La logica da Leibniz a Frege

Table of contents :
La logica da Leibniz a Frege......Page 1
Colophon......Page 4
Indice......Page 5
Introduzione......Page 9
Avvertenza......Page 37
Nota bibliografica......Page 41
I. Logica e matematica da Leibniz a Wolff......Page 47
1. Leibniz: l’arte caratteristica e i suoi scopi......Page 55
2. Leibniz: i l principio d i sostituitività e i contesti reduplicativi......Page 58
3. Leibniz: elementi di calcolo......Page 60
4. Leibniz: un saggio di calcolo universale......Page 64
5. Leibniz: uno studio sull’addizione reale......Page 66
6. Saccheri: definizione e regole della conseguenza......Page 73
7. Saccheri: le regole delle proposizioni copulative e delle proposizioni disgiuntive......Page 76
8. Saccheri: la nuova tecnica dimostrativa......Page 77
9. Bernoulli: il parallelismo tra calcolo logico e calcolo algebrico......Page 80
10. Wolff: la logica e i suoi rapporti con le altre scienze......Page 85
11. Wolff: proposizioni e giudizi......Page 86
12. Wolff: le conseguenze immediate......Page 87
II. L’eredita leibniziana e la logica del secondo settecento......Page 89
1. Ploucquet: il metodo di dimostrazione diretta dei sillogismi......Page 96
2. Lambert: saggio di arte caratteristica......Page 99
3. Lambert: la rappresentazione dei rapporti tra concetti......Page 103
4. Holland: esempio di calcolo......Page 104
5. Kant: i sillogismi e le loro regole......Page 108
6. Kant: lo stato della logica in quanto scienza......Page 111
7. Eulero: la rappresentazione grafica dei giudizi......Page 113
8. Gergonne: le idee e la loro estensione......Page 118
9. Gergonne: teoria delle proposizioni......Page 121
10. Gergonne: teoria del sillogismo......Page 125
III. La ripresa della logica nella prima meta dell’ottocento......Page 133
1. Whately: la situazione della logica......Page 138
2. Whately: linguaggio, logica e aritmetica......Page 140
3. Mill: definizione della logica......Page 143
4. Mill: nomi generali e singolari, nomi concreti e astratti......Page 144
5. Mill: nomi connotativi e non connotativi......Page 147
6. Mill: verità e natura delle proposizioni......Page 150
7. Mill: ogni inferenza è da particolari a particolari......Page 156
8. Hamilton: la nuova analitica delle forme logiche......Page 158
IV. Gli algebristi inglesi......Page 163
1. Woodhouse: la verità necessaria di conclusioni ottenute per mezzo di quantità immaginarie......Page 169
2. Woodhouse: metodo geometrico e metodo analitico......Page 172
3. Peacock: algebra astratta e algebra applicata......Page 174
4. Peacock: algebra aritmetica e algebra simbolica......Page 176
5. Peacock: regole per l’addizione e la sottrazione nell’algebra simbolica......Page 180
6. Peacock: il principio della permanenza delle forme equivalenti......Page 182
7. Gregory: la natura dell’algebra simbolica......Page 184
8. De Morgan: la fondazione dell’algebra......Page 189
V. La nascita dell’algebra della logica......Page 193
1. De Morgan: forma e materia......Page 198
2. De Morgan: la logica formale e le proposizioni del sillogismo......Page 200
3. De Morgan: la logica delle relazioni......Page 204
4. Boole: logica e matematica......Page 208
5. Boole: i simboli elettivi e le leggi del calcolo......Page 212
6. Boole: espressione e interpretazione di proposizioni......Page 216
7. Boole: le proposizioni ipotetiche......Page 217
8. Boole: l’espressione delle proposizioni ipotetiche......Page 221
9. Boole: le condizioni di validità di un ragionamento espresso mediante simboli......Page 224
10. Boole: le funzioni logiche e il loro sviluppo......Page 229
11. Boole: la legge generale dello sviluppo di una funzione......Page 233
VI. Gli sviluppi dell’indirizzo algebrico......Page 237
1. Jevons: la logica pura o logica della qualità......Page 243
2. Peirce: l’universo del discorso e le operazioni logiche......Page 248
3. Peirce: segni di addizione, di moltiplicazione, di involuzione......Page 250
4. Peirce: formule generali......Page 253
5. Peirce: termini individuali e relazioni tra relativi......Page 256
6. Peirce: la logica dei relativi......Page 258
7. Peirce: la logica di «prima intenzione» concernente i relativi......Page 263
8. Peirce: la logica dei termini non relativi......Page 267
9. Peirce: la natura dell’implicazione......Page 270
10. Peirce: valori di verità e proposizioni......Page 273
11. Peirce: un’algebra di Boole con una costante......Page 275
12. Schröder: calcolo con le classi e calcolo con le proposizioni......Page 276
13. Schröder: teoremi e dimostrazioni del calcolo logico......Page 280
14. Venn: i diagrammi......Page 290
15. Lewis Carroli: il paradosso del barbiere......Page 296
16. Mc Coll: la logica simbolica......Page 299
17. Mc Coll: implicazione e classificazione «tripartita» delle asserzioni......Page 301
VII. La «seconda fondazione» della logica formale......Page 307
1. Bolzano: la proposizione in sé......Page 318
2. Bolzano: la nozione in sé......Page 320
3. Bolzano: consistenza, derivabilità, equivalenza......Page 322
4. Bolzano: derivabilità e inferenza da più premesse......Page 325
5. Frege: scopo e natura dell’ideografia......Page 327
6. Frege: segno di contenuto e segno di giudizio......Page 330
7. Frege: la condizionalità e il segno di condizione......Page 332
8. Frege: la deduzione......Page 335
9. Frege: la negazione......Page 336
10. Frege: eguaglianza di contenuto e concetto di funzione......Page 338
11. Frege: la generalità......Page 342
12. Frege: l’esistenza......Page 346
13. Frege: esposizione e derivazione di alcuni giudizi del pensiero puro......Page 348
14. Frege: senso e denotazione......Page 353
15. Frege: valori di verità......Page 361
16. Frege: enunciati attributivi ed enunciati subordinati......Page 365
17. Russell: la scoperta dell’antinomia e la teoria dei tipi......Page 372
18. Peano: i principi di geometria logicamente esposti......Page 378
19. Peano: logica e matematica......Page 381
20. Padoa: introduzione logica a una teoria deduttiva qualunque......Page 382

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Filosofia collana diretta da Pietro Rossi

Massimo Mugnai

La logica da Leibniz a Frege

Loescher Editore Torino

© Copyright Loescher 1982

S.E.S.

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1982

INDICE

Introduzione Avvertenza

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Nota bibliografica l.

Il.

pag.

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LOGICA E MATEMATICA DA LEIBNIZ A pag. WOLFF l. Leibniz: l'arte caratteristica e i suoi scopi, p. 55. - 2. Leibniz: il principio di sostituitività e i contesti reduplicativi, p. 58. - 3. Leibniz: elementi di calcolo, p. 60 . 4. Leibniz: un saggio di calcolo universale, p. 64. - 5. Leibniz: uno studio sull'addizione reale, p. 66. - 6. Saccheri: definizione e regole della conseguenza, p. 73. 7. Saccheri: le regole delle proposizioni copulative e delle proposizioni disgiuntive, p. 76. - 8. Saccheri: la nuova tecnica dimostrativa, p. 77. - 9. Bernoulli: il parallelismo tra calcolo logico e calcolo algebrico, p. 80. - 10. Wolff: la logica e i suoi rapporti con le altre scienze, p. 85. - 1 1 . Wolff: proposizioni e giudizi, p. 86 . - 12. Wolff: le conseguenze immediate, p. 87. L'EREDITA LEIBNIZIANA E LA LOGICA DEL SECONDO SETTECENTO pag. l. Ploucquet: il metodo di dimostrazione diretta dei sil­ logismi, p. 96. - 2. Lambert: saggio di arte caratteristica, p. 99. - 3. Lambert: la rappresentazione dei rapporti tra concetti, p. 103 . - 4. Holland: esempio di calcolo, p. 104. - 5. Kant: i sillogismi e le loro regole, p. 108. - 6. Kant: lo stato della logica in quanto scienza, p. 1 1 1 . - 7. Eulero: la rappresentazione grafica dei giudizi, p. 1 13. - 8. Gergonne: le idee e la loro estensione, p. 1 18. - 9. Gergonne: teoria delle proposizioni, p. 121 . - 10. Gergonne: teoria del sillogismo, p. 125.

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III. LA RIPRESA DELLA LOGICA NELLA PRIMA META DELL'OTTOCENTO pag. l. Whately: la situazione della logica, p. 138. - 2 . Whately: linguaggio, logica e aritmetica, p. 140. - 3. Mill: definizione della logica, p. 143. - 4. Mill: nomi generali e singolari, nomi concreti e astratti, p. 144. - 5. Mill: nomi connotativi e non connotativi, p. 147. - 6. Mill: verità e natura delle proposizioni, p. 150. - 7. Mill: ogni inferenza è da particolari a particolari, p. 156. - 8. Ha­ milton: la nuova analitica delle forme logiche, p. 158. IV. GLI ALGEBRISTI INGLESI . pag. l. Woodhouse: la verità necessaria di conclusioni otte­ nute per mezzo di quantità immaginarie, p. 169. - 2. Woodhouse: metodo geometrico e metodo analitico, p. 172. - 3. Peacock: algebra astratta e algebra applicata, p. 174. - 4. Peacock: algebra aritmetica e algebra sim­ bolica, p. 176. - 5. Peacock: regole per l'addizione e la sottrazione nell'algebra simbolica, p. 180. - 6. Peacock: il principio della permanenza delle forme equivalenti, p. 182. - 7. Gregory: la natura dell'algebra simbolica, p. 184. - 8. De Morgan: la fondazione dell'algebra, p. 189. V.

LA NASCITA DELL'ALGEBRA DELLA pag. LOGICA l. De Morgan: forma e materia, p. 198. - 2 . De Morgan: la logica formale e le proposizioni del sillogismo, p. 200. - 3. De Morgan: la logica delle relazioni, p. 204 . - 4. Boole: logica e matematica, p. 208. - 5. Boole: i simboli elettivi e le leggi del calcolo, p. 212. 6. Boole: espressione e interpretazione di proposizioni, p. 216. - 7. Boole: le proposizioni ipotetiche, p. 2 17. - 8. Boole: l'espressione delle proposizioni ipotetiche, p. 22 1 . - 9. Boole: le condizioni di validità di un ragio­ namento espresso mediante simboli, p. 224. - 10. Boole: le funzioni logiche e il loro sviluppo, p. 229. - 1 1 . Boole: la legge generale dello sviluppo di una funzione, p. 233.

VI . GLI SVILUPPI DELL'INDIRIZZO ALGEBRICO pag. l. Jevons: la logica pura o logica della qualità, p. 243.2. Peirce: l'universo del discorso e le operazioni logiche, p. 248. - 3. Peirce: segni di addizione, di moltiplicazione, di involuzione, p. 250. - 4. Peirce: formule generali, p. 253 . - 5. Peirce: termini individuali e relazioni tra relativi, p. 256. - 6. Peirce: la logica dei relativi, p. 258. - 7. Peirce: la logica di «prima intenzione » concernente i relativi, p. 263 . - 8. Peirce: la logica dei termini non relativi, p. 267. - 9. Peirce: la natura del-

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l'implicazione, p. 270. - 10. Peirce: valori di verità e proposizioni, p. 273 . - 1 1 . Peirce: un'algebra di Boole con una costante, p. 275 . - 12. Schroder: calcolo con le classi e calcolo con le proposizioni, p. 276. - 13. Schri:ider: teoremi e dimostrazioni del calcolo logico, p. 280. - 14. Venn: i diagrammi, p. 290. - 15. Lewis Carroli: il paradosso del barbiere, p. 296. - 16. Mc Coli: la logica simbolica, p. 299. - 17. Mc Coli: im­ plicazione e classificazione « tripartita » delle asserzioni, p. 301 . VII. LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA pag. FORMALE . l. Bolzano: la proposizione in sé, p. 31 8. - 2. Bolzano: la nozione in sé, p. 320. - 3. Bolzano: consistenza, deri­ vabilità, equivalenza, p. 322. - 4. Bolzano: derivabilità e inferenza da più premesse, p. 325. - 5. Frege: scopo e natura dell'ideografia, p. 327. - 6. Frege: segno di contenuto e segno di giudizio, p. 330. - 7. Frege: la condizionalità e il segno di condizione, p. 332 . - 8. Frege: la deduzione, p. 335. - 9. Frege: la negazione, p. 336. - 10. Frege: eguaglianza di contenuto e concetto di funzione, p. 338. - 1 1 . Frege: la generalità, p. 342. 12. Frege: l'esistenza, p. 346. - 1 3 . Frege: esposizione e derivazione di alcuni giudizi del pensiero puro, p. 348 . - 14. Frege: senso e denotazione, p. 353 . - 15. Frege: valori di verità, p. 361 . - 16. Frege: enunciati attributivi ed enunciati subordinati, p. 365 . - 17. Russell: la scoperta dell'antinomia e la teoria dei tipi, p. 372 . 1 8 . Peano: i principi di geometria logicamente esposti, p. 378. - 19. Peano: logica e matematica, p. 381 . 20. Padoa: introduzione logica a una teoria deduttiva qualunque, p. 382.

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l. Dal sorgere della Scolastica fino agli ultimi anni del secolo XIX una forte discontinuità caratterizza lo sviluppo della logica. In questo arco di tempo si ha infatti la nascita e il consolidarsi di una grande tradi­ zione, il suo impoverirsi e sderotizzarsi, il suo mesco­ larsi con istanze e discipline estranee ( ontologia, psico­ logia, retorica); si ha infine il sorgere, dopo un lungo periodo di stasi, di una logica completamente diversa dalle forme precedenti. J. M. Bochenski ha descritto in maniera assai incisiva, considerandolo tipico dell'in­ tera logica, questo peculiare tipo di sviluppo: « La logica non dà prova di una continuità lineare di evo­ luzione. La sua storia assomiglia piuttosto a una linea spezzata. Partendo da inizi modesti essa si solleva di solito a una notevole altezza molto rapidamente..., ma il declino segue poi altrettanto veloce. I precedenti risultati sono dimenticati, i problemi non vengono più trovati interessanti, oppure la stessa possibilità di con­ tinuare lo studio è impedita da avvenimenti politici e culturali. Poi, dopo secoli, la ricerca ricomincia. Del vecchio patrimonio rimangono soltanto pochi fram­ menti: costruendo su di essi la logica risorge ... La "nuo­ va" logica ... non è una semplice estensione della vecchia; essa parte, per lo più, da presupposti e punti di vista diversi, si serve di una tecnica differente, e sviluppa aspetti della problematica che in precedenza avevano ricevuto scarsa attenzione. Essa è una forma di logica diversa da quella del passato». Dopo il tramonto della Scolastica, nell'interregno che si estende all'incirca dalla -

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seconda metà del secolo XVII alla pubblicazione di The Mathematical Analysis of Logic di George Boole (1 847 ) , si ha infatti un frequente affiorare di frammenti più o meno nitidi del vecchio patrimonio logico, senza però che attraverso di essi sia possibile ricostruire un percorso continuo che unisca la tradizione scolastica alla moderna logica matematica. Qualora nella ricostru­ zione storica si volesse privilegiare il momento della continuità, si verrebbe a occultare la natura medesima della genesi della nuova forma di logica. Inspiegabile, il pensiero di Boole o di Augustus De Morgan sorge­ rebbe improvviso, saldato alla tradizione lungo linee marginali : i possibili punti di sutura apparirebbero estrinseci riguardo alla struttura portante, e l'essenziale, cioè il riferimento alla matematica, rimarrebbe incom­ preso. La storia della logica da Leihniz a Frege offre quindi un panorama segnato nettamente dalla presenza di due linee di sviluppo distinte tra loro : da un lato si ha una logica che continua a muoversi entro una tradi­ zione dall'impianto ancora aristotelico-scolastico, dal­ l'altro si afferma una nuova forma di logica diversa dal­ la precedente per l'assunzione di presupposti, punti di vista e tecniche completamente mutati rispetto a quelli tradizionali, che però appare in qualche modo prefigu­ rata nelle opere di autori quali Leibniz, Lambert e Bolzano. Elemento discriminante di queste due linee (che, in certo senso, si intersecano negli autori appena menzionati) è un peculiare rapporto con la matematica. La possibilità stessa del sorgere e dello svilupparsi della nuova logica, in antitesi alla logica di imposta­ zione aristotelico-scolastica, risiede infatti nei progressi compiuti dalla matematica nel corso dell'Ottocento . 2. Recenti studi hanno dimostrato in modo con­ vincente la parzialità dell'opinione secondo la quale, -

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nell'ambito della cultura occidentale, con la fine del secolo XV sarebbe iniziato per la logica un periodo di sostanziale decadenza. Se infatti è vero che con la ri­ forma propugnata da Pierre de la Ramée ( 1 5 1 5- 1 572) e dai suoi seguaci la disciplina subisce una radicale sem­ plificazione, e se è vero inoltre che a tale semplifica­ zione si accompagna un accentuato interesse per la re­ torica, è d'altra parte altrettanto vero che lo studio della logica nei tre aspetti essenziali codificati dai testi della tradizione medievale - teoria delle consequentiae, teoria della suppositio, analisi dei paradossi e dei sofi­ smi non scompare mai completamente, soprattutto nelle scuole (collegi e università ). Per tutto il secolo XVI e gran parte del XVII , in Francia, Spagna, Italia e Germania, nei manuali di logica di autori quali Johan­ nes Major (morto nel 1 550), Domingo de Soto ( 1 4941563), Johann Heinrich Alsted ( 1 588- 1 638), Joachim Jungius ( 1 587-1 657), Agostino Nifo ( 1 470 circa- 1 540 circa) e Tommaso Campanella ( 1 568- 1 6 3 9 ) si può ve­ dere in modo chiarissimo come il legame con la tradi­ zione medievale e tardo-medievale non sia ancora ve­ nuto meno. Nel secolo XVII, soprattutto nella seconda metà, l'affermarsi di una forte tendenza eclettica pre­ lude a un progressivo indebolimento di tale legame; ma ciò non impedisce il sorgere di opere come la Logica di Giovanni di San Tomaso (Jean Poinsot, 1 589- 1644) , insegnante all'Università d i Alcala, estremamente ricca nel contenuto, vasta sintesi di concezioni logiche sco­ lastiche e tardo-scolastiche esposte e talvolta rielabo­ rate in maniera originale. Mantenere un legame con una tradizione non signi­ fica tuttavia soltanto riprodurla : nei testi di logica dei secoli XVI e XVII la teoria delle consequentiae o la trattazione dei sofismi raramente assumono l'estensione e il rigore che avrebbero avuto in qualche autore tardo­ medievale : anzi, si può dire in generale che la tratta-

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zione del sillogismo si viene imponendo sempre pm sulle altre parti della logica :fino a diventare, nel secolo XVIII, pressoché dominante. Lo stesso vale per la teoria della suppositio che, pur essendo ancora ben presente a Giovanni di San Tomaso, compare tuttavia in forma impoverita in molti autori dello stesso periodo . Negli anni compresi tra la seconda metà del Seicento e i primi del Settecento vengono prodotti ancora ma­ nuali legati alla tradizione scolastica e tardo-scolastica, si continuano a comporre e a ristampare commenti al­ l'Organon o a parti dell' Organon aristotelico, circolano compendi ancora ispirati alle celebri Summulae di Pie­ tro Ispano. Contemporaneamente, però, l'esigenza di ripensare la disciplina alla luce delle nuove concezioni della natura e del metodo della ricerca scientifica che si sono venute affermando tra Cinque e Seicento dà vita a opere come la Computatio sive Logica di Thomas Hobbes ( 1 655 ) e come la Logique ou l'art de penser di Antoine Arnauld e Pierre Nicole ( 1 622), nelle quali considerazioni psicologiche, epistemologiche e metodo­ logiche (soprattutto nella Logique) sopraffanno una trat­ tazione della logica di per sé assai lineare, ma già ridotta a teoria del sillogismo. Sia nelle opere più legate alla tradizione sia in quelle vicine al nuovo clima filosofico sembra però cessare l'apporto propriamente creativo, e le acquisizioni del precedente patrimonio logico sem­ brano quasi completamente dimenticate. Nel variegato panorama che offrono gli studi di logica negli ultimi anni del secolo XVII c'è spazio tuttavia per opere come la Logica demonstrativa di Giovanni Gerolamo Sac­ cheri ( 1 697), nella quale una serie di conoscenze deri­ vate dalla tradizione scolastica si salda in modo origi­ nale con una decisa assunzione del ragionamento geo­ metrico a modello di rigore logico . La concezione della logica che ne risulta è del tutto nuova rispetto alla tradizione: al pari di quanto avevano fatto Descartes

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e Pascal, anche Saccheri indica nella geometria l 'ideale della scienza della dimostrazione. La logica stessa deve ispirarsi nel suo procedere - si legge nella Logica demonstrativa - a « quel metodo severo che si limita appena a concedere dei principi primi, e che non am­ mette nulla di non chiaro, di poco evidente e di dub­ bio», che è tipico della geometria. L'autore però che, ottenendo risultati di gran lunga superiori a qualsiasi altro, riesce a saldare insieme in maniera geniale l'ideale matematizzante dell'epoca con suggestioni e risultati tratti dal patrimonio logico sco­ lastico e tardo-scolastico è indubbiamente Leibniz. L'at­ teggiamento conciliante della sua filosofia, tendente ad accordare tra loro finalismo e meccanicismo, vecchie forme di pensiero e nuove concezioni dell'uomo e della natura - probabilmente la lettura diretta dei maestri della Scolastica e della tarda Scolastica compiuta negli anni giovanili - spingeranno infatti Leibniz a stimare i logici del passato e a utilizzarne le dottrine. Questa utilizzazione appare però nettamente subordinata alla realizzazione di una forma di logica nuova, di carattere essenzialmente matematico. Con Leibniz. si ha per la prima volta il concepimento e la parziale realizzazione di un progetto che, fondandosi su •un legame organico tra logica e matematica, potrà essere realizzato piena· mente soltanto due secoli più tardi. 3. Dopo la morte di Leibniz, nel corso del Sette­ cento, Gesuiti e Domenicani continuano a comporre e ripubblicare manuali di logica di ispirazione aristote­ lico-scolastica; l'Art de penser di Arnauld e Nicole viene tradotta in varie lingue, e ha circa una ventina di riedizioni; Christian Wolff pubblica la propria logica ( 1 7 1 3) che, soprattutto nell'ambito della cultura tede­ sca, si appresta a divenire un diffusissimo manuale. Affidate a carte che soltanto ai primi del Novecento po-

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tranno (parzialmente) essere edite, le geniali intuizioni di Leibniz nel campo della logica rimarranno senza se­ guito immediato. L'idea di costruire un calcolo logico, una vera e propria « logica matematica », sarà perse­ guita da alcuni dei successori di Leibniz senza convin­ zione o senza un adeguato dominio degli strumenti logico-matematici; dai più verrà considerata un sem­ plice sogno. Nel panorama settecentesco Johann Hein­ rich Lambert sembra essere l'unico che, continuando con spirito leibniziano le proprie indagini, si sia stac­ cato nettamente, per vastità di concezioni e per la qua­ lità dei risultati ottenuti, dal resto dei suoi contem­ poranei. Gli altri (Leonard Euler, Georg Johann von Holland, Gottfried Ploucquet ecc. ), pur fornendo in­ teressanti contributi, o sono rimasti eccessivamente le­ gati a un'idea meramente quantitativa del calcolo logico oppure sono restati prigionieri di una concezione troppo ristretta delle funzioni e della natura stessa della lo­ gica. In generale, considerando la situazione della lo­ gica nel secolo XVIII, si ha l'impressione che, pur non mancando cultori della disciplina e singoli contributi originali, sia venuta meno l'esistenza di un terreno ca­ pace di utilizzare tali contdbuti e sostenerne lo svi­ luppo: i risultati più suggestivi rimangono episodici, irrelati tra loro. Cosi, per esempio, anche Condillac, al pari di Lambert, concepisce la logica come un cal­ colo, ma tale intuizione non è sorretta da un'idea ade­ guata della matematica, che è considerata ancora come semplice scienza della quantità : la logica diventa in tal modo un meccanico sommare o sottrarre tra loro idee e nozioni, e se tra algebra e logica vengono colte affinità, non si esce dal campo delle mere analogie. Agli inizi del nuovo secolo due scritti di Friedrich von Castillon, le Réflexions sur la logique ( 1 802 ) e Sur un nouvel algorithme logique ( 1 803), mostrano con evidenza come l'idea di una connessione tra logica

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e matematica non sia ancora scomparsa tra i cultori di logica; ma mostrano anche, con altrettanta evidenza, che si tratta di un'idea cui non tengono seguito risul­ tati di rilievo. Nonostante questi tentativi, la logica continua ad apparire alla maggior parte dei filosofi del primo quarto dell'Ottocento come una scienza che non progredisce, sia che si veda in ciò il segno di una com­ piutezza propria delle discipline vicine a uno stadio di perfezione (Kant ) sia che si interpreti tale assenza di progresso come un difetto (William Hamilton) . In Fran­ cia e Inghilterra la logica si configura come disciplina trascurata e malridotta; nel 1 8 1 7 Joseph Diez Gergonne, nell'Essai de dialectique rationnelle, si riferirà alla lo­ gica come a un argomento oramai perso di vista dai contemporanei; e alcuni anni dopo ( 1 83 3 ) William Ha­ milton inizierà nel modo seguente una celebre recen­ sione a una serie di trattati di logica : « nulla, ritengo, offre una prova più decisiva dello spirito contorto e parziale col quale in Inghilterra è stata coltivata la filo­ sofia nell'ultimo secolo e mezzo, del misto di perver­ sione e trascuratezza che la logica. . . ha sperimentato durante tale periodo » . In Germania indubbiamente l'interesse per la logica è più vivo, ma già comincia a indirizzarsi - rispetto alla tradizione della logica for­ male - verso argomenti periferici o addirittura anta­ gonistici : la logica trascendentale di origine kantiana da un lato, la logica dialettica dall'altro (i due volumi della Wissenschaft der Logik di Hegel compaiono tra il 1 8 1 2 e il 1 8 1 6 ). Proprio sul finire degli anni '20 si hanno tuttavia, soprattutto in Inghilterra, i primi segni di una ripresa degli studi logici. Lo stesso William Hamilton, che pur aveva giudicato tanto duramente, nella recensione del '3 3 , la situazione della logica in Gran Bretagna, regi­ strava con favore, nella medesima occasione, l'inizio di un positivo mutamento. Nel 1 826 Richard Whately

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aveva pubblicato a Londra un manuale dal titolo Ele­ ments of Logic, col preciso intento di ridare dignità all'insegnamento della logica. Di impianto tradizionale, l'opera aveva il grande merito di rivendicare con pas­ sione l'importanza degli studi logici e di esporre con chiarezza i fini e i limiti propri della disciplina. Alla pubblicazione degli Elements aveva fatto seguito ben presto quella di nuovi manuali e di commenti a vecchi testi di logica; tutto ciò aveva fornito materiale a Wil­ liam Hamilton per la sua dotta e lunga recensione. Indipendentemente dai modesti risultati raggiunti dal punto di vista strettamente logico-tecnico, l'opera di Whately dava in tal modo l'avvlo a una ripresa degli studi logici che subirà un vero e proprio salto qualita­ tivo negli anni '40 . Gli esiti più importanti di tale sviluppo sono la pubblicazione del System of Logic di John Stuart Mill, il sorgere della disputa sulla quanti­ ficazione del predicato tra William Hamilton e Augu­ stus De Morgan, la pubblicazione dei saggi di De Mor­ gan sul sillogismo e le relazioni, la comparsa dell'opera di George Boole. L'idea che stava alla base della cosiddetta « quanti­ ficazione del predicato » era quella di costruire sillo­ gismi e, più in generale, inferenze, utilizzando propo­ sizioni nelle quali fosse indicata esplicitamente non solo la quantità del soggetto (per esempio: « ogni uomo è animale » ), ma anche - contro l'esplicito insegnamento di Aristotele (De interpretatione 17 b 1 3- 1 6 ) - la quantità del predicato (per esempio: « ogni uomo è qualche animale » ). La disputa che, intorno al 1 846, era nata riguardo a quest'idea, era stata promossa da un'accusa di plagio che William Hamilton aveva rivolto a De Morgan : Hamilton, secondo la sua versione dei fatti, avrebbe suggerito a De Morgan l'idea della quan­ tificazione, e questi l'avrebbe utilizzata senza ricono­ scere il proprio debito. Nel corso della disputa, che

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ebbe toni accesi e non sempre equilibrati, l'accusa di Hamilton risultò infondata; per di più l'idea stessa della quantificazione risultò non cosl originale come Hamil­ ton sembrava ritenere. Di scarsa importanza da un punto di vista logico, la disputa ebbe tuttavia tra i suoi effetti quello di accendere ulteriormente l'interesse de­ gli ambienti filosofici inglesi intorno a questioni di logica ; ebbe inoltre il merito di spingere Boole - se­ condo quanto egli stesso affermerà - a riprendere, dopo che lo aveva abbandonato, lo studio della logica. Risultato della ripresa degli studi logici da parte di Boole fu The Mathematical Analysis of Logic ( 1 847 ); ma il rapporto che sussiste tra la genesi di quest'opera e la disputa sulla quantificazione del predicato è abba­ stanza estrinseco. Con The Mathematical Analysis si afferma infatti una nuova concezione della logica : al di fuori di altri importanti fattori, la disputa fu una delle cause (e forse tra le più importanti ) che spinsero Boole a dar forma compiuta al proprio pensiero, ma gli elementi costitutivi di tale pensiero non potevano essere ricavati né dall'idea banale della quantificazione del predicato né dalla controversia tra William Hamil­ ton e De Morgan. La pubblicazione degli Elements di Whately, la comparsa del System of Logic di Mill e di numerosi manuali, infine la disputa tra De Morgan e William Hamilton possono essere considerati, nel loro complesso, come una serie di fatti che hanno agito profondamente sulla nascita delle speculazioni booleane ; ma affinché queste ultime potessero trovare espressione erano necessarie altre condizioni che solo le peculiari vicende interne allo sviluppo della matematica in Gran Bretagna potevano offrire.

4. - Dopo il dissidio intercorso tra Leibniz e Newton riguardo al primato relativo all'invenzione del calcolo infìnitesimale, il deciso affermarsi in Inghilterra del

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partito newtoniano aveva comportato, nell'ambito del­ l'analisi, una rigida fedeltà a un tipo di notazione che sul continente era stata progressivamente abbandonata. Questa scelta aveva posto la matematica inglese, per tutto il Settecento, in una posizione di relativo isola­ mento. Ancora nei primi anni dell'Ottocento, infatti, mentre sul continente la notazione differenziale elabo­ rata da Leibniz era adottata con vantaggio da tutti i matematici, in Inghilterra era dominante la notazione newtoniana (detta « flussionale » ), assai meno agevole da maneggiarsi e strettamente connessa a un'interpre­ tazione del calcolo in termini fisici (cinematici). Ciò non aveva impedito, durante il secolo XVIII , il sorgere sul suolo inglese di matematici quali Brook Taylor ( 1 685- 1 73 1 ) e Colin Mac Laurin ( 1 698- 1 746 ), ma aveva certamente ostacolato una generalizzazione del calcolo e una sua estensione anche a usi che non si prestassero immediatamente a una rappresentazione « geometrico­ meccanica » . Proprio agli inizi dell'Ottocento, tuttavia, questa situazione mutò progressivamente, dapprima ad opera di singole personalità come il matematico Robert Woodhouse, e poi soprattutto grazie agli sforzi con­ giunti di un gruppo di matematici quali Charles Bab­ bage ( 1 792-1 87 1 ) , John Herschel ( 1 792- 1 87 1 ) , George Peacock, che nel 1 8 12 dettero vita a Cambridge alla Analytical Society. Mentre Woodhouse contribuì a mo­ dificare l'insegnamento della matematica a Cambridge, soprattutto col proprio testo di trigonometria elemen­ tare ( 1 809), che per la sua chiarezza ebbe numerose ristampe e notevole diffusione, la Analytical Society pose fin dall'inizio in maniera esplicita tra i propri as­ sunti programmatici quello di sostituire la vecchia no­ tazione flussionale newtoniana con quella leibniziana, allo scopo di dare l'avvìo a un aggiornamento della cul­ tura matematica inglese. In conformità con tali propo­ siti uno dei primissimi atti della Society fu la traduzione

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e la cura ( ad opera degli stessi membri fondatori, Bab­ bage, Herschel, Peacock) del Traité du calcul di/férentiel et du calcul intégral ( 1 79 9 ) del matematico francese Sylvester François Lacroix ( 1 763-1 843 ) In poco meno di un ventennio, nelle università inglesi la notazione differenziale sostitul progressivamente quella fl.ussionale, e intorno alla metà del secolo si poteva dire che tutti i matematici europei fossero tornati a parlare « una lingua comune » . Per l a matematica inglese non s i trattò d i assumere passivamente un nuovo linguaggio, una differente ma­ niera di esprimersi, più semplice ed efficace della pre­ cedente. In algebra - per esempio - la separazione dei procedimenti analitici da un necessario riferimento all'interpretazione « geometrico-meccanica » (separazio­ ne accettata per tradizione dai matematici del conti­ nente) pose il problema più generale del rapporto tra il calcolo e le sue interpretazioni. Ben presto venne avanzata l'idea di un calcolo in cui i simboli non rap­ presentassero alcun significato specifico; fu concepita cosl la possibilità di una struttura che, disponendo di simboli e di leggi di combinazione dei simboli, equi­ valesse a un'algebra « capace di divenire in seguito la grammatica di centinaia di algebre differenti, dotate di significati particolari » (De Morgan). L'attenzione dei matematici inglesi {Peacock, Gregory, De Morgan) si rivolse quindi essenzialmente allo studio delle opera­ zioni per mezzo delle quali il calcolo era eseguito, e ciò condusse a sua volta all'individuazione di proprietà fondamentali di tali operazioni ; queste proprietà ven­ nero infine concepite come applicabili anche a insiemi di elementi diversi dai numeri. In tal modo la mate­ matica cessò definitivamente di essere la mera scienza della quantità. Le proprietà caratteristiche della somma e del prodotto, per esempio (proprietà associativa e commutativa, proprietà distributiva della moltiplicazio.

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ne rispetto all'addizione), poterono essere considerate come postulati per una particolare struttura algebrica, e qualunque teorema venisse implicato formalmente da questi postulati poté essere considerato valido per qual­ siasi interpretazione in grado di soddisfare le suddette proprietà. Una stessa struttura algebrica si dimostrava pertanto suscettibile di una pluralità di interpretazioni. Nel 184 3 , inoltre, il matematico William Rowan Ha­ milton (1805-1865 ) creò un'algebra non commutativa - cioè un'algebra nella quale non valeva la proprietà commutativa della moltiplicazione. Si trattava di una scoperta rivoluzionaria che ebbe sull'algebra effetti ana­ loghi a quelli prodotti in campo geometrico dalla sco­ perta delle geometrie non euclidee. Come la geometria era rimasta fondamentalmente legata all'impostazione euclidea, finché Nicolai Ivanovitch Lobachevsky ( 179 31856) nel 1829 e Janos Bolyai (1802-1860) nel 1 832 non costruirono una geometria egualmente coerente nella quale veniva negato uno dei postulati euclidei, analogamente in algebra, per quasi tutta la prima metà dell'Ottocento, era pressoché inconcepibile l'esistenza di un'algebra radicalmente differente da quella aritme­ tica finché Rowan Hamilton non mise in crisi questa certezza. E come la scoperta di Lobachevsky e Bolyai aprl la strada alla concezione di una pluralità di nuove geometrie, intaccando definitivamente la convinzione che ne fosse possibile una sola, cosl la scoperta di Hamilton implicava l'esistenza di una pluralità di al­ gebre egualmente coerenti. In entrambi i casi, una maggiore « naturalità » o una pretesa vicinanza all'« e­ sperienza » cessarono di essere criteri anche solo indi­ cativi per l'accettazione di una data struttura teorica; ciò che contava ormai- indipendentemente dalla plau­ sibilità rispetto all'intuizione delle assunzioni che veni­ vano compiute - era l'intima coerenza della teoria e una sua rigorosa organizzazione logica. Come si può

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vedere, vi erano tutte le condizioni perché Boole po­ tesse dar vita a una vera e propria algebra della logica nella quale i simboli diversi dai simboli delle opera­ zioni indicassero determinate classi di oggetti, e i sim­ boli di operazione designassero operazioni tra le classi. Il sorgere della nuova logica si configura quindi come il risultato del saldarsi di più fattori in un ambiente estremamente favorevole alla fusione. Tra i più rile­ vanti di tali fattori vi furono- come abbiamo vistol'improvviso venir meno, parallelamente all'adozione del sistema notazionale leibniziano, della credenza in un'in­ terpretazione naturale fisica dei processi analitici ; il ti­ svegliarsi di un nuovo interesse per la logica con la pub­ blicazione, tra il 1 826 e il 1 845 , delle opere di Wha­ tely, William Hamilton, Mill; l'accendersi della disputa sulla quantificazione del predicato tra William Hamilton e De Morgan; la nascita dell'algebra astratta ad opera di Peacock, Gregory e De Morgan. Di non secondaria incidenza, nello stimolare il sorgere della nuova forma di logica, furono infine gli studi sulla natura dei numeri complessi e dei numeri negativi che, in virtù dell'ade­ sione alla tradizione di rigore formale cui si è accen­ nato, spinsero fin dai primi anni dell'Ottocento i ma­ tematici inglesi a rifiutare soluzioni di disinvolto pragma­ tismo, e a porsi problemi di coerenza logica delle ope­ razioni che con quei numeri erano eseguite. 5. Con De Morgan e Boole la logica entra in una fase completamente nuova. Semplificate e in parte mi­ gliorate da Jevons, le concezioni booleane vengono svi­ luppate in modo originale dal filosofo e scienziato ame­ ricano Charles Sanders Peirce, che nello stesso tempo fa compiere un progresso decisivo anche alla teoria delle relazioni elaborata da De Morgan. Grazie ai con­ tributi di Oscar Howard Mitchell ( 1 847-1 930) e Chri­ stine Ladd Franklin ( 1 847- 1 93 0 ), entrambi allievi di -

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Peirce, l'algebra della logica progredisce ulteriormente, e sul finire del secolo il matematico tedesco Ernst Schroder può raccogliere in una poderosa sintesi i prin­ cipali risultati ottenuti dalla metà dell'Ottocento in poi nell'ambito della disciplina. Caratteristico della nuova forma di logica è lo stretto rapporto con la matema­ tica: secondo Boole la logica « riposa, come la geome­ tria, sopra verità assiomatiche, e . . . i suoi teoremi sono costruiti su quella dottrina generale dei simboli che costituisce il fondamento dell'analisi istituzionale ». In questa prospettiva la matematica è un mezzo essenziale di indagine che offre la strumentazione adeguata, e so­ vente lo stesso apparato simbolico, cui ricorre il logico per rendere rigorosa e del tutto simile a un calcolo la propria analisi. Con siffatta matematizzazione della lo­ gica il sogno leibniziano si apprestava dunque a diven­ tare realtà. Perché il sogno potesse compiutamente realizzarsi occorreva tuttavia che nella disciplina si facesse valere una ferma esigenza di rigore, e che tale esigenza com­ portasse, come esito pratico, quello di dar vita a un sistema in cui le nozioni di generalità e di esistenza, di assioma e di regola, di deduzione e di dimostrazione logica venissero fissate in modo univoco, così da tro­ vare una disposizione e una sistemazione ben precisa le une rispetto alle altre. La realizzazione di questo compito, strettamente connesso tra l'altro alla coscienza di portare a termine proprio l'ambizioso progetto leibni­ ziano, è opera esclusiva di Gottlob Frege, indubbia­ mente il maggior logico dell'Ottocento. Dal primo ten­ tativo booleano felicemente realizzato ( sia pure viziato, in parte, da inadeguatezze e approssimazioni) si è ve­ nuto affermando, nella seconda metà del secolo scorso, un modo totalmente nuovo di fare logica che raggiunge il proprio culmine in Frege. Non si deve pensare tut­ tavia, neppure in questo caso, a una continuità di svi-

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luppo: in Boole e negli algebristi della logica è operante, al pari che in Frege, il desiderio di mantenere un rap­ porto stretto tra matematica e logica, ma la natura del rapporto si presenta assai diversa nei due casi. Per Boole, anche se alcuni inediti testimoniano della sua volontà di esprimere i risultati delle proprie ricerche nel linguaggio ordinario, non matematico, la logica è da considerarsi in definitiva un ramo della matematica applicata; per Frege la matematica ( l'aritmetica in par­ ticolare, e tutte le parti della matematica che si mo­ strino riducibili all'aritmetica) non è altro, in ultima analisi, che una struttura originata dallo sviluppo mediante definizioni e teoremi - da nozioni e assun­ zioni logiche fondamentali. Radicalmente diversi ap­ paiono inoltre gli ambienti culturali che hanno promosso da un lato la ricerca di tipo booleano, dall'altro l'in­ dagine di Frege. A ispirare le concezioni di Boole erano stati gli sviluppi dell'analisi e dell'algebra sul suolo inglese ; le indagini di Frege si connettono invece stret­ tamente al peculiare processo di « aritmetizzazione del­ l'analisi » che ha nel matematico tedesco Karl Weier­ strass ( 1 8 1 5 - 1 8 9 7 ) il proprio iniziatore, e che culmina nell'opera di Georg Cantor ( 1 845- 1 9 1 8 ) e Richard Dedekind ( 1 83 1 - 1 9 1 6 ). Concepito e realizzato nella seconda metà dell'Otto­ cento, il progetto di aritmetizzazione dell'analisi si con­ figura come il risultato dei progressi realizzati per quasi due secoli dall'analisi matematica, e degli sforzi com­ piuti per chiarirne i concetti fondamentali. Per tutto il secolo XVIII, infatti, agli straordinari sviluppi cui era stata sottoposta l'analisi dopo le scoperte di Newton e Leibniz non aveva fatto seguito una corrispondente definizione dei principali concetti impiegati nei proce­ dimenti analitici. Mentre il calcolo e l'estensione di determinati procedimenti erano compiuti facendo ricorso in gran parte all'intuizione, divergenze si erano mani-

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festate tra i matematici circa la nozione medesima di funzione. Altre nozioni strettamente legate a quella di funzione avevano contorni incerti, e nella metà del se­ colo Jean-Le-Rond D'Alembert ( 1 7 1 7- 1 783 ), appellan­ dosi a una esigenza di ordine e di chiarezza, auspicava la costruzione di una teoria generale dei limiti. Nel 1 797, con la pubblicazione della Théorie des functions

analytiques contenant !es principes du calcul différentiel

di Joseph Louis Lagrange ( 1 736- 1 8 1 3 ) , si aveva tut­ tavia un primo tentativo di rigorizzare il calcolo e di sistemare organicamente i principi dell'analisi. Ben lungi dal comportare risultati definitivi, l'opera di Lagrange si distingueva per il duplice merito di cercare di con­ nettere gli sviluppi e la « sovrastruttura » dell'analisi matematica con gli oscuri fondamenti dai quali questa aveva preso le mosse, e di far valere una generale esi­ genza di chiarezza relativamente a tali fondamenti . Agli inizi dell'Ottocento il decisivo affermarsi, nel­ l'ambito degli studi matematici, di un più elevato livello di rigore, e il consolidarsi di un atteggiamento di diffidenza nei confronti del ricorso all'intuizione con­ dizionano in modo decisivo l'indagine relativa ai con­ cetti fondamentali dell'analisi. Palese testimonianza del diffondersi di questo atteggiamento sono le opere del matematico tedesco Karl Friedrich Gauss ( 1 777- 1 855 ), del norvegese Niels Henrik Abel (1 802- 1 829) e del francese Augustin-Louis Cauchy ( 1 789- 1 857) il quale, nel 1 82 1 , tenta di elaborare una teoria generale dei limiti e di definire quindi, sulla base della nozione di limite, i numeri irrazionali e una serie di altri concetti. Da un lato, però, la costruzione di Cauchy si fonda su una nozione intuitiva del sistema dei numeri reali, dal­ l'altro proprio la mancanza di un'accurata indagine di tale sistema fa sl che in relazione al concetto stesso di limite si insinui un vizio di circolarità. Come osser­ verà in seguito Weierstrass, Cauchy aveva fatto ricorso

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alla nozione di limite per definire il concetto di numero irrazionale, senza però rendersi conto che, a sua volta, la nozione di limite presuppone logicamente proprio quel concetto. Nella seconda metà dell'Ottocento, a circa trent'anni dalla pubblicazione del Cours d'analyse di Cauchy, sarà lo stesso Weierstrass ad avviare - muo­ vendo dai risultati del matematico francese - un pro­ gramma di rigorizzazione dell'analisi. Da un punto di vista teorico generale Weierstrass era fermamente convinto che se da un lato, per penetrare nella matematica, si rendeva necessario occuparsi di problemi ben delimitati, dall'altro l'obiettivo finale che il matematico doveva tenere sempre presente era quello di raggiungere un giudizio valido riguardo ai fonda­ menti medesimi della scienza. Già nel 1 859, allorché presso l'Università di Berlino inizia le sue letture sulla teoria delle funzioni, Weierstrass sottolinea con parti­ colare forza la distinzione fra momento della scoperta e momento della giustificazione. Al ricercatore in quan­ to tale - afferma Weierstrass in questa circostanza è consentito battere qualsiasi via; ma quando è in gioco la giustificazione razionale dei risultati ottenuti, allora si deve percorrere l'unica strada della fondazione siste­ matica della teoria. Si deve procedere cioè per via pu­ ramente logica alla costruzione dell'intera struttura teo­ rica considerata, muovendo da un ristretto numero di concetti accettati come primitivi. Sulla base di que­ st' assunzione programmatica il progetto di Weierstrass viene perciò ad acquistare una fisionomia ben precisa. Rifacendosi all'opera di Cauchy, Weierstrass ne mette in rilievo il vizio di circolarità a cui si è accennato, libera definitivamente l'introduzione dei numeri irra­ zionali da qualsiasi riferimento esplicito o implicito alla geometria, e definisce i numeri irrazionali come aggregati di numeri razionali. L'indagine relativa ai fondamenti dell'analisi si configura quindi come la fase

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conclusiva di un processo di rigorizzazione e struttura­ zione del sistema dei numeri che era stato avviato tra la fine del Settecento e i primi dell'Ottocento con l'in­ terpretazione geometrica dei numeri complessi, e che aveva raggiunto un primo traguardo nel 184 3 con la riconduzione dei numeri complessi ai reali ad opera di Rowan Hamilton. Con la riconduzione della teoria dei numeri reali a quella dei razionali (e quindi, implicita­ mente, a quella dei naturali) operata simultaneamente da Cantor e Dedekind nel1872, il programma di aritme­ tizzazione dell'analisi può considerarsi realizzato. Il trat­ tamento sistematico della teoria delle funzioni aveva indotto Weierstrass a svolgere un approfondito esame della struttura dei numeri reali : sulla traccia indicata da Weierstrass, e soprattutto appellandosi alla mede­ sima esigenza di rigore logico che animava quest'ul­ timo, Cantor e Dedekind avevano elaborato una fonda­ zione teorica definitiva dei numeri reali, mostrando come il progetto di costruire la matematica sulla base di alcune nozioni fondamentali dell'aritmetica potesse effettivamente realizzarsi . Soltanto facendo riferimento a questo peculiare svi­ luppo della matematica le concezioni logiche di Frege possono ricevere una luce adeguata e divenire compren­ sibili nella loro genesi. Inserendosi nel processo di rigo­ rizzazione della matematica avviato da Weierstrass, Frege concepisce a sua volta un programma di ridu­ zione ancor più radicale: definire i concetti dell'aritme­ tica in termini meramente logici, e ricondurre quindi le proposizioni aritmetiche a un certo numero di as­ siomi o proposizioni primitive della logica, facendo uso di determinate regole di inferenza. L'immagine della matematica che impronta tale concezione è quella di un edificio avente per base l'aritmetica. Nella misura in cui le parti « superiori » della costruzione possono venir ricondotte al loro fondamento, una volta che

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quest'ultimo si sia mostrato « risolubile» in assiomi e definizioni logiche, risulta facile mostrare come l'in­ tera matematica - ad eccezione della geometria, che per Frege (come per Kant) è il dominio dei giudizi sintetici a priori non sia altro che logica applicata. Come momento preliminare, indispensabile per l'attua­ zione di tale progetto, Frege indica la costruzione di uno strumento linguistico che consenta di esprimere in una notazione non equivoca le varie fasi della con­ cettualizzazione e della dimostrazione matematica. Il modello che egli tiene presente è il linguaggio artificiale cercato da Leibniz, l'ars characteristica universalis della quale però contesta in parte la pretesa universalistica. Limitando infatti il proprio compito alla costruzione di un linguaggio artificiale per la matematica, Frege riconduce a un ambito ristretto la soluzione del pro­ blema sollevato da Leibniz; nello stesso tempo non manca tuttavia di rilevare il carattere centrale, « di confine», della matematica rispetto ai domini partico­ lari delle altre scienze, e di auspicare, proprio sulla base della « centralità» che assumerebbe un linguaggio arti­ ficiale per la matematica, un superamento delle lacune che dividono tra loro i linguaggi artificiali delle rima­ nenti discipline. Con il suo primo scritto di logica, -

Begriffsschrift. Eine der arithmetischen nachgebildete Formalsprache des reinen Denkens (1879 ) , Frege trac­

cia le linee fondamentali di tale linguaggio, costruendo sulla base di una notazione simbolica chiara, anche se piuttosto astrusa, un sistema formale rigoroso, com­ posto essenzialmente da una serie di proposizioni che vengono assunte come primitive (assiomi), e da regole per derivare nuove proposizioni da quelle primitive. Nonostante che a proposito della comparsa della Begriffsschrift si possa parlare propriamente di una « seconda fondazione », dopo quella booleana, della logica simbolica, l'opera di Frege fu accolta iniziai-

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mente da una generale indifferenza. La Begri/Jsschrift ottenne una recensione negativa da parte di Schroder e, in generale, ebbe da parte di logici e matematici un'accoglienza che non rendeva in alcun modo giustizia all'importanza dei risultati in essa acquisiti. Ciò fu dovuto in parte al peculiare simbolismo adottato da Frege, assai diverso da quello in uso nella tradizione booleana, e di non agevole lettura. La causa principale di tale accoglienza è da ricercarsi tuttavia in una man­ cata comprensione degli scopi stessi che avevano spinto Frege a elaborare quel nuovo tipo di notazione.

6. Data l'accoglienza avuta dalla Begriffsschrift nell'ambiente scientifico tedesco, Frege pubblicò nel 1884 una ricerca logico-matematica sui fondamenti del­ l'aritmetica, dal titolo Die Grundlagen der Arithmetik. Nell'ambito della produzione fregeana Die Grundlagen der Arithmetik occupano una posizione intermedia tra la Begriffsschrift e i più tardi Grundgesetze der Arith­ metik pubblicati in due volumi, rispettivamente nel 1893 e nel 1903 . Così come la Begriffsschrift aveva il compito di definire il linguaggio simbolico e le strut­ ture formali della dimostrazione, Die Grundlagen der Arithmetik dovevano offrire una disamina accurata del concetto di numero e un'esposizione sommaria delle concezioni di Frege relative all'aritmetica. Nonostante che Die Grundlagen der Arithmetik contribuissero in modo notevole a rendere comprensibile la prospettiva generale del programma fregeano e gettassero luce sui motivi che avevano determinato la costruzione del lin­ guaggio simbolico esposto nella Begriffsschrift, logici e matematici continuarono a mostrare scarso interesse per tale opera. Nei nove anni successivi alla pubblicazione di Die Grundlagen der Arithmetik (1884), Frege si dedica ad approfondire questioni di notevole rilevanza filosofica -

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circa il rapporto tra senso e significato delle espressioni linguistiche e circa le relazioni intercorrenti tra concetto e rappresentazione da un lato, tra concetto e oggetto dall'altro. Nello stesso tempo egli procede a integrare i risultati acquisiti sulla base di queste riflessioni nel contesto della trattazione sistematica dei Grundgesetze der Arithmetik. I Grundgesetze devono essere perciò considerati come l'espressione più organica delle conce­ zioni logico-filosofiche di Frege. In essi Frege si pro­ pone di esporre e dimostrare nel suo linguaggio sim­ bolico le proposizioni fondamentali sulle quali si basa l'aritmetica, rendendo così esplicito e articolando det­ tagliatamente l'ambizioso programma di « logicizzazione della matematica ». Nel primo libro dei Grundgesetze Frege indica nel modo seguente i tratti essenziali del metodo scientifico rigoroso che ha cercato di realizzare per la matematica: tutte le proposizioni alle quali si ricorre senza che vengano dimostrate devono essere enunciate espressamente come acquisite senza prova, al fine di lasciar bene intendere su che cosa si fonda l'intero edificio; il numero di tali proposizioni dev'es­ sere quindi ristretto quanto più possibile, cercando di dimostrare tutto ciò che è dimostrabile; inoltre devono essere indicati esplicitamente tutti i modi di deduzione e di inferenza che verranno applicati. Nelle dimostra­ zioni matematiche non dovranno cioè comparire proce­ dimenti che si svolgono secondo leggi logiche non am­ messe o che si affidano all'intuizione. Qualora ci si attenga rigorosamente a questo metodo, una volta che i procedimenti dimostrativi della matematica siano stati scomposti in passaggi logici elementari, si potrà accer­ tare con sicurezza che a fondamento della matematica non vi è altro che la logica. 7.

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Anche il primo volume dei Grundgesetze der al pari delle precedenti opere di Frege,

Arithmetik,

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ebbe al suo apparire un'accoglienza assai fredda; tra le pochissime reazioni positive è da segnalare tuttavia quella del matematico italiano Giuseppe Peano che, nel quinto numero della « Rivista di matematica » del 1 895, ne fece una recensione giudicata dallo stesso Frege « dettagliata e benevola ». A indirizzare l'atten­ zione del matematico italiano sull'opera di Frege era stata una sostanziale affinità di interessi : all'incirca nello stesso periodo in cui Frege si applicava alla rea­ lizzazione del proprio programma di « logicizzazione dell'aritmetica », Peano si dedicava in Italia a un'ana­ loga ristrutturazione dell'intero edificio della matema­ tica sulla base di rigorose definizioni e di un saldo con­ trollo delle dimostrazioni. Messo da parte ogni riferi­ mento all'intuizione quale mezzo di prova o strumento essenziale per introdurre enti matematici come numeri, punti ecc. , Peano ritiene che tutte le entità fondamen­ tali di una teoria matematica debbano essere introdotte nella teoria o per esplicita assunzione o per definizione. Di conseguenza nessuna validità dev'essere riconosciuta all'accettazione di assiomi sulla base della loro auto­ evidenza: nella dimostrazione matematica l'unica giusti­ ficazione degli assiomi può consistere soltanto nel loro esser postulati. Dagli assiomi e dalle definizioni di par­ tenza i teoremi debbono quindi esser derivati per mezzo della sola logica. Nella prospettiva indicata da questo programma una qualunque teoria matematica deve ri­ solversi in un certo numero di idee e proposizioni pri­ mitive (proposizioni contenenti idee primitive) che ven­ gono designate con simboli . Ogni derivazione di nuove proposizioni deve quindi essere compiuta o dall'insieme delle proposizioni assunte come primitive o da altre proposizioni a loro volta derivate dalle proposizioni pri­ mitive. A differenza di Frege, Peano lascia indetermi­ nata la natura delle proposizioni primitive che per lo più considera come assunzioni aventi contenuto gene-

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ricamente matematico : benché cerchi di imporre alla matematica una rigorosa struttura logica, non cerca di ricondurre sistematicamente la matematica a un fonda­ mento meramente logico. Ausilio indispensabile per la realizzazione del pro­ gramma delineato da Peano era , anche in questo caso, la costruzione di un linguaggio capace di consentire un'adeguata formalizzazione di definizioni e postulati , e di rendere completo il controllo delle dimostrazioni. La costruzione di tale linguaggio, assai più manegge­ vole e perspicuo di quello fregeano, è uno dei meriti principali di Peano e della sua scuola. Nel matematico italiano si riscontra tuttavia un'insistenza senz'altro eccessiva sull'aspetto simbolico-notazionale a scapito del­ la dimensione più propriamente formale dei procedi­ menti logici. Una spia di tale atteggiamento è proprio la recensione a Frege nella quale, rivendicando giusta­ mente la superiorità del proprio sistema notazionale rispetto a quello impiegato da Frege, egli cerca di ap­ poggiarsi a tale superiorità per sostenere ( a torto però questa volta ) una maggiore « profondità » del proprio sistema logico rispetto a quello ideato da Frege. Da un punto di vista storico la scuola di Peano co­ stitul un importante momento di transizione tra la logica ottocentesca ( soprattutto l'algebra della logica ) e i nuovi metodi che si affermarono dopo il primo de­ cennio del Novecento con la pubblicazione dei Principia Mathematica. Sottovalutata in Italia, la scuola di Peano godé di prestigio all'estero, e nel luglio del 1900 suoi rappresentanti - tra i quali lo stesso Peano - furono invitati al Congresso internazionale di filosofia che si tenne a Parigi in occasione della celebre Esposizione. Al Congresso partecipava anche il giovane matematico Bertrand Russell, le cui ricerche nel campo della logica e della matematica subirono dall'incontro con Peano un impulso decisivo. Pur conoscendo già Peano per

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averne lette alcune opere, Russell restò colpito dalla precisione e dal rigoroso modo di procedere di cui il matematico italiano e i suoi allievi dettero prova nelle discussioni del Congresso. Di ritorno in Inghilterra con le opere di Peano, Russell si applicò al loro studio e scopri che Peano, in un consapevole intento di chiari­ ficazione, aveva spinto il rigore dell'analisi logica « al­ l'indietro », fin nei fondamenti della matematica, in regioni che fino ad allora erano state abbandonate alla « vaghezza della filosofia ». Impossessatosi rapidamente del simbolismo e del metodo peaniano, già nel settem­ bre del1900 Russell li aveva estesi alla trattazione della logica delle relazioni, e appena un mese dopo si dedi­ cava alla prima stesura di un'opera di grossa mole sui principi della matematica. In quest'opera, che dopo una serie di rielaborazioni e integrazioni verrà pubblicata nel 1903 col titolo di The Principles of Mathematics, Russell si proponeva essenzialmente due obiettivi : l ) di­ mostrare che tutta la matematica procede dalla logica, 2 ) scoprire quali sono i principi stessi della logica. Dall'ottobre del 1900 al maggio 1902 Russell si de­ dicò alla composizione dei Principles applicandosi, oltre che allo studio degli scritti di Peano e dei suoi colla­ boratori, all 'esame dell'opera di Frege. Dal giugno del 190 l l'interesse di Russell aveva tuttavia cominciato a concentrarsi essenzialmente su una questione speci­ fica relativa alla teoria delle classi che sembrava avere conseguenze inquietanti non solo per il programma di logicizzazione della matematica, ma anche per la stabi­ lità stessa dell'intera matematica. Rifacendosi a uno schema argomentativo che nel 1890 aveva condotto Cantor a individuare una singolare proprietà degli in­ siemi (dato un insieme S, il numero dei sotto-insiemi di S è sempre maggiore del numero dei suoi elementi) , Russell era pervenuto a sua volta a individuare una contraddizione relativa alla nozione di « classe di clas-

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si » . Quando nel 1 902 Russell informò Frege della sua sconcertante scoperta - l'antinomia era facilmente ri­ producibile all'interno della Begriffsschrift Frege vide messa in pericolo la possibilità di una fondazione logica dell'aritmetica in generale. Prima della scoperta di Russell sembrava infatti che analoghe antinomie per esempio quella vista da Burali-Forti nel 18 97 non dovessero incidere sull'insieme dell'edificio mate­ matico in virtù di una loro più o meno presunta dislo­ cazione « periferica » ; Russell invece rivelava adesso un'antinomia all'interno della logica pura : veniva cosl ad aprirsi la possibilità che nuovi paradossi e contrad­ dizioni si insinuassero nella teoria matematica me­ diante il ricorso a quelli che potevano apparire " evi­ denti " principi logici . The Principles of Mathematics e il secondo volume dei Grundgesetze der Arithmetik di Frege compaiono entrambi nello stesso anno, nel 1903. I Grundgesetze si concludono con un'appendice nella quale Frege, ren­ dendo conto dell'antinomia comunicatagli da Russell, propone una soluzione per ovviare agli inconvenienti che la scoperta russelliana produce sul suo sistema. Con­ cludendo le proprie riflessioni, Frege accenna a « due problemi fondamentali dell'aritmetica » : come pensia­ mo gli oggetti logici, in particolare i numeri ? per quale ragione siamo autorizzati a riconoscere i numeri come oggetti ? Pur ritenendosi lontano dall'aver dato esau­ riente risposta a tali domande, Frege si dichiara con­ vinto di esser riuscito a indicare la strada giusta per rispondervi . Da parte sua Russell conclude Th e Princi­ ples of Mathematics con due appendici : una prima nella quale fornisce una esposizione sistematica delle conce­ zioni fondamentali di Frege, e una seconda nella quale cerca di indicare un metodo per risolvere i problemi sollevati dall'antinomia relativa alle classi. Le vicende della logica dell'Ottocento trovano quindi il loro punto -

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INTRODUZIONE

di arrivo nella poderosa opera fregeana, nell'antinomia messa in luce da Russell e nei primi tentativi per supe­ rarla proposti da Frege medesimo e da Russell. Ciò che in Th e Principles of Mathematics appare come una sem­ plice proposta di soluzione (un abbozzo della cosiddetta « teoria dei tipi » ) , verrà sviluppato in seguito da Rus­ sell e da Alfred North Whitehead (1 861-194 7 ) nei Principia Mathematica (1910-13 ) . E proprio con que­ st'opera inizia per la logica una nuova fase di sviluppo .

AVVERTENZA

Nella prima sezione sono stati utilizzati i seguenti testi : E. Bodemann, Die Leibniz-Handschriften der Koniglichen Of­ fentlichen Bibliothek zu Hannover, Hahn, 1 895, pp. 80-8 1 ; G. W. Leibniz, Die philosophischen Schriften (a cura di C. I . Gerhardt) , Berlin, Weidmann, 1 875- 1890, ristampa anastatica Hildesheim, Olms, 1 965, vol VII, pp. 200, 204-06, 223-25, 236-42 , 244-46 ; Opuscules et fragments inédits de Leibniz (a cura di L. Couturat) , Paris, Alcan, 1 903 , ristampa anastatica Hildesheim , Olms, 1 96 1 , pp. 49-5 1 , 53-55 , 26 1 , 287 , 402-403 ; G. W. Leibniz, Fragmente zur Logik (a cura di F. Schmidt) , Berlin, Akademie - Verlag, 1 960, p. 475 ; G. G. Saccheri, Logica demonstrativa, Augustae Taurinorum, ex Typis loannis B. Zap­ patae, 1 697, pp. 3 9 , 6 1 -62 , 68-69, 7 1 , 98, 1 1 3 , 1 30- 1 3 3 , 1 64 ; Jacob e Johann Bernoulli, Parallelismus ratiocinii logici et alge­ braici, in Jacob Bernoulli, Opera, Genevae, Sumptibus Haere­ dum Cramcr et Fratrum Philibert, 1744, vol . I , pp . 2 1 3 - 1 8 ; Ch. Wolfl, Philosophia naturalis, sive Logica, methodo scienti­ fica pertractata, Veronae, ex Typographia Dionysii Ramanzini, 1 7 3 5 , vol . I, pp . 20, 27, 88-90, 1 1 2 , 175, 2 1 8- 1 9 , 234-3 5 . Nella seconda sezione sono stati utilizzati i seguenti testi : G. Ploucquet, Metbodtts tam demonstrandi directe omnes syllo­ gismorum species, quam vitia formae detegendi, in Sammlung der Schriften, welche den logischen Calcul Herrn Pro/. Plouc­ quets betreffen, mit neuen Zuslitzen (a cura di A. F. Bock ) , Frankfu r t und Leipzig, 1 766, ristampa a cura d i A . Menne, Stu ttgart und Bad-Cannstatt, Frommann Verlag, 1970, pp . 1822 ; G . Ploucquet , Extracta e fundamentis philosophiae specu­ lativae, in Sammlung cit . , pp. 3-4 ; ]. H. Lambert, Philosophi­ scbe Schriften (a cura di H. W. Arndt) , Hildesheim, Olms , 1 967, vol . VI / l , pp . 3-6, 9-1 1 , 1 8 - 1 9 , 27 ; l ette ra di G. J. von Holland a Lambert del 9 aprile 1765, in J . H. Lambert, Philo­ sophische Schriften cit ., vol . IX/ l , pp. 1 7-20 ; I . Kant, La falsa sottigliezza delle quattro fig u re sillogistiche (trad . it. a cura di .

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C. Mangione) , in « Rivista critica di storia della filosofia » , XX, 1 965, pp . 486-88 ; E. Kant, Critica della ragion pura (a cura di P. Chiodi) , Torino, U.T.E.T. , pp. 39-4 0 ; L. Euler, Lettere a una principessa tedesca (a cura di G. Cantelli) , Torino, Boringhieri, 1 95 8 , pp . 348-55 ; ]. D. Gergonne, Essai de dialectique ration­ nelle, in « Annales de Mathématiques pures et appliquées » , VII, 1 8 1 6- 1 7 , pp . 192, 1 93-94 , 1 95-200, 209- 1 4 . Nella terza sezione sono stati utilizzati i seguenti testi : R. Whately, Elements of Logic, London, Longman - Green ­ Longman - Roberts and Green, 1864, pp . 1-2, 1 1- 1 3 ; J. S. Mill, A System of Logic, Ratiocinative and Inductive, in Collected Works, Toronto - London, University of Toronto Press, Rout­ ledge and Kegan, 1 9 7 3 , vol. VII , pp . 1 2- 1 4 , 28-36, 90-92 , 97-98, 177-7 8 , 1 86-87 ; W . Hamilton, Extract from Prospectus of « Essay towards a New Analytic of Logica! Forms », in Lectu­ res on Methaphysics and Logic (a cura di H. L. Mansel e J . Veitch) , Edinburgh and London, W . Blackwood and Sons, 1866, vol . IV, pp . 251-54 . Nella quarta sezione sono stati utilizzati i seguenti testi : R. Woodhouse, On the Necessary Truth of Certain Conclusions Obtained by Means of Imaginary Quantities, in « Philosophical Transactions of the Royal Society » , XCI, 1 80 1 , pp . 89-9 3 , 1 06-8 , 1 1 8 ; R. Woodhouse, On the Independence of the Analytical and Geometrica! Methods of Investigation , in « Philosophical Transactions of the Royal Society », XCII , 1 802, pp . 1 1 9-22 ; G. Peacock, Report on the Recent Progress and Present State of Certain Branches of Analysis, in « Report of the Third Meeting of the British Association for the Advancement of Science held at Cambridge, 1 833 », London, 1834, pp . 1 8 5 , 1 86-8 7 , 1 88-89 ; G . Peacock, A Treatise on Algebra, London, 1 842, vol . l, pp . IV, VI-VIII ; vol . I l , pp . 2, 6-7 , 9, 59-60, 6 1 , 448-49 ; D . F . Gregory, O n the Rea! Nature o f Symbolical Al­ gebra, in « Transactions of the Royal Society of Edinburgh » , XIV, 1 839, pp . 208-9, 2 1 1 - 1 2 ; D . F. Gregory, Examples o f the Processes of the Differential and Integra! Calculus, Cambridge, W. Walton, 1 846, p. 237 ; A. De Morgan, On the Foundation of Algebra, in « Transactions of the Cambridge Philosophical Society », V I I , 1 84 1 , pp . 1 7 3-76 . Nella quinta sezione sono stati utilizzati i seguenti testi : A. De Morgan, Logic, in On the Syllogism and Other Logica! Writings (a cura di P. Heath ) , London, Routledge and Kegan, 1966, pp . 247-4 9 ; A. De Morgan, Syllabus of a Proposed System of Logic, in On the Syllogism cit ., pp. 1 53-54, 1 8 0 , 1 56-59, 1 6 1 -62 , 1 8 1 -82, 220-2 3 , 226-27, 241 ; G . Boole, L'ana-

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lisi matematica della logica (a cura di M. Trinchero) , Milano, Silva, 1 965, pp . 5 1-58 , 75-77, 78-8 1 , 86-89, 143-153 ; G. Boole, Indagine sulle leggi del pensiero (a cura di M. Trinchero) , Torino, Einaudi, 1 976, pp . 1 00-09, 1 1 0-1 1 , 1 1 4-1 5 . Nella sesta sezione sono stati utilizzati i seguenti testi : W. S. Jevons, Pure Logic, in Pure Logic and Other Minor Works, London, Mac Millan, 1 890, pp. 1 6- 1 9 , 24-25, 30-33, 34-35, 38-3 9 ; C . S . Peirce, Description of a Notation for the Logic of Relatives, Resulting from an Amplification of the Con­ ception of Boole's Calculus of Logic, in Collected Papers (a cura di C. Hartshorne e P. Weiss) , Cambridge (Mass . ) , Harvard Uni­ versity Press, 1930, vol . I I I , pp . 3 5 , 3 8 , 45, 47-48, 55-57, 59-6 1 ; C. S. Peirce, Tbe Logic of Relatives, in Collected Papers cit. , vol. I I I, p p . 1 96-98, 206-8 ; C. S. Peirce, O n the Algebra o f Lo­ gic. A Contribution to the Philosophy of Notation, in Collected Papers cit., vol. I I I , pp. 2 1 9-22, 224, 226-3 1 ; C. S. Peirce, On the Algebra of Logic, in Collected Papers cit., vol. I I I , pp. 12528, 130, 1 3 3-35 ; C. S. Peirce, A Boolian Algebra with One Constant, in Collected Papers cit ., vol. IV, pp. 1 3 - 1 4 ; E. Schro­ der, Der Operationskreis des Logikkalkulus, Leipzig, Teubner, 1 877, ristampa anastatica Darmstadt, Wissenschaftliche Buchge­ sellschaft, 1 966, pp . 1 -4 ; E. Schroder, Vorlesungen uber die Algebra der Logik, Leipzig, Teubner, 1 890, ristampa anastatica New York, Chelsea Publishing Company, 1966, vol. I, pp. 15759, 1 65-67, 1 68- 72, 1 84-88 , 190, 199, 202, 254-55, 259-60, 263, 270-7 1 , 280, 302, 305, 352 ; ]. Venn, Symbolic Logic, London, MacMillan, 1 894, ristampa anastatica New York, Chel­ sea Publishing Company, 1 97 1 , pp . 1 1 3 - 1 7 ; Ch. L. Dodgson (L. Carroll) , A Logica! Paradox, in « Mind », Xl, 1 894, pp. 43638; H . Mc Coli, Cymbolical Reasoning, I, in « Mind » , V, 1 880, pp. 49-53 ; H. Mc Coli, Symbolical Reasoning, I I , in « Mind » , VI , 1 897, p . 492, 494-99. Nella settima sezione sono stati utilizzati i seguenti testi : B . Bolzano, Wissenschaftslehre. Versuch einer ausfuhrlichen und grossentheils neuen Darstellung der Logik mit steter Rucksicht auf deren bisherige Bearbeiter, Sulzbach, Seidel, 1 837, vol. I , p p . 76-78, 2 1 6- 1 7 , e vol. I I , pp. 1 1 3-14, 1 3 3 , 198-200, 394-9 7 ; G . Frege, Begriffsschrift. Bine der arithmetischen nachgebildete Formelssprache des reinen Denkens, in Begriffsschrift und an­ dere Aufsiitze, Hildesheim, Olms, 1 97 1 , pp . XI-XIII, 1-4, 5-1 1 , 1 3-24, 25-2 7 , 35, 43-44, 47, 50-5 1 ; G . Frege, Senso e denota­ zione ( trad. it . di S. Zecchi) , in La struttura logica del linguag­ gio , Milano, Bompiani, 1 973 , pp . 9-20, 23-24, 28-32 ; B. Rus­ sell, Lettera a Frege ( 1 902) , in From Frege to Godet, A Source

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Book in Matbematical Logic, 1 879-1 93 1 (a cura di J. van Hei­ jenoort) , Cambridge (Mass . ) , Harvard University Press, 1977, pp. 124-25 ; B . Russell, I principi della matematica (a cura di L. Geymonat), Milano, Longanesi, 1980, pp. 7 1 3- 1 6 , 7 1 7 ; G. Peano, I principi di geometria logicamente esposti, in G. Peano, Opere scelte, Roma, Edizioni Cremonese, 1 958, vol. I I , pp. 6 1 , 77-78, 80-8 1 ; A . Padoa, Essai d'une théorie algébrique des nombres entiers, précédé d'une introduction logique à une theo­ rie déductive quelconque, in « Bibliothèque du Congrès Inter­ national de Philosophie, Paris, 1 900 », Paris , A. Colin, 1 90 1 , vol . III, pp. 309-24 .

NOTA BIBLIOGRAFICA

Per un orientamento generale relativo agli autori e ai temi presentati in questo volume si vedano : W. C. Kneale e M. Kneale, Storia della logica (trad . it. di A . Conte) , Torino, Einaudi, 1972 ; ]. M. Bochenski, La logica formale (trad. it. di A. Conte) , Torino, Einaudi, 1972, vol. I I ; N. ]. Stjazkin, Storia della logica (trad. it. di R. Cordeschi) , Roma, Editori Riuniti, 1 980 ; A. N. Prior, Formal Lovic, Oxford University Press, 1 955 ; C. I. Lewis, A Survey of Symbolic Logic, New York, Dover, 1 960 ; H. Scholz, Breve storia della logica (trad . it. di E. Me­ landri) , Milano, Silva, 1967 ; W. Risse, Die Logik der Neuzeit, Stuttgart und Bad-Cannstatt, Fromm:mn Verlag, 1 964-80, voli. I-I I I . Si vedano inoltre: F. Barone, Logica formale e logica tra­ scendentale, vol. I : Da Leibniz a Kant, e vol. I I : L'algebra del­ la logica, Torino, Edizioni di « Filosofia )> , 1957- 65, nonché i capitoli di C. Mangione sulla storia della logica da Leibniz a Russell, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scien­ tifico , Milano, Garzanti, 1 970-76, vol . I I I , pp. 155-203 , vol . IV, pp. 140-209, vol. V, pp. 92- 1 6 1 e 755-83 1 . La letteratura sulla logica leibniziana è assai ampia ; i prin­ cipali studi complessivi sono i seguenti : L. Couturat, La logique de Leibniz, d'après des documents inédits, Paris, 1 90 1 , ristampa anastatica Hildesheim, Olms, 1 969 ; P. P. Wiener, Notes on Leibniz's Conception of Logic a1zd its Historical Co11text, in « The Philosophical Review )> , XLVII, 1939, pp . 567-68 ; N . Rescher, Leibniz's Interpretation of His Logica! Calculi, in « Journal of Symbolic Logic )> , XIX, 1 954 , pp . 1- 1 3 ; R. Kauppi, Ober die Leibnizsche Logik. Mit besonderer Berucksichtigung des Problems der Intension und der Extension, in « Acta Philo­ sophica Fennica )>, vol. XII, Helsinki, 1 960 ; G. H. Parkinson, Introduzione a G. W. Leibniz, Logica! Pa p ers, Oxford, Claren­ don Press, 1966, pp. IX-Lxv ; K. Diirr, Die mathematische Logik von Leibniz, in « Studia Philosophica )> , VII, 1974, pp. 871 02 ; H. Burkhardt, Logik und Semiotik in der Philosophie von

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Leibniz, Miinchen, Philosophia Verlag, 1980. Per lo studio dei concetti modali in Leibniz è tuttora insostituibile H. Poser, Zur Theorie der Modalbegriffe bei G. W. Leibniz, Wiesbaden, F. Steiner Verlag, 1969. Per un'analisi dei problemi connessi alle modalità e alla intensionalità nella logica leibniziana, si vedano : H. Ishiguro, Leibniz's Philosophy of Logic and Language, Lon­ don, Duckworth, 1972 ; B. Mates, Leibniz on Possible Worlds, e M. D. Wilson, On Leibniz's Explication of « Necessary Truth » , entrambi in Leibniz. A Collection of Critica! Essays (a cura di H. G. Frankfurt ) , New York, Anchor Books, 1972, pp. 335-36 e 4 0 1 - 1 9 , nonché la raccolta di studi di vari autori Die inten­ sionale Logik bei Leibniz und in der Gegenwart, « Studia Leibni­ tiana », Sonderheft 8, 1979. Sulla logica demonstrativa di G . Saccheri si vedano : G . Vai­ lati, Di un'opera dimenticata del P. Gerolamo Saccheri, recen­ temente ristampata in G. Vailati, Metodo e ricerca, Lanciano, R. Carabba, 1976, pp . 1 97-207 ; A. F. Emch, The Logica demon­ strativa of Girolamo Saccheri, in « Scripta Mathematica », 1935, pp . 5 1 -60, 1 43-52 , 22 1-33 ; I. Angelelli, On Saccheri's Use of consequentia mirabilis, in Proceedings of the Second Leibniz Congress, Hannover, 1972, pp. 1 9-25 ; C. F.A. Hoorman jr., A Further Examination o/ Saccheri's Use of « consequentia mi­ rabilis », in « Notre Dame Journal of Formai Logic », XVI I , 1976, pp . 239-4 7 . S u Jacob e Johann Bernoulli s i veda F. Ba­ rone, Logica formale e logica trascendentale cit ., vol . I, pp . 6 1 2 2 , 1 04-120. Gli studi sulla storia della logica tra Settecento e Ottocento non sono molto numerosi ; anche su autori interessanti come Lambert la bibliografia appare piuttosto limitata. Per ciò che concerne le concezioni logiche di Ploucquet e Lambert si veda soprattutto F. Barone, Logica formale e logica trascendentale cit ., vol . I, pp . 65-75, 77-95 . Su Euler si veda I . Thomas, Eule­ rian Syllogistic, in « Journal of Symbolic Logic » , XXII, 1957, pp. 1 5- 1 6 , nonché i riferimenti a Euler e Venn contenuti in C. K. Davemport, The Role of Graphical Methods in the His­ tory of Logic, in « Methodos », IV, 1952, p. 145-64. Sulla costruzione logica di Gergonne è tuttora fondamentale J. A . Faris, The Gergonne Relations, i n « The Journal o f Symbolic Logic », XX, 1 955, pp. 207-3 1 . Per un inquadramento della kantiana Falsa sottigliezza si veda l 'Introduzione di C. Man­ gione a I . Kant, La falsa sottigliezza delle quattro figure sillo­ gistiche ( 1 762) , in « Rivista critica di storia della filosofia » , xx, 1 965, pp . 48 1-86. Su Hamilton, la rinascita della logica in Inghilterra e la di-

NOTA BIBLIOGRAFICA

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sputa con De Morgan sulla « quantificazione del predicato » si veda W. Bednarowski, Hamilton's Quantification of the Predi­ cate, in « Proceedings of the Aristotelian Society, LVI , 1 956, pp . 2 1 7-40 ; D . Buzzetti, La teoria della quantificazione del pre­ dicato e la rinascita della logica, in « Rivista di filosofia » , LXIV, 1973, pp. 295-3 3 7 ; L. M . Laita, Influences on Boole's Logic: The Controversy between William Hamilton and Augustus De Morgan, in « Annals of Science », XXXVI, 1979, pp . 45-65 . Ma si vedano anche l'Introduzione di M. Trinchero a G. Boole, Indagine sulle leggi del pensiero, Torino, Einaudi, 1 976, e A. N . Prior, Forma! Logic cit., pp . 1 48-56 . Per un'analisi d i alcuni aspetti centrali delle teorie logiche di J. S. Mill si vedano infine l ' Introduzione di R. F. Mc Rae a J. S. Mill, A System of Logic, Ratiocinative and Inductive, in J. S. Mill, Collected Works, To­ ronto and London, University of Toronto Press, 1 9 7 3 , vol . VII , e D. Buzzetti, Sulla teoria della connotazione in ]. S. Mill, in « Rivista di filosofia » , LVII , 1976, pp . 265-88. Su W. Rowan Hamilton e la sua influenza sugli sviluppi della matematica inglese, si veda soprattutto la raccolta di studi di vari autori A Collection of Papers in Memory of Sir William Rowan Hamilton, in « The Scripta Mathematica Studies », II, New York, 1 9 4 5 . Sui rapporti tra sviluppo della logica e di­ scussioni relative alla natura dei numeri immaginari e com­ plessi si veda G. Loria, L'enigma dei numeri immaginari attra­ verso i secoli, in « Scientia », vol . XXI , 1 9 1 7 , pp. 1 0 1 -2 1 . Infor­ mazioni relative alla vita e all'opera di D. F. Gregory si trovano in R. Leslie Ellis, Memoir of the Late D. F. Gregory, in « The Cambridge Mathematical Journal », IV, 1 844, pp . 145-52 . Per i rapporti tra Boole e l'ambiente matematico inglese si veda L. M. Laita, Tbe Influence of Boole's Search for a Universal Method in Analysis on the Creation of bis Logic, in « Annals of Science » , XXXIV, 1 97 7 , pp. 1 36-76. Un quadro storico assai accurato dello sviluppo delle conce­ zioni logiche di De Morgan è offerto dall'Introduzione di P. Heath a A . De Morgan, On the Syllogism and Other Logica! Writings, New Haven, Yale University Press, 1 966 . Su Boole si veda : J. Venn, Boole's Logica! System, in « Mind », l , 1 876, pp. 478-9 1 ; W. Kneale, Boole and the Revival of Logic, in « Mind », LVII , 1948, pp . 1 49-75 ; A. N. Prior, Categoricals and Hypotheticals in George Boole and His Successors, in « An­ nals of Science », VII I , 1952, pp. 6 1 -8 1 ; si vedano inoltre le Introduzioni di M. Trinchero all'Analisi matematica della logica, Milano, Silva, 1 965, e all'Indagine sulle leggi del pensiero. Per un quadro d'insieme sulla logica nella seconda metà

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NOTA BIBLIOGRAFICA

dell'Ottocento si vedano J. Jorgensen, Einige Hauptpunkte der Entwicklung der formalen Logik seit Boole, in « Erkenntnis » , V, 1 935-36, pp . 1 3 1-42 ; E . Beth, Hundred Years of Symbolic Logic: A Retrospect on the Occasion of the Boole-De Morgan Centenary, in « Dialectica », I , 1947, pp. 3 3 1-46 ; P. Freguglia, L'algebra della logica. Un profilo storico, Roma, Editori Riu­ niti , 1978. Su Jevons si veda W. Mays e D. P. Henry, Jevons and Logic, in « Mind », LXI I , 1953 , pp. 484-505 . Sulla logica di Peirce si vedano A. N. Prior, Peirce's Axioms for Proposi­ tional Calculus, in « Journal of Symbolic Logic », XXII , 1958, pp . 1 35-36, e P . Thibaud, La logique de Charles Sanders Peirce, De l'algèbre au graphes, Editions de l'Université de Provence, 1 97 5. Su Schroder la bibliografia è scarsissima ; per un raggua­ glio sulla sua vita e sulle sue opere si veda J. Liiroth, Nekrolog auf Ernst Schroder, in « Jahresbericht der Deutschen Mathema­ tischer Vereinigung », XI I , 1 903, pp . 249-65 , e inoltre A . Church, Schroders Anticipation o f the Simple Theory o f Types, in « Erkenntnis », IX, 1939, pp . 149-52 . Su Venn e i diagrammi si veda T. More, On the Construction of Venn Diagramms, in « Journal of Symbolic Logic », XXIV 1 959, pp . 303-4 . Per un'esauriente illustrazione dello sviluppo delle teorie logiche di Ch . Dogdson si veda l'Introduzione di W. W. Bartley III a Lewis Carroll's Symbolic Logic, Hassocks, Harvester Press , 1 977 . Su Dodgson e sul paradosso dei tre barbieri si vedano anche : R. B . Braithwaite, Lewis Carroll as Logician, in « The Mathematical Gazette » , 1932, pp . 1 74-7 8 ; A. W. Burks e I . M. Copi , Lewis Carroll's Barber Shop Paradox, in « Mind » , LIX, 1 950, pp. 2 1 9-22 ; A . G . Baker, Incompatible Hypotheticals and the Barber Shop Paradox, in « Mind », LXIV, 1 955, pp . 384-87 . La bibliografia su Mc Coli è piuttosto esigua ; si vedano tuttavia N. Rescher, The Concept of Non-existent Possi­ bles, in Essays in Philosophical Analysis, Pittsburg, University of Pittsburg Press, 1 964, pp. 9 1 -94 ; G. Pareti e A. De Palma, Fallacie e paradossi. Vicende di storia della logica tra Ottocento e Novecento , in « Rivista di filosofia », XIV, 1 979, pp. 1 98-235 . Notevoli motivi di interesse mantiene la recensione di B. Rus­ sell alla Symbolic Logic and Its Applications , in « Mind », XXX, 1 906, pp . 255-260 . ,

La migliore opera di insieme sulla logica di Bolzano è J. Berg, Bolzano's Logic, Stokholm-Goteborg-Uppsala, Amquist and Wicksell, 1962 ; ma si vedano anche H. Scholz, Die Wissen­ schaftslehre Bolzanos, in Abhandlungcn des Fries'schen Schu­ le », VI, 1937, pp. 399-472 ; Y. Bar-Hillel, Bolzano's Definition of Analytic Propositions, in « Methodos �> , I I , 1 90, pp . 32-55 ;

NOTA BIBLIOGRAFICA

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Y. Bar-Hillel, Bolzano's Propositional Logic, in « Archiv fii r ma­ thematische Logik und Grundlagenforschung », I, 1952, pp. 659 8 ; ]. Danek, Les pro;ets de Leibniz et de Bolzano: deux sottr­ ces de !a logique contemporaine, Les Presses de l'Université Lavai, Québec, 1975 ; ]. Berg, Bolzano's Contribution to Logic and Philosophy of Mathematics, in Logic Colloquium '76, Am­ sterdam, North Holland Pubi. Co. , 1977, pp. 1 47-7 1 . La biblio­ grafia su Frege è assai vasta : per un quadro generale delle conce­ zioni di Frege relative alla logica e al linguaggio si veda M. Dum­ mett, Frege. Philosophy of Language, London, Duckworth, 1 973 . Si vedano inoltre : E. R. Wells, Frege's Ontology, in « Review of Metaphysics », IV, 1 95 1 , pp. 537-7 3 ; W. Marshall, Frege's Theory of Functions and Ob;ects, in « The Philosophical Re­ view » , LXII , 1953, pp . 374-390 ; W. V. O. Quine, On Frege's Way Out, in « Mind », LXIV, 1955, pp . 1 45-59 ; M. Dummett, Frege on Functions, in « The Philosophical Review » , LXV, 1956, pp. 229-3 0 ; M. Dummett, Frege's 'The Thought', in « Mind », LXVI, 1957, p. 548 ; G. Bergmann, Frege's Hildden Nominalism, in « The Philosophical Review », LXVII, 1958, pp . 437-59 ; P. Nidditch, Peano and the Recognition of Frege, in « Mind », LXX I I , 1963, pp . 1 03- 1 0 ; E. R. Wells, Is Frege's Concept of Function Valid? , in « Journal of Philosophy », LX, 1 963 , pp. 7 1 7-30 . Molti dei saggi finora menzionati, insieme ad altri parimenti significativi, sono raccolti negli Essays on Frege (a cura di E . D . Klemke) , Chicago and London, Univer­ sity of Illinois Press, 1968. Si vedano inoltre l'Introduzione di C. Mangione a G. Frege, Logica e aritmetica, Torino, Borin­ ghieri, 1 965 , e l'Introduzione di M. Furth a G. Frege, The Ba­ sic Laws of Arithmetics, Berkeley and Los Angeles, University of California Press , 1 964 , nonché D. Beli, Ft·ege's Theory of Judgement, Oxford, Clarendon Prees, 1979 . Su Peano si ve­ dano : L. Couturat, La logique mathématique de M. Peano , in « Revue de métaphysique et de morale », VII, 1 899, pp. 6 1 646 ; P. E. B. Jourdain, Giuseppe Peano, in « The Journal of Pure and Applied Mathematics », XLI I I , 1 9 1 2 , pp. 270-3 1 4 ; U . Cassina, L'ceuvre philosophique d e Giuseppe Peano, i n « Re­ vue de métaphysique et de morale » , XL, 1 9 3 3 , pp. 4 8 1 -9 1 ; la raccolta di studi In memoria di Giuseppe Peano (a cura di A. Terracini) , Cuneo, Editrice Liceo Scientifico Statale, 1 955 ; e infine Peano. Life and Works of Giuseppe Peano (a cura di H. Kennedy) , Dordrecht, Holland, D. Reidel Publishing Co. , 1980.

I/ LOGICA E MATEMATICA DA LEIBNIZ A WOLFF

In Gottfried Wilhelm Leibniz ( 1 646-1 7 1 6 ) una serie di temi tipici della cultura filosofica del secolo XVII - la ricerca di un metodo universale per le scienze, l'aspirazione a costruire un linguaggio che potesse imporsi a tutti i popoli mettendo fine alla « Babele delle lingue », l'esigenza di com­ porre un'enciclopedia « totale » delle conoscenze umane pervengono a una sintesi che dà luogo a un'idea di calcolo logico assai affine a quella cui giungerà la logica nella se­ conda metà dell'Ottocento. Il calcolo logico, com'è concepito da Leibniz, si situa all'interno di un più vasto progetto per la realizzazione di un'arte caratteristca universale (ars characteristica univer­ salis ) che avrebbe dovuto comporsi di un insieme di simboli e di regole per manovrare con i simboli, in modo da dare vita a una lingua artificiale. Dell'ars characteristica avreb­ bero dovuto far parte un alfabeto dei simboli primitivi, de­ signante certi concetti assunti come semplici, e un deter­ minato numero di regole indicanti il modo di effettuare i passaggi dai simboli semplici ai complessi e le inferenze da asserzioni espresse con determinati simboli ad altre asser­ zioni espresse da combinazioni differenti dei medesimi sim­ boli. Nelle intenzioni di Leibniz la realizzazione di questo progetto avrebbe comportato : l ) l'invenzione di una sorta di alfabeto dei pensieri umani ( la scelta di caratteri o sim­ boli adatti a esprimere concetti e proposizioni); 2 ) la costru­ zione di un repertorio enciclopedico di tutte le principali conoscenze e delle invenzioni di rilievo compiute nei vari campi scientifici; 3 ) la realizzazione di una grammatica razio­ nale capace di individuare, attraverso lo studio dei linguaggi naturali, le strutture grammaticali comuni alle varie lingue; 4 ) la fondazione di una scienza generale costituita da regole metodologiche sia per sistemare concetti e asserzioni all'in­ terno delle singole scienze, sia per combinarli tra loro in

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

maniera produttiva di nuovo sapere. Lo studio dei proce­ dimenti combinatori (calcolo combinatorio) e delle varie regole logiche di inferenza ( il « calcolo logico » in senso proprio ) erano quindi parte essenziale di questo progetto. Dell'ambizioso progetto leibniziano a noi resta una serie piuttosto nutrita di scritti, i più interessanti dei quali hanno per argomento la grammatica razionale e il calcolo logico propriamente detto. In essi Leibniz, accantonato provviso­ riamente il problema della scelta dei « caratteri », da un lato si dà a studiare la grammatica della lingua latina, pro­ ponendo principi per la trasformazione e la standardizza­ zione delle strutture grammaticali, dall'altro elabora regole di inferenza per procedere da una proposizione a un'altra, cercando di costruire dei sistemi logico-deduttivi coerenti nei quali si possa operare con concetti e proposizioni qua­ lunque. Pur dedicando parte delle proprie indagini all'esame della logica sillogistica, Leibniz considera il sillogismo sol­ tanto come uno tra i possibili strumenti logici con cui si svolge il ragionamento deduttivo. Il sillogismo - afferma nei Nouveaux essais - è un ragionamento che conclude in virtù della propria forma, e come tale è subordinato a prin­ cipi logici generali ai quali sono riconducibili i calcoli mate­ matici e algebrici, e in generale tutti gli argomenti la cui struttura formale abbia fatto prova della propria validità. Di particolare interesse sono le riflessioni leibniziane rela­ tive alla nozione di identità : tali riflessioni sono tra l'altro uno dei pochissimi aspetti della logica leibniziana che furono presenti ai logici del secondo Ottocento (per esempio a Frege) . Utilizzando la propria conoscenza dei logici sco­ lastici e tardo-scolastici, Leibniz sviluppa una serie di considerazioni relative all'identità che lo portano a distin­ guere l'identità virtuale o coincidenza ( quando due termini diversi indicano il medesimo oggetto, per esempio : A = B ) dall 'identità reale ( quando due espressioni identiche indi­ cano il medesimo oggetto, per esempio : A = A ). Egli enuncia inoltre il celebre principio di sostitutività salva veritate di termini identici o coincidenti, e individua de­ terminati contesti che ne invalidano l'applicazione e che oggi sono noti come « contesti intensionali ». Sempre sulla base di indicazioni ricavate dagli scolastici Leibniz consi-

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dera tali contesti prodotti dall'effetto di termini come « in quanto » , « per ciò stesso » ecc., che nella tradizione me­ dievale, rifacentesi però ad Aristotele, venivano chiamati « termini reduplicativi » (e « reduplicative » erano dette perciò le proposizioni nelle quali comparivano ). Ancor più che in Leibniz il peso della tradizione scolastica appare con evidenza nel gesuita Giuseppe Gerolamo Sacche­ ti ( 1 66 7- 1 7 3 3 ) , autore del celebre Euclides ab amni naevo vindicatus ( 1733 ) nel quale, pur senza esserne consapevole, precorre l'invenzione delle geometrie non euclidee. Oltre all'Euclides Saccheri compose nel 1 697 un'opera intitolata Logica demonstrativa, sulla quale Giuseppe Vailati richiamò nel 1 903 l'attenzione degli studiosi. La Logica, che ebbe almeno altre tre edizioni oltre quella del 1697, è una tipica testimonianza del modo in cui la grande tradizione scola­ stica e tardo-scolastica, pur subendo da parte dei logici del secolo XVII una semplificazione e una « riduzione », ha dato vita nello stesso tempo a prospettive nuove e originali. Se infatti Saccheri si riallaccia alla tradizione medievale ( soprattutto con la definizione di « conseguenza » e con le regole logiche concernenti le « conseguenze » e gli opera­ tori logici « e » e « o » ), in pari tempo se ne distacca allor­ ché, fin dalle primissime pagine della Logica, propone quale modello di rigore per la dimostrazione logica la geometria e il metodo argomentativo dei geometri. E d'altra parte è proprio l'assunzione di questo modello che porta Saccheri a elaborare la particolare tecnica dimostrativa che descrive e impiega nel nono capitolo della prima parte della Logica, e la cui applicazione sistematica è uno dei principali ele­ menti di novità del libro. Dato il notevole interesse che il procedimento impiegato da Saccheri riveste, e la diffi­ coltà che comporta un'adeguata comprensione di esso, non sarà superfluo illustrarne per sommi capi la struttura. Nella sillogistica tradizionale, com'è noto, un sillogismo di prima figura è un sillogismo che ha la forma seguente :

dunque

tutti gli M sono P tutti gli S sono M

( premessa maggiore) (premessa minore)

------

tutti gli S sono P

(conclusione)

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

ove le lettere S, M, P stanno rispettivamente per « sog­ getto », « termine medio », « predicato ». Lo schema sta a significare che il soggetto e il predicato della conclusione sono a loro volta soggetto nella premessa minore e predi­ cato nella premessa maggiore, mentre il termine medio si limita appunto a mediare il passaggio dalle due premesse alla conclusione e quindi non compare in quest'ultima. Se si considerano la qualità e la quantità di ciascuna propo­ sizione ( vale a dire ·Se essa è affermativa o negativa, e se è universale o particolare) si possono determinare per la prima figura, in rapporto a certe regole del sillogismo ( come ad esempio « da premesse negative non segue nulla » , « il termine medio deve essere distribuito una sola volta » ecc . ) quattro tipi di sillogismi validi che l e appartengono. Nella sillogistica tradizionale questi quattro tipi, chiamati più propriamente modi, vengono solitamente designati come segue:

M a P, M e P, M a P, M e P,

S a M, S a P, S a M, S e P, S i M, S i P, S i M, S o P,

ove le vocali a e i (le prime due di affirmo ) indicano rispet­ tivamente una proposizione universale affirmativa e una particolare affermativa ; le vocali e e o ( le due di nego ) indi­ cano invece una proposizione universale negativa e una particolare negativa. Solitamente il primo modo del nostro schema veniva designato col nome di 'Barbara' le cui vocali sono appunto tutte a (proposizioni universali affermative ); un esempio di sillogismo in 'Barbara' è : « tutti gli uomini sono mortali; tutti i Greci sono uomini; dunque tutti i Greci sono mortali ». Pertanto un sillogismo valido della prima figura deve avere una struttura identica ad almeno uno dei modi indicati dallo schema. Ora, ciò che Saccheri vuoi dimostrare è che nessun sillogismo avente premessa minore negativa può concludere nella prima figura. Per fare ciò egli costruisce un sillogismo siffatto: (premessa maggiore )

ogni sillogismo avente la premessa maggiore universale e la minore

LOGICA E MATEMATICA DA LEIBNIZ A WOLFF

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affermativa, conclude nella prima figura; (premessa minore )

nessun sillogismo con le due pre­ messe ae ha la maggiore universale e la minore affermativa ;

( conclusione )

dunque ogni sillogismo ae non con­ clude nella prima figura.

Si considerino le due espressioni « sillogismo ae » e « con­ clude nella prima figura » della conclusione come rispettiva­ mente soggetto ( 5 ) e predicato (P). È facile constatare allora che nello schema di Saccheri ( qualora si consideri come termine medio l'espressione : « avente premessa mag­ giore universale e minore affermativa » ), le due premesse hanno i tre termini S, M, P disposti secondo l'ordine ri­ chiesto dalla prima figura. Ovviamente, però, il modo del sillogismo elaborato da Saccheri non corrisponde a nessuno dei quattro modi validi elencati nello schema tradizionale ; esso ha forma aee. Saccheri dunque, per dimostrare che un sillogismo ae non conclude nella prima figura, costruisce un sillogismo in forma ae le cui premesse sono disposte nella prima figura, e la cui conclusione afferma appunto che ogni sillogismo ae non conclude nella prima figura; per cui, se si accetta la conclusività del sillogismo ( nella prima figura), la sua conclusione ne nega la conclusività; mentre se d'altro lato, dopo averne concesse le premesse, si nega la conclusione ( e si afferma perciò che qualche sillogismo ae conclude nella prima figura), se ne nega egualmente la conclusività. Per il buon esito della dimostrazione è neces­ sario che vengano concesse le due premesse; ma la prima è già stata dimostrata da Saccheri in altro luogo, e la seconda risulta evidente dalla considerazione dei termini che la compongono. Occorre notare tuttavia, com'è stato giusta­ mente osservato, che nella dimostrazione di Saccheri non viene assunta propriamente come una premessa esplicita la negazione della tesi da dimostrare; Saccheri cioè non as­ sume esplicitamente come premessa l'asserzione secondo la quale ogni ( o qualche) sillogismo con premessa minore negativa conclude nella prima figura. Egli compie piut-

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

tosto implicitamente tale assunzione, utilizzando un sillo­ gismo in forma ae come regola di inferenza in base alla quale deriva la negazione dell'assunzione medesima. Per quanto concerne le origini storiche di questo metodo dimostrativo, che fa uso di quella che diverrà poi nota come consequentia mirabilis ( se la negazione di una pro­ posizione inferisce la proposizione stessa , allora si passa ad affermare la proposizione stessa), si può osservare che Saccheri ne indica una fonte nel commento del matematico Christophorus Clavius ( 1 537-1 6 1 2 ) al testo degli Elementi di Euclide. Saccheri attribuirà sempre grande importanza a tale metodo, e ancora nell'Euclides si richiamerà ad esso facendo riferimento proprio alla particolare teorizzazione che ne aveva fornito nella Logica demonstrativa. Se Saccheri vede nella dimostrazione geometrica un mo­ dello di rigore al quale la logica deve ispirarsi, i fratelli Jacob ( 1 654- 1 705 ) e Johann Bernoulli ( 1 667- 1 748), pur sforzandosi di cogliere parallelismi e analogie tra il modo di procedere del ragionamento logico e del ragionamento algebrico, non si propongono invece nessun tipo di inte­ grazione tra questi due metodi . Con atteggiamento di chiara ispirazione cartesiana essi si limitano a rilevare i punti di contatto tra le operazioni logiche e le operazioni che si usano in algebra, per concludere a favore di una maggiore potenza e complessità del ragionamento algebrico rispetto a quello logico. Mentre Leibniz aveva ricondotto algebra e sillogistica sotto il dominio di principi logici comuni, i Bernoulli identificano praticamente la logica con la teoria del sillogismo e distinguono tra loro ragionamento logico e ragionamento algebrico, scorgendo in quest'ultimo uno strumento privilegiato del metodo scientifico. In direzione esattamente opposta rispetto all'atteggia­ mento cartesiano dei Bernoulli, Christian Wolff ( 1 679- 1 754) giunge progressivamente a vedere nel sillogismo la forma fondamentale di ogni ragionamento dimostrativo. Nono­ stante che avesse avuto modo di conoscere i logici scola­ stici, e nonostante che per diversi anni fosse stato in cor­ rispondenza epistolare con Leibniz, Wolff procede a una semplificazione del patrimonio logico tradizionale. Ridotta la logica a teoria del sillogismo, essa diventa una sorta di

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metodologia generale del ragionamento scientifico a cui si mescolano considerazioni tratte dall'ontologia e dalla psi­ cologia. Benché il Wolff maturò riconosca nella matematica la maniera naturale di pensare, tale considerazione non verrà mai accompagnata da un'adeguata riflessione sui pro­ cedimenti della dimostrazione matematica capace di vivifi­ care la logica.

l . Leibniz : l'arte caratteristica e i suoi scopi.

Carattere chiamo una nota visibile che rappresenta i pensieri. L'arte caratteristica è l'arte di formare e ordinare i caratteri in modo che facciano riferimento ai pensieri, ovvero in modo tale che abbiano tra loro quella stessa relazione che hanno tra loro i pensieri. Un'espressione è un aggregato di caratteri rappresen­ tanti la cosa che è espressa. Questa è la legge dell'e­ spressione : che l'espressione della cosa si componga dei caratteri di quelle cose delle cui idee si compone l'idea della cosa da esprimere. (E. Bodemann, Die Leibniz-Handschriften,

pp.

80-81 )

Ma per tornare all'espressione dei pensieri mediante caratteri, è mia opinione che le controversie non fini­ ranno mai e che non si potrà imporre il silenzio alle sette se non passiamo dai ragionamenti complicati a calcoli semplici, e da vocaboli di incerto e vago signi­ ficato a caratteri determinati. Bisogna cioè fare in modo che ogni paralogismo non sia altro che un errore di calcolo e che un sofisma, espresso in questo genere di nuova scrittura, non sia in realtà nient'altro che un solecismo o barbarismo facilmente ricostruibile dalle leggi stesse di questa grammatica filosofica.

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

E non appena ciò sia stato realizzato, allorché sor­ geranno controversie, non sarà necessaria una disputa tra due filosofi più di quanto lo sia tra due persone che fanno calcoli. Basterà infatti prendere in mano la penna, sedersi a una tavola per fare calcoli e dirsi l'un l'altro ( in presenza, se si è d'accordo, di un amico) :

calcoliamo !

(Die philosophiscben Scbriften, vol. VII, p . 200)

Ogni ragionamento umano si attua mediante certi segni o caratteri. Non soltanto le cose stesse, infatti, ma anche le idee delle cose non possono né devono esser sempre osservate dall'animo in modo distinto, e quindi, per ragioni di brevità, si impieghino dei segni in luogo di esse . . . Se l 'aritmetico nel corso del calcolo pensasse continuamene ai valori e alla molti­ tudine delle unità di tutti i segni o cifre che scrive, non potrebbe mai venire a capo dei suoi lunghi calcoli, allo stesso modo che se volesse usare altrettanti sasso­ lini . . . Perciò si è fatto in modo che fossero assegnati nomi alle figure e alle varie specie di cose, e nell'aritme­ tica si sono attribuiti segni ai numeri e in algebra alle grandezze, cosicché i segni di tutto ciò che è stato una volta scoperto mediante esperimenti o mediante il solo ragionamento, vengano in seguito congiunti con sicu­ rezza ai segni di quelle cose . . . A me invero, mentre meditavo più profondamente su questo argomento, apparve manifesto che tutti i pen­ sieri umani potevano risolversi completamente in pochi pensieri da considerare primitivi. E che se si assegnano a quest'ultimi dei caratteri, da essi si possono formare i caratteri delle nozioni derivate, dai quali sarà sem­ pre possibile ricavare i loro requisiti e le nozioni pri-

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mitive in essi racchiuse e - per dirla in una parola le definizioni o valori, e quindi anche le proprietà dimostrabili attraverso le definizioni. . . Poiché dunque quest'arte caratteristica, della quale ho concepito l'idea nella mia mente, contiene il vero organo della scienza generale di tutto ciò che cade sotto l'umano ragiona­ mento, rivestito però delle dimostrazioni eterne di un calcolo evidente, sarà necessario esporre nel modo più generale possibile questa nostra caratteristica, ovvero arte di adoperare i segni secondo un certo genere esatto di calcolo. Ma non essendo stato ancora possibile sta­ bilire in qual modo si debbano formare i segni, nel frattempo, in luogo di quelli che verranno stabiliti nel futuro, useremo - sull'esempio dei matematici lettere dell'alfabeto o qualsiasi altro tipo di segni arbi­ trari che il progresso della ricerca ci fornirà come i più adatti. Da questo procedimento risulterà chiaro anche l'ordine delle scienze trattate secondo l'impiego della caratteristica, e il calcolo stesso insegnerà che l'aritme­ tica elementare viene prima ed è più semplice rispetto agli elementi del calcolo logico concernente le figure e i modi. Sia dato un carattere qualsiasi A oppure B, o un altro segno. Il composto di più caratteri sia chiamato formula. Qualora una formula equivalga a un carattere, in modo che essi si possano sostituire l'uno all'altra, la formula si chiamerà valore del carattere. Il valore primitivo di un carattere, il valore cioè che viene assegnato arbitrariamente ad esso senza che ci sia bisogno di alcuna prova, è il suo significato. Tra quei termini dei quali l'uno può sostituire l'al-

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

tro senza alterare la legge del calcolo, si dirà sussistere una relazione di equipollenza. Oltre all'equipollenza si dànno numerose altre rela­ zioni che mostrerà il corso del calcolo, come ad esem­ pio le inclusioni, le similitudini, le determinazioni, di cui si parlerà a suo luogo. E perciò le relazioni stanno ai caratteri e alle formule come gli enunciati stanno alle nozioni, ossia come seconda operazione della mente rispetto alla prima. Il calcolo o operazione consiste nella produzione di relazioni compiuta mediante trasposizioni di formule, trasposizioni che devono essere effettuate secondo de­ terminate leggi. Ora, quanto più numerose sono le leggi o le condizioni che si prescrivono a colui che si accinge al calcolo, tanto più complesso risulta il cal­ colo e anche la stessa caratteristica è meno semplice. È chiaro dunque che le formule ( sotto le quali possono venir compresi gli stessi caratteri considerati come le formule più semplici ), le relazioni e le operazioni stanno tra loro nello stesso rapporto in cui stanno le nozioni, gli enunciati e i sillogismi. Vi sono anche relazioni composte che presuppongono determinate operazioni. (Die philosophischen Schriften, vol. VII,

pp.

204-6)

2. Leibniz: il princ1p1o di sostitutività e i contesti

reduplicativi. Dunque: dopo che abbiamo compreso che ogni pro­ posizione è o vera o falsa, e che ogni proposizione vera che non sia vera di per sé, vale a dire immediata, può essere provata a priori, veniamo a esporre il modo di provare. Esso è compreso essenzialmente dal seguente

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assioma: il predicato, o il conseguente, di una propo­ sizione affermativa possono essere sostituiti rispettiva­ mente in luogo del soggetto o in luogo dell'antecedente, senza alterarne le verità, in un'altra proposizione in cui il soggetto della prima è il predicato o in cui l'ante­ cedente della prima è il conseguente. Fanno tuttavia

eccezione le proposizioni reduplicative, nelle quali as­ seriamo di parlare in maniera cosl stretta intorno a qualche termine da non volere che se ne sostituisca un altro; esse sono infatti proposizioni riflessive, e rispetto ai pensieri hanno lo stesso rapporto che le proposizioni materiali hanno rispetto alle voci. Per il resto il motivo di tale assioma risulta chiaro da quanto precede. Poniamo infatti che si abbia la proposizione universale affermativa « ogni B è C», e un'altra pro­ posizione « A è B »; affermo che nella seconda si può sostituire C al posto di B. Infatti, poiché A contiene B e B contiene C (per il precedente assioma ), anche A conterrà C, il che basta (per il medesimo assioma) per dire che A è C . . . (Opuscules et fragments inédits,

pp.

402-3)

A oo B significa che A e B sono identici, ovvero che possono essere sostituiti mutuamente l'uno all'altro do­ vunque. ( A meno che ciò non sia vietato; il che accade in quei contesti nei quali si dichiara di considerare un qualche termine sotto un certo riguardo : per esem­ pio trilatero e triangolo sono la stessa cosa, tuttavia se si afferma che il triangolo, in quanto tale, ha 1 80 gradi, non si può sostituirvi il trilatero. Vi è in ciò qualcosa di materiale ). (Opuscules e t /ragments inédits,

p.

261)

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

Se A è B e B è A, allora A e B si dicono identici. Ovvero A e B sono identici se possono essere sosti­ tuiti l'uno all'altro ovunque (eccetto in quei casi nei quali si tratta non della cosa, ma del modo di conce­ pirla, per il quale essenzialmente differiscono ; così Pietro e l'Apostolo che rinnegò Cristo sono la mede­ sima cosa, e l'un termine può essere sostituito all'altro, a meno che non si consideri il modo stesso di conce­ pire che alcuni chiamano riflessivo, come per esempio allorché dico : « Pietro, in quanto fu l'Apostolo che rinnegò Cristo, perciò stesso peccò » : infatti qui non posso in nessun modo sostituirvi Pietro, ovvero non posso dire : « Pietro in quanto fu Pietro peccò » ) . (Notationes generales, in Fragmente

zur

Logik,

p.

475)

3 . Leibniz: elementi di calcolo. Termine

è il soggetto o il predicato di una propo­ sizione categorica. Pertanto come termini non considero né il segno né la copula. E così, quando si dice che il sapiente crede, il termine non sarà crede, ma cre­ dente, come se dicessi : il sapiente è credente. Per proposizioni, quando non specifico altrimenti, intendo quelle categoriche. La proposizione categorica è infatti fondamento di tutte le altre; e le proposizioni modali, ipotetiche, disgiuntive, insieme a tutte le altre, presuppongono quella categorica. Categorica chiamo la proposizione « A è B » o « A non è B » o « è fal­ so che A sia B », unitamente alla differenza nel segno di quantità, cosicché la proposizione è o universale, e la si intende riferita a tutti i soggetti di cui si tratta, o particolare, e si riferisce soltanto ad alcuni.

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A ciascun termine si assegni il suo numero caratteri­ stico, che verrà impiegato nel calcolo nello stesso modo

in cui il termine stesso viene impiegato nel ragiona­ mento. Scelgo pertanto i numeri per la scrittura e sol­ tanto in secondo tempo adatterò altri segni ai numeri e allo stesso linguaggio parlato. Per ora i numeri hanno la massima utilità a causa della loro certezza e facilità a essere adoperati, perché in questo modo si vede chiaro, a occhio, che ogni cosa nei concetti, cosl come nel caso dei numeri, è certa e determinata. La regola per trovare i numeri caratteristici adatti è questa unica : quando il concetto di un termine è composto nel caso nominativo dai concetti di due o più termini diversi, allora il numero caratteristico del ter­ mine dato sarà prodotto moltiplicando tra loro i nu­ meri caratteristici dei termini componenti il concetto del termine dato. Per esempio: poiché « uomo » è « ani­ male razionale » (e poiché l'oro è il più pesante tra i metalli), posto che il numero di « animale » (di me­ tallo) sia a, supponiamo 2 (m, supponiamo 3), e il nu­ mero di « razionale » (del più pesante) sia r, suppo­ niamo 3 (p, supponiamo 5), allora il numero di 'uomo', ossia h, sarà lo stesso che ar, cioè nel nostro esempio : 2 , 3 , ossia 6 (e il numero dell'oro, ossia della sola s, sarà lo stesso che mp, cioè nel nostro esempio : 3 , 5, ossia 1 5 ). Impiegheremo le lettere come più sopra a, r, h (m, p, s) quando o i numeri non sono dati o non vengono considerati in modo specifico, ma vengono trattati in maniera generale, come è necessario fare qui nell'espo­ sizione degli elementi. La stessa cosa suole accadere nell'algebra simbolica, ossia nell'ari tmetica delle figure, affinché non siamo costretti a provare volta per volta,

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in ogni caso singolo, ciò che possiamo dimostrare in una sola volta come valido per una serie infinita di esempi. . . Affinché sia chiaro l'uso dei numeri caratteristici nelle proposizioni, si deve considerare questo: ogni propo­ sizione vera categorica affermativa universale non signi­ fica altro che una certa connessione tra predicato e soggetto nel caso retto (che è quello cui si riferisce sempre questo scritto ), in modo cioè che il predicato è detto inerire al soggetto, o che è contenuto nel sog­ getto, e ciò da un punto di vista assoluto e considerato in se stesso, oppure in modo certo, ovvero in qualche caso o esempio. Ovvero si dirà che il soggetto contiene il predicato nel detto modo : la nozione del soggetto, o in sé o insieme a un termine aggiunto, contiene la nozione del predicato, e perciò il soggetto e il predi­ cato stanno reciprocamente nel rapporto del tutto ri­ spetto alla sua parte, o del tutto rispetto a un altro tutto con cui coincida perfettamente, o della parte rispetto al tutto. Se nessuno dei due termini è contenuto nell'altro, i tel'mini sono detti disparati, e allora di nuovo . . . o hanno qualcosa in comune o differiscono totalmente per il genere. Hanno qualcosa in comune quei termini che sono compresi sotto il medesimo genere e si pos­ sono chiamare conspecie, come uomo e bruto, i quali hanno il concetto di animale in comune. . . Nel nostro calcolo è sufficiente che due cose non abbiano nulla in comune di certe nozioni specificate da noi, quantunque esse possano avere qualcos'altro in comune. Tutto ciò che abbiamo detto circa i termini che si contengono in vario modo o che non si contengono, lo trasferiamo ora ai loro numeri caratteristici. La qual

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cosa risulta facile, poiché abbiamo detto . . . che, quando un termine concorre a costituire un altro termine, cioè quando la nozione di un termine è contenuta nella no­ zione di un altro, allora il numero caratteristico del termine costituente concorre, mediante moltiplicazione, alla produzione del numero caratteristico che dev'es­ sere assunto al posto del termine da costituire; ossia - il che è lo stesso - il numero caratteristico del termine da costituire ( ovvero quello che contiene l'al­ tro) è divisibile per il numero caratteristico del ter­ mine costituente, cioè di quello che inerisce all'altro . Ad esempio, la nozione di animale concorre a costituire la nozione di uomo, e cosi il numero caratteristico di animale, a (per esempio 2 ), concorrerà con qualche altro numero r (per esempio 3 ) a produrre mediante moltiplicazione il numero ar ovverossia h (2, 3 ovvero 6 ), cioè il numero caratteristico di uomo. E perciò è necessario che il numero ar o h (cioè 6 ) possa essere diviso per a ( ossia per 2 ) . Quando invece due termini sono coincidenti, per esempio « uomo » e « animale razionale » , allora anche i numeri h e ar sono effettivamente coincidenti (come 2, 3 e 6 ) . Tuttavia, poiché in questo modo un termine contiene l'altro, cioè si contengono reciprocamente - in­ fatti uomo contiene animale razionale (ma niente di più) e animale razionale contiene uomo (e niente di più, niente cioè che non sia già contenuto in uomo) - allora è necessario che anche i numeri h e ar (2, 3 e 6 ) si contengano reciprocamente, il che è certamente vero, poiché sono coincidenti e il medesimo numero è sempre contenuto in se stesso. Inoltre è anche necessario che l'un termine sia divisibile per l'altro, e anche questo è vero; infatti, se un numero viene diviso per se stesso,

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il quoziente è uno. Pertanto ciò che abbiamo detto al punto precedente - che se un termine ne contiene un altro, il numero caratteristico del primo è divisibile per il numero caratteristico del secondo - si verifica anche per i termini coincidenti. . . Così dunque, mediante i numeri caratteristici, pos­ siamo anche sapere quale termine non ne contenga un altro. Infatti basta provare soltanto se il numero del­ l'un termine può dividere esattamente il numero del­ l'altro. Per esempio, se il numero caratteristico di uomo si suppone sia 6, e quello di scimmia l O, è ovvio che il concetto di scimmia non può includere quello di uomo né quello di uomo il concetto di scimmia, poiché né il 10 può essere diviso esattamente per 6 , né viceversa il 6 può essere diviso per 10 . (Elementa ca/culi, in Opuscules et fragments inédits, 5 3-55)

pp.

49-5 1 ,

4. Leibniz : un saggio di calcolo universale.

Un termine è a, h, ab, bcd, come uomo, animale, animale razionale, razionale mortale visibile. Una proposizione universale affermativa viene da me designata nel modo seguente : a. è h, ovvero « (ogni) uomo è animale » ; voglio infatti che si intenda sempre premesso il segno di universalità, dove a è il soggetto, h il predicato ed « è » la copula. Postulato : è lecito supporre che una lettera equi­ valga a una o più lettere simultaneamente, che, per esempio, d equivalga ad a, e che l'una possa essere sostituita all'altra, o che c equivalga al termine ab (per esempio: « uomo » è lo stesso che « animale raziona-

LOGICA E MATEMATICA DA LEIBNIZ A WOLFF

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le » ). Voglio dire che ciò vale se nulla è già stato as­ sunto in contrario a questi presupposti .

Proposizioni vere di per sé: l ) a è a : « animale è animale ». 2 ) ab è a: « animale razionale è animale » . 3 ) a non è non-a : « animale non è non-animale » . 4 ) no n-a non è a: « non-animale non è animale » . 5 ) ciò che non è a , è non-a : « ciò che non è animale,

è non animale » . 6 ) ciò che non è non-a, è a: « ciò che non è non­ animale, è animale » . Da queste proposizioni possono esserne derivate mol­ te altre. Conseguenza per sé vera: a è b e b è c, dunque a è c. « Dio è sapiente, il sapiente è giusto, quindi Dio è giusto » : questa concatenazione può essere prolun­ gata : « Dio è sapiente, il sapiente è giusto, il giusto è severo, quindi Dio è severo » .

Principi del calcolo. l ) Qualunque cosa sia conclusa con certe lettere in­ determinate, dev'essere considerata conclusa con altre lettere che obbediscono alle medesime condizioni. Cosi, poiché è vero che ab è a, sarà vero anche che be è b, e anzi anche bcd è be. Infatti, sostituendo e al posto di be (per il postulato), è come se dicessimo : ed è e. 2 ) La trasposizione di lettere nel medesimo termine non cambia nulla ; per cui ab coincide con ba, ovvero « animale razionale » coincide con « razionale animale » .

3 ) La ripetizione di una medesima lettera nel mede­ simo termine è inutile : cosi b è aa oppure bb è a;

« uomo è animale animale » oppure « uomo uomo è

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

animale » . Basta dire infatti a è b, ovvero « uomo è animale » .

Da un numero qualsiasi di proposizioni se ne formare una sola, riunendo tutti i soggetti in un può solo soggetto, e tutti i predicati in un solo predicato. a è b e c è d ed e è f, dunque ace è bdf . . . 4)

5 ) D a qualunque proposizione il cui predicato sia composto di più termini possono essere formate più proposizioni, ciascuna delle quali ha il medesimo sog­ getto della proposizione originaria, avendo però per predicato una parte del predicato originario. Ad esem­ pio: a è bcd, dunque a è b e a è c e a è d. Ovvero : « l'uomo è razionale mortale visibile » , dunque « l'uo­ mo è razionale » , « l'uomo è mortale », « l'uomo è visibile ». (Specimen calculi universalis, i n Die philosophischen Schriften , vol. V I I , pp. 223-25)

5. Leibniz : uno studio sull'addizione reale.

Defin. l . Identiche o coincidenti sono quelle cose che possono essere sostituite l'una all'altra senza alte­ rare la verità. Così, per esempio, « triangolo » e « trila­ tero » : infatti in tutte le proposizioni dimostrate da Euclide intorno al triangolo si può sostituire « trila­ tero » , e viceversa, salva veritate ... Defin. 2 . Diverse sono quelle cose che non sono identiche, per le quali cioè la sostituzione non fun­ ziona. Tali sono il circolo e il triangolo . . . A non = B significa che A e B sono diversi. . . Propos. l . S e A = B , anche B sarà = A. Se qual­ cosa è eguale a un'altra, l'altra è eguale ad essa. Infatti,

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poiché A = B (per ipotesi ), allora (per la def. l ) nel­ l'enunciazione A = B (vera per ipotesi ) si potrà sosti­ tuire B in luogo di A, e A in luogo di B, dunque si avrà B = A. Prop. 2 . Se A non = B, sarà anche B non = A. Se

qualcosa è diversa da un'altra, anche quest'ultima sarà diversa dalla prima. Altrimenti poniamo B = A; allora (per quanto precede) sarà A = B, che va contro l'ipo­ tesi.

Prop. 3 . Se A = B e B = C, sarà A = C. Cose eguali a una terza sono eguali tra loro. Infatti, se nel­ l'asserzione A = B (vera per ipotesi) sostituiamo C in luogo di B (per def. l , dato che B = C), si avrà una proposizione vera. Coroll. Se A = B e B = C e C = D, sarà A = D; e cosl via . . . Prop. 4 . Se A = B e B non = C , sarà A non = C.

Se di due cose identiche tra loro, una è diversa da una terza, anche l'altra sarà diversa da quella. Infatti, se nella proposizione B non = C (vera per ipotesi) si so­ stituisce A in luogo di B, si avrà (per la def. l , dato che A = B) la proposizione vera A non = C. Def. 3 . A inerisce a L, ovvero L contiene A, equivale a dire che L può esser posto come coincidente con una pluralità di cose prese simultaneamente, tra le quali vi è A. Def. 4 . Tutte quelle cose alle quali inerisce qualun­ que cosa sia in L, sono dette, prese insieme, compo­ nenti rispetto allo stesso L che è il composto o ciò che è costituito. B (f) N = L significa che B è in L, ovvero che L contiene B ; mentre B e N presi insieme costituiscono

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

o compongono L. Lo stesso vale con un numero mag­ giore di cose. Def. 5. Subalternanti chiamo quelle cose delle quali una inerisce all'altra, come A e B qualora B inerisca ad A, oppure A a B. Def. 6. Disparate chiamo quelle cose che non ineri­ scono l'una all'altra. Assioma l . B (±) N = N (±) B, ovvero la trasposi­ zione non muta nulla in questo caso. Postulato l . Data una qualunque cosa, se ne può prendere un'altra diversa da essa e, se si vuole, dispa­ rata, ovvero tale che l'una non inerisca all'altra. Postulato 2 . Più cose qualunque, come A, B, pos­ sono esser prese insieme per comporre un unico A (±) B, cioè L. Assioma 2 . A (±) A = A. Se non si aggiunge niente di nuovo, non si ha neppure nulla di nuovo, ovvero la ripetizione in questo caso non cambia nulla. ( Infatti è giusto che 4 monete e altre 4 monete facciano 8 mo­ nete, non però 4 monete e le medesime 4 monete che si sono già contate una volta). Prop. 5. Se A è in B e A = C, anche C è in B. Ciò che coincide con qualcosa che è incluso è incluso. In­ fatti, nella proposizione A è in B ( vera per ipotesi ), sostituendo C al posto di A (per def. l di coincidenti, poiché A = C per ipotesi) si avrà che C è in B. Prop. 6 . Se C è in B, e A = B, anche C sarà in A.

Ciò che inerisce a una di due cose coincidenti, inerisce anche all'altra. Infatti nella proposizione C è in B, so­ stituendo A a C (poiché A = C), si ha che A è in B . . . Prop. 7 . A è in A. Una qualunque cosa è contenuta in se stessa. Infatti A è in A (±) A (per definizione di ciò che è incluso, ovvero per la def. 3 ) e A (±) A = A

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(per l'assioma 2 ). Dunque (per la prop. 6 ) A è in A. Prop. 8 . A è in B, se A = B . Di cose coincidenti l'una è compresa nell'altra. Risulta chiaro dalla propo­ sizione precedente. Infatti A è in A (per la preced. ), cioè (per ipotesi) è in B. Prop. 9 . S e A = B, sarà A ® C = B ® C. Se a una

medesima cosa si aggiungono cose coincidenti, si hanno cose coincidenti. Infatti, se nella proposizione A ® C = = A ® C (vera di per sé) si sostituisce al posto di A una volta il coincidente B (per la def. l ), si avrà A ® C = B ® C. . . A triangolo B tn. 1 atero

} comctdono . .

A ® C triangolo equilatero B ® C trilatero equilatero

} coincidono

Scolio. Questa proposizione non può essere conver­ tita, e ancor meno le due seguenti. . . Prop. 1 0. S e A = L e B = M, sarà A ® B = L ® M.

Se a cose coincidenti se ne aggiungono di coincidenti, si hanno cose coincidenti. Infatti, poiché B = M, sarà (per la proposizione precedente) A ® B = A ® M, e mettendo L al posto dell'ultima A (poiché A = L per ipotesi) , si avrà A ® B = L ® M . . . Scolio. Questa proposizione non può essere conver­ tita : infatti neppure se fosse A ® B = L ® M e A = L seguirebbe immediatamente B = M; e la seguente può

esser convertita ancor meno . Prop. 11. Se A = L e B = M e C = N, sarà A ® B ® C = L ® M ® N. E così via . . . Prop. 1 2 . S e B è in L, A + B sarà in A + L. ..

70

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

Scolio. Questa proposizione non può essere conver­ tita : infatti anche se A B è in A L, non segue che B è in L. Prop. 1 3 . Se L B = L, B sarà in L. Se qualcosa

aggiunta a un'altra non dà luogo a una cosa diversa, la cosa che si aggiunge inerisce all'altra. Infatti B è in

L B (per definizione di incluso) e L B = L ( per ipotesi), dunque (per la prop. 6 ) B è in L. . . Prop. 14. S e B è in L , sarà L B = L . . . Se B è in L, si avrà (per def. di incluso) L = B P, dunque (per la prop. 9 ) L B = B P B, cioè (per l'as­ sioma 2 ) = B P, cioè ( per ipotesi ) = L. Prop. 1 5 . Se A è in B e B è in C, anche A è in C. Ciò

che è contenuto da una cosa già contenuta, è contenuto dal contenente. Infatti A è in B (per ipotesi), dunque

A L = B (per def. di incluso}. Similmente, poiché B è in C, sarà B M = C, nella quale asserzione, ponendo A L (che abbiamo già mostrato esser coin­ cidente ) al posto di B, si avrà A L M = C. Dun­ que (per def. di incluso} A è in C ... Coroll. S e A N è in B, anche N è in B . Infatti N è in A N (per def. di incluso) . Prop. 16. Se A è in B, e B è in C, e C è in D, anche A è in D. E cosl via . . . Infatti, se A è in B e B è in C, anche A è in C (per la prop. precedente ). Per cui se C è in D, allora {di nuovo per la prop. precedente ) sarà anche in D . .. Prop. 1 7 . S e A è in B e B è in A, sarà A = B . Cose che si contengono reciprocamente, coincidono. Infatti , se A è in B, sarà A N = B (per def. di incluso) . Ora, B è in A (per ipotesi ), dunque A N è in A (per la prop. 5 }. Dunque (per il corollario alla prop. 1 5 )

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71

anche N è in A. E dunque, a maggior ragione (per la prop. 1 4 ) A = A (f) N, cioè A = B. Prop. 18. Se A è in L e B è in L, anche A (f) B sarà in L. . .

Prop. 1 9 . Se A è in L e B è in L , e C è in L , allora A (f) B (f) C è in L. E cosl via . . . Scolio. Queste due proposizioni e altre ad esse simili

possono evidentemente essere convertite. Infatti se A (f) B = L, è chiaro, per la definizione di ciò che include, che A è in L e B è in L. Cosl pure se A (f) B (f) C = L, è chiaro che A è in L, e che B è in L e che C è in L ... Prop. 20. S e A è in M e B è in N , s i avrà che A (f) B è in M (f) N . . . Infatti A è in M (per ipotesi) e M è in M (f) N (per def. di incluso); dunque (per la prop. 1 5 ) A è in M (f) N . Similmente, poiché B è in N , e N è in M (f) N, B sarà in M (f) N. Ora, se A è in M N e B è in M (f) N, allora (per la prop. 1 8 ) , anche A (f) B sarà in M (f) N . . . Prop. 2 1 . S e A è in M , e B è in N , e C è in P , si avrà A (f) B (f) C in M (f) N (f) P. E cosl via . . . Infatti, poi­ ché A è in M e B è in N, sarà ( per la prop. precedente) A (f) B in M (f) N. Ora C è in P, dunque (di nuovo per la prop. precedente ) A (f) B (f) C è in M (f) N (f) P . . . Scolio alle def. 3 , 4, 5, 6 . Diciamo che l a nozione del genere inerisce a quella della specie, che gli indi­ vidui della specie ineriscono agli individui del genere, la parte al tutto, quel che è piccolissimo e indivisibile al continuo, come il punto inerisce alla linea, benché il punto non sia una parte della linea. Cosl la nozione di una proprietà, ovvero del predicato, inerisce alla nozione del soggetto. E in generale questa considera­ zione ha un'estensione vastissima. Diciamo anche che

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

quelle cose che sono incluse sono contenute da quelle alle quali ineriscono. E in questo caso il modo in cui le cose che ineriscono si rapportano tra loro o a ciò che le contiene, non concerne una tale nozione gene­ rale. Pertanto le nostre dimostrazioni valgono anche per quelle cose che compongono qualcos'altro in maniera distributiva, così come tutte le specie prese simulta­ neamente compongono il genere. Inoltre, tutte le cose che sono sufficienti per costituire un contenente, ov­ vero alle quali ineriscono tutte le cose che ineriscono al contenente, si dice che compongono il contenente medesimo . . . E tali parti che compongono il tutto sono solito chiamarle cointegranti, soprattutto se non hanno nessuna parte in comune . . . Da ciò risulta evidente che la stessa cosa si può comporre in molti modi differenti, se quelle cose dalle quali è composta sono a loro volta composte. Anzi, se quest'ultime potessero scomporsi all'infinito, le variazioni della composizione sarebbero infinite. Pertanto tutta l'analisi e la sintesi dipendono dai fondamenti che si sono qui gettati . . . Scolio agli assiomi l e 2 . Poiché l a speciosa generale non è altro che la rappresentazione e la trattazione di combinazioni mediante segni, e poiché diverse sono le leggi di combinazione che si possono trovare, ne con­ segue che vi sono vari modi di calcolare. In questo caso, tuttavia, non ha nessuna importanza il mutamento che consiste soltanto nel cambiamento d'ordine : per noi è lo stesso AB che BA. E inoltre non si è tenuto alcun conto della ripetizione : per noi AA è identico ad A. Pertanto, ovunque queste leggi sono osservate, si può applicare il presente calcolo. È evidente che tali leggi sono osservate nella composizione delle nozioni assolute, dove non si tien conto né dell'ordine né della

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ripet1z10ne; cosi dire caldo e splendente, e dire splen­ dente e caldo è lo stesso; e dire con i poeti luminoso e caldo, e fuoco caldo, o latte bianco è un pleonasmo; e il latte bianco non è altro che il latte, mentre uomo razionale, ovvero animale razionale che è razionale, non è altro che animale razionale. Lo stesso vale allorché certe cose determinate si dicono essere incluse in altre cose. Infatti l'aggiunta effettiva del medesimo viene ripetuta invano. Quando si dice che due e due fanno quattro, gli ultimi due devono essere differenti dai pri­ mi; se infatti fossero identici, non si avrebbe nulla di nuovo, e sarebbe come se, per gioco, da tre uova ne volessi far sei, contando prima 3 uova, poi toltone uno, i due rimanenti, e infine, toltone di nuovo uno, contassi l'unico rimasto. Invece, nel calcolo dei numeri e delle grandezze, A o B o altri segni non significano una cosa determinata, ma una qualunque cosa dello stesso numero di parti congruenti. . . Per cui designo la congiunzione reale mediante ®, cosi come la congiun­ zione di grandezze viene designata da + . (Die philosophischen Schriften, vol. VII,

pp.

236-42, 244-46)

6. Saccheri : definizione e regole della conseguenza.

Una conseguenza è il far procedere, ovvero l'inferire una verità da un'altra, come « Pietro è uomo, dunque Pietro è animale » , ove dall a verità « Pietro è uomo » , che è detta 'antecedente', s i inferisce la verità « Pietro è animale » , che è detta 'conseguente' ; mentre la parti­ cella 'dunque' è la nota, ovvero il segno, dell'inferenza. Si dice che vale l'inferenza da una verità a un'altra, ovvero da un termine all'altro, quando si dà una con-

74

LA LOGICA DA LEIBNIZ .A FREGE

nessione necessaria tra l'uno e l'altro, ovvero quando l'uno non può stare senza l'altro. Pertanto l'inferenza « è uomo, dunque è animale » sarà valida, poiché uomo non può stare senza animale, ovvero poiché non è pos­ s1bile un uomo che non sia animale. Al contrario, si dice che non vale l'inferenza dal­ l'uno all'altro, quando l'uno può stare senza l'altro; pertanto « è uomo, dunque è bianco » non sarà valida, poiché può esistere un uomo che non sia bianco . Ogni volta che l'inferenza da un termine all'altro è valida, il termine dal quale parte l'inferenza valida si dice antecedente, e quello verso il quale procede l'in­ ferenza valida si dice conseguente. (Logica demonstrativa, l,

VI, pp.

61-62 )

Il passaggio dall'antecedente al conseguente è valido, e anche quello dal contraddittorio del conseguente al contraddittorio dell'antecedente. Sia « uomo » il termine antecedente e « animale » il conseguente. Dico che vale « è uomo, dunque è ani­ male » e « non è animale, dunque non è uomo » , cioè il passaggio dall'antecedente al conseguente e dal con­ traddittorio del conseguente al contraddittorio dell'an­ tecedente. La prima parte risulta evidente dalla defi­ nizione. Si dimostri ora la seconda parte. Se valesse « è uomo, dunque è animale » , e non valesse « non è ani­ male, dunque non è uomo » , sarebbero vere due con­ traddittorie: ma ciò è impossibile; dunque, se vale « è uomo, dunque è animale », vale anche « non è animale, dunque non è uomo » . La premessa maggiore è cosl provata: se vale « è uomo, dunque è animale » non possono stare insieme simultaneamente l'esser uomo e

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7'

il non essere animale; se non vale « non è animale, dunque non è uomo », allora l'esser uomo e il non essere animale possono stare insieme contemporanea­ mente. Si tratta però di asserzioni contraddittorie ; dun­ que, se vale « è uomo, dunque è animale » , e non vale « non è animale, dunque non è uomo » , sono vere due contraddittorie. Perciò è valido passare dall'antecedente al conseguente, e dal contraddittorio del conseguente al contraddittorio dell'antecedente. Come dovevasi di­ mostrare . . . Non vale il passaggio dal conseguente all'antecedente, né dal contraddittorio dell'antecedente al contradditto­ rio del conseguente. (Logica demonstrativa, l,

VI, pp.

68·69, 71)

Dal falso può seguire il vero ; non dal vero il falso. Si dimostra la prima parte : non vale il passaggio dal conseguente all'antecedente, dunque può esser vero il conseguente e falso l'antecedente ; e appunto dal falso antecedente può conseguire un conseguente vero. Si dimostra la seconda parte : vale il passaggio dal contraddittorio del conseguente al contraddittorio del­ l'antecedente; dunque se era falso il conseguente, sarà falso anche l'antecedente; dunque (dal contraddittorio del condizionato al contraddittorio della condizione), se era vero l 'antecedente, sarà vero anche il conse­ guente. Come dovevasi dimostrare . . . (Logica demonstrativa, I ,

IX, p .

98)

Ciò che segue da un qualche conseguente, segue dal­ l'antecedente di quel medesimo, ovvero : qualunque cosa segue da un qualche antecedente, segue dall'ante­ cedente di quell'antecedente, ma non vale il contrario.

76

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

Valga infatti : « è animale, dunque è vivente » ; e ancora: « è uomo, dunque è animale » . Dico che vale anche : « è uomo, dunque è vivente » . Infatti, posto che le citate inferenze valgano, risulteranno vere due universali : « ogni animale è vivente », « ogni uomo è animale », per cui si avrà una corretta conclusione in barbara: « dunque ogni uomo è vivente » . Così « vi­ vente » , che segue da « animale » , segue anche da « uomo » , antecedente di « animale ». Ma ciò era quanto ci eravamo proposti di dimostrare. (Logica demonstrativa, I,

x, p .

1 13)

7. Saccheri : le regole delle propos1z10ni copulative e

delle proposizioni disgiuntive. La contraddittoria di una proposizione copulativa è una disgiuntiva le cui parti sono contraddittorie delle parti della copulativa. Lo si dimostra. Si abbia la proposizione copulativa « ogni uomo è animale, e qualche vivente non è corpo » , e l a proposizione disgiuntiva « o qualche uomo non è animale, o ogni vivente è corpo », le cui parti siano con­ traddittorie delle parti della copulativa . Affermo che le due proposizioni sono contraddittorie. Infatti la pro­ posizione copulativa non può essere falsificata senza che una delle sue parti sia falsa, cioè senza che una contraddittoria dell'una o dell'altra delle sue parti sia vera; ma ciò appunto afferma la proposizione disgiun­ tiva, come risulta dagli stessi termini ; dunque la pro­ posizione disgiuntiva afferma precisamente quanto ba­ sta a falsificare la copulativa ; dunque è la sua contrad­ dittoria. Per cui la contraddittoria di una proposizione

LOGICi\ E MATEMATICA DA LEIBNIZ A WOLFF

77

copulativa è una disgiuntiva le cui parti sono contrad­ dittorie delle parti della copulativa . . . (Logica demonstrativa, l ,

IV, p .

39)

Dalla negazione di tutte le parti componenti una proposizione disgiuntiva, eccetto una, è valido passare alla parte rimanente. Dimostrazione. Poniamo sia vera la proposizione di­ sgiuntiva : « Pietro corre o Paolo dorme » ; dico che si ha un sillogismo valido se si argomenta cosl : « o Pie­ tro corre o Paolo dorme, ma Pietro non corre, dunque Paolo dorme » . Motivo di ciò è che, se la conclusione fosse falsa, essendo vere le premesse sarebbero vere simultaneamente due contraddittorie : « o Pietro corre o Paolo dorme », « né Pietro corre né Paolo dorme » , i l che è impossibile. Dunque è valido passare dalla negazione di tutte le parti di una proposizione disgiun­ tiva, eccetto una, all'affermazione della parte rimanente. (Logica demonstrativa, l,

xiv, p.

164)

8 . Saccheri : la nuova tecnica dimostrativa. Se qualche sillogismo costruito in una certa maniera non conclude correttamente, non concluderà in virtù della forma nessun altro sillogismo che abbia una strut­ tura simile. È chiaro ; infatti qualunque sillogismo concluda in virtù della forma, dev'essere costruito in maniera tale che ogni altro costruito in maniera simile concluda correttamente; dunque (dal contraddittorio del conse­ guente al contraddittorio dell'antecedente) se qualche sillogismo costruito in una certa maniera non conclude

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LA LOG ICA

DA

LEI BNIZ A FREGE

correttamente, nessun altro avente struttura simile con­ cluderà in virtù della forma. Come dovevasi dimostrare. Perciò riterrò sufficientemente provato, per esempio, che il modo IA non conclude rettamente nella prima figura, se avrò mostrato che qualche sillogismo così c�struito non conclude correttamente in tale figura. Inoltre, per dimostrare che il modo in questione è illegittimo nella figura data, assumerò come asserito dal­ l'avversario che ogni sillogismo costruito in modo simile conclude correttamente nella prima figura . . .

Prima proposizione. Nella prima figura la premessa minore non può es­ sere negativa. Dimostrazione. Se qualunque sillogismo avente la minore negativa conclude nella prima figura, esso sarà certamente AE oppure EE: infatti ciò che segue da una particolare, a maggior ragione segue da una univer­ sale. Orbene : ogni sillogismo avente la premessa mag­ giore universale e la minore affermativa conclude nella prima figura, mentre nessun sillogismo AE ha la pre­ messa maggiore universale e la minore affermativa; dunque ogni (o qualche ) sillogismo AE non conclude nella prima figura. Di nuovo : nessun sillogismo avente la premessa maggiore universale e la minore afferma­ tiva è non-concludente nella prima figura: ma nessun sillogismo EE ha la maggiore universale e la minore affermativa, dunque ogni (o qualche) sillogismo EE non è conclusivo nella prima figura. La maggiore di en­ trambi i sillogismi è stata già dimostrata in altro modo ; la minore risulta dalla conoscenza dei termini; per­ tanto o concedi o neghi la conseguenza. Se la concedi si ha quel che si desidera. Se la neghi la concedi : in-

LOGICA E MATEMATICA DA LEIBNIZ A WOLFF

79

fatti una tale conseguenza procede dalle premesse A, E oppure E, E disposte nella prima figura; per cui, dis­ sentendo dalla conclusione dopo aver concesse le pre­ messe, tu stesso ammetteresti che la conseguenza che procede da siffatte premesse non è legittima; come si desiderava. Per chiarire meglio la forza della nostra dimostra­ zione . . . ecco come si procede. Se qualche sillogismo avente la premessa minore negativa, come AE, con­ cludesse nella prima figura, concluderebbe e non con­ cluderebbe nello stesso tempo nella prima figura : l'im­ plicazione vale, dunque vale anche ciò donde segue. Si prova la maggiore. Se AE concludesse nella prima figura, si potrebbe avere, per legittima inferenza da premesse vere, che il sillogismo AE non concluderebbe nella prima figura ; mentre invece, se si avesse per le­ gittima inferenza da premesse vere che il sillogismo AE non conclude nella prima figura, in verità non con­ cluderebbe nella prima figura; dunque, se AE conclu­ desse nella prima figura, concluderebbe e non conclude­ rebbe nello stesso tempo nella prima figura. La minore è evidente, poiché il falso non può essere legittimamente inferito dal vero. Si prova la maggiore. Se AE conclude nella prima figura è legittimo il seguente sillogismo : « ogni sillogismo avente la maggiore universale e la minore affermativa conclude nella prima figura, ma nes­ sun sillogismo AE ha la maggiore universale e la mi­ nore affermativa, dunque ogni (o qualche ) sillogismo AE non conclude nella prima figura » . Se però questo sillogismo è corretto si ha, per legittima inferenza da premesse vere, che il sillogismo AE non conclude nella prima figura; dunque, se AE conclude nella prima figura, si può avere, per legittima inferenza da premesse vere,

80

LA

LOG ICA DA

LEIBNIZ A FREGE

che non conclude nella prima figura. La premessa mag­ giore è manifesta, poiché siffatto sillogismo ha le pre­ messe AE disposte nella prima figura. Anche la minore risulta valida, poiché la maggiore di quel sillogismo la si è dimostrata in altro luogo, e la minore consta dalla considerazione dei termini stessi. (Logica demonstrativa, l,

xr, pp.

130-33)

9. Bernoulli : il parallelismo tra calcolo logico e calcolo algebrico. Le idee delle cose, intorno alle quali la logica inse­ gna a giudicare e ragionare, sono di solito indicate con voci quali « uomo » , « cavallo » , « Pietro » ecc. ; le idee delle quantità, la cui reciproca proporzione la matema­ tica insegna a prendere in esame, sono di solito indi­ cate con lettere dell'alfabeto: a, b, c, x, y, z ecc . . . . Come l'idea d i una qualunque cosa è designata da una voce peculiare che è impiegata per significare quel­ l'unica idea, cosl una qualunque quantità viene desi­ gnata, nel calcolo che si sta svolgendo, con un pecu­ liare carattere, senza che nulla impedisca che in un altro calcolo tale carattere possa significarne un'altra. Quando si mettono insieme le idee di più cose, senza affermazione o negazione, ciò avviene mediante la par­ ticella 'e', come in « virtù e erudizione » ; quando si mettono invece insieme le idee di più quantità, indi­ pendentemente da un confronto, lo si fa col segno + , come in a + b. Se dal concetto di un'idea più complessa si toglie il concetto di un'idea meno complessa, rimane la diffe­ renza della prima; cosl, poiché nel concetto di uomo,

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oltre all'esser animale, è implicata la razionalità, segue, non appena si toglie il concetto di animalità, che resta la razionalità, ovvero la differenza. Parimenti, se da una quantità maggiore se ne sottrae una minore, rimane la differenza di entrambe, che è indicata col segno - , così come a h significa la differenza tra a e h. Quando due idee tra le quali la mente coglie concor­ danza o identità, oppure discordanza o diversità, sono affermate o negate l'una dell'altra, mediante le parti­ celle « è » o « non è », ciò si chiama allora enuncia­ zione, come quando si ha « uomo è animale », « uomo non è bruto » . Quando due quantità tra le quali la mente percepisce un'eguaglianza sono unite da un segno di eguale = , ciò si chiama eguaglianza, come a = h, mentre la diseguaglianza è denotata dai segni < , > , come in a < h o a > b. Dal momento che in questo caso abbiamo istituito un confronto circa la concordanza di due cose e l'egua­ glianza di due quantità, si deve anzitutto tener conto della differenza che si trova sull'uno e sull'altro fronte, differenza che getta grande luce su questa indagine. Affinché una quantità possa dirsi eguale a un'altra, oc­ corre che una comune unità di misura applicata ad esse un medesimo numero di volte le esaurisca entrambe. Così una linea retta di dieci piedi e una curva di altret­ tanti piedi sogliano dirsi eguali, dal momento che un piede applicato dieci volte, oppure una misura di dieci piedi applicata a entrambe una sola volta, le esaurisce completamente. Mentre invece, perché una cosa si dica essere un'altra, è sufficiente osservare (poiché tale è la natura delle lingue) che una sorta di misura comune comparata o applicata al soggetto e al predicato esau­ risca il predicato, nonostante che non esaurisca il sog-

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getto. Cosi la trasgressione della legge è la misura comune del furto e del peccato; è quello cioè nel quale entrambi concordano. Affinché possa esaurire il con­ cetto di peccato basta però che si possa dire « il furto è peccato » ; purché la stessa determinazione si trovi anche nel concetto di furto, nonostante che, oltre ad essa, si trovi anche qualcos'altro in tale concetto. Quindi la concordanza, ovvero l'identità di soggetto e predicato, essendo per lo più inadeguata - per cui tutto ciò che è compreso nel concetto del predicato viene ad essere compreso anche nel concetto del sog­ getto, ma non viceversa - ne deriva che la proposi­ zione affermativa non può essere convertita semplice­ mente: « il furto è peccato, dunque il peccato è furto » . Ben altrimenti stanno invece le cose nelle quantità eguali : infatti, essendo l'eguaglianza reciproca, vale con­ cludere: « se a = b, allora, per conversione, b = a » . Quando attributi accidentali vengono predicati del soggetto, bisogna invece osservare che il concetto del predicato non si trova nella natura del soggetto; e che anzi essi non devono tanto esser predicati in modo in­ definito del soggetto in quanto tale, quanto piuttosto di quei soggetti che cadono sotto di esso, e che sono in esso contenuti, e che la predicazione deve concernere o tutti o alcuni di tali soggetti. Se dicessimo infatti « uomo è peccatore » , « uomo è dotto », sembreremmo voler dire che l'uomo in quanto uomo è peccatore e dotto; ovvero che nel concetto di uomo è inclusa la dottrina e il peccato, il che è falso. Per cui, aggiunti i contrassegni dell'universalità o della particolarità, siamo soliti distribuire il soggetto negli individui, di­ cendo: « tutti gli uomini sono peccatori », « qualche uomo è dotto » ; e di queste proposizioni il senso è il

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seguente: Pietro, Paolo e i rimanenti individui umani sono macchiati dal peccato; Aristotele, Platone e molti altri sono dotti. Peccato ed erudizione non entrano co­ me costituenti nel concetto della natura umana, ma soltanto in quello degli individui. Dunque il soggetto di asserzioni universali e parti­ colari non è tanto quello che viene espresso, conside­ rato nella sua natura generica, quanto le specie e gli individui compresi sotto di esso . . . Nelle asserzioni negative l e cose stanno nella stessa maniera: affinché si dica che una cosa non è un'altra, non si richiede che non abbiano nessuna misura in comune, ovvero che non abbiano nulla nel quale con­ cordare; ma soltanto che ciò nel quale concordano non esaurisca il predicato, nonostante che talvolta possa esaurire il concetto del soggetto, come in « uomo non è bruto », « animale non è uomo » . Quest'ultima pro­ posizione non è infatti meno vera della seguente: « ani­ male non è pietra », per il fatto che il concetto di uomo non lo si trova totalmente nel concetto di animale, benché una parte di tale concetto, cioè l'animalità, esau­ risca l'intero concetto dell'animale. Nondimeno questa sarebbe falsa : « nessun animale è uomo », poiché il soggetto di tale proposizione non è tanto l'animale, quanto la specie o gli individui dell'animale ( dei quali alcuni sono uomini) . . . I l ragionamento sillogistico poggia, come suo fon­ damento, sulla regola de omni et nullo e sulla regola della proporzione; il ragionamento algebrico sugli as­ siomi : « cose che sono eguali a una terza sono eguali tra loro » , « ciò che è maggiore o minore di una cosa, tra due eguali, è anche maggiore o minore dell'altra

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

di esse » , in modo che se a = b e c = b, sarà anche a = c. Ogni diversità dei modi e delle figure deriva da una differente estensione e comprensione del soggetto e del predicato, e dalla varietà della conversione delle pro­ posizioni; mentre invece, poiché le quantità che sono oggetto del ragionamento algebrico sono sempre ade­ guate, e sono sempre considerate integralmente in se stesse, e poiché la loro eguaglianza si converte sempli­ cemente, da ciò deriva che il ragionamento che si svolge intorno ad esse corrisponde in parte ai sillogismi espo­ sitori, e che la necessità della conseguenza è la mede­ sima, in qualsiasi modo si dispongano i termini. Come se, infatti, mettessimo insieme le seguenti operazioni : a=b c=a dunque c=b

b=a c =a dunque c =b

a=b a=c dunque c=b

a < b c=a dunque c a c =a dunque c < b

a < b a=c dunque c < b

La prima di tali disposizioni corrisponde alla prima figura sillogistica, la seconda alla seconda, la terza alla terza. Poiché ogni ragionamento sillogistico si fonda sulle sole regole appena prese in considerazione, dal momento che invece nell'algebra - oltre agli assiomi riportati ­ devono esserne presi molti altri come ausiliari (come per esempio: « se a cose eguali se ne aggiungono eguali, se a cose eguali ne sono tolte di eguali, se cose eguali sono moltiplicate o divise da eguali, i totali o i rima­ nenti sono eguali », ecc. ) sui quali si fondano le varie trasformazioni per addizione, sottrazione, moltiplicazio­ ne, divisione, estrazione di radice, ecc., ne deriva che

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nella soluzione della più piccola equazione algebrica è nascosto maggior ingegno e giudizio che in ragiona­ menti difficilissimi che talvolta si incontrano nella vita comune. (Parallelismus ratiocinii logici et algebraici, in Opera, vol. I,

pp. 213-18)

1 0 . Wolff : la logica e i suoi rapporti con le altre scienze. Logica si chiama quella parte della filosofia che in­ segna l'uso della facoltà conoscitiva nel conoscere la verità e nell'evitare l'errore . . . S e in logica tutto si deve dimostrare} i principi de­ vono essere presi daWontologia e dalla psicologia. La

logica insegna infatti le regole per mezzo delle quali l'intelletto è guidato alla conoscenza di ogni ente; in­ fatti la definizione che se ne dà non la limita a una determinata specie di enti. Essa deve perciò insegnare quali siano gli enti ai quali, nella conoscenza delle cose, siamo tenuti a prestare attenzione. Ma questi devono essere derivati da una conoscenza generale dell'ente, che si attinge dall'ontologia. È chiaro perciò che per le dimostrazioni delle regole della logica ci si deve rifare ai principi dell'ontologia. D'altra parte, poiché la logica espone il modo di guidare l'intelletto nella conoscenza della verità, essa deve insegnare l'uso delle sue opera­ zioni nel conoscere la verità. E quale sia invero la fa­ coltà conoscitiva, quali le operazioni dell'intelletto, lo si impara dalla psicologia. È chiaro dunque che per le dimostrazioni delle regole della logica si devono chie­ dere principi alla psicologia . . .

Se in logica tutto si deve dimostrare rigorosamente}

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

ricorrendo a ragioni naturali, la logica dev'essere po­ sposta all'ontologia e alla psicologia. Infatti la logica trae i propri principi dall'antologia e dalla psicologia. (Philosophia naturalis, Discorso preliminare, vol. I, pp. 20, 27)

m,

61, 89-90,

1 1 . Wolff : proposizioni e giudizi . È chiaro che una proposizione ovvero un'enuncia­ zione differisce da un giudizio. Il giudizio, infatti, è

un atto della mente per mezzo del quale le idee che rappresentano le cose nella mente o sono unite tra loro o vengono separate; invece le proposizioni, o le enun­ ciazioni, non sono che combinazioni di termini corri­ spondenti alle idee, per mezzo dei quali viene significata la congiunzione o separazione di quelle. Nello stesso modo in cui differiscono dunque nozioni e termini con i quali sono indicate le nozioni (avendo i termini lo stesso rapporto con le nozioni che i segni con le cose significate), cosl differiscono anche enunciazioni e giu­ dizi, cosl come differiscono tra loro i segni e le cose indicate dai segni. (Philosophia naturalis, I/I,

I,

42, vol. I, p. 30)

La nozione che abbiamo o contiene le sole note della cosa o anche attributi, modi e determinazioni estrin­ seche. . . Chiamo semplice quella nozione che consta di sole note; complessa quella che è composta, oltre che dalle

note, da altri attributi sia intrinseci sia estrinseci alla cosa. (Philosophia naturalis, l/II,

u,

104-5, vol. l,

p.

1 12)

LOGICA E MATEMATICA DA LEIBNIZ A WOLFF

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Equipollenti sono detti quei giudizi ai quali corri­ sponde la medesima nozione complessa. Equipollenti sono le proposizioni per mezzo delle quali vengono significati giudizi equipollenti, o che possono essere mutuamente sostituiti facendo salva la nozione com­ plessa. (Philosophia naturalis, l/Il,

II,

278, vol. I,

p.

175)

È composito quel sillogismo del quale una o entrambe le premesse non siano proposizioni categoriche . . . Qualora l a premessa maggiore sia una proposizione ipotetica, lo si chiama sillogismo ipotetico. Si chiama anche sillogismo condizionale o connesso . . . Nella proposizione ipotetica, antecedente è detta la proposizione che contiene la particella condizionale, ossia quella che enuncia la condizione relativamente al soggetto, sotto la quale cioè gli è attribuito un predi­ cato, oppure . . . è negato ; conseguente si chiama la pro­ posizione nella quale il predicato è attribuito al sog­ getto . . .

Se nel sillogismo ipotetico si pone l'antecedente, si deve porre anche il conseguente; se invece è tolto il conseguente, si deve togliere anche l'antecedente. (Philosophia naturalis, l/IV, II, 403, 405, 407, vol. I, pp. 218-19)

1 2 . Wolff: le conseguenze immediate.

Date due proposizioni equipollenti, se ne viene am­ messa una dev'essere ammessa anche l'altra, e vice­ versa. Le proposizioni equipollenti possono infatti es­

sere sostituite l'una all'altra, salva restando la nozione complessa che ad esse corrisponde. Perciò, ammessane

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

una, è manifesto che si deve ammettere l'altra; se in­ fatti si nega che si debba fare ciò, allora l'una non potrà essere sostituita all'altra: non saranno dunque due equipollenti, il che va contro l'ipotesi. Allo stesso modo è chiaro che, se non viene ammessa l'una, non si può ammettere l'altra . . .

Se di due proposizioni equipollenti l'una viene as­ sunta come antecedente e l'altra come conseguente, si otterrà un sillogismo ipotetico. Il modus ponens per il sillogismo ipotetico è : posto l'antecedente, è posto anche il conseguente; ma l'antecedente è posto, dun­ que anche il conseguente. Ora, se di due proposizioni

equipollenti se ne ammette una, bisogna ammettere an­ che l'altra, per cui se l 'una è considerata come l'ante­ cedente e l'altra come conseguente, si avrà comunque un sillogismo ipotetico . . .

Se si avranno due proposizioni contraddittorie, po­ sta una di esse, deve esser tolta l'altra . . . Posta una proposizione universale, si pone una qual­ siasi subalterna. La subalterna non è infatti altro che una proposizione particolare che è contenuta sotto l'uni­

versale. Ma d'altra parte ciò che si afferma di ogni A, o si nega, dev'essere affermato o negato anche di qual­ che A, o di questo A singolare. Per cui, se si pone una proposizione universale, per ciò stesso si pone una sua subalterna. (Philosophia naturalis, l/IV,

v,

445-47, vol. I,

pp.

234-35)

II/ L'EREDITA LEIBNIZIANA E LA LOGICA DEL SECONDO SETTECENTO

Alla morte di Leibniz il progetto per la realizzazione dell'ars characteristica non era uscito dallo stadio di sem­ plice abbozzo : di esso restava - come si è già accennato ­ una serie di geniali schizzi, ma per un lungo periodo non fu possibile conoscere quasi nulla delle speculazioni leibni­ ziane sull'argomento. I saggi per la costruzione della carat­ teristica, i saggi sulla grammatica rationis e sul calcolo logico - al pari di una sterminata quantità di scritti tutt'ora in corso di pubblicazione - restarono sepolti per circa due secoli nella Biblioteca Reale di Hannover, finché una parte di essi vide la luce nel 1 890, nel settimo volume delle opere filosofiche di Leibniz curate da Cari Immanuel Gerhardt, e poi soprattutto nel 1903, con gli Opuscules et fragments inédits raccolti da Louis Couturat. Privi del punto di rife­ rimento che la conoscenza di questi contributi avrebbe po­ tuto rappresentare, condizionati dall'affermarsi del wol­ fismo, i logici che nell'ambito della cultura tedesca suc­ cedettero a Leibniz non compresero il senso profondo del progetto per la creazione di una ars characteristica. Que­ st'ultima venne ora semplificata, ora ridotta a sterile inda­ gine sull'espressività dei caratteri, ora ripudiata come im· possibile a realizzarsi. Gottfried Ploucquet ( 1 7 1 6- 1 790), per esempio, è del­ l'opinione che l'ars characteristica non possa in alcun modo fondarsi su un calcolo logico applicabile a qualsivoglia dominio di enti, come aveva invece progettato Leibniz. Rovesciando completamente le concezioni di quest'ultimo, Ploucquet distingue infatti la materia dalla forma del cal­ colo, per sostenere - al contrario di quanto riteneva Leibniz - che, data la molteplicità delle materie e delle discipline, non può esservi un unico calcolo formale appli­ cabile a tutte le scienze. Contestando, in parte giustamente, l'aspirazione enciclopedica dell'ars characteristica, Ploucquet

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

finisce per sottovalutare la stessa esigenza di generalità che, da un punto di vista formale, Leibniz aveva annoverato tra i requisiti fondamentali del calcolo logico. Gli scritti logici di Ploucquet riducono quindi essenzialmente il cal­ colo logico al calcolo sillogistico; in essi si cerca di perve­ nire a una semplificazione della procedura sillogistica, da un lato ricorrendo a una considerazione quantitativa dei termini del sillogismo e dall'altro riducendo a una sola le regole cui deve obbedire il sillogismo : « nella conclusione i termini devono essere presi nella medesima estensione che hanno nelle premesse » . Tuttavia, poiché può darsi il caso che i termini della conclusione abbiano nelle premesse la stessa estensione, senza che il termine medio abbia ( nelle due premesse) la medesima estensione, Ploucquet assume come principio fondamentale dell'inferenza un'altra regola : « la parte di una parte del tutto è a sua volta parte del tutto ». Infatti il sillogismo: « tutti i Greci sono uomini; gli Ateniesi sono Greci; dunque tutti gli Ateniesi sono uomini » assume nella trattazione di Ploucquet la seguente forma: « tutti i Greci sono una parte degli uomini; tutti gli Ateniesi sono una parte dei Greci; dunque tutti gli Ateniesi sono una parte degli uomini » . In esso, come si può constatare, il termine medio « Greci » compare sotto segni di quantità opposti ( una parte, tutti ), ma in virtù del principio appena menzionato si può passare dalle pre­ messe alla conclusione. La regola della parte e del tutto enuncia la proprietà transitiva dell'inclusione tra classi. A differenza di Ploucquet, fautore della caratteristica fu invece Johann Heinrich Lambert ( 1728- 1 777). Studioso di astronomia, matematico, spirito autenticamente enciclope­ dico, Lambert si occupò a fondo di logica e per circa un decennio (dal 1 750 al '60 ) lavorò alla costruzione di un calcolo logico sul tipo di quello ideato da Leibniz. L'opera di maggiore impegno filosofico che Lambert abbia composto è il Neues Organon, pubblicato a Lipsia nel 1 764 in due volumi : in esso la logica deduttiva non è però il tema cen­ trale della trattazione, e il libro concerne nello stesso tempo questioni di gnoseologia, di ontologia e di semiologia. Nel Neues Organon Lambert si occupa del sillogismo ricor­ rendo a una rappresentazione grafica delle proposizioni me-

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diante l'uso di linee, in ciò seguendo - ma senza saperlo ­ l'esempio di Leibniz. La trattazione che ne risulta è svolta secondo la prospettiva dell'estensione, cioè considerando i rapporti tra concetti in relazione agli individui denotati e non in relazione alle proprietà dei concetti stessi. Nei Nouveaux essais ( libro IV, capitolo XVII, § 8 ) Leibniz aveva fornito delle nozioni di intensione ( o comprensione ) e di estensione un'idea abbastanza chiara : « . . . dicendo 'ogni uomo è animale' voglio dire che tutti gli uomini sono com­ presi in tutti gli animali; ma io intendo nello stesso tempo che l'idea dell'animale è compresa nell'idea dell'uomo. L'animale comprende più individui dell'uomo, ma l'uomo comprende più idee o più formalità; l'uno ha più esempi, l'altro più gradi di realtà, l'uno ha più estensione, l'altro più intensione ». Per motivi strettamente connessi a scelte di carattere ontologico-metafisico Leibniz privilegiava nel calcolo logico, sia pure adottando entrambi i criteri, il cri­ terio dell'intensione rispetto a quello della estensione. Con l 'eccezione pressoché esclusiva del Neues Organon, anche Lambert compie nei suoi scritti di logica - a differenza di Ploucquet - la medesima opzione. Nel De universaliori calculi idea - uno dei pochissimi scritti logici pubblicati da Lambert - e nei saggi editi postumi ( 1 782-87 ) da Johann Bernoulli III il calcolo è concepito infatti essen­ zialmente in rapporto alle note caratteristiche che com­ pongono i concetti e alle loro reciproche relazioni. In particolare, il calcolo logico che Lambert elabora nei saggi raccolti e pubblicati da Bernoulli concerne i rapporti tra un dato genere ( ad esempio « uomo » ) e le sue specie ( « Greco », « fabbro » , « insegnante » ecc. ). Il principio fondamentale del calcolo è che la somma delle differenze (ad esempio « essere razionale » ) e del genere ( ad esempio : « animale » ), dà luogo alla specie ( in questo caso: « uomo » ) , e viceversa : la specie meno la differenza dà luogo al genere ( oppure : la specie meno il genere dà luogo alla differenza ). Le due operazioni di somma e sottrazione sono cosl assunte come inverse ; e nel caso della sottrazione, garanzia della correttezza del risultato è che i concetti sottratti non ab­ biano tra loro parti comuni. Se infatti si dà il caso di due concetti, poniamo a e b, aventi delle note in comune, qua-

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

lora dalla somma a + b si sottragga b non si ottiene evi­ dentemente il concetto a, ma solo la parte di a che non ha note comuni con b. Al pari di Leibniz, anche Lambert si cimentò con le relazioni, che considerava proprietà esterne agli oggetti, e giunse perfino a occuparsi - benché ostacolato da un simbolismo poco maneggevole - di « relazioni di rela­ zioni ». Come nel caso di Leibniz, però, sia l'eccessiva fedeltà a un modello di proposizione strutturata nella forma soggetto predicato sia il privilegiamento del punto di vista dell'intensione contribuirono in maniera notevole a rendere privo di sviluppi il suo calcolo. Proprio contro l'adozione, da parte di Lambert, del punto di vista intensionale reagl il discepolo di Ploucquet Georg Johann von Holland ( 1 742- 1 784 ). In una lettera a Lambert del 9 aprile 1 765 Holland rivendicò la supe­ riore validità del proprio calcolo, dandone un breve saggio. In esso ciascuna premessa del sillogismo è ridotta a un'e­ quazione nella quale il segno « = » equivale alla copula « è », e le due frazioni che la compongono esprimono le classi cui fanno riferimento il soggetto e il predicato della premessa, unitamente alle rispettive quantità ( tutti, qual­ che, nessuno). L'impiego di frazioni non è tuttavia dei più felici, e il calcolo che ne risulta da un lato è eccessi­ vamente vincolato alla sola sillogistica ( come del resto accadeva già in Ploucquet ), dall'altro è troppo pedissequa­ mente costruito sull'esempio di un calcolo matematico. Ploucquet, Lambert e Holland forniscono, nell'ambito della cultura tedesca, pressoché gli ultimi contributi al cal­ colo logico prima che, con l'avvento della filosofia kantiana e dell'idealismo, lo studio della logica formale passi deci­ samente in secondo piano. Occorre osservare tuttavia che il progressivo affermarsi delle concezioni filosofiche elabo­ rate da Kant, più che comportare una caduta di interesse per la logica, avrà come conseguenza essenzialmente quella di dar risalto a una problematica non propriamente incen­ trata sugli aspetti formali-deduttivi del ragionamento. Di­ stinguendo tra logica pura o generale e logica trascenden­ tale, la tradizione kantiana concentrerà i propri interessi sulla seconda, considerando la prima come una disciplina

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pressoché giunta al proprio compimento e non bisognosa di ulteriori sviluppi. Kant stesso, d'altra parte, aveva dato il proprio contributo, nel periodo giovanile, all'ulteriore perfezionamento della logica sillogistica. Con Die falsche Spitzfindigkeit der vier syllogistischen Figuren ( 1 762 ) egli aveva infatti cercato di dimostrare la riducibilità alla prima delle restanti figure del sillogismo. Se tale intento non può certamente essere considerato originale, l'interesse preci­ puo di questo scritto consiste non soltanto nel rigore con cui Kant cerca di dimostrare la propria tesi, ma soprattutto nell'assunto di derivazione wolfiana, secondo il quale la prima figura corrisponderebbe a un modo naturale di pen­ sare. La credenza in tale assunto non sarà sufficiente però a far ·Slittare Kant nello psicologismo : il suo giudizio ap­ pare infatti abbastanza sicuro nel distinguere i compiti della logica generale da quelli della psicologia. Anche Kant, al pari di Wolf, di Ploucquet e di Holland, opera la ridu­ zione dell'intera logica formale alla teoria del sillogismo. Non fa meraviglia perciò trovare questa riduzione, tipica della maggior parte dei testi logici della seconda metà del Settecento, anche in Leonard Euler ( 1 707- 1 783 ). Matema­ tico e fisico, presidente dell'Accademia delle Scienze di Berlino, Eulero propone una illustrazione diagrammatica estremamente nitida ed efficace dei rapporti tra termini nel sillogismo. L'idea che sta alla base dei diagrammi di Eulero è quella di rappresentare i concetti mediante certe regioni dello spazio considerate come classi di punti, in maniera che le operazioni e le relazioni che si possono instaurare tra le regioni diventino rappresentative delle operazioni e relazioni tra concetti. Nelle lettere alla principessa di Anhalt-Dessau, nipote di Federico II di Prussia (pubblicate nel 1 772 ), Eulero prende in considerazione regioni rac­ chiuse da circonferenze, e descrive per loro mezzo le figure fondamentali del sillogismo. Benché già noto e ampiamente utilizzato ( per esempio nel Medioevo e nel Rinascimento), il sistema di rappresentare mediante figure geometriche i rapporti tra i concetti è sottoposto in Eulero a una lim­ pida esposizione, e anche per ciò avrà, soprattutto da un punto di vista didattico, grande fortuna. A una rappresentazione diagrammatica delle proposizioni

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

si rifà nell'Essai de dialectique rationnelle ( 1 8 1 7 ) anche il matematico Joseph Diez Gergonne ( 1 7 7 1 - 1 859 ), fondatore delle « Annales de Mathématiques pures et appliquées » . Nell'Essai Gergonne, dopo avere individuato cinque rela­ zioni fondamentali tra le estensioni di due concetti qua­ lunque, assegna un simbolo a ciascuna di tali relazioni e le inserisce, a gruppi di tre, in maniera meramente combina­ toria, tra i termini del sillogismo disposti nella prima figura. Gergonne calcola in tal modo il numero totale delle pos­ sibili disposizioni dei simboli di relazione entro la figura data, e da tale numero ricava 54 sillogismi concludenti. Il calcolo di Gergonne si fonda su una considerazione rigo­ rosamente estensionale dei concetti, ed è una trattazione coerente e sistematica della sillogistica classica. Caso raro tra i cultori di logica della fine del Settecento e i primi dell'Ottocento, Gergonne riteneva tra l'altro che la sillo­ gistica non esaurisse da sola le possibili forme di ragiona­ mento logico.

l . Ploucquet : il metodo di dimostrazione diretta dei

sillogismi. Ora . . . mi resi conto che il metodo da me impiegato poteva esser reso più semplice e breve, in modo tale che una singola regola potesse bastare non soltanto alla dimostrazione diretta di tutte le figure e i modi, ma anche a scoprire i vizi della forma logica. Cosl non è più necessaria la divisione dei sillogismi nelle loro figure e delle figure nei modi ; non sono più necessarie né la riduzione né le regole delle figure da imparare a memoria che sovente, a causa del fatto che vengono dimenticate, lasciano in asso i disputanti; basta invece quest'unico precetto: nella conclusione i termini devono

essere presi nella medesima estensione che hanno nelle premesse.

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Prima però che es1bisca il mio metodo, devono es­ sere compiute alcune osservazioni riguardo alle regole generali dei sillogismi . . . Vi sono solamente due regole principali presupposte da questo metodo, delle quali una afferma « da quattro termini non segue nulla » , e l'altra « da mere negative non segue nulla » . Le restanti regole che di solito si insegnano vengono agevolmente dedotte da queste due. La regola che insegna che da semplici particolari non segue nulla dev'essere intesa riferita alla particolarità che ammette quattro termini nei sillogismi . Se infatti il medio viene preso due volte nella medesima esten­ sione, le premesse dànno una conclusione vera ; e se le premesse che hanno il segno particolare non gene­ rano la conclusione, ciò non avviene per la natura della particolarità, ma è dovuto in parte al fatto che per ipotesi il predicato della conclusione è sempre il ter­ mine maggiore, e in parte al fatto che al predicato non si è soliti premettere il segno di quantità. . . Per esempio, M significhi moneta, P grave e S me­ tallo, e si diano le seguenti premesse : qualche grave è moneta qualche metallo è moneta Se la particolarità della moneta è la medesima sia nella maggiore sia nella minore, e con essa si sottintenda, per esempio, questo o quel ducato, ne nascerà benis­ simo questa proposizione : qualche metallo è qualche grave. Infatti questo o quel ducato ha due predicati, vale a dire « essere qualche grave » e « essere qualche metallo » . . . Dal momento però che non siamo soliti aggiungere segni di quantità ai predicati, in luogo della conclu-

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sione « qualche metallo non è qualche grave » , si suoi dire: « qualche metallo non è grave » , proposizione che ha logicamente il seguente senso: « nessun grave è qualche metallo » ; ma tale proposizione non è scorre­ vole, e questo è il motivo per cui si dice che da mere particolari non segue nulla. E la regola è considerata generale non in riferimento alle idee pure, ma a causa dell'insufficienza del linguaggio comune. (Methodus tam demonstrandi directe omnes syllogismorum species quam vitia formae detegendi, in Sammlung, pp . 18-2 1 )

O prefisso, denota totalità considerata positivamente N prefisso denota totalità considerata negativamente Q o q prefissi denotano particolarità. Due o più lettere congiunte significano un soggetto con i suoi predicati; per esempio: AB significa il sog­ getto A con il predicato B. ABC significa il soggetto A, al quale inerisce il predicato B, il quale include simul­ taneamente il predicato C. A - B denota : A è B. A > B denota : A non è B. NA - B denota : nessun A è B. A prefisso a una proposizione significa affermazione universale. I denota affermazione particolare. E denota negazione universale. O denota negazione particolare . . . (Extracta e fundamentis philosophiae speculativae, 34, in Sammlung, pp. 3-4)

Si trovi la legittima conclusione dalle premesse date. Soluzione : si pongano tre termini, S, M, P. A ciascun termine si aggiunga un segno di quantità

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e

qualità, e così, tenendo ferma l'attenzione su di uno, si confronteranno i nessi tra S e P. Esempi. Sia OM - P OS - M si chiede quale sia la legittima conclusione. Poniamo S, M, P. Aggiunti i segni, si otterrà questa struttura : OSqMqP, cioè : OS è qualche M, e lo stesso M è qualche P, ovve­ ro : ogni S è P. . . NM - P OS - M Posti i termm1 come sopra, si avrà : OSq M > OP, cioè : ogni S è qualche M, e lo stesso M sta fuori da tutti i P; ovvero tutti gli S stanno fuori da tutti i P, ovvero nessun S è P. (Methodus tam demostrandi directe omnes syllogismorum spe­ cies, quam vitia forme detegendi, in Sammlung, pp. 21-22)

2 . Lambert : saggio di arte caratteristica.

Ci rappresentiamo una cosa nel pensiero quando me­ diante alcune note caratteristiche la distinguiamo da altre cose, e chiamiamo concetto questa rappresenta­ zione. Con ciò è chiaro però che, per poter avere il concetto di una cosa, ci rappresentiamo anche le note di essa, e che di conseguenza dobbiamo averne anche i concetti. Un concetto è così composto da altri con­ cetti come sue proprie note caratteristiche, che pos­ sono a loro volta essere sviluppate ed essere condotte a grande completezza.

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

Se ci rappresentiamo soltanto oscuramente le note caratteristiche, allora il concetto di una cosa è chiaro; ma se ne conosciamo le note in modo chiaro, allora il concetto è distinto. L'arte di render distinti i concetti conduce dunque alla capacità di render chiare le oscure rappresentazioni delle note caratteristiche. Se si sviluppano le note caratteristiche di una cosa, si trova che alcune di esse sono comuni ad altre cose o concetti, e che tutte queste, prese insieme, compon­ gono il concetto del genere. Le altre note sono proprie della cosa, e di conseguenza la distinguono dalle altre cose. Si chiamano perciò, prese insieme, la differenza specifica. Dunque il genere e la differenza di una cosa ne compongono il concetto . . . Poiché le note comuni e le note proprie di un con­ cetto sono il genere e la differenza di esso, è evidente che una spiegazione di un concetto deve constare del genere e della differenza, e che in luogo di tale concetto può esser posta la sua spiegazione. Sono identiche o eguali quelle cose che possono es­ sere poste l'una al posto dell'altra. Di conseguenza, anche due concetti sono eguali quando si può porre l'uno al posto dell'altro, o quando l'uno ha proprio tutte le medesime note che sono nell'altro. Da ciò si vede che la spiegazione e il concetto chiarito sono tra loro eguali. Si possono dunque aggiungere o separare note iden­ tiche a concetti identici, senza perciò togliere l'egua­ glianza dei concetti. Un concetto consiste di un insieme di note in parte comuni, in parte sue proprie. Non si può dunque modifì­ carlo in altro modo che mediante aggiunta o separa­ zione di note . Se si tolgono le note proprie, riman-

' L EREDITÀ LEIBNIZIANA

101

gono quelle comuni, e conseguentemente il concetto si tolgano invece le note comuni, rimarrà

del genere; il concetto

della specie.

Se, al contrario, si considera il concetto come un genere, e vi si aggiunge una nuova determinazione, si ottiene la nota e quindi il concetto di una specie più bassa. Se si tratta invece un concetto come una deter­ minazione che si può aggiungere al concetto di un genere, si ha di nuovo una specie di questo genere. Ma poiché nei concetti composti non può esservi nulla di contraddittorio, non vi si deve aggiungere neppure alcuna nota che contraddica alle prime, sebbene esse possano sopprimerla. Poniamo come segno di eguaglianza = , come segno di congiunzione + , come segno di separazione - , come segno di opposizione X , come segno di universalità > , come segno di particolarità < , come segno della copula - , come segno di concetti dati a, h, c, d ecc . , come segno di concetti indeterminati n, m, l ecc., come segno di concetti sconosciuti x, y, z , come segno del genere y, come segno della differenza o , il segno di negazione . Si vede facilmente che se un concetto è = a, ay è il genere, ay" un genere superiore, ao la differenza, ao" una differenza superiore, ay + ao = a la spiegazione, allora (ay + a ot oppure a (y + o )" sarà una spiega­ zione di grado superiore.

102

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

Poiché ay + ao oppure a (y + o) = a; cosl abbiamo anche ay = a - ao. E cosl pure ao = a - ay; si pos­ sono dunque sostituire l'uno all'altro. Sia ay + ao = a; poiché ora ay = ar + ayo, e ao = aoy + aoo; allora abbiamo anche a = a ( 'Y + of = = ay2 + ayo + aoy + aoo : una definizione di secondo grado. Se ora qui spieghiamo nuovamente le note: ar, ayo, aoy, aoo, abbiamo a = a ('Y + o)3 = ay3 + ay2o + + ayo2 + yoy + 0"(0 + oy2 + o 2y + o3: una spiega­ zione di terzo grado, dalla quale, sempre con lo stesso metodo si può trovare la spiegazione di gradi superiori. . . Cosl, come abbiamo espresso mediante ayn tutti i generi superiori del concetto a, possiamo esprimere con

ay-n oppure con � yn tutte le specie più basse del ge­ nere a ... I l concetto ay2 + aoy dev'essere tenuto ben distinto dal concetto (ay + ao) 'Y e ay (ay + o), poiché (ay + + ao ) 'Y = a"( ('Y + o) = a"(, ma questo non è eguale a ar + aoy. (ay + ao) 'Y non si lascia mutare in ay2 + + aoy; cioè il genere composto da molte note non

equivale ai generi di ciascuna nota. Ciò vale anche per la differenza . . . Cosl pure s i deve distinguere _a___ y da qy__ I l primo 'Y 'Y è infatti il genere della prima specie più bassa, e con•

seguentemente � y = a ay è invece una specie del 'Y 'Y genere di a, però indeterminata . . . L a somiglianza è l'eguaglianza delle note. Due con­ cetti sono dunque simili nella misura in cui hanno note eguali. In rapporto alle note rimanenti sono invece dif­ ferenti. Due concetti che sono simili hanno dunque note ·

·

L'EREDITÀ LEIBNIZIANA

103

comuni, e note proprie; le prime appartengono alla somiglianza, le seconde alla differenza. Siano a e b due concetti : la loro somiglianza o la comunanza di note venga espressa ponendoli l'uno accanto all'altro, cosl: ab; ora, poiché ab esprime le note comuni di a e b, sono allora a - ab le note proprie di a, e b - ab quelle proprie di b. Di conseguenza a + b - ab - ab = alle note peculiari dei due concetti a e b. (I. Versuch einer Zeichenkunst in der Vernun/tlehre, 1-12, 17, 20-21, 24-25, in Philosophische Schriften, vol. VI/ l , pp. 36, 9- 1 1 )

3. Lambert : la rappresentazione dei rapporti tra con­ cetti. In un rapporto metafisica occorrono : l ) due con­ cetti; 2 ) la nota del rapporto; 3 ) la nota contrapposta ad essa . . . S i designi l a nota metafisica con una lettera greca, e si ponga accanto ad essa la lettera del concetto, in modo che tra le due si interponga il segno : : ; la nota con­ trapposta a tale nota la si indichi in modo che stia sotto la lettera del concetto, e venga separata con una linea : Ci sia consentito addurre il seguente esempio come chiarimento. Sia i = fuoco, c = calore, a = causa; al­ lora i = a. : : c, il fuoco è la causa del calore ; e

e e

l = � , il fuoco sta c

al calore come la causa all'effetto;

il fuoco sta alla causa come il calore all'effetto ; l=�, a

� =__:__ , il calore t

a

sta al fuoco come l'effetto alla causa .

. .

104

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

Poniamo la lettera del rapporto = per esempio, a = cp : : b. l . Poniamo ora b =

q>.

Allora sarà,

cp : : c

avremo a = q> : : cp : : c. Poniamo inoltre c =

= q>2 e cp : : q> : : q> = q>3 ecc. per indicare il grado del rapporto nel quale stanno i concetti a e c e d. 2 . Se a = q> : : b e c = cp : : a, allora a = c = q> : : b, e di conseguenza c = cp2 : e

b =�.

b

q>

(II. Versuch einer Zeichenkunst in der Vernunftlehre, in Phi· losophische Schriften, vol. VI/ l , 18-19, 27)

4. Holland : esempio di calcolo. Se S indica il soggetto, P il predicato, p, 1t, numeri . . S P " determmau m che possono vanare, aIl ora - = -- asse1t ·

p

risce lo stesso che « una parte di S è una parte di P » , oppure : « certi S sono certi P » , oppure : « alcuni S sono alcuni P » . Questa espressione è la formula gene­ rale di tutti i possibili giudizi, e viene cosl chiarita : Un numero è o affermativo o negativo, e in entrambi i casi è finito o infinito. Vogliamo adesso vedere come possono essere determinati p e 1t .

' L EREDITÀ LEIBNIZIANA

Se p = l in gli S

»,

l__

p

105

, allora _.L ha la stessa quantità di « tutti

p

e in questo modo la funzione _l_ ha raggiunto

p

il maximum logicum. Poiché dunque p non può diven­ tare più piccolo di l , non può neppure scomparire, e di conseguenza neppure diventare negativo. . . Questa pro. p . pneta' la cond"1v1"de con 'lt

Perciò p, 'lt, non possono essere altro che affermativi, e non più piccoli di l . Se p o 1t diventa infinito, allo­ ra il concetto è negativo. È un peculiare artificio del­ l'arte dei segni quello di esprimere in algebra lo O me-

diante ___!_ , e quindi di dare a un concetto negativo una 00

forma affermativa allo scopo di sottoporlo alle regole generali del calcolo. Cosl l'espressione « una parte infi­ nitamente piccola di una linea curva è una linea retta », non dice altro che « nessuna parte di una linea curva è retta » . Mediante una designazione che appare posi­ tiva si è posti in condizione di ricavare proprietà posi­ tive da determinazioni negative. Presupposto ciò, non sono possibili altro che le se­ guenti forme di giudizi, nelle quali esprimo con f un numero finito che è maggiore di l : . . p p l) s =T ; tuttl g l"1 s sono tutti 1 1 .

2) 3) 4)

i � ; tutti gli S sono alcuni P i � ; tutti gli S non sono P � = � ; alcuni S sono tutti i P =

=

106

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

5) 6) 7)

8)

� = � alcuni S sono alcuni P � = : ; alcuni S non sono P ;

p s � ; =l

p s ; ---; ;; = T

9) s = oo

p

-

00

tutti i non-S sono tutti i P

tutti i non-S sono alcuni P

; tutt1. 1. non-s sono tutt1. 1. non-p

Queste nove specie di giudizi si riducono a quattro, e cioè : l , 2 , 9 : universali affermativi 3 , 7 , 8 : universali negativi 4, 5 : particolari affermativi 6 : particolari negativi. È facile adesso, su questa base, indicare un'inferenza. La regola principale è data dal fatto che, se non ci si è accertati della medesima particolarità, si usino sempre lettere differenti per divisori, per non dar luogo a una falsa sostituzione. Esempio I . Tutti gli uomini, H, sono mortali, M; tutti gli Europei, E, sono uomini, H ; M

H=

p H

E = Ne consegue E

=

1t

M

p

1t

, cioè : tutti gli Europei sono

mortali . Ma la particolarità di M nella conclusione è stata

' L EREDITÀ LEIBNIZIANA

107

ottenuta necessariamente in maniera diversa da come lo era stata nella premessa, poiché gli Europei costi­ tuiscono una parte più piccola dei mortali, che non gli uomini in generale. Si tratta in certo modo di una par­ ticolarità di particolarità. Esempio II.

Tutte le piante sono organismi :

p=

o

­

p

tutte le piante non sono animali :

p= ne consegue

A

-

00

A

O

00

p

alcuni organismi non sono animali. Esempio III. Tutti gli uomini sono razionali :

R H=­ p

tutte le piante non sono razionali :

R

P=00

tutte le piante non sono uomini :

P=

p

R

00

dove ci si deve ricordare dall'algebra che _f_ non è né 00

più né meno infinitamente piccolo di __!__ . 00

(Lettera a Lambert del 9 aprile 1765, in J. H. Lambert, Phi­ losophische Schriften, vol. IX/ l , pp. 17-20)

108

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

5 . Kant : i sillogismi e le loro regole. Giudicare significa comparare qualcosa, intesa come nota, con una cosa : questa è il soggetto, la nota il predicato. La comparazione viene espressa mediante il connettivo è, oppure sono, il quale, usato da solo, denota il predicato, come una nota del soggetto, con­ giunto invece col segno di negazione, fa riconoscere il predicato come una nota contrapposta al soggetto. Nel primo caso il giudizio è affermativo, nel secondo negativo. Si comprende facilmente che, chiamando il predicato una nota, non lo si qualifica pèr ciò stesso come una nota del soggetto ( infatti esso è anche tale solo nei giudizi affermativi) bensl come nota di una cosa qualunque, malgrado in un giudizio negativo con­ traddica al soggetto del giudizio stesso. Sia ad esempio spirito la cosa che io penso, e sia composto la nota di qualcosa; il giudizio uno spirito non è composto pre­ senta questa nota come contraddittoria con la cosa stessa. Ciò che è nota di una nota di una cosa viene detto nota mediata di questa cosa. Cosl, necessario è una nota immediata di Dio, mentre immutabile, come nota del necessario, è una nota mediata di Dio. Si riconosce facilmente che la nota immediata rappresenta una nota intermedia (nota intermedia) fra la nota distante e la cosa stessa, in quanto la nota distante può essere com­ parata con la cosa solo mediante la nota immediata. Tuttavia si può anche confrontare negativamente una nota con una cosa mediante una nota intermedia, rico­ noscendo che qualcosa contraddice la nota immediata di una cosa. Casuale, come nota, contraddice necessa­ rio; ma quest'ultima è una nota di Dio e si riconosce

' L EREDITÀ LEIBNIZIANA

109

quindi, tramite una nota intermedia, che essere casuale contraddice Dio. Giungo adesso a dare effettivamente la mia defini­ zione di sillogismo : sillogismo è ogni giudizio per mezzo di una nota mediata, o, in altre parole : esso è la com­ parazione di una nota con una cosa mediante una nota intermedia. Questa nota intermedia (nota intermedia) di un sillogismo viene anche detta talvolta concetto medio fondamentale (terminus medius); è sufficiente­ mente noto quali siano gli altri concetti fondamentali. Per riconoscere distintamente, nel giudizio " l'anima umana è uno spirito " , quale sia la relazione della nota alla cosa, mi servo della nota intermedia ragionevole, tramite la quale considero essere uno spirito come una nota mediata dell'anima umana. Qui debbono necessa­ riamente intervenire tre giudizi, e precisamente: l ) essere uno spirito è una nota di ragionevole, 2 ) ragionevole è una nota dell'anima umana, 3 ) essere uno spirito è una nota dell'anima umana ; infatti la comparazione di una nota distante con la cosa stessa non è possibile altrimenti se non mediante que­ sti tre passaggi. In forma di sillogismo essi suonerebbero come se­ gue : « Ogni cosa ragionevole è uno spirito; l'anima umana è ragionevole ; di conseguenza l'anima umana è uno spirito » . Orbene, questo è un sillogismo affer­ mativo. Per quanto concerne i sillogismi negativi, si vede altrettanto facilmente che, poiché non sempre riconosco con sufficiente chiarezza la contraddizione di un predicato col soggetto, ogni volta che posso debbo facilitare il mio esame servendomi di una nota inter­ media. Supponiamo che mi venga proposto il seguente giudizio negativo: « la durata di Dio non può essere

1 10

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

misurata rispetto a nessun tempo » e supponiamo che io non ritenga che questo predicato, confrontato di­ rettamente col soggetto, mi fornisca un'idea sufficien­ temente chiara della contraddizione; in questo caso mi servo di una nota che io mi possa immediatamente rap­ presentare in questo soggetto, confronto con essa i] predicato e quindi, tramite essa, con la cosa stessa. Essere misurabile rispetto al tempo contraddice ogni immutabile; d'altra parte, immutabile è una nota di Dio, e quindi ecc. Espresso formalmente, questo pro­ cesso si può rendere come segue : « nessun ente immu­ tabile può essere misurato rispetto al tempo ; la durata di Dio è immutabile; di conseguenza ecc. » . D a quanto abbiamo finora detto s i riconosce che la regola prima e generale di tutti i sillogismi affermativi è la seguente : una nota della nota è una nota della cosa stessa e quella di tutti i sillogismi negativi : ciò che

contraddice la nota di una cosa, contraddice la cosa stessa. Inoltre nessuna di queste regole è passibile di

dimostrazione. Infatti una dimostrazione è possibile soltanto mediante l'impiego di uno o più sillogismi, e quindi voler dimostrare le regole supreme di tutti i sil­ logismi, significherebbe muoversi in circolo. Che queste regole contengano il fondamento ultimo e più generale di ogni tipo di inferenza sillogistica viene messo in luce dal fatto che le altre regole fino ad oggi ritenute da tutti i logici come primitive per tutti i sillogismi, deb­ bono mutuare l'unico fondamento della loro verità dalle nostre. Il dictum de omni, il supremo fondamento di tutti i sillogismi affermativi, suona infatti: ciò che può essere affermato in generale di un concetto, può essere affermato anche di ogni altro concetto in esso contenuto. Il fondamento dimostrativo di questo prin-

L'EREDITÀ LEIBNIZIANA

111

cipio è evidente. Quel concetto sotto i l quale n e sono contenuti altri, è senz'altro astratto come nota di questi ultimi; ora, ciò che conviene a questo concetto è una nota di una nota e quindi anche una nota delle cose stesse dalle quali è stato astratto, ossia conviene ai concetti inferiori in esso contenuti. Chiunque abbia anche un minimo di conoscenze logiche, si convincerà facilmente che questo dictum può risultar vero esclu­ sivamente per questa ragione e che di conseguenza è compreso nella nostra prima regola. Il dictum de nullo sta in un rapporto del tutto analogo con la nostra se­ conda regola. Ciò che viene negato in generale di un concetto, viene negato anche di tutti quei concetti che sono in esso contenuti. Infatti, quel concetto nel quale sono contenuti questi altri è niente altro che una nota astratta da essi. Ma ciò che contraddice questa nota contraddice anche la cosa stessa; di conseguenza ciò che contraddice il concetto superiore deve contraddire anche i concetti inferiori in esso contenuti.

(La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche, in « Ri­ vista critica di storia della filosofia », XX, 1965, pp. 486-88)

6. Kant : lo stato della logica in quanto scienza.

Se l'elaborazione delle conoscenze che sono di perti­ nenza della ragione segua o meno il sicuro cammino della scienza, si può giudicare facilmente dalla conclu­ sione. Quando essa, dopo aver fatto numerosi appre­ stamenti e preparativi, appena giunge in prossimità dello scopo si arena, o deve nuovamente e ripetute volte ricominciare da capo, tentando altre vie; e parimenti - quando non è possibile realizzare la concordia fra

1 12

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

i diversi collaboratori intorno al modo in cui dev'esser condotto il lavoro comune - si può allora esser certi che l'impresa è ben lontana dal cammino sicuro della scienza, procedendo piuttosto incertamente a tastoni. È già un gran merito per la ragione scoprire questo cammino, anche se dovesse costare il rigetto, come inutile, di ciò che faceva parte dello scopo, così co­ m'era stato in un primo tempo irriflessivamente con­ cepito. Che la logica abbia percorso questo sicuro cammino fin dai tempi più antichi risulta dal fatto che da Ari­ stotele in poi essa non ha dovuto fare alcun passo in­ dietro, a meno che non si voglia considerare correzione il ripudio di alcune superflue sottigliezze o la più chiara determinazione della materia che essa tratta; il che con­ cerne piuttosto l'eleganza che la certezza di una scienza. Importante è inoltre il fatto che sino ad oggi la logica non ha potuto fare un sol passo innanzi, e quindi se­ condo ogni apparenza, è da considerarsi conclusa e completa. Se infatti alcuni moderni han creduto di estenderla con l'aggiunta di alcuni capitoli, o psicologici, sulle diverse facoltà conoscitive (l'immaginazione, l'in­ gegno ), o metafisici, sull'origine della conoscenza e sulle diverse specie di certezza a seconda della differenza de­ gli oggetti ( idealismo, scetticismo, ecc.), o antropolo­ gici, sui pregiudizi (e le relative cause e rimedi), in realtà tutto questo deriva dalla loro ignoranza circa la vera natura di questa scienza. . . Il confine della logica è stabilito con rigore dal fatto che essa è una scienza che espone adeguatamente e dimostra rigorosamente null'altro che le regole formali di tutto il pensiero, sia esso a priori oppure empirico . . . (Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, pp.

3940)

L 'EREDITÀ LEIBNIZIANA

7.

1 13

Eulero: la rappresentazione grafica dei giudizi.

Un giudizio non è altro che un'affermazione o una negazione sulla convenienza o sulla non-convenienza di una nozione; e un giudizio enunciato in parole è ciò che si chiama proposizione. Per esempio si ha una pro­ posizione quando si dice : « tutti gli uomini sono mor­ tali »; in questa proposizione vi sono due nozioni : la prima, gli uomini in generale, e l'altra, la mortalità che comprende tutto ciò che è mortale. Il giudizio consiste nel fatto che si pronuncia e si afferma che la nozione di mortalità conviene a tutti gli uomini. È un giudizio, e in quanto è espresso con parole, è una proposizione ; e poiché afferma, è una proposizione affermativa. Se essa negasse sarebbe una proposizione negativa, come la proposizione : « nessun uomo è giusto » . Queste due proposizioni, prese come esempi, sono anche universali, poiché la prima afferma che tutti gli uomini sono mor­ tali, e l'altra nega che tutti gli uomini sono giusti. Vi sono poi proposizioni particolari, che si distin­ guono a loro volta in affermative e negative, come « al­ cuni uomini sono dotti » e « alcuni uomini non sono saggi » ; dove ciò che si afferma e ciò che si nega non riguarda tutti gli uomini, ma soltanto alcuni. Abbiamo cosl quattro specie di proposizioni. La prima è costituita dalle proposizioni affermative e universali la cui formula in generale è : ogni A è B. La seconda specie comprende le proposizioni negative e universali la cui forma in generale è : nessun A è B . La terza specie è quella delle proposizioni afferma­ tive, ma particolari, e si esprime in questa forma:

1 14

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

alcuni A sono B. E la quarta, infine, è quella delle proposizioni nega­ tive e particolari la cui forma è : alcuni A non sono B. Tutte queste proposizioni contengono essenzialmente due nozioni A e B che si chiamano i termini della pro­ posizione; in particolare la prima nozione, di cui si afferma o si nega qualche cosa, è chiamata soggetto, e l'altra nozione, che si dice che conviene o non con­ viene alla prima, è chiamata predicato. Cosl nella pro­ posizione « tutti gli uomini sono mortali » la parola uomo o gli uomini è il soggetto, e la parola mortali il predicato. Sono termini molto usati nella logica, che ci insegna le regole per ben ragionare. Queste quattro specie di proposizioni possono essere rappresentate per mezzo di figure, per esprimere sensi­ bilmente alla vista la loro natura. Ciò è di grandissimo aiuto per spiegare in modo molto distinto in che cosa consiste l'esattezza di un ragionamento. Poiché una no­ zione generale comprende in sé un'infinità di oggetti individuali, la si considera come uno spazio in cui sono contenuti tutti questi individui: cosl, per la nozione di uomo, si disegna uno spazio

0

in cui si immagina vi siano compresi tutti gli uomini. Anche per la nozione di mortale si disegna uno spazio,

0

dove si immagina vi sia compreso tutto ciò che è mor­ tale. Cosl, quando io dico « tutti gli uomini sono mor-

L'EREDITÀ LEIBNIZIANA

1 15

tali » , questo dipende dal fatto che la prima figura è contenuta nella seconda. Dunque la rappresentazione di una proposizione af­ fermativa universale sarà quella

®

in cui lo spazio A, che rappresenta il soggetto della pro­ posizione, è completamente contenuto nello spazio B, che rappresenta il predicato. Per le proposizioni negative universali i due spazi A e B, di cui A indica sempre il soggetto e B il predicato, sono rappresentati separati l'uno dall'altro

0

0

perché si dice che « nessun A è B » , ossia che nulla di tutto ciò che è compreso nella nozione A è compreso nella nozione B. Per le proposizioni affermative particolari come « al­ cuni A sono B », soltanto una parte dello spazio A sarà compresa nello spazio B

poiché si vede chiaramente che qualche cosa compresa nella nozione A è pure compresa nella nozione B . Per le proposizioni negative particolari come « alcuni A non sono B » , una parte dello spazio A deve trovarsi fuori dello spazio B, come si vede chiaramente nella

1 16

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

figura

che conviene esattamente con la precedente. Qui però si vuole fare soprattutto osservare che nella nozione A c'è qualche cosa che non è compresa nella nozione B, o che si trova fuori di questa nozione. Queste figure circolari, o meglio questi spazi (perché non importa quale forma si dia loro), sono quanto mai adatti a facilitare le nostre riflessioni su questa materia, e a rivelarci tutti i misteri di cui si mena vanto nella logica, e che si riesce a dimostrare soltanto con grande difficoltà, quando invece, servendosi di queste figure, tutto salta immediatamente agli occhi. Per rappresen­ tare ogni nozione generale, dunque, si fa uso di spazi formati a piacere, e si indica con uno spazio che con­ tiene A il soggetto di una proposizione, e con un altro spazio che contiene B il predicato. La natura della pro­ posizione stessa esige sempre : l ) o che lo spazio A sia contenuto interamente nello spazio B; 2 ) o che vi sia contenuto solo in parte; 3 ) o che almeno una sua parte sia fuori dello spazio B; 4) o che infine lo spazio A sia completamente fuori di B. Affirm#liv# l< .... l..l t")

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b la sottrazione è dunque eseguibile in entrambe le algebre ( simbolica e aritmetica ) ; nel caso di b > a è ancora ese­ guibile, ma soltanto nell'algebra simbolica. Tale estensione delle operazioni dell'algebra aritmetica all'algebra simbolica era attribuita da Peacock al cosiddetto principio di perma­ nenza delle forme equivalenti, il quale suggerisce l'idea che in algebra sussista una fondamentale uniformità delle ope­ razioni, indipendentemente dal dominio di enti matematici ai quali le operazioni vengono applicate. Esso consente, per esempio, l'estensione delle leggi che governano le opera­ zioni tra potenze con esponenti interi positivi a potenze aventi per esponente numeri di qualsivoglia natura. Alla base dell'applicazione del principio di permanenza Peacock pone una distinzione tra l'assunzione di una regola di ope­ razione e la definizione dell'operazione medesima : i risul­ tati dell'addizione e della sottrazione nell'algebra simbolica, per esempio, sono ottenuti prescrivendo determinate regole di esecuzione delle operazioni, e non ricavandoli dalla defi­ nizione delle operazioni medesime ( che per Peacock hanno il significato che è loro assegnato ordinariamente nell'alge­ bra aritmetica ). Il rapporto che in questo modo si instaura tra i due tipi di algebra, aritmetica e simbolica, è pertanto il seguente : i simboli impiegati nell'algebra simbolica sono « perfettamente generali nella loro rappresentazione e per­ fettamente illimitati nei loro valori » ; le operazioni su di essi, indipendentemente dal modo in cui vengono chiamate o denotate, sono universali nella loro applicazione ; ma in certo senso « i principi e le conclusioni generali o regole » dell'algebra aritmetica suggeriscono e determinano « l'as­ sunzione dei primi principi dell'algebra simbolica » . I l principio di permanenza fu radicalmente ridimensio­ nato nel 1 843 ad opera di William Rowan Hamilton ( 1 8051 865), con la scoperta di un'algebra nella quale venivano considerate esclusivamente quadruple di numeri, e nella quale non valeva la proprietà commutativa della moltipli­ cazione. Se Rowan Hamilton, pubblicando nel 1 844 i risul­ tati della propria ricerca, forni una prova effettiva dell'esi­ stenza di algebre differenti da quelle fino ad allora note, l'idea generale di una pluralità di algebre era già stata

168

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

avanzata da Augustus De Morgan in un saggio del '4 1 , com­ parso sulle « Transactions of the Cambridge Philosophical Society ». La scoperta hamiltoniana si situa quindi in un clima culturale abbastanza modificato rispetto a quello dei primi anni dell'Ottocento, e senz'altro più favorevole ad accogliere contributi innovatori. Nonostante che Rowan Hamilton non appartenesse alla scuola di Cambridge, e fosse sostenitore di una concezione piuttosto personale dell'algebra che risentiva di influenze kantiane ( l'algebra era per lui la scienza del « tempo puro » ) , è indubbio che anche le sue scoperte si connettono a una particolare situazione degli studi matematici in Gran Bretagna, situazione che si era venuta creando soprattutto in virtù del contributo dei matematici di Cambridge. Tra questi ultimi un ruolo di particolare rilievo ebbe, intorno agli anni '40, Duncan Farquharson Gregory ( 1 8 1 3 1 844 ) , fondatore nel 1 8 3 8 , con Richard Ellis, del « Cam­ bridge Mathematical Journal ». Amico personale di Boole, Gregory elaborò una concezione dell'algebra intesa come « la scienza che tratta delle combinazioni di operazioni defi­ nite non dalla loro natura, vale a dire da ciò che esse sono o fanno, ma dalle leggi di combinazione alle quali le ope­ razioni sono soggette ». Punto centrale di questa concezione era il cosiddetto « principio di separazione dei simboli di operazione da quelli di quantità », che era già noto al matematico francese François-Joseph Servois ( 1 767- 1 847 ) e allo stesso John Herschel. La separazione dei simboli esprimenti quantità da quelli esprimenti operazioni (vale a dire « + », « - », « : » ecc. ) consentiva una considera­ zione astratta delle operazioni e delle loro proprietà, indi­ pendentemente dal particolare dominio di enti ai quali le operazioni stesse si applicavano. Ricorrendo a tale principio Gregory riuscì a isolare le proprietà commutativa e distri­ butiva in algebra, fornendo così una sicura base per le ulteriori speculazioni di Boole.

GLI ALGEBRISTI INGLESI

169

l . Woodhouse: la verità necessaria di conclusioni otte­

nute per mezzo di quantità immaginarie. Tra le varie obiezioni rivolte contro la scienza mate­ matica, poche si oppongono alla sua evidenza e accu­ ratezza logica; e poiché si è riconosciuto che le sue di­ mostrazioni procedono mediante una serie di inferenze rigorose da principi evidenti, lo studio della scienza astratta è stato ritenuto in generale particolarmente adatto ad abituare la mente a ben ragionare. Di re­ cente, però, i dissensi dei matematici hanno sottoposto al dubbio anche questo uso « collaterale e accessorio » ; poiché non soltanto sono sorte controversie sul modo di applicare l'analisi a oggetti fisici, ma anche certe parti delle matematiche pure sono divenute esse stesse argomento di disputa. Molto è stato detto circa la scienza della quantità che era viziato da gergo, assur­ dità e mistero, e confuso con paradossi e contraddi­ zioni; cosicché dalle molte lamentele di coloro che si dedicano alle matematiche gli oppositori possono rica­ vare i loro più potenti argomenti, e materiale abbon­ dante per invettive vittoriose . . . L'introduzione di quantità impossibili è indicata come una grande e principale causa dei mali in cui versa la scienza matematica. Mentre si opera con queste quan­ tità - si dice - ogni ragionamento corretto è sospeso, e la mente è sconcertata da esibizioni che assomigliano ai trucchi da giocoliere di una mera destrezza mecca­ nica . . . I l paradosso per cui un processo nel quale non è introdotta nessun'idea conduca alla verità, e per cui operazioni con caratteri inintelligibili conducano a con­ clusioni giuste e certe, è stato espressamente discusso

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in uno scritto presentato alla Royal Society. Il suo inge­ gnoso autore, limitando la propria indagine sulle quan­ tità impossibili al loro uso nel calcolo dei valori dei seni, coseni ecc., ha cercato di mostrare che le opera­ zioni condotte con queste quantità sono vere, sulla base del principio di analogia. Egli è dell'opinione che « le operazioni eseguite con caratteri immaginari, benché prive in se stesse di significato, sono nondimeno delle note facenti riferimento ad altre operazioni che sono significanti. Esse pongono in rilievo indirettamente un metodo per dimostrare una certa proprietà dell'iper­ bole, e ci consentono di concludere, per analogia, che la medesima proprietà appartiene anche al cerchio. Tutto ciò di cui ci assicuriamo mediante l'indagine con le quantità immaginarie è che la conclusione, con tutto il rigore del ragionamento matematico, può essere pro­ vata anche per l'iperbole ; ma se da qui intendiamo trasferire quella conclusione al cerchio, ciò deve avve­ nire in conseguenza del principio appena menzionato . L'indagine si risolve dunque, in ultima analisi, in un argomento per analogia; e, dopo l'esame più rigoroso, essa si troverà senza alcun altro appello all'evidenza della dimostrazione » . In virtù di questa spiegazione le operazioni con quantità immaginarie, prima senza ordine e confuse, assumono qualche apparenza di scopo e regolarità; e l'assenso della mente, se non proprio forzato da una prova certa, è almeno sollecitato da argomenti probabili . Tuttavia per matematici che, in questioni di scienza astratta, dichiarano di non accon­ tentarsi di « una fede razionale e presunzione morale », il principio di spiegazione appena riportato dev'essere necessariamente insoddisfacente; poiché qualsiasi esten­ sione di significato venga attribuita al termine « ana-

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logia » , è sempre certo che una prova per analogia è inferiore a una rigorosa dimostrazione . . . Convinto nel mio proprio intimo che non possono esservi paradossi né misteri intrinseci e inesplicabili in un sistema di caratteri di nostra invenzione, combinati tra l'altro secondo regole la cui origine e estensione possiamo accertare con esattezza, ho tentato, nella pre­ sente memoria, di mostrare perché certe conclusioni ottenute per mezzo di quantità immaginarie sono ne­ cessariamente vere : realizzare ciò è il mio primo obiet­ tivo; subordinato ad esso vi è poi quello di mostrare che il metodo fondato su simboli immaginari è più comodo e più adatto a essere usato . . . È per lo meno superfluo osservare che, s e l e opera­ zioni per mezzo di simboli immaginari si sono mostrate necessariamente vere, gli argomenti fondati sull'analogia sussistente tra il cerchio e l'iperbole devono essere ab­ bandonati in quanto insoddisfacenti . . . Per giustificare l a prolissità che può apparire nella spiegazione delle operazioni e nelle prove della loro esattezza, vorrei che venisse considerato che era neces­ sario che fossero esaminate le nozioni sulle quali si fonda il calcolo in ultima analisi; che fosse spiegato il significato dei simboli immaginari trovandone l'origine; che fossero stabilite, mediante prove separate e indi­ pendenti, regole per la combinazione di quantità reali ; e che fosse compiuta un'accurata distinzione tra ciò che è provato sulla base di principi evidenti e ciò che è soltanto conseguenza di assunzioni arbitrarie . La scienza matematica è stata talvolta messa in dif­ ficoltà da contraddizioni e paradossi ; tuttavia quest'ul­ timi non sono da imputarsi ai simboli immaginari piut­ tosto che a qualsiasi altro simbolo inventato col pro-

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posito di rendere le dimostrazioni compendiose e spe­ dite. Si può tuttavia osservare giustamente che i mate­ matici, trascurando di esercitare il controllo intellet­ tuale, sono troppo proni ad affidarsi all'abilità mecca­ nica ; e che alcuni di essi, in luogo di stabilire la verità di conclusioni su ragioni anteriori, hanno cercato di sostenerle con analogie imperfette . . . H o cercato di stabilire una logica per quantità im­ possibili, di fissare il significato di certe espressioni ambigue e di conciliare le contraddizioni comprese nella dottrina dei logaritmi. Mi permetto di sperare che ciò che ho detto possa scoraggiare i matematici dal tentare di fondare la dimostrazione su una base tanto fragile e limitata come l'analogia; o dal fondarsi sulla perico­ losa nozione che vi sono o strani paradossi o inespli­ cabili misteri in un sistema di caratteri interamente di loro invenzione. (On the Necessary Truth of Certain Conclusions Obtained by Means of lmaginary Quantities, in « Philosophical Transac­ tions >), XCI , 180 1 , pp. 89-93, 106·8, 1 18)

2. Woodhouse : metodo geometrico e metodo analitico. Una persona non consapevole della superiore perspi­ cuità del metodo geometrico, potrebbe chiedere che le venissero indicate. . . le cause necessarie di questa perspicuità : le quali possono essere fornite affermando che la geometria, in luogo di un termine generico, im­ piega come particolare individuo il segno o la rappre­ sentazione di un genere; e che come in algebra i segni sono completamente arbitrari, in geometria mantengono una somiglianza con le cose significate e sono chiamati segni naturali, poiché la figura di un triangolo o di un

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quadrato suggerisce alla mente la medesima figura tan­ gibile sia in Europa sia in America; e questa somiglianza del segno con la cosa significata si suppone essere la causa principale della superiore chiarezza della dimo­ strazione geometrica. Si può forse pensare che un'ulte­ riore causa risieda nel fatto che qualsiasi cosa venga dimostrata di un triangolo o di un'altra figura, consi­ derata come rappresentante di tutti i triangoli e di tutte le figure, è a maggior ragione dimostrato di quel particolare triangolo o di quella particolare figura. Una terza causa, più soddisfacente . . . può consistere nel fatto che nell'indagine è spesso necessario, allo scopo di pre­ venire ambiguità ed errori, ritornare dal segno alla cosa significata, il che è tanto più facile a farsi quanto meno generali e arbitrari sono i modi di rappresen­ tazione; e di conseguenza è più facile in geometria che in algebra. Non pretendo di aver indicato accuratamente e in modo esaustivo le cause della perspicuità del ragiona­ mento geometrico. Ciò può dipendere da azioni e pro­ cedimenti intellettuali la cui spiegazione si colloca oltre il potere della filosofia. Ma il fatto che i segni impie­ gati in geometria siano segni naturali ne prova la per­ spicuità fino a un certo punto, e in certi casi . . . Penso che s i possa concedere che il metodo geome­ trico ha un'evidenza superiore in indagini di natura semplice. Che il calcolo analitico sia più comodo per la dedu­ zione di verità che non quello geometrico, non sarà forse contestato; e un'indagine sulla sua natura mo­ strerà perché è così adatto per una facile combinazione e una generalizzazione estensiva . . . Pertanto l a questione concernente i vantaggi rispet-

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t1v1 dell'antica geometria e dell'analisi moderna può essere compresa entro uno spazio ristretto. Se si cer­ cano disciplina mentale e diletto intellettuale, questi possono essere trovati in entrambi i metodi ; nessuno dei due è essenzialmente poco accurato ; e benché in indagini semplici quello geometrico abbia un'evidenza maggiore, in quelle astruse e complicate il metodo ana­ litico è più luminoso : se però lo scopo è una rapida deduzione della verità, allora credo che debba venir preferito il calcolo analitico. ( On the Independence of the Analytical and Geometrica! Me­ thods of Investigation, in « Philosophical Transactions », XCII, 1802, pp. 1 19-22)

3 . Peacock : algebra astratta e algebra applicata. La scienza dell'algebra può essere considerata da due punti di vista, l'uno facente riferimento ai suoi principi e l'altro alle sue applicazioni : il primo concerne la sua completezza in quanto scienza indipendente, il se­ condo la sua utilità e potenza in quanto strumento di indagine e di scoperta, sia in rapporto ai risultati me­ ramente simbolici deducibili dallo sviluppo sistematico dei suoi principi sia in rapporto alle applicazioni di quei risultati, mediante interpretazione, alle scienze fisiche. L'algebra, considerata in relazione ai suoi principi, ha ricevuto pochissima attenzione, e di conseguenza pochissimi miglioramenti nel corso dell'ultimo secolo, mentre le sue applicazioni, per usare questo termine nel senso più ampio, sono state in una condizione di continuo progresso . . . Non è mia intenzione entrare nell'esame delle rela-

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zioni generali che esistono tra le scienze speculative e quelle fisiche, ma semplicemente porre in rilievo la distinzione tra gli oggetti che stanno a base dei nostri ragionamenti nell'una e nell'altra classe. Nella prima ci limitiamo a osservare i risultati della scienza stessa e l'accuratezza logica del ragionamento mediante il quale questi risultati sono dedotti dai primi principi che sono stati assunti. In tal caso tutte le nostre con­ clusioni posseggono un'esistenza necessaria, senza ri­ guardo per la loro interpretazione, stretta o approssi­ mata, nella natura. Nella seconda fondiamo egualmente i nostri ragionamenti sull'assunzione di primi principi, e abbiamo egualmente riguardo per l'accuratezza logica nella deduzione delle nostre conclusioni da essi; ma sia negli stessi primi principi sia nelle conclusioni che ne ricaviamo, guardiamo al mondo esterno in quanto for­ nisce, mediante interpretazione, principi corrispondenti e conclusioni corrispondenti. E le scienze fisiche diven­ tano più o meno adatte all'applicazione delle matema­ tiche nella misura in cui si può far sl che i primi prin­ cipi che abbiamo assunto si approssimino ai fatti o principi più semplici e generali che possono esser sco­ perti in tali scienze mediante l'osservazione o l'espe­ rimento . . . L'algebra era denominata al tempo d i Newton spe­ ciosa o aritmetica universale, e la concezione dei suoi principi che diede luogo a questo sinonimo ( se è lecito usare un termine siffatto) è più o meno prevalsa in quasi tutti i trattati sull'argomento che sono apparsi da allora in poi. In senso analogo si è detto che l'al­ gebra è la scienza che deriva da quella generalizzazione dei procedimenti dell'aritmetica che risultano dall'im­ piego di linguaggi simbolici. Ma benché nell'esposizione

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dei principi dell'algebra l'aritmetica sia stata sempre assunta come fondamento, e i nomi delle operazioni fondamentali nell'una scienza siano stati trasferiti al­ l'altra senza alcun mutamento immediato del loro signi­ ficato, pure si è trovato in genere necessario allargare successivamente questa base assai ristretta per una scien­ za assai generale. (Report on the Recent Progress and Present State of certain Branches of Analysis, in « Report on the Third Meething of the British Association for the Advancement of Science », 1834, pp. 185, 186-87, 188-89)

4 . Peacock: algebra aritmetica e algebra simbolica. Nell'algebra aritmetica consideriamo i simboli come rappresentanti numeri, e le operazioni alle quali sono sottoposti come incluse nelle medesime definizioni (che siano espresse o soltanto comprese) dell'aritmetica co­ mune. I segni « + » e « » denotano le operazioni di addizione e sottrazione soltanto nel loro ordinario significato, e quelle operazioni sono considerate impos­ sibili in tutti i casi in cui i simboli soggetti a esse posseg­ gono valori che le rendono tali, qualora vengano sosti­ tuite da numeri naturali. Cosl in espressioni come « a + h » dobbiamo supporre che a e h siano quantità del medesimo genere; in altre espressioni, come « a h » , dobbiamo supporre che a sia maggiore di h e a, e asserisce che a è più debole di �. È evidente che, in virtù di tale definizione, a > 'll è un'impossibilità, in quanto implica 'll oa, che si può facilmente provare essere inconsistente con le nostre definizioni. Come regola, quanto più grande è il numero dei fattori in una asser­ zione (vale a dire, quante più cose sono asserite), tanto più stretta è tale asserzione; ma d'altro lato vale come regola che allora è più grande la probabilità che essa contenga una inconsistenza in qualche occorrenza; e una singola inconsistenza 'll ( come il fattore O in matema­ tica) rende l'intero inconsistente. Dunque, nessuna as­ serzione può essere più stretta di una impossibilità. A parità di ragionamento, nessuna asserzione può essere più debole di una certezza. Un testimone la cui testimo­ nianza consiste in una ria:ffermazione di fatti già am­ messi e non contestati, non sarebbe di molta utilità in una qualsiasi inchiesta o indagine seria e bona fide. . . Rimangono due altri simboli che comportano u n im­ portante principio. Si tratta di DA e SA . Il primo de­ nota la più debole premessa dalla quale possiamo infe­ rire A; e il secondo denota la più stretta conclusione che possiamo ricavare da A. Il simbolo A sta, in questo caso, a denotare qualche funzione cp (a, �) di due o più costituenti a, � ecc . ; mentre DA e SA denotano altre funzioni � � (a", W ), �2 (au, �v) con a", W ecc. per costi­ tuenti, ove u e v possono denotare ciascuno E o 'll o i), a seconda del caso. Per esempio la formula D ( a�)t = a'W + aaW

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asserisce che la più debole premessa ( con soggetto a o f3, e predicato E o TJ o i}), dalla quale possiamo inferire che a f3 è una variabile, è l'alternativa per cui o a è una cer­ tezza e f3 una variabile, oppure a una variabile e f3 una certezza, mentre la formula S( af3)t = aTJ'f3t + atf3TJ' asserisce che la conclusione più stretta che possiamo ricavare da (af3)D soltanto (cioè senza ulteriori dati) è l'alternativa secondo cui a è una possibilità e f3 una va­ riabile, oppure a una variabile e f3 una possibilità. È evidente che la formula DA : A : SA è una cer­ tezza; e una piccola riflessione mostrerà anche la vali­ dità della formula DA' = S'A e SA' = D'A, nella quale S'A e D'A denotano le negazioni di SA e DA, e sono dunque abbreviazioni per (SA)' e (DA)'. In altre parole, la più debole premessa dalla quale possiamo inferire la negazione di A (o che A è falsa) è la negazione della più stretta conclusione che possiamo ricavare da A; e la più stretta conclusione che possiamo ricavare dalla negazione di A è la negazione della più debole premessa (o dati) dalla quale possiamo inferire A. Per esempio, assumendo la formula D (a : f3) = aTJ + W, otteniamo

S (a : f3)'

=

D' (a : f3)

=

(aTJ + f3')'

=

aTI' f3";

in modo che la più stretta inferenza che possiamo rica­ vare dalla negazione dell'implicazione a : f3 è che a è una possibilità e f3 un'incertezza. (Symbolical Reasoning, 494-99)

II,

in

«

Mind », VI, 1897,

pp.

492,

VII/ LA

«

SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

La Wissenschaftslehre di Bernhard Bolzano ( 1 7 8 1 - 1 848 ) , filosofo e matematico austriaco, fino al 1 8 1 9 insegnante di filosofia della religione presso l'Università di Praga, fu pub­ blicata a Sulzbach nel 1837. Si componeva di quattro vo­ lumi, e aveva per sottotitolo « Tentativo di un'esauriente e in gran parte nuova esposizione della logica, con costante riferimento agli autori che ne hanno trattato finora ». Dal punto di vista del contenuto era un'opera eterogenea, nella quale la nozione di logica veniva impiegata per designare lo studio delle « regole secondo le quali dobbiamo proce­ dere nel dividere l'intero dominio della verità in scienze singole, e nell'esposizione di esse in specifici trattati ». In essa, tuttavia, l'autore rivelava uno straordinario interesse per tutti gli aspetti formali del ragionamento, riuscendo a definire concetti come quelli di validità, consistenza, deri­ vabilità, dimostrabilità che avrebbero poi avuto una parte rilevante nei successivi sviluppi della logica simbolica. Nei confronti del kantismo l'opera di Bolzano costituiva un tentativo consapevole di tener conto della tradizione « pre­ critica », cercando di utilizzare soprattutto il patrimonio della filosofia leibniziana e, in parte, quello della logica tardo-scolastica. Lungi dal costituire una « regressione » sul piano dei risultati scientifici, questo rifarsi indietro di Bol­ zano è una delle condizioni essenziali dei suoi originali con­ tributi alla logica formale: quando ancora gli scritti logici di Leibniz non erano stati pubblicati, Bolzano sembra es­ sere stato uno dei pochissimi logici dell'Ottocento a intuire l'importanza delle concezioni leibniziane. Un concetto fondamentale della teoria logica elaborata nella Wissenschaftslehre è còstituito dalla nozione di « pro­ posizione in sé » . Tale nozione, che secondo Bolzano era già adombrata nel Dialogus de connexione inter res et verba di Leibniz e nel libro IV dei Nouveaux essais ( entrambi

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L A LOGICA D A LEIBNIZ A FREGE

comparsi nella raccolta pubblicata da Heinrich von Raspe nel 1 765 ), si fonda essenzialmente sulla possibilità di distin­ guere in qualche modo le diverse espressioni linguistiche mediante le quali è comunicato un pensiero dal contenuto concettuale che esse esprimono. Tale contenuto concettuale consta di unità minime, i singoli concetti individuali , e di strutture più complesse, cioè di due concetti individuali connessi da una copula. La denominazione di proposizione in sé spetta propriamente soltanto a quest'ultime strutture : soltanto esse sono infatti proposizioni, potendosi stabilire al loro riguardo se siano vere o no. I singoli concetti indi­ viduali componenti le proposizioni in sé sono chiamati da Bolzano « idee in sé »; e come le proposizioni vengono distinte dalle loro enunciazioni linguistiche, cosi le « idee in sé » devono essere distinte dalle rispettive rappresenta­ zioni psicologiche. D'altra parte le proposizioni in sé non sono contenuti concettuali in quanto vengono pensate: esse sono indipendenti dall'atto soggettivo di pensiero che le evoca; in senso proprio non esistono neppure, se ciò signi­ fica attribuire ad esse un'esistenza nello spazio e nel tempo . Al di fuori del tempo le idee in sé sembrano avere qual­ cosa in comune con le idee platoniche, ma hanno contorni meno definiti di quest'ultime. La distinzione tra contenuti concettuali in sé ( idee e proposizioni ) da un lato e conce­ zioni soggettive di essi dall'altro è piuttosto frequente nei testi logici della tarda Scolastica, e non è affatto da esclu­ dere che Bolzano sia giunto ad essa sotto l'influenza, oltre che di Leibniz, di autori appartenenti alla tarda Scolastica. Accanto alle nozioni di « proposizione in sé » e di « idea in sé » un posto di estrema importanza occupano nella Wissenschaftslehre i concetti di consistenza e derivabilità. La nozione di consistenza ( non-contraddittorietà ) è definita da Bolzano sia in riferimento a un solo insieme sia in rap­ porto a due insiemi di proposizioni. Nel primo caso la definizione della consistenza è, in sintesi, la seguente : un dato insieme di proposizioni A, B, C, D . . è consistente rispetto alle idee i, j se, e solo se, per una qualche se­ quenza di idee che vengano sostituite a i, j in A, B, C, D . . , le proposizioni A, B , C, D sono vere. Per ciò che concerne invece i due insiemi di proposizioni A, B, C, D . . . e M, N, .

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0 , per Bolzano essi sono consistenti rispetto alle idee i, ; . . . se, e solo se, l'insieme costituito dagli elementi degli insiemi A, B , C, D e M, N, 0 . . è consistente rispetto a i, j . Una relazione determinata connette tra loro consi­ stenza e derivabilità: qualora sia soddisfatta la condizione di consistenza tra due insiemi di proposizioni, poniamo P e Q, rispetto alle idee i, j . . , e qualora le proposizioni che costituiscono l'insieme Q siano vere, allorché in esse ven­ gono sostituite le idee i, j con una qualunque sequenza di idee che, messe al posto di i, j . , nelle proposizioni costituenti l'insieme P, rendono vere le proposizioni in P, allora si può dire che l'insieme delle proposizioni Q è deri­ vabile da P. Tra i vari teoremi e principi enunciati da Bol­ zano una menzione particolare merita infine la generalizza­ zione del cosiddetto principio di condizionalizzazione enun­ ciato nei § § 224 e 255 della Wissenschaftslehre. Secondo tale principio una qualsiasi inferenza che derivi una data conclusione M da un certo numero n di premesse può essere trasformata in un'inferenza nella quale da n l, n 2 ecc., addirittura da l premessa, si ricava un condi­ zionale che afferma che, se valgono le rimanenti una, due, n l premesse, allora vale la conclusione M. Gli aspetti innovatori della Wissenschaftslehre non furono tuttavia colti né dai contemporanei di Bolzano né dai suoi imme­ diati successori : al pari di quanto avvenne per Leibniz, si comprese l'importanza delle sue anticipazioni quando ormai la logica era giunta ad esse per vie indipendenti. L'atteggiamento teorico generale di Bolzano, soprattutto il suo desiderio di sottoporre a serrata analisi logica le no­ zioni fondamentali della matematica e il proposito di rigo­ rizzarne i procedimenti dimostrativi richiamano assai da vicino l'impostazione delle ricerche fregeane. Sia in Frege sia in Bolzano vi è inoltre un consapevole rifarsi alla tra­ dizione leibniziana, e una ferma difesa - in nome di tale tradizione - del momento strettamente formale della dimostrazione. Tra le principali acquisizioni compiute da Frege nella Begriffsschrift - pubblicata più di quarant'anni dopo la comparsa della Wissenschaftslehre - vi sono l'in­ troduzione dei quantificatori universale ed esistenziale, uni­ tamente all'enunciazione di regole per il loro uso; l'elabo...

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razione di un rigoroso sistema formale composto da un sistema di assiomi e da regole di derivazione costituite dal principio di sostitutività (non enunciato esplicitamente, ma dato per presupposto ), e dal cosiddetto modus ponens ( se a implica b e vale a, allora vale b ). Particolare menzione merita il fatto che nella BegrifJsschrift non compaiono sim­ boli per designare classi : la logica elaborata in tale opera è rigorosamente intensionale, avente per oggetto concetti e pensieri. A parte quest'ultimo punto, la BegrifJsschrift pre­ senta nell'insieme una struttura formale analoga a un sistema assiomatico in senso moderno. Dopo la BegrifJsschrift Frege pubblicò nel 1 884 un'opera nella quale esponeva in ma­ niera informale le sue concezioni fondamentali riguardo all'aritmetica. L'opera in questione si intitolava Die Grund­ lagen der Arithmetik, e in essa Frege illustrava - dopo aver sottoposto a serrata critica quelle degli avversari - le proprie concezioni circa il concetto di numero cardinale (finito ). Secondo Frege il numero non è un « aggregato di oggetti né una proprietà di qualcuno di essi . . . e . . . nemmeno il risultato di un processo psichico » ; il numero dev'essere considerato piuttosto come l'estensione di un concetto, e l'assegnazione di un numero a qualcosa equivale ad asse­ gnare un numero al concetto di quella cosa. Cosl, per esem­ pio, asserire che « Giove ha 5 lune » non equivale ad assegnare una data proprietà a determinati oggetti (le lune), ma ad attribuire il numero 5 al concetto « luna di Giove ». In vista della pubblicazione del primo volume dei Grund­ gesetze der Arithmetik ( 1 893 ), Frege sviluppa una teoria del significato che implica un'analisi dettagliata delle no­ zioni di « concetto », « funzione », « senso », « denota­ zione » ecc. , e che costituisce tino dei contributi logico­ filosofici più profondi e attuali della sua produzione. Ana­ lizzando la relazione di identità espressa dalla proposizione a = b Frege osserva che, se a e b sono nomi diversi per la medesima cosa, allora nell'eguaglianza a = b ciò che vien posto in relazione non sono le cose indicate dai nomi ( in ultima analisi una identica cosa), ma piuttosto due modi differenti di designare un oggetto mediante nomi. Ciò lo conduce a distinguere il senso (Sinn ) di una data espres­ sione (per esempio : « stella della sera » ) dal suo significato

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o denotazione (nel nostro esempio: il pianeta Venere). In rapporto ai nomi che svolgono nel discorso essenzialmente la funzione di soggetto, Frege sostiene che significano un dato oggetto ed esprimono un senso : nomi esprimenti lo stesso senso significheranno perciò un medesimo oggetto, ma non sempre nomi significanti lo stesso oggetto esprime­ ranno il medesimo senso ( ad esempio « stella della sera » e « stella del mattino », tra loro diversi, ma entrambi indi­ canti il pianeta Venere). Inoltre possono esservi nomi aventi un senso e nessuna denotazione ( per esempio « Ulisse » ) ; le proposizioni in cui tali nomi occorrono non sono né vere né false. Infine Frege chiama « nomi propri » indiffe­ rentemente sia i nomi comuni di cosa come « cane », « uo­ mo » ecc., sia i nomi propri di persona (Ulisse, Cesare ecc. ), sia qualunque complesso di parole (in genere una locu­ zione nominale, una descrizione) che indichi un oggetto ( ad esempio « stella della sera », « colui che scoprl l'Ame­ rica » ecc.). Il senso di un nome è per Frege un'entità con­ cettuale oggettiva, ben distinta dalle rappresentazioni che nella mente dei singoli si accompagnano ad essa. Coeren­ temente con tale impostazione il senso di una proposizione verrà a essere quindi un pensiero, mentre il suo significato o la sua denotazione dipenderà dal significato dei nomi che in essa occorrono, non dal loro senso, e consisterà esclusivamente dei valori di verità, vero o falso, che si possono attribuire a tale proposizione. Al pari di quanto accade per i nomi, anche riguardo alle proposizioni Frege riconosce che possono essercene alcune dotate di un senso, che sono prive però di significato (non sono cioè né ve­ re né false; per esempio : « Ulisse fu sbarcato a ltaca mentre dormiva » ). Possono darsi infine casi in cui una proposizione assume per denotazione, o significato, il pro­ prio senso: ci troviamo allora in presenza di quelli che Frege chiama contesti indiretti o obliqui, come per esempio asserzioni di « credenza » ( « Tizio crede che . . . » ) e, in ge­ nerale, tutti quei contesti in cui una data asserzione com­ pare come « clausola subordinata » dopo un verbo quale « sapere » , « dire » ecc. Più complicata di quanto non sia nei casi precedenti risulta l'applicazione della distinzione tra senso e significato

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( o denotazione ) ai predicati ovvero alle proprietà. Per Frege il senso (Sinn ) di un predicato è da ricercarsi nel concetto che da quel particolare predicato viene espresso, mentre il significato (Bedeutung ) è costituito dal decorso di valori di una funzione che corrisponde a quel determinato con­ cetto. Allo scopo di chiarire meglio questo punto può es­ sere opportuno precisare la nozione fregeana di funzione. In generale, secondo Frege, qualora in una data espres­ sione linguistica o matematica un simbolo venga conside­ rato rimpiazzabile in tutte ( o in alcune ) delle sue occor­ renze, si deve distinguere la parte variabile dell'espressione da quella costante, e chiamare funzione quest'ultima e ar­ gomento la prima. Data quindi una serie di espressioni matematiche, per esempio 2 13 + l , 2 43 + 4, 2 53 + + 5 . . . ecc. , la « vera e propria essenza della funzione » consiste per Frege « in ciò che quelle espressioni hanno in comune, ossia in ciò che nell'espressione 2 xl + x, è presente oltre alla x, ossia, come potremmo scrivere : 2 ( )3 + ( ) ». Tra l'argomento di una funzione e la fun­ zione stessa viene perciò a sussistere un rapporto tale per cui l'argomento non appartiene propriamente alla funzione, ma « insieme ad essa forma un tutto completo » . La funzione è in certo senso una espressione « aperta » che richiede di essere completata in determinate parti ; per designare que­ sta peculiare proprietà Frege adopera l'aggettivo « non sa­ tura », riferito alla funzione stessa. Ciò che rende satura una funzione è, come risulta ovvio, il suo argomento, e quello che la funzione « diviene dopo che è stata saturata dal suo argomento » viene chiamato il valore della funzione per quel suo argomento. Il decorso dei valori di una data funzione è quindi l'insieme dei valori che assume una fun­ zione in corrispondenza di un dato insieme di argomenti che « saturano » la funzione. In relazione ai predicati Frege non fa dunque altro che esprimere mediante funzioni l'in­ trinseca « predicatività » dei concetti che ad essi corrispon­ dono. In tal caso il decorso di valori che assumerà la fun­ zione sarà connesso non a valori numerici, ma ai due valori di verità, vero e falso. L'idea di Frege è insomma quella di considerare i concetti corrispondenti ai predicati come funzioni non saturate da completare con certi argomenti; ·

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l'insieme degli argomenti che completano le rispettive fun­ zioni dànno luogo al decorso dei valori delle funzioni, e il decorso dei valori ( vero e falso ) è l'estensione dei concetti corrispondenti ai predicati. La nozione di funzione, nel­ l'uso fattone da Frege, subisce in tal modo un ampliamento, e diventa applicabile non solo a espressioni matematiche, ma anche a espressioni linguistiche, ammettendo tra i pro­ pri argomenti non solo i numeri, ma qualsiasi tipo di og­ getto. Data l'asserzione « la capitale dell'Impero tedesco » , essa potrà cosl essere scissa i n due parti : « l a capitale d i » e « l'Impero tedesco » . Considerando la prima parte come non saturata, si potrà pervenire all'espressione di funzione : « la capitale di x », e prendendo l'Impero tedesco come argomento, potremo avere Berlino per valore della funzione . La nozione stessa di oggetto viene cosl a precisarsi in rap­ porto al concetto di funzione: « oggetto è tutto ciò che non è funzione e la cui espressione non contiene. . . alcun posto vuoto » . In rapporto alle proposizioni, ed essenzial­ mente in relazione alle proposizioni dichiarative, ne con­ segue che « poiché una proposizione dichiarativa non con­ tiene alcun posto vuoto . . . la sua denotazione deve conside­ rarsi come un oggetto » ; e poiché tale denotazione è un valore di verità, anche i due valori di verità, vero e falso, debbono essere considerati come oggetti in senso fregeano. La teoria delle funzioni elaborata da Frege aveva però un inconveniente che fu messo in luce, nel 1 902, da Ber­ trand Russell. Quest'ultimo, in una lettera allo stesso Frege , sottolinea infatti come nel § 9 della Begriffsschrilt venga considerata la possibilità che non solo l'argomento di una funzione, la parte in parentesi di l (x), sia indeterminato, ma che lo sia anche, senza particolari restrizioni, la funzione medesima, cioè la « l » di l (x). Ora, secondo Russell, tale assunzione equivale ad ammettere funzioni di funzioni : il che consente di individuare un'antinomia nel sistema fre­ geano, e più in generale, nella trattazione logica delle classi e delle loro proprietà. Frege, che avrebbe pubblicato pochi mesi dopo il secondo volume dei Grundgesetze der Arith­ metik, si rese subito conto delle conseguenze che tale anti­ nomia aveva per il suo sistema . In particolare, essa mette in crisi uno dei principi fondamentali della costruzione

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fregeana, rendendo problematica la convinzione che ogni estensione sia un « oggetto ». Da un certo punto di vista si può dire che l'antinomia mette in crisi il rapporto che sus­ siste tra una estensione ( o classe) individuata da una pro­ prietà e la proprietà stessa. Per Frege, infatti, tra un con­ cetto (proprietà) e la sua estensione (o classe) sussiste una duplice relazione simmetrica: l ) cadere sotto un concetto ( avere una data proprietà) significa appartenere all'esten­ sione (classe) indicata da quel concetto ( proprietà ); 2 ) vi­ ceversa, appartenere all'estensione ( classe) di un dato con­ cetto ( proprietà) significa cadere sotto quel concetto ( avere una data proprietà ). Ma l'antinomia russelliana mette de­ cisamente in crisi proprio il secondo punto di questa rela­ zione. Nell'Appendice aggiunta ai Grundgesetze dopo la comunicazione di Russell, Frege illustra in maniera assai nitida l'antinomia e le sue conseguenze. Tra le varie specie di classi - argomenta Frege - ve ne sono alcune che non appartengono a se stesse, come per esempio la classe degli uomini, che ovviamente non è un uomo. D'altra parte si può dire in generale che qualcosa appartiene a una classe se cade sotto il concetto la cui estensione è appunto quella classe. Sulla base di queste considerazioni si può osservare che, se consideriamo il concetto di « classe che non appar­ tiene a se stessa », l'estensione di tale concetto ( qualora sia lecito parlarne) sarà ovviamente la classe delle classi che non appartengono a se stesse; per brevità si può chia­ mare K siffatta classe di classi. Ora appare subito evidente che, se ci domandiamo se K appartiene o no a se stessa, ci imbattiamo in contraddizione. Poniamo infatti che K ap­ partenga a se stessa: abbiamo visto più sopra che se qual­ cosa appartiene a una classe, allora cade sotto il concetto la cui estensione è la classe. Se dunque K appartiene a se stessa, allora è una classe che non appartiene a se stessa; e si ha cosi una contraddizione. Poniamo invece che K non appartenga a se stessa : allora K cade sotto il concetto di cui essa stessa è l'estensione, appartenendo dunque a se stessa, e di nuovo ci imbattiamo in una contraddizione. La conclusione di Frege è che non solo il suo particolare si­ stema viene messo in crisi, ma viene messa in crisi anche la « possibilità di una fondazione logica dell'aritmetica in

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

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generale » . L'antinomia di Russell sembrava rendere pro­ blematico infatti il ricorso medesimo alle nozioni di « clas­ se » e di « estensione » : Frege vedeva scosso dalle fonda­ menta quanto fino ad allora aveva costruito. Nell'Appendice al secondo volume dei Grundgesetze der Arithmetik Frege stesso tentava di indicare una via di uscita dall'antinomia, e contemporaneamente Bertrand Rus­ sell in The Principles of Mathematics proponeva un ab­ bozzo di soluzione che in seguito, sia pure con modifica­ zioni rilevanti, avrebbe avuto notevoli sviluppi. Si trattava di un abbozzo della « teoria dei tipi logici », una teoria che aveva tra le sue conseguenze quella di mettere da parte come non significanti espressioni quali f (f). Insieme a Frege e Russell, un ruolo preminente nell'am­ bito degli studi logici tra Ottocento e Novecento ebbe il matematico italiano Giuseppe Peano ( 1 858- 1 932 ). Oltre a elaborare un sistema notazionale estremamente efficace, Pea­ no - come Frege e prima di Russell - distinse in ma­ niera esplicita l'appartenenza di un membro a una classe dall'inclusione di una classe nell'altra proponendo differenti simboli per designare le due relazioni. Tuttavia, pur essendo uno dei fondatori del moderno calcolo proposizionale, Peano non riusd a definire in maniera chiara ed esplicita, adeguate regole di deduzione per il proprio calcolo. Tra gli allievi di Peano, Alessandro Padoa ( 1 868- 1 937 ), autore dell'Essai d'une théorie algébrique des nombres entiers, précédé d'une introduction logique à une théorie déductive quelconque ( presentato al III Congresso Internazionale di Filosofia te­ nutosi a Parigi nel 1 900 ), fu quello che forse più di ogni altro si diede da fare per diffondere e rendere popolari le idee della scuola torinese. Da questo punto di vista la parte introduttiva al saggio costituisce una specie di concisa sum­ ma dei risultati raggiunti dalla scuola di Peano riguardo al problema delle relazioni intercorrenti tra un dato sistema logico-formale e le sue interpretazioni. A Padoa si deve, tra l'altro, l'enunciazione di un metodo per determinare, all'interno di un dato sistema logico, quando un termine non è definibile mediante altri termini.

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L A LOGICA D A LEIBNIZ A FREGE

l . Bolzano : la proposizione in sé.

Per far comprendere ai miei lettori, con la maggior chiarezza possibile, che cosa intendo per proposizione in sé, comincerò a chiarire anzitutto che cos'è quella che denomino proposizione enunciata o espressa me­ diante parole . Con questa denominazione designo qual­ siasi discorso ( composto, nella maggior parte dei casi, da più parole, ma anche, occasionalmente, da una sin­ gola parola) , allorché per suo mezzo venga detta o asse­ rita una qualsiasi cosa, e perciò debba valere uno dei due casi : che esso o è vero o è falso, nel significato che comunemente si attribuisce a tali termini, ovvero (come si può anche dire), allorché dev'esser corretto o scorretto. Cosl, per esempio, chiamo la seguente serie di parole « Dio è onnipresente », una proposizione enun­ ciata, poiché con queste parole viene asserito qualcosa e, in tal caso, sicuramente qualcosa di vero. Cosl pure chiamo proposizione anche la seguente serie di parole : « un quadrato è rotondo » ; poiché anche per mezzo di tale connessione di parole viene detto o asserito qual­ cosa, seppure qualcosa di falso e scorretto. Invece le connessioni di parole come « il Dio presente », un qua­ drato rotondo, non sono più chiamate da me proposi­ zioni; per loro mezzo, infatti, viene ben rappresentato, ma non detto o asserito qualcosa, cosicché, in senso stretto, non si può sostenere né che racchiudono qual­ cosa di vero né che racchiudono qualcosa di falso. Ades­ so che è noto che cosa intendo per proposizioni enun­ ciate, osservo inoltre che si dànno anche proposizioni che non sono espresse in parole, ma che ciascuno sem­ plicemente pensa : queste le chiamo proposizioni pen­ sate. Pertanto, come nella denominazione « una propo-

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

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s1z1one enunciata » distinguo chiaramente la proposi­ zione stessa dalla sua enunciazione, cosl nella denomi­ nazione « una proposizione pensata » distinguo la pro­ posizione stessa dal pensiero di essa. Ora, proprio ciò che ci si deve necessariamente rappresentare sotto il nome di proposizione, onde poter fare questa distin­ zione - ciò che si pensa sotto una proposizione allor­ ché ci si può ancora chiedere se qualcuno l'abbia o non l'abbia enunciata, pensata o non pensata - proprio questo è ciò che chiamo proposizione in sé; e proprio questo intendo con la parola proposizione quando, per ragioni di brevità, la impiego senza l'aggiunta di in sé. In altri termini, con proposizione in sé intendo soltanto una qualche asserzione che è o qualcosa o nulla; sia che tale asserzione sia vera o falsa, che sia stata racchiusa o no da qualcuno in parole, che sia stata o non sia stata soltanto pensata nello spirito. Qualora si richieda un esempio nel quale la parola proposizione compare nel significato appena stabilito, ne fornisco il seguente, a fianco del quale possono esserne posti molti analoghi : « Dio, in quanto onnisciente, conosce non soltanto tutte le proposizioni vere, ma anche tutte quelle false, non soltanto quelle che ciascun essere creato considera vere, o delle quali si fa soltanto una rappresentazione, ma anche quelle che nessuno ritiene vere o che solamente si rappresenta o si rappresenterà » . Affinché il lettore possa averne un concetto più evidente, già reso com­ prensibile - come spero - da quanto precede, e possa cosl convincersi più chiaramente, avendomi com­ preso in modo corretto, saranno opportune le osserva­ zioni seguenti. . . Altrettanto poco è lecito immaginarsi che una pro­ posizione in sé è qualcosa di posto da qualcuno quanto

320

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

scambiarla con una rappresentazione sussistente nella coscienza di un essere pensante, cioè con un riconoscere per vero o con un giudizio. È vero del resto che ogni proposizione, quand'anche non lo sia da nessun altro essere, viene certamente pensata e rappresentata da Dio e, nel caso sia vera, riconosciuta anche come tale ; e quindi essa è presente nell'intelletto divino o come una mera rappresentazione o come un giudizio; con ciò, tuttavia, una proposizione è sempre qualcosa d'altro che una rappresentazione o un giudizio . Su questa base si può anche non attribuire nessun esserci (cioè nessuna esistenza o realtà) alle proposizioni in sé. Sol­ tanto la proposizione pensata o asserita, cioè il pen­ siero di una proposizione, ovvero il giudizio che rac­ chiude una certa proposizione, ha esistenza nell'animo dell'essere che pensa il pensiero o emette il giudizio ; ma la proposizione-in-sé, che costituisce il contenuto del pensiero o del giudizio, non è nulla di esistente ; cosicché risulterebbe altrettanto insensato affermare che una proposizione ha un'esistenza eterna quanto che è sorta in un determinato momento e che di nuovo è scom­ parsa in un altro . . . Infine è evidente di per sé che una proposizione in sé, per quanto come tale non sia né un pensiero né un giudizio, ha tuttavia a che fare con pensieri e giudizi, cioè che il concetto di un pensiero o di un giudizio può essere compreso in una qualsiasi delle sue parti componenti . .

.

( Wissenschaftslehre, 19, vol. I,

pp.

76·78 )

2 . Bolzano : la nozione in sé. A chi ha ben compreso quella che chiamo proposi­ zione in sé, posso ora rendere chiaro nella maniera mi-

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

321

gliore e più breve che cos'è quella che chiamo nozione in sé o anche, talvolta, semplicemente nozione o no­ zione soggettiva: quest'ultima, dico, è costituita per me da tutto ciò che può esser presente come parte com­ ponente in una proposizione, senza però dar luogo da sola a una proposizione. Cosi, per esempio, mediante l'unione delle seguenti parole Caio è intelligente, viene espressa un'intera proposizione, ma con la parola Caio da sola viene espresso qualcosa che - come si vede può servire come parte componente in proposizioni, senza però formare di per sé sola nessuna proposizione compiuta. Questo qualcosa lo chiamo una nozione. Nello stesso modo denomino nozioni anche ciò che la parola è designa, e infine ciò che la parola intelligente indica nella proposizione citata . . . Ogni qual volta vediamo, udiamo, sentiamo una qua­ lunque cosa, oppure la percepiamo sempre per mezzo di un senso esterno o interno; inoltre ogni qual volta ci rappresentiamo soltanto o pensiamo qualcosa, pur senza giudicare su tutto ciò, e senza compiere su di esso una qualche asserzione, allora si può dire sempre che ne abbiamo una nozione. Nozione è dunque, in questo senso, il nome generale per le manifestazioni nel nostro animo, le cui specie particolari designamo con le denominazioni: vedere, udire, percepire, rappre­ sentarsi, pensare ecc., in quanto non sono nessun giu­ dizio o asserzione . . . Ogni nozione, in questo significato della parola, presuppone un qualsiasi essere vivente come soggetto, nel quale si trovi ; e perciò la chiamo soggettiva o anche pensata. La nozione soggettiva è dunque qualcosa di reale; essa ha, per il tempo deter­ minato nel quale viene rappresentata nel soggetto che se la rappresenta, un'esistenza reale ; cosi come produce

322

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

effetti di ogni genere. Ma ciò non vale per la nozione oggettiva o nozione in sé connessa a ogni nozione sog­

gettiva, sotto la quale intendo qualcosa che non de­ v'essere cercato nell'ambito della realtà, e che costitui­ sce la materia prossima e immediata della nozione sog­ gettiva. Una tale nozione oggettiva non ha bisogno di alcun soggetto dal quale venir rappresentata, bensl sus­ siste, e certamente non come qualcosa di esistente, ma come un certo qualcosa, anche se nessun singolo essere pensante dovesse comprenderla. E per il fatto che uno, due, tre o più esseri la pensano, non si moltiplica; allo stesso modo che la relativa nozione soggettiva sussiste invece come molteplice. Da ciò il nome di nozione

oggettiva.

( Wissenschaftslehre, 48, vol. I, pp. 2 1 6·17)

3. Bolzano: consistenza, derivabilità, equivalenza.

Se asseriamo che certe proposizioni A, B, C, D, . . . M, N, O, . . . stanno nel rapporto di consistenza, in rela­ zione esattamente alle nozioni i, j, . . . , allora . . . non asse­ riamo niente di più del fatto che vi sono certe nozioni che, sostituite al posto di i, j, . . . trasformano comple­ tamente in vere quelle proposizioni. . . Pensiamo dun­ que, prima di tutto, il caso che tra le proposizioni A, B, C, D, ... M, N, O, . . tra loro compatibili, sussista il rapporto per cui, tutte le nozioni che al posto delle va­ riabili i, j, . . . rendono vera una certa parte di queste proposizioni, cioè tutte le proposizioni A, B, C, D . . . ab­ biano anche la proprietà di render vera una certa altra parte di tali proposizioni, cioè le proposizioni M, N, O, . . . Il rapporto particolare che in questo modo, pen.

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

323

siamo tra le proposizioni A, B, C, D . . . da un lato, e le proposizioni M, N, 0 . . dall'altro, è degno di una grande considerazione, poiché ci mette, non appena sap­ piamo che esso sussiste, nella condizione di ricavare dalla conoscenza della verità delle proposizioni A, B, C, D, ... anche la verità di M, N, O, . . . Io pertanto do al rapporto che sussiste tra le proposizioni A, B, C, D, . . . d a un lato, e M , N, O, . . . dall'altro, il nome di rapporto di derivabilità, e dico che le proposizioni M, N, O, . . . sono derivabili dalle proposizioni A , B, C , D , . . . in rapporto alle parti variabili i, j, . . . , se ogni contenuto delle nozioni, che rende vere completamente le pro­ posizioni A, B, C, D, . . . , sostituito a i, j, . . . , rende vere anche tutte le proposizioni M, N, O, . . .

.

( Wissenschaftslehre, 155, vol. II, pp. 1 1 3-14 )

Se tra le proposizioni A, B, C, D, . . . e M, N, O, . . , sussiste un rapporto di reciproca derivabilità, e ciò in una relazione determinata con le medesime nozioni i, j, . . . ; vale a dire, se ogni contenuto delle nozioni che al posto di i, ; , . . . , rende vere completamente A, B, C, D, . . . , rende vere anche M, N, O, . . . - e se, al con­ trario, ogni contenuto di nozioni che al posto di i, j, . . . rende vere completamente M, N, O, . . . , rende vere an­ che A, B, C, D, . . . - allora dico che le proposizioni A, B, C, D, . . . e M, N, O, . . . , stanno tra loro in un rap­ porto di equivalenza, e le chiamo perciò equivalenti, in rapporto alle medesime nozioni i, j. .

( Wissenschaftslehre, 156, vol. II, p. 133)

Se affermiamo ora che M, N, O, . . . sono derivabili da A , B, C, . . esattamente in rapporto alle nozioni i, j, . . . , diciamo in sostanza . . . semplicemente quanto segue : .

324

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

« ogni contenuto di nozioni che, sostttUlto a z, J, . . . , nelle proposizioni A, B, C, . . . , M, N, O, . . . , rende vere globalmente le proposizioni A, B, C, . . . , ha la proprietà di render vere globalmente anche le proposizioni M, N, O, . . . » . L'espressione usuale che impieghiamo per indicare proposizioni di questo tipo è, com'è noto : « Se A, B, C, . . . sono vere, allora anche M, N, O, . . . , sono vere » . Ma non di rado diciamo anche: « Da A, B, C, . . . seguono o sono derivabili o si lasciano inferire M , N, O, . . . ecc. » . . . Ora, però, . . . dal momento che, per il rapporto di derivabilità non si dà affatto il caso, come invece si dà con il rapporto di semplice consistenza, che un qualche contenuto delle proposizioni A, B, C, . . . d a u n lato, e M, N, O, . . . dall'altro, possa venir ricon­ dotto a tale rapporto semplicemente perché determi­ niamo in modo arbitrario quali nozioni che vi sono den­ tro debbano essere considerate come variabili, è per­ tanto un'asserzione piuttosto singolare sostenere, ri­ guardo a certe proposizioni M, N, 0 . . . che possono essere ridotte in un rapporto di derivabilità con altre proposizioni A, B, C, . . . , non appena si considerino variabili le nozioni che appartengono loro. Ma con un giudizio siffatto diciamo semplicemente che nelle pro­ posizioni A, B, C, . . . , M, N, O, . . . , vi sono certe parti che possono essere considerate come variabili, con la conseguenza che ogni contenuto di nozioni che, al po­ sto di i, ; . . . rende vere tutte le proposizioni A, B, C, . . . , rende vere anche tutte le M, N, O, . . . Ora, si può ve­ dere facilmente . . . come si debba esprimere una tale proposizione, per porre in evidenza le sue parti logiche costitutive: « la nozione di certe parti in A, B, C, . . . , M, N, O, . . . , che sono tali per cui ogni contenuto di nozioni arbitrario, che sostituito ad A, B, C, . . . , le rende

LA « S ECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

32,

vere, rende vere sempre anche le proposizioni M, N, O , . . , ha oggettività ». Nel linguaggio ordinario, pro­ posizioni di questa specie sono espresse esattamente come le precedenti ; e solamente da altre circostanze, come per esempio dal contesto, si deve evincere se chi parla ha in mente determinate nozioni nei rispetti delle quali si presenta il rapporto di derivabilità, oppure se vuole soltanto esprimere che vi sono tali nozioni. . . Con un'affermazione siffatta si vuole sostenere soltanto che ci sono siffatte nozioni in virtù delle quali dalla verità dell'antecedente si può concludere con sicurezza la ve­ rità del conseguente, senza che però sia dato conoscere propriamente quali siano queste nozioni. .

( Wissenschaftslehre, 164, vol. II,

pp .

198-200)

4 . Bolzano : derivabilità e inferenza da più premesse. Se, per esempio, affermo che dalle due proposizioni : ciò che ha a, ha anche h » e « ciò che ha h, ha anche c » , è deducibile la terza proposizione « ciò che ha a, ha anche c » , si deve intendere che tra queste propo­ sizioni sussiste il rapporto di derivabilità qualora tutte le nozioni designate con le lettere a, h, c, e nessun'altra, siano quelle che si considerano come variabili. In que­ sto modo, perciò, mediante le parole impiegate rap­ presento propriamente non già le proposizioni stesse, che stanno in un rapporto reciproco di derivabilità, ma soltanto la forma che devono avere queste propo­ sizioni, e neppure rappresento le inferenze stesse, ma soltanto le loro forme ( cioè le regole in base alle quali debbono essere formate ). Ora però, per poter desi­ gnare brevemente il fatto che certe proposizioni M, N, «

326

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

O, . sono derivabili da certe altre A, B, C, D, . . , scrivo . queste ultime, sopra, e le prime sotto una linea retta che le separa . . . S e le proposizioni A, B, C, D, . . . per l e quali dob­ biamo rinvenire adesso delle conclusioni, sono già state considerate in altra occasione in connessione con certe altre proposizioni E, F, G, . . . , e da questo contenuto, in relazione alle rappresentazioni i, j, . . . , abbiamo deri­ vato le conclusioni M, N, O, . . . , allora possiamo dire che le proposizioni M, N, O, . . . sono vere tutte le volte che alla verità delle proposizioni A, B, C, D, . . . corri­ sponde anche la verità delle proposizioni E, F, G, . . . Possiamo dunque formulare il seguente giudizio ipote­ tico come una conclusione risultante solo dalle propo­ sizioni A, B, C, D, . . . : se E, F, G, . . . sono vere, allora sono vere anche M, N, O, . . . Che la conclusione che otteniamo in questa maniera, e cioè : . .

.

A, B, C, D, . . . se E , F, G, . . . sono vere, lo sono anche M , N , 0 . . . , sia in realtà differente da quella originaria, e cioè :

A, B, C, D, E, F, G, . . . M, N, 0, ... risulta chiaro s e esprimiamo entrambe le proposlztoni nel modo in cui abbiamo appreso a esprimere il senso di ciascuna inferenza. . . L'ultima [ delle due ] suona in­ fatti : « ogni contenuto di rappresentazioni che al posto di i, j, . . . rende vere insieme le proposizioni A, B, C, D, E, F, G, . . . rende vere anche tutte insieme, le proposizioni M, N, O, . . . » . L'altra afferma invece : « ogni contenuto di rappresentazioni che, sostituito a

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

327

i, j, . . . rende vere le proposizioni A, B, C, D, . . . rende

vera anche la proposizione secondo la quale, per mezzo di un qualunque contenuto di rappresentazioni che, al posto di i, j, . . rende vere anche le proposizioni E, F, G, . . . , sono rese vere egualmente anche le proposizioni M, N, O, . . » . In questa maniera si lasciano dedurre da una qualsiasi inferenza data di n premesse altre conclusioni aventi solo n 1 , n 2 , . . . , addirittura anche una sola di quelle premesse. Cosl, per esempio, dalle due premesse : « A è B, B è C », si ottiene la con­ clusione : « A è C » . Saremo dunque autorizzati anche a derivare dalla singola premessa A è B la conclusione : « se B è C, allora A è anche C » . E se in questo caso l'inferenza per la quale le proposizioni M, N, O, . . . derivano d al contenuto delle proposizioni A, B, C , D, E, F, G, . . , è esatta, lo è allora manifestamente anche la nuova. .

.

-

-

.

( Wissenschaftslehre, 223-224, vol. II, pp. 394-97)

5 . Frege : scopo e natura dell'ideografia. Ritengo di poter rendere nella maniera più chiara il rapporto della mia ideografia col linguaggio quotidiano paragonandolo al rapporto del microscopio con l'oc­ chio. Quest'ultimo, per l'estensione della sua applica­ bilità, per la mobilità con la quale sa adattarsi alle circostanze più diverse, possiede una grande superiorità nei confronti del microscopio. Considerato come stru­ mento ottico, esso rivela però molte imperfezioni che di solito rimangono inosservate soltanto in conseguenza della sua intima connessione con la vita spirituale. Ma non appena scopi scientifici richiedano notevole esat-

328

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

tezza nella distinzione, l'occhio si rivela insufficiente. Il microscopio si adatta invece perfettamente proprio a tali scopi, ma appunto per questo è inutilizzabile per tutti gli altri. Allo stesso modo, questa mia ideografia è uno stru­ mento inventato per determinati scopi scientifici, e non può essere condannata per il fatto di non essere utile ad altri scopi. Se essa corrisponde in qualche modo a tali scopi, ci si accorga pure della mancanza di nuove verità in questo mio scritto. Mi consolerò di ciò con la coscienza che anche uno sviluppo del metodo fa progredire la scienza. Anche Bacone, del resto, ritiene più importante scoprire un mezzo mediante il quale tutto possa esser trovato facilmente che fare una sin­ gola scoperta, e in definitiva tutti i grandi progressi scientifici dei tempi moderni hanno avuto la loro ori­ gine in un miglioramento del metodo. Anche Leibniz ha riconosciuto, e forse sopravvalu­ tato, i vantaggi di una notazione adeguata. La sua idea di una caratteristica universale, di un calculus philoso­ phicus o ratiocinator, era troppo gigantesca perché il tentativo di realizzarla potesse andare oltre dei meri lavori preparatori . . . Nei segni aritmetici, geometrici, chimici, si possono vedere realizzazioni delle concezioni di Leibniz per singoli domini. L'ideografia qui proposta ne aggiunge a questi uno nuovo e in particolare quello posto in posizione centrale, che è confinante con tutti gli altri. Da qui ci si può dar da fare con le più grandi prospettive di successo, per colmare le lacune dei lin­ guaggi in formule esistenti, per collegare al dominio di uno solo di essi i loro domini finora separati e per estenderli a domini che ancora sono privi di un tale linguaggio.

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

329

Mi

riprometto una fruttuosa applicazione della mia ideografia soprattutto laddove dev'essere attribuito un particolare valore alla connessione del processo dimo­ strativo, come nella fondazione del calcolo differenziale e integrale. Ancor più facile mi sembra essere l'estensione del dominio di questo linguaggio in formule alla geometria. Si dovrebbero soltanto aggiungere ancora alcuni segni per le relazioni intuibili che in essa si presentano: in questo modo si otterrebbe una sorta di analysis situs. Si potrebbe inserire qui il passaggio alla dottrina pura del movimento, e inoltre alla meccanica e alla fisica . . . Già l a scoperta d i questa ideografia è stata utile, mi sembra, alla logica. Spero che i logici, se non si lasciano spaventare dalla prima impressione di stranezza, non negheranno la loro approvazione alle innovazioni alle quali sono stato spinto da una necessità interna alla materia stessa. Queste divergenze rispetto all'uso tradi­ zionale trovano la propria giustificazione nel fatto che la logica finora è stata sempre connessa troppo stretta­ mente a linguaggio e grammatica . Credo in particolare che la sostituzione dei concetti di soggetto e predicato con argomento e funzione farà, a lungo andare, buona prova di sé. È facile comprendere che la concezione di un contenuto come funzione di un argomento è con­ cettualmente efficace. Si dovrebbe prestare inoltre at­ tenzione alla prova della connessione tra i significati delle parole : se, e, non, o, esiste, alcuni, tutti ecc. (Begrilfsschrift, pp.

XI-XIII )

330

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

6. Frege : segno di contenuto

e

segno di giudizio.

Un giudizio verrà sempre espresso mediante il segno

posto a sinistra del segno o della connessione di segni che indica il contenuto del giudizio. Se si tralascia i1 piccolo tratto verticale all'estremo sinistro del tratto orizzontale, allora ciò muta il giudizio in una mera connessione rappresentativa della quale chi scrive non esprime se ne riconosca o no la verità. Significhi per esempio

l- A il giudizio : « i poli magnetici di nome opposto s1 at­ traggono » ; allora

-A non esprimerà questo giudizio, ma richiamerà al lettare unicamente la rappresentazione dell'attrazione reciproca dei poli magnetici di nome opposto, eventualmente per trarre da ciò conseguenze, e su di esse provare la cor­ rettezza del pensiero. In questo caso ric;:orriamo a peri­ frasi mediante le parole « la circostanza che » o « la

proposizione che

».

Non qualsiasi contenuto può diventare un giudizio per il fatto che davanti al suo segno è posto � ; per esempio non può diventarlo la rappresentazione « casa » . Distinguiamo perciò contenuti giudicabili e

non giudicabili.

Il tratto orizzontale che compone il segno � col­ lega in un tutto i segni che lo seguono, e a questo tutto si relaziona l'affermazione che viene espressa me-

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

331

diante il tratto verticale all'estremo sinistro del tratto orizzontale. Si può chiamare linea di contenuto la li­ neetta orizzontale e linea di giudizio la lineetta verti­ cale. La linea di contenuto serve, d'altra parte, anche a porre in relazione segni qualsiasi con la totalità dei segni che la seguono. Ciò che segue la linea di conte­

nuto, deve sempre avere un contenuto giudicabile.

Nella mia presentazione di un giudizio non trova po­ sto una distinzione tra soggetto e predicato. Per giusti­ ficare ciò osservo che i contenuti di due giudizi possono essere differenti in un duplice modo: in primo luogo quando le conseguenze che possono essere tratte dal­ l'uno in connessione con determinati altri, seguono sem­ pre anche dall'altro in connessione con i medesimi giu­ dizi ; in secondo luogo quando ciò non si verifica. En­ trambe le proposizioni « a Platea i Greci vinsero i Per­ siani » e « a Platea i Persiani furono vinti dai Greci » si differenziano nel primo modo. E sebbene vi si possa anche riconoscere una leggera differenza di senso, la concordanza è prevalente. Ora, io chiamo contenuto concettuale quella parte del contenuto che è la stessa in entrambe le proposizioni. Poiché soltanto questo con­ tenuto è significativo per l'ideografia, in essa non occorre fare alcuna distinzione tra proposizioni aventi il mede­ simo contenuto concettuale. . . . È pensabile una lingua nella quale la proposizione « Archimede perì nella presa di Siracusa » venga espressa nel modo seguente : « la morte violenta di Archimede durante la presa di Sira· cusa è un fatto » . Volendo, si può distinguere anche qui tra soggetto e predicato, ma il soggetto racchiude l'intero contenuto e il predicato ha il solo scopo di pre­ sentarlo come giudizio. Una lingua simile avrebbe sol­

tanto un unico predicato per tutti i giudizi, cioè :

«

è

332

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

un fatto » . Si vede che qui non si può parlare di sog­ getto e predicato nel senso ordinario. Una tale lingua è la nostra ideografia, e il segno f-cato comune per tutti i giudizi.

è il

(Begrilfsschrift,

I,

suo predi­ 1-3, pp . 1-4)

7. Frege : la condizionalità e il segno di condizione. Se A e B significano contenuti giudicabili, allora si hanno le seguenti quattro possibilità : l ) A è affermato e B è affermato ; 2 ) A è affermato e B è negato; 3 ) A è negato e B è affermato; 4) A è negato e B è negato.

l-A i_ B significa dunque il giudizio che non si dà la terza di queste possibilità, ma una delle altre tre. Se A

I_ B

--

viene negato, ciò significa allora che si dà la terza possi­ bilità, che cioè A viene negato e B affermato. Dai casi in cui : ---A

I_B

viene affermato, ricaviamo i seguenti : l ) A dev'essere affermato. Allora il contenuto di B è del tutto indifferente. Per esempio : f-- A signifi­ chi 3 X 7 = 2 1 , B significhi la circostanza che il sole

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

333

splende. Allora sono possibili soltanto i primi due dei quattro casi sopra indicati. Non è necessario che vi sia un rapporto causale tra i due contenuti. 2) B dev'essere negato. Allora il contenuto di A è indifferente. Per esempio : B significhi la circostanza che un perpetuum mobile è possibile, A la circostanza che il mondo è infinito. Qui soltanto il secondo e il quarto dei quattro casi sono possibili. Non è necessario che tra A e B sussista un rapporto causale. 3 ) Si può pronunciare il giudizio

senza sapere se A e B siano da affermare o da negare. B significhi, per esempio, la circostanza che la luna è in quadratura, A la circostanza che essa appare come un semicerchio. In questo caso si può tradurre

IL:

con l'aiuto del copnettivo « se » : « se la luna

è in quadratura, allora appare come un semicerchio » . La connessione causale implicita nella parola « se » non viene espressa però con i nostri segni, sebbene un giu­ dizio di questa specie possa essere pronunciato soltanto in base a tale connessione. Quest'ultima è infatti qual­ cosa di generale, che tuttavia qui non viene ancora espresso. Il tratto verticale che unisce i due tratti orizzontali si chiama linea di condizione. La parte del tratto oriz­ zontale che è a sinistra della linea di condizione è la linea di contenuto per il significato, appena illustrato, del collegamento di segni --

A

\_ B

334

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

ad essa viene attaccato ogni segno che debba far rife­ rimento alla totalità dell'espressione. La parte del tratto orizzontale giacente tra A e la linea di condizione è la linea di contenuto di A. Il tratto orizzontale alla sini­ stra di è la linea di contenuto di È facile quindi riconoscere che

B

B.

1 \- B

------, ---.- A --

r

nega il caso in cui A viene negata, si deve pensare composto da

l

-B

-

così come

A

e

Be

r

affermati. Lo

r

B.

dev'essere pensato composto da A e In primo luogo abbiamo perciò la negazione del caso in cui

viene negato e r affermato. La negazione di

B

significa invece che A è negato e affermato. Da ciò risulta quel che si è asserito più sopra. Se esiste una connessione causale, allora si può anche dire « A è la conseguenza necessaria di e r » ; oppure « se si veri­ ficano le condizioni e r, allora si verifica anche A » .

B

B

(Begriffsschrift,

I,

5 , pp. 5-7)

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

335

8 . Frege : la deduzione. Dalla spiegazione data . . . risulta che dai due giudizi

segue il nuovo giudizio

l- A

Dei quattro casi enumerati sopra, il terzo è escluso da

1 -A

I_ B

'

il secondo e il quarto invece da

1

-

B

in modo che rimane soltanto il primo . . . Nella logica, da Aristotele in poi, si enumera un'in­ tera serie di modi di deduzione ; io mi servo soltanto di questo - per lo meno in tutti i casi nei quali da più di un giudizio ne vien dedotto uno nuovo. Si può infatti esprimere la verità compresa in un altro modo di deduzione, in un giudizio nella forma : se vale M, e se vale N, allora vale anche A; in simboli :

Da questo giudizio e da f--- N e f--- M, segue allora f--- A come sopra. Così una conclusione otte­ nuta mediante un qualunque modo di deduzione può esser ricondotta al nostro caso. E dal momento che è possibile limitarsi a un unico modo di deduzione, farlo

336

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

è un obbligo di chiarezza . . . Con questa limitazione a un

unico modo di deduzione, non viene espressa in alcun modo una proposizione psicologica, ma viene soltanto decisa una questione di forma nel senso della massima conformità allo scopo. (Begrilfsschrift,

I,

6, pp. 7·10)

9 . Frege: la negazione.

Se alla parte inferiore della linea di contenuto viene aggiunto un piccolo tratto verticale, con ciò viene espres­ sa la circostanza che non si dà quel contenuto. Così, per esempio

1 -�- A :

significa « non si dà A » . Chiamo questo trattino verti­ cale la linea di negazione. La parte del tratto orizzon­ tale che si trova a destra della linea di negazione è la linea di contenuto di A, mentre la parte che si trova alla sinistra della linea di negazione è la linea di con­ tenuto della negazione di A. Qui, come in ogni altro luogo dell'ideografia, non viene espresso alcun giudizio senza la linea di giudizio . Così

-�-A

richiede soltanto che ci si formi la rappresentazione che A non ha luogo, senza esprimere se questa rappre­ sentazione è vera. Trattiamo ora alcuni casi in cui i segni della condi­ zionalità e della negazione sono collegati tra loro.

1-j1 A -B

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

337

significa: « non si dà il caso che B venga affermata e la negazione di A negata » ; in altre parole : « non sus­ siste la possibilità di affermare entrambi, A e B » ; ovvero : « A e B si escludono reciprocamente » . Riman­ gono quindi soltanto i tre casi seguenti : A viene affermato e B viene negato; A viene negato e B viene affermato ; A viene negato e B viene negato. In base a quanto precede è facile stabilire quale significato possieda ognuna delle tre parti del tratto orizzontale davanti ad A.

A 1---� -B· l •

significa: « non si dà il caso in cui A viene negato e la negazione di B viene affermata » ; ovvero: « A e B non possono venir negati entrambi » . Rimangono adesso soltanto le seguenti possibilità : A viene affermato e B viene affermato; A viene affermato e B viene negato; A viene negato e B viene affermato. A e B esauriscono insieme l'intera possibilità. Le pa­ role « o » e « o - o » vengono impiegate in due diffe­ renti modi : «A o B» significa in primo luogo la stessa cosa di

A I _B ' l

--

cioè che nulla è pensabile al di fuori di A e B. Per esempio : se una massa gassosa viene riscaldata, allora

338

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

si accresce il suo volume o la sua pressione. In secondo luogo l'espressione «A o B» unisce in sé i significati di

-� � A -B

e d

'

l

-�-A -B l

cosicché anzitutto non è possibile un terzo caso oltre e B e, secondariamente, A e B si escludono. Delle quattro possibilità rimangono allora soltanto le due seguenti : A viene affermato e B viene negato ; A viene negato e B viene affermato. Dei due modi di impiego dell'espressione « A o B » è il primo - con cui non si esclude il contemporaneo sussistere di A e B - il più importante; e noi useremo la parola « o » in questo significato. Forse è opportuno distinguere tra « o » e « o - o » : soltanto quest'ultimo ha il significato aggiuntivo dell'esclusione reciproca.

A

(Begriffsschrift,

I,

7, pp. 10-1 1 )

1 0 . Frege: eguaglianza di contenuto e concetto di funzione.

L'eguaglianza di contenuto si distingue dalla condi­ zionalità e dalla negazione per il fatto che si riferisce a nomi, non a contenuti. Mentre normalmente i segni sono semplicemente rappresentanti del proprio conte­ nuto, in modo che ogni connessione nella quale entrano esprime soltanto una relazione dei loro contenuti, si rivelano subito per quello che sono non appena vengono

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

339

collegati con il segno dell'eguaglianza di contenuto; con ciò viene infatti indicata la circostanza che due nomi hanno il medesimo contenuto . Con l'introduzione di un segno per l'eguaglianza di contenuto viene data ne­ cessariamente la scissione nel significato di tutti i se­ gni, in quanto essi stanno ora per il loro contenuto, ora per se stessi . . .

i- (A == B ) : il segno A e il segno B hanno il me­ desimo contenuto concettuale, cosicché A può esser po­ sto in ogni caso al posto di B e viceversa . . . significa dunque :

Pensiamo di aver espresso nel nostro linguaggio in formule la circostanza che l'idrogeno è più leggero del­ l'acido carbonico : al posto del segno dell'idrogeno pos· siamo sostituire il segno dell'ossigeno o quello dell'azoto. Di conseguenza si ha un mutamento di senso, in quanto « ossigeno » o « azoto » entra nelle relazioni nelle quali si trovava prima « idrogeno » . Se si pensa un'espres­ sione come variabile nel modo indicato, questa stessa si scinde in una parte che rimane, rappresentante la totalità delle relazioni, e nel segno, che viene pensato sostituibile da altri segni, e che significa l 'oggetto che si trova in queste relazioni . La prima parte componente la chiamo funzione, la seconda il suo argomento. Que­ sta distinzione non ha nulla a che fare con il contenuto concettuale, ma concerne solo il suo concepimento. Men­ tre nel modo di considerare sopra accennato « idro­ geno » era l'argomento, « esser più leggero dell'acido carbonico » era la funzione, possiamo concepire il me­ desimo contenuto· concettuale anche in modo che « aci­ do carbonico » diventi argomento, « esser più pesante dell'idrogeno » diventi funzione. Per fare ciò basta pen-

340

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

sare « acido carbonico » rimpiazzabile mediante altre rappresentazioni come « acido cloridrico », « ammo­ niaca » . « La circostanza che l'acido carbonico è più pesante dell'idrogeno » e « la circostanza che l'acido carbonico è più pesante dell'azoto » sono la medesima funzione con argomenti differenti, se si considerano « idrogeno » e « azoto » come argomenti; sono invece funzioni diffe­ renti dello stesso argomento se si considera « acido car­ bonico » come argomento . . . Esprimiamo ora l a questione i n generale : se in un'e­

spressione il cui contenuto non è necessariamente giu­ dicabile, un segno semplice o composto ricorre in uno o più posti e lo pensiamo sostituibile, in tutti o in alcuni di tali posti, da un altro segno - purché il medesimo in ogni posto - allora chiamiamo funzione la parte dell'espressione che in questo caso si presenta invariata, e suo argomento la parte sostituibile . . . Se in una funzione si pensa sostituibile, in alcuni o in tutti i posti in cui ricorre, un segno fino a quel momento ritenuto non sostituibile, allora con questo modo di concepire si ottiene una funzione che, oltre a quelli finora posseduti, possiede anche un altro argo­ mento. Cosl, per esempio, « la circostanza che l'idro­ geno è più leggero dell'acido carbonico » può esser con­ cepita come funzione di entrambi gli argomenti « idro­ geno » e « acido carbonico » . . .

Per esprimere una funzione indeterminata dell'argo­ mento A, lasciamo seguire A, chiusa in parentesi, a una lettera; per esempio : w

Analogamente

(A).

LA

« SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

341

'l' (A, B)

significa una funzione dei due argomenti A e B che non è ulteriormente determinata. In questo caso i posti di A e B nella parentesi rappresentano i posti che A e B occupano nella funzione, indipendentemente dal fatto che questi siano uno o più, sia per A sia per B. Perciò 'l' (A, B) è in generale differente da 'l' (B, A) . In maniera analoga vengono espresse funzioni inde­ terminate di più argomenti. � (A) si può leggere :

«

A ha la proprietà

».

� 'l' (A, B) può esser tradotto con « B sta nella 'l' - relazione con A » oppure « B è il risultato di un'applicazione del procedi­ mento 'l' all'oggetto A » . Poiché nell'espressione (A) il segno occorre in un posto, e poiché possiamo pen­ sarlo sostituito da altri segni 'l', X - mediante i quali allora verrebbero espresse altre funzioni dell'argomento A - si può concepire (A) come una funzione del­ l' argomento . Da ciò risulta particolarmente chiaro che il concetto di funzione dell'analisi, al quale mi sono in generale collegato, è assai più limitato di quello qui sviluppato. (BegrifJsschrift,

I,

8-1 1 , pp. 13-19)

342

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

1 1 . Frege : la generalità. Nell'espressione di un giudizio si può sempre consi­ derare l'unione di segni posta alla destra di 1-- come funzione di uno dei segni che in essa ricorrono. Se al

posto di questo argomento si pone una lettera gotica, e si dà alla linea di contenuto una cavità nella quale si dispone questa medesima lettera, come in

a �'-'- et> ( a),

allora ciò significa il giudizio che quella funzione è un fatto, qualunque cosa si consideri come suo argomento.

Poiché una lettera impiegata come segno di funzione, come et> in et> (A), può esser considerata come argomento di una funzione, allora può entrare al suo posto una lettera gotica, nel senso appena stabilito. Il significato di una lettera gotica è sottoposto solamente alle limita­ zioni, di per sé evidenti, che con essa deve rimanere intatta la giudicabilità . . . di una connessione di segni che segue una linea di contenuto, e che, se la lettera gotica compare come segno di funzione, si deve tener conto di tale circostanza. Tutte le rimanenti condizioni alle

quali deve esser sottoposto ciò che può esser messo al posto di una lettera gotica, devono essere accolte nel giudizio. Da tale giudizio si può perciò derivare sempre un insieme arbitrario di giudizi con contenuto meno generale, sostituendo ogni volta qualcos'altro alla lettera gotica, in modo che la cavità nella linea di contenuto scompaia di nuovo. Il tratto orizzontale che si trova a sinistra della cavità in

a �v- et> (a)

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

343

è la linea di contenuto indicante che vale ci> ( a), qual­ siasi cosa si metta al posto di a; il tratto che si trova a destra della cavità è la linea di contenuto di ci> ove al posto di si deve pensare qualcosa di determinato. Dopo quanto si è detto sopra riguardo al significato della linea di giudizio, è facile vedere che cosa significhi un'espressione come

(a),

a

.,-v-X (a ) ll

Questa può comparire come parte in un giudizio, come

h-v-X (a), a

----.-- A

�-�-X (a).

È chiaro che d a questi giudizi non s i possono ricavare giudizi meno generali sostituendo qualcosa di determi­ nato al posto di a, come accade invece per ll

v-X ll

l-v- et> ( a )

X (a)

Mediante j ( a ) viene negato che sia sem1 pre un fatto, qualsiasi cosa si ponga al posto di Con ciò tuttavia non si nega affatto che per a possa darsi un significato A, tale che ( A ) sia un fatto.

X

a.

----A

� -�-X (a)

-vll

X ( a) significa che non ha luogo il caso in cui viene affermato e A viene negato. Con ciò non si ncgn però affatto che si dia il caso in cui ( A ) viene n !Tc t·­ mato e A negato; poiché, come si è appena v i s to , X ( A )

X

344

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

a

può essere affermato e v X (a) negato. Dunque, anche in questo caso non si può porre qualcosa di arbi­ trario al posto di et, senza pregiudicare la correttezza del giudizio. Ciò spiega perché è necessaria la cavità con dentro scritta la lettera gotica: essa delimita il dominio -

-

al quale fa riferimento la generalità indicata con la let­ tera. Soltanto all'interno del suo dominio la lettera go­ tica mantiene il proprio significato; in un giudizio la

medesima lettera gotica può occorrere in differenti do­ mini, senza che il significato attribuitole in uno di essi, si estenda ai rimanenti. Il dominio di una lettera gotica può includere quello di un'altra, come mostra l'esempio

a 1 -v

A (a) f-0- B ( a, e ) .

In questo caso le lettere gotiche devono essere scelte e al posto di a. Naturalmente è consentito sostituire dovunque, nel suo dominio, una lettera gotica con un'altra determinata, purché nei posti nei quali vi erano prima lettere diffe­ renti, anche dopo si trovino lettere differenti. Ciò non ha influenza sul contenuto. Altre sostituzioni sono am­

diverse; non si potrebbe infatti porre

messe soltanto se la cavità segue immediatamente la linea di giudizio, cosicché il contenuto dell'intero giu­ dizio costituisca il dominio della lettera gotica. Ma poi­ ché questo caso è di particolare rilievo, voglio intro­ durre per esso la seguente abbreviazione. Una lettera

latina abbia come dominio sempre il contenuto dell'in­ tero giudizio, senza che ciò venga indicato con una cavità nella linea di giudizio . Se una lettera latina occorre in una espressione che non è preceduta da una linea di giudizio, allora l'espressione è priva di senso. Una let-

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

J4'

tera latina può sempre esser sostituita da una lettera gotica che ancora non occorra nel giudizio, e quindi la

cavità dev'esser posta immediatamente dopo il segno di giudizio. Per esempio, al posto di

1- X (a)

si può porre ([

se a occorre in

X (a)

1-v- X (a), soltanto al posto di argomento.

Altrettanto evidente è che da

1 - (a) J- A si può derivare

se A è un'espressione nella quale a non occorre, e se a in

(a) è soltanto al posto di argomento.

([

Se -v- (a) viene negato, allora si deve poter trovare un significato ([

per a tale che (a) venga negato. Se dunque -v- ( a) venisse negato e A affermato, si dovrebbe poter indi­ care per a un significato tale che A venisse affermato e (a) negato. Ma ciò non può avvenire a causa di

1 - (a) l- A '

il cui significato è che qualsiasi cosa sia a, è escluso il caso che (a) sia negato e A affermato. Perciò non si

346

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

può negare

Il

v

-

-

(n) e affermare A; cioè

a 1 -v- (a) l A.

Analogamente da

l

l �-�(a) --

B

può seguire ---;--.--

a v- ( a)

---

A

----

B

se a non occorre in A e B, e se (a) contiene a soltanto al posto di argomento. (Begriffsschrift,

I,

1 1 , pp. 19-22 )

1 2 . Frege: l'esistenza.

Consideriamo ora alcune connessioni di segni.

a vX (a) 11

significa che si potrebbe trovare qualcosa, per esem­ pio .6., tale che X ( .6. ) venga negato; lo si può quindi tradurre « ci sono alcune cose che non hanno la pro­ prietà X » . Diverso da questo è il senso di

a 1-v1 X (a),

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

347

che significa : « qualunque cosa sia a, X (a) è sempre da negare », oppure « non c'è qualcosa che abbia la pro­ prietà X » ; oppure, se chiamiamo un X qualcosa che ha la proprietà X, « non c'è nessun X » .

(l -v -1- A

( a)

viene negato mediante (l

11 v i A (a) ,

che perciò si può tradurre : « ci sono dei (l

A

».

P (a) 1-v 1 -x (a)

significa : « qualsiasi cosa si metta al posto di a, non si dà il caso che P (a) debba venir negato e X (a) affer­ mato » . È dunque possibile che, per alcuni significati che si possono assegnare ad a, P (a) debba essere affermato e X ( a) affermato, per altri invece P ( a) debba essere affermato e X (a) negato, per altri ancora P (a) debba essere negato e X (a) negato. Si può quindi tradurre : « se qualcosa ha la proprietà X, allora ha anche la proprietà P », oppure « ogni X è un P » ovvero « tutti gli X sono P » .

Questo è il modo in cui vengono espresse le connes­ sioni causali.

a 1-v -� P (a) � --'l' ( a)

significa: « ad a non si può assegnare un significato tale che P (a) e 'l' (a) possano essere entrambe affermate ».

348

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

Si può tradurre perciò : « ciò che ha la proprietà 'l' non ha la proprietà P », ovvero « nessun 'l' è un P » .

a 11 v -P ( a) 1- A (a)

a -v--P ( a) e 1 - A (a) cuni A non sono P ». nega

può quindi esser reso con : « al-

a IT v 1 -1 PM(a) (a) nega che nessun M sia un P, e significa quindi :

« alcuni

M sono P », ovvero: « è possibile che un M sia un P ». (BegrifJsschrift,

I,

12,

pp.

22-24)

1 3 . Frege: esposizione e derivazione di alcuni giudizi del pensiero puro.

Alcuni principi del pensiero sono già stati conside­ rati . . . per venir trasformati in regole di applicazione dei nostri segni. Queste regole, e le leggi delle quali son riproduzioni, non possono essere espresse nell'ideo­ grafia, per il fatto che ne stanno a fondamento. In que­ sta parte verranno esposti in segni alcuni giudizi del pensiero puro per i quali ciò è possibile. È naturale derivare i più complessi di tali giudizi dai più semplici, non già per renderli più certi - cosa che sarebbe per lo più superflua - ma per far risaltare le relazioni dei giudizi tra loro. È evidente che conoscere semplicemente le leggi non è lo stesso che sapere anche come le une

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

349

siano già date per mezzo delle altre. In questo modo si perviene a un piccolo numero di leggi nelle quali, aggiungendovi quelle contenute nelle regole, è incluso, sia pure in forma non sviluppata, il contenuto di tutte. Un vantaggio ulteriore del modo di esporle derivandole le une dalle altre è quello di farci conoscere proprio quel nucleo. Poiché non si possono enumerare tutte le leggi dell'insieme immenso di quelle enunciabili, la com­ pletezza non verrà raggiunta in altro modo che me­ diante la ricerca di quelle che, in virtù della loro forza, le racchiudono tutte in sé. Ora, bisogna ammettere che la riconduzione non è possibile soltanto nel modo indi­ cato; mediante un tale modo di esposizione non ven­ gono messe in evidenza perciò tutte le relazioni delle leggi. C'è forse ancora un'altra serie di giudizi dai quali, con l'aggiunta di quelli contenuti nelle regole, si potreb­ bero egualmente derivare tutte le leggi del pensiero. Tuttavia, con il modo di riconduzione che qui viene esibito, viene rappresentato un insieme di relazioni tale che ogni altra derivazione viene, per suo mezzo, assai facilitata . . .

(l)

afferma : « è escluso il caso in cui a viene negata, b affer­ mata e a affermata » . Ciò risulta chiaro, poiché a non può esser negata e affermata nello stesso tempo. In altre parole, il giudizio si può esprimere anche così : « se vale una proposizione a, allora essa vale anche nel caso che valga una proposizione b qualunque » . Per esempio, si­ gnifichi a la proposizione che la somma degli angoli del triangolo ABC è eguale a due angoli retti ; b significh i

350

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

invece la proposizione che l'angolo ABC è un angolo retto. Allora otteniamo il giudizio : « se la somma degli angoli nel triangolo ABC è eguale a due angoli retti, ciò vale anche nel caso che l'angolo ABC sia un angolo retto » . L' l a destra di

è il numero di questa formula.

l l_c h l_ c

,---,---,---- a

-

-

(2) significa :

«

non ha luogo il caso in cui

viene negato e

viene affermato

».

(Begriffsschrift,

11,

13-14, pp. 25-27 )

351

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

----, �a

-

d

1l--'-b l-'-db

--,- a ----,----

---

(8)

significa che non si dà il caso in cui

a

��� negata, b e d affermate. -- a

venga

a

l ' -db

ha lo stesso significato, e ( 8 ) dice che è

l-l--b

Ciò può anche essere espresso cosl :

-

-

escluso il caso in cui si nega

a

-

a

l -'- db

e si afferma

«

se una

d

proposizione è la conseguenza di due condizioni, allora l'ordine in cui queste si succedono è indifferente » . (Begriffsschrift,

n,

16,

p.

35)

(28) significa :

«

non si dà il caso in cui si nega -1-1- b e si -� a

352

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

afferma --a

» . La negazione di --1- b

1 -b

11

signi-

a

fica che 1 a viene affermato e 1 b negato ; cioè che si nega a e si afferma b. Questo caso viene escluso da a . Siffatto giudizio fonda il passaggio dal modus

1 h ponens al modus tollens. Per esempio, significhino b la proposizione che l'uomo M vive; a la proposizione che M respira. --

-

Allora abbiamo il giudizio : « se dalla circostanza che M vive si può concludere che respira, allora dalla circostanza che non respira si può concludere che è morto » . . . -11 a significa la negazione della negazione, quindi l'affermazione di a. Dunque non si può negare a e (con­ temporaneamente) affermare 1 1 a. Duplex negatio affir­ mat. La negazione della negazione è affermazione . . . (Begriffsschrift,

n,

17-18, pp. 43-44)

(4 1 ) L'affermazione di

l

a

nega la negazione di a . . .

l-- (c == d) f (d)

l-f (c)

(52 )

Non si dà il caso in cui il contenuto di c sia eguale al contenuto di d, in cui f (c) viene affermato e f (d) ne­ gato. Questa proposizione esprime che, se c == d, si può sostituire d ovunque al posto di c. In f (c), c può occor­ rere anche in posti diversi da quelli di argomento. Per­ ciò c può essere contenuto anche in f (d) . . .

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

1- (c == c) .

353

(54)

I l contenuto di c è eguale al contenuto di c . . .

a

-v- f

f c l l a ( )

-v- f ( a)

(a)

(58)

significa che f ( a) ha luogo, qualsiasi cosa

a

si intenda con a. Se quindi si afferma -v- f ( a), allora non si può negare f (c). Ciò è quanto esprime la nostra proposizione. In questo caso a può occorrere sol­ tanto ai posti di argomento di f, poiché tale funzione occorre nel giudizio anche al di fuori del dominio di a. (Begriffsschri/t,

n,

19-22, pp. 47, 50-5 1 )

14 . Frege : senso e denotazione . L'eguaglianza ci fa riflettere su alcune questioni che ad essa si connettono e a cui è difficile rispondere. È una relazione ? Una relazione tra oggetti oppure tra nomi o segni di oggetti ? Nella mia ideografia avevo accettato quest'ultima soluzione. I motivi che sembrano militare in suo favore sono questi : evidentemente a = a e a = b sono enunciati di diverso valore conoscitivo ; a = a vale a priori e, secondo Kant, dev'essere chia­ mato analitico, mentre enunciati della forma a = b contengono spesso notevoli ampliamenti della nostra conoscenza e non sempre si possono fondare a priori. La scoperta che non sorge ogni mattina un nuovo sole, ma sempre il medesimo, è stata indubbiamente una delle più feconde dell'astronomia. Ancor oggi non è affatto facile riconoscere in un piccolo pianeta o in una cometa

354

LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

lo stesso corpo già osservato. Ora, se nell'eguaglianza volessimo vedere una relazione tra ciò che i nomi « a » e « b » denotano, sembrerebbe che non ci possa essere alcuna differenza tra a = b e a = a, ammesso che sia vero a = b. In questo caso l'eguaglianza esprimerebbe una relazione di una cosa con se stessa, cioè la rela­ zione che ogni cosa ha con se stessa, ma che nessuna ha con un'altra. Sembra allora che ciò che si vuoi dire con a = b sia che i segni, o nomi, « a » e « b » denotano la stessa cosa, e che il discorso verta su questi segni, affermando che tra essi c'è una relazione. Questa rela­ zione sussisterebbe però tra nomi o segni soltanto in quanto denominano o designano qualcosa; essa sarebbe resa possibile dalla connessione di ognuno dei due segni con la medesima cosa designata. Ma questa connessione è arbitraria. Non si può impedire a nessuno di assu­ mere, come segno di qualcosa, un qualsiasi evento o oggetto preso arbitrariamente; perciò un enunciato a = b riguarderebbe non la cosa stessa, ma solo il no­ stro modo di designazione : con questo enunciato non esprimeremmo nessuna conoscenza vera e propria. Ma è appunto una conoscenza ciò che vorremmo esprimere in molte circostanze. Se il segno « a » si distinguesse dal segno « b » soltanto come oggetto ( in questo caso per la sua diversa forma) e non in quanto segno (cioè non per il modo in cui designa qualcosa), allora il va­ lore conoscitivo dell'enunciato a = a sarebbe essenzial­ mente identico a quello dell'enunciato a = b, sempre che sia ammessa la verità di a = b. Può esserci una differenza soltanto nel caso che la diversità del segno corrisponda a una diversità nel modo in cui è dato l'oggetto designato. Siano a, b, c le rette che congiun­ gono i vertici di un triangolo con i punti mediani dei

LA « SECONDA FONDAZIONE » DELLA LOGICA FORMALE

.3''

lati opposti. Il punto d'incontro di a e b coincide con il punto d'incontro di b e c. Abbiamo dunque per lo stesso punto differenti designazioni, e questi nomi ( « punto d'incontro di a e b » , « punto d'incontro di b e c » ) indicano anche il modo in cui il punto viene dato, cosicché l'enunciato contiene una conoscenza ef­ fettiva. Ci troviamo dunque indotti a pensare che a un segno ( sia esso un nome, una connessione di parole, una sem­ plice lettera) è collegato, oltre a ciò che è designato, e che potrei chiamare la denotazione del segno, anche ciò "he chiamerei il senso del segno, e che contiene il modo in cui l'oggetto viene dato. Conseguentemente, nel nostro esempio, le espressioni « il punto d'incontro di a e di b » e « il punto d'incontro di b e di c » hanno la stessa denotazione, mentre i loro sensi sono diversi. E parimenti espressioni come « la stella della sera » e « la stella del mattino » sono identiche nella denota­ zione, ma non nel senso. Da quanto si è detto finora, si ricava che nell'usare « segno » e « nome » ho inteso una qualunque designa­ zione che funge da nome proprio, la cui denotazione è cioè un oggetto determinato (la parola « oggetto » dev'essere presa nel modo più ampio), ma non un con­ cetto o una relazione - che prenderò in esame più da vicino in un prossimo saggio. La designazione di un singolo oggetto può anche consistere di più parole o altri segni : per brevità la chiameremo « nome proprio » . I l senso del nome proprio viene afferrato d a chiun­ que conosca a sufficienza la lingua o la totalità delle designazioni cui il nome proprio appartiene; in questo modo, però, la denotazione - posto che ci sia - viene chiarita sempre e soltanto parzialmente. Per una cono-

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LA LOGICA DA LEIBNIZ A FREGE

scenza totale della denotazione bisognerebbe poter su­ bito stabilire, dato un qualunque senso, se esso appar­ tiene alla denotazione. Tuttavia non arriviamo mai a questo punto. Di regola, i rapporti che intercorrono tra il segno, il suo senso e la sua denotazione sono questi : al segno corrisponde un determinato senso e a questo corrisponde di nuovo una determinata denotazione, mentre a una denotazione (ossia a un oggetto ) non appartiene solo un segno. Un medesimo senso ha differenti espressioni in lingue diverse e perfino all'interno della stessa lin­ gua. Vi sono naturalmente eccezioni a questa regola. Certo, in una completa totalità di segni a ogni espres­ sione dovrebbe corrispondere un senso determinato ; ma per lo più le lingue naturali non soddisfano questa esigenza, e ci si deve ritenere soddisfatti se la stessa parola mantiene il medesimo senso nello stesso conte­ sto. Forse si può ammettere che un'espressione gram­ maticalmente ben costruita, che funge da nome proprio, abbia sempre un senso. Ma non è affatto detto che al senso corrisponda anche una denotazione. Le parole « il corpo celeste più lontano dalla terra » hanno un senso, ma è molto dubbio che abbiano anche una deno­ tazione. L'espressione « la serie meno convergente » ha un senso, ma si può dimostrare che non ha alcuna de­ notazione, perché, data una serie convergente, se ne può trovare un'altra meno convergente, però sempre ancora convergente . Così, dal fatto che si afferra un senso non si può dedurre con certezza di avere una denotazione. Quando si usano parole in modo abituale, ciò di cui si vuole parlare è la loro denotazione. Può anche capi­ tare che si voglia parlare o delle parole stesse, o del

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loro senso. Ciò avviene, per esempio, quando citiamo le parole di un altro nel discorso diretto. In questo caso le nostre parole denotano prima di tutto le parole del­ l'altro, e soltanto queste hanno poi la denotazione abi­ tuale. Abbiamo allora dei segni di segni. In questi casi, quando scriviamo, si racchiudono tra virgolette le pa­ role in questione. Le parole tra virgolette non possono dunque venir assunte nella denotazione abituale. Se si vuole parlare del senso di un'espressione « A » , si può semplicemente fare uso della locuzione « il senso dell'espressione "A" » . Nel discorso indiretto si parla per esempio del senso del discorso di un altro. È perciò chiaro che, in questo tipo di discorso, le parole non hanno la loro denotazione abituale, ma denotano quello che di consueto è il loro senso. In breve, vogliamo dire che nel discorso indiretto le parole sono usate indiret­ tamente, ovvero hanno una loro denotazione indiretta. Noi distinguiamo quindi la denotazione abituale di una parola da quella indiretta, e il suo senso abituale dal suo senso indiretto. La denotazione indiretta di una parola è dunque il suo senso abituale. Queste eccezioni devono sempre essere tenute presenti, se si vogliono esattamente comprendere nei singoli casi i rapporti tra segno, senso e denotazione. Dalla denotazione e dal senso di un segno si deve tener distinta la rappresentazione connessa al segno. Se la denotazione di un segno è un oggetto sensibil­ mente percepihile, la mia rappresentazione di esso è invece un'immagine interna che si è costituita sulla base dei ricordi di impressioni sensibili da me provate e di attività, sia interne che esterne, da me esercitate . . . La denotazione di un nome proprio è l'oggetto stesso che con esso designamo ; la rappresentazione che ne

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abbiamo è del tutto soggettiva; tra l'una e l'altra c'è il senso, che non è più soggettivo come la rappresenta­ zione, ma che non è neppure l'oggetto stesso. Per chia­ rire questi rapporti può forse essere utile il paragone seguente. Immaginiamo che qualcuno osservi la luna attraverso un cannocchiale. Ora paragono la luna alla denotazione; essa è l'oggetto di osservazione reso pos­ sibile dall'immagine reale proiettata dalla lente dell'o­ biettivo dentro il cannocchiale e dall'immagine retinica dell'osservatore. In questo paragone l'immagine del­ l'obiettivo è il senso, e l'immagine retinica è la rappre­ sentazione o intuizione. L'immagine del cannocchiale è cioè solo parziale, poiché dipende dal punto d'osser­ vazione, eppure è oggettiva, poiché può servire a pii:1 osservatori. Si può predisporla in modo tale che più persone contemporaneamente possano utilizzarla ; l'im­ magine retinica è invece tale che ognuno deve avere ne­ cessariamente la sua. Per esprimermi brevemente e con esattezza, posso stabilire di usare le seguenti locuzioni : un nome pro­ prio (parola, segno, connessione di segni, espressione) esprime il suo senso, denota o designa la sua denota­ zione. Con un segno esprimiamo il suo senso, e desi­ gnamo la sua denotazione . Forse, da parte idealistica o scettica, mi si sarebbe obiettato già da tempo in questi termini : « Tu parli della luna come se fosse senz'altro un oggetto ; ma come fai a sapere che il nome " la luna " ha in generale una denotazione ? Come fai a sapere che in generale qual­ cosa ha una denotazione ? » Rispondo osservando che, quando pronunciamo il nome « la luna » , non abbiamo intenzione di parlare della nostra rappresentazione della luna, né ci accontentiamo del senso soltanto, ma pre-

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supponiamo una denotazione. Si perderebbe assoluta­ mente il senso qualora si volesse pensare che nell'enun­ ciato « la luna è più piccola della terra» il discorso cada sulla rappresentazione della luna. Se chi parla volesse questo, userebbe la locuzione: « la mia rappresentazione della luna». Ora, potremmo certamente sbagliarci in quella supposizione, e errori del genere possono effetti­ vamente capitare. Ma il problema di sapere se ci sba­ gliamo sempre può essere lasciato insoluto in questa sede: per giustificare il fatto che abbiamo menzionato la denotazione del segno (sia pur con la riserva: « nel caso che questa denotazione esista») è per ora suffi­ ciente rimandare alla nostra intenzione nel parlare o nel pensare. Finora abbiamo preso in considerazione il senso e la denotazione soltanto di quelle espressioni, parole, segni, che abbiamo chiamato nomi propri. Ora dobbiamo pren­ dere in considerazione il senso e la denotazione di un intero enunciato dichiarativo. Un enunciato di questo tipo contiene un pensiero. Questo pensiero dev'essere considerato come il suo senso o la sua denotazione? Cominciamo col supporre che l'enunciato abbia una denotazione. Se ora sostituiamo all'enunciato una parola con un'altra che abbia la stessa denotazione, ma senso diverso, ciò non può avere influenza sulla denotazione dell'enunciato. Vediamo però che in questo caso il pen­ siero cambia. Per esempio, il pensiero dell'enunciato « la stella del mattino è un corpo illuminato dal sole » è differente da quello dell'enunciato « la stella della sera

è un corpo illuminato dal sole». Se qualcuno non sa­ pesse che la stella della sera è la stella del mattino, potrebbe prendere i due pensieri uno per vero, l'altro per falso. Il pensiero non può dunque essere la deno-

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tazione dell'enunciato . Ma che cosa sarà la denotazione ? Possiamo anzi porci, in linea di massima, questa do­ manda? Un enunciato, considerato come un tutto unico, non può forse avere solo un senso e non una denota­ zione? Ci si può in ogni caso aspettare che esistano enunc1at1 che, analogamente a parti di enunciati, ab­ biano un senso ma non una denotazione. E gli enun­ ciati che contengono nomi propri senza denotazione sono di questo tipo. L'enunciato « Ulisse approdò ad Itaca immerso in un sonno profondo » ha evidente­ mente un senso. Ma poiché è cosa dubbia se il nome « Ulisse » abbia una denotazione, è altrettanto dubbio che l'intero enunciato abbia esso stesso una denotazione . È però certo che, se qualcuno in tutta serietà considera l'enunciato come vero oppure come falso, riconoscerà nel nome « Ulisse » una denotazione e non soltanto un senso: è infatti alla denotazione di questo nome che il predicato viene attribuito o negato. Chi non rico­ nosce una denotazione, non potrà attribuire o negare un predicato. Se ci si volesse limitare al pensiero del­ l'enunciato, ci si accontenterebbe del senso del nome, essendo superfluo spingersi fino alla denotazione. Se fosse in gioco soltanto il senso dell'enunciato, cioè il pensiero, non sarebbe necessario preoccuparsi della de­ notazione di una parte dell'enunciato ; soltanto il senso, e non la denotazione, delle sue parti è rilevante per il senso dell'enunciato. Il pensiero rimane lo stesso sia che il nome « Ulisse » abbia una denotazione, sia che non l'abbia. Se solitamente ci preoccupiamo della denota­ zione di una parte dell'enunciato, ciò prova che gene­ ralmente riconosciamo e anzi esigiamo una denotazione anche per l'enunciato stesso. Il pensiero di un enunciato perde per noi di valore non appena ci accorgiamo che

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una parte dello stesso enunciato è privo di denotazione. Siamo dunque pienamente giustificati se non ci accon­ tentiamo soltanto del senso di un enunciato, ma an­ diamo anche in cerca della sua denotazione. Perché mai vogliamo che ogni nome proprio abbia non solo un senso, ma anche una denotazione? Perché non ci basta il pensiero ? Perché ciò che ci interessa è il valore di verità dell'enunciato. (Senso e denotazione, in La struttura logica del linguaggio, 9-16)

I, pp.

1 5. Frege : valori di verità. Abbiamo visto che dobbiamo cercare per un enun­ ciato una denotazione, qualora ci interessi la denota­ zione delle singole parti dell'enunciato stesso ; e questo accade sempre quando, e soltanto quando, ci poniamo il problema del suo valore di verità. Siamo cosl indotti a riconoscere la denotazione di un enunciato nel suo valore di verità. Intendo per valore di verità di un enunciato la circostanza che esso sia vero o falso : non si danno altri valori di verità. In breve li chiamerò, senz'altro, l'uno il vero e l'altro il falso. Ogni enunciato dichiarativo, in cui ciò che inte­ ressa è la denotazione delle parole, va dunque conside­ rato come nome proprio, e la sua denotazione, nel caso che esista, è o il vero o il falso. Questi due oggetti sono riconosciuti, sia pure solo tacitamente, da chiun­ que pronunci in generale un giudizio, da chiunque ritenga vero qualcosa, quindi anche dallo scettico. Se dunque la denotazione di un enunciato è costi­ tuita dal suo valore di verità, allora tutti gli enunciati veri avranno la stessa denotazione, e cosl pure tutti gli

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enunciati falsi. Vediamo perciò che nella denotazione dell'enunciato viene cancellato ogni aspetto particolare. Ciò che interessa di un enunciato non dipenderà mai soltanto dalla sua denotazione; ma anche il semplice pensiero non dà alcuna conoscenza : la conoscenza è nella connessione del pensiero con la sua denotazione, ossia con il suo valore di verità. Il giudicare può essere considerato come il progredire da un pensiero al suo valore di verità. Questa non deve certamente essere una definizione. Il giudicare è qualcosa di assolutamente singolare e incomparabile. Si potrebbe anche dire che il giudicare è un distinguere le parti entro il valore di verità. Questa distinzione avviene ritornando al pen­ siero . Ogni senso che appartiene a un valore di verità corrisponderebbe a un modo particolare della scompo­ sizione. La parola « parte » è usata qui in un modo del tutto speciale : ho cioè trasferito il rapporto tra intero e parte dall'enunciato alla sua denotazione, in quanto ho chiamato « parte della denotazione di un enunciato » la denotazione di una parola, qualora la parola stessa faccia parte di questo enunciato. È un modo di esprimersi certamente discutibile, sia perché nel caso della denotazione l'intero e la parte non deter­ minano il resto, sia perché nel caso dei corpi la parola « parte » viene usata in un altro senso. Si dovrebbe dunque coniare un'altra espressione. Occorre ora portare avanti l'esame della supposizione che il valore di verità di un enunciato sia la sua deno­ tazione . Abbiamo trovato che il valore di verità di un enunciato rimane intatto se sostituiamo, nell'enunciato, una espressione con un'altra di eguale denotazione : non abbiamo però ancora trattato il caso in cui l'espressione da sostituire sia essa stessa un enunciato . Se è giusto

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il nostro punto di vista, il valore di verità deve restare invariato qualora sostituiamo, al posto di questo enun­ ciato componente, un altro avente lo stesso valore di verità. Dobbiamo aspettarci delle eccezioni quando tutto l'enunciato o l'enunciato componente è un discorso di­ retto o indiretto. Infatti abbiamo visto che in questo caso la denotazione delle parole non è quella abituale. Nel discorso diretto un enunciato denota di nuovo un enunciato, in quello indiretto denota un pensiero. Ci troviamo così indotti a considerare gli enunciati subordinati. Questi si presentano come parti di un enun­ ciato complesso, che da un punto di vista logico equi­ vale a un enunciato, e precisamente a un enunciato principale. Ma qui ci si presenta il problema di sapere se anche la denotazione degli enunciati subordinati sia un valore di verità. Per quanto riguarda il discorso indiretto sappiamo già che avviene proprio il contrario. I grammatici considerano gli enunciati subordinati come sostituti di parti di enunciato, e li suddividono in nomi­ nali, attributivi e avverbiali . Da ciò si potrebbe sup­ porre che la denotazione di un enunciato subordinato non sia un valore di verità, ma sia simile alla denota­ zione di un nome, di un aggettivo, di un avverbio, in breve, di una parte di enunciato che non ha per senso alcun pensiero ma una parte di esso. Soltanto una ri­ cerca più approfondita può chiarire il problema. A tal fine non ci atterremo fedelmente alla guida dei gram­ matici, ma raggrupperemo insieme ciò che è logica­ mente affine. In primo luogo esaminiamo i casi in cui il senso dell'enunciato subordinato, proprio come sup­ ponevamo, non è un pensiero indipendente. Agli enunciati nominali astratti introdotti dalla con­ giunzione « che » appartiene anche il discorso indiretto.

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Abbiamo visto che in esso le parole hanno la loro deno­ tazione indiretta che coincide con quello che è il loro senso abituale. In questo caso, dunque, l'enunciato su­ bordinato ha come denotazione un pensiero e non un valore di verità ; come senso ha non un pensiero, bensì il senso delle parole « il pensiero che . . . », il quale è solo una parte del pensiero dell'intero enunciato com­ plesso. Ciò avviene dopo i verbi « dire », « udire » , « ritenere » , « essere persuaso » , « concludere » e si­ mili. Diversamente, e in modo davvero complicato, stanno le cose con parole come « riconoscere », « sa­ pere », « supporre » , di cui tratteremo in seguito . Che nei casi ora descritti la denotazione dell'enun­ ciato subordinato sia proprio il pensiero, si vede anche dal fatto che, per la verità dell'intero, è indifferente se quel pensiero sia vero o falso. Si confrontino per esem­ pio i due enunciati « Copernico credeva che le orbite dei pianeti fossero cerchi » e « Copernico credeva che il moto apparente del sole fosse prodotto dal movimento reale della terra » . Qui si può sostituire un enunciato subordinato con l'altro senza pregiudicare la verità. L'enunciato principale insieme con quello subordinato ha come senso solo un unico pensiero, e la verità di tutto l'enunciato non include né la verità né la non­ verità dell'enunciato subordinato. In questi casi non è permesso sostituire nell'enunciato subordinato un'e­ spressione con un'altra che abbia la stessa denotazione abituale; la sostituzione è possibile soltanto con un'e­ spressione che abbia la stessa denotazione indiretta, cioè lo stesso senso abituale. Se però qualcuno volesse concludere che la denotazione di un enunciato non è il suo valore di verità « perché allora si dovrebbe sempre poterlo sostituire con un altro enunciato avente lo

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stesso valore di verità », sarebbe veramente eccessivo . Parimenti si potrebbe ritenere che la denotazione delle parole « la stella del mattino » non è Venere, poiché non sempre si può dire « Venere » per « la stella del mattino » . Si può solo a ragione concludere che la deno­ tazione dell'enunciato non sempre è il suo valore di verità, e che « la stella del mattino » non sempre de­ nota il pianeta Venere, per esempio quando questa pa­ rola ha la sua denotazione indiretta. Questo caso ecce­ zionale si presenta proprio negli enunciati subordinati ora trattati, la cui denotazione è un pensiero. Se si dice « sembra che . . . » , si intende « mi sembra che . . . » , ossia « io penso che . . . » . Abbiamo dunque il caso precedente. Analogamente stanno le cose con espressioni come « rallegrarsi », « deplorare » , « appro­ vare », « biasimare », « sperare », « temere » . Se Wel­ lington, alla fine della battaglia di Belle-Alliance, si ral­ legrò per il fatto che i Prussiani stavano arrivando, il fondamento della sua gioia era solo una convinzione personale. Se si fosse ingannato, non sarebbe stato meno felice finché fosse durata la sua illusione, mentre, prima di formarsi la convinzione che i Prussiani sarebbero arrivati, non avrebbe potuto rallegrarsene, anche se essi di fatto già si avvicinavano. (Senso e denotazione, in La struttura logica del linguaggio, I, pp. 16-20)

1 6 . Frege : enunciati attributivi ed enunciati subordi­ nati.

Dopo gli enunciati nominali, possiamo passare a esa­ minare un tipo di enunciati attributivi e avverbiali che sono appunto molto affini a quelli nominali.

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Anche gli enunciati attributivi servono a formare nomi propri composti, anche se, a differenza degli enun­ ciati nominali, non sono da soli sufficienti a questo scopo. Essi sono da ritenersi analoghi agli aggettivi. Per esempio, in luogo di dire « la radice quadrata di 4 che è minore di O » , si può anche dire « la radice qua­ drata negativa di 4 » . Abbiamo qui il caso in cui, con l'aiuto dell'articolo determinativo al singolare, un nome proprio composto viene formato a partire da un'espres­ sione di concetto. Ciò è lecito ogni volta che sotto il concetto cade uno e un solo oggetto. Alcune espressioni di concetti possono essere formate in modo che le note caratteristiche dei concetti siano fornite da enunciati attributivi, come, nel nostro esempio, dall'enunciato « che è minore di O » . È chiaro che questo enunciato attributivo non può avere né un pensiero per senso, né un valore di verità per denotazione, proprio come accadeva per gli enunciati nominali presi in esame. Esso avrà per senso solo una parte di pensiero, che in alcuni casi può anche essere espressa da un singolo aggettivo. Anche qui, come negli enunciati nominali, manca un soggetto indipendente e quindi anche la pos­ sibilità di riprodurre il senso dell'enunciato subordi­ nato in un enunciato principale indipendente. (Senso e denotazione, in La struttura logica del linguaggio, I,

pp. 23-24 )

Per lo più l'enunciato subordinato ha come senso non un pensiero, ma soltanto una parte di pensiero, e quindi non ha, come denotazione, un valore di verità. Ciò dipende o dal fatto che nell'enunciato subordinato le parole hanno la loro denotazione indiretta, cosicché la denotazione e non il senso dell'enunciato subordi-

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nato è un pensiero; oppure dal fatto che questo enun­ ciato è incompleto a causa della presenza di un termine effettuante un'indicazione indeterminata, cosicché l'e­ nunciato subordinato esprime un pensiero solo in com­ binazione con l'enunciato principale. Vi sono però an­ che casi in cui il senso di un enunciato subordinato è un pensiero completo; allora quest'enunciato può es­ sere sostituito con un altro dello stesso valore di ve­ rità, senza pregiudicare la verità dell'intero complesso, purché non si oppongano motivi di carattere gramma­ ticale. Se ora esaminiamo tutti gli enunciati subordinati che si possono incontrare, ne troveremo subito alcuni che non rientrano esattamente nella nostra classifica­ zione. Credo che ciò dipenda dal fatto che questi enun­ ciati subordinati non hanno un senso cosl semplice. Quasi sempre colleghiamo dei pensieri subordinati a uno principale che esprimiamo; quei pensieri, sebbene non espressi, sono connessi alle nostre parole dall'ascol­ tatore secondo leggi psicologiche. E siccome tali pen­ sieri sono connessi alle nostre parole quasi come lo stesso pensiero principale, quando esprimiamo quest'ul­ timo vogliamo esprimere anche quelli. Il senso dell'e­ nunciato diventa cosl più ricco, e può ben capitare di avere più pensieri semplici che enunciati. In alcuni casi l'enunciato dev'essere inteso in questo modo arric­ chito, in altri casi può essere dubbio se il pensiero su­ bordinato appartenga al senso dell'enunciato oppure lo accompagni soltanto. Cosl si potrebbe trovare che nell'enunciato « Napoleone, che riconobbe il pericolo per il suo fianco destro, guidò egli stesso la sua Guardia contro la posizione nemica » siano espressi non soltanto i due pensieri sopra indicati, ma anche il pensiero che

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la consapevolezza del pericolo fu il motivo per cui Napoleone guidò la sua Guardia contro la posizione nemica. Di fatto si può essere in dubbio se questo pen­ siero sia soltanto suggerito o effettivamente espresso. Proviamo a chiederci se il nostro enunciato sarebbe falso qualora Napoleone avesse preso la sua decisione prima ancora di percepire il pericolo. Se ciò nonostante il nostro enunciato è vero, allora il pensiero subordi­ nato non dovrebbe essere inteso come parte del senso dell'enunciato stesso. Probabilmente sceglieremo questa interpretazione. In caso contrario le cose si compliche­ rebbero: avremmo più pensieri semplici che enunciati. Se ora anche all'enunciato « Napoleone riconobbe il pe­ ricolo per il suo fianco destro » sostituiamo un altro enunciato dello stesso valore di verità, per esempio « Napoleone aveva già più di 45 anni », non soltanto modifichiamo il nostro primo pensiero, ma modifi­ chiamo anche il terzo, e ciò potrebbe modifìcarne il valore di verità - il che accade se l'età di Napoleone non determinò la decisione di guidare egli stesso la sua Guardia contro il nemico. Da ciò si comprende perché in questi casi non si possono sempre sostituire tra di loro degli enunciati aventi lo stesso valore di verità. L'enunciato, allora, proprio ·per essere in connessione con un altro, esprime molto di più di quello che espri­ merebbe se fosse da solo. Esaminiamo ora dei casi in cui ciò si verifica rego­ larmente. Nell'enunciato « Bebel si illude che con la restituzione dell'Alsazia-Lorena possano venir placati i desideri di vendetta della Francia » sono espressi due pensieri dei quali non si può però dire che l'uno appar­ tiene all'enunciato principale e l'altro a quello subor­ dinato. Essi sono:

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l ) Bebel crede che con la restituzione dell'Alsazia­ Lorena possano venir placati i desideri di vendetta della Francia; 2) con la restituzione dell'Alsazia-Lorena non pos­ sono venir placati i desideri di vendetta della Francia. Nell'espressione del primo pensiero le parole dell'e­ nunciato subordinato hanno la loro denotazione indi­ retta, mentre le stesse parole, nell'espressione del se­ condo pensiero, hanno la loro denotazione abituale. Ve­ diamo perciò che, nell'originario enunciato complesso, l'enunciato subordinato dev'essere preso propriamente in due modi : una volta come denotante un pensiero, l'altra un valore di verità. Poiché ora il valore di verità non è l'intera denotazione dell'enunciato subordinato, non possiamo semplicemente sostituirlo con un altro avente lo stesso valore di verità. Analogamente accade con espressioni come « sapere » , « riconoscere », « è noto » . Anche con u n enunciato causale e con il suo enunciato principale esprimiamo più pensieri, i quali però non corrispondono, presi uno alla volta, agli enunciati. Nel caso dell'enunciato « Poiché ha un peso specifico minore di quello dell'acqua, il ghiacco galleggia sull 'acqua » abbiamo: l ) il ghiaccio ha un peso specifico minore di quello dell'acqua; 2 ) se qualcosa ha un peso specifico minore di quello dell'acqua, galleggia sull'acqua; 3) il ghiaccio galleggia sull'acqua. H terzo pensiero potrebbe non venir espresso, essendo contenuto nei primi due. Al contrario, né il primo e il terzo, né il secondo e il terzo potrebbero insieme costituire il senso del nostro enunciato. Si vede ora che

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nell'enunciato subordinato « poiché il ghiaccio ha un peso specifico minore dell'acqua » è espresso tanto il nostro primo pensiero, quanto anche una parte del se­ condo. Da ciò deriva il ,fatto che non possiamo sempli­ cemente sostituirlo con un altro dello stesso valore di verità, perché ciò muterebbe anche il nostro secondo pensiero e quindi, facilmente, verrebbe toccato anche il suo valore di verità. Analogamente accade nell'enunciato « Se il ferro aves­ se un peso specifico minore di quello dell'acqua, gal­ leggerebbe sull'acqua » . Qui abbiamo due pensieri : il ferro non ha un peso specifico minore di quello del­ l'acqua; qualcosa galleggia sull'acqua se ha un peso spe­ cifico minore di quello dell'acqua. L'enunciato subor­ dinato esprime di nuovo un pensiero e una parte del­ l'altro. Se l'enunciato precedentemente esaminato « dopo che lo Schleswig-Holstein fu separato dalla Danimarca, Prussia e Austria entrarono in conflitto » viene inteso come se in esso fosse espresso il pensiero che una volta lo Schleswig-Holstein fu separato dalla Danimarca, ab­ biamo due pensieri, uno dei quali è quello ora detto, l'altro è che in un certo tempo, determinato più esatta­ mente dall'enunciato subordinato, Prussia e Austria entrarono in conflitto. Anche qui, allora, l'enunciato subordinato non esprime un solo pensiero, ma anche una parte di un altro. Perciò non si può sostituirlo con un altro enunciato avente lo stesso valore di verità. È difficile esaurire tutte le possibilità che esistono nella lingua, tuttavia spero di aver trovato i motivi fondamentali per cui non sempre si può sostituire un enunciato subordinato con un altro avente lo stesso va-

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lore di verità senza pregiudicare la verità dell'intero enunciato complesso. Questi motivi sono: l ) l'enunciato subordinato non denota alcun valore di verità, poiché esprime solo una parte di un pensiero ; 2 ) l'enunciato subordinato denota sì un valore di verità, però non si limita ad esso perché il suo senso non comprende soltanto un pensiero, ma anche una parte di un àltro pensiero . Il primo caso si ha quando: a) le parole hanno una denotazione indiretta ; b) una parte dell'enunciato indica solo in modo inde­ terminato, invece di essere un nome proprio. Nel secondo caso l'enunciato subordinato può essere preso in due modi : una volta nella sua denotazione abituale, una seconda volta nella denotazione indiretta; oppure il senso di una parte dell'enunciato subordinato può essere contemporaneamente parte costitutiva di un altro pensiero che, insieme a quello espresso immedia­ tamente nell'enunciato dipendente, costituisce l'intero senso dell'enunciato principale e di quello subordinato. Da ciò si ricava con sufficiente probabilità che i casi in cui un enunciato subordinato non è sostituibile con un altro dello stesso valore di verità non dimostrano nulla contro la nostra tesi che la denotazione dell'enun­ ciato, il cui senso è un pensiero, è costituita dal valore di verità. Ritorniamo ora al punto di partenza. Se abbiamo trovato che in generale è diverso il valore conoscitivo di « a = a » e « a = b », ciò dipende dal fatto che, per il valore conoscitivo, il senso dell'enun­ ciato, ossia il pensiero in esso espresso, è non meno rilevante della sua denotazione, cioè del suo valore di verità. Se si ha a = b, la denotazione di « b » è allora

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la stessa che quella di « a » , e quindi anche il valore di verità di « a = b » è lo stesso che quello di « a = a » . Ciononostante il senso di « b » può essere diverso dal senso di « a », e anche il pensiero espresso in « a = b » può essere diverso da quello espresso in « a = a » : i due enunciati non avranno allora lo stesso valore co­ noscitivo. Se, come abbiamo fatto sopra, intendiamo per « giudizio » il progredire dal pensiero al suo valore di verità, allora dovremo anche dire che i due giudizi sono diversi. (Senso e denotazione, in La struttura logica del linguaggio,

pp. 28-32 )

I,

1 7 . Russell : la scoperta dell'antinomia e la teoria dei tipi.

Caro collega, per un anno e mezzo mi sono cimentato con i Suoi Grundgesetze der Arithmetik, ma soltanto adesso sono stato in grado di trovare il tempo per lo studio accurato che intendo fare della Sua opera. Mi trovo perfetta­ mente d'accordo con Lei in tutti i punti essenziali, in particolare con il Suo rigetto di qualunque momento psicologico in logica, e quando attribuisce grande va­ lore a un'ideografia per i fondamenti delle matematiche e della logica formale che, per inciso, difficilmente può esserne distinta. Riguardo a molteplici questioni parti­ colari trovo nella Sua opera discussioni, distinzioni e definizioni che si cercherebbero invano nelle opere di altri logici. Specialmente per la parte che concerne la funzione ( § 9 della Sua Begriffsschrift), sono stato condotto da me stesso a concezioni che sono identiche alle Sue anche nei dettagli. C'è solo un punto dove ho

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incontrato una difficoltà. Lei asserisce che una funzione può comportarsi anch'essa come l'elemento indetermi­ nato. Questo lo pensavo anch'io, ma adesso un tale punto di vista mi sembra dubbio a causa della contrad­ dizione seguente. Poniamo che w sia il predicato : es­ sere un predicato che non può esser p redicato di se stesso. Può w esser predicato di se stesso ? Da ciascuna risposta segue il suo opposto. Dunque dobbiamo con­ cludere che w non è un predicato. Parimenti non c'è classe (come una totalità) di quelle classi, ciascuna presa come una totalità, che non appartengono a se stesse. Da ciò concludo che, sotto certe circostanze, una collezione definibile non forma una totalità. Sono sul punto di finire un libro sui principi della matematica e in esso vorrei discutere la Sua opera assai accuratamente. (J. van Heijnoort, A Source Book in Mathematical Logic,

pp.

124-25)

La teoria dei tipi viene qui presentata in via d' espe­ rimento . . . ; è però necessario, con ogni probabilità, ar­ ricchirla di maggiori sottigliezze prima che riesca a dare risposta a tutte le difficoltà da noi incontrate . . Ogni funzione proposizionale cp (x), cosl si afferma, possiede, oltre al suo sistema di valori di verità, un sistema di valori di signifìcatività, ossia un sistema entro cui deve cadere x se vogliamo che cp (x) sia comunque una proposizione, vera o falsa. Questo costituisce il primo punto nella teoria dei tipi. Il secondo è che i si­ stemi di valori di significatività formano dei tipi, ossia, se x appartiene al sistema di valori di significatività di cp (x), allora esiste una classe di oggetti ( il tipo di x), i quali devono appartenere tutti al sistema di valori di .

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significatività di cp (x), comunque possa variare q> ; tale sistema di valori è sempre o un tipo singolo o una som­ ma di diversi tipi completi. . . Qualsiasi oggetto che non sia u n sistema di valori è un termine o individuo. Questo è il tipo più basso di oggetto. Se un oggetto siffatto, poniamo un certo punto nello spazio, occorre in una proposizione, è sempre possibile sostituirgli un qualsiasi altro individuo senza che la proposizione perda significato. Ciò che abbiamo chiamato la classe come uno, è un individuo, purché i suoi elementi siano individui; gli oggetti della vita quotidiana come persone, tavoli, sedie, mele ecc., sono classi come uno. (Una persona è una classe di esistenti psichici ; gli altri oggetti sono classi di punti materiali, con qualche riferimento, forse, a qualità secondarie.) Questi oggetti sono pertanto dello stesso tipo degli indi­ vidui semplici. Parrebbe che tutti gli oggetti designati da parole singole, siano essi cose o concetti, siano di questo tipo. Così, per esempio, le relazioni che occor­ rono nelle proposizioni relazionali vere e proprie sono dello stesso tipo delle cose, per quanto le relazioni in estensione, che sono quelle che adopera la logica sim­ bolica, siano di tipo differente. ( Le relazioni intensio­ nali che compaiono nelle proposizioni relazionali ordi­ narie non sono determinate quando sono date le loro estensioni, mentre le relazioni estensionali della logica simbolica sono classi di coppie. ) Gli individui sono i soli oggetti dei quali i numeri non possano venir asse­ riti con significato. Il tipo successivo consiste dei sistemi o classi di indi­ vidui (non si deve associare alcuna idea ordinale con la parola sistema). Così « Tizio e Caio » è un oggetto di questo tipo, e non produrrà in generale una proposi-

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zione fornita di significato se lo sostituiamo a « Tizio » in una qualsiasi proposizione vera o falsa di cui Tizio sia un costituente . . . Se u è un sistema di valori deter­ minato da una funzione proposizionale

(x) è falsa, in modo che non-u è contenuto nel sistema di valori di signifìcatività di q> (x), e contiene soltanto oggetti dello stesso tipo degli elementi di u . A questo proposito esiste una difficoltà per il fatto che due funzioni pro­ posizionali q> (x), ljJ (x) possono avere lo stesso sistema di valori di verità u, mentre i loro sistemi di valori di significatività possono essere differenti ; e quindi non-u diventa ambiguo. Esisterà però sempre un tipo minimo entro il quale è contenuto u; e non-u può essere defi­ nito come il resto di questo tipo. (La somma di due o più tipi è un tipo ; un tipo minimo è quello che non è una somma siffatta. ) Rispetto alla nota contraddizione, questo punto di vista sembra essere il migliore ; infatti non-u dev'essere il sistema di valori di falsità di « x è un u » , e invece « x è un x » deve essere in generale privo di significato ; di conseguenza « x è un u » deve esigere che x ed u siano di tipi differenti. È dubbio che questo risultato possa venir garantito, fuorché se ci limitiamo, per questo riguardo, ai tipi minimi. . . I l tipo che segue alle classi d i individui consiste di classi di classi di individui. Sono queste per esempio, le federazioni di società; gli elementi di tali federazioni cioè le società, sono essi stessi classi di individui. Sarà opportuno parlare di classi solo quando abbiamo classi di individui, classi di classi solo quando abbiamo classi di classi di individui, e così via. Per la nozione generale, userò la parola sistema. Vi è tutta una progressione di tipi siffatti, poiché un sistema può essere formato di

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oggetti di un tipo qualsiasi, e ne risulta un sistema di tipo superiore ai suoi elementi. Una nuova serie di tipi ha inizio dalla coppia con verso. Un sistema appartenente a questa serie di tipi è dò che costituisce, per la logica simbolica, una rela­ zione: si tratta qui del punto di vista estensionale delle relazioni. Possiamo allora formare sistemi di relazioni, o relazioni di relazioni, o relazioni di coppie, o relazioni di individui con coppie e così via; in tal modo otte­ niamo non semplicemente una singola progressione, ma tutta una serie infinita di progressioni. Abbiamo anche i tipi formati da terne, che sono gli elementi di rela­ zioni triple prese in estensione come sistemi; ma esi­ stono diverse specie di terne riducibili ai tipi prece­ denti. Così, se q> (x, y, z), è una funzione proposizio­ nale, essa può essere un prodotto di proposizioni q> t (x) q>dy ) q>3 (z) oppure un prodotto q> t (x) q>2 ( y , z), oppure una proposizione intorno a x e alla coppia (y, z), o ancora può essere analizzabile in altri modi analoghi. In casi siffatti non sorge un nuovo tipo. Se però la nostra proposizione non è analizzabile in uno di questi modi, e non sembrano esservi ragioni a priori perché debba sempre esserlo, allora otteniamo un nuovo tipo, e precisamente la tema. Possiamo for­ mare sistemi di terne, coppie di terne, teme di terne, coppie formate da una terna e da un individuo, e così via. Tutte queste producono nuovi tipi. Otteniamo così un'immensa gerarchia di tipi, ed è difficile sapere con certezza quanti possano essere ; ma il metodo di otte­ nere nuovi tipi ci suggerisce che il numero totale sarà soltanto ao ( il numero degli interi finiti) ; le serie cosl ottenute rassomigliano infatti più o meno alle serie dei razionali nell'ordine l , 2, . . . , n, . . , 1 /2, 1/3, . . . , 1 /n, •

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. . . , 2/3 , . . . , 2/5, . . . , 2/( 2 n + 1 ), . Tuttavia questa è soltanto una congettura. Ciascuno dei tipi enumerati più sopra è un tipo mi­ n im o ; ossia, se