La letteratura italiana. Storia e testi. Letterati, memorialisti e viaggiatori del Settecento [Vol. 47]

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LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI · PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI

VOLUME 47

LETTERATI MEMORIALISTI E VIAGGIATORI DEL SETTECENTO A CURA DI ETTORE BONORA

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO · NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISERVA.TI • A.LL RIGHTS RESBRVBD PRINTBD IN ITALY

LETTERATI MEMORIALISTI E VIAGGIATORI DEL SETTECENTO IX

PREFAZIONE

I. LETTERATI GASPARO GOZZI

3

LETTERE DIVERSE

Il

LA DIFESA DI DANTE

19

SERMONI

93

LA GAZZETTA VENETA

117

LtOSSERVATORE VENETO

131

EPISTOLARIO

163

CARLO GOZZI

185

LtAUGELLINO BELVERDE

195

LA MARFISA BIZZARRA

285

MEMORIE INUTILI

347

GIUSEPPE BARETTI

469

PIACEVOLI POESIE

479

LETTERE FAMILIARI At SUOI TRE FRATELLI

487

LA FRUSTA LETTERARIA

543

DISCOURS SUR SHAKESPEARE ET SUR MONSIEUR DE VOLTAIRE

597

SCELTA DELLE LETTERE FAMILIARI

651

EPISTOLARIO

685

II. MEMORIALISTI GIACOMO CASANOVA , MEMOIRES

FILIPPO MAZZEI MEMORIE

GIUSEPPE GORANI MÉMOIRES POUR SERVIR A LtHJSTOIRE DE MA VIE

LORENZO DA PONTE MEMORIE

707 713 761 767 785 791 829

837

111. VIAGGIATORI

VINCENZIO MARTINELLI LETTERE FAMILIARI E CRITICHE

GIOVANNI LODOVICO BIANCONI

877 881 9o9

LETTERE SOPRA ALCUNE PARTICOLARITÀ DELLA BAVIERA ED ALTRI PAESI DELLA GERMANIA

LAZZARO SPALLANZANI

911 937

VIAGGI ALLE DUE SICILIE E IN ALCUNE PARTI DELL,APPENNINO

ALBERTO FORTIS VIAGGIO IN DALMAZIA

CARLO CASTONE DELLA TORRE DI REZZONICO

943 975 979 995

GIORNALE DEL VIAGGIO D,INGHILTERRA NEGLI ANNI

1787-1788

GIAMBATTISTA CASTI

1001 1023

RELAZIONE DI UN VIAGGIO A COSTANTINOPOLI

1029

GLI ANIMALI PARLANTI

1043

LUIGI ANGIOLINI LETTERE SOPRA L'INGHILTERRA, LA SCOZIA E L'OLANDA

SAVERIO SCROFANI VIAGGIO IN GRECIA FATTO NELVANNO 1794-1795

1059 1065

1101 1105

NOTA CRITICA AI TESTI

1131

INDICE

1135

PREFAZIONE

Del rinnovamento culturale del secolo XVIII uno dei segni è la versatilità degli scrittori e quella molteplicità dei loro interessi per la quale lo storico della letteratura avverte quanto siano inadeguati, nel costruire il quadro del secolo, gli schemi che ancora serbano una certa validità strumentale quando si giudicano e interpretano epoche letterarie fiorite sotto l'influenza di un regolato classicismo. Non solo infatti la partizione per ,, generi» rivela la sua debolezza, ma quasi i limiti del concetto di storia letteraria vengono a essere posti in discussione, e tra la vera e propria storia della letteratura e la più accogliente storia della cultura - con tutte le contaminazioni che questa comporta - i confini restano spesso incerti. Non per nulla l'illuminismo, nei suoi più coraggiosi rappresentanti, polemizzò contro la letteratura tradizionale, anzi contro la letteratura senz'altro, quando al culto della parola, fuori del quale non si concepisce la fatica del letterato, contrappose quello dei fatti e delle cose. Nello scegliere e raggruppare gli autori di questo volume s'è dunque obbedito a criteri di convenienza, evitando sopra tutto di cedere a categorie estrinseche quando la personalità dello scrittore era di tale rilievo da non permettere che la si sacrificasse alla storia di un genere o di un problema: perciò qui il lettore troverà rappresentata, nelle pagine più significative, tutta l'opera di Gasparo e Carlo Gozzi e di Giuseppe Baretti. Sarebbe invero pedantesco far entrare Carlo Gozzi per la Marfaa bizza"a nel numero dei poeti burleschi, per le Fiabe nella storia del teatro, per le Memon·e inutili tra gli scrittori d'autobiografie, frantumando quello che più ci interessa: il suo vivace temperamento di artista. Così, del Baretti, che pure fu a lungo legato ai rimatori berneschi, si legge in questo volume una breve scelta delle rime giovanili, significative per comprendere come da un'esperienza comune a suoi coetanei egli seppe trarre il primo avviamento alla formazione della sua personalissima prosa. Rimandiamo invece il lettore al volume degli Illuministi settentrionali per gli scritti del Bettinelli, perché se è vero che La difesa 4i Dante di Gasparo Gozzi volle essere una risposta alle Lettere tJirgiliane del gesuita, non solo i due libelli rappresentano vedute assai lontane e inconciliabili, ma tutta l'opera del Bettinelli, il cui significato trascende di gran lunga l'occasionale polemica dantesca, meglio si colloca nella

X

PREFAZIONE

storia della cultura francesizzante e illuminista dall' Algarotti agli scrittori del « Caffè». Dalla lettura dei memorialisti e dei viaggiatori e dall'interpretazione che di essi si dà nei profili biografici e nelle introduzioni alle singole opere risulterà poi che il diverso pregio degli scrittori ne determina un diverso posto nella storia letteraria: i due memorialisti Mazzei e Casanova, per fare un esempio, non potrebbero nemmeno con la migliore indulgenza essere accostati da chi consideri il valore dei loro stili, se nello sciatto Mazzei è solo il contenuto storico e aneddotico che ci interessa, in Casanova, al contrario, la ricca vena del narratore, che dà volto e vita a tutta una società. Altrettanto, nelle relazioni di viaggio, le differenze restano sensibili anche tra coloro che osservarono un medesimo ambiente: ben poco della vita e del costume inglese è direttamente descritto nelle pagine del Martinelli, le cui Lettere restavano ancora assai vicine nella concezione al saggio critico e morale che, per lunga tradizione di origine umanistica, aveva trovato nel genere epistolare la sua maniera conveniente; nel Rezzonico invece la minuzia d'informazioni ha tutta l'aria d'un diario di turista di molta cultura, che si sentì attratto sopra tutto dalle bellezze dell'arte e del paesaggio e dalle curiosità dell'ambiente; nell' Angiolini infine sono i problemi politici, economici, sociali dell'Inghilterra che impegnano l'acuta intelligenza dell'osservatore. Tre tappe, si direbbe, nella cultura del Settecento, la quale, movendo da un interesse in parte astratto e libresco per i problemi, venne sempre più acquistando l'amore delle cose concrete, fossero esse i fenomeni di natura, i monumenti dell'arte o i costumi degli uomini, a discutere e comprendere i quali sopra tutto disponeva la profonda assimilazione delle correnti illuministiche. Del resto, nessuno vorrebbe inquadrare i libri di viaggi in un vero e proprio genere: essi furono piuttosto un riflesso del costume e della cultura del secolo, anche se obbedirono sovente a certe convenienze letterarie. Occasionale fu codesta letteratura, fiorita spesso al margine di scritti di maggior impegno e di più ambizioso significato, tanto che nella nostra scelta, che pure ha voluto essere larga, non si trovano scrittori che lasciarono sì memorabili resoconti di viaggi, ma tennero una posizione di maggior rilievo nella storia delle lettere come critici, pensatori o artisti: l' Algarotti, Pietro e Alessandro Verri, il Bertola, le cui relazioni di viaggio si

XI

PREFAZIONE

leggeranno nei volumi degli Illuministi settentrionali e dei Poeti lirici dall'Arcadia al Preromanticismo. Per la medesima ragione oltre i brani di Carlo Castone Rezzonico, il cui dilettantismo diede la prova migliore di sé nelle note del Giornale di un viaggio in Inghilterra ma le cui poesie per il loro valore di documento sono raccolte in altro volume della « Letteratura italiana», quello dedicato a Giuseppe Parini e ai poeti satirici e didascalici, abbiamo presentato il Casti tra i viaggiatori per l'intelligente Relazione di un vz'aggio a Costantinopoli, e non abbiamo esitato ad aggiungere alcuni brani degli Animali parlanti per la considerazione fatta dall'autore: che in buona parte la materia della sua satira politica gli era stata suggerita dalle lunghe osservazioni di viaggiatore, e, aggiungiamo noi, da un umore di giornalista che è notevole anche nel racconto del viaggio in Oriente. Giornalismo e cronaca, se pure tinti di vari umori, sono del resto nello spirito, se non di tutti, della maggior parte degli scrittori e delle opere di questa raccolta di Letterati, memorialisti e viaggz·atori; e questo appunto può indicare l'unità non del tutto fittizia della scelta e la prospettiva della parziale visione del Settecento che risulterà dalla lettura di questa silloge.

E. B.

LETTERATI

GASPARO GOZZI · CARLO GOZZI GIUSEPPE BARETTI

GASPARO GOZZI

PROFILO BIOGRAFICO Dal conte Iacopo Antonio e da Angela Tiepolo, nacque a Venezia il 4 dicembre 1713 Gasparo Gozzi, primo di undici fratelli. Il padre, unico erede di un grosso patrimonio e proprietario di terreni nel Friuli, ebbe il gusto dei bei cavalli, della caccia, del lusso, e non badò ad amministrare i suoi beni, né fu in quell'ufficio sostituito dalla moglie, presa dalla smania dei versi e della letteratura. Anche per il crescere dei figliuoli, cominciarono a farsi sentire gli effetti di un dissesto economico, ma non tanto presto che Gasparo non potesse compiere nel collegio dei padri Somaschi a Murano, nel quale stette sino al 1732, i suoi regolari studi di umanità, e seguire poi le lezioni di legge dell'Ortolani e di matematica del Paitoni a Venezia. Ma il suo grande amore fu ben presto la letteratura, e nell'ambiente letterario veneziano che, seguendo Pesempio di Apostolo Zeno, era imbevuto di spiriti conservatori e propugnava lo studio dei Trecentisti e dei Cinquecentisti, egli venne 4ormando il suo gusto di scrittore. A quegli anni giovanili risale anche l'amicizia per Anton Federigo Seghezzi il quale era il suo caro confidente e per primo gli fu guida nelle lettere; e, complice la letteratura, nel 1735, s'innamorò di Luigia Bergalli, nota in Arcadia col nome d'lminda Partenide, di lui più vecchia di dieci anni, per la quale compose rime d,amore petrarchesche e che sposò nel 1738. Tutto immerso negli studi, egli non pensava che a trarne diletto, e quasi non s'avvide del progressivo dissesto della famiglia. Così poi descrisse la vita di quegli anni nel sermone a Pietro Zeno, scagionando anche il padre dagli addebiti che gli si sarebbero potuti muovere: •.. È ver che quando cominciai tal c11lt11ra, io non credea eh, esser dovesse necessaria; e solo per diporto dell'alma io la intrapresi, qual chi coltiva giardinetto od orto.

.

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. . . . . . . . . . .

Ma nella prima età, quando, soggetto appena al pedagogo, avea timore del fischiar della sferza e del latino, si rivolse fortuna. Aspri litigi, d'avvocati viluppi e di notai, furon nembo e tnnpesta alle ricolte

4

GASPARO GOZZI

de' paterni poderi. Alcuno accusa il mio b11on padre, che cavalli e cani amò soverchiamente. Ah non potea, prima avvezzo nel ben, frenar poi tosto i suoi de sir; e non avea si forte filosofico petto: ond'io lo scuso, e il piango ancora, e il suo sepolcro 011oro.

Per arginare il dissesto economico la famiglia s'era intanto ritirata a vivere a Vicinale e lì, fra il 1740 e il 1742, Gasparo attese a vari lavori letterari, fra cui traduzioni dal francese e dal latino, valendosi pure della collaborazione della moglie, della quale s'ha senza dubbio da dare un giudizio ben diverso da quello che ha fatto passare in proverbio il cognato Carlo discorrendo, nelle Memorie inutili, della sua « pindarica amministrazione». Nel 1743, dopo la morte del padre, tornò a Venezia, dove fu angustiato dalle ristrettezze economiche - ebbe il carico d'una famiglia numerosa, di cinque figli - e dalle liti coi fratelli per la divisione del patrimonio familiare. La letteratura divenne per 1-,.i strumento di vita, e, dietro compenso, curò raccolte di versi e lavorò per i librai. Assunse anche, per sua disgrazia, nel 1746 l'impresa del teatro Sant' Angelo, con la quale tirò avanti in perdita per circa due anni pur tentando di arricchire il repertorio con traduzioni e adattamenti suoi di opere straniere. Nel 1748 cominciò a far da segretario al Procuratore Marco Foscarini che aiutò nella preparazione del primo volume della Storia della letteratura veneziana, uscito nel 1752, e nello stesso anno s'innamorò di Marianna Màstraca, moglie di Stelio professore di diritto all'Università di Pado,·a. Finalmente dopo tanto lavoro disperso in collaborazioni alle raccolte, in traduzioni, in anonime scritture per i librai, nel 1750 fece uscire dall'editore Pasquali il primo volume delle Lettere diverse, dedicate al Foscarini, e nel 1752 il secondo dedicato a Bartolomeo Vitturi. Nel 1751 erano apparse le Rime piacevoli d'un moderno autore, con la falsa data di Lucca. Ma non cessavano le preoccupazioni economiche ed egli, oltre a lavorare per i teatri, si acconciò nel 1754 a ricopiare per duecento ducati annui il catalogo della libreria di San Marco, dal 1756 incominciò a impartire lezioni a giovani di nobile famiglia, nel '57 preparò in terzine gli argomenti dei canti della Divina Commedia per la grande edizione che, col commento di Filippo Rosa Mo-

PROFILO BIOGRAFICO

s

rando, ne dava Antonio Zatta. Fu allora, che dietro invito dell'editore, interessato al buon successo della sua impresa, egli replicò alle Lettere virgiliane del Bettinelli col Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante attribuita ingiustamente a Virgilio, meglio noto sotto il titolo di Difesa di Dante, e in aggiunta diede, ritradotto dal francese, il Saggio sulla critica del Pope. Se l'interesse dello Zatta valse come stimolo a una replica immediata al libro del Bettinelli, il Gozzi era tuttavia il meglio qualificato a trattare della poesia di Dante della quale era studiosissimo come gli altri soci dell'Accademia dei Granelleschi, alla cui fondazione aveva preso parte nel 1747, e come risposta definitiva alle critiche del gesuita mantovano la Difesa venne annunziata dal fratello Carlo nello scritto anonimo, apparso al principio del 1758, Parere sopra al poemetto delle Raccolte. Dopo la polemica col Bettinelli, che per il modo in cui si svolse e per le risonanze che ebbe, non fu dissimile da una diatriba giornalistica, il Gozzi dovette sentirsi pronto all'esercizio quotidiano della penna che gli avrebbe imposto un'attività vera e propria di giornalista. E così vennero «La Gazzetta veneta», « Il mondo morale» e poi cc L'Osservatore». La« Gazzetta» iniziò le sue pubblicazioni il 6 febbraio 1760, presso lo stampatore Marcuzzi; « Il mondo morale», che del giornale ebbe solo la periodicità - uscl settimanalmente dal maggio del 1760 -, fu in realtà un pesante romanzo allegorico, che conteneva pure traduzioni della Morte di Adamo del Klopstock e di dialoghi di Luciano, e rimase incompiuto. Lasciata poi la direzione della« Gazzetta veneta» al n. CIV, presso reditore Colombani il Gozzi fece uscire, in data 4 febbraio 1761, il primo foglio dell'« Osservatore», bisettimanale sino al maggio del 1762, settimanale poi, e interrotto il 18 agosto di quell'anno. Di un altro giornale che uscì fra il maggio e il settembre 1768, intitolato il arte sono stati e~cellenti, perché in ogni arte il perfetto è sempre stato difficile. Bisogna confessare che i Francesi in essa sono andati più oltre di noi, benché anticamente anche in questa noi siamo stati i loro maestri. Io suppongo però che non avrebbero Cat"llo, LXIX, 6: che s'annidi nella cavità delle ascelle un fetido caprone. A Marly-le-Roi Luigi XIV fece costruire un altro castello contemporaneamente a quello di Versailles. 1.

2.

GIOVANNI LODOVICO BIANCONI

fatti tanti progressi, se incoraggiato dal gran Luigi non nasceva il Le Notre 1 ingegno sorprendente e che fu il Palladio de' loro giardini. Io non credo che al Le N otre abbia costato minore studio l'incantato Marlì di quello che costassero al Palladio i bei portici della curia di Vicenza o il palazzo Chiericato ;2 e ne appello a chi, capace di giudicarne, ha veduto l'uno e l'altro. La Francia è sempre stata inclinata a cose allegre e di breve durata; così non è mirabile se appresso di lei la maestà romana dell'architettura civile ha fatto sì scarsi avanzamenti, intanto che moltissimi ne ha fatti l'interna disposizione delle case e l'eleganza de' pergolati, delle fronde e delle fontane. Vorrei che vedeste il giardino della marchesa di Pompadour, disegnato e piantato a Bellevue; e vedreste in piccolo fin dove la bella natura e la delicatezza del buon gusto possano arrivare. V'è fra le altre delizie un boschetto tutto di rose a più colori, rampicate intorno a fusti di ferro che le sostentano, ma che da esse sono coperti e nascosti; né so se possa vedersi cosa più deliziosa e più grata. Voi passeggiando per quei bei rigiri, vi perdete in un nen1bo di profumi celesti che vi ristorano; e certamente più ridenti di questi e più odorosi non potevano essere i sacri viali di Gnido e di Pesto. Sorge nel mezzo, anzi in cima ad una verde pendice, un palazzino d'ottima fabbrica, ornato tutto di bei marmi, di bronzi, busti, vasi, porcellane, tappeti finissimi di Siam e della China. Di là vedete, a quattro miglia d'Italia, torreggiare l'immenso Parigi e sotto di voi serpeggiar d'ogn'intorno per una grandissima e fiorita pianura, quasi nuovo meandro, la Senna. Giudicate voi medesimo che cosa dicano delle nostre società, benché magnifiche, i Francesi, quando pieni di queste idee vengono a Roma. Possiam vantar loro la bellezza delle statue di Polignoto o de' bassorilievi d' Atenodoro e mostrare le urne e l'altre rarità della villa Albani o della Pinciana: questo non basta a rallegrarli. Ma dicano ciò che vogliono, non avrebbero ora Marll, né Versailles, se non avessero anticamente veduto le ville di Tivoli o di Frascati; benché adesso, a guisa d'attempata matrona, abbiano le rughe della vecchiezza, e sieno vestite all'usanza di Leon decimo o di papa Giulio. Addio, caro marchese, abbiamo parlato pur poco di Monaco in 1. André Le Notre (1613-1700) fu il grande architetto ideatore di giardini del re Luigi XIV. 2. Il palazzo dei conti Chiericati a Vicenza, come il Teatro Olimpico, opera del Palladio.

LETTERE SULLA BAVIERA

questa lettera! Non dubitate; sarò un'altra volta più savio, ma ricordatevi il proverbio del nostro amico Scarron :1 Tout nez retrowsé fut paillard, et tout médecin babillard.

I FUGGER:i

Dresda, li

22

novembre I76z.

Anticamente Augusta era l'emporio del commercio della Germania, prima che di lui se ne fosse impadronita l'Olanda, e vi sono stati una volta cittadini opulenti oltre la condizione d'un particolare. La sola casa dei Fugger,3 div~nuti dappoi conti dell'impero, ha posseduto forse più ricchezze che qualunque altra particolare d'Europa. Vedrete moltissime chiese e monasteri colà da essa fondati. Vedrete nel borgo di S. Giacomo una piccola città separata-· colf mura, porte, chiesa e piazza, la quale città chiamasi la Fuggeraia. Fu questa edificata dai Fugger per abitazione dei vecchi servidori e benaffetti di casa che v'alloggiano gratis ancora al giorno d'oggi. Simili grandiose idee non possono venir in mente ed eseguirsi se non da chi ha tesori d'avanzo. Quanti altri monumenti della loro liberalità e pietà non s'incontrano in Roma, in Venezia, in Trento, in Vienna, in Lovanio, e in altri luoghi della Fiandra! I Fugger, a gara della casa Medici, favorirono le lettere, e mandarono anticamente fino in Grecia a raccogliere manuscritti, marmi e inscrizioni; anzi parte di queste vedreste oggi ancora ornare uno dei loro palazzi di campagna a Velemburgo. Roberto Stefano,4 sotto la protezione di Udalrico Fugger, facevasi gloria d'esser suo stampatore, e per tale in alcuni libri da lui impressi s'è dichiarato. Non molto dopo la scoperta dell' Am~rica aveva questa casa, per quanto si narra, vascelli in mare che a suo conto andavano e venivano continuamente dall'Indie. Nel palazzo Fugger, che in Augusta vedrete, alloggiò Carlo V quando colà chiamaronlo gli affari di religione e dell'impero. Per gli appartamenti vi sono Scarron (1610-1660) l'autore del Roman comique. 2. Dalla lett. I Fuggcr in origine tessitori, divennero nel sec. xv i più ricchi banchieri delJ' Impero. La Fuggerei, sotto ricordata, fu fondata nel 15 19 da Jakob Fugger II, il Ricco. 4. Roberto Stefano (1503-1559), il più famoso della famiglia dei grandi stampatori francesi. 1. Paolo VIII. 3.

so

GIOVANNI LODOVICO BIANCONI

ancora i cammini di marmo col nome a gran lettere di quelt>imperadore, dal che si vede che furono fatti in quella occasione. Narrasi che con1e se i boschi di Ceylan fossero alle porte d'Augusta, non arse in essi allora altro che cannella per fare un foco degno del primo dei prìncipi dell'Europa. Alla cappella maggiore della chiesa di Sant' Anna sono i sepolcri di questa famiglia tutti di marmo, e dai bassorilievi e dalle inscrizioni scorgerete il secolo d'oro dei Medici d'Augusta. La chiesa essendo ora ufficiata dal clero protestante, i conti Fugger hanno abbandonati questi bei sepolcri, e si fanno sotterrare qua e là nei loro feudi. Kircheim I è uno di questi, dove avendo io passata, anni sono, col serenissimo d' Augusta, 2 una villeggiatura, vidi nel mezzo della chiesa, ch'è nel palazzo medesimo, una superba tomba di marmo destinata ad uno dei loro antenati, con bassorilievi incomparabili. Nel mezzo del gran cortile v'è una fontana con due statue di bronzo di grandezza colossale, e bellissime: opera veramente degna di un gran principe, e stento a credere che nessun particolare possa mostrare altrettajto. Essendo questo castello in cima d'una collina, e mancando d acqua, fassi questa ascendere per mezzo di macchine idrostatiche sino alla sommità e con tale abbondanza che, dopo avere servito ai vari getti e spruzzi della fontana, passa ad irrigare copiosamente un giardino. Quando Carlo V passò con tanta magnificenza per la Francia, allorché sdegnato andava con un'armata a rovinare la città di Gant sua patria,. Francesco I, per abbagliarlo e fargli onore, ordinò segretamente che tutt'i mercanti di Parigi facessero mostra di quanto avevano di prezioso nelle loro botteghe. L'imperadore, accortosi di questa pompa, disse pubblicamente che v'era in Augusta un cittadino e servidor suo, chiamato Fugger, a cui sarebbe stato facile il comprare tutte queste magnificenze in una volta senza incomodarsi. L'imperadore dicea il vero, perché senza incomodarsi il Fugger, capo di casa, gli avea regalato un milione di fiorini, somma, massime a quei giorni, esorbitante e degna non so se più del monarca o del donatore. Non mal volentieri v'ho parlato di questa illustre famiglia, perché oltre al meritare ogni riguardo, io ho l'onore di conoscerla particolarmente, e sono stato da lei sempre ricolmato di gentilezze e di cortesie. 1. Kirchheim. era medico.

2.

Il principe-vescovo di Augusta, del quale il Bianconi

LETTERE SULLA BAVIERA

RIFLESSIONI SUI COSTUMI TEDESCHI 1 Dresda, li 25 novembre I762.

Sento con sommo piacere dalla vostra dei 20 la bella e dolce cagione che vi affretta a tornar in Italia, e mi par di vedere la vostra impazienza. Platone dice che questa necessità è cento volte più forte della necessità geometrica, e voi che adesso la provate ne potrete dar conto. Questo grande Ateniese, a malgrado della serietà di alcuni suoi seri tti, seppe accoppiare la filosofia con il buon gusto e la matematica coll'amore; accordategli adunque la vostra credenza così nell'uno come nell'altro. Io vi ho detto nelle mie precedenti, che troverete belle dame in Monaco, e belle borghesi in Augusta; ma adesso me ne disdico interamente. Mi rimprovererei per sempre se vi dessi occasione di ritardare un sol momento il vostro ritorno. Altro tempo non chieggio dunque da voi se non quello che abbisogna per leggere ancora poche mie righe, e queste pure potrete scorrerle per cammino. Si tratta di presentarvi alcune riflessioni venutemi in mente, e troppo mi peserebbero sul cuore se le tacessi. Voi, caro marchese, avete viaggiato giorno e notte per la Germania nel tempo della più rabbiosa guerra,2 il più delle volte solo, per contrade desolate e inondate da vagabondi, da disertori, per foreste orride e solitarie. Ditemi, in fede vostra: avete voi mai corso verun pericolo? V'è mai succeduto alcun sinistro accidente per l'audacia o petulanza degli abitanti? Benché io non Io sappia, ardisco dirvi francamente di no, perché rarissime volte questi casi succedono, e quando che sì, se ne parla per tutta la provincia come di cosa straordinaria; anzi il governo non riposa finché non sieno interamente sterminati i perturbatori della pubblica sicurezza. In prova di ciò, qual è quella dama in Italia che ardirebbe sola intraprendere un viaggio di quattro o cinquecento miglia, come tante volte l'ho veduto io fare alle dame della nostra regina, belle e ricche, quando andavano sole da Dresda a Varsavia? Avete :voi mai udito che qui o altrove in Germania, nel tempo del vostro soggiorno, siasi commesso uno di que' neri omicidi proditori che pur troppo sono tanto in uso altrove, una violenza, una J.

Dalla lett.

IX.

2.

La guerra dei Sette anni.

GIOVANNI LODOVICO BIANCONI

vile superchieria? Qui pure io suppongo fermamente di no, perché in tredici anni ormai che sto in Sassonia, non ne potrei citare qui fra noi che una sola. Ma donde, ditemi, vi prego, donde nasce codesta inalterabile tranquillità tanto sospirata in altri paesi e tanto necessaria all'umana società? Non sono gli uomini qui della stessa specie degli altri? Non sono que' medesimi che quando colle armate tedesche calano in Italia portano con loro il terrore e lo spavento ne' lor burberi ceffi? In Germania non v'è alcun'arme proibita, non v'è pistola né corta né lunga, non v'è pugnale che non possiate portare a qualunque ora e dovunque, benché nessuno ne porti mai. Qui dal minuto popolo si beve abbondantemente, qui gli amori plebei e grossolani, la tetern·ma belli caussa, sono egualmente conosciuti e forse più che altrove. Qui ballasi a voglia d'ognuno tutta la notte nelle bettole, qui parla ognuno a suo talento. Non si può dire che gli sbirri, i bargelli tengano in timore la plebe, perché questa specie di galantuomini non è conosciuta in Germania. Donde adunque, vi replico, codesta pubblica sicurezza? Ve lo dirò io, signor marchese, e non temo questa volta d'ingannarmi. Sappiate adunque, che qui non è permesso in verun modo alla gentaglia di vivere in ozio, e i vagabondi sono indifferentemente arrestati ed esiliati. Potrebbe portar armi, è vero, chiunque avesse questa vigliacca vocazione da sgherro, ma guai a colui che ardisse di farne uso. L'omicidio, anche semplicemente tentato, è irremissibilmente punito di morte, né v'è somma di danaro, per quanto grande sia, per cui passasi riscattar la vita d'un reo di simii delitto. E chi non vede che altrimenti sarebbe lecito ai ricchi l'ammazzare? Non v'è protezione, non v'è patente, non v'è livrea, non v'è condizione che possa infirmare la santità delle leggi. Le case de' potenti o le chiese del Signore non servono qui d'asilo e di ricovero agli scellerati; la speranza di fuggire e salvarsi in altro territorio è vana. Non v'è principe che non ceda un reo straniero al suo naturale sovrano offeso. Nemmeno le guerre le più vive sospendono fra le potenze nemiche questa vicendevole protezione della giustizia, ch'è il nerbo della loro autorità e l'anima della società. Saranno in guerra fra loro i principi, ma non sono mai in guerra i magistrati. In somma i delitti che offendono l'umanità e la vita sono qui causa comune. Qui sono i soldati che arrestano i rei, e non è commessa l'esecuzione della giustizia a certa gen-

LETTERE SULLA BAVIERA

taglia, che sovente è più colpevole dei delinquenti medesimi, e in conseguenza quasi sempre loro protettrice e compagna. Non v'è cittadino, per quanto nobile sia, che non facciasi una gloria d'ubbidire alle leggi, e che non conosca come altrimenti facendo turberebbe la pace dello Stato e farebbe torto a se stesso. È manifesto esservi un non so che di vergognoso, di vile a voler proteggere la scelleraggine e l'ingiustizia. L'esperienza ha sovente mostrato che l'aver compassione d'un reo fu lo stesso che sottoscrivere l'arresto di morte d'alcuni innocenti. Altrove i cittadini si fanno una mal intesa gloria di celarlo a danno della giustizia, e qui ognuno si farebbe un dovere di palesarlo. Dall'altro canto, delitto imperdonabile sarebbe l'usurpare il diritto del principe, facendosi con violenza e privata autorità rendere conto del menomo aggravio. Le leggi, che vegliano a difesa del cittadino, gli danno piena ragione, e l'aggravio o la insolenza sono senza dubbio respinti e puniti. Chi vorrebbe adunque prendersi una vile soddisfazione, se al fianco del principe trovate sempre vigilante la giustizia ad assistervi? Ma qui vi sento, e con ragione, domandarmi: - Dunque non si fanno delitti in Germania? Sono eglino i Tedeschi impeccabili? Non signore; l'uomo è lo stesso da per tutto, ma la sicurezza del più severo gastigo vale a raffrenarlo. È un piacere per noi forestieri il veder qui diventati trattabili que' facinorosi indomiti I taliani, que' malviventi medesimi, i quali in Germania dappoi per qualc~e delitto sono rifuggiti. Voi sapete la Sassonia essere paese di libertà e che qui egualmente che nel Brandeburgo, nell'Hannoverese, nel Luneburgo ed altrove, raccogliesi quella spuma che di tempo in tempo per alleggerirsi vanno vomitando l'Italia e la Francia, e che veggiamo i fuggiaschi e gli apostati, per paura di peggio, diventar qui tutto ad un tratto laboriosi e civili. Chi fa il maestro di scherma, chi di ballo o di lingue, chi il soldato, chi il correttore di stampe o l'editore di libri osceni, chi il locandiere e chi forse peggio; ma nessuno ardisce turbare con violenze la società, né vivere ozioso. Li vedete nascondere tutti, alla meglio che possono, quel reo talento che qui li condusse, e fare ogni sforzo per darsi aria di galantuomini perseguitati dalla fortuna. Mi venne da ridere una volta in Lipsia, che parlando con un certo frate romagnuolo fuoruscito, e narrandomi costui una lite che avea col suo padrone di casa, auguravasi le belle vendette del suo paese, e pentivasi di essere venuto fin qui a far penitenza, com'ei diceva, de'

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suoi peccati. Bisogna che si pentisse da vero perché una notte all'improvviso, fatto un solenne furto ad un divoto artigiano che come proselita lo proteggeva, sua paternità molto reverenda spari, né se n'è mai più saputo novella. Del resto poi qui ancora si sentono, benché rarissime volte, omicidi accidentali o rissosi, e in tredici anni che sono in Sassonia potrei citarvene due a mia memoria, de' quali forse parlasi ancora, e che furono immediatamente puniti. Si ruba, è vero, benché di rado, si fanno contrabbandi, fallimenti fraudolenti; ma questi delitti sono anch'essi puniti a proporzione. Avrete in fatti veduto lavorare per Dresda colla catena al piede i condannati, giacché una delle massime del governo tedesco è l'ottimo instituto di far servire al comodo de' buoni cittadini ed al quotidiano esempio del popolo coloro che l'hanno coi delitti scandalezzato. Eccovi la ragione assai chiara della tranquillità che regna nei governi tedeschi, come l'opposto di tutto ciò vi mostrerà donde nasca il tumulto che pur troppo s'osserva in alcuni altri paesi che sono sì spesso e miseramente macchiati di sangue cittadinesco. Sotto il pontificato di Gregorio XIII crasi riempiuto lo stato ecclesiastico di ribaldi e traditori; ma Sisto V 1 in pochi mesi lo ridusse tale, quali sono i paesi ben governati, cioè tranquillo e sicuro. L'unica cosa che resterebbe da desiderarsi in Germania sarebbe la sollecitudine ne' giudici, i quali ne' piccoli delitti sono talvolta un po' lenti, e forse non tanto incorrotti quanto ne' gravi. Ma felice troppo sarebbe quel paese, al governo del quale nulla vi fosse da opporre. Un male è in Sassonia e che non s'è mai potuto estirpare, voglio dire la mania del suicidio. Questo funesto delirio è qui forse altrettanto frequente quanto siasi in Londra. Chi sa se dalla bassa Sassonia non lo portarono in Inghilterra i conquistatori di quell'isola, giacché i Sassoni vi portarono dopo i Romani signoria, costumi e linguaggio. Egli è certissimo che la gente si dà qui facilmente la morte, ed io ne sono stato molte volte testimonio. Quel pittore che in casa mia ha dipinto le porte, le panche e i pancali che voi conoscete, e ch'io chiamava il mio Zuannino da Capugnano3 perché veramente parea uno de' suoi migliori allievi, servirà in ciò d'esempio memorabile. Unitamente alla moglie venne 1. Gregorio XIII fu papa dal 1572 al 1585, Sisto V dal 1585 al 1590. :z. Pittore di scuola bolognese, nato circa il 1650.

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un giorno costui da me a prendere congedo, come se avessero voluto allontanarsi amendue per pochi giorni da Dresda. Vendettero d'accordo i loro mobili, andarono alla chiesa insieme e di là alla campagna, ove, dopo avere squisitamente mangiato, tagliò egli le canne della gola con un rasoio alla moglie, e lasciolla svenuta per terra. Andò costui immediatamente alla giustizia accusandosi di averla uccisa, perché così erano d'accordo per finire di vivere, e pregò divotamente e con grand'eloquenza il magistrato a voler lui pure levare di stento. Fu subitamente esaudito, com'è naturale, e sulla ruota al vento ed alla pioggia sono ancora le rotte sue membra, ch'io sovente ho guardate con compassione nel passare che ho fatto da quella parte. Lo stesso fece una madre, da me ben conosciuta, alla sua figliuola che ne la pregò istantemente, dicendo non voler più vivere in questo mondo, ed al pari del pittore domandò contro se stessa giustizia, e l'ottenne. Un avvocato, notissimo ad ognuno di noi, s'uccise con due pistole che avea sì ben congegnate sulla tavola, ove scrivea, che al tirar d'uno spago scaricavansi amendue in un istante. Costui non mancava di niente, ed una lettera, che lasciò scritta, dicea esser egli annoiato di questa vita. Dovea maritarsi una giovane ad un uomo da lei sceltosi, ma nel tempo che stava ad acconciarsi per andar seco lui alla chiesa, uscì essa all'improvviso, ed aspettatala indarno, fu ritrovata sul solaio impiccatasi per la gola. Un servidor d'una dama, da tutti noi conosciuta, s'impiccò anch'egli un giorno ingegnosamente nella sua camera, senza che si sia mai saputo il perché. lo ho conosciuto un gentiluomo che finì di vivere con un colpo di pistola che diedesi in bocca, ed ho letta una lettera in cui rendeva ragione di questa sua determinazione al fratello vivente qui . . ancora e amico m10. Sono pochi mesi che gittossi nel fiume una donna sola, la quale non avea mai dato segno di malinconia, e vi restò affogata. Se le trovarono in casa da duecento scudi e le coserelle sue in assai buon ordine. La scorsa settimana si tagliò la gola in Varsavia il cameriere di uno de' nostri consiglieri di Stato, abitante in Dresda; ma non essendo morto immediatamente fu medicato alla meglio della mor-

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tal ferita. Costui, a guisa di Seneca, disse le sue ragioni agli amici e circostanti, e ringraziatili de' loro pietosi uffici, strappossi in un istante dalla ferita gola le fasce, e finì d'ammazzarsi con tanta celerità che nessuno fu a tempo di trattenerlo. Un celebre professore di Lipsia diedesi all'improvviso, e dinascosto della sua famiglia, un coltello nel ventre. Passò così più di un giorno nella sua biblioteca senza dirne motto a veruno, e morì qualche tempo dopo. Io aveva parlato con esso lui alcune settimane prima, e coi termini più patetici e sensati m'avea egli raccomandata la sua numerosa famiglia, assicurandomi che sapea non esser egli per vivere più lungo tempo. Questi, a guisa del Cuiaccio, 1 faceva ogni anno un libro ed un ragazzo, e lascerò giudicare a chi conosce le sue gentili figliuole a Lipsia, quale di queste due cose gli sia meglio riuscita. Non ha guarì che un comodo mercante droghiere, poco lontano da casa mia, si diede un colpo di pistola in fronte. Nella medesima settimana, anzi nella stessa contrada, un giovane ordinario2 finì con un laccio alla gola: né s'è penetrata mai qual ragione gli abbia a ciò mossi. Voi sapete che in faccia alla mia casa v'è il giuoco della palla di corte, che volgarmente in Italia chiamasi racchetta. Vidi, e saranno quattr'anni la prossima estate, il custode di questo, intanto ch'io era alla finestra, gettarsi dal più alto del tetto e rompersi il collo. Un uomo dipendente dalla Corte del re, ricco forse di cento mila scudi, andò, tre anni sono, a gittarsi all'improvviso nell'Elba, abbandonando una casa signorilmente accomodata ed una numerosa figliuolanza. Bisogna che costui si mettesse al collo un sasso, perché, per quante diligenze abbia fatte la sua famiglia, da qui sino ad Amburgo, non s'è mai potuto aver contezza alcuna del suo cadavere. Mi si gela il sangue, pensando che fra questi lunatici dovrei parlarvi ancora d'un mio strettissimo parente, la cui memoria sarà sempre lugubre nella nostra casa di Sassonia, e tanto basti. Ma quanti altri casi non meno stravaganti potrei citarvi se mi volessi dare la pena di rimettermeli alla mente, e notarvi nomi assai illustri ? ma saranno sufficienti questi pochi, della maggior parte de' Giacomo Cuiaccio ossia Jaque de Cujas (1522-1590), il maggiore studioso di diritto romano del suo tempo. 2. Borghese. I.

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quali sono stato io testimonio oculato. Io mi ricordo che vidi un giorno farsi al nostro primo ministro in una volta otto rapporti da differenti parti di questo Elettorato di soli suicidi. Ho notato che nel tempo della presente guerra minore strage del solito ha fatto questa mania; eppure afflizioni e disagi non hanno mancato. Da ciò parmi potere conchiudere che le forti e differenti impressioni esterne, occupando l'animo, lo distolgano da quella cupa malinconia e dalle fissazioni che io non dubito punto essere sempre la sola cagione di questa malattia dello spirito. Il Sassone ha le passioni e i desideri estremamente forti, ed essendo piuttosto portato al silenzio ed alla meditazione, al contrario di tante altre nazioni che facili sono in uno o in altro modo a svaporarsi, cade facilmente in preda alla cupa tristezza. Qual maraviglia adunque se in parosismo succumbe ai deliri di Catone, di Bruto e di tanti altri stoici e lunatici del tempo antico e moderno? Tale in fatti bisogna che sia quella nazione che ha prodotto un uomo capace di attaccar solo e di fronte l'antico dogma,1 quella nazione che ha fatto cangiar di faccia al sistema politico dell'impero, quella nazione in fine che ha prodotto il grand'elettore Augusto I, un Leibnizio, un Ottone di Guerich,2 un Fabricio,3 un Tschirnhaussen,4 che a ragione dovrebbe chiamarsi l'Archimede della Sassonia, e tanti altri uomini famosissimi.

Il dogma cattolico attaccato da Lutero. 2. Otto von Guerich ( 16021686), grande fisico nativo di Magdeburgo. Si deve a lui l'esperienza dei cosi detti emisferi di Magdeburgo.- 3. Alberto Fabricius (Lipsia 1668Amhurgo 1736) fu grande filologo, autore di importanti repertori d'antichità classiche. 4. Ehrenfried Walter von Tschimhaus (1651-1708), amico di Leibniz, grande matematico e fisico, nativo della Prussia e vissuto a lungo a Dresda. 1.

LAZZARO SPALLANZANI

PROFILO BIOGRAFICO Nel Settecento non si dà ancora la frattura tra letteratura e cultura scientifica che doveva essere poi la conseguenza delle progressive e rapidissime conquiste nel dominio della scienza, e determinò, oltre che la separazione delle singole discipline, la formazione di un rigoroso linguaggio tecnico, linguaggio di segni, che da solo basterebbe a fissare il netto distacco delle scienze dalle lettere. D'altra parte uno degli impulsi più forti ad assimilare la filosofia e il metodo dell'illuminismo venne in Italia dal perdurare della grande tradizione galileiana, sl che se in un senso possiamo dire che le dottrine del Newton venivano per i nostri scienziati a concludere le tesi di Gaileo, non è meno vero che il metodo dei naturalisti italiani, dal Redi al Vallisnieri, portava l'empirismo illuministico ad inserirsi dentro un'alta cultura scientifica ben testimoniata da nomi di fama europea. Anche per gli Italiani il grande maestro negli studi di fisica e d'astronomia fu Newton; ma nell'ambito delle scienze naturali s'aveva pure da tener conto d'altre importanti esperienze, da Linneo a Buffon, e in ogni senso la lezione di Galileo continuava ad agire sia come viva premessa metodologica sia come esempio di chiarezza e di eleganza, e perciò, nel rispetto dello stile, quale modello di un linguaggio eletto e lucido, non fatto per soli iniziati. Quindi questo importante capitolo di storia della cultura merita non meno l'interesse dello storico letterario, che vede perdurare tra gli scienziati una tradizione umanistica, non rigorosa come quella del Seicento, costante tuttavia e rappresentata dagli uomini stessi che tennero il primo piano nel dominio delle scienze. Per i naturalisti del secolo XVIII non era neppure eccezionale conservare tra le loro ricerche tempo e amore a qualche studio di umanità: Giovanni Targioni Tozzetti poté coprire l'impiego di Bibliotecario della Magliabechiana nel riordinamento della quale ebbe l'aiuto di un altro coltissimo scienziato, Antonio Cocchi, che era stato nominato dal granduca Francesco I «antiquario granducale» con l'incarico di riordinare le collezioni numismatiche di Firenze; e anche Alessandro Volta da giovane compose versi e a lungo divise la sua passione tra la poesia e la scienza. Lo stesso Spallanzani professò prima che quello scientifico l'insegnamento della lingua greca e della filosofia, e non per breve tempo alternò la professione di

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queste discipline a quella delle scienze naturali e matematiche. In lui, cervello versatilissimo di scienziato, sembra giusto riconoscere lo scrittore più rappresentativo tra i naturalisti del suo secolo, quello nel quale anche lo storico della letteratura trova meglio esemplata l'efficacia di una non peregrina disciplina di stile. Nacque Lazzaro Spall~nzani il 12 gennaio 1729 in provincia di Reggio Emilia, a Scandiano, dal giureconsulto Gian Nicola e da Lucia Zigliani. Fece i suoi corsi di retorica e filosofia presso i Gesuiti a Reggio e poi passò agli studi di legge a Bologna (1747) grazie alla protezione del vescovo di Reggio, monsignor Castelvetro. E in questa città sotto la guida della cugina Laura Bassi Veratti, docente di storia naturale, riconobbe in sé la forte inclinazione alle ricerche scientifiche che da allora furono la sua più grande passione. Il padre avrebbe desiderato che continuasse gli studi di legge, ma si lasciò indurre anche dalle pressioni di Antonio Vallisnieri junior a consentire che il figlio proseguisse negli studi scientifici. Allora per darsi una situazione conveniente, presi gli ordini minori, lo Spallanzani accettò il posto d'insegnante di francese, greco, logica e matematica nel Collegio di Reggio, l'antico Seminario (1754). Due anni dopo ottenne pure la cattedra di matematica e fisica nell'Università della città natale, fondata nel 1753 dal duca di Modena, e intanto continuò l'insegnamento del greco e della matematica nel Collegio di San Carlo. Press'a poco in quel tempo prese gli ordini maggiori e divenne sacerdote della Congregazione della B. Vergine e di S. Carlo di Modena. A Modena pubblicò nel 1765 il Saggio di osservazioni microscopiche concernenti il sistema della generazione de' Signori N eedham e Buffon, per confutare le tesi dei due scienziati stranieri e sfatare anche per gli infusori la leggenda della generazione spontanea, come per gli insetti aveva fatto il Redi. Tre anni dopo (1768), pubblicando il Prodromo di un'opera da impn·mersi sopra le riproduzi.oni animali e la memoria Sull'azione del cuore nei· vasi sanguigni, dedicata al grande naturalista bernese Alberto von Haller dal cui studio Sul movimento del sangue negli animali riconosceva di avere avuto l'avviamento alle sue scoperte, si assicurava tra scienziati e filosofi sicura rinomanza, e per queste opere, fondamentali nella storia della biologia, nel 1769 fu chiamato dal conte di Firmian alla cattedra di scienze naturali dell'Università di Pavia. Le ricerche sulla circolazione del sangue furono concluse nel

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1773 dall'opera I fenomeni della ci"rcolazione osservata nel glro universale dei vasi, ma nella fisiologia altre profonde tracce lasciò lo Spallanzani : nello studio della digestione e dei succhi gastrici sopra tutto e in quello della respirazione, dove corresse e completò le ricerche del Lavoisier, lasciando un'importante Memoria su la respirazione, alla quale attendeva ancora nell'imminenza della morte e che uscì postuma a Milano nel 1803. Ma per accennare alla molteplicità dei suoi interessi preferiamo citare le parole del suo più recente biografo: cc Altri temi scientifici occuparono la mente dello scandianese durante la sua vita e nella più gran parte di questi egli è giunto a conclusioni talmente esatte, che non solo hanno resistito alla critica odierna, ma hanno costituito delle pietre miliari per il progresso della scienza. Infatti fece ricerche sulla generazione, sulla fecondazione artificiale, sulle rigenerazioni, sul senso d'orientamento dei pipistrelli ciechi nel volo al buio, sui fenomeni elettrici delle torpedini e sulla riproduzione delle anguille» (vedi P. CAPPARONI, Spallanzani, Torino, Utet, 1941, p. 35). Né con questo si considera l'attività dello speleologo, dello studioso dei vulcani, dei fossili e dei vari fenomeni geologici ai quali egli si diede con passione portandovi il forte contributo della sua intelligenza di osservatore. Fu per approfondire questi studi che intraprese i numerosi viaggi, dalla cui descrizione venne anche il meglio della sua opera di scrittore. Agli anni nei quali insegnava a Reggio Emilia risalgono le escursioni sull'Apennino reggiano e al lago Ventasso. Ma i viaggi maggiori li compì dopo che ottenne la cattedra di Pavia: nel '72 fu al lago di Como e nel Canton Ticino; nel '79 in !svizzera, dove,- essendo morto da due anni lo Haller, a Berna volle almeno conoscere i familiari di quell'ammiratissimo maestro del quale, valendosi delle notizie avute da chi lo conobbe, tracciò nelle sue note di viaggio un vivo ritratto (vedi in G. PIGHINI, Viaggi ed escursioni scientifiche di Lazzaro Spallanzani, Bologna, Cappelli, 1929, p. 140). Fu poi sulle coste della Liguria, a Marsiglia, a Rimini, a Chioggia, alle Apuane e sul Monte Zibio nel Modenese. Nel 1785-86 intraprese il suo maggiore viaggio, a Costantinopoli, per via di mare nell'andata, al seguito del bailo Girolamo Zulian, e per via di terra al ritorno attraverso la Valacchia, la Transilvania, l'Ungheria e l'Austria. Questo viaggio, come gli altri minori sulle rive del l\ilediterraneo, doveva servire a raccogliere materiali ed esperienze per una grande opera, La storia naturale

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del mare, che lo Spallanzani non arrivò tuttavia a comporre. Al ritorno da Costantinopoli gli occorse uno degli episodi più incresciosi della sua esistenza: il suo insegnamento a Pavia, mentre gli attirò le simpatie degli studenti, non era stato senza polemiche e dissidi con i colleghi. In quell'Università, risorta a nuova floridezza per le cure del governo austriaco, egli ebbe vicini nell'insegnamento altri illustri scienziati: il più giovane Alessandro Volta, l'anatomo Antonio Scarpa, venuto a Pavia nel 1783, il botanico Giovanni Antonio Scopoli ed altri. Durante la sua assenza Gregorio Fontana e lo Scopoli, a lui particolarmente avverso anche quale seguace del metodo sistematico tedesco, lo avevano accusato di essersi appropriato di materiali del Museo dell'Università per arricchire la raccolta privata di Scandiano, e in questo ebbero la complicità dello Scarpa e di don Serafino Volta, custode del Museo dell'Università. Di fatto lo Spallanzani, mentre dirigeva il Museo di Storia naturale di Pavia (quello descritto dal Mascheroni nell'Invito a Leshia Cidonia) e lo arricchiva di molti esemplari, non trascurava la sua raccolta privata, che poi da Scandiano passò a Reggio Emilia per costituire il nucleo del Museo di quella città. Ma lo Spallanzani era del tutto mondo dalle colpe che gli si addebitavano e, informato a Vienna dell'accusa, affrettò il ritorno per dimostrare la sua innocenza, che agevolmente provò confondendo i calunniatori. Di questo episodio spiacevole si vendicò poi ordendo una beffa crudele ai danni dello Scopali. Dopo quello di Costantinopoli, la cui relazione vide la luce solo nel 1888 a cura di N aborre Campanini, lo Spallanzani predispose, anche d'accordo con Alberto Fortis che risiedeva allora a Chiaia e offerse ospitalità all'illustre amico, il viaggio nell'Italia meridionale e in Sicilia. Parti da Pavia il 23 giugno I 788 ed impiegò in quel viaggio le vacanze estive e autunnali. La relazione che ne stese fu anche a giudizio delPautore tra i suoi scritti più pregevoli, se non solo egli volle darlo alle stampe, ma, iniziatane la pubblicazione nel 1792 sotto il titolo di Viaggi alle Due Sici,/ie e in alcune parti dell' Appennino, aggiunse una terza parte nel 1797, che porta nell'edizione originale il titolo di Opuscoli sopra diversi animali e contiene il racconto delle esperienze su gli uccelli fatte a Scandiano, e i capitoli famosi sulle anguille di Comacchio. Questi viaggi, cui abbiamo sommariamente accennato anche perché ne derivò la parte letterariamente più viva della vasta opera

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dello Spallanzani, furono le sole pause nell'insegnamento tenuto a Pavia, nel quale lo scienziato mirò a mettere in pratica, come traspare dagli scritti, l'idea di uno sperimentalismo condotto con instancabile perseveranza, ché nulla egli più rifuggì che incorrere nella taccia di « filosofante di carta» mentre la sua ambizione era quella d'essere soltanto (( filosofo di natura». Nell'insegnamento poi, egli, che aveva consigliato agli scolari come testo La contemplation de la nature del Bonnet e fu richiamato dall'Imperiale e Reale Governo a un ossequio maggiore del sistematismo di Linneo, di Buffon e degli scienziati tedeschi, dovette portare tutta una sua geniale vena che gli valse il grande consenso degli scolari e poté dar pretesto anche allo scherzoso gioco di parole: « Spallanzani c'est le Buffon d'ltalie». Con passione vi attese sino a quando lo ressero le forze, ancora negli anni difficili in cui la Lombardia divenne campo della guerra tra Francesi ed Austriaci; e proprio in una breve tregua di quelle lotte lo Spallanzani si spegneva, il 3 febbraio 1799.

* Su gli scrittori scienziati e sui rapporti fra tradizione gaJiJeiana e cultura illuministica in generale, giova tener presenti almeno il cap. 111 del Settecento di G. NATALI, • Il secolo filosofico. - Filosofi, Scienziati, Enciclopedisti• (ed. cit., pp. 182-251); G. MAUGAIN, Étude sur l'évolution intellectuelle de l'ltalie de I675 d I750 environ, Paris, Hachette, 1909; P. HAZARD, La crise de la conscience européenne (1660-1715), Paris, Boivin, 1935 (v. anche la trad. it. a cura di P. Serini, Torino, Einaudi, 1946); l'introd. di F. Rooouco al voi. La Toscana descritta dai naturalisti del Settecento, Pagi,ie di storia del pensiero scientifico, Firenze, Le Monnier, 1945; G. SGRILLI, Viaggi e viaggiatori nella seconda metd del Settecento, nel II voi. della Miscellanea di studi critici pubblicati in otiore di G. Mazzoni, Firenze, Tipog. Galileiana, 1907. Delle opere a stampa dello Spallanzani diede l'elenco ANGELO FADRONI, che nelle sue Vitae ltalorum, xix, 29, narrò anche la vita dello Scandinnesc:. La biografia tradotta e l'elenco degli scritti sono premessi al I voi. delle Opere dello Spallanzani nell'ed. della Società Tip. dei Classici italiani, Milano, 1825-1826. Questa edizione milanese in 6 voli. è tuttora la più accessibile; vi sono riportati integralmente anche i Viaggi alle Due Sicilie, la cui prima ediz. apparve a Pavia presso Baldassare Comini fra il 1792 e il 1797. Già difficilmente reperibili sono i sei volumi delle Opn-e, editi dal 1932 al 1936 dall'Hoepli di Milano. Del Viaggio in Oriente curò l'ediz. N. CAMPANINI, Torino, Bocca, 1888 (Viaggio in Oriente di Lazzaro Spallan::a,ii ordinato e compilato su i giornali di viaggio e su altri manoscritti inediti). Si ha anche una ristampa moderna con introd. e note a cura di G. DB Rossi del Saggio 6o

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LAZZARO SPALLANZANI

di osservazioni microscopicl,e, Bari, Soc. tip. ed. Barese, 1913, e un'edizioncina molto ridotta dei Viaggi alle Due Sicilie, a cura di E. BALDACCI, Milano, Gentile, 1944. Della copiosa bibliografia critica sullo Spallanzani molto riguarda più lo scienziato che lo scrittore. Si cerchino indicazioni nel voi. IV del Manuale della lett. it. di A. D'ANCONA e O. BACCI, Firenze, Barbera, 1932, nuova ed. interamente rifatta, pp. 422-24, e nel Settecento del NATALI, ed. cit., a pp. 251-52. Si veda: C. UGONI, Letteratura ital. del Sec. XVIII, voi. 1, Milano, Bemardoni, 1865; N. CAMPANINI, Storia documentata del Museo di Lazzaro Spallanzani, Bologna, Zanichelli, 1888; nel N1lniero unico pubblicato in occasione del Centenario, Bologna, Zamorani, 1899, lo scritto di N. CAMPANINI, Lazzaro Spallanzani, Voltaire e Federigo il Grande, e quello di G. FERRARI, Lazzaro Spallanzani poeta latino serio e giocoso; L. MESSEDAGLIA, Costantinopoli e i Turchi secondo Spallanzani, in «Nuova Antologia», s. v, voi. CLXV (1913); G. PIGHINI,

Viagg,'. ed escursioni scientifiche di Lazzaro Spallanzani con documenti inediti, Bologna, Cappelli, 1929 (e su questo voi. la ree. di M. ZIINO, in • Giom. stor. della lett. it. •, xcv (1930), p. 154 sgg., che contiene altre informazioni bibliografiche; P. CAPPARONI, Spallanzani, Torino, Utet, 1941. Sugli inediti (dai quali il CAMPANINI ha estratto il Viaggio a Costantinopoli e il PICHINI altre pagine di viaggio) si veda: A. CoRRADI, I mano-

scritti di Lazzaro Spallar,zani serbati nella Biblioteca Comunale di Reggio nell'Emilia, in u Rendiconti dell'Istituto lombardo", v (1872), p. 821 sgg., e A. Mozzo, I manoscritti di Lazzaro Spallanzani esistenti in Tori110, in • Memorie dell'Accad. delle Scienze», s.

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voi. XLIV (1900).

VIAGGI ALLE DUE SICILIE E IN ALCUNE PARTI DELL'APPENNINO

Introduzione Per accrescere il Museo di storia naturale dell'Università di Pavia di nuovi materiali vulcanici lo Spallanzani intraprese il suo viaggio all'Etna, alle isole Eolie e al Vesuvio nelle vacanze estive del z788; prolungando le ricerche, egli fu di ritorno a Pavia solo verso la fine dell'anno. Come al solito lo scienziato preparò minuziosamente con studi e letture questo viaggio, e, convinto che le «particolarizzate descrizioni ... f orman la base d'ogni solido sapere» e che tutto è da esplorare anche nelle minime cose, giusta la massima di Plinio «che la natura è massima nelle più menome cose», stendendo la sua relazione fu un illustratore minuzioso. « Non poche descrizioni» egli a'lJ'lJerte « troverà il lettore diffuse anzi che no; e forse sarò accusato d'esser talvolta troppo minuto. Ma ho creduto di non potere adoperare diversamente, dipendendo dalla dettagliata descrizione dei prodotti il far conoscere a qual genere di rocce appartengano, e conseguentemente quale sia l'indole particolare de' paesi vulcanici che investigava.» Né solo nelle pagine sui materiali vulcanici è questa minuzia, ma pure negli altri argomenti,' che lo scienziato via via affronta, tanto più che dopo le osservazioni dirette egli ristudiava e sperimentava con mezzi di fortuna quanto aveva visto, anche di queste esperienze dando conto al lettore. L'ambizione a comporre la bella pagina non assilla dunque lo Spallanzani, contento di conseguire piuttosto la chiarezza di un espositore tutt'altro che esoterico; ed anche quel tanto di eroico che è in quest'uomo, che per sete di conoscere non teme di passare sulle lave bollenti o in una barchetta affronta le onde di Cariddi, traspare dalla pagina per un suo intrinseco valore di fatto, non certo per un'animazione ostentata. Sempre l'abito di una severa obiettività scientifica permane, e ad esso corrisponde uno stile i cui pregi più veri sono la composta eleganza e la chiarezza. Lo Spallanzani non si vale in/atti delle comode semplificazioni di un lù,guaggio tecnico, ma tende a descrivere con parole che pure nel lettore profano suscitino immagini chiare,· e in questo a lui, che anche nel prendere a descrivere Scilla e

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Cariddi si ricorda dei versi di Omero e di Virgilt"o, la f amil-iarità con i classici servi di lezione. I medesimi caratteri c/ze nei capitoli sull'Italia meridionale e la Sicilia (I-XXXIII) si riscontrano in quelli (XXXIV-XLIV) contenenti la relazione delle escursioni compiute particolarmente nelle ferie del z789 e z790 « nei monti di Modena e Reggio intorno a cose che per la qualche analogica con le vulcaniche possono aver luogo in questo libro». Se un part,:colare si fa più rilevante qui è certa punta d'ironia sulle superstizioni del volgo. Non è più l'ironia eh' era stata arma pungente nelle mani di Galileo per polemizzare contro gli aristotelici. Lo Spallanzani scriveva per uomini di cultura consenzienti almeno sui principi, e agli errori del volgo guardava piuttosto con la sufficienza de/ti/luminista, senza peraltro sforzarsi di riuscire brillante. Merita a questo proposito d'esser letto quello che egli osserva sulla prova fatta da lui al lago V entasso nel cui centro gli alpigiani credevano che fosse un vortice tanto profondo da non potersi scandagliare. Con lo scandaglio egli misurò alla presenza di quei montanari la profondità che non superava i ventiquattro piedi; ma poi seppe che l'antico pregiudizio perdurava, e cosi commenta: « Tanto egli è vero che malgrado gli sforzi de' filosofi certe pregiudicate ed erronee opinioni egli è impossibile di wellerle dall'animo del popolo e che senza interruzione vengono tramandate alla più tarda posterità. Del che però non si dorranno, credo io, gl'investigatori della natura, sapendosi che la filosofia è stata in ogni tempo paucis contenta iudici bus.,, Negli Opuscoli sopra diversi animali, che costituiscono l' appendice dei Viaggi, lo vediamo poi intento a ricerche apparentemente più pacifiche, quasi indulgere a un geniale piacere dell'otium. Ne risulta una narrazione condotta con molta finezza, e alcuni cap,·toli con facili adattamenti nella misura potrebbero risultare eccellenti modelli di quel giornalismo, al quale anche nel nostro secolo alcuni scrittori hanno mirato come a un ideale, se non d'arte, di eletto mestiere letterario. Qui a tratti pare persino di capire che le superstizioni e le op,."nioni volgari non siano più narrate per il gusto di irridere ali' errore e di porre in più netto n'salto il vero; trapela anzi un certo piacere del colore che non stona dentro questa prosa di più schietto andamento discorsivo e familiare. Delle anguille, per esempio, uscite dall'acqua per mangiar fagioli e di quelle prese con la cenere sparsa sui sentieri che avrebbero percorso, lo scn·ttore può sorridere come di « sogni d'infermi, e fole da romanzi»; ma queste ed

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altre fole restano nella memoria del lettore per il garbo col quale sono narrate, per il fondo di vaghezza che contengono e che anche lo scienziato a suo modo avverte, non fosse altro per quel sentimento di stupore che lo tiene di fronte a tutte le parti ancora inesplorate della natura.

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MESSINA DOPO I TERREMOTI DEL 1783 1

Pervenuto ch'io fui 2 in faccia di questa città, cominciai a veder le rovine e i disastri, cui in quella fatai epoca3 andò soggetta. La curvità del porto prima era adorna pel tratto di più d'un miglio d'una fuga continuata di superbi palagi a tre piani, chiamata volgarmente la « Palazzata », abitata da mercatanti e da altre civili persone, e che formava una specie di anfiteatro del più dilettoso e più magnifico aspetto. Il piano superiore e una porzione di quel di mezzo si vedevano da un capo all'altro diroccati, non senza sfendimenti e grandi rotture nel piano inferiore, restando così senza abitatori quell'immenso fabbricato. Entrato in Messina, la vista degli oggetti mi si fece sempre più trista e spiacevole. A riserva delle strade più ample4 e più frequentate, le altre tutte erano ingombre di rimasugli di cadute fabbriche, o ammassati ai due lati, oppur tuttavia giacenti nel mezzo, e che impedivano l'attraversarle. Assaissime case ritrovansi ancora nel medesimo compassionevole stato in che furon lasciate dagli scuotimenti della terra: altre cioè interamente sprofondate ed agguagliatesi al suolo, altre per una metà rovinate, e per l'altra tenentisi in piedi, anzi in aria per le stesse rovine, che loro servivano di contrasto e puntello. Quelle poi che a gran ventura eran campate da tanto infortunio, era quasi miracolo che non rovinassero, per larghe fessure alle pareti o su gli angoli apertesi. Il Duomo si annovera fra li edifizi più fortunati. 5 Egli è spazioso, di gotica architettura, e il suo interno poco o nulla dannificato. Lo nobilitano molte colonne di granito tratte da un tempio degli antichi Greci, che una volta nel Faro esisteva, come pure elegantissime intarsiature a divisa de' più bei diaspri della Sicilia. 1. Dal cap. xxv. 2. Lo S. veniva dalle Isole Eolie e giunse o Messino, dopo una navigazione durata un giorno II tro per essersi trattenuto qualche ora nell'osservare i graniti di Melazzo, e per aver dovuto remigar sempre i marinai per mancanza di vento M. 3. Nel terremoto del febbraio 1783. 4. Eccettuate le strade più ampie. 5. Il Duomo rimase distrutto nel terremoto del 1908, e venne poi ricostruito col criterio di ricondurlo alla primitiva forma normanna.

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Lo sterminato numero delle fabbriche cadute in quel terribile tremuoto obbligò i Messinesi a rifuggire dentro a trabacche1 di legno, e già assaissime ne esistevano quando io giunsi colà. Si era però cominciato ad alzar nuove case, ma ben diverse da quelle di prima. Osservato avevano che le più elevate erano state le più bersagliate; oltracciò che nello infuriare degli scuotimenti, escite essendo dalle imposte le travi, col continuo e violento arietare2 contro le pareti, avevano fatto più rovine che gli stessi scuotimenti. Avvisarono adunque di rifabbricarsi umili abitazioni, e con l' ossatura di legno, stretta e combaciantesi in guisa che al traballar del terreno tutta quanta concepisse il movimento. È chiaro che tale artificio nella disgrazia di altri spaventosi tremuoti doveva giovarli. Quantunque fosse già presso il sesto anno da che avvenuto era quell'orribil disastro, nell'animo de' Messinesi continuava tuttora un resto di sbigottimento, di costernazione, e dirò ancora di avvilimento e di stupidezza: conseguenze che sogliono accompagnare le grandi paure. Avevano presentissime alla memoria le circostanze tutte di quella terribile epoca; né io poteva ascoltarle senza raccapriccio e dolore. Quell'antichissima e tante volte malmenata città, rovinata non fu da un solo, ma da più terremoti, che con successive scosse si estesero dal giorno 5 fino al giorno 7 di febbraio del 1783. 3 II più rovinoso fu quello dei 5; ma corso essendo l'intervallo di alquanti minuti fra la prima scossa e la seconda, ebber campo i cittadini di allontanarsi dagli edifici e di mettersi in aperta pianura. Quindi la mortalità non fu proporzionata alla quantità delle rovine, giacché i morti non oltrepassarono il numero di ottocento. In una dotta Memoria4 sopra i tremuoti della parte della Calabria che guarda Messina, nel medesimo tempo accaduti, è scritto che innanzi di sentirsi la prima scossa, i cani dentro la città si Baracche. 2. Battere come gli arieti, le catapulte usate dagli antichi Romani per smantellare le mura delle città nemiche. 3. « Trascorso era il giorno cinque febbraio di pochi minuti oltre il mezzodl, quando udissi improvvisamente nelle più profonde viscere della terra un orrendo clamore, un momento dopo la terra stessa orribilmente tremò.» Così il Botta, che nel lib. 49° della Storia d'Italia descrive diffusamente il terremoto di Messina. 4. In ,ma dotta Memon'a ecc. Il Botta invece fa larga parte alla descrizione della paura che prese gli animali nell'imminenza del terremoto e delle perturbazioni dell'aria e del mare, fondandosi su memorie accademiche. 1.

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diedero ad urlare furiosamente, a tal che per ordine pubblico vennero uccisi. Addomandatone que' paesani, mi attestarono l'insussistenza del fatto, e che nessun altro fenomeno antivenne quel flagello, se non il fuggire dei lari, 1 e di qualche altro uccello, che dal mare passarono alle vicine montagne, siccome han per costume nella imminenza delle tempeste. Un violentissimo strepito, sembiante a quello di più carra precipitosamente discorrenti sopra d'un ponte selciato, ne fu il principio contemporaneamente ad una densa nebbia sollevatasi dalla Calabria, che fu il centro del terremoto; e la sua propagazione fu osservata sensibilmente, mercé il successivo atterramento delle fabbriche, dalla punta del Faro fin dentro a Messina; quasi da quella punta preso avesse fuoco una mina continuata lungo la spiaggia, ed estesasi nell'interiore della città. L'urto fu violentissimo, e il moto de' più irregolari. In nessuna parte fu osservato scoppiar fuoco, né scintille. Il suolo attorno alla spiaggia si aprì in fenditure alla medesima parallele, e queste furono alt.resì osservate in tutte le colline sopra di Messina. E quantunque in qualche luogo durassero più d'un mese, non lasciò però misurarle lo spavento e l'abbattimento, di che tutti eran compresi. Dopo la prima scossa fattasi sentire, siccome abbiam detto, verso il mezzogiorno de' 5 febbraio, la terra non facea che tremare, or con movimento leggiero, ora violento, quando alle ore 8 dell'entrante notte imperversò un orribile scuotimento, il quale se fu fatale agli Scillani,2 fini di rovinare il restante delle fabbriche messinesi. Né lasciarono i tremuoti di esercitare la lor forza fino al giorno 7 del medesimo mese, in cui verso le ore 22 se ne provò un violentissimo, che le rovinate fabbriche agguagliò al suolo. Da quel tempo in poi sino al mio arrivo in Messina continuarono a farsi sentire i tremuoti, ma gradatamente rallentando quasi in ragione della lontananza di quell'epoca tanto fatale. 3 E nel 1789 e 1790 non se ne sono sentiti colà se non quattro o cinque debolis1. Uccelli di mare. 2. Gli abitanti di ScilJa, sul lido calnbrese, in provincia di Reggio. 3. Né lasciarono i trmmoti . .• epoca tanto fatale. • Non fu breve, né fugace la cagione dcll 'orrenda catastrofe; perciocché scossesi e tremò la terra colla medesima veemenza e fremito ai sette di febbraio, ai ventisei ed ai ventotto; e finalmente ai ventotto di marzo una violentissima scossa avverti i Calabresi che i loro spaventi e dolori non erano ancora giunti al fine, e che per iscampare dalla morte su quel suolo infido altro rimedio non v'era che quello di fuggire, ed assai lontano fuggire, posciaché l'ira del cielo sopra di loro non era ancora esausta.» (Botta, op. cit., lib. 49°).

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simi, e che forse, in altre contrade meno sospette ed a menti meno prevenute, non si sarebbero appresi per tremuoti. 1 Il danno fu immenso, e difficilmente pub calcolarsi. Considerando le sole fabbriche, pub dirsi francamente che di quattro parti due rimasero al suolo uguagliate, una mezzo rovinata ed un'altra gravemente danneggiata. In quest'ultima furono le case situate sul pendìo delle colline, che hanno per base il granito, come a miglior luogo vedremo al cap. XXIX. Le più rovinate, anzi le prime a cadere, furon quelle che sul piano esistevano, e singolarmente su la curvità del porto sopra un suolo meno stabile, perché formato dalle alluvioni e dalle disposizioni del mare. Il molo, che accompagnava il porto e che oltre a un miglio si estendeva in lunghezza, e che quanto era ameno per la vista altrettanto riesciva delizioso pei passeggi, sprofondassi entro il mare in maniera che di lui non lascib un vestigio solo onde potersi dire, mostrandolo: « qui fu». Fra gli edifizi che rovinarono, i più considerabili furono la già ricordata Palazzata, detta ancora il Teatro marittimo, il palazzo del Re, quello del Senato d'una maestosa architettura, la gran Loggia de' Negozianti, il famoso Collegio degli Studi col gran tempio annesso, la chiesa e casa professa degli ex-Gesuiti, il Palazzo Arcivescovile con la Basilica di S. Niccolb, il Seminario de' cherici, la Sala de' Tribunali, la chiesa dell'Annunziata de' Teatini, quella de' Carmelitani e del Priorato de' Gerosolimitani, e molte altre fabbriche pubbliche, cosi sacre che profane, senza parlar de' palagi de' magnati e de' facoltosi cittadini, tutti con vaga architettura costrutti. 1. Non è però che ne' seguenti anni non sien tornati a impaurire que' popoli. Ecco quanto da Messina mi scriveva l'abate Grano li II maggio 1792: a Ieri abbiamo avuto un'inticra giornata piena, per cosi dire, di tremuoti. Se ne sono contati fino a trenta, ma quasi tutti ]eggieri e senza nessun danno•· Colgo con vero piacere l'oppornmità di questo luogo per rendere dinanzi al pubblico la meritata giustizia e per attestare la mia viva riconoscenza a questo chiarissimo mio amico, nobile messinese ora nominato, che più d,una volta dovrò nominare dappoi. Esercitatissimo siccome egli è negli studi della fisico e della storia nnturale, volle accompagnarmi nelle diverse mie escursioni nei contorni della sua patria, e lo dotta sua compagnia mi fu molto proficua. Né solamente mi giovò vicino, ma eziandio assente, giacché per secondar le mie brame si compiacque fornirmi diverse notizie locali che potevano rendere più interessanti i miei racconti relativi a quel paese; e la suo diligenza e circospezione nell'esaminar la natura e il sincero amore per la ricerca del vero non lasciano dubitar punto della veracità di siffatte notizie (n. d. A.).

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Non possono calcolarsi tampoco i danni sofferti per la distruzione di tanti monumenti delle Arti, delle Biblioteche e delle Gallerie di pitture di cui Messina era adorna, essendovi altre volte sommamente fiorita quest'arte imitatrice. 1 Egualmente incalcolabile si è la perdita degli averi rimasti sotto le rovine o inceneriti dagl'incendi che dietro al terremoto si appiccarono in diverse parti della città. Aggiungansi le spese per la costruzione delle trabacche e delle capanne necessarie per accogliere la popolazione e mettere al coperto l'avanzo de' mobili e delle merci sottratte alle rovine, le quali spese furono grandissime e somme, per l'altissimo prezzo a cui in un istante montarono tutti i materiali di costruzione ed il salario de' fabbricatori e degli altri artigiani. Nel mezzo di tante perdite e di tante spese, che dovevano necessariamente impoverire il Paese, non si sentì il fallimento d'un sol negoziante: il che coronerà d'eterne lodi Messina, non essendovi presso i negozianti di mala fede circostanza apparentemente più favorevole per accusare un fallimento, quanto un tremuoto. Il re delle due Sicilie non ha ommesso nulla per far rifiorire Messina.2 L'ha sollevata da tutti i pubblici aggravi; le ha erogato del suo parecchie considerabili somme, accordato porto franco, giurisdizione di magistrati, ecc. Tuttavolta le immense perdite, non ostante tutti i soccorsi, hanno bisogno di gran tempo per ripararsi. Le fabbriche si sono in seguito considerabilmente accresciute e perfezionate, di modo che possiam dire essersi presentemente rifabbricata più della metà del Paese: quindi la popolazione ha abbandonate in proporzione le capanne e si è ritirata in città. Questo succinto racconto degli ultimi formidabili tremuoti di Messina e delle loro conseguenze, ho creduto non dovere esser discaro alla dotta curiosità dei lettori. Passiamo adesso a narrare le cose da poi osservate nel famoso suo Stretto e ne' suoi montuosi contorni, parendoci le une e le altre di commemorazione degnissime.

Secondo l'idea tradizionale, è la pittura. 2. Il re delle Dr1e Sicilie ..• Messina. Il Botta dopo gli orrori del terremoto descrive come si lavorò per riparare a tanti danni, e informa come dalla pestilenza che sopravvenne Messina restò immune « per le prudenti e forti deliberazioni del viceré di Sicilia Domenico Caracciolo » (op. cit., lib. 49°). I.

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SCILLA E CARIDDP

Scilla e Cariddi, secondo il favoleggiar de' poeti, sono due voracissimi mostri marini, che tengon mai sempre aperte le spaventose lor bocche per inghiottire i miseri naviganti, l'uno in agguato al destro, l'altro al sinistro capo dello Stretto di Messina, là dove l'Italia e la Sicilia si affrontano. Dextrum Scylla latus, laevum implacata Charybdis obsidet, atque imo barathri ter gurgite vastos sorbet, in abruptum fluctus rursusque sub auras erigit alternos, d sidera verberat unda. At Scyllam caecis cohibet spelunca latebris ora exertantem et naves in saxa trahentem. Prima hominis facies, et pulchro pectore tlÌTgo pube tenus, postrema immani corpore pistrix delphinum caudas utero commissa luporum. 2

Io non ho avuta difficoltà di valermi de' versi d'un poeta in un libro consecrato alle ricerche della verità, né l'avrò tampoco di produrre or quelli di un altro poeta; conciossiacché di mezzo a queste esagerate e fantastiche descrizioni di Scilla e di Cariddi vi si riscontri il suo vero, d'altronde porgono argomento a interessanti ricerche. Creduto avrei però di meritare le maggiori riprensioni, se trovandomi alle sponde dello Stretto messinese non avessi cercato di accostarmi a questi due luoghi, cotanto risaputi e cotanto celebri per gli stessi naufragi. Presi prima le mosse su d'un battello alla volta di Scilla. Gli è questo un altissimo scoglio da Messina distante 12 miglia, che cade a piombo sul lido della Calabria, al di là del quale siede la picciola città che porta cotal nome. 3 Quan1. Dal cap. XXVI. 2. Virgilio, Eneide, 111 1 420-428: • Chiude il lato destro Scilla, il sinistro l'insaziabile Cariddi, e dal gorgo profondo come baratro tre volte afferra nel suo abisso le onde e altrettante le solleva al cielo alternamente e sferza con le acque gli astri. Una spelonca invece chiude nelle sue cieche latebre Scilla che sporge le sue bocche e trascina le navi tra gli scogli. La parte superiore della sua persona ha aspetto umano ed è fonciulla dal bel petto sino al ventre; la rimanente è mostro immane che attacca code di delfini a un \'entre cinto di lupi.» Secondo il mito virgiliano Cariddi era una figlia di Nettuno che venne trasformata in mostro da Giove per aver divorato i buoi di Ercole; Scilla, altra figlia di Nettuno, amata da Glauco, per rancore fu da questo mutata in scoglio o in mostro marino. 3. Scilla, sul litorale calabrese.

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tunque non facesse quasi vento, pure a due miglia dallo scoglio cominciai ad udire un fremere, un tuonare, e quasi un confuso latrar di cani; e fattomi più dappresso, non penai a scoprirne la verace cagione. Cotesto scoglio nella inferior parte apresi in più caverne, una delle quali è spaziosissima, da' Scillani « Dragara » denominata. Le onde pertanto agitate, con empito entrando dentro di esse, e per attorno frangendosi, riversandosi, confondendosi, e levando alto spruzzi e bolle schiumose, creano que' moltiplici svarianti fragori. Mi accorsi allora quanto acconciamente Omero, e dopo lui Virgilio, volendo animar Scilla e ritrarla al naturale, la rappresentino insidiosa nella oscurità di una vasta caverna, quegli attorniata i fianchi da rabbiosi latranti mastini, questi dai lupi, per amplificarne l'orrore: "Ev&a a·tvt :EY.uÀÀ'Yl v1xle1. aetvòv ÀeÀa.Y.uta.· 't~ç; 71'to1. cprov11 µèv 15a'Yl aY.i>Àaxo, veoytÀii, ylyncu. 1

Ma il greco poeta mettendo sott'occhi lo scoglio albergatore di Scilla, meglio del latino finisce il quadro, là ove cel rappresenta di tanta elevatezza, che ha sempre il capo coronato di nubi, ed è sì ripido, sì liscio, sì sfuggevole, che a niun mortale conceduto sarebbe il salirlo, eziandio se di venti mani e di venti piedi corredato egli fosse : Ol 6à auoo 0X07tEÀOl, b µèv oùpa.vòv eòpòv btci\lEL ò~El!J xopucprJ· n(.f>É,,'YJ at µtv ciµ.cptBtB'rJxE xua'ilÉ'Yl" 'tÒ µèv o& n:o't· !pooet, où8é n:o't· at&pYJ xdvou lxeL xopucp~v, ou't • !v -&tpe1. o&'t • h 6mi>pt,• où8è xsv d;µ.~al'Y) ~po'tò, ch~p oùl} ' !1t1.~c:tl'Y1, où~ · st ol xetpt, u hlxoat xa.l 1t6~e, etE"' 1thp"f1 ya.p Àl' !a'tl n:ept~ea't~ ,hxura. 2

Tale, son già tremila anni, o in quel torno, appariva lo scoglio di Scilla, secondo le osservazioni di Omero, e tale oggigiorno apparisce né più né meno. Omero, Odissea, xn, 85-86: a Dentro vi abita Scilla che orribilmente urla, la cui voce è quale di cagnolina neonata.» 2. Omero, Odissea, xn, 73-79: « Poi vi sono i due scogli: l'uno raggiunge J'ampio cielo con l'acuta cima, e una nube lo avvolge fosca; non mai si dissipa, e mai il cielo sereno non tiene la cima di quello scoglio, né in estate né in autunno. Nessun uomo mortale vi potrebbe salire e non vi potrebbe camminare, neppure se avesse venti braccia e venti piedi; poiché la roccia è liscia, come se fosse accuratamente pulita. » I.

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Tanta esattezza in questo veracemente ,, primo pittor delle memorie antiche», 1 da illuminati viaggiatori in altri suoi racconti notata, prova mirabilmente che il pelo2 dell'acque del mare era ivi in quel tempo a un di presso alla medesima altezza in cui lo veggiamo al presente; giacché se d'allora in poi di alcune pertiche3 si fosse il mare abbassato, il piede di detto scoglio, che secondo le mie osservazioni non pesca molto profondo, sarebbe restato in secco. E questo io lo reputo uno dei forti argomenti, che i più notabili abbassamenti del mare sono anteriori a quell'epoca. Questa è la posizione e la natura di Scilla. Veggiamone ora i pericoli. Quantunque la marea nell'ampiezza del Mediterraneo sia quasi insensibile, ella è però fortissima nello Stretto di Messina a motivo delle sue angustie, ed è regolata come altrove dalle consuete periodiche elevazioni e depressioni dell'acque.4 Ove il flusso o vogliam dir la corrente sia accompagnata da vento che soffi a seconda di lei, non hanno di che temere i bastimenti, poiché o non entrano nello Stretto se queste due forze cospiranti sieno ad essi contrarie, e però in vicinanza danno fondo; o se sono favorevoli, a gonfie vele vi entrano, ed il corrono con tanta rapidità ch'egli è un andar su per l'acque a volo. Ma allorché la corrente vada dal sud al nord, e soffi a un tempo impetuosamente libeccio, la nave che col vento in poppa si avvisava di agevolmente superare lo Stretto, nell'affacciarsi alt>imboccatura rimane sottopresa dall'opposta corrente, e quindi combattuta da due forze in parte contrarie, per cui è necessitata a rompere fatalmente contro lo scoglio di Scilla, o a ferir di colpo nelle sirti5 vicine, se a tempo il piloto non chiegga il bisognevol soccorso. Ché di vero, ad ovviare a siffatti fortunosi accidenti, stanno giorno e notte lungo la spiaggia di Messina 24 de' più arditi, più robusti e più sperimentati marinai, che allo sparo del cannone del bastimento chiedente aiuto tosto vi accorrono, e ad una delle loro agili barche il rimurchiano. E siccome la corrente, dove è più forte, non è mai distesa per l'in-

t

definizione che di Omero dà il Petrarca nel Trionfo della Fama, 2. Il livello. 3. La pertica, oltre che di superficie, era misura di lunghezza, varia nei vari paesi, tra i m. 3,50 e i 5. 4. I fenomeni delle correnti dello Stretto di Messina sono determinati dall'alta e bassa marea, oltre che dalla tendenza a livellarsi dei bacini ionico e tirrenico e da fenomeni meteorologici. Si dànno cosi, come scrive lo S. le due correnti denominate rema montante, da sud a nord, e rema scendente, da nord a sud. s. Banchi arenosi. 1. la 111 1 15.

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tiera lunghezza dello Stretto, ma serpeggia qua e là con più torcimenti e meandri, sanno eglino destramente schifarli, 1 e a salvamento condurre il naviglio straniero. Che se il piloto che ne ha il governo, alla maestria della sua arte affidato disprezzi cotesti soccorsi o non li curi, per quanto prode e sperimentato egli sia corre il maggior pericolo di naufragare. In quegli stemperati travolgimenti del mare, in quel bollir d, onde e avvolgersi in velocissimi giri per la violentissima corrente al nord, e pel contrariante libeccio che addosso le precipita il mare, è inutile il gettare lo scandaglio per indagare l'altezza del fondo, dove l'impeto della corrente seco ne porta pressoché a galla il piombino. Le gomone rinforzate, quantunque grosse il giro di molti piedi, a guisa di sottili cordicelle si spezzano. Le due e le tre ancore ivi gettate, per esserne scoglioso il fondo, o non aggrappano punto o, aggrappando, il rapidissimo correr dell'onde tostamente le sferra. Ogni altro espediente ed appiglio suggeriti dall'arte più raffinata del navigare, e che in altre parti del Mediterraneo, ed anche del terribile Oceano, atti sarebbero a trar di pericolo una nave in tempesta, riescono inutili in questo Stretto, spaventosamente rotto in fortuna. L'unico salutar mezzo per non essere dall'ira del vento e dei fiotti cacciati contro gli ammontati scogli di Scilla, o per non incagliare ne' circostanti renai,z si è quello adunque di valersi dell'opera e della bravura de, messinesi marinai. In prova del narrato fin qui, potrei recare in mezzo più d'un caso mentovatomi da persone fededegne di Messina, se testimone di veduta non ne fossi stato io stesso in un bastimento di Marsiglia, che carico di mercantanzie entrato era un giorno nello Stretto per la bocca che guarda il nord, allorché io mi trovava su l'altura di una di quelle colline che guardano il mare, mercé cui l'avvenimento che sono ora per riferire era appunto sotto a' miei occhi. Per essere cospiranti la corrente e un vento aquilonare, che allora soffiava gagliardo, quel legno a piene vele viaggiava felicemente verso il porto, e corso avea già la metà dello Stretto, quando tutto improvviso offuscatosi di dense nuvole il cielo sorge un gruppo di venti che in un batter di ciglia, rotta la direzione della corrente, sconvolge il mare e il mette sossopra; e appena i marinai hanno il tempo di ammainare le vele, e a null'altro più badano che a schermirsi dai rovinosi frangenti che si riversano addosso alla sfor1.

Evitarli.

2.

Banchi di sabbia.

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tunata lor nave, per ogni lato assediata e combattuta in quella gran traversia. O seguisser l'usanza praticata in mare di chieder soccorso agli altri bastimenti con lo sparo del. cannone ove per tempesta prossimo sia il pericolo di naufragare, o non ignorassero il lodevolissimo costume de' Messinesi, non indugiarono punto que' tribolati naviganti a fare col cannone due spari; né medesimamente tardò a prestar loro il richiesto aiuto una delle barche a tale uopo destinate che, fattasi rimurchio al dibattuto naviglio, mise ogni studio per condurlo a salvamento nel porto. Se mi raccapricciai al vedere quegli sventurati, che ad ogni istante temeva non venisser dall'onde ingoiati, furon per me uno spettacolo di maraviglia e diletto la bravura e la maestria degli accorsi Messinesi nel guidar sicuro attraverso di un mare sì procelloso il legno loro affidato. Sottrarsi al mortai filo della corrente, dare di tanto in tanto leggermente alla banda, torcere quando a poggia e quando ad orza 1 il timone, abbassar la vela, avvilupparla in parte, spiegarla siccome ringargliadiva il vento o allentava, eludere gl'impetuosi scontri de' fiotti, altri fendendone coll'animosamente investirli di punta, ad altri voltando cautamente il fianco sì che dall'urto smorzata ne venisse la foga: questi ed altri artifici ch'io esprimere non saprei furono gli adoperati da que' valenti marinai; e per tal guisa in quella orribil fortuna di venti e di mare, contrastando e cedendo, trassero a salvezza il pericolante naviglio. Ma di Scilla assai : passiamo ora a ragionar di Cariddi. Si osserva ella dentro allo Stretto fra lo spazio del mare, interposto ad una lingua di terra nel lido nomata « Punta secca», e ad un'altra punta, dove si solleva la torre chiamata « Lanterna», perché alla sommità è fornita d'un fanale che col lume serve nell'ore notturne di guida a' naviganti che entrano in porto. Consultando gli Autori che ne hanno scritto, trovo che quasi tutti la suppongono un vortice. Il primo ad affermarlo è Omero, rappresentando Cariddi quel mostro che tre volte al giorno assorbisce l'acqua e tre volte a vicenda la rigetta • • • • atei Xcipu~a1., d:vappot~asr µiÀaria, all'udire la nota voce di richiamo si spiccano da altissimo luogo dove sono appena all'occhio nostro visibili, e con discendenti e rientranti ruote si portan prestissimo sul pugno di chi li governa, per nulla paventando la presenza di più persone spettatrici, essendo io stato alcuna volta attorniato da più di dieci nell'atto che chiamandoli discendevano a me, e dalle mie mani prendevano il cibo. Tanta confidenza però meco usata non andò a lungo. È indubitabile che le loro visite fattemi il mattino e la sera provenivano dal dover soddisfare ad un bisogno di prima necessità quale si è la fame, e che essendo uccelli per natura salvatichi e abborrenti il consorzio degli uomini, non me le avrebbero fatte se per loro stessi saputo avessero procacciarsi l'alimento. Fosse che da un quarto falco, per alcuni giorni loro datosi a compagno, imparassero a predar gli uccelli, fosse che lo apprendessero dal proprio istinto divenuto a poco a poco più svegliato e più industrioso, il vero è che in progresso di tempo cominciarono a diradar le visite e da ultimo più non si videro alle mie finestre, per quanto io mi affannassi a chiamarli. Solamente restò in loro un debile avanzo di famigliarità3 nel dormire ogni notte sulla quercia poco distante dalla mia abitazione, e dal non ributtarsi dalla vicina presenza degli uomini. Sebbene questo avanzo venne anch'esso in seguito a cancellarsi, acquistando cosi que' falchi una compiuta salvatichezza. Tanto egli è vero che la natura negli animali non perde mai i suoi antichi diritti, e sa riacquistarli nello stato d'indipendenza e di libertà. 4 I. II Cremani, nato ad Arezzo nel 1748 e morto a Firenze nel 1830, fu uno dei maggiori studiosi di diritto penale del '700; tenne la cattedra di diritto penale a Pavia dal 1775 al 1796. 2. Nota, conosciuta. 3. Un residuo delle loro abitudini di animali addomesticati. 4. Non trovando nomenclata né descritta dal Linneo, dal Buffon, né da altri la ricordata specie del falco, non sarà inopportuno ch'io la divisi netta presente annotazione. Il capo è bruno, spruzzato di macchiette giallicce, col collare giallo-cinerino, da due nere macchie longitudinali interrotto. La cera e il rostro azzurrognoli, l'occhio vivo nero grande, il lembo delle palpebre gialletto. Il corpo al di sopra bruno, al di sotto giallo aperto con nereggianti macchie allungate. 11 groppone rossigno chiaro, i femorali picchiettati di nero e di gialligno. Le remigatrici nereggianti con fascioline trasversali giallorossigne. Le rettrici 12, brune per di sopra e giallo bianchicce per di sotto,

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CIVETTE E CHIU 1

Ma per ritornare alla dimessa storia della -nostra strige, debbo ora far parole d'una terza nidiata di altri sei individui, ad oggetto di2 venire sempre più a lume del suo istinto, delle sue abitudini, e con deliberazione di tenerli anche d'inverno, per vedere quanto in essi accadeva in una stagione in cui si trovan lontani dal nostro clima. Nella stanza che li custodiva, vi tenni a bella posta cinque individui della strige passerina, 3 o come noi diciamo« civetta», e questi pure volli averli dalla prima peluria. Queste due strigi poco differiscon fra loro nel colore e nella grossezza, a tal che vedute davvicino si crederebbero della medesima specie. Osservate però sott'occhio, le differenze essenziali sono troppo marcate, troppo decise. La civetta è senza auricole, il capo anzi che d'esser colmo per di sopra, come nei chiuini,4 èappianato, l'iride dell'occhio d'un giallo men vivo, il rostro giallo-cupo, ed un piumino corto e fino copre tutta la gamba fino alla radice dell'unghie, quando ne' chiuini sopravveste il tarso soltanto. Toccar voglio un altro divario, e questo è che le civette quando mangiano strappano la carne col rostro alla maniera de' falchi e immediatamente la ingoiano, quando la nostra strige, strappata che l'abbia, la prende cogli artigli d'un piede, e valendosene come di mano, la porta alla bocca, come è proprio de' pappagalli. terminate con lista breve giallo-pallida. I piedi nudi, gialli, e I'unghie nere. Questo folco ha la grossezza d'un colombo torraiuolo, con l'ali però considerabilmente più lunghe; le quali, quando è in riposo, vanno al di sotto della coda e restano all'estremità biforcute. Il suo volo, come a lui piace, ora è facile ed agitato, ora velocissimo. Compiacesi di salire altissimo, e a guisa de' nibbi di starvi ore intiere e, quando soffia il vento, di luttarvi contro, rimanendo immobile con l'ali lievemente tremolanti. Ignoro se nel nostro clima sia stazionario o di passaggio. Posso affermare soltanto che vi ha nidificato, e che la nidiata era di tre falconcelli. Questi fanno sentire due voci diverse: una che è viva affrettata penetrante allungata, e che mandano fuori a riprese, singolarmente la mattina e verso la sera, e quando ancora vengono da timore soprappresi; l'altra che è meno viva, ma più allungata e più ripetuta, è sempre querula, e questa udivasi quasi del continuo ove mi addimandavano il cibo. Quindi volendosi dare un nome a questo falco, in grazia della seconda voce potrebbe chiamarsi querulus, e definirsi secondo la datane descrizione: Falco cera rostroque caerulescentibus, pedibus nudis jlm..is, collari flavo-cinereo, maculis duab11s ni"gris, corpore supra Jusco, rectricibus s11pra Jerrugine,"s apice flavo pallidis D (n. d. A.). 1. Continuazione del brano precedente. 2. Al fine di . • . 3. Nel linguaggio scientifico resta il termine 11 strigidi II per indicare la famiglia dei rapaci notturni che comprende civette, gufi, barb::iginnni, ecc. 4. Più comunemente in Toscana si chiamano chiù; sono gli assiuoli.

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Ma l'istinto di questi due uccelli è pur diversissimo. Quanto facilmente si addiinesticano i chiuini, altrettanto è difficile, per non dire impossibile, l'ottenerlo dalle civette. Le cinque che aveva mettevano appena da principio qualche filo di peluria attorno al corpo, tanto erano giovinissime. Aprivano allora volontariamente il rostro quando loro porgeva il cibo, ma cresciute alquanto in età, e rese abili se non al volare almeno al correre, ricusavano dalle mie mani l'imbeccata, e soltanto lasciando io cadere su la terra la carne, la prendevano, e se vi era nella stanza qualche nascondiglio vi accorrevano tostamente, per trangugiarla non vedute. Cercando io di prenderle a viva forza con la mano, rado era che non mi si avventassero per mordermi; e se erano sul suolo, si rovesciavan supine, ed allungavan le gambe e il capo per ferirmi coll'ugne e col rostro. Cinque, come dissi, erano le civette, e sei li chiuini, ma una mattina di questi ne vidi cinque solamente, non ostante che chiusa rimanesse sempre la camera. In luogo del sesto mirai in un angolo le gambe e la punta dell'ali, e però inferii che questo individuo fosse stato divorato, e il sospetto mio cadde sopra le civette, dal sapere che danno la caccia ai piccioli uccelli. Né m'ingannai, imperocché verso le ore due della notte seguente entrato essendo nella stanza, trovai una civetta addosso d'un chiuino che aveva ucciso, e che attualmente mangiava. Né potea dirsi che fosse stata necessitata dalla fame, avendo carne in quel luogo a suo piacimento. Per non vedermi adunque mancare gli altri quattro chiuini, di che voleva far uso per novelle osservazioni, deliberai di chiudere le civette in una gabbia. Ma quale fu la sorpresa mia dal trovarne una dopo due giorni consunta a segno che più di lei non restavano che le ali, il rostro, e i piedi, non ostanteché giammai non lasciassi loro mancare il cibo. Conobbi adunque quanto questa strige, malgrado la sua picciolezza, sia di genio crudelmente feroce e conseguentemente lontano da quello dell'altra strige, che non sa prendersela che contro picciolissimi animaletti. Pure il divario nella grossezza del corpo e conseguentemente nella forza non è molto, e gli artigli ed il rostro sono quinci e quindi presso a poco gli stessi. Ma non è la forza precisamente, non l'armatura, è il coraggio fisico e l'arditezza, che sovente decidono della superiorità negli animali. Quale uccelletto più picciolo, più inerme, e in apparenza più da poco che l'americano colibrì (trochilus), che non usa del sottilissimo ro-

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stro che per suggere a guisa dell'api il miele de' fiori? Pure sappiamo esservene alcune specie sl ardimentose che furiosamente si lanciano addosso ad uccelli venti volte più grossi di loro, ed afferratili co' piedi e tormentatili col beccuccio, gli obbligano a darsi ad una fuga precipitosa. Un esempio molto analogo lo abbiamo nei nostri lanieri 1 (lanius) che arditamente attaccano le ghiandaie (c. glandarius), le gazze (c. pi.ca) ed altri più grandi volatili. Sappiamo esservi de' falchi niente più grossi d'un merlo. Quanto adunque pel volume del corpo, per la forza, per l'armatura del rostro e degli artigli vengono essi superati dai nibbi (/. milvus), dai buteoni2 (/. buteo)? Pure essi falchi attaccano ed uccidono uccelli di corporatura grandemente maggiore di loro, quando i buteoni ed i nibbi si pascono di carne morta, e tutto al più prendono lucertole e piccole serpi. Nelle civette conviene dunque supporre un innato ardimento che assolutamente manca nella strige di che adombriamo la storia. Opinano alcuni dottissimi naturalisti che gli uccelli chiamati notturni debbano piuttosto denominarsi uccelli di crepuscolo, pensando essi che non ci veggano nelle assolute tenebre, e conseguentemente a notte innoltrata e oscurissima. Questa opinione, plausibile sì, ma senza prove, meritava d'esser discussa, ed i chiuini così bene addimesticati me ne fornivano l'opportunità. Fra l'altre testimonianze di famigliarità che meco usavano, dissi già che avevano quella di volare su la mia mano per prendere il cibo. Volli adunque primamente sperimentare se di notte il facevano in una stanza, il cui chiarore emulasse il lume crepuscolare per la fiamma d'una candela per di fuori avvicinata ad un sottile pertugio della porta, e trovai che sì. Ma tolto dalla stanza ogni lume io aveva un bell'invitarli con la mia voce ad accostarsi a me: mi rispondevano col grido di appello, ad ogni momento lo ripetevano, senza però mai dare un passo o sulla terra o nell'aria, per quanto dalla fame ne venissero stimolati. In quel mezzo tenebroso questi uccelli non discernevano adunque i circostanti oggetti. Oltre al venire a prendere i pezzetti di carne fra le mia dita, li prendevano anche su d'una tavola quantunque volte ve li gettava: e sì il facevano ancora in quella specie di lume crepuscolare, ma non già nella piena oscurità, che anzi posti da me allora su la tavola stessa presso la carne, non la toccavano punto, segno ben 1.

Specie di falchi.

2.

Uccelli rapaci, le poiane e i loro affini.

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chiaro che non la vedevano. Questa era anche una prova del debolissimo loro odorato, altrimenti con la scorta di esso l'avrebber trovata.

Quantunque sieno queste prove decisive, che i chiuini non ci veggono nella totale oscurità, pure riputai bene di avvalorarle con le seguenti osservazioni. Le finestre della stanza in cui dimoravano, non chiudevano in modo che venisse esclusa ogni luce esteriore. Quindi allorché di notte risplendeva la luna, l'interiore della stanza non era mai interamente abbuiato. E allora i chiuini svolazzavano qua e là dentro di essa; e più sovente ancora quando nella sua pienezza risplendeva questo pianeta. Ne aveva io una irrefragabile testimonianza di udito nella camera contigua dove dormiva, allora quando nell'ore notturne restava svegliato. Per l'opposito nessun rumore feriva il mio orecchio nelle notti dalla luna non punto schiarite. Nel principio della notte, dopo di averli a lume di candela alimentati, li metteva talvolta a bella posta sul nudo pavimento di una stanza. Se allora prontamente levava il lume, e con esso io ritornava nella stanza innanzi che pungesse l'alba del giorno vegnente, i chiuini non eran mai dove precedentemente lasciati gli aveva, ma chi su delle seggiole, chi in cima di alcuni legni che dal suolo si alzavano, chi sopra d'un alto cornicione che sporgeva dalle pareti. Ma non lucendo la luna tutti seguitavan a restare sul pavimento ed in quel sito medesimo dove la precedente sera io gli aveva posti. Egli è adunque evidente che, rimossa l'ardente candela nelle notti senza luna, restavano pienamente al buio come restiam noi, né sapendo ove dirigere i passi o il volo, rimanevano ivi stesso dove precedentemente posti gli aveva. Porrò fine a questo genere di osservazioni con una curiosa e singolare, che sempre più conferma la mia asserzione. Quasi nel momento istesso che un chiuino di notte preso aveva dalle mie mani un boccone di carne e a volo ne partiva, un altro spiccossi dal cornicione per venire a me. Il caso portò che il primo chiuino urtasse con l'ali nella fiamma della candela e la spegnesse. Lo spegnersi di essa e il piombare a terra del secondo chiuino fu un punto solo. Chi non vede da questi fatti che la luce è indispensabile per dirigere il volo di questi uccelli ? Sebbene non ogni luce è bastante. Può esser tale che a noi dia a conoscere di non essere avvolti da totale oscurità, senza che sia

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sufficiente perché questi animali si commettano al volo. Più d'una volta nottetempo sono entrato nella loro stanza senza candela, quando non risplendeva la luna ma per la serenità era però di stelle brillante il cielo. Un barlume quanto mai debolissimo a vero dire, pure a' miei occhi tanto o quanto sensibile, faceva ch'io m'accorgessi non esser quel luogo interamente caliginoso. In cotal barlume rispondevano alla mia voce i chiuini col grido di appello, lo andavano ripetendo, ma senza mai partire di luogo. Aprendo le finestre faceva che la luce delle stelle entrasse liberamente nella stanza, dove prima non vi entrava che per alcune fessure. Quel1'accresciuto barlume quantunque a me né ad altri che faceva entrar nella stanza bastante non fosse per vedere i diversi corpi quivi esistenti, lo era però ai chiuini che, lasciando i siti dov'erano prima, volavano sul mio pugno a prendere il cibo, poi, fatto uno o più giri nel vano della stanza, si posavano leggiermente sul cornicione. Questa osservazione fatta in luogo chiuso m'invaghì di ripeterla e di variarla nell'aperto, cioè in un giardino alla mia casa poco distante, non temendo io non mi fuggissero questi uccelli, troppo avendoli resi con me famigliari. Li metteva sopl'a i bassi rami di un albero, poi me ne allontanava a cento piedi all'incirca, e col noto fischio li chiamava. S'intende sempre, in questi tentativi e nei precedenti, che i chiuini avessero fame, altrimenti ancora che appellati ricusavano di venire o lo facevano con difficoltà, quantunque non cercassero di fuggire. Eccone pertanto i risultati. Lu. cendo la luna non è a dire se erano pronti a spiccarsi dall'albero su cui posavano ed a volare o sulle mie spalle o sul capo o sopra la mano, ed a prendere fra le dita li bocconi di carne ch'io teneva. E ciò accadeva cosi a cielo sereno come nuvoloso. Se la notte era senza luna, ma illuminata dalle stelle per essere sereno il cielo, a quel barlume venivano, con minore prontezza però. Era poi inutile il chiamarli quando oltre la privazione del lume lunare il cielo da folte nuvole venia ricoperto. In tal circostanza mettevan fuori il consueto grido di appello, ad ogni momento lo rinnovavano, ma senza mai abbandonar l'albero dove gli aveva posti, quantunque vi andassi quasi d'appresso. Dal complesso di questi fatti a me sembra che rimanga decisa questa questione ottico-ornitologica. Dico adunque che l'occhio della presente strige è stato dalla natura conformato in maniera che non può valersene trovandosi non solamente nella piena

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tenebrosità, ma in una luce appena a noi sensibile; se ne varrà però ove di poco venga accresciuta, quantunque sia inetta per noi a lasciarci vedere gli oggetti. Questo uccello pertanto non possiam dirlo precisamente crepuscolare: seguiterò piuttosto a chiamarlo notturno, giacché, per le allegate osservazioni, oltre il crepuscolo vespertino e l'aurora, a notte anco inoltrata e senza luna potrà fare sulla terra e su gli alberi le picciole sue prese negl'insetti, purché il lume stellare non venga da folte nubi offuscato. Io avrei voluto procacciarmi notizie analoghe in qualche altra strige: ma a conseguir ciò non vi voleva meno dimestichezza di quella che riescito mi era di avere dai chiuini; lo che non potei conseguire. Si è già veduto quanto la strige passerina ossia civetta ricusa di famigliarizzarsi con l'uomo, malgrado il cercar di educarla, si può dire, appena che nata. So che alcuni amatori della caccia usano questo uccello per prenderne altri, coll'avvezzarlo a starsi su d'un ritto bastone protuberante alla cima e vestito d'un panno rosso, a volare dal bastone alla terra e dalla terra sul bastone; facendosi per tal guisa ridicoloso spettacolo agli uccelli boscherecci e campagnuoli, che con grande schiamazzio accorrendovi quasi per dileggiarlo si posano in mal punto su panioni, a' quali insuperabilmente attaccati rimangono. Ma so eziandio eh' essa strige destinata a questo piacevole intertenimento non si lascia mai in libertà, ma è sempre da una cordicella assicurata, altrimenti si darebbe tosto alla fuga, e perciò è da dirsi non già ridotta allo stato di domesticità, ma tenuta in quello di schiavitù. Nel tempo ch'io alimentava una nidiata di chiuini, mi venner recati tre piccioli della strige « flammea » (allocco) coperti da una bianca peluria, e con la punta delle penne uscente app~na dalla cute. Per avere nidificato questo uccello, possiam dire, in casa nostra, figliato avendo dentro al foro di una fabbrica, sarebbe paruto che i piccioli fossero stati suscettibili d 1 una facile ~ducazione. Ma per l'opposito li trovai più refrattari delle stesse civette. Non mi riesci mai di farli mangiare, né vollero mai prender cibo da sé, e però in pochi giorni periron di fame. Lo stesso accadde ad altra strige della medesima specie, ma adulta, presa in un laccio, la quale però ne' due primi giorni per essere tuttavia vivace ed abilissima al volo potei sperimentarla insieme alle civette, non già con quella ricchezza di tentativi concedutami dalla domesticità dei

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chiuini, quanto però bastava per conoscerne la facoltà visiva nel1'oscurità della notte. Ove adunque le tenebre della chiusa stanza, in cui faceva queste pruove, venivano alcun poco diradate da un sottilissimo raggio d'un'accesa candela, questi uccelli davano contrassegni evidenti di volar sicuri da un luogo all'altro, e però di chiaramente vederci. Se poi quel barlume restava infievolito a segno che l'occhio umano non accorgevasi di esso se non se dopo l'esser restato qualche tempo dentro alla stanza, allora cotesti uccelli, avvegnaché da me esagitati; non cercavano di spiegar l'ali al volo, e s'io li gettava in alto, o ricadevano tostamente su la terra, o nelle vicine pareti davan di cozzo. Quella luce adunque immensamente diradata non faceva bastante impressione nel fondo dei loro occhi perché discernesser gli oggetti. E però a me parve che queste due specie qi strigi sul punto della visione non discordassero da quella addimesticata da me. Né forse è improbabile che questa legge ottica si estenda agli altri uccelli notturni. I loro occhi, non v'ha dubbio, sono conformati diversamente da quelli degli uccelli diurni. Sono più grandi, la pupilla è più ampia, e le fibre della retina più dilicate e più sensibili. Quest'ampiezza di pupilla permette di giorno l'ingresso di troppa luce al fondo dell'occhio, massimamente per non potere abbastanza restringersi. Sappiam che quella degli occhi de' gatti, di circolare che è, si contrae in modo alla viva luce solare che divenuta lineare va a chiudersi quasi per intiero. Ho voluto veder quel che accade agli occhi delle civette e dei chiuini. Il diametro della pupilla di una di quelle era all'ombra cupa linee 3 e 1 / 2 e al sole immediato linee 1. 2 In uno di questi era nel primo caso linee 4 scarse, e nel secondo linee I e 1/6- Vi restava dunque tanto di apertura per entrarvi un fascetta di luce che, quantunque niente molesto a più altri animali, lo è però a questi per la grande dilicatezza dell'organo della visione. Quindi gli uccelli notturni cercano tenersi di giorno in luoghi più o meno oscuri, e quindi pure, per questa dilicatezza, un grado di luce bastevole per loro a vedere gli oggetti non è tale per gli uccelli diurni. Questo grado però deve esser dentro ad una data misura, al di sotto della quale o non fa impressione nell'occhio, o questa diviene sì esile che è disadatta per distinguer gli oggetti, come più addietro si è dimostrato. So esservi degli ani-Benché io li stimolassi. medio è di due millimetri. I.

2.

Vo ria la misura della linea; il suo valore

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mali che speditamente e sicuramente muovono nella piena oscurità della notte, siccome ho io scoperto ne' pipistrelli e come si osserva ne' gatti, nelle faine, ecc., ma quanto ai primi è già provatamente mostrato esservi in loro un organo suppletorio a quello della visione, 1 e riguardo ai secondi sappiam non meno che i loro occhi nelle tenebre fosforeggiano brillando come due picciole accese fiaccole, ma questo fosforeggiamento io non l'ho mai veduto negli uccelli notturni. Quantunque sembri sicuro che l'uscire dai loro covaccioli i notturni uccelli appresso il tramontare del sole provenga dal cominciare allora ad essere temperata talmente la luce che più non offende i loro occhi, piacquemi tuttavolta sperimentalmente certificarmene. La qualche mia perplessità nasceva dall'aver veduto che i pipistrelli, quantunque si tengano in una stanza ad arte illuminatissima dopo che il sole di sotto l'orizzonte si è già nascosto, pure in quell'ora, di sospesi immobilmente che erano stati tutta la giornata alla volta di essa stanza, si gettano a volo e cercano di fuggire. L'affare procede diversamente nei chiuini. Di giorno stavano celati su d'un cornicione negli angoli meno illuminati. Alla luce diurna sostituita quella di molte candele, seguitavano a tenersi nascosti ne' medesimi luoghi, ancorché cominciasse e proseguisse la notte. Se di pieno giorno chiudeva le finestre ed oscurava la stanza, sì però che non divenisse affatto tenebrosa, questi uccelli non indugiavan molto a mettersi in agitazione, a dibatter l'ale e a svolazzare nella medesima come solean fare nel crepuscolo della sera. Se nottetempo in vece di una o due candele ne metteva molte ed in più luoghi della stanza, facendola così splendidissima, ricoveravansi i chiuini in que' siti dove solevano andare all'apparire del giorno. Egli è adunque evidente che la diminuzione della luce si è quella che determina questi uccelli ad abbandonare i diurni loro nascondigli, cosi possiam dire degli altri congeneri, e che l'eccedente copia d~ essa gli stringe a restituirsi ai medesimi. Non negando io però che la fame non gl'induca sempre più ad escire la sera per cercar l'alimento, essendone stati digiuni nell'intiero corso del giorno. 1. Nel 1794 lo S. pubblicò le Lettere sopra il sospttto di un nuOtJo smso nei pipistrelli (Torino, Stamperia Reale), che contenevano anche le risposte dell'abate A. M. Vassalli, fisico dell'Università di Torino. In seguito ad esperienze sul volo di pipistrelli che, pur accecati e poi privati dei sensi dell'olfatto e dell'udito, evitavano nel volo gli ostacoli, lo S. deduceva l'esistenza di un senso supplettorio ed inclinava a localizzarlo negli organi del tatto, accostandosi in questo al parere dei biologi moderni.

ALBERTO FORTIS

PROFILO BIOGRAFICO Alberto Fortis nacque a Padova l'r I novembre 1741, e a Padova nel Seminario fece i suoi primi studi, sino all'età di sedici anni quando vestì l'abito agostiniano. Ma neppure nella sua nuova condizione il Fortis badò a seguire gli studi teologici, anzi si diede tutto alle scienze naturali e alla letteratura, che meglio poté coltivare quando, per le sue doti d'ingegno, fu chiamato a Roma dal p. Giorgi, prefetto della Biblioteca Angelica, e si dedicò allo studio dell'archeologia e delle lingue antiche e moderne. Al suo amico e biografo Carlo Amoretti scriveva allora: « Sto nella biblioteca; mi si dice di leggere San Basilio ed io leggo Omero, che v'ho trovato vicino.» Né la disciplina conventuale ben si confaceva al temperamento del giovane; perciò egli lasciò l'Ordine agostiniano e partì da Roma. Con bolla pontificia venne poi prosciolto dai voti monastici e fu semplice abate. Fu allora che conobbe a Vicenza la Elisabetta Caminer che amò e cantò in versi, e a lei si legò con lunga amicizia. Ella, col padre Domenico, pubblicava l'« Europa letteraria» ( 1768-73), e a questo giornale il Fortis collaborò, come al « Giornale enciclopedico» e ad altri fogli dell'epoca. Ma se la pratica del giornalismo s'addiceva in parte al suo gusto di scrittore occasionale e di non molto respiro, la sua più viva passione restavano le scienze naturali, e per soddisfare le sue curiosità di scienziato intraprese i primi viaggi: nel 1771 fu in Dalmazia, e delle sue osservazioni di naturalista e di uomo di varia cultura diede una prima relazione nel Saggio d' osserva:tioni sopra l'isola di Cherso ed Osero (1771), poi una più ricca e più fortunata nel Viaggio in Dalmuia (1774) che assicurò all'autore rinomanza europea (se ne ebbero traduzioni in francese, Berna, 1778, in inglese, Londra, 1778, e in tedesco), ma provocò anche aspre critiche dalle quali egli seppe difendersi con il suo acuto stile polemico. Dopo il ritorno dalla Dalmazia fece escursioni nel Vicentino e sui colli Euganei, e descrisse le sue osservazioni in altre memorie scientifiche. Fu poi a Milano, donde visitò sempre con intenti di scienziato le vicine Alpi; quindi in Toscana, al lago di Bolsena, nei dintorni di Roma e, nel 1780, all'Etna per studiarvi i fenomeni vulcanici, e le sue indagini sulle lave completò in ricerche a Ponza e Pandataria. Altri viaggi compì in Calabria e in Puglia, e fu per qualche tempo a Napoli dove studiò il fenomeno dell'elettrometria sotterranea. Nel

ALBERTO FORTIS

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era di ritorno a Padova ma non vi ottenne la cattedra eh' era stata del Vallisnieri, alla quale aveva pure a lungo aspirato, e s'accontentò del titolo d'Accademico pensionato dell'Accademia delle Scienze, Lettere ed Arti della sua città. Amava interrompere il suo soggiorno padovano con lunghi riposi ora sui colli Euganei a Galzignano ora sui Berici ad Arzignano. Ma per l'animosità d'un congiunto dovette anche lasciare Padova e si trasferì in Francia, dove attese a comporre i Mémoires pour servir à l' histoire naturelle, et princi'palement à l'orychtographie del' ltalie, et des pays adiacens, che valsero ad accrescere la sua rinomanza tra i Francesi e lo fecero conoscere a Napoleone. Appunto il Bonaparte lo volle al posto di custode della Biblioteca delle Scienze di Bologna e tra i primi membri dell'Istituto Nazionale Italiano. Nell'ambiente bolognese il Fortis ebbe tutto il riconoscimento che meritavano il suo lavoro di scienziato e la sua eleganza di scrittore, ma egli era ormai logorato dalle fatiche, e a Bologna si spense il 21 ottobre 1803. Delle numerose sue opere a stampa, oltre quelle sopra ricordate, molte apparvero in forma d'articoli nell' > non sono frasi del buon secolo: avrei detto «Censori» e « Magistro », « et inter Britannorum vates ». Le iscrizioni angliche in generale non son dettate in buono stile lapidario, e le lettere colle quali sono scolpite, essendo le minuscole del nostro carattere, abbastanza dinotano Pimperizia di chi le compose, e la poca severità nell'uso della paleografia. Conviene latinizzare le lettere, ed i nomi eziandio scrivere con grandi caratteri3 senza U calderini, 4 e dire ALEXANDRO POPIO ecc. ANNO R. S. MDCCXLIV ecc. Se non sanno fare iscrizioni latine, le facciano inglesi, ed è meglio senza fallo; tutti cosi le intendono e non debbono temere la critica degli eruditi viaggiatori. Ciò sia detto per opporre qualche critica alle molte che a noi fanno; d'altronde queste riflessioni, abbenché giuste, non iscemano punto quell'alta stima ch'io debbo a Giorgio Lyttelton, di cui mi sono abbastanza note le belle opere e l'eccellente carattere, onde sarà sempre agi' Inglesi sacra la sua memoria. Seguendo la salita alquanto malagevole del monte giunsi al piede d'una rocca di quattro torri, che dall'arte è rovinata in più parti. Le pietre sono quadrate e la costruzione per tal riguardo potrebbe dirsi romana, ma i merli con feritoie e vedette a croce traforate, e gli archi e le porte e le finestre a sesto acuto, fingono i tempi del1. Giano bifronte era raffigurato, come altre divinità antiche, col modio (la misura dei solidi) sul capo a simboleggiare abbondanza. 2. • Ad Alessandro Pope poeta tra gli Inglesi il più eloquente e dolce, aspro castigatore èi vizi, soavissimo filosofo, sii sacra, nell'anno del Signore 1744. 11 3. Le maiuscole delle epigrafi romane. 4. U maiuscoli tondeggianti, a forma di caldaia. Nelle epigrafi romane una medesima maiuscola ( V) si usa per l'u e il v. Il termine « calderino 11 non mi consta che sia dell'uso.

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CARLO CASTONE REZZONICO

l'invasione dei Normanni. Non restano in piedi che due torri, le altre due sono più della metà diroccate, e sulle sconnesse pietre verdeggiano l'ellere e gli arbusti e l'erbe che crescono fra' sassi e sulle vecchie pareti. Del vallo non resta che una parte, e così smantellato apre l'ingresso a chicchessia. Un cacciatore abita colla sua famiglia la parte della torre che non è distrutta, e sovra di essa agiatamente si può salire per godere d'una larga vista, ma è meglio vincere la sommità del vicino colle affatto nudo d'alberi. Sovr'esso vidi alzati quattro grandi macigni per figurare, cred'io, un picciolo tempio di druidi, e in mezzo un albero isolato che fu immagine della divinità, come le pietre che si dissero « betili ». 1 Se rozza ed ineguale troppo alla sublime idea dell'Ente supremo si è la nuda immagine d'un albero e d'una pietra, altrettanto ammirabile prova della sua esistenza può dare l'immensa e fertilissima pianura coronata da colli, sparsa di boschi e trinciata da fiumi, che si discopre da quest'altezza. Ne scesi lentamente, e piede avanti piede m'internai in un profondo bosco, e mi fermai sovra un largo stagno, e lì presso vidi una grotticella assai bassa e tutta musco, e dentro vi lessi alcuni versi del Pensieroso di Milton, da me tradotti così: A/fin ritrovi la mia stanca etade in erma solitudine tranquilla la veste irta di pelo, e la muscosa celletta, ov'io m'ossida e drittamente conoscer possa, e noverar 11el cielo quantunque stella a noi si mostri, od erba sugga il celeste umor; finché degli anni l'esperienza un non so che rassembri di profetico stil. Melanconia, dammi questi piacer, ed io con teco sceglierò di passare i giorni e gli anni.

Un tempio d'un dorico mal distribuito chiamasi r« edifizio di Pope», e v'è scritto: «Quieti et Musis». Altri versi del libro V del 1. Betilo (gr. ~cd'tuÀo,) è nome, forse d'origine semitica, per indicare le pietre sacre che si credevano animate di vita divina. Il R. in nota ricorda un passo della Storia naturale di Plinio, lib. xn, cap. 1, sull'uso di consacrare selve agli dei: « Le selve furono i templi degli dei, e secondo l'antico rito i semplici campagnoli anche oggi consacrano a un dio un albero dei più alti. Né più onoriamo oggetti splendenti d'oro o simulacri d'avorio che i boschi sacri, e in essi adoriamo il silenzio stesso. •

GIORNALE DEL VIAGGIO D'INGHILTERRA

IOOC)

Paradiso perduto di Milton si leggono sulla schiena d'un sedile di legno posto rimpetto ad una vista molto sfogata e ridente: These are thy glorious workst Pare11t of good almighty! thine this universal framet thus wondrous Jair ,· thyself how wondrous then! Unspeakable! who sitfst abotJe tliese hea,lns to us invisible, or dimly seen in these thy lowest works; yet these declare thy goodness beyond thought, and pow'r divine. 1

Proseguendo a discendere nel più cupo grembo della bruna valletta si veggono in tre differenti punti, che s'incrocicchiano nelle visuali, que' tre tempietti sovra descritti, ed uno stagno che sembra circondare tutta la selva. Indi vie più perdendosi il sentiero fra le piante s'ode un dolce mormorio di ruscelli occulti sotto il velo di perpetue frondi, e finalmente si giugne ad una grotta con rustici sedili e rustiche pietre, che sembrano dal caso più che dall'arte ammonticchiate, e stillano e sudano e zampillano acque da ogni parte e ne formano rivoletti serpeggianti pel bosco, e cadute e gorgogli che invitano a bere e diguazzarvi la mano nell'arsa estate. Questi versi che vi sono, tolti da Orazio, assai bene dipingono il sito: ... Ego laudo ruris amoeni rivos d musco circ11mlita saxa nenmsque. 2 Lodo i ruscelli d~ll'amena villa e le muscose pomici ed il bosco.

Partiva con dispiacere da sì molle e fresco recesso, e volgendomi indietro da un picciolo greppo su cui era salito per dare un addio alle Naiadi che m'immaginai abitare sì belle fonti, ecco sotto una 1.

2.

Questa la traduzione del Rolli, riferita dall'editore comasco: Glon'ose opre l11e tutte son qr,este, Padre del benet Omiipotente. È t110 questo composto universal, cotanto a maraviglia bello! Or qual sarai ogl(etto di stupor dunque ttl stesso? J,ieffabil! che sede hai sovra i cieli im.:isibile a noit o foscamente in queste tr,e più basse opre ved11to, che p11r dichiaran tua bonlade al 11ostro pensar tropp'alta, e ,l tuo poter divino. Orazio, Epistole, 1, 10, 6-7.

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CARLO CASTONE REZZONICO

volta di musco m'apparve all'improvviso Venere Anadiomene, da me non osservata, in un angolo del bosco. Scesi nuovamente a contemplarla, e la vidi lavato il piede da un lucidissimo pelaghetto, ed atteggiata di quelle grazie che tante volte ammirai nell'originale. La statua è di piombo, e la soverchia umidità nuoce al gesso che la ricopre. L'alcovo 1 è l'ultimo oggetto che si vede, ma nel tempo stesso è il più magnifico, più variato e solenne. Un ponte è gittato sullo stagno, e sul ponte sorge un edifizio, o tempio aperto e sostenuto da colonne ioniche, ed offre largo sedile nel fondo per ammirarvi la bellezza del luogo. Nello stagno scende gorgogliando l'acqua d'uno stagno superiore, e si rompe fra gli scogli e si divide in rigagnoli spumosi e in lucenti zampilli, formando più gradi ineguali e scomposti d'una liquida scala tutta coperta di bianchissimi sprazzi. Frondeggiano a destra ed a sinistra le selve, e cingono l'acque con opaca scena di verdi ombre che si ripetono nello stagno, di cui le sponde non si veggono per le ramose braccia che su vi si distendono da ogni parte. Si stringono le selve imminenti fino al1' estremità dello stagno superiore, e lasciano uno spazio fra loro che corrisponde al mezzo dell'alcovo. La vista fugge per l'apertura ed incontra il tempietto rotondo che domina sul colle, e termina con bellissima avvertenza il magico prospetto. Nell'alcovo si legge ristretta in poche parole la descrizione di questo luogo. . "dantza . T empe, 2 . . . V:iri Tempe, quae sylvae cingunt super impendentes .

. . . Verdeggianti Tempe, Tempe, cui cinge la seh:a imminente.

Il poeta colla maestà dello spondaico ha tentato asseguir 3 quella di sì bel quadro della natura e dell'arte.

1. Tempietto di forma rotonda. Voce settecentesca. 2. La valle di Tcmpe in Tessaglia, sacra al culto di Apollo. 3. Uguagliare.

GIORNALE DEL VIAGGIO D'INGHILTERRA

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LA VILLA DI HACKFALL

Un poeta, un amante, un filosofo ritroverà più d'ogni altra deliziosa e piena d'ispirazione questa villa. Il primo vedrà le driadi ed i fauni, le amadriadi ed i satiri errare per quegli ombrosi viottoli e bagnarsi in que' taciti laghi e dormire in quelle verdi grotte; il secondo figurerà la sua ninfa ne' tronchi, sederà pensoso al margine de' ruscelli, udrà la voce d'amore ed i suoi teneri sospiri tra le fronde degli alberi; il terzo crederà facilmente d'essere trasportato ne' verzieri e nelle selvette dell'antico Accademo 1 e vi cercherà i princìpi delle cose ed il difficile vero. A me, che sovente sono stato in queste tre situazioni, parve il luogo per ogni titolo piacevolissimo, e ad ogni passo nascevami un pensier nuovo. Ben può chiamarsi Hackfall una gioconda solitudine, dove l'arte con poco studio seguì le tracce della natura e seppe abbellirne l'intricato e selvaggio orrore, senza però toglierle quell'aspetto severo che invita alla meditazione le anime pensatrici. Un'acqua corrente sembra essere l'architetto di tutta la villa, e disegnarla e comprenderla nel suo corso e dividerla in bellissimi compartimenti. Un rigagnolo, che nasce in qualche distanza, corre ivi per una spiaggia tutta coperta di alberi, e forma entrando nel parco alcuni bei pelaghetti; scende quindi di sasso in sasso e fa varie cascatelle che l'arte ha guidate per la rupe giudiziosamente dividendo le strisce per formarne un velo. Finalmente precipita verso il fiume Euro nel fondo della valle gorgogliando fra massi e pietruzze che ad ora ad ora gli tagliano il corso, e formando cento zampilli e lucidi veli e specchi che recano nel vederli e nell'udirli meraviglioso diletto. Alla destra sorge un monticello tutto boscoso, erto e dirupato, da cui per lunghissima fenditura, quasi per una fuga di spezzati scaglioni, cadono in molta copia lucidissime acque, che colla loro loquacità rompono l'alto silenzio del romito soggiorno. Alla sinistra il passeggio, sempre culto, battuto e trinciato nell'erbose zolle all'uso inglese, viene ombreggiato da grosse piante che crescono sulle rive ineguali e selvagge e termina ad un pratello, dove sta un semplicissimo abituro, detto. E nel suo esame dello stato liberale lo scrittore dà la prova più sicura della sua intelligenza. Non solo non crede alla possibilità di copiare come un modello la costituzione inglese, (( perché per aver questa costituzione bisogna aver questo popolo; e per aver questo popolo bisogna essere in questa posizione e succedere., come in Inghilterra, a una sen·e di vicende troppo note perché tragiche, onde stabilir l' opinione che domina questo popolo» (Parte I, lett. Xl); ma da questa consapevolezza è indotto a giudicare anche con equanimità gli errori della vita politica inglese, la prassi non democratica delle elezioni dei deputati alla Camera dei Comuni, gli abusi del potere esecutivo, le insufficienze delle classi facoltose che in Inghilterra come altrove, grazie a una tradizione corporati"vistica, «ricevono più lustro ed importanza dal ciarlatanismo e dal mistero in cui si. tengono inviluppate, che dal merito loro reale nelle materie che professano» (Parte I, lett. V). Lo scrittore sa troppo bene che ,, il pretendere nelle istituzioni umane la perfezione è un errore, o almeno una chimera negli effetti non meno perniciosa di quello». Se denuncia perciò i fatti che ripugnano alla sua coscienza o indica quelle che appaiono alla ragione le contraddizioni della vita inglese, non ne resta mai scossa la sua fede nella libertà,· anzi dalla constatazione degli errori particolari egli trae un nuovo indizio della forza intrinseca ai paesi che si reggono a libertà, nei quali il giusto n·spetto dei diritti della collettività e dei singoli cittadini crea l'equilibrio che solo consente una politica progressiva. Questo pensiero, non proclamato come astratto ideale, ma di volta in volta saggiato sui fatti, conserva alle Lettere dell' Angiolini il loro carattere di intelligente incunabolo del pensiero liberale italiano.

LETTERE SOPRA L'INGHILTERRA, LA SCOZIA E L,OLANDA

UNA« PRESSA» DI MARINAl 1

Portsmouth è la prima terra che ho toccato di quest'isola. È piccola città e non meriterebbe alcuna considerazione per se stessa, se non fosse uno dei principali luoghi di riunione della forza marittima degli Inglesi. Non è di passaggio; non ha commercio; non ha altre arti che quelle necessarie al servizio della Marina; e queste sono chiuse e ristrette nel vasto e magnifico suo arsenale. Portsmouth non ostante sorprende un forestiero che vi arriva dal continente. La pulizia delle strade, l'eleganza delle case e delle botteghe, il vestiario decente delle persone, l'aria loro contenta e di agio, e questo in un piccolo paese che non ha che gente di mare e che è desolato in tempo di pace, fanno concepire la più grandiosa idea della ricchezza anzi dell'opulenza di Londra e della nazione. Fanno anche supporre una provvidenza generale così estesa, così ordinata e così savia, benché non espressa come altrove da alcun segno sensibile di governo, che non può farsi a meno di ripeterla dalla perfezione di una costituzione. Tutto mi compariva particolare, ragionevole, sensato. Colpito da tanti e sl nuovi oggetti, passai due giorni in Portsmouth occupato in crearmi con compiacenza mille diverse immagini di future sociali felicità. Il Gabinetto di Londra frattanto si trovò troppo bene istruito dello stato debole di quello di Parigi, per poter far senza rischio alla Corte di Francia delle domande sopra gli affari dell'Olanda sì risentite che, per assicurarne l'efficacia, dar volle apparenze di determinazione di guerra.:i Fu annunziato al pubblico questo tratto di vigorosa politica con promulgare per commissione del re una « pressa di marinari». Chiamo così quel che ivi è detto the power of ·impressi.ng men /or tlze sea service, che è la facoltà di forzare gli Parte I, lett. n. 2. Il Gabinetto di Londra ... determinazione di guerra. Senza che si desse un aperto stato di guerrat i rapporti tra Franciu e Inghilterra erano tesi anche dopo la pace di Versailles (1783) 1 aspirando Puna e l'altra nazione a far preva_lere lo. propria influenza sull'Olanda. Mentre la Francia sosteneva il partito dei patrioti, William Pitt aveva stretto un patto con lo Stadtholder Guglielmo V. I.

LETTERE SOPRA L'INGHILTERRA

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uomini al servizio di mare. 1 In fatti, nella terza ed ultima mattina di mia dimora molte persone vidi io stesso, ed allora non ne sapeva il perché, di varie professioni e mestieri, prese indistintamente per forza nel loro passar per le strade, e portate via. Senza consultar la volontà e lo stato loro e delle loro famiglie, erano imbarcate e costrette ad uscire da una vita pacifica e sicura per intraprendere la penosa del marinaro, esposta ai pericoli dell' onde e dell,inimico. Confesso che quest'atto di violenza, così contrario ai principi comuni della giustizia e ai diritti naturali dell'uomo, sospese alquanto le mie filosofiche riflessioni, e dubbio non irragionevole, credo, mi nacque della reale intrinseca sussistenza della tanto decantata libertà personale britannica. Lo scusano con dire esserne la pratica di antichissima data; non aversi altro mezzo da supplire al bisogno che le flotte regie hanno di uomini di mare, assorbiti tutti dal commercio che gl'impiega più costantemente e con maggior ricompensa di quella che può dar loro il Governo; e si conclude opporsi meno alla libertà civile il metodo inglese che il francese con le sue classi. Pesate da voi la forza di queste ragioni: in quanto a me, eccettuato il caso di pubblica estrema necessità, a cui ha da cedere ogni riflesso privato, non vorrei che le medesime servissero mai cli pretesto per adottar tal metodo in un paese dove io avessi da vivere. Voglio lusingarmi che questo Parlamento o prima o poi lo riguarderà come un abuso intollerabile, perché tirannico e di massimo pericolo, da doversi rimediare in una maniera o in un,altra. Questo non sarà difficile per una nazione infatuata di sé, della sua gloria e della sua sicurezza, quando si vengano a proporzionare i soldi pubblici con quelli che dà il commercio, e ad interessare la legislazione della marina mercantile a favore di quella di guerra: in somma, ottenendo il libero consenso dei cittadini nella necessità di prestarsi al servizio della nazione, quando le occorra di aver bisogno di loro.

1. Il fenomeno degli arruolamenti forzati fu osservato con disappunto anche da A. Verri e dal Mazzei.

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LUIGI ANGIOLINI

LIMITAZIONI DELLA LIBERTÀ 1

Se fui sorpreso dagli atti d'irregolare dispotica autorità veduti commettere in Portsmouth contro la libertà personale, che però aveva quasi giustificati a me stesso con immaginarmi difficoltà per fare altrimenti, lo fui maggiormente quando sotto i miei occhi la trovai violata in una persona di mia conoscenza, che fu arrestata negli ultimi decorsi giorni sopra la semplice asserzione d'un uomo che reclamò un debito trovato poi immaginario. La sacra legge di Habeas Corpus,2 che giustamente si riguarda dagl'lnglesi come il loro Palladio, come lo scoglio a cui va a rompersi e dileguarsi la forza della prepotenza ministeriale, non si estende dunque a tutti i casi in cui la libertà personale può essere violata; non assicura l'uomo dall'impazienza e risentimento di un creditore. Vero è che il male è passeggiero, ma non è meno vero che è disgustoso, che involve l'azione d'un insulto; ed è pur vero che l'inimicizia privata può trovar con questo mezzo di che soddisfarsi. Anche un ministro che vuol prendersi una vendetta, e che non può fare arrestare per ordine suo né del re, può far sorgere un creditore che gli produca lo stesso effetto. L' esecuzioni dei tribunali con tanta prontezza sopra il semplice giuramento della parte che pretende, sono di troppo vantaggio, cred'io, e di troppa risorsa alla mala fede e alla perfidia. Cagionano molti inconvenienti, e sottopongono spesso un innocente a un affare ingrato per la persona o per l'interesse, a della inquietudine almeno. Una donna che giura di esser gravida per opera vostra è creduta. Si comincia dal condannarvi a delle spese per la creatura da nascere, che non sono indifferenti. La somma che dovete pagare alla parrocchia per mantener questa creatura è proporzionata allo stato della vostra fortuna, e non lasciano i capi di questa parrocchia di profittarne quando possono. Potrete forse provare il contrario della di lei asserzione, e vi sarà reso allora il vostro denaro: ma questa prova ha da esser l'effetto di un processo d'esito sempre dubbio in tali materie, lungo come è per tutto altrove, e vergognoso forse, Parte 1, lett. 111. 2. L'Habeas Corpus Act, votato dal Parlamento nel 1679 e ratificato da Carlo Il, è uno dei «patti,, fondamentali della Costituzione inglese. Stabilendo il diritto d'ogni arrestato di venir tradotto dinanzi ai giudici per essere trattenuto legalmente in prigione o rilasciato dietro cauzione, sanciva l'indipendenza del potere giudiziario dall'esecutivo. I.

LETTERE SOPRA L'INGHILTERRA

molesto e dispendioso sempre. Bisogna in ogni caso cominciare dal soffrir l'incomodo e qualche volta il disastro d'un disborso. Questo rischio può corrersi ed è frequente con le donne ancora che affollan le strade per cercar fortuna, ed in Londra ve ne sono senza numero e pericolose, perché belle superiormente, e perché la donna inglese, quando ha fatto tanto da rinunziare al pudore, si burla di ogni sorta di sentimento. Se mai venite in questo paese, se mai disgraziatamente non potete resistere al gesto, al guardo, al portamento altero britannico, siate cauto; né date mai in conseguenza il vostro nome né indizio della vostra abitazione. Questa legge, troppo favorevole alla dissolutezza delle donne, non lascia di produrre qualche buon effetto. Tra gli altri, quello d'impedire negli uomini l'ostentazione del mal costume non mi pare poco importante. In Italia vi sarebbe bisogno di tal rigore; forse resterebbe corretta la nostra non rara impudente ed inetta indiscrezione. Il giuramento in questo paese è il principio ricevuto ed atteso di ogni pretensione, di ogni accusa; se falso e non conosciuto, qual sorgente d'inconvenienti, di disordini, d'ingiustiziel Frattanto non può negarsi che questo metodo non raffreni la mala volontà degli uomini più che l'accusa per testimoni. Dove possono aversi in una ingiuria domestica, quanto non è facile l'evitargli all'uomo di cattiva intenzione? E l'accusa per giuramento e l'accusa per testimoni hanno in sé molti mali o suppongono, nelle nazioni ove sono in valore, un costume così corretto da fare invidiare i loro princìpi morali e il loro carattere. L'accusa per giuramento suppone un rispetto religioso tale, che serva di primo movimento in tutte le azioni. Quella per testimoni, una onestà così radicale che l'uomo non premediti mai iniquità e malizia nella sua condotta sociale. Bisogna convenire che in Inghilterra, come vi è più buon senso e più ragione che altrove, così vi è più religione e più morale; non ostante, poiché in Inghilterra vi sono uomini come altrove, nei giudizi criminali si ha molta cautela riguardo al giuramento e riguardo ai testimoni se ve ne sono. Ma di questo in altra mia. Frattanto concludo che questa libertà è per tutto un essere di ragione più che di fatto.' L'uomo, o l'abbia o non Pab1. Frutto di convinzione, più che una effettiva realtà. È critica che l' A. ribadisce alla vitn inglese, ma non critica del tutto negativa, in quanto egli riconosce la superiorità della società inglese nell'equilibrio e nella misura dei costumi sociali, più che nella perfezione delle leggi. Si tenga presente anche la lett. Xl della I Parte, in questo voi. a pp. 1080-1084.

LUIGI ANGIOLINI

bia, è contento quando crede di averla; e crede di averla quando crede di aver prestato il suo consenso alle leggi che lo governano: in una parola, quando crede di ubbidire alle leggi, non di ubbidire a un padrone.

LA LIBERTÀ DI STAMPA 1

La libertà della stampa è un gran freno in questo paese all'arbitrio e all'abuso che potrebbe farsi della imperfezione delle leggi. Qua si stampa tutto. Le gazzette in grandissimo numero (tale che il Governo ne ha una rendita non indifferente per la tassa che ha posta sopra ognuna di loro foglio per foglio) sanno tutto e dicono tutto, sì riguardo al pubblico che ai particolari. Una persona offesa prende la sua soddisfazione annunziando a tutti l'offesa e l'offensore; mette in ridicolo, espone il caso tale quale è, con abuso della verità qualche volta, ma senza nominare e con tale artifizio di parole che non resti dubbio del soggetto. Quando la storia si estende alla qualità di satira o libello infamatorio, la legge, se è reclamata, esamina e punisce. Non si risparmiano i magistrati, il Ministero, la Casa reale, il re. Insomma la libertà della stampa è forse la vera cagione per cui l'Inghilterra ha più buon costume e libertà che tutt'altro paese d'Europa, sì politica che personale. Ha ragione il Parlamento di esserne geloso ; e perciò pare strano che questa libertà non esista per legge fondamentale come in America. 2 Non è che un privilegio preso dalla nazione, come dedotto per conseguenza di esser nazione libera. L'autorità del re non ha il coraggio di attaccarla scopertamente, appunto perché non sia sanzionata ed estesa con una legge formale. In fatti il Ministero e il Parlamento stesso di quando in quando, coperti dalla legge contro i libelli, inquietano seriamente questa libertà, e fanno soffrire pene afflittive e pecuniarie a chi si è abbandonato troppo ciecamente all'opinione di averla. La prendono, se non per altro, per pretesto in certe vendette, come nel caso dell'imprigionamento di M. Wilkes, 3 nel precedente del dottore Shebbear, e di altri eh' è I. Parte 1, lett. IV. :z. L' A. allude alle Dichiara.;oni dei diritti, che conclusero a Filadelfia il s settembre 1774 il Congresso delle tredici colonie del1'America settentrionale e proclamarono i diritti fondamentali del cittadino. 3. John Wilkes (1727-1797) fu uno dei più tenaci assertori delle libertà parlamentari e di stampa ai tempi di Giorgio III. In seguito alle critiche

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inutile il rammentarvi. Comunque sia, è fuori di dubbio che la libertà della stampa avendo in sé molti inconvenienti, ma nel tempo istesso molti più vantaggi, meriterebbe di essere autorizzata con pubblica costituzionale sanzione, con indicare precisamente e senza equivoco quella natura e quei limiti che fossero compatibili col carattere di una nazione libera, ma che ha quei riguardi sociali ai quali il costume e la ragione vogliono giustamente che siamo soggetti. Avendovi accennata la moltiplicità delle gazzette, voi avete giudicato sicuramen.te che in Inghilterra si ha molta passione per questo genere di lettura, né vi siete ingannato. Qui in Londra, come in tutte le provincie, la gazzetta è la passione di ognuno, qualunque ne sia la classe e condizione; vi dirò ancora che questa passione, figlia per se stessa dell'ozio, è forse una delle prime cagioni dell'istruzione, delrindustria, dello spirito pubblico di questa nazione. Vi si parla di politica, di commercio, di storia, di morale, di fisica, di letteratura, di arti, di mestieri ; vi si parla di edizioni di libri, vi se ne danno degli estratti. Tutti leggono queste gazzette; ognuno vi trova qualche cosa che fa per lui. Questo porta una generale idea di tutte le cose, superficiale se si vuole; ma meglio è averla che no, come nella maggior parte degli altri paesi, e il popolo non ha da esser dotto, ma è bene che sia istruito. Questa lettura, a parer mio, produce anche un effetto inosservato, ma di somma importanza. Essendovi moltissimi uomini che per mancanza di occasione e di comodi non possono conoscer se stessi, né la qualità né l'estensione né l'inclinazione del proprio natural talento, altrove muoiono inutili ed oscuri; qua, con leggere le diverse materie che si registrano sulle gazzette, la loro indicazione gli scuote, gli sveglia e fa che sappiano del loro spirito quanto essi medesimi non sapevano e non saprebbero, e gli fa perciò determinare a prender la direzione che loro conviene. Per questo in Inghilterra vi sono più grandi uomini in ogni sorte di professione che in ogni altro paese. Né crediate che qua la razza umana abbia più ingegno che altrove: crediate piuttosto che questo è perché, oltre le altre ragioni che si hanno di diventar tali, come forse verrà fatto a me di accennarvi e a voi di conoscere, distinta dagli uomosse al governo nel n. 43 del suo giornale« North Briton», Giorgio III considerando quelle critiche come offesa alla sua persona ottenne dal Parlamento che fosse firmato un ordine d'arresto (J aprile 1763).

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mini la loro inclinazione, si applicano a secondarla per quella strada per la quale da loro stessi si sono sentiti diretti, e non perdono il tempo sopra più e diversi oggetti come presso di noi, che incerti andiamo direi quasi tastando per provarci e per sapere qual di esse sia quella per cui siamo più adatti. Nella persuasione in cui sono, che in questo paese molto contribuisca a questa scoperta la lettura della gazzetta, ne risulta esser questo un oggetto non indifferente per la pubblica educazione. Altro molto importante vantaggio vedo produrre la gazzetta in Inghilterra, e questo è il consiglio che ne riceve il Ministero e il Parlamento. Essendo permesso ad ognuno di dire la propria opinione e sopra quello che si è fatto e sopra quello che può farsi, ne segue che la gazzetta piena è sempre di sentimenti e di esami politici. Se molti sono stravaganti e falsi, molti sono anche giusti e veri, affatto impensati, nuovi; il ministro non ha che da scegliere. Senza eh' egli abbia la pena di leggerlo, gli è indicato dalla voce pubblica quando l'occulto politico ragionatore ha suggerito un espediente felice; è ripetuto dalle altre gazzette, è combattuto, è discusso, e poi palesato quasi a pubblici voti. Ho letti su questi fogli dei pensieri politici molto sublimi; gli ho trovati poi esaminati, contrastati, approvati; ho anche vedute dopo alcun tempo delle operazioni di governo esattamente corrispondenti. Terminerò questa lettera con una osservazione generale sopra la stampa. In nessun paese è tanto perfezionata, e l'uso di lei tanto portato avanti e rivolto al pubblico benefizio, quanto in Inghilterra. Tutto si stampa e per tutto, e si stampa bene e correttamente. È incredibile a quante e a quali piccole transazioni sociali è estesa la stampa. È oggetto non indifferente il tempo che fa guadagnare agli uomini negli affari; e del tempo si fa gran caso in Inghilterra, perché si sa che farne. Tal metodo favorisce anche gli affari stessi rendendoli più chiari, più alla portata di tutti, più facili. Così viene di nuovo per un altro mezzo ad essere istrumento della pubblica educazione. Raramente s'incontra persona in Inghilterra che non sappia leggere e scrivere; e quello che è più da sorprendere è che si legge bene, e con tutta la difficoltà dell'ortografia della lingua si scrive con una esattezza che non si conosce in verun paese. Forse converrete meco che la stampa contribuisce a questo non poco.

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I QUACCHERP

Avendovi accennato di avere avuto che fare coi Quaccheri2 voglio dirvi ciò che ne penso anche a costo di dover dirvi parte di quello che già sapete. Siate intanto persuaso dei fatti che vi esporrò,• e giudicate poi delle conseguenze a piacer vostro. Ho trovata la famiglia in cui sono vissuto molto modesta, frugale, quieta, laboriosa, e di una tal minutezza di pulizia che i mezzi per ottenerla non lasciano di esser noiosi ed incomodi a chi non è Quacchero. In questo proposito non vi sia discaro che in aria di parentesi vi narri come una mattina, alzatomi dal letto con un resto di febbre cagionatami dal freddo acutissimo sofferto nel giorno avanti nella Corte criminale di Chelmsford, scesi abbasso mezzo spogliato per ricercare dove soddisfar potessi a qualche necessità naturale. Credei che come in tutte le case da me fino allora vedute in Londra e altrove fosse un comodo nella corte, che chiamano yard, o luogo prossimo. Con questa idea seguitai la guida che si mosse per indicarmelo; e questa, facendomi attraversare mezzo il paese, mi condusse in un giardino a un terzo di miglio di distanza. Sebbene mi fosse di vero incomodo questo costume, non lasciai di riderne, parendomi quanto bizzarro, altrettanto curioso e nuovo. I Quaccheri, tanto uomini che donne, vestono in una maniera affatto semplice, di una estrema proprietà per altro. Non ammettono guarnizioni, non trine, non colori brillanti, non metalli. Non levano il cappello ad alcuno, e non fanno ad alcuno riverenza, neppure al re. Parlano poco, modestamente, senza complimenti, e con quanta precisione è possibile. Il sì e il no sono espressioni spesso sole nella loro bocca. Dicono di esser cristiani, ma coi cristiani non hanno di comune che la Bibbia. Non hanno verun sacramento né culto; non preti; nessuno ecclesiastico stabilimento, e forse non altra credenza determinata che quella di un Dio. Ciò che noi chiamiamo chiesa è presso di loro più che altro una sala di adunanza, 1. Parte 1, lett. v1. 2. Nella lettera quinta informa di avere alloggiato presso un Quacchero nel suo soggiorno a Chelmsford nella contea di Essex durante lo svolgimento delle Assise, l'insediamento del tribunale civile e criminale che aveva luogo in ogni contea due volte l'anno. 1t Quakers », alla lettera