La letteratura italiana. Storia e testi. Memorialisti dell'Ottocento [Vol. 59.3]

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI VOLUME

59 ·

TOMO

III

MEMORIALISTI DELL'OTTOCENTO TOMO lii

MEMORIALISTI DELL'OTTOCENTO TOMO III A CURA DI CARMELO CAPPUCCIO

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO · NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISERVATI • ALL RIGHTS RBSERVED PRINTED IN ITALY

MEMORIALISTI DELL'OTTOCENTO TOMO 111

INTRODUZIONE NICCOLÒ MONTI

Mio viaggio nel Nord AMALIA NIZZOLI

IX 3

7 55

Memorie sull Egitto

61

EDMONDO DE AMICIS

12,5

1

Spagna Olanda Marocco Costantinopoli Ricordi d'infanzia e di scuola Memorie Un salotto fiorentino del secolo scorso Ricordi del 1870-71 Francesco Tamagno La Sicilia in teatro

133 172,

179

218 243 303

342. 400

431 44S

FERDINANDO FONTANA

In Tedescheria New-York ALINDA BONACCI BRUNAMONTJ

Ricordi di viaggio ANNIE VIVANTI

Zingaresca MARIANO CELLINI

Vita d un povero ragazzo 1

GASPERO BARBÈRA

Memorie di un editore GIOVANNI FALDELLA

Roma borghese

541 54S

611 619

677 681 733 739

835 841

ANGELO CAMILLO DE MEIS

Dopo la laurea. Vita e pensieri DINO MANTOVANI

Lettere provinciali ALESSANDRO D'ANCONA

Ricordi ed affetti Rimembranze gradev~li FEDELE ROMANI

Colledara Da Colledara a Firenze

873 885

943 947 977 987 J02J

1033 1039 1115

NOTA AI TESTI

1231

INDICE

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INTRODUZIONE

Questo nuovo tomo di memorialisti dell'Ottocento si aggiunge a due precedenti già apparsi in questa stessa collana. Si amplia cosi uno sfondo di ricordi ed esperienze personali, che giova a meglio ricostruire e intendere la vita di uno dei secoli più complessi e densi di mutamenti della nostra storia: il secolo, soprattutto, che ha visto accrescersi la presenza attiva degli umili, di:venuti essi stessi attori delle vicende storiche e personaggi-protagonisti di tanta letteratura. Le memorie dei due tomi precedenti accoglievano, in genere, più immediati riflessi delle vicende risorgimentali: questo, invece, salvo alcune pagine deamicisiane, ritesse quelle vicende collie un ricordo e un rimpianto, che si sbiadiscono con il cammino del tempo, o più spesso tace di quei giorni esaltànti, sia perché ancora futuri, sia perché già sorpassati e demitizzati da altre ansie e pensieri, quelli delle nuove leve storiche. L'età che dal romanticismo giunse al realismo attraverso molte, complesse esperienze, presenta, proprio per questa sua lunga linea di svolgimento, una pluralità di aspetti e atteggiamenti, di luci e ombre, che chiedono esplorazioni più estese e penetranti tra le memorie che ne abbiamo ereditato. Una ricerca, dunque, che non dovrebbe giovare soltanto a chi consideri le espressioni letterarie dell'Ottocento, ma piuttosto concorrere a una più ampia ricostruzione della civiltà del ·secolo. N elio scegliere le pagine di memorie che ab biamo raccolto si è continuamente presentato un problema di valutazione. La perplessità nasceva dalla incerta linea divisoria tra gli scritti che appartengono all'area della letteratura e quelli che ne sono estranei. Un confine che è divenuto sempre più difficile tracciare, anzitutto perché i valori formali, del bello scrivere, sono una misura da gran tempo giustamente abbandonata, e d'altra parte l'interesse dei contenuti è soggetto esso stesso a un variabilissimo metro. Né i moduli estetici crociani, ancora tutt'altro che validamente sostituiti, potevano giovare alla distinzione, in uno spazio, comunque, che non è dell'arte ma della letteratura. Anche a mantenersi prudenti di fronte a certe eccessive aperture, è certo che il concetto di letteratura si è dilatato e la sua storia si avvia a divenire storia della cultura. E cib sposta, ma

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non risolve il problema, e solo lega più strettamente le espressioni, le voci di un periodo alla storia, sfericamente intesa, di quel periodo; si che la misura nello scegliere diviene diversa, e più generosa, ma pur sempre incerta. Del resto, il fenomeno ubbidisce a una motivazione più complessa, perché la maggiore partecipazione culturale e politica di forze sociali rimaste a lungo nell'ombra ha contemporaneamente dilatato la concezione una volta più aristocraticamente selettiva della letteratura, accogliendo, invece, in essa la parola delle nuove leve sociali e avviando inoltre una esplorazione e una conquista retrospettiva di prodotti rifiutati o svalutati dal severo giudizio dei lettori del passato. Ed è ormai evidente che questa opera di revisione si sta svolgendo attualmente su tutto il nostro Ottocento, e riappaiono perciò opere di molto vario argomento, che erano state a lungo dimenticate, e che preparano con la loro presenza un riesame dell'intero secolo, secondo le esigenze e le idealità, e perciò anche il gusto, dei tempi in cui viviamo. Di pagine di memorie l'Ottocento è ricchissimo, forse più di ogni altro secolo, anche perché già in esso era oltremodo cresciuto, con l'avvento di più vasti strati della borghesia, il numero di coloro che intendevano lasciare, scrivendo i propri ricordi, una traccia della loro attività e del loro passaggio sulla terra. N elio scrivere, li sosteneva spesso la persuasione di poter servire di esempio a una cerchia più o meno vasta di lettori, o di sopravvivere più a lungo nel rimpianto e nelle lodi dei familiari; e, a volte, delle stesse generazioni future. Speranze, certo, molto spesso deluse; ma l'uso di narrare la propria storia personale continuò insistente in tutto il secolo. L'interesse, tuttavia, dei tanti libri di memorie non si accentra, naturalmente, solo intorno al personaggio che narra di sé stesso, ma anche - e ancor più - sui numerosi particolari che circondano la sua figura e che spesso affiorano senza che egli se lo proponga. Gli affetti familiari, e una loro spontanea freschezza; certi interni di famiglie con madri di una semplicità paesana, intente per una intera vita a governare la casa, a preparare quotidiani cibi e conserve, silenziose, pronte al sacrificio; i modi con cui fiorivano certi amori di adolescenti; gli entusiasmi risorgimentali di un popolo che si affacciava solo allora all'idea di nazione; le scuole del tempo, e i confini di una cultura ancora diversa nelle varie regioni;

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le città e le campagne ottocentesche, le comunicazioni lente e penose, con i viaggi interminabili; il volto deluso dei conservatori davanti all'incalzare degli eventi, e il sentimento concreto, puntualizzato nel costume, delle differenze e distanze sociali; certe convinzioni che sembrano dominare come leggi indiscutibili la vita di tutti; la generale parsimonia e quasi povertà nel tenore di vita degli stessi abbienti; la penosa condizione dei miseri ancora accettata come ineluttabile: in una parola, la storia, la vita di un'epoca, vista non già nelle linee d'insieme, nei problemi generali, ma scoperta o riconquistata nei particolari, come se improvvisamente si aprisse uno spiraglio nel tempo e ci si riaffacciasse, fortunati spettatori, nelle città, nei villaggi, nelle case dell'Ottocento, a seguirne l'esistenza quotidiana, a cogliere nell'intimità degli affetti e dei costumi una popolazione tanto diversa, ma dalla quale siamo discesi e a cui dobbiamo molti aspetti della nostra attuale esistenza. Nella scelta, insieme con autori comunemente noti, anche se non più ristampati, presentiamo memorie del tutto dimenticate, che forse al loro apparire interessarono solo una piccola cerchia di lettori. È il caso di Mariano Cellini, un tipografo fiorentino, e della sua Vita d'un povero ragazzo. Le sue pagine si appoggiano a una sintassi elementare, che a volte è anche sciatta, la sua cultura è quella povera di un popolano autodidatta, il lessico assai spesso dialettale. Ma fin dal1' inizio risorge vivissima una Firenze di piccoli, umili artigiani; una esistenza misurata, faticosa e tuttavia serena; dei sistemi educativi, in scuola e in casa, autoritari per convinzione di far bene; un'ansia di salire e di sapere, e anche perciò l'ammirazione per gli uomini dotti, un desiderio di avvicinarli, finalmente appagato, nel Cellini, dall'incontro col Vieusseux; la religiosità tradizionale che si lega a una volontà animosa di progresso, di libertà, ma che sempre rifiuta ogni disordine. Nella narrazione si segue il cammino dell'autore da piccolo commesso di cartoleria fino a gestore di una tipografia, la Galileiana, di cui divenne poi unico padrone, e che ha avuto molti meriti nelle vicende dell'editoria fiorentina. In genere le pagine di memorie delPOttocento sono opere di una borghesia colta, e perciò i ricordi, e gli sfondi su cui essi risorgono, spesso rispecchiano la vita di un solo settore della società; e anche se l'attenzione si volge ad altri ambienti, le loro linee, il loro colore appaiono filtrati attraverso una valutazione che li modifica. Nel Cellini la vita dei popolani

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della Firenze granducale torna invece con un suo timbro spontaneo e senza agghindature, e perciò, nella nostra scelta, la Vita d'un povero ragazzo vorrebbe rappresentare un esempio di quegli scavi esplorativi, al di sotto della produzione ormai legittimata, che potrebbero dar rilievo più vivo a molti aspetti dell'Ottocento e completarne la ricostruzione. D'altra parte, in un obbiettivo ripensamento dell'azione svolta dall'Ottocento per l'elevazione delle minori classi sociali - anche arricchendo orientamenti già sorti con l'illuminismo -, un attento sguardo meriterebbe il Cellini, non soltanto e non tanto per l'assidua cura rivolta alle società di mutuo soccorso, a ùmili iniziative operaie, e per la difesa della libe•rtà di stampa, ma soprattutto per quelle « Letture di famiglia» che diresse insieme con Pietro Thouar per lunghi anni. La pubblicazione, nata con altro nome nel 1847, e preso quello definitivo nel 1849, si protrasse fino al maggio del 1885, oltre la vita dei due direttori, e svolse un'attività sociale molto intensa e intelligente, il cui merito, in buona parte, è anche del Cellini. Se non sono sue le parole con cui il primo numero esponeva il programma, di «far conoscere al popolo», tra l'altro, «i diritti che vengono conculcati e i doveri che vengono trascurati», certamente anche sua è l'ispirazione di queste idee e, più ancora, la volontà che il giornale «fatto per il popolo» parlasse u il popolare linguaggio»; e sua è ancora la libertà con cui accolse molte idee mazziniane, pronto ad opporsi a quelle che non corrispondessero alle sue convinzioni. Del resto, anche la lingua usata dal Cellini nelle sue memorie spesso ha più del parlato che dello scritto, e sempre del popolare più che del letterario, ma proprio per queste sue derivazioni giova a far rivivere un ambiente, a risentirne le forme espressive. Infatti sono esse che varie volte sbalzano efficacemente alcune scene: come la corsa del fanciullo inseguito dal prete, il corteo del condannato a morte, il viaggio sui cammelli nella breve parentesi egiziana, gli amori e le nozze. E anche piace notare nelle pagine il ricordo del religioso ·impegno con cui il Cellini curò la composizione e la stampa di quell'«Antologia» che fu tra le maggiori e più operose riviste italiane per il nostro risveglio nazionale. .

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I ricordi del Cellini furono stampati in pochi esemplari, alla sua morte. Ugualmente poco numerose certamente furono le copie delle Memon·e sull'Egitto che l'editore Pirotta pubblicò a Milano

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nel 1841. Ne era autrice una donna, Amalia Nizzoli, di cui abbiamo potuto dare pochissime notizie, nonostante le molte ricerche. Ma il suo libro ci è sembrato .che meritasse di tornare alla luce, non già perché ricco di pagine belle nel significato tradizionale di una superata norma retorica, ché anzi a volte il linguaggio risente del plurilinguismo della scrittrice, ma per la vivezza e l'immediatezza con cui riappare un mondo esotico ormai tramontato, con i suoi interni più gelosi. Pregevole per la sua eccezionalità la descrizione della vita di un harem, seguita dal suo interno, colta nella sua oziosa mollezza; fortemente colorite le scene delle donne ai bagni pubblici, in un rilievo di costumi, ma anche di stati d'animo, di contrapposizioni sociali, di sottile erotismo. Si segue con forte umano interesse una descrizione di viaggio per mare, su una nave insicura, tra le superstizioni dei marinai, le minacce e il terrore di una tempesta: la scena rivive in una gradazione di tinte fosche, distribuite con una sapienza che certo non nasce da abilità di mestiere, ma da un ritorno di immagini ancora paurose nel ricordo, e perciò espresse con vivezza. Aggiungeremo che forse, a nostro parere, molte altre pagine del libro meriterebbero di essere conosciute; ma la prudenza che ci doveva guidare ha limitato la nostra scelta. Anche Gaspero Barbèra è un tipografo-editore come il Cellini, e anch'egli nei primi passi ha lavorato come commesso, in un negozio di tessuti, in librerie e tipografie, fino a farsi padrone di una propria casa editrice. Lo scenario dei suoi ricordi si sposta da Torino - rivista nel suo conservatorismo del primissimo Ottocento, ma già sveglia a nuove esigenze nei più giovani, desiderosi di maggiori orizzonti - a Firenze, dove i fermenti di civiltà s'erano. fatti già più operosi, molto prima che il granduca lasciasse la Toscana. Diversi di qualità i due tipografi-editori, anche se esteriormente con alcuni elementi comuni: ma l'autodidattismo dell'uno ha una risultanza elementare, mentre nell'altro compensa in pieno le lacune iniziali; già affrontate, del resto, con quella tenacia piemontese che tornerà immutata, per le conquiste economiche e di prestigio, nell'industria editoriale. Diversità di statura umana, ma anche rapido mutarsi di tempi, di cui è segno il dilatato orizzonte del Barbèra, che coglie i problemi italiani più che i soli toscani, e volge lo sguardo alla Francia, alla Germania, seguendo nella sua

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nuova attività tipografica le vie che i mercanti piemontesi già percorrevano per la diffusione dei loro tessuti. La vitalità dell'uomo si fa, sulle pagine di memorie, vivacità di presentazione: di una vecchia Torino con i suoi rigidi costumi, combattuti - ma non troppo - dai giovani, e in una sua onestà proverbiale; di una Firenze ancora incerta in una sua mescolanza di vecchio e di nuovo, di granducale e italiano, ma gelosa delle sue tradizioni, di un suo primato nobiliare di fronte all'invadenza piemontese; di un risorgimento sorretto da una minoranza colta, quella degli scrittori, in una galleria di figure storiche - dal Guerrazzi al Giusti, al d'Azeglio, al Ricasoli - colorite in particolari di vita essenziali a rivelarne il profilo. Alcuni ritratti restano a lungo nella memoria, come il giovane che cammina per Torino portando sulla spalla rotoli di canapa, e intanto legge da un libro che tiene aperto davanti a sé; o, per fare due altri esempi, il Guerrazzi nel carcere delle Murate, e il d'Azeglio a Cannero, desideroso e lieto del giudizio sul manoscritto dei suoi Ricordi, e poi a Torino sul suo letto di morte. Senza dubbio, nei suoi Ri"cordi il Barbèra evita di ritrarre la vita intima del proprio ambiente familiare, di abbandonarsi a vibrazioni del sentimento. L'intenzione, nello scrivere, era diversa da quella di un autobiografismo solitario, anzi l'uomo era rivisto soprattutto nella sua attività di tipografo, di cittadino, di editore. Ma all'intenzione si univa, nel creare questo orientamento, la riservatezza e severità del costume piemontese, e anche, come abbiamo già osservato, l'allargarsi degli interessi, degli orizzonti in un passaggio da una editoria ancora artigianale a un'azienda di più largo respiro, incamminata verso le dimensioni industriali. Da tutti questi elementi deriva, per non poche pagine, un certo grigiore, una compassatezza che crea un forte distacco di atteggiamenti fra le memorie del Barbèra e quelle di molti contemporanei. Ma anche ne deriva una maggiore cura formale, che se non è quella d'uno scrittore è però segno di una volontà di conservare esatta e corretta la narrazione. Non è uno scrittore Niccolò Monti, anche se dedicò gran parte delle sue ore a scrivere e farsi stampare: quasi più che a dipingere, mentre i suoi studi, all'Accademia di Firenze, l'avevano educato per la pittura. Ma la sua narrazione di un lungo viaggio in Polonia, al seguito di un -conte che voleva l'opera di un artista italiano nel

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suo palazzo, e poi fino in Russia, a dipingervi, e il ritorno, con ampia curva verso il nord, nella Firenze da cui era partito, formano un quadro di vivo interesse. Anzitutto per i paesaggi, i costumi, l'evidente struttura ancora feudale della società polacca: ma inoltre interessano molto gli accenni a scultori, pittori, architetti polacchi e russi, alle loro opere, ai dotti delle terre percorse nel viaggio, ai legami tra la nostra e altre civiltà in un periodo del primo Ottocento immediatamente successivo alla caduta di Napoleone. Sono memorie narrate senza intento artistico: tutta l'attenzione del Monti è rivolta ai fatti, a volte con la convinzione di aver vissuto un'eccezionale vicenda da far stupire i lettori, più spesso in una cura di fissare per sé stesso gli anni migliori della propria vita, quasi a impedire che il tempo ne dissolva l'immagine. Nella nostra scelta sono numerose le pagine di viaggi. Ne abbiamo già ricordate molte, dicendo della Nizzoli e del Monti, ma certo altrettanto o molto più interessanti riusciranno quelle del De Amicis, del Fontana, della Bonacci Brunamonti. Ferdinando Fontana viaggiava come giornalista e le sue pagine conservano il taglio, e spesso la trascuratezza, di una frettolosa corrispondenza, ma proprio per questa loro immediatezza ritraggono al vivo luoghi e persone, mantengono il colore delle scene. Le corrispondenze da Berlino e poi da varii luoghi della Germania, raccolte nel volume In Tedescheria, rivelano fra loro ineguaglianze notevoli; gli affanni dell'occhiuta ma ottusa polizia illuminano un ambiente e una mentalità in modo più efficace di alcune pagine troppo analitiche dedicate ai ritrovi dei berlinesi, mentre ritorna ad essere una stampa felice lo scenario del fiume di birra che si consuma in ogni locale. Ineguaglianze che confermano il minor livello del Fontana come scrittore, ma che non sminuiscono il pregio delle sue rievocazioni. La New York delle sue descrizioni, con una moltitudine di negozi, tanta bizzarria di propaganda, commerci già intensissimi, mostra ancora non digrossati certi costumi primitivi e alcuni tipici avventurieri a cui ci hanno abituato i racconti e le stampe del Far West, mentre vicino al porto ha forte rilievo il Cast/e-Garden, il grande serbatoio di mano d'opera, il flusso di emigranti che il vecchio mondo scarica nel nuovo, italiani, tedeschi, irlandesi, che si incolonnano tra alte cancellate, ingabbiati come gregge; e già scivolano tra i lavoratori e sfuggono ad ogni controllo, con la compiacenza degli stessi con-

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trollori, i fuggitivi che hanno lasciato, dietro sé, nei paesi di origine, una storia di delinquenza da cancellare, o proseguire in più ampio raggio, nella nuova terra. L'emigrazione come fenomeno e problema storico diventa dramma concreto, vissuto e sofferto dai singoli, in uno scenario rapidamente sbozzato, senza fronzoli, senza compiacenze, senza insistenze e irritante pietismo. Anche Edmondo De An1icis viaggiava come inviato di giornali, ma le corrispondenze, prima di essere raccolte in volume, furono da lui variamente rielaborate e integrate. Meglio ancora, nelle sue pagine vi è il segno di un artista. Anche ad accettare tutte le riserve che sono state avanzate sui suoi libri di viaggio, e specialmente sulla genesi libresca, - scritti, si è detto esagerando, più a tavolino che visitando e ritraendo con spontaneità e immediatezza - sopravvive pur sempre il fascino, la ricchezza di colore, il rilievo delle sue narrazioni. L'impressione dominante è di una festosa luminosità, di una parola che fluisce senza fatica, e che rivela un lieto, giovanile abbandono alle molteplici esperienze. Chi legge già prevenuto dal comune giudizio sul sentimentalismo languido del De Amicis, incontrerà certo momenti di sottolineate commozioni, di ripiegamenti dolciastri, ma sono momenti più rari di quanto si sia affermato. Si rilegga la descrizione della corrida, cosi mossa e sfaccettata, in un continuo spostarsi dello sguardo dal pubblico ai toreri, ai cavalli, ai tori. Ferite e morte degli animali creano nella narrazione curve di commossa pietà, mentre nel Baretti - questo richiamo è ormai tradizionale - il distacco è maggiore, anche se il giudizio è ugualmente severo. Ma la pietà deamicisiana è continuamente frenata, deviata verso particolari dello scenario, dispersa e vinta da spunti comici rapidamente sbozzati, e intrecciati con abile garbo. Senza dubbio, il Baretti resta più freddo, verrebbe detto che il suo giuoco è più dell'intelletto che del cuore, in un rapporto che nel De Amicis varie volte si capovolge. Tra le due descrizioni vi è la diversità umana dei due autori, ma anche vi è stata l'esperienza del romanticismo nelle sue varie gradazioni e l'influenza del Prati nel periodo giovanile. Tuttavia il cliché di un De Amicis tutto languori meriterebbe di essere riveduto. Al Cuore egli deve molta della sua celebrità, ma forse anche il danno dei giudizi più severi, che pure non si riuscirebbe ad applicare a una parte non esigua delle sue opere. Per restare sui libri di viaggi,

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non si può trovare nulla di insistente e eccessivamente dolciastro nella descrizione retrospettiva dell'incendio di Pera, almeno in una valutazione d'insieme, né pecca di sentimentalismo il grande spettacolo di centinaia di donne arabe sulle bianche terrazze di Fez, visto da un alto terrazzo del palazzo del Sultano, né il goldoniano viaggio con una «truppa» di attori in bastimento verso Cadice. Le lettere a Enrico e i racconti mensili di Cuore, molti di Vita militare sono, senza dubbio, lacrimosi, ma l'osservazione non è valida per le tante pagine di ricordi, in cui torna la città cli Cuneo dell'adolescenza deamicisiana, la Torino vibrante di promesse risorgimentali, il salotto fiorentino e la villa all' Antella dei Peruzzi: un panorama vastissimo su cui riappaiono numerosi personaggi delle vicende storiche dell'Ottocento, ma sorpresi in atteggiamenti e situazioni di vita privata e perciò umanizzati, e spesso felicemente rimpiccioliti nel distaccarli da certi ingrandimenti oleografici. Le linee sicure e affettuose con cui il De Amicis traccia il profilo dei suoi personaggi, tornano, riconfermate, nei ritratti di quei suoi «incontri» da cui abbiamo scelto, come esempio, le pagine su Francesco Tamagno e su Giovanni Grasso, anch'esse ricche di sentimento, ma che sarebbe ingiusto definire lacrimose. Certamente, a un controllato giudizio complessivo dovrebbe concorrere una attenta rilettura di tutte le opere. Gioverebbe tuttavia insistere sulla migliore misura che deriva da una più attenta collocazione storica, tra un romanticismo che scivolava nella sua degenerazione sentimentale e un naturalismo di voluta, scientifica insensibilità, per ritrovare il rilievo personale che ha il De Amicis su questo sfondo storico: e anche ricordare quanto impegno pedagogico abbia guidato il De Amicis, nella radicata convinzione di un proprio doveroso ufficio morale. Del resto, nella letteratura dell'Ottocento questo elemento pedagogico rimase a lungo dominante e, in molti casi, si presentò come giustificazione dell'attività letteraria. Ma l'azione pedagogica era essenzialmente rivolta al sentimento. Al prevalere di questo indirizzo influivano molteplici elementi: non soltanto il diffuso romanticismo, presente nel costume oltre che nella letteratura, ma una necessità del moto risorgimentale che cercava una più ampia base di adesioni e poteva trovarle, al di là delle minoranze colte, solo mobilitando gli affetti di larghi strati del popolo, commovendone gli animi intorno ad alcuni temi. Non era un calcolato programma, ma un atteggiamen--

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to diffuso, con intenzioni certo nobilissime: e dapprima preparò, e successivamente si volse a realizzare l'unità effettiva del paese. La famosa frase del d'Azeglio - ora bisogna fare gl'Italiani- è in realtà la parola d'ordine degli scrittori, prima e dopo l'unità, per un ampio arco dell'Ottocento: e ne derivano molti caratteri della loro produzione, non ultimo il tono oratorio assai diffuso. D'altra parte, questa penetrazione sentimentale fu anche il modo con cui si richiamò l'attenzione sulle classi più umili e si avviò, insieme, la loro elevazione: un processo sociale che mal poteva sollecitarsi su basi in cui i problemi si presentassero con una impostazione dottrinaria. Nonostante il giudizio di Filippo Turati, che respingeva l'accusa rivolta al De Amicis, che fosse approdato al socialismo solo per una via sentimentale, bisogna riconoscere che questa componente concorse in modo notevole al suo orientamento politico: e che il sentimento guidò molti momenti della sua vita. Tuttavia sono i suoi scritti deliberatamente educativi a restare spesso dominati dal sentimentalismo: ma non le molte pagine nate da una sorgente diversa, in cui l'impegno pedagogico dello scrittoremaestro si è attenuato. Ma a parte ogni considerazione sul peso del sentimento nell' opera del De Amicis e sulla necessità di valutarne il significato e le conseguenze, pensiamo, per tornare nei confini del nostro assunto, che la scelta da noi offerta resti valida come rievocazione di un interessante passato, attraverso aspetti e momenti e figure particolari. Dietro il sipario e dietro il palcoscenico, numerosi contrasti e grovigli politici può scoprire e indicare lo storico della presa di Roma, ma il pubblico contemporaneo la segui e la visse in una «angolata», ma reale partecipazione, con una illusa, ma sincera esaltazione degli affetti, che non è meno valida di un meditato giudizio storico: e perciò le pagine immediate, che i contemporanei- in questo caso il De Amicis - scrissero nel caldo dell'avvenimento, restano il mezzo migliore per integrare sul piano umano la ricostruzione dell'episodio. Certo, la cronaca scorge gli avvenimenti nella loro singola, isolata esistenza, non riesce a ridimensionarne il significato in un panorama più vasto, più complesso: ma il sapore, il colore del tempo ritornano solo attraverso la immediatezza della cronaca. Alinda Bonacci Brunamonti riempiva di ricordi i suoi quaderni di viaggio, che solo dopo la sua morte sono usciti in pubblico, per

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volontà e cura del marito. Parrebbe, dunque, che fossero destinati a lei sola, come un diario personale: ma ci si avvede facilmente che molte pagine sono accompagnate dalla compiacenza della scrittrice per la propria bravura, da una civetteria per il bello stile, e perciò il pubblico dei lettori è sottinteso, già presente nel momento della composizione. Anche perché la Bonacci è convinta di un proprio rilievo tra i letterati del tempo, e perciò di una sua funzione ufficiale. Questo atteggiamento spesso raffredda e nega vivacità a luoghi e scene - come se uscissero da un album, fiori di un erbario - ma non toglie interesse alla memoria di tanti incontri per tante città, da Venezia fino al ritorno in Umbria, in un pellegrinaggio tra artistico e letterario, che ritrae spesso figure minori del tempo ma ricollocate nella cornice di un loro ambiente, come Prospero Viani, bibliotecario della Riccardiana, Augusto Conti, Gesualda Malenchini, Giannina Milli, per richiamare alcuni nomi: o quadri di luoghi, come i monumenti di Padova, di una Firenze agitata per la facciata del Duomo, di Spoleto, di Recanati, di Arezzo. Le città tornano con un loro volto ancora provinciale, belle ma raccolte in una vita modesta, interessanti a noi per la loro distanza nel tempo, e pur tuttavia abitate e percorse da una sola classe sociale, colta e salottiera, in un perbenismo che vale da solo a ricostruire le linee di un tempo. Ad ogni arrivo, nel viaggio, i contatti subito si svolgono nel chiuso cerchio di una consorteria di letterati, di notabili : visite e cortesie: come se tutta la penisola fosse abitata solo da questa élite. Fissiamo, naturalmente, il colore storico, non cerchiamo una polemica anacronistica. Il libro si legge con gusto, vi circola una vita sana, senza complicazioni, ma rarefatta, cristallizzata in una elementarietà che sembra ignorare le reali tempeste che si agitavano al di là del muro di cinta, o allontanarle da sé come colpevoli. Molta letteratura del tempo affondava ben più profonde le sue radici nella realtà, ma aveva accanto questo mondo gentile, asettico, dove si era sviluppata una vita da serra e cli cui resta documento in tanta letteratura minore, che forse giova alla ricostruzione del passato più che le maggiori espressioni estetiche. Intanto, vi era un mondo che moriva. Giovanni Faldella è riuscito a darne un'immagine servendosi di uno scenario caricaturale, simbolico pur nell'esasperazione delle sue forme: un mondo retorico, tutto pose, esteriorità, gerarchie, sentimenti puerili, fe-

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de e amore belati in una voluta, stilizzata dimensione arcadica. Sono pagine vivissime, anche se a volte nocciono certe insistenze: il Faldella si diverte a disegnare quel mondo, a sbalzarne in rilievo la comicità, a riderne sottilmente. I frequenti richiami alle manifestazioni settecentesche dell'Accademia, al Gravina, al Crescimbeni, allo Zappi, al Rezzonico, al Casti, al Metastasio, valgono a mostrare quanto di vecchio, di sopravvissuto, imbalsamato si attardi nelle riunioni del palazzo d' Altemps e nei giardini del Gianicolo. Nessuna nota di condanna, neppure al fondo della presentazione: se ve n'è traccia nelle ultime pagine - che abbiamo tralasciato - ci si accorge che si tratta di una «coda» aggiunta per un ripensamento. L'impressione centrale è quella di una carnevalata, una riapparizione del passato in attesa dell'alba che disperderà i fantasmi della grande mascherata pastorale: e perciò non può esservi condanna, astio e polemica, ma la franca risata di chi sa buffa ma inoffensiva tanta eloquenza di orazioni e sonetti. Tuttavia, quel mondo esisteva: non già nelle forme esasperate che il Faldella aveva caricaturato, ma pur sempre esisteva in molti aspetti del costume, della letteratura, dei rapporti tra gli uomini. Nel suo fondo, al di là delle apparenze, vi erano atteggiamenti che sembravano intramontabili: e di cui solo simbolicamente l' Arcadia diveniva responsabile. Proprio nello stesso anno ( 1882) in cui usciva Roma borghese del Faldella, il Carducci raccoglieva in volume i suoi Giambi ed Epodi, in cui per un decennio aveva duramente frustato simili carnevalate e la corruzione che spesso vi si annidava, ma con la violenza e il sarcasmo che gli erano propri, mentre il Faldella demoliva con un suo riso canzonatorio assai più divertito che indignato. Un'epoca ha mille facce: bisogna ritrovarle nelle pagine del tempo. Memorie e paesaggio si legano saldamente in unità nel Fascino delle solitudini di Annie Vivanti. Ma i ricordi sono già filtrati attraverso un'intenzione artistica: non perdono il contatto con l'esperienza vissuta, ma la trascinano verso una dimensione poetica. La stazioncina isolata, gli spazi immensi e silenziosi, il ranch sperduto, i pastori solitari, la carica paurosa del bestiame, il fascino e il terrore di un mondo ancora lontanissimo, di anni e di spazio, dalla civiltà,· sono persuasiva, vivace testimonianza di una fase ormai superata nell'evoluzione del territorio americano: una testi-

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monianza che nel ricordo della scrittrice accentua alcune tinte e si ravviva di sorridenti ironie, tutta percorsa da quella giovanile festosità che fu tipica delle pagine migliori della Vivanti. Si direbbe che nel Fascino delle solitudini abbiano trovato un loro equilibrio l'obbiettività della memoria e la sua elevazione nell'arte. Un'osservazione che potrebbe ripetersi per le celebri pagine sul Carducci, che non falsano la figura del poeta, e tuttavia lo ritraggono con un calore cosi affettuoso e ammirato da sollevarlo in un alone di luce. Questo felice equilibrio che raggiunge nelle memorie, la Vivanti non lo attinse nei romanzi: la sua poesia nasceva dalla vita reale, non riusciva a fiorire da una vita immaginata. Proprio per questo, le lettere al Carducci sono anch'esse tra le sue espressioni migliori. I ricordi della Vivanti non hanno peso di pensiero, si risolvono in immagini, e nei sentimenti che le percorrono: un abbandono giovanile alla vita, senza complicazioni, senza ripiegamenti, in una sorridente fiducia, quasi la scrittrice avanzasse con passo di danza. I tempi delle sue memorie erano stati certo molto più complessi e tormentati di quanto le apparisse, - e le fu dato tanto di vita da soffrirne gli esiti più dolorosi - ma le sue pagine fermano un aspetto, sia pure di superficie, dell'ottimismo in cui molta società del tempo si isolb dalla realtà. Molto complesso, invece, il piano su cui si muove Angelo Camilio De Meis, tracciando, in forma di epistolario, un intimo dialogo con sé stesso. Mentre egli pubblicava il suo libro Dopo la laurea, il positivismo si affermava come nuovo orientamento del pensiero, e perciò negli studi e nelle ricerche mediche dominava un'esplorazione naturalistica, fra analisi, provette, alambicchi e microscopi. Il De Meis proveniva da una educazione hegeliana, e gli era stato maestro il suo amicissimo Bertrando Spaventa, compagno di collegio nell'adolescenza, di esilio, in Piemonte, negli anni successivi. Medico, aveva dedicato molta attenzione anche alle scienze naturali, tanto che si trovava a metà strada fra un desiderio di astrazione filosofica e una consuetudine all'analisi del particolare concreto. Avrebbe voluto unificare i due atteggiamenti, salire a una interpretazione in cui natura e pensiero, senza perdere nulla di sé stessi, si rivelassero due facce, due momenti di una stessa realtà. Ne deriva una analisi spietata dei limiti in cui egli vedeva attardarsi la scuola naturalistica col

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suo rifiuto di ogni metafisica; la sofferenza di non riuscire a smuovere i ricercatori dai loro « amminicoli », a far loro cercare non soltanto il «come» dei fenomeni ma il «perché», a convincerli che la storia della medicina non è altro che un capitolo della storia della filosofia, un aspetto dello svolgersi del pensiero che conquista sé stesso. Non riusciva a convincere gli scienziati: ma, in realtà, non convinceva del tutto neppure sé stesso. Tuttavia, al di là dell'esito negativo del suo impegno, poche opere esprimono in forma cosi piena i limiti del positivismo, l'ansia di trascendere il dato naturalistico, anche se il tentativo si svolge in una direzione illusoria. Le successive conquiste della medicina, con gli orientamenti psicosomatici, con il rilievo assegnato alle indagini psicologiche e psichiatriche, ricercheranno il superamento del dato fisico o esprimeranno l'esigenza di questo superamento, ma con ciò stesso dimostreranno la vitalità del tormento in cui si era dibattuto il De Meis. La sua opera, tra l'altro, ripresenta il tessuto di pensiero di quel movimento hegeliano che da Napoli, con gli esuli - lo Spaventa, il De Sanctis ecc. - si era trasferito in Piemonte, ma vi era rimasto isolato, e anzi, in vari, aveva subìto l'influenza della concreta operosità piemontese, come innesto fecondo per una rielaborazione di molti problemi. Non così nel De Meis, che mirabilmente rimase ancorato alla sua prima istituzione filosofica e ne tentò una esplicazione e un'applicazione, isolato nella sua fede e nell'assidua ricerca. Ma al di là dell'interesse che nasce dalla loro collocazione storica, le pagine del De Meis hanno un denso vigore e un fascino per quel pensiero che cerca sé stesso, e vuole raggiungere una propria chiarezza e farsi persuasivo; ma non soddisfatto del discorso concettuale, il De Meis spesso ricorre alle immagini, a un simbolismo fantastico, da cui erompe una natura meridionale con una sua ricchezza di colori. L'inclinazione poetica, respinta dalle convinzioni filosofiche, sta tuttavia al fondo di molte pagine e continuamente riaffiora: e insieme una affannata rievocazione di giorni più sereni - nell'adolescenza, nello stesso esilio ancora pieno di attese - e un senso di stanchezza per il presente. Aspetti minori dello stesso periodo di tempo ci tramandano le pagine di Dino Mantovani. Le sue Lettere prO'Vinciali sono ben lontane dalla tormentata prosa in cui si dibatte il pensiero del

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meridionale De Meis. Nascono, invece, con una limpidezza tutta veneziana, in una agilità scorrevole del periodo: trattano con garbo molti problemi, e affrontano molte difficoltà che sono dell'autore, ma ancor più della nostra nazione da poco costituita. Il disappunto del Mantovani per essere costretto, quale insegnante, a pellegrinare lontano dalla propria casa, si allarga, per una osservazione e testimonianza felice, nella pena delle numerose schiere di dipendenti statali, che l'unità della penisola e l'accentramento amministrativo avevano obbligato a spostarsi da una all'altra città. Nei piccoli stati, prima del Risorgimento, la vita si svolgeva sulla propria terra, circondati dal calore umano di persone familiari fin dall'infanzia, in una casa che era la stessa da generazioni. «Noi invece siamo come gli zingari ... corriamo dietro al nostro pane senza riposo». Una situazione e un lamento che dovettero avere conseguenze e riflessi più profondi di quanto sembri, anche se giovarono - come lo stesso Mantovani osserva - a sprovincializzare, a suggerire pensieri più vasti, a rimescolare lingua e cultura: un processo unitario che si svolge in modo meno evidente, ma parallelo all'unificazione legislativa e amministrativa, e di esse assai più importante e profondo: un processo che continua tuttora, e di cui solo le memorie del tempo, tra cui quelle del Mantovani, possono darci una concreta, viva impressione. Soprattutto, la danno con il quadro della scuola, che è un osservatorio tra i più felici per cogliere un costume di vita, il livello di cultura del paese, le sue stratificazioni sociali. Le considerazioni del Mantovani, in un suo ritratto di una scuola vista dall'interno, sono lontane dai nostri nuovi orientamenti, ma divengono documento di una fase del nostro cammino, pongono dei problemi tuttora in parte validi. L'ultima lettera che abbiamo riprodotto rivela i sentimenti predominanti nella borghesia italiana verso la patria, la monarchia, l'esercito, i confini orientali del regno. Sono sentimenti non molto diversi da quelli che pochi anni prima il De Amicis aveva espresso nelle pagine del Cuore, anche se il Mantovani li raffrena nella sua controllata prosa, dove hanno, del resto, carattere occasionale, e non certo didattico. Dire che appartengono alla retorica del secondo Ottocento è inesatto, perché erano commozioni sincere e anche conducevano a un conseguente costume morale, ma certo appaiono ormai lontane e proprio per questo capaci di ricostruire un ambiente e l'atteggiamento delle genera-

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zioni del tempo. Non vi è, del resto, differenza di tono nella prosa del Mantovani tra l'esaltazione di questi sentimenti «patriottici» e quella lode e ammirazione per la gente friulana, che fu per lui sprone assiduo nei suoi studi sul Nievo. Ma, a proposito di retorica, non bisognerà dimenticare le molte pagine in cui il Mantovani addita e condanna i difetti che vedeva negli italiani, e nel livello di civiltà in cui si attardavano : cib che è evidente soprattutto in una lettera a Guido Mazzoni che per ragioni di spazio non abbiamo riprodotto. Molti mali del costume italiano risorgono, da un uguale osservatorio, nelle pagine su Le tribolazioni di un insegnante di ginnasio di cui il D'Ancona si fece editore, e meglio ancora, per più ricca esemplificazione, nelle memorie di Fedele Romani, pellegrino di anno in anno nelle scuole di Abruzzo, Calabria, Sicilia, Sardegna fino al lungamente sognato approdo a Firenze. I ritratti scolastici si risolvono in ritratti di costumi, di livelli civili, di caratteri regionali, puntualizzati in una concretezza di episodi rivelatori, di cui solo esperienze direttamente vissute riescono a trasmettere cosi persuasivi quadri. Abbiamo nominato Fedele Romani per un tema delle sue pagine che egli ha in comune con altri memorialisti. Ma i suoi libri, Colledara e Da Colledara a Firenze, ritraggono molti altri aspetti della vita italiana in varie regioni, e percorrono un arco di tempo assai ampio, anche accogliendo ricordi ascoltati dai familiari nell'adolescenza. Percib i quadri di vita scolastica, anche se in alcune parti sembrano accentrare l'attenzione, in realtà valgono soprattutto per quel che rivelano della vita d'ogni città. Il pregio minore attribuito alla cultura dai genitori, l'orizzonte spesso meschino in cui si muovono gli stessi insegnanti, sono occasioni per mostrare la vita e i costumi degli abitanti, le prepotenze di alcuni notabili locali, la borghesia e il popolo nei reciproci rapporti; ma anche un'ansia di migliorarsi, una sostanziale sanità di vita, e il lavorio inconsapevole con cui di tante genti diverse, lentamente, si accentuano gli elementi comuni, si attenuano le differenze, mentre si procede a unire ciò che è stato solo unificato. Indietro nel tempo, tornano i contrasti e le incertezze dei primi anni di libertà, ancora tra lealisti borbonici e patriotti, fra il terrore del brigantaggio faticosamente domato e l'esodo dai paesi in città per sfuggire alle grassazioni, alle rapine, agli ecci-

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di, e la rovina di una borghesia terriera travolta da uno spostarsi della ricchezza e del valore della moneta. Un quadro di tutto il paese reso attraverso situazioni particolari, che riescono emblematiche e si ripresentano col colore e la trepidazione in cui furono vissute. Il Romani narra in una prosa pacata che guarda certamente, come è stato detto, al modello manzoniano, del quale, a volte, ha anche certo gusto ironico e alcune conclusioni morali, ma l'uno e l'altre molto meno impegnati, e perciò alleggeriti da un sorriso. Un manzonismo piuttosto esteriore, che poggia sulla scelta linguistica, sul tono confidenziale, e non va oltre. L'avvicinamento, se mai, può farsi con altri scritti di memorie, col Lorenzo Benoni del Ruffini che anche nelle traduzioni conserva una sua cordialità evocativa, con molte pagine del Settembrini, con le prime della Giovinezza del De Sanctis, quando non si dimentichi il pregio maggiore che viene a questi libri di ricordi dal loro ampliarsi verso una intensa partecipazione al dramma del Risorgimento, e dalle diverse stature degli autori, e infine il passaggio, col Romani, a un periodo senza martiri e senza esili, in cui è già in atto la demitizzazione del Risorgimento, e la presentazione, in un quadro concreto, della situazione reale del paese. Ma i ricordi del Romani sono certamente tra le letture rievocative più attraenti che ci abbia lasciato il suo tempo, e sarebbe facile citare da molte pagine felici del libro: la figura del padre e della madre in uno sfondo di sanità paesana, lo zio monsignore, il seminario, le tante macchiette di preti, e di maestri ignoranti, i cattedratici di Pisa, la povertà e il sudiciume di molte città, la delinquenza, l'albagia, l'arretratezza di varie regioni e, in contrasto, il quadro luminoso di certi paesaggi ripensati come un'oasi, e sentiti come una riposante apparizione. Tra i maestri dell'ateneo pisano, vi era Alessandro D'Ancona, che il Romani ricorda con ammirazione. Il D'Ancona ha lasciato negli studi letterari una forte traccia, specialmente nell'esplorazione di quella poesia popolare e di quelle prime forme teatrali che egli cercava negli inizi della nostra produzione in volgare. Apparteneva alla generazione risorgimentale e aveva anch'egli contribuito all'unità politica della nazione: e perciò è più facile trovare in lui entusiasmi, che nel suo discepolo Romani si sono ormai smorzati. Questo entusiasmo è evidente nelle sue

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Rimembran:ze gradevoli, e segna una linea essenziale del suo profilo: e anche riconduce a un periodo di cui altre sue pagine, sul Prati e su Rossini, sono suggestive stampe. Ma i suoi ricordi di maggior rilievo si trovano nel compianto della figlia Giulia, che mori tredicenne, e della quale ci fa seguire il declino, circondandolo di presentimenti, ricostruendo gli affetti, le attese, gli interni, i personaggi tra i quali si svolse e concluse il penoso dramma.

Nella nostra scelta, molte pagine della seconda metà delt»Ottocento risentono in modo evidente dell'influsso della prosa manzoniana, anche se a volte non si tratta di un,azione diretta, ma mediata attraverso gli indirizzi allora prevalenti. Altre sono ancora legate a modelli meridionali, come quelle del De Meis; o risentono piuttosto del Nievo, ed è il caso del Mantovani; o innestano sulla tradizione italiana coloriture anglosassoni, nella vivace prosa della Vivanti. Ma quasi sempre si tratta di echi che giova poco individuare in una produzione che resta agli estremi margini della tradizione e della scelta letteraria, e perciò ancorata alla lingua comune della propria epoca. Il rilievo individuale nasce da altri elementi, dai contenuti stessi, dalle qualità personali che si fanno valere pur nell'assenza - o nella esiguità o addirittura nell'intenzionale rifiuto - di ogni istituzione letteraria. Forse questo è lo spiraglio migliore per avvicinarsi alle forme medie della parola parlata nell, epoca. Certo, l'osservazione che vale in pieno per un Fontana non può adattarsi a un De Amicis, ma tra i due estremi le gradazioni stesse pesano come conferma. Interesse maggiore possono destare altri angoli di riflessione. I viaggi, narrati con il tono concreto di una relazione obbiettiva nel Monti, nella Nizzoli, nel Fontana, si allontanano da questo impegno di ricalco e accolgono coloriture e vibrazioni soggettive nel De Amicis, divengono pretesto per libere costruzioni artistiche in una Vivanti, tornano intermedie tra relazione e denuncia di vecchi mali e speranze di un rinnovamento nel Romani, si attardano in una pura contemplazione di gusto letterario nel Mantovani: differenze che sono certo dovute a diversa temperie umana, ma che anche rivelano contrastanti origini culturali e opposte concezioni di una tematica più spesso tradizionalmente legata a testimonianze esatte, anziché a variazioni e trasformazioni poetiche.

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Le pagine che riproduciamo sembrano ignorare i problemi sociali che pure facevano già sentire vivamente la loro presenza e premevano sulla vita politica, sulle condizioni economiche, nelle piazze, nelle fabbriche, negli stessi rapporti familiari. Questo silenzio deriva in buona parte dalla nostra stessa scelta, che si sarebbe potuta rivolgere ad altri scritti, di tematica sociale, che sebbene poco numerosi tuttavia non mancano, anche se il loro fine battagliero molto spesso li allontana dal tipo della nostra ricerca. Ma è anche vero che a gran parte della borghesia italiana dell'Ottocento le istanze e le agitazioni sociali più che un problema da risolvere apparivano una momentanea aberrazione, un disordine inconsulto, una febbre improvvisa cui doveva seguire la rasserenata guarigione. La letteratura non ignorava gli umili, la povertà dei derelitti, e ha pianto e fatto piangere abbondantemente sui reietti, sugli uomini curvi nella fatica, nel freddo e la fame, ma per invitare alla pietà, alla carità, a una comprensione più spesso che a un'opera di redenzione. Perciò, nella nostra scelta, il silenzio di cui dicevamo è anche rivelatore di un'epoca, e gli accenni di umana pietà che vi affiorano sono conferma di un atteggiamento comune a una società. A chiarire i limiti di questa umana comprensione, meritano di essere sottolineati alcuni accenni: ad esempio, le osservazioni del Barbèra sulla necessità di allontanare da Parigi tutte le fabbriche e gli operai, la cui presenza riuscirà sempre motivo di disordine e pericolo per lo Stato: osservazione di un uomo che era «fraternamente» pensoso dei bisogni dei propri dipendenti ma ancora chiuso ai problemi sociali. E anche rivelatore di una diffusa mentalità, riesce nelle memorie della Bonacci Brunamonti non solo quanto già abbiamo osservato sull'isolata aristocrazia culturale in cui si svolge il suo lungo viaggio, ma il suo stupore che una sentinella delle prigioni di Arezzo non sappia distinguere tra « la canaglia» e « la gente a modo»: dove la contrapposizione dei due termini riproduce quella tradizionale tra « galantuomini » e «villani», peggiorandone il significato in una valutazione che diventa contemporaneamente morale ed economica e si colora di disprezzo. Ma questi ed altri simili accenni rivelatori, che pure si potrebbero ritrovare nelle pagine della presente scelta, vogliono servire, nella nostra intenzione, a caratterizzare un'epoca, i suoi atteggiamenti, e non già a lamentare che essa non precorresse

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tempi successivi. Del resto, l'atteggiamento di pietà e comprensione, la carità borghese delPOttocento, di cui è traccia evidente nella contemporanea letteratura, - e di cui sarebbe qui superfluo richiamare una serie di testimonianze - furono la prima forma di riflessione sulla condizione degli umili: espressioni ancora sentimentali, come la stessa condanna d'ogni disordine, ma avviamento ad una impostazione logico-economica e politica del problema sociale. In questo senso rappresenta un notevole passo avanti il quadro severo e concreto che Fedele Romani accuratamente traccia di varie regioni italiane, senza fremiti di pietà, senza valutazioni astratte e generiche, in un in1pegno positivo di elencare i mali e le deficienze accanto alle qualità più promettenti. Segnava cosi la via su cui procedere per un'opera di bonifica: a volte anche con parole dure per le classi dirigenti dell'epoca, ma sempre con la pacatezza da cui non potevano nascere certo le trasformazioni fulminee, ma piuttosto i meditati, profondi rinnovamenti del costume morale e del livello di una civiltà. Contemporaneamente, gli entusiasmi eroici del periodo risorgimentale si andavano spengendo. Anche nel ripensamento gli anni dell'unificazione lasciavano cadere le dorature con cui erano stati celebrati, si iniziava una revisione critica. Chi ripercorra i ricordi del De Amicis che rievocano la Tori.no del fervore patriottico, e giunga, per gradi, alle pagine tristi sui garibaldini visitati a Londra dalla Vivanti o alla dura analisi del Romani sul clientelismo politico, può ancora una volta seguire la curva di una esperienza storica che sottolinea molti aspetti dell'itinerario ottocentesco della nostra nazione e di alcuni suoi orientamenti sue. . cess1v1. Come già abbiamo osservato, l'Ottocento è un secolo ricchissimo di memorie: i volumi della collezione Ricciardi che - con questo terzo - ne hanno offerto una scelta, sono ben lontani dall'averne intaccata l'eccezionale ricchezza. E perciò ci rammarichiamo di aver tralasciato tanti altri aspetti della vita del tempo, che pur si rispecchiano in vivissime pagine di ricordi: e solo ci conforta la speranza di avere ancora tempo e forze adeguate per volgere la nostra attenzione a una successiva raccolta. Il carattere di questa nostra «premessa» esclude che essa sia

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accompagnata da una bibliografia, poiché ogni eventuale indicazione finirebbe col ripetere quelle stesse che seguono il «profilo,, dei singoli autori o si amplierebbe inutilmente alle conclusioni generali raggiunte dagli studi critici sul nostro Ottocento. Abbiamo piuttosto voluto giustificare i criteri che ci hanno guidato nella scelta, nei giudizi che le sono impliciti o abbiamo espresso nei «profili». Tali criteri risultano, infine, anche dalla Nota ai testi e dalle note poste via via nelle varie pagine a chiarimento dei singoli . accenru. Nel licenziare il volume, desideriamo chiedere ai lettori di tener presente che molti dei testi prescelti ricevono ora per la prima volta delle note esplicative, e che perciò meritano forse un meno duro rimprovero gli errori e le omissioni in cui quasi certamente saremo incorsi. Abbiamo tuttavia rivolto ogni cura che ci fosse possibile al presente volume, in cib sapientemente aiutati dagli esperti amici della Casa editrice e, in particolare, dalla dottoressa Fiorenza Mazzaroli che ci è stata preziosa e assidua collaboratrice per molfe annotazioni e varie faticose ricerche. CARMELO CAPPUCCIO

NICCOLÙ MONTI

PROFILO BIOGRAFICO

Nicola Monti - o meglio Niccolò come gli piacque toscanamente chiamarsi - nacque a Pistoia il 28 agosto I 780. Venne a Firenze verso il 1800, a studiarvi pittura ali' Accademia, a spese del Municipio di Pistoia, con un posto o borsa di studio della fondazione Del Gallo, e fu allievo di Pietro Benvenuti. Ricordava, ormai vecchio, quel tempo giovanile, quando trascorreva molte ore della giornata nel bel palazzo Pandolfini - elegantemente disegnato da Raffaello - e vi ascoltava la contessa Eleonora N encini Pandolfini che «con lo incanto della sua arpa divina incantava chi la udiva, rapiva chi la mirava» (cfr. Alcune lettere scritte a contemporanei, Montepulciano, pei tipi di Angiolo Fumi, 1847, pp. 11-6). Era di casa, il giovane Monti, e stava in quelle sale accoglienti ad ascoltare le conversazioni, specie nei festosi ritrovi del giovedl, a dipingere i suoi primi lavori, a tessere nuove amicizie. Si innamorò della contessa, la suonatrice d'arpa nelle Grazie del Foscolo: un amore infelice, certo non corrisposto, che lo accompagnò, come tormento nel ricordo, per tutta la vita, e di cui scriveva nelle Memo~ inutili ( Castiglion Fiorentino 1860) - una delle sue ultime fatiche - dedicandole a lei da poco morta. Nel 1810, il curato della chiesa dell'Annunziata, padre Federico Vannini, lo presentò al marchese Gino Capponi, della cui amicizia il Nostro si vantava ancora nel 1847, in una lettera a Giovanni Rosini: come si gloriava di avere avuto in quegli anni lontani la benevolenza di Cosimo Ridolfi e della marchesa Vittoria Torrigiani, e di aver stretto cari legami con i giovani pittori che studiavano allora con lui a Firenze (cfr. Alcune lettere scritte a contemporanei, cit., pp. 47-9). Ma quando scriveva questi ricordi era già un dimenticato: « Io non ho più amici pittori, mio signor Sabatelli: tutti mi hanno dimenticato da che io sono qua a Cortona: come se l'amicizia stasse [sic] nel tatto; nell'udito, o nella vista». Veramente, non soltanto i pittori non si ricordavano più di lui, ma anche molti altri, e forse restavano ormai senza risposta le sue lettere a Pietro Giordani, a Vincenzo Gioberti, a Nicola Puccini, ad Antonio Guadagnoli. Aveva avuto un tempo lieto, quello delle speranze nella sua arte. Nel 1818, il conte Paolo Cieszkowski, che tornava con la famiglia in Polonia, lo aveva condotto col suo seguito perché gli adornasse di

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NICCOLÒ MONTI

affreschi e quadri il palazzo e la chiesa di Surkow. Acquistata fama, aveva lavorato anche a Varsavia per il viceré, e si era spinto poi (1820) a Pietroburgo e a Mosca. Al ritorno in Italia, si era fermato a Firenze, tutto preso dalla sua attività di pittore, a lavorare al palazzo Borghese, al palazzo Pitti, nella cappella della Crocefissione dell'Annunziata (la Resurrezione di Lazzaro, considerata il suo lavoro migliore), e anche, dal 1823, intento alle cure dell'insegnamento ali' Accademia. Ma i tempi andavano mutando e la sua pittura, legata al freddo accademismo di cui egli ha lasciato document~ anche in Pistoia (nei palazzi De Rossi e Vivarelli-Colonna, e nella chiesa dell'Umiltà) diveniva sempre meno gradita. A sessant'anni, nel 1840, si ritirò a Cortona, a insegnarvi disegno nella scuola che vi dirigevano gli scolopi, annessa al loro collegio di Sant'Agostino. Il Monti non aveva famiglia e perciò trascorreva quasi tutto il suo tempo nella scuola, e avrebbe anzi voluto unirsi a convivere con i frati dell'ordine, quasi scolopio di elezione, come scriveva nel 1847 al padre Sisto Nardi, allora ret"tore del collegio (vedi Alcune lettere scritte a contemporanei., cit., pp. 5-10). Gli allievi, scelti e sostenuti per una pubblica provvidenza, venivano da povere famiglie e miravano, non già ali' arte, ma alle cognizioni che potessero giovare alle attività artigiane, per le quali si preparavano. Egli capiva le loro esigenze, le difficoltà in cui si muovevano, alcuni loro limiti ambientali: e aveva attenzioni e modi veramente paterni, che gli creavano intorno stima e affezione (vedi la citata lettera al padre Nardi). Questa fu la sua esistenza dal 1840 fino alla morte, avvenuta in Cortona il 29 gennaio 1864, quando, ormai più che ottantenne, si era ridotto in condizioni di grave povertà. Il Monti pubblicò vari suoi scritti, alcuni legati ai suoi interessi artistici di pittore, altri a una sua spiccata sensibilità morale. Ma fermano soprattutto l'attenzione le sue pagine di memorie e le sue lettere: anche le lettere, del resto, si risolvono di frequente in una rievocazione del passato. Spesso i ricordi diventano documento pregevole di fatti e di ambienti: quasi mai valgono per qualità letteraria, ma sempre sono interessante testimonianza di un uomo e di un'epoca. Molte delle sue lettere sono rimaste manoscritte e solo di alcune è stata data precisa notizia. Sappiamo di una sua corrispondenza col Giordani, col Gioberti, di sue lettere a padre Angelico Marini e a Luisa Grace Bartolini, la poetessa e pittrice, a cui ancora nel 1860 scriveva chiedendo di poterle dedicare un suo

PROFILO BIOGRAFICO

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nuovo, ultimo volume di memorie (vedi I. GONFIANTINI, in italiana, e sopra di esse, quasi a contatto, riposava una cornice che si estendeva lungo la facciata: in mezzo a questa era una specie d'atrio aperto, con gran cornicione e remenate,2 sostenuto da due sproporzionatissimi colonnoni. Dalla cornice che posava sulle finestre si partiva un tetto formato di strisce di legno, non più larghe di tre dita, ed alte due palmi circa, fatte a guisa di lama di coltello, meno la costola che era aperta in lungo, nella quale apertura si incastrava il taglio di altra striscia, e cosi poste si formavano delle lunghe fasce, che prendendo tutta la lunghezza del tetto poste una sopra all'altra facevano che l'acqua aveva il suo scolo, e non penetrava; e perché il legno non marcisca si tinge e ritinge ogni tanto tempo a olio. Questo tetto è cosi alto dalla cornice alla sommità, che di questa altezza, quella della facciata non ne comprende che due terzi circa. L'interno era poi a presso a poco come quello di tutte le altre case. Questo (chiameremo palazzo) era situato un poco elevato, e da quel punto non si vedeva che un tristo ed incolto terreno, sparso di miserabili capanne, quasi tutte fuor di piombo e mezze rovinate. Di faccia, a poca distanza, traversava la strada maestra, che alla sinistra portava in una immensa pianura dove si trova l{rasnystaw, ed alla destra Zamosa. 3 Tutto il rimanente era circondato dal bosco. Permettimi, lettore, che ti racconti alcune di quelle cose che avendo fatto impressione a me, suppongo la possano fare anche a te; quantunque passi molta distanza dall'udire al vedere, e per noiarti meno, suddividerò questo mio ragionamento nel modo a presso a poco che si trova scritto nel mio libro di memorie.

1. Surkow era un piccolo villaggio della Polonia nel distretto di Krasnystaw, a sud-est di Lublino. 2. remenate: uremenato » è l'arco formato da un quarto di cerchio. 3. Zamosa: Zamosé, a sud di Krasnystaw.

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SURKOW (:n NOVEMBRE 1818) 1

Appena giunti in questo luogo, sentii subito il mio cuore combattuto da mille diversi sentimenti: un po' dicevo, chi sa che questa popolazione un giorno o l'altro, stanca della sua schiavitù e della sua miseria, non si rivolti, e ci ammazzi tutti? Chi mi dice che da questi boschi non possa scaturire qualche bestiaccia, e mi strangoli? E questa gente, chi sa che gente sarà? Non sentire mai un zitto, non vedere che qualcuno de' barbuti contadini coperti di pelli, che hanno l'aria più di bestie che di uomini; insomma spaventato da tutte queste idee passavo delle grandi oracce, e se non mi fossi poi armato di coraggio e di filosofia, ci sarei di certo intisichito in otto giorni. Pensai subito di metter mano al quadro del S. Paolo, quadro che dovevo fare, e feci per la chiesa che si doveva erigere in quel luogo a spese del conte, e sul disegno del sig. Digny2 come a suo tempo diremo. Avevo già cominciato a darmi pace, e ad affiatarmi col luogo e con le persone, sempre occupato del mio quadro, e delle cose nuove che a tutti i momenti mi si presentavano. L'ordine domestico di famiglia portava che una parte dei servitori di casa dovessero passare due giorni della settimana alla caccia ed uno alla pesca: quanto mi repugnava la prima, altrettanto mi dilettava la seconda. Una sera, mentre per mio balocco stavo con la penna ritrattando non so chi, sentii in casa uno scalpitar di gente, e la curiosità mi portb a veder cosa era. Entro nella stanza contigua alla cucina, e vedo sette o otto uomini in arnese da caccia, con bisaccie a armacollo, con fucili attaccati alle spalle rivolti a bocca all'ingiù, berretti, stivaloni ec. ed in mezzo a questi un gagliardo contadino con un grosso cervo in spalla, che subito gettb in terra: un solo lume illuminava la scena, della quale il conte era il protagonista. Che peccato che non si trovasse Il con me qualcuno de' miei amici pittori, per divider meco il piacere di veder questo quadro fatto dalla natura, la quale senza conoscer precetti, metodi, stile, regole, diavoli e saette, si ride dell'arte, di cui in ogni tempo si mostra sempre infallibile maestra. 1.

Ed. cit., pp. 29-40.

2. Si tratta dell'architetto conte Luigi Cambray-

Digny (1779-1843), che fu anche gonfaloniere di Firenze: gli si debbono molte costruzioni a Firenze e Livorno.

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NICCOLÒ MONTI

Non ostante che il conte conoscesse l'avversione mia alla caccia, assicurandomi che mi sarei divertito, volle un giorno godessi anch'io di questo bel divertimento, e bisognb prometterglielo. Fu dunque fissata questa partita, e a mio riguardo le fu dato un poco più di treno. 1 Sette erano i cavalieri, ed io con due para di calzoni, un paro di scarpotti di Vienna, e sopra certi mezzi stivali di cencio foderati di pelle con pelo, e due corvatte, 2 in questo arnese, preso il caffè, siccome gli ebrei mangiavano l'agnello pasquale,3 montato su bianco ronzino, pieno di apparente coraggio mi accinsi all'opera, e partimmo. Eramo dunque sette cavalieri disarmati, due pedoni con fucile, e sette cani levrieri tutti grandi e magri. La campagna che si percorreva era piana, e quasi sempre si costeggiava il bosco. Quei cavalli usi a quell'esercizio andavano da per loro or forte, or piano, né pareva avessero bisogno di guida, perché sapevano meglio del cavaliere (almeno di me) quel che dovevano fare, e dove dovevano andare. Nel tempo dunque di una specie di scappata, il mio bravo ronzino, rimasto un poco indietro, invitato da me a raddoppiare il passo, cib fece, ma dopo piccolo tragitto trovò un gran vacuo tutto ripieno di neve; dove, per non conoscersi punto dalla superficie dovette unito al suo cavaliere miseramente sprofondare. Il cavallo tutto sotto neve fino alla metà del collo, zampettando e corvettando, tanto fece, che fattosi ritto come un uomo, schizzb fuori, si pose in strada, e in un momento raggiunse gli altri, senza che il cavaliere, sempre forte in sella, avesse mai da questa sbilanciato. In questo tempo tutti i cani raccolti in un punto scovarono una povera lepre, che dopo breve tragitto rimase vittima di cento morsi. Questo barbaro spettacolo mi fece tanta sensazione, che dentro di me pregavo Dio che non si trovasse altro, e il mio voto fu esaudito. Di li a poco mi parve di non sentirmi che quattro soli diti al piede sinistro. Lo dissi al conte, il quale subito smontb e mi fece smontare, ed entrati in una capanna, mi fece nudare il piede e stropicciare forte forte con neve quel dito che non sentivo più, il quale aveva cominciato a diacciare. Questo stropiccio pose di nuovo in circolo il sangue, e il dito ritornb come 1. le fu dato •.. treno: l'equipaggiamento e il seguito furono un po' più abbondanti dell'usato. 2. La voce « corvatta » è la forma antica toscana per « cravatta n, ma qui con il significato di « sciarpa da collo». 3. siccome ••• pasquale: la cerimonia della Pasqua doveva venir celebrata dagli ebrei in atteggiamento di viandanti frettolosi: cfr. Exod., 12, II.

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prima. Rimontati a cavallo si girò un altro po', e fatta l'ora, si tornò a casa, contento io di aver veduto come in quei luoghi si caccia. Una mattina di venerdl mentre ero occupato nel mio S. Paolo ricevei un biglietto del conte, col quale m'invitava ad assistere ad una pesca che si doveva fare in un gran lago diacciato, alla distanza di cinque miglia circa di dove io mi trovava. Quanta avversione ho alla caccia altrettanto mi diletta la pesca. Non ebbi terminato di leggere il biglietto, che feci attaccare un trenòI a due cavalli, e in un momento mi trovai sul lago. Questo era grandissimo, ed in gran parte ingombrato da lunghe e sottilissime canne, che terminano con una specie di pennacchio: in questi boschi di canne i contadini tagliandone vi formano delle strade, sl che nell'interno traversando a piedi con cavalli e legni scorciano qualche volta di molte miglia il cammino. Fu fatto dunque in un dato punto piazza pulita di queste canne, e quivi fatta la pesca nel seguente modo. Fu segnato alla meglio un grande ovato, che sarà stato per lungo una cinquantina di braccia circa: sulla linea di quest'ovato, e precisamente in mezzo dei due punti dove la curva più stringe, vale a dire in cima e in fondo, fu fatta nel diaccio una buca d'un braccio di diametro circa, e alla distanza da questa di otto o dieci braccia sulla medesima linea ne furono fatte (un poco più piccole) tante quante (con egual distanza l'una dall'altra) ne poteva comprendere l'ovato. Fatto questo, furono portate le reti, le quali erano lunghissime, e larghe forse quattro braccia. Le due estremità dalla parte stretta erano attaccate a una pertica di eguale misura, e all'estremità lunghe erano disposti vari pezzi di sughero. Furono poi introdotte le due pertiche nella principale buca, e data a queste direzione opposta sicché sotto il diaccia andassero a ritrovare le buche laterali, e questo si otteneva col mezzo di certi forchetti cli legno coi quali (introdotti nelle buche) si spingevano le dette pertiche. Due uomini stavano uno di qua e uno di là col capo alle buche per vedere comparire le pertiche galleggianti, e quando le vedevano, uno diceva all'altro, y est che vuol dire c'è; allora nello stesso tempo davano col forchetto la spinta alla pertica, che se ne andava a cercar l'altra buca, e cosi facendo dopo breve tempo le due pertiche andavano a riunirsi all'altra buca principale superiore. 1.

trenò: slitta, dal francese trainea11.

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Da questa estraevano le due pertiche, e con queste la rete che (fatto grembo) racchiudeva il pesce. Nel tempo di questa operazione il conte ed io trottavamo in un bel trenò a due cavalli intorno all'ovato, e cosi trottando si godeva del piacere di veder pesca1·e: la quantità del pesce preso in quel giorno fu grandissima, e mi ricordo che il conte mi assicurò che ve n'era per un cinquecento fiorini (pollacchi). I Pollacchi bevono ordinariamente birra, ma i signori di maggior distinzione usano vino di bottiglia allungato con acqua: di questi vini hanno sempre piene le loro cantine, e ne fanno moderatissimo uso allorquando sono (come suol dirsi) in famiglia: abuso poi e strazio allorché sono in compagnia. Fu dato un giorno un pranzo dal mio conte, ed i commensali erano diciotto, compresi due bimbi: furono bevute trentatré bottiglie, per lo più vino di Francia: nessuno ne fu ubriaco. Furono fatti moltissimi brindisi, ma non come si fanno fra noi, che si urla, e che ora viva questo, ora viva quello, succede sovente una confusione che stordisce più che rallegrare. Là, un commensale fa (per esempio) un brindisi al padron di casa; egli dà un'occhiata, prende in mano il bicchiere col vino, s'alza da sedere, e gli fa un inchino: tutti fanno lo stesso nello stesso tempo, e cosi di seguito. Tutto questo si fa senza pronunziar parola. Vi sono molti, anzi moltissimi, che a desinare, siccome a cena, usano di bevere solamente alla fine della tavola. Ho veduto molte volte che il mio conte verso la fine della cena metteva un buon dito d'olio (di Francia o d'Italia) in un bicchiere di birra, che si tracannava con un gusto da far vomitare il core. I Pollacchi mangiano moltissimo, ed usano molta carne, e quasi punto pane, che mangiano per lo più con la minestra. Prima di entrare a tavola, suol esser sempre nell'anticamera del pranzo imbandita una piccola tavola, di salumi, liquori ed acquavite, e qualche volta si riempiono il corpo in modo che per noi sarebbe un desinarino. Lo stesso si pratica in Russia. Le zuppe più gradite ed usitate sono il cosi detto barsce,1 e alla birra. L'una e l'altra sarebbero in apparenza e sostanza due stupendi vomitatorii al palato di un italiano; pure mi ci accostumai, e finl per piacermi. La prima 1. barsce: è il bortsch, minestra tipica della Polonia e della Russia: essendo fatta con panna acida e barbabietole, è acida e rossiccia.

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è acida e rossiccia; la seconda ha un gusto particolare, ma certa-

mente cattivo. Hanno poi certi panetti tondi, da loro chiamati bulche, che sono leggerissimi e bianchissimi; unitamente a questi usano qualche volta delle piccole fettine di pane nero assai. La colazione si fa ordinariamente col caffè, dove in una tazza mettono tre o quattro piccole cucchiaiatine di quel latte che noi chiamiamo panna, e loro scimitanca. 1 Questa medesima bibita la ripetono dopo pranzo, ed anche la sera. Nel giorno di Natale usano i Pollacchi porre fra la tovaglia e la tavola uno strato di fieno, per cui le bocce, i bicchieri, vasi ec. tutto pende. Cib fanno in commemorazione di quel fieno sul quale nacque Gesù. È Surkow (come ho detto) un villaggio composto di poche e rozze capanne, ed ha una sola chiesa tutta di legno, che pende come il campanile di Pisa, per entrare nella quale sono due porte, una principale in fondo, e non più alta di due braccia e due terzi, e un'altra un poco più piccola che mette in sagrestia. Sul tetto, e precisamente in mezzo della chiesa è un campanilino pur di legno, non più alto di due br~ccia e mezzo, che ha una sola campanina, la quale si suona di chiesa all'elevazione del Sacramento. Era l'inverno nel suo vigore, quando una domenica mattina nel tempo che il prete aspergeva il popolo, un poco prima di dir messa, volendo io asciugare col fazzoletto le gocciole dell'acqua santa che avevo sulla pelliccia, veddi esser queste rilevate, e fatte diaccio. Poco dopo mentre il prete era per assumere l'acqua e il vino che aveva nel calice, dovette con le palme della mano circondare e stringere la parte superiore del detto calice, e rifiatarvi dentro, perché fra il calore della mano e quello della bocca si liquefacesse il vino e l'acqua, diacciata al solo passaggio della distanza che passava dal cherico al prete. In questa chiesa era parroco un certo signor ... col quale conferivo sempre in latino, non parlando lui né l'italiano, né il francese. Spiegava le domeniche il Vangelo, e spesse volte alle sue prediche il popolo fondeva in lagrime: era in questo tempo un gran rumore nella chiesa, cagionato dal battlo dei piedi sul pavimento di legno che tutti facevano per riscaldargli. Nei giorni di festa vi era sempre musica, che consisteva nel canto di otto o dieci contadini, uno dei quali suonava l'organo, alzava con un 1.

scimitanca: in realtà, smietanka.

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piede i mantici e cantava. Terminata la messa, allorché il prete arrivava alla porta della sagrestia, ed essendo accanto a questa un inginocchiatoio, ove stava il conte coi figli e con me, il prete si fermava e ci faceva baciare la patena. K.rasnystaw è una piccola città della Polonia nel Palatinato di Lublino. Ha due belle chiese, e in una vi sono frati agostiniani. Nella cattedrale vi fanno ogni tanti anni la Dieta, dove interviene la nobiltà del paese, e molte persone vengono armate di squadroni, èhe portano chi pendenti al fianco, chi nascosti sotto le pelliccie. In quella circostanza v'è grandissimo fermento nel popolo, per idiversi partiti. Spesso è accaduto (mi si diceva), che hanno fatto alle sciabolate in chiesa. Alla Dieta dove mi trovai io, fu eletto (non mi sovviene qual titolo gli danno) capo il mio conte. Il giorno dopo si veddero venire da Krasnystaw (a Surkow) otto o dieci persone, che io credei contadini o manifattori, le quali mi fu detto essere una deputazione composta della primaria nobiltà, che veniva a complimentare per parte della città il conte. La cosa cominciò in gran salamelecchi, abbracciamenti, e baci sulla spalla, e fini in acquavite. Fu dato poi un lautissimo pranzo, e con questo terminò la festa. Era allora governatore di Krasnystaw un certo signor Deboli, il quale aveva una bellissima ed amabile signora per moglie, e che guardai molto nella circostanza di dovere io dipingere una Elena. Esistono in questa città gli avanzi di un gran castello, di non remotissima antichità, nel quale si dice essere stato rilegato Massimiliano 1 d'Austria, e si racconta che quel re di Polonia che lo fece prigioniero, mentre Massimiliano pranzava, facesse circondare la tavola da una catena d'oro, per mostrare cosi la grandezza sua, e qual conto faceva di si nobile prigioniero: se ciò sia vero, e come la cosa andasse, non lo so: cosi mi fu raccontata. Un certo signor conte K.isky era allora starosta2 di Krasnystaw, ed aveva dato in affitto la starostia al mio conte, che era marito d'una sua figlia, la quale morl in Firenze nel 17 agosto 1818, e fu tumulata 1. Massimiliano d'Absburgo (1558-1618), figlio dell'imperatore Massimiliano II, fu eletto nel I 587 re di Polonia da una parte della Dieta polacca, mentre l'altra parte eleggeva Sigismondo III Vasa. Nella guerra derivatane Massimiliano fu fatto prigioniero da Sigismondo (1588) e liberato solo dopo aver rinunziato ad ogni pretesa sul trono polacco. 2. starosta: significa a:il più anziano» e indicava il capo di un'amministrazione locale.

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con gran pompa nella chiesa di Santa Croce, nella cappella dei principi Corsini, dove esiste umile memoria. Nei quindici mesi da me passati a Surkow dipinsi uno sfondo• dove espressi la nascita di Giove, in un altro Mosè che riceve le tavole della legge; in un altro Zeffiro che porta Psiche a Amore. In una parete feci Ettore rimproverante Paride che se ne stava con Elena: in un'altra, la morte del principe Poniatowsky: 1 in un'altra Giovanni Sobiewsky2 a cavallo calpestante Turchi: in un'altra Casimiro il Grande con suo codice: 3 in un'altra l'imperatore Alessandro,4 ed in un'altra piccola volta di un'alcova, un Amorino dormiente. Tutto questo a fresco. Dipinsi poi a olio un gran quadro esprimente la caduta di S. Paolo, e per suo pendant S. Sofia, che esorta le sue tre figlie a sopportare con fermezza il martirio che loro veniva preparato da Antioco. Un quadro con i ritratti del conte, e dei suoi piccoli figli in mezze figure al vero, ed un ritratto del conte Polytilo, ricchissimo signore di quei luoghi. Questo quadro mi rammenta una singolare circostanza. Mentre un giorno pranzavamo, si sente arrivare di gran carriera un uomo a cavallo, che a) Tutti questi a-freschi furono dipinti da me con calcina forte in luogo di bianco, non avendone potuto trovare in quei luoghi. Feci cuocere delle pietre e di diverse qualità, ma non potei mai da queste ottener bianco. Mi fu forza ricorrere ai contrapposti, per mezzo dei quali il ce1ierino compariva bianco, e il pesante lucido. 1. J6zef Poniatowski (1763-1813), nipote del re Stanislao Augusto, combatté, alleato di Napoleone, a favore della insurrezione polacca. Gravemente ferito a Lipsia (1813), tutelò la ritirata e poi, per sfuggire al nemico, si gettò ncll'Elster. 2. Sobiewsky: Giovanni III Sobieski (1624-1696), nobile polacco eletto re di Polorùa nel 1674, fu famoso per la sua strenua lotta contro i Turchi: nel 1683, all'assedio di Vienna, comandava l'armata imperiale che, attaccando sul Kahlenberg, respinse definitivamente i Turchi. 3. Casimiro III, detto il Grande, re di Polonia, fondò a Cracovia la prima università polacca (1364), e con suoi giuristi, formatisi a Bologna e a Padova, creò i cosiddetti «statuti» (codici), in cui codificò il diritto consuetudinario. 4. L'affresco dell'imperatore Alessandro I di Russia ebbe una sua storia. Scoppiata la guerra tra Russia e Polonia, le truppe russe saccheggiarono Surkow, ma giunte al palazzo del conte, si arrestarono dinanzi al grande affresco del loro imperatore. Un ufficiale pose delle sentinelle al palazzo e nessuno osò più danneggiarlo. Questo raccontava il conte Augusto Cicszkowski al Monti nella visita che fece a Firenze, e ne traeva lodi dell'affresco come di un forte difensore. Vedi nelle citate Lettere scritte a contemporanei, la lettera al conte Augusto, p. 23.

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portava una lettera al conte. Questa veniva dal fratello del suddetto conte Polytilo, la quale conteneva la nuova della morte del fratello, e si pregava caldamente il mio conte a indurre me ad andare subito il giorno dopo al castello dei conti Politylo, per fare il ritratto del conte, morto nel giorno avanti. Accettai la commissione, e unitamente al mio servitore Antonio Perini fiorentino (che avevo condotto di Varsavia, come a suo luogo diremo) andai al castello, dove fui subito introdotto in una stanza terrena, nella quale veddi su nero e basso cataletto il morto conte disteso: era la stanza addobbata di stracci neri, e d'intorno al feretro stavano sette o otto vecchie inginocchioni, barbottando non so che, e piangendo. A vevano queste vecchie la testa inviluppata in un gran panno bianco, che venendo a fasciar loro il collo, lor nascondeva la bocca e tutta la mascella inferiore. Feci rimandar queste vecchie per far due segni del morto viso, ma in quella positura e con quel lume non nu fu possibile trovare un punto adatto. Non potendo dunque muovere il morto, presi il partito di far fare un buco nel palco, e cosi dalla stanza su periore, io sdraiato in terra, potei alla meglio disegnarne il ritratto: ciò fatto ripartii per Surkow, ed in pochi giorni lo tradussi a olio in mezza figura al vero, per il quale ritratto mi furono contati quaranta ducati d'oro d'Olanda. Ho fatto inoltre moltissimi ritratti in matita, e riformata con molta attenzione la pianta della nuova chiesa, ora fatta dal conte a Surkow: per questa fece fare in Firenze i disegni al signor Digny (che servirono sic, et in quan.tum), e per dove erano destinati i miei quadri del S. Paolo e della S. Sofia fatti per gli altari laterali, dei quali non erano fissati i disegni, né le misure. Ora questa chiesa è fatta con la - direzione del conte, e quella di un muratore, che sapevano d'architettura come io d'arabo. Eramo ai 12 di febbraio dell'anno 1819, quando l'armata russa, dopo il soggiorno di tre anni e otto mesi in Francia, 1 passando di Surkow, se ne tornava in Russia. Un giorno fermatosi nel villaggio per passar la notte un reggimento di Cosacchi; il maggiore di questi unitamente a due dei principali ufficiali furono alloggiati da noi. Questa gente aveva un tempo la barba lunga, che ora non l'hanno che pochi. I loro cavalli sono assai piccoli e brutti, ma forti 1. z•armata • •• Francia: le truppe vittoriose si trattennero in Francia dopo la caduta di Napoleone. '

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e corridori. I soldati di cavalleria usano una lancia lunga quasi sei braccia, ed un corto e grosso bastone, attaccata al quale sta una specie di cannello di cuoio lungo quanto il detto bastone, che por-tano attaccato alle spalle, e che credo se ne servano per batter bestie e uomini. La mattina, dopo la sera che arrivarono, verso l'alba si veddero venire dodici soldati a cavallo, i quali annunzia-rono al maggiore e alli uffiziali l'ora della partenza, con un canto tutto di voci unisone, e le più in farsetto, accompagnate dal suono di un piccolo cembalo ornato di nastri e sonaglioli. Questa musica fu continovata per molto spazio di cammino, e precedeva la marcia del reggimento. [PARTENZA PER VARSAVIA] 1

Il di 14 del mese di aprile del suddetto anno 1819 partii di Surkow per Varsavia, e portai meco il quadro del S. Paolo finito, e quello della S. Sofia abbozzato. Ero in compagnia del mio conte, della sua famiglia, e del sig. Gradowski: il 16 si arrivò a Kotyka, paese sull'andare di Krasnystaw, ma non tanto grande, né tanto popolato. Un uffiziale che venne a far visita al conte mi fece il cicerone, e condottomi nella chiesa principale, fui maravigliato nel vedervi due o tre quadri di maniera, e forse di pennello italiano. Null'altro vi trovai di notabile. Uscendo di chiesa, si vedde a una certa distanza da noi un carruccio bislungo, tirato da un cavallo bianco, un ragazzo che guidava, ed un uomo con una specie di soprabito ed un gran berretto di pelo nero. Questo salutò il nùlita-re, e il militare lui. Dopo di ciò il mio cicerone mi disse esser quello un prete che andava a comunicare un malato, e che il Sacramento l'aveva in seno fra il vestito e la sottoveste. Partiti da questo luogo arrivammo a Niuriska, e andammo a visitare il proposto della chiesa, il quale si chiamava G. Slupelski: il suo viso era si somigliante al Canova, che l'avrei creduto lui vestito da prete. Partiti di ll, dopo un'ora e mezzo di cammino, trovammo Suka, villaggio di domicilio del fratello del mio conte. Questo signore (il principale del paese) ha istituito, e mantiene a sue spese una scuola pubblica di ragazzi e ragazze, non oltrapassanti i dodici anni. In questa scuola s'insegna leggere, scrivere, aritmetica, i precetti della nostra santa religione, geografia ec. Appena entrato io in questa scuola, 1.

Ed. cit., pp. 42-4.

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si alzarono tutti, ed io pregai il loro precettore di fargli sedere. Erano tutti in fila intorno la stanza, ed avevano avanti una tavola stretta, sulla quale facevano le loro lezioni. Da una parte stavano i maschi, dall'altra le femine. Tutti avevano davanti un monticello di rena quasi bianca, una striscetta di legno, e un libro. Il fratello del conte per farmi cosa grata e gentile, ordinò al primo di scrivere (in pollacco) Pan (signore) all'altro che gli stava accanto, Niccola; all'altro, Monti, ed agli altri che ne venivano in seguito una parola per ciascheduno, che lette poi da loro ad alta voce una dopo l'altra formavano un grazioso complimento fattomi dal fratello del conte, per la bocca di quei giovinetti. Questo scritto si faceva con uno stecco su quella rena che veniva stesa con la detta striscia sul banco. Furono poi tutti questi ragazzi interrogati su diversi punti, e da tutti fu risposto in modo che non si sarebbe creduto mai esser quelli abitanti di remote e rozze campagne pollacche, ma di capitali delle più culte nazioni. Fatto questo mi salutarono, cantando in pieno coro certe parole che poco capii, e quell'armonia mi fu gratissima all'orecchio e al cuore. [A VARSAVIA]I

Dopo otto giorni dalla mia partenza da Surkow veddi Varsavia; smontammo all'albergo d' Alemagna; dopo qualche giorno presi alloggio in casa del professore Ciampi, 2 col quale convissi per dieci mesi circa. Fui presentato al vice-re principe Zaiacek, poi al conte Stanislao Potocki ministro del culto e dell'istruzione pubblica. 3 A I. Ed. cit., pp. 44-8. 2. Sebastiano Ciampi (1769-1847), dotto sacerdote, di Pistoia. Dopo essere stato dal 1803 al 1818 professore a Pisa di letterature antiche, si spostò a Varsavia (1817), a insegnare letterature classiche in quella università. Nel 1822 tornò in Italia e si stabilì a Firenze. Numerosi suoi lavori danno notizia dei rapporti culturali tra Italia, Polonia e Russia. È stata pubblicata da V. Branca (in Relazioni tra Padova e la Polonia. Studi in onore dell' U11iversi.tà di Cracovia, Padova, Antenore, 1964) una biografia inedita del Ciampi e del suo soggiorno in Polonia: la biografia, scritta da F. L. PoLIDORI, dà importanti notizie sul Ciampi a Varsavia. Nel suo cita .. to Riposo, p. 67, il Monti dà un giudizio un po' duro del Ciampi, ma allude forse agli ultimi anni dello studioso, che era stato colto da demenza senile. 3. Zaiacek: Joseph Zaionczek (1752-1826), generale polacco, partecipò a) .. l'insurrezione polacca del 1794 contro la Russia; quindi emigrò in Francia, partecipando a tutte le campagne napoleoniche. Dopo la caduta di Napoleone lo zar Alessandro eresse a regno la parte della Polonia assegnatagli, e diede a Zaionczek il titolo di principe e la nomina a viceré: da allora egli fu completamente devoto alla Russia, e disprezzato dai suoi antichi

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questi due signori presentai il mio quadro del S. Paolo, che pochi giorni dopo esposi al pubblico nella chiesa dei pyaristi (scolopi). Il concorso fu grande nei tre giorni dell'esposizione, e come sempre accade in casi tali, vi fu chi ne disse bene, e chi ne disse male, e ne nacquero due partiti. I giornali di Varsavia e quello di Leopoli ne chiacchierarono assai, e vi fu chi di Varsavia scrisse a Parigi e a Milano perché la « Rivista enciclopedica», e la « Biblioteca ltaliana »1 dicessero bene del quadro mio. Un certo Tale" pollacco, pubblicb in quella occasione un articolo in un giornale, col quale rosolava in modo il mio povero quadro, al punto di rimandarmi a scuola. Mal consigliato, risposi al mio critico burlandomi di lui fuori dei limiti, e la mia risposta fu stampata. Questo Tale, sentendo il conto che facevo del suo giudizio e delle sue parole, scrisse contro di me in modo fulminante, e il suo scritto fu rigettato dal canonico censore, che venne sfidato alla spada dal mio Tale, quantunque amendue vecchi. La disfida non ebbe luogo come Dio volle, e le cose furono accomodate: non si accomodarono per altro con me, perché dopo pochi giorni mi fu rimessa una lettera la quale ne conteneva una assai lunga, stampata e diretta al sig. Tale e a me, e questa era un capo d'opera, per il giudizio, per l'erudizione e per lo stile. Tutti questi stampati erano in francese. Questa ultima lettera era di un anonimo, che mi fu poi detto essere il suddetto conte Potocki, uomo di molto sapere, di molto senno, e intelligentissimo delle cose d'arte. Essa non risparmiando il mio censore, e prendendo le difese del mio quadro, sferzb me sul mal fatto passo, con1e sul mio francese, dicendo molte verità intorno all'arte. Conosciuto il mio errore, pensai al modo di ripararvi, con rispondere in brevi parole al mio anonimo una lettera in risposta alla lettera diretta al Sig. Tale e a me. Questo ultimo scritto pubblicato in italiano, con la versione pollacca, mostrava la mia approvazione su amici e compagni d'anni; Stanislao Kostka Potocki (1757-1821), uomo politico e illuminato protettore delle lettere e delle arti. Dopo un lungo soggiorno in Austria, rientrò in Polonia nel 1807, all'epoca della creazione del granducato di Varsavia, e ricoperse le cariche di presidente del Consiglio superiore dell'istruzione pubblica e, dal 1815, di ministro dei Culti. Nelle pagine seguenti il Monti scrive Potoski, secondo la pronuncia polacca. 1. «Rivista enciclopedica»: la • Revue encyclopédique ,,, pubblicata a Parigi dal 1819 al 183 3 ; ne fu direttore, fino al 1831, Jullien de Paris; • Biblioteca Italiana»: periodico milanese fondato nel I 816 dn Giuseppe Acerbi, patrocinato dall'Austria e di indirizzo conservatore. 2. Cioè un polacco, che si firmava Tale. Così credo debba intendersi l'indicazione data dal Monti.

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ciò che diceva la lettera del mio anonimo, il mio errore sul modo poco nobile di vendicarmi di chi insultò l'opera mia, siccome quello del mio Tale parlando in sl fatta maniera di un onorato artista italiano. Tutti questi pettegolezzi fecero qualche chiasso nella città, né allontanarono in me l'idea (che mi fu da molti secondata) di esporre nuovamente il mio quadro alla pubblica esposizione che poco dopo ebbe luogo nell'Accademia delle Belle Arti. In quella circostanza veddi cosa veramente singolare e incomprensibile. Il suddetto conte Potoski, fra le molte cortesie usatemi, volle che di un suo bel quartiere terreno nel suo palazzo ne facessi studio, e li, stando provvisoriamente il mio quadro del S. Paolo (nel tempo che stavo dipingendo in grande, e figura intera il ritratto dell'imperatore Alessandro per il Tribunale d'appello) venne per due o tre volte a trovarnù un giovine pollacco, il quale mi dimandò il permesso di vedere il quadro dcll' Apostolo; padrone, gli dissi, ed egli si trattenne davanti al quadro una mezzoretta circa scrivendo nel suo taccuino. Per due o tre giorni tornò a scrivere, e lasciandomi, nù ringraziò. Giunto il giorno dell'esposizione, vedo fra i quadri esposti un quadro alto circa un braccio e mezzo, la copia di quello del mio S. Paolo. Ognun può figurarsi come io rimasi vedendo copiato il mio quadro in sl fatto modo. In questo tempo il vice-re, informatosi dal conte Potoski e dal professor Ciampi della mia persona, e delle forze mie nell'arte, mi diede la commissione di dipingere alcune figure nella volta di un salotto nel principale quartiere del suo palazzo, rifabbricato sul vecchio palazzo del principe Razeville, con architettura del sig. Heyner. 1 Questo dipinto fu fatto da me in un mese, ed in questo tempo il vice-re e la vice-regina mi colmarono di cortesie, onorandomi della loro tavola e della loro confidenza. La superficie sulla quale dipinsi era di stucco lucido, ed i colori di che mi servii furono preparati da quel vecchio pittore poltaceo che con la mia direzione dipinse l'ornato. Mi fu forza in questo lavoro ricorrere ai tratti e ai punti, giacché i colori erano di pochissimo corpo, né suscettibili d'impasto sopra una superficie sulla quale il colore veniva dietro al pennello, né l'imbeveva che a gran stento. Feci poi vari Heyner: Piotr Aigner (Varsavia 1760-Firenze 1841), architetto polacco: studiò in Italia; in Polonia costrui molti edifici e monumenti. Per il viceré ricostrul in stile neoclassico il palazzo dei Radzwill, già palazzo Koniecpolski. I.

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ritratti, fra i quali quello (che poc'anzi dissi) dell'imperatore Alessandro, quello del conte Zalucki, 1 quello di Glugsbergh, quello del professore Ciampi, e vari altri. Il detto ritratto dell'imperatore fu condotto da me a olio nello studio che avevo in casa Potoski, ed ecco in qual modo. Si vedeva l'imperatore in uniforme di generale pollacco in piedi, ed appoggiato alla statua della Giustizia, tenendo in mano la carta della costituzione pollacca: aveva un leone ai piedi che teneva una zampa sul globo, traversato da un ramo d'olivo. In distanza si vedeva il castello (Palazzo dell'imperatore) e la Vistula che le passa vicino. Nella base della statua figurava in basso rilievo rappresentata la Russia che dà la mano alla Pollonia in segno d'alleanza. Possedeva il suddetto conte Potoski una numerosa e scelta galleria, dove fra le altre cose fui sorpreso nel vedere quattro maravigliosi studi di teste d' Apostoli della Cena di Leonardo, della grandezza un poco più del vero, e condotti con un amore ed un sentimento da sbalordire. Questi studi erano originali e coloriti, ma non saprei dire se all'acquarello, o a lapis, tanto erano finiti. Parevano lucidati sul vero: v'era tutta quell'anima che può dare la natura, e che raro nella natura si trova. Vi veddi una bella Astronomia (figura intera e quasi al vero) del Domenichino. Tre bellissimi quadri d'un Caracci di figure d'un braccio circa, soggetti lascivi. Un bellissimo scrignetto d'acciaro con chiave, ricco d'ornati e piccole figure tutte condotte col fiato, opera maravigliosa di Benvenuto Cellini; un magnifico Giulio Romano, ed altri e tanti bellissimi quadri, dei quali non avendo io preso memoria, poco ora mi rammento. Possedeva questo signor conte una vasta e ricca villa chiamata Villa-nuova posseduta un tempo da Giovanni Sobyeski re di Polonia, agnato2 di sua moglie. In questa villa si conserva la tenda presa da Sobyeski al Gran Signore all'assedio di Vienna. 3 Il detto conte conservava sempre la sciabola di questo re, né so come egli facesse la pazzia di farla tutta rimontare secondo il gusto moderno a Parigi, ed ora si conserva in elegante astuccio di sommacco rosso. 4 I. conte Zalucki: nell'elenco dei ritratti del Monti, è quello fatto a Jan Kanty conte di Rivière Zalusky. 2. agnato: si indica cosi un parente in linea maschile. 3. Il titolo di Gran Signore appartiene al sultano; per l'assedio di Vienna vedi la nota 2 a p. 25. 4. Pelle o cuoio conciato col sommacco: arbusto ricco di tannino di cui si utilizzano le foglie per la concia delle pelli.

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[A PIETROBURGO] 1

Ritornato a Surkow2 posi ogni cura nel terminare il quadro della S. Sofia, e come Dio volle, ne venni a fine. Poi ritornato a' miei a-freschi, gli condussi tutti al suo termine, e con questo adempii all'obbligo che avevo col conte, a forma della scritta fatta. In questo tempo io balbettavo un poco il pollacco, sl che non mi fu difficile esternare a bella giovinetta l'impressione che mi aveva fatta la fisonomia sua, le forme e le maniere; e siccome alle donne in qualunque tempo e luogo è sempre piaciuto piacere, ed in particolar modo ai pittori, parve la mia Rosalia non sgradire l'amor mio, ed accettò di buon grado la dichiarazione che vivamente le feci. Di questa Rosalia parlo in quel madrigale che incomincia Rosa non colta ancora3 ec. Questi amori erano tali, che i di lei genitori vi chiusero un occhio, ed il mio conte non disapprovava le visite che questa bella giovine, sempre accompagnata, spesso mi faceva, e pensando io che presto l'avrei lasciata, avvicinandosi il tempo della mia partenza da quel luogo, per avere io eterna memoria del suo bel viso, volli farle il ritratto, che condussi in lapis rosso e nero, ed in modo assai finito, e che poi portai sempre con me ovunque andai: a Pietroburgo lo posi in bella e ricca cornice, come ora presso di me si ritrova. Terminati i miei lavori, e venuto il tempo della partenza, mandai il Perini a Lublino per farsi fare i passaporti per Firenze. Consigliato da qualcuno, avevo risoluto di fare il mio viaggio con i propri cavalli e carrozza, che da sette mesi tenevo, e che poco mi costavano (tenendo io questi in combutta4 con quelli del conte, quantunque la spesa del mantenimento fosse separata). Tornato il Perini con i passaporti, essendo io un bel giorno a pranzo (e precisamente quello che precedeva quello della partenza) né essendo a tavola meco che un signore francese, questo, sentendo la mia imnunente partenza per Firenze, arricciò il naso dicendomi che quello non era certamente il più bel momento per andare in Italia, giacché questa si trovava in grandi sconvolgimenti, per rivo1. Ed. cit., pp. 50-2, 56-62, 64-76. 2. Era ritornato da Varsavia il 7 dicembre 1819. 3. Il madrigale figura nella raccolta di rime che il Monti pubblicò a Pietroburgo (Raccolta di poche rime/atte nel Nord da N. MoNTI pittore di Pistoia nel I8r9, I820 e I82r, Pietroburgo, Stamperia Pluchart, 1821), ma anche in appendice al volume Polia,ztea. 4. in combutta: qui vuole avere soltanto il significato di « in compagnia, insieme».

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luzioni, guerre, diavoli e saette. lo che non mi sono mai dilettato né di guerre, né di rumori, assicuratomi bene della verità, dopo aver dato luogo alle mie idee, presi la determinazione di cambiare il mio viaggio di Firenze in quello di Pietroburgo, ed alzatomi da tavola, andai nella stanza accanto dove pranzava il Perini, al quale esternata la mia risoluzione, dissi: - Appena avrete pranzato, attaccherete, anderete a Lublino, e vi farete cambiare il passa-porto per Firenze in quello per S. Pietroburgo. - A questa intimazione il Perini rimase di sasso, e mi disse bruscamente che se volevo andare a Pietroburgo, v'andassi, ma che egli non vi sarebbe venuto. - Come vi piace, - gli risposi - prenderò un altro. - A questa. risposta secca, pensando meglio ai casi suoi, credette bene di venire, e cosi fece. Riparti subito per Lublino, portò i passaporti per Pietroburgo, ed il giorno dopo con una mia carrettella, co' miei cavalli e due bauli felicemente partimmo alla volta di quella capitale dai Francesi chiamata delle colonne ... Il primo di del mese di novembre di quell'anno 1820 veddi Pietroburgo. Gli alberghi delle poste in Russia, quanto sono orridi nella provincia, altrettanto eleganti e comodi quei quattro o cinque che dipartendosi dalla capitale si trovano. In uno di questi ( che sono di eguale architettura) oltre gli eleganti e ricchi mobili, vi ho veduto una stanza ornata delle stampe (poste in cornici e cristallo) delle Stanze di Raffaello, incise da Volpato. 1 Arrivati dunque a Pietroburgo, smontammo alla locanda di Demont, e ritrovato il mio amico Brioschi, 2 col di lui mezzo presi in affitto un quartiere nella grande milliona, una delle più riguardevoli strade della città. Rimessi le mie commendatizie, e da tutti ricevetti cortesie. Ma siccome io tenevo per massima (non sempre sana) che un pittore deve confidare più nel pennello che nelle lettere, cosi pensai di por mano subito a un quadro, e scelsi per soggetto una Pietà, 3 giacché in quel tempo i soggetti sacri erano in gran voga. Impiegai I. Giovanni Volpato (1740-1803), incisore e disegnatore tra i più famosi della sua epoca. Molto ammirate le sue riproduzioni delle Stanze e delle Logge vaticane. 2. Vincenzo di Giovanni (o lvanovitch) Brioschi, nato a Firenze nel 1786 e morto a Pietroburgo nel 1843. Pittore e litografo, si trasferi a Pietroburgo nel 1811: divenne membro dell'Accademia imperiale e restauratore di quadri all'Ermitage. 3. La Pietà, come ricorda il Monti nel citato Riposo, p. 75, fu acquistata dall'imperatore Alessandro, e poi collocata nel palazzo del granduca Michele.

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dunque quasi tre mesi nella esecuzione di questo lavoro, ed in questo tempo ebbi la soddisfazione di vedere il mio studio onorato dai più distinti personaggi del paese siccome esteri. M'era necessario per la mia Madonna un bel modello, né sapendo ove ricorrere, pregai l'amico Brioschi ad assistermi. Pratico del luogo non gli fu difficile. Una sera presomi a braccio, mi condusse nella meschi"anska (altra via di Pietroburgo) e introdotti in una casa, dove la porta era aperta, al buio taston-tastoni trovata la scala, giungemmo finalmente a una particella, che c'introdusse in una elegantissima sala bene illuminata e ben mobiliata, nella quale passeggiavano varie belle, eleganti ed aggraziate giovani. Stava semigiacente da una parte sopra una cosi detta chese-longue1 una attempata signora, alla quale appena entrati fui presentato. Ella mi ricevette di buona grazia, e dopo brevi parole con un bel saluto mi congedò, cioè mi pose in libertà. Alcune di queste giovani passeggiavano unite, altre stavano al piano-forte intente a far musica, altre prendendo il thè, e altre danzando. Mi fu allora detto dal mio amico all'orecchio, che esaminassi bene quella che conveniva al fatto mio; glielo dissi, e ritornati dalla vecchia, gli significammo l'oggetto della nostra visita. Fu subito chiamata la giovine da me scelta, alla quale fu tosto dalla vecchia comunicata la mia idea. Ella fece un poco la ritrosetta, ma fini per acconsentire. Si venne alle condizioni. lo volevo dunque questa giovine per due ore al mio studio, per fare uno studio della testa, delle mani e delle pieghe della mia Madonna. Ricercatole del prezzo, mi disse esser lei assai facoltosa, ed in conseguenza per meno di cento rubli (dieci zecchini circa) non sarebbe venuta. A tal dimanda rimasi di stucco, e l'amico sempre mi batteva all'orecchio e nel fianco, perché aderissi, non mi facessi canzonare, né lo facessi scomparire. Chiesi, non ostante questo, un ribasso, e dagli, picchia, e mena, mi riuscì di portarla a cinquanta rubli, al qual prezzo acconsenti: gli diedi dunque il nome della strada di mia abitazione, quello della casa (giacché là le case non sono marcate di numero, ma col nome del proprietario) e l'ora, che doveva portarsi da me. Tutto combinato ci congedammo, e partimmo. La mattina dopo, giunta l'ora stabilita, aspetta aspetta, la bella non si vedde, né più la riveddi. Al mio servitore riusci di trovarmi poi una tedesca, la quale per quanto meno bella dell'altra, servi al mio oggetto, e mi costò molto meno. I.

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trascrizione arbitraria del francese chaise-longue, sedia a sdraio.

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Condotto a gran porto il mio quadro, il principe Troubetzkoi mi condusse una mattina allo studio del conte Kotschoubey 1 ministro dell'Interno. Questo signore, dopo avermi fatto qualche complimento sull'opera mia, mi commesse il di lui ritratto in figura al vero fin sotto le ginocchia. Stabilito il prezzo, incominciammo le sedute, che parte si fecero allo studio mio, e parte nel suo gabinetto. Un giorno volle il ministro che andassi a trovarlo a Zarshoselo, 2 ove avea deliziosissima villa fatta sul disegno del nostro sig. Digny, presso quella grandiosissima dell'imperatore. Vi andai, e fui maravigliato nel vedere un luogo così singolare pel modo col quale è fabbricato ed abitato. L'imperatore Alessandro per rendere più delizioso il suo soggiorno, ha fatto fabbricare gran numero di piccoli palazzi tutti di eguale architettura e consimile alla chinese. Questi palazzetti sono destinati per l'abitazione di vari generali ed aiutanti di campo e loro famiglie in tempo di villeggiatura. Tutte queste fabbriche sono intersecate da bei viali e muri di verdura, nel genere di quelli di Bo boli. 3 L'uniformità fa un po' tristo questo luogo, nel quale non si vede quasi mai che a gran distanza case della plebe, né plebei. Il palazzo dell'imperatore è magnifico: è architettato da un certo Rastrelli italiano, del quale è pure l'architettura del Palazzo d'inverno, residenza dell'imperatore in Pietroburgo.4 La fabbrica dell'Accademia delle Belle Arti 5 è uno dei più grandi stabilimenti e fabbricati di Pietroburgo. Essa ha in mezzo un gran 1. Kotschoubey: Victor Pavlovitch Kotschubey ( 1768- 1834): dopo la carica di ministro dell'Interno (1802 e 1819) ricoperse quelle di presidente del Consiglio dell'impero (1827) e di cancelliere (1834): nel 1831 ebbe il titolo di principe. 2. Zarshoselo: è Zarskoje Sselo, oggi Puskin, a pochi chilometri da Leningrado: divenne nel secolo XVIII residenza estiva della famiglia imperiale. 3. Si chiama giardino di Boboli, in Firenze, il grande parco annesso al palazzo Pitti. 4. Il Monti incorre in una svista, in quanto il palazzo dell'imperatore Alessandro I, costruito nel 1792-96, è opera non già del Rastrelli, bensì del Quarenghi (su cui vedi la nota 4 a p. 42). Bartolomeo Francesco Rastrelli, nato a Parigi nel 1700 circa, ma di padre fiorentino, fu architetto valentissimo. Molte e assai lodate le sue costruzioni in Russia, dove si era recato col padre Bartolomeo Carlo, scultore, nel 171 6, e dove rimase sino alla morte avvenuta a Pietroburgo nel 177 1. Il suo capolavoro è il Palazzo d'inverno a Pietroburgo (1754-1762); a Zarskoje Sselo ricostrui (1752-56) il palazzo di Caterina, iniziato sotto Caterina I. 5. L'Accademia delle Belle Arti fu costruita nel 1764-72 dall'architetto Jean-Baptiste Michel Vallin de la Mothe (1729-1800): chiamato nel 1759 a Pietroburgo, divenne uno dei principali architetti di Caterina II.

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cortile perfettamente rotondo. Fra le gallerie che ornano questo ·luogo ve n'è una grandissima ripiena di un numero infinito di gessi, tratti dalle più belle statue antiche e moderne. I getti sono tutti bellissimi, e benissimo conservati e tenuti. Fra le belle cose che si ammirano in questo locale, si vedono alcune stanze piene di un gran numero di modelli (fatti sulle medesime proporzioni) di tutte le più interessanti fabbriche e monumenti di Roma. Questi modelli sono di una materia solidissima, e di colore simile ai loro originali, talché sembrano questi, veduti con lente concava. La maggior parte sono tagliati in mezzo per cosi vederne l'interno. Questi lavori furono fatti fare da Caterina II, né sono i soli, né i più grandi che attestino la sua magnificenza e amore per le arti .come in seguito vedremo. Questa Accademia è presieduta dal generale Alexis Olenin, 1 uomo quanto piccolo di statura, altrettanto grande d'ingegno, per talenti e cognizioni nelle arti. Il sig. Martos, 2 scultore esimio, n'è il direttore, ed i sigg. Jugoroff e Sciubuiuff sono due professori di pittura ll residenti e maestri. Il detto sig. Martos siccome i due professori hanno passati molti anni a Roma, ·e nelle loro opere si ravvisa sempre un po' d'italiano. Questo sig. -Martos ha un merito gigantesco nell'arte sua, e testimonianza chia·ra ne fanno le sue statue in bronzo sotto il portico della cattedrale, ed il suo gruppo colossale Pagiarski e Minine, 3 esistente a Mosca. Il modo col quale sono modellate le parti di questo gruppo, credo, e credo fermamente, che stordirebbe tutti gli scultori del secolo nostro. L'intelligenza delle parti, la scelta della forma, la natura, gli attacchi, il carattere, lo stile, l'espressione, l'anima, tutto è sentito con intelligenza e genio. Il braccio di Pagiarski che tiene lo scudo è un capo d'opera dell'arte. Il modello di questo solo braccio costò due mesi di pena e di studio al suo autore. Non sapendo come x. Alexis Nicolaievitch Olenin (1763-1843), disegnatore e incisore dilettante: prima ufficiale d'artiglieria, divenne poi direttore della Biblioteca imperiale di Pietroburgo, e quindi presidente dell'Accademia. 2. Ivan Pe·trovitch Martos (1754-1835) fu il migliore rappresentante della scultura russa durante il regno di Alessandro I. Il monumento a Minin e Pozarskij ·(vedi la nota seguente) fu eseguito fra il 1804 e il 1818 e collocato sulla Piazza Rossa. 3. Pagiarski e Mini11e: Koz'ma Minin, uomo di stato russo, morto nel 1616. Il territorio russo era stato invaso da eserciti polacchi, lituani, svedesi: erano i cosi detti cr tempi torbidi II del regno moscovita. Starosta di N"iznii Novgorod, Minin costituì delle milizie, affidandole al comando del principe Pozarskij, che vinse i Polacchi e rese libera la Russia. Nel febbraio del 1613 fu cosi possibile eleggere al trono Michele Romanov.

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testimoniare a si egregio artista la stima mia e la mia riconoscenza pel suo valore, e delle buone grazie usatemi, lo pregai di non sgradire uno dei due calchi in cammeo del ritratto di Canova, da lui medesimo fattomi dono da Roma col mezzo del chiarissimo professor Missirini, 1 autore della di lui vita. Gradi l'egregio artista la mia offerta, mostrando piacere di conservare in questa la memoria d'uno (di me) dal quale era sommamente stimato, e d'un altro (di Canova) che sommamente stimava. Non avevo ancora portato alla fine il ritratto del ministro, che il conte generale Ozarowski aiutante di campo dell'imperatore mi commise il suo, unitamente a quello di sua moglie e di un nipotino, tutti nella medesima tela, e della grandezza del vero, gli feci, e fatti, fui invitato a esporre alla pubblica esposizione (che in quel tempo ebbe luogo nell'Accademia) il mio quadro della Pietà, il ritratto del ministro, ed il quadro del conte. Furono dunque esposti i miei quadri nella medesima stanza, ed in questa occasione fui testimone di una curiosa avventura. Era fra le persone che percorrevano le sale dell'Accademia una vecchia, piccola, bnitta con la testa e il collo fasciato da un panno bianco a guisa di una pitonessa, e la sua fisononùa sardonica pareva indicare disprezzo, poiché tutto· guardava con sogghigno, e poco si tratteneva guardando. Il mio· quadro della Pietà era situato in una delle ultime stanze, ed alla prima parete a sinistra entrando. Io girando per queste stanze,· arrivato alla mia, non entravo, ma mi fermavo un poco sulla porta,· osservando di faccia i bellissimi gruppi di quella gente che stava osservando l'opera mia. Nel tempo che ero intento a studiare con gli occhi e con la mente l'espressione di tante belle teste, ecco la vecchia, che ficcatasi nel pigio, tanto fece che venne avanti ; piantati; gli occhi sul quadro, parve deporre quell'aria impertinente, e ad-dolcire un poco la fisonomia. Rimasta alquanto immobile con la persona e con gli occhi, questi si fecero a poco a poco rossi, sorti qualche lacrima, e finirono con un dirotto pianto, accompagnato da sospiri e singhiozzi. Nissuni2 elogi al mondo hanno saputo 1nai lusingare il mio amor proprio, quanto le lagrime di quella brutta 1. Melchiorre Minirini (1773-1849), poligrafo e traduttore, celebrò in versi e in prosa il Canova: la vita fu pubblicata a Prato nel 1824. z. Nismni: sono frequenti nel Monti queste forme toscane del linguaggio parlato del popolo.

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vecchia. Non mai ho avuto la stoltezza di credermi qualcosa nell'arte, se non che in quel momento. Ma la mia cecità durb quanto le lacrime della donna ... È il Remitaggio 1 una gran fabbrica annessa al palazzo dell'imperatore, dove è riunita la Galleria imperiale, il Museo, il Tesoro delle gioie, e varie altre stanze contenenti oggetti preziosi. Questa Galleria sorprende chiunque la vede, né si comprende come si pochi monarchi, ed in si poco tempo abbiano saputo e potuto riunire tanti e si maravigliosi quadri ed oggetti preziosi. Non ve ne sono molti di scuola italiana, ma moltissimi di tutte le altre scuole. A questa Galleria è riunita quella famosa di Mal-Maison2 di Francia, e nella collezione di questi quadri vi si trovano il famosissimo di Teniers3 rappresentante la funzione e marcia, allorché fu questo pittore ricevuto nei cavalleggieri. La famosa V acca di Paul Potter,4 e molti altri capi-d'opera dei quali ora non mi rammento. Una gran stanza ripiena di soli quadri di Rembrant, è cosa veramente maravigliosa e sorprendente. Quella non è più pittura, è la natura stessa inquadrata. Il colore, il disegno, lo stile, la espressione, la forma, tutto è vero, senza essere né Raffaele, né Veneziano. 5 Tutto vi parla, la luce è luce, e le ombre hanno la loro luce senza esserne nere, né riflessate come il cristallo, come oggi usa. Questa è quella pittura che non si insegna e certamente da venerarsi quanto quella che tanto oggi si studia e che così poco s'impara ... I Teniers, i Wouvermans, i Rusdal, i Gasperi Pussini, i Mieris, 6 e cento altri, che troppo ci vorrebbe a nominargli, vi si I. Remitaggio: vedi la nota I a p. 17. 2. La collezione parigina della Malmaison fu quasi tutta venduta nel 1814 dall'imperatrice Giuseppina allo zar Alessandro, che la collocò nell'Ennitage. 3. Teniers: David Tenier il Giovane, nato ad Anversa nel 1610 e morto a Bruxelles nel 1690, il più celebre di una famiglia di pittori fiamminghi. Lavorò a lungo nei Paesi Bassi e a Bruxelles. 4. Paulus Potter (1625-1654), pittore olandese, famoso per i suoi quadri di animali. Celebre il suo Toro (1647), che si trova all'Aia; il quadro La vache qui pisse, che si trova appunto all'Ermitnge, fu dipinto per la principessa di Solms, e poi da questa rifiutato a causa del soggetto. 5. Domenico Veneziano (morto nel 1461), pittore fiorentino, ebbe un vivo senso della luce e dei colori. Celebri, tra le sue opere, r Adorazione dei Magi (1430-35 circa) e la Madonna in trono (1443). Fu suo discepolo Piero della Francesca. 6. Teniers: all'Ermitage, oltre a quadri di David il Giovane, ve ne sono anche di David il Vecchio (1582-1649), autore per lo più di soggetti mitologici e religiosi; Wouvermans: i tre fratelli olandesi Wouwermans: Philips (1619-1668), Pieter (1623-1682) eJan (1629-1666); il più celebre fu Philips, che dipinse scene di caccia, cavalli e battaglie. Di tut-

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vedono in gran numero. Fra i quadri di scuola italiana vi sono due Raffaelli, ma non dei più belli, né non rimpasticciati. Quivi si vede il famosissimo ritratto di Clemente IX (Rospigliosi) fatto da Carlo Maratti che non ha certamente invidia ai bei ritratti di Guido. 1 I cartoni della Stanza dei papiri in Vaticano, di Mengs. 2 Quei sette o otto paesi di Niccolò Pussino noti per le grandi stampe che se ne vedono, fra i quali è quello del Polifemo, del Focione ec. 3 Quattro o sei magnifici Mori Ili, fra i quali un Abramo; un Domenichino rappresentante una santa che va in cielo; Rubens a bizzeffe, Wanderverf,4 in somma non si finirebbe più, tanti e tali sono i capid'opera che questa vastissima Galleria contiene. Il sig. Labinski, direttore (o conservatore) di questo luogo, possiede un S. Giovanni opera sorprendente del nostro Carlin Dolci, raro e venerato per tutto. Ho veduto in una di queste stanze una singolarissima macchina esprimente un gran pavone tutto di metallo, il quale al tocco di una certa molletta muove con lo stesso moto dei pavoni la testa, le penne, le ali, e la coda: nel medesimo tempo un gallo dello stesso metallo, movendosi tutto siccome i galli, come questi canta, e una civetta gufando straluna e gira gli occhi; è cosa veramente maravigliosa. V'è poi un organo chiuso in una specie d'armadio, il quale (non so se ogni ora) fa una suonata tale che quando lo sentii (essendo io da questo lontano) credetti essere la banda, tanto erano ti e tre si conservano quadri aWEnnitage; R11sdal: Ruysdael, famiglia di pittori di scuola olandese: di Salomon (1600-1670) e del nipote Jacob Isaakszoon (1628-1682), il più famoso della famiglia, si conservano opere all'Ermitage; Gas-peri Prusini: Gaspard Dughet, detto Le Guaspre-Poussin (1615-1675). Nato e vissuto in Italia, fu cognato e quasi figlio adottivo di Nicolas Poussin, di cui subì l'influsso: all'Ermitage si conservano di lui vari paesaggi; Mieris: famiglia di pittori olandesi originari di Leyda: Frans il Vecchio (1635-1681), i figli Jan (1660-1690) e Willem (1662-1747), e il nipote Frans il Giovane (1689-1763), autori di pitture d'ambiente e di scene di genere: di tutti si conservano quadri all'Ermitage. 1. Carlo Maratti (1625-1713), esponente della fase classicheggiante del barocco romano, dipinse ritratti, e quadri a soggetto storico e religioso; Guido è evidentemente Guido Reni, di cui numerosi quadri sono alt>Ermitage. 2. Il pittore Anton Raphael Mengs (1728-1779) influenzò in modo determinante la formazione del gusto neoclassico; gli affreschi della Sala dei papiri alla Biblioteca Vaticana sono del 1772. 3. Niccolò Pussino: Nicolas Poussin (1594-1665), venuto a Roma dalla nativa Normandia: autore di molti lodati lavori, tra i quali vengono qui ricordati i Funerali di Focione (1648, al Louvre), e il Polifemo (1649, nll'Ennitage). 4. Mon'lli è trascrizione per Murillo; la santa che va in cielo del Domenichino è la Maddalena; Wanderverf: Adriaan van der Werff (1659-1722), pittore olandese, autore per lo più di quadri di soggetto storico, di cui alcuni all'Ermitage.

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chiare e vere le voci delli strumenti a fiato. Questo luogo è aperto al pubblico, e tutti possono dipingervi e studiarvi col mezzo di un bigliettino stampato che si ottiene da chi comanda, e si presenta a chi serve. Le persone in gran numero addette a questo luogo in qualità d'inservienti sono tutte in ricca e nobile livrea gallonata d'oro, in calze di seta, e impolverati. Che diversità da ... In una gran stanza anzi grandissima si vede esposta e ben disposta sopra certi, chiameremo leggii, tutta la famosissima collezione dei cammei raccolti a furia di tempo e denari dalla immortale Caterina II della quale in questo luogo si vede un bellissimo ritratto fatto da Lampi. Quello poi che l'ingegno umano pare che non comprenda, si è il vedersi in un momento nelle logge del Vaticano, all'aprirsi di una porta. Caterina essendo a Roma, e trovandosi nelle logge, meditò il progetto di averle ancor ella a Pietroburgo (e gli riusci) sì che dato ordine in Roma che sulle medesime dimensioni si fabbricasse in legno tutto il loggiato, vi si copiassero poi dai più valenti artisti le pitture, smontato si trasportasse a Pietroburgo, dove rimontato con sommo ingegno· e stabilità tuttora si vede, né si capisce a prima vista come uno possa, essendo a Pietroburgo, trovarsi a Roma senza l'opera della bacchetta fatata. Questa cosa mi stordi al punto, che rimasi per qualche tempo con la testa come vuota, non sapendo neppure io cosa mi pensare di questo miracolo dell'ingegno umano. Il giorno d'Epifania è uno dei più solenni in Pietroburgo. A poca distanza dal palazzo dell'imperatore si erige nella Neva (a una quindicina di braccia dalla sponda) un tempio di legno di forma rotonda, ed aperto in modo che il popolo ne vede da ogni parte l'interno. Il piano di questo tempio è al livello della sponda, di dove si parte una comoda strada di legno che al tempio conduce. A una certa ora tutto il clero, con l'archimandrita se ne va processionalmente in questo luogo, dove tutti disposti con ordine assistono alla funzione che dal primo prete si fa. Questa consiste nel battesimo di un bambino che si fa per immersione da una buca fatta a bella posta nel diaccio in fondo al tempio, dove si va per mezzo di una scala. Si racconta che in un anno, al prete sguizzasse di mano la creatura, e perduta, egli senza punto scomporsi e come nulla fosse, disse: davai drugoi (portatemene un'altra) e gli fu subito portata, e la funzione ebbe il suo corso, senza che nessun se ne

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facesse né in qua, né in là. In questa circostanza tutta la guarnigione sull'armi è schierata sul diaccio, con cannoni, carri ec. e qualche volta ascende a venticinque, e trenta mila uomini. Il popolo è immenso lungo le sponde, e nel fiume. Verso la fine poi del carnevale si erigono nel fiume due grandi macchine di legno consistenti in un piano quadrato della circonferenza di una trentina di braccia circa, e elevato dal piano circa a sedici o diciotto: da uno di questi lati si parte una strada di tavole che alla distanza di una cinquantina di braccia va a trovare insensibilmente il piano. Su questa strada si pongono dei lastroni di diaccio a guisa di lastrico, e dalla parte superiore si vuotano sopra delle conche di acqua, la quale congelandosi prima di arrivare al piano, fa la strada come coperta da un solo cristallo, il quale va a unirsi col piano del fiume in modo che dal basso comparisce il fiume salire; tanto è unita la via artefatta con la naturale. Dalla sommità ·di questa macchina (alla quale gli uomini pervengono col mezzo di una scala retrograda)' uomini e donne postisi a sedere sur una tavoletta strisciata di ferro nella parte inferiore, la quale non è più lunga di un braccio e mezzo, e larga due terzi, si sdrucciolano giù con una rapidità tale, che giunti al piano, seguitano a andare per lo spazio certamente di più di dugento braccia, il quale spazio è lateralmente costeggiato da una corda ben tirata dove sta un immenso popolo spettatore di questo bel divertimento. Il fiume in questo tempo è coperto di teatrucci di legno, dove sono cantambanchi, botteghe, giuochi, balli, carrozze, trenò, alberi e strade, di modo che non più fiume, ma una lunga città somiglia. Cosi terminano gli spettacoli, e i divertimenti pubblici del carnevale. Nell'estate poi v'è un dato giorno nel quale in una delle principali piazze della città si erigono delle macchine consimili a quelle descritte qui sopra, dalle quali si scivolano sulle medesime tavolette che hanno sotto delle rotelline, per cui vanno rapidamente, ma non cosi come sul _diaccio. In questa piazza sono _ disposte moltissime altalene di diverso modo dove la gente si diverte pagando pochi copicchi. 2 Questa festa si chiama la festa dei caccelli. In questo tempo Pietroburgo è spopolato di nobiltà, che tutta se ne sta in campagna, e la più a Cristowski; dove le domeniche scala retrograda: forse vuole intendere che la scala si svolge nella parte posteriore della macchina, e perciò non guarda verso la sponda vicina. 2. copiccl,i: sta per •copechi• (dal russo kopejka), moneta russa di esiguo valore. 1.

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va la gente come a Firenze alle Cascine, quantunque vi siano tre werst. 1 Questo cammino si fa per la più gran parte sur un tavolato retto da frasche che posano sur un terreno pantanoso, sul quale quasi tutto Pietroburgo è fabbricato. Nel tempo della mia partenza, in quella magnifica capitale si stava demolendo la ricca e vasta chiesa di S. Isacco tutta di marmo e di barocca architettura italiana, per ricostruirsi sur una parte di questa, altra nuova chiesa sotto l'istesso titolo, col disegno del sig. Monferrand2 architetto francese. Il modello che fu fatto in legno mi fu detto che costasse circa ventimila rubli. Venticinque in trenta milioni di rubli furono assegnati dall'imperatore per l'edificazione di questa fabbrica: così mi disse l'architetto sig. Rossi. 3 Io ho veduto trasportare sulla piazza un bel numero di colonne di granito, il cui diametro era di sette piedi parigini. V'era la voce che l'architetto avesse cominciato a dar la volta al cervello, ma che poi fosse rinsanito. In questo tempo fu edificato nel giardino di estate un nuovo palazzo per il granduca Michele con disegno e architettura del suddetto sig. Rossi, e questo fu finito in due stagioni, mediante l'opera di tremila fra muratori e manovali. Ha Pietroburgo gran numero di fabbriche della più purgata architettura, ma le più reputate sono quelle del sig. Guarenghi,4 e fra queste il Maneggio, e il Teatro del Remitaggio. Mi trovai pure a una gran parte della edificazione di quel fabbricone circolare dello stato mag1. Cristowski: Krestowski, una delle isole formate dalPestuario della Neva; werst: la «versta» è antica misura russa, corrispondente a poco più di un chilometro. 2. Auguste Ricard de Montferrand (1786-1858), venuto a Pietroburgo nel 1817, ricostruì secondo un nuovo progetto la cattedrale di Sant'lsacco, che, iniziata da Pietro il Grande nel 1710, ampliata e continuata dai suoi successori, e ancora incompiuta al tempo di Alessandro, difettava di armonia e unità di stile. Alla fine del volume Poliantea (pp. 193-4) il Monti aggiunge una Description de l'Eglise de St. lsaac: ula presente descrizione fu stampata in S. Pietroburgo, nell'anno ch'io mi ci trovava (1821), ed ora qui la ristampo ... supponendo far cosa grata al lettore D. La Descrizione contiene la storia della costruzione della chiesa e le ragioni che portarono alla necessità di ricostruirla. 3. Carlo Rossi (Napoli 1775 - Pietroburgo 1849), l'architetto che trasformò con lo sua opera l'aspetto monumentale di Pietroburgo. Tra le sue costruzioni ricordiamo, oltre al palazzo del granduca Michele (1819-23, oggi Museo russo), e all'Emiciclo dello stato maggiore (1819-25), più sotto menzionati dal Monti, anche i palazzi del Senato e del Sinodo. 4. Guarenghi: Giacomo Quarenghi (1744-1817), architetto classicista di indirizzo palladiano, si recò nel 1779 in Russia alla corte di Caterina II. Costrui il Teatro dell'Ermitage (1782-85), e a Zarskoje Sselo il palazzo dell'imperatore Alessandro I.

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giore, il quale diviso dalla piccola migliona (strada) venne riunito per mezzo di un grande arco, che il sig. Rossi che n'era l'architetto, mi disse essere il più grande degli archi conosciuti in Europa, e che da me poi misurato, trovai che uno degli archi del tempio della Pace in Roma era più grande di quasi un terzo di braccio; e pochi giorni fa ne ho veduto e misurato uno qui in Pistoia nella chiesa di S. Francesco, che è mezzo braccio più grande di quello di Roma.• Sono le strade di Pietroburgo larghissime e diritte, selciate di ghiaiottoli, e costeggiate da due marciapiedi lastricati con lastre quadrate di granito, sui quali marciapiedi un cieco può girare tutta la città, sicuro di non inciampare né in scalini, né in muriccioli, né in ferrate, né in isporti, cosa comodissima, particolarmente la notte. Un bel piolino di ferro, che ogni tanto viene ritinto, costeggia questi marciapiedi superiori al piano della strada un buon terzo di braccio. Mai non vi si vede la neve, che appena venuta viene spalata da uomini pagati dal governo. Questa, gettata nella strada sottoposta, fa la strada superiore al marciapiede un buon braccio, e per andarvi si formano di tanto in tanto delli scalini nella neve medesima, cosi in mezzo alla neve, non si cammina mai sulla neve. Non v'è casa che in mezzo a un ambiente qualche volta di venticinque o trenta gradi di freddo, non ne abbia nell'interno quindici o sedici di calore, per cui, mediante l'ermetica serratura delle porte e delle finestre si rendono inutili i coltroni ai letti, i trabiccoli, i camminetti, i laidi e male usati scaldini, e tutto ciò che da noi si usa per parzialmente scaldarci anzi bruciarci. Quello che non ho mai potuto comprendere è, come il violentissimo passaggio da un ambiente all'altro non faccia cascar morti gli uomini. Questo cambiamento mi era per un istante sensibilissimo alla punta dei piedi, se a caso dimenticavo le mie calosce, e al viso, che in un momento poi vi si assuefaceva: il moto e una buona pelliccia mi preservava il resto del corpo, per cui il freddo mi pareva che più si vedesse di quello che si sentisse. Oso dire che uscendo di casa più dall'odorato che dall'impressione indovinavo i gradi del freddo. Il cosi detto dige/0 1 è quel tempo in cui dopo il diaccio vien lo scirocco che facendo l'aria pesante e non fredda, strugge a) Dunque pare che questo debba (secondo il sig. Rossi) essere il più grande d'Europa. 1.

digelo: disgelo (dal francese dégel).

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la neve, per cui i trenb, le carrozze e gli uomini spesso incorrono in pericolo. Fanno poi i Russi le loro provviste di diaccio per restate, e queste nelle respettive cantine. Ecco come prendono il diaccio dal fiume, e lo portano per le case. Formano sul piano del fiume un gran quadrato di uomini, che stanno alla distanza di quattro o cinque braccia uno dall'altro. Hanno tutti in mano un palo di ferro appuntato, che battono tutti nello stesso tempo sul diaccio, · alla reiterata voce di uno che sta in mezzo: fatto da tutti un buco di egual profondità, si vede in un momento quella gran massa galleggiare sull'acqua mediante la crepatura formatasi da buco a buco. Questo gran quadrato staccato dalla massa viene con lo stesso processo suddiviso da altri piccoli quadrati, i quali poi, estratti dall'acqua, caricati su i trenò si trasportano alle case. Questi piccoli quadrati formano un pezzo di diaccia della grandezza a presso e poco di uno dei cosi detti da noi cassettoni. Terminato il verno, al cominciar della primavera, i Russi legano qualche volta delle grandi scommesse sulla cosi detta partenza della Neva. Chiamano partire la Neva quel momento che rompendosi i diacci vengono questi trasportati adagio adagio dalla corrente del fiume. Nell'ora che precede questo momento (conosciuto dai Russi dal cambiamento che fa il colore della superficie del diaccio) tutte le sponde del fiume sono braccate dal popolo che quivi accorre in grandissima folla. Appena giunto il momento, si annunzia questo col tiro del cannone. Per due o tre giorni è proibito l'uso delle barche, finché il capitano della Fortezza non abbia traversato il fiume dalla Fortezza al palazzo dell'imperatore, dove smontato rimette al sovrano una bottiglia d'acqua della Neva, per la quale riceve in guiderdone mille rubli. Tutto questo si fa allo sparo dei cannoni, e in un momento si vede il fiume coperto da mille barche tutte addobbate a festa, essendo (come molti hanno notato) quel giorno quasi sempre sereno. V'è un giorno nell'anno, in tempo d'estate, in cui il pubblico concorre in gran folla alla passeggiata nel giardino d'estate. In quel giorno le madri pongono gran cura acciò le loro figlie siano in buon punto perché i giovanotti che hanno volontà d'ammogliarsi vanno a questo giardino per far la scelta della sposa. Difatti non

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ho io mai veduto quel luogo più popolato di bella gioventù, di quello che lo veddi in quel tempo. In quella occasione mentre io passeggiava in questo giardino, fui colpito da una melodia che non seppi in primo raccapezzare da che nascesse, né potei indovinarlo finché non veddi cosa era, tanto era dolce e armoniosa alrudito e al cuore. Diressi i miei passi verso questi suoni di paradiso, e dopo poco mi trovai presso un mucchio di gente, e ficcatomi fra questa, mi riusci penetrare nel luogo di dove questa armonia si dipartiva. Erano gran numero di uomini (e se non erro, soldati) i quali disposti per ordine sanavano ciescheduno una canna da organo, incominciando da una lunga un palmo, terminando con un'altra lunga fra le quattro e le cinque braccia, per cui erano necessari due cavalletti per reggerla. Queste canne erano qualche volta raddoppiate, cioè due uomini suonavano ciascheduno una canna della stessa misura e voce. Né so comprendere come mai si potesse con un istrumento che dà una sola nota, combinare suonate cosi complicate, cosi giuste di tempo, e cosi bene eseguite che era un incanto a sentirle. Nessun genere di musica, né l'organo stesso può in nessun modo rendere un'idea della dolce armonia che da queste canne risultava. Io fui cosi incantato di questa cosa, che non potrò mai scordarmene. Ebbe luogo in quel tempo un concerto (che cosi chiamavano) al teatro, tutto di strumenti a fiato composto delle bande dei reggimenti che si trovavano in città, ed il numero de' suonatori ascendeva a cinquecento. lo entrato al teatro, e veduti schierati tutti questi soldati armati del respettivo loro strumento, credei dovervi lasciare il cervello, ma nulla affatto: la musica che eseguirono era cosi bella, cosi bene eseguita, e cosi giusto il tempo, che in certi punti cinquecento strumenti parevano uno solo. Ho sentito in quella circostanza fino a qual punto l'arte può arrivare in fatto di esecuzione. Disgraziatamente quantunque io ami quanto si può amar la musica, non conoscendo io quest'arte non posso rilevarne quei pregi che un perfetto conoscitore di questa saprebbe ora a te, lettore, far manifesti. È la musica in gran voga in Pietroburgo, dove non è casa di persona ben nata, nella quale non si trovi un pianoforte. Godeva in quel tempo fama di gran suonatore di questo strumento un certo sig. Filt inglese, e Steibelt ;1 ma Filt superava Steibelt nell'esecuzione. Filt: John Field (1782-1837), pianista e compositore irlandese, scolaro di Muzio Clementi, chiamato anche o: il Field russo» perché visse a lungo in 1.

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Io frequentando spessissimo il gabinetto letterario di mons. Pluchart, divenni in poco tempo il suo amico, ed egli il mio. Il suo stabilimento era magnifico, e racchiudeva una scelta e numerosa collezione di libri, una bella e ben corredata tipografia, dove pure si formavano i caratteri, una stamperia tipografica, ed una litografica. Col di lui mezzo feci la conoscenza del sig. Orlowski, 1 artista distintissimo, e posseditore di un magnifico gabinetto di strumenti, armi, vesti, e tutto ciò che può esser utile a un artista, e di divertimento a un amatore. Le sue tavole litografiche, cioè le sue litografie fan chiara fede del suo genio grandissimo, e del suo valore nell'arte. Pluchart per il quale moltissimo lavorava, mi regalò quasi tutta la collezione delle sue opere, che tuttora conservo incristallate nel mio studio. Di questo egregio artista fu mecenate il granduca Costantino,2 presso il di cui palazzo aveva studio e abitazione. La relazione di Pluchart mi fece nascere la voglia di stampare, e per soddisfarla raccolsi un numero di versi da me fatti per lo passato, ed a questi unitovene altri che feci in quella occasione, ne raccolsi un certo numero, col quale ne formai un libretto che il mio amico a amichevolissimo prezzo nobilmente mi stampò. Questi versi sono riportati in questa mia operetta, riveduti, corretti, aumentati, e in parte diminuiti. 3 Ne stampai una ottantina di esemplari, per cui l'opera fatta rarissima, ha qualche pregio, se è vero che pregio rechi la rarità. Vedendo e conoscendo bene che il gusto dei Russi per l'arte della pittura si limitava all'acquisto di quadri vecchi, e poco o punto si cercavano dei nuovi, esclusi i ritratti, io fattine un certo numero finii per noiarmi, e preferii tornarmene a Firenze, dove dieci paoli mi facevano più pro, che dieci luigi in un paese dove isolato, ignaro della lingua, e dove spesse volte l'arte è mestiero, me ne vivevo molte ore del giorno nella tristezza. Questa mi produsse Russia, a Pietroburgo come insegnante di pianoforte, e a Mosca. Celebri i suoi Notturni; Daniel Steibelt (1765-1823), pianista e compositore tedesco, nel 1808 si trasferl a Pietroburgo, dove fu nominato direttore del Teatro dell'opera francese. Autore di opere e balletti. 1. Aleksander Orlowski (Varsavia 1777 - Pietroburgo 1832), pittore e incisore, dal 1801 si era stabilito a Pietroburgo. Introdusse la litografia in Russia, eseguendo riproduzioni litografiche dei propri disegni. 2. Il grandr,ca Costantino (1779-1831), fratello dello zar Alessandro I. 3. È l'edizione già da noi ricordata: vedi la nota 3 a p. 32.

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un'iterizia, che mi obbligò a starmene in casa venti giorni, curato da un medico che non parlava né l'italiano, né il francese. Questo me lo procurò il conte Ozarowski, il quale mi dimostrò in quella occasione somma bontà. Finalmente, come a Dio piacque, la cosa fini bene, e rinsanii. Appena guarito, presi la definitiva risoluzione di partire e tornarmene a casa. Andai da Pluchart, gli manifestai la mia idea, e da lui preso consiglio, mi portai dai sigg. fratelli Livio banchieri, a loro consegnai una cassa dei miei effetti, per spedirmi a Livorno e quel poco denaro che avevo. Fatto tutto questo, in compagnia di un certo sig. dottore Primo Descacciati di Como, mi messi in viaggio, prendendo la direzione di Berlino.

[VIAGGIO DI RITORNO] 1

Stabilito che ebbi di abbandonare Pietroburgo, atterrito dall'idea di dovere nuovamente percorrere un cammino che poco o nulla offriva di gradevole alli occhi di un pittore; per rendere il mio viaggio più variato, più piacevole, e più interessante, divisai e stabilii di passare in Prussia, veder Berlino, poi Dresda, Praga, tornare a Vienna, in Italia, e a casa, e cosi feci. Traversata dunque nuovamente la Russia, si entrò in Prussia, e pervenuti due o tre miglia sotto Danzica, arrivammo a Memel, e di li entrati in una lingua di terra che fa penisola, si trovò questa da una parte costeggiata dal Baltico, e dall'altra da una catena di monti che nascono nel Kurische Kaff."' Questo cammino non è praticabile che sulla sponda del mare, ed in quel punto precisamente dove si trova la rena bagnata dalle onde, essendo tutto il rimanente, o ghiaia, o rena asciutta, ed in conseguenza impraticabile. Dovemmo dunque noi fare un viaggio per così dire anfibio, trovandosi sempre la nostra carrozza con una ruota in mare, coll'altra in terra. Questo viaggio era in quel tempo pericolosissimo per trovarsi lungo la sponda che battevamo dei vani, (cioè) dei grandi vacui ricoperti dalla rena, nei quali, mi si diceva, qualche volta sommergevansi cavalli, carrozze e uomini. Il nostro postiglione pratico di quel cammino spesse volte l'ho veduto deviare dal retto sentiero, per aver veduto perdute le rigaie, 1. Ed. cit., pp. 76-7, 81-5. 2. Meniel è oggi Klaipeda, in Lituania; il Kurische Kaff è il Kurisches Haff (oggi Kurskij Zaliv), ampia laguna in cui si

insinuano le acque del Baltico, chiusa quasi completamente da una sottile striscia di terra.

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o traccia delle ruote sulla strada, dal quale segnale giudicava essere in quel punto pericolo. Questa strada, quantunque postale, è pochissimo battuta, ed in tre giorni non so se vi avrò rincontrato tre uomini: mai un uccello, mai un cane, nulla al mondo. Questo luogo mi dava un,idea di quei deserti delle novelle. Giunti a Konysberg 1 prendemmo posto nella diligenza, e partimmo alle 8 della notte a un tempo piovoso ed oscuro, in compagnia del conduttore, del vetturino, e di una dozzina e mezzo circa di barilotti di denaro che se ne andavano, secondo il solito alla capitale. Entrammo poco dopo nel bosco, ed il vetturino, legate le guide al lato della diligenza si pose a dormire. I miei compagni di viaggio fecero lo stesso, ed io se avessi avuti due altri occhi avrei aperti anche quelli, tanta era la paura di trovarmi in quell'ora in un bosco, soli, inermi, e con tutto quel denaro. Dopo qualche miglio, immersi come eramo nel silenzio e nella solitudine, fui colpito dal suono di certe voci lontane che non potei indovinare di dove diavol nascessero: destai il conduttore della diligenza per domandargli che cosa erano, e mi rispose essere torme di lupi affamati, e voltatosi dall,altra parte, si riaddormentò. Come Dio volle, le voci si perderono, ed il viaggio andò benone fino a Berlino . . . Dopo il soggiorno di quattro giorni a Dresda passai a Praga, capitale della Boemia. Le fabbriche di questa città annunziano un non so che di grande, per cui si giudica essere questa città stata un tempo in più splendore di quello che ora lo sia. Molti pubblici monumenti, ed in particolar modo le chiese sono per lo più di una architettura gotica, la quale quasi sempre è di un carattere grande e leggiero al tempo stesso, pregio pregiabilissimo e cosi raro nella moderna architettura. Vi sono una quantità di torri le quali hanno sugli angoli ed in vari punti come altre piccole torri appuntate che danno grazia senza togliere il severo che a tal genere di architettura si conviene. È in questa città il famoso ponte che traversa la Molda, 2 dal quale per ordine di Boleslao re, S. Giovanni Nepomuceno fu gettato nel fiume, per non avergli voluto riferire i peccati di Giovanna sua moglie, della quale era confessore. 3 La 1. Konysberg: Konigsberg, oggi Kaliningrad. 2. Molda è la Moldava. 3. Sulle ragioni che portarono al martirio S. Giovanni Nepomuceno (da Nepomuck) esiste una controversia non ancora definita. Documenti certi attestano che egli era vicario generale dell'arcidiocesi di Praga, e che per aver difeso la libertà della Chiesa fu gettato nella Moldava dal ponte Carlo

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fabbrica della cattedrale è situata in eminentissimo luogo, dove si va per mezzo di una lunga strada, cosi ripida che pare più una scala senza scalini, che una strada. Le carrozze pervengono in questo luogo mediante un lunghissimo giro che fanno da altra parte. In questa chiesa si conserva il corpo del suddetto santo che sta chiuso in una ricchissima cassa d'argento sodo, situata in una cappella a lui dedicata, e sotto una specie di padiglione regalato da un granduca di Toscana. Questa fabbrica pure gotica, è ricca e grande, ma danneggiata molto dal bombardamento che fece in quel punto Federigo II di Prussia, non so in qual guerra, 1 per cui si parla di lui con indignazione, né si nomina che col nome di gobbo. Prima di lasciar Praga, fui combattuto dall'idea di passare a Monaco di Baviera, per vedere ancora quella celebre Galleria, e mi sarei lasciato vincere, se fossi stato solo nel viaggio, o non mi fossi impegnato di tornare nuovamente a Vienna con chi viaggiava meco. Diretti dunque a quella volta, e rientrati nelli Stati dell'imperatore, dopo non breve viaggio, veddi nuovamente la capitale, e Il rimasi ancora un mese. Appena giunto fu mia prima cura ricercare il sig. Navarro d'Andrade ministro di Portogallo alla corte di Vienna, per il quale avevo per lo passato dipinto qualcosa in Firenze. Questo signore, a cui sarb sempre grato d'infinite cortesie, fece che io riveddi col più vivo piacere il mio compatriotta sig. dott. Cappellini medico celebratissimo, il quale, quantunque da molti anni assente dalla patria sua, pure ne conserva sl viva la memoria, caro essendogli tutto cib che quella gli rammenta. Per questo gli fu gradita la visita mia, ed in tutto il tempo che rimasi in Vienna, non come compatriotta né come amico, ma come padre affettuosissimo sempre trattommi. Il chiarissimo conte d'Elci non cedette a loro in questa parte, ed io per non sapere in qual modo attestare loro la mia riconoscenza, feci a ciascuno il ritratto in litonel 1393 1 per ordine di re Venceslao IV di Boemia. La canonizzazione avvenne invece, nel 1729, in base ad un'altra tradizione, per cui egli, confessore della regina, non volendo tradire il segreto confessionale, fu annegato nella Moldava nel 1383. Le due diverse versioni portarono poi a ipotizzare l'esistenza di due Giovanni da Nepomuck; la critica moderna tende però a respingere questa ipotesi, dando maggior credito all'esistenza del solo vicario di Prnga. I. La g11e"a cui qui si allude è quella dei Sette anni; la battaglia di Praga, tra Federico II e gli Austriaci, fu combattuta il 6 maggio 1757. 4

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grafia, e quello del d'Elci lo dedicai al senatore Alessandri, 1 suo amicissimo, la qual cosa fu oltremodo gradita dall'uno siccome dall'altro. Mi portai poi a visitare nuovamente la Galleria di Belvedere, della quale è inutile farne il dettaglio trovandosi questo chiarissimo nella Guide des tJoyageurs à Vienne, stampata da Artaria. 2 Feci la conoscenza del conte Lamberg, il quale possedeva un copioso numero di bei quadri, che mostrava uno dopo l'altro sur un cavalletto, trovando (e con ragione) questo il più bel modo di vedergli. 3 Andai a visitare la copiosissima Biblioteca imperiale cosa veramente inaravigliosa, e· che meriterebbe esser più frequentata per le preziose opere che contiene. Il bibliotecario che trovai colto e cortese volle mostrarmi alcune rarità fra le quali la Carta Ravenas ms. sul papiro egiziano dell'anno 504. J salmi di David impressi in foglio da Fausto e Schoefer nell'anno 1457. Durand nationalis officiorum difJinorum, codex 1459 di Fausto.4 Una iscrizione in rame del Senatus consultus per le· feste dei baccanali riportati da Titolivio. Questa iscrizione è dell'anno 186 avanti G. C. Un codice dell'8 secolo del re Carlo Magno, scritto in oro. Finalmente giunto il tempo della mia partenza, deposto nelle mani del sig. Arnstein Eskelis banchiere il poco denaro che avevo, partii di Vienna, lasciandovi il -mio compagno di viaggio. Fatto un miglio circa, fu fermata la nostra carrozza da due mal vestiti tedeschi, i quali uscendo da una specie di piccolo burò, mi chiesero il mio portafoglio. Io che non intendo un acca del tedesco, dissi al vetturino, che lo intendeva poco più di me, che dicesse loro che non avrei consegnato le mie carte a ·quei mascalzoni, ma che non le avrei ricusate a un'autorità, che in qualche modo me le avesse garantite. O che io non mi facessi intendere, o che essi non mi volessero intendere, tutte le mie belle ragioni furono inutili, e bisognò deporre nelle mani di quei due patatucchi sette o otto lettere sigillate, e non sigillate, fra le quali ve n'era una per Lord Burghersch ministro a Firenze, 5 scritta da 1. Potrebbe trattarsi di Marc0Alessa11dri (1755-1830) che fu senatore del Regno Italico: vedi la nota 4 a pp. 10-1. 2. Artaria: celebre casa editrice vien·nese, fondata nel 1j60, raggiunse nell'Ottocento il suo massimo sviluppo. 3. mostrava • .. vedergli: di questo modo di presentazione dei quadri, che si contrappone all'ammassamento tipico delle gallerie, il Monti scrisse con lode nel citato Riposo: cfr. le pp. 79-80. 4. Si tratta del Psalteriu,11 edito dai tipografi Peter Schoeffer e Johann Fust di Magonza, e del Ratio11ale divinorum officiorum del giurista Guglielmo Durando. 5. Lord Burghersch: John Fane, undicesimo conte di Burghersh, diplomatico e musicista, fu dal 1814 al 1830 ministro a Firenze.

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suo cognato Lord Begot ministro a Pietroburgo. Oltre di cib, vollero a forza che loro sborsassi sopra due zecchini d'oro. Dopo tutto questo, divorato dalla stizza di non aver potuto addurre le mie ragioni, né aver potuto sapere le loro, rientrato in carrozza mi rimessi in viaggio, e come Dio volle, dopo pochi giorni riveddi il bel paese, in bel giorno sereno, e quello fu il primo dell'anno 1822. Appena giunto, abbracciati gli amici, corsi dal ministro Fossombroni,1 al quale narrai l'avventura delle lettere. Egli dopo pochi giorni fattele ritornare, me le rimesse tali quali le avevo consegnate. I due zecchini rimasero in Germania.

1. Il conte Vittorio Fossombroni (Arezzo 1754- Firenze 1844) era allora (dal 1815) presidente del governo della Toscana.

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PROFILO BIOGRAFICO

Francesco Cusani, in un viaggio in Dalmazia e nelle isole ionie che poi descrisse per i suoi lettori, si fermò a Zante e vi conobbe il vice console austriaco Giuseppe Nizzoli e la moglie Amalia. Era l'estate del 1840. In quell'occasione il Cusani, saputo che l'Amalia Nizzoli aveva composto delle memorie sui molti anni trascorsi in Egitto, si fece consegnare il manoscritto, lo portò con sé a Milano e ne curò la pubblicazione. Il volume fu stampato dal Pirotta e apparve nel 1841 con una introduzione del Cusani, datata 6 marzo 1841, in cui sono date alcune notizie - in realtà assai poche - dell'autrice, la quale aggiunse al libro una sua breve introduzione con la data cc Zante, 27 agosto 1840 ». Alle notizie date dal Cusani è riuscito difficile, nonostante le ricerche compiute, aggiungere alcune precisazioni. La madre della autrice, una Marucchi - di famiglia originaria di Moncalieri ..;. aveva sposato un Solla, di Torino. I coniugi, ai tempi in cui i repubblicani francesi occuparono il Piemonte, erano fuggiti a Firenze: e certo in Toscana, se non proprio a Firenze, erano nate loro due figlie, Amalia e Fanny. Da un rapido accenno delle Memorie risulta che Amalia frequentò un collegio femminile della Toscana, manon ci è possibile precisare quale sia stato. La famiglia si accingeva a tornare in Piemonte quando le giunse una lettera dello zio materno Filiberto Marucchi, che da più anni era in Egitto come medico del Defterdar-bey: lo zio li chiamava presso di sé, offrendo al cognato possibilità di impiego, che non sappiamo quale fosse né quale sia stato in seguito. Era il 1819 e sembra che l'Amalia avesse allora tredici anni, ma la ricostruzione della data di nascita desta qualche incertezza. Giovanissima, la futura autrice, trasferita in un ambiente così diverso, riusci ad adeguarvisi, imparò l'arabo, si orientò negli usi e costumi locali. Dopo aléuni anni andò sposa a un « uffiziale » della cancelleria del consolato austriaco, Giuseppe Nizzoli (o, come in altri documenti, de Nizzoli). Le Memorie narrano delle nozze e di vari anni successivi, ma ogni notizia diretta ·dell'Amalia si arresta con la pubblicazione del suo libro. Ancora alcune tracce si hanno invece del marito, che già in precedenza (1824) aveva ceduto una raccolta di reperti archeologici al granduca di Toscana, e nel 1832 aveva consegnato un,altra collezione egizia al pittore Pelagio

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Palagi, entrambe per varie migliaia di scudi. Le tracce successive sono rappresentate dalla pubblicazione, nel 1845, di un suo volumetto sulle piramidi di Egitto, che fu poi ristampato a Parigi nel 1858, con una prefazione dello stesso Nizzoli. Nel volumetto è data notizia di scavi eseguiti dal Nizzoli anche come membro della Società Antiquaria di Egitto di cui era segretario, ed è fatto cenno alle Memon·e della moglie che egli chiama ,e la signora Nizzoli». Dello svolgimento della sua attività diplomatica si sono potute avere notizie dal Consolato generale austriaco. Viceconsole a Zante dal 1835, il Nizzoli fu successivamente console nell'isola di Sira nelle Cicladi dal 1846, e a Salonicco dal I 8 5I. La sua nomina a« console generale ad personam» (cioè, ad honorem) il 16 maggio 1858 dové coincidere con· la sua collocazione a riposo, seguita dopo poco dalla morte (28 novembre 1858, a Salonicco). Ma una notizia per noi notevole consiste nel suo matrimonio, nell'anno 1849, con Maria Coliva ( nata a Corfù nel 1826), che dopo la morte del marito si trasferl ( 1860) a Ginevra e vi' sposò il cittadino svizzero Ruynàt. Se ne arguisce che Amalia Nizzoli, prima moglie del diplomatico, era morta, di età giovanile, in uno degli anni tra la fine del 1841 e il 1849, forse nella stessa Zante. Due lettere della Nizzoli ritrovate alla Braidense di Milano e una recensione al suo volume, non superano l'anno 1841 e poco hanno giovato per indirizzare a nuove ricerche. Né i vari repertori e le enciclopedie consultate hanno recato qualche aiuto. Lo stesso Pietro Amat di San Filippo nella sua Biografia dei, viaggiatori italiani mostra di riprodurre di seconda mano le scarse notizie che dà sulla Nizzoli, e inoltre attribuisce al 1844 la pubblicazione delle Memorie, anziché al 1841; e neppure appare esatto, in altre enciclopedie~ lo stesso nome dell'autrice, che è spesso ricordata come Nizzoli Marucchi Amalia, senza alcun riferimento al cognome paterno. La- mancanza di notizie sull'autrice avrebbe potuto indurci a rinunziare alla riproduzione di una larga scelta delle sue pagine. Ma esse ci sono sembrate cosl vive e colorite, nella loro spontaneità, da meritare che siano ripresentate ai lettori, anche senza che le accompagni una precisa conoscenza e fama dell'autrice; un caso tipico di sopravvivenza dell'opera e di oblio dello scrittore. Non si tratta, certamente, di un capolavoro, ma la freschezza, senza gravame di cultura, con cui sono presentati gli interni degli harem, le usanze e le passioni, quel che di primitivo e di barbarico

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ancora si attardava nel mondo egiziano, le difficili comunicazioni, le navigazioni avventurose nello stesso Mediterraneo, rappresentano una interessante resurrezione di un mondo scomparso-; e danno un'idea molto aderente alla realtà della presenza europea in Africa nei primi decenni del secolo diciannovesimo e della esplorazione ed un'aria fresca e placida, un bel cielo stellato, tutto presenta uno spettacolo curiosissimo e nuovo per chi non soggiorna in queste contrade. Taluni si divertono a gettarsi nel fiume, altri riposano sotto le tende, chi conversa seduto sopra stuoie stese in terra, chi dorme a cielo sereno, chi mangia, gozzoviglia, o cerca avventure, chi giuoca, chi fuma e chi anche si affoga senza saperlo; ecco quanto si fa durante il corso della notte. L'aurora del dl seguente è salutata con molte salve d'ogni arma, e ciò continua fino all'arrivo del governatore col suo numeroso corteggio in gran pompa; allora cresce lo strepito, s'aumenta la folla, indi succede silenzio. Ed ecco, premesse le usate cerimonie, dietro il segnale del Kiaya-bey, l'argine è ben tosto distrutto, e nel momento che l'acqua penetra nel nuovo canale, un battello spinto da quattro fellah vi si caccia seguendo l'impeto della corrente, quindi uon1ini e ragazzi nudi facendosi strada fra quelle canne che servono di ritegno alla corrente si precipitano nel canale, e tutti lordi di fango, si rotolano fra le acque nel fondo del canale medesimo. Una ricca barchetta di Abbas-pascià1 nipote di Mehemed-Aly siegue e ritorna. Poche piastre in moneta sono gettate in quest'occasione dal l{iaya-bey per diporto del volgo che se la disputa a colpi di pugni. L'interno del Kalisch che passa per mezzo il Cairo è frequentato intanto da una quantità di / ellah, buffoni, ballerine, meretrici e suonatori, i quali di mano in mano che arriva l'acqua del fiume la precedono fuggendo, indi fermandosi a nuovi sollazzi, finché li sopraggiunga la corrente. Tutte le finestre delle case che guardano l'interno del Kalisch sono piene di spettatori, 1. Abbas-pascià: nel 1848 sali al potere, che conserv~ sino al 1854: di tendenze conservatrici, fu fedele vassallo dell'Impero ottomano.

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che al comparire dell'acqua gettano gridi di gioia e di esultanza. Molte madri stanno attente per bagnarvi subito i loro figli, altri vi si gettano intieramente a nuoto, ed altri infine si lavano gli occhi, e altre parti del corpo affette da qualche indisposizione. È tanta la fiducia che gli arabi ripongono nei benefici influssi di quelle acque, che vano riescirebbe il distoglierli da tale idea. Anche le sachie, ossia le macchine destinate ad innalzare le acque del Nilo per innaffiare le campagne, sono in quel giorno guarnite di un mazzetto di erbe di basilico, come sicuro talismano contro i genii malefici. Finita la cerimonia, il governatore rientra in Cairo con tutto il suo seguito composto dei Grandi, impiegati, de' signori ed altre primarie autorità, accompagnato da diversi corpi delle differenti sue guardie a piedi ed a cavallo con musica, non che da una turba di staffieri, palafrenieri, corrieri, arabi, beduini, mammalucchi, giannizzeri e buffoni, molti dei quali armati di picche, ed avendo carabine, pistole, sciabole, superbi cavalli da maneggio, bardati riccamente con selle in oro, frangie e piastrelle d'argento, sempre condotti a mano. In fine il cadi. (giudice) chiude la marcia con un seguito di sagrificatori, specie di antichi sacerdoti, coperti di mitria, e d'un panno quadrilungo bianco che cade loro sugli omeri con sotto una lunga tunica rossa di panno cinta da una fascia bianca. Durante la cerimonia del taglio, la varietà dei vestiti di tanto popolo, e genti di diverse nazioni, i magistrati, le truppe schierate, il movimento del popolo, il fiume pieno di barche, i varii punti pittoreschi della fertile campagna, un bellissimo cielo rischiarato da un ardente sole, ma temperato da un grazioso e fresco vento di tramontana, presentano un meraviglioso spettacolo. Perfino le donne che sono condannate a starsene sempre col viso coperto, in questa circostanza camminano liberamente fra la folla, e molte si uniscono altresl sotto qualche albero, o vicine ad un muro, e distesi sopra la testa i loro scialli a guisa di baldacchino, guardano attorno furtivamente invitando chi loro piace a mangiare e passarsela allegramente con esse. Questo è ciò che praticano più particolarmente nel corso della notte precedente la funzione, le ballerine che ad ogni passo s'incontrano. Al declinare del giorno, tutto il popolo si ritira giulivo e contento, potendosi concludere essere questa giornata per gli abitanti d'Egitto la più solenne e festiva, giacché è quella che decide dell'esistenza loro e del loro ben essere.

MEMORIE SULL'EGITTO

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ARRIVO IN ALESSANDRIA DEL CONSOLE GENERALE ACERBI • SUA PRESENTAZIONE AL PASCIÀ 1

Giunse alfi.ne il momento di partire per Alessandria ove arrivammo alla fine del luglio 1826. Nizzoli aveva avuto l'ordine di lasciare il suo posto, al quale fu sostituito un altro individuo. Prima di lasciare il Cairo mi recai a prendere congedo dalla moglie di Abdin-bey, che pianse per la mia partenza; il nostro distacco, seguito in presenza di tutte le schiave, fu commovente. Dopo alcune settimane che noi eravamo in Alessandria, comparve una corvetta austriaca con bandiera quadra sull'albero di maestra :2 era il console generale che compariva in Egitto. Mio marito si recò bentosto a bordo, ove il signor Acerbi, abbracc~andolo, lo accolse assai bene. Il signor Acerbi, usando de' suoi poteri, nominò bentosto Nizzoli a cancelliere del consolato generale, e prese secoiui gli opportuni concerti per disporre tutto l'occorrente colle autorità locali per la solenne entrata in Alessandria del nuovo console generale, che fu destinata per l'indomani, 19 agosto 1826. Nizzoli, in uniforme, raccolse in consolato tutti i capitani e sudditi austriaci che si trovavano in quel porto, ed accompagnato dai cancellieri e dragomani di tutti gli altri consolati, si avviò alla marina, al cui lido si fermarono i sudditi negozianti austriaci insieme cogli uffiziali dei consolati ed altre distinte persone del paese. Mio marito solo coi capitani stanziati in porto si avviò in altrettante barche a guisa di regata sotto bordo della corvetta, da cui il signor Acerbi in grande uniforme, disceso sopra una elegante barca, con mio marito alla sinistra, si diresse verso il lido seguito dai capitani. Nel distaccarsi dal bordo venne salutato con undici tiri di cannone, e dal grido di «Viva l'Imperatore e Re»: ripetuto 1. Ed. cit., dal capitolo XVI, pp. 347-54. Giuseppe Acerbi (1773-1846), di Cnstelgoffredo nel Mantovano, aveva abbandonato in quell'anno (1826) la direzione della « Biblioteca Italiana•• la nota rivista conservatrice, per andare come console dell'Austria ad Alessandria d•Egitto. È utile ricordare che ebbe fama di competenza scientifica, e anche in Egitto continuò nei suoi studi (cfr. A. Luz10, Gir,seppe Acerbi e la «Biblioteca Italiana», in Studi e bozzetti di storia letteraria e politica, Milano, Cogliati, 1910, 1, pp. 1-107). 2. La bandiera quadra, o di insegna, indicava la presenza sulla nave di un alto personaggio, il cui grado si distingueva dall'albero su cui veniva issata.

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per tre volte da tutto l'equipaggio collocato sui pennoni degli alberi, secondo l'uso stabilito. A questo saluto, il console generale, alzatosi in piedi, rispose per tre volte alzando colle mani il cappello in alto: arrivati al lido, ove il signor Acerbi, al porre piede in terra, fu ricevuto dalla nazione e dagli uffiziali degli altri consolati, anche la fortezza fece il solito saluto d'onore, indi il corteggio si avviò al consolato. Le bandiere delle varie nazioni europee sventolavano sopra gli uffizii dei consoli, come pure la bandiera turca sopra tutti i forti della città. Io mi era recata in una casa del quartier franco per vedere la comparsa solenne del signor Acerbi, il cui co1teggio era composto come segue: Alcune guardie di polizia, cavalli riccamente bardati e guidati a mano da palafrenieri arabi. È questa una cortesia del governo locale, come se offrisse il mezzo di cavalcare al nuovo ospite. Una cinquantina di soldati turchi divisi in due file. I cavass, 1 guardia del governatore, coi loro bastoni lunghi con pomo d'argento, indi un drappello di ciauss, 2 specie di guardia del corpo del pasci~, con bastoni assai più corti guarniti pure d'argento, da cui pendono varie piccole campanelle d'argento; poi i dragomani delle magistrature locali, i giannizzeri dei consolati stranieri, e finalmente i loro dragomani e cancellieri, tutti coi rispettivi uniformi. Dietro ad essi avanzavasi il console generale, avente da un lato il cancelliere del consolato, ed il primo dragomano dall'altra; gli ufficiali del consolato, i capitani e negozianti, e sudditi austriaci gli facevano seguito insieme con altre persone distinte si nazionali che forestiere. Tutte le contrade ed il quartier franco in ispecie era affollatissimo, e le finestre piene di signore europee, greche, armene, ebree, levantine, eccettuate le sole turche. Era tanta l'amicizia che la nostra famiglia nutriva per il signor Acerbi, che io, devo confessare la verità, provai la più gran compiacenza nel rivedere dopo due anni comparire un amico ed un 1. cavass: i kawwas, erano propriamente il corpo di polizia. 2. a"auss: i ciaush, nell'Impero ottomano, costituivano, nelle cerimonie, la scorta uffi.. ciale del sultano e dei visir; avevano anche triste fama, come latori di ordini imperiali, soprattutto di sentenze di morte.

MEMORIE SULL'EGITTO

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patriotto in Egitto, rivestito d'una carica sl distinta, e tanto pubblicamente onorato nella novella sua carriera. Giunti in consolato, il signor Acerbi diresse un breve discorso ai sudditi e capitani austriaci, i quali, dopo essere stati serviti di rinfreschi, si ritirarono, Dopo alcuni giorni ebbe luogo la gran cerimonia della presentazione del console generale al pascià, locché ebbe luogo colla solita pompa. Il signor Acerbi, accompagnato dai giannizzeri, da mio marito, dal dragomano e da alcuni principali negozianti e capitani, tutti a cavallo, si recarono al palazzo nel giorno ed ora già convenuta col primo ministro, signor Boghos-Joussouff, per la presentazione. Il pascià si fece trovare seduto sopra un ricco divano di seta, sull'angolo della sala (l'angolo è sempre il posto d'onore), circondato da tutta la sua corte. Arrivato il console generale, gli fece cenno di sedersi sul suo divano, e con lui sedette anche mio marito; il dragomano, secondo l'etichetta, deve rimanere in piedi, come pure il signor Boghos,• primo interprete del viceré. I capitani e negozianti sedettero più distanti, e sullo stesso divano in giro. Fu portato il caffè, che venne presentato a quanti avevano l'onore di essere seduti, mentre chi sta in piedi (segnale di dipendenza) non può mai essere servito di caffè, fosse anche il più ricco personaggio. Poscia si recò la pelliccia d'investitura (equivalente all'exequatur), e venne posta sugli omeri del signor Acerbi, il quale se la indossò, cingendosi anche la sciabola d'onore, che gli fu presentata in dono. a) Boghos J oussouff di origine armeno, nato a Smirne, di religione cristiana del rito orientale, e che ad imitazione de' suoi antenati si diede a percorrere nella sua giovinezza la carriera di interprete o dragomano, è ora l'attuale ministro del commercio e delle relazioni estere. Egli ha il maneggio di tutti gli affari; è possessore della confidenza del suo padrone Mehemed-Aly, dispone delle produzioni d'Egitto, di cui qual nuovo Giuseppe, ha per così dire l'amministrazione e la sopraintendenza generale, come al tempo dei Faraoni. Boghos Joussouff è un uomo dotato di distinto talento, di somme cognizioni e prudenza unita ad un finissimo tatto. Vissuto quasi sempre fra i Grandi, e presso i Divani di Turchia, ei conosce a perfezione l'arte d'insinuarsi, e adopra costantemente e con tutti le più gentili maniere. Egli ha saputo cosl bene secondare le viste utili del pascià, che toccò l'apice della grandezza cui ora è pervenuto.

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Scambiati alcuni complimenti, l'udienza ebbe fine: all'uscire dal palazzo una folla di persone in carica, ufficiali del viceré, di sais, di domestici, accalcavasi intorno al signor Acerbi ed a tutta la comitiva, domandando il regalo quasi a viva forza, gli uni prendendo i cavalli per la briglia, altri tirando per i vestiti; chi loro strappava l'abito, chi ne arrestava i sais ed i domestici; insomma segui una specie di zuffa, prodotta dalla difficoltà della lingua; ed in tanto trambusto di gridi, di strapazzi, di gesti, non riesciva ad alcuno di intendersi né di farsi intendere. Il dragomano del consolato, incaricato della distribuzione delle mancie, non aveva né voce, né tempo di far comprendere che si sarebbe egli stesso recato dopo in cittadella a quest'oggetto. Tutto ciò era inutile; fu d'uopo che il dragomano si fermasse e discendesse dal suo cavallo per acquietarli, tanta è l'avarizia e l'avidità da cui sono dominati gli orientali, e che tanto contrasta con la loro grandezza ed ostentazione. Libero alfi.ne da quelle incessanti molestie, il signor Acerbi col suo seguito tranquillamente recassi al consolato, ove da quell'epoca in poi esercitò le sue funzioni.

EDMONDO DE AMICIS

PROFILO BIOGRAFICO

Edmondo De Amicis nacque il 21 ottobre I 846 a Oneglia, ma aveva solo due anni quando la famiglia si trasferl a Cuneo, con il padre, Francesco, che era « banchiere regio dei sali e tabacchi», cioè amministrava, per tutta la zona, la distribuzione di quei generi monopolizzati. A Cuneo svolse gli studi secondari, fino a terminare il liceo, ma già da allora influì molto sul suo animo la madre, Teresa .Busseti. Nel '62 fu inviato a Torino, nell'istituto Candellero che preparava i giovani per l'esame di ammissione alla Scuola militare di Modena, dove entrò l'anno successivo. Ne uscl due anni dopo (luglio 1865), sottotenente di fanteria, in tempo per partecipare alla guerra del '66 (cfr. Quel giorno, nella Vita militare), dopo la cui amara conclusione fu con le truppe, in Sicilia, a combattere l'epidemia di colera che vi si era diffusa (cfr. L'esercito italiano durante il colera del I867, nella Vita militare). Ma la tendenza e le qualità letterarie del giovane ufficiale erano già manifeste. Nel '62, per l'insurrezione polacca, aveva composto un'ode tutta sonante di spiriti mazziniani, ma poeticamente modellata su calco manzoniano: ed era stata accolta con entusiasmo dai compagni del Candellero, che ne avevano curato la stampa a loro spese (Italia e Polonia: ballata allegorica, Torino, Martinengo, 1863). L'ode, inviata al Manzoni con una lettera di commossa ammirazione, ebbe risposta di prudenti speranze e di amorevoli consigli, e fu poi il passaporto per una visita a Brusuglio (9 ottobre 1866), che servì a confermare in Edmondo quel culto del Manzoni a cui lo aveva già iniziato la madre, e che gli durò poi per tutta la vita. Visita, e fama di qualità letterarie, giovarono certo perché il giovane ufficiale fosse assegnato a Firenze come collaboratore dell', e fui 1. È del 18s2 Napoléon le petit di Victor Hugo, libello accusatorio contro Napoleone III. 2. Giuseppe La Fari11a (1815-1863), di Messina, storico e uomo politico, già repubblicano, aderi alla soluzione monarchica nel 1856. Nel 1860 il Cavour lo inviò in Sicilia per accelerare l'annessione, ma Garibaldi lo espulse dall'isola. Tornatovi dopo qualche mese, fu di nuovo costretto dalle correnti politiche locali ad allontanorsi dall'isola.

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promosso io pure. Pochi giorni dopo l'esame, passando per un vicolo vicino a casa mia, vidi molte donne affollate intorno a una merciaia, che stava seduta sullo sporto della sua botteguccia, coi gomiti sulle ginocchia e il capo fra le mani, piangendo dirotta-mente. Domandai perché. Mi rispose una donna: - Gli hanno ammazzato il figliuolo a Milass. - Il mio primo senso fu di pietà, e il secondo (m'è grato ricordarlo) di vergogna. Sentii dentro una voce che mi disse: « Quello ha combattuto ed è morto, e tu da tre mesi in qua non hai fatto che sbraitare, buffone!». E da quel gior-no feci un po' meno lo smargiasso contro il conte di Cavour. PROFESSORI DI LICEO 1

Per passare dalla Rettorica2 al liceo, che fu istituito quell'anno in luogo dei due corsi di filosofia, dovemmo fare un esame di greco in iscritto, il quale si ridusse alla declinazione di qualche sostanti-vo; ma parve che scrivessimo un greco, dirò così, garibaldino, poiché fummo quasi tutti rimandati; e fu la nostra salvezza l'essere in tanti, avendo deciso il Ministero, perché il liceo non restasse vuoto, d'insaccarvici tutti a ogni modo. E qui sulla soglia liceale mi trovo davanti un esemplare così mirabile d'una razza particolare di professori di lettere che fu assai numerosa in quel periodo rivoluzionario, e non s'è punto perduta dopo l'unificazione della patria, un tipo così perfetto e così ameno di mangiapaga a tradimento e di spandichiacchiere scansa-fatiche, che non posso resistere alla tentazione di farne la fotografia. Era venuto nella nostra città, non so di dove, quell'anno stesso, con una gran pancia e una gran sicumera, accompagnate da una grandissima voglia di non far nulla. Era professore di letteratura italiana. Ma di questa non discorreva che per incidente. Parlava quasi sempre dell'Italia e dei fatti propri. A parlare di sé gli dava pretesto qualunque argomento. Partiva da un verso di Dante o da una sentenza del Machiavelli, e passo passo, legando un'idea al-l'altra, per salvare le apparenze, con ogni specie d'artifici birboni, veniva a dire il prezzo che aveva pagato i suoi stivali o a farci osservare la bellezza della propria mano; poiché, fra le altre fisime, aveva quella di credersi uno dei più begli uomini d'Italia, e si 1. Ed. cit., pp. 132-5. 2. Col nome di Rettorica si indicava quello che oggi si chiama ginnasio superiore.

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vantava di rassomigliare a Gustavo Modena. 1 Quanto alla politica, per entrar nell'argomento non pigliava vie traverse: entrava addirittura nella scuola col «Diritto» spiegato fra le mani, e ci leggeva i rendiconti dei discorsi dei deputati; dichiarando peraltro che non ce li leggeva per il contenuto, che non aveva che far con la scuola, ma per la forma, per farci notare le frasi più efficaci e più eleganti; il che non gl'impediva poi di batter la campagna, tra l'una e l'altra frase, dicendo corna del Ministero, che gli aveva fatto un monte di torti, e del Municipio, che lasciava in cattivo stato i locali scolastici. Quando non parlava di sé e della patria, ci leggeva svogliatamente qualche cosa d'un suo sunto manoscritto della storia letteraria, nel quale affermava d'avere stretto tacitescamente « il molto in poco» e aveva stretto tanto, infatti, che più d'un secolo v'era ridotto in quattro o cinque paginette: una vera quintessenza di rose; ed era comodissimo, perché su quella traccia s'andava di carriera: si sarebbe corsa la storia universale in un trimestre. Tutto il suo lavoro era condensato a quel modo. Dopo averci annunciato per dei mesi che avrebbe fatto « una campagna giornalistica» contro il Municipio, per costringerlo a trasferire il liceo in un'altra sede, egli pubblicò nella gazzetta della città dieci povere righe non firmate; per le quali poi gridò tutto l'anno: - Ho scritto, ho combattuto, ho tempestato sui giornali ... - E il curioso era ch'egli si credeva sul serio un lavoratore infaticabile: con una voce che veniva proprio dal fondo della coscienza, e picchiando i pugni sul tavolo, ci gridava ogni momento che eravamo dei mostri d'ingratitudine a battere così la fiaccona con un professore che dava all'insegnamento tutta l'anima sua, che «sudava», che «vegliava», che «s'accorciava la vita» per noi. Del rimanente, era d'indole gioviale, parlava quasi sempre di cose allegre, soventissimo di musica, perché da giovane aveva suonato il violino, e del Barbiere di Siviglia in particolar modo, del quale era matto ammiratore; tanto che ogni volta che trovava in un testo italiano la parola «barba» tirava in ballo quell'opera, raccontando invariabilmente le peripezie della prima rappresentazione di Roma ;:i donde prendeva le mosse per ricorrere Gustavo Modena (1803-1861), ritenuto uno dei più grandi attori del secolo, fu patriota ardente, di intransigente fede repubblicana; fu alto e robusto, ma non di particolare bellezza. 2. Il Barbiere di Siviglia fu rappresentato la prima volta a Roma, al teatro Argentina, il 20 febbraio 1816, con il tenore Manuel Garcfa nella parte del conte d'Almaviva. Fu un fiasco, n1a in buona parte organizzato da avversari di Rossini. I.

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tutta la vita del Rossini, ch'era il suo dio. Di qualunque cosa parlasse, poi, o di sé, o di politica, o di musica, o di letteratura, i suoi discorsi finivano tutti a un modo come i salmi: in una querimonia amara per la miseria dello stipendio. - Siamo pagati come dei portinai! - urlava. - È un obbrobrio per uno Stato civile .•. Ma non importa ... Noi facciamo egualmente il nostro dovere ... E rientrava nel dovere in questa forma, per esempio: - lo vi dicevo, dunque, che la serenata del conte d' Almaviva fu composta dal tenore Garcia. 1 Ebbene •.. IL BIMBO DEL CONSIGLIEREa

Fu in quell'anno stesso che conobbi un altro, allora ancor bambino, predestinato alla fama in tutt'altro campo. I prefetti regi, e con loro i consiglieri di prefettura, erano in quel periodo mutati spessissimo. Nei pochi anni che trascorsero dalla guerra di Crimea alla liberazione di Napoli ne passarono in quella piccola città non so quanti, che ho dimenticati, tranne il Bellati, governatore, il quale aveva fama di letterato per una bella traduzione del poema del Mii ton, 3 e un consigliere lombardo,• il cui nome, che allora sapevo senza dubboi, m'usci poi dalla mente, e non lo riseppi che dopo lunghissimo tempo. La consiglieressa - una giovane signora d'aspetto buono e di modi schietti e gentili - veniva qualche volta a casa nostra a render visita a mia madre, conducendo sempre con sé un figliuoletto di tre o quattr' anni, del quale mi son rimasti impressi nella memoria gli occhietti vivaci e la forma singolare del viso, dal mento fuggente a curva di mela, e, anche più del viso, una miniatura di cappotto color nocciola, che gli stava dipinto, e gli dava l'aria d'un ometto. È probabile ch'io abbia giocato più d'una volta con lui, con la condiscendenza Nella prima rappresentazione soltanto, Rossini permise al tenore Garcla di cantare la serenata a Rosina con adattamenti personali presi da canzoni popolari spagnole. Ma poi fu sempre eseguito il motivo originale creato dal Rossini. 2. Ed. cit., pp. 140-2. 3. È l'edizione GIOVANNI MILTON, Il paradiso perduto, traduzione di Antonio Bellati, Milano, Ronchetti, 1855. 4. Il padre di Filippo Turati era allora consigliere di prefettura, e fu poi prefetto in varie città. Filippo Turati (1857-1932) fu poi legato di viva amicizfa col Dc Amicis, e nnche lo difese dall'accusa di essere socialista soltanto per motivi sentimentali: • è falso che egli fosse soltanto un sentimentale e un letterato del socialismo• (vedi il •profilo• di F. TURATI per la morte del De Amicis, in Uomini della politica e della cultura, a cura di A. Schiavi, Bari, Laterza, 1949, pp. 64-5). 1.

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d'un fratello maggiore, per liberarlo dalla noia che son sempre per i ragazzi le visite. Ma non rammento altro che la sua personcina e le feste che gli soleva fare mia madre, complimentandolo per quel cappottino prematuro di zerbinotto, che non dimenticò mai più neppur essa. Chi m'avesse profetato che cosa dovea diventare quel bambino, e quale influsso esercitar con la sua penna sul mio pensiero, e che ansie dolorose farmi provare per lui in un momento terribile della sua vita, 1 gli avrei dato del matto da catena. E fu cosi. Quel figliuoletto d'un consigliere di prefettura, che poi fu prefetto, divenuto trent'anni dopo un pubblicista originale e potente, d'un'arte dialettica maravigliosa, d'uno stile tutto punte e incavi, dal quale sprizzano le idee fitte e lucide come baleni da un'armatura a scaglie d'acciaio, ed escon mille suoni acuti e minacciosi come da un fascio di spade agitate, mi doveva prima e più d'ogni altro accendere e persuadere dell'Idea, alla quale egli dedicò tutto il suo ingegno e tutta la sua vita, e che lo condusse ammanettato davanti a un tribunale di guerra, e dal tribunale ali' ergastolo, condannato a dodici anni di reclusione per un delitto politico, a cui ripugnavano con egual forza la sua ragione e la sua natura. Ma soltanto assai tempo dopo ch'io conoscevo l'uomo, seppi che erano una sola persona il direttore della « Critica sociale »2 e quel bambino; non lo seppi che il giorno in cui mia madre mi domandò: - Ma questo Turati che hanno condannato è forse figliuolo del consigliere che abbiamo conosciuto nel '61? - Oh come sentii più forte l'affetto d'amico e di compagno di fede che mi stringeva a lui, quando si legarono nella mia mente quel cappottino color nocciola e la casacca grigia del galeotto! LA RESA DI GAETA 3

La resa di Gaeta, avvenuta nel febbraio di quell'anno, ridestò i nostri bollori patriottici, dati giù da qualche tempo, senza però farci andare di miglior voglia agli esercizi militari, che erano stati 1. momento . .. vita: allude al processo di Milano dopo i moti del 1898, in cui Filippo Turati fu condannato a dodici anni di reclusione. Tra le deposizioni a sua difesa fu significativa quella di De Amicis. È noto che un'amnistia e le nuove elezioni politiche ricondussero Turati e gli altri condannati alla direzione del socialismo. 2. La rivista • Critica sociale•, fondata da Turati nel 1891, raccolse il pensiero più valido del socialismo italiano: vi collabori) anche il De Amicis. 3. Ed. cit., pp. 143-5.

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istituiti di fresco per tutte le scolaresche del Regno: esercizi che noi ci ostinavamo a non prender sul serio, benché studiassimo logica e ci dichiarassimo pronti a combattere per la patria; come se per ammazzare gli Austriaci non fosse necessario prima di tutto di saper caricare il fucile. Ebbi la notizia del grande fatto in un modo e in un momento comico, di cui si rise nella scuola per un pezzo. C'era un professore d'istituto privato, noto a tutti, un vecchio gamberone che pareva un palo del telegrafo, codino fino al punto da lamentare la caduta dei Borboni; ma generalmente ben visto dalla gioventù delle scuole, perché usava accompagnarsi per la strada con qualunque ragazzo o giovine, che avesse aspetto di scolaro, e di chiacchierare con lui in tono familiare, raccontandogli aneddoti morali e dandogli consigli filosofici. Eravamo quattro o cinque liceisti con lui davanti a un caffè, un dopo pranzo, e si discorreva di Gaeta, di cui durava l'assedio da tre mesi. - Gaeta - ci diceva egli con un sorriso compassionevole - non cadrà. Gaeta non fu mai presa, dovete sapere. Ricorriamo la storia, signorini miei. Noi vediamo che ci si ruppero le corna i barbari, che l'assalirono invano i Longobardi e i Saraceni. Poi se ne impossessarono i Francesi e gli Spagnuoli, ma non con la forza delle armi. Vi resistette per sei mesi, sul principio del secolo, il principe HessePhilippsthal contro tutto l'esercito del Massena. 1 E ci vogliono altri denti che quelli del generale Cialdini2 per romper quell'osso. Per anni l'aspetterete, figliuoli cari; son io che ve lo dico: per annil Proprio in quel punto passò di corsa un giovane impiegato della prefettura, che ci gridò senza arrestarsi, col viso radiante: - Gaeta è presa! - Ci voltammo tutti verso il professore, mettendo fuori in coro un ah! di trionfo, per godere della sua confusione. Egli fu maraviglioso. Non mutò viso, non scosse neanche un muscolo, come se non avesse inteso nulla. Cavò di tasca il suo pezzolone turchino intabaccato, si soffiò il naso adagio adagio, guardò in giro per aria come per vedere che tempo facesse, poi disse con la bona1. André Massena (1758-1817) 1 maresciallo di Francia, ottenuto da Napoleone il comando dell'armata francese in Italia, occupò nel 1806 il Reame di Napoli, espugnando Gaeta, ritenuta imprendibile; la città fu a lungo difesa, con particolare valore, da Ludwig von Hesse-Philippsthal (17661816), generale tedesco entrato al servizio del re di Napoli. 2. Enrico Cialdi11i (1811-1892) partecipò alle guerre del 1 48, di Crimea e del '59; segnalatosi all'assedio di Gaeta, ottenne il titolo di duca di Gaeta; fu poi senatore e diplomatico.

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rietà solita: - A rivederci, ragazzi - e voi tataci la schiena, se n'andò via tranquillamente, con una mano nell'altra sulle reni. Doveva esser quello il suo modo di «far fronte» agli avvenimenti avversi. Noi rimanemmo mal soddisfatti, si capisce. Ma fummo compensati la sera al teatro, dove si rappresentava la Gemma di V ergy, 1 con illuminazione « a giorno» per festeggiare la vittoria. Nel primo atto il tenore negro fece al pubblico una lieta sorpresa. Al momento di cantar l' a solo Mi toglieste al sole ardente, ai deserti, alle foreste,

si slanciò alla ribalta con l'impeto d'un levriere sguinzagliato, e invece di dire i versi del libretto, cantò una strofa d'occasione, composta da lui, che m'è rimasta in mente tutta intera, e che voglio regalare alla storia della lirica italiana: Là sui merli di Gaeta splende l'italo vessillo, delle trombe il fiero squillo chiama Italia a libertà; sulla rupe del Tarpeo sorge unanime una voce: vien Vittorio, vien veloce, e l'Italia è fatta già/

Scoppiò un uragano d'applausi, dovette cantar la strofa tre volte; finì alla terza con una stecca; ma fu attribuita alla commozione, e coronò il suo trionfo. Felici giorni, anche per i tenori. PRIMI STUDI DI LINGUA 2

. In quello stesso mese di giugno segui nella mia vita di studente un piccolo avvenimento, che ebbe per me una importanza straordinaria, e che noto soltanto per i miei lettori di quindici anni; per i quali appunto mi par necessaria una breve prefazione. Nelle scuole classiche, allora come ora, non s'insegnava, nel senso proprio della parola, la lingua italiana, come se per il solo fatto d'esser nati in Italia tutti i ragazzi dovessero naturalmente saperla, o come se bastassero a farla imparare quelle poche letture di scrittori italiani, disordinate, frammentarie e superficiali, che si face1. La Gemma di V ergy, opera di Gaetano Donizetti, fu rappresentata la prima volta a Milano nel 1835. 2.. Ed. cit., pp. 148-52..

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vano a scuola e in casa; delle quali, come d'ogni semplice lettura, resta tanto meno di lingua nella memoria quanto più è assorbita l'attenzione dal contenuto. I professori ci correggevano nei componimenti gli errori grossi, suggerendoci la frase e la parola da sostituire al modo errato, e consigliandoci ogni tanto di leggere i buoni autori: e questo era quanto facevano per insegnarci quella lingua, che da nessun'altra bocca fuorché dalla loro noi potevamo imparare. E neppure dalla loro bocca non potevamo imparare gran cosa, perché, essendo tutti piemontesi (e sarebbe stato lo stesso se fossero stati di qualunque altra regione, fuorché toscani), essi non possedevano un vocabolario molto più ricco che non fosse il nostro; parlavano corretto e non altro. Che un ragazzo non nato in Toscana, e più se nato ai piedi delle Alpi, non potesse imparare in altro modo la lingua italiana, non parlata da alcuno intorno a lui, che studiandola come avrebbe fatto d'una lingua straniera, ossia formandosi a poco a poco, per via di ricerche e d'appunti, un corredo di vocaboli, di frasi e di costrutti, da imprimersi nella memoria a uno a uno, a modo di date e di sentenze, non passava per il capo a nessuno. Procedendo dunque di classe in classe, noi imparavamo a scansar gli spropositi; ma quanto a ricchezza di lingua non si faceva quasi nessun acquisto, e si continuava a rimpastare nel liceo, presso a poco, lo stesso materiale linguistico che s'era usato nelle prime scuole, a scrivere, cioè, un italiano misero, scolorito, rachitico, senza forza e senza finezza, e senz'alcun sentore di distinzione fra il linguaggio accademico e il familiare, come lo scriverebbe un francese o uno spagnuolo che avesse studiato la nostra lingua sui libri, quel tanto che è necessario per capire e farsi capire senza far ridere. Mi trovavo a questi termini quando mio fratello maggiore mi mise sotto gli occhi le Poesie del Giusti - un'edizione di Capolago, che aveva in capo una prefazione del Correnti e in coda un dizionarietto di modi toscani1 - e mi disse: - Leggi questo, se vuoi 1. t Pcdizione Poesie di G1uSBPPB GIUSTI, ultima edizione, Capolago, Tip. Elvetica, 1853, che reca in fondo al volume una Spiegazione di alcune voci tratte dalla li,zg"a parlata, cd una breve Prefazione, che reca in calce la seguente Nota de!,!li Editori: « Noi dobbiamo questa prefazione ... a un valente letterato lombardo non estraneo alla prima pubblicazione delle cose del Giusti»; si allude evidentemente a Cesare Correnti, che curò e scrisse la prefazione all'edizione Poesie italiane tratte da una stampa a pe11na, Italia (ma Lugano) 1844, uscita a insaputa dell'autore. 10

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imparare la lingua. - Del Giusti non avevo ancora letto che due o tre poesie, sparse per le Crestomazie scolastiche. Le lessi per la prima volta dalla prima all'ultima. Fu come una festa. Non saprei paragonare il piacere che n'ebbi se non a quello che si prova da fanciulli quando ci è messa in mano la prima scatola di colori o il primo strumento di musica; un piacere puramente artistico, e questo quasi tutto filologico, nel quale non entrava che in minima parte il pensiero satirico e politico del poeta, che in molti punti mi riusciva oscuro. Quella grande ricchezza di modi nuovi per me, familiari ed efficacissimi, quella varietà di scorci e di rilievi di lingua, di costrutti arditi e di legature eleganti e flessibili fra idea e idea, quella profusione di gemme e di perle fini, infilate l'una sull'altra, incastonate nel verso con quel garbo, fatte come saltar nelle mani con quella lestezza e con quella grazia; che esprimevano mirabilmente mille cose ch'io non avrei saputo neppure adombrare con la parola, e eh' erano come risposte inaspettate a mille domande curiose accumulate da un pezzo nella mia mente, mi misero il cervello in ebollizione. Quelle parole, quelle frasi mi risplendevano agli occhi come fuochi di mille colori, mi suonavano all'orecchio come le note d'un coro di voci argentine, mi si imprimevano nella memoria, e quasi nell'animo, come sguardi e lineamenti di creature umane; me le volgevo e rivolgevo nel pensiero a una a una, come per cercarne la virtù segreta; godevo a staccarle dalla strofa e ad assaporarle pure, come a spiccare dei fiori da una pianta e a odorarli l'un dopo l'altro a occhi chiusi. Il mio amore per la lingua nacque da quella lettura. E fu un amore non punto eccitato dalla coscienza d'aver delle facoltà di scrittore o dalla speranza d'acquistarle, ché a questo allora non pensavo punto: fu come la passione di chi raccoglie monete preziose o conchiglie rare per il solo piacere di osservarle e di palparle, senza neppur pensare di mostrarle agli amici. Mi comprai un grosso quaderno legato, e vi cominciai a far delle note; feci lo spoglio di tutte le poesie, trascrissi quasi tutto il dizionario; in pochi giorni il quaderno fu pieno. Mi passavano le ore come minuti in quel lavoro piacevolissimo, come a studiare una lingua nuova e maravigliosa, di cui non avessi avuto fino allora che una nozione confusa. 1\1:i pareva d'imparare ad un tempo lingua, musica, e pittura, e di diventare da un giorno ali' altro, per effetto di quello studio, più intimamente, più patriotticamente italiano. E tanta parte aveva in quella passione questo

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sentimento, benché non ne avessi allora una ben chiara coscienza; che sentii la prima volta in quei giorni il bisogno di correggere la mia pronunzia, giovandomi della conversazione d'un bersagliere, nativo di Siena, poeta improvvisatore e caporale: altra piccola miseria, questa della pronunzia italiana, di cui non si davano alcun pensiero gl'insegnanti di lettere; ai quali si poteva leggere un verso del Petrarca nel seguente modo, per citare un esempio: Giuvine dona soto un frasco louro 1

senza che se ne dessero per intesi. E naturalmente, poiché la passione della lingua era mossa, il mio lavoro non s'arrestò all'ultima poesia del Giusti. Cercai altre miniere, e m'abbattei per mia ventura sul Guerrazzi, del quale avevo già letto bensi vari libri, ma soltanto con l'occhio del patriotta, non inteso ad altro che a pescarvi delle invettive contro i tiranni da innestare nei componimenti d'effetto. Ma dal Guerrazzi, preso all'amo del suo stile immaginoso e forte, non mi bastò più levar le parole e le frasi; tirando forte, portavo via il pezzo, e oltre al trascrivere, mandavo a memoria pagine intere, che recitavo poi a un mio compagno di scuola, allora guerrazziano nell'anima, ora sindaco della città da ventitré anni; il quale in quell'esercizio gareggiava con me, e mi vinceva, perché sapeva a menadito tutti i più bei passi dell'Assedio di Firenze, e li diceva con un garbo squisito. Poi feci nella passione della lingua delle volate come quelle che facevo nell'amore. Passai dal Guerrazzi al Guadagnali . . .:i FURORI GINNASTICI 3

Ma che mosca senza capo è mai un uomo di quindici anni. Figurarsi che quella gran passione filologica fu troncata di colpo, a metà delle vacanze, dall'apparizione dei fratelli Guillaume. Non era mai venuta nella città una grande Compagnia equestre: tutto quell'apparato spettacoloso di cavalli, di attrezzi, di maglie e di vestiti variopinti m'infiammò d'entusiasmo per l'acrobatica, e mi 1. Cfr. Rime, xxx, r. 2. Per sottolineare questo amore del De Amicis per la lingua basti ricordare il suo Jdioma gentile ( I 90 s) ; l'Assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrozzi era uscito nel 1836; Antonio Guadagno/i (1798-1858), di Arezzo, poeta satirico-giocoso: le sue poesie, stampate in opuscoli via via che erano scritte e raccolte poi in volwnetti, erano assai note nella Toscana granducale. 3. Ed. cit., pp. 153-6.

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fece ricadere in piena fanciullezza. Il mio buon padre, che mi contentava in ogni cosa, mi fece fare un trampolino, e mi comperò corde, anelli, trapezi e cerchi, come s'io avessi dovuto rizzar baracca di saltimbanco. E questo feci, a un di presso. Chiamai a raccolta tutti i miei compagni che avevano tendenze d'acrobati, e mi diedi con loro allo sport circense con una passione sfrenata. Furono esercizi e camiciate1 da pazzi, con conseguenti capitomboli, ammaccature, torsioni e rotture di testa e scalmane da cavalli. Ma era anche quello 1. Il far lezione era per lui un vero godimento dell'intelletto e dell'animo, che gli faceva scintillar gli occhi, vibrar la voce e scattare il gesto come a un oratore di tribuna. Aveva nell'esposizione un ordine matematico e una chiarezza cristallina, sentiva la poesia della sua scienza e ne trasfondeva il sentimento nella scolaresca, ci rendeva amena la fisica, quanto la letteratura, con un'eloquenza viva, colorita, ondulata, direi, per esprimere la varietà piacevole delle sue intonazioni; eloquenza, per altro, che anche quando scoppiettava in motti arguti, non usciva mai un momento dal suo soggetto. Ed era modesto senz'affettazione, indulgente senza debolezza, familiare con noi, senza incoraggiarci alla licenza, buono e fermo, sempre sereno ad un modo, tutti i giorni dell'anno, come se, salendo sulla cattedra, gli fuggisse dalla mente ogni pensiero e dall'animo ogni sentimento che non fosse quello della sua scienza e del suo dovere. L'altro, una figura smilza e pallida di abatino patrizio, era meno vivace nell'insegnamento; ma anch'egli, in forma diversa, efficacissimo. Faceva lezione come avrebbe celebrato la messa, con una dignità sacerdotale che c'imponeva rispetto e c'ingrandiva mirabilmente il concetto dell'importanza della storia. Quando ci espo1. Tito Livio Cianchettini (1821-1900) fondò, scrisse, stampò e vendette per le strade il a Travaso delle idee• (settimanale umoristico fondato a Pavia nel 1869, trasferito a Milano e, successivamente, a Roma). Il Cianchettini fu tra le figure più vivaci e caratteristiche del suo ten1po.

RICORDI D'INFANZIA E DI SCUOLA

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neva le condizioni d'un grande trattato di pace o d'alleanza, lo faceva con una tale gravità di viso e d'accento, che stavamo tutti ad ascoltarlo raccolti e silenziosi, come compresi della solennità del momento storico, come se avessimo visto in mezzo alla scuola i principi e gli ambasciatori dei vari Stati, seduti intorno al tappeto verde, a discutere le sorti dell'Europa. Annunziava le dichiarazioni di guerra in maniera che ci faceva battere il cuore come alla lettura della scena dell'Adelchi, dove il messo di re Carlo lancia il guanto a Desiderio, e quasi esclamare in cuor nostro: « Che necessità tremendai Quanto sangue umano si sta per versare I». In fine, trasportava così bene la nostra immaginazione nei luoghi e nei tempi remoti, che, dopo la scuola, discutevamo sui grandi avvenimenti di dieci secoli fa come su fatti di storia contemporanea, accalorandoci per Federico Barbarossa e per Giovanni delle Bande Nere come per Napoleone III e per Garibaldi. Non scherzava mai; teneva lo sguardo raccolto come un prete all'altare, parlava sotto voce come se ci confidasse dei gelosissimi segreti politici, e non lodava mai chi sapeva, restringendosi a fare col capo un atto lento d'approvazione, come per dire: « Non spetta a me di lodarla; ella ha aggiustato gli affari d'Europa; i popoli gliene saranno riconoscenti». E non c'è da riderne, perché era un'arte che ci teneva attenti e ci faceva studiare. Si chiamava Bartolomeo Fontana. Non ne ho più saputo nulla dopo quell'anno; ma non ho mai aperto un libro di storia senza che mi sorgesse davanti l'immagine di lui, col viso grave e con gli occhi bassi, nell'atto di« celebrar» la lezione. Posso dire in tutta coscienza, che se non son diventato uno storico illustre la colpa è d'un altro; non sua. UN GRANDE DOLORE 1

Mi svegliò da quel sogno2 un colpo di fulmine. Una sera, mio padre, sedutosi appena a tavola con noi, si lascib cascar dalle mani la forchetta; si sforzò due volte di riprenderla, non poté; disse: - Non mi sento bene -, e alzatosi a fatica, si mise a sedere sul sofà, dove rimase qualche tempo immobile, con gli occhi fissi, senza parlare. Poi volle and~re a letto, e v'andò a 1. Ed. cit., pp. 166-70. · 2. quel sogno: il primo amore, di cui il De Amièis scrive nel capitolo precedente, che abbiamo tralasciato di riprodurre.

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stento, trascinandosi, sorretto da mia madre e da uno dei m1e1 fratelli. Si mandò a chiamare il medico, che accorse subito. Dalla camera vicina intesi la sentenza terribile. Era perduto. Un colpo d'apoplessia gli aveva preso tutta la parte destra del corpo, e offeso il cervello. Cosi si spegneva a un tratto, come una fiamma soffocata, quella mente acuta e lucida, dotata d'una ragione potente e di squisite facoltà artistiche, aperta a ogni idea bella e atta a ogni maniera di studio e di disciplina; cosi finivano cinquant'anni di lavoro utile, di vita onesta e feconda, di cure e di sacrifici affettuosi e continui per la famiglia, prima ch'egli potesse avere alcuna ricompensa dalla buona riuscita dei suoi figliuoli; finivano con lo sgomento e con l'angoscia di lasciarci quando avevamo ancor bisogno di lui, e di rigettarci, lasciandoci, da una condizione agiata nelle angustie e nell'incertezza dell'avvenire, come se egli non avesse faticato, lottato per tanto tempo che per renderci più funesta la sua fine! Da quel giorno la nostra casa non fu più che una tomba, nella quale, ancor vivo, egli era già come sepolto, già separato da noi più terribilmente che dalla morte, poiché non avevamo più padre, e ci rimaneva ancora davanti, come Pimmagine stessa della nostra sventura, la sua larva dolorosa. Parlava ancora, ma con parole sconnesse e insensate, che ci laceravano il cuore più che il silenzio della morte; ricordava ancora i nostri nomi, ma dava all'uno quello dell'altro, come se non vedesse più in noi che delle ombre, e ci ascoltava con lo sguardo fisso e con la fronte corrugata, facendo uno sforzo intenso e lungo per raccogliere e riconnettere i congegni spezzati dell'intelligenza; ma non ci comprendeva più, come se gli avessimo parlato una lingua sconosciuta o dimenticata, la quale non gli toccasse più altro che l'udito. E se qualche volta, per pochi momenti, gli ritornava un barlume d'intelligenza, eran quelli i momenti di maggiore angoscia per noi, poiché, avendo come a lampi coscienza della sua sventura, si batteva la mano sulla fronte in atto disperato, ed esprimeva il desiderio di morire, il rammarico di esser ridotto per noi un " col suo ritratto. E cascavo per l'appunto su Francesca da Riminil 3 Entrai nel Gerbino come un pellegrino fanatico entra in San Pietro: riboccava di gente: mi parve un teatrone. Era allora il teatro prediletto degli studenti; ce n'era una folla, che ribolliva. Mi è svanita affatto dalla memoria la prima entrata dell'attore, l'invocazione all'Italia, la scena tra Paolo e Francesca nel second'atto; non ricordo che la commozione nuova, profonda, inesprimibile che mi destò la famosa dichiarazione d'amore del terzo. Quel t'amo di Ernesto Rossi mi fece l'effetto del grido d'un angelo; fu come una rivelazione di paradiso. Né viso di donna, né lettura, né immaginazione avevan mai levato in me a tanta altezza il concetto e il sentimento dell'amore. Per me fu Paolo quella sera che lo (( rese nel grembo a Venere celeste ».4 Fu un raggio nella mente, una fiammata nel sangue, una dolcezza infinita nel cuore. Se una signorina avesse posato lo sguardo sopra di me, avrei preso fuoco crepitando come un cono da zanzare. Durante la farsa, udii ancora sonare i versi del 1. Il Teatro Scribe, aperto nel 1859, aveva in repertorio soprattutto commedie francesi; nel 1924 prese il nome di Teatro di Torino. L'Alfieri, inaugurato nel 1855, era opera dell'architetto Barnaba Panizza. Il Teatro Regio, costruito dall'architetto Benedetto Alfieri ( 1700-1767), e inaugurato nel 1740, subì poi nel corso dell'Ottocento ritocchi e restauri; centro di vita musicale, era proprietà della Corona, e fu donato nel 1870 al Municipio di Torino; non è possibile precisare se vi si dava il dramma / mamadieri di Schiller, o l'opera di Giuseppe Verdi su libretto di Andrea Maffci. Il Carignano fu costruito nel 1787 da Giovanni Battista Feroggio. Per il Tose/li vedi la nota I a p. 319; il Teatro Rossini, edificato nel 1793 dall'architetto Giuseppe Ogliani, era la sede tradizionale degli spettacoli dialettali; fu distrutto da un incendio nel 1928. Il Circo Sales, teatro mal frequentato, prese nel 1845 il nome di Gerbino e, trasformato in piccolo teatro, ospitò i più grandi attori; chiuse i battenti nel 1903. Ernesto Rossi (1827-1889), di Livorno, uno dei più celebri attori del secolo, fu soprattutto grande interprete shakespeariano. Il De Amicis ne tracciò un ritratto in Capo d'anno. Pagine parlate, Milano, Treves, 1903, pp. 191-208. 2. a Pasquino»: settimanale umoristico torinese, fondato nel 1856 da Giuseppe Augusto Cesana e Giovanni Piacentini: ne fu collaboratore e poi direttore Casimiro Teja (vedi la nota 4 a p. 309). 3. La Francesca da Rimini di Silvio Pellico. 4. «rese ..• celeste»: il verso è ripreso dai Sepolcri del Foscolo (v. 179), mutando «rendea • dell'originale in rese, per creare un accordo sintattico.

MEMORIE

Pellico. All'uscita, passb per l'atrio Ernesto Rossi, nerochiomato, elegante e trionfante, in mezzo alla curiosità della folla: mi parve l'uomo più invidiabile del globo. Tornai a casa con un desiderio immenso di gridar quel t'amo in un orecchio roseo, sfiorando col labbro una ciocca dorata e stringendo fra le mie una mano tremante. Oh, come mi preparavo bene allo studio della matematica! Non ho mai più provato al teatro una scossa elettrica come quella. Oggi ancora, dopo trentasette anni, ogni volta che ricordo il Gerbi,zo, risento l'eco di quel grido .•. e l'odor d'arance che sentivo quella sera nelle sedie chiuse: d'arance che non nascono più. Ahimè! È morto Ernesto Rossi, è morta Francesca, è quasi morto il Gerbino, e son mezzo morto io pure. C'è proprio ancora della gente che grida: t'amo? Poi fui condotto al Regio, all'Alfieri, allo Scribe, al serraglio del Planet, e più volte, a ore diverse, al caffè Perla, che era frequentato da artisti e da uomini politici d'ogni partito. Ora c'entrerei come nel museo Grévin ;1 allora c'entrai come in una specie di Santa Croce di vivi. Erano tre piccole sale d'infilata, con un giardinetto in fondo; pareva una succursale della Camera; ci sapeva di politica persino il vermut. Ma io, sempre con gli occhi alla caccia d'uomini illustri, non vedevo neppure quel che bevevo. Un mio parente, che conosceva tutti, m'indicava i personaggi. - Guarda, quello che spande di parlar sì largo fiume, z

l'ex ministro dell'Istruzione pubblica. - Chi? - Stanislao Mancini: sta facendo uno studio sul Giannone. 3 - Aveva allora una faccia di rosa e una chioma d'Assalonne, ed era scintillante di vita. Ecco il Massari,4 col suo eterno cilindro magagnato. - Quest'altro J. Il museo Grévin fu fondato a Parigi nel 1882 dal disegnatore Alfred Grévin (1827-1892), cd è il famoso musco delle statue di cera. 2. Dante, J,if., 1, 80. 3. Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888), giurista e uomo politico, fu dopo il 1848 esule da Napoli a Torino e ivi professore di diritto internazionale. Nel 1860 fu eletto deputato al Parlamento nella sinistra democratica, nel 1862 fu solo per qualche settimana ministro dell'Istruzione nel ministero Rattazzi. Aveva già pubblicato alcuni inediti di Pietro Giannone: due volumi di Opere i11edite, riTJedute ed ordinate da P. S. Mancini, stampate dagli editori Pomba di Torino nel 1852, ma uscite solo nel 1859; il terzo volume e la biografia del Giannone, promessi dal Mancini, non furono da questi mai portati a compimento. 4. Giuseppe Massari (1821-1884), uomo politico e scrittore, di Taranto: esule in Francia, ai trasferl poi a Torino e in Toscana. Deputato dal 1860 del partito

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che entra, zoppo, con quel naso a becco, è Giuseppe Ricciardi, l'autore delle Bruttezze di Dante: farà rappresentare tra poco un dramma storico: La lega lo,nbarda. 1 - Guarda là quel diavolo incarnato del Nicotera :2 vedi che ha sulla fronte la ferita di Sapri. Lo guardai: aveva due occhi come due carboni accesi, e il riso su quel volto bruno e fiero mi parve un baleno in una notte tenebrosa. - Hai mai letto degli epigrammi del Baratta ?3 Portan via la pelle. Eccolo là, quello col cravattone nero, senza indizio di camicia; disperato come Giobbe, ma pieno di spirito fino ai capelli. Fu l'unico poeta che vidi al Perla: i poeti bazzicavano altrove. - Voltati, che passa il Crispil Eh, che lanterne? E che baffi d'attaccabrighe! Il Minghetti dice che, quando s'alza lui per parlare, ha sempre paura che cavi di tasca un par di pistole.4 - Un'altra volta m'indicò un signore magro, con una gran zazzera, e un viso di malato, in cui brillavano due occhietti pieni d'ingegno: - Giambattista Giorgini. - Scattai sulla seggiola. - Non avevo ancor moderato, fu seguace e sostenitore del Cavour: condusse nttiva vita parlamentare (a lui si dovette, nel maggio '63, la relazione dell'inchiesta sul brigantaggio). Collaboratore di vari giornali, nel '56 assunse la direzione della • Gazzetta ufficiale piemontese ». I. Giuseppe Napoleone Ricciardi ( 18081882), di Napoli, patriota e letterato, autore di l\1emorie autografe di un Tibelle (1857), e di numerosi lavori letterari, raccolti poi in otto volumi (Opere scelte, 1867-70). Il De Amicis cita qui Le bruttezze di Dante, osservazioni critiche sulla prima e la seconda cantica della Divina Co,mnedia (uscite in realtà nel 1879, Napoli, Marghieri), e il drammn La lega lombarda, primo lavoro di una quadrilogia drammatica (Drammi storici) che il Ricciardi aveva pubblicato a Parigi nel 1855. Gli altri tre drammi erano Il Vespro, Masaniello, La cacciata degli Austriaci da Ge,iova. 2. Giovanni Nicotera (1828-1894), patriota e uomo politico: era stato ferito e fatto prigioniero nella spedizione di Sapri (1857), e condannato a vita. Fu liberato, alla caduta dei Borboni, dalla prigione nell'isoletta di Favignana, presso Trapani: vedi nel II volume dei Memorialisti dell'Ottocento, in questa stessa collezione, le pagine di Leopoldo Barboni sulla sua liberazione (pp. 930-52). Segui Garibaldi in Sicilia, e nella guerra del '66. Vedi anche più avanti, p. 339 e la nota 3. 3. Antonio Baratta, nato a Genova nel 1802, laureato in giurisprudenza, iniziò la carriera diplomatica: un lungo soggiorno a Costantinopoli gli ispirò alcuni libri su quella città. Tornato a Torino verso il I 840, si dedicò al giornalismo politico e letterario: furono famosi i suoi epigrammi, implacabili e talora feroci, che danno però un quadro vivace della Torino di allora (cfr. Epigrammi editi e inediti, Torino, Libreria Scioldo, 1881). Condusse vita modesta e pieno. di privazioni: su di lui cfr. O. FASOLO, Un grande epigrammista dimenticato, in II La lettura,,, settembre 1912. Vedi anche più avanti, p. 340 e la nota 3. 4. Francesco Crispi (1818-1901) era stato mazziniano e fautore della spedizione dei Mille; dopo la proclamazione dell'unità venne eletto (1861) deputato della sinistra, e fu severo oppositore del ministero Minghetti. Vedi anche più avanti, p. 339 e la nota 4.

MEMORIE

letto nulla di lui; ma era stato amico del Giusti ed era marito d'~na figliuola del Manzoni :1 bastava questo perché m'apparisse coronato di gloria. Discorreva con un signore che lo stava ascoltando con molta attenzione. Chi sa perché mi passò per la mente che gli recitasse dei versi inediti del suo grande suocero? Tesi l'orecchio. Parlava del prestito di settecento milioni. 2 Che miseriel Il mio duca mi accennò quello stesso giorno il Petruccelli della Gattina. 3 Conoscevo i suoi Moribondi del Palazzo Cari'gnano, un libro ammirabile, riboccante di spirito francese e di spropositi italiani, che aveva fatto un gran chiasso: mi voltai con viva curiosità; ma non vidi più che la sua schiena, mentre usciva. L'ultima volta andammo là a desinare. Attirò la mia attenzione l'allegria vivacissima, il cordiale riso fanciullesco d'un signore sulla trentina, piccolo e tarchiatello, che desinava dall'altra parte della sala, in mezzo ad altri due: una curiosa testa di Bismarck giovane e buono, col collo grosso e corto, cinto d'un largo solino alla Vittorio Emanuele, biancheggiante sopra una giacchetta di velluto nero. - Quello là - mi disse il mio parente - è Casimiro Teja,4 il famoso caricaturista, direttore del «Pasquino». - L'avevo un po' amara con lui perché metteva spesso in caricatura il mio amato Angelo Brofferio ;5 ma ciò non impedi che mi riuscisse oltremodo simpatico. Era un presentimento che egli sarebbe stato per venti anni uno dei miei più cari amici e l'amico prediletto dei miei bambini? Oh, indimenticabile caffè Perla! Quando passo ora davanti a quella porta chiusa, mi par che dietro ai battenti, dentro a quelle piccole sale oscure, ci debbano essere ancora tutti quei personaggi, Giambattista Giorgini (su cui vedi il ritrntto che ne fa il De Amicis alle pp. 355-8, e la nota a p. 355) aveva sposato nel 1846 Vittoria Manzoni. 2. Per assestare il bilancio, il l\.1inghetti nel '63 lanciò un prestito di settecento milioni, che sollevò però vivaci critiche in alcuni ambienti italiani, pur essendo stato favorevolmente accolto all'estero, soprattutto dai banchieri stranieri. 3. Ferdinando Petruccelli della Gattina (1815-1890), esule da Napoli dopo i fatti del I s maggio 1848, si recò a Parigi, ma dové fuggirne perché aveva combattuto sulle barricate contro il colpo di stato bonapartista del 2 dicembre, e si rifugiò a Londra; tornato in Italia nel 1860, fu deputato dal 1861 al '6s e dal 1874 al1'82. Tra i suoi lavori resta notissimo I moribondi del palazzo Carig11ano (Milano, Perelli, 1862): descrizione acida, ma vivace, di uomini del primo Parlamento. 4. Casimiro Teja (18301897 ), torinese, fu famoso caricaturista; collaborò dal 18 56 al «Pasquino», di cui poi divenne direttore. Ebbe, con le sue caricature, larghissima popolarità, e molta influenza sull'opinione pubblica. 5. Angelo Brofferio: vedi più avanti, pp. 316-7 e la nota relativa. 1.

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seduti ai loro posti soliti, senza sguardo e senza voce, come le mummie di Federico Ruysch •.• 1 e mando un saluto al mio buon Teja; il solo che mi pare debba ridere ancora. Ma quel «trasvolare di gioia in gioia »2 fini ben presto ; dovetti entrare in collegio. Strano collegio! Mi trovavo per la prima volta in mezzo a giovani d'ogni provincia: mi parve di far la mia prima entrata in Italia. Fu per me una maraviglia e un piacere nuovo. Si sentivan parlare tutti i dialetti, dal valdostano al siciliano. C'eran figliuoli di generali, di marchesi, di duchi, di bottegai, d'impiegati, di piccoli proprietari di campagna; dei ricconi vestiti da damerini che buttavano i e< cavurrini »3 dalla finestra; dei poveracci, vestiti come operai, a cui mancava il soldo per il sigaro; e diversissimi di grado di cultura, poiché qualcuno aveva fatto il corso liceale, altri poco più che le scuole elementari; il che metteva il povero professor di lettere nella condizione d'un pastore che dovesse mandar avanti insieme dei cavalli, delle capre e delle tartarughe. C'era nelParia un'allegria carnevalesca. E si capisce: non era ancor chiuso il periodo delle guerre nazionali: speravan tutti di diventar colonnelli a trent'anni. Pochi studiavano. Ma ce n'era bisogno? La frase consacrata era: dare il sangue alla patria: non si diceva ·mica: il cervello; e di sangue tutti n'avevan d'avanzo. È vero che si dovevan dar degli esami; ma Galba4 era ancor lontano. E ci trattavano bene. L'amministrazione era larga: metteva ogni vetro rotto sul conto di tutti e dava quanto si chiedeva: anche un compasso il giorno e una risma di carta la settimana; lasciava fare delle vere orgie d'oggetti di cancelleria: i parenti pagavano. La cucina·, per contro, era spietatamente igienica. Ma s'aveva in compenso l'uscita libera quotidiana di un'ora e mezzo, di parecchie ore la domenica; e tutti se ne valevano con frenesia. Per i ritardi I. Federico Ruysch (1638-1731), medico olandese, famoso per i suoi studi di anatomia, ma più ancora per i suoi processi di imbalsamazione; si ricordi, del Leopardi, il Dialogo di Federico Ruyscli e delle sue mu,nmie, nelle Operette morali. 2. e trasvolare . •. gioia•: è citazione approssimativa di « folleggiar di gioia in gioia », dal brano « Sempre libera degg'io » della Traviata di Verdi, atto 1, scena v. 3. Si dissero cavurrini tanto i sigari di quel tempo, quanto la carta moneta che recava il ritratto di Cavour. Qui il vocabolo forse è usato nel secondo significato. 4. Silvio Sulpicio Galba era lontano, governatore della Spagna Tarraconense, quando si ribellò a Nerone, e per questa sua distanza non incuteva paura. Venne a Roma solo dopo la morte di Nerone e vi fu eletto imperatore.

MEMORIE

JII

non c'era altra pun1z1one che il pane ed acqua; la quale, peraltro, non alterava notevolmente la lista del pasto ordinario. Era proprietario e direttore di quell'educandato militare, e non ci si rovinava, un piccolo abate, patriotta e buon diavolo, non nemico di Bacco; il quale, la sera della domenica, quand'era un po' condito, soleva venir nello studio, con un viso color di fragola, ma solennemente grave, a farci dei lunghi discorsi ammonitori, intercalati di forti soffi, che ci davan notizie della sua cantina. Gli istitutori eran quasi tutti emigrati veneti. La cuoca era bella. I primi giorni furono veramente piacevoli per me, in special modo all'ore dei pasti, che si facevano in una sala sotterranea. I commensali parlavano spesso tutti e cento insieme. Provinciale qual ero, fui maravigliato della volubilità e della varietà d'argomento dei discorsi. Si discorreva dell'insurrezione della Polonia, delle guerre del Messico e degli Stati Uniti,1 dei combattimenti contro i briganti, d'una vasta congiura borbonica che si tramava a Napoli, 2 dell'annunciato matrimonio di Urbano Rattazzi con la principessa Solms. 3 1. insurrezione . •. Stati Uniti: l'insurrezione polacca, scoppiata il 22 gennaio 1863, si diffuse nella Polonia russa e trascinò con sé larghi strati della popolazione; gli insorti furono però sopraffatti dalle truppe regolari russe, e il capo dell'insurrezione, Romualdo Traugutt, fu impiccato. Prese parte ai combattimenti anche un piccolo gruppo di italiani, tra cui il garibaldino Francesco Nullo, che vi perdette la vita. Nel l\llessico, contro il presidente Juarcz combattevano i Francesi, che occuparono la capitale il 7 giugno 1863: mentre Juarez si ritirava al nord, il governo provvisorio offerse la corona a l\1assimiliano d'Asburgo. Negli Stati Uniti era in pieno svolgimento la Guerra di secessione (1861-65). 2. combattimenti . .. Napoli: dopo il 1860 si ebbe l'ultima grande manifestazione del brigantaggio nelPltalia meridionale, con aspetti di lealismo verso i Borboni spodestati, da cui era alimentato. Nel maggio del '63 vi fu un'ampia discussione alla Camera, fu emanata la legge Pica contro il brigantaggio, e nel '65, anche per l'energica, talora spietata azione del generale Pallnvicini, esso apparve completamente sgominato. 3. Urba,zo Rattazzi sposò il 3 febbraio 1863 Marie-Studolmine Wyse-Bonaparte, vedova de Solms (1833-1902). Il matrimonio suscitò critiche e scalpore, perché la moglie era nipote di Luciano Bonaparte, e quindi imparentata con Napoleone Ili, anche se i Bonaparte la consideravano un'intrusa perché discendente di matrimoni ritenuti 111ésailla11ces: le era stato interdetto di portare il cognome Bonaparte, ed era stata esiliata dalla Francia. Autrice di romanzi e di volumi di versi, donna ricca di interessi culturali, il suo salotto era punto d'incontro dei più celebri letterati dell'epoca. Dopo il matrimonio con Rattazzi e il trasferimento a Firenze capitale scrisse Bicheville, una satira dell'alta società fiorentina, che sollevò critiche e rancori.

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- Domani arriverà il poeta Aleardi 1 per presentare l'album delPemigrazione veneta alla regina di Portogallo. - Chi ha visto nelle vetrine del Maggi il figurino dell'uniforme per lo squadrone di cavalleria della guardia nazionale? - Caisson, il maestro di ballo dell'Accademia militare, ha inventato una gran quadriglia cavalleresca ... - Silvio Spaventa? È segretario generale,2 non ministro ... - La Vita di Cristo del Renan3 è già in vendita? - ... un anagramma d'una signora veneta, che fa furore: Vittorio Emanuele: «Armi, è tuo il Veneto ... ». Tutti compravano dei giornali: i volteriani la