessi dal medesi­ mo interlocutore , sia , ancor più , quando lo sono da interlocu­ tori diversi . Non ti conosco , » protestò Musa rifiutandosi di rispondere quando il tecnico che solitamente l'addestra al «

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dialogo si presentò una mattina col naso intasato dal raffred­ dore . E la stessa cosa si ripeté al sottoscritto che tentava di estorcerle il risultato di un banale 2 + 2 . Per superare queste difficoltà i primi computers p arlanti , che hanno sostituito le signorine dei telefoni in alcune città degli Stati Uniti , prevengono l'utente chiedendogli di formu­ lare le domande in un certo modo , cioè impede nd o gli di divagare . Grazie a questo tipo di dialogo obbligato la macchina è in grado di capire le domande che le sono poste . Alcuni e spe rti americani prevedono , già p er il prossimo decennio , la nascita di un computer universale in grado di capi re e di rispondere a chiunque senza difficoltà. Introdotti in alcuni servizi sociali e nel mondo dell'istruzione in partico­ lare , computers del genere potrebbero scatenare una rivolu­ zione di i mpre ve dibile portata Dove il computer sfiora l'intelligenza umana è nella risolu­ zione di alcuni problemi che richiedono una formidabile capacità di d e duzion e logica e di sintesi . Alla Yale University è stata realizzata una macchina che sintetizza in due-tre righe un'intera cartella dattiloscritta . Il suo lavoro non consiste nell'estrarre qua e là dall'originale delle frasi , bensì nel tradurre in un linguaggio logico-matematico tutto il messag­ gio , e poi nel ritrasformarlo in forma sintetica usando spesso vocaboli non contenuti nel testo primitivo . Il calcolatore , insomma , ha afferrato così bene l 'idea , da esprimerla con p a ro le div erse . Ma non è tutto : su richiesta il sunto viene reso in francese , ted e sco , russo , cinese . . Non c'è da meravigliarsi , poiché , una volta che la macchina ha tradotto un testo nel linguaggio universale della logica-matematica , trasformarlo in qualun­ que lingua parlata sulla Terra è un giochetto . Un altro processo deduttivo quasi umano viene compiuto da alcuni computers sperimentali per applicazioni sanitarie . Un me di co raccoglie la storia clinica di un paziente , i risult ati di visite , di analisi ecc . e inserisce il tutto nel calcolatore . Questo li analizza . Se i dati sono sufficienti emette una diagnosi precisa ; se non sono sufficienti ele n c a una rosa di «

.

.

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Il "Test di Turing» . Un operatore (a destra) ha davanti a sé due tastiere : una colleg ata con un uomo e l 'altra con un computer. Il giorno in cui non riusci rà più a distinguere con chi sta dialogando - dice Turing - occorrerà riconosce­ re alle macchine u n ' i ntelligenza artificiale.

probabili malattie e , per una decisione definitiva , ordina ulteriori accertamenti . Alla luce di questi esempi possiamo affermare che fra i chip che compongono i cervelli elettronici è spuntato un barlume di intelligenza? Un matematico inglese , Alan Turing, propose negli anni Cinquanta un t es t per c a pire se un elaboratore ha sviluppato qualità proprie del pensiero umano . Un uomo addetto alla verifica ha davanti a sé due tastiere per porre domande : una collegata al co m pute r l 'altra a un uomo . Ovviamente il verificatore non sa a quale tastiera ognuno dei due è collega­ to . Se , a conclusione di un certo nu m er o d i d o m an de egli non è in grado di smascherare il computer, allora si deve ricono­ scere alla macchina un'intelligenza artificiale . Ebbene , nessuno dei moderni computers sarebbe oggi in grado di superare il test di Turing anche se potrebbe mettere in serie difficoltà il verificatore eseguendo alcune prove degne di un uomo molto intelJigente quali una partita a scacchi , un calcolo di orbite astronomiche , una traduzione . D'altra parte non bisogna dimenticare che alla base di ciascun prodigio oggi re so dai computers c ' è l 'intelligenza dell 'uomo. I pi ù potenti ,

,

233

elaboratori dei nostri tempi sarebbero solo stupidi accumula­ tori di nozioni se non fosseto guidati dai sofisticati program­ mi , o software CO!fi e si dice in gergo , messi a punto da

bravissimi tecnici . E grazie a queste regole di comportamento logico contenute in una memoria m agn etica che una macchina acquista le sue capacità di elaborazione . Quanto al futuro è difficile prevedere cosa succederà , anche nel breve termine . Entro il Duemila potrebbero essere funzionanti i calcolatori superfreddi i cui circuiti , poftati con tecniche cri o geniche a temperature p rossime allo zero assolu­ to ( - 273 °C) , verrebbero percorsi dagli elettroni senza incon­ trare resistenza. E ciò si tradurrebbe in un ulteriore aumento della velocità e della capacità di calcolo. Spingendoci un po' più avanti si intravede la possibilità di costruire piccolissimi computers organici basati non più sui chip di silicio ma su una microscopica trama di proteine . Se questa prospettiva dovesse avverarsi , anche nella materia prima che li costituisce i computers sarebbero più vicini all'intelligenza umana. I meccanismi sono analoghi?

Per la prima volta da quando è app a rso sulla Terra , insomma, l'uomo sta tentando di imitare se stesso , sia pure con strutture e materiali diversi . Sta tentando di riprodurre fuori dal suo cervello dei processi di memorizzazione e di elaborazione molto e ffi ci e n ti , in modo da costruirsi delle « protesi » cerebrali . Così come esistono degli occhiali per v edere meglio , o dei veicoli per andare più veloci , o degli apparecchi acustici per udire meglio, questi calcolatori consentono (e consentiranno sempre più) di migliorare enormemente la velocità di elabora­ zione del nostro cervello, trasferendo a un sistema accessorio la servitù di certe operazioni . Con la possibilità di amp li arle immensamente . Ma c'è d i più , come dicevamo all'inizio. Alcuni vedono nel 234

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Una delle qualità del cervello è di riuscire a riconoscere l ' identità di un oggetto malgrado le variazioni cui può essere sottoposto (per esempio la mancanza di

certe parti, o l ' inserimento in altri elementi).

computer non soltanto una protesi elettronica che permette di fare il lavoro di venti segretarie , o calcolare la velocità relativa di allontanamento di due galassie , o anche fare il riassunto in un'altra lingua di una relazione scientifica ; ma vedono nel computer un modello per capire meglio anche il cervello umano . A loro avviso , il crescente sviluppo della capacità di programmare queste macchine consentirà una crescente com­ prensione anche della nostra macchina cerebrale . Uno dei sostenitori di questa tesi è Jerome Bruner, uno dei più famosi psicologi , specializzato nello studio dei processi mentali dei bambini . Egli ritiene infatti che studiando il modo (sempre più sofisticato) in cui viene pro grammato un calcola­ tore , si finiscono per studiare q ue gli stessi processi che presiedono alle nostre attività mentali superiori . B runer si era spinto su questa strada già molti anni fa studiando la straordinaria capacità del cervello umano di riunire gli oggetti che vediamo intorno a noi in « categorie » . Non solo categorie del t ip o di quelle di cui parlavamo prima (il concetto di « albero » , o di « cane ») , ma anche categorie del tipo , per esempio , « identi�à » : essa infatti permette di riconoscere sempre un oggetto come tale, malgrado le varia-

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zioni cui p u ò essere sottoposto (di giorn o , di notte , da vicino e da lontano , mancante di ce rte parti o i n se ri to in altri e le menti) . Oppure la cate go ri a « equivalenza >> , che pe rm e tt e di col J e ­ gare tra loro cose d iv e rs e che hanno certi attributi in comune, e che possono così essere riunite insieme . Ebbene , quando si prepara iJ· programma di un computer, sostiene Bruner, il processo non è molto diverso : bisogna i n se rire i d at i facendo in modo che il comp ut e r possa elabo­ rarli nei modi più diversi , in funzione di uno specifico problema. Qual è il modo migliore per predisporre un programma del ge ne re ? Cosa bisogna fare perché il computer , nella sua ricerca della soluzione , pro ceda in modo da co mpie re delle vere e pr o pr i e « c o n get t ure >> , così come fa il cervelJo? E come si può indurre un computer a elaborare d e lJe con ge t t u re « intuitive » ? « U na volta scoperte alcune di queste chiavi , » dice B ru ne r , « si possono cominciare a fare ipotesi estremamente i nt e re s ­ santi sul modo in cui opera l'uomo . » - Può farci un esempio pra t ico ? « P rend i a mo il li ng u agg i o . Supp o ni amo che si desideri scoprire cosa è necessario fare pe r co m pren d e re il senso di ­

una frase . Immaginiamo che una persona , a tavola, dica a

un'altra : < Potresti essere così gentile da passarmi il sale ? > . Un certo programma del calcolatore po t rebbe sem p lic em ente int e rpr e t a r e ciò come una richiesta s u i < l i m i t i d i gen t il e zza della persona cui è rivolta la domanda : in realtà la frase significa essenzialmente (e in p i ù implica che il richiedente lascia l'altro libero di farlo o no) . » - Quindi bisogna c apir e quali tipi di informazione si dovranno mettere in un programma per c o n s en t i r gl i di pren­ dere in considerazione tutto ciò? « Esattamente . Sarebbe necessario di s p o rre di informazio­ ni , per esempio , sul rapporto tra le due persone , sul fatt o che hanno pari dignità ecc. Poi riprovare . E ricominciare . Dopo­ diché tornare su se stessi e chiedersi : < Anch 'io seguo un >

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a n a l ogo ? O ppure osservare i bambini e chiedersi : Si tratta di un esercizio estremamente stimolante , che mi interessa moltissimo . In questo senso mi sembra che i computers si stiano rivelando un po' come Io specchio dell'uomo. processo

>

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L ' uomo

e

la macchina

Lo studio del compute r per m etterà dunque di migliorare la co mprensi o n e dei meccanismi mentali? O lo studio del cer­ vello permetterà di migliorare la programmazione del com­ puter? C'è se m p re un certo disagio a paragonare due cose che , m a l g rado tutto , ci sembrano così diverse . Per una q u an tità di ragioni . Il comp u ter è pur sempre una macchina, costruita dall'uomo : certo , capace di cose notevoli e magari straordina­ rie . Ma è pur sempre il programma inserito dall'uomo , che lo fa agi r e . È come il « pilota automatico » dell'aereo : a nessuno passerebbe mai per la t es t a di considerare un aereo un essere vivente per il solo fatto che sa atterrare da solo . E poi il computer non ha vita, non rispond e neppure alle più semplici caratteristiche della vita: non metabolizza , è incapace di autoriparazione , non si riproduce ecc. Inoltre ( cosa ancor più importante quando lo si compara a un cervello umano) non ha sentiment i , non ha emozioni , n é fantasia , né paura , né immaginazione . Non a m a . E non ha coscienza di sé . Ma che diamine? Vogliamo · paragonare un registratore di cassa un po' più perfezi o nato a un essere umano ? Non scherziamo . . . Questo sano realismo va incoraggiato . Perché c'è a volte tendenza a utilizzare i co m p ute rs com e se fosse ro appunto dei super-cervelli , dotati di poteri quasi sovrumani, e ca p a ci di avere una loro personalità au to nom a ( Il ce rve Hone ha fatto tilt » , si è soliti dire ; e non piuttosto : « Abbiamo sbagliato la programmazione » o « I tecnici hanno commesso un errore » , o