La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl 9788885716230, 9788885716209, 9788885716285

In questo libro l'autrice realizza uno specifico esperimento di lettura e di interpretazione filosofica, consistent

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La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl
 9788885716230, 9788885716209, 9788885716285

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Federica Buongiorno

La linea del tempo Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl

ISBN E-book 9788885716230

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 11 - Proposte

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Federica Buongiorno

La linea del tempo

Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2018, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 11 - ottobre 2018 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-20-9 ISBN – E-book: 978-88-85716-28-5 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina:

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A Palmo Policella, al di là della linea del tempo

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Nota alla nuova edizione

Diverse sollecitazioni mi sono giunte nell’ultimo anno per rendere nuovamente disponibile questo mio studio, originariamente edito da Decomporre Edizioni nel 2014 e da qualche tempo non più reperibile. In occasione della ripubblicazione con Inschibboleth Edizioni, il mio intento era quello di sottoporre il testo a una revisione e a un ampliamento che tenessero conto non solo delle più recenti acquisizioni della letteratura secondaria sul tema specifico, ma anche del mio personale approfondimento delle questioni husserliane, legato in particolare alle altre due monografie uscite nello stesso 2014 (Logica delle forme sensibili. Sul precategoriale nel primo Husserl, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2014) e nel 2017 (Intuizione e riflessione nella fenomenologia di Edmund Husserl, Aracne Editrice, Roma 2017). In effetti, anche questi libri si muovono attorno a un medesimo plesso problematico, delineato dal rapporto sussistente nella fenomenologia husserliana tra intuizione e riflessione, pre-categoriale e categoriale, percezione e ricordo: la specificità del presente volume è stata, sin dall’inizio, di indagare tale problematica nel confronto tra Husserl e un autore apparentemente estraneo all’orizzonte fenomenologico, come

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Henri Bergson. La mia personale convinzione era (ed è) che fosse possibile instaurare un’indagine comparativa fondamentalmente basata su alcune, importanti analogie metodologiche nell’impostazione della teoria della temporalità (e della coscienza) nei due autori e, più specificamente, sul confronto teoretico tra le nozioni di “percezione concreta” in Bergson e di “percezione adeguata” in Husserl. L’originario intento di revisione, tuttavia, si è scontrato con il carattere di studio programmaticamente circoscritto del mio lavoro, che si è focalizzato sulla comparazione tra due testi specifici (Materia e memoria e le lezioni husserliane sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo), sulla base di ragioni metodologiche e teoriche che non manco di esporre nel testo. Un allargamento sistematico del confronto avrebbe comportato una riscrittura del testo che non solo mi è impossibile nella fase attuale del mio lavoro scientifico, ma che avrebbe altresì modificato profondamente la natura del testo, anche nella sua connessione con l’Appendice finale dedicata a una proposta di lettura husserliana del confronto tra Bergson e Einstein sulla natura del tempo1. A proposito dell’Appendice, le successive letture in materia di fisica teorica – un ambito che, da profana, non ha mai smesso di attirare il mio interesse per la profondità e lo spessore filosofico dei problemi sollevati – hanno confermato sempre più ai miei occhi l’idea, peraltro ammessa (come mostro nel libro) da molti scienziati del campo, che l’attuale stato della teoria fisica 1. In particolare, avrei voluto approfondire la questione con riferimento agli husserliani Bernauer Manuskripte e C-Manuskripte, dove Husserl puntualizza e in parte revisiona la teoria contenuta nelle lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo del 1904-05. Ciò avrebbe significato, tuttavia, uno spostamento dell’analisi dal confronto tra i due autori a un’indagine interna ai testi husserliani; un approfondimento per me decisivo del tema in rapporto a Husserl è contenuto nel mio Intuizione e riflessione nella fenomenologia di Edmund Husserl, Aracne, Roma 2017.

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(quantistica) dello spazio-tempo necessiti di un completamento epistemologico che può forse essere offerto da un’integrazione filosofica (fenomenologica) della stessa teoria fisica. Mi pare che questa linea di ricerca possa dischiudere, nel rispetto delle diversità metodologiche e disciplinari, sviluppi estremamente interessanti per la teoria della temporalità. Approfitto di questa breve nota per ringraziare alcune persone, che – forse inconsapevolmente – hanno contribuito a motivare la presente riedizione: il collega e amico Antonio Lucci, il quale ha sempre creduto nel particolare valore di questo mio primo libro; la professoressa Enrica Lisciani Petrini, che in un incontro napoletano di qualche tempo fa mi incoraggiò a ripubblicare il testo; Ambrogio Garofano, con il quale ho più volte ripreso i temi di questo testo, in lunghe e appassionate discussioni filosofische a Berlino, giungendo a una comprensione più viva e approfondita dei miei stessi argomenti; i colleghi e amici de “Lo Sguardo” e di “Azimuth. Philosophical Coordinates in Modern and Contemporary Age” che, affidandomi la curatela di un prossimo numero de “Lo Sguardo” dedicato alla filosofia di Bergson, mi hanno spinto a riprendere contatto con il pensiero del filosofo francese. Un ultimo, doveroso ringraziamento va all’editore per la fiducia accordata e per l’intensa collaborazione degli ultimi anni. Berlino, ottobre 2017

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Premessa

Il mio scopo in questo libro è quello di proporre un esperimento di lettura e di interpretazione molto specifico, consistente nell’analisi comparativa del rapporto tra percezione e memoria in Bergson e Husserl. Cercherò di realizzare questo intento programmatico attraverso l’analisi di un numero ristretto di testi, ossia quelli nei quali emerge più distintamente la possibilità di instaurare un parallelo tra i due autori – essenzialmente, Materia e memoria, per quel che riguarda Bergson, e le Vorlesungen del 1904-05 sulla coscienza interna del tempo, per quanto concerne Husserl. Naturalmente, laddove necessario non prescinderò dal richiamo ad altre opere a sostegno delle riflessioni svolte, ma lo studio è qui programmaticamente limitato a un problema definito: la comprensione di come, secondo i due autori accostati, si realizzi la costituzione della coscienza del “passato”. Darò per scontata, quindi, la conoscenza degli assunti fondamentali del pensiero bergsoniano e della fenomenologia husserliana, e tralascerò gli importanti problemi che – soprattutto in Husserl – connettono la teoria della temporalità di coscienza, come fondamento e punto di partenza dell’analisi filosofica, all’impianto teorico generale. La limitazione alla problema-

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tica costituita dalla formazione della coscienza del “passato” temporale escluderà, inoltre, l’esame della dimensione (per certi versi più determinante, per lo meno sul pianto teoricoconoscitivo) della coscienza di “futuro”, evocata tanto dalla nozione di “virtualità” bergsoniana quanto dalla “protensione” husserliana. Il confronto tra i due autori, infatti, è giustificato e appare realizzabile in particolare sul tema specifico del rapporto percezione-memoria, per il valore costitutivo e fondante che entrambi i filosofi attribuiscono a questo binomio e per alcune analogie concettuali (la più vistosa e interessante delle quali è costituita, a mio avviso, dal parallelismo istituibile tra la nozione husserliana di «percezione adeguata» e quella bergsoniana di «percezione concreta»), che configurano un quadro generale parzialmente analogo, all’interno del quale, tuttavia, la “linea del tempo” segnata dal vettore percezione-memoria giunge a disegnare traiettorie sostanzialmente opposte tra loro. L’interesse dell’accostamento tra Bergson e Husserl sul tema specifico, è dato anzitutto dalla mancanza di studi (tranne alcune eccezioni, talvolta illustri – come nel caso della monografia di Roman Ingarden) che considerino sistematicamente il rapporto teorico tra il filosofo francese e il fondatore della fenomenologia – malgrado le analogie, metodologiche e concettuali, siano sufficienti a motivare un confronto tra le due prospettive, pur nella profonda diversità dell’intentio filosofica, che miro così a comprendere in modo più approfondito e non certo a oscurare o a ridurre. Non mi riferisco al solo dato biografico, che ci consegna i due autori come coevi (nascono entrambi nel 1859), o ai cenni (comunque limitati) indirettamente presenti in Husserl. La critica della concezione obiettivistica della temporalità; il rifiuto della prospettiva calcolistico-misuratoria e la rivendicazione del carattere qualitativo dei fenomeni di coscien-

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za (pur nella diversa caratterizzazione che induce Bergson a parlare – dal suo punto di vista “organicistico” – di «stati di coscienza», laddove Husserl – nella sua prospettiva già indirizzata all’epoché e al metodo delle riduzioni – parla piuttosto di «atti di coscienza»); il ruolo fondante attribuito alla percezione nel suo legame, posto come strutturalmente necessario, con la memoria; l’esigenza di comprendere, a partire dall’analisi della temporalità immanente, come sia possibile il costituirsi di un tempo obiettivo, un tempo “degli orologi”; tutti questi sono capitoli fondamentali nella riflessione dei due autori e configurano esigenze filosofiche comuni, che vengono però declinate in direzioni profondamente divergenti – come cercherò di mostrare, realizzando un’analisi sostanzialmente teoretica, ma niente affatto incurante del necessario ancoraggio filologico. Credo che l’accostamento critico tra i due autori, che si potrebbe ulteriormente sviluppare e che ho parzialmente approfondito in occasione di un saggio, già pubblicato nella «Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia», dedicato all’interpretazione fenomenologica della disputa tra Bergson e Einstein sulla natura del tempo (che qui ripropongo in Appendice, a completamento dell’analisi svolta), possa meglio illuminare alcuni aspetti problematici della teoria bergsoniana, da un lato, e della fenomenologia husserliana, dall’altro: da studiosa di Husserl, in particolare, mi pare che alcune complessità nella sua filosofia possano essere – se non altro – meglio comprese e indagate “aprendo” il testo e la teoria husserliani al confronto con altri pensieri, più o meno esplicitamente richiamati da Husserl nelle sue opere. Il rischio di una chiusura ultra-fenomenologica e di un appiattimento – per così dire – di Husserl su Husserl è, infatti, una possibilità concreta, motivata in parte dalla difficoltà della strumentazione concettuale alla base della fenomenologia e, in parte, dall’indubbia fascinazione che un pensiero dalla vocazione tanto radica-

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le esercita nel senso di una opzione metodologica “forte” e vincolante. Il lavoro sulla tesi di dottorato (pubblicata per le “Edizioni di Storia e Letteratura” e dedicata al problema ben più generale e impegnativo del pre-categoriale nella prima filosofia husserliana e particolarmente nelle Ricerche logiche), ha confermato questa impressione generale, conducendomi – da una iniziale internità, teorica e filologica, al testo husserliano – alla progressiva ricostruzione dell’ascendenza storicogenetica dei problemi elaborati da Husserl, soprattutto nella fase iniziale della sua produzione, e suggerendomi un lavoro di paziente confronto, sui singoli temi, con le fonti logiche classiche e coeve. Il presente studio, più breve e circoscritto, vorrebbe costituire un ulteriore tassello in questo quadro interpretativo e un diverso esempio del medesimo approccio metodologico.

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Capitolo primo

Coscienza e realtà: soggettività e oggettività nella costituzione temporale

Come riportato da Herbert Spiegelberg nel suo saggio sul movimento fenomenologico, Husserl avrebbe pronunciato, a margine di una conferenza tenuta da Alexandre Koyré al circolo di Gottinga nel 1911, la seguente affermazione: «We are the true Bergsonians»1. Un simile proclama, invero piutto1. H. Spiegelberg, The Phenomenological Movement. A Historical Introduction, Martinus Nijhoff, The Hague 1965, vol. II, p. 399; cit. in R. Winkler, Husserl and Bergson on Time and Consciousness, in «Analecta Husserliana», vol. 90, pp. 93-115, Springer 2006. Il saggio di Winkler è lo studio più specifico sul tema, sebbene l’autore sia soprattutto interessato a una ricostruzione dell’ascendenza riemanniana (dal concetto di molteplicità continua) della struttura della coscienza temporale in Husserl e Bergson e si concentri su analogie e differenze allo scopo di comprendere la diversa articolazione della coscienza nei due autori, mentre il mio tentativo è teso a comprendere come la diversa struttura coscienziale sia volta – e riesca, oppure non riesca – a spiegare la formazione del tempo obiettivo (la corretta comprensione del quale costituisce il fine dei due filosofi). Cfr. anche il capitolo intitolato Between the Temporalization and the Essentialization of Time: Bergson and Husserl, in M. Sandbohte, The Temporalization of Time. Basic Tendencies in Modern Debate on Time in Philosophy and Science, Trans. by A. Inkpin, Rowman & Littlefield Publishers, Boston 2001, pp. 69 sgg. Si veda anche, sebbene non sia specificamente dedicato al tema della temporalità, E. Freiberga, Mental Experience and Creativity: H. Bergson,

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sto impegnativo, non poteva di certo esser proferito ingenuamente dal fondatore della fenomenologia; se pure volessimo dubitare dell’attendibilità dell’episodio riportato, la teoria esposta da Husserl nelle lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo offrirebbe sufficienti puntelli teorici per impostare un confronto con il filosofo francese, al fine di indagare il tema specifico del rapporto tra percezione e memoria e comprenderne il valore fondativo per la coscienza temporale, da un lato, e per il costituirsi dell’idea di un “tempo obiettivo”, dall’altro. Il nucleo centrale della temporalità di coscienza consiste, tanto in Bergson quanto in Husserl, nel rapporto tra percezione e memoria. Tale rapporto si articola entro una cornice di riferimento metodologica parzialmente analoga: ciò autorizza un avvicinamento comparativo tra i due pensatori, allo scopo di osservare – con il progressivo allontanamento dal piano metodologico e grazie all’analisi della concreta strutturazione del rapporto tra percezione e memoria – il sostanziale divergere delle due prospettive in vista di una differente funzionalizzazione della temporalità di coscienza e del suo ruolo fondante sia in rapporto alla sfera conoscitiva che a quella ontologica. In questo capitolo cercherò di chiarire preliminarmente i presupposti metodologici comuni a Bergson e Husserl, per poi passare all’analisi comparativa della costituzione temporale di coscienza nei due autori. Il tempo nella sua pura e semplice oggettività fisica, matematicamente determinabile, non è l’autentico concetto del tempo, inteso come vissuto nella sua concreta dimensione coscienziale; correlativamente, le scienze naturali ispirate al metodo fisico-matematico, nella misura in cui assumono o presup-

E. Husserl, P. Jurevičs and A.-T. Tymieniecka, in «Analecta Husserliana», vol. 93, Springer 2007, pp. 335-350.

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pongono il tempo mondano quale oggetto delle proprie ricerche, non operano all’interno della vera dimensione temporale costituente il tessuto stesso della coscienza. La realtà, la sostanza coscienziale ha natura essenzialmente temporale: questa è internamente scandita dalle modalità della “durata”, che Bergson tematizza per la prima volta nel secondo capitolo del suo Essai sur les données immédiates de la conscience (del 1889) e che Husserl, da parte sua, indaga nelle lezioni dedicate alla fenomenologia della coscienza interna del tempo, pubblicate per la prima volta in tedesco nel 19282. Il problema dal quale entrambi muovono non consiste propriamente nel chiedersi in che modo sia possibile una coscienza della durata temporale, quanto piuttosto nell’indagare come sia possibile cogliere la durata stessa della coscienza quale modo d’essere di quest’ultima e delle realtà (oggettuali) che sono in rapporto ad essa: che non vi sia, infatti, alcuna realtà della coscienza se non in quanto temporale e che non vi sia, in generale e più radicalmente, realtà alcuna se non in quanto temporale (ovvero in rapporto ad una coscienza che duri), è quanto sia Bergson che Husserl pongono come un’evidenza fondamentale, a partire dalla quale ricostruire – quasi archeologicamente – la genesi dell’idea di un tempo obiettivo esteriorizzato e spazializzato (coincidente con la nozione di temporalità propria delle scienze e del senso comune)3. Questo rapporto 2. Cfr. HUA/X: Zür Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins: 18931917, hrsg. v. R. Boehm, M. Nijhoff, Den Haag 1966; tr. it. a cura di A. Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), Franco Angeli, Milano 2001. Il volume X dell’«Husserliana» si basa sui testi raccolti e sistemati da Edith Stein su incarico di Husserl, il cui nucleo centrale risale al 1904-05, poi integrati dalle aggiunte e dagli approfondimenti apportati dall’Autore fino al 1917, e pubblicati in tedesco nel 1928 a cura di Martin Heidegger. 3. Parole eloquenti in proposito vengono spese da Husserl proprio in HUA/X, tr. it. cit, §1, pp. 44 sgg., ed anche nel fondamentale paragrafo 81 di HUA/III-1: Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologi-

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di reciproca inerenza tra temporalità e coscienza costituisce, dunque, il presupposto generale da cui muovono entrambi gli autori e rappresenta il capitolo fondamentale della loro riflessione sulla temporalità: in questo lavoro, cercherò di mostrare in che modo tale rapporto si strutturi in Bergson e in Husserl, muovendo dal binomio “percezione-memoria” – tema più specifico, ma posto al cuore della teoria della temporalità. Risaliremo, così, al piano teorico-generale a partire da uno scorcio peculiare, che consentirà non solo una restituzione esplicativa della teoria della coscienza temporale nei due filosofi, ma anche l’evidenziazione di alcune aporie e complessità che albergano in essa, determinandone il carattere affascinante e, al tempo stesso, problematico4. schen Philosophie, Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, hrsg. v. K. Schuhmann, M. Nijohff, Den Haag 1976 (19131); tr. it. a cura di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro primo: Introduzione generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino 2002, pp. 202 sgg. Qui Husserl scrive: «Ogni vero vissuto (noi raggiungiamo questa evidenza sulla base della chiara intuizione della realtà del vissuto) è necessariamente qualcosa che dura», e chiarisce che «bisogna considerare attentamente la differenza tra il tempo fenomenologico, questa forma unitaria di tutti i vissuti in un’unica corrente di vissuti (quella di un unico io puro), e il tempo “oggettivo”, ossia “cosmico”». La posizione di Bergson è chiaramente espressa in Dureé et simultanéité, Presses Universitaires de France, Paris 1972; tr. it. a cura di F. Polidori, Durata e simultaneità, Raffello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 48, 61 e 62. Si veda anche Matière et mémoire, Presses Universitaires de France, Paris 1959; tr. it a cura di A. Pessina, Materia e memoria, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 124 e soprattutto p. 192, dove Bergson scrive: «Che ogni realtà abbia una parentela, un’analogia, un rapporto insomma, con la coscienza, è ciò che concedevamo all’idealismo per il fatto stesso di chiamare le cose “immagini”». 4. Per una problematizzazione del rapporto coscienza-temporalità in Bergson, rinvio ad A. Penna, Henri Bergson: l’irrisolta questione di coscienza e durata, in «Annuario dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici», nr. XVIII, il Mulino, Napoli 2000. Per quel che concerne Husserl, si veda la critica della complessa questione della «coscienza assoluta», nel suo rapporto con il tempo fenomenologico e con l’evoluzione complessiva del pensiero

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Nella sua articolazione temporale, la coscienza è condizione della nostra presa sul mondo e su noi stessi come parti del mondo: se ciò è vero, si dovrà partire dalla coscienza stessa per comprendere pienamente il senso della realtà esterna e delle varie modalità d’apprensione che possiamo averne. Si dovrà compiere, in altre parole, il cammino inverso a quello seguito dalle scienze naturali, che muovono dalla presa d’atto del mondo nella sua datità oggettiva per poi riflettere su di esso nei termini di una comprensione guidata dal principio di causa-effetto e improntata al metodo matematico e alla categoria fondamentale della misurazione – criterio proprio di ogni legge che voglia essere “scientifica”. Il punto di partenza è costituito, così, dall’analisi della coscienza temporale, al fine di «porre nel loro giusto rapporto il tempo obiettivo e la coscienza soggettiva del tempo»5: la considerazione scientifica della realtà ci nasconde, infatti, la vera natura della realtà stessa, e cioè la durata temporale. Il compito filosofico consiste nel ripristinare l’autentica relazione con il mondo cosale, riportando in primo piano l’elemento essenziale della temporalità di coscienza e immettendoci direttamente all’interno di questa: soltanto dopo aver chiarito il rapporto sussistente tra tempo vissuto e tempo obiettivo (o, come direbbe Bergson, tra «spirito» e «corpo»6) si potrà tornare alla comprensione scientifica del mondo, per ricollocarla all’interno della giusta husserliano, operata da John B. Brough nel suo saggio The Emergence of an Absolute Consciousness in Husserl’s Early Writings on Time-Consciousness, in Critical Assessments of Leading Philosophers. Edmund Husserl, ed. by R. Bernet, D. Welton and G. Zavota, Routledge, London 2005, vol. III/50. Si veda anche R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl. Darstellung seines Denkens, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1989; tr. it. a cura di C. La Rocca, Edmund Husserl, il Mulino, Bologna 1992, pp. 144 sgg. (Nel seguito, citerò direttamente dall’originale tedesco). 5. HUA/X, tr. it. cit., p. 43. 6. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 7. Si ricordi che il sottotitolo dell’opera recita: Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito.

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prospettiva di senso, alla luce della sua comprovata insufficienza a render conto di tutta la realtà nella sua dimensione di durata vissuta. Il comune obiettivo è perseguito da Bergson e Husserl secondo modalità differenti: Husserl parte, nelle lezioni del 1904-05, dalla caratteristica «messa fuori causa del tempo obiettivo» in quanto dato non fenomenologico, che però non consiste – com’è noto – in una mera cancellazione della sfera della «trascendenza» dell’oggetto temporale; se è vero che «per mezzo dell’analisi fenomenologica non si può trovare neanche una briciola di tempo obiettivo»7, poiché «ciò che ci interessa sono i vissuti temporali»8, è altrettanto vero che «dati fenomenologici sono le apprensioni di tempo, i vissuti in cui qualcosa di temporale in senso obiettivo appare»9. Il vissuto temporale contiene un riferimento all’obiettività temporale, la “espone” dall’interno di sé, come appare chiaro se si mantiene l’analisi (in quanto analisi fenomenologica) al di qua dell’apparire di tale dimensione obiettiva, ossia nei limiti della coscienza interna del tempo: è in questo senso specifico che lo studio del tempo fenomenologico può fornire la chiave per la comprensione autentica del tempo obiettivo10. Bergson definisce la sua posizione confrontandosi più da vicino con le scienze naturali e con il loro armamentario scientifico, a partire da quella nozione di durata che egli introduce e discute

7. HUA/X, tr. it. cit., p. 43. 8. Ivi, p. 48. 9. Ivi, p. 45. 10. Cfr. ivi, p. 117: «Il tempo fenomenologico, cui appartengono i dati di sensazione e le apprensioni di cosa, e il tempo spazio delle cose, devono coincidere punto per punto. Con ogni punto riempito del tempo fenomenologico si espone [...] un punto del tempo obbiettivo riempito». Avrò modo di tornare sulla questione e di chiarirla pienamente in seguito.

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sistematicamente nel Saggio del 188911: anche Bergson, qui, richiede una sorta di “epoché” alla coscienza, che deve «isolarsi dal mondo esterno, e, grazie a un potente sforzo di astrazione [...] ridiventare se stessa», al fine di cogliere sé e la realtà tutta come «durata pura», come una successione di cambiamenti qualitativi che si compenetrano senza separazioni nette e privi, dunque, di una reale tendenza all’esteriorizzazione reciproca. Quello di “numero” è il concetto cardine del procedimento matematico-scientifico, e presuppone per eccellenza – osserva Bergson – l’esteriorità reciproca e la discontinuità delle unità che lo compongono: l’operazione stessa del contare si svolge nella giustapposizione spaziale piuttosto che nella successione temporale12, e offre un tempo già spazializzato, già espulso all’esterno della coscienza sulla base dell’analogia con il movimento, perfettamente misurabile secondo leggi matematiche. Ma, osserva Bergson, «nello spazio non ci sono né durata né successione, nel senso in cui la coscienza intende questi termini»13. La molteplicità numerica e spaziale si distingue da quella coscienziale in quanto è una molteplicità discreta e discontinua, atta alla misurazione scientifica. Quest’ultima risponde a sua volta alle esigenze della vita sociale e dell’espressione linguistica, mentre la coscienza si compone di una eterogeneità pura, che non ammette distinzioni in parti: essa non è una cosa, ma un insieme di stati o di atti che si compenetrano e sfuggono alla presa delle scienze obiettive – le quali, infat-

11. Cfr. H. Bergson, Essai sur les données immédiates de la conscience, Presses Universitaires de France, Paris 1959; tr. it. a cura di F. Sossi, Saggio sui dati immediati della coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, parte II. 12. Ivi, pp. 51-57. 13. Ivi, p. 78.

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ti, hanno sistematicamente trascurato di trattarli14. Lo scienziato, guidato dal telos della previsione dei fenomeni naturali, identifica la reale durata di coscienza con il tempo delle scienze esatte: così facendo, confonde due ordini di realtà distinti, quello immanente (della coscienza) e quello trascendente (del mondo obiettivo). La perdita, sul piano teorico, è netta: se è possibile spiegare il tempo naturale a partire da quello interno, infatti, il percorso inverso è inattuabile. Ne consegue che lo scienziato obiettivo perde irrimediabilmente una sfera della realtà che, proprio in quanto consente la reciprocità di dimensione soggettiva e piano obiettivo, risulta essere la sfera di originaria datità del rapporto tra coscienza e realtà15. Bergson osserva che «la scienza opera sul tempo e sul movimento solo a condizione di eliminarne prima l’elemento essenziale e qualitativo – la durata, per il tempo, e la mobilità per il movimento»16. Questa convinzione induce Bergson a

14. Vi è una parentela tra stati di coscienza (Bergson) e atti di coscienza (Husserl), nel senso che i due concetti esprimono l’appartenenza di entrambi gli autori a quella koinè filosofica che si potrebbe indicare, con la formula già indagata sistematicamente da Alfredo Civita, come “filosofia del vissuto”. Scrive Civita: «[...] in tutti gli autori che tratteremo [la monografia di Civita indaga il pensiero di Brentano, James, Dilthey, Bergson e Husserl] il termine vissuto ha un suo preciso sinonimo. In Brentano è il fenomeno psichico, in James è il pensiero, in Bergson è lo stato di coscienza. Lo stesso Bergson, del resto, nelle opere più tarde impiegherà l’espressione durée vécue»; A. Civita, La filosofia del vissuto. Brentano, James, Dilthey, Bergson, Husserl, Unicopli, Milano 1982, p. 14, nota 3. 15. Il fatto che si tratti di due sfere di realtà non implica un dualismo dei piani ontologici: la priorità della coscienza non è funzionale, come si è detto, alla perdita del tempo obiettivo e delle sue datità, ma alla coordinazione – definita “puntuale” da Husserl – tra tempo della coscienza e tempo delle datità obiettive. Sia in Bergson che in Husserl, si tratta di riannettere alla teoria della temporalità un versante essenziale, arricchendo la relativa ontologia di quello che si svela essere il suo fondamento più originario: l’intento è costruttivo ed esplicativo e non banalmente demolitivo e riduttivo alla coscienza. 16. Cfr. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, tr. it. cit., p. 75.

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confrontarsi con il massimo paradigma scientifico allora disponibile quanto a teoria della temporalità: vale a dire, con la teoria fisica della Relatività einsteiniana. Lo scopo di Bergson in questo confronto è proprio quello di mostrare come la teoria di Einstein non riesca a cogliere, dato il suo punto di vista eminentemente matematico, l’idea di flusso temporale e come al tempo stesso essa si trovi nella paradossale necessità – affinché le sue procedure abbiano un significato e si possa dire che esse “parlano” effettivamente del tempo – di dover presupporre l’idea di una durata realmente vissuta, di un tempo autenticamente “psicologico”17. Da quanto precede risulta che, tanto per Bergson quanto per Husserl, la dimensione temporale di coscienza non coinci-

17. È questa la tesi centrale in Durata e simultaneità (si vedano in particolare le pp. 55 e 63-64 della traduzione italiana), consistente in una critica – filosofica, ma che non teme di scendere sul piano concreto della considerazione tecnica e matematica – mossa da Bergson alla teoria della Relatività einsteiniana. L’ambizione bergsoniana è quella di scoprire, all’interno della teoria di Einstein, “corretta” e “integrata” filosoficamente, una conferma alla teoria di durata vissuta (di ciò che, in quest’opera, Bergson chiama «tempo psicologico»). Il risultato è un testo di difficile lettura, che – come ricorda F. Polidori nell’Introduzione all’edizione italiana – suscitò non poche polemiche in ambiente scientifico (Einstein stesso replicò ai rilievi bergsoniani), tanto che l’autore fu spinto, dopo la prima pubblicazione (1922), a interdirne nel 1931 la ristampa e la traduzione in altre lingue; un divieto poi superato con la prima edizione postuma del volume (1968), successivamente ricompreso all’interno di H. Bergson, Mélanges, a cura di A. Robinet con la collaborazione di M-R. Mossé-Bastide, M. Robinet, M. Gauthier, Presses Universitaires de France, Paris 1972; tr. it. a cura di F. Polidori, Durata e simultaneità (a proposito della teoria di Einstein) e altri testi sulla teoria della Relatività, Raffaello Cortina, Milano 2004. Per una ricostruzione, intrapresa dal punto di vista fenomenologico, della disputa sul tempo tra Bergson e Einstein, mi permetto di rinviare al mio saggio, in Appendice al presente volume, La natura del tempo. Una lettura fenomenologica della disputa tra Bergson e Einstein, già edito in «Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia», vol. 4 (2013), n. 1, pp. 69-82.

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de con quella scandita dalle lancette dei nostri orologi, che presuppone la spazializzazione della successione temporale: l’orologio non misura il tempo, direbbe Bergson, quanto piuttosto una distanza, precisamente quella distanza che convenzionalmente si è deciso di attribuire al lasso di tempo che intercorre tra due ore (o tra due minuti, tra due secondi etc.). Con l’orologio, disponiamo di un mezzo che ci consente di ricavare una rappresentazione intuitiva del tempo attraverso la sua traduzione in spazio, tant’è vero che noi affermiamo di guardare l’ora (mentre in realtà guardiamo l’orologio, com’è ovvio, dal momento che il tempo non si “guarda”) e di contare le ore, i minuti, i secondi (quando il contare è un processo che avviene nello spazio, piuttosto che nel tempo). La durata vissuta continua, così, a sfuggirci: ciò è inevitabile, poiché essa non è qualcosa di misurabile. Non a caso, il funzionamento dell’orologio non cambierebbe se noi immaginassimo, come fa Bergson, che improvvisamente il tempo scorra a una velocità doppia, tripla o indefinitamente maggiore: si tratterebbe solo di modificare le proporzioni in gioco. Matematica e fisica “contano” non il tempo ma lo spazio, l’istantaneità e non la durata: ciò che avviene nell’intervallo di tempo non si può “contare”. Solo ciò che è posto agli estremi del processo è misurabile, rappresentandosi spazialmente il tempo come una linea geometrica le cui estremità vengono a coincidere con due punti (x, y) nello spazio. Gli indivisibili stati di coscienza, al contrario, costituiscono – come ha sottolineato Roman Ingarden nel suo studio su Bergson18 – una struttura peculiare, che 18. R. Ingarden, Intuition und Intellekt bei Henri Bergson. Darstellung und Versuch einer Kritik, in Gesammelte Werke, Bd. VI (Frühe Schriften zur Erkenntnistheorie), hrsg. v. W. Galewicz, Niemeyer, Tübingen 1994. Il volume, pubblicato per la prima volta nel 1921, costituisce la tesi di dottorato di Ingarden, che questi scrisse da studioso di fenomenologia e da allievo di Husserl: l’opera riveste una particolare rilevanza in quanto contiene un’esposizione e al tempo stesso una critica fenomenologica della teoria bergsoniana,

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non ha nulla in comune con le oggettualità spaziali, tanto da poter essere “solamente” vissuta e non colta in una conoscenza intellettuale che la distingua in parti da descrivere, né può essere adeguatamente espressa attraverso il linguaggio19. Se si dimentica questo, accade che «la maggior parte delle volte, quando parliamo di tempo, pensiamo a un mezzo omogeneo in cui i nostri fatti di coscienza si dispongono, si giustappongono come nello spazio, e riescono a formare una molteplicità distinta»20; pensiamo, cioè, a una rappresentazione spaziale. È notevole il fatto che, secondo Bergson, l’errore compiuto da Kant nel concepire il tempo come forma a priori dell’intuizione sensibile nell’Estetica trascendentale, sia stato proprio quello «di considerare il tempo un mezzo omogeneo», misconoscendo il fatto che «la durata reale si compone di momenti interni gli uni agli altri, e che, allorché assume la forma di un tutto omogeneo, è perché si esprime mediante lo spazio»21, portandoci così a confondere il tempo con lo spazio, la rappresentazione simbolica dell’io con l’io stesso. L’inadeguatezza che costituisce – in mancanza di approfonditi e sistematici studi di confronto tra Bergson e Husserl sulla questione della temporalità, così centrale per il pensiero di entrambi – un paradigma interpretativo importante per un rapportamento critico tra i due, in cui vengano fatte reagire tra loro prospettiva fenomenologica e impostazione bergsoniana. Mi servirò, pertanto, di alcune tesi specifiche di Ingarden come puntelli teorici per le mie osservazioni, con particolare riferimento al §1, capitolo I, parte I (Zwei Aspekte des Bewusstseins) e al §1, capitolo II, parte I (Die äussere Wahrnehmung). 19. Cfr. ivi, p. 2. 20. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, tr. it. cit., p. 60. Sulla concezione bergsoniana dello spazio quale «mezzo vuoto omogeneo», si vedano anche le pp. 63-66 e l’analisi (pp. 98 sgg.) dei sistemi fisici di tipo conservativo (fondati proprio sulla neutralizzazione del tempo vissuto mediante la sua traduzione in spazio omogeneo), ove la peculiarità del punto di vista matematico-fisico risalta in tutta evidenza nella sua diversità rispetto alla considerazione filosofica della realtà. La questione è trattata anche da Ingarden (cit.), nel paragrafo Zwei Aspekte des Bewusstseins. 21. Ivi, p. 147.

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delle scienze naturali a cogliere il tempo internamente vissuto sembra implicare l’esigenza di presupporre un principio psicologico (in un senso diverso da quello tradizionale), che introduca il necessario riferimento preliminare alla centralità della coscienza. Husserl evoca questa necessità con l’atto stesso di porre «fuori causa» il tempo obiettivo in favore di un puro riferimento ai vissuti temporali, mentre Bergson la approfondisce sino alle estreme conseguenze in Durata e simultaneità e, da un punto di vista propriamente filosofico, in Materia e memoria. Rispetto ai rapporti che la riflessione sulla temporalità, in Bergson e Husserl, inevitabilmente intrattiene con la psicologia, significative differenze sono riscontrabili nei due autori: Bergson si pone in una prospettiva interna a una certa psicologia, non quella accreditata alla sua epoca e da lui costantemente criticata22, bensì una psicologia integrata e in qualche misura persino guidata da esigenze di carattere dichiaratamente metafisico23, che sia in grado di rispondere alle fondamentali domande poste dalla filosofia senza farsi deviare dai tradizionali dualismi filosofici, dei quali Bergson ricerca un costante superamento, finalizzato a smascherarne

22. Basti pensare alla critica che Bergson sviluppa contro l’associazionismo psicologico in tutte le sue opere principali, a partire dal Saggio sui dati immediati della coscienza (tr. it. cit., pp. 96 sgg. e parte III), passando per Materia e memoria (tr. it. cit., pp. 114 sgg. e 137 sgg.), fino a L’evoluzione creatrice (1907), parte I (cfr. la critica al determinismo meccanicistico, di cui la psicologia associazionistica non sarebbe che una declinazione). Cfr. H. Bergson, L’évolution créatrice, Presses Universitaires de France, Paris 1959; tr. it. a cura di F. Polidori, L’evoluzione creatrice, Raffello Cortina, Milano 2002, parte I. 23. È questa la prospettiva che Bergson dichiara di assumere in Materia e memoria sin dalla Prefazione alla settima edizione (1911), p. 10 della traduzione italiana.

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l’unilateralità e la segreta complicità di fondo, per le quali essi si rivelano incapaci di render conto della totalità del reale24. È necessaria, piuttosto, una sorta di collaborazione tra psicologia e metafisica, le quali trattano del medesimo oggetto, la coscienza, da due punti di vista diversi: nel caso della psicologia – afferma Bergson, forse con un eccesso di semplificazione – il punto di vista è orientato alla pratica, nel caso della metafisica è invece slegato da essa25. La posizione di Husserl rispetto alla psicologia differisce in quanto egli, pur riconoscendo che psicologia e fenomenologia trattano fondamentalmente dello stesso oggetto, afferma la radicale differenza tra la natura dell’appercezione psicologica e la natura dell’appercezione fenomenologica: finché la psicologia non si rende “trascendentale” e non accetta la correzione fenomenologica del suo orientamento obiettivistico, non si tratterà di una semplice diversità di punti di vista, quanto piuttosto di due diverse metodologie, di cui l’una (la psicologia) si caratterizza quale scienza di «dati di fatto» (ovvero come scienza naturale) e l’altra (la fenomenologia) quale scienza di «essenze» (ovvero come scienza eidetica) – secondo la teorizzazione contenuta in particolare nel primo libro di Idee26. L’atteggiamento naturalistico, tipico della psicologia tradizionale, tende

24. Cfr. la critica bergsoniana dell’opposizione tra realismo e idealismo, o quella mossa alla contrapposizione tra dogmatismo metafisico e filosofia critica, contenute particolarmente nella IV parte di Materia e memoria. 25. Ivi, p. 10. 26. Alle pagine 4-5 dell’Introduzione al primo libro delle Idee (HUA/III-1, tr. it. cit.), leggiamo: «la fenomenologia pura [...] non è una psicologia. [...] Ciò non viene minimamente inficiato dal fatto che la fenomenologia si occupa della “coscienza” con i suoi tipi di vissuto, con i suoi atti e correlati di atti». Husserl qui afferma esemplarmente la «necessità di assumere un atteggiamento nuovo e completamente diverso, in contrasto con l’atteggiamento naturale caratteristico del nostro pensiero e della nostra esperienza» – caratteristico, dunque, della stessa psicologia.

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a spostare il punto d’osservazione nuovamente sul versante dell’obiettività temporale, mentre la fenomenologia intende concentrarsi sui vissuti temporali, sul problema della costituzione delle datità temporali a opera della coscienza, essa stessa temporale27; poiché la realtà interessa al fenomenologo solo in quanto è pensata e intesa concettualmente, ciò che acquista rilievo essenziale è che nei vissuti temporali siano intesi dei dati obiettivamente temporali, ma in nessun caso questi ultimi potranno costituire il punto di partenza del fenomenologo – per il quale, invece, la questione dell’origine psicologica (ovvero della genesi empirica) del tempo dovrà restare «fuori circuito»28.

27. Cfr. HUA/X, tr. it. cit., p. 48. 28. È appena il caso di ricordare, per la critica husserliana della psicologia, le decisive trattazioni contenute nei Prolegomeni al primo volume delle Ricerche logiche (1900-01), dove la contestazione dello psicologismo raggiunge il suo assetto più compiuto.

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Capitolo secondo

La linea del tempo: percezione e memoria tra Bergson e Husserl

1. Percezione e memoria oltre il senso comune: il problema dell’attualità dell’ora Richiamata la cornice teorica generale entro cui si articola, nei due autori, la riflessione sulla temporalità, occorre chiarire il motivo fondamentale per cui quest’ultima, tanto in Bergson quanto in Husserl, esige per il suo stesso costituirsi il riferimento a una certa, fondamentale nozione di “memoria”: si è visto come non sussista tempo alcuno, né a livello di una sua realtà né a livello di una sua mera pensabilità, senza riferimento alla coscienza, così come, reciprocamente, non vi è coscienza che non sia durata e dunque tempo. Bisogna ora aggiungere che affinché la coscienza possa articolarsi e costituirsi temporalmente, autorizzandoci ad affermare che essa è essenzialmente tempo, gioca un ruolo fondamentale la memoria. Occorrerà chiarire preliminarmente, perciò, la funzione fondativa della memoria per il costituirsi del flusso temporale di coscienza: proprio questo chiarimento consentirà di evidenziare una profonda differenza nelle teorie dei due filosofi. Dobbiamo rintracciare la ragione e la sorgente di tale differenza, seguendo il progressivo divergere delle prospettive sino all’affiorare

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di due tragitti tra loro specularmente opposti quanto a direzione teoretica. Comincerò subito col rilevare che, in quanto ho appena sostenuto, è contenuta una domanda implicita, che si potrebbe esprimere così: rispetto a cosa, a quale punto fermo, la riflessione sulla memoria descrive, in Bergson e Husserl, parabole tra loro specularmente opposte? Si può qui anticipare, come inizio di una risposta ancora tutta da fondare, che il punto fermo rispetto al quale i due autori lasciano oscillare il pendolo del tempo, e con esso l’articolazione stessa della memoria, è costituito dalla nozione di percezione: comune punto di partenza, essa si struttura per Bergson e Husserl secondo modalità assai differenti, ed è proprio a partire dalla diversa articolazione della percezione e del modo in cui la memoria la interseca, che si spiega ogni differenza nella concezione della memoria stessa (e, dunque, della temporalità in quanto tale). Per “spiegare” la memoria, quindi, occorre fare un ulteriore passo indietro e “spiegare” la percezione; nella misura in cui si concepiscano, come accade usualmente, da un lato, la memoria quale facoltà del ricordo di ciò che è passato, e, dall’altro, la percezione quale fonte di esperienze attuali, successivamente suscettibili di venir ricordate, si potrebbe pensare che analizzare il rapporto tra memoria e percezione equivalga a ragionare sul classico problema del rapporto tra passato e presente. In realtà, Bergson e Husserl tendono a scardinare proprio la convinzione ingenua secondo cui, così concepite, memoria e percezione ci permetterebbero di cogliere contenuti passati o presenti: a rigore, infatti, tra una memoria intesa come «facoltà di disporre i ricordi in un cassetto o di rubricarli in un registro»1 e una percezione concepita come puramente istantanea non sussiste alcun rapporto,

1. H. Bergson, L’evoluzione creatrice, tr. it. cit., p. 10.

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alcuna mediazione. In che modo potremmo dimostrare che i ricordi ricavati dalla memoria sono stati “un tempo” appresi attraverso la percezione, se quest’ultima è un’operazione ogni volta meramente attuale ed istantanea? L’istantaneità esclude la durata: ma come potremmo, in assenza di durata e quindi di tempo, riconoscere il diverso carattere temporale che connota rappresentazioni memorative e rappresentazioni percettive, consentendoci di discriminarle? Non potremo certo ricorrere a un confronto di «immagini», che – come evidenzia Husserl2 – non contengono alcun importo temporale. Non ci è possibile, evidentemente, concepire la memoria come una semplice operazione di sedimentazione di dati passati in qualche luogo della nostra coscienza (dove sarebbe, infatti, questo luogo?), o assumere la percezione come una mera sorgente di quei dati che, una volta fornita la materia del ricordare, si eclisserebbe dall’orizzonte coscienziale, per riattivarsi misteriosamente in seguito. Perché si riattiverebbe, e quando? Perché in un certo momento e non piuttosto in un altro? Se la percezione fosse solo un lampo all’orizzonte della nostra coscienza, una scarica che illumina la scena circostante senza che si abbia nel contempo una qualche coscienza (già) memorativa della sua durata, essa non sarebbe che un evento istantaneo e per noi insondabile, dal momento che nessuna coscienza istantanea sarà mai in grado, per quanto possa concatenare l’una dopo l’altra una serie indefinita di istantaneità, di costituirsi quale coscienza della successione temporale. In altri termini, la solidarietà dei momenti costituenti una qualsiasi durata temporale è data dall’unità della coscienza e può essere spiegata solo a partire da questa – e non dagli istanti stessi. Il nostro comune modo di intendere il concetto di passato e quello di presente, riguardo alle nozioni di memoria

2. HUA/X, tr. it. cit., p. 69.

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e percezione, è dunque gravido di oscurità e incongruenze: è certo, però, che se vogliamo spiegare come la coscienza arrivi a produrre l’idea di passato e a costituirsi quale coscienza di passato, non possiamo partire dal passato stesso (dalla memoria), poiché in tal caso ci troveremmo di fronte il ricordo già formato, e non riusciremmo a comprendere come, nella nostra coscienza, si sia potuta costituire la rappresentazione di qualcosa che diciamo e sappiamo essere passato (si vedrà come questo punto costituisca, specie se confrontato con la posizione al riguardo di Husserl, un nodo alquanto problematico in Bergson). Che la nostra coscienza in ogni istante “sia”, è per noi indubitabile; sappiamo, però, che in ogni istante equivale a dire ora. Il problema è spiegare la coscienza del non-ora, dei nostri vissuti interiori passati. Se l’ora è istantaneità, si potrebbe intanto dire, il non-ora sarà durata, e la coscienza della durata del non-ora è appunto “memoria”: se l’«ora» ci è dato nella percezione, è da questa che dobbiamo partire per comprendere il «non-ora» e chiarire il concetto di memoria. Per quale ragione, d’altronde, diciamo che la nostra coscienza in ogni istante è, e riteniamo ciò un’evidenza indubitabile dalla quale muovere per rispondere alle domande che qui ci si pongono? Lo diciamo perché, per così dire, “lo sentiamo”, ne abbiamo “intuizione”; un’intuizione del tutto peculiare, che – come vedremo tra breve – Husserl definisce «percezione adeguata» e Bergson chiama «percezione concreta», le quali si caratterizzano entrambe, pur nel loro diverso strutturarsi, per il fatto di essere concretizzazioni dell’imprescindibile legame tra presente percettivo e passato memorativo. La questione del rapporto percezione-memoria è un tema ricorrente nella psicologia diffusa all’epoca di Bergson e Husserl, e fu proprio un teorico (e riformatore) della psicologia, nonché maestro di Husserl negli anni viennesi, Franz Brentano, a formalizzare tale rapporto in una legge psicologica

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generale (o presunta tale)3: tale legge viene esaminata e criticata da Husserl all’inizio delle lezioni del 1904-05, come un punto di partenza importante, benché insufficiente e bisognoso di un superamento fenomenologico, per la riflessione sul rapporto tra percezione e memoria. Sostengo, inoltre, che la legge brentaniana possa essere accostata anche al pensiero di Bergson, benché questi non si sia confrontato esplicitamente con la psicologia di Brentano e dunque nemmeno con la legge da questi formulata. Tuttavia, l’accostamento è possibile, purché lo si limiti al senso stretto della legge brentaniana, in quanto essa esprime un’esigenza che lavora al fondo della stessa riflessione bergsoniana: così, la critica fenomenologica mossa a Brentano da Husserl misura lo scarto che separa il fenomenologo non solo dalla posizione del suo maestro, ma anche da quella di Bergson. Sarà innanzi tutto opportuno ricordare la formulazione della legge brentaniana, così come è riportata da Husserl nelle Lezioni, per poi procedere al chiarimento di quanto appena affermato. Nell’affrontare il problema generale dell’origine del tempo, Brentano ritiene di trovare una soluzione nella legge secondo cui: ad ogni data rappresentazione si connette naturalmente una serie continua di rappresentazioni, ciascuna delle quali riproduce il contenuto della precedente, ma in modo tale da trasmettere costantemente alla nuova venuta il momento del passato4.

3. Non posso addentrarmi, nei limiti di questo lavoro, nel tema dei rapporti intercorsi tra Brentano e Husserl: ciò ci porterebbe ad aprire l’enorme capitolo della critica husserliana allo psicologismo e dei complessi rapporti tra fenomenologia e psicologia, che non costituiscono l’oggetto specifico di questo studio. Mi limito a ricordare, come è peraltro noto, che Husserl fu allievo di Franz Brentano tra il 1884 e il 1886 a Vienna, e proprio dal maestro ereditò l’interesse per le problematiche psicologiche e la prima impostazione psicologistica, poi abbandonata con il primo volume delle Ricerche logiche (1900-01) e la critica, lì svolta in modo fenomenologicamente definitivo, allo psicologismo come forma di relativismo e scetticismo. 4. HUA/X, tr. it. cit., p. 50.

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È chiaro che la connessione di cui parla Brentano può darsi solo in virtù della memoria: in altre parole, egli pone che a ogni percezione si associ una rappresentazione immediata della memoria istantanea, essendo esperienza comune il fatto per cui il contenuto della percezione, una volta percepito, ci resta presente per un certo lasso di tempo «indugiando» nella coscienza e modificandosi continuamente. In cosa consiste il contenuto di validità di questa posizione brentaniana rispetto a Husserl e, eventualmente, a Bergson? Cominciamo da quest’ultimo. Anche Bergson afferma la necessità che ad ogni percezione si connetta una rappresentazione di memoria, non solo perché in generale «non c’è percezione che non sia impregnata di ricordi»5, ma soprattutto perché «una percezione, in effetti, occupa sempre una certa durata ed esige, di conseguenza, uno sforzo della memoria che prolunghi, gli uni negli altri, una pluralità di momenti»6. Ponendo ciò Bergson supera, assai più di Brentano (il quale assegna alle rappresentazioni memorative un problematico carattere di istantaneità), ogni considerazione “ingenua” del rapporto tra passato e presente, in quanto afferma che la percezione non è mera istantaneità ma un atto che implica «una certa durata»: è, questa, una tesi condivisa da Husserl7, che tuttavia acquista in Bergson un significato del tutto peculiare. Come avrò modo di chiarire meglio in seguito – ma giova qui anticiparlo – il «prolungamento» di ciascun momento precedente in quello a esso successivo è necessario, dal punto di vista bergsoniano, al fine di spiegare il dispositivo della memoria in funzione del carattere “utilitaristico” che, come Bergson dichiara nella «Prefazione alla settima edizione» di Materia e memoria, caratterizza le nostre funzioni mentali, essenzialmente rivolte

5. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 26. 6. Ivi, pp. 26-27. 7. Cfr. HUA/X, tr. it. cit., p. 50.

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all’azione: il ruolo della percezione è quello di misurare «la nostra possibile azione sulle cose e quindi, inversamente, la possibile azione delle cose su di noi», in modo tale da «esprimere soltanto un’azione virtuale»8, che tende a trasformarsi in azione reale mano a mano che la distanza tra il nostro corpo e l’oggetto esterno si riduce, sino a delineare la possibilità di un utilizzo – da noi consapevolmente diretto, con l’ausilio della memoria – dell’oggetto stesso. Non c’è percezione cosciente, ribadisce più volte Bergson, che non si prolunghi in azione e che non ne costituisca in qualche modo la coscienza iniziale: tale percezione è «cosciente» proprio perché è impregnata di ricordi. L’atto percettivo è, dunque, «misto» alla componente memorativa; ne consegue che l’analisi dovrà necessariamente distinguere la percezione in quanto tale (la «percezione pura») da ciò che la memoria vi aggiunge o toglie nella percezione «concreta», fornendo a quest’ultima il suo carattere specificamente «soggettivo» e «personale»: questa esigenza di distinzione è un vero e proprio principio metodologico. Continuamente Bergson evidenzia come i fraintendimenti filosofici tradizionali derivino, in gran parte, da una mancata distinzione degli elementi costituenti la percezione concreta, preliminare all’autentica comprensione di quest’ultima. La memoria, dunque, “personalizza” il contenuto percettivo e l’atto stesso della percezione: ciò spiega, come evidenzia Ingarden, la reciproca irriducibilità dei vissuti psichici di due soggetti diversi. Tali vissuti si differenziano, dal punto di vista qualitativo, in maniera radicale: ogni differenza qualitativa, infatti, reca in sé l’impronta del carattere complessivo della persona e tale “carattere”, come espressione di un’individualità concreta e determinata, non è mai assimilabile a quello di

8. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 26.

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un altro soggetto individuale9. Ciò che vale identicamente per tutti gli individui è, invece, il principio per cui l’atto percettivo si estende su una durata, ed è questa forma «mista» di percezione e temporalità che noi concretamente viviamo; tuttavia, l’analisi dovrà dapprima chiarire la differenza tra percezione pura e percezione concreta, affinché quest’ultima possa essere adeguatamente spiegata. Il compito della percezione consiste, per Bergson, nel richiamare il ricordo in vista dell’azione presente, nell’attualizzare i ricordi di situazioni precedenti analoghe a quelle attualmente vissute per garantirne un’efficace attuazione: «[...] il percepire finisce con l’essere soltanto un’occasione per ricordare», fermo restando che i ricordi «si conservano soltanto per rendersi utili» in rapporto alla percezione attuale, la quale è incontestabilmente «poca cosa rispetto a tutto quanto la nostra memoria vi aggiunge»10. Dunque per Bergson, come per Brentano e benché in vista di obiettivi assai diversi, è necessario che ad ogni percezione si connetta una rappresentazione memorativa: la differenza consiste nel fatto che per Bergson tale rappresentazione non ha, come nell’impostazione brentaniana, un carattere istantaneo. Una memoria istantanea, giova ripeterlo ancora, non costituisce coscienza della durata, ma del puro e semplice puntoora attuale di volta in volta ricordato: il suo contenuto (come sostiene Husserl) è un presente, al più immaginativamente modificato come prima presente e ora ricordato come passato, ma non è propriamente coscienza di passato. La memoria di 9. Cfr. R. Ingarden, Intuition und Intellekt bei Henri Bergson, cit., p. 11: «Mit die Einzigartigkeit der Zustände in der reinen Dauer hängt es andererseits zusammen, dass die Zustände schlechtin persönliche sind. Zwischen Zuständen zwier verschiedener psychischer Subjekte liegt eine unüberbrückbare Kluft: die zwischen zwei verschiedenen einfachen Qualitäten. Jeder Zustand trägt eine Färbung des Ich, dessen Zustand er ist, und ist er tief genug, so prägt sich in seiner Qualität die ganze Person aus». 10. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 53.

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cui parla Bergson procede in modo ben diverso: essa contrae nel presente, in vista del quale si ordina, quei ricordi estratti dalla totalità della vita passata del soggetto (la quale si conserva in quella che Bergson definisce «memoria spontanea», mentre i ricordi utili vengono trattenuti dalla «memoria automatica»), che sono riconosciuti come utili all’esecuzione efficace dell’azione attuale. Si tratta, perciò, di una memoria “funzionale”, che opera in una duplice durata: quella della vita complessiva del soggetto consapevolmente agente, che fornisce per così dire la materia del ricordare, i sedimenti da riattivare; e quella selettiva che è propria della memoria stessa, dalla quale essa seleziona (a un primo stadio automaticamente, ma poi anche intelligentemente) i ricordi utili all’azione presente, illuminandola e guidandola verso una realizzazione il più possibile ottimale. Dunque, la legge brentaniana formalizza un rapporto di necessaria correlazione che è valido anche per Bergson – a patto, però, di scardinare l’equazione “coscienza dell’ora = coscienza puramente attuale”. Vediamo, ora, cosa può dirci la tesi di Brentano in rapporto alla critica mossa da Husserl. Questi riconosce a Brentano di aver colto un punto importante per la stessa fenomenologia: la legge in esame contiene, infatti, un «nucleo fenomenologico», consistente nel fatto che per Brentano «durata, successione e mutamento appaiono»11. Quel che interessa a Husserl è proprio l’apparire della durata, in quanto esso contiene «l’unità della coscienza che intenzionalmente abbraccia il presente ed il passato»12 e che costituisce a tutti gli effetti un dato fenomenologico, nel senso che l’apparire è tale solo in rapporto a una coscienza che lo riconosca e lo colga. La nozione di «apparenza» è per Husserl assolutamente cruciale: la sua caratterizzazione fenomenologica non solo determina la differenza tra apprensione percet11. HUA/X, tr. it. cit., p. 53. 12. Ibid.

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tiva e apprensione di fantasia, ma identifica soprattutto «il nucleo identico di tutti gli atti intuitivi»13. È, dunque, a essa che dobbiamo innanzi tutto ricorrere, se vogliamo attenerci all’analisi dei puri «vissuti temporali». A Brentano, tuttavia, Husserl contesta che il rapporto tra percezione e memoria non sembra costituire, per come è espresso nella legge, un legame realmente necessario, sebbene sia preteso tale; la “legge” dell’associazione originaria, insomma, non è davvero una legge – giacché una norma priva di necessità cessa di esser tale14. La critica che qui Husserl muove a Brentano investe, dato l’accostamento che ho operato tra l’impostazione del problema in Bergson e la legge brentaniana, la stessa teoria bergsoniana del rapporto percezionememoria: le linee critiche messe a punto da Husserl possono essere riferite anche alla posizione di Bergson, così da fornire i primissimi elementi utili alla comprensione della diversa impostazione del problema nei due autori. Converrà dunque approfondire la critica mossa da Husserl al suo antico maestro, per trarne tutte le conseguenze anche rispetto a Bergson. Secondo Brentano «ogni sensazione di suono, scomparso lo stimolo che lo produce, genera da sé una rappresentazione dotata di una connotazione temporale determinata»15 che, alterandosi progressivamente, permette di arrivare alla 13. Questa importante affermazione è inclusa nell’Appendice II, pp. 125 sgg., compresa nella Parte II di HUA/X (Aggiunte e integrazioni per l’analisi della coscienza del tempo), contenente testi integrativi redatti da Husserl, con ogni probabilità, tra il 1905 e il 1910. Sul concetto di «apparenza», Husserl spende parole molto significative e illuminanti anche nell’Appendice III, pp. 128 sgg., in vista della fondamentale distinzione tra percezione e ricordo, che avrò modo di chiarire più in là. 14. Sulla critica husserliana all’impostazione del problema del tempo in Brentano, cfr. anche ivi, appunto nr. 14, pp. 192 sgg., dove gli argomenti di critica qui esposti trovano ulteriori conferme. 15. Ivi, p. 50.

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rappresentazione complessiva dell’oggetto temporale. Da un lato, Husserl concorda sul fatto che la rappresentazione della successione temporale non possa darsi senza una continua modificazione delle sensazioni via via prodottesi: se, infatti, le sensazioni svanissero non appena si fossero esaurite o se si limitassero a persistere inalterate nella coscienza, non avremmo successione alcuna (fatta salva l’identità dei «posti temporali» nel continuo flusso di apparizione dell’oggettualità nella sfera immanente, fondamentale – nel suo intreccio con la rimemorazione – per il costituirsi del tempo obiettivo; considererò questo aspetto nel quarto capitolo). D’altro lato, Husserl contesta a Brentano di aver supposto che la sensazione, una volta cessato lo stimolo che la ha prodotta, generi da sé la corrispondente rappresentazione nella memoria, rendendosi essa stessa creativa: in tal modo, la modalità produttiva dell’elemento temporale delle rappresentazioni diventa la fantasia, assunta come sfera privilegiata nella quale collocare l’origine delle rappresentazioni temporali. Brentano, così, opera un indebito passaggio dalla sfera dell’«intuizione originaria del tempo», prodotta dall’associazione originaria, alla sfera dell’«intuizione allargata del tempo»: quest’ultima punterebbe a spiegare la costituzione della rappresentazione memorativa non più fondandosi sull’associazione originaria, bensì sulla fantasia. Se, tuttavia, la modalità fantastica non rientra nel campo dell’associazione originaria, essa non appartiene neppure alla sfera di validità della relativa legge psicologica: la presunta necessità della legge di associazione originaria non includerebbe, perciò, le rappresentazioni di memoria scaturenti dalla fantasia, e la deduzione che Brentano opera tra campo dell’associazione originaria e sfera della creazione fantastica risulterebbe puramente arbitraria. La stessa legge non è veramente tale, dunque, non solo perché le manca il carattere della necessità; ma anche perché, scopriamo ora, essa non si applica

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all’elemento essenziale, che Brentano stesso vuole produttivo del «passato»: la fantasia. L’arbitrarietà che si introduce, così, nella legge brentaniana, è una naturale conseguenza dell’essenza stessa della fantasia: nel suo carattere creativo, essa è libera e non sottostà a necessità di principio. Ne deriva che «in conseguenza della sua teoria Brentano è indotto a negare la percezione della successione e del mutamento. Noi crediamo di udire una melodia e quindi anche di udire qualcosa che è passato, ma è solo un’apparenza, derivante dalla vivacità dell’associazione originaria»16. La contraddizione scatta in Brentano – questo è il punto decisivo – perché nella sua teoria dell’intuizione del tempo egli «non tiene affatto conto della distinzione tra percezione di tempo e fantasia di tempo, che qui s’impone e che egli non può aver ignorato»17. Brentano ammette, come unica percezione del «temporale», quella coincidente con l’ora puntuale; tralasciando le inevitabili contraddizioni in cui egli incorre su questo punto (evidenziate da Husserl al §5), il difetto fondamentale di questa impostazione consiste nel fatto che «la distinzione in base alla quale si dice di percepire una successione e di ricordare una successione precedentemente percepita (o anche soltanto fantasticata) non si può certo abolire e bisogna in qualche modo chiarificarla»18. Come scrivono Bernet, Kern e Marbach nel loro saggio su Husserl, il campo temporale originario costituisce una datità diretta originaria che, in quanto tale, è oggetto di percezione e non, come voleva Brentano, di fantasia (produttiva o riproduttiva)19; lo stesso Husserl ribadisce, particolarmente nell’Appendice II (pp. 125 sgg.), la necessità di distinguere tra «apparizioni di percezioni» 16. Ivi, p. 51. 17. Ivi, p. 54. 18. Ibid. 19. Cfr. R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, cit., p. 142.

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e «apparizioni di fantasia», dal momento che le prime contengono propriamente sensazioni, mentre le seconde recano in sé «fantasmi» (ovvero modificazioni soltanto presentificative di sensazioni). Assegnando alla fantasia la funzione di produrre il carattere temporale associato alle singole rappresentazioni memorative, Brentano attribuisce alla fantasia un potere che non le compete e che va piuttosto correlato alla percezione: trascurando ciò, si finisce per considerare tutte le apparizioni in quanto tali come identiche tra loro ed indifferenziate – veri e propri fantasmi che si distinguerebbero solamente per la diversa intensità e ricchezza loro apportata dalla fantasia. Quest’ultima aggiungerebbe alla rappresentazione un carattere temporale detto «passato», ma poiché il suo operare è libero, non disponiamo di alcun criterio in grado di spiegare la formazione di tale passato, che continua a restare “detto” più che compreso. Attraverso la fantasia, insomma, si assegna al contenuto dell’associazione originaria il carattere del «passato»: ma perché diciamo che siamo in presenza di un passato? A questa domanda Brentano non risponde, con lui ci fermiamo allo stadio in cui – appunto – diciamo che un certo contenuto è passato: semplicemente, egli aggiunge a un certo contenuto d’apparizione il carattere di passato, ma tale aggiunta resta un’operazione estrinseca che smentisce la necessità del rapporto tra sfera percettiva originaria e ambito della rappresentazione memorativa. In definitiva, Brentano non riesce a spiegare da dove ci giunge l’idea di passato e, dunque, non risponde alla domanda dalla quale egli stesso partiva: la memoria, conclude Husserl, non consiste in un legame fantastico.

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2. Percezione «adeguata» (Husserl) e percezione «concreta» (Bergson) Ho già accennato alla centralità, in Bergson, del rapporto percezione-memoria per la comprensione delle funzioni di coscienza: la necessità di questo rapporto è ribadita da Husserl, e l’illustrazione del punto di vista brentaniano, del suo contenuto di validità e degli aspetti critici rispetto ai due filosofi, ci ha permesso una prima messa a fuoco del diverso modo in cui Bergson e Husserl intendono tale necessità. Proprio la critica husserliana al modo in cui essa è pensata da Brentano, offre i presupposti teorici per il confronto – sul tema della costituzione temporale – tra fenomenologica husserliana e filosofia bergsoniana. Occorre ripartire dall’analisi della percezione, che Bergson conduce in Materia e memoria servendosi di un’impostazione metodologica di preliminare, rigorosa distinzione tra «pura percezione», slegata da ogni rapporto con la memoria e direttamente riferita al dominio della materia, e «pura memoria», in sé idealmente indipendente da ogni intrusione da parte della materia: a questa distinzione, segue la necessaria reintegrazione nella «percezione concreta»20 – una reintegrazione resa possibile dall’aver sgomberato analiticamente il campo da quegli antichi pregiudizi metafisici, che rendevano inintel20. Devo qui ricordare che, secondo Bergson, la percezione concreta comprende in sé non soltanto l’apporto della memoria ma anche quello delle «affezioni»: se, infatti, la percezione misura l’azione possibile del nostro corpo sulle cose, essa misura anche, inversamente, la possibile azione delle cose sul nostro corpo, la quale da «possibile» diventa reale proprio nell’affezione. Questa si produce ogni volta che la distanza del corpo dall’oggetto si annulla producendo il contatto tra i due. È allora che la virtualità dell’azione lascia il posto alla realtà dell’azione compiuta. Da ciò consegue che nella percezione pura facciamo astrazione non solo dall’apporto della memoria, ma anche da quello delle affezioni; cfr. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., pp. 45 sgg.

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ligibile il rapporto tra “spirito” e “corpo”. Intendo sostenere la tesi di una possibile comparazione teorica tra percezione concreta bergsoniana e «percezione adeguata»21 husserliana, motivata dal fatto che entrambe le nozioni di percezione costituiscono la condizione effettivamente vissuta dalla coscienza nella sua “normale” vita temporale: esse costituiscono, per così dire, il punto di partenza “concreto” (o, per usare il termine husserliano, “alla mano”) della vita temporale di coscienza, e mostrano alcune analogie di fondo dalle quali si diparte una articolazione della temporalità di coscienza profondamente diversa nei due autori. All’interno del sistema di «immagini» costituito dal mondo esterno, sostiene Bergson, riconosciamo un’immagine privilegiata su tutte le altre22: quella del nostro corpo come unica immagine della quale possiamo avere non solo una conoscenza “esterna”, mediante percezioni, ma anche un’apprensione “interna”, attraverso le affezioni. Questa immagine è un polo di possibili azioni libere e coscienti, che ci vengono suggerite in primo luogo dalla percezione. A un primo livello, dunque, si deve intendere con «percezione» l’azione possibile che l’immagine costituita dal mio corpo potrebbe realizzare sulle altre immagini, esterne al mio corpo: tali immagini esterne invitano

21. Cfr. HUA/X, tr. it. cit., §16 (pp. 72 sgg.) e Appendice XI (pp. 149 sgg.). 22. Alla p. 5 di Materia e memoria (tr. it. cit.) Bergson così definisce il concetto di «immagine»: «per immagine intendiamo una certa esistenza che è più di ciò che l’idealista chiama una rappresentazione, ma meno di ciò che il realista chiama una cosa – un’esistenza situata a metà strada tra la “cosa” e la “rappresentazione”». Pur offerta con una certa vaghezza, è questa la definizione più circostanziata della nozione di «immagine» che Bergson fornisca in quest’opera: resta l’impressione, come Adriano Pessina rileva nella sua Prefazione all’edizione italiana, di un’eccessiva vaghezza e ambiguità della nozione di immagine, considerando anche il fatto che il termine è carico di significati e valenze che lo stesso Bergson decisamente non attribuirebbe al concetto in questione.

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a loro volta il corpo all’azione, abbozzandone (pre-delineandone, si direbbe con termine husserliano) i processi virtuali. Nel momento in cui agisce, dunque, il corpo è invitato a scegliere tra una molteplicità di processi materialmente possibili: c’è una piena reciprocità di interazione tra corpo e oggetti esterni. Ma come avviene la scelta della reazione appropriata? E qui che interviene il contributo determinante della memoria: il ricordo delle situazioni precedentemente vissute e analoghe alla circostanza attualmente data ci fornisce un criterio d’azione nel presente. Affinché, però, la memoria possa attivarsi in questa sua funzione selettiva, è necessario presupporre una conservazione e una sedimentazione delle immagini percepite al livello della pura percezione. Abbiamo, così, due livelli di memoria: quello in cui si conserva (indipendentemente dalla situazione attuale) la totalità della nostra vita precedentemente vissuta («pura memoria»), e quello in cui si dispongono – ed eventualmente attivano, in connessione con la situazione attuale e, anzi, prolungandosi in essa – i ricordi selettivi, necessari all’azione efficace nel presente. Questi ultimi sono definiti da Bergson «ricordi-immagini», proprio per sottolineare il loro stretto rapporto con il corpo. Tra i due piani vi è una gerarchia: senza i ricordi sedimentati nella memoria pura, infatti, non sarebbero possibili ricordiimmagini, mentre quest’ultimi devono appartenere dapprima alla memoria pura (devono essere “miei”, rientrare nella totalità della mia vita vissuta) per essere riattivati. Non tutti i ricordi puri, in altri termini, si attualizzano nella percezione concreta sotto forma di ricordi-immagine; ma tutti i ricordiimmagine sono ricordi puri attualizzati. La nostra percezione concreta non è, dunque, un atto di banale contatto istantaneo con il mondo, ma – per così dire – proviene già da lontano: essa richiede un processo complesso, nel quale entrano in gioco ricordi-immagine che ne illuminano il senso e assicurano l’azione efficace. La memoria è essenziale alla percezione

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che noi concretamente viviamo, ed è per questo che nel parlare di pura percezione e di pura memoria noi consideriamo separatamente ciò che separatamente non esiste, poiché la memoria è costantemente orientata alla percezione attuale al fine di rispondere, secondo il principio dell’utilità per la vita organica, ai bisogni attualmente dati. La memoria è sempre funzionale al presente, si dirige e prolunga costantemente in esso23: la vera ragion d’essere della memoria è il presente, non nel senso (ovvio) che ogni passato è sempre relativo ad un presente, bensì nel senso specifico che il ricordo non è mai «puro», ma è sempre misto al presente che lo richiama e senza il quale esso non esisterebbe o sarebbe quantomeno inutile alla vita dell’organismo vivente – una condizione, questa, nient’affatto implicata dalla semplice e intuitiva relatività reciproca di presente e passato. Non si tratta, per Bergson, del fatto che la memoria sia ricordo di un contenuto che è stato percepito: affinché ci sia memoria deve attualmente essere in atto un processo percettivo. La «memoria pura» è distinguibile (come la «percezione pura») solo nell’analisi, per astrazione: nella realtà c’è la percezione concreta, nella quale i ricordi-immagine vengono incontro all’azione, si prolungano in essa e solo così si rendono coscienti. In questo modo, scrive Ingarden, «es vollzieht sich in der konkreten Wahrnehmung eine weitgehende Bereicherung und Umbildung des rein Wahrgenommenen»24. Veniamo ora a Husserl. Anch’egli sostiene la necessità della percezione, come punto d’avvio di ogni decorso temporale. Tale necessità è così forte da indurlo ad affermare non solo che ogni oggetto temporale, come concreta individualità 23. Scrive al riguardo A. Penna in Henri Bergson: l’irrisolta questione di coscienza e durata, cit., p. 769: «se è di passato che si parla, qualunque ne sia la natura esso è tale nel suo riferirsi ad un termine che è il presente». 24. R. Ingarden, Intuition und Intellekt bei Henri Bergson, cit., p. 38.

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temporalmente estesa, non si darebbe senza percezione (dal momento che «ogni questione relativa all’esistenza individuale può trovare risposta solo nel ritorno alla percezione, la quale ci dà, nel senso più rigoroso, l’esistenza individuale»25); ma anche e soprattutto che «la coscienza è nulla senza l’impressione»26. Quel che Husserl contesta a Brentano (e, indirettamente, a Bergson) è il modo di intendere la necessità della percezione (e del suo nesso con la memoria): svelata la falsa necessità all’opera nella legge dell’associazione originaria di Brentano, Husserl chiarisce che la vera necessità consiste nel fatto che «ogni ritenzione è necessariamente preceduta da un’impressione»27, e che solo in virtù di questo legame la ritenzione acquista carattere d’evidenza. Cosa dobbiamo intendere, rispettivamente, per «impressione originaria» e per «ritenzione»? Per impressione originaria Husserl intende il punto-ora costituente l’inizio della produzione dell’oggetto temporale da parte della coscienza: siamo dunque nel campo dell’immanenza, dove la costituzione dell’oggettualità temporale avviene sulla base della legge fondamentale della modificazione secondo «adombramenti». Tale legge ci dice, non che ad ogni percezione si associa una rappresentazione della memoria istantanea (su questo punto sia Husserl che Bergson differiscono da Brentano, avendo compreso come il concetto di memoria implichi quello di durata e non di istantaneità), bensì che ogni «ora» attuale si tramuta incessantemente in “ritenzione di ritenzione” e che da ciò consegue un continuum ritenzionale costante in cui ogni punto successivo è ritenzione per ogni precedente28: in questo modo l’impressione originaria

25. HUA/X, tr. it. cit, p. 110. 26. Ivi, Appendice I, p. 124 (corsivo mio). 27. Ivi, p. 52. 28. Cfr. ivi, p. 65.

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viene a costituire il «nucleo di una coda di cometa di ritenzioni, rispetto ai precedenti punti-ora del movimento»29. Attorno al nucleo denso e definito di una cometa si addensa sempre un certo alone di materia indistinta, in mancanza del quale lo stesso nucleo non potrebbe esser detto tale: di questo «alone», non tutto viene colto dalla coscienza intenzionale e molto resta semplicemente intuito come sfondo sussistente, ma non distintamente percepito. Permane sempre, così, una certa prospetticità dell’apprensione percettiva; è proprio questo il senso dell’afferramento mediante adombramenti (Abschattungen), che caratterizza ogni percezione e che, trasposto nel campo della coscienza interna del tempo, significa che ogni datità di durata viene distintamente percepita al livello dell’impressione originaria, mentre il decorrere della durata stessa si adombra ritenzionalmente sprofondando nel passato, così da poter esser portato a coscienza originaria solo venendo specificamente preso di mira da un raggio della coscienza intenzionante, che si rivolga direttamente ad esso. Tutto ciò richiede di chiarire quale rapporto, e insieme quale differenza, sussista tra impressione originaria e percezione: le due, infatti, non sono esattamente la stessa cosa, nel senso che (stante quanto si è detto a proposito dell’afferramento mediante adombramenti) non necessariamente ogni percezione è impressione originaria o se lo è, ciò accade sulla base di presupposti ben precisi. Innanzi tutto, la nozione di impressione originaria è direttamente connessa al dominio della coscienza immanente: si introduce, così, il necessario riferimento alla riduzione fenomenologica30.

29. Ivi, p. 66. 30. Sebbene epochè e riduzioni siano esplicitamente introdotte da Husserl qualche tempo dopo il nucleo delle lezioni contenute in HUA/X, e cioè nelle cinque lezioni del 1907 sull’Idea della fenomenologia e, ancor prima, nelle lezioni riunite sotto il titolo di Einleitung in die Logik und Erkenntnistheo-

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Posta la «messa fuori causa» del tempo obiettivo, ogni processo e posizione d’essere trascendenti vengono ridotti alla sfera temporale immanente, così da poter divenire oggetti d’analisi come «dati fenomenologici»: questa riduzione implica la chiarificazione della distinzione tra sensazione e percezione, da cui scaturisce la precisa nozione di «dato fenomenologico», che Husserl effettua all’inizio delle Lezioni e che riprenderò successivamente (nel capitolo quarto di questo lavoro). Nel momento in cui percepiamo un’estensione di durata nel campo immanente, ciò che viene propriamente percepito è l’«ora» puntuale dell’oggetto: di un “suono” inteso come contenuto immanente, noi propriamente percepiamo soltanto l’«ora» attuale, benché ci esprimiamo dicendo che (grazie alla ritenzione) percepiamo la melodia (la totalità di durata) di cui quel suono costituisce l’ultimo termine. È evidente che il suono di cui solo l’«ora» attuale è effettivamente percepito ha avuto un punto d’inizio: il decorso dell’oggetto temporale immanente ha una “sorgente”, un avvio che è «caratterizzato come ora»31. La «sorgente» di cui parla Husserl è, appunto, l’impressione originaria, che è definita come un “ora” perché, in qualità di atto originariamente offerente, essa pone l’essere del corrispondente contenuto immanente: ciò che “è”, è in quanto è “ora”. Il carattere di indubitabile «credenza originaria», tipico di tutti i molteplici e diversi processi immanenti originalmente offerenti, consiste proprio nel fatto che essi pongono le proprie datità come presenti, attualmente “alla mano” per la coscienza. Abbiamo, così, due “ora” alle estremità del decorso del suono immanente: l’«ora» caratterizzan-

rie (HUA/XXIV) del 1906-07, il metodo è sostanzialmente già presente ed efficace nelle Vorlesungen sul tempo del 1904-05 – nelle quali non compare ancora la terminologia esatta, ma la distinzione tra metodo di indagine fenomenologico-immanente e metodo scientifico-trascendente è già chiara. 31. HUA/X, tr. it. cit., p. 63.

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te l’impressione originaria, e l’«ora» proprio della percezione attuale. Per cosa si distinguono e che rapporto li lega? Dal §8 sappiamo che l’intero decorso ritenzionale è costituito di fasi che, astrattamente prese, sono ciascuna per se stessa un «ora»: ogni «ora» è, man mano che si svolge il processo del decorso, attualmente percepito. Il decorso stesso, però, è colto solo mediante l’appercezione complessiva e unitaria (resa possibile dalla coscienza ritenzionale) dell’insieme delle fasi di durata dell’oggetto temporale immanente: «il fenomeno di decorso è una continuità di momenti incessanti che forma un’unità indivisibile»32, una durata. Ciò implica che la legge della modificazione ritenzionale vale per ogni punto-ora costituente il continuum ritenzionale, cioè vale per ogni fase della durata così come per l’«ora» dell’impressione originaria e per l’«ora» della percezione attuale: da un lato, infatti, l’attualità dell’impressione originaria si trasforma in un «già stato» al quale, per effetto di quella legge, si legano degli «ora-di-suono» sempre nuovi e a loro volta trapassanti nella coscienza ritenzionale, fino all’«ora» attualmente percepito; dall’altro lato, l’«ora» attualmente percepito è a sua volta legato alle fasi sonore che verranno successivamente percepite (di cui sappiamo mediante la protensione), e in tal modo anch’esso trapasserà nella coscienza ritenzionale, divenendo un punto-ora appena decorso. Husserl sottolinea, infatti, che il punto-ora percettivo attualmente preso in considerazione è solamente un «limite ideale», che assumiamo come punto di riferimento per sottoporre ad analisi una certa porzione del decorso temporale: in realtà, ogni punto-ora, compreso quello attuale, si media costantemente con la durata ritenzionale. In questo senso, si può dire che l’impressione originaria sta alla ritenzione come il punto-ora attualmente percepito sta

32. Ibid.

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alla protensione, ed è questa solidarietà tra le componenti in gioco nella coscienza interna che costituisce l’unità del tempo immanente. Ma c’è di più. L’«ora» attualmente percepito può divenire oggetto di un nuovo atto della coscienza intenzionale ed essere assunto quale sorgente del contenuto immanente di durata: in tal modo, esso stesso viene appreso come una nuova impressione originaria – il che, peraltro, accade idealmente in ogni singola fase della durata che, astrattamente presa e in quanto punto-ora, è “ogni volta” un oggetto di percezione33. Chiarita in questi termini la differenza, che è insieme una relazione, tra impressione originaria e percezione, bisogna evidenziare con Husserl che da ciò consegue, sulla base della legge della modificazione secondo adombramenti, una caratteristica «doppia intenzionalità» della ritenzione34: da un lato, questa è ritenzione del contenuto primariamente percepito ed è, dunque, coscienza della singola fase-ora di volta in volta appresa («intenzionalità trasversale»). D’altro lato, la ritenzione può essere assunta come ritenzione dell’unità di ciascun contenuto primario all’interno del flusso, come ritenzione della serie di ritenzioni collegate alla relativa impressione originaria, costituente coscienza della durata decorsa («intenzionalità longitudinale»). Quest’ultima forma intenzionale è di particolare importanza, appunto perché permette il costituirsi dell’unità di coscienza ritenzionale, che viene così a configurarsi come un flusso temporale: il fluire della coscienza temporale, infatti, non è altro che un «trapas33. Sul rapporto tra modificazione e impressione originaria, cfr. anche ivi, Appendice I, pp. 123 sgg. Per ulteriori chiarimenti sulla nozione di percezione come afferramento mediante adombramenti, cfr. R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, cit., parte IV, che si è tenuta qui presente. Si veda anche A. Gurwitsch, Contribution to the Phenomenological Theory of Perception, in Critical Assessments of Leading Philosophers. Edmund Husserl, cit., vol. I, pp. 117 sgg. 34. Cfr. HUA/X, tr. it. cit., §12, pp. 66 sgg. e §39, pp. 106 sgg.

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sare di ogni fase del campo originario (quindi: un continuum lineare) in una modificazione ritenzionale dello stesso in quanto appena passato»35. Il modo in cui l’oggetto immanente è immesso all’interno di tale flusso determina, inoltre, l’orientazione temporale (presente, appena passata, futura) dell’oggetto stesso. Ovviamente, molte impressioni originarie danno luogo a molti flussi temporali, ma quel che qui vuole sottolineare Husserl è che i diversi flussi sono accomunati quanto alla loro forma, che permane costante in ogni flusso temporale in un duplice senso: ogni flusso sottostà alla legge della modificazione originaria, e al tempo stesso ogni fase del flusso è un «ora», il quale rappresenta, per così dire, l’unità base della coscienza temporale (può essere inteso come un «carattere di eguaglianza generale»). Nel primo senso, si costituisce ciò che Husserl chiama il «pre-insieme flussionale», ovvero il continuum di fasi che si allacciano ad una sensazione originaria in sé irriducibile; nel secondo senso, invece, si produce un insieme impressionale di flussioni tra loro formalmente identiche. Ciò significa che il tempo immanente, nel quale si realizzano i diversi flussi, è unico per tutti gli oggetti e i processi immanenti, così come la coscienza di tempo è un’unità totale. Le sensazioni originarie che vengono (simultaneamente o successivamente) percepite si distinguono, invece, per il loro contenuto: i caratteri temporali del loro defluire (l’«ora», l’«appena passato», il «successivo» etc.) sono formalmente sempre gli stessi – come a dire che tali sensazioni fanno un “uso diverso” delle stesse possibilità formali36. È importante sottolineare come tutte le osservazioni fin qui svolte da Husserl si fondino sulla costante preoccu35. Ivi, pp. 141-142. 36. La discussione del rapporto tra l’unico flusso temporale formalmente identico e i molteplici flussi allacciati alle diverse impressioni originarie si trova nel §38, pp. 103 sgg.

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pazione di evidenziare la distinzione e insieme la necessaria correlazione sussistente, nella coscienza temporale, tra tre elementi fondamentali: modificazione (legge dell’afferramento mediante adombramenti), permanenza (stasi di ogni puntoora per sé astrattamente considerato) e successione (insieme delle fasi ritenzionali, durata). Husserl ammette la possibilità di un ricordo slegato dal riferimento diretto alla percezione, ma non nei termini “metodologici” bergsoniani di un’analisi esemplificativa che prenda in considerazione pura percezione e pura memoria nella loro distinzione (per poi comunque reintegrarle tra loro), considerando entrambe come uno stadio mai concretamente raggiungibile dalla coscienza; né assume, come Bergson, che il ricordo sia funzione del presente piuttosto che del passato. Husserl, invece, ipotizza che la percezione dell’oggetto temporale possa cessare e che alla fase impressionale-ritenzionale si sostituisca una nuova modalità di coscienza37: una volta “cessata” la percezione – e, qui, vi è una differenza notevole rispetto a Bergson, che non si pone mai nel caso in cui la percezione “cessi” ma si colloca in una prospettiva sempre interna alla percezione, che è costantemente “data” come punto d’incontro tra «materia» e «memoria» – non si produce più una fase ritenzionale, bensì una fase di «ricordo secondario». Quest’ultimo è un atto libero, al quale la coscienza può dare corso in qualunque momento e reiteratamente: al contrario della pura memoria bergsoniana, che è un punto limite al quale la coscienza può avvicinarsi per astrazione dalla sua dimensione concreta come ad un asintoto, senza mai arrivare ad intersecarlo realmente, il ricordo secondario rappresenta una modalità che può sempre di principio essere attuata. Esso differisce dal «ricordo primario», che è la ritenzione, proprio per il diverso legame che intrattiene con la

37. Cfr. ivi, §11, p. 63 e §14, pp. 69 sgg.

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percezione: la rimemorazione, infatti, sorge quando quest’ultima cessa e non (come la ritenzione) in continuità strutturale con essa. La differenza non è affatto irrilevante, poiché essa implica che ritenzione e rimemorazione (o “ricordo secondario”) differiscono tra loro come la necessità e la libertà degli atti di coscienza: il ricordo secondario è libero, può darsi come anche non darsi, mentre la ritenzione deve darsi affinché vi sia coscienza, poiché essa è necessaria per il costituirsi dell’unità del flusso temporale, in mancanza del quale la coscienza stessa non si darebbe. In che senso, tuttavia, la rimemorazione è un atto “libero”? Lo è, innanzi tutto, in quanto essa non contiene un riferimento diretto e immediato alla percezione. Quest’ultima non è un atto libero, nel senso che non “si decide” di percepire qualcosa o il modo in cui percepirlo: noi percepiamo continuamente, per il fatto stesso di non essere irrelati rispetto alla realtà ma sempre immersi nel mondo circostante. Il modo stesso in cui percepiamo è determinato dalla struttura dei nostri organi di senso, che esclude, per esempio, di poter percepire un odore con un senso diverso dall’olfatto – fatte salve le differenze soggettive di appercezione delle qualità intrinseche a ciò che è dato attraverso i sensi, le quali però si danno e si rendono tra loro confrontabili pur sempre all’interno del dominio di uno stesso senso. Ogni oggetto e contenuto percettivo, dunque, “guida” secondo il suo stile apprensionale la nostra facoltà intuitiva, che non è arbitraria ma diretta da una serie di condizioni formali – interne alla struttura della sensorialità, da un lato, e interne alla struttura della cosalità, dall’altro. La necessità caratterizzante l’atto percettivo, inteso come impressione originaria, si trasmette alla ritenzione, che (come sappiamo) necessariamente lo segue; la ritenzione trattiene l’insieme delle fasi decorse nella loro unità complessi-

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va, riferendole all’impressione originaria come modalità di coscienza iniziale del decorso stesso, e permette così il costituirsi della coscienza di durata passata del contenuto immanente – una costituzione che appare veramente fondamentale e necessaria, avendo Husserl posto che «solo in quanto temporalmente esteso il suono do è un individuo concreto»38. Se di questo suono non avessimo ritenzione, esso per noi sarebbe del tutto impalpabile, qualcosa di molto vicino a un non-essere. La rimemorazione, dal canto suo, non si riferisce direttamente alla percezione e perciò non è un atto “necessario” ma “libero”, appunto nel senso che non è condizionato nel suo darsi da alcun presupposto oltre al semplice «io voglio». La mancanza di riferimento diretto alla percezione, tuttavia, non significa mancanza di qualsiasi riferimento alla percezione. Potremmo definire il ricordo secondario come una “possibilità necessaria” alla coscienza temporale: Husserl, infatti, dichiara espressamente che ad ogni percepire impressionale corrisponde sempre la possibilità di una correlativa presentificazione, la quale può a sua volta esser resa presente in senso originario e divenire essa stessa oggetto di una nuova coscienza impressionale. Da questo punto di vista, si può dire che «tutti i vissuti sono impressi e che noi stessi ne abbiamo coscienza mediante impressioni»39, ovvero che «il tempo riprodotto rimanda al tempo percepito, così che come origine della rappresentazione del tempo va presupposta una percezione del tempo»40. Husserl trae, così, le estreme conseguenze dalla sua critica a Brentano: il contenuto percepito e ritenzionalmente trattenuto dalla coscienza può essere oggetto di reiterate, libere rimemorazioni che non partono dalla percezione dell’oggetto, ma presuppongono che esso sia stato percepito 38. Ivi, p. 111. 39. Ivi, pp. 113-114. 40. R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, cit., p. 142.

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e che se ne abbia una coscienza ritenzionale. L’origine delle rappresentazioni temporali resta, perciò, la percezione e non diventa affatto, come per Brentano, la fantasia: la rimemorazione è un atto libero e sempre attuabile, ma se non vi fossero percezione e ritenzione essa non avrebbe nulla da «rinnovellare». La rimemorazione non è una possibilità casuale, prodotta dalla coscienza impressionale e ritenzionale, né coincide con la «fantasia», proprio perché poggia – seppur indirettamente – sulla solida e concreta base del contenuto percettivo (e, difatti, Husserl sarà molto attento, come vedremo in seguito, a distinguere tra rimemorazione e fantasia). L’atto fondamentale è dunque la percezione di tempo: l’«appena passato» ritenzionale è «percepito», ma – chiarisce subito Husserl – si tratta di una percezione del tutto peculiare e differente da quella propria dell’«ora» percettivo41. Se con “percezione” intendiamo l’atto originariamente costitutivo dell’«ora» e affermiamo che “propriamente” percepito è solo questo “ora”, come sin qui si è posto, la coscienza ritenzionale non è percettiva. Se, tuttavia, allarghiamo il significato di “percezione” sino ad indicare l’atto che è sede di ogni origine, non solo dunque dell’«ora» ma anche degli altri caratteri temporali – il che è possibile, in quanto il ricordo secondario poggia “indirettamente” sulla percezione –, allora il ricordo primario può essere inteso come un atto percettivo, poiché «solo nel ricordo primario vediamo del passato, solo in esso si costituisce passato, e non in modo rappresentativo, ma presentativo»42. Il passato, dunque, non è un carattere che si aggiunge intellettivamente ad una data rappresentazione; esso è oggetto di una peculiare “percezione” – è visto, colto, appreso in se stesso.

41. Cfr. HUA/X, tr. it. cit., p. 73. 42. Ivi, p. 75.

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Dunque, Husserl distingue per così dire “orizzontalmente” tra ritenzione, intesa come forma di memoria in connessione diretta con la percezione ed eventualmente (ma non necessariamente) con il ricordo secondario, e rimemorazione, come forma di memoria libera ma non assolutamente indipendente dalla percezione. Egli delinea, così, due diverse tipologie d’atto della medesima coscienza intenzionale, delle quali la seconda (la rimemorazione) è la modificazione riproduttiva della prima (della ritenzione). La coscienza può passare orizzontalmente dall’una all’altra, restando sempre sullo stesso piano: quello dell’immanenza della coscienza temporale e dei suoi possibili atti intenzionali. Bergson, invece, distingue “verticalmente” tra due diverse memorie, entrambe in connessione necessaria con la percezione, ma di cui l’una (la memoria spontanea) giace nelle profondità della coscienza e registra fedelmente la totalità degli irriducibili eventi della nostra vita, mentre l’altra (la memoria automatica) si trova alla superficie della coscienza, in contatto con le immagini degli oggetti esterni e da questi sollecitata ad estrarre dal complesso dei ricordi puri, forniti dalla prima memoria, le immagini-ricordo utili al compimento efficace dell’azione abbozzata dalla percezione attuale. In questo modo, Bergson delinea non due diversi tipi di atti o processi, che possono essere alternativamente agiti dalla coscienza; piuttosto, configura due diverse funzioni o facoltà di memoria, delle quali la seconda (la memoria automatica) si fonda sulla prima (la memoria spontanea), e che sono simultaneamente in atto. L’io “oscilla” dall’una all’altra verticalmente, dirigendosi dalla sfera di coscienza più superficiale e prossima alla realtà fisica, alla sfera coscienziale più profonda, idealmente indipendente dalla materia. L’autentica memoria è per Bergson quella “profonda”, continuamente attiva al fondo della coscienza ma della quale diveniamo consapevoli solo per quel tanto di essa che è richiamato dalle esigenze poste dalla percezione attuale: di principio, essa sarebbe indipendente

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dalla materia del percepire, ma di fatto ne è inseparabile. In questo senso, entrambe le funzioni di memoria si riferiscono direttamente alla percezione concreta, mentre per Husserl la percezione adeguata ammette di diritto in sé – oltre all’impressione – soltanto la coscienza ritenzionale. A questo punto, disponiamo di tutti gli elementi necessari a comprendere cosa si debba intendere per «percezione adeguata» e per coglierne la differenza rispetto alla «percezione concreta» bergsoniana. Per percezione adeguata Husserl intende la coscienza ritenzionale, nella quale si produce un continuo trapasso tra percezione e ritenzione43: tale «trapasso» non ha il carattere “biologicamente” funzionale proprio della memoria bergsoniana, ma espone il “darsi insieme” di percezione e ritenzione, tra loro formalmente legate e mediate dalla legge fondamentale secondo cui «ogni ritenzione è necessariamente preceduta da un’impressione». L’impressione costituisce, dunque, una coscienza primaria originalmente offerente che, proprio in quanto primaria, non è a sua volta appresa in un altro atto di coscienza: la coscienza «secondaria», unitamente al ricordo ad essa relativo, è invece così definita proprio perché essa si fonda indirettamente sulla coscienza primaria originalmente offerente, che è costituita dalla percezione adeguata. È inevitabile che la percezione adeguata si esplichi in un duplice senso, parallelo alla doppia intenzionalità propria della ritenzione in essa contenuta: da un lato, possiamo dirigere la nostra apprensione sul flusso stesso, sul durare dell’oggetto temporale in quanto tale e «nuotare» nella corrente di tale flusso percorrendone l’intera estensione; tale flusso è tempo pur non essendo nel tempo, e rappresenta una parte effettiva del fenomeno di decorso percepito, poiché ne costituisce il durare stesso. Dall’altro lato, possiamo orientare l’appren-

43. Cfr. ivi, p. 72.

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sione su ciò che nel flusso è appreso – per esempio, il solito suono che sta durando e che, nel suo durare, resta costantemente se stesso in ogni sua fase, pur soggiacendo alla legge della modificazione secondo adombramenti. Diversamente dal flusso temporale, il suono in questione è nel tempo ma non è tempo; è temporalmente determinato, ma non produce esso stesso delle determinazioni temporali. Il suono che dura non assume “da sé” le diverse forme dell’orientazione temporale, ma è una materia che riceve tali forme dal flusso temporale di coscienza: in sé, esso è semplicemente ciò che è, uno e identico a se stesso. Avrò modo di tornare sulla questione dell’identità dell’oggetto temporale immanente, che si rivelerà una nozione fondamentale ai fini della costituzione del tempo obiettivo – la cui chiarificazione costituisce, non va dimenticato, il fine della ricerca condotta da Husserl in queste lezioni. Se la percezione adeguata è l’unità di coscienza impressionale e coscienza ritenzionale, evidentemente in essa non rientra la coscienza riproduttiva: il ricordo secondario segnala la libertà del corrispondente atto di coscienza, che non rientra – se non indirettamente – nella percezione adeguata dell’oggetto temporale. D’altronde, è proprio per via della sua arbitrarietà che Husserl ha contestato la nozione brentaniana di fantasia come produttiva del carattere temporale, denunciando l’incapacità di una modalità non autenticamente necessaria di costituire la coscienza di passato. La necessità, insomma, si spiega con la necessità: ciò che, dal punto di vista husserliano, né Brentano, né Bergson hanno colto – se è possibile, come suggerisco, un’estensione della critica fenomenologica alla teoria esposta in Materia e memoria. Per Bergson, la libertà del soggetto rientra nell’ambito della memoria tout court; non solo, dunque, di quella che non a caso egli ha definito «memoria spontanea» e presentato come l’autentica forma di memoria (la quale, proprio in quanto idealmente indipendente dalla pura percezione, costituisce

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il polo soggettivo «spirituale», nel quale solamente ha senso parlare di libertà), ma anche di quella memoria che si manifesta dapprima in modo puramente automatico, nel sistema dei movimenti di reazione senso-motori, e successivamente – grazie all’aiuto fornito dalla memoria profonda – arriva a selezionare i processi di reazione più appropriati dall’insieme di quelli materialmente possibili. È vero che tale selezione, man mano che è ripetuta con il ripresentarsi di situazioni tra loro analoghe, tende a trasformarsi nuovamente in un automatismo; ciò non toglie che il soggetto potrebbe scegliere soluzioni diverse, anche eventualmente inappropriate, e il fatto che ciò non accada non va letto come un’insuperabile quanto ineluttabile potere necessitante dei nostri meccanismi psico-fisici, ma come un procedimento naturale e indispensabile ai fini dell’auto-conservazione individuale, cui ogni essere vivente tende conformemente al criterio dell’utilità per la vita organica. La scelta di reazioni che non rispondono a tale criterio determinerebbe situazioni patologiche, come quelle che Bergson analizza in riferimento alle varie forme di afasia44 (comunque sottoposte, nella loro comprensione psicologistica classica, ad una severa critica), e romperebbe l’equilibrio della salute psico-fisica: del resto, l’esistenza stessa di tali forme patologiche conferma la possibilità che l’individuo scelga sulla base di criteri diversi da quelli dell’utilità per l’azione presente, e in tal senso ribadisce la libertà della scelta soggettiva45.

44. Cfr. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., capitolo II. 45. La questione filosofica della libertà del soggetto personale è un problema che Bergson ha ritenuto fondamentale nel corso di tutto il suo pensiero: in ogni sua opera egli lo ha affrontato, ritenendo che dalla sua soluzione derivasse la “liberazione” dagli equivoci e dalle oscurità metafisiche in cui sono caduti i vari “-ismi” filosofici, impedendo una corretta impostazione del problema conoscitivo. Tutto il Saggio sui dati immediati della coscienza nasce dall’esigenza di chiarire il problema della libertà, che Bergson riprende, più o meno negli stessi termini, anche in Materia e memoria e, sotto un

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Inoltre, soggetti diversi possono scegliere soluzioni differenti di fronte ad una stessa situazione presente, riuscendo comunque a realizzare un’azione efficace: tutto questo conferma che la memoria costituisce veramente il lato soggettivo e personale del conoscere, anche se nella percezione concreta la sua “libertà” non si presenta mai in forma pura, ma in una modalità parzialmente attenuata dagli automatismi messi in campo al livello della corporeità. Ciò implica che, sul versante soggettivo della memoria come espressione della libertà, «un grande margine è lasciato alla fantasia, da una parte, al discernimento logico, dall’altra»46: la scelta della reazione appropriata attraverso la memoria richiede creatività e intelligenza, che differiscono da soggetto a soggetto, mentre la necessità che tale scelta sia «giocata dal corpo» e dunque sia per qualche aspetto sempre rivolta all’azione presente, resta una condizione identicamente valida per tutti i soggetti.

profilo meno filosofico e più scientifico, ne L’evoluzione creatrice: le prime due parti del Saggio, dedicate rispettivamente all’analisi della nozione d’intensità e a quella del concetto di durata, sono esplicitamente pensate da Bergson come introduzioni alla terza parte, dedicata proprio alla questione della libertà. Si tratta di un fatto importante, che indica come per Bergson il tema filosoficamente primario fosse quello, di natura etica, della libertà, rispetto al quale solamente è possibile comprendere il pieno senso della sua teoria della durata e della percezione: tale primarietà è esplicitamente affermata da Bergson in Materia e memoria (cit., p. 157). D’altronde, già nel Saggio compare la definizione della sensazione come inizio di libertà, ovvero come invito ad agire: la formulazione condensa il problema che sarà al centro di Materia e memoria ed evidenzia al tempo stesso la necessità di pensare la questione della conoscenza in funzione di quella della libertà (Cfr. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, tr. it. cit., pp. 24-25). 46. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 145.

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3. La linea del tempo Poiché la memoria agente all’interno della percezione concreta bergsoniana si ordina sul piano dell’azione attuale, che da “possibile” è resa “reale” proprio grazie al suo intervento, essa si caratterizza, in Bergson, per la sua virtualità: la nostra dimensione di vita reale è la percezione concreta, e nella percezione concreta vengono trattenuti dalla memoria solo quei ricordi-immagini utili ai fini dell’azione da compiersi attualmente, mentre gli altri ricordi restano in ombra, inconsci o latenti nella profondità della pura memoria47. Ingarden illustra molto bene questa differenza tra «reine Erinnerungen» e «Erinnerungsbilder»: ciò che caratterizza fondamentalmente il ricordo puro è proprio il suo essere «unbewusst», ovvero «inaktuell», «inaktiv», mentre le immagini-ricordo sono la materializzazione o l’attualizzazione di questi ricordi, altrimenti impotenti48. Nel momento in cui i ricordi puri vengono riconosciuti come utili e dunque richiamati dalla percezione, essi passano dallo stato virtuale a quello reale (attuale): si prolungano nella percezione e definiscono l’azione, che viene allora effettivamente compiuta49.

47. Sulla latenza dei puri ricordi, trattenuti nella loro indivisibile totalità dalla memoria non automatica nello strato più profondo della coscienza, Bergson spende importanti pagine nel capitolo III di Materia e memoria, tr. it. cit., pp. 119 sgg., identificando gli stati psicologici latenti – nel senso peculiare che egli attribuisce al termine – con gli stati psichici inconsci ed impegnandosi in una interessante analisi del concetto stesso di inconscio, purtroppo solamente abbozzata e non approfondita dall’autore. 48. Cfr. R. Ingarden, Intuition und Intellekt bei Henri Bergson, cit., pp. 39-40. 49. Ben nota è l’analisi, geniale e illuminante, del concetto bergsoniano di virtualità realizzata da Gilles Deleuze nel suo Il bergsonismo del 1966, in particolare nella parte III su «La memoria come coesistenza virtuale». Mi soffermerò sull’interpretazione deleuziana nel prossimo capitolo.

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Dunque, mentre per Husserl l’oggetto temporale «precipita», nel suo decorso a partire dal punto-ora attualmente percepito, in un passato sempre più lontano avente la forma di uno «sprofondamento» costante in “zone” via via più remote della coscienza, la quale – purtuttavia – continua a «ri-tenere» tale decorso all’interno del ricordo primario e può averne, eventualmente, un ricordo secondario, non occasionato dalla percezione ma fondato su di essa; per Bergson, in maniera contraria e speculare, il movimento del passato (della memoria) non consiste affatto in uno «sprofondamento», ma nel «[...] progresso continuo del passato che rode il futuro e aumenta a mano a mano che avanza»50. In altre parole, «noi non andiamo dalla percezione all’idea, ma dall’idea alla percezione, e il processo caratteristico del riconoscimento non è centripeto ma centrifugo»51: il carattere temporale «passato» non si connota per il progressivo allontanamento dell’oggetto temporale dall’«ora» in cui è stato percepito, ma – al contrario – per il suo costante portarsi verso l’attualità della percezione. Come già sappiamo, infatti, la percezione non è altro che un’occasione per ricordare, ma dal momento che – non essendo possibile vivere interamente nella pura memoria, come accade «sognando» – essa è l’unica occasione per ricordare, la memoria si attiva su sua sollecitazione e ne è guidata, in base al criterio dell’utilità per la vita organica: la percezione “trascina” verso di sé i ricordi, costituendosi come punto d’incontro tra materia e memoria. Si tratta, dunque, di un vero e proprio avanzamento, di un autentico «progresso»: la memoria, piuttosto paradossalmente, non retrocede ma “avanza” dal passato di

50. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 127 (corsivo mio). 51. Ivi, p. 110.

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cui essa è memoria al presente al quale è relativa, e in mancanza del quale il suo stesso costituirsi sarebbe impossibile52. Se volessimo trarre un’ulteriore conseguenza ermeneutica, si potrebbe ipotizzare che, dal punto di vista husserliano, neppure Bergson (come già Brentano) ci spieghi da dove ricaviamo l’idea di passato: comprendiamo come il passato venga richiamato dalla percezione presente che, nel suo abbozzare l’azione nascente, attualizza i ricordi in funzione dell’ora, ma ciò implica (lo ammette lo stesso Bergson) che l’atto della percezione ci collochi immediatamente nell’insieme dei ricordi, dai quali la nostra coscienza estrae quelli necessari ai fini della situazione presente. In che modo, tuttavia, si sono prodotti i ricordi puri della memoria non automatica? Si sarebbe tentati di rispondere che essi si sono prodotti “vivendo”, attraverso il continuo presentarsi di circostanze analoghe che hanno affinato la nostra capacità di reazione non solo motoria ma anche consapevole: tuttavia, il ripresentarsi delle analoghe situazioni di vita è sufficiente (e necessario) a spiegare il principio di selezione delle immagini-ricordo, agito da un soggetto intelligente che impara a servirsi di certe regolarità per rispondere efficacemente ai propri bisogni. È sufficiente, cioè, per spiegare l’interazione tra i due tipi di memoria e il loro riferimento alla percezione; con ciò, tuttavia, non abbiamo ancora spiegato come sia possibile che il ripresentarsi di certe situazioni, per così dire, “faccia storia” – come si realizzi, cioè, il sedimentarsi di un sistema stabile di ricordi puri infallibilmente e complessivamente trattenuti nella memoria spontanea. Sembra porsi un problema di “accumulazione originaria dei ricordi puri”,

52. Sulla questione della memoria come «progresso» Bergson è particolarmente insistente: la formulazione qui riportata compare, con variazioni linguistiche minime, sin dal Saggio sui dati immediati della coscienza (tr. it. cit., pp. 73, 85, 116, 125, 126, 139 – dove Bergson ribadisce quasi ossessivamente la distinzione tra «cose» e «progressi»).

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ed è rivelativo al riguardo che il primo capitolo di Materia e memoria rechi il titolo «La selezione delle immagini per la rappresentazione»: è già dalla selezione dei ricordi (e non preliminarmente dalla loro formazione) che parte l’analisi. Nell’illustrare la distinzione tra ricordo spontaneo e ricordo automatico, Bergson scrive: «i ricordi che si acquistano volontariamente, per ripetizione, sono rari, eccezionali. Al contrario, la registrazione, grazie alla memoria, di fatti e immagini uniche nel loro genere, si perpetua in tutti i momenti della durata. Ma siccome i ricordi imparati sono i più utili, li si nota maggiormente»53. Il punto è che Bergson non ci spiega adeguatamente in che modo avverrebbe tale «registrazione»: in qualche misura essa è data per scontata, come automatica, giacché essa appartiene all’orizzonte della nostra vita ed è qualcosa che semplicemente noi “esperiamo”, peraltro in correlazione inscindibile con il nostro presente. Ciò non toglie che (come avrò modo di precisare nel prossimo capitolo) la dinamica di registrazione del passato sotto forma di ricordi puri non pare esibire, sul piano filosofico, sufficienti ragioni di sé, per quel che concerne il modo della sua genesi54: dunque, 53. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 68. 54. Questa circostanza va peraltro vista in connessione con il principio (messo in luce da Ingarden) secondo cui, essendo da un lato i ricordi puri presentati come in qualche misura “già dati” e assumendo dall’altro che essi affiorino alla coscienza per il ripresentarsi di situazioni tra loro analoghe, che dettano lo scorrere della nostra vita effettiva, nulla di nuovo sembrerebbe manifestarsi propriamente sulla scena della coscienza, al di là delle diverse combinazioni memorative possibili ai fini della reazione alla situazione attuale. Scrive Ingarden: «Es gibt unter den psychischen Zuständen (so wie auch in der sonstigen Welt) nichts, was schlechtin, im eigentlichen Sinne des Wortes, neu wäre. Jede Neuheit berhut auf einer neuen Kombination der schon früher vorhandenen Elemente. Prinzipiell: Alles ist gegeben» (R. Ingarden, Intuition und Intellekt bei Henri Bergson, cit., p. 7). Da ciò consegue che (p. 9) «Die Zustände fangen – im strengen Sinne des Wortes – nicht an und hören nicht auf», e che (p. 33) «Die Relativität besthet nur in der Art

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la critica che Husserl ha mosso a Brentano (di non essere riuscito a spiegare la genesi, appunto, dell’idea di passato, se non ad un livello puramente empirico – che il fenomenologo deve peraltro tenere «fuori circuito»), può essere estesa anche alla teoria di Bergson. Tanto più che, ponendo la memoria non come un movimento di allontanamento dal presente impressionale (intendendo il termine nel suo senso spaziale solo nei limiti concessi da Husserl al §13 delle Lezioni), bensì come un avvicinamento (un «progresso») sempre più completo al presente percettivo, in cui si passa dal piano della virtualità a quello della realtà dell’azione concretamente realizzata, Bergson mostra la preoccupazione di spiegare il presente più che il passato: è naturale, d’altronde, che sia così, poiché il criterio dell’utilità per la vita organica, sul quale si regola la stessa memoria, si manifesta sempre in rapporto ad un’azione da compiersi attualmente. La preoccupazione principale di Husserl è, invece, d’altro segno: egli intende chiarire come si forma la coscienza di passato in quanto tale, pur tenendo ben fermo il fatto che il passato è sempre relativo ad un presente dato. Al di là della circostanza, pur importante e già evidenziata, per la quale la ritenzione avviene «ora» ed è necessariamente data con la percezione, ciò su cui Husserl insiste è il fatto che in essa è consaputo qualcosa di passato e di irriducider Auswhal der Bilder». Ovviamente quest’assunzione comporta ulteriori difficoltà rispetto al problema della libertà, e precisamente in relazione al potere di scelta della coscienza (sulla base della collaborazione tra memoria spontanea e memoria automatica) delle immagini-ricordo utili all’azione da compiere: dovremmo chiederci, cioè, di che libertà si sta effettivamente parlando e se è davvero libera una scelta tra semplici «combinazioni» di elementi già dati. È certo che tale libertà opera nei limiti del principio dell’utilità per la vita dell’individuo, o meglio: normalmente opera entro tali limiti, il che ci riporta alla questione del rapporto tra funzionamento «normale» e funzionamento «patologico» della psiche, di cui si è già detto, confermando nel contempo come la memoria sia funzione del presente, oltre che semplicemente relativa ad esso.

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bile al presente: ciò è a tal punto vero da permetterci di dire, fenomenologicamente, che nella ritenzione noi «vediamo» qualcosa di passato, cogliamo cioè il passato in un atto quasipercettivo, tant’è che la coscienza ritenzionale sottostà alla legge della modificazione secondo adombramenti (caratteristica della percezione) ed è parte integrante della percezione adeguata. Potremmo riassumere la diversa ed opposta direzione delineata dal rapporto percezione-memoria in Bergson e Husserl servendoci di uno schema, nel quale si esibisce la differente vettorialità della “linea del tempo” nei due autori – con l’avvertenza che ogni “schema” resta una rappresentazione semplificata ed inevitabilmente manchevole del problema, purtuttavia utile a rendere intuibile la differenza in gioco. Gli stessi autori, d’altronde, non esitano a servirsi, quando necessario, di raffigurazioni schematiche esemplificative dei passaggi teorici maggiormente complessi o rilevanti per il loro ragionamento (si pensi al diagramma del tempo, tracciato da Husserl al §10 e continuamente richiamato nelle Lezioni, o all’immagine del cono rovesciato utilizzata da Bergson in Materia e memoria, su cui tornerò nel prossimo capitolo). Suggerirei, dunque, il seguente schema: Rapporto percezione-memoria in Bergson: M ----------  P ----------  A

In M (= memoria) stanno i ricordi puri; in P (= percezione adeguata) stanno i ricordi-immagine, attualizzazioni dei ricordi puri per mezzo del coadiuvante motorio; in A (= azione) cogliamo la realizzazione dell’azione suggerita dalla percezione attuale. Il nostro io, afferma Bergson commentando le schematizzazioni da lui stesso fomite in Materia e memoria,

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oscilla continuamente tra i poli di questa relazione, ma il suo baricentro vitale resta sempre saldamente fisso in P, nell’incrocio tra materia e memoria. Non è possibile, infatti, vivere puramente nel «sogno», cioè nei ricordi puri privi di riferimento alle attuali percezioni, o nella pura «materia», cioè nella percezione priva dell’apporto fornito da memoria e affezioni: la nostra normale condizione di vita è un «misto» di materia e memoria, dato nella percezione concreta. Rapporto percezione-memoria in Husserl: {(I ----------------Po ) = R}2 = Rs A partire da Po (= punto-ora assunto come limite ideale della percezione attuale), si costituisce la coscienza del decorso del relativo oggetto temporale immanente, la cui durata è iniziata con I (= impressione originaria) ed è trattenuta, nel suo “sprofondare all’indietro”, all’interno della coscienza ritenzionale (= R); in ciò consiste la percezione adeguata. Quest’ultima, ovvero la complessiva coscienza di impressione e ritenzione, può successivamente divenire oggetto di un “elevamento a potenza” (= 2), costituente il ricordo secondario (= Rs), riproduttivo della coscienza primaria. Ovviamente, anche il ricordo secondario può divenire oggetto di una ulteriore rimemorazione e l’elevamento a potenza può proseguire indefinitamente, in sempre nuove rimemorazioni: queste, infatti, sono libere e perciò possono essere continuamente reiterate. Allo stesso tempo, è evidente che l’elevamento a potenza non può sussistere senza una “base” da elevare, data dalla percezione, alla quale la reiterazione si riferisce indirettamente per mezzo della ritenzione. La linea del tempo si “muove”, dunque, in direzioni opposte in Bergson e Husserl: avanza dal passato al presente, nel primo;

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sprofonda dal presente al passato, nel secondo. Bergson vuole spiegare il presente e accordare ad esso e alle sue esigenze la primarietà per la vita organica; Husserl vuole spiegare il passato e mostrare la sua quasi-percettibilità in relazione al presente. Per entrambi, la percezione costituisce il fondamento della costituzione del tempo, poiché essa rappresenta la prima forma di coscienza temporale: la linea del tempo è finalizzata, per quanto con una diversa movenza, alla chiarificazione coscienziale dell’obiettività temporale. Per comprendere appieno questo orientamento, sarà necessario concentrarsi più specificamente sulle due teorie e trarre tutte le conseguenze implicite nel confronto proposto.

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Capitolo terzo

Tempo e virtualità in Bergson

Ho più volte accennato alla dimensione “virtuale” della memoria in Bergson: occorre chiarire questo aspetto, con l’aiuto del già citato saggio deleuziano del 19661. Proprio la “virtualità”, infatti, giustifica la concezione di una memoria come «progresso» verso il presente, e determina così l’orientamento della linea del tempo bergsoniana. Ripartiamo dalla distinzione tra i due tipi di memoria: come sintetizza Ingarden, sussistono per Bergson due modalità di memoria, «das vorstellende und das wiederholende Gedächtnis»2. In Materia e memoria, Bergson afferma che il passato si conserva sotto due forme: nei meccanismi motori, come memoria automatica, e nei ricordi indipendenti, come memoria spontanea. La seconda forma è la memoria “autentica”, che registra gli avvenimenti in sé unici e irriducibili della nostra vita conservando la loro

1. G. Deleuze, Le bergsonisme, Presses Universitaires de France, Paris 1966; tr. it. a cura di Pier Aldo Rovatti e Deborah Borea, Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino 2001. Sulla virtualità della memoria in Bergson, cfr. in particolare la parte III di Materia e memoria: La memoria come coesistenza virtuale. 2. R. Ingarden, Intuition und Intellekt bei Henri Bergson, cit., p. 34. Nell’illustrare la distinzione bergsoniana tra i due tipi di memoria terrò presente il commento di Ingarden alle pp. 34 sgg.

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peculiare colorazione temporale (la loro «data») e dà origine alle nostre rappresentazioni, mentre la prima forma è piuttosto «abitudine illuminata dalla memoria» e si colloca interamente sul piano dell’azione; tra i due tipi di memoria sussiste, quindi, una «differenza di natura»3. La memoria spontanea registra tutti gli avvenimenti della nostra vita senza tralasciare alcun particolare e mantenendone lo specifico “posto temporale”: di principio, essa non ha scopi di utilità o applicazione pratica, se non fosse che «ogni percezione si prolunga in azione nascente»4. A questa assunzione Bergson dà il valore di una legge della vita fisica e di coscienza, e proprio la regolarità di tale legge sta alla base della formazione del secondo tipo di memoria: quest’ultima si deposita nel corpo sotto forma di meccanismi totalmente preformati, fornenti risposte già pronte per ogni possibile stimolo esterno, sedimentate in movimenti di reazione automatica il cui scopo è quello di prolungare nell’azione presente l’effetto utile delle immagini ricordate. Dunque, noi disponiamo di due memorie, «di cui l’una immagina e l’altra ripete»5: l’una è completa e fedele, l’altra è selettiva e si attiva a seconda dell’azione da compiere. Ciò significa che la nostra coscienza attuale trattiene, della totalità dei ricordi impressi nella memoria spontanea, solo le immagini passate attualmente utili e lascia in ombra tutte le altre, delle quali possiamo renderci parzialmente consapevoli solo attraverso un potente sforzo d’astrazione, che non rappresenta comunque la normalità della nostra condizione 3. La distinzione tra «differenze di natura» e «differenze di grado» è fondamentale nel pensiero di Bergson: essa è introdotta già nel Saggio del 1889 (in particolare nella parte I) e su di essa si regge tutta l’impalcatura de L’evoluzione creatrice; in Materia e memoria essa è ripresa nello stesso senso dell’opera del 1889, cioè a segnalare la distinzione tra «cose», pensate in analogia con lo spazio, e «progressi», riferiti alla durata di coscienza e non riducibili alla rappresentazione simbolico-spaziale. 4. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 67. 5. Ibid.

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di vita: lo dimostra il fatto che Bergson associa il puro vivere nella memoria spontanea, per noi praticamente irrealizzabile, con la situazione che viviamo nei «sogni», i quali rappresentano l’eccezionalità dei nostri stati di coscienza. Per illustrare il diverso funzionamento delle due forme di memoria, Bergson fa l’esempio, molto chiaro, dell’imparare a memoria una lezione: una volta imparata attraverso la ripetizione dello sforzo mnemonico, la lezione diviene una totalità che si installa all’interno della coscienza come una sorta di abitudine ormai acquisita, come un contenuto che saremo in grado di ripetere automaticamente ogni volta che le esigenze attuali lo richiederanno, attivandone il ricordo fisso e temporalmente esteso secondo una durata ben determinata. Per riuscire a imparare a memoria la lezione, però, dovremo averla letta e ripetuta per un certo numero di volte: ciascuna di queste singole letture costituisce un avvenimento della nostra vita, la cui essenza «è di avere una data e, di conseguenza, di non potersi ripetere»6. Posso rivivere, ripetendola a memoria, la lezione come totalità installata nell’insieme delle mie abitudini, ma non posso rivivere le singole letture originali mediante cui quella totalità di coscienza si è formata: certo, queste ultime sono in qualche modo “contenute” nella lezione imparata a memoria, ma non come qualcosa che il soggetto è in grado di riprodurre ora, bensì come dotate della loro originaria caratterizzazione temporale, in sé irriproducibile. Il processo del «riconoscimento» delle immagini in funzione dell’azione presente (oggetto del II capitolo di Materia e memoria) si spiega in base a questa distinzione tra le due forme di memoria: al fondo del riconoscimento c’è sempre un fenomeno motorio, nel senso che riconoscere un oggetto della quotidianità vuol dire semplicemente sapersene servire, e sapersene servire significa già abbozzare i movimen6. Ivi, p. 65.

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ti d’utilizzo consoni. La coscienza di tali movimenti costituisce il nucleo del riconoscimento: sappiamo, infatti, che ogni percezione si prolunga in azione, dunque in movimento, e che al tempo stesso non c’è percezione che non sia impregnata di ricordi. Dunque la nostra percezione è per un verso già azione, per un altro è memoria: è appunto questo il senso della «percezione concreta». Ogni volta che si apre una “crepa” tra la nostra percezione attuale e il movimento ad essa concomitante, emergono i ricordi puri che soggiacciono alla memoria automatica: non tutti i ricordi puri, però, riescono a divenire coscienti, ma lo diventano solamente quelli utili nel contesto della situazione attuale. In che modo essi vengono riconosciuti utili e si rendono, così, coscienti? Ciò avviene attraverso la modalità del riconoscimento attento: Bergson definisce l’attenzione come quel movimento per cui lo spirito torna sui propri passi, rinunciando a perseguire l’effetto utile nella percezione presente. Ciò determina l’inibizione di certi movimenti, il cui effetto non è però la stasi o l’inazione bensì il formarsi di altri movimenti più specifici, «che hanno come funzione quella di ripassare sui contorni dell’oggetto percepito»7: in questo modo la memoria fortifica e arricchisce la percezione, che a sua volta chiama – man mano che l’attenzione si concentra più precisamente su di essa – un numero sempre maggiore di ricordi complementari. L’attenzione, dunque, è un processo d’analisi consistente nello scegliere di volta in volta quei ricordi-immagine attualmente utili e sedimentatisi nella coscienza in seguito a situazioni analoghe precedentemente vissute. Il criterio di questa scelta consiste nel principio dell’utilità per l’azione presente, mentre la modalità attraverso cui la scelta è attuata è data dalla memoria; da qui deriva quel “raddoppiamento” della memoria – su cui si sofferma anche Deleuze – per cui essa non solo 7. Ivi, p. 85.

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offre i ricordi da selezionare, ma indica anche il modo in cui selezionarli: l’immagine-ricordo riconosciuta (selezionata) si sovrappone alla percezione attuale introducendosi in essa così intimamente «che non sappiamo più distinguere ciò che è percezione e ciò che è memoria»8. Da un lato abbiamo, quindi, quel che Bergson chiama lo «schema motorio» dell’azione, dall’altro i ricordi attualizzati, e infine il loro incontro nella percezione concreta: lo schema motorio definisce, come una specie di schizzo o di canovaccio, la tendenza della percezione al prolungamento nei corrispondenti movimenti muscolari, che si realizza compiutamente nell’attenzione volontaria (integrata dai ricordi-immagine richiamati). Tutto ciò implica che l’attenzione informante il nostro concreto percepire si realizza al prezzo di intaccare la purezza dei ricordi indipendenti e della semplice percezione, determinandone la coalescenza, il «misto» che la nostra coscienza effettivamente esperisce: si tratta di un prezzo necessario. Bergson, infatti, sottolinea che: senza l’attenzione c’è soltanto una giustapposizione passiva di sensazioni accompagnate da una reazione meccanica. Ma, d’altra parte, [...] la stessa immagine-ricordo, ridotta allo stato di puro ricordo, resterebbe inefficace. Virtuale, questo ricordo può diventare attuale soltanto per la percezione che lo attira9.

Siamo così ricondotti alla nozione di virtualità del ricordo: prima di appoggiarci all’analisi di Deleuze, sarà opportuno richiamare la definizione che Bergson stesso dà di questo fondamentale concetto. Egli afferma che il ricordo è necessariamente virtuale e si rende afferrabile solo dischiudendosi in immagine presente10: ogni stato psicologico impotente (inattuale, inconscio), infatti, può sempre rendersi attivo e

8. Ivi, p. 86. 9. Ivi, p. 108. 10. Ivi, p. 114.

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attuale, incarnandosi in un ricordo-immagine. Ciò avviene quando il presente richiede l’intervento della memoria in vista di un’azione da compiere, così che la coscienza attuale richiama a sé i ricordi utili a tale azione e respinge quelli superflui. Questi ultimi continuano nondimeno a sussistere nella pura memoria: il problema di comprensione posto dal passato non consiste nel capire quando esso cessi di esistere, bensì quando esso cessi di «agire», di «essere utile»11. Se il ricordo è riconosciuto come utile per il presente, esso si concretizza illuminando la situazione attuale; in caso contrario, esso resta inconscio, latente. Come soggetti coscienti, noi siamo normalmente collocati nella parte “illuminata” della nostra storia personale, la cui legge fondamentale è una «legge d’azione»: la virtualità dei ricordi significa proprio la loro strutturale latenza e capacità, in certe condizioni, di attuarsi e illuminare il teatro della coscienza. Si ripropone, così, la distinzione tra memoria spontanea e memoria ripetitiva: è proprio a partire da essa che Deleuze illustra il concetto di virtualità, definendo le due forme di ricordo, rispettivamente, «memoria-contrazione» e «memoria-ricordo». Sappiamo che l’essere vivente umano esiste in quanto dura e che la durata si dà per effetto determinante della memoria12. La «memoria-contrazione» ci informa del durare complessivo dell’essere vivente, di cui 11. Cfr. ivi, p. 127. 12. In riferimento alla direzione radicale imboccata su questo punto da Bergson ne L’evoluzione creatrice, ma per molti versi già anticipata in Materia e memoria, scrive Jean Hyppolite: «Je dure donc je existe. Le cogito bergsonien implique cette synthèse originale du passé et du presént en vue de l’avenir qui est le sens nouveau que Bergson donne au mot mémoire. La mémoire ici n’est pas une faculté particulière chargée de répéter ou de reproduire le passeé dans le présent, elle est la conscience mème, en tant que cette conscience est durée creatrice»; J. Hyppolite, Aspects divers de la mémoire chez Bergson, in Figures de la pensée philosophique, Quadrige/ puf, Paris 1991, tome I, p. 469.

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trattiene fedelmente ogni avvenimento nella profondità della coscienza coagulandolo (contraendolo) insieme a tutti gli altri nel “carattere” dell’individuo; la «memoria-ricordo» rende coscienti alcuni ricordi puri, attualizzandoli in rapporto all’azione presente, per la quale sono riconosciuti utili. La distinzione tra queste due memorie non è “solo” una distinzione, ma prefigura anche una relazione: come ho già evidenziato nel precedente capitolo, la memoria motoria sarebbe impossibile se non fosse “sostanziata” dalla memoria spontanea. Lo stesso Bergson chiarisce che le due memorie non si isolano e non si manifestano “puramente” se non in casi eccezionali: di norma, esse si compenetrano intimamente, ciascuna perdendo qualcosa della propria purezza originaria, così da incontrarsi nella percezione concreta13. In che senso, domanda Deleuze, la memoria così intesa non può che essere essenzialmente virtuale? Più che riprendendo il concetto di impotenza (di latenza) dei ricordi profondi, di cui Bergson stesso si era servito per spiegare il concetto di virtualità della memoria, Deleuze risponde connettendo il concetto di virtualità a quello di coesistenza: se il ricordo si attiva, attualizzandosi, soltanto sulla base del richiamo fornito dalla percezione presente, allora esso non si forma anteriormente alla percezione ma contemporaneamente ad essa. Deleuze avanza, così, una possibile risposta a quella indeterminazione nella quale Bergson lasciava l’origine della formazione dei ricordi puri nella memoria spontanea, che ho tentato di rilevare criticamente in precedenza: i ricordi puri si formano “percependo”. Si potrebbe contro-obiettare a tale risposta, tuttavia, che il concetto di coesistenza, legando ancor più strettamente tra loro ricordo e percezione attuale, potreb-

13. Dopo averle distinte, Bergson si preoccupa più volte di evidenziare la necessaria relazione tra le due forme di memoria: si veda Materia e memoria, tr. it. cit., pp. 129, 131, 141, 184 e 206.

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be bensì completare l’analisi bergsoniana della formazione delle immagini-ricordo condensate nella percezione concreta, le quali appunto si danno insieme ad essa: non permette, però, di illuminare meglio la questione della formazione dei ricordi puri in quanto tali, che sono di principio indipendenti dalla materia e dei quali appare difficile negare la pre-esistenza rispetto alla loro attualizzazione nella percezione concreta. La virtualità di tali ricordi, come latenza, è appunto un preesistere; se, d’altronde, i ricordi puri non fossero pre-esistenti, non si capisce come potrebbe avvenire il riconoscimento dei ricordi utili a partire dalle esigenze dell’azione attuale – non si capisce, cioè, in che modo la coscienza potrebbe effettuare la selezione. Se c’è selezione, c’è qualcosa tra cui scegliere e se ciò che è scelto è concretizzazione di qualcosa d’altro, questo “qualcos’altro” doveva già esistere potenzialmente, cioè appunto virtualmente o – come afferma anche Bergson – inconsciamente. L’essenza di ciò che è inconscio, infatti, è per l’appunto di esistere già, ma allo stato latente: in questo senso, enfatizzare troppo la nozione di coesistenza appare addirittura rischioso per la nozione di virtualità, giacché solo ammettendo la preesistenza dei ricordi puri è possibile parlare di una loro virtualità. Questo problema non si presenta a Husserl, proprio perché la legge ritenzionale afferma che ogni ritenzione è necessariamente preceduta da un’impressione; in tal modo, si può tentare di spiegare non solo secondo quali modalità percezione e memoria entrino in rapporto tra loro e in che modo la percezione “si appelli” alla memoria, ma anche (più radicalmente) in che modo la prima si ponga all’origine (fenomenologica) della seconda. Ad ogni modo, la nozione di coesistenza permette effettivamente a Deleuze di riprendere quel carattere “doppio” della memoria di cui si è già detto, affermando che per Bergson il passato è “come presente” in modalità “duplicata”: esso coesiste al presente insieme al quale sorge (la sua esistenza è data

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in riferimento al presente) e si attiva coesistendo con esso (la sua funzionalità consiste in questo rapporto al presente)14. Parallelamente, data la distinzione tra memoria spontanea, che trattiene in sé la totalità degli avvenimenti della vita di coscienza, e memoria automatica, che esige una selezione dei soli ricordi utili attualmente, va specificato che tutto il nostro passato coesiste con ogni presente di volta in volta dato: il nostro presente percettivo e situazionale richiama tutto il nostro passato, ma – specifica Deleuze, riprendendo le definizioni bergsoniane – a diversi livelli di «contrazione» o «espansione»15. In effetti, Bergson afferma ripetutamente che la solidarietà degli stati interiori di coscienza e in particolar modo la memoria non sono esenti dall’avere i loro «gradi successivi e distinti di tensione o di vitalità, difficili da definire, senza dubbio, ma che il pittore dell’animo non può impunemente ingarbugliare tra loro»16: il processo stesso di localizzazione di un ricordo nel passato consiste fondamentalmente in uno «sforzo crescente di espansione, con il quale la memoria, sempre interamente presente a se stessa, stende i suoi ricordi su una superficie sempre più larga, e finisce per distinguere, in un ammasso fino ad allora confuso, il ricordo che non ritrovava il suo posto»17. Contrazione e distensione della coscienza memorativa si fondano, evidentemente, sull’assunto per cui memoria e presente percettivo condividono un punto di coincidenza, che lo stesso Bergson riconosce tanto radicale quanto parziale, costituente il punto fisso a partire dal quale si modulano distensione e contrazione. 14. Cfr. G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, tr. it. cit., p. 121. 15. Cfr. ivi, pp. 49-50. 16. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 143. Si vedano anche le espressioni utilizzate da Bergson alle pp. 145 (dove compaiono i termini «contrazione» e «distensione») e 186 (dove la questione è connessa al problema della libertà). 17. Ivi, p. 144.

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Dal presente percettivo, dunque, parte un «appello» alla memoria, alla quale si richiede di completare lo schema motorio ai fini dell’azione: scrive molto chiaramente Ingarden che «die reine Wahrnehmung und das Schema ist nur ein Appell an die Aktivität des Geistes im Moment, in welchem sich die Wahrnehmung automatisch in Imitationsbewegungen fortsetzt»18. È a partire da questo appello, nota Deleuze, che la virtualità del ricordo comincia a trapassare in realtà. Per rispondere a questa “chiamata”, infatti, la coscienza si colloca all’interno stesso del virtuale, da cui seleziona i ricordi utili permettendo loro di incarnarsi in un’immagine-ricordo e di fare corpo, come scrive Hyppolite, con il presente19. In questo modo, «das entsprechende Erinnerungsbild verschmilzt mit der Wahrnehmung, welche dadurch modifiziert, bereichert und aufs neue geschaffen wird»20. L’illustrazione bergsoniana di questo punto è chiarissima, e ad essa si riferisce l’analisi di Deleuze: la verità è che la memoria non consiste assolutamente in una regressione dal presente nel passato ma, al contrario, in un progresso dal passato nel presente. È nel passato che ci collochiamo immediatamente. Partiamo da uno “stato virtuale” che conduciamo, a poco a poco, attraverso una serie di piani di coscienza differenti, fino al punto in cui esso si materializza in 18. R. Ingarden, Intuition und Intellekt bei Henri Bergson, cit., p. 37. 19. Cfr. J. Hyppolite, Aspects divers de la mémoire chez Bergson, cit., p. 469: «Le passé fait corps avec le présent sans cependant se juxtaposer a à lui, il se prolonge en lui pour créer du nouveau et de Limprévidible». Si noti come la posizione di Hyppolite differisca, su questo punto, da quella di Ingarden, secondo cui – come evidenziavo supra, alla nota 54 del capitolo precedente – la strutturazione della memoria in Bergson non permetterebbe una reale comparsa sulla scena di contenuti “nuovi”. Scrive ancora Hyppolite (p. 476): «[la mémoire] se port toujours intégralment vers le présent, pour s’expliciter ensuite, à un certain niveau correspondant aux exigences de l’action et de la question posée, en images effectives qui recouvrent plus ou moins la situation donnée dans la perception». 20. R. Ingarden, Intuition und Intellekt bei Henri Bergson, cit., p. 37.

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81 una percezione attuale, cioè fino al punto in cui diventa uno stato presente ed agente, cioè, infine, fino a questo piano estremo della nostra coscienza in cui si delinea il nostro corpo. In questo stato virtuale consiste il puro ricordo21.

Dunque, la coscienza procede dal passato al presente, dall’idea disincarnata alla percezione concreta e proprio in ciò risiede quella che Deleuze definisce la «rivoluzione bergsoniana»: essa consiste nel problematico tentativo di pensare il passato come la nostra dimensione originaria, ma al tempo stesso rivelantesi solo a partire dall’appello del presente. Si noti, però, come questa assunzione di Deleuze contraddica la tesi della rigorosa coesistenza di passato e presente, che abbiamo prima ricordato: è sostanzialmente impossibile pensare il «progresso dal presente nel passato», ponendo i due piani temporali come co-presenti. E per questo che, proprio per contrasto con ciò che Deleuze chiama «rivoluzione bergsoniana», emerge con particolare evidenza la peculiarità dell’impostazione husserliana: per Husserl, come questi afferma nella sua critica a Brentano, non è possibile spiegare l’idea di passato partendo dal passato stesso, ancorché attivato e reso “vivo” dal presente, poiché così facendo assumiamo il ricordo come un già formato del quale non possiamo spiegare la genesi né la relativa coscienza. L’analisi di Bergson pone una difficoltà analoga, tant’è vero che egli non spiega del tutto – come si è già evidenziato – la genesi dei ricordi puri, ma struttura l’analisi ponendo tali ricordi come dei “già formati”, come qualcosa di cui non riusciamo a dare completamente ragione e all’interno dei quali ci collochiamo «immediatamente»; per sé presi essi sussistono, infatti, in forma inconscia, dunque in qualche modo sfuggente e non del tutto afferrabile né intelligibile. Se vogliamo comprendere la genesi del passato, dobbiamo – per Husserl – partire dalla percezione: anche Bergson spiega il

21. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 200.

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progresso della memoria a partire dal presente percettivo e dall’appello da questo lanciato, ma il suo scopo è in ultima analisi quello di spiegare il meccanismo del riconoscimento e non la formazione dei ricordi in quanto tali. Per Husserl, invece, “partire dalla percezione” significa affermare la legge secondo cui ogni ritenzione è preceduta da un’impressione: solo della percezione, infatti, noi possiamo comprendere la “genesi”, nel senso specifico e paradossale che di essa non si dà genesi. È fenomenologicamente scorretto chiedersi quale sia la genesi della percezione, dal momento che questa è una coscienza primaria originalmente offerente, matrice di processi fenomenologici ma non prodotta essa stessa da altri atti di coscienza22. La “genesi della percezione” coincide dunque con il suo stesso darsi e solo partendo da questo atto originario e “generante” potremo comprendere il “generato” della memoria. A questo punto è necessario, con Deleuze, riallacciarsi alla teoria bergsoniana della distensione e contrazione della coscienza memorativa, secondo cui esiste una certa gradualità nell’attualizzazione dei ricordi virtuali: questa teoria, infatti, sembra reintrodurre surrettiziamente, almeno dal punto di vista terminologico, delle differenze di grado all’interno del dominio della coscienza. Dal Saggio del 1889, infatti, sappiamo che nella coscienza non esistono distinzioni di grado ma solo di stato (di natura), e infatti in Materia e memoria Bergson ripete più volte che tra passato (memoria) e presente (percezione) sussiste una differenza di natura: tutte le difficoltà che la filosofia ha tradizionalmente incontrato nello spiegare il rapporto tra presente e passato derivano dal mancato ricono-

22. Cfr. HUA/X, cit., p. 124: «L’impressione originaria è l’assoluto inizio di questa generazione, la fonte originaria, quella da cui tutto il resto costantemente si genera. Essa non viene però prodotta a sua volta, non nasce come qualcosa di generato, ma per genesis spontanea: è genesi originaria».

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scimento di tale differenza qualitativa, costantemente confusa con una mera differenza di grado, misurabile e facilmente esprimibile servendosi delle presunte analogie con i fenomeni spaziali. Bergson aggiunge, tuttavia, che la memoria procede – nell’attualizzare i ricordi puri virtuali – secondo una “certa gradualità”: tra percezione e memoria c’è una differenza di natura, ma i ricordi entrano nel presente percettivo seguendo una progressione. In che modo si combinano questi due aspetti, posto ciò che sappiamo della percezione concreta (nella quale si realizza la coalescenza di materia e memoria)? Secondo Deleuze, l’obiettivo fondamentale di Materia e memoria consiste nello smontare l’apparente dualismo tra spirito e corpo, mostrando come questi siano legati da una comunicazione strettissima data dal fatto che la distanza tra di essi è «riempita da tutti i gradi della differenza»: è questo il senso dell’immagine del cono rovesciato, attraverso la quale Bergson schematizza il comportamento dell’io normale23. La base AB del cono rappresenta l’insieme complessivo dei ricordi dati, la punta S affonda nel piano della realtà esterna e coincide con la percezione attuale (spazialmente determinata e dunque corrispondente a un certo atteggiamento corporeo o anche a una parola articolata24): tra la base e la punta del cono

23. Cfr. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p 137. 24. L’esteriorizzazione degli atteggiamenti corporei assunti sulla base del sistema senso-motorio e l’esteriorizzazione delle idee attraverso il linguaggio sono, per Bergson, analoghe: in entrambi i casi, si tratta di un processo di spazializzazione, articolato in differenze di grado. Il linguaggio, così come il sistema dei movimenti, risponde al criterio dell’utilità per la vita pratica e sociale e si adegua pienamente al modo di procedere della nostra intelligenza; sfortunatamente, però, esso risulta inadeguato ad esprimere le sottigliezze psicologiche costituenti i nostri vissuti concreti e in ciò consiste il suo maggiore limite. Nominare equivale a pietrificare ciò che è vivo e dal momento che la vita è essenzialmente durata, nelle sue analisi sulla durata Bergson combatte costantemente (così come, d’altronde, il suo lettore) con le difficoltà derivanti dal dover esprimere ciò di cui non si può, propriamen-

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troviamo molteplici sezioni intermedie, (A’B’, A’’B’’ etc), che costituiscono le possibili ripetizioni della nostra vita psicologica e rappresentano l’io concreto. Scrive Bergson che «di fatto l’io normale non si fissa mai ad una di queste posizioni estreme; si muove tra queste, di volta in volta adotta le posizioni rappresentate dalle posizioni intermedie»25. Sono proprio queste «posizioni intermedie» che scandiscono la «gradualità» dei piani mediante cui la memoria, contraendosi o dilatandosi, si approssima o allontana dalla pura percezione: è di questa «gradualità» che dobbiamo chiarire la natura, per accordarla alle acquisizioni del Saggio e dell’intera teoria della durata. Deleuze chiarisce che, malgrado l’ambiguità terminologica di vocaboli quali «distensione», «contrazione» e «gradualità» (indissolubilmente associati al concetto di estensione spaziale e non a quello di durata), con essi Bergson non reintroduce alcun riferimento a differenze di grado all’interno del dominio della coscienza temporale: per comprendere l’argomentazione deleuziana, è però necessario esplicitare alcuni presupposti. Secondo Bergson il presente non va definito come «ciò che è» ma come «ciò che si fa» e correlativamente il passato non è «ciò che non è più», bensì «ciò che non è più utile». Quale differenza passa tra esistenza e azione e qual è il significato del riferimento al concetto di utilità? Dapprima, si potrebbe affermare che esistenza e azione si implicano reciprocamente nella misura in cui Bergson pone che le immagini esterne ci invitano all’azione per il fatto stesso di “esistere”: tuttavia, è evidente che questo invito sarebbe destinato a cadere nel vuoto se non vi fosse una coscienza che lo raccogliesse, riconoscendolo. In questo senso, la semplice esistenza delle cose delinea solamente i contorni di un’azione possibile, di cui non te, parlare: si veda in proposito quel che Bergson scrive nella Prefazione al Saggio sui dati immediati della coscienza e alle pp. 83-85 della stessa opera. 25. H. Bergson, Materia e memoria, tr. it. cit., p. 137.

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sapremmo nulla senza l’intervento della memoria, che – come abbiamo osservato nel capitolo precedente – opera il «riconoscimento» selettivo. Possiamo affermare, allora, che l’esistenza implica l’azione possibile: affinché l’azione passi alla realtà, occorre l’apporto determinante della memoria. Da ciò traiamo una prima importante conseguenza: “esistenza”, per Bergson, non significa direttamente “realtà”, nel senso che essa non basta (da sola) a determinare l’azione reale. Perché si dia realtà, è anche richiesta una coscienza che riconosca l’appello lanciato nella percezione attuale dall’esistenza dell’oggetto esterno: ciò è inevitabile, dal momento che (come sappiamo sin dal Saggio del 1889) ciò che è reale è durata, e la durata è coscienza. Ne consegue che l’esistente diventa per noi reale in quanto, essendo l’essere umano costitutivamente predisposto a riconoscere l’esistenza e a servirsene utilmente, comprendendo la possibilità di agire su di essa, ciò che esiste è necessariamente in rapporto alla coscienza. Scrive Bergson: «l’esistenza sembra implicare due condizioni riunite: Ia. La presentazione alla coscienza; IIa. La connessione logica o causale di ciò che è così presentato con ciò che precede o ciò che segue»26. Come la memoria esiste e si attiva per rispondere alle esigenze delle circostanze attuali, così l’azione esiste per sollecitare il soggetto ad agire, cioè esiste necessariamente in rapporto alla coscienza. A questo punto occorre precisare ulteriormente che, come già si è visto in precedenza, il riconoscimento delle immagini da parte della memoria e la conseguente trasformazione dell’azione da virtuale a reale, non avvengono casualmente ma sulla base della selezione dei ricordi utili: sono questi ricordi che, in sé puramente virtuali, si attualizzano prolungandosi nella percezione concreta. 26. Ivi, p. 124.

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Si realizza, così, una sorta di “doppio riconoscimento”: da un lato, la coscienza riconosce l’esistenza esterna, la cui funzione è proprio quella di essere riconosciuta per poter essere utilizzata; dall’altro, attraverso la memoria la coscienza riconosce, seleziona e avvia all’attualizzazione i ricordi puri (virtuali) utili al compimento dell’azione abbozzata. A questo punto, possiamo riprendere il filo del ragionamento deleuziano circa la «gradualità» di cui Bergson parla in riferimento alla memoria: poiché la memoria non è un mero esistente, come le cose materiali esterne, ma è quella durata reale che rende gli oggetti esterni fruibili ai fini dell’azione, comunicando loro qualcosa (ciò che è utile per il presente) della propria realtà, è chiaro che con il termine «gradualità» Bergson intende indicare i diversi livelli di coinvolgimento della memoria (dello spirito) nei processi dell’attività presente. Egli, cioè, non parla propriamente di differenze di grado ma di diversi livelli di attualità (contrazione) o virtualità (distensione) della memoria, indicanti le diverse modalità con le quali la coscienza soggettiva si rapporta – per il tramite della percezione – alla materia esterna. La «gradualità» di cui parla Bergson è, per quanto possa apparire paradossale, piuttosto una modalità di coscienza: non misura un’intensità ma esprime (in maniera certamente equivocabile) i differenti piani di coscienza (le sezioni intermedie del cono, volendo riprendere l’immagine già richiamata), attraverso i quali la memoria si confronta con la percezione: in altre parole, il concetto bergsoniano di «progresso» della memoria verso la percezione – ed è bene chiarire rigorosamente questo punto fondamentale – non configura un movimento misurabile, ma è il modo d’essere stesso della coscienza. Come ben sappiamo dal Saggio sui dati immediati della coscienza, infatti, è la traiettoria (sia essa di Achille o della lancetta di un orologio) che noi possiamo distinguere in gradi, scomporre in parti rigide, ricomporre arbitrariamente e misurare. Per la coscienza le cose stanno

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diversamente: dati i limiti linguistici ai quali siamo sottoposti, possiamo esprimerci solo dicendo che la memoria «procede» verso la percezione, che questo «progresso» si svolge su «piani diversi» secondo una sua «gradualità», ma mai – con Bergson – dobbiamo credere che questo modo di esprimere la vita di coscienza sia assimilabile ai fenomeni spaziali, in sé privi di durata. La coscienza non muove né si muove: piuttosto, verrebbe da dire con Husserl, intenziona. Essa è un regno di modalità riferite ai molteplici tipi di atti coscienziali, a loro volta riferiti agli oggetti corrispondenti: non c’è, in questo “regno”, alcuno spazio per la misurazione quantitativa, dal momento che i suoi “abitanti” (le sue modalità) non sono cose ma forme mediante le quali, semmai, le cose sono apprese. Risulta chiaro, peraltro, che la reciprocità di memoria e percezione è data in quanto l’azione è di per sé solamente possibile, mentre i ricordi puri sono per se stessi solamente virtuali: possibilità dell’azione e virtualità dei ricordi convergono, attualizzandosi, nella percezione concreta. La virtualità della memoria non è essa stessa, però, possibilità; così come la possibilità dell’azione non è la virtualità dei ricordi. Anche questo punto è chiarito da Deleuze27: la virtualità dei ricordi coincide con la loro latenza, nel senso che essi continuamente esistono (nella memoria spontanea), ma si rendono coscienti solo a certe condizioni. L’azione, invece, può essere compiuta come anche non compiuta: gli oggetti esterni lanciano un invito, ma spetta al soggetto darvi seguito coscientemente. In questo senso, l’azione non è un’esistenza virtuale che atten-

27. Deleuze si sofferma con particolare attenzione su questa distinzione tra virtualità e possibilità, analizzando approfonditamente gli argomenti mediante i quali Bergson rifiuta l’applicazione del concetto di possibilità alla memoria ed evidenziando il rapporto ambiguo e paradossale che la legherebbe alla realtà. Cfr. G. Deleuze, Il bergsonismo, cit., pp. 7 sgg. (nella critica ai falsi problemi filosofici) e pp. 86 sgg.

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de di passare all’attualità, ma è propriamente una possibilità: qualcosa che può essere, come anche non essere – in ogni caso non qualcosa che c’è già. Da un lato, questo ragionamento sembra confermare che la virtualità (la latenza) dei ricordi puri va intesa, in Bergson, non come coesistenza ma come preesistenza, della quale non è però data la ragione fondante; dall’altro lato, l’assunto si ricollega alla tesi secondo cui l’esistenza dell’oggetto esterno implica solo la possibilità dell’azione e non anche la sua realtà, che è data solo con l’intervento della memoria nella percezione concreta. Ne risulta, ancora una volta, la centralità di quest’ultima nozione, sulla quale Bergson insiste per evidenziare come la nostra vita effettiva si dia, nell’orizzonte dell’autentico concetto di durata, come un «misto» di materia e memoria, nel quale l’impurità della coscienza è condizione assolutamente necessaria della nostra esistenza all’interno del mondo vivente – come Bergson dimostra nella maniera più conseguente ne L’evoluzione creatrice, dove il concetto di esistenza viene indagato dal punto di vista biologico e scientifico28.

28. Ne L’evoluzione creatrice, Bergson traduce il concetto di virtualità della memoria al livello dell’esistenza biologica degli esseri viventi: tra i diversi rami o tendenze di sviluppo delle specie viventi, come anche all’interno dello stesso ramo, non esistono differenze di grado ma solo di natura. L’evoluzione, infatti, procede come la memoria: ogni sistema evolutivo conserva l’impronta della propria origine, che viene progressivamente attualizzata e ci è costantemente “ricordata”. Questa particolare persistenza e pre-esistenza del Tutto nelle sue attualizzazioni costituisce la “realtà virtuale” della durata: si noti come questa posizione confermi, da un lato, la tesi di Ingarden secondo cui nel sistema bergsoniano «tutto è già dato» e non si costituisce mai nulla di propriamente nuovo e, dall’altro, la posizione per cui i ricordi puri (costituenti la base imprescindibile della memoria e dunque della durata stessa) sono posti come già dati, non-questionati. Sarebbe interessante connettere l’interpretazione ingardeniana al problema dell’origine dei ricordi puri: forse i ricordi puri non esibiscono ragione di sé perché rientrano nel tutto che è già dato e che, in quanto già dato, risulta inquestionato e inquestionabile? Evidentemente non può essere così: Ingarden stesso evidenzia che, se non

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proprio qualcosa di “nuovo”, nella coscienza si produce qualcosa di “differente”, dato dalle diverse combinazioni tra le quali il soggetto può scegliere nel selezionare i ricordi utili all’esecuzione dell’azione attuale. Bergson spiega come si forma questo “differente” e, spiegandolo, dà conto – come ho cercato di mostrare – dei vari elementi che entrano in gioco in questo processo: solo rispetto all’origine dei ricordi puri egli appare reticente, e la difficoltà non può essere superata ipotizzando che tali ricordi non possano essere spiegati, in quanto costituiscono il fondamento della memoria e della coscienza. La coscienza, infatti, non “è fondata”: essa semplicemente è, non ha senso chiedersi da dove derivi e sarebbe impossibile rispondere. I ricordi puri, invece, sono delle formazioni psichiche: non nel senso che essi – come giustamente evidenzia costantemente Bergson – si trovino in un luogo della psiche o siano qualcosa di materiale, ma nel senso che risultano da qualche attività spirituale e permettono a loro volta l’attività del ricordare. Mentre è chiaro, nel ragionamento bergsoniano, come i ricordi puri permettano l’articolarsi del ricordare, molto meno chiaro appare in che modo il soggetto li abbia prodotti: è certo, infatti, che il soggetto li ha prodotti in qualche modo, poiché quei ricordi sono i suoi ricordi. Non si capisce, tuttavia, in che modo ciò sia avvenuto. Per risolvere questa difficoltà bisognerebbe forse approfondire il concetto, che Bergson non ha trattato sistematicamente, di «inconscio», di «latenza» dei ricordi in quanto puramente virtuali: solo tale nozione, infatti, è in grado di rivelare la soggettività come uno “spazio” costitutivamente non trasparente o non del tutto trasparente (impuro, per usare il termine bergsoniano), in cui l’illusione di spiegare razionalmente tutti i nostri stati psicologici e di averne costantemente il pieno controllo verrebbe svelata per quello che è, cioè appunto un’illusione. Si tratta, però, di un approfondimento che non può essere svolto in questa sede, dove mi basta accennare ad un’ulteriore considerazione: il concetto di inconscio, come esso è pensato dalla psicoanalisi freudiana (cui evidentemente mi sto qui richiamando), viene in qualche maniera “spiegato” attraverso l’interpretazione psicoanalitica, aprendo all’eventuale scomparsa del sintomo. Si arriva, in qualche modo, a una “razionalizzazione”: nell’analisi il paziente “si rimette” ricordando eventi rimossi che si pongono all’origine del malessere psichico e il cui riconoscimento costituisce il primo passo per riuscire a “scaricare” il sintomo; si tratta, ad ogni modo, di un “ricordare” e di un “riconoscere” chiaramente diversi da quelli ai quali pensa Bergson. Bisognerebbe verificare se il riferimento alle nozioni freudiane di inconscio e interpretazione psicoanalitica riuscirebbe effettivamente a render conto dell’inconscio dei ricordi puri (che non sono, tecnicamente, dei rimossi), così come è efficace nello spiegare il “rimosso” freudiano.

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Capitolo quarto

Stratificazioni della coscienza temporale in Husserl

1. Percezione e fantasia L’analisi del concetto di memoria in Husserl non può prescindere da una più puntuale chiarificazione dell’essenziale differenza, che è al tempo stesso una necessaria implicazione, sussistente tra ritenzione e rimemorazione. La distinzione tra le due è introdotta da Husserl al §19, ma essa viene costantemente richiamata nel corso delle Lezioni ed associata al concetto di «presentificazione». Quest’ultimo termine è applicato da Husserl anche alla nozione di fantasia: si tratta, però, di due presentificazioni essenzialmente differenti, come risulta dal §23 su fantasia e rimemorazione. La distinzione tra fantasia, ritenzione e rimemorazione deve essere chiarita opportunamente, poiché essa sta alla base della critica husserliana alla legge psicologica di Brentano, dalla quale abbiamo preso le mosse per il confronto con Bergson. Al §23 leggiamo che nella mera fantasia «non è data alcuna posizione dell’ora riprodotto, né alcuna coincidenza di esso con uno passato»: ciò rivela la necessità di connettere la fantasia, da un lato, al dominio delle rappresentazioni intuitive «non in carne e ossa» e, dall’altro, all’ambito delle modalità di

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coscienza non posizionali ma «neutrali». In entrambi i casi si evidenzia la mancanza di rapporto all’essere (alla percezione), tipica della fantasia: mentre il contenuto che la percezione presenta è un essere individuale, un dato esposto in maniera propriamente intuitiva e dossica (cioè, appunto, posizionale), quel che è dato nella fantasia non è un contenuto intuitivo ma presentificato in modalità «non-tetica». Husserl chiarisce, così, la differenza tra percezione come atto originalmente offerente e fantasia come modificazione di neutralità della coscienza percettiva: distinguendo, poi, tra presentificazioni non-tetiche (come la fantasia) e presentificazioni tetiche (come il ricordo, l’aspettazione etc.), Husserl pone anche i presupposti per distinguere tra fantasia e rimemorazione1. La mera fantasia costituisce la modificazione di neutralità delle presentificazioni tetiche (percettive o anche, per esempio, memorative): ciò significa che i vissuti di fantasia non vengono propriamente intuiti ma soltanto presentificati in una modalità diversa (neutrale) da quella originale. Io mi rappresento tali vissuti «come se» li intuissi attualmente e questo «come se» è l’indice della modificazione di neutralità della coscienza2. Nell’apparizione fantastica l’oggetto non è presente in carne e ossa, ma io “quasi” lo vedo, la sua immagine mi fluttua davanti agli occhi in maniera analoga, ma evidentemente modificata, a come nella percezione mi fluttua davanti agli occhi l’oggetto stesso: in che modo si traduce tutto ciò nel campo della coscienza interna del tempo? La sfera della fantasia, contra-

1. Sulla distinzione tra coscienza dossica originaria, posizionalità e neutralità delle possibili modalità di coscienza, necessaria per comprendere la differenza tra fantasia, ritenzione e rimemorazione, non si può prescindere dal rinvio alle pagine di HUA/III- 1, tr. it. cit., §§103 sgg. Si veda anche l’illuminante commento di R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, cit., pp. 188 sgg. 2. Cfr. HUA/X, tr. it. cit., appunto nr. 2, p. 177.

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riamente a quanto riteneva Brentano, non può essere intesa come l’originario campo costitutivo delle rappresentazioni temporali: essa, infatti, non espone realmente e originariamente un rapporto temporale, ma si limita a rappresentarlo. Essa non è l’assoluta origine di tali rappresentazioni, bensì rimanda a una sfera più originaria, nella quale il contenuto che essa rappresenta è (stato) presentato. Scrive Husserl, nell’appunto nr. 9, che «l’apparizione fantastica sta in rappresentanza dell’apparizione percettiva e, mediatamente, dell’oggetto»: la sfera autenticamente originaria è dunque la percezione, unico atto offerente «nell’originale», in quanto solo ad essa «appartiene di essere posizione di “qualcosa in se stesso” o posizione originaria». In questo senso, la nozione di fantasia si oppone direttamente a quella di percezione, che viene a svolgere ancora una volta il ruolo di ago della bilancia. In un passo particolarmente significativo Husserl riassume: [...] la coscienza del tempo non scaturisce dalla fantasia, nel senso di una immaginatività, ma puramente dalla percezione. Ma la coscienza percettiva si modifica e digrada entro un genere. Tale coscienza è coscienza di presenza, in cui c’è un ‘presente-in-se stesso’ il quale digrada poi, e continuamente, nell’‘appena-statopresente’. Il modo della percezione digrada e procede la vera e propria coscienza del tempo. Il modo della fantasia digrada parallelamente e produce coscienza del tempo di fantasia3.

In questo passo è ribadito con forza il primato della coscienza percettiva ai fini dell’autentica coscienza del tempo, nella sua radicale opposizione alla coscienza puramente fantastica; nel contempo, è posto il fondamento della differenza tra ritenzione e fantasia. La coscienza ritenzionale (che è «la vera e propria coscienza del tempo») è la modalità nella quale «digrada», secondo un rapporto di connessione diretta, la coscienza percettiva; il «modo della fantasia», invece, digrada solo paral3. Ivi, p. 225.

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lelamente al momento percettivo, con il quale non è in connessione diretta. Sin dal §11 sappiamo che l’originaria coscienza impressionale è sottoposta ad un mutamento costante in virtù del principio di modificazione ritenzionale: come coscienza originariamente offerente, la percezione è coscienza di un «presente-in-se stesso» che, sulla base di quel principio (per il quale ogni «ora» percettivo in carne e ossa trapassa in un «già stato»), si modifica digradando nella coscienza dell’«appenastato-presente». La «vera e propria coscienza del tempo» muove dunque dalla percezione, ma coincide con la ritenzione direttamente connessa al momento percettivo: in altre parole, essa coincide con la percezione adeguata del contenuto temporale immanente, che consiste proprio nell’atto composto di coscienza «d’ora» e coscienza ritenzionale. Il contenuto oggetto di ritenzione può eventualmente essere “fantasticato”, presentificato in una rappresentazione di fantasia: quest’ultima, però, è un atto eventuale che si colloca su un piano altro e parallelo rispetto a quello della percezione adeguata, non rientra in questa e ne costituisce piuttosto una delle possibili modificazioni di coscienza. Tra percezione e ritenzione c’è un continuo e necessario trapasso, costituente la percezione adeguata: tra percezione adeguata e fantasia non c’è, invece, alcun necessario trapasso. Ciò dipende dal fatto che apparizioni di fantasia e apparizioni di percezioni differiscono di principio, dal momento che – come Husserl scrive nell’Appendice II – le prime contengono modificazioni presentificative di sensazioni («fantasmi»), mentre le seconde contengono propriamente sensazioni: a questo punto è necessario chiarire, prima di procedere oltre, il rapporto sussistente tra percezione e sensazione, qui richiamato da Husserl.

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2. Sensazione e percezione Nel suo saggio Tempo intuitivo o tempo invisibile? Husserl di fronte a Kant4, Paul Ricœur ha problematizzato l’analisi fenomenologica della coscienza interna del tempo contenuta nelle Lezioni del 1904-05, tematizzando anche la distinzione (presente già al §1) tra sensazione e percezione: Husserl distingue tra «rosso sentito» e «rosso percepito», e specifica che solamente il rosso sentito è un dato fenomenologico, poiché esso «espone» una qualità obiettiva, pur non essendo esso stesso una qualità. Il rosso percepito, invece, è «una qualità in senso proprio», un «carattere costitutivo della cosa che appare» e come tale, posta la messa fuori causa del tempo obiettivo, non costituisce un dato fenomenologico. Nel campo della coscienza interna del tempo, abbiamo dunque un «temporale sentito» e un «temporale percepito»: quest’ultimo espone il tempo obiettivo, mentre il primo rappresenta il dato fenomenologico5. L’interpretazione di Ricœur è guidata dalla convinzione che nelle Vorlesungen Husserl tenti di costruire un «discorso sull’iletica, suprema scommessa della fenomenologia della coscienza interna del tempo», attraverso un metodo che riesca nell’ambizione di «sottoporre ad una descrizione diretta l’apparire del tempo in quanto tale»; in questo suo obiettivo, però, Husserl incapperebbe in una serie di aporie, derivanti dalla difficoltà di condurre l’analisi del tempo immanente «senza ripetuti prestiti nei confronti del tempo obiettivo messo fuori circuito»6. Una di queste aporie sarebbe costituita proprio dalla distinzione fenomenologica tra sensazione e percezione: Ricœur trova contraddittorio che

4. Cfr. P. Ricœur, Temps et récit, Seuil, Paris 1985, tome III (Le temps raccontée); tr. it. a cura di Giuseppe Grampa, Tempo e racconto, Jaca Book, Milano 1988, vol. III (Il tempo raccontato). 5. Cfr. HUA/X, tr. it. cit., §1. 6. Cfr. P. Ricœur, Tempo intuitivo o tempo invisibile?, tr. it. cit., pp. 37-39.

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Husserl identifichi il dato fenomenologico con il contenuto «sentito» e non con quello «percepito», poiché ciò confligge con lo spirito della fenomenologia. Tutta la filosofia husserliana, osserva Ricœur, è una fenomenologia della percezione e «per una tale fenomenologia, una iletica del sentito non può essere che subordinata ad una noetica del percepito»: ciò sarebbe necessario in quanto «l’Empfindung (sensazione, impressione) è da sempre superata nella prospettiva della cosa. L’apparire per eccellenza è quello del percepito, non quello del sentito» – scrive Ricœur nelle prime pagine del suo saggio. Da questa fondamentale aporia deriverebbero tutte le altre, che sono analizzate nel prosieguo del testo ricœuriano, e che conducono in ultima analisi all’esito paradossale per cui (come Ricœur afferma, riprendendo la definizione di Gérard Granel) le Lezioni sarebbero una sorta di «fenomenologia senza fenomeni», nella misura in cui il dato fenomenologico non è identificato con il contenuto percepito. Al §40 delle Lezioni, Husserl elenca gli atti e le oggettualità immanenti che residuano dalla messa fuori causa del tempo obiettivo: sono, scrive, «i dati di sensazione (sia pure inavvertiti), come un rosso, un blu, e simili; poi le apparizioni (apparizione di casa, di ambiente ecc.), che ad esse e ai loro oggetti si presti attenzione o no; quindi gli “atti” dell’enunciare, desiderare, volere ecc. e le rispettive modificazioni riproduttive (fantasie, ricordi)». Ora, per quanto concerne i dati di sensazione, Husserl afferma, come ricorda Sokolowski7, che ogni atto intenzionale consta di due elementi, la qualità e la materia dell’atto: la prima determina il tipo di atto intenzionale, mentre la seconda espone l’elemento di mediazione attraverso cui l’atto è riferito all’oggetto corrispondente (al

7. Cfr. R. Sokolowski, The Formation of Husserl’s Concept of Intuition, Martinus Nijhoff, The Hague 1964, pp. 47 sgg.

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“noema”). Nel momento in cui approderà alla prospettiva genetica, Husserl riconoscerà che questo elemento è appunto da identificarsi con il dato di sensazione, il quale sarà riconosciuto come intrinsecamente dotato di un carattere intenzionale: inizialmente, però, e in special modo nelle Lezioni del 1904-05, il punto di vista husserliano appare alquanto diverso. Leggiamo al §1: «il “rosso” sentito è un dato fenomenologico che, animato da una certa funzione apprensionale, espone una qualità obiettiva; non è esso stesso una qualità. Una qualità in senso proprio, ossia un carattere costitutivo della cosa che appare, non è il “rosso” sentito ma quello percepito»8. Analogamente, Husserl distingue tra dato temporale sentito e dato temporale percepito, identificando nel primo l’autentico dato fenomenologico. In questo caso, il dato sensoriale acquista rilievo solo in quanto sia animato da una corrispondente apprensione e non è intrinsecamente dotato di intenzionalità, la quale è attribuita unicamente all’atto: qui Husserl adotta uno speciale schema esplicativo, che la critica ha definito “matter-form scheme”, in virtù del quale all’interno del contenuto reale del vissuto è operata una distinzione tra elemento iletico, che espone la materia sensibile, e morphè intenzionale, corrispondente all’apprensione animante quella stessa materia sensibile. Questo schema teorico riaffiora ancora in Idee I, dove leggiamo: «nella concreta unità della percezione i dati sensibili sono animati dalle “apprensioni”, e in questa animazione esplicano la “funzione presentativa”, ossia costituiscono, unitamente con questa, ciò che noi diciamo “il manifestarsi del” colore, “della” figura, ecc.»9. I dati di sensazione sono latori di intenzionalità, ma non sono in se stessi “coscienza di”: nel contempo, pur essendo di per sé privi di intenzionalità, essi costituiscono (proprio perché espongo8. HUA/X, tr. it. cit., parte I, Introduzione, §1, p. 46. 9. HUA/III-1, tr. it. cit., sez. II, cap. II, §41, p. 99.

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no il “manifestarsi di”) l’autentico dato fenomenologico. Di contro, la percezione espone piuttosto l’essere, che solo in quanto sentito appare anche alla coscienza. Alla sensazione corrisponde dunque il manifestarsi, l’apparire del fenomeno; alla percezione corrisponde, invece, l’essere della cosa. Ora, è chiaro che “fenomeno” e “cosa” stanno tra loro in relazione: la stessa cosa percepita, in quanto appresa mediante adombramenti (sentita), è esplicitata nel suo carattere intenzionale e fenomenizzata in rapporto alla coscienza. L’adombramento è la modalità con cui la cosa appare alla coscienza in quanto esperita in un vissuto intenzionale, ma il vissuto stesso non si adombra: la sensazione non è una duplicazione del colore percepito ma, come osserva giustamente Vincenzo Costa, «funge da base per un’interpretazione obiettivante» tale per cui «se si confondesse il dato reale con il dato intenzionale non potremmo più dare ragione della differenza tra l’apparire e l’essere»10. Il fenomeno rinvia all’essere, senza alcuna riduzione dell’uno all’altro: esso espone una qualità obiettiva (eventualmente percepita) e appunto perciò funge da «base per un’interpretazione oggettivante». La distinzione tra sensazione e percezione ha dunque il senso primario di chiarire cosa debba intendersi per “dato fenomenologico”, ma risponde anche a un’esigenza teorica più profonda da parte di Husserl: abbiamo visto che la sensazione implica un’assegnazione dell’intenzionalità tutta dalla parte dell’attività, dell’apprensione, mentre la percezione (esponendo l’obiettività in quanto tale, le sue qualità reali) mantiene un certo riferimento alla trascendenza. Per questo motivo, Husserl identifica il dato fenomenologico con il dato sentito e non con quello percepito: ciononostante, nel resto 10. V. Costa, L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl, Vita e Pensiero, Milano 1999, pp. 73-74.

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delle Lezioni Husserl si riferirà prevalentemente al concetto di percezione nel delineare i processi di costituzione temporale. Ciò accade innanzi tutto perché, prima di apparire alla coscienza come fenomeno (in quanto “sentita”), la cosa deve essere realmente, e venire “percepita” in quanto tale. Come sappiamo, è infatti nella percezione che va cercata la risposta ad ogni quesito sull’esistenza individuale. Inoltre, il problema che guida Husserl nelle Lezioni consiste nel «porre nel loro giusto rapporto il tempo obiettivo e la coscienza soggettiva del tempo, di renderci comprensibile come l’obiettività temporale, e quindi l’obiettività in genere, possa costituirsi nella coscienza soggettiva del tempo»11. L’analisi è dunque finalizzata a spiegare la costituzione del tempo obiettivo, che risulterà pensabile solo a partire dalla nozione di temporalità fenomenologica12: se questo è il fine generale, è chiaro che l’attenzione andrà focalizzata sulla percezione, dal momento che proprio questa espone l’obiettività con le sue qualità reali, pronte per l’apprensione di tipo intenzionale. È evidente, comunque, che una tale impostazione del problema, fondata sul matter-form schema, dovrà essere corretta col passaggio alla fenomenologica “genetica”: finché si permane nella prospettiva “statica” adottata ancora nelle Ricerche logiche, i dati sensoriali restano di per sé non intenzionali, in quanto «nella percezione sensibile la cosa “esterna” ci appare di colpo, non appena su di essa cade il nostro sguardo. Il modo in cui essa fa apparire la cosa come presente è semplice, non

11. HUA/X, tr. it. cit., parte I, Introduzione, p. 43. 12. Scrive Husserl nell’Appendice X: «l’obbiettivazione del tempo dovrà pure avere il suo contenuto “d’esposizione” nel fenomeno, e dove l’avrà se non nella sua temporalità fenomenologica?»; ivi, parte II, Appendice X, p. 146.

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vi è bisogno dell’apparato degli atti fondanti o fondati»13. La percezione nel suo importo effettivo appare qui come «priva di storia» da un punto di vista genetico: tale “storia” subentrerà solo con il passaggio attraverso le analisi condotte nelle Lezioni sulla sintesi passiva. D’altronde, già nelle Vorlesungen del 1904-05, che pure lo utilizzano, lo schema viene riconosciuto da Husserl come insufficiente: sin dal §1, in nota, Husserl rileva che la distinzione tra sensazione e percezione lascia «indeciso se il sentito stesso sia già costituito e, magari, in tutt’altro modo dal sensibile. – Ma è meglio lasciare senz’altro da parte questa distinzione; non ogni costituzione ha lo schema “contenuto apprensionale-apprensione”»14. In effetti, seguendo Sokolowski possiamo individuare tre casi in cui lo schema sembra non funzionare: in primo luogo, esso non è utilizzabile in riferimento alle intenzioni come oggetti immanenti (le quali non contengono di per sé elementi temporali); in secondo luogo, è inefficace rispetto alle sensazioni come oggetti immanenti (in quanto produrrebbe un problematico “effetto inconscio”); infine, e conseguentemente, non è applicabile alla costituzione del tempo obiettivo (che dipende dalla temporalità di coscienza e dunque dall’intenzionalità, per cui se questa non risponde allo schema, nemmeno il tempo obiettivo su di essa fondato può rispondervi)15. Tornando alla critica di Ricœur, a me pare che questi interpreti come una contraddizione insuperabile una distinzione, quella appunto tra sensazione e percezione, che nello svolgimento della riflessione husserliana si chiarisce e precisa: il passaggio risolutivo è proprio quello in cui Husserl distingue tra 13. HUA/XIX: Logische Untersuchungen. Zweiter Teil: Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, hrsg. v. U. Panzer, Martinus Nijhoff, Den Haag 1922; tr. it. a cura di G. Piana, Ricerche logiche, vol. II, il Saggiatore, Milano 2005, p. 450. 14. HUA/X, tr. it. cit., parte I, Introduzione, §1, nota 6, p. 46. 15. Cfr. R. Sokolowski, cit., p. 205.

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apparizione di percezioni e apparizioni di fantasia, in quanto le prime contengono sensazioni e le seconde “fantasmi”. Le apparizioni percettive contengono sensazioni: ciò significa che la differenza tra percezione e sensazione consiste nel fatto che la prima è un atto di coscienza, mentre la seconda costituisce il contenuto dell’atto di coscienza percettivo. Proprio in questo senso, il contenuto «sentito» è un dato fenomenologico: è ciò che è appreso mediante l’atto del percepire. Bisogna considerare attentamente quel che Husserl scrive nel §1: Il rosso sentito è un dato fenomenologico che, animato da una certa funzione apprensionale, espone una qualità obiettiva; non è esso stesso una qualità obiettiva. [...] Se in certe occasioni fenomenologiche si parla di una ‘coincidenza’ tra l’uno [rosso sentito] e l’altro [rosso percepito], bisogna fare attenzione che il “rosso” sentito acquista solo grazie all’apprensione il valore di momento in cui espone la qualità di una cosa, ma in sé considerato non contiene nulla.

La «funzione apprensionale» di cui si parla è, ovviamente, la percezione: il dato fenomenologico sentito, infatti, «dato per apprensione in carne ed ossa, rende coscienti di qualcosa di obiettivo che, quindi, diremo obiettivamente percepito». Il contenuto sentito espone una qualità obiettiva che viene colta come tale, facendo del contenuto stesso un contenuto obiettivo, attraverso l’atto di percezione: il «temporale sentito» è «il dato fenomenologico attraverso la cui appercezione empirica si costituisce il riferimento al tempo obiettivo». Ciò è confermato da un altro passo delle Lezioni, in cui Husserl scrive che «l’importo effettivo della coscienza di ‘ora’ può eventualmente contenere suoni sentiti che poi, nell’apprensione obbiettivante, vanno necessariamente caratterizzati come percepiti»16: possiamo riassumere dicendo che la percezione è l’atto che obiettiva la sensazione, la quale di per sé non è nulla di obiet16. HUA/X, tr. it. cit., p. 67.

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tivo, ma si riferisce ad una qualità obiettivamente afferrabile. Non bisogna dimenticare, ancora una volta, che lo scopo finale di Husserl è quello di spiegare come si arrivi alla costituzione del tempo obiettivo e di mostrare che tale costituzione può essere spiegata solo sulla base della preliminare epoché fenomenologica. La formazione del tempo obiettivo, infatti, scaturisce dalla coscienza interna del tempo, cioè dai vissuti fenomenologici: se questo è vero, sarà necessario mostrare – avendo messo fuori causa il tempo trascendente – che la percezione obiettivante si costituisce a partire dai dati puramente fenomenologici, e ne sfrutta il riferimento all’obiettività al fine di restituire quest’ultima non più come mera naturalità ma come una sfera fenomenologicamente fondata; a questo scopo rispondono, appunto, i contenuti di sensazione. In quest’ottica, l’«iletica del sentito» è effettivamente subordinata alla «noetica del percepito», e l’«apparire per eccellenza» resta quello percettivo, proprio come esige Ricœur: non potremo dire, però, che le Vorlesungen disegnerebbero una «fenomenologia senza fenomeni», dal momento che il contenuto percettivo (ciò che Husserl chiama «l’individuo concreto») non viene eliminato in favore dei puri contenuti di sensazione, ma messo in relazione ad essi, in una posizione peraltro primaria ai fini della costituzione del tempo obiettivo. D’altronde, se così non fosse, diventerebbe difficile spiegare il concetto stesso di coscienza ritenzionale e non si potrebbe parlare – come invece fa giustamente Ricœur – di un «primato della ritenzione»17 nelle Vorlesungen.

17. P. Ricœur, op. cit., p. 54.

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3. Ritenzione e rimemorazione Torniamo ora alla distinzione tra ritenzione e rimemorazione. Husserl distingue le presentificazioni in tetiche e non-tetiche: una presentificazione non-tetica, si diceva, è quella di fantasia, in cui l’oggetto temporale è rappresentato e non dato in se stesso. Abbiamo chiarito il senso di questa affermazione confrontando la fantasia con la percezione e arrivando alla conclusione che solo la percezione, e in nessun modo la fantasia, è coscienza originariamente costitutiva di tempo. Sapevamo, d’altronde, che ogni percezione è in connessione con una ritenzione: la fantasia doveva quindi necessariamente distinguersi anche dalla coscienza ritenzionale, e difatti si è visto che tra quest’ultima e la percezione c’è un trapasso continuo e necessario, mentre tra percezione (o ritenzione) e fantasia si dà, al massimo, un parallelismo. A questo punto, occorre problematizzare il “trapasso” strutturale tra impressione (percezione) e ritenzione teorizzato da Husserl. Esso implica, si è detto, che il puro “ora” sia coglibile solo come limite ideale del decorso temporale, ottenuto per astrazione. Ne consegue che la continuità di durata, presa senza questo limite ideale, costituirebbe il «puro e semplice ricordo»: Husserl ribadisce che «idealmente, la percezione (impressione) sarebbe allora la fase di coscienza che costituisce il puro “ora”, e il ricordo ogni altra fase della continuità. Ma si tratta appunto soltanto di un limite ideale: qualcosa di astratto che di per sé non può essere nulla»18. Lo “ora” ideale dell’apprensione-limite, infatti, non è completamente distinto dal “non-ora” ritenzionale, ma si media continuamente con questo e «a ciò corrisponde il continuo trapasso della percezione nel ricordo primario»19. Tanto l’impressione quanto la ritenzione hanno, dunque, uno

18. HUA/X, tr. it. cit., p. 74. 19. Ibid.

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statuto intuitivo, di presentazione (offerente): nel momento in cui si intendono pura coscienza di passato e pura coscienza d’ora come modalità-limite ideali, che in sé non possono essere “nulla”, proprio tale carattere intuitivo viene messo fenomenologicamente a rischio. Affermare, d’altronde, il continuo trapasso della percezione nella ritenzione significa asserire l’impossibilità di cogliere in se stessi il momento presente e quello passato – a meno, appunto, di considerarli dei limiti ideali, la cui consistenza fenomenologica apparirebbe tuttavia assai depauperata di intuitività, poiché si dovrebbe procedere ad una loro assunzione astrattiva. Sembra, allora, che lo sforzo husserliano di “vedere” il passato nella ritenzione vada incontro ad alcune difficoltà strutturali: in particolare, appare problematico garantire insieme l’originarietà intuitiva e la coglibilità in se stessi dei caratteri temporali. L’aporia in questione è stata già evidenziata da Alessandra Penna, che ha rilevato come l’impressione originaria «dovrebbe essere – in quanto momento iniziale del darsi di alcunché alla coscienza e quindi tale da innescare il processo temporale – il luogo originario, la fonte della temporalità; per altro verso, si è cercato di evidenziare lo sfuggire dell’impressione originaria a qualsiasi possibilità di coglimento se non a partire da ciò in cui essa si è trasformata, ovvero la ritenzionalità, col risultato della inafferrabilità proprio di ciò che originariamente articola il processo temporale»20. Secondo Penna, la conseguenza di questa aporia è il permanere di fatto unbewusst della Urimpression, nella misura in cui il suo darsi, sempre mediato alla ritenzione, pare coincidere con il suo venir meno: ciò

20. A. Penna, La costituzione temporale nella fenomenologia husserliana (1917/18-1929/34), Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 2007, p. IX. Sul tema generale della costituzione temporale in Husserl, si veda anche N. Zippel, Tempo e metodo. Il problema del soggetto nella fenomenologia di Edmund Husserl, Nuova Editrice Universitaria, Roma 2007.

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sembra pregiudicare anche in Husserl, come per altro verso in Bergson, l’effettiva datità di un “nuovo” in senso originario. Nel tentativo di superare queste difficoltà, Husserl ricorre alla comparazione della coscienza ritenzionale con la coscienza rimemorativa, mediante il passaggio alla modalità della riflessione: questa permetterebbe il coglimento del flusso temporale di coscienza (e dunque della stessa Urimpression come suo elemento), ma presenterebbe nel contempo un problematico «carattere sempre nachträglich»21 rispetto all’immediatezza intuitiva dell’Urimpression. Nell’articolazione dell’impressione originaria si produce, in definitiva, un conflitto tra statuto intuitivo, e dunque originaria esperibilità dell’impressione stessa, e suo statuto riflessivo, implicato sia dalla sua caratterizzazione come “punto limite ideale” che dalla mediazione con la ritenzione. Se pure pare prodursi, qui, una sorta di “circolo fenomenologico”, mi pare che la relativa aporeticità sia attenuata dal suo carattere strutturale, ossia dalla sua inevitabilità costitutiva per la coscienza temporale22. Se non c’è durata che sia composta di mere istantaneità; se, dunque, non c’è durata senza successione e unità della successione; se, infine, non c’è unità della successione in mancanza di un legame coscienziale (memorativo) tra gli istanti-ora; allora è inevitabile che la situazione configurata dalla percezione adeguata, vale a dire il misto di coscienza d’ora e coscienza ritenzionale, costituisca un dato di partenza originario – che sopporta, così direi, le difficoltà che pure ne conseguono, ma non ne è minato nel suo carattere di fondamento. Proporrei di visualizzare nel seguente schema, ispirato al diagramma del 21. Ivi, p. XII. 22. Mi discosto, così, dalle conclusioni di Alessandra Penna che, ricostruendo l’evoluzione della problematica sin nei Bernauer Manuskripte e nei Manoscritti-C dedicati alla costituzione temporale, ravvisa una sostanziale irresolubilità della questione in Husserl, che danneggerebbe l’impianto stesso della fenomenologia mettendone in crisi il fondamento.

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tempo proposto da Husserl al §10 delle Lezioni, il rapporto di strutturale implicazione tra impressione e ritenzione:

S’intenda il quadrante (x,y) del piano cartesiano come indicante il campo di coscienza impressionale (percettivo): nell’origine degli assi starebbe l’impressione originaria, a partire dalla quale inizia il decorso temporale che si svolge lungo l’asse delle x, scandendo una serie successiva di punti ora t(l), t(2), t(3) etc. Il decorso (la linea del tempo) “procede” punto dopo punto, ma ciascun “ora” sprofonda indietro, all’avanzare del decorso, divenendo un “appena-stato”. Questo sprofondamento è attestato dall’asse delle ordinate; a ciascun punto-ora, infatti, corrisponde una ordinata negativa (giacché, appunto, gli istanti “si eclissano” nel passato ritenzionale): essi sono indicati, sull’asse delle y, dai punti -t(l), -t(2), -(t3) etc. Il trapasso dai punti-ora attuali ai punti-ora ritenzionali è reso dalla retta tracciabile nei punti A, B, C, che indicano le intersezioni di ascisse e ordinate: il decorso così individuato si svolge nel quadrante (x, -y), che è in parte percettivo (positivo) e in parte ritenzionale (negativo). Esso indica, dunque, il decorso della percezione adeguata dell’oggetto temporale: apporterò tra poco una sostanziale integrazione allo schema, per visualizzare in esso anche il ruolo svolto dalla rimemorazione.

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Se impressione e ritenzione, dunque, sono coscienze tetiche, mentre la fantasia è una presentificazione non-tetica, la rimemorazione si configura come una forma di presentificazione tetica. Per comprenderne l’esatto significato, sarà necessario riferirsi ancora alla percezione: sappiamo, infatti, che questa è presentazione dell’oggetto, mentre la presentificazione ne è una rappresentazione. Occorre chiarire, ora, che cosa si debba intendere per “rappresentare”: la rappresentazione prodotta da una presentificazione tetica, infatti, è diversa da quella prodotta da una presentificazione non-tetica (fantastica), nel senso che un contenuto “fantasticato” – come sappiamo dalla critica a Brentano – non costituisce un contenuto temporale. L’atto del fantasticare è un atto che, come tutti gli atti di coscienza, si caratterizza temporalmente ed è dotato di una propria durata: ciò che in esso è consaputo, però, non è nulla di “temporale”, in quanto non si collega in alcun modo alla coscienza percettiva (unica fonte della coscienza del tempo) e, anzi, ne costituisce la modificazione di neutralità. La rimemorazione, invece, è memoria: in esso è reso “come presente” qualcosa di temporale. In che modo ciò avviene? Quando diciamo che la presentificazione «rende presente» un contenuto, intendiamo dire – afferma Husserl al §17 – che essa «quasi ce lo propone in immagine, sebbene non proprio nella maniera di un’autentica coscienza d’immagine». Ciò significa che la rimemorazione somiglia a una coscienza d’immagine, ma non dobbiamo cadere nell’errore di confonderla con essa: il “ricordare” non si costituisce come una sedimentazione di immagini, poiché non è possibile stabilire rapporti temporali tra “immagini” e neppure disponiamo di un criterio (a parte la fantasia, che – ormai lo sappiamo – non è coscienza di tempo) per caratterizzare certe immagini come “temporali”. Il ricordo “per immagini” non è realmente ricordo, non contiene immagini «passate» né fornisce qualche criterio per poter affermare che il contenuto di tali immagini è «passato». Secondo John B. Brough, Husserl rifiuta la teoria del ricor-

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do come costruzione per immagini proprio in considerazione del loro carattere di «psudo-past»23. Ma, allora, in che senso la rimemorazione “rappresenta” un contenuto temporale? Perché la definiamo una presentificazione tetica? Nella pura fantasia non è data alcuna posizione dell’«ora» presentificato, non è posta alcuna determinazione temporale reale di tale «ora»; la rimemorazione, invece, «pone ciò che riproduce e, in tale posizione, gli assegna un posto rispetto all’ora attuale e alla sfera del campo temporale originario»24. Torna qui il termine, assolutamente cruciale, di «posizione». Dopo aver negato il carattere posizionale alla fantasia, Husserl lo assegna alla rimemorazione: è per questo che essa si configura come presentificazione tetica. Si pone, allora, il problema di distinguere la rimemorazione come atto offerente dalla percezione come atto originalmente offerente: una prima differenza consiste, appunto, nel carattere di modificazione e secondarietà della rimemorazione rispetto all’originalità della percezione. Ciò che il ricordo secondario (o rimemorazione) presenta come atto tetico, infatti, è stato già appreso percettivamente, e appunto perciò può essere “rimemorato”: la rimemorazione quale atto offerente “assomiglia” alla percezione ed è, come vedremo, in rapporto ad essa – ma non è propriamente percezione. Al §27 Husserl precisa la questione con un esempio molto chiaro, quello del “teatro illuminato”: se diciamo di ricordarci del teatro illuminato nel quale ci siamo recati tempo addietro, intendiamo esprimere linguisticamente la particolare esperienza per cui «dentro di me vedo il teatro illuminato, al passato. Nell’ara vedo il non ora». Questo significa che all’interno della mia coscienza io riproduco la visione del teatro che ho visto illuminato: nel far ciò, 23. Cfr. J.B. Brough, Husserl on Memory, in Critical Assessments of Leading Philosophers. Edmund Husserl, cit., vol. III/50. 24. HUA/X, tr. it. cit., p. 83.

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io vedo di nuovo il teatro come qualcosa di presente «ora» e di percorribile con gli occhi della mente, benché io sappia che tale “presenza” del teatro non è realmente tale e che non la sto “vedendo” con i miei occhi fisici. È esattamente questa l’essenza della «presentificazione tetica» di tipo memorativo: in essa io procedo come se nella mia coscienza stessi compiendo nuovamente la percezione del teatro illuminato; ripercorro, cioè, la percezione originaria del teatro sovrapponendo la coscienza riproduttiva all’originaria coscienza percettiva del contenuto immanente. Questa sovrapposizione comporta che la riproduzione memorativa del teatro illuminato occupa necessariamente la stessa estensione temporale della sua originaria percezione: non è un vero e proprio atto percettivo, quello che compio nella rimemorazione, e in esso non è posto un individuo concreto temporalmente esteso, tuttavia è come se ricreassi l’originaria datità percepita e questa “ricreazione” ha un carattere posizionale, benché del tutto diverso da quello dato nella percezione. Dunque, come leggiamo nell’Appendice XII, «riproduzione significa appunto quella presentificazione della coscienza interna che si contrappone al decorso originario, all’impressione», e tuttavia «la presentificazione di una casa, per esempio, e la riproduzione della percezione di questa casa indicano lo stesso fenomeno». È evidente che senza coscienza percettiva e ritenzionale dell’oggetto non sarebbe possibile la coscienza riproduttiva: quest’ultima è in rapporto con la percezione adeguata, in maniera certamente indiretta ma non soltanto parallela, come nel caso della fantasia. L’apparizione del teatro illuminato nella coscienza riproduttiva è modificazione dell’apparizione percettiva del teatro stesso nella coscienza originaria, a sua volta connessa con la corrispondente coscienza ritenzionale: tanto nella ritenzione quanto nella rimemorazione è contenuto l’apparire di un oggetto temporale ed è proprio tale apparire, comune (benché in forma modificata)

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alle due modalità di coscienza, che costituisce il “ponte” in grado di mettere in comunicazione ritenzione e rimemorazione. Tra l’impressione originaria e la rimemorazione, quale presentificazione tetica del contenuto primariamente percepito, c’è la ritenzione: la riproduzione dell’oggetto temporale replica anche la serie di modificazioni ritenzionali necessariamente connesse all’impressione originaria, ed è per il tramite di questa serie che il ricordo secondario si ricollega mediatamente alla percezione. La peculiarità della rimemorazione come presentificazione tetica consiste nel porre il contenuto ricordato come presente, analogamente alla corrispondente percezione adeguata: la ritenzione, al contrario, non pone il contenuto passato come se fosse ora, ma lo trattiene proprio in quanto decorso, in quanto passato, permettendo il costituirsi della coscienza dell’«appena stato». La ritenzione, come la rimemorazione, avviene «ora», ma è autenticamente coscienza di passato: è grazie alla ritenzione, e non alla rimemorazione, che diventiamo consapevoli dei nostri vissuti passati. A questo punto, la differenza tra ritenzione e rimemorazione appare facilmente riassumibile con le parole usate da Husserl nell’appunto nr. 10: Ricordo fresco: la coscienza dell’‘appena stato’, dell’aver-appenavissuto, più precisamente, dell’aver-appena-percepito, in un nesso immediato con la percezione. Rimemorazione: rinnovellamento del percepito nella fantasia, come nuova apparizione rispetto al precedente percepito e ‘ricordato di fresco’25.

25. Non bisogna pensare che qui Husserl stia associando, dopo averle distinte, rimemorazione e fantasia: egli semplicemente intende esprimere il carattere libero della rimemorazione, accostandolo alla fantasia (che è, come sappiamo dalla critica a Brentano, l’atto libero per eccellenza) di contro alla necessità della ritenzione per la costituzione della coscienza interna del tempo.

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La ritenzione è in connessione diretta con la percezione, di cui trattiene e concatena le fasi decorse nell’unità della coscienza interna del tempo: essa è necessaria innanzitutto ai fini della costituzione dell’unità della coscienza temporale, che è data dall’insieme di coscienza impressionale, ritenzione (e protensione). La ritenzione è, infatti, il riferimento essenziale tanto dell’impressione quanto della rimemorazione e costituisce, come si è già detto, il ponte tra le due: in primo luogo, è attraverso la ritenzione che sappiamo di aver percepito qualcosa. Ogni percezione ha infatti una durata e, come Husserl afferma all’inizio delle Lezioni, quel che è fenomenologicamente importante indagare è proprio il durare della percezione: la durata, però, può esser colta solo se si è in grado di apprendere la solidarietà temporalmente determinata delle fasi costitutive del decorso immanente, e questa possibilità ci è data appunto dalla ritenzione. In secondo luogo, è sempre attraverso la ritenzione che si costituisce la rimemorazione: come presentificazione tetica della percezione adeguata, infatti, la rimemorazione non avrebbe senso né sarebbe possibile, quale atto attinente alla sfera dell’«io posso», senza unità di percezione e ritenzione. Una presentificazione tetica della semplice percezione è insensata, perché non c’è percezione cosciente che sia priva di una corrispondente serie ritenzionale, così come non c’è ritenzione che non sia preceduta da un’impressione. La rimemorazione è resa possibile dalla ritenzione: essa è costituita dalla coscienza ritenzionale, che è costitutiva rispetto al ricordo secondario, mentre è a sua volta costituita rispetto all’impressione originaria posta a fondamento. Come ha scritto, in maniera chiarissima, John B. Brough, «retention differs from memory as what is constituting differs from what is constituted [...] In the absence of retention there would be nothing to remember because nothing would be originally constituted. In addition, without retention the act of memory

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itself could not be experienced»26. Da ciò consegue che la rimemorazione non può non rinviare alla ritenzione e così, indirettamente, al corrispondente nucleo percettivo originario; questo rimando è, anzi, assolutamente necessario, per i motivi evidenziati da Kern, Marbach e Bernet nel loro volume su Husserl: Se io, nell’effettuazione di una presentificazione, perdessi del tutto il mondo percettivo, allora non presentificherei, ma sognerei presentando, avrei una allucinazione, sarei in trance o in una visione, e ciò ch’è stato così intuito avrebbe il carattere dell’esserci in originale, della realtà in carne ed ossa come nella percezione, sarebbe fornito anche del ‘carattere del belief ’ e non più del ‘come se fosse di nuovo’ o del ‘come se’ nella coscienza della parvenza27.

Potremmo riassumere le distinzioni in gioco nel modo che segue – ricordando sempre che ci muoviamo nel dominio degli atti di coscienza intuitivi28: - la rimemorazione, come modificazione della percezione, è coscienza presentificante posizionale, che nell’ora pone un passato come ora (presentificazione tetica); - la fantasia, come modificazione di neutralità della rimemorazione, è coscienza presentificante non posizionale che non

26. J.B. Brough, Husserl on memory, cit., pp. 330-331. 27. R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, cit., p. 195. 28. Ha osservato Emmanuel Lévinas: «Sotto il titolo di atto intuitivo Husserl ingloba, da una parte, la percezione (presentazione – Gegenwärtigung) e, dall’altra, l’immaginazione e la memoria (la ri-presentazione – Vergegenwärtigung). Queste nozioni si trovano unite perché gli oggetti mirati da questi atti sono dati in se stessi, e non solo significati. Questi sono gli atti nei “quali [gli oggetti] giungono a datità diretta (zur Selbstgegebenheit kommen)”»; E. Lévinas, Théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl, Vrin, Paris 2001; tr. it. a cura di V. Perego, La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book, Milano 2002, p. 83.

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pone caratteri temporali – contrariamente a quanto riteneva Brentano (presentificazione non tetica); - la ritenzione, in quanto continuamente mediata all’impressione, è coscienza originale posizionale che pone nell’ora un passato come tale (ritenendolo); - la percezione, infine, è coscienza originale posizionale che pone nell’ora un presente come tale. Abbiamo dunque una progressione e un sistema di relazioni tra gli atti intuitivi così schematizzabile: 1. Coscienza impressionale ↔ Coscienza ritenzionale 2. (Coscienza impressionale ↔ Coscienza ritenzionale)  Coscienza rimemorativa 3. [(Coscienza impressionale ↔ Coscienza ritenzionale) Coscienza rimemorativa]  Coscienza fantastica Si è utilizzata una freccia bi-direzionale, ad indicare il rinvio di impressione e ritenzione, al fine di illustrare il carattere di strutturale co-implicazione del loro rapporto: senza di esso, non si darebbe coscienza alcuna. La freccia unidirezionale utilizzata, invece, per indicare il rapporto tra campo impressionale-ritenzionale e rimemorazione, e tra l’insieme di queste modalità e la fantasia, sta ad indicare il carattere “volontaristico” di tale rapporto: “io posso” effettuare una rimemorazione e, se la effettuo, essa dovrà fondarsi su una precedente coscienza percettivo-ritenzionale. Analogamente, “io posso” effettuare una coscienza di fantasia e, se la effettuo, essa sarà una modificazione di neutralità di una precedente rimemorazione. Se volessimo ricorrere, per chiarire ulteriormente l’insieme di questi rapporti, allo schema sul piano cartesiano proposto in precedenza, dovremmo immaginare di integrarlo con l’inserzione del campo di coscienza rimemorativo. La coscienza fantastica non vi troverebbe invece posto, dal

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momento che essa non pone caratteri temporali, pur fondandosi sulla rimemorazione: essa è la sola coscienza neutrale tra quelle intuitive (ed è intuitiva, se non dal lato dell’oggettualità, da quello del fondamento in ultima analisi percettivo, che è comunque presupposto). Lo schema che otterremmo sarebbe il seguente:

Lo schema consente di visualizzare sia il campo temporale della percezione adeguata (x, -y), dato dall’intersezione (in A, B, C) dei punti-ora e dei punti-ritenzionali, che il campo temporale rimemorativo (-x, -y), le cui coordinate sono entrambe negative, ad indicare il carattere di secondarietà (non direttamente connesso all’impressione) della rimemorazione, quale coscienza di un passato “remoto”. Si noti la corrispondenza tra i punti-rimemorati e i punti del campo percettivo-adeguato: agli istanti A, B, C... del decorso percettivo (semi-negativi), corrispondono quelli negativi della rimemorazione (-A, -B, -C...). I due campi sono speculari e, se immaginassimo di “chiudere” il piano cartesiano, si sovrapporrebbero puntualmente – proprio come richiesto da Husserl. Tuttavia, i due decorsi si svolgono – letteralmente – su piani diversi; o, meglio, su quadranti diversi. Se il piano è identicamente costituito dalla coscienza interna del tempo, infatti, in

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esso distinguiamo due quadranti speculari, ovvero due differenti caratteri temporali: percezione adeguata (impressione + ritenzione) e rimemorazione.

4. Rimemorazione e tempo obiettivo Ora, se la coscienza ritenzionale è necessaria per il costituirsi dell’unità di coscienza temporale, la rimemorazione è da parte sua indispensabile per la costituzione dell’obiettività temporale, la cui spiegazione costituiva il punto di partenza di Husserl. Il tempo obiettivo non può essere prodotto dalla sola coscienza ritenzionale, ma esige l’intervento determinante della rimemorazione. Ogni singolo punto-ora sprofondante nel passato ritenzionale mantiene, pur essendo sottoposto alla legge della modificazione ritenzionale, la propria identità: esso mantiene la sua intenzione oggettuale, nel senso che l’obiettività individuale del punto-ora resta costantemente la stessa. Al livello della materia temporale non si dà alcun cambiamento: ciò è perfettamente coerente con l’affermazione husserliana secondo cui «il suono stesso è il medesimo, ma il suono ‘nel modo come’ appare è sempre diverso»29. Nell’atto, cambiamento; nella materia, permanenza. La «determinazione extratemporale» del contenuto temporale non muta: l’oggetto come «rappresentante di qualità cosali» permane identico a sé. La questione dell’identità dell’oggetto temporale è fondamentale, come Husserl chiarisce al §31, perché è proprio a partire dall’identità dei «posti temporali» nell’apprensione del contenuto immanente che si costituisce l’obiettività degli oggetti e dei processi temporali obiettivi: la chiave di questa costituzione risiede proprio nell’apparente antinomia tra modificazione

29. HUA/X, tr. it. cit., p. 61.

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nell’apprensione ritenzionale dell’oggetto che dura, e permanenza della sua identità come materia extratemporale. Questa “antinomia” conferma, da un lato, che è la coscienza a costituire la temporalità di ciò che essa apprende nei suoi molteplici atti intenzionali; dall’altro, la contraddizione si rivela soltanto apparente, nella misura in cui si tiene fermo che nell’apprensione ritenzionale quel che muta non è il posto temporale dei singoli punti-ora, ma la loro distanza dall’«ora» attuale. Se i «posti temporali» non si conservassero in identità con se stessi, la rimemorazione non sarebbe possibile: essa, infatti, si fonda sul presupposto che ogni fase del decorso occupa il suo posto fisso nel tempo obiettivo. Nell’immanenza della coscienza la durata dell’oggetto temporale decorre modificandosi continuamente; nel medesimo tempo, però, essa è ancora attraversata da una «identità di senso» che mi permette di dire che a “durare” è proprio questo stesso oggetto temporale. L’identità del contenuto immanente, per quel che concerne la sua materia extra-temporale, coincide con questa identità del senso oggettuale, che si mantiene in ogni fase del decorso: al tempo stesso, dal punto di vista del modo d’apprensione del decorso, ogni punto-ora è in sé diverso e caratterizzato coscienzialmente come un nuovo punto-ora. Identità e differenza originarie convivono in un rapporto di co-datità e quella che appariva un’antinomia si appiana, riferendo identità e cambiamento a due piani diversi ma correlati: il darsi materiale dell’oggetto e il modo della sua apprensione. Da ciò consegue, come si legge nell’appunto nr. 4, che l’«obiettivazione» a partire dai dati fenomenologici si articola in due direzioni: quella dell’importo qualitativo del materiale sensibile (della «materia temporale») e quella dell’apprensione dei «rappresentanti di posto temporale». È in quest’ultima direzione che l’oggetto temporale si costituisce come individualità: questa è definita come «la forma temporale della sensazione originaria», dell’«ora» di volta in volta considerato.

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Essendo ogni nuovo «ora» il contenuto di una nuova impressione originaria, anche la sua individualità è sempre nuova e diversa, ed è proprio la diversa identità di ciascun «ora» che permette di distinguere tra loro le diverse impressioni originarie: il discorso husserliano è, anche qui, coerente con l’affermazione secondo cui «la materia è la stessa materia, il posto temporale è lo stesso posto temporale, solo il modo di datità è cambiato: è una datità di passato»30. Perché, dunque, l’obiettività si costituisce nella coscienza interna del tempo fenomenologicamente intesa? Perché, risponde Husserl, ogni oggettualità presuppone «coscienza di unità e di identità», ovvero la capacità di riconoscere un individuo che dura, modificandosi, come «questo-qui» – come un contenuto di sensazione originario che, durando, permane se stesso. Una coscienza di durata che non si appoggi ad una qualche permanenza nel durare sarebbe impossibile: anzi, senza una struttura della permanenza – come Husserl aveva anticipato all’inizio delle Lezioni – non si darebbe per noi alcuna durata, che è invece coglibile (secondo le diverse modalità dell’apprensione) grazie al suo articolarsi materialmente identico. Al §32 troviamo, però, un’importante precisazione: la coscienza delle individualità temporali come in sé identiche non è ancora coscienza di un tempo «unitario, omogeneo e obiettivo». Affinché si formi questa coscienza, che è l’autentica coscienza del tempo obiettivo, è necessario il contributo essenziale del ricordo secondario: su che piano si svolge, occorre infatti chiedersi, la rimemorazione? Sappiamo che la ritenzione è in connessione necessaria con l’impressione e che, pertanto, essa si dà sullo stesso piano dell’impressione, in continuità con essa: la rimemorazione, invece, è un atto libero che non si costituisce in connessione diretta con la percezio-

30. Ivi, p. 96.

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ne. Ogni coscienza ritenzionale può sempre modificarsi in una coscienza riproduttiva, e l’essenza del rapporto tra le due è riassunto proprio in questo “potere-sempre”; cosa accade di preciso quando questo “potere” si realizza ed io effettuo la riproduzione di un contenuto temporale già appreso nel modo della percezione adeguata? In tal caso, spiega Husserl, io sovrappongo il campo temporale attualmente dato attraverso la rimemorazione al campo temporale originario, nel quale ciascuna fase del decorso mi era data come un «ora» – proprio come se “chiudessi” il piano cartesiano del nostro schema. I punti temporali dei due campi si sovrappongono, così, identificandosi individualmente grazie a un atto di riconoscimento (fondato sulla mia coscienza dell’identità di ciascuna fase del decorso), per il quale io so che a questo punto-ora riprodotto corrisponde quel punto-ora originalmente percepito come presente. Questa sovrapposizione di campi temporali è indefinitamente reiterabile, e ogni volta essa si fonda sulla coincidenza di ogni punto-ora riprodotto con il corrispondente punto-ora riprodotto nelle precedenti rimemorazioni e, in ultima analisi, con il relativo punto-ora percepito nell’impressione originaria: è esattamente questo che Husserl intendeva dire affermando (nel §43) che «il tempo fenomenologico, cui appartengono i dati di sensazione e le apprensioni di cosa, e il tempo-spazio delle cose devono coincidere punto per punto. Con ogni punto riempito del tempo fenomenologico si espone (grazie ai contenuti di sensazione e alle apprensioni, in esso situate) un punto del tempo obiettivo riempito». Il tempo obiettivo si costituisce a partire dal tempo fenomenologico immanente, perché la coscienza di esso è resa possibile da quel particolare atto fenomenologico che è la rimemorazione: questa è resa possibile, a sua volta, dalla percezione adeguata come unità di coscienza impressionale e coscienza ritenzionale, che costituisce la sostanza stessa della coscienza temporale.

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Appendice La natura del tempo. Una lettura fenomenologica della disputa tra Bergson e Einstein

La riflessione sulla natura del tempo costituisce un leitmotiv del pensiero filosofico dai suoi esordi classici sino alle formulazioni contemporanee e rappresenta un notevole esempio di interazione tra scienza e filosofia1. Sfruttando questa intera-

1. Un punto di svolta significativo fu rappresentato, nella concezione classica, dai cosiddetti “paradossi di Zenone” e, in particolare, dal caso di Achille e la tartaruga. Questo rappresenta un felice esempio di persistente attualità della riflessione filosofica sulla natura del tempo, di stimolo anche per l’indagine matematica: non solo esso è stato ripreso e riconsiderato in ambito filosofico (con speciale acume e profondità, cosa che qui ci interessa maggiormente, da Henri Bergson), ma il suo ideatore – Zenone di Elea – è stato considerato anche un precursore del moderno calcolo infinitesimale in matematica. Léon Brunschvicg (1929) ha affermato, ad esempio, che: «Pour retrouver le plus ancienne trace de la pensée infinitésimale [...] nous adresser [...] à Zénon d’Elée». Nella loro Storia del pensiero scientifico. Il mondo antico (Zanichelli, Roma 1932, p. 54), Federigo Enriques e Giorgio De Santillana attribuiscono ai paradossi di Zenone un «profondo significato matematico» e affermano che «i paradossi che il filosofo mette in luce sono quelli che si trovano sulla via dell’analisi infinitesimale». Già Bertrand Russell, nei suoi Principi della matematica del 1903 (The Principles of Mathematics, Norton & company, New York 1996; tr. it. a cura di E. Carone, M. Destro, Principi della matematica, Newton Compton, Roma 2012), contestava d’altronde la tendenza di molti interpreti a ridurre le argomentazioni «smisuratamente sottili e profonde» di Zenone a meri sofismi in difesa della filosofia del maestro Parmenide e ne esaltava la rilevanza sul piano

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zione, proverò a tracciare – a completamento dello studio svolto in questo volume e quasi come un case-study a sostegno dell’interpretazione proposta – uno scorcio della questione riferendomi al confronto tra riflessione filosofica e teoria fisica, a partire dalla polemica sorta proprio attorno alla determinazione della “natura del tempo” tra Albert Einstein e Henri Bergson. Mia intenzione è quella di evidenziare i rilievi filosofici mossi da Bergson alla nozione di tempo insita nella teoria della Relatività einsteiniana, identificando in tali rilievi delle domande di senso sulla teoria fisica, le quali appaiono interpretabili in chiave fenomenologica. Si può identificare nella metodologia d’indagine husserliana il complemento teorico mancante alla critica bergsoniana e provare a radicalizzare quest’ultima in senso fenomenologico, sino a ricollegarsi alle più recenti acquisizioni della teoria fisica, il cui avanzamento è tale da non poter prescindere da un certo importo speculativo2. Quest’ultimo è di nuovo, a mio avviso, interpretabile e matematico. Benché il precursore “ufficiale” del calcolo infinitesimale sia identificato in Eudosso di Cnido, il primo a porsi esplicitamente il problema del rapporto tra due grandezze incommensurabili – per il calcolo delle quali egli elaborò la teoria delle proporzioni e propose uno specifico metodo (detto “di esaustione”), entrambi ripresi da Euclide (rispettivamente nel V e nel XII libro degli Elementi) – Zenone ha proposto una formulazione particolarmente efficace della problematica infinitesimale, mediante una argomentazione logica basata sulla negazione del concetto di movimento, che doveva suscitare ulteriori problemi in ambito filosofico. Non è necessario addentrarsi, qui, nelle ulteriori, complesse tappe di sviluppo del concetto matematico di infinitesimale, che si è nutrito di impulsi filosofici oltre che matematici (basti pensare ai contributi determinanti di Galilei, Leibniz, Newton, Bolzano, fino alle conclusioni di Cantor). 2. Brian Greene, uno dei più efficaci divulgatori odierni della teoria delle stringhe, si interroga su “Cosa sono in realtà lo spazio e il tempo? Possiamo farne a meno?”, e così scrive nel suo L’universo elegante (Einaudi, Torino 2005), riferendosi al rapporto della teoria delle stringhe con la Relatività einsteiniana: «Stiamo addentrandoci su strade assai speculative, ma la teoria delle stringhe ha comunque una risposta da suggerire [...] Comunque sia, è probabile che dovremo affrontare queste difficoltà speculative e compren-

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sviluppabile in modo proficuo attraverso il metodo fenomenologico enucleato per primo da Husserl, del quale vorrei così mostrare un tratto di peculiare e significativa attualità per le scienze.

1. Osservazioni preliminari Il confronto da cui muoverò, quello intercorso tra Einstein e Bergson, costituisce un notevolissimo caso di incontro-scontro

derne le conseguenze prima di aver concluso il lavoro con la teoria delle stringhe [...]» (pp. 355 sgg.). Greene ricorda la profondità del confronto storicamente avvenuto sulla natura del tempo, citando in particolare le opposte visioni di Newton e Leibniz e rilevando come, con l’elaborazione ottocentesca di Mach e poi con la teoria di Einstein, la convinzione newtoniana dell’assolutezza di spazio e tempo sia stata posta definitivamente in questione. Evidenzia, altresì, come per la stessa nozione di spaziotempo si possa sollevare il problema se essa costituisca un «artificio descrittivo» o se rappresenti «qualcosa di reale, qualcosa in cui siamo davvero immersi». Se ne deduce l’assoluta centralità, per la ricerca in campo fisico, della nozione di “tempo”: «Riuscire a capire come nasca lo spaziotempo ci porterebbe assai più vicini a capire quale sia la vera forma geometrica che salta fuori dalla teoria». Sugli stessi argomenti, cfr. anche il più esaustivo volume dello stesso Greene, La trama del cosmo. Spazio, tempo, realtà, Einaudi, Torino 2004. Si pensi, inoltre, al confronto tra Einstein e Bohr sui fondamenti della meccanica quantistica, occasionato dai due celebri congressi Solvay del 1927 e del 1939 e ripreso sulla “Physical Review” nel 1935: come ricorda Michael Atiyah nella sua premessa alla pubblicazione delle lezioni tenute da Hawking e Penrose nel 1994 presso l’Università di Cambridge (per molti versi una continuazione della polemica Bohr-Einstein), «Einstein si rifiutava di accettare la tesi che la meccanica quantistica fosse una teoria definitiva. Egli la trovava filosoficamente insufficiente [...]», e aggiunge: «Oggi i problemi sono più complessi e più vasti ma rappresentano come in passato una combinazione di argomenti tecnici e di punti di vista filosofici» (M. Atiyah, in S.W. Hawking, R. Penrose, La natura dello spazio e del tempo, BUR, Milano 2017, p. 5; ed. originale The Nature of Space and Time, Princeton University Press, Princeton 1996).

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tra filosofia e scienza (fisica), per alcuni versi analogo a quello avvenuto tra filosofia e psicoanalisi. Come in quest’ultimo caso, la discussione tra le parti incontrò non pochi ostacoli, resistenze e fraintendimenti, dovuti alla diversità dei linguaggi e alla posta in gioco nella reciproca critica. Nel caso di Freud, la scoperta dell’inconscio costrinse la filosofia a riconsiderare il proprio modo d’intendere la soggettività e la coscienza, “minacciate” nella propria trasparenza a se stesse e nel proprio possesso di sé dalla presenza, al loro interno, di un Altro radicale, dal quale per giunta – a detta di Freud – dipendevano la maggioranza delle azioni e delle intraprese soggettive (con il che si rendeva necessaria, da parte filosofica, anche una revisione delle nozioni di volontà, libertà, spontaneità e più in generale del discorso etico stesso). In modo analogo, la Relatività einsteiniana apportava degli sconvolgimenti al modo anzitutto intuitivo e ingenuo di concepire il tempo, con il quale la filosofia si era da sempre confrontata, inducendo quei filosofi più vicini alla sensibilità scientifica a riconsiderare non solo il concetto di temporalità ma anche la forma del rapporto a esso da parte filosofica: le acquisizioni della teoria fisica non apparivano più ignorabili secondo il tradizionale dualismo delle competenze3. Tanto

3. Un dualismo che anche Husserl rivendicava, in particolare rispetto alla psicologia, nella Filosofia come scienza rigorosa (Laterza, Roma-Bari 2005), ed. originale in «Logos» 1 (1911), poi ripubblicato a cura di W. Szilasi, Frankfurt a.M. 1965, e infine in HUA/XXV: Aufsätze und Vorträge (19111921), hrsg. v. Th. Nenon, H.R. Sepp, Martinus Nijhoff, Den Haag 1986): «Ci imbattiamo così in una scienza [...] che è sì scienza della coscienza, sebbene non psicologia, vale a dire in una fenomenologia della coscienza di contro ad una scienza naturale della coscienza [...] la psicologia ha a che fare con la “coscienza empirica”, con la coscienza colta nell’atteggiamento empirico, intesa come qualcosa che esiste nella connessione della natura; di contro, la fenomenologia tratta della “pura” coscienza, vale a dire della coscienza colta nell’atteggiamento fenomenologico». L’oggetto di psicolo-

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nel caso della psicoanalisi, quanto in quello della fisica, lo scienziato assume, peraltro, un atteggiamento ambivalente nei confronti del suo interlocutore filosofico: è nota la critica freudiana delle “Weltanschauungen” filosofiche e la diffidenza nei confronti dei filosofi (eccezion fatta per i prediletti Nietzsche e Schopenhauer). Ciononostante, nel Poscritto del 1935 alla sua Autobiografia Freud ricorda come il proprio interesse fosse originariamente diretto ai «fenomeni umani» e definisce la carriera nella clinica addirittura una «diversione durata tutta una vita», al termine della quale (con gli ultimi saggi) egli tornò ai «problemi culturali» che lo «avevano affascinato» quando era ancora un «giovanetto imberbe»4.

gia e fenomenologia è il medesimo, ma colto in un diverso atteggiamento: compito della filosofia e compito della psicologia sono dunque distinti e diversamente finalizzati. Già nelle Ricerche logiche Husserl affermava, parlando della logica, la necessità di operare la «differenza fondamentale tra unità soggettivo-antropologica della conoscenza e unità oggettivo-ideale del contenuto della conoscenza»: in altre parole, «si tratta di vedere se sia soltanto il punto di vista pratico a fondare la legittimità della logica come disciplina scientifica autonoma, e se dal punto di vista teoretico, per ciò che concerne le conoscenze che essa raccoglie, la logica si risolva in puri principi teoretici (ed in regole su di essi fondate) che esigono di essere legittimati da scienze teoriche altrimenti note, e soprattutto dalla psicologia». Non si tratta, per Husserl, di negare la legittimità della psicologia per lo studio empirico della coscienza, ma di negare la sua valenza fondativa per il discorso filosofico su di essa (cfr. Ricerche logiche, tr. it. a cura di G. Piana, vol. I, Prolegomeni ad una logica pura, il Saggiatore, Milano 2005, pp. 50 sgg.; ed. ted. in HUA/XVIII: Logische Untersuchungen. Erster Teil: Prolegomena zur reinen Logik, hrsg. v. E. Holenstein, Martinus Nijhoff, Den Haag 1975). Mutatis mutandis, l’argomentazione husserliana è valida per le altre scienze naturali, dunque anche per la fisica, nella misura in cui esse muovono da idealizzazioni e presupposti ingenui, non sottoposti a quella Erkenntniskritìk che la fenomenologia è chiamata a svolgere per esse. Vedremo fino a che misura questo dualismo di metodo sia “piegabile” alle esigenze di un confronto con la teoria fisica sul problema della temporalità. 4. Cfr. S. Freud, Autobiografia, in Opere, X, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 77. Didier Anzieu ha ricordato come la formazione scientifica di

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Il riferimento a Freud non è peregrino, se si considera non tanto la vicinanza relativa che legò il padre della psicoanalisi a Einstein sul piano dello scambio intellettuale (si pensi al dialogo Warum Krieg? del 1933), quanto piuttosto all’atteggiamento di analoga diffidenza – non privo di una certa ambivalenza – che lo stesso Einstein tenne nei confronti del pensiero filosofico. Come ricorda Abraham Pais nella sua biografia, Einstein nutriva un genuino interesse per la filosofia e «studiò scritti di carattere filosofico tutta la vita, a cominciare dagli anni del liceo, allorché per la prima volta lesse Kant». Einstein stesso ebbe a sostenere, negli ultimi anni di vita, che «la scienza senza epistemologia, se pure si può concepire, è primitiva e informe» e tra gli uomini che riconobbe come precursori (Newton, Maxwell, Mach, Planck, Lorentz) figurano personalità che ricoprirono un ruolo saliente nella cultura filosofica del loro tempo5. Malgrado ciò, egli non si considerò mai un filosofo ed è abbastanza certo che le conoscenze filosofiche non influenzarono direttamente i suoi atti creativi. Nel quadro appena tracciato, la figura di Henri Bergson s’inserisce come interlocutore privilegiato per il confronto con la teoria fisica sulla natura del tempo. Di vent’anni più anziano di Einstein6, Bergson coltivava profonde conoscenze scientifiche, soprattutto in campo biologico e matematico, e improntò l’intera sua filosofia al confronto diretto con il paradigma scientifico. Tale confronto è particolarmente rilevante per la problematica della temporalità. Nel 1922 Bergson pubblicò Freud costituisca la terza tappa di un percorso formativo più complesso, iniziato negli anni giovanili con l’educazione ebraica e proseguito con l’interesse letterario e filosofico (cfr. D. Anzieu, L’auto-analyse de Freud et la decouvert de la psychanalyse, Paris 1975, 1, p. 119). 5. A. Pais, La scienza e la vita di Albert Einstein, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 24. 6. Bergson nasce a Parigi nel 1859, Einstein a Ulma nel Württenberg nel 1879.

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un’opera, Durata e simultaneità, interamente dedicata alla critica (consistente in una specifica interpretazione filosofica) della teoria della Relatività einsteiniana. La proposta interpretativa è veicolata da una serie di argomentazioni tecnicomatematiche, che determinano nel testo una commistione dei piani argomentativi da cui discende la complessità concettuale dell’opera, malgrado la limpidezza nella scrittura: proprio questa commistione costò all’autore non pochi fraintendimenti da parte scientifica, che lo indussero a vietare la ristampa del libro dopo il 1931 e a inibirne la traduzione in altre lingue7. Già nell’anno della prima pubblicazione (il 1922), d’altronde, il tentativo bergsoniano in Durata e simultaneità si profilava senza dubbio estremamente ambizioso per un filosofo, pur affermato come Bergson: Einstein, all’epoca, aveva già pubblicato le sue memorie principali e aveva appena ottenuto il Nobel per la fisica (per il 1921), con cui si riconosceva l’importanza di un suo studio di molti anni prima, del 1905, sul quanto di luce e l’effetto fotoelettrico. Il 1905 fu un anno importante per Einstein, che pubblicò altri articoli fondamentali tra cui la tesi di dottorato sulla “nuova determinazione delle dimensioni molecolari”, due articoli sul moto browniano e soprattutto le due memorie sulla Relatività ristretta (delle quali la seconda contiene la celeberrima formula E = mc2). Gli anni seguenti furono costellati di pubblicazioni importanti, tra le quali le più rilevanti ai fini del nostro discorso sono naturalmente l’articolo del 1914 intitolato Relativitätsprinzip, primo scritto divulgativo sulla teoria della Relatività; i Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie del 1916; le Kosmologische Betrachtungen zur allge7. L’opera, come già detto, fu ripubblicata nel 1972 in H. Bergson, Mélanges. Textes publiés et annotés par André Robinet avec la collaboration de Marie-Rose Mossé-Bastide, Martine Robinet et Michel Gauthier, PUF, Paris 1972, pp. 56-244.

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meinen Relativitätstheorie del 1917, con cui si completa l’iter di perfezionamento della teoria della Relatività generale. Nel 1922, dunque, Einstein e la sua teoria godevano già di solida diffusione e credibilità, assorbito in parte l’impatto dirompente che la Relatività ebbe sul panorama scientifico e culturale dell’epoca8. Ecco, allora, che l’opera di un filosofo (anch’egli insignito, solo pochi anni più tardi, del premio Nobel per la letteratura9) giungeva a criticare la teoria einsteiniana dall’interno. Perché, dobbiamo chiederci, Bergson avvertì come un’esigenza filosofica impellente quella di prendere posizione rispetto alla teoria di Einstein e di offrirne una certa interpretazione, divergente da quella che avrebbe attribuito Einstein stesso (e, con lui, i fisici che presero parte al dibattito)? Cosa è in gioco nella disputa sulla Relatività e sulla «natura del tempo» – titolo del terzo capitolo dell’opera bergsoniana del 1922, sul quale mi concentrerò10? Bergson muove fondamentalmente due critiche, distinte ma complementari, alla teoria della Relatività. La prima critica ha natura squisitamente filosofica e impiega, a mio modo di 8. Come osserva Pais, «la rapida crescita della fama di Einstein nei circoli scientifici risale circa al 1908. Nel luglio 1909 l’Università di Ginevra conferì il titolo di dottore honoris causa a “Monsieur Einstein, Expert du Bureau Fédéral de la Propriété intellectuelle” [...] Allora, e anche in seguito, la teoria ristretta ebbe occasionalmente dei detrattori, ma l’eccellente resoconto di Wien [Wilhelm Wien, premio Nobel per la fisica nel 1911, che scrisse per il 1912 una raccomandazione all’Accademia di Stoccolma suggerendo di dividere il premio tra Lorentz e Einstein] dimostra che agli specialisti era bastato poco tempo per rendersi conto che essa costituiva un progresso decisivo»; A. Pais, cit., pp. 169-70. 9. Bergson ottenne il Nobel nel 1927 per l’Evoluzione creatrice, opera risalente al 1907. Nel 1922 aveva già pubblicato molte delle sue opere fondamentali: non solo l’Evoluzione creatrice, ma anche il Saggio sui dati immediati della coscienza (1889); Materia e memoria, l’opera filosoficamente più nota e rilevante, è del 1896; L’energia spirituale è del 1919. 10. Cfr. H. Bergson, Durata e simultaneità, tr. it. cit., cap. III (“La natura del tempo”), pp. 45 sgg.

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vedere, un’argomentazione proto-fenomenologica (malgrado il fatto che Bergson e Husserl non si siano direttamente confrontati, pur essendo quasi coetanei e avendo lavorato su un analogo spettro di problemi – come dovrebbe esser chiaro alla luce dei capitoli precedenti). La seconda osservazione critica è una sotto-determinazione della prima ed è svolta in particolare nel IV capitolo di Durata e simultaneità, mediante un’argomentazione prettamente matematica. Essa si presta, dunque, a una replica tecnica (che fu avanzata, difatti, dai fisici chiamati in causa da Bergson): qui me ne interesserò per quel tanto d’importo filosofico che essa implica, in relazione alla prima e più radicale critica.

2. La natura del tempo non è (solo) “naturale” Nel I e soprattutto nel II capitolo di Durata e simultaneità, Bergson ripercorre criticamente la Teoria della Relatività di Einstein. Possiamo riassumere brevemente il senso di quest’ultima con l’aiuto delle chiare e illuminanti pagine di Brian Greene, destinate al pubblico profano della fisica. Greene enuclea dapprima il senso della scoperta einsteiniana in rapporto alla Relatività “ristretta”: Einstein sostiene la strana teoria secondo cui due osservatori in moto relativo l’uno rispetto all’altro hanno diverse percezioni del tempo e delle distanze. Come vedremo, questo significa che due orologi identici, indossati da due simili osservatori, non segnano le ore in modo sincrono e quindi non concordano sugli intervalli di tempo trascorsi tra due eventi fissati. La relatività ristretta dimostra che questa affermazione non ha nulla a che fare con la precisione degli orologi, ma anzi che è una caratteristica vera e propria del fenomeno “tempo”11.

11. B. Greene, L’universo elegante, cit., pp. 24-25.

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Greene non manca di ricordare come la nuova concezione dello spazio-tempo, pur corroborata da innumerevoli riscontri sperimentali, continui a scontrarsi col senso comune, ossia con l’intuizione che ci porta a intendere spazio e tempo in termini assoluti: ciò deriva dalla fondamentale contro-intuitività della teoria, per cui «le sue conclusioni non trovano spazio nelle nostre percezioni intuitive». Ciò accade perché gli effetti della Relatività nella nostra vita quotidiana sono impercettibili: «certo, le differenze di percezione tra chi sta fermo e chi vola in aereo esistono davvero, ma sono così piccole che nessuno le nota»12. Infatti, «per vedere effetti apprezzabili, dobbiamo arrivare a velocità comparabili con quelle della luce, che è la massima velocità possibile»13. Si annida, qui, una complessa problematica fenomenologica, alla quale le riflessioni critiche di Bergson consentono un primo avvicinamento. Una teoria contro-intuitiva, le cui conclusioni «non trovano spazio nelle nostre percezioni intuitive», è appunto una teoria che contravviene al “principio di tutti i principi” ossia al criterio metodologico di muovere dall’intuizione come fondamento di legittimità originario. Contravviene, dunque, al senso stesso della scienza rigorosa, al principio cardine enucleato da Husserl nel 1913: «Dobbiamo interrogare le cose stesse. Torniamo all’esperienza, all’intuizione, che sole possono dare un senso e una legittimità razionale alle nostre parole»14. Già nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo, come si è visto, Husserl specificava: «Percezione è, qui, l’atto che ci pone sott’occhio qualcosa come “se stesso”, l’atto che costituisce originariamente l’oggetto»15. Questo “ritorno all’intuizione” non è determi12. Ivi, p. 25. 13. Ivi, p. 26. 14. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, tr. it. cit., p. 35. 15. Non solo: per usare le parole di M. Merleau-Ponty, abbiamo anche osservato che, «come coscienza del presente, la percezione è il fenomeno centrale che rende possibile l’unita dell’Io e con essa l’idea dell’oggettività e della verità» (M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Galli-

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nante nel caso della Relatività, non ci dà l’oggetto della teoria: quest’ultima muove da idealizzazioni, delle quali è comunque in grado di fornire conferme sperimentali. Creando le condizioni adatte – condizioni che non sono quelle della nostra diretta intuitività – è possibile verificare le previsioni di Einstein. Si potrebbe dire che è possibile produrre esperimenti, ma non esempi, della teoria: gli esempi, così centrali nella metodologia fenomenologica proprio per il loro riferimento chiarificatore alla diretta intuitività, non rientrano tra le modalità della nostra comprensione. Ma allora si pone un problema ulteriore: possiamo, dal punto di vista fenomenologico, concordare con Greene e con la sua affermazione secondo cui «certo, le differenze di percezione tra chi sta fermo e chi vola in aereo esistono davvero, ma sono così piccole che nessuno le nota»? Se nessuno le nota, se la nostra effettiva esperienza intuitiva non ci indica nulla di corrispondente alla teoria, possiamo sostenere che quelle differenze «esistono davvero»16? Anche mard, Paris 1945; tr. it. a cura di P.A. Rovatti, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 82). 16. Si potrebbe rilevare, con qualche arditezza speculativa, una problematica kantiana al fondo di questo punto critico: il concetto di spaziotempo è privo di un’intuizione corrispondente, manca del riempimento direttamente intuitivo. Certo, Kant non sapeva nulla della futura possibilità tecnica di creare artificialmente le condizioni di esperibilità del fenomeno studiato, e tuttavia vediamo con Husserl che anche questo avanzamento non elimina la richiesta di “fede” nella teoria. I più devono credere che l’universo funzioni come Einstein lo descrive, non potendone avere alcun riscontro intuitivo. Proprio questo tratto si è radicalizzato con gli sviluppi della teoria delle stringhe, la quale – come è noto – manca di una conferma sperimentale decisiva (cfr. B. Greene, L’universo elegante, cit., pp. 361 sgg.: “La teoria delle stringhe può essere verificata sperimentalmente?”). Anche il fisico statunitense Michiu Kaku ha sottolineato questo limite in una intervista a «Scienza e conoscenza» del 27/01/2009: «La teoria delle stringhe non può essere provata direttamente, perché è una teoria dell’universo. Ogni soluzione corrisponde a un universo intero. Quindi, per verificare completamente la teoria, bisogna creare un universo in miniatura in laboratorio, il che è impossibile». Per questo, nei tempi più recenti, molta critica si è concentrata proprio sull’a-

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alcuni eminenti fisici sembrano nutrire dubbi al riguardo; in un’intervista del 1987, ad esempio, Richard Feynman dichiaspetto “fideistico” della teoria, come “teoria del tutto” volta a fornire una spiegazione unificata, comprensiva di tutte le forze fisiche (proprio come era nelle speranze di Einstein, che rimase sempre sostanzialmente scettico nei confronti della meccanica quantistica a causa della sua divergenza di fondo dalla meccanica classica, di cui la Relatività è uno sviluppo). Nel 2007, Peter Woit ha pubblicato un libro dal titolo significativo: Neanche sbagliata. Il fallimento della teoria delle stringhe e la corsa all’unificazione delle leggi della fisica (Codice, Torino 2007). Basti, a restituire il punto di vista dell’Autore, la seguente battuta: «almeno negli Stati Uniti la Teoria delle stringhe potrà sopravvivere richiedendo al governo federale fondi in quanto iniziativa basata sulla fede». Il carattere speculativo della teoria e la matematica alla sua base sono talmente complessi, nel tentativo di unificare in un quadro unitario le leggi della fisica (accordando tra loro meccanica classica e quantistica), da far sorgere il sospetto che l’unica giustificazione alla mancanza di conferme sperimentali decisive possa risiedere nell’ipotesi che Dio stesso abbia regolato il mondo “così”. Nell’intervista già citata, Michiu Kaku sostiene proprio che «la mente di dio è una musica che risuona attraverso un iperspazio di undici dimensioni». Questo è il motivo per cui diversi sostenitori della teoria riprendono la nota tesi galileiana secondo cui «la matematica è l’alfabeto con il quale dio ha scritto l’universo». I detrattori stigmatizzano questo aspetto della teoria: nel suo libro La fine della scienza (Adelphi, Milano 1998), John Horgan (citato anche da Woit) ha coniato la nozione, applicata alla stessa teoria delle stringhe, di «scienza ironica», espressione con cui è da intendere «la scienza che va avanti in modo “speculativo, post-empirico”, qualcosa di molto simile alla critica letteraria, intimamente incapace di convergere verso la verità» (P. Woit, cit., p. 262). Il fondamento ultimo della teoria delle stringhe sarebbe, secondo i detrattori, fideistico o esoterico. Altri fisici, invece, non vedono alcun problema nel disancoraggio della teoria da una qualche nozione di “realtà”; è il caso, ad esempio, di Stephen Hawking che, nella famosa serie di lezioni tenute insieme a Roger Penrose, afferma esemplarmente: «Io adotto il punto di vista positivistico che una teoria fisica sia solo un modello matematico e che non abbia senso domandarsi se essa corrisponda o no alla realtà. Tutto quello che le si può chiedere è che le predizioni siano in accordo con l’osservazione» (S.W. Hawking, R. Penrose, op. cit., p. 8). Al tempo stesso, Hawking riconosce che «[...] potrebbero non esserci predizioni osservabili della teoria delle stringhe che non possano essere fatte anche dalla relatività generale o dalla supergravità. Se ciò che sto dicendo è vero, si pone il problema se la teoria delle stringhe sia un’autentica teoria scientifica» (ivi, p. 9).

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rò della teoria delle stringhe: «[...] il fatto che [la teoria] possa essere in disaccordo con l’esperienza è una questione piuttosto delicata, non produce nulla; deve essere giustificato la maggior parte delle volte. Questo non mi sembra essere corretto»17. Husserl non ha discusso direttamente la teoria di Einstein, ed è per questo che la mediazione di Bergson appare necessaria e utile per una prima enucleazione filosofica delle questioni in campo. Proprio la contro-intuitività della teoria, infatti, è ciò che il filosofo francese mira a scardinare nella sua riflessione: «noi sosteniamo che il Tempo unico e l’Estensione indipendente della durata continuino a sussistere nell’ipotesi di Einstein presa allo stato puro, e rimangono ciò che sono sempre stati per il senso comune»18. La Relatività ristretta, che si applica cioè al caso del moto uniforme (a velocità costante in assenza di forze) mostra che tale moto è relativo al sistema dell’osservatore: è il noto caso dell’osservatore fermo a terra e del passeggero su un treno in moto. Se i due volessero misurare un evento in apparenza simultaneo per entrambi (ad esempio, a che ora il passeggero sfreccia davanti all’osservatore fermo a terra), le loro misure non concorderebbero. La Relatività ristretta mostra, infatti, che «un orologio ritarda in proporzione all’aumentare della velocità», cioè che «il tempo scorre più in fretta per un osservatore stazionario rispetto a uno in moto». Dobbiamo quindi abbandonare l’idea «che la simultaneità sia un concetto universale, su cui tutti concordano indipendentemente dallo stato di moto»19. Come rileva Bergson, il passo dalla teoria ristretta a quella generale è breve (Einstein lo compì nel 1907): «se ogni moto è relativo e non c’è un punto di riferimento assoluto né un sistema privilegiato, è evidente che l’osservatore interno a un sistema non avrà

17. Cit. in P. Woit, cit., p. 176. 18. H. Bergson, Durata e simultaneità, tr. it. cit., p. 31. 19. B. Greene, L’universo elegante, cit., pp. 33-37.

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alcun modo di sapere se il suo sistema è in moto o in quiete [...] il suo sistema sarà immobile, appunto per definizione, se egli ne fa il suo “sistema di riferimento” e se vi colloca il suo punto di osservazione»20. Questo è il nucleo delle Relatività generale, ossia allargata al moto accelerato, che Einstein formulò a partire dalla riflessione sulla forza di gravità espressa da Newton, della quale scoprì l’equivalenza – negli effetti – con il moto accelerato. Ipotizziamo di trovarci all’interno di un treno privo di finestrini, in moto uniforme: dalla Relatività ristretta sappiamo già che, in assenza di parametri esterni di confronto, non possiamo determinare se ci troviamo in moto o in quiete. Se ora il treno accelerasse nella direzione di marcia, noi percepiremmo l’accelerazione sotto forma di una pressione del sedile contro la nostra schiena: in assenza di riferimenti esterni al sistema, l’accelerazione sarebbe dunque esperita come gravità (principio di equivalenza). Se non avvertissi il campo gravitazionale, non starei accelerando: come osservato anche da Bergson, dunque, «tutti gli osservatori, indipendentemente dal loro stato di moto, possono affermare di essere stazionari, a patto che includano un opportuno campo gravitazionale nella descrizione del loro ambiente»21. È evidente che la teoria di Einstein incide profondamente sul concetto di simultaneità, relativizzandola. Proprio questa relativizzazione è discussa da Bergson nel capitolo III su La natura del tempo, poiché essa retroagisce sulla nozione di durata che plasma, secondo il filosofo francese, quella stessa di tempo. Dalla restituzione, del tutto riassuntiva e semplificata, della teoria della Relatività che ho tracciato, risulta chiaro che lo sforzo di Einstein è diretto alla misurazione di istanti temporali da parte di sistemi in reciproco riferimento.

20. H. Bergson, Durata e simultaneità, tr. it. cit., p. 38. 21. B. Greene, L’universo elegante, cit., p. 53.

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La simultaneità si contrappone, in questo senso, alla durata: simultanei possono essere due istanti del tempo, cristallizzati e quasi astratti dalla durata complessiva del fenomeno in esame. «Misurare il tempo significa dunque numerare delle simultaneità»22. Della durata del fenomeno la teoria non tratta: ma per Bergson è proprio la durata che definisce la “natura del tempo”, poiché in sua assenza non sarebbe possibile nemmeno il darsi di istanti. Si tratta di un punto valorizzato anche da Husserl nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo: «Del fenomeno di decorso noi sappiamo che è una continuità di mutamenti incessanti la quale forma un’unità indivisibile, non divisibile in tratti che possano stare a sé, e non separabile in fasi che possano stare a sé, in punti della continuità. Le porzioni che noi rileviamo per astrazione possono essere solo entro il tutto del decorso e così pure le fasi, i punti della continuità del decorso»23. Gli istanti di tempo sono ottenuti per astrazione da un “tutto” del quale il fisico non si interessa, poiché non è sottoponibile a misurazione. Anche quando diciamo, di una melodia, che “dura mezz’ora”, tale durata non è propriamente quella della melodia percepita, ma la risultante della differenza tra due misurazioni istantanee (istante iniziale e istante finale). L’insistenza sull’importo percettivo e intuitivo è dunque funzionale alla rilevazione di un versante ulteriore rispetto a quello matematico-oggettivo: si tratta della dimensione soggettiva e qualitativa dell’esperienza del tempo. Similmente a Husserl, Bergson scrive che «la cosa e lo stato sono solamente delle istantanee prese artificialmente sulla transizione; e questa transizione, l’unica a essere sperimentata naturalmente, è la durata stessa [...] Una melodia che ascoltiamo a occhi chiusi,

22. H. Bergson, Durata e simultaneità, tr. it. cit., p 57. 23. E. Husserl, HUA/X, tr. it. cit., p. 63.

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pensando solo a essa, viene quasi a coincidere con questo tempo che è la fluidità stessa della nostra vita interiore»24. Proviamo a chiederci, con Bergson, se il tempo misurato equivalga a quello vissuto. La risposta del filosofo francese, riformulata nel vocabolario fenomenologico, suona: sì, se assumiamo che il tempo dello scienziato fisico è un tempo vissuto come misurato. Il tempo vissuto, cioè, diventa tempo misurato se assumiamo l’atteggiamento scientifico-naturale e calcolistico. Il tempo misurato dallo scienziato è una modificazione del tempo fondamentale, vissuto coscienzialmente, ed è appreso in una corrispondente modificazione dell’atteggiamento intenzionale. In quanto si dà un tempo vissuto, dunque, è possibile il darsi di un tempo misurato, e il “di più” del vissuto non è esso stesso misurabile, poiché costituisce la condizione di possibilità della misurazione. Se applichiamo l’argomento alla Relatività, potremmo dire che il tempo non è ciò che risulta dalle equazioni di Einstein, ma è anche quello, in quanto io lo renda oggetto della scienza fisica. Il tempo è durata coscienziale, dunque non è nulla di originariamente oggettivabile: costituisce la sostanza stessa della vita di coscienza25. Come è possibile renderlo oggetto di teorie scientifiche? Il problema che qui si pone riguarda il criterio di oggettività delle scienze, dal cui chiarimento fenomenologico dipende il rigore delle scienze stesse: la questione che Bergson affronta in riferimento a Einstein rientra nella problematica espressa da Husserl ne La filosofia come scienza rigorosa. Qui leggiamo: La questione di come l’esperienza naturale, “confusa”, possa divenire esperienza scientifica e si possa giungere alla determi-

24. H. Bergson, Durata e simultaneità, tr. it. cit., p. 45. 25. Cfr. ivi, p. 61: «In altre occasioni [l’Autore si riferisce a Materia e memoria] abbiamo detto perché nella durata noi vediamo la stoffa del nostro essere e di tutte le cose, e come mai l’universo sia a nostro avviso una continuità di creazione».

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135 nazione di giudizi d’esperienza oggettivamente validi, rappresenta la questione metodologica cardinale di ogni scienza empirica [...] [Gli scienziati] non devono i motivi del loro procedere ad una qualche rivelazione, ma all’approfondimento del senso delle esperienze stesse, più precisamente, del senso dell’“essere” in esse dato [...] Da qui necessariamente la questione di come esso sia effettivamente, di come debba essere determinato in modo oggettivamente valido26.

Ricapitolando, rispetto al programma fenomenologico, abbiamo qui due difficoltà: la prima è quella del rapporto della teoria fisica con l’intuizione diretta, da cui il problema dell’oggettività delle leggi fisiche; la seconda è quella della concezione del tempo sottesa. Se la teoria non è riferita all’intuizione diretta (a ciò che Bergson definisce “senso comune”), neppure il tempo di cui essa tratta, facendone un oggetto di teoria, lo sarà: non sarà, cioè, un tempo coscienziale, ma obiettivistico. Più radicalmente: il tempo non sarà, nella prospettiva bergsoniana, propriamente tempo, quanto piuttosto spazio. L’orologio non misura “il tempo” ma la distanza percorsa dalle lancette, suddivisa in unità di misura standard: «l’istante è ciò che costituirebbe il termine di una durata se la durata si fermasse. Ma la durata non si arresta, e il tempo reale non potrebbe dunque fornire l’istante; l’istante nasce dal punto matematico, cioè dallo spazio»27. Cosa accade, se proviamo ad applicare questa tesi alla Relatività di Einstein? La differenza tra tempo vissuto e tempo misurato non appare riducibile, se non nella forma dell’als husserliano: il tempo misurato dal fisico è il tempo vissuto come (als) misurato. Riprendendo le tesi contenute nella Crisi delle scienze europee, si potrebbe sostenere che è proprio questa indicazione a costituire un possibile legame costruttivo tra scienza e filosofia. Nella prospettiva assunta

26. E. Husserl, La filosofia come scienza rigorosa, tr. it. cit., pp. 39-40. 27. H. Bergson, Durata e simultaneità, tr. it. cit., p. 53.

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da Husserl nell’ultima opera, la crisi di senso delle scienze è anzitutto effetto della radicale alienazione della soggettività degli scienziati: ormai avvezzi a muoversi in universo di pure idealizzazioni e astrazioni (come appunto quella degli “istanti di tempo”), che ha completamente smarrito il riferimento alla dimensione pre-categoriale nella quale affondano quelle stesse idealizzazioni, lo scienziato ha perduto un’intera dimensione del proprio essere – quella soggettiva e intuitiva, che offriva originariamente le datità di partenza della scienza. Si è persa, dunque, la facoltà di riconoscere che il tempo misurato è un modo del tempo vissuto coscienzialmente, è il tempo vissuto come misurato (Husserl), come tradotto in spazio (Bergson): è il medesimo tempo, esperito però in una modalità scientificoobiettiva. Scrive Husserl: L’abito ideale che si chiama “matematica e scienza naturale matematica” oppure l’abito simbolico delle teorie simbolicomatematiche abbraccia, riveste tutto ciò che per gli scienziati e per le persone colte, in quanto “natura obiettivamente reale e vera”, rappresenta il mondo-della-vita. L’abito ideale fa sì che noi prendiamo per il vero essere quello che invece è soltanto un metodo che deve servire a migliorare “previsioni scientifiche” in un “progressus in infinitum”, le previsioni grezze, le uniche possibili nell’ambito di ciò che è realmente esperito ed esperibile nel mondo-della-vita28.

Riagganciare la teoria all’intuizione è tutt’uno – andando oltre Husserl e il dualismo metodologico – col riagganciare la teoria scientifica alla sua possibile interpretazione filosofica (fenomenologica). Riconducendo i diversi atteggiamenti,

28. HUA/VI: Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, hrsg. v. W. Biemel, Martinus Nijhoff, Den Haag 1976; E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di E. Paci, tr. it. a cura di E. Filippini, il Saggiatore, Milano 2002, p. 80.

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filosofico e scientifico, all’unità originaria della Lebenswelt, diviene possibile comprendere l’articolazione della soggettività nei suoi diversi piani, così da restituire allo scienziato la sua dimensione soggettiva, non marginalizzabile come inessenziale al procedimento matematico ma suo fondamento di senso, e da aprire nel contempo alla filosofia lo spazio di un’attualità che incontri le scienze, rispettandone compiti e finalità. La natura del tempo, dunque, non è solo “naturale” nel senso delle scienze obiettive: il tempo espresso dalla Relatività di Einstein è il medesimo tempo che noi percepiamo e viviamo coscienzialmente, quando non facciamo scienza ma viviamo immersi nel mondo come esso è alla mano. Questo tempo, questa “durata pura” non suddivisibile in istanti, non frammentabile in punti di spazio misurabili, costituisce la “natura del tempo” – intendendo con “natura”, in senso forte, la sostanza stessa della temporalità, la quale coincide con la sostanza che il soggetto è in quanto coscienza. All’interno di tale durata, noi ritagliamo delle frazioni sottoponibili a misura, non appena ci facciamo scienziati: ma resta, o dovrebbe restare viva in noi, la coscienza dell’origine soggettiva dell’esperienza-tempo. La contro-intuitività della teoria einsteiniana è così attenuata: se non è possibile, sul piano dell’esperibilità scientifica, fornire esempi direttamente intuitivi della teoria, resta pur sempre possibile (sul piano filosofico) ricondurre la teoria alla sua origine nella Lebenswelt, nell’intuizione originaria del tempo prima di ogni idealizzazione matematica. Si comprende, così, anche l’insistenza di Bergson sulla natura unitaria del tempo: la relatività di cui parla Einstein è quella della traduzione spaziale del tempo, mentre l’umanità è portata intuitivamente a credere nell’esistenza di un Tempo unico fatto della connessione universale dei tempi di coscienza degli individui, «ed è, questa, l’ipotesi del senso comune, che come noi sosteniamo, potrebbe anche coincidere con quella di Einstein, per cui la teoria della Relatività sarebbe più adatta a confermare l’idea

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di un Tempo unico per tutte le cose»29. Con ciò, passiamo alla seconda critica fondamentale mossa da Bergson a Einstein.

3. Tempo unico o tempi multipli? Bergson sostiene, dunque, che la teoria della Relatività di Einstein è compatibile con l’ipotesi del senso comune – assai vicina all’assunto dell’assolutezza newtoniana – circa l’esistenza di un Tempo unico reale. Ciò sembra contraddire la relativizzazione della simultaneità operata da Einstein: come abbiamo visto, tempi apparentemente simultanei non sono tali per sistemi di riferimento diversi. Ho già evidenziato come per Bergson la conclusione einsteiniana si applichi alla misura degli istanti temporali, ossia ai punti spaziali in cui quelli si traducono, e nulla dica della durata come tale. Nel capitolo IV su “La pluralità dei tempi”30, la critica di Bergson si precisa ulteriormente. Come riassume Fabio Polidori nella sua Introduzione all’edizione italiana di Durata e simultaneità, potremmo enucleare così la critica avanzata da Bergson: Einstein può sostenere l’esistenza di tempi multipli solo ammettendo che il tempo da lui teorizzato sia unico! In altri termini: esistono tempi multipli a condizione che la teoria di Einstein sia vera, ossia che il tempo sia unicamente fatto come la teoria della Relatività lo descrive. Se il tempo è unicamente quello di Einstein, allora esistono i tempi multipli che il suo modello descrive; la posizione assume però, in questo modo, un carattere autocontraddittorio che ne annulla la validità. L’argomento di Bergson sfrutta l’acquisizione fondamentale derivante dalla 29. H. Bergson, Durata e simultaneità, tr. it. cit., p. 48. 30. Ivi, pp. 67 sgg.

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prima critica, che ho esposto nel paragrafo precedente di questa Appendice: se è vero che il tempo misurato dal fisico è in realtà una spazializzazione del tempo autenticamente esperito dal soggetto, allora l’unità del tempo non è messa davvero in questione. Anzi, è possibile – secondo Bergson – che la teoria della Relatività confermi, suo malgrado, la tesi del Tempo unico. In che modo il filosofo francese giunge a questa convinzione? Torniamo brevemente all’argomentazione sostenuta nel capitolo su «La natura del tempo», dove troviamo una spiegazione più discorsiva e meno tecnica di quella presentata nel capitolo sulla pluralità dei tempi. Bergson sostiene che «non si può parlare di una realtà che dura senza introdurvi la coscienza»31; questo è l’elemento tradizionalmente trascurato dall’atteggiamento scientifico e dallo stesso Einstein, dal momento che «il matematico [...] si interessa alla misura delle cose e non alla loro natura»: ma se il tempo è successione, esso è composto di “prima” e “dopo” legati tra loro da un elemento che deve essere necessariamente nella rappresentazione, ed è infatti il legame della memoria, ossia – appunto – della coscienza. Ma, allora, come è possibile che la scienza misuri il tempo? Ciò accade perché, s’è detto, il tempo viene tradotto simbolicamente in spazio, attraverso la mediazione del movimento: gli “istanti” altro non sono che i punti individuabili all’interno della linea spazializzata, ed è confrontando tra loro questi presunti istanti di tempo (i quali sono invece punti spaziali) che il matematico procede nelle sue misurazioni. Bergson introduce una precisazione di cruciale importanza: la simultaneità degli istanti (come punti spaziali) rende certamente misurabile il tempo, ma è solo la traduzione di quella simultaneità nei momenti corrispondenti del flusso di durata interno (di coscienza) che rende quegli istanti degli

31. Ivi, p. 48.

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istanti temporali, ossia che rende tempo il tempo. Il tempo è tale, direbbe Husserl, per la coscienza. Il limite della teoria di Einstein sarebbe dunque così esprimibile: misurare significa identificare dei punti/istanti. Per quanto attenta possa essere la misurazione, essa non arriverà mai a cogliere ciò che accade negli intervalli tra i punti: può solo identificarne le estremità. Come già sappiamo dai capitoli precedenti, tuttavia, soltanto l’intervallo è davvero vissuto dal soggetto; esso solo è un dato immediato dell’esperienza e costituisce un valido punto di partenza (pre-categoriale, nel senso husserliano) per la teoria. Il vantaggio, qui, è tutto dalla parte filosofica: una filosofia, leggiamo in Durata e simultaneità, che comprenda la natura qualitativa del tempo e il processo attraverso cui esso diviene misurabile, potrà ammettere senza dubbio lo spazio-tempo di Einstein, mentre non è detto che una teoria fisica interessata al solo aspetto quantitativo sia in grado di cogliere il versante soggettivo e vissuto del tempo. Non è detto, perché non è necessario ai fini applicativi: siamo di fronte a un problema di fondamento filosofico. Questo ci diviene chiaro nel modo migliore introducendo il riferimento alla Lebenswelt: il limite della critica bergsoniana consiste nel tentativo di dimostrare l’unità del tempo sul piano della stessa teoria fisica. Dimostrato filosoficamente che la teoria di Einstein oblia la sfera soggettiva della temporalità, Bergson cerca (nel capitolo sulla pluralità dei tempi) di dimostrare la sua acquisizione anche sul piano della stessa Relatività. Proprio qui egli incontrò le massime resistenze, e in effetti è molto difficile competere sul suo stesso piano con una teoria corroborata sperimentalmente, sebbene lontana dalla nostra diretta intuitività. Il riferimento a Husserl mostra, invece, la proficuità di una critica che si mantenga puramente sul versante filosofico, fondativo, individuando nella Lebenswelt la radice comune di atteggiamento filosofico e atteggiamento scientifico e mostrando che il tempo del filosofo e quello del fisico sono lo stesso tempo, colto in

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modalità diversa. Vedremo, dalla sua replica a Bergson, che proprio su questo punto Einstein non concorderà. Per esprimere il suo punto di vista, Bergson fa l’esempio della palla di cannone32: ipotizziamo un soggetto, che chiamiamo Pietro, fermo sulla terra (sistema S) accanto a un cannone e ipotizziamo che il cannone spari nello spazio una palla (sistema S’) in cui è rinchiuso un secondo soggetto, Paolo. Se assumiamo il punto di vista di Pietro, il suo sistema è fermo e quello di Paolo è in moto: se assumiamo quello di Paolo, il suo sistema S’ è ugualmente fermo ed è piuttosto la terra (e Pietro) a schizzare via alla velocità della luce. Se prendessimo alla regola la reciprocità dei sistemi di riferimento, dovremmo assumere alternativamente entrambi i punti di vista di Pietro e Paolo e allora essi sarebbero non solo realmente intercambiabili, ma perfettamente coincidenti: sarebbero due tempi di un tempo unico. Constateremmo, cioè, «che i nostri due personaggi hanno in effetti vissuto un solo medesimo tempo, duecento anni, poiché ci eravamo posti sia dal punto di vista dell’uno che dal punto di vista dell’altro. E ciò era necessario al fine di interpretare filosoficamente la tesi di Einstein, la tesi della Relatività radicale e di conseguenza della perfetta reciprocità del moto rettilineo e uniforme. Ma questo modo di procedere è quello del filosofo»33. Il fisico, non potendo ricondurre contemporaneamente gli eventi dell’universo a due sistemi di assi differenti, sceglie invece uno dei due punti di vista e legge l’altro a partire da quello prescelto. Per esempio, assumerà il punto di vista di Pietro fermo sulla terra e osserverà Paolo con gli occhi di Pietro: al rientro dal viaggio spaziale, sulla terra sarebbero trascorsi duecento anni e sulla palla di cannone solo due. Lo stesso avverrebbe se si scegliesse come sistema di riferimento il proiettile di Paolo. Nell’in32. Ivi, pp. 74 sgg. 33. Ivi, p. 74.

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terpretazione filosofica, invece, sarebbe trascorso esattamente lo stesso tempo, proprio perché si sarebbe tenuto conto del tempo effettivamente vissuto e non di quello spazializzato e misurabile. Assumendo il tempo di Pietro e leggendo il tempo di Paolo dal punto di vista di Pietro, il fisico sostituisce al tempo vissuto da Paolo un tempo fittizio, che non è quello di Paolo ma è il tempo di Pietro, spazializzato: ma se non è tempo quello che così misuriamo, bensì una sorta di quarta dimensione spaziale (il “tempo spazializzato”), allora il tempo autentico rimane uno, quello effettivamente esperito dal soggetto nel suo sistema di riferimento. L’argomento di Bergson, per quanto sottile, si presta ad alcuni rilievi. Innanzi tutto, esso è limitato – almeno nell’esempio della palla di cannone – alla Relatività ristretta, come egli stesso ammette34. Ma cosa dire del moto accelerato e dell’implicazione in esso della gravità? Basterebbe semplicemente estendere la tesi del carattere qualitativo anche all’esperienza dell’accelerazione sul treno, che abbiamo richiamato in precedenza? C’è un secondo problema. Le diverse misurazioni rilevate sperimentalmente a conferma della teoria sono spiegate da Bergson come misure spaziali piuttosto che temporali: il tempo di Pietro e Paolo è in realtà, come detto, lo stesso. Ma quali sono questi spazi diversi, se Pietro è fermo e Paolo è il solo a muoversi (e viceversa)? Si vuole dire che, se Pietro misurasse lo spazio di Paolo, otterrebbe una misura differente? Ma questa ipotesi non è speculativa esattamente come quella einsteiniana, in cui il tempo di Paolo è letto dal punto di vista di Pietro? Non si replica qui, in rapporto allo spazio, lo stesso disancoraggio dall’intuitività che Bergson

34. «Il moto della palla di cannone può essere considerato come rettilineo e uniforme in ciascuno dei due tragitti di andata e ritorno considerati isolatamente. È tutto ciò che serve per la validità del ragionamento che abbiamo fatto»; ivi, nota 1, p. 74.

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imputa a Einstein in relazione al tempo? Sembra che, ancora una volta, solo mantenendo l’argomentazione sul piano filosofico, ossia riferendosi alla Lebenswelt husserliana, sia possibile un contatto non contraddittorio tra interpretazione filosofica e teoria fisica.

4. Conclusione È interessante considerare brevemente, in conclusione, la risposta di Einstein a Bergson. Nello stesso 1922, anno di pubblicazione di Durata e simultaneità, si tenne un convegno sulla teoria della Relatività in onore di Einstein, presso la Société de Philosophie di Parigi: Bergson, che era presente, fu sollecitato a tenere un breve intervento, in cui egli ripercorse gli snodi critici contenuti in Durata e simultaneità. Nella sua risposta, Einstein riformulò così il problema: «il tempo del filosofo è il medesimo tempo del fisico?»35. Abbiamo visto che, per Bergson e soprattutto per Husserl, la risposta è affermativa. Si tratta dello stesso, unico tempo, vissuto secondo differenti atteggiamenti intenzionali36. Nella sua replica, Einstein nega proprio questo punto. Egli afferma che nulla impedisce di rappresentarci la simultaneità relativa degli eventi, poiché questi «non sono altro che costruzioni mentali, esseri logici». Curiosamente, Einstein fornisce una risposta di carattere “filosofico”, che chiamerebbe in causa la lettura fenomenologica più dei rilievi bergsoniani: egli sostiene (e con lui anche altri

35. Ivi, p. 198. 36. Nelle lezioni sulla coscienza interna del tempo, come abbiamo ricostruito in precedenza, Husserl sostiene proprio che il tempo di coscienza è il fondamento del tempo obiettivo, di cui trattano le scienze esatte; particolare rilevanza ha, in questo senso, la rimemorazione o ricordo secondario. Cfr. E. Husserl, HUA/X, tr. it. cit., Appenice IV, pp. 132 sgg.

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fisici della Relatività, come André Metz e Jean Bacquerel) che gli eventi sono “costruzioni mentali, esseri logici”. Al di là della (non ovvia) equiparazione implicita di “costruzioni mentali” ed “esseri logici” (non sarebbero la stessa cosa per un fenomenologo), si potrebbe rispondere a Einstein – con Husserl – che tempo filosofico e tempo psicologico sono ben lontani dall’essere riducibili l’uno all’altro, come tutta la fenomenologia sta a dimostrare. Se la negazione dell’unità di tempo filosofico e tempo fisico vuol dunque riposare sulla riduzione del tempo filosofico a quello psicologico, siamo autorizzati – come fenomenologi – a ritenere ancora quell’unità valida e possibile. Si potrebbe anzi porre un’ulteriore provocazione: se l’odierna teoria delle stringhe ricerca appunto l’unità delle forze fisiche, e se questa unità ha un senso “filosofico” per la dimensione temporale, non è forse possibile che qualche sollecitazione verso la teoria unificata possa giungere anche dall’elucidazione filosofico-fenomenologica che abbiamo qui tentato di abbozzare?

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Indice

Nota alla nuova edizione

p. 9

Premessa

p. 13

Capitolo primo Coscienza e realtà: soggettività e oggettività nella costituzione temporale

p. 17

Capitolo secondo La linea del tempo: percezione e memoria tra Bergson e Husserl 1. Percezione e memoria oltre il senso comune: il problema dell’attualità dell’ora 2. Percezione «adeguata» (Husserl) e percezione «concreta» (Bergson) 3. La linea del tempo Capitolo terzo Tempo e virtualità in Bergson Capitolo quarto Stratificazioni della coscienza temporale in Husserl 1. Percezione e fantasia 2. Sensazione e percezione 3. Ritenzione e rimemorazione 4. Rimemorazione e tempo obiettivo

p. 31 p. 31 p. 44 p. 63 p. 71 p. 91 p. 91 p. 95 p. 103 p. 115

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Appendice La natura del tempo. Una lettura fenomenologica della disputa tra Bergson e Einstein 1. Osservazioni preliminari 2. La natura del tempo non è (solo) “naturale” 3. Tempo unico o tempi multipli? 4. Conclusione

p. 119 p. 121 p. 127 p. 138 p. 143

Bibliografia

p. 145

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 11 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788885716285

In questo libro l’autrice realizza uno specifico esperimento di lettura e di interpretazione filosofica, consistente nell’analisi comparativa del rapporto tra percezione e memoria in Henri Bergson e Edmund Husserl. All’interno del più generale tema della costituzione temporale, questo rapporto viene isolato e indagato in vista di due obiettivi fondamentali: in primo luogo, comprendere in che modo, secondo i due autori, si costituisca la “coscienza di passato” e quale funzione essa svolga in rapporto al presente percettivo; in secondo luogo, evidenziare gli approfondimenti che una specifica integrazione tra le due prospettive può recare, da un lato, alla comprensione filosofica della dinamica temporale e, dall’altro, alla possibile interazione con il paradigma scientifico (in particolare, con l’odierna teoria fisica della temporalità).

Federica Buongiorno (1985) è Habilitations-Kandidatin (Senior Researcher). È Editor in Chief della rivista internazionale di filosofia “Azimuth. Philosophical Coordinates in Modern and Contemporary Age“, codirettrice della collana “Umweg” (InSchibboleth Edizioni) e redattrice della riviste filosofiche “il Cannocchiale”, “Lo Sguardo”, “Philosophy Study”. Collabora come traduttrice con diversi editori italiani e ha pubblicato svariate monografie e numerosi saggi sulla fenomenologia e sul pensiero husserliano – sue principali aree di ricerca.

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