La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco [20 ed.] 8858125258, 9788858125250

"Innanzitutto questo libro parla di amore: il greco antico è stata la storia più lunga e bella della mia vita. Non

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La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco [20 ed.]
 8858125258, 9788858125250

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i Robinson / Letture

Andrea Marcolongo

La lingua geniale 9 ragioni per amare il greco

Editori Laterza

© 2016, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Pubblicato in accordo con Studio Olati Prima edizione settembre 2016

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Edizione 5 6

Anno 2016 2017 2018 2019 2020 2021

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2525-0

A Livorno, a Sarajevo, a me

Indice

Introduzione Quando, mai. L’aspetto

ix

3

Il silenzio del greco. Suoni, accenti e spiriti

28

Tre generi, tre numeri

45

Con o senz’anima. Il neutro, p. 48 Io, noi due, noi. Il duale, p. 56

I casi, ovvero un’ordinata anarchia delle parole

65

Un modo chiamato desiderio. L’ottativo

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Ma quindi, come si traduce?

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Noi e il greco, una storia

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Bibliografia 153 Ringraziamenti

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Introduzione

Il mare brucia le maschere, le incendia il fuoco del sale. Uomini pieni di maschere avvampano sul litorale. Tu sola potrai resistere nel rogo del Carnevale. Tu sola che senza maschere nascondi l’arte d’esistere. Giorgio Caproni, da Cronistoria

È “strano” – molto strano – “il fatto di voler sapere il greco, sforzarci di sapere il greco, sentirci attratti dal greco, e stare sempre lì a farci un’idea del significato del greco, magari sulla base di chissà quali incongrui dettagli, e di chissà quale vaga somiglianza al significato reale del greco”, scrive Virginia Woolf. Perché “nella nostra ignoranza saremo sempre comunque gli ultimi della classe, visto che non sappiamo che suono avevano le parole greche, o dove di preciso dovremmo ridere”. Anch’io sono strana – molto strana. E sono grata a questa mia stranezza, che mi ha condotta, senza appuntamento come le cose belle che accadono nella vita, a scrivere questo libro dedicato al greco antico. E così mi sono ostinata non solo a voler sapere il greco, ma persino a raccontarlo. A voi. Sempre da ultima della classe, naturalmente; ma almeno forse ora so dirvi dove di preciso dovremmo ridere. ­­­­­IX

Lingua morta e lingua viva. Tortura del liceo classico e avventure di Ulisse. Traduzione o geroglifici. Tragedia o commedia. Comprensione o fraintendimento. Amore o disamore, soprattutto. Rivolta, quindi. Capire il greco non è questione di talento, ma di militanza – come la vita. Se ho scritto queste pagine, è stato perché del greco antico mi sono innamorata da ragazza: l’amore più lungo della mia vita, a conti fatti. Ora, donna, vorrei provare a regalare (o restituire) un po’ di amore a coloro che se ne sono disinnamorati: quasi tutti quelli che si sono imbattuti – da ragazzi – in questa lingua – da adulti – negli anni del liceo. E vorrei persino far innamorare coloro che questa lingua proprio non la conoscono. Sì, questo libro, prima di tutto, parla di amore: verso una lingua, ma soprattutto verso gli esseri umani che la parlano – o, se nessuno la parla più, verso coloro che la studiano perché costretti o irrimediabilmente attratti. Non importa quindi che sappiate il greco antico oppure no. Non sono previsti esami di maturità né compiti a sorpresa – sorprese invece sì, tante. Non importa neppure che abbiate frequentato il liceo classico. Se no, meglio. Se sarò stata in grado di guidarvi nel labirinto del greco con la mia fantasia, arriverete alla fine del cammino con nuovi modi per pensare il mondo e la vostra vita, in qualunque lingua la esprimiate a parole. Se sì, ancora meglio. Se sarò riuscita a rispondere a domande che mai vi eravate posti o che mai hanno ricevuto risposta, forse alla fine di questa lettura avrete recuperato parti di voi perdute nella vostra gioventù trascorsa a studiare il greco senza capire bene il perché, e che forse vi potranno tornare utili, tanto utili, ora. ­­­­­X

In entrambi i casi, queste pagine saranno un modo, tra me e voi, per giocare a pensare in greco antico. Ciascuno di voi, nel corso della sua vita, si deve essere imbattuto nel greco e nei Greci. Chi con le gambe strette sotto i banchi del liceo, chi a teatro davanti a una tragedia o a una commedia, chi nei pallidi corridoi dei tanti musei archeologici che affollano l’Italia – in tutti i casi, il senso dell’essere greco non sembra mai essere più appassionante e vivo di una statua di marmo. A tutti – ma proprio a tutti – prima o poi deve essere stato detto, oppure nemmeno è stato detto, perché da più di due millenni la voce che circola è sempre la stessa, tale da essere ormai sotto la pelle e dentro la testa di ogni europeo: “Tutto ciò che di bello e di insuperabile è stato detto o fatto al mondo, l’hanno detto o fatto per la prima volta gli antichi Greci”. E quindi in greco antico. Quasi tutti non ne hanno una conoscenza diretta – l’unica certezza è che un antico Greco che parli l’antico greco non esiste più. Ne hanno solo “sentito parlare”, oppure non l’hanno nemmeno sentito, come dicevo prima: è così e basta, da secoli. La nostra presunta eredità culturale greca ci è stata dunque generosamente consegnata da un popolo antico che non capiamo, in una lingua antica che non capiamo. Formidabile. È terribile la condizione di chi non capisce, ma gli è stato detto che deve amare: inizia subito ad odiare. All’apparenza, di fronte ai marmi del Partenone o al teatro di Siracusa andiamo fieri dei Greci e del greco antico, come fossero opera di nostri avi, di nostri trisnonni alla lontana. Ci piace immaginarli nel sole di qualche isoletta intenti a inventare la filosofia o la storiografia, oppure seduti in un teatro adagiato sul versante di una qualche collina mentre assistono a una tragedia o a una commedia; o ancora, di notte, ad ammirare un cielo gonfio di stelle mentre scoprono la scienza e l’astronomia. ­­­­­XI

Sotto sotto, ci sentiamo invece sempre insicuri di noi stessi, come se, di fronte ad un’interrogazione su una storia non nostra, avessimo dimenticato qualcosa dell’antica Grecia. E la lingua greca è proprio quel qualcosa che non capiamo. “Il greco: quell’assurdo, tragico attimo dell’umano”, per citare Nikos Dimou e tutta la sua infelicità. Non solo, quindi, ci avviciniamo da diseredati e disadattati a questa eredità culturale del greco antico. Se anche proviamo a riprenderci una briciola di ciò che la grecità ci ha lasciato in dote, siamo vittima di uno dei sistemi scolastici più retrogradi e ottusi del mondo (a mio parere naturalmente, sempre da ultima della classe e forse, dopo questo libro, da bocciata ed espulsa). Il liceo classico, così come è strutturato, sembra non avere altro scopo che mantenere i Greci e il loro greco i più inaccessibili possibile, muti e gloriosi lassù nell’Olimpo, avvolti da un timore reverenziale che si trasforma spesso in un terrore divino e in una disperazione molto terrena. I metodi di apprendimento in uso, fatta eccezione per pochi e illuminati insegnanti, sono una perfetta garanzia di odio anziché di amore per chi osa avvicinarsi alla lingua greca. La conseguenza è la resa totale di fronte a questa eredità che non vogliamo più, perché appena la sfioriamo non la capiamo e scappiamo via terrorizzati. I più bruciano le navi del greco dietro di sé, non appena liberati dall’obbligo scolastico. Saranno tanti i lettori che in questo libro riconosceranno la memoria appiccicosa delle loro paure, delle loro fatiche, della loro rabbia, della loro frustrazione verso il greco antico, riconoscendosi nelle mie. Eppure, queste pagine nascono dalla convinzione che non ha senso sapere qualcosa che non si ricorda, soprattutto se lo si è studiato con sudore per cinque anni o più. Questo libro non è perciò una grammatica convenzionale del greco antico, né descrittiva né normativa. Non ha alcuna pretesa accademica (ce ne sono già fin troppe da millenni). Certo, ha una forte pretesa di passione e di sfida. È un ­­­­­XII

racconto letterario (e non letterale) di alcune particolarità di una lingua magnifica ed elegante come il greco antico – quel suo modo di esprimere in modo fulmineo, sintetico, ironico, aperto di cui – siamo sinceri – proviamo un’inconsapevole nostalgia. Il greco antico, qualunque cosa vi abbiano detto (e soprattutto non detto), è innanzitutto una lingua. Ogni lingua, con ogni sua parola, serve a dipingere un mondo. E questo mondo è il vostro. È grazie alla lingua che potete formulare un’idea, dar voce ad un’emozione, comunicare come state, esprimere un desiderio, ascoltare una canzone, scrivere poesie. In questi nostri tempi in cui siamo tutti connessi a qualcosa e quasi mai connessi a qualcuno, in cui le parole sono cadute in disuso, rimpiazzate da emoji e da altri moderni pittogrammi, in questo mondo sempre più veloce e in questa realtà così virtuale che ormai viviamo in differita da noi stessi, di fatto – a parole – non ci capiamo più. La lingua, o quel che ne resta, sta diventando sempre più banale: quanti di voi hanno telefonato (intendo proprio composto un numero per sentire una voce umana) per amore oggi? E quand’è stata l’ultima volta in cui avete scritto una lettera (intendo proprio con la biro su un foglio bianco) e leccato una busta e un francobollo? Il divario tra il significato di una parola e la sua interpretazione cresce di ora in ora, così come i fraintendimenti, i non detti – direttamente proporzionali ai rimpianti e ai fallimenti. Si sta perdendo a poco a poco, la capacità di parlare una lingua, qualunque essa sia. Di capirci e di farci capire. Di dire cose complesse con parole semplici, vere, oneste: ecco la potenza del greco antico. Sembrerà strano (ma l’ho dichiarato fin dall’inizio di essere strana), però la lettura di questo libro dedicato al greco potrà venirvi in aiuto ogni giorno (e non in occasione di un compito in classe tardivo: a quello ci pensa già la vita). ­­­­­XIII

Sì, proprio quel greco antico. Avvicinato senza paura (e con una buona dose di follia), il greco si lascia guardare in faccia e ancora vi parla. A gran voce, pura. Per poter pensare e quindi dire un desiderio, un suono, l’amore, la solitudine, il tempo: per riprendervi finalmente il vostro mondo, adesso, e dirlo a modo vostro. Perché, per citare ancora Virginia Woolf, “è al greco che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione; e della nostra epoca”. Scrivere questo libro dedicato al greco antico è stata per me una straordinaria esperienza umana. È stato come recuperare il senso delle parole greche scritte su una lavagna mille anni fa e subito cancellate al termine della lezione – dimenticate. Sono partita dal ricordo di me, poco più che bambina, che mi affannavo su un alfabeto non mio fino a guardare ora alla lingua, quindi alla natura umana, in un modo del tutto nuovo. Ho recuperato da scatoloni sopravvissuti ad oltre dieci traslochi libri di me quattordicenne, che annotavo accanto alle declinazioni il nome del compagno di banco, fino ai manuali universitari che mi seguono di vita in vita, di città in città più delle chiavi di tutte le case che ho avuto e lasciato. Ho provato a smettere di pensare pensieri che mi hanno tormentata per oltre un decennio, scoprendo che bastava condividerli con le persone accanto a me: anche loro stavano finendo di pensare le stesse cose, la maggior parte delle volte senza saperlo. Non ce le eravamo dette mai. Ho aiutato ragazzini alle prese oggi, nel 2016, con il liceo classico per imparare proprio da loro: le domande che mi hanno fatto sono state le stesse che ponevo quando anch’io ero inesperta del greco e soprattutto della vita. E una volta domandato è impossibile richiamare la curiosità indietro, se ci si ostina; proprio come ho fatto io, anche se ci è voluto tanto tempo per trovare o immaginare la risposta. Ho riso con tanti amici, ormai adulti, che sono passati attraverso le stesse disavventure alle prese con il greco antico, ­­­­­XIV

scoprendo che chiunque si avvicini a questa lingua ha una collezione di figuracce sepolte nel cassetto – ecco, è proprio lì dove dovremmo ridere. Soprattutto, ho provato a raccontare le stranezze del greco antico anche a chi non l’ha mai studiato. Incredibile: mi hanno capita, ci siamo capiti. E bene. Forse, meglio. Io, che sono tanto strana, ho imparato a guardare al tempo in un altro modo, grazie all’aspetto della lingua greca, e poi a dirlo. Ho soffiato così tanti soffioni esprimendo desideri all’ottativo e facendo i conti con la mia volontà di realizzarli che ne restano ormai pochi nei campi di fine primavera a Sarajevo. Ho detto ti amo al duale, un numero della lingua greca che significa noi due – solo noi. Ho riconosciuto la crudeltà del silenzio imposto, ma anche che certa musica non la si ascolta soltanto, la si guarda. Ho persino fatto pace con il mio nome da maschio, Andrea, causa che pensavo essere ormai persa. Scrivendo questo libro, “la stranezza che ho nella testa” si è fatta paradossalmente meno strana. Insomma, grazie al greco antico – capendolo o almeno intuendolo – sono riuscita a dire molte cose in più, anziché in meno, a me stessa e agli altri. Spero che lo stesso capiti anche a voi, leggendo queste pagine. E che possiate arrivare in fondo sapendo ridere e godere del greco antico, almeno una volta nella vita.

La lingua geniale

Quando, mai. L’aspetto

Tempo presente e tempo passato sono forse entrambi presenti nel tempo futuro e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato. Se tutto il tempo è eternamente presente tutto il tempo è irredimibile. [...] Eco di passi nella memoria giù per il corridoio che non prendemmo verso la porta che non aprimmo mai nel giardino delle rose. Thomas S. Eliot, Burnt Norton, da Four Quartets

Il tempo, la nostra prigione: passato presente futuro. Presto tardi oggi ieri domani. Sempre. Mai. Il greco antico al tempo badava poco, o punto. I Greci si esprimevano in un modo che considerava l’effetto delle azioni sui parlanti. Loro, liberi, si chiedevano sempre come. Noi, prigionieri, ci chiediamo sempre quando. Non il troppo tardi o il troppo presto delle cose, ma come avvengono le cose. Non il momento delle cose, ma lo sviluppo delle cose. Non il tempo, ma l’aspetto. L’aspetto è una categoria della lingua greca antica che si riferisce alla qualità dell’azione, senza collocarla nel passato nel presente o nel futuro. Formiche o cicale, siamo noi ad essere abituati a disporre ciò che ci accade lungo una precisa linea temporale: ciascuno ha la sua, che sia dritta o a zigzag. 3­­­­

I fatti erano visti nel loro concreto divenire, il tempo arrivava poi, con altre categorie linguisticamente in secondo piano – se arrivava, e a volte, molte volte, il tempo delle cose non arrivava mai. Platone, nel Timeo, 37e-38c, scrive riguardo al tempo, impiegando tutte le varianti aspettuali del verbo γίγνομαι, ‘divenire’ e del verbo εἰμί, ‘essere’: Ἡμέρας γὰρ καὶ νύκτας καὶ μῆνας καὶ ἐνιαυτούς, οὐκ ὄντας [presente] πρὶν οὐρανὸν γενέσθαι [aoristo], τότε ἅμα ἐκείνῳ συνισταμένῳ τὴν γένεσιν αὐτῶν μηχανᾶται· ταῦτα δὲ πάντα μέρη χρόνου, καὶ τό τ ̓ ἦν [imperfetto] τό τ ̓ ἔσται [futuro] χρόνου γεγονότα [perfetto] εἴδη, ἃ δὴ φέροντες λανθάνομεν ἐπὶ τὴν ἀίδιον οὐσίαν οὐκ ὀρθῶς. λέγομεν γὰρ δὴ ὡς ἦν [imperfetto] ἔστιν [presente] τε καὶ ἔσται [futuro], τῇ δὲ τὸ ἔστιν [presente] μόνον κατὰ τὸν ἀληθῆ λόγον προσήκει, τὸ δὲ ἦν [imperfetto] τό τ ̓ ἔσται [futuro] περὶ τὴν ἐν χρόνῳ γένεσιν ἰοῦσαν πρέπει λέγεσθαι. E originò i giorni e le notti e i mesi e gli anni, che prima non esistevano, mentre creava il cielo. Tutte queste sono parti di tempo e ‘ciò che era’ e ‘ciò che sarà’ derivano dal tempo, che noi, ignari, a torto consideriamo la sua essenza eterna. Noi siamo soliti dire che una cosa ‘era’, ‘è’ e ‘sarà’, ma solo l’‘è’ le appartiene davvero, perché passato e futuro sono creati dallo scorrere del tempo. Τό τε γεγονὸς [perfetto] εἶναι γεγονὸς [perfetto] καὶ τὸ γιγνόμενον [presente] εἶναι γιγνόμενον [presente], ἔτι τε τὸ γενησόμενον εἶναι [futuro] γενησόμενον [futuro] καὶ τὸ μὴ ὂν [presente] μὴ ὂν [presente] εἶναι [presente], ὧν οὐδὲν ἀκριβὲς λέγομεν. E inoltre noi diciamo che ciò che è accaduto è accaduto, e ciò che sta accadendo sta accadendo, e ciò che sta per accadere sta per accadere, e ciò che ora non è non esiste. Tuttavia, nessuna di queste cose del tempo sappiamo dire con esattezza.

L’aspetto era, soprattutto, un modo di pensare che divideva gli eventi del mondo e della vita tra compiuti e incompiuti – perfecta o infecta. Ovvero, inizio e fine. Ogni lingua presuppone un particolare modo di vedere la realtà. Se in greco 4­­­­

antico il tempo è solo secondario, allora esiste l’inizio e la fine delle cose. Di ogni cosa. L’aspetto indicava in greco proprio la durata compresa tra ogni inizio e ogni fine. Quanto dura un’azione e come. Come inizia, come si svolge, come termina. Cosa è diventata. Soprattutto, l’aspetto serviva ad esprimere come e cosa nasce da ogni inizio e ogni fine. Cosa accade se hai visto e quindi ora sai, se hai avuto fiducia e quindi ora credi, se hai scritto e quindi la pagina bianca è ora piena di parole. Se sei partito e sei arrivato – non importa quando, ora sei qui. Difficile comprendere per noi che siamo venuti al mondo con l’idea che tra ogni inizio e ogni fine scorra del tempo, troppo tanto o troppo poco, e che quel tempo sia tutto ciò che abbiamo. Difficile decifrare per noi che parliamo e pensiamo in una lingua, come la maggior parte delle lingue moderne, in cui ogni azione è fissata in un momento preciso – passato presente futuro –, eppure nulla si può fissare nel tempo, perché sempre muterà in qualcos’altro. Anzi, è già mutato. Difficile accorgerci di cosa accade, per noi che portiamo ferite nell’attesa che diventino cicatrici, affidandoci alla cura del tempo. Difficile pensare senza tempo, ma il tempo non esiste, esiste la fine da ogni inizio e l’inizio da ogni fine. I contadini e i marinai sanno: si miete per seminare e per raccogliere di nuovo, si approda in porto per salpare attraversare il mare e approdare ancora. Difficile vedere, per noi che guardiamo sempre l’orologio, l’agenda, il calendario smistando la logistica del nostro vivere nel tempo, che tutto cambia e insieme ogni cosa resta: ‘resto’ e ‘ti aspetto’ hanno la stessa radice nei verbi greci μένω e μίμνω. Difficile per noi, ma non per il greco antico, una lingua che non avvertiva il tempo ma il processo e attraverso l’aspetto dei verbi esprimeva la qualità delle cose che a noi sembrano sfuggire sempre – il quando, il quando che sempre ci chiediamo, senza mai sentire il come. 5­­­­

L’aspetto del verbo greco è forse una delle più gloriose eredità dell’indoeuropeo, una delle prime, scomparse, e perciò oggi solo ipotetiche, lingue parlate sulla terra. Le lingue venute dopo non hanno fatto altro che dissipare eredità accumulate nei granai linguistici e intellettuali dell’indoeuropeo credendo di economizzare – principio di economia, in linguistica si chiama proprio così la semplificazione e quindi la banalizzazione della lingua. Le società cambiavano nei millenni una dopo l’altra, i popoli si spostavano, da nomadi si facevano pastori e poi cittadini: bisognava esprimersi veloci, in fretta, farsi capire, essere capiti. Il mondo si era fatto più complesso, paradossalmente serviva una lingua più semplice – sempre così accade quando la realtà si fa difficile da esprimere; guardate la comunicazione attuale: le emoticon come moderni ‘pittogrammi’, nessuno sa più telefonare e quindi si scorda di saper parlare. Il sistema verbale indoeuropeo prevedeva una struttura originale. Non presentava una coniugazione regolare fondata sul tempo, come quella cui noi siamo abituati e che apprendiamo alle scuole elementari: ‘io mangio, io mangiavo, io mangiai, io ho mangiato’. Presentava invece temi verbali indipendenti che non erano legati tra loro da nessuna necessità temporale. Il greco antico, a partire da Omero, scelse di conservare l’originalità indoeuropea e quel modo puro e antico di vedere il mondo, senza tempo. Difficile per noi, dicevo, abbandonare il quando delle cose e riflettere sul come. Difficile per noi che siamo ora linguisticamente muti e non sappiamo dire senza tempo. Proviamo a vedere, per poi sapere. Proviamo a capire l’aspetto, per poi dire. Perché il tempo è senza parole, ma l’aspetto no. Le parole si trovano, si devono trovare sempre. Per chi non ha mai studiato il greco a scuola, provare a comprendere l’aspetto sarà un esercizio di libertà linguistica. Per chi, invece, ha studiato il greco al liceo o all’università, 6­­­­

sarà forse come ricevere risposta a domande che mai erano state fatte. Sarà qualcosa di più di un esercizio di libertà linguistica – forse sarà una liberazione linguistica. Per alcuni, una rivoluzione. Per tutti, una sorta di rimborso tardivo per gli anni trascorsi ad imparare verbi a memoria senza nemmeno comprenderne il senso. La categoria dell’aspetto greco occupa, nei manuali scolastici ad uso corrente, da zero a mezza pagina, facendo una media al rialzo. Le tavole di verbi da imparare a memoria, invece, ne occupano centinaia, facendo una media al ribasso. So bene che per apprendere una lingua straniera – e il greco, vivo o morto che sia, lo è – ci vogliono studio, costanza, tenacia. Molta memoria occorre per ricordare ciò che non è linguisticamente nostro (forse che imparare il giapponese è tanto differente?). Tuttavia, senza comprensione e senza senso della lingua ogni sforzo risulta fine a se stesso – o al compito in classe. E senza senso c’è solo incomprensione, della lingua che si sta studiando e, soprattutto, del perché la si studia. Chi ha studiato il greco, forse di greco oggi non ricorderà nulla, ma certo ricorderà i pomeriggi trascorsi a ripetere paradigmi su paradigmi. Ecco la conseguenza dell’apprendimento a memoria senza comprendere il senso di ciò che si fa. Ecco il risultato di applicare categorie della nostra lingua – il tempo – a lingue che ne erano sprovviste: l’oblio coatto. Nulla sopravvive se non il ricordo delle sofferenze patite nei pomeriggi di primavera a studiare ciò che si è voluto dimenticare il prima possibile: per i più, il momento esatto della dimenticanza si colloca un minuto dopo aver consegnato la versione di maturità. Proverò a spiegare l’aspetto celebrando la mia gioventù passata a intonare cantilene di paradigmi a memoria: sentivo il suono, ma non ne capivo il senso. Li ripetevo religiosamente senza averne consapevolezza alcuna: fossero stati versi vedici, mantra buddisti, sure del Corano, sarebbe stato lo stesso. Ancora oggi al solo sentire φέρω rispondo pavlovianamente οἴσω e così via. Durante il compito in classe trascri7­­­­

vevo i verbi sulla pagina facendo voti (e scongiuri) e tutta la mia comprensione linguistica finiva lì. Non sono stata la prima né l’ultima. Anzi, so che sta accadendo lo stesso in centinaia di licei classici d’Italia a ragazzi nati nel Duemila (d.C.) e che hanno imparato ad utilizzare un cellulare prima di una biro. Quindi cercherò di spiegare soprattutto per chi è ora alle prese con la gioventù sempre un po’ bruciata del liceo classico per dare, nel 2016, almeno un po’ di senso ai loro pomeriggi e, soprattutto, alle loro notti bianche così lontane da Pietroburgo: fidatevi, c’è del senso, del senso bellissimo in ciò che state imparando, anche se mi ci sono voluti quindici anni ed una laurea in lettere classiche per capirlo. Cocciuta. Partiamo da una storia, visto che ci piace immaginare e, nel caso di una lingua non nostra, per di più morta, di immaginazione ne serve molta, moltissima; esempi più accademici non mancheranno, qualora i lettori più avvertiti ne restassero turbati. 487 a.C. Tarda notte in uno dei peggiori bar del Pireo. Cielo velato, rumore delle onde che si frangono sulle triremi ancorate nel porto, la luce di poche lanterne. Luna crescente. Due amici hanno alzato un po’ troppo il gomito, stasera – l’uno ha i suoi problemi con una donna, l’altro con della merce che non si decide ad arrivare da Alicarnasso. Stanno valutando se andare o meno a chiedere consiglio all’oracolo di Delfi, l’indomani, l’umore è nero più della pece. Valuta e valuta, i due si ritrovano ebbri di quel vino greco fortissimo che i Greci bevevano sempre annacquato. Forse i nostri devono averlo annacquato troppo poco, è una di quelle sere in cui c’è bisogno di tirarsi su, come non capirli; ma alla fine, nella vita come all’osteria, il conto arriva sempre e sempre è salatissimo. Potrebbero pagarlo con eleganza e andarsene con onore, ma ai due amici viene in mente di scappare. Naturalmente, sono talmente ubriachi che l’oste 8­­­­

li riacciufferà dietro l’angolo. Comunque, decidono di fuggire e ‘fuggire’ in greco antico si diceva φεύγειν. Ora, per capire la questione dell’aspetto, è necessario mettersi nei panni, nelle tasche e soprattutto nella lingua greca dell’oste che partecipa alla scena. In soli tre aspetti l’oste avrebbe potuto comunicare il suo disappunto, pescando – deliberatamente e non certo a casaccio – uno dei tre temi (a questo mi riferivo poc’anzi quando parlavo dell’eredità indoeuropea) del verbo φεύγειν: – aspetto o tema del presente, φεύγουσιν, tradotto: “Per Zeus, ma guarda questi, stanno scappando!”. Il nostro oste è lì, accanto alla botte nera, mentre vede i due amici proprio nell’atto di scappare – uno inciampa in un gradino, l’altro perde un calzare. Insomma, la (pietosa) scena si sta svolgendo sotto i suoi occhi – e forse i due non andranno lontano. – aspetto o tema dell’aoristo, ἔφυγαν, tradotto: “Per Zeus, non gli verrà mica in mente di fuggire a questi due balordi”. L’oste è lì, seduto sul suo sgabello, non vede l’ora di chiudere bottega, domani si deve anche alzare presto, la moglie si lamenterà come ogni sera etc. e, tra tutti i suoi pensieri, lo sfiora l’idea che i due tizi vogliano scappare senza pagare il conto. Non importa se assiste o no alla scena (magari ha anche gli occhi mezzi chiusi visto che muore di sonno), il senso è: l’azione di fuggire è considerata come un fatto in sé, senza alcun riferimento alla sua durata. – aspetto o tema del perfetto, πεφεύγασιν, tradotto: “Che Zeus fulmini quei due bastardi, sono scappati!”. Al povero oste, già provato da una lunga giornata di lavoro, cascano le braccia: ai suoi occhi si presenta un tavolino colmo di coppe vuote – una persino scheggiata –, mentre il foglietto del conto svolazza nel maestrale. Dei due amici ubriachi, nessuna traccia. 9­­­­

Il vino greco Da buona chiantigiana, vorrei parlare del vino nell’antica Grecia. Chiamato Nettare degli dei o Sangue di Dioniso o Ambrosia dell’Olimpo, che il vino avesse una gradazione alcolica molto elevata s’è già detto: ciò dipendeva dal sole cocente della Grecia unito alla pratica di una vendemmia così tardiva da avvenire quando le foglie delle viti erano già cadute. Il consumo di questa bevanda risale all’età micenea, intorno alla fine del II millennio a.C., come dimostra il ritrovamento di alcuni boccali al cui interno analisi chimiche hanno confermato la presenza di vino. La coltivazione della vite era diffusa in tutta la Grecia e gli ecisti, cioè coloro che erano incaricati dalla madrepatria di fondare nuove colonie oltremare esportando in tutto il Mediterraneo gli usi e i costumi greci, imbarcavano sulle loro navi anche tralci di vite da impiantare nelle nuove terre. La viticoltura giunse quindi a toccare le coste della Spagna, dell’Africa, della Francia meridionale e dell’Italia, talvolta chiamata Enotria, cioè ‘la terra della vite’ proprio per l’eccellente vino che vi si produceva. Anche che si usasse berlo annacquato s’è già detto, non solo per ovvie ragioni di ordine pubblico, ma soprattutto per questione d’identità: gli Elleni inorridivano di fronte ai barbari che invece il vino lo bevevano così com’era, puro. Ad esempio, nel canto XI dell’Iliade, Nestore offre al medico Macaone vino pramnio (cioè proveniente da Ikaria e perciò

L’azione del fuggire è già avvenuta da un pezzo e all’oste restano solo il danno e la beffa. Lasciamo ora la storia (immaginata) dei due amici ubriachi al suo destino e torniamo alla storia (vera) della lingua e al suo destino. Innanzitutto, l’aspetto era una precisa categoria grammaticale del greco antico, degna di rispetto come tutte le altre: il tempo, il modo, la persona, la diatesi, quelle che ancora oggi utilizziamo in italiano per capirci e farci capire – lo scopo primo del linguaggio. 10­­­­

considerato il primo ‘vino doc’ della storia) mescolato a farina bianca e formaggio grattugiato. Una delizia, insomma: davvero, gli eroi omerici si ristoravano con questo intruglio quando il momento era delicato, se feriti o dopo estenuanti battaglie. Aveva anche un nome, il pastone: si chiamava ciceone, κυκεών. Il simposio (che significa ‘bere insieme’) era, per i Greci, l’occasione per antonomasia di consumare il vino: non aveva solamente una funzione ludica, ma prevedeva anche momenti di confronto su temi politici, intellettuali e civili. Mentre i partecipanti bevevano e mangiavano comodamente distesi sui triclini, erano i poeti e gli aedi a cantare la storia comune della Grecia, primi fra tutti i poemi omerici, rafforzando il senso di appartenenza della comunità. Era invece compito del simposiarca, cioè il capo del simposio, stabilire quanto vino consumare e come annacquarlo. I vasi per servire il vino avevano forme e nomi diversi: il più importante era il cratere, utilizzato per mescere vino e acqua. Lo stato di ebbrezza aveva una valenza religiosa, quasi mistica: si credeva infatti che l’ubriacatura permettesse agli uomini di perdere ogni freno razionale e di avvicinarsi alla divinità. Di qui il famoso detto, coniato dal poeta Alceo, ἐν οἴνῳ ἀλήθεια, in vino veritas, ancora oggi di uso comune per giustificare le ben meno sacre alzate di gomito. Infine i vini erano classificati in base al loro colore in bianchi, neri e mogano e in base al loro profumo di rosa, di viola, di resina – un modo delizioso.

Il mistero è, piuttosto, come mai una categoria tanto fondamentale sia trattata oggi come un lussuosissimo, e dunque inutile, optional. Una definizione rigorosa del valore aspettuale suona così: l’aspetto indicava la qualità dell’azione, il modo in cui essa accadeva e come si sentiva il parlante a riguardo. Come avrete notato, nel definire l’aspetto ho adoperato insindacabilmente l’imperfetto: questa categoria grammaticale, questo modo di valutare gli eventi rispetto alla loro qualità e alle loro conseguenze anziché inchiodarli al muro come 11­­­­

le foto ricordo dei matrimoni in uno schema presente-passato-futuro, insomma, questo chiedersi come del greco antico, l’abbiamo perduto per sempre. Persino il correttore automatico del computer non riconosce più la parola “aspettuale” – errore!, si ostina a ripetere mentre scrivo, sottolinean­dola di ‘rosso dimenticanza’. Certo, in italiano ricorriamo a varie perifrasi per indicare se un’azione è momentanea o puntuale, quasi sempre in maniera inconsapevole. Ma il valore dell’aspetto greco non lo capiamo più, perché da oltre un paio di millenni il nostro sentimento linguistico – cioè il nostro modo di vedere il mondo e di esprimerlo a parole – ne è sprovvisto. Anzi, peggio: l’ha abbandonato, perduto da una tasca bucata. Forse potrebbe riuscirci un abitante delle Hawaii, che parla una delle poche lingue al mondo dove il valore aspettuale sopravvive (con una certa tenacia, bisogna riconoscerlo, in mezzo a tutte quelle parole lunghissime piene di u). Noi no, noi diseredati dell’indoeuropeo dobbiamo immaginare e sforzarci di capire. Giusto un rapido riepilogo prima che le cose si complichino: • valore aspettuale presente: l’azione è durativa, in corso di svolgimento. Graficamente può essere rappresentata da una linea retta, con dei bei puntini in fondo, dritti verso l’infinito: ––––––––––––––––– .............. Esempio: καλέω, ‘ti sto chiamando’, dalla mia bocca escono le lettere che compongono il tuo nome – a mo’ di Lo-li-ta, per tirare in ballo Nabokov. • valore aspettuale aoristo: l’azione è momentanea, presa per quella che è. Graficamente può essere rappresentata da un bel punto fermo: Esempio: ἐκάλεσα, esprimo l’idea di chiamarti, non importa quando, come, perché. 12­­­­

Solo al modo indicativo può corrispondere al nostro passato remoto. In tutti gli altri casi, forse un generico ‘ti chiamo’ senza altre determinazioni spazio-temporali potrebbe rendere vagamente l’idea – come dopo certi appuntamenti. • valore aspettuale perfetto: l’azione è compiuta, senza possibilità di appello, e ciò che restano sono le sue conseguenze. Graficamente può essere rappresentata da un cerchio:

Esempio: κέκληκα, ‘ti ho chiamato’ e ora mi sto arrovellando sul perché tu non mi abbia risposto – l’appuntamento non è andato affatto bene, temo. Il valore aspettuale dell’azione era talmente fondamentale per il parlante greco da vincere con imbarazzante facilità sul valore temporale della stessa. Quest’ultimo era, infatti, circoscritto al solo modo indicativo e espresso mediante accessori come aumento e desinenze, mentre per tutti gli altri modi (infinito, congiuntivo, ottativo, participio, imperativo) era l’aspetto a fare la differenza. Di nuovo non quando, ma come. Quando, mai. S’è fatta l’ora di vederlo e di immaginarlo da vicino, questo modo di farsi capire, e per far ciò è necessario esaminare i temi di cui si è parlato in principio, la gloriosa quanto sperperata eredità indoeuropea; ecco la ragione di fondo per cui al liceo classico si imparano i paradigmi a memoria. Molto di fondo, diciamo. Il tema è la parte che rimane immutata in tutta la coniugazione del verbo, e questo accade anche in italiano: ad esempio colp- per il verbo colpire. Dai secoli bui, il greco antico si è portato come souvenir tre temi distinti per ogni verbo: tre temi collegati al valore aspettuale, presente, aoristo, perfetto con l’aggiunta di futuro (di cui si parlerà più avanti) e aoristo passivo (poco più della variante sottomessa dell’aoristo attivo). 13­­­­

I secoli bui Illuminare i secoli bui è un’impresa titanica tentata da moltissimi: nessuno è più tornato vivo, inghiottito dalle tenebre. Con un eroico sforzo di sintesi, si può riassumere così: il greco, come quasi tutte le lingue europee, è una lingua indoeuropea. E fin qui. Naturalmente non vi è alcuna testimonianza scritta né ricordo del popolo che l’ha usata: quando i popoli scoprono la facoltà di scrivere non hanno più coscienza di utilizzare una stessa lingua. Insomma, Greci, Persiani, Ittiti, Indiani e tutta la banda degli indoeuropei non si capiscono più, pur essendo tutti nati sotto la stessa lingua – fratelli linguistici. Naturalmente non sappiamo né dove né quando visse questa ‘nazione’ indoeuropea, ma se la sua lingua ebbe una tale potenza di diffusione è perché era parlata da una civiltà culturalmente egemone. Per il quando, si può buttare lì un II millennio a.C. (molto vago, lo ammetto). Per il dove, tra Europa e Asia (ancora più vago). Naturalmente anche il passaggio dall’indoeuropeo al greco comune o preistorico (l’antenato di tutti i dialetti greci) è avvolto dal mistero. Tuttavia, come l’indoeuropeo, anche il greco comune presupponeva un popolo ellenico coeso, dotato di una lingua unitaria. Un popolo battagliero, ricco ed evoluto. Per un accidente storico, come lo chiamano con inaudita eleganza gli studiosi, dai secoli bui le testimonianze della lingua passano quasi di botto dall’indoeuropeo ai vari dialetti greci. Cosa sia accaduto in mezzo, si può sintetizzare così: conquiste, mutamenti della società, lotte di potere, invasioni, cambio di classi intellettualmente egemoni. Non credevate ancora ai terremoti, all’isola di Atlantide o alle catastrofi naturali, vero?

Moltiplicate tutto per cinque e chi conserva qualche ricordo del liceo classico, saprà perché recitava a memoria tutti quei paradigmi come fossero l’Ave Maria (a me dicevano esattamente così, li devi sapere come l’Ave Maria): stava imparando ciascuno dei cinque temi relativi allo stesso verbo. Detto in altri termini: stava ribadendo come quella lingua noi non la si capisca più e quindi siamo obbligati ad impararla a memoria. La memoria forzata, il metodo migliore per dimenticare. 14­­­­

Gli antichi Greci, invece, i temi li capivano a colpo d’occhio, fino ad averne una coscienza linguistica di entità distinte dello stesso verbo, ma forse sospettate di essere collegate fra loro. Ragionavano in un modo completamente diverso da noi: in italiano e, in generale, nelle lingue romanze, ci facciamo capire coniugando un verbo nel tempo e anche un bambino di tre anni saprebbe dire che mangio, mangerò, mangiai, ho mangiato non sono che varianti temporali dello stesso verbo, ossia mangiare. Si assomigliano molto, volendo vedere. Già, proprio a colpo d’occhio, dicevo, è questa la chiave per comprendere il greco antico. Voler vedere per voler sapere. Ai Greci, invece, non importava nulla che i temi λειπ-, λιπ- e λοιπ- fossero varianti dello stesso verbo λείπω, ‘lasciare’. Tutti questi temi, infatti, racchiudono in sé un significato aspettuale tanto diverso da essere quasi indipendenti l’uno dall’altro. E infatti si assomigliano – visivamente – poco. Così come in italiano si somiglia poco, non solo visivamente, il momento in cui ‘ti sto lasciando’ (e di conseguenza c’è ancora speranza, finché c’è vita) e il momento ‘ti ho lasciato’ (riponi ogni speranza, sei solo come un cane). Magari alcuni parlanti greci nutrivano dei sospetti e i più accorti arrivavano a scorgere nei verbi la stessa radice tematica, ma non perché ne fossero linguisticamente consapevoli: semmai, nonostante lo fossero. Omero, ad esempio, utilizza i verbi esattamente in questo modo, scegliendo un tema e adoperandolo per esprimere come avviene l’azione che vuole narrare – anzi, per essere precisi, che la Musa gli ha narrato. Al pari dell’oste della nostra storiella, Omero, il cieco di Chio – o delle altre sei isole che ne vantano i natali, sempreché un Omero sia esistito davvero –, valuta, per fare un esempio, come si pone Elena di fronte al fatto di essere stata rapita da Paride e aver per questo scatenato una guerra durata dieci anni (ovvero molto, molto arrabbiata). Anzi, Omero appare talmente disinvolto nella scelta del tema che più gli aggrada per farsi capire che, spulciando Iliade e Odissea, pare che il sommo poeta non si rendesse conto di usare 15­­­­

varianti aspettuali dello stesso verbo: questo lo vediamo noi, nelle note ai poemi epici da studiare e nelle sfilze di paradigmi schierati a mo’ di falange nei nostri manuali (falange che affrontiamo con lo stesso buonumore di un Greco alle Termopili). Omero, e i Greci in generale, non vedevano il nesso tra i vari temi dello stesso verbo o, se lo vedevano, non gli importava più di tanto. Di certo, non lo sentivano linguisticamente. La scelta del tema era funzionale alla necessità di farsi capire. A noi ora può sembrare una scelta macchinosa e difficilissima, eppure tra loro si capivano al meglio, forse quasi meglio di come ci capiamo noi che troppo spesso non ci capiamo. Di certo, con maggiore precisione e sincerità: niente veniva detto tanto per dire o fatto tanto per fare. Se Iliade e Odissea sono stati i poemi epici più mainstream della storia e il più efficace strumento di ‘storytelling’ di una società, significa che i Greci, di ogni classe sociale, li capivano benissimo senza aver bisogno di un dottorato in filologia. In caso contrario, se la lingua omerica fosse stata cosa per poche e dottissime orecchie, i Greci si sarebbero scelti di corsa un altro poeta nazionale e Omero sarebbe stato cestinato – un po’ come faremmo noi se sentissimo la finale dei Mondiali (in cui l’Italia sta vincendo ai rigori!) raccontata nell’italiano di Dante: di corsa a cambiare canale e maledicendo Dante, la Toscana e, nel dubbio, anche la Maremma. Prima di procedere ad esaminare ciascuno dei temi, propongo un esempio che sconvolgerà ogni liceale, presente o passato, o che lascerà basito chi il greco proprio non lo conosce. Eppure, mi sembra la via più veloce per comprendere la questione. Di certo, è la più coraggiosa. Forse vi è giunta voce dell’esistenza di sette verbi detti politematici, un modo elegante per definire quei verbi impazziti che sfuggono ad ogni regola, verbi così logici in greco da essere per noi del tutto illogici – in caso contrario, a chi è ancora o è stato prigioniero dei banchi sempre troppo stretti del liceo deve essere giunta voce di un bel tre. Come spes16­­­­

so accade, nella lingua ma soprattutto nella vita, c’è bisogno della stranezza per illuminare il senso. Ebbene, è proprio da questi verbi irregolari che si vede con maggiore chiarezza – proprio si vede con gli occhi – l’importanza del valore aspettuale collegato a ciascun tema. Scegliamo perciò il più irregolare di tutti, ὁράω, e limitiamoci per un attimo a guardare il suo paradigma schierato come sulla pagina di un qualunque manuale scolastico – presente, futuro, aoristo, perfetto, aoristo passivo: ὁράω, ὄψομαι, εἶδον, οἶδα, ὤφθην. Ironia non casuale, ὁράω proprio questo vuol dire, ‘guardare con gli occhi’. Perciò, guardate con gli occhi ben aperti. L’avete guardato bene? Non serve saper leggere il greco. Ponete pure che sia giapponese. Trovate una sola parola che assomiglia minimamente a un’altra? Certo che no. Bene. Anzi, benissimo. Provate ora a fare un salto nel tempo – quello vero, quello della storia grande. Se vi ritrovaste nell’agorà di Atene e vi venisse in mente di fermare il primo che passa per chiedergli: “Cortesemente, per Zeus, mi spiegherebbe il paradigma di ὁράω?”, be’, scommetto che il tizio vi prenderebbe per pazzi o, peggio, per barbari e finireste ai lavori forzati o venduti come schiavi al mercato nel giro di pochi minuti. A ciascuno di questi temi corrisponde un significato tanto diverso da essere utilizzato indipendentemente l’uno dall’altro, e non importava a nessuno che οἶδα venisse da ὁράω: quello importa alle nostre grammatiche. Esattamente quanto importa a noi che le parole italiane pazienza, pazzia e passione vengono dalla stessa radice: il commento del 99% della popolazione interrogata in merito sarebbe, nella migliore e più garbata delle ipotesi: “e allora? Che m’importa?”. Sempre tenendo a mente che lo scopo della lingua è farsi capire, vediamo cosa capivano i Greci dei vari temi di ὁράω: 17­­­­

– ὁράω, ‘sto guardando’ – una mela, una bella donna, il cielo, una tragedia, quello che mi va – ὄψομαι, ‘ho intenzione di guardare, guarderò’ – per cosa guardare, vedi sopra o guardati attorno – εἶδον, ‘guardo’ – οἶδα, ‘so’ – perché ho guardato attentamente ed ora so, punto. (Bellissimo, no? Se questo approccio alla conoscenza venisse applicato ora quando tutti parlano di tutto senza aver visto nulla, e quindi senza sapere niente, il mondo sarebbe a mio parere infinitamente migliore.) – ὤφθην, sono guardato – e qualcuno poi saprà. Altro verbo anomalo, e quindi luminoso, è ‘dire’: solo all’aoristo εἶπον assume il significato italiano corrispondente, mentre il tema del presente oscilla tra ἀγορεύω ‘sto parlando pubblicamente’ (da ἀγορά, la pubblica piazza) fino a λέγω che vale ‘sto sciogliendo, sto contando’. Il tema del perfetto εἴρηκα ‘ho detto e mi avete quindi sentito’ è invece del tutto dissimile e viene d’altrove. Le oscillazioni semantiche che abbiamo visto all’opera nel paradigma di ὁράω valgono per tutti gli altri verbi greci. Anzi, valgono così tanto che molti verbi mancano di uno o più temi, perché il significato di quel verbo non si presta all’esistenza di quel particolare tema. I linguisti li chiamano verbi difettivi. Qualche esempio? Οἰκέω, ‘abito’, βασιλεύω, ‘regno’, hanno quasi sempre solo il tema del presente, perché l’azione è sempre in fase di svolgimento: o abiti da qualche parte o sei un senzatetto, o sei re o non lo sei. Θνήσκω, ‘muoio’, ha solo il tema dell’aoristo, perché l’azione dello spirare è forse la più puntuale che ci sia. Lo stesso vale per βιόω, ‘vivere’, quando si è grati alla vita per il solo fatto di essere vivi e di saper godere delle cose anche se non tutto è perfetto. Ἥκω, il mio preferito, ha solo il tema del perfetto, perché esprime il risultato dell’azione di ‘essere partiti e finalmente 18­­­­

arrivati’. Lo tradurrei con un poco accademico ‘eccomi’, ma forse non tutti i professori apprezzerebbero, perciò ‘sono arrivato’ va benissimo. Anche ἔοικα, ‘sembro/sono simile a’, e δέδοικα, ‘ho paura’, hanno il solo tema del perfetto, perché sono risultati di azioni già avvenute: ho guardato un tale e mi ha ricordato qualcun altro, qualcosa è accaduto e ne ho avuto timore: è questo il momento di scegliere se avere coraggio oppure no. Arrivati fin qui, il viaggio è in discesa. Perciò ecco di seguito illustrati i vari temi: godetevi il paesaggio. Ah, giusto, dimenticavo di offrirvi il bicchiere di vino (annacquato) con cui brinderete durante il cammino: tutto ciò che segue è valido per ogni modo (indicativo, congiuntivo, ottativo, imperativo, participio, infinito e pure per l’aggettivo verbale – no comment, so che a scuola non si studia quasi mai salvo poi trovarlo nella versione di maturità). • Il tema del presente, il più semplice, quello cui appartiene il verbo così come lo si trova nel vocabolario: indica un’azione non ancora compiuta, ma in via di svolgimento. Nessuna conseguenza dell’azione sfiora il parlante, perché la sta ancora vivendo – un po’ alla carpe diem, per dirlo alla latina, che non guasta mai. In italiano, sarebbe corretto renderlo con una perifrasi, come ad esempio ‘stare’ oppure ‘continuare a’: βιβρώσκω, ‘sto mangiando’ (che fame!), μιμνήσκω, ‘sto ricordando’ (chi diavolo era quello?), ἐπιθυμέω, ‘mi sto innamorando’ (ops!). Dallo stesso tema deriva il tempo imperfetto, niente da dichiarare. Semplicemente, l’azione si sta svolgendo, ma la sua durata si colloca nel passato: ‘stavo mangiando’, ‘stavo ricordando’, ‘mi stavo innamorando’ (ops ops!). • Il tema dell’aoristo, la meravigliosa terra dell’ἀόριστος χρόνος, il tempo indefinito. Aoristo proprio questo significa: “senza limiti”, senza inizio né fine. L’azione è puntuale e irripetibile, astratta da ogni tempo, il parlante non si pone nessuna domanda rispetto a essa. 19­­­­

Il dizionario Struggente è la nostalgia per le mitiche traduzioni del Rocci, il dizionario di greco su cui gli studenti italiani hanno perso la vista (e gli ottici fatto soldi a palate) per quasi ottant’anni. Era il 1939 quando un monaco gesuita, padre Lorenzo Rocci, pubblicò l’omonimo dizionario per la società editrice Dante Alighieri, considerato l’insuperabile enciclopedia del greco antico fino all’uscita del GI Vocabolario della lingua greca di Franco Montanari per Loescher nel 1995. Chiamato semplicemente GI, come tra amici, il nuovo dizionario segnò per sempre un passaggio generazionale: da una parte quelli che sono diventati ciechi come Omero a Chio affannandosi sul Rocci, di colore blu e senza un lemma in grassetto che fosse uno (sicché tutto il greco sembrava dotato di un’unica parola spiegata in più di mille pagine). Dall’altra, i privilegiati della moderna veste grafica del GI, di colore rosso – pare che le nuove edizioni siano persino dotate di CD-ROM. Negli ambienti che contano (cioè i cortili e i chiostri delle università o ai raduni di sopravvissuti al liceo classico), se ne fa quasi una questione politica, con una domanda che divide due caste di topi da biblioteca: “tu usi il Rocci o il GI?”. Personalmente, io li uso tutti e due, dipende se ho gli occhiali a portata di mano. Presso alcune università italiane, poi, è ancora in uso il LiddellScott-Jones o, più semplicemente, LSJ, un lessico della lingua greca

La sfumatura che distingue il presente dall’aoristo è lievissima. Una differenza talmente lieve che al liceo ci si va giù con il bazooka, costringendo gli studenti a tradurre l’aoristo sempre con il passato remoto – talvolta i veri secoli bui sono i nostri. Tuttavia, tradurre un testo greco senza avere cura del valore dell’aoristo – lo stare sospeso sopra ogni connotazione temporale – è rischioso e, a mio giudizio, molto povero. In francese si userebbe una parola bellissima e delicata come nuance. Come tutte le differenze di blu che può avere il colore del mare; l’aoristo sono tutte le sfumature di colore dell’acqua, del cielo, della luce riflessa, della spuma delle onde, di un cargo rosso in lontananza e, quindi, di tutta la lingua greca. 20­­­­

in inglese iniziato nell’Ottocento e giunto oggi alla diciannovesima edizione revisionata. Pubblicato per la prima volta nel 1819 dalla Oxford University Press, è stato spesso ridotto o ampliato: le tre varianti sono The Little Liddell, The Middle Liddell e The Big Liddell o The Great Liddell. La precisazione e l’accuratezza tutta britannica del LSJ ne fanno un capolavoro insuperato – nonché uno sforzo titanico di raccogliere il significato di ogni parola esistita in greco e illustrarne l’uso in ogni contesto. Impossibile però negare la difficoltà di usare una lingua terza – l’inglese – come intermediaria per cogliere e rendere il senso di due lingue ormai lontanissime tra loro, il greco e l’italiano. Resteranno per sempre nella mia memoria certe traduzioni del Rocci, come olezzo anziché profumo. Su tutte, la traduzione di ποιέω, io fo, alla toscana. Certo, il Rocci è senz’altro antiquato e privo di riferimenti ai testi greci in cui ricorrono i lemmi, ma offre una varietà di sinonimi più ampia del GI, una libertà di scelta apprezzabile e quasi commovente, specie oggi in cui la lingua italiana si sta appiattendo sempre di più. In ogni caso, qualsiasi dizionario, antico o moderno che sia, non è che una gabbia di significati delle parole di una lingua non nostra: una gabbia precisa, ma sempre ristretta rispetto alle pressoché infinite varietà di senso con cui ogni parola può essere utilizzata da chi davvero parla quella lingua.

In definitiva, l’aoristo non è un presente né un passato, attivo o passivo (così liquidiamo anche quello, con il suo suffisso -θην) che sia: è semplicemente un’azione che si compie, senza considerarne le conseguenze: perché non ce ne sono, perché ce ne dovrebbero essere sempre? In italiano, l’idea di tempo imprecisato e assoluto si può rendere con un presente fermo o con perifrasi come comincio, riesco a o scoppio a. E quindi avremo ἐπεθύμησα, ‘amo’, ὤζησα, ‘olezzo’, ἐχαίρησα, ‘sono felice’. Ovvero quando si ama, quando si è felici, quando si olezza, semplicemente, ‘si sta’. L’aoristo ha in sé qualcosa di spettacolare e di struggente: la certezza di averlo perduto per sempre e uno sfocato rimpianto di quel modo di stare. La stranezza della nostal21­­­­

gia delle cose che non si sono vissute e che non si vivranno mai. • Il tema del perfetto, l’azione è avvenuta nel passato e i suoi effetti permangono nel presente. Qui iniziano i guai, perché di domande il parlante se ne pone fin troppe. Il perfetto mescola le carte: quella del presente, perché il risultato è riferito al momento in cui si parla, e quella del passato, perché l’azione è antecedente al momento in cui si parla. Tradotto: il perfetto non è altro che il tema della conseguenza, bella o brutta che sia (ci scusiamo per il disagio, come dicono alla stazione quando qualcosa è andato storto, senza mai dire esattamente cosa). Ecco perché la sua traduzione si discosta, talvolta di molto, da quella del corrispondente tema presente e, in italiano, una resa al tempo presente (anziché al più scolastico passato prossimo) rende al meglio l’idea della fine come risultato di un inizio. Con gli esempi c’è solo da sbizzarrirsi (e da divertirsi): ριγόω, ‘ho freddo’; ἐρρίγωκα, ‘sono congelato’; πέρθω, ‘sto distruggendo’ / πέπορθα, ‘ho raso al suolo’; ταράσσω, ‘sto turbando’ /τέτρηχα, ‘ho combinato un bel guaio’; μαίνομαι, ‘mi sto arrabbiando’ /μέμηνα, ‘sono furioso’; κτάομαι, ‘mi sto procurando’ / κέκτημαι, ‘ho’. E potrei continuare a lungo, molto a lungo. Sprovvisti del perfetto sono tutti i verbi che esprimono azioni che non possono avere conseguenze: primo fra tutti, ἐλπίζω, ‘sto sperando’ (e chissà come andrà a finire). Ma anche γελάω, ‘sto ridendo’, o ἀρκέω, ‘è sufficiente’/ ‘basta, ne ho abbastanza’, ὕω, ‘piove’ (con sottinteso o scritto ‘Zeus’ prima, perché è Zeus che piove), πτάρνυμαι, ‘starnutisco’. Anche quasi tutti i verbi musicali sono senza perfetto, perché ascoltare musica è qualcosa che accade in un irripetibile presente: da σαλπίζω, ‘sto suonando la tromba’1, fino a ἀλαλάζω, ‘intono il canto di guerra’. 1   Fin dall’indoeuropeo la musica ha sempre avuto valore momentaneo e visuale, al punto che si ‘guardava’ la musica, come accade oggi in pochi,

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Che c’è di peggio di un’azione avvenuta nel passato i cui effetti perdurano nel presente? Il piuccheperfetto, naturalmente, quando un’azione avvenuta nel passato proietta conseguenze in un altro passato, conseguenze che ancora bruciano nel presente. Il piuccheperfetto non è altro che la versione aggravata del perfetto, dal cui tema deriva. Di uso piuttosto raro, perché i Greci erano gente che viveva leggera e parlava sincera, non c’è da preoccuparsene troppo (come sempre, capita solo nella versione della maturità). Ancora più raro è il futuro perfetto, anzi, rarissimo (se vi capita alla maturità, è senz’altro questione di karma sbagliato). Proiettare nel futuro conseguenze di un evento presente non era cosa per Greci, che già erano in imbarazzo con il solo futuro semplice. Ed eccolo di seguito illustrato, il futuro in greco. • Il tema del futuro, che non esiste, quindi fine della storia. Il futuro si costruisce sul tema del presente, e non c’è nulla che si possa fare a riguardo. Sì, il futuro in greco antico non ha aspetti, anzi, ha un antico valore desiderativo ancora ben riconoscibile nell’uso greco moderno. Deriverebbe infatti da un congiuntivo che esprimeva desiderio, augurio o aspirazione: come, ad esempio, ‘possa io essere felice’, ‘vorrei essere felice’. La forma è stata poi impiegata per esprimere l’attesa di un fatto che doveva ancora accadere, quindi qualcosa di simile al futuro come lo immaginiamo noi (ma con meno, molte meno aspettative...). Ad esempio, χαιρήσω, futuro di χαίρω, ‘sono felice’, significava originariamente ‘voglio essere felice’. indimenticabili concerti, anziché limitarsi ad ‘ascoltarla’: ogni occasione musicale era irripetibile e irriproducibile, non potendo essere fissata su qualche congegno e portata via. La musica richiedeva orecchie e occhi – significato che sopravvive in parole indiane splendide, come nell’urdu junun, la “seducente malia che si trasmette con la musica e lo sguardo” che nel 2015 ha dato il nome al capolavoro musicale di Shye Ben Tour, Jonny Greenwood e l’orchestra indiana Rajasthan Express.

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La natura volitiva del futuro emerge con tutta chiarezza nel greco moderno: non esistendo il tema del futuro, la società moderna ha dovuto inventarlo. Anzi, proprio l’ha reclamato con una perifrasi formata da θα, il verbo ‘volere’ seguito dall’infinito. Una pretesa di futuro che ben spiega tutta l’infelicità di essere greci (moderni), per citare Nikos Dimou. In definitiva, gente coraggiosa, i Greci, che non si sognavano di chiedere come al futuro. Nessuna domanda, c’era solo da viverlo. Una volta vissuto, ricorrevano al presente, all’aoristo, al perfetto per raccontarlo. E, prima di finire, una delle parole più belle del greco antico: μέλλω, la semplice idea del futuro, traducibile con un semplice presente: ‘sto per’. E basta. Sto per al presente, punto. Μέλλω non possiede altri temi, è presente e futuro insieme. Stare per. Vivere. Avere coraggio. Chi ha paura invece sta. Fermo e basta. Ed ora che siamo arrivati a capire come i greci si capivano tra loro senza essere prigionieri del tempo, non resta che capire perché noi non li capiamo più. Che cosa è accaduto a questa lingua che possedeva il vantaggio dato dall’eleganza di chiedersi sempre come anziché quando di fronte ad un evento? Che è successo a questo sistema, un po’ bizzarro ma bellissimo, di temi e aspetti? Soprattutto, come sono caduti, i Greci, nella prigione del tempo? La risposta che circola da duemila anni è sempre la stessa: barbari2. Consapevoli del valore sociale della lingua e che una 2   L’etimologia di barbaro, βάρβαρος, ha una chiara connotazione sociale e linguistica – molto nazionalistica e molto contemporanea, mi accorgo scrivendo e pensando ai muri, ai fili spinati e alle frontiere dentro cui pretendiamo di chiuderci. Per un Greco, barbaro era colui che diceva ba-ba o barbar. Insomma, barbaro era colui che non padroneggiava la venerabile lingua greca e di cui non si capiva un accidente quando parlava. Poco importava se il barbaro in questione abitasse nell’isola accanto dell’Egeo. I Greci, pur non avendo mai conosciuto un’unità territoriale e politica prima di Alessandro

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lingua cambia quando cambiano le esigenze comunicative di chi quella lingua parla, possiamo scendere sotto la superficie delle cose e aggiungere: il mutamento della civiltà. Certo, non fu tutta colpa di Alessandro Magno: l’annessione della Grecia all’immenso impero macedone fu solo il motore – e un’ottima scusa – per diffondere su una scala più ampia un mutamento linguistico già in atto. Impossibile pensare che il popolo greco abbia mutato in una decina di anni la lingua in cui aveva espresso tutta la sua politica, la sua cultura, le sue leggi, la lingua in cui aveva inventato la filosofia, la matematica, l’astronomia e il teatro per decine di secoli. Parleremo in un altro capitolo della κοινή, la lingua franca sorta, come una fenice, dalle ceneri del dialetto attico e compresa più o meno ovunque dall’età di Alessandro fino al 1453, anno della caduta dell’impero bizantino e convenzionale data di nascita della lingua greca moderna. Comprendiamo ora la sorte del verbo greco antico e dei suoi temi e l’inizio della nostra irrimediabile incomprensione. I parlanti della κοινή dovevano avere un’opinione simile a quella di un liceale di fronte alla prima pagina del manuale di grammatica greca: verbi troppo, troppo difficili. Non li capivano molto. Anzi, li capivano molto poco. Quindi, esattamente come avvenne ai tempi di Omero, si è livellata la nuova lingua in base alle necessità della società, cioè al target dei parlanti: solo che questa volta era un po’ meno elevato, ma molto, molto più vasto, spaziando dalla Grecia fino all’India. In primo luogo, tutte le anomalie verbali sono state soppresse cercando di rendere la coniugazione dei verbi il più semplice possibile. Scompaiono così le stranezze cui siamo così grati perché ci permettono ora di sentire ciò che non possiamo linguisticamente sentire più. Magno, sono sempre stati popolo di una stessa nazione, stretti in un’identità culturale, religiosa e sociale così forte da poter distinguere linguisticamente se stessi da ogni altro popolo, barbaro.

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Si perde, quindi, l’aspetto, barattato con il tempo. Il presente resiste, limato fino a diventare il più semplice possibile e perdendo il suo valore durativo. Verbi politematici? Temi irregolari? In Egitto, dove la scrittura si basava sui geroglifici? Non scherziamo. Semplificare. Regolarizzare diventò l’unica regola. Resiste l’aoristo, ma la sua resistenza non è che un’altra forma di resa. Cancellato con un impietoso colpo di spugna il perfetto3, l’aoristo si carica sulle spalle il peso del suo significato aspettuale perdendo il proprio. Insomma, per immaginare come è andata: aoristo e perfetto, davanti al bivio della κοινή, si scambiano i fagotti dei rispettivi aspetti e vanno ciascuno per la propria strada. Il perfetto precipita nel burrone della storia linguistica due metri più in là. L’aoristo prosegue il suo cammino fino al greco moderno, venendo ad assomigliare sempre più al nostro passato remoto/passato prossimo. Così, anche verbi che per natura, non avevano un valore perfetto ne vengono provvisti, e nel modo più semplice possibile, di grazia: ossia con le macerie morfologiche dell’aoristo. E il futuro? Scomparso pure lui. Del resto, di fatto nemmeno esisteva. Ecco il bilancio del modo di vedere il mondo e di esprimerlo a parole all’epoca della κοινή: due soli temi che giocano in due squadre diverse e opposte. Un derby presente contro aoristo (con significato di passato/perfetto) in cui l’unico a vincere è il tempo come lo conosciamo (e lo subiamo) noi. Il valore aspettuale è inizialmente confuso in greco antico, come i ricordi della nostra infanzia quando si diventa grandi. Come i racconti dei nostri nonni, racconti di tempi che non sono i nostri. Annuari di anni che non abbiamo vissuto. Infine, l’aspetto scompare. Dimenticanza. Null’altro resta. Da allora, dallo sviluppo delle cose si è passati al tempo 3   L’unica forma di tema del perfetto sopravvissuta fino ad oggi è il participio passivo γραμμένος, ‘scritto’, e, ironia della sorte, anche linguistica, πεθάμενος, ‘morto’.

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delle cose. Dal vedere per capire tutto ciò che accade tra ogni inizio ed ogni fine si è passati allo schema passato presente futuro. Dal come si è passati al quando. E dalla fine dell’aspetto è iniziata la prigione del tempo e della memoria appiccicosa, capricciosa. Per noi linguisticamente si è fatto tardi, troppo tardi, e troppo tempo è passato, e ora l’aspetto delle cose non lo sentiamo più né più lo sappiamo esprimere grammaticalmente nella nostra lingua. Dobbiamo quindi sforzarci di trovare un altro modo per dire quel particolare senso di soddisfazione o di realizzazione, di mancanza o di desiderio, che preserva ogni individuo dal potere distruttore o conservatore del tempo. Come quel fiore piccolo, nontiscordardimé.

Il silenzio del greco. Suoni, accenti e spiriti

Ciò che gli altri raccolgono è negato a noi, esperti di un altro linguaggio. Se altri per noi semina, noi siamo eternamente in viaggio. Che senso ha approdare se approdiamo sempre a porti diversi? Restano i versi, fuochi fatui in fuga sulla città dei morti. Maria Luisa Spaziani, da L’occhio del ciclone

“I resti archeologici sono muti”. Così scrive, irrimediabile e sempre geniale, Antoine Meillet, uno dei più grandi studiosi della lingua greca, nella sua Aperçu d’une histoire de la langue grecque. Ovvero, del silenzio del greco antico. Non avremo mai certezza di come venisse pronunciata una parola greca. I suoni del greco sono per sempre scomparsi insieme ai suoi parlanti. Possediamo i testi della letteratura, li possiamo leggere, studiare, ma non pronunciare. Sono arrivati a noi muti. Anzi zittiti. Senza voce. La pronuncia di una parola è un fatto fisico, umano: è necessario che gli organi fonatori assumano una determinata posizione per spingere un soffio d’aria a vibrare ad una certa intensità e per una certa durata. Per la pronuncia del greco antico esistono solo fonti scritte, non umane: fonti che non respirano e che quindi non emettono alcun suono. Fonti che 28­­­­

dicono senza parlare. Per approssimazioni e per tentativi si è codificata nel corso dei secoli una pronuncia del greco antico. Per poter dire le parole, non solo leggerle nella mente. Ma il suono del greco antico è sparito; le sue parole non fanno più rumore. La pronuncia originaria è un’altra scheggia di mondo di questa lingua andata perduta. L’alfabeto in cui ora leggiamo i testi greci corrisponde a quello adottato ufficialmente ad Atene nel 403/402 a.C. È composto da 24 lettere (in greco τὰ γράμματα, dal verbo γράφω, ‘scrivere’). Sette sono le vocali (in greco τὰ φωνήεντα, ‘le risonanti’): α, ‘alfa’, ε, ‘epsilon’, η, ‘eta’, ι, ‘iota’, ο, ‘omicron’, υ, ‘üpsilon’, ω, ‘omega’. Diciassette le consonanti (in greco τὰ σύμφωνα, ‘le sonanti insieme’): β, ‘beta’, γ, ‘gamma’, δ, ‘delta’, ζ, ‘zeta’, θ, ‘theta’, κ, ‘kappa’, λ, ‘lambda’, μ, ‘mü’, ν, ‘nü’, ξ, ‘xi’, π, ‘pi’, ρ, ‘rho’, σ, ‘sigma’, τ, ‘tau’, φ, ‘phi’, χ, ‘chi’, ψ, ‘psi’. Dal nome delle prime due lettere, ἄλφα e βῆτα, deriva la parola ἀλφάβητος, ‘alfabeto’. Cosa accade quando di una lingua restano le parole, ma non si ha alcuna idea certa della sua pronuncia? Del greco antico è a noi rimasto l’alfabeto scritto, ma non il suono delle lettere. I Greci non hanno avuto, a differenza degli Indiani con il sanscrito, dei fonetisti che analizzassero minuziosamente la pronuncia e ne lasciassero un’accurata descrizione. I suoni del greco, inoltre, variarono di molto nel tempo, dall’epoca arcaica a quella bizantina, e nello spazio, nelle parlate dialettali. Considerate, per un attimo, tutte le varianti dialettali dell’italiano esistenti oggi. Se dovessero scomparire improvvisamente, se non dovesse più esistere un solo parlante di friulano o di pugliese e se nessuno ne avesse conservato accurata testimonianza scritta, come potremmo tramandare i suoni delle nostre parole? Se un giorno si perdesse memoria dell’accento toscano, ad esempio, ma restassero solo i testi in 29­­­­

La scrittura La prima attestazione di scrittura in lingua greca risale all’epoca micenea (XV secolo a.C): nel 1900 l’archeologo Arthur Evans scoprì nel cosiddetto palazzo di Minosse a Cnosso, sull’isola di Creta, un gran numero di tavolette di argilla incise con una scrittura detta lineare B, per distinguerla da un’altra scrittura sillabica rinvenuta sempre a Creta e detta lineare A. Altre tavolette simili vennero poi alla luce nei palazzi micenei del Peloponneso (Pilo, Micene) e nella Grecia continentale (a Tebe e a Eleusi). Mentre la lineare A resta ancora un mistero irrisolto, nel 1953 il linguista John Chadwick e l’architetto esperto di codici criptati Michael Ventris decifrarono la lineare B: si tratterebbe della scrittura dei conquistatori achei di lingua greca subentrati alla civiltà minoica. Le tavolette riportano per lo più elenchi di persone, oggetti, doni e proprietà: erano infatti i registri delle attività amministrative, civili ed economiche dei palazzi micenei. Impastate di argilla seccata al sole, le tavolette si sono salvate per pura casualità in seguito all’incendio dei palazzi durante il crollo della civiltà micenea. Al termine dell’epoca micenea, la scrittura scomparve a lungo in Grecia, nei cosiddetti secoli bui. Ricomparve con l’introduzione dell’alfabeto fenicio, le cui prime testimonianze risalgono all’VIII secolo a.C. – proprio il secolo in cui si diffondono, ma solo oralmente, i poemi omerici. L’alfabeto fenicio comprendeva 22 segni consonantici e non annotava le vocali: i Greci conservarono le lettere fenicie, trasformarono in vocali quei segni che esprimevano suoni non esistenti in greco e ne aggiunsero altri, dal suono doppio (ξ, φ, χ, ψ). Inoltre, mutarono il senso

lingua italiana, come risalire alla tipica aspirazione della ‘c’, la cosiddetta gorgia toscana? Ancora, se non esistesse più un solo parlante né una sola menzione, come capire o anche solo immaginare che la parola ‘canzone’ a Firenze si pronuncia ‘hanzone, a Livorno ‘anzone, senza aspirazione, ma pochi chilometri più in su o più in giù si dice in un modo del tutto diverso? Lo stesso scenario si può applicare, nel corso dei secoli, per il greco antico. Di fatto, non siamo in grado di riprodurre la pronuncia originale greca. Non solo perché non la conoscia30­­­­

della scrittura, da sinistra verso destra: i Fenici scrivevano da destra a sinistra. In età arcaica è comunque attestata in greco la scrittura bustrofedica, ovvero un modo di scrivere che alternava regolarmente la sua direzione, una riga da destra, una da sinistra (il termine deriva infatti dal movimento del bue, βοῦς, nell’atto di arare il campo, quando si volta, στρέφω, ad ogni solco). L’alfabeto greco di origine fenicia era più semplice e agevole di quello sillabico: molte più persone furono in grado di apprenderne i meccanismi, di memorizzare e di riprodurre i segni. Ciò fu fondamentale per la diffusione del saper leggere e scrivere nel mondo greco e per la trasmissione e la produzione di testi, non solo letterari, ma anche di uso quotidiano. Nel 403/402 a.C., l’editto di Archino impose ad Atene e alle città alleate un alfabeto ufficiale, di tipo ionico. Grazie all’egemonia culturale di Atene l’alfabeto si diffuse in tutto il mondo greco: a partire dal III secolo a.C. l’alfabeto ‘ateniese’ è attestato fino a Cipro, che aveva sempre utilizzato una scrittura sillabica simile alla lineare A. I Greci trasmisero l’alfabeto anche alle popolazioni con cui entrarono in contatto, primi fra tutti gli Italici delle numerose colonie greche. Anche gli Etruschi elaborarono l’alfabeto greco e lo trasmisero alle popolazioni locali: da qui deriva l’alfabeto latino. Molti secoli più tardi, nell’850 d.C., l’imperatore di Bisanzio affidò a due fratelli di Salonicco, Cirillo e Metodio, il compito di evangelizzare le popolazioni slave: Cirillo avrebbe trasmesso loro un alfabeto greco che partiva dalla scrittura greca corsiva. In epoca successiva, ispirandosi alla scrittura greca maiuscola, il mondo slavo adottò l’alfabeto ancora oggi in uso, impropriamente attribuito a san Cirillo e perciò detto cirillico.

mo. Se anche la conoscessimo, infatti, la lingua italiana non dispone di molte delle caratteristiche fonetiche del greco antico. Le parole greche sono oggi mute come i marmi dell’Acropoli, che raccontano un mondo straordinario senza poter parlare. E, se anche le parole greche parlassero, se sentissimo il loro suono, non lo sapremmo capire e molto faticheremmo a riprodurlo. Il greco era una lingua fortemente musicale: la stessa parola che indica la modulazione dell’accento, prosodia, viene dal greco πρός ᾠδή, ossia ‘canto’. Anche il latino – e da qui l’italiano – accentus deriva da ‘ad cantus’. 31­­­­

Le onomatopee Rarissime quanto curiose sono le onomatopee a noi pervenute che aiutano a rendere l’idea di come fosse effettivamente pronunciata la lingua greca. Sappiamo che, in greco, la pecora faceva βῆ βῆ, ‘bee bee’, il cane βαύ βαύ, ‘bau bau’, da cui deriva il verbo βαΰζειν, ‘abbaiare’ e che per esprimere dolore o meraviglia si sospirava αἰαῖ, ‘ahiai!’ o οἴ ‘ohi!’. Ancora più curioso è osservare come dal greco derivino le onomatopee di quasi tutto il mondo europeo: il cane fa ancora bau bau e la pecora bee bee in pressoché tutte le lingue romanze. In inglese il cane fa invece arf arf se è di piccola taglia, bow wow se è di grandi dimensioni, mentre la pecora fa baa. In russo il cane fa gav gav, in giapponese la pecora meh meh e così via. Se un cane abbaia e una pecora bela in tutto il mondo allo stesso modo, diversa è l’onomatopea con cui sono rappresentati i versi degli animali: ciò dipende proprio dalla presenza o dall’assenza di certi suoni fonetici nelle diverse lingue.

A differenza dell’italiano e della maggior parte delle lingue europee, l’accento greco (ὁ τόνος) non era di tipo intensivo, ma melodico (lo stesso si verifica oggi in cinese, in giapponese e in molte lingue africane). L’accento non consisteva tanto nell’intensità quanto nel tono del suono emesso, nella sua quantità e nella sua vibrazione: era un’intonazione musicale. La vocale tonica non era caratterizzata da un rafforzamento della voce, ma da una sua elevazione. Una vocale accentata era più acuta di quelle atone e l’accento aveva valore puramente semantico: talvolta, è solo la posizione dell’accento a distinguere parole come τόμος, ‘taglio’, e τομός, ‘tagliente’. In italiano, l’accento ha valore intensivo: la parola com-plici-tà è formata da quattro sillabe, l’ultima delle quali pronunciata con maggiore intensità per via della vocale accentata. Anche l’italiano possiede il tono musicale, ma non nella natura delle parole: dipende invece dal loro impiego, se in una domanda, in un’esclamazione o un’affermazione. È il tono della voce a mutare nelle frasi ‘c’è complicità.’ / ‘c’è complicità?’ 32­­­­

/ ‘c’è complicità!’. Non varia invece l’accento del vocabolo libertà, che resta sempre sulla vocale finale accentata. Oltre ad essere una lingua musicale, il greco era una lingua fortemente ritmica. Il ritmo del greco antico è quantitativo e si fonda sull’alternanza di sillabe lunghe e brevi. Lo dimostra la musica greca, oggi per noi un illeggibile e irriproducibile tesoro, come nel caso degli inni ritrovati a Delfi e destinati ad essere cantati e suonati. Ogni vocale greca ha una forma breve (ῐ, ε, ᾰ, ο, ῠ) e una lunga (ῑ, η, ᾱ, ω, ῡ). Unendosi a ι e υ, le vocali formano poi dei dittonghi, cioè coppie di vocali che formano un’unica sillaba (dal greco δίφθογγος, ‘suono doppio’). Una sillaba è breve per natura quando la sua vocale è breve e non è seguita da consonanti; una sillaba è lunga per natura quando il suo elemento vocalico è lungo o la vocale è seguita da consonanti. Ai fini della determinazione dell’accento contano unicamente le sillabe lunghe e brevi per natura, ossia la loro durata. Nell’insieme, questo sistema ritmico e musicale del greco, di origine indoeuropea, era solido e durò per decine di secoli. Questo perché, nonostante oggi sia per noi inaccessibile, la pronuncia del greco era distinta e chiara per i Greci: brevi o lunghe, toniche o atone, tutte le vocali erano percepite nettamente, sicché tutte le sillabe erano distinte e ordinate. L’accento musicale e il ritmo della lingua durarono fino al II secolo d.C., quando iniziò a perdersi la nozione di quantità delle vocali e ad affermarsi un accento di tipo intensivo, come quello del greco moderno: le vocali non sono lunghe o brevi per natura, ma lo diventano se accentate o meno. Le vocali toniche sono ancora oggi in greco pronunciate con un’elevazione della voce, quindi l’accento di altezza non è scomparso: scomparso è invece il concetto di durata. Già dal III secolo d.C. le iscrizioni greche iniziano a confondere la lunghezza delle vocali con errori di grafia tra ε o η oppure tra ο e ω. Il ritmo della lingua si è trasformato, ma la scrittura non lascia intendere nulla. Nemmeno i parlanti se ne dovettero 33­­­­

rendere quasi conto, come nel caso di ogni irreparabile mutamento linguistico. Ed ecco che l’alfabeto greco divenne per noi muto per sempre, pur restando intatto nella sua forma per millenni. L’alfabeto ci è quindi stato consegnato integro dal potere del tempo. Ma se la pronuncia originale è andata perduta per sempre, non si creda che non sia cambiato nei secoli anche il modo di scrivere il greco. Un testo greco risulta già difficile e quasi impenetrabile a noi che oggi possiamo leggerlo ben stampato su carta e avvalerci di punteggiatura, spazi, segni diacritici per orientarci tra le parole. Ben poca difficoltà, considerando che le fonti primarie che ci hanno consegnato i testi greci, dai papiri alle epigrafi, mostrano una pratica scrittoria del tutto diversa – inaccessibile e scoraggiante per la maggior parte di noi moderni (ecco perché non basta un diploma di liceo classico per leggere i marmi del Museo dell’Acropoli e neppure una laurea in lettere classiche, ma servono studi specialistici in archeologia ed epigrafia). Fino al III secolo a.C. era di uso consueto in Grecia la scriptio continua, ovvero un modo di scrivere senza spazi tra una parola e l’altra, solo in maiuscolo e senza segni diacritici (da διακριτικός, cioè ‘distintivo’) che distinguessero le parole tra loro. Tradotto: ad una prima occhiata moderna un testo greco originale sembra consistere di una sola, smisurata, incomprensibile e infinita parola tutta in maiuscolo. Disperante. Quando iniziò a diffondersi l’uso della scrittura minuscola, quella che attualmente leggiamo stampata sui libri, i Greci avvertirono la (legittima) necessità di rendere più decifrabile il testo e inserirono i segni di interpunzione. Furono i grammatici della biblioteca di Alessandria d’Egitto, durante l’età ellenistica seguita all’impero di Alessandro Magno, a codificare i segni grafici giunti fino a noi: spiriti, accenti, punteggiatura. Il loro utilizzo divenne però costante, normale, solo secoli più tardi. 34­­­­

Se quindi oggi possiamo comodamente leggere un testo in greco antico, è tutto merito degli Alessandrini: è a loro che siamo debitori per i segni diacritici e di interpunzione che tanto ci aiutano nella comprensione del greco. Eccoli di seguito illustrati. • Lo spirito, in greco πνεῦμα, ‘soffio’, indica l’assenza o la presenza di aspirazione di ogni vocale o dittongo iniziale di parola. Può essere aspro (῾), o dolce (᾿). Nel primo caso, la parola in questione andrebbe pronunciata con un’aspirazione iniziale simile alla /h/ tedesca, come ad esempio ὕπνος, ‘sonno’. Il secondo caso è originale, perché il greco si cura di annotare anche ciò che non c’è: lo spirito dolce indica l’assenza di aspirazione, come in εἰρήνη, ‘pace’. L’aspirazione, indebolitasi nel corso dei secoli, scomparve dalla κοινή ed è del tutto assente in greco moderno. Si conserva invece in latino, ma solo nella trascrizione delle parole greche: ecco perché i Romani scrivevano Homerus con l’/h/, perché il nome Ὅμηρος, Omero, aveva in greco lo spirito aspro. In italiano, l’aspirazione delle parole greche è del tutto scomparsa, sia nella pronuncia (non ne saremmo comunque capaci) sia nella loro comune trascrizione. • L’accento, che come abbiamo visto è di natura melodica e deriva dalla parola ‘canto’, è segnato sulla vocale tonica della parola. Può essere di tre tipi: acuto (́ ), grave ( ̀) o circonflesso (῀). L’accento acuto indica l’innalzarsi della sillaba su cui è posto, come dimostra il simbolo, un segno che va verso l’alto. L’accento grave indica l’abbassamento della sillaba, come mostra il simbolo, una discesa del tono verso il basso. L’accento circonflesso è composto da un accento acuto seguito da uno grave: indica un movimento di innalzamento di tono seguito da un suo repentino abbassamento. Poiché esprime un ritmo doppio, fatto di due tempi, l’accento circonflesso può trovarsi solo sulle vocali lunghe, a differenza dei primi due che possono trovarsi su qualunque vocale. 35­­­­

• L’apostrofo (’), in greco ἀποστροφή, ‘deviazione’, o ἔκθλιψις, ‘eliminazione’, indica l’elisione, cioè la caduta della vocale finale di una parola quando anche quella successiva inizia per vocale. Ad esempio si avrà οὐδ’αὐτός anziché οὐδὲ αὐτός, così come in italiano usiamo l’apostrofo per scrivere quell’uomo anziché quello uomo. • Lo iota sottoscritto è un piccolo iota scritto sotto le vocali lunghe ᾳ, ῃ, ῳ. Indica che in epoca classica esisteva un dittongo di cui la seconda vocale ι si è indebolita fino a non essere più pronunciata e perciò era spesso omessa, non più trascritta. In epoca bizantina, si prese a scrivere lo iota mancante sotto la prima vocale del dittongo e non accanto ad essa. Oggi la vocale ι sottoscritta non viene più pronunciata nella lettura. • I segni di interpunzione comprendono la virgola (,) e il punto fermo (.), usati come in italiano. Il greco non utilizza la lettera maiuscola all’inizio di ciascun periodo, ma solo all’inizio di unità maggiori, come capitoli interi o brani. Si trovano poi il punto in alto (·) che corrisponde ad una pausa intermedia tra virgola e punto e spesso reso in italiano con il punto e virgola; il punto e virgola (;) che in greco corrisponde invece al nostro punto interrogativo e conclude le domande. Infine, gli editori contemporanei introducono spesso nel testo greco anche segni propri dell’italiano per facilitarne la lettura, come le virgolette, i due punti, il punto esclamativo. Noi moderni siamo naturalmente molto grati agli Alessandrini che si sono presi il disturbo di annotare così scrupolosamente spiriti, accenti e punteggiatura che non esistevano in greco antico per facilitarci nella comprensione della lingua. Purtroppo, alla nostra infinita gratitudine corrisponde altrettanta infinita ottusità: per poter godere dell’aiuto dato dai segni diacritici, dovremmo prima comprenderli. Spesso, quasi sempre, invece non li comprendiamo affatto. Cosicché 36­­­­

la facilitazione alla comprensione del testo data dai segni si trasforma in un ulteriore ostacolo, in una difficoltà preliminare, in un’incomprensione di partenza: dunque in un netto svantaggio. Ora, non siamo così stupidi da aver difficoltà con virgole, spazi e apostrofi: fin lì ci arriviamo. Un altro discorso, un terribile discorso per chi sa di cosa parlo e anche per chi non lo sa, sono spiriti e accenti. Al liceo, l’alfabeto è la prima cosa che s’impara nel corso di poche settimane di lezione di greco. Sapeste l’orgoglio, sapeste la gioia di imparare a leggere e a scrivere una seconda volta nella vita! L’emozione di vergare a mano le prime, incerte lettere in greco, maiuscole e minuscole. La soddisfazione di comporre le prime sghembe sillabe o di traslitterare il proprio nome in un alfabeto non nostro, mostrandolo con inaudita compiacenza ad amici e parenti. L’appagamento per la prima parola pronunciata a voce alta e tremolante – chissà perché non ci si ricorda mai della prima parola detta in una lingua non nostra. Orgoglio, emozione, soddisfazione, appagamento e compiacenza che durano il tempo di voltare la pagina del manuale e affrontare il capitolo con cui si apre ogni grammatica di greco che si rispetti: la fonetica. È lì che si arriva alla dolorosa scoperta che mette fine ad ogni fanciullesca felicità: il greco non si scrive e non si legge solo sapendo il suo alfabeto. Bisogna conoscere e studiare le leggi che presiedono ai suoi accenti e ai suoi spiriti. Proprio così si chiamano, leggi, e quindi impongono dei doveri per avere in cambio dei diritti: solo che quei diritti, cioè gli aiuti alla comprensione, ci risultano quasi sempre inutili perché non li capiamo più. Non ho mai conosciuto un solo studente di liceo classico che non fosse incerto, impacciato, disperato o ottuso di fronte alle leggi dell’accento, quegli accenti che tanto dovrebbero aiutarci, secondo gli Alessandrini, a capire il testo. Io, ad esempio, ero ottusa. E ottusa sono rimasta. Ricordo bene la prima verifica del mio primo anno di liceo. Ricordo la perfezione con cui avevo trascritto, coniugato 37­­­­

e declinato sulla pagina bianca i verbi e i sostantivi richiesti dalla professoressa (ricordo persino quali e mai li dimenticherò: il verbo γράφω, ‘scrivere’, e il sostantivo ἡ οἰκία, ‘la casa’). Soprattutto, ricordo la cieca, folle, implacabile disperazione che mi prese quando mi ricordai che dovevo anche accentare e spiritare quelle parole – ma che diavolo di parola è, ‘spiritare’? Fantasmi. La campanella stava per suonare, la verifica era perfetta, ineccepibile, avrebbe fatto un baffo al manuale. Ma... mancavano gli spiriti e gli accenti. Alzare gli occhi in un compito in classe sarebbe equivalso al pubblico disonore in quella classe di quattordicenni che campavano sulle disgrazie altrui: “non ce la faccio, sono disperata, la tiro lunga, mi viene da piangere”, questi erano i miei unici pensieri. Quindi tenni gli occhi ben incollati al foglio, vagliando rapidamente le possibilità che avevo. Lasciare le parole mutilate, senza spiriti e accenti? Impossibile, sarebbe stato come chi si prova scarpe di pelle nei negozi di lusso e ha le calze con il buco. Metterli a caso? Ma quanto a caso? Passai allora in rassegna il mio bagaglio di conoscenze in materia, un bagaglio ben leggero: “lo spirito dolce è come la pancia della D”. Quei ridicoli trucchetti che chi ha fatto il liceo ricorderà per sempre, ‘la pancia della D’, ‘aliquid che perde le ali’, ‘spero, promitto e iuro che vogliono sempre l’infinito futuro’, etc. Quelle spiritosaggini linguistiche che pure la professoressa un po’ si vergognava a dire e tu giuravi che non avresti mai più ripetuto in vita tua, salvo poi ritrovarti a declamarle con convinzione ai tuoi studenti qualche anno dopo. Perché quelle spiritosaggini linguistiche funzionano. Tuttavia, appurato che lo spirito dolce era quello panciuto e, per proprietà transitiva, l’aspro era quello anoressico, come cavolo si mettessero restava per me un mistero. Per non parlare degli accenti, quelli erano anche peggio. Perché il trucchetto per distinguere acuto e grave non l’avevano ancora inventato in duemila anni di versioni. Il genitivo plurale si scartava, lì andava il circonflesso, questo era certo. Forse pure sul dativo. Ma il duale? Come giustiziare il duale? 38­­­­

Per un momento fui pervasa da una rabbia profonda per gli Alessandrini che gli accenti e gli spiriti li avevano inventati, dato che i greci non li usavano: grazie, grazie davvero, ma la prossima volta non disturbatevi, a posto così. Toccava rassegnarsi. Era tempo di procedere. Fu un’espressione seria e compìta, puntigliosa e zelante, quella con cui apposi gli spiriti e gli accenti sulle parole. La mano andava via veloce svirgolando qua e là sulla verifica, sicura e sprezzante. Naturalmente, sbagliando tutto. Sicuramente in tema di spirito e di accenti, io rappresento un caso di ottusità particolarmente grave, forse quasi clinico. Perché mai li ho imparati come si deve, neppure all’università. Ho molto studiato per rimediare, ho imparato le leggi dell’accento, mi sono esercitata con furia. È stato sempre uno sforzo inane, perché non mi sono mai data pace. Non la pace di non capirli, ma la guerra di non capirne il senso. Se del greco antico non conosciamo e non conosceremo mai l’originale pronuncia, perché ostinarsi ad impararne una fittizia1? Ancora di più, perché ostinarsi a scriverla? Di nuovo, per paradosso, se l’italiano dovesse scomparire dalla faccia della terra e restassero solo testi scritti, come potrebbe qualcuno immaginare o, peggio, codificare una sua pronuncia sulla sola base delle opere di Dante e di Manzoni – e, di questo passo, dei post lasciati cadere nel niente di Facebook o di qualche cinguettio su Twitter? Riguardo agli spiriti delle vocali, aspro e dolce, c’è poco da fare: c’è un po’ da studiare, un po’ da ricordare, molto 1   Nelle scuole italiane è in uso la cosiddetta pronuncia erasmiana, sostenuta da Erasmo da Rotterdam nel Dialogus de recta Latini Graecique sermonis pronuntiatione (Basilea, 1528). Questa pronuncia è detta anche etacismo, perché il nome della lettera η si pronuncia eta. L’umanista Giovanni Reuchlin sostenne un’altra pronuncia, detta reuchliniana o iotacismo, perché la lettera η si pronuncia ita e vi prevale il suono iota. Essa si modella sul greco bizantino e sulla pronuncia del greco moderno ed è adottata, oltre che in Grecia, in altri Paesi.

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da intuire. In generale, anche se si conoscessero gli spiriti di ogni parola greca iniziante per vocale, non saremmo più in grado di pronunciare l’aspirazione che vi corrispondeva: “in italiano non si pronuncia”, così liquidano la vicenda i manuali di grammatica. Molti insegnanti, poi, definiscono ancora spiriti e accenti come ornamenti: svirgole e trattini che rendono forse le parole più eleganti, ma del tutto inutili – come certe belle donne troppo acconciate, quasi contraffatte. Riguardo gli accenti, invece, ci sono molte leggi da imparare, tutte difficilissime, forse riservate a chi possiede un forte senso del ritmo di cui io sono evidentemente sprovvista (del resto non so ballare nemmeno latinoamericano), essendo il greco una lingua musicale. La più comune – e la più sicura àncora di salvezza – è la legge del trisillabismo, detta anche legge di limitazione, poiché procede per esclusione: se l’ultima sillaba della parola è breve, l’accento può risalire fino alla terzultima sillaba (quindi tre possibilità). Se invece l’ultima sillaba è lunga, l’accento può risalire fino alla penultima (due possibilità). La fonte della nostra incomprensione e del disagio che proviamo di fronte agli spiriti e agli accenti del greco è sempre la stessa: la pronuncia della lingua ci è stata sottratta. Le sue caratteristiche di lingua melodica con ritmo musicale e non intensivo ci sono del tutto estranee. Le nostre orecchie non sentiranno mai il greco antico come lingua madre di un qualche essere umano: una delle ragioni per cui impariamo a pronunciare correttamente le parole in italiano da bambini o impariamo a dire buongiorno in lingue straniere senza nemmeno saperlo scrivere. Ecco perché quei simboli grafici, introdotti dagli Alessandrini per facilitare la lettura del greco, sono per noi così difficili: loro il greco lo sapevano leggere; noi no. Allo stesso tempo, gli Alessandrini ci hanno permesso di balbettare il greco, risparmiandoci un eterno silenzio. Possiamo quindi sforzarci di studiare, di capire: la verità è che mai arriveremo 40­­­­

a sentire come doveva suonare una vocale lunga e una breve, un accento acuto, grave o circonflesso. Possiamo solo sentirci a disagio, ed immaginare. Anzi, dobbiamo. Perché, senza lo sforzo richiesto dalla fonetica greca, resteremmo per sempre al di qua della soglia di uno dei tesori più preziosi del greco: la poesia. Nella poesia greca – l’epica, la lirica, la tragedia e la commedia – è contenuto tutto ciò che c’è da sapere sull’intensità del vivere umano. Ma se in italiano conosciamo e sappiamo leggere le terzine, i sonetti, le canzoni, gli endecasillabi, i settenari e i versi sciolti (poiché gli accenti sono i nostri), come si componeva la poesia in greco? E soprattutto, come si leggeva? Il ritmo della lingua era fondato sull’alternarsi di sillabe lunghe e brevi e l’accento delle parole passava in secondo piano: nell’antica Grecia comporre un verso significava distribuire in una maniera determinata le sillabe lunghe e brevi. I poeti, quindi, nella versificazione non si basavano sul tono delle parole, come accade in italiano, ma sul loro ritmo e sulla durata, lunga o breve, delle loro sillabe. Dal periodo arcaico fin dopo l’era cristiana, non hanno mai tentato di far coincidere con un accento i tempi dei loro versi: la collocazione dell’accento era, per il poetare, del tutto indifferente. I Greci percepivano entrambe le cose, sia l’accento della parola sia la lunghezza delle sillabe data dalla metrica scelta: siamo noi che non riuscendo a percepirli entrambi azzeriamo gli accenti delle parole quando leggiamo in metrica. Ciò che contava era il suono melodico della lingua, la sua musicalità come sincero modo di esprimersi, la successione accuratamente scelta di sillabe lunghe e brevi. Per questa ragione, sia che si tratti di Omero, di Pindaro, di Saffo, di Sofocle o di Aristofane, è impossibile affermare che la poesia greca venisse solo recitata: la sua componente musicale esclude una lettura orale paragonabile a quella della poesia italiana. Allo stesso tempo, la poesia greca non 41­­­­

era neppure solo cantata, sebbene talvolta i poeti fossero accompagnati dal suono di strumenti a corda, come la lira o la cetra. La melodia della poesia greca era legata alla natura musicale della lingua, al continuo alternarsi ed abbassarsi della voce del parlante, alla lunghezza con cui ogni sillaba del verso era pronunciata. Una musicalità che si rintraccia, sebbene meno nitida, anche nella prosa. Esistevano precisi schemi metrici, ossia modalità di versificazione basate su ritmi diversi, specifici per generi poetici. L’epica, ad esempio, preferiva l’esametro; la lirica il giambo, il trocheo e i metri eolici; tragedia e commedia il trimetro giambico e metri eolici per il coro. A ciascuno di questi schemi, per noi difficilissimi da comprendere e da rendere, non corrispondeva solo una caratteristica della lingua greca: corrispondeva la libera scelta espressiva del poeta. La possibilità di sostituire ad una vocale lunga due vocali brevi, infatti, rendeva ampio e genuino il ventaglio delle parole che i poeti sceglievano per versificare. La metrica della poesia greca non era quindi una forzatura della lingua: era un modo per esprimere a voce una certa idea di mondo; un mondo musicale. Quando, intorno al III secolo d.C., si perse coscienza della quantità delle sillabe, per preservare questo mondo non restava che un modo: annotarlo. Non importa se muto. In epoca bizantina, la conoscenza delle forme metriche originali era ormai del tutto sfocata, ma i grammatici continuarono a copiare gli schemi metrici, pagina dopo pagina: fu grazie alla loro instancabile e silenziosa tenacia che i resti della metrica greca sopravvissero alla caduta di Costantinopoli e sono giunti fino a noi. E quindi come sono giunti i suoni della poesia greca, concretamente, fino a noi? Se si potesse fotografare il silenzio di una lingua, questa sarebbe la sua immagine: 42­­­­

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È questa la rappresentazione grafica dello schema metrico usato dal poeta Pindaro, per la Pitica X, dedicata al tessalo Ippoclea. È vero che al simbolo (ˉ) corrisponde una vocale lunga e al simbolo (˘) una vocale breve. È vero che, al di sotto di questi simboli, ci sono parole portatrici di senso, scelte per celebrare le imprese di tal Ippoclea e le sue origini mitiche. Tuttavia è altrettanto vero che pur sforzandoci di comprendere il metro, pur accentando a modo nostro, cioè con il tono, le vocali lunghe, non ci avvicineremo mai a come questa poe­ sia venisse pronunciata. Non potremo mai capire davvero perché il poeta scelse quell’alternarsi di brevi e di lunghe e cosa volesse esprimere con le sue scelte: questa è per noi una poesia muta. Abbiamo perduto una parte fondamentale del suo senso. Come pesci in un vaso, muoviamo le labbra senza emettere alcun suono. O almeno alcun suono greco. “Non potremo mai sperare di afferrare davvero l’impeto di una frase in greco, come facciamo in inglese. Non sentiamo la lingua, ora dissonante, ora armoniosa, come risuona di verso in verso in tutta la pagina. Non cogliamo senza colpo ferire a uno a uno tutti quei minuscoli segnali grazie ai quali una frase accenna, cambia, vive. Nonostante ciò, il greco è la lingua che ci tiene schiavi, il desiderio di lei ci seduce e ci attira”: questo scrive Virginia Woolf nel suo splendido saggio Del non sapere il greco. 43­­­­

Ed è proprio così: non potremo mai sperare di fare nostra l’intensità di una sola parola in greco antico. Eppure, continuiamo a studiare questa lingua che ci seduce da millenni, con la forza della sua lontananza che noi, da millenni, scambiamo o barattiamo per vicinanza. Nei testi greci non leggiamo più il mondo greco: leggiamo noi stessi. Lo stesso vale per la musicalità del greco, che ora leggiamo con il nostro suono e il nostro ritmo; ma saremmo disposti a tutto pur di udire, anche solo per una volta, come venisse davvero pronunciata una parola greca. Un vinile senza più giradischi. Perduta per sempre la puntina, non sapendo come più calibrare il braccio, l’unico modo di godere della musica è immaginare il suono.

Tre generi, tre numeri

E noi siamo sponda ma sempre al di qua di quell’isola dove io si dice per dire – per essere – noi. Pierluigi Cappello, da Azzurro elementare

In italiano possiamo dare volto, colore e natura alle cose del mondo in soli due generi: maschile e femminile. Il greco antico possedeva un genere in più: il neutro. In italiano possiamo contarci e misurare la vita in soli due numeri: singolare e plurale. Il greco antico possedeva un numero in più: il duale. Ho cercato a lungo una pagina in greco antico che potesse avvicinare il lettore a questi generi e numeri perduti. Ho sfogliato raccolte, versioni, spulciato testi: mi affannavo, ma nulla mi sembrava adatto a svelare per far capire, per far sentire. Da un lato, è pressoché impossibile trovare una sola riga in greco antico senza che compaia il genere neutro: troppa luce, quindi accecante per chi prova a capire. Dall’altro, l’uso del numero duale è tanto speciale che è pressoché impossibile trovare più di una riga in cui ricorra con costanza: troppa poca luce, quindi accecante (nell’altro senso) per chi prova a capire. Infine, ho scelto uno dei passi più noti di Platone: quello che, comunemente, viene citato per parlare di anima gemella o delle due metà della stessa mela (chissà poi quanti l’avranno letto per davvero, e non sui biglietti dei cioccolatini). Insom45­­­­

ma, ho scelto un passo che parla di amore. O di solitudine. Perché, prima o poi, nella vita l’amore lo sentiamo tutti, così come tutti sentiamo la sua fine, l’abbandono. Sono consapevole che, benché nel testo ricorrano sia parole di genere neutro sia il numero due, questo non sia l’esempio più ortodosso per illustrare le particolarità della lingua greca e il senso del testo stia altrove: nell’amore, appunto. Sarete altrettanto consapevoli, però, che questo che avete tra le mani non è un manuale di grammatica greca, ma un racconto non convenzionale di grammatica greca. Tradurre deriva dal latino traduco, ossia trasferire, condurre al di là. Ecco il senso della mia scelta di proporre questo brano del Simposio: condurre il lettore, che abbia studiato il greco o meno non importa, verso generi e numeri che non abbiamo più. Portarlo al di là, lasciarlo immaginare, lasciarlo sentire per poi capire. Πρῶτον μὲν γὰρ τρία ἦν τὰ γένη τὰ τῶν ἀνθρώπων, οὐχ ὥσπερ νῦν δύο, ἄρρεν καὶ θῆλυ, ἀλλὰ καὶ τρίτον προσῆν κοινὸν ὂν ἀμφοτέρων τούτων, οὗ νῦν ὄνομα λοιπόν, αὐτὸ δὲ ἠφάνισται. In origine, i generi degli esseri umani erano tre, non due come oggi: il maschio e la femmina; ma c’era anche un terzo che li accomunava entrambi: ora questo genere è scomparso, non ne resta che il nome. Ἔπειτα ὅλον ἦν ἑκάστου τοῦ ἀνθρώπου τὸ εἶδος στρογγύλον, νῶτον καὶ πλευρὰς κύκλῳ ἔχον, χεῖρας δὲ τέτταρας εἶχε, καὶ σκέλη τὰ ἴσα ταῖς χερσίν, καὶ πρόσωπα δύ ̓ ἐπ α ̓ ὐχένι κυκλοτερεῖ, ὅμοια πάντῃ. Inoltre la forma di ciascun essere umano era sferica, con la schiena e i fianchi circolari – come una palla, una mela. Aveva quattro mani e altrettante gambe, due volti del tutto identici sul collo rotondo. Ἦν δὲ διὰ ταῦτα τρία τὰ γένη καὶ τοιαῦτα, ὅτι τὸ μὲν ἄρρεν ἦν τοῦ ἡλίου τὴν ἀρχὴν ἔκγονον, τὸ δὲ θῆλυ τῆς γῆς, τὸ δὲ ἀμφοτέρων μετέχον τῆς σελήνης, ὅτι καὶ ἡ σελήνη ἀμφοτέρων μετέχει. Perciò i generi erano quindi tre e di questa natura: il maschio 46­­­­

traeva la sua origine dal sole, la femmina dalla terra, mentre quello che racchiudeva sia la natura maschile sia quella femminile traeva origine dalla luna, che a sua volta è parte della natura sia del sole sia della terra. Ἦν οὖν τὴν ἰσχὺν δεινὰ καὶ τὴν ῥώμην, καὶ τὰ φρονήματα μεγάλα εἶχον, ἐπεχείρησαν δὲ τοῖς θεοῖς, καὶ ὃ λέγει Ὅμηρος περὶ Ἐφιάλτου τε καὶ Ὤτου, περὶ ἐκείνων λέγεται, τὸ εἰς τὸν οὐρανὸν ἀνάβασιν ἐπιχειρεῖν ποιεῖν, ὡς ἐπιθησομένων τοῖς θεοῖς. ὁ οὖν Ζεὺς καὶ οἱ ἄλλοι θεοὶ ἐβουλεύοντο ὅτι χρὴ αὐτοὺς ποιῆσαι, καὶ ἠπόρουν. La loro forza e il loro vigore erano terribili, il loro animo molto superbo, tanto che cercarono di assalire gli dei: ciò che narra Omero a proposito di Oto e Efialte, ossia che tentarono di scalare il cielo e attaccare gli dei, si dice anche di loro – degli uomini palla. Zeus e le altre divinità si radunarono quindi per decidere cosa fare, ma si trovarono in grande incertezza. Μόγις δὴ ὁ Ζεὺς ἐννοήσας λέγει ὅτι ‘δοκῶ μοι’, ἔφη, ‘ἔχειν μηχανήν, ὡς ἂν εἶέν τε ἅνθρωποι καὶ παύσαιντο τῆς ἀκολασίας ἀσθενέστεροι γενόμενοι. Νῦν μὲν γὰρ αὐτούς, ἔφη, διατεμῶ δίχα ἕκαστον, καὶ ἅμα μὲν ἀσθενέστεροι ἔσονται, ἅμα δὲ χρησιμώτεροι ἡμῖν διὰ τὸ πλείους τὸν ἀριθμὸν γεγονέναι· καὶ βαδιοῦνται ὀρθοὶ ἐπὶ δυοῖν σκελοῖν’. Dopo aver a lungo riflettuto, infine Zeus disse: “Penso di aver trovato un modo per permettere agli uomini di vivere senza più essere insolenti: renderli più deboli. Dunque ora taglierò ciascuno di essi in due parti uguali, così si placheranno e saranno più utili per noi, poiché diventeranno più numerosi. E cammineranno in posizione eretta, su due gambe”. Ταῦτα εἰπὼν ἔτεμνε τοὺς ἀνθρώπους δίχα, ὥσπερ οἱ τὰ ὄα τέμνοντες καὶ μέλλοντες ταριχεύειν, ἢ ὥσπερ οἱ τὰ ᾠὰ ταῖς θριξίν. Detto ciò, tagliò gli esseri umani in due, come quelli che tagliano le sorbe (le grandi bacche rosse per preparare le confetture o i liquori) o come quelli che tagliano un uovo sodo con un filo sottile. Ὁ ἔρως ἔμφυτος ἀλλήλων τοῖς ἀνθρώποις καὶ τῆς ἀρχαίας φύσεως συναγωγεὺς καὶ ἐπιχειρῶν ποιῆσαι ἓν ἐκ δυοῖν καὶ ἰάσασθαι τὴν φύσιν τὴν ἀνθρωπίνην. 47­­­­

Da tempo immemore, quindi, è connaturato negli esseri umani l’amore reciproco. L’amore che ci riporta indietro per colmare il desiderio di tornare all’antica natura unita. Il desiderio di farsi, da due, uno solo. [Tratto da Platone, Simposio, 189d - 191d]

Con o senz’anima. Il neutro L’uomo, la donna. Il cielo la terra il mare. La bocca, il pensiero. L’albero, il frutto. Il greco antico aveva un modo intenso di dar volto al mondo. Un modo di valutare la natura miglia e miglia sotto la superficie delle cose. Oltre al genere femminile e maschile, gli stessi in cui scegliamo di dire la vita in italiano, il greco possedeva un genere in più: il neutro. L’opposizione non era fondata sui colori delle parole: rosa e azzurro, come fanno i bimbi, oppure qualcos’altro senza colore, magari bianco o nero. Nemmeno sul loro sesso: sennò quale sarebbe quello dei pensieri? La distinzione del greco antico era tra genere animato, maschile o femminile, e genere inanimato. Le cose della vita erano classificate grammaticalmente tra quelle con o senz’anima. Al genere neutro erano i concetti astratti, τὸ ὄνομα, ‘il nome’, τὸ μέτρον, ‘la misura’, τὸ δῶροv, ‘il dono’, τὸ θέατρον, ‘il teatro’. Al neutro erano certi oggetti, τὸ ὅπλον, ‘l’arma’, τὸ δόρυ, ‘la lancia’, e certe entità, τὸ ὄρος, ‘la montagna’, τὸ ὕδωρ, ‘l’acqua’, τὸ κῦμα, ‘l’onda’. Il corpo umano era neutro, τὸ σῶμα, come alcune sue parti: τὸ ἦτορ, ‘il cuore’, τὸ πρόσωπον, ‘il volto’, τὸ δάκρυον, ‘la lacrima’. Neutra era ‘la primavera’, τὸ ἔαρ, neutri erano ‘i sogni’, τὰ ὀνείρατα. L’opposizione di due generi, l’animato (maschile o femminile) e l’inanimato (neutro) è propria dell’indoeuropeo e si conserva in greco senza sfocature. Anzi, la flessione indoeuropea nemmeno distingueva in maschili e femminili buona parte dei sostantivi animati: erano un genere unico, la stessa prospettiva sul mondo dotato di anima. È il greco ad aver 48­­­­

innovato e fissato la loro differenza con l’uso dell’articolo maschile e femminile, proprio come facciamo in italiano. Il neutro si opponeva nettamente agli altri due generi: un’opposizione che prosegue, al netto di qualche confusione e oscillazione, per tutta la storia del greco antico fino alla κοινή, per arrivare integra e carica di senso al greco di oggi. Per una volta, quindi, una delle particolarità del greco antico non è stata cancellata dalla lavagna del tempo. La distinzione tra animato e inanimato, propria del modo di pensare indoeuropeo, ha mantenuto nei millenni un ruolo grammaticale e funzionale; resistendo alle guerre, alle invasioni, alla storia grande, il neutro è stato consegnato a noi, alla storia piccola. O meglio, è stato consegnato ai Greci (moderni), perché in italiano non lo possediamo più, benché il neutro fosse vitale e fondamentale anche in latino. A differenza di alcune lingue germaniche, il neutro scompare da tutte le lingue romanze che dal latino derivano, come la nostra. Fu nel corso dell’evoluzione linguistica seguita all’arrivo di nuovi popoli che ogni nostra parola dovette insindacabilmente scegliere se essere maschile o femminile. Sotto il peso delle macerie dell’impero romano, ogni nostra parola smise quindi di chiedersi se fosse con o senz’anima. E maschio e femmina divennero il solo modo di distinguersi linguisticamente. Maschile è ‘la vita’ ὁ βίος, maschile è ‘la morte’, ὁ θάνατος. Neutro è il senso di ‘essere vivo’, τὸ ζῷον. In sintesi, il sistema dei tre generi del greco si fondava sulla distinzione antica tra parole di senso animato o inanimato, con o senz’anima. L’opposizione tra maschile e femminile era molto meno netta, distante dal significato originario, talvolta confusa o sbiadita. Al neutro è la stessa parola greca che significa ‘genere’, τὸ γένος. La distinzione tra neutro e maschile/femminile è tuttavia meno banale e più profonda di quanto si possa immaginare. Spesso è difficile rintracciare il senso del genere di una parola greca e afferrarlo; talvolta è impossibile. 49­­­­

Isidoro di Siviglia Parlando di crollo dell’impero romano e di macerie linguistiche, è impossibile non pensare al personaggio più erudito, dotto, strambo e geniale che indagò la lingua nell’Alto Medioevo: Isidoro di Siviglia. Anzi, è proprio in virtù della sua originalità senza pari che san Isidoro di Siviglia (560?-636), dottore della Chiesa, merita una menzione qui. Menzione che sarà sempre troppo breve rispetto all’immensità di libri e di nozioni che Isidoro ha sottratto ai tempi convulsi del Medioevo per consegnarla a noi. Forse potrò rendere giustizia al suo smisurato coraggio e all’altrettanto smisurata sua fantasia solo con un caldissimo invito a leggere le Etimologie o origini, un compendio di tutto lo scibile umano noto all’epoca, dalla medicina alla lingua, dagli animali alla geografia, dalle arti al diritto. Di fatto, le Etimologie di Isidoro furono la prima “enciclopedia” della storia e una delle più forti resistenze della cultura greco-romana al suo crollo definitivo. La sua opera fu letta, tramandata e insegnata per tutto il Medioevo, proprio mentre cambiavano le lingue, i popoli, le religioni, le leggi, gli Stati; mentre il latino diventava sempre più sfocato e del greco si perdeva memoria in Europa occidentale. Nel libro IX, nel primo capitolo dedicato alle lingue dei popoli, è con straordinaria lungimiranza che Isidoro scrive: “Se si chiede in quale lingua parleranno in futuro gli esseri umani, non è possibile trovare risposta. Infatti l’apostolo dice: ‘Anche le lingue verranno meno’. Per questo abbiamo trattato prima le lingue, e solo in un secondo momento parleremo di popoli: perché i popoli sono nati dalle lingue e non le lingue dai popoli”. A pieno titolo Dante Alighieri definisce ardente lo spirito di Isidoro di Siviglia al v. 131 del decimo canto del Paradiso: lo spagnolo non si risparmiò in alcun modo nel suo sforzo titanico di descrivere la realtà solo attraverso l’origine delle parole che la raccontano. Uno sforzo che non fu inutile, se si pensa che per tutto l’Alto Me-

Femminili sono i nomi degli alberi, perché generano vita, come la terra. Neutri sono invece i frutti dell’albero, visti linguisticamente come oggetti. Si ha così ἡ ἄπιος, ‘il pero’, al femminile, mentre τὸ ἄπιον, ‘la pera’, al neutro. Τὸ σῦκον è ‘il 50­­­­

dioevo, mentre le biblioteche bruciavano e i testi antichi andavano perduti, gran parte dell’antichità fu appresa dalle sue Etimologie da popoli, per secoli uniti dalla stessa lingua e ora divisi, che si trovavano smarriti al bivio della frattura tra passato e presente. Difficile negare che molte delle sue etimologie sono bizzarre, fantasiose, alcune proprio inventate di sana pianta (e per questo gustosissime da leggere oggi). Gustose da leggere, ma da non giudicare negativamente: ora disponiamo di ogni scienza e conoscenza, ma quando Isidoro di Siviglia raccolse tutto ciò che poteva, un impero non solo politico, ma soprattutto culturale, stava crollando per sempre sotto i suoi piedi. E quindi, gloria alla sua forza e anche alla sua fantasia. Quanto ai generi delle parole, Isidoro afferma nel settimo capitolo del libro I, dedicato alla grammatica, che sono il maschile e il femminile. Menziona, per il dovere di completezza che contraddistingue tutta la sua opera, anche generi “speciali”, prodotti dalla razionalità umana: il neutro (da ne-uter, ‘né l’uno né l’altro’), il comune, che partecipa di due generi, come canis che sta per ‘il cane’ e ‘la cagna’, e un certo, stranissimo genere epiceno, che esprime entrambi i sessi. Per quest’ultimo, Isidoro si spende in una spiegazione forse fin troppo accurata: fa infatti l’esempio del pesce, che è solo maschile perché “il sesso di tale animale è difficilmente definibile poiché non si distingue né per il portamento né per l’aspetto, ma soltanto toccando l’animale stesso con mani esperte”. (Per l’arte della palpazione del pesce si rimanda ai pescatori di Livorno). Infine, un’ultima nota: nel 2002 papa Giovanni Paolo II ha designato san Isidoro di Siviglia patrono di Internet e di chi vi opera: le sue Etimologie, che raccolgono tutto lo scibile umano, sarebbero antesignane del web e l’indice ordinato dei loro argomenti sarebbe il primo database della storia.

fico’, neutro, ma femminile è l’albero che lo mette al mondo, ἡ συκέα. Femminili sono sia ‘l’olivo’ sia ‘l’oliva’, ἡ ἐλαία, ma neutro è ‘l’olio di oliva’, τὸ ἔλαιον. Neutri sono i diminutivi di parole maschili o femminili, 51­­­­

nel senso affettuoso o dispregiativo di ‘piccino’. Ὁ μόσχος è ‘il vitello’, τὸ μοσχίον è ‘il vitellino’. Ὁ μεῖραξ è ‘il ragazzo’, τὸ μειράκιον è ‘il ragazzetto’. Femminile è l’atto di fare, ‘l’azione’, ἡ πρᾶξις, neutro è il risultato dell’azione, ‘il fatto’, τὸ πρᾶγμα. Femminile è ‘la terra’, ἡ γῆ, femminile è ‘il mare’, ἡ θάλασσα: entrambi sono portatori di vita, di generazione, di fecondità e dunque di anima. Talvolta, nomi che al singolare sono maschili o femminili, quindi animati, diventano neutri al plurale, perché si fanno collettivi nell’esprimere idee astratte. Ἡ κέλευθος è ‘la strada’, al femminile, τὰ κέλευθα è ‘la rotta per mare’ o ‘il viaggio’, al neutro. Ὁ λύχνος è ‘la fiaccola’, maschile, ma ‘la luce’ è neutro, τὰ λύχνα. Oscuro risulta il perché alcune parti del corpo umano siano maschili, altre femminili e altre ancora neutre. Maschili sono ‘l’occhio’, ὁ ὀφθαλμός, ‘il dente’, ὁ ὀδούς, ‘il piede’, ὁ πούς. Femminili sono ‘il naso’, ἡ ῥίς, ‘la mano’, ἡ χείρ. Neutri sono ‘la bocca’, τὸ στόμα, ‘l’orecchio’, τὸ οὖς, ‘il ginocchio’, τὸ γόνυ. In greco antico, molte parole arcaiche, riferite alla terra, all’agricoltura e al bestiame rimandano all’unico genere animato originario senza distinzione di sesso. Ὁ/Ἡ βοῦς è ‘il bue’ come ‘la mucca’, ὁ/ἡ ἵππος è ‘il cavallo’ come ‘la cavalla’. Sono poi l’articolo e l’aggettivo a specificarne il sesso o parole specifiche come ταῦρος, ‘il toro’. In alcuni casi, esiste senza spiegazione logica sia il maschile sia il femminile di una stessa parola: ὁ γόνος e ἡ γονή significano entrambi ‘la discendenza’. Insieme al numero, in greco è il genere a rendere manifesti i rapporti delle parole all’interno della frase. La sua importanza grammaticale è considerevole in una lingua fondata sui casi e gioca un ruolo fondamentale nella sintassi, legando le parole concordanti tra loro. Il genere e il numero sono di grande aiuto per districarsi in un testo greco, una bussola di senso, come tutti gli studenti sanno. 52­­­­

Come si studia la differenza tra maschile, femminile e neutro a scuola? Come si apprende il genere delle parole? In questo caso, non c’è memoria che aiuti (a meno che non si voglia essere così pazzi da memorizzare tutte le parole del vocabolario), né metodo di insegnamento perfetto, neppure il più linguisticamente sensibile e attento. Il fatto che una parola sia maschile o femminile (o neutra) è, in tutte le lingue del mondo, qualcosa di difficilmente riconoscibile e motivabile. La ragione di fondo è che ogni lingua, viva o morta che sia, sceglie in modo quasi del tutto arbitrario il genere delle sue parole. Sono poi i parlanti ad apprenderlo, a sentirlo nel profondo mentre concordano le parole tra loro per esprimersi, spesso senza consapevolezza alcuna. Nessun italiano bada più di tanto alla scelta di un aggettivo maschile o femminile se vuole descrivere una donna un cielo un libro un sogno: il genere delle cose viene da sé. Da dentro, da lontano: dalla coscienza linguistica. Nessun particolare sforzo è richiesto nella scelta dei generi delle parole da usare parlando al telefono con un amico, scrivendo una mail al proprio capo, ascoltando una canzone o guardando un film. Nessuno si interroga mai – eccetto i ficcanasi molesti – sul perché una parola sia maschile o femminile: perché mai dovremmo? Io stessa, scrivendo, non presto alcuna cura particolare nel legare le parole tra loro in rapporti grammaticali. Ancora prima di iniziare a parlare ho imparato che ‘il cane’ è maschile e ‘la nave’ è femminile. L’italiano è la mia lingua naturale e il genere delle parole è tale per natura: è la mia lingua, è dentro di me. Tutto ciò però non vale per le lingue che non sono le nostre, cioè le lingue straniere. E il greco è una lingua straniera, non nostra, che sceglie in totale libertà il modo in cui vedere il mondo ed esprimere il genere di ogni parola. Non essendo la nostra lingua naturale, il genere delle parole non è dentro di noi; e per di più, essendo una lingua morta, non ci sono parlanti superstiti, ma solo testi, eredi muti. Impossibile, perciò, trovare un modo automatico o mecca53­­­­

nico per comprendere il genere delle parole in greco antico. Ciascuna di esse è maschile, femminile o neutra perché tale risultava alle orecchie e soprattutto alla mente di chi le pronunciava. I generi sono quindi proprietà esclusiva della lingua, di ogni lingua; e non c’è nulla che si possa fare a riguardo. Sono un modo del tutto originale di dire il mondo. Ad esempio, ‘il mare’ è maschile in italiano e femminile in francese ‘la mer’. Nessun parlante si chiede il perché o lo considera strano: in entrambi i casi, lo è di natura. Viceversa, ciascun parlante si arrovella e studia e fatica quando si trova ad apprendere una lingua che non è la sua. In questo caso, l’apprendimento dei generi del greco antico è poco diverso da quello dei generi di ciascun’altra lingua. Poco dipende dalla sensibilità; anzi, talvolta ricorrere a paragoni meccanici con la propria lingua madre è fonte di errori e di figuracce colossali. Quasi tutto dipende dall’imprevedibilità. Ci vogliono dunque pazienza, costanza, indulgenza, attitudine. Ci vuole tempo, tutto il tempo che serve. Più si incontra, studiando il greco, una parola, maschile femminile o neutra, più sono alte le probabilità di ricordarne il genere. Soprattutto, serve fiducia, in se stessi e nella lingua, che è quello che è e, proprio per questo, è unica. Un esempio su tutti per spiegare l’arbitrarietà dei generi? Il mio nome, Andrea. Etimologicamente deriva dal greco ὁ ἀνήρ, ‘il maschio’. E questo, di fatto, significa, senza scuse, interpretazioni o possibilità di appello. Caso vuole che io sia una donna. Caso vuole che io sia figlia di un babbo che non conosce tristezza né paura, ma è grato ogni giorno al sole che sorge per la bellezza di vivere, compresa l’illogica, ma gloriosa idea di chiamarmi Andrea (“Andrea e basta”, come tuonò, secondo leggenda, all’addetto sconcertato dell’anagrafe che suggeriva un secondo nome più tradizionale). 54­­­­

Sono però una donna che è stata bambina in Italia e vi assicuro che la mia infanzia, con questo nome da maschio, non è stata uno scherzo; o meglio, è stata uno scherzo continuo per tutti i bambini che mi prendevano in giro. Il mio nome, in Italia, era ed è sentito da maschio, c’è poco da fare. Ciò che mi diceva la mia mamma quando tornavo a casa mortificata era del tutto inutile a consolarmi: ad esempio, che Andrea finisce per a quindi è un po’ femminile (io volevo un nome tutto femminile come le altre bimbe, non solo un po’: per un certo tempo, tra i sei e i sette anni, presi a mentire e a dire in giro che mi chiamavo Silvia, con sommo dolore di mio padre). Soprattutto, inutile dire cento, mille volte che Andrea è un nome da femmina in mezza Europa e in tutte le due Americhe, del Sud e del Nord. Niente ha importanza, neppure il fatto che si veda benissimo che sono una donna. In Italia, Andrea è un nome da maschio e così è sentito da tutti gli italiani, punto. Oltre ogni frontiera del nostro Paese no, ma qui, qui sì. È questo sentimento linguistico dell’italiano a spiegare l’immancabile domanda che mi viene rivolta ogni giorno: “sei straniera?” (i capelli biondi, gli occhi chiari, la pelle bianca non mi hanno mai aiutata: ancora oggi c’è chi mi parla al bar dritto dritto in inglese o in tedesco). Ed ecco che l’Agenzia delle Entrate mi assegnò subito un codice fiscale sbagliato, da uomo, e a diciott’anni ricevetti la cartolina per il militare. Ecco che ogni volta che mi presento seguono, a seconda dei casi, silenzio imbarazzato, vari intercalari come “eh?” o “ah”, precisazioni come “ma Andrea Andrea?”, e nel peggiore dei casi, battute di basso livello. Una volta qualcuno arrivò a chiedermi come mi chiamassi davvero, credendo fermamente che Andrea fosse ‘un nome d’arte’ (perché mai avrei dovuto avere un nome d’arte non si sa). Ecco che ogni volta che uso la carta di credito a me intestata, i cassieri mi guardano come una ladra o, nei casi migliori, mi chiedono se ‘mio marito’ sa che sto facendo shopping con i soldi suoi. Il controllore del biglietto nominativo del treno 55­­­­

emette un colpo di tosse imbarazzato costringendomi a dire “sì, sono proprio io” e l’hostess dell’aereo mi chiede i documenti tre volte, per sicurezza. Ecco che nessun operatore di call center crede davvero che Andrea sia io, così come postini, impiegati di banca, sorveglianti allo stadio o ai concerti; e invece sono io, sì, anche se il mio nome in Italia è un nome da uomo. Ho stimato una media di tre fraintendenti al giorno dovuti al mio nome da maschio. Potete quindi immaginare la mia serenità appena metto piede all’estero (proprio ora che scrivo a Sarajevo e, per tutti, tra nome e colori, sono slava). Eppure, una volta diventata donna sono diventata fiera del nome Andrea, sebbene sia originale, per una grecista, avere un nome etimologicamente errato. Andrea è il mio nome, il mio modo di essere e la mia bandiera, ringrazio il mio babbo per la sua forza e la sua libertà, il suo regalo più bello oltre all’allegria. Poco importa se è da uomo: ricordate quando dicevo che i generi delle cose del mondo sono naturali, dentro di noi? Sono così abituata a portare addosso il mio nome che delle volte mi pare davvero impossibile che un maschio, in Italia, si chiami Andrea!

Io, noi due, noi. Il duale Gli occhi le orecchie le mani i piedi. I fratelli gli amici gli alleati. Gli amanti. Il greco antico, grammaticalmente parlando, contava fino a tre: uno, due, due o più. Oltre agli stessi numeri con cui si contano le cose e quindi si misura la vita in italiano, il singolare -io- e il plurale -noi-, la lingua greca antica possedeva un terzo numero: il duale -noi due-. Due occhi, τὼ ὄμματε, due mani, τὼ χεῖρε, due fratelli, τὼ ἀδελφῶ, due cavalli, τὼ ἵππω. Soprattutto, due persone, τὼ ἀνθρώπω. 56­­­­

Il numero duale non esprimeva una mera somma matematica, uno più uno uguale due. Per il banale far di conto della vita esisteva il numero plurale, proprio come ora. Il duale esprimeva invece un’entità duplice, uno più uno uguale uno formato da due cose o persone legate tra loro da un’intima connessione. Il duale è il numero del patto, dell’accordo, dell’intesa. È il numero della coppia, per natura, o del farsi coppia, per scelta. Il duale è allo stesso tempo il numero dell’alleanza e dell’esclusione. Due non è solo la coppia. Due è anche il contrario di uno: è il contrario della solitudine. Come se ci fosse un grande recinto: chi vi è dentro, al numero duale, sa di esserlo. Chi vi è fuori ne resta irrimediabilmente escluso. Dentro o fuori. Come l’aspetto, anche il duale arriva al greco antico dai granai di senso linguistico dell’indoeuropeo. Si tratta quindi di un numero antico, puro. Un modo di dare numericamente senso al mondo. Il latino, da cui derivano le nostre lingue romanze, subito cedette e del duale non conserva traccia alcuna, nemmeno nei primissimi testi; il duale si trova invece in sanscrito, e oggi in lituano e slavo. Anche le lingue semitiche presentano il duale, fino al moderno arabo. In greco antico il duale non era stranezza. Non era un capriccio matematico della lingua e di chi la parlava. Questo numero era deliberatamente adottato, sia per ciascun caso della flessione nominale sia in ciascuna persona della flessione verbale, tutte le volte che si parlava di due persone o di due cose unite: potevano essere un paio per natura, come gli occhi e le mani, oppure insieme anche solo per un momento, come gli amanti. Un numero che, tuttavia, fin dai tempi di Omero, tende ad oscillare, confondersi, sparire e riapparire a seconda dell’uso – libero, liberissimo – che ne fanno gli autori. Per i Greci il duale esiste laddove è utile al senso, laddove il parlante lo sente. E, tuttavia, gli arcaismi dell’indoeuropeo, resti di una lingua che non esiste ormai più, scompaiono subito dalla lingua corrente. 57­­­­

Il duale era un modo di contare il mondo, di misurare la natura delle cose e le relazioni tra esse. Era un numero molto concreto. Molto umano. Sensibile, logico o illogico a seconda dei singoli casi: così è la vita. Il duale era il meno banale dei numeri, difficile da classificare, impossibile da normalizzare. Quando la civiltà greca si fece più complessa, i numeri della lingua diventarono, da concreti, astratti. Numeri rigorosamente logici. Misurabili senza oscillazioni, senza legami con ciò che ora è insieme ma forse poi non sarà più. Numeri linguisticamente matematici. La lingua cambia quando a cambiare sono coloro che la parlano. Nella maggior parte delle colonie, dove il progresso era stato più rapido e, come spesso accade, linguisticamente frettoloso, il duale si perde fin dalla loro fondazione. Saffo, sull’isola di Lesbo, ignora il duale, così come lo ignorano tutti coloro che parlano il dialetto ionico. Il duale, per contro, si mantiene nella Grecia continentale, contadina, legata alla terra e quindi più dura, più lenta a dimenticare. Questo modo di contare della lingua greca si trova prevalentemente nel dialetto attico del V-IV secolo a.C. Platone usa il duale senza paura, in modo preciso e con regolarità. Viceversa, i poeti tragici e comici lo impiegano in modo strano, incoerente (del resto, la differenza tra tragedia e commedia è più di angolo di visuale sul mondo umano che di contenuto). Tucidide lo evita: le oscillazioni del duale non si adattano alla linea retta del tempo della storia. Gli oratori lo utilizzano, sebbene con molte riserve: un numero troppo poco conforme alla lucidità richiesta dalla prosa politica. Con l’avvento della κοινή, il duale era a poco a poco sparito ovunque, se non in qualche parlata delle campagne. Infine, sbiadito, divenne linguistica dimenticanza. La ripresa del duale da parte degli autori di età imperiale detti “atticisti” che si riproposero secoli dopo di riportare in vita il puro dialetto attico – resti di una lingua che, ancora una volta, non era più la loro – non fu che un gioco senza alcuna 58­­­­

importanza per la storia del greco. Ovunque nella Grecità si era ormai opposta l’unità alla pluralità. Uno contro molti. Uno più uno uguale due, senza eccezioni. Come oggi. Fu una ragazzina livornese di quinta ginnasio cui davo lezioni di greco a fornirmi una delle definizioni più originali del numero duale greco che abbia mai sentito: “Il duale è quella cosa che nelle versioni non si trova mai, perciò la dimentichi appena studiata. Poi accade che una volta, una sola e dannatissima volta, lo trovi nel compito in classe e allora il duale ti punisce così tanto che non lo scordi più”. Sì, bisogna ammetterlo: il duale, nelle versioni scolastiche, non si incontra quasi mai. Quasi, appunto. La misura di questo quasi dipende dal fatto che il greco che studiamo a scuola è lo ionico-attico, il dialetto di Platone e di Pericle. Ed è proprio nella lingua di Atene, del Partenone e dell’Acropoli, che il duale si conserva con maggiore coerenza e frequenza. Inoltre, a codesto quasi contribuisce la natura tutta linguistica e non matematica del duale: non basta trovare menzionate in un testo due cose o persone perché esse siano espresse automaticamente al duale. Anche nel caso si trattasse di un testo di anatomia in cui non si parli d’altro che di orecchie, occhi, mani e piedi, l’uso del duale non è mai scontato: l’impiego di questo numero dipende dalla libera sensibilità linguistica dell’autore. Ecco la mia personalissima definizione di duale: uno più uno uguale uno formato da due, non semplicemente ‘due’: il greco δύο, ‘due’, è unicamente al duale. L’uso di questo numero, e le tante oscillazioni e incertezze che lo hanno accompagnato nel corso della sua storia linguistica condannandolo a irreparabile scomparsa, era legato alle relazioni che l’autore scorgeva tra due entità. Ecco quindi che al duale possono comparire parti del corpo; navi alleate che solcano il mare verso lo stesso nemico; cavalli che tirano lo 59­­­­

Il manuale di grammatica greca La definizione di duale riportata nella pagina successiva proviene dalla pagina 42 di Γράμματα, la grammatica sulla quale, al ginnasio, ho mosso i miei primi, incerti passi nello studio della lingua greca. Edita da Edizioni Cremonese nel 1976, il manuale di grammatica greca è ancora in uso oggi in molti licei classici. Difficile definire i miei primi passi su quel manuale una passeggiata. Fu invece un percorso tutto in salita, come dimostra il volumereliquia che mi ha seguita a Livorno e fin qui a Sarajevo, trasloco dopo trasloco, laurea dopo diploma, vita dopo vita: la copertina stracciata come dopo una libecciata a forza di infilarlo in zaini prima e in borse poi, le pagine superstiti zeppe di annotazioni di ogni genere, colori di evidenziatori tutti diversi, sottolineature e cerchiature disperate, oltre ai nomi di ex fidanzatini annotati a margine di qualche declinazione e, soprattutto, all’urlo di dolore “io odio il greco!” accanto alle eccezioni del perfetto (solo un momento di debolezza, ça va sans dire, se poi mi sono laureata con soddisfazione e follia in lettere classiche). Difficile definire Γράμματα un bel libro. Come tutti i manuali, fa il suo mestiere: insegna a maneggiare. A stare a galla e a non affondare. La veste grafica non è delle più invitanti – una serie infinita di tabelle e regole in bianco e nero – e nessuno spazio è concesso al senso della lingua. Certo è un prontuario chiaro, senza sbavature, persino comodo nell’estremo rigore che impone nello studio della lingua greca, cui ancora oggi ricorro nel caso qualcosa mi sfugga. In altre parole, so che tutto quello che c’è da sapere della grammatica, si trova lì dentro. Infine, la carta di Γράμματα, ruvida e semplice, è bellissima e ora carica del profumo di pensieri pensati cento e mille volte. Per la stesura di questo libro ho consultato inoltre le dieci grammatiche più in uso negli attuali licei classici. I titoli sono diversi – quasi tutti, di grazia, ormai in alfabeto latino e non greco –, spesso accom-

stesso carro da guerra; fratelli gemelli, sposi, soldati alleati, divinità. Oppure, no. Il suo utilizzo dipendeva dalla connessione e dal rapporto che il parlante rintracciava o non rintracciava tra due entità: un numero concreto, si diceva, un numero umano e non matematico. Un numero per dare senso alle relazioni tra cose e 60­­­­

pagnati da aggettivi come nuovo o nuovissimo e corredati da tanto innovative quanto misteriose espansioni online. Di fatto, poco o nulla è cambiato nella didattica liceale dai tempi di Γράμματα. Certo si nota (e molto, molto si apprezza) una maggiore attenzione alla civiltà greca, “ma non c’è mai tempo perché siamo indietro con il programma”, mi ripetono sempre i miei studenti. Certo le impaginazioni sono più moderne, colorate, smart. Ma il metodo di insegnamento è mutato poco o nulla: sono manuali, quindi restano da maneggiare con costanza e tanta fatica. La sensibilità linguistica è quasi sempre affidata al docente o rimandata ad altra data (pare non esserci fretta, del resto il greco antico è lingua morta da tanto, tanto tempo). Una menzione a sé merita Athenaze, edito nel 2009 dall’Accademia Vivarium Novum (con gli auspici dell’Istituto Italiano per gli Studi Filologici), che si propone di insegnare il greco con il metodo naturale: a piccoli passi, come i bambini apprendono l’inglese alla scuola elementare, tramite storielle e racconti immediati corredati da disegni e vignette. I capitoli sono divisi in paragrafi che narrano la vita del contadino Diceopoli e della sua famiglia, seguiti da semplici esercizi e notazioni di grammatica. Il greco viene dunque insegnato come lingua viva, senza la particolare ossessione per le regole grammaticali, il cui apprendimento, secondo questo metodo, dovrebbe venire da sé, con il tempo e la dimestichezza. Il metodo di Athenaze mi ha sempre incuriosita per il fatto che il greco antico, dato per morto da millenni, è qui insegnato come lingua viva e vegeta. I pareri dei miei alunni che l’hanno adottato sono stati altrettanto curiosi: alcuni entusiasti, altri smarriti. Certo è che il cambio di insegnante alla fine dell’anno scolastico, come troppo spesso accade nella scuola italiana, e quindi il passaggio ad una grammatica convenzionale rappresenta per gli studenti del metodo naturale una sconcertante e innaturale tragedia.

persone, se quel senso c’era. Un numero non misurabile, mai imposto per legge grammatica dalla lingua greca antica, ma sempre liberamente scelto da chi in quella lingua parlava e scriveva. Cosa si apprende del duale, e di questo modo di dare un senso numerico al mondo, al liceo classico? Una riga. In tutti 61­­­­

i manuali scolastici che ho consultato e su cui si affannano – proprio adesso, mentre scrivo, mentre leggete – i millennials del liceo classico per apprendere una lingua di duemila anni fa, al duale è riservato il privilegio di una riga; o mezza. Una riga collocata in un punto sperso della pagina un attimo prima delle decine e decine di tabelle per apprendere a memoria declinazioni e coniugazioni. La riga in questione suona quasi sempre così: “In greco si distinguono tre numeri. Singolare, duale e plurale. Il duale serve a designare cose o persone, che in natura si trovano accoppiate o che lo scrittore considera come tali”. Fine. Sarà per questo che l’esistenza di un numero tanto prezioso di senso scompare subito dalla memoria degli studenti e quasi mai arriva a sfiorare la loro sensibilità linguistica (noi, parlanti italiano, di questo senso di unità duplice siamo linguisticamente privi). Tradotto, grazie all’unica versione in cui vi imbatterete nel duale e pagherete pegno della dimenticanza e arrivederci (come mi diceva la mia giovanissima allieva, chiedendo scusa a me e alla grammatica greca tutta fino ai bizantini, quasi fosse tutta colpa sua). Ma il gioco dell’oblio dovuto alla poca cura prestata alla sensibilità linguistica nell’apprendimento è fin troppo facile: un gioco da dilettanti, oserei dire, ma senza divertimento. Paradossalmente, al liceo si studiano con costanza le forme di duale di tutti i sostantivi e tutti i verbi, sempre e rigorosamente declinati e coniugati ai numeri singolare, duale e plurale. Le desinenze dei sostantivi al duale sono due, una per il caso nominativo, accusativo e vocativo, l’altra per il genitivo e il dativo: ad esempio, nella prima declinazione si ha τὰ μοῖρα, ‘i due destini’, ταῖν μοίραιν, ‘dei due destini/ai due destini’. Anche le desinenze dei verbi sono due, seconda e terza persona duale: ad esempio, al modo indicativo στέλλετον ‘voi due spedite’, στέλλετον ‘loro due spediscono’. Ne deriva che il duale è tanto facile da ricordare che ancora più facile è dimenticarlo. Solitamente, ciò avviene appena girata la pa62­­­­

gina. Archiviato. Io stessa, al ginnasio, andavo un po’ a memoria, un po’ ad orecchio, un po’ tentavo la sorte sperando di non incontrarlo mai. Il fatto è che, quando s’incontra un testo greco che ne racchiude davvero il senso, il duale lo si è dimenticato già da un pezzo. Scrivendo questo capitolo, mi sono fermata più volte a chiedermi perché mai a scuola si apprenda al numero duale ogni verbo e ogni parola se il suo uso è così raro, così ambiguo, così intimo, così poco classificabile. Mi sono presa del tempo per riflettere sul senso del duale e per raccontarlo qui (i manuali universitari accrescono il privilegio concesso a questa categoria grammaticale del greco antico con ben due righe due di spiegazione anziché una). Il duale sembrava sempre sfuggirmi, oscillando nella mia mente tanto quanto oscilla nei poemi di Omero. Di fatto, scrivendo mi sono resa conto che il duale non l’avevo davvero capito mai. L’avevo sempre liquidato come una forma rara, eccentrica, illogica, che sfuggiva ad ogni normalizzazione e quindi ad ogni risposta. L’avevo sempre percepito come un modo grammaticalmente originale del greco antico di contare fino a tre: singolare, duale e plurale. Avevo sempre pensato che, nel caso l’avessi incontrato in un testo, le regole apprese mi sarebbero bastate per decifrarlo e dargli un senso. Soprattutto, avevo sempre creduto che i numeri grammaticali in greco fossero uno, due, tre o più. Mi sbagliavo. Mi sbagliavo di molto. Il duale ha senso solo perché il greco antico sentiva il bisogno di esprimere linguisticamente qualcosa di più di un numero matematico, qualcosa che noi abbiamo perduto, impegnati a far linguisticamente di conto con il pallottoliere della vita in mano: il senso delle relazioni tra le cose e tra le persone. Finalmente compreso il senso libero e assoluto di questo numero, non è stato difficile spiegarmi perché, a scuola, si studia il numero duale di ogni parola di greco. 63­­­­

Lo si studia in caso di. Lo si studia per precauzione, per previdenza, nel caso fortuito – o malaugurato – che un autore scelga di esprimere al duale una relazione tra due occhi due buoi due amici due isole due mari due amici due sorelle due venti: una relazione tra qualsiasi cosa. In sintesi, a scuola si studia il duale in caso di incontrarlo per caso. Il risultato è che il senso del duale, una delle più arcaiche, originali e genuine eredità dell’indoeuropeo, sfugge oggi quasi a tutti, sopravvissuto in una riga da manuale, una riga che a noi non dice più nulla. In linguistica, come nella comunicazione contemporanea fatta di slide, sms e tweet, è il principio di economia a vincere sempre: nel caso di più forme con lo stesso senso prevale la più semplice, la più veloce, la più immediata. E pazienza per la banalizzazione linguistica: di questo passo, temo che nel giro di dieci anni perderemo l’uso della parola e ci esprimeremo solo per emoticon. Così dovette andare anche per il duale del greco antico: il suo senso di duplicità sparì, confuso con il generico plurale. Ritenuto inutile, fu prima abbandonato, poi dimenticato. Coloro che hanno avuto il raro privilegio di amare davvero sapranno sempre distinguere la differenza di intensità e di rispetto che intercorre tra pensare “noi due” e “noi”; ma più non lo sanno dire. Per dirlo, infatti, ci vorrebbe il duale del greco antico.

I casi, ovvero un’ordinata anarchia delle parole

I tabù dismessi, e l’aggirarsi tra l’uno e l’altro, bagnato da vari mondi, a caccia di significato, in fuga dal significato. Paul Celan, da Filamenti di sole

Flessiva, dal latino flectere, ‘piegare’, ‘curvare’. Quindi, ‘cambiare direzione’. Ecco il meccanismo delle parole in greco antico, lingua flessiva. Parole libere, in costante mutamento di significato nella loro flessione, in continua evoluzione di senso da un caso all’altro della loro declinazione. Il caso delle parole greche non ha proprio nulla di casuale: è una precisa categoria sintattica della lingua. I casi sono le diverse forme che uno stesso nome assume per esprimere le sue diverse funzioni all’interno della frase. Ecco perché il greco è una lingua flessiva: il ruolo sintattico delle parole è affidato al mutare, al piegarsi della loro ultima parte: la desinenza. In una favola di Esopo i marinai esultano per essere scampati alla tempesta senza considerare che il mare ne potrà riservare loro altre ancora. E la parola ‘tempesta’, ὁ χειμών, compare nel testo in forme, cioè in casi diversi, proprio per esprimere funzioni diverse: il complemento oggetto, τὸν χειμῶνα; il genitivo τοῦ χειμῶνος, in una costruzione specifica detta genitivo assoluto. Ecco il testo della favola: 65­­­­

Ἐμβάντες τινὲς εἰς σκάφος ἔπλεον. Γενομένων δὲ αὐτῶν πελαγίων, συνέβη χειμῶνα ἐξαίσιον γενέσθαι καὶ τὴν ναῦν μικροῦ καταδύεσθαι. Τῶν δὲ πλεόντων ἕτερος περιῤῥηξάμενος τοὺς πατρῴους θεοὺς ἐπεκαλεῖτο μετ᾿ οἰμωγῆς καὶ στεναγμοῦ χαριστήρια ἀποδώσειν ἐπαγγελλόμενος, ἐὰν περισωθῶσι. Παυσαμένου δὲ τοῦ χειμῶνος καὶ πάλιν καινῆς γαληνῆς γενομένης, εἰς εὐωχίαν τραπέντες ὠρχοῦντό τε καὶ ἐσκίρτων, ἅτε δὴ ἐξ ἀπροσδοκήτου διαπεφευγότες κινδύνου. Καὶ στεῤῥὸς ὁ κυβερνήτης ὑπάρχων ἔφη πρὸς αὐτούς· Ἀλλ᾿, ὦ φίλοι, οὕτως ἡμᾶς γεγηθέναι δεῖ ὡς πάλιν, ἐὰν τύχῃ, χειμῶνος γενησομένου. Ὁ λόγος διδάσκει μὴ σφόδρα ταῖς εὐτυχίαις ἐπαίρεσθαι τῆς τύχης τὸ εὐμετάβλητον ἐννοουμένους. Alcuni, imbarcatisi su uno scafo, stavano navigando, ma quando si trovarono in mare aperto, scoppiò una tempesta e per poco la nave non affondò. Uno dei marinai, strappate le vesti, prese ad invocare gli dei della sua patria con lacrime e gemiti, promettendo che avrebbe offerto loro sacrifici di ringraziamento se solo si fossero salvati. Quando poi la tempesta cessò e il mare ritornò tranquillo, i marinai si misero a far festa ballando e cantando di gioia per il fatto di essere inaspettatamente sani e salvi dal pericolo corso. Fu allora che il saldo timoniere disse loro: “Compagni, è giusto essere così felici, ma solo se si tiene in conto che potrebbe capitare una nuova tempesta”. Questa storia ci insegna a non esultare con troppa intensità per le proprie fortune, ma a tener sempre presente la facilità del mutamento della sorte. [Esopo, I naviganti, in Favole]

L’italiano, diventando italiano dal latino, a sua volta lingua flessiva, ha perduto l’originaria declinazione delle parole: mantenuta solo in alcuni casi, ad esempio per distinguere le funzioni sintattiche dei pronomi personali: ‘io’ o ‘tu’ valgono da soggetto, ‘me’ o ‘te’ da complemento oggetto, ‘mi’ o ‘ti’ sono complemento di termine, ‘a me’, ‘a te’. Viceversa, la nostra lingua utilizza quasi sempre per dare senso alle parole all’interno della frase le preposizioni. Per questa ragione il sistema dei casi e la scelta di sintesi del greco, che racchiude nel mutamento finale di una parola tutto ciò che c’è da dire, possono sembrare complessi, ambigui, a noi, che di fronte ad un nome greco siamo sempre 66­­­­

tenuti a riflettere, a pensare cosa quella parola ci vuole dire per davvero attraverso quell’ultima, minuscola sillaba. Eppure il sistema dei casi era una scelta innanzitutto di semplicità e di chiarezza per loro, i Greci, che in quell’ultima sillaba finale scorgevano la funzione e tutto il senso di una parola all’interno di un discorso. Non è forse altrettanto complesso, ambiguo, il nostro utilizzare la stessa particella per dare alle parole significati sintattici diversi? Consideriamo la stessa preposizione da (imparata insieme alle altre da bambini con l’imbattibile ritornello di-ada-in-con-su-per-tra-fra) utilizzata con lo stesso verbo, ma in frasi diverse: • arrivo da Livorno • arrivo da Carlo • arrivo da amica • arrivo da una settimana (faticosa) • arrivo da sola. In queste frasi, il complemento formato dalla preposizione “da” può indicare che provengo da un luogo (Livorno); o che sto arrivando per stare con qualcuno (il mio cane Carlo); oppure che ho intenzioni amichevoli, che ‘vengo in pace’, da amica; ancora, che sono reduce da giorni impegnativi; infine, che sono sola, non accompagnata. Perciò, se il sistema dei casi del greco antico è complicato e il significato delle parole delicato, non è altrettanto complicato e delicato il nostro modo di comunicare, e talvolta di fraintendere? Come sempre, tutto sta nella sensibilità linguistica di chi usa la sua lingua per comunicare il suo mondo. Il greco è una lingua sintetica: il valore delle parole sta (quasi) tutto nella loro parte finale, il caso in cui si presentano, chiarissimo per i sinteticissimi Greci. L’italiano è una lingua per lo più analitica: il valore delle parole dipende dalle preposizioni, dagli avverbi e dai verbi ausiliari: chiarissimo per noi, analisti di senso di professione (si spera). 67­­­­

Tutte le lingue del mondo Da quando, secondo l’Antico Testamento, i discendenti di Noè vollero sfidare il cielo costruendo la torre di Babele e per questo furono puniti, si stima che al mondo siano oggi parlate circa 4.500 lingue differenti, numero che sale a ben 20.000 se si considerano quelle particolari o estinte: insomma, il disastro linguistico accaduto a Babilonia fu davvero bello grosso. Dal punto di vista della loro tipologia, le lingue si classificano in flessive, nelle quali il senso delle parole è racchiuso nel mutamento finale delle parole: il greco, il tedesco, il latino con lupus (‘il lupo’), luporum (‘dei lupi’). Ci sono poi le lingue agglutinanti, in cui esiste una radice di parola che ne esprime il senso base e una serie di particelle che ne sono i modificatori, come l’ungherese e il turco. Ecco allora la parola azteca nokalimes, ‘le mie case’, che è formata da no (mio) + kali (casa) + mes (plurale). Da un capo all’altro della sintesi ci sono le lingue isolanti, in cui ogni parola è invariabile e ha un significato autonomo: il suo valore dipende esclusivamente dalla disposizione precisa nella frase. Ad esempio, in cinese troveremo wǒ ài tā , dànshi tā bù ài wǒ ovvero ‘io amare lei ma lei non amare io’, traducibile in italiano con ‘io la amo, ma lei non ricambia il mio amore’. Infine, esistono le lingue incorporanti, in cui una frase è tutta contenuta in una sola, lunghissima parola, come nell’eschimese angyaghllangyugtuq: ‘egli vuole comprare una grande barca’; e chissà quanti innumerevoli fraintendimenti forse si risparmiano così.

La flessione delle parole e il sistema dei casi del greco deriva dall’indoeuropeo, lingua non solo flessiva e sintetica, ma anche di natura agglutinante. Dal latino ad e gluten, ‘colla’, ossia incollare, unire, legare. Quindi, ‘attaccare qualcosa a qualcos’altro’. L’indoeuropeo era una lingua complessa, sintetica fino alla pienezza delle parole, alla sazietà del senso. Non solo la funzione sintattica delle parole era affidata ai casi, ma le 68­­­­

parole stesse erano formate legando tra loro prefissi, suffissi e altre parole. Una caratteristica che il greco antico conserva nell’uso delle particelle davanti alle parole, capaci di variarne, talvolta di molto, il senso, come ad esempio ἀπό, ‘da’, ἐν, ‘in’, ἐπί, ‘contro’/‘verso’, πρό, ‘prima’/‘davanti’, περί, ‘intorno’. L’indoeuropeo possedeva ben otto casi, cioè otto forme diverse della stessa parola per esprimere funzioni diverse: il nominativo, il vocativo, l’accusativo, il genitivo, il dativo, il locativo, lo strumentale, l’ablativo. La maggior parte di essi aveva valore logico: il nominativo indicava il soggetto della frase, il genitivo il complemento di specificazione, il dativo il complemento di termine e così via. Tre casi hanno invece valore puramente concreto: il locativo indicava il luogo in cui si era, l’ablativo il luogo da cui si proveniva e lo strumentale il mezzo con cui si realizzava qualcosa. Tutte le lingue indoeuropee hanno, nel corso della loro storia, ridotto il numero dei casi. Tuttavia, nessuna lingua ha scelto di ridurre, di sintetizzare così tanto come il greco: lingue più tarde, come lo slavo, l’armeno antico e moderno, hanno scelto di conservare di più. Il latino possiede ancora sei casi. Il fenomeno per cui un caso scompare e le sue funzioni si trasferiscono in un altro è detto sincretismo. In greco l’ablativo si è fuso con il genitivo, mentre locativo e strumentale sono confluiti nel dativo. Nessun popolo, quindi, ha scelto tanto la sintesi per indicare la funzione sintattica delle parole come i Greci: il greco antico possiede solo cinque casi. Eccoli. • Il nominativo, ὀνομαστικὴ πτῶσις, è il caso che serve per dare un nome alle cose. Già la sua definizione greca indica che il nominativo è il caso del ‘chiamare’, della denominazione. Serviva quindi per indicare concetti astratti o concreti, oggetti, persone, parole: ἠ μοῖρα significa ‘il destino’, ὀ καρπός ‘il frutto’. La sua funzione più importante è quella di esprimere il soggetto della frase, cioè l’elemento che compie o subisce l’azione espressa dal verbo. 69­­­­

• Il genitivo, γενικὴ πτῶσις, è il caso che serve per distinguere le cose. Indica propriamente la specificazione, grazie a quel di davanti ad un nome che lo definisce, che stabilisce confini e steccati delimitandone il senso. È perciò il caso del possesso, della limitazione, della partizione. In italiano si rende il più delle volte con il complemento di specificazione, τὸ θέατρον τῆς κώμης, ‘il teatro del villaggio’. In greco il genitivo ha anche un valore partitivo utilizzato di frequenza per esprimere l’idea di una parte di qualcos’altro, più ampio e più grande, o l’ambito ristretto all’interno del quale ci si riferisce, separando e scegliendo: πολλοὶ τῶν ἡγεμόνων, ‘molti fra i condottieri’. Questo caso può inoltre esprimere un valore di appartenenza (ἠ ἀγορὰ τῶν Ἀθηναίων, ‘l’agorà degli ateniesi’); di pertinenza (ἐστι τοῦ πολίτου, ‘è compito del cittadino’); di qualità o di materia (ἠ κόμη χρυσοῦ, ‘i capelli d’oro’). Ancora, il genitivo indica una valutazione di stima, di valore e di prezzo (ἡ ἀξία τῆς μιᾶϛ δραχμῆς, ‘il valore di una dracma’), di misura (ἡ ὁδὸς τεττάρων σταδίων, ‘la strada è lunga quattro stadi’) e di origine (ὁ ἄνθρωπος τῆς γηνῆς, ‘un uomo nativo della stirpe’). A tutte queste funzioni del genitivo propriamente detto si aggiungono quelle ereditate dall’ablativo indoeuropeo: in generale, il concetto di derivazione o di provenienza. Ecco che allora in genitivo è espresso in greco anche il moto da luogo, il complemento d’agente e di argomento preceduto da specifiche preposizioni. • Il dativo, δοτικὴ πτῶσις, è il caso che serve per indicare dove vanno le cose. Indica propriamente il destinatario dell’azione espressa dal verbo, ciò verso cui si va o ci si imbatte. Il suo valore originale, da cui prende il nome, è legato al concetto di dare e, per estensione, esprime nei confronti di chi o di che cosa un’azione è compiuta. In italiano si rende con il complemento di termine: τῇ στρατιᾷ, ‘all’esercito’. 70­­­­

A questi valori sintattici propri del dativo, si aggiungono quelli del locativo e dello strumentale indoeuropei, due casi estremamente concreti. Si esprimono dunque in dativo, per mezzo di preposizioni, anche lo stato in luogo (τῇ νήσῳ, ‘sull’isola’), il tempo determinato (τῇ ἡμέρᾳ, ‘di giorno’), e anche il mezzo, il modo, la compagnia e la causa efficiente. Infine, il greco prevede una costruzione tutta particolare con l’impiego di questo caso, detta dativo di possesso: qui vi compare il verbo essere, mentre la persona che ‘possiede’ è espressa al dativo (che diventerà il soggetto nella traduzione italiana). Questa forma è presente anche in latino ed è detta sum pro habeo, letteralmente ‘io sono al posto di io ho’. Troveremo quindi in greco εἰσιν μοι δύο παῖδες, ‘due figli sono a me’, al dativo, ovvero, in italiano, ‘io ho due figli’. • L’accusativo, αἰτιατικὴ πτῶσις, è il caso che serve per indicare il viaggio delle cose verso la loro meta. Simmetrico al nominativo che esprime il soggetto, l’accusativo esprime propriamente il complemento oggetto, completando il senso della frase e rispondendo alla domanda chi?, che cosa?: τὴν ναῦν, ‘la nave’. In greco il suo valore originale indica un movimento in avanti, verso un luogo, un fine, un tempo, una persona. Ecco quindi che in accusativo sono espressi i concetti di moto a luogo (τὰς Δελφιάς, ‘verso Delfi’), di tempo continuato (τὴν νύκτα, ‘durante la notte’), di moto per luogo (τὴν ἀτραπόν, ‘lungo il sentiero’). • Il vocativo, κλητικὴ πτῶσις, è il caso per chiedere attenzione alle cose, chiamandole. Spesso preceduto dall’esclamazione ὦ, ‘oh!’, il vocativo chiama in causa direttamente, con la voce e con la parola, una persona o un’entità per una supplica, una preghiera, una domanda, una risposta, un ordine, un’affermazione; o anche solo per chiamare qualcuno con amore, come quando un bambino dice ὦ μῆτερ, ‘mamma!’. 71­­­­

L’ordine in cui una lingua prevede la precisa disposizione sintattica delle parole all’interno della frase è detto, dal latino, ordo verborum: l’ordine delle parole. Il sistema dei casi del greco antico, in grado di indicare senza sfumature la precisa funzione delle parole, produce uno spettacolo formidabile1: l’ordine delle parole nella frase non ha un preciso valore logico, come accade in italiano, ma solo espressivo, dunque tutto personale. In greco l’ordine delle parole è libero, assoluto, affrancato da ogni obbligo sintattico. Certamente le parole accessorie si pongono quasi sempre dopo la parola principale e le parole connesse tra loro per significato si trovano quasi sempre accanto. Viceversa, alcune parole legate tra loro dal senso risultano talvolta dissociate, lontane nel testo, per la volontà dello scrittore di produrre particolari effetti espressivi. In generale, esistono quindi in greco antico modi più o meno ricorrenti, prevedibili, per raggruppare le parole nei loro diversi casi all’interno della frase. Ma il greco non ha

1   Formidabile, dal latino formido, ‘timore’, ‘spavento’, è una delle mie parole preferite. Propriamente, come altre tutte particolari, è una vox media, ossia una parola che perde il suo valore originario per polarizzarsi in due significati entrambi corretti ma di senso opposto: buono/cattivo, positivo/ negativo. Sta poi a chi parla la lingua, o al traduttore, scegliere il giusto significato di una vox media: una grande responsabilità cui ci obbliga il linguaggio. E così formidabile può indicare qualcosa di tanto terribile da fare paura, o qualcosa di talmente bello da fare paura. Insomma è un brivido, questa parola. Ancora, in latino fortuna, ‘il caso’, può indicare sia la sorte buona che quella cattiva; tempestas, ‘la tempesta’, si riferisce al generico tempo atmosferico o a una violenta burrasca; e si dice monstrum, ‘il mostro’, qualunque cosa, bella o brutta, che susciti uno stupore da lasciare a bocca aperta. In greco antico, sono ad esempio voces mediae ὁ αἴτιος, ‘il responsabile’ di qualcosa di positivo o negativo, fino ad indicare il ‘colpevole’; ὁ κίνδυνος, che è sia ‘l’evento casuale’, ‘l’avventura’, ma soprattutto (per i più pavidi nei confronti del futuro) ‘il pericolo’; il verbo πάσχειν che indica ‘ricevere qualcosa in sorte’ può significare tanto ‘godere’ quanto ‘soffrire’; infine la voce ἡ ἐλπίς, ‘l’attesa’, che oscilla tra ‘speranza’ e ‘ansia’, come ognuno di noi ha imparato, aspettando.

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mai imposto ai suoi parlanti un’unica, obbligata possibilità di mettere in fila le parole bandendone ogni altra. Soprattutto, mai un determinato ordine serve ad esprimere una funzione sintattica: ogni parola greca che leggiamo oggi nei testi si trova proprio lì – e non altrove – per la specifica volontà espressiva dello scrittore. Una volontà quindi tutta individuale e una scelta tutta irripetibile. E questo accade proprio per il modo singolare in cui la lingua greca impiega il suo sistema dei casi. Un’ordinata anarchia delle parole. Una libertà di significato espressivo – slegato da ogni funzione prettamente sintattica o logica – senza pari. In nessun’altra lingua flessiva – né in latino né in sanscrito – l’ordine delle parole è più libero e quindi privato come in greco antico. La letteratura greca, grazie a questa eccezionale libertà, ha guadagnato quell’agilità e quella drammaticità – nel senso di vita, di sincerità – che tanto ci seducono (o tanto ci crucciano) leggendo le opere dei grandi scrittori. Si pensi ad un serrato dialogo di Platone, alla tensione del coro di una tragedia di Sofocle, al dolore d’amore racchiuso in un verso di Saffo. In sintesi, il greco antico, lingua della molteplicità dei casi e delle mille anomalie, ha conservato l’essenza più intima dell’indoeuropeo: una flessione delle parole tanto ricca e portatrice di senso da permettere che ogni parola abbia la sua autonomia, ovunque si trovi, nella frase. In greco la libertà è assoluta e perciò ogni parola messa accanto ad un’altra ha valore espressivo, stilistico: parlante. Perché anche l’ordine in cui le parole, declinate nei loro casi, sono disposte nella frase è un mezzo attraverso cui la lingua ci parla, ci vuole dire qualcosa; proprio a noi, che in italiano siamo tenuti a scrivere, parlare e dunque a pensare rispettando un ordo verborum preciso, rigido, ma fondamentale per capire e per farci capire. La nostra lingua, l’italiano, ha certamente perduto le desinenze dei casi, ma non i “casi”, ossia i ruoli sintattici delle parole all’interno di una frase. Nell’enunciato “il libraio loda il ragazzo”, “il libraio” è il soggetto, “loda” è il predicato 73­­­­

verbale e “il ragazzo” è il complemento oggetto. Se la frase fosse invece “il ragazzo loda il libraio”, “il ragazzo” sarebbe il soggetto, “loda” resterebbe il predicato verbale e “il libraio” diventerebbe il complemento oggetto. Se si volesse esprimere la stessa frase in greco, “il libraio loda il ragazzo”, è proprio grazie al sistema dei casi che i rapporti sintattici tra soggetto e oggetto rimarrebbero gli stessi: le parole potrebbero avere l’ordine ὁ βιβλιοπώλης ἐπαινεῖ τὸν νεανίαν ovvero ἐπαινεῖ τὸν νεανίαν ὁ βιβλιοπώλης, oppure ancora τὸν νεανίαν ὁ βιβλιοπώλης ἐπαινεῖ: senza che il significato dell’enunciato cambi di una virgola. Questo accade perché in greco le funzioni sintattiche di soggetto e complemento oggetto sono espresse dalle desinenze dei casi nominativo e accusativo, indipendentemente dalla loro posizione all’interno della frase. Per capire il meccanismo della lingua greca (sperando di non complicare le cose, visto che la matematica non è il punto forte del liceo classico) potremmo prendere in prestito una regola della matematica, quella della proprietà commutativa. Come nell’addizione e nella moltiplicazione il risultato non cambia mutando l’ordine dei fattori (2+3=5 o 3+2=5!), così nella frase greca mutando l’ordine delle parole il risultato, cioè il senso, non cambia. In italiano, invece, tutto ciò non vale: la funzione delle parole è espressa dalla sintassi, cioè dalla posizione rispetto al verbo: l’ordine delle parole non è alterabile senza alterare tutto il significato della frase. Proviamo ora a fare un passo in più, aggiungendo alla nostra frase un altro elemento. Diciamo quindi che “il libraio loda la saggezza del ragazzo”. In questo caso, “la saggezza” è il complemento oggetto, mentre “del ragazzo” è il complemento di specificazione, oltre al verbo “loda” e al soggetto “il libraio”. Di nuovo, in una frase italiana il significato è dato soltanto dall’ordine delle parole: “la saggezza” è propria “del ragazzo”. Pensiamo ad una frase un poco più ambigua, come “ho smarrito la giacca a casa di Lorenzo”: mutando l’ordine delle parole, il complemento di 74­­­­

specificazione “di Lorenzo” potrebbe riferirsi alla “giacca” o alla “casa”, a seconda del pensiero del parlante. In definitiva, il significato dell’enunciato italiano dipende tutto dalla sintassi e dalla continuità delle parole, poste accanto all’una oppure accanto all’altra. In greco antico, la frase “il libraio loda la saggezza del ragazzo” si potrebbe dire, tra i vari, liberissimi modi, ὁ βιβλιοπώλης τὴν τοῦ νεανίου σωφροσύνην ἐπαινεῖ. Il verbo si trova quindi alla fine dell’enunciato, il soggetto all’inizio, il complemento oggetto al centro e la specificazione τοῦ νεανίου, “il ragazzo”, proprio all’interno del termine cui si riferisce (τὴν σωφροσύνην, “la saggezza”). È questa la cosiddetta costruzione a ponte delle parole greche utilissima da ricordare per orientarsi nella traduzione: ciò che sta in mezzo si riferisce a ciò che sta ai suoi lati; creando, proprio attraverso gli articoli e le desinenze, un collegamento interno simile ad un ponte di senso. Una sera tra inverno e primavera mi trovavo in un bar di Milano con un caro amico e maestro (non di greco ma di vita). La circostanza era decisamente felice: stavamo brindando a suon di champagne per i rispettivi successi delle nostre vite. Quando gli accennai di questo libro, sbiancò. Al solo sentire la parola ‘greco’ il mio amico perse di colpo il buonumore, invaso dal senso di colpa e dal bisogno irrefrenabile di confessarmi di aver saltato un’interrogazione sulla terza declinazione al liceo; solo trent’anni prima, ma che nel cervello di un ex classicista corrispondono per uno strano jet-lag a ieri l’altro. Mi raccontò allora, mesto e con il capo chino peggio di un disertore di guerra, di essere riuscito a sottrarsi alla tanto temuta verifica sui casi dandosi malato per un anno intero. Alla fine, con uno strano – molto noto a chi ha frequentato il liceo classico – mercanteggiamento di scongiuri, suppliche, voti e promesse con il professore riuscì a passare l’anno scolastico impunemente. Naturalmente rincuorai il mio amico e lo strappai al bara75­­­­

Il tabù linguistico Del resto, esistono parole che proprio non si possono dire; e non si tratta di compiti in classe saltati con mille scuse: si tratta dei cosiddetti tabù linguistici. Tabù (propriamente tabu, senza accento) è una parola polinesiana che indica tutto ciò che è sacro, dunque proibito. Nell’uso comune, il termine si riferisce a tutte le sfere dell’esistenza umana oggetto di interdizione (di fare, ma anche di dire). Per tabù linguistico si intende quindi la proibizione di pronunciare le parole relative ad oggetti o persone proibite, cioè ‘tabuizzate’. Possono essere nomi di animali, piante, comportamenti e azioni che, presso una certa civiltà, sono carichi di un valore sacrale, di un timore reverenziale, di un forte imbarazzo – e più in generale, di una grande, irrazionale paura –, e che non si possono menzionare nel discorso. Questi termini sono quindi sostituiti da altri, eufemismi (dal greco εὐφημέω, ‘pronunciare parole di buon augurio’, quindi ‘evitare parole di cattivo augurio’), o da perifrasi (dal greco περιφράζω, ‘dire con un giro di parole’). Data la loro natura tutta sociale, i tabù linguistici cambiano di civiltà in civiltà e a seconda delle epoche storiche: si pensi, ad esempio, a tutte le parole relative alla sessualità umana impronunciabili fino a mezzo secolo fa. Alcuni esempi? In arabo la lebbra è detta ‘malattia benedetta’ e il cieco è un ‘uomo dalla vista acuta’. In latino il letto di morte è detto lectus vitalis, il ‘letto di vita’. La storia di alcune parole soggette a tabù linguistici è davvero curiosa.

tro dei suoi scheletri nell’armadio – anzi, nel sottobanco del liceo – offrendogli altro champagne; e il ricordo straziante dell’interrogazione saltata finì lì. Ma la mattina successiva, poco dopo l’alba, ricevetti un sms: “Andrea, ho avuto gli incubi tutta la notte. Il punto è che io, tutta questa storia dei casi delle parole greche, non l’avevo mai capita tanto bene”. È naturale, del tutto naturale e umano, data l’impossibilità di stabilire una corrispondenza automatica tra un singolo caso e un singolo significato, che di fronte al sistema dei casi 76­­­­

La città di Benevento, in Irpinia, si chiamava in origine Maleventum, ‘cattivo vento’, per via delle correnti: quando i Romani la conquistarono nel 268 a.C. ne mutarono il nome in Beneventum, perché non fosse di malaugurio. Il vento di bonaccia si diceva in latino ‘malacia’, derivato dal greco ἡ μαλακία, ‘vento calmo, mite’. Tuttavia, una volta perduta la sensibilità linguistica, si è creduto che malacia derivasse da malus, ‘cattivo’, e per scaramanzia tutta marinaresca, il vento è allora diventato ‘bonus’, ‘buono’: da qui la bonaccia che soffia propizia sul mare di tutte le lingue romanze. Infine, presso alcuni popoli certe parole non si possono proprio dire, in nessun modo: tra gli inuit della Groenlandia non si può pronunciare il nome dei ghiacciai, tra gli aborigeni d’Australia il nome proprio di persone defunte; fino al divieto anche solo di scrivere il nome dell’imperatore in Cina, sostituito da segni grafici sostitutivi. Una delle parole più curiose è quella che designa l’orso nelle lingue germaniche e slave: l’animale era così terribile per quei popoli che nemmeno lo si poteva pronunciare per la paura che sbucasse dalla foresta sentendosi nominare, cioè chiamare per nome. Ecco allora che in tedesco ‘orso’ si dice Bär e in inglese bear: entrambe le parole significano “il grigio” in riferimento al pelo dell’indicibile animale. Nelle lingue slave, come in russo, ‘orso’ si dice medved che letteralmente significa ‘mangiatore di mele’, nella speranza che sia vegano e non azzanni esseri umani. E che dire dell’uso in italiano di espressioni tanto politically correct come ‘taglie comode’, ‘piani di alleggerimento’ (anziché licenziamenti), fino ad ‘effetti collaterali’ per fingere di non vedere e quindi di non dire l’uccisione di civili durante operazioni di guerra?

greci chiunque possa provare incertezza e confusione: è lo smarrimento del non essere sicuri di aver capito davvero bene. È naturale perché il greco non è la nostra lingua e mai lo sarà. Noi, parlanti italiano, sentiamo e diciamo il mondo in modo diverso dai Greci e perciò saremo sempre costretti a riflettere, a pensare, passando dalla loro lingua alla nostra. In primo luogo, insegnando il greco, mi sono resa conto di quanto, prima ancora di cominciare, ci sfugga o si sia dimenticato dell’italiano stesso. Una conoscenza inespugnabile 77­­­­

della grammatica, dell’analisi logica e del periodo italiani è fondamentale per imparare non solo il greco, ma qualunque altra lingua. Come potremmo infatti capire in greco, ad esempio, un complemento di causa efficiente, un verbo al congiuntivo, una proposizione finale se nemmeno sappiamo cosa siano queste funzioni sintattiche in italiano? Eppure, molto spesso accade che non si conosca neppure la nostra lingua, figuriamoci un’altra, viva o morta che sia. Quante volte mi sono sentita dire in questi anni da grecista: “ma io non so neppure cosa vuol dire in italiano!”. Del resto, lo studio di una lingua così sintetica come il greco – di una lingua che in così poco riesce a dire tanto – richiede una conoscenza della morfologia, della grammatica e della sintassi italiane nient’affatto scontate per un quattordicenne (e nemmeno per chi ha venti o trenta o quarant’anni di più). Quindi, per affrontare, anzi per sfidare il sistema dei casi greci è indispensabile un buon manuale di italiano a portata di mano, molto di più del dizionario di greco dove, se non si sa già in principio cosa cercare, si finisce per non trovare niente. Sicché, fermo restando che nulla – proprio nulla – ci risparmierà lo sforzo di ragionare quando si tratta di greco antico, alcune indicazioni per maneggiare il sistema dei casi possono essere utili. In primo luogo, è importante tener conto della natura semantica delle parole, ossia di ciò che ci vogliono realmente dire, andando a cercare, per intuizione, il significato giusto. È probabile, ad esempio, che in un contesto di guerra si parli di soldati, strateghi, accampamenti e tattiche militari; viceversa, in un testo che parla del mare, troveremo termini come prua, poppa, rematori, vele spiegate al vento. Per capire il greco e il suo sistema di casi, non bisogna distrarsi mai. Mai perdere di vista una sola sua parola. L’articolo e la sua posizione rispetto al nome cui si riferisce sono ottimi alleati per districarsi nel sistema dei casi greci e nella libertà dell’ordine delle parole; a differenza del latino che non possiede articoli che aiutino il traduttore ad 78­­­­

orientarsi (alla faccia di chi dice che sia una lingua più facile del greco). Anche i pronomi, ossia quelle parole che stanno al posto del nome, sono fedeli compagni di strada verso il significato generale della frase, perché sempre a qualcuno o a qualcosa si devono pur riferire. È probabile poi che un verbo di movimento sia accompagnato dal luogo in cui qualcuno si sta recando: sarà al caso genitivo se si tratta di un moto da luogo (‘da Atene’), al dativo di uno stato in luogo (‘in/ad Atene’) o all’accusativo se si tratta di un moto a luogo (‘verso Atene’). Infine, in caso di dubbio o di incertezza, non occorre essere esperti filologi. Il greco già ci sta parlando, sebbene a modo suo. Quando non si sa a che complemento ricorrere nella traduzione, è sufficiente ricordare l’idea di fondo alla base di ogni caso, e da lì misurare, volta per volta, la sua natura applicata alla parola da tradurre e rendere nostra. Il nominativo è sempre il caso del dire, del soggetto; il genitivo indica l’idea di movimento iniziale, un generico e multiforme “di” o “da”; il dativo esprime un’idea di dare, una preposizione “a”, o di stare, “in”; l’accusativo è il dito puntato verso l’oggetto di cui si sta parlando. Come mi ha detto ridendo una mia amica, anche lei grecista, “vorrei un mondo più al dativo e meno all’accusativo”! Tutte le lingue indoeuropee, smarrita la bussola della civiltà di cui sono state parole e dunque voce, hanno ridotto fino a sopprimere il sistema dei casi. Fin dall’epoca della κοινή, anche il sistema della flessione greca ha subito un processo sia di semplificazione sia di riduzione dei casi da parte dei parlanti (parlanti non solo più Greci, ma ormai parte di un impero vastissimo come quello ellenistico). Molte parole hanno iniziato a suonare, nel III secolo a.C., strane, difficili, e le anomalie dei loro casi si sono fatte troppo intense, fino a sembrare sbagliate. Sono perciò state corrette riconducendole al modello più semplice, quello 79­­­­

I colori dei Greci “Quanto diversamente i Greci hanno veduto la natura, se siamo costretti a riconoscere che i loro occhi erano ciechi per l’azzurro e il verde, e invece del primo vedevano un bruno più scuro, in luogo del secondo un giallo (giacché designavano con la stessa parola, per esempio, il colore dei capelli bruni, quello del fiordaliso e del mare meridionale, e con la stessa parola il colore delle piante più verdi e della pelle umana, del miele e della resina gialla: sicché, stando alle testimonianze, i loro grandissimi pittori hanno ritratto il loro mondo solo col nero, il bianco, il rosso e il giallo) – quanto diversa e quanto più vicina agli uomini dovette apparire loro la natura, dal momento che ai loro occhi i colori degli uomini erano anche nella natura preponderanti e questa nuotava, per così dire, nell’atmosfera dei colori umani!”: così Friedrich Nietzsche, nell’aforisma 426 di Aurora, riflette sulla stranezza cromatica dei Greci antichi. Già Goethe, nella sua Teoria dei colori, aveva osservato che il lessico greco del colore è straordinario, cioè fuori da ogni norma, tanto è diverso dal nostro, come diversa era la loro lingua. Associazioni cromatiche tanto inedite che hanno portato alcuni studiosi del Settecento e dell’Ottocento a blaterare che i Greci non vedevano i colori. Li vedevano, eccome, solo li esprimevano in un altro modo: di certo, gli occhi degli uomini sono sempre gli stessi e gli stessi saranno. I colori erano, per i Greci, innanzitutto vita e luce: un’esperienza tutta umana e non fisica, ottica, che niente ha a che fare con lo spettro cromatico del prisma teorizzato da Isaac Newton. Omero, nell’Iliade e nell’Odissea, nomina solo quattro colori: il bianco del latte, il rosso porpora del sangue, il nero del mare, il gialloverde del miele e dei campi. Nero, μέλας, e bianco, λευκός, indicavano il buio e la luce (la parola latina lux, ‘luce’, ha la stessa etimologia del colore greco). Ed è proprio dalla mescolanza di luci e ombre che secondo i Greci si formavano i colori. Il greco ξανθός indica un colore che spazia dal giallo al rosso

standard del maschile λόγος. Si avrà allora un più semplice nominativo singolare γέροντας, ‘l’anziano’, derivato dall’accusativo γέρονταν al posto del classico, ma ormai incomprensibile, γέρων. 80­­­­

al verde: verderame, potremmo forse dire. La sua tinta è quella calda del grano maturo, ma anche dei capelli tutti biondi degli eroi omerici fino alla luce rossastra del fuoco caldo che illumina la notte o del sole arancio e rotondo al tramonto. L’aggettivo πορφύρεος significa ‘agitato’, ‘in continuo movimento’, ‘ribollente’, fino ad indicare il color porpora che dal rosso sangue sconfina nel blu; πορφυρεύς è ‘il pescatore di porpora’, dal momento che le tinture erano prodotte dal succo estratto da certe conchiglie e poi lavorato a mano da esperti tintori. Il color κυάνεος, ciano, indica un color blu così generico da vagare dall’azzurro al rosso cupo fino al nero della morte. Ancora, il mio colore greco preferito γλαυκός, glauco, significa prima di tutto ‘brillante’, ‘rilucente’, ‘traboccante di luce’, proprio per definire il mare che sfrigola di luce. Sono glauchi gli occhi di Atena, ‘chiari come quelli di una civetta’, di colore ceruleo, azzurro, grigio-azzurro. Fu William Gladstone, illustre omerista e politico inglese, tra i primi ad insistere sull’impressione luminosa dei colori greci. Nei secoli precedenti, notando infatti le stesse ‘stranezze’ linguistiche della definizione cromatica presso altri popoli e fin nella Bibbia, si era acceso un fervente dibattito accademico sulla possibilità che gli Antichi vedessero fisiologicamente – proprio a livello di retina – dei colori in meno rispetto ai nostri occhi fino a parlare di cecità dei Greci. Le teorie di Darwin prima e gli studi di fisiologia e medicina poi dimostrarono senza dubbio il contrario: i Greci vedevano il mare, i campi, il cielo, i paesaggi dello stesso colore in cui li vediamo noi oggi – o forse di colore più bello, perché sentivano il bisogno di esprimerlo in un altro modo, privato. In definitiva, gli antichi Greci davano ad ogni colore un altro significato, un senso di luminosità, di gradazione di chiarezza. Vedevano la luce e ne coloravano l’intensità: così il cielo è bronzeo, ampio e stellato, mai soltanto blu, e gli occhi sono glauchi, scintillanti, mai solo azzurri o grigi.

Inoltre, secondo un processo che si ritrova in quasi ogni lingua fino al latino medievale e da qui all’italiano, la funzione dei casi viene a poco a poco soppiantata dal ricorso sempre più frequente alle preposizioni. Ad esempio, se in 81­­­­

greco classico il verbo πείθω, ‘credere a’, ‘avere fiducia in’, era seguito dal dativo, compare poi seguito, per facilitare la comprensione, dalla preposizione ἐπί, “a”. Del resto, il caso dativo scompare del tutto a partire dal Medioevo. L’esistenza di una lingua letteraria colta e della tradizione culturale più solida del mondo allora conosciuto ha a lungo nascosto – o ritardato – l’evoluzione del greco nei testi scritti e dunque nei parlanti. I Greci non dovettero rendersi troppo conto dei mutamenti della lingua che usavano ogni giorno; i mutamenti che noi stessi fatichiamo oggi a ricostruire o solo a scorgere dallo specchietto retrovisore della storia del greco. Quasi tutte le lingue indoeuropee, con il passare dei secoli, mostrano un indebolimento della sillaba finale delle parole, fino alla loro definitiva scomparsa nelle lingue nuove e diverse che si sono poi formate. Ad esempio, il numero latino unum diventa in francese un, in italiano e in spagnolo uno, in portoghese um. Il greco antico, tuttavia, possedeva, come abbiamo visto, un accento tutto suo che non ha permesso ai parlanti di troncare – spezzare – le parole. Di conseguenza la grammatica del greco antico si è semplificata senza lasciare alcun segno tangibile, perché quasi tutte le sillabe finali si sono conservate. Questa resistenza della lingua è dunque dipesa soprattutto dalla pronuncia, che ha sempre proseguito a dire le parole nello stesso modo, senza alcun indebolimento delle vocali finali. Così in greco moderno troviamo ancora la parola φιλός, ‘amico’, e μεράς, ‘giorno’, esattamente come le avremmo trovate in greco antico, con tutte le lettere al loro posto, non una di più né una di meno. I Francesi, gli Italiani, gli Spagnoli si sono accorti fin dal X secolo d.C. che, avendo perduto le sillabe finali del latino, le parole si erano evolute al punto tale che si trattava ormai di lingue diverse e distinte. Il greco, invece, ha sempre avuto uno sviluppo grammaticale continuo e silenzioso, interno, senza mai alcuna frattura o rivoluzione. Neppure nel sistema dei casi. La lingua greca moderna, la Νέα Ελληνικά, possiede ancora quattro casi nella 82­­­­

declinazione delle parole: scomparso il dativo, si ritrovano il nominativo, il genitivo (poco utilizzato al plurale), l’accusativo e il vocativo. È proprio per questa continuità linguistica, anche nel complesso sistema della declinazione delle parole, unica nel panorama delle lingue moderne, che i Greci non hanno mai avuto coscienza di un passaggio da un greco antico a un greco moderno, se mai c’è stato. In conclusione, grazie al suo sistema dei casi e alla libertà dell’ordine delle sue parole, il greco, antico e moderno che sia, è una lingua che quando parla pensa, e pensa quando scrive. Sempre.

Un modo chiamato desiderio. L’ottativo

Se mi direte perché la palude appare insuperabile, allora io vi dirò perché io credo di poterla passare se ci provo. Marianne Moore, da Posso, potrei, devo

Desiderio. In francese désir, in spagnolo deseo, in portoghese desejo. Dal latino desiderium, formato da de-sidera, preposizione che indica lontananza e ‘stelle’. Fissare con lo sguardo una cosa o persona che attrae, come si fissano di notte i geroglifici delle stelle. Allontanamento, cioè togliere lo sguardo, rivolgerlo altrove. Le stelle non si vedono più. Mancare. Fissare allora con il pensiero una cosa o una persona che non si possiede e che si brama. Quindi, desiderare. In greco antico, tutto questo si dice al modo ottativo. Come in questo frammento di Archiloco: Εἰ γὰρ ὣς ἐμοὶ γένοιτο χεῖρα Νεοβούλης θιγεῖν καὶ πεσεῖν δρήστην ἐπ᾿ ἀσκὸν κἀπὶ γαστρὶ γαστέρα προσβαλεῖν μηρούς τε μηροῖς. Ah, se solo toccasse proprio a me prendere Neobule per mano! ... e gettarmi su lei – io, otre assetato – ventre a ventre, cosce su cosce ... [Archiloco, fr. 118 + 119 West]

Il greco antico concepiva e rappresentava linguisticamente la realtà in modo del tutto diverso dall’italiano, attraverso 84­­­­

la grande cura adottata nella scelta dei modi verbali. In italiano il grado di realizzabilità (e quindi di desiderio) di un’azione è del tutto indipendente dai modi dei verbi utilizzati ed è espresso attraverso avverbi e locuzioni: tante parole per dire o non dire come la pensiamo, forse troppe. In greco antico, invece, ogni azione umana era valutata in base al suo grado di realtà: a ciascun grado corrispondeva un modo verbale specifico scelto dal parlante. Un verbo quindi, indipendentemente dal suo valore sintattico all’interno della frase, indicava sempre obiettività se coniugato al modo indicativo o volontà/eventualità se coniugato al modo congiuntivo o ottativo. Ἀναβιῴην νυν πάλιν, “potessi tornare a vivere!”, si dice in Aristofane, Rane, 177. In greco antico è solo chi parla a valutare la vita e a darne una misura, scegliendo liberamente il modo verbale con cui rappresentarla a se stesso e agli altri: vita vera, concreta, obiettiva oppure eventuale, soggettiva, in forse. Possibile o impossibile. Desiderio realizzabile o irrealizzabile. Ecco uno schema dei gradi di realtà attraverso cui il greco antico valutava gli eventi della vita; esso ci permette di comprendere come si poneva rispetto ad essi attraverso la scelta dei modi verbali. Per capire, occorre andare sotto la superficie e riportarne a galla il senso in italiano: l’esempio scelto è tutto di mare. E noi, alle prese con il greco antico, siamo tenuti ad essere palombari di significato. Opposta eppure identica alla realtà è l’irrealtà: ciò che non è mai stato o mai sarà ha lo stesso grado di obiettività e di imparzialità di ciò che è stato o che sarà. Entrambe le percezioni oggettive del parlante erano espresse in greco al netto modo indicativo, senza incertezze. La prima e l’ultima frase riportate nello schema sopra, “vorrei navigare per mare”, esprimono realtà e irrealtà: in italiano non c’è alcuna differenza linguistica tra il grado delle azioni, affidate al giudizio del parlante. Le parole scritte o dette sono le stesse, identiche: è nell’intimità di chi parla, è nel fare i conti tra sé e sé, conti imparziali anche linguisticamente, che matura la 85­­­­

I gradi di realtà REALTÀ

oggettività dell’azione

“Vorrei navigare per mare” / “Voglio navigare per mare”

EVENTUALITÀ

soggettività dell’azione

“Vorrei navigare per mare” / “Potrei navigare per mare”

POSSIBILITÀ

soggettività dell’azione

“Vorrei navigare per mare.” / “Potrei navigare per mare”

IRREALTÀ

oggettività dell’azione

“Vorrei navigare per mare” / “Avrei voluto navigare per mare”

scelta di salpare oppure no; e così l’azione diventa possibile o impossibile. La nostra lingua non ha modo alcuno di distinguere la realtà o l’irrealtà dei fatti esprimendo un puro e semplice desiderio: tutto sta a noi, soli la mattina davanti allo specchio e all’integrità delle nostre parole (per chi sa cosa intendo, e pazienza per gli altri). Tra realtà e irrealtà si insinuano in greco due gradi di real­ tà soggettivi, strettamente dipendenti dal modo di vedere il mondo e di esprimerlo a parole da parte di chi parla: l’eventualità e la possibilità. L’eventualità è la concreta possibilità di compimento di un’azione: in greco antico è resa al congiuntivo. In italiano la reale eventualità è espressa al condizionale: da qui, l’espressione latina conditio sine qua non, che è il punto fermo, di partenza, perché qualcosa si realizzi per davvero. Per questo motivo, nello schema sopra, la seconda frase “vorrei navigare per mare” indica che tutto è pronto ed esiste una concreta eventualità di compimento dell’azione: serve solo attendere il vento favorevole, spiegare le vele e salpare. La possibilità è invece una proiezione del parlante, dei suoi 86­­­­

... la mia barca è attraccata al molo, sono pronto a salpare.

modo indicativo in greco

... la mia barca è attraccata al molo, sono pronto a salpare, se il vento fosse favorevole. Speriamo domani il tempo migliori.

modo congiuntivo in greco

... la mia barca è attraccata al molo, ma non so navigare. modo ottativo Devo imparare, avere coraggio, rischiare, attendere il in greco vento e partire. So che la nave è bellissima al sicuro nel porto, ma non è fatta per questo. ... non ho alcuna barca, soffro il mal di mare, vivo in modo indicativo montagna e non ho intenzione di cambiare le cose: mi è in greco impossibile e non c’è nulla che si possa fare.

desideri, delle sue intenzioni, delle sue paure, persino del suo amore, attraverso l’uso della lingua. In greco era espressa all’ottativo desiderativo, il più personale e il più intimo dei modi verbali. In italiano, la sua traduzione è complicata, difficile e spesso ci mette a disagio, costretti a tenere in conto desideri non nostri. Nello schema sopra, la terza frase “vorrei navigare per mare” indica un desiderio del parlante, la cui realizzabilità non dipende né dal vento giusto nelle vele né dalla merce nella stiva. Esprime invece i conti che è costretto a fare l’uomo guardando il suo desiderio riflesso nel mare e quanto valore avranno il suo coraggio e la sua forza nella libera scelta di levare l’àncora, lasciare tutto e partire, oppure di aver paura e restare. La linea che separa un desiderio realizzabile da un desiderio impossibile è lievissima, delicata, tutta affidata alla responsabilità umana di chi a parole si esprime e nei fatti quelle parole traduce. La misura del fatto che, nella vita come nella lingua greca, il desiderio da possibilità diventi eventualità e poi realtà, oppure scivoli via per sempre nell’irrealtà, è tutta contenuta nel modo ottativo. La parola ottativo deriva dal verbo latino optare: significa 87­­­­

desiderare, augurarsi, sperare. Per la sua etimologia, questo modo verbale unico del greco è detto anche desiderativo. Come tutte le schegge di irripetibile eleganza, anche l’ottativo giunge alla lingua greca dall’indoeuropeo. A differenza però di tutte le lingue che dall’indoeuropeo derivano, solo il greco (insieme alle lingue indiane e persiane) ha scelto di conservare la distinzione tra i modi indicativo, congiuntivo e ottativo, infinito e imperativo. L’uso dell’ottativo per esprimere sia desiderio sia rimpianto è attestato già nel greco antico di Omero (non sempre distinguendo, però, tra realizzabilità e irrealizzabilità del desiderio): Εἴθε οἱ αὐτῷ Ζεὺς ἀγαθὸν τελέσειεν, ὅ τι φρεσὶν ᾗσι μενοινᾷ. Se Zeus compisse per lui ogni cosa bella che desidera in cuor suo! [Odissea, II, vv. 33-34]

Tutti gli autori classici, da Platone a Tucidide, da Sofocle ad Aristofane, usano senza timore l’ottativo per esprimere un desiderio possibile, mentre i tempi storici dell’indicativo indicano un desiderio impossibile. In sintesi, è l’ottativo il modo verbale che permette agli scrittori greci di realizzare punti di vista delicatissimi: un modo unico in tutte le lingue del mondo. Due poli e due colori della lingua greca: bianco e nero, reale e irreale. Nel mezzo, tutto lo spettro cromatico delle scelte dell’essere umano. Lo sfumare di un desiderio dalla realtà fino all’irrealtà è espresso in greco anche mediante le modalità di formulare le ipotesi. Si tratta del cosiddetto periodo ipotetico, formato da protasi (dal greco προτέινω, ‘anteporre’), cioè la premessa, vale a dire la condizione perché si realizzi ciò che è espresso nella reggente, e da apodosi (dal greco ἀποδίδωμι, ‘restituire’). Realtà e eventualità sono rese con il presente, rispettivamente all’indicativo e al congiuntivo. Possibilità e irrealtà sono invece rese con il passato, all’ottativo e all’indicativo. 88­­­­

No, la valutazione linguistica del grado di realtà delle vicende umane non è questione di sorte, di fortuna, di destino, di oroscopo e, peggio, del caso. Tanto più considerata la raffinatezza del greco antico. Per essere netti: se le probabilità che un’azione accada sono buone, il greco usa il congiuntivo; se non lo sono, usa l’ottativo. Ciò che separa le probabilità e le scelte linguistiche sono la volontà del parlante e lo scenario delle condizioni esterne. La frase “potrebbe tirare libeccio”, se pronunciata sulla Terrazza Mascagni di Livorno una notte in cui soffia il tipico vento che ‘spettina l’anima’, esprime ottime probabilità che la circostanza accada: il greco antico adopererebbe il congiuntivo. La stessa frase, pronunciata in una desolata landa nordica, si riferisce ad un evento molto remoto, e, quindi, come sempre, molto rimpianto e molto desiderato: il greco antico adopererebbe l’ottativo. Se invece il libeccio già soffiasse, il vento sarebbe realtà, quindi la frase sarebbe espressa con il modo indicativo presente. Se ci trovassimo in un deserto, il vento che ‘prende in prestito il rumore del mare’ sarebbe impossibile, irrealtà, e quindi raccontato in greco al modo indicativo passato. Εἴθ᾽ ὣς ἡβώοιμι βίη τέ μοι ἔμπεδος εἴη, ὡς ὅθ᾽ ὑπὸ Τροίην λόχον ἤγομεν ἀρτύναντες. Se potessi essere ancora giovane e avere intatta la mia forza, come quando preparammo l’insidia sotto le mura di Troia!

Così sospira Ulisse ai versi 468-469 del canto XIV dell’Odissea, scegliendo l’ottativo: la natura del suo desiderio, la forza data dalla nostalgia, la tenacia che nasce dalla fatica è espressa proprio dal valore del modo verbale. È questo il canto di Eumeo, il fido allevatore di porci che Ulisse ha sempre amato come un figlio. Finalmente giunto ad Itaca, provato da tanto combattere e viaggiare, Ulisse apprende dal servo che il re è dato ormai per morto durante la guerra 89­­­­

di Troia e che vili usurpatori, i Proci, aspirano al suo regno e alla moglie Penelope. Ulisse vorrebbe sentire montare in sé la stessa forza e la stessa brama di guerra che provò vent’anni prima sotto le mura di Troia, ma il lungo viaggio e i tanti dolori hanno lasciato cicatrici nel suo animo e nel suo corpo. Quando Eumeo gli chiede la sua vera identità, Ulisse sceglie di mentire, spacciandosi per un mendicante cretese. Infine, i due dividono la cena insieme e il povero Eumeo concederà al suo re, che non riconosce, un mantello per proteggersi dal freddo della notte. Se la frase fosse slegata da ogni nostra conoscenza non riusciremmo mai ad interpretarla nel profondo, come una scritta su un muro di qualche stazione dedicata ad un amore che non c’è più o forse invece c’è ancora. Conosciamo invece il desiderio di Ulisse e la forza richiesta dagli déi per affrontare il lungo viaggio da Troia verso casa (sappiamo tutto questo solo perché abbiamo letto l’Odissea). Se non conoscessimo nulla delle avventure di Ulisse per il Mediterraneo, la sola frase “se fossi ancora giovane” in italiano non ci direbbe nulla del suo desiderio di riprendersi ciò che gli spetta di diritto, cacciando gli usurpatori dal trono di Itaca. Potrebbe infatti riferirsi ad un vecchio colmo di rimpianto, ad un uomo deluso dalla vita, a un qualunque reduce dalla guerra di Troia. Nulla lascerebbe intendere che quel desiderio è una possibilità che sta per diventare realtà: Ulisse, dopo dieci anni di viaggio e dieci di guerra, è finalmente a Itaca, sotto le vesti di profugo, per riprendersi il suo regno e sua moglie: la sua vita. L’interpretazione di ciò che il greco dice avvalendosi solo del modo verbale è tutta affidata al traduttore, alla sua sensibilità, all’arduo compito di decifrare i desideri altrui cui è chiamato dalla lingua greca. Serviranno quindi parole in più per rendere l’ottativo in italiano, o in meno: la differenza è solo di forma, non di contenuto. L’ottativo della frase può essere fatto riemergere in italiano con espressioni come “quanto vorrei essere giovane”, “magari fossi giovane come un tempo, quando dichiarammo 90­­­­

guerra a Troia!”: e tutto per poter dire il desiderio di Ulisse di concludere il viaggio di ritorno, il suo νόστος, e ritrovare il suo posto sul trono di Itaca, accanto alla moglie Penelope e al figlio Telemaco. Ἀλλ᾽ Ἔρως (...) τῶν ἄλλων κρατῶν πάντων ἂν ἀνδρειότατος εἴη. Se solo l’Amore fosse più forte di tutti! [Platone, Simposio, 196d]

E se solo il senso dell’ottativo fosse chiaro, aggiungo io! Singolare contrappasso dello studio delle lingue antiche: il modo verbale più intimo del greco antico, nato per esprimere il desiderio, suscita per lo più sgomento in quanti vi si imbattono traducendo i testi. Sempre mi sono accorta che viene sì insegnato, ma quasi mai spiegato. Non è sufficiente dire che il greco possedeva quattro modi verbali finiti – indicativo, imperativo, congiuntivo e ottativo – e allegare una tabella per cogliere il senso di una lingua. Soprattutto se provvista di un modo di pensare di cui noi siamo sprovvisti. Soprattutto se possiede qualcosa in più che, nella nostra lingua, è in meno. Soprattutto, se questa lingua è bellissima; e il greco antico è una lingua di meraviglia. Sarà che nella vita – e non solo accademica – credo fermamente nel valore della curiositas alla latina (ben lontana dalla curiosità del pettegolezzo o dell’invadenza della curiosità all’italiana). La voglia di imparare per scoprire se stessi e il mondo, come fanno i bimbi che chiedono sempre conto del perché di ogni cosa. Il bisogno di fare domande di fronte a tutto ciò che non torna, davanti a ciò che pare strano o bizzarro. La fatica bella di chiedere sempre, allo studio, alla lingua, agli esseri umani, alla vita: così la s’impara, secondo me. Sarà che ho tanto viaggiato e tanto vissuto in posti diversi e lontani e ho imparato che solo chiedendo ragione delle cose si sta al mondo per davvero e non ci si limita a esserne perenni turisti che passano. Ecco, la mancanza di curiosità nei confronti del greco an91­­­­

Nostos La parola che esprime uno dei desideri umani più struggenti, la nostalgia, sembra di origine greca, ma non lo è affatto. Nostalgia è sì formata dalle parole greche νόστος, ‘il ritorno’, e ἄλγος, ‘il dolore’, ‘la tristezza’, ed esprime il desiderio melanconico di ritornare a casa, nei luoghi dove si è trascorsa l’infanzia e dove si trovano le persone e gli oggetti più cari, ma è del tutto estranea al mondo greco. La parola fu coniata solo nel 1688 da uno studente di medicina alsaziano, Johannes Hofer, che si laureò all’Università di Basilea con una tesi intitolata Dissertazione medica sulla nostalgia. Il giovane si era dedicato per anni allo studio medico dello sconcerto emotivo provato dai mercenari svizzeri al servizio del re di Francia Luigi XIV, costretti a stare lontani per anni dalle vallate e dai monti della loro patria e spesso affetti da un indefinito male che li spingeva alla morte se non ricondotti a casa. Da allora, il neologismo greco nostalgia si diffuse nelle altre lingue europee per esprimere il sentimento di tristezza e di lontananza dalla

tico che noto negli studenti, dovuta a certi metodi di insegnamento, mi lascia costernata. Talvolta, persino arrabbiata. Per il motivo che non si può studiare una lingua per anni e rimanerne sempre vagabondi, rimbalzando qua e là tra una regola grammaticale, un lemma sul dizionario e un paio di pagine del manuale. Il greco antico o lo si vive per davvero, e si sta dentro la lingua, oppure no, si sta muti e basta. Possibile che nessuno, dico nessuno, si chieda mai perché il greco antico ha un modo unico in più rispetto a tutte le altre lingue, l’ottativo? Possibile che tutti, dico tutti, lo considerino una sorta di lato B del congiuntivo greco o una versione alternativa del condizionale italiano? La maggior parte dei miei studenti non ha che una vaga idea del concetto di possibilità che l’ottativo porta con sé. Del resto, vaga era anche a me prima di approfondirne il senso e farlo mio. Spesso mi sono sentita dire che “l’ottativo è il modo cha fa -οι”, per via delle sue vocali tematiche – e certamente “ohi” non è un tipico sospiro di gioia né tantomeno contiene una 92­­­­

terra che si ama, malinconia che in francese si dice ‘mal du pays’ e in tedesco ‘Heimweh’. Il tedesco, infine, possiede una parola bellissima che l’italiano non ha; bellissima per chi sa capire questo strano struggimento. È Fernweh, composta da ‘dolore’ e ‘lontano’, e indica la nostalgia per i posti in cui mai si è stati, ma dove tanto si vorrebbe andare. Nostoi (Νόστοι), “I ritorni”, è anche il titolo di un insieme di poemi epici greci dedicati al ritorno in patria degli eroi achei dopo la guerra di Troia. L’autore dei poemi è avvolto dalla leggenda: secondo alcuni si tratterebbe di tal Eumelo di Corinto, secondo altri di Agia di Trezene. Preceduti dai Canti Ciprioti, dall’Etiope, dalla Piccola Iliade, dalla Caduta di Ilio e seguiti dalla Telegonia, i Nostoi sono parte del cosiddetto Ciclo Troiano: una raccolta epica che raccontava l’intera vicenda della guerra di Troia indipendentemente dall’Iliade e dall’Odissea, mai menzionate in questa saga, rappresentando perciò una sorta di versione della storia alternativa a quella consegnataci da Omero.

briciola di senso linguistico. Quasi sempre, consegnata la versione, se l’occhio da gabbiano in planata dello studente spaventato scorge la particella ἄν, subito avverte minaccia, sfida, sudore: insomma, una gigantesca insegna luminosa di pericolo. Eppure, proprio quella particella serviva al greco per sottolineare ed evidenziare il senso dei modi verbali: ἄν non è altro che una garbata scintilla della delicatezza del significato. Unita ai tempi storici dell’indicativo, ἄν indica l’irrealtà, l’impossibilità: l’azione non si è svolta né potrà svolgersi. Unita al congiuntivo e all’ottativo, ἄν indica l’eventualità o la possibilità: l’azione sta per svolgersi o è possibile che si svolga. E come si traduce? Quasi sempre, non si traduce affatto. O meglio, si rende in italiano la sfumatura del contenuto che ἄν sta ad evidenziare: questa volta la possibilità è concessa a noi. Vediamo dunque, senza inquietudine e con tutta la delicatezza richiesta, come la scritta fragile posta sopra una scatola di preziosi cristalli, il senso dell’ottativo in greco antico: 93­­­­

• Ottativo desiderativo, il suo valore originario. Ποιοίην: “vorrei scrivere poesie!” / “per l’amor del cielo, se scrivessi poesie!” Esprime nelle frasi principali un desiderio, un augurio (o una maledizione), un’intenzione, un consiglio cortese, una concessione – come εἴεν, ‘e sia’, ‘va bene’. Il desiderio può essere riferito al presente, al futuro e anche al passato: si può desiderare che un tempo qualcosa sia accaduto o non sia accaduto (si chiama rimpianto). Il verbo può essere preceduto da particelle come εἰ, γάρ, εἴθε, ὡς con il senso di ‘oh, se’, ‘voglia il cielo che’, ‘magari’. In italiano si può rendere con l’utilizzo delle stesse particelle o, meglio, al più genuino condizionale. La negazione della soggettività – poiché anche i desideri si negano – è μή. • Ottativo potenziale, ovvero la possibilità. Ἄν ποιοίην: “scriverei poesie” / “potrei scrivere poesie” Esprime la probabilità che un evento si verifichi o meno, ma anche un invito, una preghiera, un ordine impartito con cortesia, un commento ironico; ad esempio ἂν λέγοις, ‘dimmi pure’, ovvero οὐκ ἂν φθάνοις λέγων, ‘non farmi aspettare, dai, dimmi’ (sempre detti con il sorriso). In italiano si rende con il condizionale oppure, ancora meglio, con una perifrasi del verbo potere che ne dischiude il senso. Anche nella nostra lingua si conserva, al condizionale, un uso ironico/ di modestia in espressioni come ‘avremmo un impegno per cena’ (quando si vuole scappare da certi noiosi apericena, anche solo per vendicare la bruttezza della parola) o ‘sarebbero tremila euro’ (quando si vuole indorare una fattura ‘salata’). La negazione – poiché molte possibilità non si realizzano – è οὐ. • Ottativo obliquo, ovvero la lente degli occhiali attraverso cui il parlante osserva il mondo. 94­­­­

Ἔλεγεν ὅτι ποιοίη: “raccontava che scriveva poesie” / “diceva di scrivere poesie”. Frequente nelle narrazioni, l’ottativo obliquo ricorre in subordinate di ogni natura (finali, causali, temporali, dichiarative etc.), rette da una principale al passato. In questo caso, esso perde il suo valore originario e della possibilità conserva solo una sfocatura: indica infatti che si sta riportando in maniera indiretta (obliqua, appunto) il pensiero del soggetto. In un certo modo, sottolinea un grado di distanza soggettiva tra il parlante e quanto riferito; ancora una volta è una questione di garbo, di correttezza, di integrità. L’uso dell’ottativo obliquo non è affatto obbligatorio, ma dipende dalla libertà (e dalla sincerità) di chi racconta pensieri e azioni non suoi. Se solo si potesse riavere questo modo greco nel giornalismo italiano (o nelle briciole che ne restano)! La sopravvivenza dell’ottativo in greco, unica lingua in-

La poesia La parola ‘poesia’ deriva dal verbo ποιέω, fare. Lo stesso verbo che significa fabbricare, costruire materialmente, artigianalmente. Fare poesia non aveva proprio nulla di poetico, per i Greci, almeno così come lo intendiamo in italiano. Era un lavoro come un altro, come il falegname, il marmista, il vasaio. Solo, si fabbricavano poesie. La poesia nacque un paio di secoli dopo Omero e Esiodo, quando le Muse si zittirono, smisero di dettare dall’Elicona e perciò i Greci dovettero inventare un nuovo genere con cui esprimere in versi il loro mondo. Omero e Esiodo facevano epica e non poesia, cioè raccontavano storie (Ἔπος) adoperando metri musicali. Nel VII secolo a.C. il mondo cambiò: si passò da una cultura universale – adatta alla grande epica, capace di unire sotto il suo mantello tutta l’enciclopedia dell’essere Greci, ‘noi’ – ad una cultura individuale, che reclamava di poter raccontare i sentimenti, le passioni, i dolori, gli stati d’animo del singolo ‘io’.

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Due erano le classi principali della poesia greca, monodica (recitata da un solo poeta) e corale (recitata in coro). Due erano di argomenti principali: déi o uomini. Ogni genere possedeva il suo dialetto: per la lirica corale il dorico, per quella monodica l’eolico. Ecco la tendenza greca a mettere tutto in fila, per categorie: il poeta apriva bocca in dorico e tutti sapevano già cosa aspettarsi dai suoi versi, non importa se fosse nato a Sparta o a Lesbo. Questa dei dialetti era, appunto, una scelta poetica, ossia pratica, di comprensione. E poi loro, i poeti. Gli Alessandrini – quelli che hanno scelto cosa farci leggere senza che nessuno gliel’abbia chiesto, costituendo un canone – ne hanno tramandati quasi integralmente nove: Saffo, Alceo, Anacreonte, Alcmane, Ibico, Stesicoro, Bacchilide, Simonide, Pindaro. Di tutti gli altri restano fragmenta, foglie secche al vento come avrebbe detto lo struggente Mimnermo. E come vivevano economicamente i poeti greci? Come gli artigiani. Se oggi sei ricco di famiglia, ti diletti a fare tavoli e sedie come ti pare, fai un po’ l’artista freak, come Archiloco, che dice che lo scudo lo abbandona volentieri se in guerra si mette male, perché preferisce salvare la pelle. O, come Saffo, ti strazi d’amore. O, come Alceo, canti il tuo spiccato alcolismo. Se invece sei povero, fai le sedie esattamente come le vogliono quelli che ti pagano. Ad esempio, Pindaro. C’è chi canta ai matrimoni, per denaro. Ai tempi, c’era chi scriveva poesie su commissione. Del Corno, autore del manuale di letteratura greca su cui tutti abbiamo studiato, definisce Pindaro poeta d’occasione. Pindaro questo faceva ed era il più famoso e il più geniale nel suo settore. Con un paio di dati, nome e città, sapeva celebrare chiunque come fosse un eroe o un semidio, riesumandone le origini mitologiche fino alla decima generazione. Insomma, era un vero professionista dell’occasione. E le occasioni per lavorare certo non mancavano: Pindaro scriveva soprattutto in onore dei vincitori dei giochi Panellenici, cioè le gare sportive più antiche del mondo (ma non c’erano solo le celebri Olimpiadi, ma anche le Pitiche, le Nemee, le Istmiche). E perché Pindaro fu poi tanto celebrato e tramandato come vate della purezza poetica senza tener conto anche dell’occasione e della sua specifica professione? Io ho una mia personalissima teoria: perché non ci si capiva nulla 96­­­­

di quello che scriveva, nonostante la bellezza indiscussa di ogni singola parola utilizzata. Cosa sono i famosi voli pindarici se non le parti in cui si capisce meno del solito? Mai conosciuto uno che l’abbia capito a fondo, Pindaro. Giudizio che condivido con Voltaire, che scrisse: “Pindaro, che tutti esaltano e che nessuno comprese”. Riporto, a titolo di esempio e per fugare ogni dubbio nel lettore lasciando libertà di giudizio (non mi sto affatto accanendo su Pindaro, che amo anche senza capirlo), la Nomea II, dedicata a tal Timoteo di Acarne vincitore nel gioco del pancrazio. Come gli Omeridi cantori son soliti cucire la loro trama cominciando da Zeus; così quest’uomo illustre raccolse le prime vittorie nei sacri giochi Nemei dedicati a Zeus. Dritto si tiene sul sentiero paterno, colmando d’onore Atene gloriosa, raccogliendo splendide corone di fiori sull’Istmo e Pito, il figlio di Timonoo. Orione si volge alle Pleiadi montane. (??????? Volo pindarico!) L’invitta Salamina può nutrire un guerriero forte tra i forti: Ettore lo scoprì da Aiace a Troia. Tu, o Timoteo, sarai elevato dalle fatiche del pancrazio. Acarne è favolosa terra di eroi. I tuoi antenati nei giochi furono sommi. Quattro palme di vittoria raccolsero là dove il Parnaso domina, otto volte si cinsero dell’alloro di Corinto, nell’atrio di Pelope. Sette volte vinsero i giochi Nemei, in patria s’è perso il conto delle vittorie in onore di Zeus. A lui tributate gli onori, o cittadini, e a Timoteo, che sorride, date il suono di gioconda cetra. 97­­­­

doeuropea a difenderlo con tenacia, si spiega con la saldezza inconfondibile e unica del suo sistema verbale. Sono i verbi ad avere carattere dominante nella lingua greca antica, non i sostantivi. I verbi greci, mediante le categorie dell’aspetto e del modo, indicano nozioni dal punto di vista del loro processo, del loro svolgersi e della loro percezione da parte del parlante. Non si esprimono semplicemente le cose, ma gli atti da cui le cose nascono e diventano. Tutti i dialetti greci dimostrano in età storica una chiara distinzione di senso tra congiuntivo e ottativo, tra eventualità e possibilità. Ma nel I secolo d.C. l’ottativo sta già scomparendo poco a poco. Questo modo verbale è gia in crisi, sostituito da parole più semplici come “forse”, “magari”. E ogni crisi (linguistica e non solo) peggiora sempre: la sfumatura di significato che l’ottativo racchiude era troppo tenue per reggere il peso dell’implosione dei dialetti in una sola lingua imperiale, la κοινή. Ad esempio, questo modo verbale ricorre raramente nella traduzione greca del Nuovo Testamento; se ne trova ancora qualche esempio in papiri più tardi, ma solo per esprimere voti e preghiere. Si tratta comunque di sopravvivenze e possiamo immaginare il suo languido scivolare via dalla parlata normale e libera dei Greci. Tutte le testimonianze concordano nel dimostrare che l’ottativo è scomparso dapprima nelle frasi in cui esprimeva la possibilità, poi nelle subordinate in cui ha valore obliquo; sopravvive più a lungo nei testi che esprimono un voto a qualche divinità: desiderio sì, ma religioso, di fede. Se già l’utilizzo dell’ottativo è raro in autori di epoca imperiale come Strabone, Polibio o Diodoro Sicuro (se paragonato alla saldezza con cui lo impiegano Platone e Senofonte), ancora più raro doveva essere il suo utilizzo in contesti colloquiali, familiari. In sintesi, si trattava di finezze espressive troppo fragili per resistere a lungo senza confondersi, attenuarsi, senza perdere la loro intensità di senso. In greco moderno non esiste oggi che il congiuntivo. L’ottativo è sparito per sempre. 98­­­­

Magari! La storia della parola italiana magari è bellissima: sarà per questo che, ogni volta in cui mi sento rispondere ad una domanda in questo modo, sorrido felice, custodendone l’intimo senso. Magari deriva proprio dal greco μακάριος, ‘felice’, ‘beato’, e più precisamente dal suo caso vocativo μακάριε, ‘oh felice! ’. Nel suo profondo, quindi, la parola non corrisponde a un dubbio o ad un’incertezza come possiamo intenderla ora, ma ad un augurio genuino: “che possa essere felice!” (o, al limite, un sano “beato te!”). La storia della parola e della sua entrata, direttamente dal greco, in molte lingue europee (in spagnolo troviamo maguar, in serbo makar, in greco moderno μακάρι) è altrettanto curiosa: pare infatti che ci sia a monte un buffo errore di scrittura e di pronuncia. Nel Medioevo, quando si smise in Europa di comprendere il greco, molte lettere erano confuse o mal scritte dai monaci incaricati di copiare i testi antichi (ma a loro va tutta la nostra gratitudine per ciò che hanno custodito con le loro mani e le loro penne d’oca per consegnarlo a noi). Spesso lettere gutturali dal suono simile come κ, χ e γ erano invertite e gli errori venivano trasmessi di testo in testo, di pergamena in pergamena e così di bocca in bocca. Per il suo significato di felicità e di beatitudine, la parola greca μακάριε (pronuncia ‘makari’) era ripetutamente riportata in testi religiosi: scrivi e scrivi, prega e prega, la lettera kappa (κ) deve essere stata scambiata con la gamma (γ). Da quest’errore di trascrizione della lettera che alle orecchie medievali suonava g, scriviamo oggi in italiano il nostro magari, arrivato direttamente dal greco antico, usato ma in buone condizioni, come si suol dire.

Dell’ottativo non c’è oggi più traccia in nessuna lingua: già in latino, da cui deriva l’italiano, non sopravvivono che sfocature, resti di senso orfani di un modo verbale come i congiuntivi derivati da un antico desiderativo (sit, ‘che sia’, velit, ‘che voglia’). La storia di tutte le lingue moderne dimostra che l’ottativo e il congiuntivo, insieme, non potevano convivere a lungo: troppo sottile e allo stesso tempo troppo densa era la linea di 99­­­­

senso che ne tracciava il confine. La distinzione tra congiuntivo e ottativo è stata dunque eliminata, in modo diverso e indipendente, dalle lingue indoeuropee. E, fin dall’inizio, è stato chiaro che sarebbe spettato all’ottativo, prima o poi, l’obbligo di soccombere. Il congiuntivo si è conservato perché, come in latino e quindi in italiano o in francese, è necessario in molte frasi subordinate mentre è limitato nelle frasi principali. L’ottativo, invece, esprimeva delle sfumature di senso, ma non era una forma verbale essenziale per capire e farsi capire. Rappresentava una forma di garbo per esprimere i propri desideri e far di conto con la propria vita (e le proprie parole) senza imporre la propria volontà o invadere la vita (e le parole) altrui. “La perdita dell’ottativo riflette una diminuzione di delicatezza nel greco: è la perdita di un’eleganza da aristocratici”: così commenta la scomparsa di questo modo verbale l’insuperato Antoine Meillet. Del resto, ogni lingua è democratica, è un fatto sociale legato al tempo e al modo di vedere il mondo dei suoi parlanti. Checché se ne dica oggi ai tempi di Twitter e di WhatsApp, sono loro a cambiare prima che la lingua cambi, non viceversa. Ogni parola di ogni lingua è esposta alla democrazia dell’uso di chi la parla; come una scultura è esposta alla democrazia del vento che continua a sbozzare il suo marmo. Con il rimpianto della nutrice per ciò che sarebbe potuto essere e invece non è stato – un desiderio ormai irrealizzabile – si apre una delle più dense e perturbanti tragedie di Euripide, la Medea. Invece, le cose sono andate diversamente. Invece, la nave Argo è salpata e tutto è accaduto. Εἴθ᾽ ὤφελ᾽ Ἀργοῦς μὴ διαπτάσθαι σκάφος Κόλχων ἐς αἶαν κυανέας Συμπληγάδας, μηδ᾽ ἐν νάπαισι Πηλίου πεσεῖν ποτε τμηθεῖσα πεύκη, μηδ᾽ ἐρετμῶσαι χέρας ἀνδρῶν ἀριστέων οἳ τὸ πάγχρυσον δέρος Πελίᾳ μετῆλθον. Οὐ γὰρ ἂν δέσποιν᾽ ἐμὴ 100­­­­

Μήδεια πύργους γῆς ἔπλευσ᾽ Ἰωλκίας ἔρωτι θυμὸν ἐκπλαγεῖσ᾽ Ἰάσονος. Non avesse mai volato lo scafo della nave Argo attraverso le cerulee Simplegadi verso la terra dei Colchi, né reciso tra le boscose gole del Pelio fosse caduto il pino, né questo avesse armato di remi le mani di uomini valenti, che per Pelia andarono a cercare il vello d’oro. Così la mia padrona, Medea, non avrebbe mai navigato verso i baluardi della terra [di Iolco, sconvolta nell’animo dall’amore per Giasone. [Euripide, Medea, vv. 1-8]

L’ottativo greco è perciò la misura perfetta della distanza che intercorre tra la fatica che serve a fare i conti con un desiderio e la forza che occorre per esprimerlo prima di tutto a se stessi; nella convinzione che, in ogni situazione, sia l’eleganza a dare un sottile ma sicuro vantaggio, anche e soprattutto nel linguaggio. Stiamo tra di noi – e tra i nostri desideri.

Ma quindi, come si traduce?

Preferisco venire dal silenzio per parlare. Preparare la parola con cura, perché arrivi alla sua sponda scivolando sommessa come una barca, mentre la scia del pensiero ne disegna la curva. La scrittura è una morte serena: il mondo diventato luminoso si allarga e brucia per sempre un suo angolo. Valerio Magrelli, da Ora serrata retinae

Già, e quindi come si traduce dal greco all’italiano? Che vuol dire? Come si fa? Sono queste le domande che mi sono sentita rivolgere più spesso dai ragazzi cui ho dato lezioni di greco. Le stesse domande, guarda caso, che io rivolgevo al professore da studentessa. Potremmo dire che queste siano domande secolari, anzi millenarie, che affondano le loro radici nel momento esatto in cui si è smesso di capire e farsi capire in greco antico, e quindi l’unico modo per capirlo è diventato la traduzione (per la quale poi, chissà perché, al liceo classico, si usa comunemente il desueto termine ‘versione’). Forse un’ulteriore constatazione, l’ennesimo certificato – come se ce ne fosse bisogno – della morte delle lingue classiche. Tutte le lingue straniere si traducono. Il latino e il greco si volgono. Versione deriva dal verbo latino verto, che significa ‘indirizzare’, ‘cambiare’, ‘trasformare’ e quindi anche ‘tradurre’. Verti etiam multa de Grecis, “ho tradotto anche molte opere greche”, ci informa Cicerone nelle Tusculanae Disputationes. 102­­­­

Tradurre deriva dal verbo latino traduco, che significa trasferire, svelare, condurre al di là. Quindi, portare altrove. È proprio quest’ultimo l’obiettivo profondo della traduzione (o versione) da qualunque lingua: condurre il significato al di là della barriera linguistica del significante. Una traduzione non sarà mai l’opera originale, ma un cammino verso il suo senso originale. Il risultato sarà un incontro, come chi si imbatte in un’altra persona, lontana eppure subito vicina. Questo vale anche per il greco antico, anche se nessuno lo parla più. La traduzione è un percorso, passo dopo passo, per avvicinarsi quanto più possibile al significato di una lingua che non è nostra, e mai lo sarà. Un viaggio verso una lingua che possiede delle particolarità che la rendono unica e speciale, ma che noi non sentiamo perché ne siamo linguisticamente sprovvisti. E quindi siamo costretti a tradurre, a metterci in cammino verso l’altrove – e l’altrimenti detto. Per arrivare alla fine del viaggio della traduzione, che non si sa mai dove esattamente conduca, ci vuole una perfetta conoscenza della lingua, questo è fuori discussione; quindi studio, sudore, fatica, tenacia. Ma è fondamentale anche un certo modo di sentire cosa la lingua ci stia dicendo da un passato che è sì remoto, ma non dissolto; altrimenti, perché studiarla se ogni suo senso fosse andato perduto? Ci vogliono dimestichezza, costanza, fiducia in se stessi e nella lingua. Perché un testo parla, basta ascoltarlo. (E no, non soffrivo di allucinazioni né ebbi svolte mistiche quando, davanti ad un compito in classe, immancabilmente alle 8 di mattina, dovetti scegliere: vincere o soccombere al greco. Fu allora che capii che l’unico modo per proseguire sarebbe stato pensare come pensavano i Greci. Questo è, da oltre quindici anni, il mio metodo e il mio primo, più importante consiglio per affrontare ogni traduzione o versione, che dir si voglia.) La prima reazione di ogni liceale di fronte ad un testo greco spazia dal terrore alla paura, al panico. Cinquanta sfu103­­­­

mature di angoscia. Chiunque abbia frequentato il liceo classico sa. Chi non sa, avrà avuto forse timore di altro a scuola; delle equazioni, del disegno tecnico, della nomenclatura di chimica, dell’inglese. Con tutto il rispetto, timore, appunto. Ma non il vero, tangibile sgomento che chi ha studiato il greco ha provato almeno una volta nella vita davanti a un brano da tradurre: la paralizzante paura di non capire. L’orrore di vedere misteriosi segni grafici stampati (male, chissà perché i testi dei compiti in classe sono sempre così sfocati e sbiaditi da sembrare essere fotocopiati direttamente dalle epigrafi di Atene) e di non avere la minima idea di cosa significhino. (Ricordo bene quando, alla versione di maturità, fissai il foglio per oltre un’ora con le bolle nella testa, forse per via dell’ipoventilazione dovuta all’aria viziata dell’aula e al caldo di luglio, senza riuscire a muovere un muscolo, nemmeno per aprire il dizionario. Fortunatamente poi mi ripresi, sennò non sarei qui oggi a raccontarvi tutto questo.) Insomma, il greco è morto da un migliaio di anni e ancora continua a suscitare una paura folle in chi gli si avvicina. Al punto che sono arrivata a pensare che il terrore sia una conditio sine qua non dello studio del greco. Un mio adorato amico, anni quarantatré, ha avuto la fortuna (o la sfortuna) di accompagnarmi nella scrittura di questo libro – gli devo molto. Una sera mi ha detto, arreso di fronte ad una mia mail: “Io di greco non ci ho mai capito nulla a scuola, solo a ricevere i tuoi capitoli mi sento male!”. Una paura che non passa mai, quindi, neppure da adulti. Peccato. Moltissimi studenti mi dicono di sentirsi in soggezione di fronte alla pagina da tradurre perché l’alfabeto è diverso dal nostro. Vero, verissimo, ma l’alfabeto è il mezzo per comunicare di una lingua, non è la lingua: è solo un sistema grafico per mettere sulla pagina i suoni delle parole. Una volta imparato a decifrarlo, cosa che avviene solitamente nel primo mese di liceo classico, ne siamo padroni, è nostro (poteva andare 104­­­­

comunque peggio, l’alfabeto greco è fatto di lettere, non è composto dagli ideogrammi giapponesi o dalle sillabe della lineare B micenea!). Molti mi dicono poi di aver paura perché le parole sono diverse dall’italiano, non si assomigliano. Come negarlo, si tratta di un’altra lingua, una lingua straniera. Forse che in inglese le parole sono le stesse? C’è un solo modo per vincere questa paura: il tempo. La dimestichezza. L’esercizio. Più volte si incontrerà la stessa parola greca, più probabilità ci sono che questa ci resti in mente, che diventi nostra. Infine, a scuola scatta la corsa contro il tempo a disposizione per tradurre, che è direttamente proporzionale alla corsa al dizionario. Meno fiducia si ha in se stessi e nella lingua e più ci si aggrappa al dizionario come naufraghi ad una zattera dispersa nell’oceano. È vero che, in principio, le parole greche che si conoscono sono limitate e il dizionario è fondamentale. È vero che, in caso di dubbi o incertezze, il vocabolario è un fido alleato. Tuttavia un utilizzo matto e disperatissimo del dizionario di greco può alla lunga rivelarsi controproducente o persino rischioso. Controproducente perché ogni dizionario riporta solo una gamma ridotta di significati per ciascuna parola (è una gabbia di senso, ci avete mai pensato?). Inoltre, se non si è grado di appropriarsi del significato di alcune parole del greco antico, si resterà eternamente aggrappati al vocabolario, allontanandosi sempre di più dalla lingua, come il naufrago che si rifiuta di abbandonare la zattera e di fidarsi della nave in arrivo. Infine, il dizionario può essere addirittura pericoloso. Gli studenti presi dal panico si fidano così poco di se stessi che arrivano a spulciare la traduzione di ogni lemma per pagine e pagine (e intanto il tempo a disposizione per la versione passa inesorabile, quasi sempre scandito dal ticchettio di un triste, spietato orologio donato alla scuola da qualche banca popolare locale). Quasi mai riescono a credere che il significato di una parola sia proprio il primo riportato sul dizionario, il più comune e il più semplice, e finiscono per scegliere 105­­­­

l’ultimo; che è magari un’espressione gergale usata una volta sola da un poeta di un’isola remota, del tutto scomparso da ogni memoria. Sia chiaro, non sto consigliando di buttare il vocabolario o di rivenderlo, con quello che costa (quanti sono ancora, nel 2016, i ragazzi che non si possono economicamente permettere di iscriversi al liceo classico? Ho conosciuto molti, troppi studenti con famiglie in difficoltà nell’acquistare i libri di testo, i vocabolari o nel pagare le lezioni private, abbandonate a se stesse dalla scuola pubblica). Sto invece suggerendo di non restarne ostaggi. Di non controllare ogni virgola, ogni parola per sicurezza (anche se, lo ammetto, lo facevo anch’io, almeno all’inizio). Di avere fiducia in ciò che si è appreso. Soprattutto, di non considerare mai una traduzione un meccanico processo binario: A in greco diventa B in italiano. Se tutto fosse così piatto e scontato, con il giusto dizionario sottomano potremmo tradurre ogni lingua del mondo: sappiamo bene che non è così dai tempi di Babele, a meno che non si voglia considerare traduzione una combinazione di parole messe in fila e generate a mo’ di Google translate. In sintesi, per tradurre il testo, per avvicinarsi il più possibile al suo significato, delle volte serviranno parole in più, altre in meno passando dal greco all’italiano. Occorre sempre sentire ciò che il testo sta dicendo per poi dirlo nella nostra lingua. “Lei conosce tutte le parole del greco?”, mi chiedono spesso allibiti i miei studenti; allo stesso tempo, resto allibita io dal fatto che, per la sola ragione di conoscere il greco, mi diano del lei e quindi irreparabilmente della vecchia (accadeva anche quando avevo vent’anni). No, certo che no. Io non conosco tutte le parole del greco, pur avendo un diploma con lode al liceo classico, una laurea con lode in lettere classiche e avendo tradotto un buon numero di testi; del resto, con tutte le varietà dialettali che caratterizzavano la Grecia antica, forse nemmeno un greco sapeva tutte le parole di greco. 106­­­­

Sicché ancora oggi uso il dizionario, e con frequenza. In tutta franchezza, dichiaro ufficialmente di non ricordare nemmeno tutte le infinite particolarità grammaticali e sintattiche, e quindi consulto spesso i manuali senza particolare disprezzo (quello lo covano certi cosiddetti accademici che, chissà perché, sono finiti ad odiare il lavoro che fanno e quindi se stessi e gli altri). All’università sostenni un esame che prevedeva espressamente una parte di traduzione dal greco a prima vista: ometto quasi sempre questo racconto ai miei ragazzi per non dar loro il colpo di grazia. L’esame consisteva nel tradurre appunto all’impronta, cioè senza l’ausilio del vocabolario, e ad alta voce, in pochi secondi, un brano di greco scelto a caso dal professore. Ripeto: un qualunque brano di greco pescato tra tutta la letteratura greca. Esclusa l’eventualità di imparare a memoria tutta la letteratura greca, non restava che un modo per superarlo: abbandonare l’apprendimento a memoria e fare ricorso alla dimestichezza e all’intuizione. No, non posso dire oggi che fu facile, ma nemmeno che fu un dramma: la paura che provai fu certo inferiore a quella provata davanti a qualunque versione del liceo. Perché nel frattempo erano quasi dieci anni che studiavo il greco e la lingua era diventata mia; o almeno un po’. L’esame andò molto bene pur non conoscendo tutte le parole del testo che il professore mi parò davanti: era un brano di Luciano che parlava del viaggio dell’uomo sulla luna, impossibile dimenticarlo. Semplicemente accadde ciò che accade normalmente quando si parla una lingua straniera e ci sfugge il significato di una parola mentre tutte le altre tornano: il senso di quella mancante lo si calcola per intuizione, avvicinandosi il più possibile all’originale. Una volta che si è capito il significato della frase, il passo per avvicinarsi al senso di ogni parola è compiuto. I problemi iniziano quando non si comprende per niente il significato del testo. Anzi, quando nemmeno il testo lo si legge, perché spaventati dall’alfabeto o terrorizzati all’idea di 107­­­­

perdere tempo. E quindi ci si butta a tradurre la prima parola, e poi tutte le successive nel loro esatto ordine, qualunque esso sia, per poi ricombinarle in italiano come i colori del cubo di Rubik e dare (o ‘inventare’) un significato al brano. So che ogni insegnante consiglia di leggere la versione prima di iniziare a tradurla e nessuno studente lo fa (non lo facevo nemmeno io al liceo, non posso iniziare a mentire proprio ora). Quando ho chiesto, ai miei studenti e a me stessa, il perché di questo gran rifiuto, la risposta è stata quasi sempre: “tanto non ci capisco niente, non mi dice niente, inutile leggere”. Ecco, mettersi a tradurre una lingua, che si sta studiando da uno, due, cinque anni, con la convinzione di non capire nulla, di aver davanti un testo muto, non è un buon punto di partenza. Ne farei una solenne questione di rispetto: per se stessi, per la lingua e per il tempo che si è speso a studiarla. E invece accade, accade quasi sempre. Non ho mai visto sguardi più smarriti come quando faccio domande del tipo: “cosa ti ricorda ἀρχή (pronuncia “arché”) oppure γράφειν (pronuncia “gráphein”) in italiano? Davvero non ti vengono in mente parole come ‘archeologia’ o ‘grafica’?”. Davvero, sì. Cioè no, non vengono in mente. La barriera dell’alfabeto – e, secondo me, della soggezione che incute il greco – pare inghiottire nel buio qualunque assonanza con la nostra lingua. E così si rinuncia in partenza a voler capire, certi di non capire. Il motto socratico “io so di non sapere” diventa l’alibi e la tana di ogni studente. Mi permetto, però, l’ardire di contraddirli: voi sapete! Sapete leggere il greco, sapete tante cose, tantissime regole. Studiandola, la lingua sta diventando vostra. Davvero le virgole, i punti, i verbi più comuni non vi dicono assolutamente nulla? Non ci credo, mi rifiuto. Fidatevi di voi e di ciò che sapete, è davvero una questione di rispetto. Altra fonte di panico accecante sono le regole grammaticali. Ancora prima di aver letto il testo, molti studenti si accorgono che è presente questa o quella costruzione e in 108­­­­

cuor loro sanno di non ricordarla o di non averla studiata come si deve; e quindi abbandonano disperati ogni tentativo di capire il resto del brano. Prima di tutto, sgombriamo il campo: ogni testo, in greco, in latino, in italiano, in francese, non è una mera somma di regole grammaticali da risolvere. Non è un quiz a premi, non è un’equazione matematica, non è un rebus. Ogni testo esiste perché, chi l’ha scritto, ha sentito la necessità di esprimere, di raccontare qualcosa. E quel qualcosa non è certo la regola grammaticale che non ricordate. Traducendo insieme ai ragazzi, ho spesso sentito definizioni di grammatica così precise e impeccabili – ad esempio, “questo è un verbo impersonale che regge bla bla bla e in italiano si rende con la perifrasi bla bla bla” – da far sbiancare un monaco bizantino, un linguista e un membro dell’Accademia della Crusca tutt’insieme. Di nuovo, non sto dicendo che conoscere la grammatica a menadito sia sbagliato, anzi, molto me ne rallegro (e provo invidia, io non la so più con tale perfezione). Sbagliato è, invece, considerare la grammatica il fine della traduzione e non il mezzo. Conoscere le regole di una lingua è la base imprescindibile per dare senso e significato ai testi che in quella lingua sono scritti. Ma le regole non sono la lingua. Non ricordate questa o quella regola? Pazienza, la prossima volta studierete di più, stavolta qualcosa vi sfuggirà e non prenderete dieci. Ma intanto, di grazia, capite cosa sta dicendo il resto del brano greco senza sentirvi in colpa, incapaci, ignoranti o falliti. Ancora una volta, è una questione di rispetto: il testo ha tante cose interessanti da dirvi, andatele a scovare, scavate per riportarle in superficie e dirle a modo vostro. Un altro problema, e non di poco conto, è la conoscenza della storia, della cultura, della civiltà, della politica greca a quattordici, quindici, sedici anni. È facile ora, per noi, affacciarci nelle vite dei liceali (o, ancora più facile, nel nostro passato di liceali), dare loro qualche 109­­­­

consiglio, sputare sentenze, invitarli a studiare di più e poi tornare tranquilli sul divano a leggere i nostri libri, i nostri giornali, ad ascoltare la nostra musica, il cui senso e la cui lingua sono da adulti (o meglio, lo dovrebbero essere, visto che pare di vivere in un’epoca in cui la maturità non arriva mai e a quarant’anni si è ancora ragazzi, mentre a quarantuno si è di colpo vecchi). Nonostante tutti gli sforzi profusi nella direzione di una maggiore comprensione della globalità del mondo greco, e non solo della sua lingua, da parte dei nuovi libri di testo e di alcuni, illuminati insegnanti, il programma scolastico di storia non va di pari passo con quello delle traduzioni di greco. E poiché al liceo si deve (dovrebbe) apprendere tutta la storia dell’umanità, allo studio della Grecia antica è riservato un mese, forse due, come è inevitabile che avvenga. Lo stesso vale per la letteratura, la storia dell’arte, la filosofia e la geografia (se ancora esiste come materia di insegnamento, non ricordo). Di conseguenza, ciò che un ragazzo di quindici o sedici anni conosce dell’antichità greca è molto, molto limitato e assolutamente insufficiente per capire o per non trovare bizzarre o misteriose quelle versioni che parlano di tattiche militari, oracoli, usi religiosi, mitologia, politica; d’altronde non è comunque detto che questa conoscenza l’abbiano molti adulti, anzi, lo escludo categoricamente. Quante volte mi sono sentita chiedere: “ma cosa sta dicendo?”, di fronte a testi che parlano di cose per me ormai banali, ma legittimamente oscure ad un adolescente... Del resto, è davvero così scontato che a quindici anni si usi, la sera al pub con gli amici, l’espressione: “ehi, ho una spada di Damocle che mi pende sul capo!”, e che si conosca l’aneddoto all’origine di questa espressione? No, non lo credo affatto. Ed ecco che lo studente, di fronte a un testo che racconta di Damocle o dell’oracolo di Delfi o di come Pericle affrontò il timore dell’eclissi non ha il minimo riferimento storico o sociale di ciò di cui si sta parlando. Per non menzionare poi i brani di guerra, secondo un mio personalissimo sondaggio i più odiati da tutti gli studenti, me compresa: una decina di righe estrapo110­­­­

late dai lunghissimi – e bellissimi – libri di storia di Senofonte o Tucidide. Quasi sempre il soggetto è un sottinteso ‘essi’ (essi chi? Gli Ateniesi? I Greci? I Persiani? I barbari?) e l’oggetto è un sottinteso ‘loro’ (ma loro chi? Idem). Una decina di righe che parlano di accampamenti, tattiche militari, armi, assedi, strateghi, sacrifici e che, pur tradotte alla perfezione, lasciano sempre una domanda irrisolta: di chi stiamo parlando? Chi sono questi che vincono e questi che perdono? Mistero. E visto che questo è un capitolo in cui tanto parlo e metto a nudo le paure dei miei studenti e dei miei amici, sono – ahimè – moralmente tenuta a fare altrettanto di me stessa. Quindi sono costretta a raccontare una delle figuracce peggiori dei miei anni al liceo, così ignobile che, dopo non averci dormito per un paio di settimane, ho deciso di rimuoverla e di non parlarne mai con nessuno, come se non fosse mai accaduta. E invece è accaduta eccome, e vuoto il sacco ora per dimostrare quanto sia importante una conoscenza a tutto tondo del mondo antico, oltre che della sua lingua, della sua grammatica e di una certa sensibilità linguistica. Siate clementi, ve ne prego. Non infierite su uno dei peggiori traumi della mia giovinezza al liceo classico. Versione finale (di latino, in questo caso, ma vale anche per il greco) del primo anno di liceo classico. Quella in cui ci si gioca tutto, compreso il diritto di un’estate spensierata al mare di Tirrenia tra sabbia e soprattutto meduse. Il titolo del compito in classe, scritto in grassetto e in italiano, è “Il ratto delle Sabine”. Segue testo da tradurre. Io, anni quindici, andavo bene in latino: quindi tutto sotto controllo, figuriamoci. Il problema è che di codeste Sabine non avevo mai sentito parlare in vita mia: chi erano? Che problema avevano avuto? Sapevo però molto bene cosa fosse un ratto, vivendo in campagna: un brutto topo con la coda lunga e gli occhi rossi. Mi misi dunque a tradurre tutta baldanzosa, ma il senso del testo alla fine non tornava. No, non tornava affatto. 111­­­­

Sembrava un’accozzaglia di parole o un ardito esperimento di scrittura dadaista. Sabine e topi non sembravano c’entrare nulla tra loro. Strano, pensai, molto strano. Scaduto il tempo, consegnai mesta e incredula il foglio. Qualche giorno dopo mi venne restituito con un bel tre scritto sopra con il lapis rosso e un trauma da cui non mi sarei ripresa mai più, se non fossi scesa a patti con le mie colpe grazie all’ironia (ci sono voluti, ora che ci penso, quindici anni, perché il momento di “scendere a patti con le mie colpe grazie all’ironia” è adesso). Cos’era accaduto quell’infamante giorno di fine maggio, quindi? Mai mi era giunta voce del fatto che Romolo, fondata Roma e trovandosi a corto di donne per procreare e dare discendenza alla città, avesse rapito quelle dei popoli vicini, tra cui i Sabini: l’idea del rapimento delle donne sabine quel giorno non sfiorò nemmeno l’anticamera del mio cervello. E, fidandomi del titolo italiano (e della mia commovente ingenuità), nemmeno sospettai che raptum, in latino, non volesse affatto dire ‘topo’, bensì ‘rapimento’, in quanto participio del verbo rapio. Così, oltraggiando la loro memoria, mescolai quelle povere donne ai ratti. Che vergogna. A mia discolpa posso timidamente addurre una giustificazione: perché il titolo italiano del testo era “Il ratto delle Sabine”? Non si poteva scrivere direttamente ‘rapimento’ onde evitare equivoci nelle testoline di quindicenni già pronti ad andare al mare? Quanti italiani, oggi, usano comunemente la parola ‘ratto’ senza voler dire ‘topo’? Comunque, la colpa era tutta mia. Chiedo ancora scusa, anzi pietà: non sapevo quasi nulla della fondazione di Roma, a quindici anni nessuno mi aveva mai spiegato le sue leggende. Ero ignorante, nel suo senso etimologico: ignoravo. Chiedo comunque ancora perdono a tutti, soprattutto alle Sabine, e lo farò per tutta la vita. Infine, una notazione. Al liceo classico si traducono solo testi tratti dalle opere di 112­­­­

autori di prosa, da Platone a Plutarco, da Esopo a Senofonte, da Tucidide ad Aristotele. Ciascuno di loro, come tutti noi, scrive in un modo unico e distintivo, personale. Ancora una volta, ci vogliono tempo, pazienza ed esercizio per abituarsi a riconoscere le particolarità espressive di ogni autore: tutto il tempo che serve per imparare a sentire linguisticamente la voce di chi scrive e renderla al meglio in italiano. Non si tratta di forme ‘diverse’ di greco, si tratta invece di modi ‘diversi’ di utilizzare il greco. Platone si esprime, in assoluta libertà, in modo del tutto diverso da Tucidide, proprio perché è Platone; così come Dave Eggers, oggi, utilizza l’inglese americano in modo del tutto diverso dal suo contemporaneo e connazionale Jonathan Franzen, e un libro di Orhan Pamuk può essere amato senza trovarlo estremamente noioso solo se si considera la lentezza come una caratteristica propria del modo di vivere, e quindi di scrivere, turco. Se a scuola si traduce, ovvero si maneggia, solo la prosa greca, significa che ne resta del tutto esclusa la poesia. E con questo non intendo solo la lirica di Alceo, Saffo e Pindaro, ma anche tutta l’epica, la commedia e la tragedia, vere cifre dell’essere greci. Che fortuna, diranno gli studenti! Che peccato, dico io, non sanno cosa si perdono; e quasi certamente non lo sapranno mai, visto che le probabilità che all’università si iscrivano a lettere classiche sono minime. La poesia greca viene affrontata come eterea letteratura, quasi mai ci si sporcano – o dipingono – le mani. Certo la sua traduzione è dieci volte più difficile della prosa, ma dieci volte più ricca di senso. Talvolta viene tradotta integralmente una sola tragedia, verso dopo verso per un anno, solitamente il quinto, l’ultimo: nel mio caso toccò all’Edipo Re di Sofocle. Fu un’esperienza faticosa, ma così preziosa, così carica di vita, che l’Edipo Re è una delle tragedie greche che più mi è rimasta nel cuore, oltre che nella testa e “nella lingua”. C’è una bella differenza tra leggere un autore e sentir parlare di un autore. Potrei essere la livornese più brava del mondo 113­­­­

a raccontarvi Caproni, ma sarà sempre, appunto, un racconto: la bellezza delle sue poesie, così come il suo essere, sono custoditi nei versi. Perciò resto un po’ perplessa di fronte a molti manuali di letteratura greca che della poesia parlano, ma non la mostrano. Gli studenti saranno sempre privati di uno degli usi più intimi e profondi della lingua greca; e pazienza se è “difficile”, una lingua la si apprende anche e soprattutto per questo, per capire le prospettive più complesse sul mondo, non solo le più facili. Ancora oggi sorrido e insieme rabbrividisco al ricordo del mio manuale di letteratura greca del liceo che, raccontando vita, morte, opere e miracoli di ogni autore, ne illustrava inoltre lo stile: come si può imparare lo stile di testi che non si sono mai letti e mai si leggeranno? È come descrivere nei dettagli un dipinto che nessuno vedrà mai. Non dimenticherò il mio sbigottimento di fronte alla definizione dello stile di Eschilo: “uno stile ripido e scosceso”. Chissà che vuol dire, mi chiedevo a sedici anni come me lo chiedo oggi a trenta e come forse mi chiederò a ottanta. Chissà che senso hanno quei due aggettivi che riesco ad applicare ad un sentiero di trekking e non ai versi di un poeta. L’ho capito, e lo capirete, solo leggendo davvero Eschilo in greco – e tutti gli altri autori – nella loro lingua, se avrete coraggio e fortuna. Vediamo quindi da vicino, cioè in atto, come si traduce. Non ho ricette magiche né soluzioni miracolose: tutto ciò che avete letto fin qui sono miei personalissimi consigli, frutto di esperienza e di tempo. Tanto tempo. Un po’ come i rimedi della nonna per affrontare ogni malanno, eredità del sapere accumulato con pazienza in una vita intera. Bisogna specificare che c’è una grande differenza tra traduzione libera e traduzione scolastica. Quasi sempre, a scuola, viene richiesta o privilegiata la seconda: la totale fedeltà al testo, e la conseguente abdicazione a ogni libertà. Certo ciò è ragionevole, dal momento che si maneggia da troppo poco tempo la lingua greca per utilizzarla a scopo personale; ed è 114­­­­

già faticoso esprimere ciò che intendeva dire l’autore in greco, figuriamoci esprimere anche se stessi attraverso il greco! Ciò che conta, in ogni caso, è la distanza tra traduzione corretta o sbagliata. Una traduzione scolastica è cosa buona e giusta, quindi, purché non diventi una prigione. Una gabbia di ferro che rende il greco in un italiano incrostato di ruggine. La lingua greca è una lingua sintetica, ossia una lingua che esprime con una sola parola le relazioni grammaticali, dai casi delle parole alle costruzioni verbali. Il greco, insomma, non sente il bisogno di spiegarsi troppo: molte sue costruzioni sono implicite, impersonali, i significati racchiusi in un prefisso o in una desinenza. È una lingua quasi epigrammatica: sarà per questa ragione che il genere dell’epigramma l’ha inventato. Ecco perché uno dei rischi principali di una traduzione troppo scolastica è quello di dar vita ad un testo italiano ancora più oscuro e incomprensibile di quello greco. Lasciando impliciti i participi, all’infinito gli infiniti, letterali i pronomi, certe traduzioni sono così scolastiche da avere, a loro volta, bisogno di una traduzione. Difficile, quasi impossibile convincere gli studenti a lasciarsi andare, ad essere un po’ liberi e meno ingessati; il terrore di sbagliare, la paura di prendere una libera scelta che potrebbe ‘non piacere’ al docente (ma il greco non è una questione di gusti!), il panico di esplicitare ciò che non si è capito: tutte ragioni che li spingono a sacrificare sull’altare della correttezza grammaticale ogni pretesa di senso in italiano. E così l’idea di tradurre come portare altrove viene meno: il significato della traduzione italiana è misterioso come l’originale greco. Anziché mettersi in cammino, si è rimasti fermi nello stesso posto. Mi rendo perfettamente conto che, per tradurre in maniera libera, ci vuole una confidenza con la lingua, un’esperienza e una fiducia in se stessi non comune durante i primi anni di liceo. Gli ultimi però, forse sì. Perché non si tratta di “inventare” – come mi dicono rabbrividendo i miei ragazzi –, ma di arrivare così vicini alla lingua da sfiorarla. 115­­­­

Le particelle I testi greci sono infarciti di particelle di difficile traduzione, come tutti gli studenti sanno: le più comuni sono μέν, δέ, γάρ come in questo caso, δή. La ragione della loro frequenza è dovuta al fatto che, in origine, il greco non adoperava i segni di punteggiatura (o “di interpunzione”) comunemente utilizzati in italiano e nelle altre lingue contemporanee: tali segni, insieme agli accenti, furono aggiunti più tardi, in epoca bizantina, per facilitare la comprensione di testi scritti in una lingua che stava diventando sempre più sfocata. Le particelle abbondano nei testi greci perché assolvevano quindi il ruolo della moderna punteggiatura. Da esse dipendeva la scansione logica della frase e avevano quindi una grandissima importanza semantica. Il problema è che, molto spesso, in italiano sono intraducibili. Μέν e δέ sono senza dubbio le più frequenti, e anche le più difficili da rendere. Quasi sempre si trovano a distanza di poche parole o frasi e legate da una correlazione di senso logico: μέν, in generale, indica il primo punto di un’argomentazione e δέ tutti i punti successivi collegati al primo. Queste due particelle servivano a tenere il filo del discorso:

Ho scelto di riportare di seguito il brano di Senofonte noto con il titolo “Nulla si ottiene senza fatica”; la scelta non è affatto casuale, anzi, riassume il senso di questo strambo capitolo. Per mostrarvi la differenza, l’ho tradotto in due modalità: prima in modo pedissequamente scolastico, poi in totale, ma grammaticalmente fondata, libertà. Τῶν γὰρ ὄντων ἀγαθῶν καὶ καλῶν οὐδὲν ἄνευ πόνου καὶ ἐπιμελείας θεοὶ διδόασιν ἀνθρώποις, ἀλλ’ εἴτε τοὺς θεοὺς ἵλεως εἶναί σοι βούλει, θεραπευτέον τοὺς θεούς, εἴτε ὑπὸ φίλων ἐθέλεις ἀγαπᾶσθαι, τοὺς φίλους εὐεργετητέον, εἴτε ὑπό τινος πόλεως ἐπιθυμεῖς τιμᾶσθαι, τὴν πόλιν ὠφελητέον, εἴτε ὑπὸ τῆς Ἑλλάδος πάσης ἀξιοῖς ἐπ’ ἀρετῇ θαυμάζεσθαι, τὴν Ἑλλάδα πειρατέον εὖ ποιεῖν, εἴτε γῆν βούλει σοι καρποὺς ἀφθόνους φέρειν, τὴν γῆν θεραπευτέον, εἴτε ἀπὸ βοσκημάτων οἴει δεῖν πλουτίζεσθαι, τῶν βοσκημάτων ἐπιμελητέον, εἴτε διὰ πολέμου ὁρμᾷς αὔξεσθαι καὶ 116­­­­

il loro uso è tipico nelle descrizioni, nelle narrazioni, nelle trattazioni. In italiano, consiglio di evitare, se non strettamente necessario, la pesantissima resa “da un lato... / dall’altro...”: μέν e δέ ricorrono così spesso che si finirebbe per avere un testo carico di ‘lati’ contrapposti. Considerando μέν un punto fisso, il primo punto, si può non tradurre (io non lo traduco quasi mai). Δέ può essere reso con un ‘mentre’, un ‘invece’ oppure semplicemente con una virgola, proprio per indicare il proseguimento del discorso. Se trovate da sole, cioè non in correlazione, solitamente μέν significa ‘certamente’ e δέ mantiene il suo valore di cambiamento, che si può rendere con il semplice ‘invece’. Anche la particella γάρ è frequentissima: solitamente posta all’inizio della frase, come in questo brano di Senofonte, indica la spiegazione di un concetto espresso in precedenza (solo che spesso, quel concetto, non è contenuto nella versione estrapolata dal testo originale, creando fraintendimenti su ciò di cui si sta effettivamente parlando). Si può tradurre con ‘quindi’, ‘infatti’; oppure lasciarla andare. Δή, infine, enfatizza la parola che precede e aggiunge intensità: si può tradurre con ‘proprio’ o ‘appunto’. βούλει δύνασθαι τούς τε φίλους ἐλευθεροῦν καὶ τοὺς ἐχθροὺς χειροῦσθαι, τὰς πολεμικὰς τέχνας αὐτάς τε παρὰ τῶν ἐπισταμένων μαθητέον καὶ ὅπως αὐταῖς δεῖ χρῆσθαι ἀσκητέον· εἰ δὲ καὶ τῷ σώματι βούλει δυνατὸς εἶναι, τῇ γνώμῃ ὑπηρετεῖν ἐθιστέον τὸ σῶμα καὶ γυμναστέον σὺν πόνοις καὶ ἱδρῶτι. [Senofonte, Memorabilia, 2, 1, 28] (Traduzione scolastica) Gli dei infatti non danno agli uomini nessuna delle cose che sono belle e buone senza fatica e zelo, ma se vuoi che gli dei siano a te propizi bisogna onorare gli dei, se vuoi essere amato dagli amici, bisogna beneficare gli amici, se desideri essere onorato da una qualche città, bisogna giovare alla città, se ritieni conveniente essere ammirato per la virtù dall’intera Grecia, bisogna provare a fare del bene alla Grecia, se vuoi che la terra produca per te abbondanti frutti, bisogna coltivare la terra, se pensi che convenga arricchirsi per mezzo delle greggi, bisogna prendersi cura delle greggi, se vuoi 117­­­­

Basta un alfa per togliere: α privativo Il senso letterale di ἀφθόνους, che compare nel brano di Senofonte, è ‘privo di invidia’ e quindi, per senso traslato, ‘abbondante’, ‘generoso’. L’aggettivo è formato infatti da ἀ + φθόνος, ossia ‘maldicenza’, ‘invidia’. Vediamo qui in atto un esempio di una delle particolarità più geniali del greco antico: basta una lettera, l’alfa, α, per togliere, per negare il senso e mutarlo nel suo opposto. È il cosiddetto alfa privativo, dal greco στερητικόϛ, ‘che ha qualità negativa’: nessuna lingua ha mai impiegato uno strumento tanto semplice quanto definitivo per trasformare il significato di una parola nel suo contrario. La vocale alfa, prefissa ad un nome o ad un verbo, ne nega ed esclude del tutto il significato originario trasformandolo in un nome o in un verbo del tutto diverso, come l’aggettivo sopra. Grazie a questa caratteristica del greco, ogni parola poteva dunque trasformarsi nel suo contrario con la sola aggiunta della lettera α: di fatto, il vocabolario a disposizione del parlante era moltiplicato per due, con una varietà infi-

diventare grande per le imprese della guerra e se vuoi avere il potere di liberare gli amici e sottomettere i nemici, bisogna apprendere le arti belliche presso coloro che le conoscono ed esercitare il loro corretto uso; ma se vuoi essere forte anche nel corpo, bisogna abituare il corpo ad assoggettarsi alla mente ed esercitarlo con fatiche e con sudore. (Traduzione libera) Gli dei non concedono agli esseri umani nulla di bello e prezioso senza impegno e costanza. Se vuoi che gli dei ti siano benigni, onorali. Se vuoi essere amato dagli amici, fa’ loro del bene. Se desideri essere onorato da una città, fa’ del tuo meglio. Se desideri essere ammirato per le tue doti da tutta la Grecia, devi darti da fare per esserle utile. Se vuoi che la terra generi per te frutti in abbondanza, coltivala. Se pensi di arricchirti con il bestiame, prenditene cura. Se vuoi eccellere in battaglia, se vuoi poter liberare gli alleati e punire i nemici è fondamentale apprendere le tecniche della guerra da chi le padroneggia bene e devi esercitarti per farne l’uso migliore. Infine, 118­­­­

nita di significati a disposizione per esprimere (o negare e trasformare) la realtà. L’alfa privativo può, a seconda dei casi, indicare mancanza, come ἀκέφαλος, “senza testa”; privazione, come ἄπολις, “senza patria”; negazione come ἄβιος, “invivibile”: L’utilizzo di a-/an- prima di parole per indicare privazione è sopravvissuto e corrente in quasi tutte le lingue europee: l’italiano alternativamente usa l’a- di origine greca, come ad esempio ‘amorale’, e l’in- di origine latina, come ‘incivile’. Tuttavia, l’impiego dei prefissi di negazione è ormai quasi sempre fissato e codificato in parole di valore preciso, perciò prive del significato opposto, come ‘analgesico’. Si è persa dunque la forza originaria dell’alfa, una sola lettera che poteva mutare il significato di pressoché ogni parola, raddoppiandola. Un’ultima osservazione: anche le lingue germaniche, come il tedesco e l’inglese, impiegano con frequenza i prefissi di negazione. Basti pensare all’un- inglese: ad esempio unfinished (Unfinished simpathy è il titolo di una splendida canzone dei Massive Attack).

se vuoi invece che il tuo corpo sia forte devi porlo al servizio della mente ed allenarlo con sudore e fatica.

Entrambe le traduzioni sono grammaticalmente corrette, ineccepibili. Nessun professore avrebbe nulla da obiettare. Ma quale delle due risulta più vicina a voi, a noi? Curioso è osservare l’eredità di cinque anni trascorsi a tradurre il greco al liceo classico dopo dieci, venti, trent’anni dal diploma. Non mi riferisco all’eredità grammaticale, ma all’impronta che maneggiare questa lingua antica lascia in modo indelebile nell’italiano di chi l’ha studiata. Li riconosci spesso quelli che hanno frequentato il liceo classico (non solo dagli occhiali che quasi sempre portano). Li riconosci dal modo di parlare e di scrivere: segno concreto che il greco è entrato dentro di loro, nel modo di vedere e di esprimere il mondo in italiano, e mai più ne è uscito. Oltre alla ricchezza del vocabolario – inevitabile quando si sono 119­­­­

passati cinque anni a studiare parole parole parole, parole bellissime – e ad una certa propensione all’ipotassi – cioè a discorsi complicati, fatti di lunghe subordinate –, alcuni modi di dire del greco non solo sopravvivono, ma anzi vivono in chi ha studiato il greco. In primis, la correlazione. A forza di tradurre testi in cui i concetti si oppongono logicamente (i Greci adoravano contrapporre per rafforzare la pregnanza logica!), le frasi di chi ha faticato sul greco sono spesso binarie e infarcite di: “da un lato... / dall’altro...”, oppure “non solo... / ma anche...”. Chiara eredità di tutti i μέν... / δέ... e degli ου μόνον... / ἀλλὰ καί... trovati centinaia di volte nei testi greci. In secundis, la pretesa di coerenza logica. Difficile, molto difficile, per chi ha sudato a tenere il filo delle speculazioni logiche ineccepibili dei dialoghi di Platone, essere oggi preso per il naso da un articolo di giornale manipolato, da un discorso incongruente di un politico, da un’opinione non richiesta su Facebook, dalle istruzioni contraddittorie di un manuale dell’Ikea. Qualcuno conserva il vizio delle etimologie dal greco: io, ad esempio, che non posso fare a meno di vedere che la parola ‘geografia’ deriva dal greco e significa ‘descrivere la terra’ o che ‘telefono’ significa ‘sentire da lontano’. Altri ancora, invece, conservano il ricordo di guerre antiche, falangi, tattiche militari, navi triremi, accampamenti, barbari, divinità ed eroi; e si sentono a loro volta eroi quando guardano i kolossal americani, facendo un figurone con gli amici. Infine, non ho dati statistici alla mano, ma credo che l’uso del punto e virgola in italiano sia sottratto alla sua definitiva estinzione solo da chi ha frequentato il liceo classico. Cinque anni trascorsi a tradurre il segno di punteggiatura greco “·” con “;” lasciano il segno, eccome. Di certo, aver studiato greco antico imprime una certa orma nel modo di parlare, scrivere e pensare; o stranezza, potremmo dire. E anche se non la si è amata, sui banchi di 120­­­­

scuola, questa lingua resterà sempre nostra, dentro di noi, e tenderà a riaffiorare in superficie in modi e situazioni inaspettate e folgoranti. “Apre la mente”, così si dice da sempre del greco antico. Ed è vero, il liceo classico apre di molto la mente: la spalanca verso l’età adulta. Con tenacia e ostinazione, e con una buona dose di sacrificio, lo studio scolastico del greco insegna a riconoscere e a decifrare le sfaccettature della vita e i suoi colori; che non sono mai bianco e nero, come si crede da ragazzi quando o si ama o si odia, ma sono di un’infinita e densa gamma di grigi. La soddisfazione, l’orgoglio, la frustrazione, la delusione, che imparare questa lingua comporta, rendono più facile maneggiare poi le gioie e i dolori del mondo adulto. Non è solo una questione linguistica, è una questione di attitudine alla vita: i ragazzi che si sono trovati a districarsi in concetti più grandi di loro, conoscono con maggior precisione il perimetro della difficoltà e della felicità, della fatica e dell’ironia in cui si troveranno a muoversi nel mondo adulto. Non importa se si è stati dei prodigi o degli inetti, in greco. Studiando quella lingua così giovani, si è maturata un’abilità alle cose umane che nessun’altra scuola – credo – può regalare. In un certo senso, frequentare il classico è come essere protagonisti (senza saperlo) delle tragedie e delle commedie greche: lì è custodito il senso primitivo e feroce dello stare al mondo e lo si apprende su se stessi, discenti; non sapendo mai con certezza se ridere o piangere, se si è vinto o perso, se si è vicini o lontani, se si è capito davvero oppure no. “Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, la ricchezza del vocabolario nel quale a ogni parola si afferma il contatto diretto e vario della realtà. L’ho amata perché quasi tutto quel che gli uomini hanno detto di meglio è stato detto in greco”: questo scrive Marguerite Yourcenar. Delle volte penso che il liceo classico sia una scuola da adulti. Proprio perché difficile, rende la vita che verrà più 121­­­­

facile. Non importa che si scelga di dimenticare il greco appena consegnata la prova di maturità o di conservarne il ricordo. Non so quanto lo studio del greco faciliti invece la successiva vita accademica: io non faccio testo, avendo studiato lettere classiche. La maggior parte dei miei ex studenti dicono di sì, pur essendo ora impegnati a studiare economia, odontoiatria, lingue straniere – uno addirittura è entrato in marina, con mio grande orgoglio e anche un po’ d’invidia. Sono invece certa che lo studio del greco contribuisca a sviluppare il talento di vivere, di amare e di faticare, di scegliere e di assumersi la responsabilità di successi e fallimenti. E contribuisca a saper godere delle cose anche se non tutto è perfetto.

Noi e il greco, una storia

(...) dai ponti sul fiume scoprirò dove si riposano i gabbiani che hanno così tanto viaggiato. Non mi riconoscerete voi che andate a casa senza guardare non saprete mai chi è l’esiliata ragazza che vi taglia la strada e ride. Giuseppe Conte, da Poesie

Premessa: che cos’è una lingua Una lingua, qualsiasi lingua, è umana – in ogni sua parola. La vita di una lingua non sta nel funzionamento della psiche – nei singoli pensieri – né negli organi fonatori – nelle labbra, nella gola – di chi la parla. La vita di una lingua sta negli esseri umani che se ne servono per concepire il mondo e per vivere esprimendolo a parole; dunque la vita di una lingua sta nella società. Una lingua, come a lungo indagato da de Saussure e da Antoine Meillet, è un fatto sociale, perché esprime una certa, irripetibile idea di mondo. Il linguaggio serve agli uomini che condividono quell’idea di mondo per farsi capire ed essere capiti. Una lingua non può esistere senza gli uomini e le donne che in quella lingua parlano e scrivono: se una lingua esiste senza più esseri umani che la usano per esprimersi, allora si definisce lingua morta. 123­­­­

Allo stesso tempo, una lingua è immanente, indipendente dal singolo individuo: non basta che uno solo muti una parola perché la lingua di tutti cambi all’improvviso. Ogni mutamento linguistico è prima di tutto un mutamento sociale: se cambia la società che quella lingua parla, allora la lingua cambierà con lei. La linguistica è la scienza che studia le lingue e i loro mutamenti. Non è una scienza esatta, matematica, naturale: è una scienza sociale. Se il senso della lingua non è un insieme di regole, la linguistica contemporanea s’intreccia con l’archeologia, l’antropologia, la statistica, la geografia sociale, l’etnologia, l’economia e, prima di tutto, con la sociologia. Una lingua non è ingegneria: non è possibile determinare incontrovertibili leggi che presiedano al cambiamento delle parole, così come non esistono ineluttabili leggi che presiedono al cambiamento di ogni essere umano. Spesso si ha l’impressione, osservando l’italiano alle nostre spalle – quello di Petrarca, di Ariosto, di Manzoni, di Calvino –, che una lingua si trasmetta semplicemente di generazione in generazione (trenta o poco più sono quelle che separano il nostro italiano da quello di Dante Alighieri). E così si finisce per credere che i mutamenti della nostra lingua – una parola che scompare, una che appare, una sillaba finale che sparisce, una sillaba iniziale che si aggiunge, verbi dimenticati e verbi arrivati d’altrove, da altre lingue – siano solo il frutto o l’incidente di questa meccanica trasmissione di padre in figlio, di bocca in bocca. Chiunque abbia mai visto un bambino imparare a parlare – meraviglia – sa che non è così. Non c’è bisogno di alcuna accademia per dimostrare che un errore o una fantasia individuali non bastano a cambiare una lingua in tutti i suoi parlanti: della bizzarria singola non resta che un sorriso. Allo stesso tempo, chiunque abbia mai viaggiato in un paese straniero conosce il senso di emarginazione, confusione o smarrimento che si prova a non comprendere la lingua del posto: non basta balbettare una parola in italiano per cambiare la 124­­­­

lingua altrui (anche in questo caso non resta che un sorriso, come i nostri immigrati che ringraziano dopo aver ricevuto un insulto senza capirlo; e chissà quante volte sarà accaduto a noi, viaggiatori smart con la Lonely Planet in mano). La lingua è quindi lo strumento di una civiltà e l’espressione di una coscienza unitaria di popolo. Non di nazione: quella viene poi, con i confini verticali o sghembi tracciati da chissà chi e chissà perché sul mappamondo (o forse proprio a questo servono le guerre e le religioni). Non basta né serve essere uno Stato per avere una lingua comune. Si pensi alle tante lingue dell’India, ad esempio, o all’arabo parlato dal Marocco all’Iraq fino all’inglese parlato ovunque. Siamo quindi tutti inglesi? Assolutamente no. La geografia politica non ha nulla a che vedere con la linguistica; la geografia umana invece sì. Se non è sufficiente un’unità nazionale, è però necessaria un’unità culturale per formare una lingua comune. E se il senso di una lingua sta nel modo di concepire il mondo e di esprimerlo a parole da parte di un popolo, forse nessuna lingua potrà mai illuminare questa verità come il greco. I Greci non sono stati per millenni Stato o nazione, ma sempre sono stati popolo. Costantemente indotti a misurare la loro lingua con la loro concezione della vita, hanno formato, limato, amato o rinnegato il greco scegliendo ogni sua singola parola e preferendola alle parole dei popoli vicini o talvolta usurpatori, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio. Lingua viva, lingua morta: il significato del greco è racchiuso nello sguardo, nella sua storia e soprattutto nel modo di pensare dei Greci, da cui giungono le lontane cartoline raccolte in questo libro. L’indoeuropeo Del greco si conosce il suo trapassato remoto: è una lingua indoeuropea. È vero, si dice sempre così, ‘indoeuropeo’, per 125­­­­

spiegare – quasi per giustificare o scusare – la natura tutta particolare del greco. Ma cosa significa, esattamente, lingua indoeuropea? L’indoeuropeo è una lingua di cui non è rimasta traccia né mai è stata scritta: non resta alcuna testimonianza, quindi, né memoria del popolo che l’ha usata. Ma le concordanze tra la maggior parte delle lingue dell’Europa (potremmo dire tutte le lingue europee, ad eccezione dell’iberico e del basco, dell’etrusco, del finnico, dell’ungherese e del turco) e delle lingue dell’Asia (l’armeno, l’iranico, le parlate dell’India e il sanscrito) sono troppo evidenti per essere solo frutto del puro caso. Le comunanze tra quasi tutte le lingue, antiche e moderne, che attraversano l’Europa e l’Asia dimostrano quindi che si tratta di evoluzioni di una lingua originaria più antica: appunto l’indoeuropeo. Persa la memoria, non resta che la ricostruzione: le nozioni che oggi abbiamo dell’indoeuropeo sono frutto di precisi studi di linguistica storica per ricomporre i frammenti e approfondire la conoscenza di una delle primissime lingue parlate al mondo. Se una lingua è la trasformazione di una lingua più antica, significa quindi che sono esistiti esseri umani che, in un certo periodo, hanno utilizzato la stessa pronuncia, lo stesso vocabolario, la stessa grammatica per definire il mondo: per farsi capire ed essere capiti. Tuttavia, in nessun tempo e in nessun luogo esisteranno mai due individui che parlano e scrivono esattamente nello stesso modo. Né è possibile che una lingua si trasmetta immutata e invariata da una generazione all’altra. Parliamo forse oggi lo stesso identico italiano della nostra nonna? Scriviamo forse tutti lo stesso identico biglietto – anzi, sms – di auguri? Provate a pensare a quanto è cambiato il nostro mondo – e quindi le parole per esprimerlo – in soli cinquant’anni, dalla tecnologia alla scienza, dalla medicina alla politica. Provate a considerare quante parole sono servite in solo mezzo secolo per indicare oggetti e concetti nuovi, inediti, etimologicamente mai detti e mai pensati. E quante parole invece sono scomparse 126­­­­

per non indicare più oggetti e concetti ormai dimenticati, perduti, obsoleti, etimologicamente logori e sbiaditi. Infine, anche i mezzi di comunicazione contribuiscono a cambiare una lingua, dalla radio alla televisione, dalla lettera alla mail, fino all’era dell’ideologia del social network in tutto il suo “multiforme marchingegno”. Nel caso dell’indoeuropeo, la stessa lingua parlata dallo stesso popolo si è modificata nel corso dei secoli, come accade ad ogni lingua. Ma se gli esseri umani non mantengono tra loro gli stessi legami sociali e culturali che li univano quando condividevano anche un linguaggio comune, allora non si avrà più un solo popolo, ma popoli diversi, con innovazioni linguistiche diverse e, in definitiva, lingue diverse. Si tratterà quindi di lingue che, pur derivanti dalla stessa lingua madre (indoeuropea), sono nella coscienza dei parlanti distinte, proprio perché si sono distinti i popoli che quelle lingue utilizzano per esprimere società altrettanto distinte (e distintive). Quando gli esseri umani non hanno più la consapevolezza di parlare la stessa lingua perché hanno coscienza di appartenere ad un popolo diverso, le differenze linguistiche diventano sempre più grandi, enormi, e le lingue si fanno lontane, remote. Proprio come accadde alle lingue romanze: il latino si trasformò rapidamente in francese, italiano, spagnolo, rumeno, portoghese, catalano e provenzale mentre si costituivano nuovi popoli e nuove civiltà a seguito del crollo dell’impero romano. Oltre alle lingue romanze o neolatine, dall’indoeuropeo derivano quindi il gruppo germanico con l’inglese, il tedesco, l’olandese, il norvegese, il danese e l’islandese; il gruppo celtico, con il gallese, il bretone e l’irlandese; il gruppo indoiranico, con il sanscrito, il vedico, il persiano, l’urdu, gli idiomi parlati da minoranze linguistiche dall’Oman all’Afghanistan fino al Pakistan, l’avestico delle scritture zoroastriche; il gruppo baltico-slavo con lo sloveno, il serbo, il bosniaco, il bulgaro, il russo, il polacco, il bielorusso, l’ucraino. 127­­­­

“Tutte le immagini scompariranno”: così inizia il meraviglioso libro di Annie Ernaux, Gli anni, dedicato alla memoria individuale di un popolo. Oggi fatichiamo a considerare fratelli, almeno “linguistici”, i popoli che abitano il nostro continente da Est a Ovest. Allo stesso modo i Greci del V secolo a.C. vedevano nei Persiani solo dei barbari né potevano comprendere o tantomeno riconoscere la loro stretta comunanza con la lingua e la cultura persiane o ittite. Eppure oggi in italiano diciamo padre, come in greco si dice πατήρ, in francese père, in sanscrito pitar, in gotico fader, e così father in inglese e Vater in tedesco. Tutte parole derivate da una forma comune: l’indoeuropeo *pəter. Le parole dell’affetto, della famiglia, sono le più lente a sbiadire, come i ricordi. Similmente riconosciamo con certezza una radice indoeuropea *məter nell’italiano madre, nel sanscrito matar, nel greco μήτηρ, nell’inglese mother, nel francese mère, nello slavo mati. Le radici delle parole, tuttavia, dicono poco degli esseri umani che le hanno scelte per esprimere la loro personalissima concezione del mondo; e noi nemmeno conosciamo questo mondo, ne saremo per sempre esclusi. Tutto ciò che si sa è che è esistito un popolo che, tra il V e il II millennio a.C., ha avuto una lingua comune, dunque una società comune, che poi si è differenziata nel tempo in lingue diverse e società diverse. L’archeologia ha portato alla luce, in Europa e in Asia, tracce di civiltà dell’Età del bronzo che dovettero appartenere ad una cosiddetta “civiltà indoeuropea”. Tuttavia armi, arnesi, resti di costruzioni sono solo fonti di ipotesi di storia e briciole di senso che non ci consegnano alcun’immagine di quella geniale popolazione, né tantomeno della lingua che parlava ogni giorno mentre progrediva verso il futuro pagando il prezzo della dimenticanza. L’archeologia è una scienza preziosa, ma muta. Se la lingua indoeuropea si è diffusa su un territorio tanto vasto, è perché il popolo indoeuropeo portava con sé una civiltà e una cultura unitaria, condivisa, distintiva e dominante 128­­­­

(così, ad esempio, l’inglese è rimasto la lingua degli Stati Uniti anche dopo la loro indipendenza, al pari dello spagnolo e del portoghese nell’America del Sud e del francese in certe parti dell’Africa). Per definire la geografia d’origine di questo popolo, le sue parole, e quindi il modo di esprimere il mondo, sono in alcuni casi di grande aiuto. Ad esempio, i nomi di piante sono facilmente localizzabili: è la botanica, semplicemente è la natura. Si ipotizza, ad esempio, che la lingua indoeuropea possedesse la parola per dire betulla, che si ritrova con la stessa radice in sanscrito, in iraniano, in slavo, in russo, in lituano, in svedese e in tedesco. La betulla è un tipico albero delle montagne, adatto ad un clima freddo e umido. Non ci sono quindi betulle in Grecia: ecco perché non si trova più questa parola in greco, volutamente abbandonata da un popolo insediatosi in un territorio dove essa era del tutto inutile. Simili considerazioni linguistiche, unite agli studi archeologici ed etnografici, permettono perciò di collocare le popolazioni indoeuropee nelle regioni a Nord del Mar Caspio e del Mar Nero. Da qui, a partire dal IV millennio a.C., iniziarono un lungo processo di migrazione e di insediamento nel continente euroasiatico. Fu quindi durante questa millenaria marcia nella direzione est-ovest e nord-sud che si svilupparono nuove e diverse società, frutto del contatto con popolazioni diverse e dell’insediamento in territori diversi; e con le nuove e diverse società, si vennero a creare nuove e diverse lingue. Tra queste lingue ebbe origine il greco, parlato da popolazioni indoeuropee penetrate nella penisola greca e nelle isole intorno al 2000 a.C. Il greco prima del greco: il greco comune Del greco conosciamo anche il suo passato remoto: il greco comune o preistorico, ovvero la lingua greca unitaria alla base di tutti i dialetti successivi, sviluppatasi intorno al II millennio a.C. Nulla si può dire di ciò che avvenne tra l’epoca indoeu129­­­­

ropea e la preistoria del greco: non abbiamo testimonianze da un punto all’altro della storia della lingua, lunga più di un millennio, ma solo ipotesi, resti archeologici silenziosi e intuizioni luminose su cui operare. Certo è che la parola θάλαττα, ‘mare’ – la parola che i soldati di Senofonte gridano, tra lacrime di gioia, scorgendo dopo un anno di disperata marcia il Mar Nero dalle vette di Trebisonda –, non è greca né tantomeno indoeuropea. Ἐπεὶ δὲ οἱ πρῶτοι ἐγένοντο ἐπὶ τοῦ ὄρους καὶ κατεῖδον τὴν θάλατταν, κραυγὴ πολλὴ ἐγένετο. Ἀκούσας δὲ ὁ Ξενοφῶν καὶ οἱ ὀπισθοφύλακες ᾠήθησαν ἔμπροσθεν ἄλλους ἐπιτίθεσθαι πολεμίους· εἵποντο γὰρ ὄπισθεν ἐκ τῆς καιομένης χώρας, καὶ αὐτῶν οἱ ὀπισθοφύλακες ἀπέκτεινάν τέ τινας καὶ ἐζώγρησαν ἐνέδραν ποιησάμενοι, καὶ γέρρα ἔλαβον δασειῶν βοῶν ὠμοβόεια ἀμφὶ τὰ εἴκοσιν. Ἐπειδὴ δὲ βοὴ πλείων τε ἐγίγνετο καὶ ἐγγύτερον καὶ οἱ ἀεὶ ἐπιόντες ἔθεον δρόμῳ ἐπὶ τοὺς ἀεὶ βοῶντας καὶ πολλῷ μείζων ἐγίγνετο ἡ βοὴ ὅσῳ δὴ πλείους ἐγίγνοντο, ἐδόκει δὴ μεῖζόν τι εἶναι τῷ Ξενοφῶντι, καὶ ἀναβὰς ἐφ’ ἵππον καὶ Λύκιον καὶ τοὺς ἱππέας ἀναλαβὼν παρεβοήθει· καὶ τάχα δὴ ἀκούουσι βοώντων τῶν στρατιώτων Θάλαττα θάλαττα καὶ παρεγγυώντων. Ἔνθα δὴ ἔθεον πάντες καὶ οἱ ὀπισθοφύλακες, καὶ τὰ ὑποζύγια ἠλαύνετο καὶ οἱ ἵπποι. Ἐπεὶ δὲ ἀφίκοντο πάντες ἐπὶ τὸ ἄκρον, ἐνταῦθα δὴ περιέβαλλον ἀλλήλους καὶ στρατηγοὺς καὶ λοχαγοὺς δακρύοντες. Dopo che i primi giunsero in vetta e videro il mare, levarono alte grida. Nell’udirle, Senofonte e i suoi soldati della retroguardia pensarono che fossero stati attaccati da altri nemici. Erano infatti incalzati alle spalle dai popoli a cui avevano bruciato i campi; la retroguardia ne aveva uccisi alcuni e catturati altri in agguato, impossessandosi di venti scudi di vimini rivestiti di pelle di bue non conciata. Tuttavia, poiché le grida si facevano sempre più intense e vicine, i soldati che man mano arrivano accorrevano verso i compagni che continuavano a urlare; tanto più forte si faceva il clamore quanti più ne arrivavano. Senofonte pensò quindi che dovesse trattarsi di qualcosa di molto grave e, scendendo da cavallo, prendendo con sé Licio e i cavalieri, corse per portare aiuto. Fu allora che sentirono i soldati urlare “il mare! il mare!”: il grido rimbalzava di bocca in bocca. Anche tutta la retroguardia si mise a correre e persino le bestie da 130­­­­

soma e i cavalli furono spinti al galoppo. E quando infine tutti furono sulla vetta si abbracciarono l’un l’altro, strateghi e comandanti, piangendo di gioia. [Senofonte, Anabasi, IV, 7, 21-25]

È esistito un certo periodo in cui il greco non ha posseduto – o ha dimenticato – la parola per chiamare il mare. Ciò prova che gli originari popoli indoeuropei provenivano da regioni interne, montuose, molto lontane dalla costa. Esiste sì una radice comune indoeuropea *mor attestata in diverse lingue antiche e moderne. In latino mare (da cui derivano l’italiano mare, il francese mer, lo spagnolo mar) indica appunto una distesa d’acqua senza confini, opposta allo stagno o al lago, il lacus. Viceversa, il russo more e lo slavo mor indicano proprio un bacino d’acqua stagnante, limitato, come la palude, di senso opposto al mare. Nella maggior parte delle lingue indoeuropee una radice comune della parola mare è invece del tutto assente. Quando una parte del popolo indoeuropeo, divenuto ormai popolo greco, incontrò il Mediterraneo fu dunque costretto a designarlo con nomi nuovi, diversi; come nuova e diversa era diventata la loro civiltà al cospetto del mare. Il greco ha scelto quindi di chiamare il mare ἡ ἅλς, ‘la distesa salata’, al femminile, per distinguerlo da ὁ ἅλς, ‘il sale’, al maschile. In nessuna altra lingua il nome del sale designa il mare come in greco antico: una lingua che si trovò di fronte alla necessità pratica e umana di dare un nome ad una cosa che non si era mai vista, forse con la stessa commovente emozione dei soldati di Senofonte in viaggio verso casa, la Grecia. Il greco possiede poi altre parole – affascinanti – per indicare il mare, tutte diverse: ὁ πόντος, ‘il passaggio’, ‘il sentiero’ verso l’altrove, com’è il mare navigabile (questo senso si ritrova nel latino pons e l’italiano ‘ponte’); ὁ πέλαγος, ‘l’area piana’, ‘la superficie’, di etimologia incerta e che indica proprio la distesa piatta e profonda del mare, al pari di una pianura o di 131­­­­

una prateria di colore blu (ancora, in latino avremo planus, ‘il piano’, e in italiano ‘pelago’); infine, il termine greco più comune per indicare il mare, proprio quel θάλαττα invocato da Senofonte, è di origine oscura, forse proveniente da qualche popolo sconosciuto già presente nel Mediterraneo. Un termine senza precursori né successori in alcun’altra lingua al mondo eccetto il greco. Tutti i dialetti greci che noi conosciamo e leggiamo derivano da una lingua già irreparabilmente diversa dall’indoeuropeo: il greco comune o preistorico. Le lingue non si trasformano mai tanto rapidamente come quando diventano imperiali, ossia quando sono lingue di conquistatori. Possiamo quindi ipotizzare che il greco comune iniziò a mutare quando divenne la lingua di un popolo greco capace di grandi conquiste, politiche e soprattutto culturali. Ma di tutti questi accadimenti non si possono che avanzare ipotesi, in assenza di testimonianze scritte e dati storici. Un aiuto, ancora una volta, ci viene dato da uno sguardo sotto la superficie delle parole. È il caso di due lemmi identici, se non per la variazione dell’accento: ὁ νομός, ‘il pascolo’, e ὁ νόμος, ‘la legge’. Entrambi derivano da una comune radice νομ/νεμ che significa ‘distribuire’. Il primo, ὁ νομός, indica la ‘porzione di terreno affidata al νομάς’, ‘il pastore’, e rimanda ad una fase di pastorizia ancora nomade: proprio questa è l’origine della parola italiana nomadismo. Il secondo, ὁ νόμος, rimanda invece ad una società legata stabilmente ad un preciso territorio in cui i pascoli venivano assegnati per diritto, per legge appunto: la civiltà greca è cambiata e con lei il senso profondo delle parole. Dell’indoeuropeo il greco preistorico – e da qui il greco antico – conserva strutture distintive e formidabili, portatrici del senso e dell’antica visione del mondo. Prima fra tutte, la netta distinzione tra il sistema nominale e il sistema verbale. Ogni nome possiede tre generi, maschile femminile e neutro, e tre numeri, singolare duale e plurale, e si articola in un sistema di 132­­­­

casi. Ogni verbo possiede due diatesi, attiva e media/passiva, tre persone e tre numeri, i modi finiti (indicativo congiuntivo ottativo imperativo) e gli indefiniti (participio e infinito). Infine, la categoria temporale è marginale, subordinata al valore aspettuale dell’azione: l’azione è espressa proprio come doveva essere concepita in indoeuropeo, non in base al quando ma al come, alle sue conseguenze sui parlanti. I tre temi verbali, presente aoristo e perfetto, indicavano dunque l’aspetto del verbo, non il suo tempo. Per uno strano e spettacolare incidente storico, il greco antico appare nel I millennio a.C. già costituito, già formato, già adulto, già presente: niente è rimasto del suo trapassato e del suo passato remoto. Di fatto, nessun’altra lingua di origine indoeuropea si presenta sul palcoscenico della storia documentata con tante innovazioni come il greco antico, ma senza alcuna orma delle sue evoluzioni precedenti. È questo il primo passo della lingua greca su un sentiero unico e isolato rispetto alle altre lingue indoeuropee; un sentiero unico che diventerà poi solitaria strada maestra, come dimostra la storia successiva del greco, unica lingua in Europa che ha continuato a cambiare dentro se stessa senza mai mutare in altro da lei. La solitudine del greco, quindi; sempre. Tanti dialetti diversi e un greco classico: sì, ma quale? Le forme sotto cui il greco si presenta alla storia – e dunque ai nostri occhi e ai nostri libri – sono diverse. Molto diverse. Ogni regione, ogni città possiede una varietà di lingua propria: quella che leggiamo sui documenti ufficiali o nei testi privati. Ogni genere letterario ha poi una sua lingua canonica, che a sua volta ogni scrittore utilizza in un modo tutto personale. Insomma, almeno nell’epoca più antica del greco antico, tra il VI e il V secolo a.C., possiamo dire che esistono tante forme di greco quanti sono i testi (e dunque quanti sono i parlanti!). Queste diverse forme del greco antico sono raggruppate in unità linguistiche dette dialetti. 133­­­­

Per comprendere cosa significasse capire e farsi capire in greco è fondamentale non scordare mai un dato: i Greci non furono mai uno Stato unitario. Un popolo unito, coeso, fiero, invece, lo furono sempre; e forse lo saranno per sempre. Insomma, la Grecia, in quanto Stato politico, non è mai esistita (almeno fino al 1832 dopo Cristo, al netto delle dominazioni straniere). Il popolo greco, quell’essere Greci che descrive Erodoto, τὸ Ἑλληνικόν, è però sempre esistito, da Omero fino ad oggi. Così risposero gli Ateniesi agli Spartani, che temevano una loro alleanza con il re persiano: Τὸ μὲν δεῖσαι Λακεδαιμονίους μὴ ὁμολογήσωμεν τῷ βαρβάρῳ, κάρτα ἀνθρωπήιον ἦν· ἀτὰρ αἰσχρῶς γε οἴκατε ἐξεπιστάμενοι τὸ Ἀθηναίων φρόνημα ἀρρωδῆσαι, ὅτι οὔτε χρυσός ἐστι γῆς οὐδαμόθι τοσοῦτος οὔτε χώρη κάλλεϊ καὶ ἀρετῇ μέγα ὑπερφέρουσα, τὰ ἡμεῖς δεξάμενοι ἐθέλοιμεν ἂν μηδίσαντες καταδουλῶσαι τὴν Ἑλλάδα. Πολλά τε γὰρ καὶ μεγάλα ἐστὶ τὰ διακωλύοντα ταῦτα μὴ ποιέειν μηδ᾽ ἢν ἐθέλωμεν, πρῶτα μὲν καὶ μέγιστα τῶν θεῶν τὰ ἀγάλματα καὶ τὰ οἰκήματα ἐμπεπρησμένα τε καὶ συγκεχωσμένα, τοῖσι ἡμέας ἀναγκαίως ἔχει τιμωρέειν ἐς τὰ μέγιστα μᾶλλον ἤ περ ὁμολογέειν τῷ ταῦτα ἐργασαμένῳ, αὖτις δὲ τὸ Ἑλληνικὸν ἐὸν ὅμαιμόν τε καὶ ὁμόγλωσσον καὶ θεῶν ἱδρύματά τε κοινὰ καὶ θυσίαι ἤθεά τε ὁμότροπα, τῶν προδότας γενέσθαι Ἀθηναίους οὐκ ἂν εὖ ἔχοι. Il timore degli Spartani che noi ci accordassimo col barbaro, lo straniero, era certo umano. Ma ci sembra vergognoso che voi abbiate avuto questa paura dal momento che sapete benissimo come la pensano gli Ateniesi: ovvero che al mondo non esiste tanto oro né paese tanto superiore agli altri per bellezza e fertilità che noi saremmo disposti ad accettare per passare dalla parte dei Medi e rendere schiava la Grecia. Molti e gravi sono i motivi che ci impedirebbero di farlo, anche se lo volessimo: il primo e il più importante sono le statue e le dimore degli dei incendiate e abbattute, che noi siamo tenuti a vendicare il più duramente possibile, guardandoci bene dal venire a patti con chi ne è responsabile. In secondo luogo vi è il fatto di essere Greci, la comunanza di sangue e di lingua, i santuari e i sacrifici comuni, gli usi e costumi simili: tradire tutto ciò sarebbe disdicevole per gli Ateniesi. [Erodoto, Le Storie, VIII, 144, 1-2] 134­­­­

L’“essere Greci” è l’unico dato sorprendente eppure fondamentale per capire la lingua greca, preistorica, classica o moderna che sia. E questa è la chiave per capire il greco, la sfida intellettuale che sta alla base di questo libro: pensare come i Greci e dirlo nel loro greco. La polis, ἡ πόλις, greca era originariamente un forte militare: una cittadella, un borgo fortificato al pari del latino castrum o del tedesco Burg. Serviva per difendere gli abitanti dai possibili invasori o dai popoli dell’entroterra: spesso sorgeva in posizione sopraelevata, per dominare l’orizzonte, e quindi era chiamata acropoli, ἡ ἀκρόπολις. I Greci, tuttavia, hanno ben presto riunito all’interno del borgo fortificato anche le sedi dei loro culti più importanti, le istituzioni, le scuole, le attività intellettuali, facendone il centro e il motore del loro potere politico e culturale. La parola πόλις è passata ad indicare quindi la città – Atene, Sparta, Corinto, Tebe – e, per i Greci, la città indicava anche lo Stato di appartenenza. Talvolta una città era federata o alleata con altre, ma sempre è rimasta custode gelosa delle sue tradizioni e dei suoi valori, così come della sua lingua peculiare. Nessuna πόλις avrebbe mai rinunciato alla propria essenza, al suo motivo di essere: la libertà. È l’unione di un popolo, come scrive Erodoto, basata non sullo statuto politico, ma “sulla comunanza di sangue e di lingua, i santuari e i sacrifici comuni, gli usi e costumi simili”. Del resto, ai santuari di Delfi e di Olimpia confluivano tutti i Greci di ogni regione, così come ai giochi olimpici. L’arte, la poesia, la filosofia circolavano ovunque, il dibattito intellettuale era condiviso in tutta la grecità, senza alcuna barriera linguistica. L’essere greco, τὸ Ἑλληνικόν, si opponeva all’essere barbaro, βάβαρος, termine che indicava lo straniero proveniente da qualunque terra, vicina o lontana, che avesse una lingua e una cultura estranea alla grecità. Torniamo al greco classico e ai suoi tanti dialetti: possiamo affermare con sicurezza che non sia mai esistita, in 135­­­­

epoca storica, una parlata greca autonoma e indipendente dalle altre. Secondo Tucidide, i Greci si comprendevano in qualche modo tra loro già prima della guerra di Troia, “sebbene neppure chiamassero il loro popolo con lo stesso nome, ellenico”: οὐδὲ τοὔνομα τοῦτο ξύμπασά πω εἶχεν, così scrive il grande storico nella sezione denominata Archeologia, cioè il passato, che apre il suo libro sulla guerra del Peloponneso. Fu solo in occasione di quella mitica guerra che gli Elleni unirono i loro sforzi, le loro flotte, le loro armi e la loro visione del mondo contro un nemico comune, e, infine, si unirono sotto uno stesso nome. I poemi omerici, Iliade e Odissea, sono forse il più significativo esempio dell’unità linguistica e culturale del mondo greco. Scritti in una lingua letteraria ad hoc che prevedeva la mescolanza di vari elementi dialettali su una base ionica, i versi che narrano le avventure degli eroi greci a Troia divennero il più prezioso repertorio di parole, stilemi, espressioni per tutta la letteratura successiva, in ogni città e in ogni dialetto. “In principio tutti hanno imparato da Omero”, ἐξ αρχῆς καθ’ Ὅμηρον, ἐπεὶ μεμαθήκασι πάντες: così scrive Senofane di Colofone (fr. 10 D-K). Iliade e Odissea non erano solo il racconto poetico della guerra troiana scatenata dal rapimento di Elena e del ritorno a Itaca di Ulisse: erano una vera e propria enciclopedia della grecità. Era nei loro esametri, ripetuti a memoria dagli aedi di città in città, che gli uomini apprendevano, insieme alle gesta degli eroi, cosa faceva di loro dei veri Greci. I poemi omerici sono infatti ricchissimi di nozioni tecniche inserite qua e là nella trama della storia principale: dal catalogo delle navi da guerra al culto dei morti, dai riti divinatori alle prescrizioni alimentari, dal modo di consumare il vino ai doveri di ospitalità, dalle ricette di cucina alle medicine, fino alle indicazioni astronomiche. Come ci dice Senofane, ogni greco imparò ad essere un greco (doc) negli usi e nei costumi e a differenziarsi da chi greco non era a partire da Omero, dalla variegata mole di 136­­­­

precetti sociali (nonché di censure, naturalmente) contenuti nell’Iliade e nell’Odissea: a pieno titolo il manuale pratico dell’essere umano greco e della grecità tutta. Storicamente, popolazioni di origine indoeuropea giunsero in Grecia intorno al II millennio a.C., epoca della complessa ed evoluta civiltà micenea. Nel 1953 il giovane inglese Michael Ventris riuscì a decifrare le tavolette d’argilla ritrovate nel palazzo reale di Cnosso, a Creta, e in altri centri di potere come Pilo e Micene. Sopravvissute per puro caso agli incendi che devastarono le città al crollo della società micenea, le tavolette riportano per lo più elenchi burocratici e amministrativi databili tra il 1450 e il 1110 a.C. La loro lingua è il dialetto miceneo, detto anche lineare B, per distinguerlo dalla lineare A, una scrittura simile e mai decifrata. La straordinaria scoperta, resa ancor più importante per il tipo di scrittura adottata dai Micenei, sillabica e non alfabetica come quella greca classica e composta da ben 88 segni, ha permesso di riconoscere i principali tratti grammaticali e lessicali del più antico dialetto greco giunto fino a noi. Una seconda fase della storia della Grecia fu segnata da nuovi flussi migratori ed eventi di difficile ricostruzione: sono questi i cosiddetti secoli bui sui quali fiorirono tetre leggende di catastrofi naturali, terremoti, tsunami, inabissarsi di popoli e isole. La scrittura d’un tratto scomparve. Quando tornò alla luce della storia e della nostra conoscenza, a partire dall’VIII secolo a.C., le trasformazioni e i movimenti dei popoli avevano definito un nuovo quadro linguistico e culturale, pienamente greco. La lingua greca classica si articola in cinque gruppi dialettali differenti: il dorico, l’eolico, lo ionico-attico, i dialetti del Nord-Ovest e l’arcadico-cipriota. Ciascuna varietà di greco rispecchia la varietà di popolazioni elleniche che hanno formato la Grecia, la cui memoria è consolidata nell’epica, nella poesia e nelle saghe genealogiche. I Dori giunsero da Nord-Ovest e occuparono la penisola 137­­­­

del Peloponneso, gli Eoli giunsero in Tessaglia, in Beozia e sull’isola di Lesbo, e gli Ioni si diffusero dall’Attica di Atene fino alle Cicladi e all’Asia Minore. Più complessi e di difficile ricostruzione sono gli altri due dialetti. L’arcadico-cipriota accomuna linguisticamente due terre geograficamente molto lontane tra loro, l’Arcadia nel Peloponneso, e Cipro nel sud del Mediterraneo e a breve distanza dalla Turchia. I dialetti del Nord-Ovest, diffusi a Delfi, in Epiro, ad Argo e a Tebe, mostrano invece notevoli comunanze con il dorico. A questo quadro già tanto variegato, espressionista, si aggiungono le lingue letterarie: le varianti dialettali proprie di ogni genere letterario indipendentemente dall’origine linguistica e geografica dell’autore, che le utilizza in totale libertà espressiva e artistica. Così lo ionico è il dialetto dei poemi omerici, della poesia e della lirica, insieme all’eolico. Nel dialetto ionico dell’Asia Minore muovono i primi passi anche la storiografia, con Ecateo di Mileto e Erodoto, la filosofia con Eraclito, la medicina con Ippocrate. Sarà però l’attico, l’attico della πόλις per eccellenza, Atene, ad essere la grande e universale lingua della prosa, da Tucidide a Platone, e del teatro. Tutte queste varietà di greco furono parlate sincronicamente fino all’epoca dell’unificazione-sottomissione politica della Grecia ad opera di Alessandro il Macedone e del cedere della lingua, amalgamatasi nella κοινή. Tuttavia, neppure per un momento della storia del greco sono esistiti due Greci che non fossero in grado di comunicare tra loro. Qual era dunque il greco utilizzato per comunicare tra chi non abitava nella stessa piccola isola o nella stessa piccola città-Stato? Qual era la lingua franca usata in una terra come la Grecia, frammentata tanto politicamente quanto geograficamente? Infine, la domanda più lecita tra tutte: esattamente quale greco antico impariamo noi? Bisogna innanzitutto premettere che le differenze tra una parlata locale e l’altra potevano certo essere marcate – il dialetto di Lesbo era molto diverso da quello di Sparta –, ma non al punto da impedire la comunicazione e la comprensio138­­­­

ne tra parlanti. Questo poiché tutti i dialetti greci derivano da quel greco comune perduto, di cui conservano ogni tratto fondamentale. Inoltre, le differenze tra un dialetto e l’altro erano pressoché di natura vocalica, con pochissime differenze grammaticali e senza eccessive diversità lessicali. Per azzardare un paragone contemporaneo, tra il dialetto dorico e il dialetto eolico intercorrevano certamente meno differenze di quante ne intercorrano oggi tra le tante parlate d’Italia: ad esempio, tra il friulano e il toscano. E forse, per azzardare ancora di più, un paragone calzante per immaginare la varietà dei dialetti greci potrebbe essere la distanza che separa oggi, all’interno della stessa regione Toscana, il fiorentino dal livornese. Se a Firenze la /c/ prevocalica si aspira, qui a Livorno la stessa /c/ è muta, la si tronca di netto; “siamo gente senza aspirazioni”, direbbe lo scrittore Simone Lenzi. Eppure, sia nella città del Magnifico sia nella “meno toscana delle città toscane”, riusciamo a comprenderci senza difficoltà: non importa che il cane si dica ‘hane’ o ‘ane’. Così, la stessa focaccia di farina di ceci è detta torta a Livorno, cecina a 20 km di distanza, a Pisa: in questo caso, pisani e livornesi sarebbero in grado di capirsi perfettamente, se solo si parlassero sotterrando l’ascia di un campanilismo tale da far sembrare timido persino un antico spartano. La straordinarietà della Grecia antica è di non aver mai imposto o fissato una comune lingua, fosse essa burocratica, letteraria o religiosa. La libertà linguistica e la reciproca comprensione erano tali che non esiste nulla di simile in nessun’altra lingua. Il greco antico è quindi sempre stato una lingua democratica nel senso più etimologico possibile del termine: l’uso del greco era affidato in piena libertà al suo popolo e alla sua coscienza del mondo. E qual era dunque la lingua franca delle comunicazioni, la lingua in cui sono nate e state fissate la politica, la filosofia, la tragedia e la commedia, la scienza e la medicina? La lingua alla radice dell’essere Greci era l’attico di Atene, la πόλις per eccellenza. 139­­­­

L’oratore Isocrate non lascia spazio a dubbi: è stata Atene, prima di tutto con la sua cultura, a far sì che attico diventasse sinonimo di greco – attico nei costumi, nelle lettere, nelle alleanze militari, nel culto degli dei. Τοσοῦτον δ᾽ ἀπολέλοιπεν ἡ πόλις ἡμῶν περὶ τὸ φρονεῖν καὶ λέγειν τοὺς ἄλλους ἀνθρώπους, ὥσθ᾽ οἱ ταύτης μαθηταὶ τῶν ἄλλων διδάσκαλοι γεγόνασι, καὶ τὸ τῶν Ἑλλήνων ὄνομα πεποίηκε μηκέτι τοῦ γένους ἀλλὰ τῆς διανοίας δοκεῖν εἶναι, καὶ μᾶλλον Ἕλληνας καλεῖσθαι τοὺς τῆς παιδεύσεως τῆς ἡμετέρας ἢ τοὺς τῆς κοινῆς φύσεως μετέχοντας. La nostra città, Atene, supera tanto gli altri uomini sia nelle opere del pensiero che nell’arte della parola che i suoi discepoli sono diventati maestri degli altri. Inoltre ha fatto sì che il nome dei Greci non indicasse più una razza, ma la cultura stessa e che siano chiamati Greci coloro che partecipano della nostra tradizione culturale piuttosto che quelli che condividono la nostra stessa origine etnica. [Isocrate, Panegirico, 50]

Naturalmente, se la lingua di Atene raggiunse nel V secolo a.C. lo status di κοινή, per cui parlare ateniese significava di riflesso essere Greci, non fu solo per il suo potere politico (viceversa, ci sarebbe stata anche una rivalità culturale, non solo politica, con Sparta, che invece non si curò di produrre nulla di interessante in tal senso). Tornando in Toscana, allo stesso modo il fiorentino non sarebbe mai diventato la base della lingua italiana solo per il potere politico di Firenze. Accadde invece perché la città, nel XIII secolo, fu il centro di cultura più elevato d’Italia, abitata dai più importanti scrittori e artisti dell’Umanesimo e del Rinascimento. Fu ad Atene che la cultura greca toccò le sue vette più alte, vette mai toccate prima dal genere umano. L’architettura e le arti plastiche raggiunsero la perfezione dopo secoli di studio, il teatro trovò la sua forma definitiva e panellenica, lì nacquero la filosofia e la retorica. In sintesi, ad Atene si viveva ogni giorno l’essenza del pensiero greco. Lì si respirava – e si parlava – la grecità. Per questo motivo la sua lingua, lo ionico140­­­­

attico, si diffuse ovunque senza alcuna imposizione politica: era la lingua non di una città, ma della Grecia tutta. Infine, per rispondere alla domanda più spontanea: sì, è quasi solo il greco di Atene quello che oggi si studia al liceo. Questo perché lo ionico-attico è rimasto fissato nei secoli più di ogni altro dialetto in quanto strumento di espressione di Eschilo e di Sofocle, di Aristofane e di Tucidide, di Platone e di Isocrate, fino alla κοινή di Alessandro Magno, che proprio sul prestigio senza confini della lingua ateniese si fonda. La κοινὴ διάλεκτος, ovvero il greco dopo il greco classico Con l’espressione κοινὴ διάλεκτος si indica la lingua parlata in Grecia dall’epoca di Alessandro Magno e compresa ovunque si parlasse il greco. Di questo nuovo passo avanti dell’evoluzione del greco si hanno poche notizie, per lo più papiri di scarso valore ritrovati in Egitto e le opere del Nuovo Testamento, tutte scritte nel greco della κοινή. Conosciamo però, come sempre accade in questa storia tanto originale della lingua greca, il passo precedente e quello successivo del cammino linguistico. Da un lato si ha la lingua di Atene, dall’altro troviamo il greco moderno. Quest’ultimo non si fonda sugli antichi dialetti, ionico dorico eolico, ma quasi soltanto sulla κοινή. Ed è quindi proprio a partire da questo dato che si può intraprendere, ancora una volta, il paziente lavoro di ricostruzione linguistica affrontando la κοινή. Insieme al cambiamento della società greca, naturalmente. All’origine della sua storia, la vita greca non aveva carattere globale: ogni πόλις era un piccolo Stato indipendente, dotato della sua autonomia e della sua libertà. La Grecia continentale, regione aspra e montuosa, era per lo più agricola, isolata; altrettanto isolate erano le colonie, fondate quasi sempre sulle isole o sulle coste, mai nell’entroterra. Con l’avvento dell’impero di Alessandro il Macedone, ogni πόλις smarrì il senso del suo esistere: la libertà. La politica 141­­­­

divenne prerogativa di sovrani che governavano con le loro corti in città lontane dalla Grecia. L’economia, la religione, la burocrazia, i commerci presero misure più ampie della piccola isola o regione originarie, misure sproporzionate per l’uomo greco. Dall’epoca urbana, tutto divenne di colpo internazionale, globalizzato nei termini del mondo allora conosciuto. Nel periodo classico, ogni uomo trovava il senso del suo essere greco all’interno delle mura della sua πόλις, nelle sue pratiche religiose, nella sua cultura, nelle sue tradizioni. La dimensione della vita umana era quella del cittadino. Durante l’ellenismo, le città conservarono culti e tradizioni, ma ridotte al rango di feste o di intrattenimento. Si entrò in contatto con le religioni altrui, gli dei vennero confusi, associati in un sincretismo prima impensabile. D’altronde la dimensione della vita umana era diventata quella del suddito di un impero vastissimo. I Greci furono quindi costretti a spostarsi, per affari o per commercio, al di fuori non solo della propria πόλις, ma anche della Grecia propriamente detta. I soldati non erano più al servizio della patria, ma mercenari. Gli scienziati e i filosofi non condividevano più le idee con tutto il mondo greco, ma dibattevano solo all’interno di limitate scuole o biblioteche, isolate culturalmente le une dalle altre. La rivoluzione fu totale per l’essere umano greco e la sua percezione del mondo. Fu Filippo, padre di Alessandro Magno, a privare di ogni indipendenza le città greche con la battaglia di Cheronea del 338 a.C.: di fatto, da allora la Grecia non esistette politicamente più e dovette attendere quasi 2.000 anni per tornare ad essere autonoma sul mappamondo. Quando Alessandro morì nel 323 a.C. – dopo aver spinto i confini del suo impero fino all’India conquistando tutta l’Asia Minore, l’Iran, Babilonia e l’Egitto –, Atene e le altre città greche non erano altro che periferie dell’impero, che vivevano del ricordo e nella nostalgia del loro passato. Altri centri di cultura e di potere si costituirono con nuova forza 142­­­­

intellettuale, spesso lontani dalla costa, da quel Mar Mediterraneo su cui si fondava l’essenza della grecità. Politici, artisti, scienziati operavano a Pergamo, ad Alessandria d’Egitto, ad Antiochia. Eppure, pur essendo ormai relegata ai confini, la cultura che si diffuse in questo nuovo universo stravolto fu proprio quella ellenica. Nel V secolo a.C. il prestigio della Grecia era tale che i sovrani macedoni – appellati dai greci come βάρβαροι, ‘barbari’, con un disprezzo tutto intellettuale – fecero di tutto per ellenizzarsi, anzi, per atticizzarsi, essendo la cultura di Atene la cultura per eccellenza in tutto il mondo. Già Alessandro I, detto per il suo amore per la Grecia “il filelleno”, sosteneva di discendere da Eracle, fu ammesso ai giochi olimpici e ottenne persino una statua a Delfi. Il poeta Euripide e il pittore Zeusi soggiornarono presso la corte del re Archelao. Tutti i nobili macedoni portavano nomi greci e Filippo parlava e scriveva perfettamente in ateniese. Infine, Alessandro Magno ebbe come precettore addirittura il filosofo Aristotele. Ecco perché non possediamo neppure una riga in macedone e nulla si conosce di questa lingua: la lingua della corte di Macedonia era il greco classico già da molto tempo. Insomma, se la Grecia fu politicamente conquistata dalla Macedonia nel IV secolo, fu la Macedonia ad essersi arresa e ad essersi lasciata conquistare dalla cultura greca almeno un secolo prima. La κοινή, la lingua comune dell’Ellenismo, si costituì dunque prevalentemente sulla lingua di Atene, quel dialetto ionico-attico che era già stato a sua volta la lingua comune della cultura di tutta la Grecia. Ma una lingua nata all’interno delle mura di Atene, espressione della società della piccola Attica, non poté reggere l’impatto della sua diffusione su un territorio che spaziava dall’India all’Egitto. La κοινή è la lingua di un impero, frutto di guerre e di sottomissioni. E, tuttavia, per secoli esseri umani di diversi popoli, Egiziani, Persiani, Greci, Siriani, Macedoni, Arabi, Iraniani si 143­­­­

servirono del greco come lingua franca di comunicazione, per capire e farsi capire negli affari, nei commerci, presso le istituzioni, pur non abbandonando mai il loro idioma, espressione della loro civiltà e del loro privato modo di vivere. E se la κοινή è la lingua del potere, dunque strumento di unità contro le pretese di autonomia locali, è anche la lingua della cultura, della tradizione scolastica e letteraria: è in questa lingua che oggi leggiamo le opere di Polibio, di Plutarco, le traduzioni greche della Bibbia – gli Ebrei erano all’epoca rifugiati in Egitto – e, quindi, dei Vangeli. Ma quale cultura seppe produrre l’ellenismo? Una lingua così generalista come la κοινή perde necessariamente molto, quasi tutto del suo valore poetico. In epoca ellenistica, quando la κοινή non possedeva ormai quasi più nulla dei tratti unici del greco classico, la poesia è per lo più di imitazione: si scrive nella lingua di Omero e di Esiodo per senso di inadeguatezza o per salvarne la memoria, ma senza più afferrarne l’intimo senso. La κοινή era invece uno strumento agile, veloce, perfetto per la scienza e la filosofia. È in quest’epoca che vennero coniati termini semplici per esprimere concetti astratti, e che si trovarono parole facili per esprimere idee difficili. La lingua comune dell’ellenismo ha quindi esercitato una notevole influenza su quasi tutte le lingue europee, che ancora oggi utilizzano termini greci per esprimere concetti astratti; o persino inediti. La formazione di parole in epoca moderna a partire da termini di origine ellenistica come telefono, microfono, televisione, testimonia come la κοινή e il suo spirito globale si protraggano fino ai giorni nostri. Infine, è proprio questa l’epoca che vide nascere il Cristianesimo: la nuova religione subito scelse la κοινή come lingua per la sua diffusione presso nuovi popoli. Quando il Cristianesimo si diffuse oltre Roma e oltre l’impero romano portò con sé tutta l’eredità della lingua greca: quasi tutte le nuove parole della religione cristiana, in latino, in copto fino all’armeno, appaiono un calco del greco ellenistico. Ad esempio, anche ‘parola’ viene dal cristiano ‘parabola’ (che sostituì il 144­­­­

latino ‘verbum’). Il significato originario è da ricercarsi nel greco παραβολή, ‘similitudine’, dal verbo παραβάλλω, ‘porre accanto’: dall’insegnamento evangelico passò ad indicare ogni motto, concetto o idea del pensiero. Una lingua come la κοινή che non appartiene più a nessuna regione particolare, dunque a nessun popolo particolare, ma è parlata da un numero enorme di stranieri, finisce per perdere irreparabilmente la visione del mondo per cui era nata. Cambiando di volta in volta la società che lo parlava, lo ionico-attico cambiò a sua volta, scivolando in un inarrestabile processo di banalizzazione e di perdita di senso e di memoria. I caratteri del greco classico, ereditati dall’indoeuropeo, erano troppo straordinari per sopravvivere: serviva infatti una lingua semplice e ordinaria, regolare, tale da essere compresa ovunque da tutti. I cambiamenti linguistici – anzi, gli smarrimenti, le dimenticanze, le incomprensioni – si susseguirono velocissimi sotto il peso dell’impero ellenistico. Il ritmo del greco originario scomparve, passando da un accento quantitativo a uno qualitativo, come in greco moderno. I popoli non greci che adoperavano la κοινή ogni giorno non riuscivano certo a distinguere le vocali lunghe da quelle brevi: lo confermano gli infiniti errori di grafia tra η/ε e ο/ω attestati nei papiri. Scomparvero il numero duale, come era già scomparso da tempo in molte altre lingue indoeuropee, e il modo verbale ottativo per esprimere il desiderio, giudicato superfluo sì da confluire nel congiuntivo. Ogni anomalia – altrimenti detta originalità – verbale o nominale venne soppressa e normalizzata perché giudicata eccentrica e quindi incomprensibile. In un’epoca così convulsa, complicata, si perse di vista il valore del come delle cose della vita, spinti dalla frenetica esigenza del quando. Nel momento esatto in cui la categoria del tempo s’impose, la categoria aspettuale del verbo si spense come la fiamma di una candela consumatasi troppo a lungo. 145­­­­

All’epoca della κοινή il greco era certo una lingua viva, parlata ovunque da migliaia se non milioni di persone. Tuttavia, il greco aveva perso molto, quasi tutto, del suo senso originale. Riflettendo con cura, con tutto il tempo che serve, sul significato di una lingua, c’è da chiedersi: cosa restava già allora, nel II secolo a.C., del greco antico, la lingua di Platone, di Sofocle, di Euripide fino ad Omero, la lingua che studiamo oggi a scuola? Cosa, insomma, distingue una lingua viva da una lingua morta? Se non riuscivano più a comprendere il greco antico gli stessi Greci duemila anni fa, come pretendiamo di poter comprenderlo noi? Scrivendo, mi sono accorta che la frattura di significato tra noi e i Greci si colloca tutta lì, all’epoca dell’Ellenismo e della κοινή – non nelle aule di un qualche liceo classico contemporaneo. Ciò che è stato dimenticato in questa fase della storia del greco è, guarda caso, esattamente ciò che ho cercato di ricordare scrivendo questo libro. Forse il greco antico è morto quando proprio i Greci hanno smesso di pensare come i Greci antichi. O forse allora ha solo iniziato a morire; sebbene, guarda caso, il verbo greco θνήσκω, ‘morire’, ammetta solo l’antico aspetto presente, perché o sei vivo o non lo sei più. Certo è che, quando una lingua diventa la lingua di tutti, di fatto diventa la lingua di nessuno. Il greco moderno, anzi antico L’impero romano, nonostante la sua lunga durata, ebbe poche conseguenze sul greco parlato nel Mar Mediterraneo. I Greci e i popoli stranieri che avevano adottato il greco – e quindi il suo modo di essere e di pensare – erano troppo fieri della loro superiorità culturale per cambiare la loro lingua in quella latina. Del resto, anche per i Romani il greco era una lingua di prestigio, che si ostinavano ad imparare con lunghi soggiorni ad Atene – sotto sotto, il latino non smise mai di 146­­­­

invidiare il greco, così come chi ha fatto il liceo scientifico sentirà sempre la mancanza di qualcosa. Roma seppe imporre la sua lingua soltanto presso popoli disposti a mutare la loro civiltà: in Gallia, in Dacia, in Spagna, nell’Africa settentrionale. Ma ciò non accadde mai in Grecia, dove i Romani si sentirono sempre scolari, apprendisti (del resto i Greci non erano affatto disposti a mutare la loro civiltà, tantomeno le loro parole). Il greco scomparve invece dalla Sicilia e dall’Italia, da quella Magna Graecia in cui era penetrato solo sulle coste, senza la forza sociale della grande κοινή. Se ogni lingua, a contatto con lingue straniere, accoglie dei prestiti (pensiamo, ad esempio, alle mille parole inglesi entrate a far parte del nostro vocabolario), nessuna lingua si dimostrò in questo senso più intransigente del greco, che oppose strenua e gelosa resistenza all’accoglienza di parole straniere; se le accolse, fu solo per indicare cose tipicamente romane, quasi traslitterazioni di qualcosa di estraneo al mondo greco, come κεντυρία, ‘la centuria’, o ταβέλλα, ‘l’atto amministrativo, ufficiale romano’. Ma la lingua greca era destinata a perdere anche la propria egemonia linguistica nella successiva diffusione del Cristianesimo. Quando la nuova religione venne prima liberalizzata e poi adottata ufficialmente dall’impero romano, il latino divenne la lingua ufficiale della Chiesa d’Occidente. In Oriente, invece, i popoli che avevano inizialmente scelto la κοινή greca, tradussero progressivamente il culto nelle proprie lingue, espressione della propria civiltà: in gotico, in slavo, in armeno, in copto. In questo scenario, quindi, mentre il latino diveniva la lingua della cultura e della religione imboccando la via del Medioevo, il greco rimase confinato nel proprio territorio, sempre più ristretto. E ancora una volta la lingua greca intraprese un cammino originale e solitario rispetto a tutte le altre lingue giungendo, attraverso il greco bizantino, fino al greco moderno. Durante l’impero romano, gli intellettuali greci reagirono alla decadenza del proprio presente scegliendo la stessa, 147­­­­

identica soluzione che finiranno per adottare dopo la guerra d’indipendenza (1821-1832), quando la Grecia ottenne finalmente l’autonomia politica che attendeva da millenni. E fu una soluzione singolare: l’obbligato ritorno al passato. Già con l’atticismo del II secolo d.C. si era delineata infatti una tendenza che segnerà per sempre l’evoluzione – o la mancata evoluzione – del greco. Per scongiurare la perdita di identità, si scelse di resistere, di bandire l’uso corrente, volgare della lingua – l’uso vivo – e di preferire le forme antiche ormai scomparse – quindi morte – perché le si riteneva portatrici del senso smarrito della grecità. Gli intellettuali greci fecero di tutto per ricordare il loro passato pur nella sua irrimediabile dimenticanza. E così troviamo testi disseminati di duali, di ornamenti sintattici e lessicali adoperati a caso senza più senso, di anomalie verbali già scomparse ai tempi di Pericle, di vocali lunghe e brevi impiegate come a casaccio. Di fronte al mutamento della società, i Greci evidentemente non seppero come reagire. Si isolarono, politicamente e soprattutto culturalmente, e l’unica identità intorno alla quale intesero stringersi era il comune passato. È questo il sentimento di sconcerto mischiato alla nostalgia che attraversa tutta la storia greca fino all’epoca contemporanea e che, dal punto di vista linguistico, produrrà una tendenza puristica: vale a dire, lo sforzo inane di impedire alla lingua di evolversi, di allontanarsi da un passato glorioso, ma forse troppo pesante per essere sopportato. In epoca bizantina si era ormai creata un’unità linguistica scritta con il prezzo di un’irreparabile lontananza dalla lingua parlata, che come ogni altra lingua continuava ad evolversi nella vita degli esseri umani che la parlavano. È impossibile frenare i cambiamenti, degli uomini come delle lingue. È però possibile ignorarli, come scelse di fare la società greca per più di un millennio. Lo stesso greco, ormai bizantino, era insegnato in tutte le scuole, scritto in tutti i libri e in tutti gli atti ufficiali, era parlato da tutte le persone colte nei circoli intellettuali. Le parlate locali, invece, vennero a poco a poco bandite e 148­­­­

sopravvissero solo nelle campagne, lontane dalle città; e molte delle differenze dialettali oggi esistenti in Grecia risalgono a quest’epoca. Quando sopraggiunse la dominazione turca nel XV secolo, l’unico centro di cultura rimase Bisanzio, dove la Chiesa si fece custode dell’antica κοινή, in cui era scritta e letta la lingua del Cristianesimo. Ma l’impero d’Oriente si era ridotto a poco a poco sotto la pressione delle invasioni straniere. La Grecia tutta non aveva altro che il suo mare intorno cui stringersi, quella θάλαττα accanto alla sua antica lingua, unica memoria della sua civiltà ormai ridotta in macerie; lingua che i Greci erano strenuamente impegnati a conservare anziché a far evolvere. La coscienza della civiltà greca e della sua identità uscirono gravemente indebolite e frustrate dalla decadenza dell’impero bizantino e dalla dominazione turca. Lo stesso appellativo di ‘elleno’ per definire il popolo greco cominciò ad essere abbandonato: poiché Bisanzio era parte dell’impero romano, i Greci iniziarono a definirsi per reazione proprio Ῥομαίοι, “romani”. Quando, all’inizio del XIX secolo, la Grecia poté riacquistare coscienza della propria identità di fronte alla decadenza della dominazione turca, linguisticamente la situazione era a dir poco paradossale. Da una parte, infatti, si trovava la lingua scritta tradizionale, nel complesso fedele a quella antica, la κοινή di base ateniese, ma così lontana da quella parlata nell’uso corrente che il popolo nemmeno la comprendeva più. Non esisteva però un’identità politica, culturale o sociale che predominasse sulle altre, capace di imporre la propria lingua come espressione della nuova società greca. L’unico centro che era stato per secoli custode dell’essere greci attraverso la conservazione dell’antica κοινή era stata la Chiesa. E fu proprio ad essa che si guardò per dare al rinascente ellenismo una lingua comune. Al termine della guerra d’indipendenza, l’unico modo per ritrovare una comune percezione del mondo era fare un passo indietro: un passo indietro lungo due millenni, poiché 149­­­­

la neonata Grecia moderna ritrovò, di fatto, la sua identità nelle comuni radici dell’Atene di Pericle del V secolo a.C. Fu dunque la lingua scritta, che derivava dalla κοινή ellenistica, a sua volta derivata dal dialetto ionico-attico, a dare alla Grecia una lingua unita, corrispondente al riacquistato sentimento di unità nazionale. La pronuncia del greco moderno fu ottenuta conservando ciò che era comune alla maggior parte degli Elleni ed eliminando ogni particolarità locale. Il vocalismo della κοινή fu recuperato integralmente, così come la grafia. La fonetica generale del greco moderno è ancora quella dell’antica lingua ellenistica, anche se alcune consonanti hanno una pronuncia diversa. Quanto alla grammatica, pur non potendo certo riportare in vita forme scomparse e dimenticate da millenni quali il valore aspettuale, il duale, l’ottativo, il dativo, sotto molti aspetti il greco moderno è però rimasto del tutto antico. Si è mantenuta la distinzione tra presente e aoristo, con tutto il suo valore semantico, e la lingua corrente presenta ancora una declinazione dei nomi in nominativo, accusativo, genitivo e vocativo (sebbene il genitivo plurale sia poco usato e il nominativo e il vocativo spesso si confondano). Sorprendenti sono due innovazioni linguistiche del greco moderno. L’eliminazione dell’infinito del verbo – uno dei tratti che il greco ha in comune con le lingue balcaniche – e l’invenzione del futuro, ottenuto con una perifrasi del verbo volere: ‘io giudicherò’ si dice θά κρίνω, ‘io voglio giudicare’ – e quindi ‘giudicherò’. La lingua appena descritta è detta καθαρεύουσα, cioè la lingua puristica, che affonda le sue radici fino a sfiorare l’idioma attico di Atene. Al momento in cui fu costituita, non era parlata da nessuno, ma la scuola, la letteratura, i giornali, lo Stato, le amministrazioni e la politica sono riusciti ad introdurla nell’uso colloquiale fino a risvolti imprevisti: in caserma, è usuale oggi dire ὄπλον per indicare il soldato con il fucile, proprio come l’oplita, il tipico fante greco del V secolo a.C.! 150­­­­

Il greco moderno ha subito quindi un processo di arcaicizzazione incredibile e senza paragoni nella storia della linguistica. Di fatto, il greco è l’unica lingua europea a non essersi mai evoluta in altro da lei – si pensi all’italiano, al francese, allo spagnolo, al portoghese, al rumeno dal latino –, ma ha sempre reagito alla storia convulsamente dentro di lei. Tuttavia, le lingue artificiali, partigiane, di resistenza, hanno sempre il difetto di non essere comprese dal popolo, e di non corrispondere alla sua identità. È quindi sorta in Grecia, e sempre è viva, una reazione da parte degli intellettuali che sentono il bisogno di esprimersi prendendo dal popolo parole concrete, parole vive e non abusate da millenni di letteratura. In questi anni la Grecia ha affrontato, in nome della sua identità e della sua dignità sociale, sfide economiche e politiche uniche in Europa utilizzando, di fatto, una lingua unica e straordinaria, ma vecchia di secoli, anzi, di millenni. Ma oggi la vera sfida, non solo linguisticamente parlando, sta tutta nella volontà di ricostruire una lingua finalmente moderna che serva a tutti i greci per capire e farsi capire nel 2016, nei propri confini e soprattutto fuori dalla Grecia. “Qualsiasi popolo che discendesse dagli antichi Greci sarebbe automaticamente infelice. A meno che non riuscisse a dimenticarli o a superarli”: così ha scritto amaramente Nikos Dimou nella sua raccolta di aforismi sull’infelicità di essere greci (moderni). Di fatto, la Grecia parla oggi un greco moderno che prende in prestito gran parte dei suoi elementi dal greco antico per ribadire al mondo l’identità di un popolo che ha il passato culturale più imponente del mondo occidentale. Un popolo che, da quel passato, sembra però non riuscire a liberarsi più, in una costante lotta per un presente che non arriva mai – mentre il futuro lo si è inventato giusto da un paio di secoli, proprio utilizzando il verbo ‘volere’, forse, io spero, nel senso di ‘pretendere’. 151­­­­

Bibliografia

Avevo pensieri malinconici... Una stranezza nella mia testa, la sensazione di essere estraneo a quel tempo, a quel luogo. William Wordsworth, Il preludio

Mettere nero su bianco le mie intuizioni, le mie manie, la mia sensibilità e le mie ostinazioni sulla lingua greca (coltivate in oltre quindici anni di accesi dibattiti e infuocati convegni tra me e me) mi ha spinta a consultare decine di manuali e di testi accademici. Ancora oggi, a libro concluso, non ho trovato risposta: la maggior parte dei saggi su cui mi sono accanita ripete con cura e saccente precisione più o meno le stesse cose che si ripetono nelle biblioteche e nelle aule universitarie da secoli. Ho certo trovato conferme di ciò che già sapevo, ma poco che non sapessi. Forse si tratta davvero della “stranezza della mia testa” o di un mio sesto senso particolare per il greco: di fatto, io penso e ragiono oggi in greco antico. Come mi ha insegnato la professoressa emerita Maria Grazia Ciani, mi assumo tutta la responsabilità per ciò che ho raccontato in questo libro. Laddove avessi sbagliato, omesso, frainteso, fantasticato, chiedo scusa fin d’ora. La maggior parte dei testi che hanno contribuito alla stesura di questo libro non tratta affatto di greco, ma della vita. 153­­­­

Talvolta non sono nemmeno stati libri, ma musica, luoghi, quadri, esseri umani. Quanto allo scibile specialistico che ho consultato, eccone di seguito l’elenco: A. Aloni (a cura di), La lingua dei Greci, Carocci, Roma 2011. E. Campanile-B. Comrie-C. Watkins, Introduzione alla lingua e alla cultura degli Indoeuropei, il Mulino, Bologna 2010. P. Chantraine, Morphologie historique du grec, Klincksieck, Paris 1947. N. Dimou, L’infelicità di essere greci, Castelvecchi, Roma 2012. F. Fanciullo, Introduzione alla linguistica storica, il Mulino, Bologna 2011. L. Heilmann, Grammatica storica della lingua greca, Sei, Torino 1963. O. Hoffmann-A. Debrunner-A. Scherer, Storia della lingua greca, Macchiaroli, Napoli 1969. Isidoro di Siviglia, Etimologie o Origini. Testo latino a fronte, a cura di A. Valastro Canale, Utet, Torino 2014. W.P. Lehmann, La linguistica indoeuropea. Storia, problemi e metodi, il Mulino, Bologna 1999. F. Michelazzo, Nuovi itinerari alla scoperta del greco antico. Le strutture fondamentali della lingua greca: fonetica, morfologia, sintassi, semantica, pragmatica, Firenze University Press, Firenze 2007. L.R. Palmer, The Greek Language, Faber & Faber, London 1980. D. Pieraccioni, Morfologia storica della lingua greca, D’Anna, Firenze 1975. R. Pierini-R. Tosi, Capire il greco, Patron, Bologna 2014. V. Pisani, Storia della lingua greca, Sei, Torino 1960. O. Szemerényi, Introduzione alla linguistica indoeuropea, a cura di G. Boccali-V. Brugnatelli-M. Negri, Unicopli, Milano 1985. F. Villar, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa: lingua e storia, il Mulino, Bologna 1997. V. Woolf, Del non sapere il greco, nella raccolta Voltando pagina, Il Saggiatore, Milano 2011.

Infine, certe donne vanno per il mondo con il rossetto nella borsa. Non uso rossetto ma, da oltre dieci anni, porto con me di città in città una copia dell’insuperabile Aperçu d’une histoire de la langue grecque di Antoine Meillet, Hachette, Paris 1913/Einaudi, Torino 2003, fonte dell’ispirazione e della libertà che hanno dato inizio e senso a tutto. 154­­­­

Ringraziamenti

Well you’ve done it again, Virginia made another masterpiece while I was dreaming. How does it feel to feel like you? Brilliant sugar brilliant sugar brilliant sugar turn over. The National, You’ve done it again, Virginia

Questo libro è il risultato della mia stranezza, ma non sarebbe stato possibile senza l’amore di alcune persone. Il primo grazie, il più grande, va alla professoressa, ma soprattutto amica Maria Grazia Ciani, che ha accompagnato con la sua corrispondenza la stesura di ogni pagina. La mia gratitudine per il suo affetto, la sua precisione, la sua libertà e la sua amicizia è immensa; prometto di non tradirmi mai, e di continuare a studiare il greco innanzitutto per conoscere me stessa. Questo libro non sarebbe mai nato se non ci fosse stato un incontro di quelli che danno senso a tutto, ancora prima che accada. Grazie quindi a Maria Cristina Olati per avermi scovata, per avermi messa di fronte al mio talento e alla mia paura, per essermi stata accanto nei giorni in cui non credevo che sarebbe successo davvero (la maggior parte) e in quelli in cui invece ci ho creduto. Grazie soprattutto ad un amico che mi ha ascoltata e sostenuta ogni giorno, insegnandomi molto e non lasciandomi sola mai. Gli devo molto. Stiamo tra di noi, Alberto Cattaneo, sempre. Grazie alla mia migliore amica Lena Pletinck, che essendo 155­­­­

belga non capirà una sola parola di questo libro, ma continueremo a capirci in una lingua tutta nostra viaggiando insieme per il mondo; sometimes life is too short and the world is too small, we know. Grazie a mio padre, Giuseppe detto “teta”, che mi ha cresciuta insegnandomi la dignità, la generosità, la leggerezza e l’arte rara di ridere quando non c’è niente da ridere. Grazie anche al mio ormai leggendario cane Carlo, che mi segue di città in città da nove anni sopportando di tutto (soprattutto me), ma che non mi hai mai guardata un solo giorno senza quei suoi occhi grandi che sanno dire soltanto mi fido di te. Grazie alle ragazze Concita, Francesca, Anna, al ragazzo (con la stella in bocca) Jacopo, e al mio amico Michael che mi ha letta dalla California. Grazie poi a tutta la Venezia (quella di Livorno) per aver sempre capito tutto soprattutto quando non c’era un bel niente da capire. Grazie a Sarajevo, sono stata felice. Torno sempre e un giorno sarà per sempre. Infine, tutte le poesie racchiuse in questo libro sono state scelte da Fabio Chiusi. Δυστοπία è il nostro amore.