La leggenda nera dei templari [Prima edizione] 8858125797, 9788858125793

Nell'anno 1099 i crociati venuti dall'Occidente conquistano Gerusalemme e fondano un regno cristiano nella Cit

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La leggenda nera dei templari [Prima edizione]
 8858125797, 9788858125793

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i Robinson / Letture

Barbara Frale

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

Editori

Laterza

© 2016, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione novembre 2016

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Anno 2016 2017 2018 2019 2020 2021 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2579-3

Quando il Re gettò le fondamenta del Tempio, in terra molto profonda, il materiale era pietra viva e possente, capace di resistere al logorio del tempo. Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, VIII, III, 2, 63

INDICE

I.

IN PRINCIPIO ERA IL TEMPIO

3

E furono chiamati Templari, p. 3 - Una spada contro i nemici della fede, p. 6 - Dal Tempio del Signore al Santo Sepolcro, p. 9 Hiram, Boaz e Jachin, p. 13 - Per custodire l’Arca dell’Alleanza, p. 17 - Un sacrario immortale, p. 20 - Alla ricerca del Tempio perduto, p. 25 - Gesù nel Tempio, p. 28 - Deus Sabaoth. I Templari e la guerra santa, p. 31

II. TRADIZIONI APOCRIFE

37

La cavalleria di re Salomone, p. 37 - Salomone il mago, p. 41 - Salomone, immagine di Cristo, p. 45 - Il signore dell’anello, p. 49 - Pietre preziose e prodigiose, p. 52 - Gli «spiriti maligni vaganti nell’aria», p. 56 - Sacri cavalieri in armi contro il Male, p. 60 - «Abraxas», p. 65 - Un oggetto suggestivo, p. 68 - La Cabbala e i nomi di Dio, p. 70 - L’alfabeto segreto del Tempio, p. 74 Parole piene di magia, p. 77 - L’anello di Salomone o il «sigillo di Satana»?, p. 81 - Dal Corano ai poemi del Santo Graal, p. 86

III. NELLE MANI DELL’INQUISIZIONE

93

I Templari, una spina nel fianco della Francia, p. 93 - L’impatto distruttivo della diffamazione, p. 96 - Filippo il Bello e Ponzio Pilato, p. 99 - Il primo dei papi avignonesi, p. 103 - Il fallimento delle crociate, p. 106 - Povero ma bello (e per giunta consacrato), p. 109 - La debolezza di Clemente V, p. 113 - Un’arma di carta, p. 115 - Colpevoli o innocenti?, p. 118 - Le inchieste nei vari regni cristiani e il concilio di Vienne, p. 122 - La morte eroica del Gran Maestro, p. 125 - Perché uccidere Jacques de Molay?, p. 128

IV. DALLA STORIA ALLA LEGGENDA Il cofano verde, p. 135 - Platina e i filosofi dell’occulto, p. 138 - Le ragioni della storia, p. 142 - Un lunghissimo esilio, p. 144 ­­­­­VII

135

Indice Quando la ricerca tace, p. 147 - Di nuovo in Francia!, p. 151 - Il fascino irresistibile del segreto, p. 155 - In cerca delle proprie radici, p. 158 - La Carta di Larmenius, un «falso onesto», p. 163 - Una moda per l’alta società, p. 167 - Il segreto dei cospiratori, p. 170 - Il tenebroso Baphomet, p. 174 - Idoli, magia e politica, p. 180 - «Diventa leggenda ciò che è necessario far credere», p. 183

NOTE 187 CARTINE 217 INDICE DEI NOMI

223

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

Capitolo primo

IN PRINCIPIO ERA IL TEMPIO

E FURONO CHIAMATI TEMPLARI Alcuni cavalieri amati da Dio e ordinati a suo servizio rinunciarono al mondo e si consacrarono a Cristo. Con voti solenni, pronunciati davanti al patriarca di Gerusalemme, si impegnarono a difendere i pellegrini contro briganti e predatori, a proteggere le strade e a fungere da cavalleria del Re Sovrano. Essi osservano la povertà, la castità e l’obbedienza, secondo la regola dei canonici regolari. [...] E poiché non avevano chiese o dimore di loro proprietà, il re li alloggiò nel suo palazzo, vicino al Tempio del Signore. L’abate e i canonici regolari del Tempio diedero loro, per le esigenze del loro servizio, un terreno non lontano dal palazzo; e per questa ragione, furono chiamati più tardi Templari1.

Così lo storico Jacques de Vitry, vescovo di Acri dal 31 luglio 1216 al 1245, descriveva la fondazione dell’ordine militare e religioso del Tempio. Era un’esperienza di vita consacrata che aveva avuto origine in Gerusalemme agli inizi del secolo XII, quando, all’indomani della prima crociata (1099), la Città Santa tornò in mano ai cristiani2. Intorno ai principali siti che avevano un ruolo centrale nel racconto evangelico era stato costituito un regno cristiano formato da quattro potentati maggiori: la contea di Edessa, che nel momento della sua massima estensione andava dalla città di Antiochia verso ovest fin oltre il corso dell’Eufrate; il principato di Antiochia, posto nel territorio settentrionale delle attuali Siria e Turchia; la contea di Tripoli, corrispondente alla parte settentrionale dell’attuale Libano, e il prin3­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

cipato di Galilea, esteso intorno al lago di Tiberiade e lungo la valle del fiume Giordano. Nonostante la vittoria cristiana, il nemico islamico accerchiava il regno, guardingo e incombente; premeva lungo i confini con atti continui di guerriglia, aggrediva le carovane di pellegrini diretti in visita ai Luoghi Santi e, in breve, teneva i cristiani di Terrasanta sotto il tiro costante della sua minaccia. Nel 1104 o 1105 un cavaliere di nome Hugues, capo del feudo di Payns vicino Troyes e vassallo del conte di Champagne, si recò pellegrino al Santo Sepolcro insieme al suo signore. Questo flusso di militari francesi verso la Terrasanta è forse legato al viaggio compiuto in Occidente da Boemondo principe di Antiochia nello stesso periodo (1105-1106). Caduto prigioniero dei musulmani nell’agosto 1100 e rilasciato dopo tre anni, partì verso la Francia deciso a sciogliere un voto a san Leonardo, per intercessione del quale aveva riconquistato la libertà; in quell’occasione chiese la mano di Costanza, figlia del re di Francia Filippo I, e sollecitò l’invio di rinforzi per la difesa del regno cristiano. Sbarcato in Puglia, cercò ed ottenne il sostegno di papa Pasquale II e del suo legato Bruno di Segni per recarsi oltralpe a predicare una nuova crociata. Boemondo, per come lo descrive la principessa bizantina Anna Comnena, era un uomo di aspetto magnifico, dotato di una parlantina affascinante. Le sue capacità sicuramente influirono nel muovere le coscienze dei signori occidentali, ma lo fecero anche altri aspetti di carattere pragmatico; non ultimo il fatto che Boemondo era partito dall’Europa in qualità di duca di Taranto, e adesso vi tornava come principe d’Antiochia, ovvero capo di uno Stato crociato3. Adempiuto dunque il lodevole proposito di pregare in ginocchio davanti al Santo Sepolcro, il signore di Payns decise di restare a Gerusalemme. Al pari di altri cavalieri, che le fonti chiamano milites ad terminum, voleva offrire un servizio gratuito al santuario della Resurrezione per un certo numero di anni; o forse per tutta la vita4. La scelta rispondeva a un 4­­­­

I. In principio era il Tempio

profondo bisogno religioso, innanzitutto; in secondo luogo, assecondava una tendenza culturale. Gli intellettuali che sostennero la crociata erano imbevuti di cultura biblica; e naturalmente attingevano alla Scrittura per esortare i fedeli alla partenza. Soprattutto in Roberto il Monaco e Baldrico di Dol, che fra il 1107 e il 1108 composero entrambi una cronaca intitolata Historia Hierosolymitana, abbondano i riferimenti alla Bibbia: la Terrasanta dei crociati si identifica con la Terra Promessa d’Israele, e i cristiani sanno che Dio combatterà con il suo popolo contro i nemici, com’è descritto nei Salmi (67, 22). Il papa è immagine di Mosè, che nel libro dell’Esodo (17, 11) tiene le mani alzate mentre gli ebrei combattono contro gli Amaleciti. Il culmine di questa assimilazione è una scena di gloria e di vittoria tratta dal Salmo 78: il compimento delle profezie diverrà visibile con l’ingresso delle Nazioni nel Tempio5. Dal Libro di Gioele (4, 1-2) veniva la certezza che proprio laggiù, a Gerusalemme, sarebbe risuonata la tromba dell’Ultimo Giorno: Poiché ecco, in quei giorni e in quel tempo, quando avrò fatto tornare i prigionieri di Giuda e [Gerusalemme, riunirò tutte le nazioni e le farò scendere nella valle [di Giosafat, e là verrò a giudizio con loro per il mio popolo Israele, mia eredità, che essi hanno [disperso fra le genti dividendosi poi la mia terra.

Morire nella Città Santa poteva garantire al fedele lì sepolto un privilegio speciale, quando il Signore avrebbe resuscitato i morti cominciando da quelli giacenti laggiù, nella valle di Giosafat, che in ebraico significa esattamente «Dio giudica»6. Quest’idea aveva condotto a Gerusalemme un lungo flusso di pellegrini cristiani sin dalla tarda antichità, dunque molti secoli prima che – in virtù di complesse ragioni non solo 5­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

religiose – cominciasse il cosiddetto «pellegrinaggio in armi», più tardi denominato «crociata». Dalla celebre matrona Egeria, che nella seconda metà del IV secolo lasciò la sua nativa Aquitania per visitare i Luoghi Santi sfruttando la buona viabilità dell’impero romano, al vescovo franco Arculfo che viaggiò verso l’anno 670, quando la rete viaria d’Europa era sicuramente più scomoda e malridotta, fino ai signori feudali che vi si recarono con gli uomini del loro seguito alla vigilia della prima crociata, il viavai di pellegrini fu praticamente ininterrotto. Un fatto sorprendente per l’uomo moderno è che non cessò mai, nonostante tutti i rischi e le difficoltà, nemmeno quando il fanatismo di alcuni dominatori islamici contro i cristiani rese la visita talmente pericolosa che l’ipotesi di morire martiri non era una remota possibilità7. Fra gli altri devoti in attesa del transito verso la vita ulteriore, anche il cavaliere Hues de Paiens delez Troies, com’è chiamato in antico francese, decise con alcuni compagni di rendersi utile alla Terrasanta e agli altri cristiani. Lo fece nell’unico modo in cui probabilmente poteva, ovvero usando le armi per scortare i pellegrini itineranti lungo le insidiose strade della Terrasanta. I Templari delle origini, o «prototemplari», come a volte sono chiamati dagli storici, avevano la fisionomia di una milizia privata composta essenzialmente da volontari8. UNA SPADA CONTRO I NEMICI DELLA FEDE Nel quadro sociale del secolo XII, la guerra consisteva soprattutto in scontri di cavalieri, tanto che la parola più frequente per indicare un contingente bellico, cioè militia, si traduceva correntemente «cavalleria». I fanti, una presenza comunque importante, avevano più che altro mansioni di supporto, ed erano chiamati servientes proprio perché la loro attività si poneva al servizio dei cavalieri. Ricoperto da capo a piedi dal pesantissimo usbergo fatto di maglia di ferro, con lo scudo, gli schinieri e l’elmo, il guerriero a cavallo doveva essere necessariamente un pro6­­­­

I. In principio era il Tempio

fessionista del combattimento, e mantenersi in allenamento costante per riuscire a muoversi agilmente con indosso tutto quel carico. Miles era però una parola ambivalente nella cultura del tempo: accanto al volto violento, fatto di scorrerie, spargimento di sangue e conquista, si era affermato durante i secoli dell’alto medioevo un aspetto concorrente, etico e morale, con forti sfumature religiose. A partire dall’età carolingia, le gerarchie ecclesiastiche avevano lavorato per moralizzare la guerra, cercando di convogliarla entro argini delimitati, perché non fosse violenza indiscriminata ma invece uno strumento di pace e di ordine sociale. Si era consolidata l’usanza di conferire le armi al nuovo cavaliere seguendo una cerimonia religiosa dotata di una liturgia propria, durante la quale il nuovo miles avrebbe atteso la sua «consacrazione» dopo una notte di veglia in preghiera, e un bagno rituale che richiamava simbolicamente il battesimo. Proprio come il sacramento, indicava la purificazione del nuovo combattente; rappresentava una rinascita rispetto all’uomo vecchio, contagiato dal male, dal gusto di spargere sangue e annientare il nemico, dalla ferinità. La cavalleria era dunque un corpo sociale preposto alla guerra, ma era anche un insieme di persone che avevano un orizzonte religioso comune e, almeno in linea teorica, certe norme etiche da osservare9. Invalse l’uso di recitare una benedizione sulla spada che veniva consegnata al nuovo miles; essendo quell’arma lo strumento della violenza e il simbolo stesso della condizione di cavaliere, il gesto era quasi un voler esorcizzare i suoi aspetti diabolici. La formula si ispirava (con molte varianti) a quelle recitate durante le cerimonie di incoronazione dei sovrani e degli imperatori, poiché, come ricordava l’arcivescovo Ildeberto a Ottone I, re di Germania nell’anno 936, con quella spada bisognava combattere tutti i nemici di Cristo, fossero essi pagani o anche cristiani malvagi. Dall’anno 950 circa, si praticava anche la benedictio vexilli bellici, cioè la consacrazione dello stendardo militare che la schiera porta in guerra come propria insegna, per chiedere a Dio la vittoria sui nemici del popolo 7­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

cristiano10. Guerra e santità non erano dunque incompatibili, almeno per gran parte dei teologi e degli intellettuali cristiani. Una lunga tradizione esegetica traeva dalla Sacra Scrittura la convinzione che la vita stessa dell’uomo, sempre alla ricerca di Dio ma costantemente insidiato dal diavolo, doveva considerarsi una battaglia ininterrotta contro il male; militia est vita hominis super terram, dice il Libro di Giobbe (7, 1). Naturale pertanto che la cultura ecclesiastica attribuisse il ruolo di milites Christi anche ai monaci; essi vivevano ritirati dal mondo, ma pregando e facendo penitenza a beneficio dell’intero corpo sociale, e dovevano ritenersi con ogni diritto buoni combattenti di Cristo, perché lottavano costantemente contro il peccato11. Durante i primi secoli dell’era cristiana, in realtà gli scrittori ecclesiastici avevano condannato severamente ogni tipo di attività militare, giudicandola comunque incompatibile con la fede cristiana. Questa linea di pensiero non era tuttavia l’unica, e la storia della Chiesa annoverava esemplari figure di guerrieri divenuti campioni della fede: fra i più noti e amati dalla gente c’erano san Teodoro e san Maurizio, san Giorgio e san Martino di Tours12. Alla vigilia della prima crociata, quando giunsero in Europa le notizie allarmanti dei massacri di cristiani perpetrati in Siria-Palestina dai turchi selgiuchidi che avevano occupato Gerusalemme, i due volti della milizia cristiana, quello sociopolitico e quello spirituale-contemplativo, in qualche modo finirono per fondersi. Il grande mistico e teologo Bernardo di Chiaravalle, invitato dal re di Gerusalemme Baldovino II, ideò un modello di vita consacrata capace di armonizzare questi due aspetti che si presentavano in antitesi alla luce del messaggio evangelico, pervaso dal comandamento della non violenza. Bernardo attinse all’insegnamento di sant’Agostino da Ippona, una fonte antichissima e molto illustre. Nel corso dei secoli, la teologia agostiniana aveva ispirato in modo così ampio la dottrina della Chiesa che difficilmente il papa avrebbe potuto negare la validità etica del progetto. 8­­­­

I. In principio era il Tempio

Sant’Agostino tracciava il profilo del bellum iustum, cioè una speciale qualità di combattimento solo difensivo, attuato a tutela di persone inermi che non hanno la possibilità di difendersi per conto proprio, e sono pertanto destinate a soccombere. Nell’epistola a Bonifacio, il santo giudica complementari l’opera buona di chi prega nel silenzio della contemplazione, attirando la benevolenza divina e la scelta di chi difende gli altri combattendo con le armi in pugno. Questi diversi combattenti collaborano a uno stesso piano di salvezza, entrambi svolgono un ruolo essenziale a vantaggio del popolo cristiano13. In breve, secondo Agostino colui che salva un innocente dalla violenza ingiustificata non commette peccato, anche se uccide l’aggressore; san Bernardo tradusse questo concetto in quello di malicidio, ovvero eliminazione del male. Indicava in tal modo l’azione del cavaliere che salva altri cristiani inermi dalla violenza dei saraceni. Il malicidio, un’opera meritoria per la quale il cavaliere mette in pericolo la propria vita, sarà la missione specifica affidata dalla Chiesa ai Templari, quando, nel gennaio 1129, papa Onorio II ratificherà ufficialmente la costituzione dell’ordine nel concilio di Troyes per tramite del legato apostolico car­ dinale Matteo di Albano. Come a ragione sottolinea Rudolf Hiestand, i Templari, al pari degli altri ordini militari del secolo XII, furono essenzialmente un prodotto del papato14. DAL TEMPIO DEL SIGNORE AL SANTO SEPOLCRO Questa singolarissima categoria di religiosi combattenti formava un esperimento mai visto prima nella millenaria storia della Chiesa; la storica e filologa Simonetta Cerrini, che ha studiato a lungo la tradizione della regola templare, parla di una vera e propria «rivoluzione». La portata innovativa del progetto era infatti tale che sollevò anche diverse critiche nel mondo monastico, contrario a che uomini consacrati dai tre voti di povertà, obbedienza e castità spargessero il sangue di altri uomini15. 9­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

Ai Templari era affidata una doppia missione: combattere e pregare. Avevano perciò una duplice fisionomia, come spiega san Bernardo nel trattato In lode della nuova cavalleria, composto per promuovere la crescita dell’ordine templare: È una cosa degna di ammirazione e oltremodo singolare vedere come essi siano più miti degli agnelli e, nel contempo, più feroci dei leoni, sì che quasi dubito se sia meglio chiamarli monaci oppure soldati, a meno che non sia forse opportuno chiamarli in entrambi i modi, in quanto in loro non manca né la mitezza del monaco né il coraggio del guerriero16.

La radice della loro particolare spiritualità risiedeva proprio nella Sacra Scrittura, dove numerosi inni esaltavano le gesta belliche del popolo eletto contro i suoi nemici. Una guerra sicuramente santa, perché combattuta contro i cultori degli idoli; un’ideologia che la società cristiana al tempo delle crociate trovò adeguata alle sue esigenze, mentre i documenti pontifici attingevano a piene mani a quei passi della Bibbia che celebravano Dio come Sabaoth, il Signore degli Eserciti17. Biblica era anche la sensibilità di quei cavalieri – nove secondo Guglielmo di Tiro, trenta invece per Michele Siriano – che scelsero di legare le proprie esistenze alla città di Gerusalemme, consapevoli di abitare nel luogo più sacro. Il cuore autentico della Città Santa, il suo simbolo principale da quando il popolo d’Israele era giunto nella terra di Canaan. Un posto carico di reminiscenze scritturali, e circondato da un alone di mito. Il nome originario che Hugues de Payns aveva dato ai suoi compagni richiamava l’idea del loro combattere in spirito e in armi insieme a Gesù: pauperes commilitones Christi, cioè «i poveri commilitoni di Cristo». Il testo latino della loro regola, quello approvato nel 1129, li chiama proprio così: Incipiunt capitula regule commilitonum Christi, o commilitonum Sancte Civitatis. Eppure in una fase molto precoce, tanto da comparire nella regola stessa, c’è un’altra denominazione concor10­­­­

I. In principio era il Tempio

rente che si afferma e li lega al Tempio di Salomone, la casa di Dio: la vediamo emergere in certi passi come questo, in domo Dei Templique Salomonis18. Si trattava di un’associazione vincolante. Il fascino e la carica evocativa dell’antico santuario erano così forti nell’immaginario religioso dei cristiani da sopraffare il nome primitivo imposto dal fondatore; più volte nella regola ricorre l’abitudine di identificare questi guerrieri come connessi indissolubilmente al celebre edificio, almeno in modo ideale (cum milites Templi dicamini, e ancora dicentes se esse de Templo)19. Generalmente, si ritiene che Bernardo scrisse il De laude ­ arte al verso il 1136, subito dopo il concilio di Pisa, cui prese p fianco di papa Innocenzo II; ma Simonetta Cerrini ha motivo di credere che il trattato sia più antico, cioè prodotto mentre si preparava il concilio di Troyes. In quanto sermo exhortatorius, il testo doveva al tempo stesso spiegare ed esaltare il progetto, illustrandone l’idealità ai Padri del concilio, al legato apostolico, ai signori laici presenti e a quanti, dopo la fondazione, sarebbero stati chiamati ad entrare nella nuova milizia religiosa. Il De laude costituiva il «manifesto» dei Templari, immaginati nel loro profilo concreto e ideale dal loro più strenuo sostenitore20. Nel trattato di san Bernardo, al Tempio salomonico spetta un ruolo cruciale. Oltre che dimora per i frati, è soprattutto il simbolo di un’eredità, di una continuità nella fede e nello spirito di sacrificio che accomuna l’antico popolo di Israele ai nuovi guerrieri consacrati: Il Tempio di Gerusalemme, nel quale abitano tutti insieme, è un edificio certo meno imponente rispetto a quello antico e celeberrimo di Salomone, ma non gli è inferiore quanto alla gloria. Infatti, tutta la magnificenza di quello constava negli ornamenti d’oro e d’argento, che sono cose corruttibili, nella perfetta squadratura delle pietre e nella varietà dei legnami impiegati; nel nuovo, il principale motivo di vanto e la più splendida delle decorazioni sono la fede dei suoi abitanti, e la loro vita disciplinata, scandita da regole religiose. Il primo Tempio lasciava stupiti per la varietà dei suoi colori, 11­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

quest’altro invece è venerabile per le diverse virtù che vi coltivano e le sante azioni che vi si compiono. La santità infatti si addice alla dimora di Dio, poiché Egli non si compiace tanto dei marmi lucidati a specchio, quanto dei costumi morigerati, e preferisce la purezza della mente più che le pareti ricoperte d’oro. La facciata di questo nuovo Tempio è comunque adornata, ma di armi, non di pietre preziose. Al posto delle antiche corone auree, le pareti tutt’intorno sono ricoperte da scudi appesi; invece dei candelabri, dei turiboli per l’incenso, dei vasi rituali, nella dimora si trovano dappertutto freni per i cavalli, selle e lance. Ciò dimostra con chiarezza come i cavalieri siano accesi dallo zelo per la casa di Dio, lo stesso veemente fervore che un giorno infiammò il Condottiero di questi cavalieri [Gesù], che armando la sua mano santissima non di ferro ma di una frusta di funicelle, entrò nel Tempio per scacciare i mercanti, sparse il denaro dei cambiavalute, rovesciò i banchi dei venditori di colombe, giudicando sommamente indegno che una casa di preghiera fosse contaminata dalla pratica dei mercanti. Così dunque questo esercito di uomini devoti, trascinati dall’esempio del loro Re, vedendo i Luoghi Santi profanati dagli infedeli, e giudicandolo un fatto ancora più grave rispetto alla contaminazione che possono dare i mercanti, decisero di vivere nella sacra dimora con armi e cavalli. Ed avendola purificata da ogni vestigia degli infedeli, come pure accadde agli altri santi luoghi, vi trascorrono il tempo di giorno e di notte tenendosi impegnati in occupazioni utili ed oneste. Fanno a gara tra di loro per onorare il Tempio di Dio con un omaggio continuo e sincero, immolando al Signore con eterna devozione non carni di agnelli come usava l’antico rituale, bensì offerte incruente: l’affetto fraterno che vige tra di loro, l’ubbidienza devota, la povertà come scelta volontaria21.

Il parallelo è diretto, esplicito, evocativo. I Templari alloggiavano i loro numerosi cavalli nel sotterraneo che i crociati chiamavano le Stalle di Salomone, il quale, come vedremo, aveva in realtà scarsi legami storici con il figlio di Davide; la memoria del sito, e la sua incredibile suggestione, facevano sì che la gente vedesse nei Templari gli eredi di quel personaggio così illustre e speciale che duemila 12­­­­

I. In principio era il Tempio

anni prima aveva pregato il Signore e celebrato olocausti in quello stesso luogo. Non era poi tanto audace, Bernardo, quando considerava i Templari quali eredi per così dire naturali dei guerrieri scelti di Israele; quando li definisce addirittura «ministri» del Signore, poiché svolgono al suo servizio una santa missione. E non lo era quando trasferiva al Santo Sepolcro le caratteristiche che un giorno, e per tradizione, erano state quelle del grande santuario di Yahwè: Dio stesso ha scelto per sé tali uomini ed ha raccolto dai confini estremi del mondo questi Suoi ministri [ministri della Sua giustizia] tra i più valorosi d’Israele, per custodire con fedeltà e vigilmente il letto del vero Salomone – cioè il Santo Sepolcro – tutti armati di spada ed esperti quant’altri mai nell’arte della guerra (Sal 117, 23).

Il Tempio di Salomone, in tutta la sua immane portata storica e simbolica, viveva dunque nel nome stesso dei Templari. E in qualche modo, come vedremo, li predestinava a entrare nella leggenda. Ma qual era la forma di questo santuario? HIRAM, BOAZ E JACHIN Perciò Davide disse: «Questa è la casa del Signore Dio, e questo è l’altare per gli olocausti di Israele». Allora Davide ordinò di radunare gli stranieri che si trovavano nel paese di Israele e diede incarico agli scalpellini di squadrare pietre per la costruzione della casa di Dio. Davide preparò ferro in abbondanza per i chiodi dei battenti delle porte e per le grappe di ferro, bronzo in tale abbondanza da non potersi pesare. Il legname di cedro non si contava, giacché quelli di Sidone e di Tiro avevano inviato a Davide legname di cedro in abbondanza. (I Cronache 22, 1-5)

Narra il Primo Libro delle Cronache che Davide, conquistata Gerusalemme e fattane la sua capitale, edificò per se stesso un palazzo; poi decise di costruirvi un Tempio, per 13­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

custodire l’Arca dell’Alleanza in un luogo che fosse adeguato alla gloria del Signore. Il prezioso reliquiario di legno, segno visibile della presenza di Yahwè, fino ad allora era stato alloggiato sotto una tenda. Per bocca del profeta Natan, Dio fece tuttavia sapere a Davide che l’opera sarebbe stata compiuta soltanto da suo figlio; troppe guerre aveva combattuto l’Unto di Dio, troppo sangue aveva versato, mentre suo figlio sarebbe stato un sovrano di pace, come indicava anche il suo nome: Salomone. Così il sovrano preparò i materiali che il successore avrebbe utilizzato e incaricò 24.000 persone fra i capi, i sacerdoti e i leviti perché sovrintendessero alla costruzione22. L’area prescelta era il monte Moria, il luogo dove un giorno era stato preparato il sacrificio di Isacco (Gen 22, 2). L’altare degli olocausti nel nuovo Tempio, secondo la volontà di Davide, doveva restare quello che lui stesso aveva innalzato sull’aia acquistata da Ornan il Gebuseo. La descrizione presente nel Libro dei Re lascia capire che lo splendore di questa dimora sacra non dipendeva tanto dall’imponenza delle dimensioni, quanto dal fasto straordinario del suo apparato decorativo. Dagli studi archeologici emerge che in effetti l’edificio non era molto grande, misurando circa trenta metri di lunghezza per nove o dieci di larghezza; quanto allo splendore dell’opera, Giuseppe Flavio nelle Antichità giudaiche (VIII, III, 68, 74-75) ne ha lasciato una descrizione inequivocabile: Sotto ai troni aveva fatto un soffitto diviso a intagli d’oro. Ricoprì le pareti di tavolati di cedro ricoperti d’oro, sicché tutto il Tempio scintillava da ogni parte e, dallo splendore dell’oro, tutte le parti risplendevano abbagliando gli occhi di quanti entravano. [...] Egli lastricò il pavimento del Tempio con lamine d’oro, e alla porta del tempio mise degli usci proporzionati all’altezza dei muri: venti cubiti di larghezza, e anche questi ricopre d’oro. In una parola, non lasciò parte alcuna del Tempio, sia dentro che fuori, che non fosse d’oro. 14­­­­

I. In principio era il Tempio

Per realizzare l’impresa, Salomone chiese l’aiuto del re di Tiro Chiram, un nome che si trova in diverse varianti con suoni similari: in ebraico è hiram, forma che si ritiene una delle traslitterazioni più vicine alla fonetica dell’originale nome fenicio. Dietro un compenso non proprio modico (olio e cereali, oltre alla cessione di ben venti villaggi della Galilea), gli fornì il legname proveniente dalle foreste del Libano, essenzialmente legno di cedro23. Nella cultura dell’Antico Testamento, il cedro non è un legno qualunque ma piuttosto l’essenza che caratterizza l’edilizia dei santuari e dei palazzi reali o aristocratici; la stessa imponenza del fusto, che raggiungeva un’altezza di trenta metri, ne faceva un simbolo di grandezza e di maestà. Questo albero possedeva nell’antica cultura del Medio Oriente anche un valore simbolico oggi difficile da definire, ma sappiamo dal Levitico (14, 1-9, 48-53) che le sue ceneri erano impiegate in certi rituali per purificare i lebbrosi e le case, mentre secondo Isaia (44, 14) questo legname si usava per intagliare gli idoli24. Dal re di Tiro vennero offerte anche le maestranze qualificate, in particolare l’architetto Curam, detto anche CuramAbi, che era figlio di un uomo fenicio e di una donna ebrea, della tribù di Dan o di Neftali. Le moderne ricostruzioni archeologiche, che hanno cercato per quanto possibile di sondarne l’aspetto, confermano i dati biblici in questo senso: il progetto e la decorazione del Tempio erano chiaramente ispirati a quelli fenici25. Dopo, Salomone mandò la richiesta ad Eirom affinché inviasse un artigiano da Tiro, chiamato Cheiròm che da parte di madre era Neftalita – lei veniva, infatti, da quella tribù –, e il padre di lei si chiamava Uria di stirpe israelita. Costui era espertissimo in ogni mestiere, e particolarmente valente nella lavorazione dell’oro, dell’argento e del bronzo: e fu lui che eseguì ogni cosa riguardante il Tempio secondo il volere del re. (Antichità giudaiche, VIII, III, 76) 15­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

Ai lati dell’entrata sorgevano due colonne, che non avevano alcuna funzione architettonica; nell’immaginario dei secoli a venire conosceranno una fortuna e una longevità che forse il loro costruttore non avrebbe immaginato. Quella a nord, cioè a destra guardando l’ingresso, aveva il nome di Jachin (in ebraico yākîn, che significa probabilmente «Dio renderà solido»); l’altra, quella a sud, di Boaz (da bō’az, «con forza»). Dovevano rappresentare simbolicamente la durata che il Tempio e il suo culto avrebbero avuto nei secoli? Sembrerebbe di sì, a giudicare dai nomi. Erano fatte entrambe di bronzo – o, come si crede oggi, con un fusto di legno rivestito da placche bronzee –, avevano dimensioni imponenti (18 cubiti di altezza, cioè circa 8 metri) ed erano sormontate da capitelli alti 5 cubiti (circa 2,25 metri), decorati un fregio raffinatissimo26. Fu questo Cheiròm che innalzò le due colonne di bronzo dello spessore di quattro dita, l’altezza era di diciotto cubiti, e dodici di circonferenza; sul capitello di ognuna vi era un giglio di metallo fuso che si elevava all’altezza di cinque cubiti, attorno stava una reticella intrecciata a fogliame di bronzo che copriva i gigli: e da questa pendevano duecento melograne disposte in due file. Una di queste colonne la collocò allo stipite destro del vestibolo, e la chiamò Jachein, collocò l’altra allo stipite sinistro e la chiamò Abaiz. (Antichità giudaiche, VIII, IV, 77-78)

Il loro senso esatto sfugge tuttora agli studiosi, che hanno riscontrato la presenza di simili colonne nel tempio di Kamid el-Loz (in Libano), costruito nell’età del Bronzo recente. Si suppone che fossero inserite nella struttura del Tempio per continuare la tradizione dei grandi betili presenti nei santuari cananei, cioè imponenti pietre erette in onore della divinità che indicavano la presenza fisica del dio stesso e l’installazione del suo culto. Se così fosse, si tratterebbe di una chiara sopravvivenza di abitudini pagane, ma l’ipotesi non ha mai trovato riscontro in prove sicure27. 16­­­­

I. In principio era il Tempio

PER CUSTODIRE L’ARCA DELL’ALLEANZA Nei suoi tratti fisici, il Tempio era un edificio a pianta rettangolare orientato da est a ovest, con l’ingresso a oriente. Già entrando nel cortile, l’occhio umano poteva scorgere una presenza grandiosa, un enorme catino lustrale fatto interamente di bronzo, che doveva risplendere come se fosse d’oro: Fuse ancora il Mare di bronzo a foggia di emisfero: questo vaso di bronzo fu chiamato mare a motivo della sua capacità. Era, infatti, un catino fuso del diametro di dieci cubiti e dello spessore di un palmo; era sostenuto da una spirale innestata nel cuore del vaso, che girava in dieci volute, e aveva il diametro di un cubito. Attorno al mare stavano dodici buoi con la faccia rivolta ai quattro venti, tre per ogni direzione, e tenevano la parte posteriore abbassata di modo che l’emisfero poggiasse sopra di essi a mano a mano che tutto attorno si stringeva. Il mare poteva contenere tremila bath. [...] Riempito il Mare di acqua, lo destinò ai sacerdoti affinché potessero lavarsi mani e piedi quando entravano nel tempio e dovevano salire all’altare, mentre i catini erano destinati alla pulizia delle interiora e dei piedi degli animali offerti in olocausto. (Antichità giudaiche, VIII, IV, 79-80, 87)

Del resto, voleva la tradizione biblica che il sovrano avesse inviato una spedizione nel paese chiamato Sofeir, o «terra dell’oro»; il luogo corrisponde alla misteriosa terra di Ofir citata nei Salmi (45, 10), nel Libro di Giobbe (22, 24) e in Isaia (13, 12), dalla quale arrivarono a Gerusalemme anche pietre preziose e legni esotici usati per fare i pilastri del santuario28. La planimetria del Tempio era composta da tre stanze poste in fila l’una dopo l’altra. La prima aveva il nome di Ulam, e costituiva il vestibolo o portico. Era larga circa nove metri e profonda quattro metri e mezzo29. Dal vestibolo si accedeva alla seconda stanza, chiamata Hekal, da un termine di origine sumerica (egal, «grande casa») che indicava un santuario o un 17­­­­

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palazzo. Era propriamente la sala del culto, e in seguito riceverà il nome di Santo. Vi si trovavano l’altare dei profumi, detto anche altare di cedro o altare d’oro (fatto a forma di pilastro quadrangolare con i due angoli in forma di corno), la tavola con i pani dell’oblazione (un’offerta vegetale che accompagnava quella cruenta degli animali immolati) e dieci candelieri30. Dall’Hekal si accedeva all’ultima stanza, i veri penetrali del Tempio, attraverso una porta che dopo l’esilio, forse per influsso dovuto alla visione dei templi babilonesi, fu sostituita da un velo finemente ricamato. Era il Debir («camera posteriore»), o Santo dei Santi, il luogo più sacro, dove era riposta l’Arca dell’Alleanza. Questa era un cofano fatto di legno sormontato da una possente struttura detta propiziatorio (in ebraico kapporet), un monumentale coperchio grande quanto l’Arca stessa, decorato alle estremità da due figure di cherubini (da kerûb, benedicente») forgiate in oro massiccio, una di fronte all’altra; intrecciando fra loro le punte delle ali, dice Giuseppe Flavio, coprivano l’Arca come una specie di tenda o cupola31. Lo scrigno era il segno tangibile e il luogo stesso della presenza divina, poiché secondo il Primo Libro di Samuele (4, 4) «Yahwè siede sui cherubini». Prima che Salomone realizzasse il Tempio, l’Arca era ospitata sotto la Tenda del Convegno, un santuario mobile fatto da pelli di montone tinte di rosso; secondo il Primo Libro dei Re, dentro l’Arca non c’era niente, ma successive redazioni scrivono che conteneva le due tavole di pietra sulle quali Mosè aveva scritto i dieci comandamenti, l’urna d’oro che racchiudeva la manna con cui Dio aveva nutrito il suo popolo durante la traversata del deserto e il bastone di Aronne che era prodigiosamente germogliato32. Il Santo dei Santi era un luogo inviolabile in cui entrava soltanto il sommo sacerdote, dopo aver compiuto un lungo ed elaborato rituale di purificazione. Vi entrava una sola volta all’anno per compiere il rito dell’Espiazione, forse la solennità maggiore del culto di Yahwè, che aveva una sua ritualità particolare, dettagliata e molto complessa. Dopo aver immo18­­­­

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lato un giovenco per sé e la sua famiglia, il sommo sacerdote entrava nel santuario e bruciava incenso fino a formare una nube così densa da coprire il propiziatorio posto sull’Arca: in tal modo Dio era presente e nascosto al tempo stesso. Con il sangue del giovenco aspergeva l’Arca dell’Alleanza e il propiziatorio, poi lo mischiava a quello del capro immolato a Yahwè per lavare i peccati del popolo e con la mistura aspergeva i corni dell’altare, che l’Esodo (30, 10) dice «di una santità eminente»33. Nell’anno 598 le truppe babilonesi di re Nabucodonosor saccheggiarono Gerusalemme, e il Tempio fu depredato dei suoi arredi: Il re di Babilonia portò via tutti i tesori del Tempio e i tesori della reggia [...] Deportò tutta Gerusalemme, tutti i funzionari di palazzo e tutti i soldati di carriera in numero di diecimila, tutti gli artigiani; rimasero soltanto i poveracci. (II Re 24, 13-14)

Il numero delle persone deportate non è certo, ma sembra chiaro che fu trasferita la parte più ricca della società locale, i maggiorenti, mentre gli strati inferiori della popolazione rimasero in loco; le funzioni religiose nel Tempio proseguirono, anche se il santuario aveva perduto i suoi arredi più preziosi. Dodici anni dopo, Gerusalemme fu di nuovo occupata e stavolta la punizione dei babilonesi fu più dura, anche contro il santuario che rappresentava per il popolo un simbolo insostituibile di identità etnica e politica. Boaz e Jachin, le due colonne che avevano addirittura un nome e quindi una specie di personalità, vennero brutalmente prese di mira dalla furia degli invasori: I babilonesi fecero a pezzi le colonne di bronzo [...] presero inoltre tutti gli arredi sacri [...] quanto era d’oro e quanto era d’argento. (II Re 25, 13-16) 19­­­­

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Evidentemente, durante il primo saccheggio non era stato portato via proprio tutto ciò che aveva valore; o, forse, questa seconda spoliazione si riferisce al fatto che stavolta furono staccate anche le placche d’oro che rivestivano diversi punti del santuario. Seriamente danneggiato, il santuario venne anche dato alle fiamme; secondo Giuseppe Flavio, questo accadde 470 anni, sei mesi e dieci giorni dopo la sua erezione. UN SACRARIO IMMORTALE Benché distrutto, il santuario salomonico non scomparve e, seppur devastato, rimase il cuore ideale dell’ebraismo. L’area sacra continuava a ospitare un culto che non venne mai interrotto, e restò in città anche una classe di sacerdoti che officiavano i sacrifici a Yahwè: il Libro di Geremia (41, 5) narra infatti di un pellegrinaggio al Tempio poco dopo questi eventi34. I libri della Scrittura redatti durante l’esilio sono colmi del rimpianto per il Tempio perduto, ne celebrano la grandezza e lasciano ai posteri il monito solenne di ricostruirlo. Il profeta Ezechiele fu trasportato in trance dalla potenza divina e vide il grande santuario celeste, immagine ideale di quello terreno: Al principio dell’anno venticinquesimo della nostra deportazione, il dieci del mese, quattordici anni da quando era stata presa la città, in quel medesimo giorno, la mano del Signore fu sopra di me ed egli mi condusse là. In visione divina mi condusse nella terra d’Israele e mi pose sopra un monte altissimo sul quale sembrava costruita una città, dal lato di mezzogiorno. Egli mi condusse là: ed ecco un uomo, il cui aspetto era come di bronzo, in piedi sulla porta, con una cordicella di lino in mano e una canna per misurare. Quell’uomo mi disse: «Figlio dell’uomo: osserva e ascolta attentamente e fa’ attenzione a quanto io sto per mostrarti, perché tu sei stato condotto qui perché io te lo mostri e tu manifesti alla casa d’Israele quello che avrai visto». [...] 20­­­­

I. In principio era il Tempio

Lo spirito mi prese e mi condusse nell’atrio interno: ecco, la gloria del Signore riempiva il tempio. Mentre quell’uomo stava in piedi accanto a me, sentii che qualcuno entro il tempio mi parlava e mi diceva: «Figlio dell’uomo, questo è il luogo del mio trono e il luogo dove posano i miei piedi, dove io abiterò in mezzo agli Israeliti, per sempre». (Ez 40, 1-4; 43, 5-7)

Nell’anno 539 a.C. Ciro il Grande occupò Babilonia, e all’impero babilonese si sostituì quello persiano. Molto più liberale degli antichi dominatori, aveva in sé un’idea monoteistica della divinità, e anche se il suo dio non era quello degli ebrei, fu generoso con loro. Ebbero il permesso di tornare in patria e di riportare nel Tempio gli arredi sacri un tempo depredati: Il re Ciro fece trarre fuori gli arredi del Tempio di Yahwè, che Nabucodonosor aveva portato via da Gerusalemme e aveva deposto nel tempio del suo dio. Ciro, re di Persia, dette ordine di tirarli fuori al tesoriere Mitridate, il quale li consegnò a Sheshbassar, re vassallo di Giudea. (Ezra I, 7-8)

Sheshbassar, che non era un sovrano ma piuttosto un delegato della monarchia persiana, si incaricò di ristrutturare il santuario, e i lavori furono terminati da suo nipote Zorobabele. Come la mitica fenice, simbolo antichissimo di rinascita, il Tempio sembrava avere un destino di continua resurrezione. Segni celesti molto evidenti mostravano che la sua santità era immortale. L’edificio poteva essere devastato e incendiato, persino raso al suolo; ma il Tempio non era mai stato soltanto un’opera muraria. Dentro la scatola preziosa di pietre finemente intagliate, di legni pregiati rivestiti da placche d’oro, esisteva un santuario inestinguibile, perché fatto di sostanza spirituale; il Secondo Libro dei Maccabei lo descrive dietro il simbolo del fuoco sacro che ardeva sull’altare delle offerte al Signore: 21­­­­

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Infatti quando i nostri padri furono deportati in Persia, i sacerdoti fedeli di allora, preso il fuoco dall’altare, lo nascosero con cautela nella cavità di un pozzo che aveva il fondo asciutto e là lo misero al sicuro, in modo che il luogo rimanesse ignoto a tutti. Dopo un buon numero di anni, quando piacque a Dio, Neemia, rimandato dal re di Persia, inviò i discendenti di quei sacerdoti che avevano nascosto il fuoco a farne ricerca; quando essi ci riferirono che non avevano trovato il fuoco ma acqua grassa, comandò loro di attingerne e portarne. Poi furono portate le offerte per i sacrifici e Neemia comandò che venisse aspersa con quell’acqua la legna e quanto vi era sopra. Così fu fatto e dopo un po’ di tempo il sole, che prima era coperto di nubi, cominciò a risplendere e si accese un gran rogo, con grande meraviglia di tutti. (II Maccabei 1, 19-22)

Nell’anno 167 Antioco IV Epifane volle profanarlo, e fece celebrare sacrifici a Zeus sull’altare degli olocausti. L’azione rientrava in un progetto che voleva togliere agli ebrei le loro rigide abitudini culturali e religiose, per ellenizzarli e renderli così più integrati nel quadro politico della nuova monarchia nata dalle conquiste di Alessandro Magno e dei suoi generali. Nello stesso periodo storico la Bibbia venne tradotta in greco nella città di Alessandria d’Egitto, e questo nuovo testo, detto dei Settanta perché secondo la tradizione vi lavorarono settanta sapienti, si diffuse tanto da essere letto in tutte le sinagoghe, facendo praticamente cadere in disuso quello originale in lingua ebraica, ormai diventato un idioma di uso erudito e sacerdotale35. Gli ebrei accettarono senza drammi il fatto di non ascoltare più la Torah nella loro lingua nativa, anche se era quella con cui Dio aveva parlato ai profeti, quella in cui erano stati scritti i dieci comandamenti. Le profanazioni del santuario scatenarono invece un violento moto di rivolta che culminò nella guerra dei Maccabei. Il Tempio ne fu l’epicentro: Giuda intanto e i suoi fratelli dissero: «Ecco, sono stati sconfitti i nostri nemici: andiamo a purificare il santuario e a riconsacrarlo». 22­­­­

I. In principio era il Tempio

Così si radunò tutto l’esercito e salirono al monte Sion. Trovarono il santuario desolato, l’altare profanato, le porte arse e cresciute le erbe nei cortili come in un luogo selvatico o montuoso, e gli appartamenti sacri in rovina. Allora si stracciarono le vesti, fecero grande pianto, si cosparsero di cenere, si prostrarono con la faccia a terra, fecero dare i segnali con le trombe e alzarono grida al Cielo. Giuda ordinò ai suoi uomini di tenere impegnati quelli dell’Acra, finché non avesse purificato il santuario. Poi scelse sacerdoti incensurati, osservanti della legge, i quali purificarono il santuario e portarono le pietre profanate in luogo immondo36.

Pare che la sensibilità popolare non amasse molto questo secondo santuario, sia perché era più piccolo e modesto di quello edificato da Salomone, sia perché aveva una forma quadrata, ben radicata nella cultura della Mesopotamia ma estranea alla tradizione ebraica37. Più tardi Erode il Grande fece smantellare il secondo Tempio per sostituirlo con un’opera grandiosa, capace di reggere il confronto con ciò che nell’immaginario degli ebrei, e negli scritti dei profeti, era stato il santuario di Salomone. L’opera richiese oltre un secolo per essere portata a compimento, ed era concepita per ricordare la maestà del Tempio edificato quasi mille anni prima. Attento alle esigenze del suo popolo e volendo compiere una potente manovra demagogica, Erode ordinò ai suoi architetti di studiare minuziosamente le profezie di Ezechiele, affinché si vedesse realizzato ciò che Israele aveva tanto a lungo sognato e atteso. Fu addirittura raddoppiata l’area sacra del Moria, l’altopiano nordorientale della città dove sorgeva il santuario, con un’ardita opera di terrazzamenti sostenuti da costruzioni gigantesche; poi vennero stabilite basi di pietra fatte di blocchi enormi, alcuni dei quali giungevano addirittura a due metri di altezza e dodici di lunghezza. Il santuario vero e proprio, che mantenne la sua struttura tradizionale incentrata sulle tre stanze (Ulam, Hekal e Debir), si vedeva sorgere alto verso il cielo, a sormontare una struttura progressiva fatta di cortili concentrici, sempre più stretti e più elevati via via che il senso della sacralità si faceva più denso 23­­­­

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e diminuiva il numero delle persone ammesse ad entrare. Il primo grandissimo recinto inquadrava uno spazio aperto di forma rettangolare che sul lato maggiore misurava ben duecentotrentacinque metri. L’intero perimetro era circondato da grandi portici con colonne alte undici metri, con il tetto in legno di cedro e il pavimento abbellito da pietre colorate. Lungo il lato meridionale l’impressionante Portico Reale, fatto di tre navate di cui la centrale giungeva a misurare ventotto metri d’altezza, aveva colonne così grandi che tre uomini non riuscivano, unendosi, ad abbracciarne il fusto. Questo luogo era accessibile a tutti, e vi si andava anche per discutere di affari, politica e cultura, come si faceva nei Fori romani. Nel centro del grande piazzale sorgeva il santuario vero e proprio, inquadrato da un secondo recinto. Quindici gradini guidavano verso l’ingresso del muro esterno, mentre alcune scritte sulle colonne ammonivano i pagani a non oltrepassare la soglia, perché quel cammino, scandito da ben tredici porte, era riservato alla sola gente del popolo eletto. L’effetto generale era quello di una magnificenza capace di impressionare gli stranieri: All’esterno del Tempio non mancava nulla per impressionare né la mente né la vista; infatti essendo ricoperto dappertutto di massicce piastre di oro, fin dal primo sorgere del sole era tutto un riflesso di bagliori, e a chi si sforzava di fissarlo faceva abbassare lo sguardo come per i raggi solari. Agli stranieri in viaggio verso Gerusalemme esso appariva da lontano simile a un monte coperto di neve, perché dove non era ricoperto d’oro era bianchissimo. (Guerra giudaica, V, 5, 222-223)

Le donne entravano nel primo recinto senza procedere oltre, mentre un’altra scala, fatta di quindici gradini bassi, conduceva al cortile degli uomini; qui dominava lo scenario la magnifica porta di bronzo donata come ex voto da Nicanore, un ricco ebreo di Alessandria d’Egitto, grato a Dio per essere scampato a un naufragio. Era talmente imponente e pesan24­­­­

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te che per manovrarla, secondo Giuseppe Flavio, serviva la forza di venti uomini. Al di sopra, separato da una balaustra dopo tre gradini, stava il cortile dei sacerdoti, dall’alto del quale era impartita la benedizione al popolo; infine si incontrava l’ultimo recinto, grande circa sessanta metri per ottanta, dove si immolavano gli animali per i sacrifici. Ma ancora oltre, più in alto delle grida miserevoli delle vittime sgozzate e del fumo acre proveniente dalle viscere bruciate, sorgeva il Tempio vero e proprio. Entrando nel vestibolo, passato il colonnato alto trenta metri e largo quarantacinque, un profondo silenzio sacrale faceva dimenticare le scene cruente del recinto più interno, come pure la calca dei mercanti e della varia umanità che affollava quello inferiore, dove Gesù si adirò contro i mercanti e i cambiavalute38. La porta era di cedro placcata d’oro, sovrastata da una vite anch’essa in oro, simbolo della Creazione, della saggezza e del popolo d’Israele. Un magnifico velo ricamato secondo l’usanza babilonese la chiudeva, molto prezioso anche se più piccolo di quello esterno, lungo addirittura ventotto metri39. Circondato da un labirinto di trentotto stanze e una galleria dai muri tappezzati di legni incorruttibili, con un sistema di veli disposti in modo da celarlo allo sguardo umano, stava il Santo dei Santi. Era il Kadosh kadoshim: completamente vuoto, ora che l’Arca era stata deportata, accessibile al sommo sacerdote unicamente per un giorno l’anno, abitato soltanto dall’Invisibile Presenza. ALLA RICERCA DEL TEMPIO PERDUTO Il Tempio prende forma nella mente degli uomini. [...] Il Tempio non è mai semplicemente un edificio distrutto. È diventato il più potente simbolo della ricerca umana di un ideale perduto, un’immagine della grandezza antica e di quella a venire40.

Il mattino del 28 agosto dell’anno 70 il generale Tito, figlio di Vespasiano e comandante in capo dell’esercito di Roma, si 25­­­­

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preparava all’assalto finale contro Gerusalemme, dopo tre anni di guerra combattuta per sedare la rivolta degli ebrei nella provincia della Giudea. Durante la battaglia, un soldato romano lanciò un tizzone ardente dentro una delle basse porte dorate del Tempio: gli antichi arredi di legno di cedro divamparono all’istante. Finito il combattimento, i romani rasero completamente al suolo ciò che dell’edificio era rimasto41. Una specie di sinistra fatalità incombeva sul mistico edificio. Descrivendo la sua distruzione ad opera delle legioni di Tito, durante la guerra giudaica, Giuseppe Flavio sembra quasi evocare la predestinazione di questo luogo sacro alla rovina. Una rovina causata dagli stessi ebrei, che vi si erano asserragliati dentro, mettendo i romani nella necessità di distruggerlo per stanare la radice della rivolta. Una rovina scritta in qualche modo nel destino, perché cadde esattamente lo stesso giorno in cui, secoli prima, era stato dato alle fiamme dalle truppe di Nabucodonosor: Tito si ritirava dalla [fortezza] Antonia deciso a scatenare all’alba del giorno dopo un assalto con tutte le forze per investire da ogni parte il tempio. Questo già da parecchio tempo era stato dal dio condannato alle fiamme, e col volger degli evi ritornò il giorno fatale, il dieci del mese di Loos, quello in cui una volta esso era già stato incendiato dal re dei babilonesi42.

Gli ebrei furono severamente colpiti da una nuova, umiliante deportazione; e quelli che abitavano sparsi nei vari territori dell’impero romano dovettero subire un’altra punizione che li colpiva economicamente, ma soprattutto feriva il loro senso di identità: una tassa pro capite molto onerosa (fiscus giudaicus), imposta persino alle donne e ai bambini dai tre anni in poi. Anche in passato i giudei pagavano una quota da inviare a Gerusalemme per celebrare il sacrificio del Tempio, che restava il cuore fisico e l’orizzonte ideale del loro culto; Vespasiano usò invece questo importo per ricostruire il sacrario di Giove sul Campidoglio. Un simi26­­­­

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le intento punitivo offendeva profondamente la sensibilità religiosa degli ebrei: il loro denaro veniva usato per il culto degli idoli43. Al Tempio fisico, distrutto, si sommava anche il Tempio spirituale, profanato dalle azioni impure e vessatorie di Vespasiano. Nell’anno 132 il rivoluzionario Shimon Bar Kochba (in ebraico, «figlio della stella») si proclamò Messia; enfatizzando gli aspetti politici di questo ruolo, che a quel tempo possedeva molti significati diversi, animò l’ultima rivolta giudaica contro la dominazione romana. Il Tempio distrutto venne ricostruito, benché in modo sommario; poco dopo, nel 135, l’imperatore Adriano sgominò la rivolta e fece radere al suolo l’intera città di Gerusalemme, facendo erigere al suo posto una metropoli concepita secondo i canoni dell’urbanistica imperiale, e dandole un nome derivato dal suo gentilizio: Aelia Capitolina. Il grande santuario dunque non esisteva più. Era perduto, dimenticato sotto il lastricato della nuova città romana, mentre gli ebrei se ne andavano in esilio e i rabbini, nella città di Jamnia, si riunivano per assicurare una continuità alla loro tradizione culturale e religiosa. Il Tempio del resto non era mai stato semplicemente un edificio, un mero cumulo di materiali inerti, per quanto preziosi e raffinati; prima di ogni altra cosa, era il mezzo del contatto fra l’uomo e Dio. Una comunicazione che in effetti poteva avvenire comunque, senza che necessariamente vi fossero intorno portici enormi ed arredi d’oro massiccio. Per gli ebrei continuava ad essere il simbolo più forte della loro identità religiosa e culturale, dunque continuarono a rappresentarlo seguendo quanto dicevano la Scrittura e la tradizione. La porta del vestibolo, quella affiancata dalle due colonne di bronzo con un nome proprio dal senso misterioso, sembra aver giocato un ruolo importante nell’iconografia del santuario, quasi una specie di identikit della struttura. A Dura Europos (nella Siria sudoccidentale) è stato rinvenuto il sito di un’antica sinagoga edificata verso il 160-170, e 27­­­­

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poi ingrandita intorno al 250; ha la particolarità di possedere i muri decorati da trenta bellissimi affreschi disposti su tre file che ritraggono molte figure, anche umane (l’Arca, i patriarchi e diversi profeti). La mentalità cosmopolita affermatasi in Medio Oriente durante la tarda antichità rendeva possibile in certi casi transigere sul rigido divieto biblico di fare ritratti per non cadere nell’idolatria44. Negli affreschi di questa sinagoga è riprodotto anche il Tempio, accanto al candelabro a sette bracci e ad altri oggetti ebraici riservati al culto; è una raffigurazione frontale e schematica che mostra una porta chiusa a due battenti, affiancata da quattro colonne, non quindi solo due, come nel santuario salomonico. Qualcosa di molto simile compare su una moneta coniata al tempo della rivolta giudaica di Bar Kochba; possiamo ragionevolmente presumere che fosse quella, almeno ai tempi dell’impero romano, l’immagine in qualche modo canonica per ritrarre il leggendario Tempio. Siamo ormai in epoca pienamente cristiana. E per i cristiani, d’altro canto, non era un luogo meno importante né meno carico di significati spirituali. GESÙ NEL TEMPIO La separazione rispetto agli ebrei si era consumata dopo l’anno 90, quando i rabbini emisero delle norme che miravano ad escludere gli eretici dalle comunità ebraiche, misure che colpivano in primo luogo i giudeo-cristiani. Il Talmud di Babilonia e quello di Gerusalemme, due compilazioni successive, riportano la sostanza di una preghiera (la birkat hammînîm) che si rivolge al Signore affinché sradichi l’apostasia, e nella parola che indica i settari (mînîm) sono inclusi i cristiani, cioè quanti identificavano il Messia d’Israele con Gesù di Nazareth45. Nondimeno, i seguaci del Nazareno rimasero per molto tempo legati alla loro cultura d’origine, ereditandone alcune pratiche di culto, e anche le tradizioni. Per i giudeocristiani il Tempio restava comunque un luogo speciale; già 28­­­­

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venerabile per quanto narrato nell’Antico Testamento, lo divenne ancora di più grazie a ciò che in esso aveva fatto e insegnato il Nazareno46. Nel Tempio il vangelo di Luca pone la preistoria del cristianesimo. Zaccaria era un sacerdote della classe di Abia, l’ottava fra quelle istituite da Davide per regolare i turni di servizio settimanale nel santuario; in visione, l’arcangelo Gabriele gli parlò mentre era il suo turno di offrire l’incenso sull’altare del santo, e gli annunciò la futura nascita del Battista47. Sempre nel Tempio avvennero le più precoci manifestazioni della natura eletta di Gesù: al momento in cui viene presentato dai genitori con l’offerta rituale dei colombi, Simeone, un uomo giusto cui era stato predetto che non sarebbe morto prima di aver visto con i suoi occhi il Messia, indotto dallo Spirito salì al Tempio e riconobbe l’Unto del Signore nel bambino. Nel santuario abitava la profetessa Anna, figlia di Fanuele della tribù di Aser; sopraggiunta in mezzo a loro, anche lei riconobbe la messianicità del bambino. All’età di dodici anni, durante il pellegrinaggio che ogni anno compivano Maria e Giuseppe in occasione della Pasqua, Gesù dimostra di possedere la Parola divina come un dono innato, tanto da poter discutere di cose sacre con i dottori della Legge48. Durante la sua missione, il Nazareno era salito al Tempio per svolgervi le proprie devozioni, da buon ebreo, e anche per insegnare. Condotto sul pinnacolo più alto, era stato tentato da Satana; aveva irritato la potente classe dei sacerdoti sadducei proprio perché criticava il culto tradizionale basato sull’offerta di sacrifici e invitava alla conversione dell’anima, a un nuovo tipo di culto soprattutto spirituale. Nel cortile esterno affollato di gente, Gesù aveva rovesciato i banchi dei cambiavalute accusando i sacerdoti di tollerare che una casa di preghiera fosse ignobilmente trasformata in un mercato. Nel vangelo di Giovanni, dove il misticismo è più intenso rispetto ai tre sinottici, il Tempio distrutto e ricostruito in tre giorni serve come immagine a Gesù per indicare il proprio corpo, predicendo ai discepoli la morte in croce e la futura 29­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

resurrezione. Di conseguenza, Paolo di Tarso adotta l’idea del Tempio per indicare i cristiani, che formano tutti insieme il corpo mistico di Cristo, mentre nella Lettera agli Ebrei si parla di un Tempio celeste nel quale Cristo entrò con il dono del proprio sangue. È il santuario «non fatto da mani d’uomo», che si contrappone a quello antico e inferiore, benché venerabile, che restava comunque un prodotto della tecnica umana, e perciò deperibile49. Alla fine del racconto della Passione, è il santuario stesso che sembra urlare contro il delitto commesso da coloro che hanno crocifisso Gesù: il velo del Tempio si squarciò a metà, un evento riportato da tutti e tre i sinottici (Mc 15, 38; Mt 27, 51; Lc 23, 44). Fisicamente, quell’oggetto era uno dei due preziosi teli sacri posti nel santuario, e si ritiene che la sua lacerazione sia dovuta al terremoto che si verificò in quello stesso momento; ma la tradizione evangelica menziona e discute il fatto concreto solo se riflette un senso ulteriore, spirituale50. Era inevitabile che gli scrittori cristiani attribuissero al santuario di Gerusalemme il ruolo di scenario ideale nel quale, forse più che altrove, la natura divina di Cristo si era manifestata agli uomini. Ai loro occhi, la missione e il ministero del Nazareno si erano svolti entro questo spazio speciale, fulcro del culto giudaico, proprio per indicare come il cristianesimo nascesse dalla radice più autentica del giudaismo, però lacerandolo, in un certo senso, e superandolo. Ma c’erano tradizioni parallele, confluite soprattutto negli scritti apocrifi, che legavano al Tempio anche la figura della madre Maria: nel Protovangelo di Giacomo si racconta di come Maria fosse stata allevata proprio nel santuario fino all’età di dodici anni, momento in cui la legge ebraica consentiva alle donne di sposarsi. Nel Tempio filava la porpora, un materiale prezioso usato per gli arredi sacri, ad esempio i velami, la copertura della Tenda del Convegno, le vesti del sommo sacerdote e altri oggetti liturgici; ciò ne faceva una donna consacrata alla sua futura missione, predestinata51. Il Testamento di Beniamino, che è parte di una raccolta 30­­­­

I. In principio era il Tempio

di apocrifi nota come Testamenti dei Dodici Patriarchi, presenta una suggestiva mescolanza di elementi che rispecchia la sensibilità religiosa e le idee di questa cultura cristiana in formazione. Composto verso l’anno 200 a partire da testi anteriori, i testamenti di Levi e di Neftali, contiene anche elementi provenienti dai romanzi ellenistici, allora molto in voga; in esso, il Tempio diventa un luogo metafisico, trascendente, interno all’anima, la parte dell’uomo dove si compiono i misteri della salvezza: Solo in una parte di voi resterà il tempio di Dio e sarà anche più glorioso del primo, e là si raduneranno le dodici tribù e tutti i pagani, fino a quando l’Altissimo invierà la sua salvezza con la visita del suo unigenito. Ed egli entrerà nel primo tempio, dove il Signore sarà insultato e sollevato sul legno. E la tenda del tempio sarà lacerata, e lo spirito di Dio discenderà sui pagani come fuoco che si diffonde52.

Nell’esegesi cristiana, il grande santuario divenne un luogo metafisico, intorno al quale si affollavano tradizioni antichissime e intensi ricordi del culto, ma anche echi di guerra. DEUS SABAOTH. I TEMPLARI E LA GUERRA SANTA I due libri dei Maccabei, considerati canonici sin dai tempi più antichi, contengono molti passi che sono propriamente inni militari. Vennero scritti per implorare Dio di dare la vittoria ai suoi combattenti, che lottano per una causa giusta e santa; durante l’età delle crociate, i Maccabei fornivano materiale prezioso per i sermoni e le omelie, ed erano una fonte di ispirazione tanto più autorevole perché proveniente da un testo sacro ispirato direttamente da Dio. San Bernardo di Chiaravalle conosceva profondamente la Bibbia, e sull’interpretazione della Sacra Scrittura si fondava la cultura teologica del suo tempo, che non aveva ancora conosciuto la filosofia scolastica e la riscoperta di Aristotele. Il trattato composto per sostenere l’ordine dei Templari 31­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

trabocca letteralmente di passi della Scrittura, ed è un vero peccato che non sia mai stato compiuto un esame esauriente di questa intensa matrice biblica con cui l’abate forgiò l’etica del primo ordine religioso e militare. A ben vedere, si trattava di una scelta obbligata. Se il teologo voleva spiegare la sua idea del malicidio, se voleva non solo scagionare ma addirittura esaltare il ruolo di chi versa sangue umano per la difesa di una causa religiosa, doveva cercare riferimenti nei libri dell’Antico Testamento, perché quelli del Nuovo erano interamente pervasi da un messaggio di non violenza. Nella predicazione religiosa che animò la prima crociata, l’intervento militare in Terrasanta era giustificato dalle stragi e dalle profanazioni operate dai saraceni invasori, ovvero dai Turchi di etnia selgiuchide che avevano occupato la SiriaPalestina, più aggressivi e intolleranti rispetto agli arabi che l’avevano tenuta per secoli. L’eco delle violenze era giunta in Occidente, dove la cultura ecclesiastica rievocava certi delitti e certi sacrilegi nel Primo Libro dei Maccabei: Versarono sangue innocente intorno al santuario e profanarono il luogo santo. Fuggirono gli abitanti di Gerusalemme a causa loro e la città divenne abitazione di stranieri; divenne straniera alla sua gente e i suoi figli l’abbandonarono. [...] Il suo santuario fu desolato come il deserto, le sue feste si mutarono in lutto, i suoi sabati in vergogna, il suo onore in disprezzo. Quanta era stata la sua gloria altrettanto fu il suo disonore e il suo splendore si cambiò in lutto. (I Maccabei 4, 12-13; 37-40)

Il testo sacro autorizzava a pensare che la resistenza fosse una cosa gradita a Dio, e che anzi il Signore potesse ispirare coraggiosi difensori pronti a morire per il riscatto del suo popolo e del suo santuario: In quel tempo si unì con loro un gruppo degli Asidei, i f­ orti d’Israele, e quanti volevano mettersi a disposizione della legge; inoltre quanti fuggivano davanti alle sventure si univano a loro e diveni32­­­­

I. In principio era il Tempio

vano loro rinforzo. Così organizzarono un contingente di forze e percossero con ira i peccatori e gli uomini empi con furore; gli scampati fuggirono tra i pagani per salvarsi. (I Maccabei 4, 42-44)

Dai Salmi Bernardo trae un’ampia sezione del De laude (III, 5, 6) in cui afferma che uccidere può diventare addirittura un’opera meritoria, se lo si fa per schiacciare i nemici della fede che opprimono i cristiani e profanano i loro luoghi sacri: Siano dunque disperse senza timore le nazioni che vogliono la guerra (Sal 67, 31); siano estirpati coloro che ci minacciano, e siano scacciati dalla città del Signore tutti i malfattori che tentano di portar via da Gerusalemme le inestimabili ricchezze del popolo cristiano ivi riposte, che contaminano i luoghi santi, che si trasmettono di padre in figlio il santuario di Dio. Sia sguainata la doppia spada dei fedeli sulle teste dei nemici per distruggere qualunque superbia [ad destruendam omnem altitudinem] che osi ergersi contro la conoscenza di Dio, che è la fede cristiana, affinché le nazioni non dicano: Dov’ è il loro Dio? (Sal 114, 2).

L’attività dei Templari, eccellenza bellica e morale nell’esercito cristiano, nasce all’interno di questo contesto teologico. Con un’operazione audace e interessante, Bernardo riesce addirittura a inserire i suoi commilitoni di Cristo nel quadro delle profezie di Isaia che annunciano il riscatto di Sion: Rallegrati, Gerusalemme, e riconosci il tempo in cui sei stata visitata. Godete e lodate anche voi, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme; Dio ha mostrato la sua santa potenza al cospetto di tutte le nazioni (Is 52, 9-10). Tu eri caduta, o Vergine d’Israele, e non c’era chi ti risollevasse: sorgi, dunque, o vergine, scuoti la polvere, o sventurata figlia di Sion! Alzati, ti dico, e tieniti eretta nello splendore (Is 52, 2), e vedi la gioia che ti viene dal tuo Dio. Non ti chiameranno più derelitta, e la tua terra non sarà più a lungo detta desolata. Poiché il Signore si è compiaciuto di te (Is 62, 64), ed il tuo territorio sarà ripopolato. Alza gli occhi attorno e guarda: tutti costoro si sono 33­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

riuniti e sono venuti a te (Is 49, 18). Dall’alto ti è stato inviato questo aiuto. Per mezzo di questi [cavalieri] perfettamente si compie l’antica promessa: Io ti conferirò una gloria che durerà nei secoli e la tua gioia sarà di generazione in generazione; tu berrai il latte delle nazioni, ti nutrirai alle mammelle riservate ai re (Is 60, 15).

Poco prima (III, 4-6) aveva detto in modo esplicito che i Templari militano per il Signore esattamente come un tempo fecero i guerrieri di Israele, sicché sono giustificati come lo erano quanti prima di loro combatterono per un’identica causa. In breve, li presenta come i loro successori, coloro che in qualche modo hanno ereditato la stessa nobile missione: Dalla morte dell’infedele il cristiano trae gloria poiché il Cristo viene glorificato: nella morte del cristiano si manifesta la generosità del suo Re che chiama a sé il suo cavaliere per donargli la ricompensa. Pertanto sul nemico ucciso il giusto si rallegrerà vedendo la vendetta (Sal 57, 11). Ma sul cavaliere ucciso si dirà: – Il giusto guadagna ad essere tale? Sì, perché Dio gli rende giustizia sulla terra (Sal 57, 12). Non vedete, dunque, quanta abbondante testimonianza la nuova cavalleria ha ricevuto dai tempi antichi, e che quanto abbiamo udito lo vedremo compiersi nella città del Signore degli eserciti? (Sal 49, 7)

Il messaggio biblico, per Bernardo, va adattato al momento presente e risulta quanto mai attuale. I Templari sono gli eredi dei Maccabei, i figli del nuovo Israele (IV, 8): Pertanto non turbolenti ed impetuosi, senza precipitarsi con leggerezza, si ordinano ponderatamente e con ogni cautela e prudenza si dispongono in assetto di guerra, così come è stato scritto dai nostri padri, come veri figli del [nuovo] Israele pieni di pace s’avanzano per la battaglia. [...] Hanno imparato a non confidare nelle proprie forze, ma ad attendere la vittoria dal volere del Dio degli eserciti, al quale, secondo quanto è scritto nel Libro dei Maccabei, pensano sia molto 34­­­­

I. In principio era il Tempio

agevole mettere molti nelle mani di pochi; e che per il Dio dei cieli non fa differenza salvare i molti o i pochi, poiché la vittoria non sta nel numero dei combattenti, ma nella forza che vien dall’alto (I Mc 3, 18-19). E di ciò hanno fatto molto spesso esperienza, così che generalmente uno solo ne incalza quasi mille e due ne hanno messi in fuga diecimila (cfr. Sal 90).

Questa era l’immagine dei Templari come appariva alla società cristiana nei primi decenni del secolo XII, cioè filtrata alla luce di quanto insegnava la Bibbia, fonte di ogni sapere sacro e affidabile. Esistevano però altri saperi, certo meno autorevoli della Scrittura, ma non per questo meno noti e apprezzati. Erano tradizioni rimaste escluse dal canone dei testi sacri, quelli ispirati direttamente da Dio, ma in ogni caso circolanti fra la gente comune e studiate anche dagli intellettuali. Costitui­ vano leggende così antiche da assurgere alla dignità di convinzioni ampiamente diffuse, dalle quali scaturivano usi devozionali guardati con sospetto dalle autorità ecclesiastiche, forme di sincretismo religioso e, talvolta, persino pratiche di magia. In una parola, tradizioni apocrife.

Capitolo secondo

TRADIZIONI APOCRIFE

LA CAVALLERIA DI RE SALOMONE Il legame con il Tempio, e in qualche modo l’appartenenza ideale e fisica a quel luogo tanto evocativo nel contesto della Terrasanta, segnarono dunque la storia dei Templari sin dall’esordio. Militia Salomonica Templi, si trova scritto in diverse fonti, come a voler stabilire un legame diretto con il sovrano biblico. Nella mentalità della Chiesa medievale, Salomone rappresentava infatti il re per eccellenza, la regalità benedetta da Dio; come Davide, aveva ricevuto la sua alta dignità attraverso il rito dell’unzione sacra, e in quanto Unto del Signore poteva ritenersi un’immagine profetica del Messia, parola derivata dall’ebraico māšíāḥ che significa esattamente «unto». Il dono di una sapienza straordinaria indicava inoltre che Dio aveva per lui una predilezione speciale1. Il richiamo a Salomone ricorreva con insistenza nell’arte e nella liturgia del medioevo quando si voleva attribuire a un certo personaggio il carattere della regalità sacra, quella ottenuta per volere divino. Così Alcuino di York paragonava al Tempio di Salomone la cappella imperiale di Carlomagno in Aquisgrana, e le cattedre dei papi nel secolo XII (come i troni dei re europei) erano ornate dalla testa di leoni, a imitazione del trono di Salomone, dove, secondo la Bibbia, «un leone stava accanto a ciascuno dei bracci». Il richiamo al costruttore del Tempio compare anche nelle formule degli ordines reali, le cerimonie di consacrazione dei monarchi2. Naturalmente, re Baldovino II era perfettamente consa37­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

pevole di questi sensi simbolici perché appartenevano al suo mondo; forse scelse come sua reggia quell’edificio che sorgeva presso il sito del Tempio proprio per accostare la propria figura di monarca a quegli antichi sovrani carismatici che la Bibbia celebrava. Dopo tutto, quando partì per la crociata era soltanto il figlio del conte Hugues de Réthel, nelle Ardenne, e la corona gli giunse per decreto divino solo in senso molto lato, ovvero dopo una guerra di conquista; in breve, la sua autorità aveva tanto da guadagnare in questo abile accostamento di luoghi e di funzioni. Sedendo sul trono di Gerusalemme, governando presso il Tempio, poteva ragionevolmente presentarsi come l’erede di Davide e Salomone. Per lo stesso motivo, probabilmente, anni dopo decise di donare la residenza a Hugues de Payns: i Templari dovevano essere un ordine dal carattere regale, legato strettamente al sovrano della Città Santa. Abbiamo rilevato che il nome nuovo, mutuato dal celebre santuario, aveva sostituito quello primitivo di Poveri commilitoni di Cristo già nel testo della regola approvata a Troyes nel gennaio 1129, quando il gruppo divenne ufficialmente un ordine religioso. Malcom Barber crede però che la connotazione fosse più antica, poiché compare in un documento dell’ottobre 1125. In quell’anno, a maggio, Hugues de Payns funse da testimone in un atto di re Baldovino II con il quale si garantivano ai veneziani gli stessi privilegi nella città di Tiro che in passato erano stati loro concessi dal patriarca Gormondo; qui, per la prima volta, Payns viene designato come Maestro del Tempio3. Due anni dopo, nel 1127, re Baldovino inviò in Occidente un’ambasciata cruciale per la storia del regno cristiano in Terrasanta. La guidavano Guillaume de Bures, principe di Galilea, e Guy de Brisebarre, signore di Beirut. Il loro compito era trovare uno sposo per Melisenda, figlia del re di Gerusalemme, il quale non aveva eredi maschi; i baroni della Terrasanta avevano deciso così di offrire la principessa e la corona di Gerusalemme a Folco V conte di Angiò, 38­­­­

II. Tradizioni apocrife

che era stato in quei luoghi nel 1120, aveva abitato presso i Templari e si era guadagnato una buona reputazione. Hugues de Payns fu inserito nel gruppo per sensibilizzare i potenti europei, invitandoli a favorire gli ingressi di nuovi cavalieri nel Tempio; il Maestro compì dunque tale viaggio come una campagna di reclutamento militare, durante la quale vide anche san Bernardo di Chiaravalle e ottenne il suo appoggio. Payns passò il mare con la traversata dell’autunno 1127, poiché le partenze si svolgevano di norma un paio di volte all’anno; sbarcò in uno dei porti dell’Italia meridionale, risalì la penisola fino a Roma, dove è assolutamente verosimile che chiedesse udienza a papa Onorio II, per presentargli a nome del re di Gerusalemme il progetto della nuova milizia templare. Anche se non ci sono rimaste fonti che registrano l’udienza, poiché al tempo non si usava segnarle minuziosamente come sarebbe accaduto in seguito, la necessità di quell’incontro sembra evidente: come si poteva sperare di fondare un ordine religioso della Chiesa senza aver consultato il papa e ottenuto un responso favorevole? Dopo la tappa romana, Payns risalì la penisola passando in Francia, dove incontrò diversi fra i maggiori signori di quella regione, ottenendo da loro terre in dono. Da un documento stilato nell’aprile del 1128 sappiamo che Payns era a Le Mans insieme con Guillaume de Bures, e forse vi si trovava ancora il 17 giugno, quando si celebrò il matrimonio tra Goffredo, erede di Folco d’Angiò, e Matilde, figlia di re Enrico I d’Inghilterra. In tale occasione Payns allacciò contatti con il sovrano inglese, che secondo la Cronaca anglosassone lo trattò con grande onore, assegnandogli anche un consistente tesoro fatto di monete d’oro e d’argento. Visitata l’Inghilterra, il capo dei Templari passò in Scozia, per tornare poi in terra francese, a Cassel, nella metà di settembre. Durante i mesi dell’autunno fervettero i preparativi per il concilio a Troyes, che vide schierati a favore del costituendo ordine templare, oltre a diversi baroni francesi e a san 39­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

Bernardo, anche importanti personalità del monachesimo cisterciense: Bernardo di Fontaines, Guy di Trois-Fontaines, Hugues conte di Mâcon e in seguito vescovo di Auxerre, e l’inglese Stephen Harding4. Dinanzi a costoro – se la Cerrini ha ragione – Bernardo lesse il trattato De laude; se invece l’opera è frutto di una composizione più tarda, non c’è comunque dubbio che l’abate di Clairvaux ne espose i contenuti essenziali, strettamente connessi all’etica templare e alla sua importanza nell’ambito della missione cristiana. L’immagine di Gerusalemme e del Tempio di Salomone che gli uditori avevano in mente era quella derivata dalla Sacra Scrittura, quella cioè che abbiamo già descritto, e che Bernardo adoperò nel suo trattato; accanto ad essa, in secondo piano, c’erano altre immagini collaterali. Avevano un carattere diverso dal contenuto dei libri sacri usati nella liturgia come letture, e tuttavia circolavano ampiamente da secoli. Erano storie e suggestioni che appartenevano soprattutto al folklore popolare, ma erano entrate anche nella cultura cosiddetta «alta»: cioè il patrimonio degli intellettuali, che inserirono queste tradizioni apocrife nei testi scritti, e così facendo permisero loro di arrivare fino a noi. Una lunga tradizione magica molto radicata nel popolo recuperava amuleti portentosi, formule e idee dalla tarda antichità, attribuendoli a celebri sapienti del passato, specie Salomone e Zoroastro; mentre il secondo era guardato con sospetto dalle autorità religiose, in quanto pagano, i poteri straordinari del primo non sembravano incompatibili con la religione cristiana, poiché dovuti a quella saggezza eccezionale che proveniva da Dio5. I Templari, in breve, si ritrovarono attorniati sin dagli esordi da una specie di aura misteriosa per via della sede stessa in cui abitavano. Ma quale aspetto aveva questo leggendario edificio?

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II. Tradizioni apocrife

SALOMONE IL MAGO Lo storico bizantino Niceta Coniate narra che l’imperatore Manuele Comneno (1143-1180) teneva al suo servizio un ebreo di nome Aaron Isacco, molto abile nelle traduzioni latine, che lo serviva come interprete nei suoi rapporti con i sovrani occidentali. Aaron si macchiò di tradimento, e in quell’occasione fu scoperta anche un’altra scabrosa verità: si dedicava alle arti oscure, e possedeva alcuni segreti libri di Salomone dai quali traeva formule capaci di evocare i demoni per costringerli a fare ciò che lui ordinava6. A quel tempo, del resto, l’artefice del Tempio di Gerusalemme godeva di una solida e indiscussa fama di mago sia in Oriente che in Occidente; e non è un caso che la custodia di questi libri pieni di incantesimi fosse attribuita proprio a un ebreo. La tradizione apocrifa sulla magia salomonica proveniva precisamente dall’ambiente giudaico, e attraverso la cultura dei giudeo-cristiani dei primi secoli era passata in eredità al cristianesimo occidentale del medioevo. Le sue radici erano antichissime, e per certi aspetti anche autorevoli. Una vaga aura soprannaturale aveva circondato Salomone e il suo Tempio sin dalle origini, e persino i testi canonici della Scrittura sembrano conservarne traccia. Nel Primo Libro dei Re (6, 7) era registrato un dettaglio effettivamente singolare: durante i lavori nel Tempio non si udì rumore di martelli, di piccone o di altro arnese di ferro. Storicamente, può essere il riflesso di una direttiva emanata dalle autorità religiose di Gerusalemme, che vietava di impiegare il ferro nella costruzione del Tempio a probabile vantaggio del bronzo, il metallo che l’architetto Hiram aveva usato per le due colonne all’ingresso, l’immenso bacino lustrale che stava nel cortile, sorretto da dodici statue di buoi e chiamato «il mare di metallo fuso», oltre a diversi bacini più piccoli e altri oggetti destinati al culto7. Nel corso dei secoli si formarono leggende che prendevano spunto dal testo biblico e descrivevano con maggior am41­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

piezza i poteri misteriosi di Salomone. Erano molto diffuse già durante l’ellenismo e l’epoca della dominazione romana; lo storico ebreo Giuseppe Flavio le accoglie nei suoi scritti, ricordando certi prodigi occorsi durante la costruzione: Tutto l’edificio del Tempio era composto con molta arte per mezzo di pietre accuratamente tagliate e accostate con una corrispondenza così precisa che, guardandole attentamente, non si scopriva né l’azione del martello né di altro strumento: pareva che tutti i materiali si fossero adattati in quel modo naturalmente, senza bisogno di strumenti, come se la loro connessione fosse stata spontanea, e non voluta dall’arte. (Antichità giudaiche, VIII, III, 2, 69)

Dio manifestò di gradire l’opera con segni vistosi, proprio nel momento più sacro, quando i sacerdoti si accingevano a depositare l’Arca dell’Alleanza per la quale il santuario venne edificato. Erano segni capaci di far comprendere che lo Spirito divino aveva preso nel Tempio la sua residenza: Dette queste cose si gettò a terra, e dopo avere adorato a lungo si alzò, avvicinò le vittime sacrificali all’altare e quando lo riempì con le sacre vittime senza macchia, conobbe che Dio accoglieva con piacere il sacrificio: dall’aria si sprigionò, infatti, un fuoco e sotto gli occhi di tutti balzò sull’altare, afferrò il sacrificio e lo divorò interamente. Quando accadde questa manifestazione, tutto il popolo ne trasse chiaro argomento che Dio d’allora in poi avrebbe preso dimora nel tempio, e con gioia si prostrò al suolo e adorò. (Antichità giudaiche, VIII, IV, 4, 118-119)

La stessa rapidità con cui un’opera tanto grandiosa venne portata a termine non era ritenuta normale, ma dimostrava un carattere prodigioso: Queste opere e questi grandi e magnifici edifici e questi arredi del tempio, il re Salomone li portò a termine in sette anni, facendo mostra e di ricchezza e di celerità, tanto che vedendo queste ope42­­­­

II. Tradizioni apocrife

re chiunque avrebbe pensato che fossero il risultato del lavoro di un’intera epoca, mentre furono finite in uno spazio di tempo così corto, in considerazione della vastità del tempio. (Antichità giudaiche, VIII, IV, 1, 99)

Altri passi, nelle Antichità, riflettono la convinzione molto radicata nel giudaismo del I secolo che Salomone avesse poteri di tipo magico, in virtù dei quali compiva azioni eccezionali: Il fatto dimostrò chiaramente la sagacia e la saggezza di Salomone, per la quale siamo stati indotti a parlare di queste cose, affinché tutti possano conoscere la grandezza della sua natura, quanto Dio lo favorì, e affinché nessuno, sotto il sole, ignori lo straordinario potere di ogni genere che il re aveva. (Antichità giudaiche, VIII, II, 5, 49)

Il sovrano aveva inoltre composto certi epodai, cioè «carmi», una parola ambivalente molto usata nel greco di quell’epoca per indicare anche le formule degli incantesimi: Compose pure millecinque libri di odi e canti, e tremila libri di parabole e similitudini, poiché compose parabole per ogni genere di piante, dall’issopo al cedro, e allo stesso modo per gli uccelli e per ogni genere di creature terrestri, per quelle che nuotano e per quelle che volano. Non c’era nessuna forma naturale che non conoscesse o che non sottomettesse ad accurato esame; egli le studiò tutte in modo filosofico, e manifestò completa conoscenza delle varie proprietà. (Antichità giudaiche, VIII, II, 5, 44)

A Gerusalemme, non lontano dalla piscina probatica, esisteva una cripta nella quale si eseguivano esorcismi usando il potere soprannaturale del nome di Salomone e certi oggetti speciali da lui raccomandati; Vespasiano e i suoi figli poterono vedere all’opera un uomo di nome Eleazaro, una figura a metà fra l’esorcista e il guaritore: 43­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

Dio gli concesse la conoscenza dell’arte da usare contro i de­ moni a sollievo e vantaggio degli uomini; compose formule magiche per curare le infermità e lasciò varie forme di esorcismi con i quali si scacciano i demoni da coloro che ne sono posseduti, e non ritornano più. E questo genere di terapia ha molto potere ­anche ai nostri giorni: io ho visto un certo Eleazaro, mio connazionale, il quale in presenza di Vespasiano, dei suoi figli, dei tribuni e di una quantità di soldati, liberava i posseduti dai demoni; e le modalità della terapia erano queste: avvicinava al naso dell’indemoniato un anello che aveva sotto il suo sigillo una delle radici prescritte da Salomone; e nell’atto che l’uomo fiutava, espelleva il demonio dalle sue narici, e subito, quando l’uomo cadeva, egli, parlando in nome di Salomone e recitando formule magiche da lui composte, scongiurava il demonio di non ritornare mai più. (Antichità giudaiche, VIII, II, 5, 45-47)8

Una tra le più suggestive testimonianze del fiorente ciclo narrativo che si sviluppò nel giudaismo di età romana intorno al personaggio di Salomone e al suo mitico Tempio è confluita nella Midrash (midrāš, «esaminare», «spiegare»), una raccolta di storie antiche formata da racconti brevi, a carattere edificante. Si tratta di relazioni scritte sui sermoni tenuti dai rabbini nelle sinagoghe e nelle scuole durante le festività oppure in speciali avvenimenti pubblici, e si presentano come un commento alla Scrittura, spiegata versetto per versetto; in realtà, però, il testo biblico veniva ampliato e arricchito con materiali provenienti dalla tradizione orale, o anche con elementi fantasiosi. In qualche modo, questi testi somigliano ai vangeli apocrifi, che sono basati su episodi tratti dai testi canonici, ma con aggiunte che derivano da tradizioni parallele o anche dal folklore popolare. I più antichi midrāšîm risalgono al I e al II secolo d.C.; ad essi si aggiunse una corposa tradizione di scritti successivi, tra il V e il XII secolo9. Salomone, si dice in questi testi, poté realizzare il Tempio con l’aiuto di esseri soprannaturali: 44­­­­

II. Tradizioni apocrife

C’era una specie di verme/rettile chiamato shamir che fu creato al tramonto del sesto giorno della creazione, insieme con altre cose straordinarie. Era grande più o meno come un chicco d’orzo e possedeva la straordinaria capacità di incidere il più duro dei diamanti. Lo shamir fu usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché la legge proibiva l’utilizzo di strumenti di ferro per i lavori del Tempio. Lo shamir venne custodito in Paradiso finché Salomone ne ebbe bisogno. Inviò un’aquila a prendere il verme. Quando il Tempio fu distrutto, lo shamir svanì10.

I cristiani dei primi secoli ereditarono queste leggende e condivisero la convinzione ebraica che Salomone fosse stato un uomo dotato di poteri soprannaturali. Il santuario da lui edificato, per ovvia conseguenza, appariva loro come un luogo circondato da un’aura magica. SALOMONE, IMMAGINE DI CRISTO A Nag Hammâdi, un villaggio posto lungo la riva sinistra del Nilo a un centinaio di chilometri a nord di Luxor, fra il 1945 e il 1947 furono scoperte 52 opere in lingua copta racchiu­se dentro una giara sepolta direttamente nel suolo; Jean Doresse, che fu tra i primi a studiare questi testi, li mise in relazione con il vicino monastero di Chenoboskion, fondato nel IV secolo da san Pacomio. L’importanza di queste opere è essenziale per gli studi sul cristianesimo antico, perché esse costituiscono una fonte di prima mano sul pensiero dei gruppi gnostici. In precedenza se ne aveva notizia quasi solo attraverso i testi dei Padri della Chiesa, spesso animati da una polemica violenta e deformante. Si tratta di codici scritti su fogli di papiro, quasi tutti protetti da buste di cuoio. Sebbene risalgano al IV secolo, riflettono idee e dottrine correnti nella gnosi più antica, spesso di matrice ebraica o addirittura anteriore alla nascita del cristianesimo. Il testo noto come Apocalisse di Adamo (NH5/5) parla dell’esercito di demoni che Salomone teneva ai suoi ordini. 45­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

Un altro, convenzionalmente indicato come NH2/5, contiene un breve trattato intitolato Sull’origine del mondo, che descrive la creazione del cosmo e raccoglie anche elementi da tradizioni precedenti al cristianesimo; in esso si narra di demoni androgini i cui nomi Salomone teneva scritti nel suo libro. Fu con il loro aiuto che il grande re e mago edificò Gerusalemme, poi li rinchiuse all’interno del Tempio. Lì rimasero imprigionati, come il celebre genio della lampada delle Mille e una notte, fino a quando i romani non conquistarono la città11. La convinzione era ben radicata anche al di fuori delle sette gnostiche. Un anonimo pellegrino originario della diocesi di Bordeaux, che visitò la Città Santa nell’anno 333, descrive i riti di esorcismo che lì avvenivano, ubi Salomon daemones torquebat12. Evidentemente, la tradizione di Salomone mago, capace di imporre la sua autorità ai demoni ma anche di asservirli ai propri scopi, non infastidiva la sensibilità religiosa dei primi cristiani. Forse ciò accadeva perché la teologia cristiana tendeva a vedere il grande sovrano come un antesignano del Cristo (essendo fra l’altro anch’egli figlio di Davide). Sul portale della cattedrale di Strasburgo è ritratto Salomone in trono, e al di sopra di esso domina la Vergine Maria con il Redentore sulle ginocchia. La chiave di lettura di questa iconografia è data dall’opera anonima in versi nota come Speculum humanae salvationis (1425), che naturalmente si riferisce a una tradizione molto più antica: Thronus veri Salomonis est beatissima Virgo Maria, in quo residebat Iesus Christus, vera Sophia13.

Certi passi dei vangeli che riguardavano i poteri soprannaturali di Gesù potevano essere fraintesi dalle persone ignoranti, o che non avevano seguito un catechismo adeguato. Gli esorcismi del Nazareno, ad esempio, impressionavano le folle e gli studiosi della Scrittura, che si chiedevano da dove traesse 46­­­­

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quel potere. Il vangelo di Luca (11, 15-20) racconta che gli ebrei, sconcertati dai suoi prodigi, lo sospettavano di essere una specie di stregone: Ma alcuni dissero: «È in nome di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni». Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo i loro pensieri, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni in nome di Beelzebùl. Ma se io scaccio i demòni in nome di Beelzebùl, i vostri discepoli in nome di chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio.

Salomone era un capo pacifico benedetto dal Signore; la sua straordinaria potenza aveva un’indubbia radice celeste, divina, non lontana da quella di Gesù stesso, che appunto scacciava i demoni «con il dito di Dio». A livello popolare, rappresentava un simbolo di Cristo: lo dimostra il senso di parecchie iscrizioni presenti negli amuleti a lui intitolati. In numerosi esemplari la sua asta porta la croce, e la testa del sovrano è circondata dall’aureola14. L’assimilazione fra il re biblico e il Salvatore appartiene però anche alla tradizione colta, e si tramanda in modo discreto ma costante per tutta la durata del medioevo; ha una base solida perché sembra autorizzata da quel passo del vangelo di Matteo in cui Gesù, parlando di se stesso e della sua dignità, dice: «qui c’è uno più grande di Salomone» (Mt 12, 41-42). In dimensioni minori, perché non possedeva natura divina, il re biblico costruttore del Tempio poteva comunque essere considerato una specie di alter Christus. Numerose immagini del crocifisso, da quella del secolo VI nella cattedrale di Aquileia fino alla tavola di San Damiano tanto cara a Francesco d’Assisi, mostrano il perizoma di Gesù ornato da una cintura che è annodata con il celebre nodo di Salomone, un simbolo antichissimo molto diffuso nell’arte 47­­­­

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paleocristiana. Il senso del messaggio iconografico è questo: Cristo sulla croce è il nuovo Salomone. I nodi del peccato e della morte, insolubili all’uomo, trovano in Lui una risposta e la vita eterna, irraggiungibile allo sforzo umano, è da Lui offerta con gratuità. Il Redentore porta un simbolo che si poteva collegare immediatamente alla regalità salomonica, e grazie all’associazione Salomone-Davide-Messia il nodo sembrava dire che Gesù era venuto nel mondo al centro delle tradizioni ebraiche, e compiva la Legge e i Profeti. L’idea di usare Salomone come figura di Cristo ritorna nelle opere celebrative scritte per commemorare il trasporto a Parigi della corona di spine che re Luigi IX il Santo fece collocare nella Sainte-Chapelle, come riportano alcuni testi del tempo, in prosa e in versi: Visitat rex omnium nostrum regionem Et se nobis exhibet verum Salomonem15.

Bernardo di Chiaravalle la suggerisce proprio nel De laude, mentre celebra la missione che i Templari avranno nel mondo cristiano: Iddio si è scelto tali servitori radunandoli dai confini della terra tra i più forti d’Israele, per custodire attentamente e con fedeltà il letto del vero Salomone, cioè il Sepolcro, tutti provvisti di spada ed espertissimi nell’arte della guerra16.

L’idea permeava dunque l’intero tessuto sociale; per il popolo illetterato sconfinava in una credenza superstiziosa molto diffusa, mentre gli intellettuali, dall’alto della loro erudizione, la sublimavano e la depuravano di ogni inquinamento magico, compiendo un raffinato esercizio di esegesi della Sacra Scrittura.

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II. Tradizioni apocrife

IL SIGNORE DELL’ANELLO Fra il V o VI secolo, il materiale eterogeneo che formava la leggenda servì alla compilazione di un testo noto come Testamento di Salomone; lo scritto ha origini orientali e in seguito si diffonde anche in Europa, dando una sorta di consacrazione letteraria a questo volto mitico del costruttore del Tempio. Numerosi elementi indicano che il testo deriva da un altro molto più antico, che riflette certi usi della lingua greca ma anche la mentalità del giudaismo palestinese del I secolo17. La storia vede Salomone impegnato a soggiogare i demoni uno dopo l’altro, a cominciare da Ornias, un diavolo di basso rango che tormenta un povero manovale impegnato nella costruzione del santuario, fino ad altri dai nomi più noti, come Asmodeo o Beelzebùl, il principe dei demoni, citati anche nei libri canonici della Bibbia. Il re deve questo potere sovrumano a un anello portentoso che proviene dal cielo, perché gli è stato consegnato dall’arcangelo Michele: Allora successe che, nel pregare il Dio del cielo e della terra, mi fu donato dal Signore Sabaoth, per mezzo dell’arcangelo Michele, un anello che portava un sigillo inciso su una pietra preziosa. Egli mi disse: «Salomone, figlio di Davide, prendi il dono che il Signore Dio, l’altissimo Sabaoth, ti ha inviato, e potrai imprigionare tutti i demoni, femmine e maschi. Con il loro aiuto tu potrai costruire Gerusalemme, quando tu porterai questo sigillo di Dio»18.

Lo shamir, il piccolo serpente prodigioso che nelle tradizioni ebraiche aiutò con i suoi poteri l’edificazione del Tempio, in questo scritto è sostituito da entità più tenebrose, che in ogni caso, grazie al volere divino, si dimostrano molto utili al re e alla sua impresa. Anche se tratta del ricorso al potere demoniaco, un’azione che in altre epoche sarebbe stata indubbiamente considerata come magia nera, lo scritto è sicuramente cristiano ed ha persino un intento edificante. Lo rivelano certi passi in particolare, come quello in cui i demoni stessi, ormai resi inoffensivi 49­­­­

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perché intrappolati nei vasi, profetizzano l’avvento del Cristo e la sua crocifissione che salva l’umanità: Insieme a questi [eventi], anche i vasi in cui tu hai intrappolato noi saranno fatti a pezzi dalle mani degli uomini. Allora noi usciremo fuori con molto potere e ci dissemineremo di qua e di là per il mondo. E indurremo in errore tutto il mondo abitato per molto tempo, fin quando il Figlio di Dio si stenderà sul legno. Perciò non si è ancora alzato un re come lui, uno che ostacola tutti noi, la cui madre non si unirà ad un uomo. E chi ha in mano tale autorità sugli spiriti se non lui solo? Il primo diavolo lo cercherà per tentarlo, e non sarà più forte di lui, le lettere del cui nome ammontano a 644, il quale è Emmanuele19.

In chiusura, Salomone dichiara di aver voluto scrivere proprio per dare agli uomini un profondo e salvifico ammonimento, perché non si lascino traviare dall’idolatria come invece era accaduto a lui, ormai giunto in vecchiaia. Passi del genere ci aiutano a capire come mai il testo potesse circolare ampiamente senza censura da parte delle autorità religiose; anche se in modo piuttosto rozzo, conteneva una breve summa dei principali dogmi cristiani. L’Inquisizione per l’eretica pravità non esisteva ancora, poiché prese corpo solo molti secoli dopo; i vescovi che sorvegliavano la circolazione delle varie credenze tra il popolo avevano criteri molto meno restrittivi di quanto sarebbe stato nel tardo medioevo, e soprattutto nel periodo della Controriforma. Ma come era fatto, questo portentoso sigillo? Un anonimo pellegrino cristiano visitò Gerusalemme verso l’anno 530, quando cioè il Testamento di Salomone circolava già da tempo in Oriente, in forma orale e probabilmente anche scritta. Nel resoconto del viaggio, intitolato Breviarium de Hierosolyma, riferisce un dettaglio sul portentoso anello salomonico: era stato forgiato nell’elettro, un metallo molto raro e prezioso citato dagli autori antichi di cui oggi ignoriamo l’esatta natura, ma che Platone nel Crizia dice essere stato usato per la costruzione delle mura di Atlantide. 50­­­­

II. Tradizioni apocrife

Secondo il Testamento la pietra recava un pentalpha, ovvero una stella a cinque punte. Come «sigillo di Salomone» si intende oggi la stella a sei punte, o Stella di Davide, che fa riferimento alla profezia di Isaia (14, 12) e in quanto simbolo di regalità è diventata l’emblema dello Stato ebraico; sembra però che questa immagine sia comparsa molto tardi, durante il medioevo20. L’archeologia mostra che le più antiche testimonianze di sigilli usati in Siria, Fenicia e Palestina nel corso del I millennio avevano la forma detta «scaraboide», fatta cioè da una pietra dura solitamente ovale, leggermente bombata su una faccia e piatta sull’altra, da portare appesa al collo come un prezioso ciondolo oppure al dito, su una montatura. C’era sicuramente un emblema, sul sigillo del sovrano storico, che costituiva il suo simbolo e lo rappresentava con una funzione simile a quella che, millenni dopo, sarebbe stata l’araldica delle famiglie aristocratiche nell’Europa del medioevo. Nel IX secolo a.C. questi sigilli reali portavano anche iscrizioni21. Per l’immaginario medievale, del resto, un gioiello prezioso contraddistinto da un’immagine e da speciali parole scritte rappresentava il talismano per eccellenza, ciò che in futuro, nella tradizione delle fiabe di età contemporanea, sarebbe stata la classica bacchetta magica. In quasi tutte le culture, l’anello è un oggetto che richiama il potere e in qualche modo lo contiene a livello simbolico, poiché spesso viene usato durante quei riti in cui l’autorità viene trasferita da un individuo all’altro. Nella civiltà medievale aveva anche un forte significato religioso, né del resto poteva essere altrimenti: Gesù disse a Ponzio Pilato «Tu non avresti nessun potere sopra di me, se non ti fosse stato dato dall’alto», e su quelle parole poggia il modo di concepire il potere per tutto il medioevo. Ciò consente all’uomo odierno di capire perché mai un conquistatore come Carlomagno sentì il bisogno di negoziare con il papato, al fine di ricevere la corona imperiale nella basilica vaticana, dalle mani del sommo pontefice romano. Ma, forse, dovremmo estendere il 51­­­­

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nostro ragionamento più oltre nel tempo, fino all’età moderna e contemporanea; nonostante la Rivoluzione francese e il Terrore, il deismo e l’ateismo imperanti nel secolo dei Lumi, sta di fatto che Napoleone Bonaparte volle diventare imperatore nella cattedrale di Notre-Dame, al cospetto di papa Pio VII, e per quello scopo lo convinse a salire fino a Parigi. Nei riti medievali di investitura del potere, un potere giusto perché gradito a Dio, l’anello svolgeva un ruolo centrale. Il mandato di un vescovo sulla diocesi gli veniva conferito per anulum et bacculum, ovvero attraverso la consegna dell’anello e del bastone pastorale, come si faceva per gli abati che avevano sul loro convento un’autorità non troppo diversa da quella episcopale. Durante la sua cerimonia d’incoronazione, il sovrano riceveva un anello benedetto, sul quale ardeva la fiamma di un sacro carisma. PIETRE PREZIOSE E PRODIGIOSE In genere gli anelli «potenti», cioè quelli che incarnavano l’autorità, non erano semplici cerchi di metallo nobile, ma portavano incastonate delle pietre preziose, alle quali si attribuivano poteri curativi e altre virtù di tipo magico. Trattandosi di oggetti molto costosi, è naturale trovarli fra gli strati più alti della società, cioè tra i benestanti e i nobili; così accadde che un tale Hubert de Burgh, nell’anno 1232, venisse accusato di aver rubato al tesoro reale una gemma che aveva la capacità di rendere invincibili in battaglia, mentre lo speziale inglese Richard de Preston donò alla cattedrale di SaintPaul a Londra uno zaffiro utile contro le malattie degli occhi. La fede nei poteri di questi anelli era qualcosa che trascendeva il ceto sociale di appartenenza o il livello di istruzione delle persone; se il popolo ignorante vi credeva per mera superstizione, gli intellettuali dal canto loro lo facevano perché gli influssi attivi di certe pietre sull’uomo venivano descritti nei testi degli studiosi più accreditati, e insegnati nelle aule accademiche. 52­­­­

II. Tradizioni apocrife

Papa Bonifacio VIII, che si circondava dei medici più rinomati, portava al dito un anello che amava molto, il quale aveva una pietra «abitata» da una strana piccola figura, che a qualcuno ricordava un demone. Agostino Paravicini Bagliani, che ha studiato a fondo questo pontefice e l’ambiente della Curia romana nel Duecento, crede possibile che fosse un anello ornato da una pietra talismano, sulla quale stava inciso il simbolo di un pianeta raffigurato nel modo caro al mondo greco-romano, cioè in forma di animale22. L’arcivescovo Egas Fafez di Compostella aveva disposto nel suo testamento, rogato nel marzo 1269, che alcuni suoi preziosi anelli con zaffiri capaci di far ristagnare il sangue fossero lasciati in deposito presso la cattedrale di Coimbra, affinché i poveri che non potevano pagarsi un medico se ne servissero liberamente. Simili oggetti non avevano niente di oscuro o peccaminoso; anzi, prendendo in prestito un’espressione del testamento del pio arcivescovo, guarivano i malati «per grazia di Dio». Gervasio di Tilbury (1152-1220 circa) attribuiva proprio a Salomone il merito di aver compreso, primo fra tutti, il magico potere delle gemme; e prima di lui Marbodo vescovo di Rennes, alla fine del secolo XI, aveva composto un trattato intitolato Liber lapidarum seu de gemmis nel quale descriveva le virtù delle pietre preziose23. Il vescovo non si attribuiva nessuna originalità di composizione, ma ammetteva di aver utilizzato opere precedenti. In epoca romana c’era stata del resto una enorme proliferazione di lapidari, cioè trattati che enumeravano le virtù curative delle diverse varietà minerali e offrivano consigli sul modo di potenziarne gli effetti raffigurando sulla superficie certe immagini oppure incidendovi parole speciali24. Secondo Galeno, autore di un testo medico che ha fatto scuola per l’intera durata del medioevo, alcuni amuleti erano indicati per proteggere precisi organi: Alcuni attribuiscono a certe pietre una proprietà come quella che possiede in verità il diaspro verde, la quale pietra, se tenuta 53­­­­

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addosso, fa bene all’esofago e allo stomaco. Alcuni le montano su anelli e vi incidono il serpente con la testa circondata da raggi, come il re Nechepsos ha prescritto nel suo quattordicesimo libro.

Una ricetta simile si trova anche nei trattati sulle pietre di Socrate e Dioniso25. La mania per i gioielli dotati di poteri nascosti, e per gli anelli in special modo, era del resto radicata nella cultura dell’Occidente e non solo, veicolata da una moda che contava più di mille anni e che era seguita con passione da tutte le classi sociali. L’unica differenza era la materia, più costosa o al contrario più vile, con cui l’amuleto veniva confezionato. Se ne facevano innumerevoli tipi, ma i più comuni erano gemme intagliate, incastonate in metalli preziosi da portare al dito o come ciondoli pendenti al collo, oppure medagliette circolari di rame o di bronzo, o anche in forma di filatteri, ossia piccole strisce di papiro o pergamena arrotolate e piene di scritte potenti. La messe giunta fino a noi è così abbondante e variegata che non sempre è possibile distinguere le pietre incise con un intento magico, cioè per farne amuleti, da quelle lavorate con un semplice scopo decorativo, cioè per abbellire e impreziosire l’aspetto di chi le indossava. E anche nei casi in cui le scritte presenti rendono indubbio il carattere magico dell’oggetto, spesso è veramente arduo cercare di stabilire a quale sfondo culturale e religioso appartenevano coloro che si fecero fabbricare e poi portarono su di sé simili talismani26. Proliferano infatti le mescolanze cultuali, e gli stessi soggetti o simboli sono usati da fruitori diversi con un senso diverso. Così troviamo la figura di Saturno associata all’urobòro, il serpente che si morde la coda, un simbolo egiziano del cosmo e dell’infinito, insieme alle parole ebraiche Sabaoth e Adonai, tradizionali nomi del Dio d’Israele. Lo stesso urobòro, a quanto sembra, venne adottato anche dai gruppi cristiani gnostici, che gli davano un valore negativo perché lo identificavano con le tenebre esteriori, il luogo di punizione dei peccatori, e 54­­­­

II. Tradizioni apocrife

invece potevano talvolta servirsi del dio pagano Kronos come un simbolo di Yahwè, il Dio d’Israele27. Probabilmente la presenza dei nomi divini non indicava una vera adesione all’ebraismo, ma solo l’assimilazione di parole usate da altri gruppi religiosi, perché si riteneva che quelle parole avessero un forte valore magico. Chi le incise lo fece insomma per clienti pagani, i quali erano però convinti, come gran parte della gente in età romana, che gli ebrei fossero molto vocati per la magia. Nella Storia naturale, ad esempio, Plinio il Vecchio presenta Mosè come fondatore di una sua scuola magica; sulla scorta di tale convinzione, un amuleto ritrovato in Sicilia narra che il profeta era stato iniziato alle scienze occulte quando salì sulla montagna sacra28. Scrive Origene: La formula «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» viene usata non soltanto dai componenti della nazione giudaica nelle loro preghiere a Dio e negli esorcismi contro i demoni, ma anche quasi da tutti quelli che esercitano gli incantamenti e la magia29.

I cristiani, al pari degli altri, si facevano confezionare simili talismani protettivi, senza vedere in ciò un peccaminoso scivolone nell’idolatria. Le autorità ecclesiastiche non erano propriamente d’accordo, ma lo storico deve sempre fare attenzione a non confondere le grida degli intellettuali, spesso isolati nell’alto di un pulpito o nella pace di un chiostro, con la voce sommessa del popolo, della gente comune, che in genere non lascia molte tracce del suo pensiero e vive secondo abitudini inveterate, piuttosto autonome rispetto ai severi precetti della dottrina ufficiale. Si cercò di conciliare le antiche tradizioni curative pagane con la religione cristiana seguendo soluzioni diverse, talvolta ingegnose. Un amuleto della prima età bizantina studiato da Barb mostra l’iconografia squisitamente egizia e antichissima del dio Horus sui coccodrilli che, pur conservando pressoché immutati i suoi caratteri tradizionali, è stata adattata come 55­­­­

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un’immagine di Cristo. Il ritratto di Arpocrate bambino, connesso al mito della rinascita quotidiana del sole, si prestava a usi diversi e riadattamenti; dunque lo si vede associato alla scritta XPICTOS, mentre sull’altra faccia compare il Buon Pastore, così caro all’arte paleocristiana30. In breve, che Salomone custodisse un anello magico pieno di poteri straordinari, grazie al quale aveva potuto compiere un’opera eccelsa come la costruzione del Tempio, per l’uomo del medioevo non era affatto una storia incredibile. GLI «SPIRITI MALIGNI VAGANTI NELL’ARIA» Lo scrittore pagano Celso (II secolo d.C.) ci informa che gli egizi per primi avevano teorizzato l’esistenza di diversi spiriti attivi, ognuno dei quali governava il funzionamento di una precisa parte del corpo umano: Che in tutte queste cose, anche le più piccole, esista un essere cui è stata assegnata la soprintendenza su di esse, lo si può apprendere dagli Egiziani, secondo i quali trentasei demoni, o specie di dei dell’aria, si sono presi il corpo dell’uomo distribuito in altrettante parti [...] essi invocandoli guariscono le infermità delle varie parti del corpo. Che cosa dunque vieta di onorare questi e tutti gli altri, se uno preferisce stare in buona salute invece che a letto ammalato, ed avere una vita buona piuttosto che misera, e sfuggire – per quanto è possibile – alle torture e ai supplizi?31

Riuscendo a controllare queste entità invisibili, si potevano dominare e sgominare anche le varie malattie. Le immagini dei riti funerari egiziani note anche al grande pubblico, ad esempio i famosi vasi canòpi nei quali venivano tumulati diversi organi, ognuno sotto la tutela di una certa divinità, ci permettono di visualizzare in modo concreto questo tipo di credenza religiosa che non apparteneva soltanto alla civiltà egizia. Secondo Antonio Cosentino, che ha studiato la tradizione di Salomone mago, 56­­­­

II. Tradizioni apocrife

L’idea di un mondo abitato da entità soprannaturali, connotate positivamente o negativamente secondo una gradazione di diverse sfumature, appartiene al sottofondo religioso tardo-antico. Tali creature sembrano abitare in particolare nello «spazio» intermedio tra terra e cielo, ed intervengono nelle vicende umane. Occorre dunque senza dubbio ingraziarsi o difendersi da esse, che possono turbare la tranquillità dell’uomo32.

La credenza aveva origini remotissime, e arrivò all’uomo medievale dalla demonologia del mondo classico; un apporto notevole si dovette però anche alla cultura ebraica, ereditata attraverso i giudeo-cristiani. Questi ultimi avevano un’idea abbastanza precisa su quello «spazio intermedio» fra terra e cielo di cui parla l’autore: una dimensione parallela a quella umana, letteralmente affollata di invisibili presenze. Nel tempo che seguì l’esilio, e forse anche per l­’influsso del pantheon babilonese, emerse nel popolo ebraico la convinzione che l’uomo è sedotto da spiriti superiori capaci di spingerlo al male. Alcuni apocrifi dell’Antico Testamento, come ad esempio il Libro dei Vigilanti, raffiguravano questo «mondo di mezzo» pieno di potenze numinose capaci di influire sulla vita umana nel bene e nel male. Poco tempo prima del diluvio, secondo il Libro, alcuni angeli erano scesi dal cielo sulla terra, attratti da passione sensuale verso le donne. Violando il divieto divino si erano accoppiati con le donne, e da quella unione illecita era nata una stirpe di esseri mostruosi e violenti che aveva riempito la terra di lutti. Nella traduzione greca della Bibbia, quella comunemente detta dei Settanta, sono citati nei libri della Genesi (6, 4) e dei Numeri (13, 33); in greco sono detti «giganti», ma il termine più antico presente nel testo dell’ebraico suonava un po’ diverso, più ricco di sfumature misteriose. La parola originaria è nephilim, un plurale che vuol dire «angeli caduti»33. Questi esseri danneggiarono il genere umano perché rivelarono alcune conoscenze tecniche e certi segreti celesti che non avrebbero dovuto svelare, compresa l’astronomia, che in 57­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

seguito sarà considerata la base di ogni vero sapere. Il grido di dolore degli uomini fu ascoltato da quattro arcangeli, i quali invocarono Dio perché ponesse fine a tanto male. Il Signore allora mandò il diluvio, e stabilì che i mostruosi nephilim si sterminassero lottando l’uno contro l’altro. E ordinò all’arcangelo Raffaele di rinchiudere nelle tenebre sottoterra tutti gli angeli ribelli, insieme ad Azael, quello che aveva guidato la rivolta. L’immaginario sacro dei cristiani, per la sua discendenza dalla cultura religiosa ebraica, nacque già ricco di queste entità, ma anche i cristiani che si erano convertiti dal paganesimo erano pronti ad accogliere l’idea di simili spiriti, in pratica uguali ai genii della religione romana. Erano esseri soprannaturali benigni oppure ostili, invisibili, onnipresenti. Dai vangeli, del resto, veniva una testimonianza chiara e indubitabile: tutti e tre i sinottici riferivano la guarigione dell’indemoniato di Gerasa, che Gesù aveva liberato da una schiera di demoni chiamati Legione. Sette diavoli erano stati scacciati dalla Maddalena, e altri sette, ricordando che tale numero nella cultura ebraica significa infinito, sono ricordati in una parabola riferita da Luca (11, 15-26)34. Questo affollamento demoniaco che caratterizza il mondo invisibile dell’uomo medievale è anche nella mente di san Bernardo di Chiaravalle, che lo scrive nel De laude: Intendo alludere a un nuovo genere di cavalieri, assolutamente sconosciuto alle età precedenti e che senza risparmio di energie conduce una lotta su un duplice fronte, sia contro la carne e il sangue, sia contro gli spiriti maligni vaganti nell’aria35.

Con tali parole l’abate di Clairvaux descriveva la missione spirituale dei Templari, complemento indispensabile del loro impegno in guerra. È la battaglia continua contro una forza cosmica ostile e aggressiva, un male che si trova non solo nel mondo ma anche nell’interiorità dell’uomo, annidato dentro la sua anima. Nell’etica dei Templari è forte la radice biblica: nel 58­­­­

II. Tradizioni apocrife

ciclo di affreschi che decora la chiesa di san Bevignate a Perugia, oltre ai Templari in armi che cavalcano contro gli infedeli, sono ritratti anche dei frati in abito conventuale, un semplice saio candido, che scacciano un leone nerissimo e ruggente, immagine fra le più note e diffuse per raffigurare il diavolo. Nel passo appena citato, dunque, Bernardo rispecchiava la mentalità diffusa nel suo tempo, accreditata da una tradizione illustre e molto antica della cultura cristiana. Gli antichi Padri della Chiesa avevano infatti condannato le abitudini delle sette eretiche attribuendo ad esse la venerazione di esseri invisibili dai nomi complessi, ritenute demoni, e che erano probabilmente entità superiori intese come angeli o emanazioni della divinità. Origene, ad esempio, ricorda che l’arconte gnostico Ialdabaoth poteva essere raffigurato come un leone, animale che nella Scrittura poteva rappresentare i pericoli della vita, il nemico, l’empio, il calunniatore, e anche l’entità che racchiudeva in sé tutti questi elementi malefici, cioè il diavolo36. Durante il secolo XI lo storico bizantino Michele Psello (Costantinopoli, 1018-1085) aveva descritto minuziosamente i nomi e i poteri delle gerarchie delle tenebre in una celebre opera intitolata Sull’attività dei demoni. A precederlo nel tempo, e forse a influenzarlo in tale esposizione, c’era un altro scritto di origine mediorientale, che era giunto in Italia meridionale nei secoli VI-VI, e che, ancora una volta, aveva in re Salomone il suo protagonista. Si intitolava Hygromanteia Salomonis, o anche Chiave di Salomone. Proprio da questa base, durante il secolo XVI, verrà tratto il quasi omonimo Clavicula Salomonis, il più celebre testo di magia occulta dell’età moderna; qualcosa di molto famoso e noto anche alla gente comune, se Goethe vi alluderà nel suo Faust, dove il protagonista evoca il diavolo usando alcuni Salomonis Schlüssel 37. La Chiave (da non confondersi dunque con la quasi omonima ma molto più tarda Clavicula) si presenta come un trattato che il sovrano scrive ad uso di suo figlio, per istruirlo sulle gerarchie degli angeli e dei demoni e insegnargli in quale 59­­­­

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precisa ora del giorno e in quale giorno della settimana è opportuno compiere un certo tipo di incantesimo, perché il tempo è soggetto all’azione influente di queste entità invisibili38. Decine e decine di angeli e di demoni compaiono nel testo, definiti da nomi di origine ebraica e ordinati in un codice binario nel quale per ogni demone viene citato un angelo capace di contrastarlo e neutralizzarlo. I nomi elencati nella Chiave sembrano insomma descrivere compiutamente il quadro delle gerarchie diaboliche com’erano immaginate nella mentalità dell’autore. L’epoca in cui questo trattato si diffonde corrisponde al periodo storico in cui l’anonimo pellegrino che redasse il Breviarium de Hierosolyma cita il misterioso sigillo di elettro appartenuto a Salomone, ma anche i vasi nei quali il sovrano aveva rinchiuso i demoni che lo avevano servito nella costruzione del Tempio. Probabilmente esiste una relazione fra le due testimonianze, ed entrambe attingono alla stessa fonte: un’antica, diffusissima leggenda che vedeva Salomone signoreggiare con il potere divino questi esseri malvagi, invisibili ma potenti, tendenzialmente ostili all’uomo, ma pronti a servire chi è in possesso di una conoscenza superiore. SACRI CAVALIERI IN ARMI CONTRO IL MALE Per difendersi da un pericolo bisogna conoscerlo; perciò gli uomini del medioevo si applicarono con passione a studiare queste forze delle tenebre, e il modo di tenerle a bada. Magari ispirandosi a chi, con il potere concesso da Dio, quegli stessi demoni aveva domato, asservito e poi rinchiuso in dodici idrie d’argento. Nella grande proliferazione di amuleti e anelli muniti di gemme potenti che abbiamo già discusso, re Salomone, grazie al suo mito, era un soggetto privilegiato da utilizzare. Sono giunti fino ai nostri giorni numerosi esemplari della tarda antichità e del primo medioevo, ma anche frammenti di papiro nei quali fu scritta la ricetta per preparare questi amuleti nel 60­­­­

II. Tradizioni apocrife

modo opportuno. In uno di essi, ad esempio, gli occhi di Salomone servono per effettuare un incantesimo (PGM XCII, 6), mentre un altro (PGM IV, 850) contiene questo titolo: Incantamento di Salomone che produce una trance. Un terzo, infine, fa riferimento al celebre sigillo magico che conferiva al sovrano grandi poteri (PGM IV, 3041). Si diffuse anche un tipo molto singolare, di probabile uso cristiano: Salomone era raffigurato a cavallo, in abito di foggia militare, mentre con una lunga lancia trafigge un demone rintanato fra gli zoccoli dell’animale. Sono oggetti molto suggestivi, e a prima vista non è facile distinguerli da altri simili che ritraggono qualcuno dei numerosi santi militari veneratissimi nel medioevo, come san Martino di Tours, san Demetrio, san Maurizio, e quelli più celebri fra tutti: san Giorgio e l’arcangelo Michele. Una scritta ricorrente in caratteri greci (COΛOMON) ne dichiara l’identità in modo inequivocabile, corredata da un’altra scritta sul retro che chiarisce la provenienza divina dei poteri che l’amuleto possiede (CΦΡΑΓΙC ΘΕΟΥ, «sigillo di Dio»)39. Da questi talismani di origine remota nacque e si diffuse nei secoli l’immagine del santo patrono a cavallo che combatte la sua battaglia contro le forze del male in difesa di chi lo prega. Si ritiene che il modello iconografico derivi dall’inventiva di qualche artista, a noi ignoto, che ritrasse Salomone a cavallo per sottolineare la sua regalità, secondo un’idea molto diffusa nel Medio Oriente ellenistico40. In quella dimensione intermedia fra la terra e il cielo, fra gli uomini e Dio, Salomone appariva una figura non lontana da quella di un santo, un’entità sovrumana protettiva e benefica; e ciò non accadeva solo nelle regioni orientali, perché la devozione (parlare di culto è forse eccessivo) si era diffusa raggiungendo anche zone molto lontane dalla SiriaPalestina. In alcuni celebri manoscritti inglesi, ben studiati perché tramandano le più antiche testimonianze della letteratura anglosassone, è conservato un ciclo di testi in versi e in prosa 61­­­­

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basati su un dialogo fra Salomone e Saturno. In tali scritti, il dio pagano Saturno impersona il re dei Caldei, un popolo considerato sin dall’antichità classica inventore delle arti magiche. Uno di questi manoscritti è il Cotton Vitellius A. XV, che contiene fra le altre cose anche l’unica copia sopravvissuta del celebre poema Beowulf. Il codice viene fatto risalire alla metà del secolo XII, mentre un altro testimone della leggenda salomonica in area inglese (Cambridge, Corpus Christi College, MS 41) è più antico, e fu donato alla cattedrale di Exeter dal vescovo Leofric, morto nell’anno 1072. Gli studi più recenti concludono che la tradizione di Salomone mago arrivò in Inghilterra nel secolo X, sotto il regno di re Alfredo (849-899), oppure poco dopo, mentre Dunstan era abate di Glastonbury (909-988)41. La leggenda salomonica era arrivata nell’Italia meridionale già tre secoli prima circa, veicolata dalla cultura bizantina che a quel tempo era diffusa in gran parte della penisola. Sul modo in cui avvenne questo trasferimento possiamo fare alcune congetture plausibili. Sembra che re Alfredo il Grande fosse un uomo molto interessato alla cultura, che incoraggiò l’istruzione e fece anche tradurre dal latino diverse opere di teologia e di storia. Pare che si recasse insieme a suo padre in pellegrinaggio a Roma, dove secondo una tradizione papa Leone IV gli avrebbe conferito il sacramento della cresima. La Roma dei suoi tempi ospitava una nutrita comunità di monaci e di religiosi provenienti dall’Oriente greco, era un centro di cultura bizantina, ed è quanto mai probabile che il sovrano possa aver conosciuto in quell’occasione il mito fascinoso che riguardava re Salomone. Il genere di questi testi inglesi è quello della letteratura minore di ambito clericale ma anche universitario: hanno un sapore popolare e sono contaminati con l’epopea nordica, in un sincretismo curioso e originale; vi troviamo Odino e Salomone con Michele arcangelo e l’uso delle rune. In uno di questi testi il figlio di Davide è un mago cristiano, e spiega a Saturno che il Pater noster, la preghiera coniata da Gesù 62­­­­

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stesso, ha il potere di proteggere i fedeli come farebbe un’armatura: ogni sua lettera può aggressivamente combattere il diavolo in una maniera diversa. Salomone è propriamente un maestro nelle scienze occulte, però è un mago buono e devoto a Dio, che elargisce consigli preziosi sul modo più efficace per combattere i demoni. Thomas D. Hill ritiene che insieme a questi scritti circolassero tra la gente anche oggetti concreti, un tipo di amuleto scritto con le rune o nella lingua insulare, che gli angolosassoni portavano su di sé proprio per difendersi dai demoni. Del resto, a quel tempo talismani basati sul potere magico della scrittura erano comunemente usati anche nella gioielleria, ad esempio per proteggere i viaggiatori dai ladri e dalla sfortuna. Nulla di tanto diverso da quanto prescrive un frammento pertinente al trattato ebraico Sefer-Ha Razim, una raccolta di testi magici del I secolo d.C., che suggerisce a chi teme di non fare ritorno da un viaggio o da una guerra di procurarsi un anello di ferro e d’oro su cui siano incise le figure di un uomo e di un leone e determinate parole42. In area inglese, a quanto sembra, certi amuleti magici di origine tardoantica continuarono ad essere utilizzati durante tutto il tardo medioevo, fino al tempo della Riforma, e un fenomeno simile si riscontra in Francia, Germania e Italia. Alle persone comuni apparivano come oggetti carichi di poteri guaritivi, ma indubbiamente la pratica affondava le sue radici nella mentalità pagana antica43. Considerato dunque il quadro dei fatti discussi finora, si pone una domanda inevitabile. Quando i cavalieri compagni di Payns si stabilirono nel sito dove un giorno c’era il Tempio, quando realizzarono scavi per ingrandirne la struttura, avevano in mente queste antiche leggende? Sembra piuttosto improbabile che trovassero nel sottosuolo della loro casa le dodici anfore d’argento nelle quali – stando alla leggenda – il costruttore del Tempio aveva nascosto i demoni; ma trovarono indubbiamente le storie mitiche legate al santuario e al suo artefice. Le quali, lo abbiamo 63­­­­

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visto, erano ben note in Oriente e in Europa, radicate nella cultura popolare tanto da sviluppare una forte suggestione sugli uomini del tempo. Per il momento, non ci risulta che nessuno fra questi talismani salomonici giunti sino a noi sia di sicura appartenenza templare; non è arduo però immaginare che le rappresentazioni di Salomone come un cavaliere che trafigge il demonio dovevano essere fascinose per loro e per gli altri ordini religioso-militari, perché vi vedevano riflessa la propria identità. I Templari inoltre conoscevano bene la Bibbia, che veniva letta ogni giorno durante la recita delle ore liturgiche. E la Scrittura era innervata di citazioni relative a queste presenze. Angeli e demoni si scontravano continuamente fra loro in un perpetuo duello cosmico che influenzava la vita degli uomini: come ad esempio nel Libro di Tobia, dove l’eroe biblico riesce a sposare Sara, perseguitata dal demone Asmodeo, grazie all’aiuto dell’arcangelo Raffaele. La gente comune conosceva bene questa vicenda. La stessa mistura di fiele di pesce con la quale l’arcangelo aiutò Tobia veniva usata da insigni medici del medioevo per eseguire fumigazioni contro l’impotenza virile che provocava l’infertilità del matrimonio, causata da un maleficio, proprio come la sventura di Sara si doveva all’effetto del demone Asmodeo44. In questo universo affollato di invisibili presenze, all’uomo restava un solo modo per difendersi: scendere a patti con esse. Si poteva scampare ai loro tranelli, salvaguardarsi dalla loro influenza, per mezzo di strumenti adeguati, cioè preparati da chi conosceva l’antica sapienza necessaria per addomesticare i demoni. Servivano amuleti efficaci, in breve; e litanie dal significato oscuro per imbrigliare queste energie vaganti nell’universo rendendole amiche, o almeno inoffensive. E i Templari, uomini immersi nel loro tempo, non facevano certo eccezione.

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«ABRAXAS» Giacomo Bascapè, il celebre studioso di sfragistica, nella sezione della sua opera maggiore dedicata agli ordini religioso-militari descrisse un enigmatico sigillo comune ad alcuni dignitari del Tempio nel Duecento. Si tratta di un oggetto indubbiamente singolare, capace di eccitare la fantasia di chi ama il genere esoterico: Gli esempi più curiosi sono costituiti dalle pietre incise d’origine orientale. Il precettore delle domus dei Templari in Francia usò nel 1214 come controsigillo un antico amuleto ovale, raffigurante un Abraxas; la gemma, come d’uso, era stata montata in un castone, su cui furono incise le parole SECRETUM TEMPLI. E frate Aimone nel 1222 si servì di una pietra intagliata classica con figure di fauni45.

L’immagine che lo studioso chiama Abraxas è un misterioso essere un po’ umano e un po’ animale, con la testa di gallo, il corpo di guerriero e due serpenti al posto delle gambe. Imbraccia uno scudo con la sinistra e nella destra stringe una frusta, mentre lo circondano stelle e le due lettere greche Alfa e Omega. Si tratta di un soggetto desunto dalle gemme magiche della tarda antichità, anche quelle appartenenti alle sette del cristianesimo gnostico. Prima di Bascapè, Doüet D’Arcq aveva notato una gemma gnostica con la stessa figura, riferibile ai Templari e usata verso l’anno 1235; di recente, è stata segnalata da Paul de Saint-Hilaire sui sigilli di André de Coolors, che fu Precettore di Francia, e di frate Aimard, nel periodo inquadrato fra il 1214 e il 1235. La strana figura dall’aspetto mostruoso occupa il controsigillo, cioè il verso, mentre la faccia principale presenta un’iconografia tradizionale dei Templari, la celebre Rotonda del Tempio di Gerusalemme46. La parola abraxas non figura sui sigilli templari; tuttavia, è applicata senza discussione all’immagine dello strano essere chimerico proveniente dal mondo antico, che gli studiosi 65­­­­

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moderni chiamano con nomi astrusi, come anguipede («dai piedi di serpente») o alectorocefalo («dalla testa di gallo»). In numerose gemme gnostiche del mondo antico la parola compare insieme all’immagine, e la frequenza è tale da far pensare che esistesse fra le due cose un’associazione evidente, forse addirittura scontata. Il demone con la testa di gallo e i piedi di serpente è forse la figura più diffusa sugli antichi amuleti magici, spesso accompagnata dalla parola Iao (che è una contrazione per il nome di Yahwè, considerato anche dai pagani un potentissimo dio della magia) o da altre parole, come Sabaoth, Baincooch, Semesilam, Abraxas47. Questi nomi, come lo strano essere cui sono accompagnati, nel mondo antico avevano probabilmente un significato astrale e solare; l’essere chimerico associato al nome Abraxas unisce in sé la natura terrestre e anche infera, simboleggiata dai serpenti, e quella celeste, rappresentata dal gallo, che cantando annuncia la nascita del sole48. La parola abraxas, inoltre, nel mondo antico non era associata solo a questo soggetto gallo/serpente, ma anche alla dea Selene, a Iside e Arpocrate, in quella complessa mescolanza di culti estranei fra loro che si trova nel sincretismo religioso della tarda antichità49. Lanciarsi in complicate elucubrazioni su quale fosse il significato esoterico di questo essere presso i Templari vuol dire perdere tempo: nemmeno il mondo classico aveva le idee chiare in proposito. Una grande esperta di cultura tardoantica, Giulia Sfameni Gasparro, considera Abraxas un nome onnicomprensivo nel quale si addensano molte suggestioni magiche di origine diversa; i talismani che usano la parola o l’essere con la testa di gallo sono oggetti prodotti e usati per una società che ha un substrato culturale e religioso essenzialmente pagano, ma si apre ad accogliere il culto del dio degli ebrei, ovviamente fra le altre entità divine, perché viene considerato depositario di grandi poteri magici50. Abraxas era, come la più nota abracadabra, una delle voces magicae più diffuse nell’Egitto romano del II secolo, e anche 66­­­­

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nei papiri delle sette gnostiche, le quali credevano che la conoscenza dei segreti spirituali fosse ancora più importante della fede stessa nel cammino individuale verso la salvezza. Per gli gnostici, secondo quanto sappiamo, Abraxas era il legislatore dei cieli, dunque un’entità angelica, favorevole agli uomini51. Le nostre conoscenze sulla teologia di queste antiche sette sono troppo scarse, e le fonti troppo diversificate e contraddittorie, per consentire giudizi più precisi; sembra comunque abbastanza acclarato che non si trattasse di un dio o un demone, ma piuttosto di un essere spirituale superiore, che possiamo definire «arconte» e immaginare con un profilo simile a quello di un arcangelo. Un essere buono, per usare un linguaggio pedestre, appartenente insomma alle gerarchie celesti e non a quelle infernali. La parola misteriosa era usata anche dai cristiani cattolici, in quella complicata mentalità religiosa dell’alto medioevo dove le reminiscenze pagane restavano ancora piuttosto vivide e abbondanti. Il fatto che fosse utilizzata non implica però che se ne conoscesse il significato esatto; al pari di abracadabra o altre parole simili, la si credeva portentosa di per sé, per il semplice fatto di avere un suono astruso. Dante Alighieri nella Divina Commedia ci offre una testimonianza di questo atteggiamento medievale quando, nel canto VII dell’Inferno (vv. 1-6), fa pronunciare a Plutone guardiano del Quarto Cerchio le misteriose parole «pape Satàn, pape Satàn aleppe». Solo il termine «Satàn» poteva avere un senso riconoscibile, e permetteva di immaginare il tutto come un’invocazione al diavolo. Il resto risultava incomprensibile; ma Virgilio, edotto ai misteri dell’aldilà, ne afferra il senso e invita il poeta a non avere paura. Come parola misteriosa dal senso probabilmente oscuro, abraxas compare ad esempio su un amuleto pettorale d’argento a forma di croce trovato in una tomba del VII o VIII secolo nella cattedrale di Losanna (oggi nel Musée Historique, n. 30969). Non è proprio una rarità, poiché croci protettive di questo genere sono state rinvenute in altre tombe cristiane 67­­­­

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di area germanica; la loro efficacia si fondava sul potere apotropaico della croce stessa, potentissimo strumento di lotta contro i demoni, che la parola magica in un certo senso doveva rinforzare52. UN OGGETTO SUGGESTIVO È possibile che alcuni precettori del Tempio ricopiassero l’Abraxas da anelli antichi perché lo consideravano un’immagine che portava fortuna, senza speciali intenzioni di osservanza religiosa, ma piuttosto spinti da quella morbosa curiosità che aveva l’uomo medievale per le gemme e i talismani protettivi. Nella tarda antichità e nell’alto medioevo, anche le monete erano usate come amuleti; quelle bizantine, ad esempio, venivano forate e portate appese al collo, perché contenevano il monogramma di Cristo, il ritratto dell’imperatore e iscrizioni inneggianti alla vittoria e alla protezione53. I papiri tardoantichi classificati come «magici», che contengono le indicazioni per produrre questi amuleti, presentano simili oggetti come dei portafortuna, più che come strumenti per stabilire una qualunque comunicazione con le forze dell’invisibile. Conserviamo una ricetta in cui si prescrive di usare la parola abraxas insieme ai due nomi Iao e Sabaoth, si specifica che il talismano può essere fatto solo con l’oro o con un diaspro azzurrino e lo si classifica in questo modo: «Anello valido per tutti gli usi, e per procacciare la prosperità. Molto efficace per sovrani e imperatori»54. Vale a dire, un articolo decisamente molto esclusivo. Nulla in realtà dimostra che il curioso essere chimerico raffigurato sul controsigillo templare fosse un oggetto magico, che cioè gli si attribuissero particolari funzioni o poteri. Usare il fantomatico Abraxas per dimostrare che nell’ordine si erano diffuse dottrine eretiche è come sostenere che Michelangelo praticava il culto del dio Apollo perché ritrasse la Sibilla Delfica nella Cappella Sistina, fra l’altro con il benestare del papa. L’ipotesi più verosimile è che alcuni precettori 68­­­­

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del Tempio apprezzassero la gemma antica semplicemente per il suo aspetto curioso e decorativo, mentre altri preferivano temi più tradizionali, oppure facevano riprodurre l’emblema araldico della loro famiglia. Mode di questo genere sono sempre esistite; i fenici, per esempio, produssero e smerciarono copiose quantità di oggetti a imitazione di quelli egiziani, pieni di geroglifici che non hanno significato, in quanto venivano copiati solo per il loro valore estetico. Ugualmente privi di senso sono gli ideogrammi con i quali lo scultore e incisore Giambattista Piranesi, nella seconda metà del Settecento, ornava con mano prodiga le sue opere. Li aveva copiati dai numerosi obelischi presenti a Roma, mentre la moda neo­ classica cominciava a infuriare in tutta Europa, molti anni prima che le campagne africane di Napoleone trovassero la stele di Rosetta e che monsieur Champollion la decifrasse. Nei decenni iniziali del Duecento, l’epoca di questi sigilli templari, l’arte europea conosce un fiorente revival del mondo classico. Si studiano le opere antiche proprio mentre ci si addentra con passione negli scritti di Aristotele; si imita il naturalismo classico, un’evoluzione del gusto che porterà alle sculture di Andrea e Nicola Pisano, e poi di Giotto. Federico II si fece ritrarre sulla Porta di Capua nelle vesti di un antico imperatore romano, e commissionò numerosi cammei simili a quelli greco-romani che raffiguravano le divinità pagane. In effetti da Bascapè sappiamo che il sigillo templare era stato fatto montando su un castone proprio un amuleto antico, dunque già trovato con quella particolare effigie; mentre il sigillo di frate Aimard ritraeva un fauno, creatura mitologica dell’antichità che non aveva conosciuto interpretazioni esoteriche55. Se dobbiamo valutare le cose basandoci sui fatti, è molto verosimile che l’Abraxas fosse un’immagine gradita al gusto del tempo perché bizzarra e di moda, proprio come lo erano le sirene e gli animali fantastici delle cattedrali gotiche. Non va dimenticato, infine, che un sigillo è un marchio di identità, serve a identificare una precisa persona e gli atti da essa emanati; una cosa nata per circolare e per essere esibita, 69­­­­

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insomma. Che su alcuni sigilli templari ci fosse il curioso essere chimerico era un fatto di pubblico dominio, non certo un’informazione riservata. Guillaume de Nogaret, che per anni si dedicò a scovare qualunque appiglio utile per addossare ai membri dell’ordine il sospetto di una presunta eresia, conosceva senza dubbio questi sigilli depositati tra i documenti della Tesoreria e della Cancelleria di Francia. I Templari avevano infatti continui rapporti diplomatici con il sovrano francese, e gestirono il Tesoro reale per un certo periodo56. Nogaret ovviamente lo sapeva; ma trattandosi di un grande giurista, abilissimo benché spregiudicato, si guardò bene dall’usarli. Era una prova talmente fragile e ridicola che avrebbe rischiato di indebolire l’intera credibilità del suo castello accusatorio. LA CABBALA E I NOMI DI DIO A Parigi, nella Bibliothèque Nationale, si trova uno dei manoscritti più antichi della regola templare, segnato con la sigla lat. 15045. È un codice unitario, cioè concepito sin dall’inizio come destinato a contenere testi vari, ma di argomento affine; si apre infatti con la regola latina del Tempio, quella approvata nel concilio di Troyes e passata sotto la revisione di san Bernardo; prosegue con il De laude, divenuto ben presto una sorta di commento imprescindibile al testo stesso della normativa templare, e lo concludono le preghiere e le meditazioni di sant’Anselmo e poi una sequenza liturgica in onore di san Vittore. Il manoscritto fu prodotto negli anni intorno al 1180, ed è l’unico fra i testimoni della regola templare di cui conosciamo il proprietario, decisamente un intellettuale fuori del comune: Godefroy de Saint-Victor57. Filosofo, teologo, poeta e musicista, Godefroy studiò all’università di Parigi nella facoltà delle arti liberali, poi in quella di teologia, infine si recò a Bologna per istruirsi in diritto. Fra il 1155 e il 1160 entrò a Saint-Victor, presso Parigi, una delle maggiori abbazie reali di Francia e anche un vivace centro di 70­­­­

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cultura, ma ne fu allontanato dal priore Gautier, entrato in conflitto con lui forse perché giudicava il suo pensiero vicino all’eresia. Probabilmente l’esule fu ospitato dai Templari, che avevano proprio a Parigi una delle principali case d’Europa; di sicuro deve essere stato a contatto con l’ordine e in grande confidenza con qualcuno dei suoi dirigenti, se ebbe la possibilità di ricopiare il testo della Regola: un precetto tassativo degli Statuti templari ne vietava severamente la diffusione, e gli stessi membri dell’ordine non potevano detenere copie né del testo intero, né degli estratti, a meno che non fossero capi di magioni con poteri di comando e ne avessero bisogno per ragioni di servizio58. Godefroy ci ha lasciato diversi autografi delle sue opere, e in un manoscritto da lui vergato, il codice Mazzarino 1002, compaiono anche due autoritratti; in quello al foglio 144v si raffigura nelle vesti di un musico fra le due colonne del Tempio di Salomone, mentre sullo sfondo si legge, inequivocabile, il nome della Città Santa: Syon59. Perché si ritrasse in quel modo? Quanto il mitico santuario fosse vivo e potente nell’imma­ ginario del medioevo cristiano il lettore lo ha già visto, anche se è giusto dire che per esigenze di sintesi ho esposto solo una parte degli esempi possibili; non era però il folklore popolare che spinse Godefroy a dare di sé un’immagine così particolare, bensì istanze diverse, proprie di quella che oggi chiamiamo «cultura alta». Fra le preghiere che il canonico vittorino inserì nel suo manoscritto compare anche un inno alla Santa Trinità intitolato Deus pater piissime, nel quale sono menzionati dei nomi o attributi di Dio traslitterati dall’ebraico o dal greco; al suo tempo – lo abbiamo visto – i nomi di Dio erano ritenuti capaci di proteggere dal malocchio e dagli spiriti malvagi60. In Danimarca e in altre regioni dell’Europa settentrionale sono stati rinvenuti amuleti di questo periodo con scritte in caratteri runici che si riferiscono all’inno Alma chorus, il quale, come il Deus pater piissime, contempla, enuncia e declama i 71­­­­

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nomi di Dio61 sia riportandoli fedelmente dai testi canonici della Bibbia, sia con l’aggiunta di varianti tutt’altro che ortodosse: nomi dal suono evocativo che ricorda una parola magica. In un amuleto da Borgund (Norvegia), per esempio, si trova questa scritta: Messias, Soter, Emanuel, Sabaoth, Adonai, (Homo)usion, Agios, Athanatos, eleison! Alpha et O(mega), Filex, Artifex, Deus, Jesus, Salvator, Agios, Athanatos, eleison! AAELGA, AGELAI, AGELA.

La parola AGLA era un acronimo cabalistico, composto dalle iniziali delle parole ebraiche che formano la frase «Il tuo braccio, Signore, è forte in eterno». Era la più popolare fra le cosiddette «parole di potenza» presenti nella magia cristiana di certe zone europee. Rappresentava un’invocazione, proprio come amen, e la si trova associata al segno della croce ma anche a parole di senso magico, come sator arepo, fai fao fau, khorda inkhorda, ed altre ancora62. Entrava addirittura in combinazione con il Pater noster, la preghiera fissata da Gesù stesso come un pilastro della religione cristiana: AGLA. Pater noster, qui est in caelis, sanctificetur nomen tuum. Adveniat regnum tuum. Fiat voluntas tu[a si]cut in caelo, et [in ter] ra. Sit super nos. Ab omni malo, amen. Alpha, Adonai. Abracalara, abraca, abraca, abra. Pax nobis! Ab omni malo, amen63.

Nell’abbazia di Saint-Victor c’era una forte attrazione per la Cabbala, però a un livello elevato, con l’approccio e l’interesse tipici dell’élite intellettuale che si applicava agli studi teologici. La Cabbala ebraica organizza i dieci nomi e le dieci manifestazioni di Dio nello spazio del Tempio di Gerusalemme, precisamente fra le due colonne, esattamente il posto dove Godefroy pone il suo autoritratto. Nel riprodurre il Tetragrammaton, cioè il nome di Dio formato dalla sequenza impronunciabile dei quattro caratteri che il Signore rivelò a Mosè presso il roveto ardente (Es 3, 14), Godefroy ne modifica tuttavia l’ultimo segno: non più 72­­­­

II. Tradizioni apocrife

YHWH, perché la lettera finale (heh) è stata da lui sostituita con una tau, che simboleggia la croce di Cristo. Questa ardita interpretazione non era una sua trovata, perché compare già in un altro manoscritto più antico della Biblioteca Vallicelliana di Roma (B 63), risalente al secolo XI. Godefroy in ogni caso la fa propria, e ne offre una sua interpretazione teologica: in ebraico eth significa «questa», waw «della vita», ioth «fonte» e thau «morte di passione», da cui la lettura «questa fonte di vita attraverso la morte, il patibolo, attraverso la morte di passione»64. Scrive Simonetta Cerrini: Nella letteratura esoterica, si evocano generalmente dei legami fra i templari e i cabalisti. Il manoscritto parigino ci dà una prova certa del fatto che i Templari appartennero al mondo degli intellettuali ebrei e cristiani del secolo XII65.

Per chiarezza va comunque detto che nessun altro testo della normativa templare contiene niente di simile, nulla che abbia anche solo lontanamente a che fare con la Cabbala. Le dotte e complesse speculazioni teologiche di Godefroy appartenevano probabilmente a lui soltanto, un uomo eccezionale che possedeva ben tre lauree (arti, diritto e teologia), in un’epoca in cui la quasi totalità delle persone era analfabeta. I Templari stessi, in gran parte membri dell’aristocrazia militare, non sapevano né leggere né scrivere, essendo queste attività riservate a quanti fra loro avevano incarichi di servizio e il rango inferiore di servientes. Resta il fatto di un contatto innegabile tra questo intellettuale così eccentrico e l’ordine del Tempio, testimoniato dalla presenza nel suo manoscritto del testo della Regola e del De laude di san Bernardo; la Cerrini crede che Godefroy abbia trascorso un certo tempo del suo esilio da Saint-Victor proprio come ospite dei Templari, prima di far rientro alla sua abbazia quando morì Gautier, il suo avversario. Se così fu, il soggiorno di Godefroy nel Tempio di Parigi può aver lasciato 73­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

delle impressioni, o forse suggestioni, in quei frati abbastanza istruiti da poter seguire almeno in parte i suoi ragionamenti. Suggestioni affascinanti dovute a discorsi condotti insieme, e magari a qualche spiegazione della Sacra Scrittura che Godefroy poteva offrire ai suoi ospiti. Dobbiamo perciò vedere i Templari come cultori della Cabbala, e raffinati investigatori del potere dei nomi di Dio? Potremmo farlo, ma in tal caso bisognerebbe ritenere cabbalisti anche i molti, anonimi personaggi che portavano gli stessi nomi impressi in caratteri runici su amuleti di vari materiali fatti in forma di croce, e mescolati con parole dal senso chiaramente magico. Più semplicemente, i Templari erano uomini del loro tempo, e ancora prima di entrare nell’ordine avevano assorbito dalle famiglie, dall’ambiente d’origine, la convinzione universalmente radicata che esistevano parole potenti e formule misteriose capaci di ottenere effetti favorevoli sulla vita degli uomini, degli animali, dei raccolti. Parole e formule che non erano in contrasto con la religione, perché comunque associate al segno della croce, il più potente dei simboli contro il male. L’ALFABETO SEGRETO DEL TEMPIO I fondi della Bibiothèque Nationale di Parigi custodiscono un altro testimone interessante delle curiosità che hanno contribuito a generare, nel corso dei secoli, uno spesso alone di mistero intorno alla memoria dei Templari. Si tratta di un manoscritto in antico francese, stavolta, che contiene non solo il testo della Regola sancita a Troyes ma anche le norme che l’ordine fissò in seguito, nei quasi duecento anni della sua esistenza. Vi lavorarono diversi copisti il primo dei quali, secondo Françoise Gasparri, probabilmente veniva dal meridione francese. Il codice parigino dev’essere stato scritto verso la fine del Duecento, se è vero che – come nota la Cerrini – è praticamente il gemello di quello conservato a Roma presso la Biblioteca Corsiniana (Accademia Nazionale dei Lincei)66. 74­­­­

II. Tradizioni apocrife

I fogli di guardia del manoscritto (1v e 2r), quelli che in genere si lasciavano in bianco perché sono i più soggetti all’usura meccanica che raschierebbe via l’inchiostro, contengono numerose frasi quasi illeggibili e, secondo qualcuno, pressoché indecifrabili. Nel 1810 il manoscritto suscitò l’attenzione di Henri Grégoire, il prete rivoluzionario che si batté coraggiosamente e con molta energia per l’abolizione della schiavitù e per il riconoscimento dei diritti politici dei negri e degli ebrei. In breve, era un personaggio ben noto negli ambienti parigini del tempo. Grégoire scrisse una Histoire des sectes religieuses nella quale inserì una tavola che presentava l’alfabeto segreto in uso presso i Templari. La scoperta fece scalpore, il lettore non faticherà a immaginarlo; nella cultura romantica del tempo, appassionata di misteri e di occultismo, era un seme suggestivo che non avrebbe mancato di produrre il suo frutto. Trent’anni dopo Charles-Hyppolite Maillard de Chambure, un nobiluomo con la passione per gli studi umanistici, elaborò le congetture di Grégoire in un trattato dal titolo eloquente: Règles et statuts secrets des Templiers, précédés de l’histoire de l’établissement, de la destruction et de la continuation moderne de l’ordre du Temple. Che la Regola e anche i rétraits, cioè gli estratti degli statuti templari, fossero effettivamente segreti, era una solida verità imposta dalla stessa normativa dell’ordine, come abbiamo già visto; ma lo studioso andava ben oltre il mero dato storico, occupandosi chiaramente anche delle propaggini templari viventi nel suo tempo, ovvero di quei gruppi che si autoproclamavano la continuazione dell’ordine antico, mai davvero estinto. Maillard de Chambure non era uno scrittore dilettante con il pallino per le bizzarrie esoteriche, bensì un intellettuale insigne nella sua epoca: segretario dell’Académie des Sciences, Arts et Belles-Lettres di Digione, conservatore negli archivi della Côte-d’Or, era anche membro corrispondente del Co75­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

mité des Travaux Historiques et Scientifiques. In breve, un uomo coltissimo, nonché uno storico perfettamente inserito nel contesto scientifico della sua epoca; un fatto interessante per noi, perché ci permette di vedere quale fosse l’opinione diffusa nel primo Ottocento sui Templari, condivisa anche dagli studiosi di mestiere. Maillard individuò tre simboli criptici, in questo alfabeto occulto dei Templari, che propose di decifrare con le lettere latine C, G e U. In anni recenti, grazie all’aiuto della lampada di Wood, Simonetta Cerrini ha potuto recuperare gran parte di questo testo misterioso, andando molto oltre ciò che Maillard de Chambure o Grégoire avevano raccolto. La studiosa ha ricostruito diversi passaggi scritti in lingua d’oc, accompagnati da formule intercalate da un latino maccheronico che presenta le parole separate da segni di croce. Sono sequenze effettivamente di difficile comprensione, tra le quali si scorgono formule simili a preghiere, come queste: † oc † est † nom mon † santa † tre nitas † X tu X es X alpha X et X o X in X te X medium X et X finis X.

La prima è chiaramente un’invocazione rivolta alla Trinità, mentre la seconda si ispira alla frase dell’Apocalisse (1, 8): «Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine». Vi si incontrano poi sequenze come la seguente, che l’autrice confessa sinceramente di non aver potuto interpretare: † carta † dea † et en fusione † † et de aqua cantra † X.car.ta dea X † et en pasionoe X et de aqua c.antra X.

La menzione dell’acqua e le due parole en fusione farebbero pensare – ma è una congettura – a una specie di ricetta medica per qualche tipo di utilizzo. Allo stesso genere di esi76­­­­

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genze sarebbe legata un’altra prescrizione che la Cerrini ha decifrato e tradotto così: Innanzitutto, fatti il segno della croce tre volte, e segna una volta l’animale (il cavallo), e recita quattro Padre nostro in onore di monsignor san Giorgio, poi ancora tre volte, così questo per me equivale alla cura dei cavalli67.

Se la lettura di queste pagine sotto la lampada di Wood permette di escludere che i Templari usassero un loro alfabeto segreto, è chiaro comunque che si servivano di formule paraliturgiche ritenute utili per la cura delle malattie, nello specifico dei cavalli. Inoltre, conclude la studiosa, prova che fra i Templari erano in uso pratiche di tipo magico-religioso; a suo giudizio, ciò si spiega con la cultura e il carattere laico di questo ordine, nel quale in effetti i sacerdoti erano pochissimi68. Ma cosa bisogna intendere, in concreto, pensando a formule paraliturgiche di tipo curativo? Cosa va inquadrato nell’espressione «pratiche di tipo magico-religioso»? Consideriamo qualche esempio simile, piuttosto calzante benché preso da contesti lontani. Nonostante la distanza nello spazio e nel tempo, ci sarà d’aiuto. PAROLE PIENE DI MAGIA Sono efficaci le formule magiche che agiscono insieme con i medicamenti, come d’altronde sono efficaci i medicamenti che agiscono insieme con le formule magiche69.

Questa frase compare nel Papiro Medico Ebers (circa 1550 a.C.), una delle più note fonti per lo studio della medicina nell’antico Egitto, dove la combinazione tra il farmaco e la parola magica è giudicata essenziale perché il primo risulti efficace. L’uno dipende dall’altra e viceversa. Tramite il pote77­­­­

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re della parola i sacerdoti-lettori (hery-heb) sapevano infatti come costringere gli dèi a esaudire le loro richieste. Così recita un precetto dei teologi di Menfi, inciso sulla celebre stele di Sciabaka: Ogni parola del dio si manifestò secondo ciò che il cuore aveva pensato e che la lingua aveva ordinato. Così è stato creato ogni lavoro ed ogni arte, l’attività delle mani, il camminare dei piedi, il moto di tutte le membra, secondo il comando pensato dal cuore ed espresso dalla lingua, e che viene compiuto in ogni cosa70.

Esisteva anche un tipo di parola distruttiva, non solo curativa, e caratterizzava le formule di «esecrazione» per provocare la morte dei nemici del faraone; e naturalmente si tramandava un complesso corpo di formule destinate a rivitalizzare il cadavere mummificato del sovrano defunto, materiale che formò il celebre Libro dei Morti 71. La parola potente, rivestita di un carattere sacro perché collegata in modo diretto alla divinità protettrice, racchiudeva sicuramente un effetto curativo, purché il custode sapesse usarla nel modo giusto; mutatis mutandis, il concetto di fondo non è diverso da quanto si trova sul manoscritto templare, laddove il dio egizio venga opportunamente sostituito dalla Santa Trinità o da san Giorgio, invocato per le malattie dei cavalli. In quanto santo guerriero, dunque sensibile all’importanza che la cavalcatura riveste nel quadro dello scontro armato durante l’epoca delle crociate, l’uccisore del drago non poteva ignorare le invocazioni dei frati. Si tratta di magia, o piuttosto di devozione popolare? Allargando il confronto ad altri esempi famosi, emerge una terza possibilità: potrebbe anche trattarsi di scienza naturale, almeno come si radicò in Occidente dalla tarda antichità al medioevo. L’intervento della forza divina come agente di guarigione sembra infatti un elemento fisso e costante della medicina, almeno fino all’introduzione del metodo scientifico. Il medico romano Quinto Sereno Sammonico, morto nel 78­­­­

II. Tradizioni apocrife

210 d.C., suggeriva di curare le febbri avvolgendo intorno al collo del malato uno speciale amuleto scritto, nel quale le lettere presenti in abracadabra dovevano essere disposte in modo da formare un triangolo rovesciato. La parola aveva presumibili origini ebraiche, derivando dalla formula ha-Barach-dabarah, «Nome del Benedetto»72. Un manoscritto in tedesco del secolo XV, prodotto nel castello di Wolfsthurn, in Tirolo, rispecchia tutte le necessità che l’amministratore di una grande tenuta poteva incontrare nella gestione della vita quotidiana, fra le quali non poca importanza hanno le malattie degli uomini, degli animali, dei raccolti. Per curare le febbri di ogni sorta, secondo l’autore bisogna usare le foglie di una certa pianta, ma non certo così come si trovano in natura: per renderle efficaci, bisogna scriverci alcune parole capaci di captare il potere della Santa Trinità, quindi recitare il Pater noster e altre preghiere. Per guarire un indemoniato serve invece che il prete gli sussurri nell’orecchio una speciale formula composta di latino e di greco maccheronico, con l’aggiunta di alcune parole fantastiche: Amara Tonta Tyra post hos firabis ficaliri Elypolis starras poly polyque lique linarras buccabor uel barton vel Titram celi massis Metumbor o priczoni Jordan Ciriacus Valentinus.

Dalla civiltà mesopotamica, attraverso l’eredità ebraica e romana, venne al medioevo occidentale la convinzione che esisteva una rete cosmica di interazioni fra l’uomo e gli altri esseri viventi, specie i corpi celesti, considerati come entità semidivine73. Da quest’idea derivò la cosiddetta «magia simpatica», ovvero un’arte che curava le malattie oppure otteneva altri risultati ricorrendo proprio a questi segreti legami invisibili fra le cose esistenti. Siamo dinanzi al fondamento sul quale si basò la medicina antica e medievale, per la quale l’erba chiamata dracontium è buona contro i morsi dei serpenti e i vermi intestinali, poiché – come spiega una pergamena scritta verso l’anno 1100 – le sue foglie hanno una forma che 79­­­­

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ricorda i draghi; allo stesso modo, la pianta chiamata epatica può guarire i mali del fegato, perché le sue foglie ricordano la forma di quest’organo74. Un nodo centrale all’interno della rete cosmica di analogie e corrispondenze sulla quale si basava questo genere di pensiero è rappresentato dalle stelle, perché esse sono la potenza ordinatrice dell’universo; sono intermediari accanto a forze che esercitano influenza diretta; così un amuleto si imbeve di un certo potere se assorbe i raggi luminosi di un corpo celeste dotato di una particolare virtù. In quanto strumento della pratica medico-magica, la parola pronunciata o scritta era un veicolo dell’agire divino, un efficace vettore di potenza. Lo stesso principio sul quale, a ben vedere, si fonda il funzionamento della Cabbala, che imbriglia il potere di Dio nello scrigno dei suoi nomi sacri75. E i giochi di parole, come sembrano essere le sequenze tipo Abracadabra, Abraxas, Sator arepo e così via, volevano trasmettere un significato più profondo di quello apparente76. Sono trascorsi i millenni, le civiltà sono scomparse, o meglio si sono evolute, dando origine a civiltà diverse; i principi sui quali si basa il funzionamento del pensiero medicomagico, invece, sembrano essere rimasti gli stessi. E qualche volta accade pure che il medesimo schema resti invariato per moltissimo tempo, perché le persone ignorano la genesi di certe pratiche e il loro senso originario; le hanno imparate e le continuano per tradizione, leggendovi in qualche caso dei significati nuovi. Così è ad esempio per il dono dell’uovo di Pasqua, un uso di origine remotissima che la cultura cristiana ha adottato come simbolo della Resurrezione. L’uso di appendere in casa il vischio nella notte di Capodanno, di antica origine celtica, non è stato invece rivestito di nessun valore cristiano; eppure la Chiesa non lo censura, perché è difficile che possa rappresentare un grave rischio per lo spirito. La formula magica presente sul manoscritto templare era in realtà una ricetta medica piuttosto comune, e Giovanni Amatuccio ne ha trovata un’altra molto simile per curare le 80­­­­

II. Tradizioni apocrife

febbri in un ricettario occitano conservato nel ms. Princeton, Garrett 8 (f. 5v), il quale non aveva niente a che fare con l’ordine del Tempio. I Templari, com’è ovvio, vivevano immersi nella loro epoca e ne condividevano il pensiero, le abitudini. A confermarlo sta la presenza, su un altro celebre testimone della regola templare (Baltimora, Walters Art Gallery, W132), di una ballata d’amore con versi galanti per sedurre le donne. La Regola imponeva ai frati il voto monastico della castità assoluta, e chi venisse colto in flagrante reato sessuale poteva essere cacciato dall’ordine77. Ma si sa, la carne è debole. L’ANELLO DI SALOMONE O IL «SIGILLO DI SATANA»? I cristiani del medioevo assorbirono le tradizioni magiche sul Tempio e su Salomone da diversi canali, non ultimo lo storico Giuseppe Flavio; la sua opera era studiata e tenuta in grande considerazione perché ricorda la figura storica di Giovanni Battista, ma soprattutto cita Gesù di Nazareth e la sua crocifissione nel passo diventato celebre come Testimonium flavianum78. E Giuseppe, lo abbiamo visto, conferiva attendibilità storica alla leggenda di Salomone mago. Qualche remora al riguardo in verità esisteva. Benché l’uso di amuleti curativi o per cattivarsi la buona sorte fosse più o meno onnipresente, coinvolgendo persino gli intellettuali e il clero, non mancavano da parte ecclesiastica consistenti sospetti al riguardo. Ciò accadeva perché accanto al profilo cristiano e addirittura cristologico di re Salomone ne esisteva un altro dal colore nettamente diverso; potremmo forse considerarli come due facce della stessa medaglia, due aspetti divergenti di una sola tradizione. Sui poteri soprannaturali del personaggio, in breve, si erano levate delle perplessità sin da tempi molto antichi. Dopo i grandi lavori fatti eseguire da Costantino per riportare alla luce la Gerusalemme del I secolo, quella dove si 81­­­­

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era svolta la Passione di Cristo, la cripta dove si svolgevano gli esorcismi in nome di Salomone non era più visitata dai pellegrini; la famosa matrona Egeria non poté vedere quel sacello sotterraneo, ma trovò che presso la basilica del Santo Sepolcro si conservavano fra le altre reliquie anche l’anello portentoso di Salomone e il corno con il quale venivano unti i re d’Israele. Erano custoditi in una piccola cappella edificata nel lato orientale del Martyrium, la chiesa del Golgota, e i fedeli lo baciavano durante le liturgie di adorazione della croce, il venerdì santo79. Nel VI secolo il santuario salomonico presso la Piscina probatica non esisteva più, e le reliquie del costruttore del Tempio, depositate al Sepolcro, erano dunque confluite nella devozione verso il Redentore che lì era risorto. Ciò si dovette a un riassetto del circuito della città, ma probabilmente anche a un intervento delle gerarchie ecclesiastiche, decise a eliminare per cautela un luogo dove si mantenevano devozioni di origine giudeo-cristiana non più accettabili. In particolare, è possibile che si vedesse nel culto autonomo di Salomone un pericoloso vivaio dove potevano annidarsi sopravvivenze del paganesimo. Le iscrizioni presenti sugli amuleti salomonici contengono in effetti invocazioni cristiane come il Trisaghion o l’inizio del salmo 91, ma altre mostrano un insidioso sincretismo, come succede in un chiodo magico citato da Antonio Cosentino. Qui una formula recita queste parole: ter dico, ter incanto, in signo Dei et signo Salomonis et signo de nostra Artemix. Se il costruttore del Tempio poteva in qualche modo essere inglobato nel culto cristiano diventando addirittura una sorta di prefigurazione del Cristo, la presenza della dea Artemide creava senza dubbio un certo imbarazzo. La chiusura del sacello dove si facevano esorcismi corrisponde all’epoca in cui furono composti gli Atti di santa Marina, una fonte agiografica che non condivide affatto il giudizio su quei poteri; in modo inequivocabile, definisce l’anello di Salomone come «sigillo di Satana»80. Si tratta di 82­­­­

II. Tradizioni apocrife

un’eccezione nel vasto panorama di testi che leggevano in positivo la figura di Salomone come un «mago buono»; in ogni caso questa testimonianza dissidente, questa voce fuori campo, è una spia storica che non va ignorata. Le autorità religiose erano effettivamente preoccupate di come questo mito facesse presa sulla gente, e più ancora per il modo in cui i cristiani pretendevano di rievocare i poteri salomonici e usarli per i propri scopi personali. Il Decretum gelasianum, attribuito a papa Gelasio (492-496) ma in realtà compilato nella Gallia meridionale del secolo VI, annovera fra i libri proibiti cui il cristiano non deve prestare fede queste scriptura quae appellantur Salomonis, e il divieto si estende ai phylacteria, oggetti con scritte, da essi ispirati. Origene, nel suo Commento al vangelo di Matteo, aveva già espresso il veemente sospetto che le invocazioni a Salomone conservate in certe formule fossero in realtà invocazioni ai demoni81. Per gli uomini della tarda antichità, imbevuti di cultura esoterica e sincretismo religioso, era facile fraintendere certi passi dei vangeli che narravano dei prodigi e degli esorcismi compiuti da Gesù. Sempre Origene (Contra Celsum, VI, 41; VII, 4) lamenta quanto certe usanze fossero diffuse negli strati inferiori della popolazione, ignoranti e dunque facili prede della superstizione82. Ciò si spiega con quella notevole divergenza fra la dottrina cristiana ufficiale, nata dalla riflessione dei teologi, e le pratiche della vita quotidiana; gli ecclesiastici e i canonisti condannavano l’uso degli amuleti, ma questo non li rendeva meno frequenti o amati tra la gente comune. Nel De doctrina christiana, sant’Agostino biasimava in modo assoluto l’abitudine di portare talismani, spiegando che solo Dio può compiere miracoli, e qualunque altra forma di potere soprannaturale deriva dall’intervento dei demoni. Simili artifici sono per lui come trappole in cui il diavolo imbriglia le anime degli uomini. Rimproverava inoltre i fedeli perché consultavano tavole astronomiche per sbirciare nel futuro, e usavano filatteri e amuleti in occasione di malattie e disgrazie. Gli risposero in questo modo: 83­­­­

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Queste cose sono necessarie per la vita temporale; ma siamo cristiani in vista della vita eterna; per questo abbiamo creduto in Cristo, affinché ci dia la vita eterna; perché Egli non si occupa di questa vita temporale in cui viviamo83.

Volendo parafrasare il vangelo, si potrebbe dire «date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio». La fede nel Redentore non aveva nulla a che fare con simili credenze, insomma, perché si trattava di rimedi pragmatici legati soltanto alle questioni della vita terrena. La condanna sarà ribadita durante tutto il medioevo da molti scrittori religiosi, fra i quali papa Gregorio I spicca indubbiamente per autorità teologica e istituzionale; ma non fermerà, né potrà attenuare, il fascino che i talismani e le pratiche divinatorie esercitavano sulle persone di ogni ceto84. Diversi autori occidentali erano convinti che certe usanze fossero una deprecabile remota eredità del giudaismo, non tanto del paganesimo: così Alcuino di York (735-804), scrivendo a Aethelred arcivescovo di Canterbury, definiva come una superstizione dei farisei (pharisaica superstitio) l’uso di portare addosso amuleti fatti di pezzetti di pergamena con su scritti passi dei vangeli (pittaciola), perché i farisei portavano i filatteri, piccoli rotoli dove stavano scritti passi della Torah, ritenuti in grado di sviluppare un potere protettivo. Del resto, una decretale attribuita già a papa Gelasio sosteneva che gli amuleti in forma di filatterio sono consacrati ai nomi dei demoni; nel concilio di Ratisbona (742) vennero ufficialmente condannati insieme con la divinazione, gli incantesimi e le altre pratiche pagane, divieto che il Decreto di Graziano ribadì nel secolo XII, come pure altri intellettuali ecclesiastici di spicco quali Burcardo di Worms e Ivo di Chartres85. Negli ambienti ecclesiastici non c’era molta chiarezza su cosa fosse lecito e cosa no, e la conseguenza è che si teneva ciò che a noi oggi pare un comportamento ambiguo; ad esempio, si tolleravano le sortes biblicae, cioè l’uso di aprire un libro 84­­­­

II. Tradizioni apocrife

della Bibbia a caso per capire cosa sarebbe accaduto, insomma prevedere il futuro. Questo era comunque un uso colto del testo sacro, tipico di persone molto istruite che attribuivano alla Scrittura un potere profetico tale da divinare anche le vicende dei loro giorni; nei ranghi bassi del clero esisteva un fenomeno decisamente peggiore, ciò che Kieckhefer definisce «un sottobosco clericale colluso con la necromanzia». Fra i religiosi e i preti secolari abbondavano i produttori e i consumatori di amuleti, non meno che fra i laici; gran parte di queste persone erano convinte di offrire agli altri con simili oggetti un valido strumento di difesa contro il diavolo; insomma, praticavano quella che per le nostre categorie moderne si chiamerebbe «magia bianca». Qualcosa che confinava strettamente con la pratica religiosa, non meno nobile e buona di un esorcismo86. Re Salomone, fulcro di un mito fortunatissimo che lo dipinge come una specie di arcimago e protagonista di tanti amuleti portentosi, inevitabilmente si trovò al centro di queste perplessità che riguardavano la sfera delle arti occulte. Se la pratica in sé era da biasimarsi, poteva non esserlo il principale attore? L’esegesi della Scrittura additava nel costruttore del Tempio una radice molto illustre e di rango regale dalla quale era nato il Cristo, e la genealogia di Gesù nel vangelo di Matteo comincia proprio da Salomone; in parallelo, c’erano però anche timori consistenti quanto a certi oggetti e a certe pratiche legati al famoso personaggio. In fondo, la vita di Salomone non era sempre stata uno specchio di fedeltà e devozione al Signore, e la Scrittura mostrava che in vecchiaia il re si era lasciato traviare dalla sua passione per una bella concubina, accettando di venerare gli idoli. Anche per questo, suggerivano le autorità religiose, bisognava usare prudenza. Dobbiamo però fare attenzione alle parole, perché esse vivono a lungo nel tempo ma non sempre hanno lo stesso significato in ogni epoca. Spesso il loro senso si evolve, cambia durante i secoli. Così il concetto di «magia», almeno come lo 85­­­­

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intendiamo oggi, sembra legato più a una valutazione morale dell’effetto causato da questi artifici che non al semplice uso degli artifici stessi. Ed emerse piuttosto tardi, nella storia del pensiero cristiano. L’idea di stregoneria com’è arrivata a noi, cioè fare cose impossibili grazie al potere dei demoni, sembra definita soltanto nella seconda metà del Duecento, quando un crescendo di sanzioni pontificie finì per assimilarla all’eresia e di conseguenza ne affidò la repressione al Tribunale dell’Inquisizione per l’eretica pravità. Il processo incomincia con Gregorio IX (1233) e prosegue fino a Giovanni XXII (1316-1334); quest’ultimo, esperto di scienze occulte, era ossessionato dai demoni al punto di trasformare la sua preoccupazione personale in una questione teologica87. DAL CORANO AI POEMI DEL SANTO GRAAL Un ultimo elemento da ricordare riguardo alla tradizione di Salomone mago è l’apporto della cultura islamica, che ebbe sulla civiltà del medioevo occidentale un influsso importante. Il mondo islamico ammetteva vari tipi di pratiche divinatorie, il ricorso a pietre preziose in funzione curativa ma anche per scacciare il malocchio, l’impiego degli influssi astrali per agevolare certi eventi della vita umana, pur restando intoccabile il dogma essenziale dell’unicità di Dio. In diversi punti del Corano il figlio di Davide, che ha ricevuto da Dio il dono della profezia, è ritratto come un uomo dotato di poteri straordinari88. Domina certi elementi della natura, e comanda su esseri invisibili e potenti chiamati dɉinns, ed altri detti shayṭān, che l’Onnipotente ha messo al suo servizio: E a Sulaymān sottomettemmo il vento: il vento che percorreva il cammino d’un mese al mattino e il cammino d’un mese la sera. Per lui facemmo scorrere una fonte di rame fuso, e alcuni spiritelli lavoravano sotto di lui, naturalmente con il permesso del Signore. [...] 86­­­­

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Forgiavano per lui ciò che egli voleva: santuari, monumenti, calderoni della capacità di abbeveratoi di cammelli e solide marmitte89.

Il costruttore del Tempio conosceva anche il linguaggio degli uccelli; in breve, possedeva una sapienza sovrumana. Il profilo di questi esseri potenti ma obbedienti, chiamati dɉinns e shayṭān, è piuttosto sfumato. Sono simili ai genii venerati dai romani, cioè esseri ambivalenti che possono svolgere la funzione di numi tutelari, ma anche rivelarsi malvagi, ovvero spiriti cattivi. Dal Corano queste tradizioni passarono alle opere degli studiosi islamici. Salomone figura in primo piano nel pensiero di al-Būnī, sotto il nome del quale ci è pervenuta una specie di enciclopedia della magia che comprende una quarantina di trattati scritti in realtà da altri. Sono opere che trattano di magia pratica, di alchimia, del quadrato magico, della confezione di amuleti e sigilli astrologici, ma insegnano anche pratiche di medicina, come ad esempio certi rimedi contro la peste. Al-Būnī trattò anche del potere esoterico delle lettere e dei nomi di Dio, con un interesse affine alla Cabbala, per concludere che i misteri delle lettere (al-ḥurūf) non possono essere compresi dall’uomo attraverso l’intelletto, ma solo penetrando la saggezza divina90. Salomone ebbe un ruolo importante anche nell’esoterismo islamico, specie negli scritti di Ibn al-‘Arabī, uno dei più celebri sufi, vissuto nella Spagna musulmana fra il 1165 e il 1240; nella scuola dei suoi commentatori, il costruttore del Tempio incarna il «Verbo della saggezza misericordiosa»91. Le tradizioni islamiche confluite in terra di Spagna narravano della Tavola di Salomone, fatta interamente di berillio verde, costellata di perle e rubini, e dotata di uno specchio magico capace di riflettere tutto il mondo; qualcosa che, con un po’ di approssimazione, potremmo immaginarci come l’Aleph descritta nel famoso racconto di Jorge Luis Borges. Secondo Ibn al-Athīr, alcune preziosissime reliquie erano state portate via da Gerusalemme come bottino di guerra. In se87­­­­

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guito, le avrebbe ritrovate Ṭārik durante la presa della città di Toledo92. Il folklore popolare attribuiva al sigillo di Salomone l’immagine di una pianta di mandragora, dai potenti effetti allucinogeni, che in Europa era annoverata nel gruppo delle temibili adamantes, le varietà vegetali usate dalle streghe93. La leggenda salomonica troverà la sua maggiore consacrazione intellettuale nelle opere del celebre erudito egiziano al-Suyūtī (morto nel 1505), uno dei più illustri studiosi islamici, esperto nella legge coranica e anche storiografo; nel suo trattato Ḥuṣn al-muḥāḍara, che si può tradurre Le eccellenti letture sulle cronache dell’Egitto e del Cairo (I, 27), descrive Salomone come il custode di scienze occulte di remota origine egizia, che poi furono trasmesse a Pitagora94. L’accostamento fra la sapienzialità egizia, sulla quale il mondo antico aveva molto favoleggiato, e le conoscenze scientifiche della Grecia arcaica può sembrare non solo inedito, ma anche improprio; sicuramente lo studioso rifletteva una tradizione più antica che identificava nella geometria e nelle matematiche la vetta più alta delle conoscenze umane, tali da sconfinare nelle capacità divine. L’opera e la vita di Pitagora, ammantate di mistero, erano conosciute soprattutto tramite gli scritti del filosofo neoplatonico Porfirio (IV secolo d.C.), ed ebbero un influsso notevolissimo sullo sviluppo della civiltà islamica: le teorie grecoarabe sulla musica e sui numeri rimontano propriamente a ciò che veniva attribuito a Pitagora. Come accadde per altri grandi personaggi del mondo antico, sotto il suo nome si raccolsero numerose opere di alchimia in realtà spurie, che gli furono attribuite per surrogare il loro valore con la sua fama; fra di esse compare anche un testo sulla divinazione. I simboli pitagorici sono citati in Picatrix, forse il trattato di magia più famoso del tardo medioevo occidentale (di cui si dirà a breve)95. Qualcosa di simile accadde per la figura di Euclide, i cui Elementi rappresentavano un modello di ragionamento non solo in ambito matematico ma anche nella speculazione teologica (come in al-Ghazālī)96. 88­­­­

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La conquista araba della penisola iberica cominciata nell’anno 711, poi quella della Sicilia, infine le crociate, momento di scontri feroci ma anche di intensi scambi economico-culturali, consolidarono nei cristiani d’Europa la convinzione sulle incredibili doti magiche del costruttore del Tempio. Leggende ebraiche e leggende islamiche entrarono nell’immaginario popolare dell’Occidente con una profondità e una diffusione che lo storico spesso fatica a misurare: le fonti sono scarse e, causa la censura ecclesiastica, anche molto laconiche. In ogni caso, ne restano chiare tracce persino nella cultura cosiddetta «alta», cioè quella prodotta dagli intellettuali più apprezzati e seguiti. Nel regno di Castiglia, verso l’anno 1280 circa, re Alfonso X il Saggio fece tradurre in latino la citata opera Picatrix, il cui titolo originale era probabilmente Lo scopo del saggio. Viene considerata la più importante trattazione di magia astrale circolante nel tardo medioevo, e influenzò la dottrina medica ai più alti livelli: certe ricette tratte da Picatrix si ritrovano fra i medicamenti usati dal catalano Arnaldo da Villanova, celebre docente a Montpellier e a Salerno, nonché medico personale di papa Bonifacio VIII per un certo periodo; chiare tracce di concezioni astrologiche in un certo senso «panteistiche» derivate dalla cultura islamica sono presenti nell’opera di Pietro d’Abano, in Ruggero Bacone e altri celebri autori. Non è un caso se questa apertura mentale, giudicata un po’ troppo borderline da alcuni ambienti ecclesiastici, provocò seri guai ad alcuni di questi intellettuali97. Pietro d’Abano, mentre si trovava a Parigi, venne denunciato dai domenicani del convento di Saint-Jacques per aver espresso alcune idee pericolose nella sua opera più famosa, il Conciliator; venne liberato per intervento di un papa che egli non cita espressamente, ma difficilmente potrebbe essere altri se non Bonifacio VIII, visto che il fatto occorse sotto il suo pontificato. Arnaldo da Villanova sperimentò lo stesso tipo di censura, anch’egli mentre soggiornava a Parigi, stavolta su denuncia 89­­­­

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sporta da cinque maestri universitari che lo accusavano non di essere un cattivo medico, ma di propugnare idee sospette in un suo breve trattato apocalittico intitolato Sull’avvento dell’Anticristo. Bonifacio VIII si fece inviare l’opera incriminata e non ci trovò niente di eretico, poi fece liberare Arnaldo che lo raggiunse e lo servì per alcuni anni come suo medico di fiducia. Nel luglio 1301 gli confezionò un sigillo astrologico donando all’oro la virtù che promanava dalla costellazione del Leone, e la ricetta da lui usata è molto simile a quella prescritta in Picatrix, il libro occulto di cui abbiamo già detto. I medici illustri che Bonifacio VIII teneva al suo servizio documentano che questo pontefice controverso possedeva una grande curiosità intellettuale, specie per le cose riguardanti i misteri della natura. La sua biblioteca personale, inventariata nell’anno 1311, comprendeva fra altri testi rari anche due celebri trattati di magia, uno dei quali era l’Ars nova, attribuito a Salomone. Poco dopo la morte, avvenuta nel 1303, il nipote Francesco ordinò di dare alle fiamme «tutti i libri di alchimia, di astrologia o di altre materie simili»; non sappiamo se lo fece perché era un uomo ignorante e grossolano, che non aveva ereditato nulla dell’acume dello zio, o se invece temeva per la sua posizione personale: erano infatti gli anni in cui gli avvocati della corona francese intentarono proprio contro papa Bonifacio un processo post mortem con l’accusa di eresia, stregoneria, evocazione di demoni98. Per lo storico è oggi difficile guardare alla mentalità del medioevo misurandola con le proprie rigide etichette che vorrebbero separare il pensiero ortodosso da quello eterodosso, distinguere ciò che è magico da ciò che non lo è affatto; probabilmente le nostre etichette sono da stracciare, perché non adeguate alla complessità culturale di un mondo così lontano e diverso dal nostro. Se vogliamo mantenerle ad ogni costo, dovremmo però trasferire nel girone degli eretici anche parecchi fra gli ingegni più brillanti del tempo, quelli che contribuirono al progresso delle varie discipline. In concreto, le testimonianze giunte fino a noi mostrano 90­­­­

II. Tradizioni apocrife

che anche in ambito cristiano era diffusa una certa tolleranza riguardo a queste credenze parallele alla religione, e gli influssi culturali islamici erano forse più intensi di quanto possa sembrare a prima vista. Nel Parzifal, scritto fra il 1200 e il 1210 dal poeta tedesco Wolfram von Eschenbach, il Graal ha la forma di una pietra celestiale. Il concetto ricorda immediatamente la celebre Pietra Nera custodita nella Kaaba alla Mecca, che ogni fedele islamico ha il dovere di visitare almeno una volta nella vita. Wolfram dichiara di aver trovato la sua storia nel libro segreto di Flegetanis, un astronomo musulmano che discendeva – guarda caso! – da re Salomone, e aveva letto il segreto del Graal nel movimento delle stelle99. Nel Parzifal la custodia del mitico oggetto spetta proprio ai Templari. Il passo si esprime ovviamente in un linguaggio poetico, ma il nome citato, Templeisen, è troppo esplicito per non richiamare in modo immediato e univoco i cavalieri del Tempio; del resto nel poema questi guerrieri consacrati alla propria missione vivono in un castello impenetrabile separati dal mondo (ai Templari non era permesso trascorrere la notte fuori dallo spazio delle loro commende), e indossano mantelli bianchi. Premesso che fra i documenti dei Templari non si incontra nulla di simile a una coppa come quella dell’Ultima Cena – se poi il Graal va davvero inteso in questo senso – il passo del Parzifal è comunque importante per un fatto: dimostra che sui Templari la gente fantasticava volentieri. Li si vedeva come un ordine particolare e privilegiato, degno di essere in qualche modo proiettato nella leggenda, mentre in contemporanea le storie favolose su Salomone e sul Tempio si infittivano traendo autorità da secoli e secoli di tradizione. La leggenda templare nasce dunque subito dopo la costituzione dell’ordine stesso, perché la confraternita fondata da Hugues de Payns con i suoi commilitoni si trovò inserita per volontà del re di Gerusalemme in un contesto particolare della Città Santa, il sito del Tempio di Salomone, che era anche un enorme contenitore di miti. E non possiamo escludere, 91­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

anzi è molto probabile, che il sovrano decidesse di alloggiare lì la sua milizia speciale proprio per donarle un carisma più intenso e un fascino capace di far presa sulla gente comune, quella che doveva rimpinguare le file del futuro ordine, ben più di quanto non potessero farlo il latino forbito e la retorica infiammata del De laude di san Bernardo. Il mito templare non è dunque strettamente legato ai Templari, perché essi lo ereditarono da una tradizione culturale antichissima, nell’alveo della quale si trovarono immessi. A quel tempo, l’intera cristianità si concedeva senza troppi scrupoli l’uso di amuleti protettivi e tramandava formule efficaci per salvare i raccolti o curare gli animali. Non possiamo parlare in alcun modo di «leggenda nera», per il medioevo. L’alone fantastico che avviluppò i frati guerrieri aveva allora caratteri luminosi, e poteva a buon diritto considerarsi un motivo di orgoglio. Erano ancora lontanissimi gli anni del processo che avrebbe visto l’ordine del Tempio trascinato nel fango con l’accusa di eresia.

Capitolo terzo

NELLE MANI DELL’INQUISIZIONE

I TEMPLARI, UNA SPINA NEL FIANCO DELLA FRANCIA Il 12 ottobre 1307, giovedì, si celebrarono in Parigi le esequie solenni della principessa Caterina di Courtenay, cognata di re Filippo IV detto il Bello. Caterina aveva un nome importante, quello di una dinastia di origini francesi che aveva regnato per decenni sull’impero bizantino strappato ai greci durante la quarta crociata (1204); dopo la riconquista greca compiuta da Michele VIII Paleologo, ai Courtenay spettava comunque il titolo di imperatori di Costantinopoli. La dama aveva portato tale titolo a Carlo di Valois, suo marito, il fratello che il re di Francia prediligeva perché era nato da re Filippo III e dalla sua stessa madre, la regina Isabella d’Aragona. Per tutte queste ragioni, erano funerali particolarmente solenni; l’onore di sorreggere lo stendardo funebre fu assegnato a Jacques de Molay, Gran Maestro dei Templari, che dunque quel giorno sfilò nel cuore della capitale francese occupando un posto privilegiato fra quanti erano idealmente vicini alla defunta, quasi nella cerchia dei familiares. Nessuno forse immaginava che solo poche ore dopo, all’alba di venerdì 13 ottobre, i soldati reali sarebbero accorsi in massa al Tempio di Parigi esibendo un ordine di cattura firmato dall’Inquisitore; e in virtù di quell’ordinanza avrebbero messo i Templari in stato d’arresto. Comincia così il lungo e travagliato processo contro l’ordine religioso e militare più vasto e potente del medioevo, divenuto nei secoli successivi un’icona di prestigio, ricchezza e anche mistero proprio gra93­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

zie agli eventi messi in atto dalla corona francese per ottenere la sua distruzione1. Dalla cattura improvvisa, avvenuta il 13 ottobre 1307, al rogo del Gran Maestro, consumato su un isolotto della Senna il 18 marzo 1314, trascorsero ben sette anni, durante i quali la possente macchina giudiziaria pilotata dalla monarchia francese si scontrò con la resistenza opposta dalla Santa Sede. Una resistenza più che altro passiva, perché il papato versava allora in condizioni di assoluta impotenza politica: Clemente V, sotto il quale si tenne il processo, sarà infatti il primo tra i pontefici costretti a risiedere in Avignone, una città giuridicamente compresa nei territori dell’impero, in realtà soggetta all’orbita politica dei re di Francia2. Fra l’arresto e il rogo cadde il concilio di Vienne (inverno 1311-primavera 1312); nel corso delle sedute, fra intimidazioni e negoziati, il papa emise una serie di bolle che pur senza condannare l’ordine del Tempio, e anzi dichiarando che non erano mai emerse prove effettive di eresia, di fatto ponevano fine alla sua storia3. Il processo era durato tecnicamente ben cinque anni: aperto sotto l’egida dell’Inquisizione e con l’accusa di eresia, si chiudeva dunque senza nessun verdetto e la dichiarazione papale che l’eresia non c’era mai stata; è forse il primo, grande processo politico nella storia dell’Europa moderna4. Due anni dopo la sua fine, quando ormai il Tempio non esisteva più e il suo patrimonio era stato devoluto all’altro ordine religioso-militare degli Ospitalieri, la vicenda ebbe un macabro epilogo nella morte dell’ultimo Gran Maestro, condannato al rogo come gli eretici. Sono eventi inconciliabili fra loro, e l’insieme dei fatti sembra non avere una logica; questo accadde perché nel processo ai Templari confluivano tanti interessi e tanti moventi diversi. Per evidenziare quelli principali nel modo più vivo e incisivo possibile, lasciamo la parola ai testimoni del tempo. Il 2 novembre 1307, solo poche settimane dopo la cattura dei Templari in Francia, il genovese Cristiano Spinola scriveva dalla sua città al re Giacomo II d’Aragona che desiderava 94­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

informazioni sul putiferio che stava accadendo in Francia. Ecco la sua relazione: Credo che il sommo pontefice e il signore il re facciano tutto questo per ottenere i soldi dei Templari, e perché vogliono fare degli Ospitalieri, dei Templari e degli altri ordini militari una sola istituzione, a capo della quale il re di Francia ha intenzione di mettere uno dei suoi figli. L’ordine del Tempio però ha fatto una dura opposizione a tutto questo, e ancora adesso non vuole acconsentire5.

Per l’informatore aragonese c’erano dunque due motivazioni essenziali a spingere l’attacco perpetrato dal sovrano, il quale, secondo la sua opinione, godeva almeno in parte del consenso papale. La connivenza cui Spinola accenna, ovvero il punto sul quale Clemente V e Filippo IV erano d’accordo, riguarda il progetto di fondere insieme tutti gli ordini militari in un solo istituto. Si trattava di una riforma che il papato in realtà caldeggiava sin dai tempi del II concilio di Lione (1274), progettata e tuttavia sfumata proprio per la ferma opposizione degli ordini militari6. Nell’autunno del 1305, due anni prima che il sovrano francese facesse incarcerare i Templari del suo regno, Clemente V da poco eletto al soglio apostolico aveva riportato in auge il piano per l’unificazione; stavolta il capo degli Ospitalieri Folques de Villaret si mostrava favorevole, mentre Jacques de Molay continuava a muoversi su quella linea di dura opposizione che aveva distinto i suoi predecessori7. La Terrasanta era stata definitivamente perduta nel 1291, con la caduta di Acri; da allora, i cristiani non erano più riu­ sciti a conquistare un presidio in Oriente, perciò gli ordini militari erano soggetti a una forte critica da parte dell’intera società cristiana. Se gli Ospitalieri servivano ancora la causa per la quale erano stati fondati, cioè curare i pellegrini indigenti, i Templari erano invece un ordine interamente dedicato alla difesa di Gerusalemme e del Santo Sepolcro; in breve, sembravano aver esaurito la loro missione storica, mentre 95­­­­

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continuavano a mantenere inalterati i loro numerosi privilegi, e per giunta, come vedremo meglio, sembravano ostacolare la monarchia francese anche sul versante della politica internazionale8. Nella cerchia di giuristi e uomini politici che ruotava attorno a Filippo il Bello prevalse la convinzione che l’ordine del Tempio, in passato prezioso strumento con il quale collaborare, fosse divenuto un grave problema da rimuovere9. Una volta stabilito il fine, furono organizzati i mezzi per raggiungerlo attraverso una complessa strategia che puntava sulla diffamazione dei Templari, sulla distruzione del loro ascendente popolare. In tale pianificazione, gli strateghi del processo non si fecero scrupolo a falsificare documenti e manipolare le informazioni secondo le loro necessità. L’IMPATTO DISTRUTTIVO DELLA DIFFAMAZIONE Cristiano Spinola era convinto che il papa avesse autorizzato la cattura dei Templari perché fu questa la versione dei fatti ufficialmente diffusa, anche se era falsa. Lo stesso ordine d’arresto, emanato in segreto il 14 settembre 1307 nell’abbazia di Maubuisson, coinvolgeva il papa in termini ambigui, ma passibili di essere facilmente interpretati come faceva comodo alla strategia reale: Dopo aver tenuto al riguardo un accurato colloquio preliminare con il nostro Santissimo Padre nel Signore C[lemente], posto dalla Divina Provvidenza come sommo pontefice della sacrosanta Chiesa Romana e universale, e con l’appoggio della parte più autorevole dei nostri baroni e uomini di Chiesa, abbiamo cominciato a ragionare su quali fossero i modi più opportuni per procedere con le indagini, e le vie migliori attraverso le quali poter giungere a trovare la verità10.

Sono frasi che contengono alcuni dati effettivi, poiché il sovrano aveva davvero discusso con Clemente V circa le vociferazioni sui Templari, ed aveva mosso contro di loro precise 96­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

accuse; ancora nell’estate del 1307, mesi prima che scattasse la cattura, il pontefice lo esortava a produrre prove concrete delle sue pesanti insinuazioni. Il papa dunque discute il problema con il sovrano, ma non risulta che avesse mai dato il proprio assenso a una qualunque forma di azione contro i membri dell’ordine. Il pontefice acclarò l’equivoco consumato in malafede, e quindi scrisse una lettera piuttosto dura al sovrano per chiarire che non aveva autorizzato nessun tipo di azione contro i frati del Tempio: [...] alcuni dei tuoi hanno scritto ad alcuni nostri della Curia che Noi avevamo gravato completamente la tua coscienza per quanto attiene l’affare dei Templari, rimettendo al tuo arbitrio le disposizioni sia sulle persone che sui beni dell’ordine; addirittura l’avremmo fatto tramite una nostra lettera che ti sarebbe stata recapitata per mano del notaio apostolico Geoffroy de Plessey: e lui ti avrebbe persino incaricato a voce, per ordine nostro, di compiere l’arresto generale di tutti i Templari del regno! Ma poi, meravigliato e adirato nel sapere tutto questo, hai voluto assicurarci che quel notaio non ti aveva mai consegnato nessuna lettera pontificia che parlava di un simile provvedimento sui Templari, né aperta né chiusa, né alcun altro documento di qualunque tipo contenente quell’ordine. E non aveva mai nemmeno detto a voce simili parole da parte nostra: al contrario, il messaggio che egli ti ha recato andava in tutt’altra direzione!11

Il testo della lettera papale mostra quella che sarà una costante del processo: un astuto gioco di fraintendimenti da parte di re Filippo IV, che agisce e poi si nasconde dietro i suoi consiglieri quando rispondere di persona del proprio operato comporterebbe una grave macchia sull’onore della dinastia capetingia, che in certi casi addirittura fugge da Parigi per non dover incontrare i legati papali venuti a chiedergli spiegazioni, ad esigere che rilasci i Templari. Una volta innescato, il processo è insomma una macchina letale che procede verso il suo obiettivo; Clemente V sostanzialmente non è in 97­­­­

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grado di fermarla, poiché i frati sono nelle prigioni del sovrano, che del resto invia il suo esercito a circondare la residenza del papa, quando vuole intimidirlo. L’uso della tortura procurò agli strateghi del processo molte confessioni nelle quali i Templari ammettevano di aver compiuto, durante la loro cerimonia d’ingresso, atti indecenti e offensivi nei confronti della religione, come sputare sulla croce e rinnegare Gesù Cristo. I prigionieri erano nelle mani dei soldati reali, ed erano uomini devoti alla corona anche i notai che si occuparono di trascrivere le loro confessioni; queste testimonianze servivano allo scopo di creare un voluminoso dossier con il quale la strategia reale doveva mettere il papa dinanzi al fatto compiuto, dimostrando cioè che i Templari, benché catturati e interrogati con una procedura irrituale, erano in ogni caso collusi con pratiche contrarie alla religione. Numerosi Templari avrebbero in seguito rinnegato quanto ammesso in precedenza, e questo lascia lo storico in dubbio, a chiedersi se revocarono perché si resero conto a posteriori di essere stati presi in trappola, oppure se gli agenti reali manipolarono i documenti perché bisognava assolutamente presentare al papa un imponente corpo di prove sull’indegnità dei Templari12. Una volta innescato, insomma, il processo avrebbe comunque distrutto l’ordine; nel febbraio 1308, ormai sicuro che il sovrano aveva agito in malafede e con metodi gravemente irregolari, Clemente V gli tolse la sua arma più affilata, cioè la connivenza dell’Inquisizione. L’Inquisitore di Francia, frate Guillaume Imbert, venne sospeso per abuso di potere insieme a tutti i membri del Tribunale, che dunque non poteva più avallare l’operato degli strateghi reali. Una misura opportuna che purtroppo arrivava tardi; la più grande risorsa dei Templari non risiedeva nel denaro che accumulavano per la crociata, e nemmeno nella loro eccellenza sul piano militare; il loro maggiore punto di forza era l’ascendente che l’ordine aveva sulla gente, la sua immagine in ciò che oggi chiamiamo opinione pubblica. 98­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

Il danno compiuto in questo senso era ormai irreparabile. Ancor prima che scattasse la loro cattura, l’Inquisitore aveva ordinato che i frati degli ordini mendicanti percorressero il territorio del regno di Francia tenendo prediche alla gente sull’eresia dei Templari, sì da convincere le masse della loro colpevolezza prima ancora che il processo avesse tecnicamente inizio. Bersagliata dalla campagna diffamatoria che la monarchia francese aveva pianificato e messo in atto con astuzia e gran dispiegamento di forze, la società cristiana cambiò radicalmente il proprio giudizio sui Templari. La stima che li circondava venne erosa dallo scandalo e dal disgusto. FILIPPO IL BELLO E PONZIO PILATO Nel momento del processo la Francia si trovava sull’orlo della bancarotta, e questo induce gli storici odierni ad avere almeno una certezza: il movente economico fu la prima ragione dell’operato di Filippo il Bello. Fra le voci che lo affermano, spicca il parere illustre di Dante Alighieri; nel canto XX del Purgatorio, il poeta mostra re Ugo Capeto che muove al suo discendente Filippo IV l’accusa di aver agito per pura avidità di denaro, e lo definisce con un’espressione caustica, chiamandolo un «novello Pilato». L’uso di questo personaggio da parte del poeta, che sicuramente non fu chiamato in causa soltanto per ragioni di rima, rappresenta per lo studioso moderno un elemento di ambiguità. Nei vangeli, infatti, Ponzio Pilato è colui che mette a morte Gesù, dunque il suo carnefice; una lettura superficiale del testo può ritenersi soddisfatta da questa interpretazione, e chiudere la faccenda concludendo che Filippo IV distrusse l’ordine del Tempio con una sentenza ingiusta come quella che Pilato scagliò contro il Nazareno. Solo che Dante non è mai superficiale, tutt’altro; la Divina Commedia è una foresta intricata di simboli e di significati sotterranei nella quale il lettore deve orientarsi tenendo fer99­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

mi certi punti cardinali. Il paragone costruisce un parallelo immediato fra i Templari e Gesù, e questo è già molto indicativo delle simpatie dantesche: senza essere un membro dell’ordine, cosa impossibile del resto poiché aveva moglie, l’Alighieri li considerava eroici nel loro voto di combattere in difesa della Terrasanta, dunque una parte essenziale di quella Chiesa militante che troverà la sua espressione più alta nella figura di san Bernardo di Chiaravalle, posto dal poeta in un livello elevatissimo delle sfere celesti13. Se i Templari sono vittime innocenti, cosa pensare invece di re Filippo il Bello? Il pensiero medievale si serve di codici, come del resto fa il nostro, e tali codici sono formati da immagini alle quali si usa dare un significato preciso, spesso inequivocabile. Dante Alighieri è sicuramente un uomo molto in anticipo rispetto al suo tempo, ma non vive al di fuori di esso. L’aguzzino per eccellenza, il mostro che fa strage degli innocenti, è re Erode il Grande, non Ponzio Pilato; quest’ultimo nella tradizione cristiana e nel pensiero medievale è stato ampiamente recuperato, cioè gli si è costruita intorno una leggenda che lo vuole pentito del suo gesto contro Gesù, e addirittura convertito alla nuova fede cristiana. Nella tarda antichità circolavano molti scritti apocrifi su di lui, così numerosi e diffusi tra la gente da formare un vero e proprio ciclo, gli Atti di Pilato; in uno di essi, la moglie del procuratore sarebbe addirittura stata scelta per custodire la sindone rimasta nel sepolcro di Gesù dopo la resurrezione. Pilato non era un personaggio tutto in nero, per intenderci, ma piuttosto un uomo pieno di ombre; nelle opere latine di Dante, come ad esempio il De monarchia, Pilato rappresenta semplicemente l’autorità, senza che il poeta formuli alcun giudizio morale sulla sua condotta14. Una lettura attenta dei vangeli canonici mostra in effetti che gli autori non ritenevano Pilato colpevole in prima persona della condanna di Gesù, in special modo Luca e Giovanni, i quali specificano che il governatore cercava di liberare l’ac100­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

cusato, e addirittura lo mandò da Erode Antipa appellandosi al fatto che il Nazareno era nativo della Galilea. Erode, come prevedibile, dopo averlo schernito lo rinvia all’autorità romana senza aver trovato nessuna colpa da imputargli, evento che confortava l’idea di Pilato di mandarlo prosciolto; l’insistenza di sacerdoti e scribi, che minacciano il governatore di provare la sua infedeltà a Roma, fa crollare le sue resistenze, e quindi lo abbandona a loro. Sono dunque i sacerdoti e gli scribi i veri carnefici di Gesù; è il contesto politico che ruota attorno al governatore di Roma a esigere la sua morte15. In quanto rappresentante del potere che esegue la condanna di Gesù, Pilato è responsabile di quella morte allo stesso modo in cui il re di Francia, avallando l’operato dei giuristi della corona, fu responsabile della fine dei Templari. Se guardiamo ai documenti, ci accorgiamo che l’innesco del processo e la sua conclusione, la morte di Jacques de Molay, non furono decisi dal sovrano bensì dal suo Consiglio, ovvero una coralità di poteri che ruotavano intorno a quello monarchico. Chi erano i membri di questo Consiglio? Quali motivi avevano per cercare la distruzione dei Templari, e fino a che punto forzarono la mano di Filippo il Bello? Alcuni personaggi sembrano affacciarsi nelle fonti con un profilo ambiguo, con un ruolo modesto, in apparenza, che tuttavia sembra nascondere un coinvolgimento ben più intenso di quello che ufficialmente appare. Per fare un esempio, si può citare il caso del barone Pierre Galart, formalmente incaricato di comandare il corpo dei balestrieri che facevano la guardia al castello del Louvre. Non era certo un incarico fra i più ambiti, a corte, né l’uomo apparteneva alla maggiore nobiltà del regno; eppure, lo vediamo prestare a Filippo IV ingenti somme di denaro, quando il re si trova in momenti di grave imbarazzo. Il 1° gennaio 1314 Galart comandò un atto in Parigi con una lettera segreta del sovrano, e in precedenza aveva rappresentato il re in questioni di importanza cruciale per la monarchia, come lo spinoso processo alla memoria di 101­­­­

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Bonifacio VIII. La sua rilevanza è indubbia, poiché figura accanto a uomini del calibro di Guillaume de Nogaret ed Enguerrand de Marigny, ministro delle Finanze16. Un altro nobile di rango non elevatissimo (è semplicemente cavaliere del sovrano, miles domini regis), privo di incarichi ufficiali a corte, Hugues de La Celle, svolge per il re delicate missioni diplomatiche; lo troviamo implicato nel processo ai Templari non solo come testimone alle deposizioni in nome del sovrano, ma anche come esecutore di durissime torture17. Uomini come lui, che avevano un potere per così dire sotterraneo, in ombra dietro la corona, influivano sulla politica del regno e probabilmente ebbero una parte anche nella strategia contro i Templari, coordinandosi con Guillaume de Nogaret, il quale pilotava i passaggi giudiziari. La loro è una presenza in ombra che la poesia di Dante suggerisce in chiare allusioni, come fecero del resto anche gli autori di certe satire che circolavano in Francia, nelle quali il sovrano era tacciato di aver ceduto lo scettro ai suoi consiglieri per fare vita privata e dedicarsi alla sua grande passione, la caccia: Et li roys si sonnoit son cors par les forez, chaçant les pors et les oisiaux qui sont volages. [...] Et vous ne faites que chacier!18

Sarà proprio questo Consiglio ad attorniare il sovrano nel momento di decidere la sorte di Jacques de Molay, l’anziano Gran Maestro di un ordine che aveva fatto tanto parlare il mondo, e che ormai non esisteva più19. Proprio durante quell’evento memorabile, il rogo dell’ultimo Gran Maestro, l’alone di leggenda che già circondava l’ordine cambiò definitivamente colore, e da luminoso che era si rivestì di tenebra. Per comodità del lettore, ne ripercorreremo le tappe fondamentali fino alla tragica conclusione.

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III. Nelle mani dell’Inquisizione

IL PRIMO DEI PAPI AVIGNONESI Il 13 ottobre 1307 papa Clemente V si trovava nelle campagne presso Poitiers, dove la Curia romana risiedeva temporaneamente. Era il primo pontefice che non abitava all’interno della penisola italiana, e la sua stessa elezione apostolica si era svolta in condizioni eccezionali, dopo un conclave durato quasi un anno; i cardinali erano infatti divisi in due fazioni politicamente avverse, e non riuscivano a trovare un compromesso. Da una parte infatti stavano i sostenitori del defunto papa Bonifacio VIII, che era morto l’11 ottobre 1303 in seguito al trauma subito per l’evento di Anagni, dove il precedente 8 settembre l’esercito francese lo aveva assalito per impedire che fosse resa nota la scomunica da lui lanciata contro Filippo il Bello, e con l’intento di deportarlo in Francia e quindi farlo deporre da un concilio. I cardinali «bonifaciani» volevano un papa italiano, disposto a punire il re di Francia per la sua azione violenta contro la Chiesa. Sul fronte opposto stavano i cardinali filofrancesi, alcuni dei quali erano italiani; la loro intenzione era scegliere un pontefice moderato, favorevole alla Francia, che era allora lo Stato più potente d’Europa, capace di stringere la Chiesa in una morsa anche grazie all’alleanza della casa d’Angiò, che regnava su tutta la parte meridionale della penisola. Si trattava di istanze inconciliabili, evidentemente. Un ottimo lavoro di mediazione era stato compiuto da papa Benedetto XI, l’immediato successore di Bonifacio VIII, che senza sconfessare l’operato del suo predecessore aveva ricomposto lo strappo diplomatico tra la Francia e la Santa Sede. Purtroppo, però, egli era morto a Perugia nel giugno 1304, dopo nemmeno un anno di pontificato; la sua fine troppo rapida aveva fatto insorgere veementi sospetti di avvelenamento, e la gente puntava il dito contro Guillaume de Nogaret, protagonista del fatto di Anagni, che papa Benedetto non aveva voluto assolvere dalla scomunica. Un evento fosco e incre103­­­­

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scioso, che esacerbava ancor di più l’atmosfera del conclave. Dopo mesi di inutili trattative, i cardinali avevano raggiunto l’accordo su un uomo estraneo all’Italia e al Sacro Collegio: era Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux, noto per la sua alta formazione giuridica e le sue idee moderate20. Compiuta l’elezione canonica dal conclave riunito a Perugia, dove Benedetto XI era deceduto, Bertrand de Got si vide consegnare il decreto elettivo da alcuni inviati della Curia mentre si trovava nella sua Bordeaux, dove sarebbe rimasto. Il fatto stesso di non chiamarlo a Perugia costituiva una chiara avvisaglia dei tempi futuri: alla fine dell’anno 1271 era successo che Tedaldo Visconti, mentre si trovava in Terrasanta insieme ai crociati, si vide consegnare il decreto in base al quale diventava papa (con il nome da lui scelto di Gregorio X); molto malvolentieri lasciò la Terrasanta perché doveva recarsi a Roma, insediarsi in Laterano e prendere possesso delle sue prerogative21. Il guascone Bertrand de Got intendeva fare lo stesso, consapevole che non avrebbe mai potuto governare con la necessaria autonomia se fosse rimasto entro i territori che gravitavano nell’orbita politica di re Filippo il Bello. Conserviamo una lettera di re Giacomo II d’Aragona scritta da Barcellona il 18 giugno 1305 al papa appena eletto; il sovrano gli offriva una scorta armata per attraversare il territorio del suo regno fino alla costa, dove il pontefice avrebbe trovato la flotta aragonese pronta a traghettarlo fino alle coste del Lazio «libero e in sicurezza»22. Il nome del nuovo papa non è specificato, perché Clemente V non lo aveva ancora scelto; in una lettera di poco seguente, datata 2 luglio, il pontefice si firma con il suo nome di battesimo e il titolo arcivescovile («Bertrandus miseracione divina Burdegalensis archiepiscopus»), proprio come se non fosse mai stato eletto papa. Questa scelta singolare era una misura di prudenza, poiché de Got non aveva preso parte al conclave, dunque non aveva notizie certe di cosa realmente fosse accaduto, eccetto il fatto che i porporati avevano litigato per quasi un anno, un anno di conflitti acerrimi23. 104­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

Il nome di Clemente V comparirà solo in seguito, quando, dopo la morte di Matteo Rosso Orsini nel mese di settembre, la posizione politica del nuovo eletto sarà di colpo più solida; con Matteo Rosso, infatti, scompariva il più agguerrito e autorevole esponente della fazione cardinalizia ostile alla Francia. Questo anziano porporato era il nipote di papa Niccolò III, ed era membro del Sacro Collegio da circa quarant’anni; durante il conclave, non aveva voluto votare per de Got, e anche dopo, quando la maggioranza aveva già deciso in favore del guascone, Matteo Rosso si era rifiutato di apporre il suo sigillo sul decreto elettivo24. Simili circostanze lasciano capire come la Chiesa versasse in condizioni di grave instabilità politica e istituzionale; sin dagli inizi del suo pontificato, Clemente V sapeva bene che avrebbe avuto uno spazio di movimento quasi nullo, in un ipotetico conflitto con Filippo il Bello. Scongiurare un simile conflitto era una priorità assoluta, altrimenti il papato si sarebbe ritrovato in condizioni di vera e propria prigionia. Dopo la cerimonia d’incoronazione, svoltasi a Lione nel novembre del 1305, papa Clemente V non abbandonò il progetto di recarsi a Roma, dove voleva risiedere; per molti mesi il pontefice si spostò nel meridione francese cambiando sede di continuo, tanto da firmare documenti nello stesso giorno ma in due località diverse. Avvicinarsi alla costa non gli fu mai possibile; la tutela dell’esercito francese era troppo pressante25. Il pontificato cominciava in un clima teso che imponeva al papa guascone di vivere in una perenne situazione di compromesso, sempre in bilico tra la difesa della Chiesa e gli interessi concorrenti della monarchia francese. Un equilibrio molto difficile che Clemente V seppe comunque tenere in piedi per mesi, scegliendo di non contraddire mai in modo diretto e aperto il sovrano, ma promettendogli soddisfazione in tempi lunghi, tramite piccoli passi mai risolutivi e continui rinvii. Essendo un uomo anziano e malmesso in salute, usò la propria malattia (peraltro non falsa) come una specie di 105­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

arma difensiva da tirare in ballo ogni volta che la politica regia voleva imporgli di prepotenza certe decisioni sgradite. Tale era la strategia che il papa aveva sposato anche riguardo alla questione dei Templari, i quali negli ultimi tempi erano oggetto di critiche generalizzate da parte della società cristiana. IL FALLIMENTO DELLE CROCIATE Nel 1291 era stata perduta la città di Acri, nel nord della Siria, l’ultimo baluardo rimasto ai cristiani in Terrasanta. La disfatta era in realtà l’epilogo di un lungo processo iniziato nell’ormai lontano anno 1187, quando il sultano Saladino aveva conquistato Gerusalemme e il Santo Sepolcro, che da allora sarebbe sempre rimasto in mano ai saraceni. Il sultano Baybars, negli anni fra il 1260 e il 1270, aveva segnato un notevole progresso in questa operazione di riconquista erodendo i territori dell’antico regno di Gerusalemme, che fu ridotto a una sottile fascia litoranea26. Fuggiti sull’isola di Cipro, dove avevano stabilito il loro nuovo quartier generale d’Oriente, gli ordini militari continuavano a studiare piani per recuperare le posizioni perdute in Siria e Palestina, ma la società cristiana sentiva che la politica delle crociate era fallita, il sogno di riavere Gerusalemme appariva sempre più tramontato e impraticabile; gli stessi papi avevano deciso che il voto della crociata si potesse monetizzare, considerandolo cioè regolarmente sciolto se invece di partire per liberare Gerusalemme i fedeli versavano una somma di denaro nella cassa delle offerte per la causa27. Molto rappresentativa di questa nuova mentalità è l’introduzione nelle chiese di cassette chiuse dove i fedeli potevano versare elemosine speciali per finanziare la crociata; sarebbe stata cura dei preti esortare i parrocchiani a donare, spiegando che il versamento avrebbe arrecato loro il beneficio di vedersi rimessi i peccati28. L’idea fu di papa Innocenzo III, che regnò pochi anni dopo la riconquista del Sepolcro da parte del sul106­­­­

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tano Saladino; Innocenzo IV in seguito ordinò ai sacerdoti di esortare i fedeli a ricordarsi della Terrasanta nei propri testamenti, con un lascito possibilmente sostanzioso. Malvisto dalla gente, che lo considerava un’esazione aggiuntiva rispetto alle decime già riscosse dalla Chiesa proprio allo scopo di recuperare Gerusalemme, il bussolotto venne piazzato praticamente dappertutto dopo il concilio di Lione del 1274. Era un ceppo di legno ricavato da un fusto d’albero (truncus concavus) chiuso da triplice serratura (tribus clavis consignatus)29. Nel frattempo, gli ordini militari continuavano a godere dei molti benefici ed esenzioni che erano stati concessi quando assolvevano il loro scopo militare e difensivo, quando garantivano cioè la custodia degli Stati cristiani in Oriente. Da decenni ormai forti critiche piovevano su di essi da tutta la cristianità, e anche il papato pensava che fosse necessaria una loro riforma, da attuarsi fondendo almeno i principali in un istituto unico, più grande e potenziato. Purtroppo, gli stessi capi del Tempio e dell’Ospedale facevano resistenza, vanificando di fatto i progetti dei pontefici30. Nel 1274, durante il secondo concilio di Lione, il piano di unificazione trovava il sostegno di papa Gregorio X, strenuo sostenitore del riscatto di Gerusalemme, il quale lo riteneva un passo necessario per il recupero delle posizioni cristiane in Terrasanta. Il Gran Maestro del Tempio Guillaume de Beaujeu, pur fornendo al pontefice utili consigli strategici per la futura spedizione, si oppose fermamente. In seguito, mentre fioriva una quantità di progetti scritti da autorità diverse sul modo migliore per allestire una nuova crociata e intanto Acri cadeva, la società cristiana perse progressivamente fiducia negli ordini militari, che della Terrasanta dovevano essere i custodi31. Nell’autunno del 1306, su richiesta di papa Clemente V, anche Jacques de Molay aveva inviato presso la Santa Sede un memoriale simile, in cui ribadiva la netta opposizione al progetto. Intanto, fioccavano gli scritti satirici sulla corruzione e l’indolenza dei Templari, come si vede ad esempio nel celebre Renart le nouvel 32. 107­­­­

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Al tempo della prima crociata, gli intellettuali dividevano la società in tre classi, oratores, bellatores e laboratores, alle quali erano affidati i compiti, rispettivamente, di pregare Dio, combattere in difesa degli altri e lavorare per produrre i beni necessari a tutti. Nel secolo XII, Guibert de Nogent sosteneva che i Templari, i quali pregano in quanto religiosi e combattono per la Terrasanta, racchiudono in se stessi i due più alti gradini della scala sociale. Agli inizi del Trecento, il mondo non la pensava più allo stesso modo. La cristianità era sostanzialmente insoddisfatta degli ordini militari, e piuttosto critica33. Da anni ormai i rapporti fra l’ordine e la corona di Francia non erano più buoni come in passato; la corona francese aveva contratto forti debiti con le banche, si trovava costretta a dare il conio della sua moneta in appalto a zecche straniere, e in breve subiva i danni di un’ingente crisi finanziaria34. Il Tempio possedeva proprio in Francia un vasto patrimonio fondiario che però non era tassabile, grazie alle immunità di cui l’ordine godeva; subito fuori le mura di Parigi, nell’attuale zona del Marais, sorgeva una cittadella fortificata di proprietà dell’ordine, completamente indipendente dal potere di Filippo il Bello, e ricca di un ingente deposito di capitali custoditi nella Torre della Tesoreria, il quartier generale del Tempio in Occidente35. Le immagini di questa cittadella sono giunte fino a noi grazie ad alcune stampe realizzate dall’incisore Jean Marot nel Settecento, prima che fosse rasa al suolo durante la Rivoluzione francese. La sua imponenza rivaleggiava con il castello del Louvre e il quartiere reale posto al centro di Parigi, nell’Île-de-la-Cité, mentre la raffinata chiesa del Tempio, ricca di ornamenti e di arredi quanto una cattedrale, era uno dei gioielli più preziosi dell’arte gotica, con Notre-Dame e la Sainte-Chapelle. Per un uomo come Filippo IV, definito dagli storici un «fanatico della religione monarchica», la sfacciata potenza e l’autonomia assoluta che i Templari sfoggiavano proprio nel108­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

la capitale del suo regno dovevano rappresentare una specie di provocazione implicita, tanto più odiosa poiché limitava la sua sovranità in ambiti importanti36. POVERO MA BELLO (E PER GIUNTA CONSACRATO) Filippo IV regnò a lungo, quasi trent’anni (1285-1314), ma visse sempre a cavallo di un paradosso: governava lo Stato più forte e vasto d’Europa, ma si trovava costantemente a corto di denaro sia per i debiti che aveva ereditato dalla politica sconsiderata di suo padre Filippo III l’Ardito, sia per certe manovre economiche sbagliate che operò in proprio. La sua vita fu un eterno conflitto con la questione del denaro e questo, trattandosi di un regno che copriva un’area vasta non molto meno della Francia attuale, non era un problema di piccola entità. Il sovrano voleva creare ciò che noi chiamiamo uno Stato nazionale, ovvero un corpo statale controllato da istituzioni precise e funzionari stabili obbedienti al monarca, non sottomessi al capriccio dei singoli baroni locali; questi ufficiali statali dovevano essere pagati con un regolare stipendio, ma il sistema di tassazione in uso a quel tempo non permetteva alle casse del Tesoro di ricevere periodicamente introiti sufficienti. I momenti più belli della sua vita privata, come le nozze di sua figlia o la nomina a cavalieri dei suoi tre figli maschi, furono anche segnati da profonde amarezze a causa delle tasse che fu costretto a esigere per pagarne le spese37. Chi non considera questo stato di fatto non può nemmeno capire la dinamica sociale e politica che portò all’ordine d’arresto contro i Templari. La Francia era a quel tempo un regno feudale, ovvero suddiviso in diversi grandi feudi che prestavano omaggio al sovrano; il re d’Inghilterra ne possedeva uno piuttosto considerevole, la Guascogna, e la presenza di questo nucleo alieno in seno ai confini del regno francese fu la causa di non lievi attriti. In teoria, il sovrano non aveva alcun potere di giurisdizione sui territori che non erano assoggettati alla sua 109­­­­

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sovranità; la pratica dei fatti era tutt’altra cosa. Tanto per fare un esempio, nell’autunno del 1307 il vescovo di Colonia, un principe elettore dell’impero, fece arrestare su richiesta francese tutti i Templari della sua diocesi. Quando gli fu chiesto il motivo, rispose che una preghiera di re Filippo IV costituiva per lui un ordine. Anni dopo, nel 1312, Clemente V tenne a Vienne il grande concilio ecumenico pianificato dal 1310 e destinato a trattare i più urgenti problemi della Chiesa; aveva scelto quella città perché si trovava nei territori dell’impero, dunque non era soggetta all’ingerenza politica di Filippo il Bello. In realtà l’impero attraversava a quel tempo un periodo di crisi politica, e l’esercito francese passò i confini arrivando a circondare indisturbato la città, nella quale il sovrano entrò poi con tutto comodo per intimidire il pontefice e piegarlo alle sue richieste38. A fronte di tale potenza, che è essenzialmente militare, il sovrano ha enormi problemi per mettere insieme il denaro della dote della sua unica figlia, Isabella, nell’autunno del 1307 (si sposerà il 18 gennaio seguente). Alcuni studiosi trovano in qualche modo significativa la coincidenza cronologica: l’arresto dei Templari e il sequestro delle loro sostanze avvengono proprio a pochi mesi dalle nozze, tanto da far sospettare che le due questioni siano strettamente collegate fra loro. Pochi mesi prima dell’arresto, a marzo o aprile del 1307, ci furono forti attriti fra il sovrano e il Gran Maestro per via di un prestito forzoso che la corona chiese al Tempio in un momento di emergenza, per sedare una sommossa scoppiata a Parigi a causa dell’inflazione che le manovre finanziarie reali avevano causato. La cifra richiesta era esorbitante, pari a 400.000 fiorini d’oro, superiore a quella della dote di una principessa che andava sposa a un futuro sovrano. Ma, ancora più dell’enormità dell’importo, furono le particolari circostanze del prestito che scatenarono un grave incidente diplomatico. La normativa templare prevedeva che nessuna operazione finanziaria di una certa entità potesse compiersi senza aver ottenuto il consenso del capo dell’ordine, però 110­­­­

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Molay in quel momento non era a Parigi, bensì in viaggio da Cipro per raggiungere Clemente V che lo aveva convocato per discutere i piani della crociata. Il prestito fu dunque autorizzato dai Templari di grado gerarchico più alto presenti nella capitale, ovvero il Tesoriere Jean de La Tour e il Visitatore di Francia, frate Humbert de Payraud, il principale dignitario nel regno. Quando Molay raggiunse Parigi e verificò lo stato di cose, com’era suo dovere, si adirò moltissimo e cacciò il Tesoriere La Tour togliendogli l’abito templare. Il dignitario si difese facendo ricorso al pontefice per spiegare le sue ragioni, che insomma era stato costretto dalle circostanze a emettere quel prestito; Clemente V scrisse al Gran Maestro affinché giustificasse La Tour e lo riammettesse nel Tempio, cosa che in effetti avvenne. Anche re Filippo IV inviò un fiduciario da Molay pregandolo di capire le sue ragioni e la sua buona fede, e assicurando che avrebbe restituito il denaro; stava però di fatto che le casse del Tesoro reale erano completamente vuote, e per restituire i 400.000 fiorini d’oro grazie alle rendite delle sue terre o alle tasse il re di Francia avrebbe impiegato moltissimo tempo, mentre il papa premeva sempre di più per lanciare la nuova crociata al più presto. E Molay sapeva bene che un successo in Terrasanta era fondamentale per la sopravvivenza del suo ordine, che la società cristiana tacciava di essere ormai inutile. L’incidente diplomatico ci è descritto da una fonte importante, la Cronaca del cosiddetto Templare di Tiro, un notaio che era stato segretario personale del Gran Maestro Guillaume de Beaujeu e che, pur non avendo preso i voti templari, viveva nella comunità dei frati. La Cronaca riferisce che Molay pronunciò parole offensive contro l’onore del re di Francia, e i rapporti fra i due si ruppero in modo brusco. La storia delle male parole, dell’oltraggio, trova riscontro anche nella Nova Cronica di Giovanni Villani, che la cita fra i motivi dell’attacco ai Templari, oltre alle ovvie ragioni economiche, con il dettaglio aggiuntivo che nell’offesa arrecata al sovrano 111­­­­

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sarebbero stati coinvolti anche altri personaggi del Tempio di Parigi («colla magione»), non solo Molay: «ma più si dice che fu per trarre di loro molta moneta, e per isdegni presi col Maestro del Tempio e colla magione»39. Sarebbe molto interessante comprendere in dettaglio l’entità e i caratteri di tale affronto, se ci fu; la psicologia delle persone gioca sempre un ruolo cruciale negli eventi, e per gli uomini del medioevo non era diverso. Sarebbe importante appurare, ammesso che le fonti ci permettano di farlo, se l’affronto ipotetico al re di Francia poteva configurarsi (o almeno essere considerato dai suoi avvocati) alla stregua di un sacrilegio. Jacques de Molay era un ecclesiastico, capo di un ordine religioso, con lo stesso profilo che aveva, per esempio, il Generale dei francescani; ma anche Filippo IV era un uomo consacrato, e consacrato tramite l’unzione con il sacro Crisma, in un rituale analogo a quello riservato ai vescovi. Il sovrano unto era definito gemina persona, cioè persona doppia, avente stato sia laico sia ecclesiastico, perché si riteneva specchio terreno di Gesù Cristo che ha duplice natura, umana e divina. Si credeva che i sovrani di Francia e Inghilterra, proprio in virtù della loro speciale consacrazione, avessero il potere di guarire i malati di scrofola semplicemente toccandoli; le persone affrontavano lunghi viaggi, per inchinarsi dinanzi al re e ottenere di essere da lui toccati40. Se la figura reale nel medioevo ha caratteri sacri, quella del re di Francia, uomo consacrato e per giunta nipote di santi in linea tanto materna quanto paterna, lo era in sommo grado. Forte di questa speciale autorità, e in un frangente così drammatico per il suo regno, il sovrano decise di acconsentire a un progetto che negli ambienti vicini alla corona covava in realtà ormai da anni: mettere fine alla storia dei Templari e incamerarne il patrimonio41. A giustificare un simile sopruso contribuiva la convinzione che l’ordine del Tempio, nato per difendere il regno cristiano di Gerusalemme, fosse ormai diventato completamente inutile. 112­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

LA DEBOLEZZA DI CLEMENTE V Guillaume de Nogaret, membro di spicco fra i giuristi al servizio del re di Francia, aveva fatto entrare nell’ordine del Tempio dodici spie allo scopo di raccogliere informazioni su fatti e comportamenti dell’ordine che potessero servire a una manovra di attacco; questo dossier era già ricco nell’autunno del 1305, poiché il sovrano se ne fece latore presso il nuovo papa proprio durante la cerimonia della sua incoronazione42. Clemente V non acconsentì a perseguire i Templari ma nemmeno impose al re di rinunciare al progetto; consapevole del proprio enorme svantaggio politico, si mostrò basito per le accuse del sovrano, e invitò Filippo il Bello a portare prove più credibili rispetto alle mere insinuazioni. La trattativa non aveva fatto sostanziali progressi quando, quasi due anni dopo, Jacques de Molay decise di prendere l’iniziativa; mentre la Curia temporeggiava e in concreto badava ad altro, gli agenti del re di Francia stavano diffamando i Templari presso le corti degli altri sovrani cattolici. L’ordine godeva di uno status molto particolare che lo rendeva, per dirla in termini moderni, una specie di prelatura personale del sommo pontefice; insieme agli Ospitalieri e ai Cisterciensi, i Templari non soggiacevano a nessun potere e nessuna autorità che non fosse la persona del papa43. Clemente V era dunque il solo che potesse aprire un’inchiesta sullo stato del Tempio, ed era stato pregato di fare proprio questo dal Gran Maestro Molay, per mettere fine una buona volta alle calunnie del re di Francia. Il 24 agosto 1307 il papa notificò la faccenda a Filippo il Bello. Lo informò sulla sua salute, che non era buona; il pontefice, che aveva superato i settant’anni di età, soffriva da anni di una malattia molto seria che oggi è difficile individuare: sappiamo però che gli provocava violenti accessi di febbre e persino emorragie. Su ordine dei suoi medici, avrebbe seguito una lunga terapia a base di acque termali e 113­­­­

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lassativi, durante la quale doveva riposarsi e non poteva ricevere i delegati dei vari sovrani. La cura si sarebbe conclusa per la fine di ottobre; allora il papa avrebbe ripreso il lavoro, cominciando fra l’altro quell’inchiesta super statu Templi per la quale era stato sollecitato non solo dal re di Francia, ma anche dal capo dei Templari44. Però il 15 ottobre, proprio mentre si trovava in campagna a completare la sua terapia, Clemente V fu raggiunto da un messo che gli comunicò la ferale notizia: i Templari erano stati arrestati in tutto il regno di Francia. Filippo il Bello aveva preso l’iniziativa con un mero atto di forza, senza aspettare i comodi di Sua Santità e le lungaggini della burocrazia papale. Clemente V rientrò precipitosamente a Poitiers e richiamò a sé tutti i cardinali presenti in Curia, per indire un concistoro in condizioni d’emergenza. La gravità di quanto era successo giustificava un atteggiamento severo, così il cardinale La Chapelle, che era indisposto e si trovava a due giorni di viaggio dal pontefice, ricevette l’ordine di partire lo stesso, facendosi trasportare su una lettiga. Seguirono giorni e giorni di consultazioni per decidere come fosse meglio muoversi; in concreto, il papa e i cardinali sapevano bene di essere inermi di fronte allo stato di fatto, poiché i frati del Tempio erano nelle mani dei soldati di Filippo il Bello e loro stessi, l’intera Curia romana, erano fisicamente esposti ai soprusi del potere reale. L’unica vera arma che Clemente V poteva sfoderare restava la scomunica, come a suo tempo aveva fatto Bonifacio VIII: con la bolla Super Petri solio, che avrebbe dovuto essere promulgata domenica 8 settembre 1303, Filippo IV veniva maledetto e privato di ogni potere, unitamente ai suoi eredi45. Clemente V sapeva per certo che la minaccia della censura apostolica poteva intimidire seriamente il sovrano, il quale, come già spiegato, si riteneva depositario di un carisma sacro46. Messo alle strette, dinanzi al rischio di vedere distrutta la propria sacra autorità, Filippo il Bello poteva forse cam114­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

biare idea, fare un passo indietro e mollare la sua presa sui Templari; ma era la minaccia della scomunica la vera arma, non la condanna effettiva. La storia insegnava che una volta sancita la censura, tutto poteva dirsi compromesso; il re di Francia era riuscito a inviare il suo esercito in Italia, e questo contingente aveva potuto attraversare indisturbato i territori di mezza penisola, penetrare la città di Anagni, roccaforte nei territori della Chiesa, e cercare di impadronirsi del pontefice. Se voleva mettere le mani sulla persona di Clemente V, fin troppo vicino e indifeso, Filippo IV doveva appena prendersi il disturbo di mandare le sue truppe a soli tre giorni di viaggio da Parigi. Consapevole di non poter lasciare la Francia, Clemente V fisserà la residenza della Curia in Poitiers e più tardi, nel 1309, nella città di Avignone. Aggravava la debolezza del papa anche una specie di «fronda» sorta in seno al Sacro Collegio, e animata da dieci cardinali, tutti nominati dallo stesso Clemente V, i quali non accettavano che il pontefice si mostrasse tanto cauto e remissivo con il sovrano, dato l’abuso commesso sulle libertà della Chiesa47. UN’ARMA DI CARTA Al papa occorsero insomma alcune settimane per capire come barcamenarsi in quel frangente cruciale, e ricavare il massimo risultato possibile dalla sua arma di carta, una scomunica che poteva solo minacciare, ma non lanciare sul serio; questo lasso di tempo venne sfruttato abilmente dalla strategia del Nogaret per mettere a segno un punto essenziale; con la connivenza dell’Inquisizione, i frati prigionieri venivano intanto interrogati e, se necessario, torturati per strappare loro ammissioni capaci di confermare le accuse. In poco tempo furono così raccolte circa trecento confessioni, riunite in un dossier da inviare a Clemente V come riprova che il re di Francia aveva piena ragione nel voler attaccare i Templari per veemente sospetto di eresia. Mentre il pontefice stava ancora ragionando sulle proprie mosse, gli 115­­­­

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uomini che avrebbe dovuto esaminare in realtà erano già stati dichiarati colpevoli, torturati e interrogati dall’autorità laica con l’appoggio dell’Inquisizione di Francia48. L’atto d’accusa sosteneva che i Templari, durante le loro cerimonie d’ingresso, usavano rinnegare Gesù Cristo e sputare sulla croce, oltre a commettere oscenità come il bacio sul sedere e la promessa di non negarsi ai confratelli se avessero voluto intrattenere rapporti omosessuali. A questo si univano sospetti di idolatria, in special modo la venerazione di un idolo dall’identità ignota che aveva la forma di una testa virile con la barba; si trattava però di un crimine d’élite, riservato ai grandi dignitari, poiché la gran massa dei frati ne restava all’oscuro. Il tutto era stato accostato dai giuristi reali in un teorema accusatorio non proprio coerente, ma comunque credibile e, ciò che più contava, adatto a scandalizzare l’opinione pubblica e la rigida morale del sovrano. Il ruolo effettivo di re Filippo IV e quello dell’Inquisizione durante le varie fasi del processo non sono ancora stati esaminati con la dovuta accuratezza; alcune fonti sembrano infatti mostrare che l’uno e l’altra, nonostante il processo si facesse in loro nome, ebbero per diverse ragioni delle parti abbastanza marginali49. L’Inquisitore di Francia, il domenicano Guillaume Imbert, era stato innalzato all’ambitissimo incarico di confessore del sovrano nell’autunno del 1305, quando l’uomo che aveva confessato Filippo IV per anni, il domenicano Nicola di Fréauville, era diventato cardinale. La promozione doveva sicuramente premiare un religioso devoto al sovrano, ma è possibile che servisse anche allo scopo di togliere da una posizione molto strategica un uomo intelligente e forse moralmente inflessibile. Il ruolo di confessore garantiva a chi lo svolgeva un onore enorme, il diritto di seguire la corte stabilmente e di mangiare al Louvre, cosa che Filippo IV concedeva solo a un numero molto ristretto di privilegiati. Persona di carattere schivo e molto riservato, doveva fare in modo che la sua corte – for116­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

mata da ben cinquecento persone – mantenesse un tenore di vita molto sfarzoso per ragioni di prestigio internazionale, con banchetti sontuosi e altre manifestazioni del lusso, ma quanto alle sue abitudini personali era molto frugale e, ogni volta che poteva, cenava da solo nella sua stanza50. La stretta confidenza con un uomo così potente lusingava frate Guillaume Imbert, e lo metteva anche in una posizione di grande potere ufficioso, grazie ai favori che poteva chiedere a Sua Maestà in virtù del ruolo di guida spirituale. Gli fu concesso proprio per addormentare la sua prudenza, e magari comprarne la lealtà? In concreto, alcune settimane prima che scattasse l’arresto segreto di tutti i Templari in Francia, cioè il 22 settembre 1307, ci fu una riunione del Consiglio reale nell’abbazia di Maubuisson, poco distante da Parigi, durante la quale si trattò della questione templare. Era presente anche Imbert, che scrisse lettere ai suoi subordinati di Tolosa e Carcassonne – due roccaforti dell’Inquisizione nel regno – ordinando loro di organizzare la diffamazione preventiva dell’ordine: dovevano inviare dovunque alcuni domenicani e francescani a predicare nelle parrocchie l’eresia dei Templari, in modo che l’operato imminente dell’Inquisizione apparisse non già persecutorio, ma come una medicina benefica che stava estirpando dal popolo cristiano la peste della miscredenza. Circa tre mesi dopo, quando ormai i Templari erano stati arrestati e si stavano affastellando centinaia di confessioni in tutto il regno, Guillaume Imbert si recò dal papa per giustificarsi: spiegò che aveva avallato la persecuzione di alcuni Templari, non dell’ordine per intero. Autorizzando che si mettessero in ceppi solo certi precisi individui sospetti, l’Inquisitore seguiva le disposizioni di un vecchio decreto emesso a suo tempo da papa Onorio III, che in caso di crimini ereticali concedeva all’Inquisizione di poter agire anche contro i membri dei tre ordini religiosi esenti, cioè di norma riservati alla sola autorità apostolica (Templari, Ospitalieri, Cisterciensi). Il comportamento del domenicano è precisamente 117­­­­

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quello di un uomo ingannato, che si è fatto strumentalizzare e ora si trova costretto a chiedere perdono al papa adducendo le prove della propria buona fede. Clemente V svolgerà un’indagine sull’operato di Imbert, arrivando a censurarlo per irregolarità e abuso di potere; quindi sospenderà l’Inquisizione in tutto il regno di Francia; così facendo, sperava di paralizzare la strategia reale, sottraendo al Nogaret la giustificazione al suo operato. Correva allora il febbraio 1308; l’iniziativa del papa provocò una dura battaglia diplomatica che nella primavera seguente vide fiorire libelli scandalistici in tutto il regno, apparentemente scritti dal popolo, che denunciavano la connivenza di Clemente V con i crimini dei Templari, e arrivavano a minacciare i nipoti del pontefice, troppo ben piazzati nei ranghi della Curia romana rispetto alle loro scarse doti morali e intellettuali. Il pontefice comunque tenne duro, e dichiarò che non avrebbe emesso nessun verdetto sui Templari prima di averli potuti vedere e interrogare di persona; sin dall’arresto, infatti, i frati erano relegati nelle loro case sotto stretta custodia dei soldati reali, che avevano impedito qualunque contatto fra loro e gli uomini inviati più volte dal pontefice per incontrarli. Alla fine del giugno 1308, dopo ben nove mesi di interrogatori illegali, Clemente V poteva finalmente incontrare i Templari; non tutti, ovviamente, ma un gruppo composto da settantadue prigionieri scelti per comparire dinanzi a lui. A quell’altezza cronologica, a causa dello scandalo agitato per tanto tempo tra la folla e anche per l’abilità con cui il Nogaret e i suoi colleghi avevano diretto la strategia diffamatoria, l’immagine morale dei Templari era già completamente pregiudicata. COLPEVOLI O INNOCENTI? Gli avvocati reali non mentivano quando presentarono al pontefice un voluminoso dossier composto da trecento deposizioni di Templari che ammettevano le accuse imputa118­­­­

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te all’ordine – se non proprio tutte, almeno la gran parte; i documenti pervenuti fino a noi lo confermano. Per lo storico odierno è difficile capire i motivi di queste confessioni di massa; sappiamo che la tortura fu usata ampiamente, e talvolta con ferocia, altre volte invece si preferirono le armi della minaccia psicologica o anche le lusinghe, assicurando ai prigionieri che avrebbero avuto salva la vita, recuperato la libertà, e forse perfino promettendo del denaro. Ma possibile che i Templari, soldati votati a combattere il nemico saraceno, si lasciassero piegare tanto facilmente? Chiamare in causa la terribile forza persuasiva dell’Inquisizione è un metodo sin troppo facile cui ricorrono a volte gli storici per giustificare la cosa: i prigionieri parlarono a caso, al solo scopo di far cessare le atroci sofferenze della tortura. Spiegazione semplicistica, che in realtà lascia irrisolte fin troppe questioni: alcuni Templari infatti non furono mai torturati, e lo dissero onestamente a Clemente V che voleva togliere validità alle confessioni fatte sotto tortura. Altri, al contrario, pur tormentati in modo molto duro negarono con decisione tutte le colpe addossate all’ordine, arrivando a dire che se qualcuno aveva davvero confessato certe enormità, allora meritava di essere messo al rogo. Nella massa delle deposizioni affiorano motivi diversi, ripensamenti, cambi di posizione, non ultima la voglia di sfruttare il processo per vendicarsi di qualche singolo precettore che si era mostrato odioso con i suoi sottoposti. Anche le accuse cambiano sensibilmente secondo il contesto. Notiamo ad esempio che durante il primo interrogatorio che si tenne a Parigi, sui frati imprigionati nella casa della capitale, nessun Templare ammise reati che avessero a che fare con la magia o l’evocazione di entità tenebrose, né certe cose furono loro chieste; invece si insisté molto sulla questione della sodomia, che sembrava davvero importante per gli inquirenti. Nella grande inchiesta svolta nel settore sudorientale del regno, che ci è giunta nei fascicoli del Registro Avignonese 305, furono interrogati molti Templari ai quali non venne chiesto nulla 119­­­­

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delle pratiche omosessuali, come se la cosa neppure interessasse, e invece si batté molto il ferro sui reati di tipo magico; i prigionieri raccontarono di gatti misteriosi che apparivano all’improvviso, di diavoli in forma di donne ammantate che traviavano i confratelli in una specie di sabba, di idoli magici che addirittura parlavano, e così via. Siamo del resto nella zona che corre da Aigues-Mortes fino a Tolosa, esattamente il quartier generale dell’Inquisizione51. Tutto questo bailamme di verità discusse, di fatti reali o presunti, di suggestioni macabre e descrizioni raccapriccianti, contribuiva a inquinare la possibilità di un sereno giudizio sulle reali colpe dell’ordine; a peggiorare il tutto, stava anche la questione che molti Templari avevano prima confessato le accuse, per poi rinnegare le proprie ammissioni sostenendo che nulla era vero. Mentre ascoltava le deposizioni dei Templari comparsi al suo cospetto in Poitiers, Clemente V si rese conto che le colpe effettivamente confessate da una parte di loro, cioè il rinnegamento verbale di Cristo e lo sputo verso la croce, non nascevano da una scelta volontaria bensì da uno strano, indegno rituale d’ingresso che veniva imposto tassativamente a tutti i nuovi membri; le minute dei documenti vergati dai segretari apostolici in preparazione del concilio di Vienne, che avrebbe dovuto giudicare le prove raccolte, segnalano questo fatto usando formule eloquenti come usus oppure modus ordinis. La ricerca storica ha permesso di appurare che si trattava di una messinscena fatta apposta per imitare le violenze cui andavano incontro i Templari caduti prigionieri dei saraceni in Terrasanta, i quali dovevano abiurare il cristianesimo proprio rinnegando il Cristo e sputando sulla croce, oppure venivano decapitati. Il rito era violento e scioccante e prevedeva anche percosse per chi si rifiutava di obbedire: aveva la funzione di una prova per testare la tempra delle nuove leve, il loro carattere e le attitudini militari. Ad esso si erano poi aggiunti altri elementi di tipo goliardico, come l’obbligo di baciare le terga del 120­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

superiore anziano per infliggere una cocente umiliazione al novellino e dargli un’idea dell’obbedienza totale che vigeva all’interno dell’ordine. Il papa si rese conto che questi atti, senza dubbio indegni e scandalosi per uomini impegnati da voti religiosi, non comportavano però alcuna adesione intima, e non formavano un credo eretico: mancando la libera volontà, non ci poteva essere vero peccato, e l’unica grande colpa andava addossata alle gerarchie dell’ordine, che avevano tollerato l’esistenza di queste vergognose tradizioni da caserma. Gli Ospitalieri, che seguivano anch’essi alcuni riti di iniziazione dal carattere spettacolare e goliardico, avevano saputo liberarsene mettendoli fuori legge già nel lontano anno 127252. Purtroppo, Clemente V non aveva potuto incontrare il Gran Maestro e gli altri gerarchi maggiori, che pure attendeva; a metà circa del viaggio da Parigi a Poitiers essi erano stati isolati dal resto del convoglio e rinchiusi nelle segrete del castello reale di Chinon, sulla Loira. Lo scopo di questa manovra era sminuire l’importanza del procedimento giudiziario del papa privandolo proprio dei membri più rappresentativi. Se l’inchiesta reale fosse rimasta l’unica a contenere l’interrogatorio del Gran Maestro, poteva sempre essere presentata come la sola completa e autorevole. Nonostante la sorpresa e l’immaginabile ira nello scoprire che i capi dell’ordine gli erano stati sottratti ancora una volta, Clemente V mostrò di accettare quello stato di cose e tenne comunque la sua inchiesta sull’ordine del Tempio con i soli frati che lo avevano raggiunto. Agli inizi di luglio gli imputati, dopo aver chiesto il perdono della Chiesa, ricevono l’assoluzione e il procedimento sembra concluso a tutti gli effetti. Il pontefice dichiara che si riserverà in futuro una decisione finale, e intanto indice le ferie estive, con le quali sospende l’attività della Curia. Il 20 luglio Filippo il Bello parte per tornare a Parigi e i suoi agenti presso la Curia lo seguiranno pochi giorni dopo, visto che tutto è fermo e il pontefice ha cominciato la sua villeggiatura. Ma nella notte del 14 agosto 1308 tre cardinali 121­­­­

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delegati, ai quali sono stati conferiti pieni poteri, partono in segreto diretti al castello di Chinon e lì realizzano quell’inchiesta pontificia sui capi del Tempio che il re di Francia aveva inteso impedire. Capo di questa Commissione è il cardinal Bérenger Frédol, nipote e braccio destro di Clemente V: è un uomo che conosce a fondo sia le abitudini degli eretici sia le tecniche dell’Inquisizione. Alcuni anni prima era stato inviato nella Linguadoca sulla base di certe denunce che accusavano alcuni inquisitori di crudeltà e abuso di potere. Egli fa comprendere a Jacques de Molay che una dichiarazione di totale innocenza non può essere fatta: i Templari si sono comunque macchiati di una grave colpa, anche se solo per obbedire a un comando dei superiori, ad un rituale militare. Secondo la dottrina della Chiesa chi rinnega Cristo si mette automaticamente al di fuori della comunione cattolica, anche se lo fa soltanto fingendo e persino per salvarsi la vita. Piegandosi al loro cerimoniale d’ingresso, i Templari si erano in pratica scomunicati da soli; ora non restava che chiedere perdono alla Chiesa, e in virtù di questo pentimento ricevere l’assoluzione53. LE INCHIESTE NEI VARI REGNI CRISTIANI E IL CONCILIO DI VIENNE Il 20 agosto 1308 si concluse l’inchiesta riservata di Chinon con l’assoluzione di Jacques de Molay e degli altri dignitari, i quali tornarono a ricevere i sacramenti. Era una grande vittoria, per il pontefice, ma solo momentanea: Clemente V voleva imporre all’ordine del Tempio una riforma profonda che lo avrebbe epurato di tutte le sue mancanze, per poi dotarlo di una nuova regola e fonderlo con l’ordine degli Ospitalieri. Forte di tale intenzione, ordinò lo svolgimento di inchieste sui Templari in tutte le diocesi del mondo cristiano, condotte da commissioni di ecclesiastici scelti dalla Santa Sede, udienze nelle quali il personale dell’Inquisizione doveva svolgere solo un ruolo di affiancamento. 122­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

Nei fondi dell’Archivio Segreto Vaticano e in altri importanti archivi d’Europa si conservano gli atti di queste inchieste, che ebbero modalità diverse secondo la volontà o l’interesse a perseguire i Templari da parte di chi deteneva il potere. Nelle zone dove la Francia aveva una certa influenza politica, sembra che le pressioni sui Templari furono più intense, mentre laddove i governanti erano autonomi, o non temevano Filippo il Bello, i Templari ebbero un trattamento più equo54. A Venezia, per esempio, dove l’Inquisizione era nelle mani del doge, essi non furono neppure processati; a Cipro poterono difendere l’ordine con l’appoggio del sovrano, mentre quelli interrogati da Rinaldo da Concorezzo arcivescovo di Ravenna, uomo integerrimo e insensibile alle intimidazioni, furono assolti. Tutto ciò produsse una gran mole di carte processuali, che rivelano situazioni molto discordanti da zona a zona; si va da un massimo di colpe confessate nel meridione francese, dove furono ammessi reati di vera e propria stregoneria, con tanto di evocazione dei demoni, alle inchieste svolte in area iberica, dove ogni singolo capo d’imputazione fu risolutamente confutato55. Ciò indica che i Templari rappresentavano un problema più che altro per la Francia, dove l’ordine aveva la maggiore concentrazione di possessi e di capitali liquidi, e dove infatti partì l’attacco ai suoi danni. Il sovrano aveva dapprima tentato di impadronirsi del patrimonio templare in via pacifica, con accordi politici o sotto forma di prestito; però aveva trovato la fiera opposizione proprio di Jacques de Molay, perché il denaro custodito dall’ordine era stato donato da tutta la cristianità per il recupero della Terrasanta e non poteva essere usato per altri scopi. A quel punto Filippo il Bello aveva deciso che l’ordine del Tempio, benché formato in gran parte da sudditi francesi, dovesse essere sacrificato per tutelare la politica rea­ le, divenendo vittima illustre di quella che poi sarebbe stata chiamata «ragion di Stato». Quando l’inchiesta di Chinon divenne di dominio pubbli123­­­­

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co, Clemente V fu sottoposto ad un vero e proprio ricatto: se si ostinava a voler salvare l’ordine del Tempio, la monarchia francese avrebbe riesumato le ossa di papa Bonifacio VIII per celebrare un processo alla sua memoria, in seguito al quale la salma del papa dichiarato illegittimo sarebbe stata bruciata sul rogo con l’accusa di stregoneria. Così tutta la successione apostolica dopo Celestino V sarebbe stata dichiarata nulla; e Clemente V, divenuto improvvisamente papa illegittimo, sarebbe stato deposto per procedere poi all’elezione di un nuovo pontefice più cedevole agli interessi reali. Se Clemente V avesse voluto mantenere l’ordine templare, in pratica avrebbe dovuto accettare l’apertura di uno scisma in seno al cattolicesimo, con la formazione di una Chiesa di Francia separata e indipendente dall’obbedienza romana. Mentre in tutte le diocesi della cristianità si stavano svolgendo le inchieste, cioè nel biennio 1309-1311, gli avvocati di Filippo il Bello tennero il pontefice costantemente sotto la minaccia di questo ricatto. Clemente V scelse di sacrificare quanto restava dell’ordine templare per tutelare l’unità della Chiesa, che aveva ereditato integra e che aveva giurato di custodire. Fu così che durante il concilio celebrato a Vienne nel 1312, benché si fossero presentati a lui circa duemila Templari pronti a testimoniare in difesa dell’ordine, e benché questa difesa fosse sostenuta da diversi autorevoli religiosi, egli pose fine al processo con una decisione che non aveva precedenti: sancì espressamente che l’ordine del Tempio non poteva essere condannato per eresia perché il processo non aveva portato alla luce le prove necessarie. Dunque lo proclamò sospeso con una modalità particolare, vistosamente ambigua, che in pratica poneva il Tempio al di fuori della realtà concreta, senza però decretarne la condanna. L’ordine dei Templari veniva dunque eliminato non in forza di una sentenza giudiziaria bensì con un semplice atto amministrativo, un provvedimento d’emergenza preso per salvare la Chiesa. Fu deciso che i suoi membri entrassero in 124­­­­

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altri ordini religiosi e che il vasto patrimonio templare – o meglio quanto di esso non era stato dissipato – fosse devoluto agli Ospitalieri, che avrebbero continuato a militare per la Terrasanta56. LA MORTE EROICA DEL GRAN MAESTRO Il 18 marzo 1314, all’ora dei Vespri, l’ultimo Gran Maestro dell’ordine del Tempio, frate Jacques de Molay, moriva sul rogo a Parigi, in un isolotto disabitato che sorgeva al centro della Senna. Era un uomo anziano, più che settantenne, e già da ben sette anni giaceva in prigionia; sarebbe stato logico, oltre che umano, lasciare che finisse i suoi giorni in regime di isolamento o di arresti domiciliari. Invece venne messo al rogo, condannato a una morte atroce, ma anche simbolica e molto eclatante. In quei giorni, papa Clemente V versava in condizioni di salute molto difficili. La frequenza dei documenti nei suoi registri è rada, e l’ultimo suo atto risale al 4 aprile57. Il pontefice sarebbe spirato il 20 dello stesso mese, dopo un periodo di agonia durante la quale si trovava verosimilmente in condizioni di incoscienza. Ad ogni modo, se anche Clemente V fosse stato in buona salute, nulla si sarebbe potuto fare per arrestare un rogo deciso a Parigi al mattino e consumato quello stesso giorno all’ora dei Vespri. Il pontefice e la Curia alloggiavano dalle parti di Carpentras, che dista da Parigi quasi 600 chilometri in linea d’aria. Tenendo presente che all’epoca un corriere incaricato di viaggiare speditamente poteva coprire la distanza di circa 60 chilometri al giorno, se ne deduce che era fisicamente impossibile avvertire il papa di quanto la cerchia reale stava architettando; la stessa rapidità con cui la condanna a morte fu sancita e consumata, del resto, testimonia che da parte regia si voleva impedire al pontefice di venire a conoscenza dei fatti, se non una volta che erano irrimediabilmente accaduti. La sentenza, emanata all’improvviso e senza consultare il pontefice, ha tutti 125­­­­

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i caratteri di un provvedimento preso in condizioni di emergenza per scongiurare un qualche temibile rischio politico. Un testimone oculare dell’esecuzione, il poeta Geoffroy de Paris, ci ha lasciato il resoconto vivo dei fatti nella sua Cronaca rimata: Il Gran Maestro, dinanzi al cardinale, gridò che credeva in Dio e che non vi era, né vi era stato, un più ardente fedele di Cristo. E se anche vi fosse tra i frati qualcuno disonesto, come si diceva, erano pur sempre uomini: il male si annida dovunque. Ma nel Tempio non c’era cosa tanto malvagia, contro la fede e la dottrina cristiana. E l’ordine non aveva smarrito la via, ma aveva patito la morte e il supplizio nel nome di Dio, pur essendo nel giusto e intatto dalla corruzione. E non c’è un Templare tanto vile che non verserebbe il proprio sangue per testimoniare la purezza del suo ordine. Il Maestro, quando vide le fiamme, si spogliò senza esitazione. E così si presentava, vestito soltanto della sua camicia, con volto fermo e sereno, senza tremore né paura, mentre lo tiravano e lo portavano via. Lo presero con la forza per legarlo al palo del rogo, e lui non fece alcuna resistenza. Gli legarono i polsi con una corda, e disse loro: Signori, almeno, lasciate che io giunga un poco le mie mani. A Dio rivolgerò la mia preghiera, perché adesso viene la mia ora. Ecco, mi vedo giudicato e fra poco sarò giustiziato. Dio lo sa, quanto iniquamente! Presto si vendicherà con durezza 126­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

su quelli che ci hanno condannati contro giustizia. Dio vendicherà la nostra morte! Signori – disse lui – sappiate per certo che tutti i nostri nemici dovranno soffrire. In questa fede io voglio morire; guardate in cosa credo. Ve ne prego, verso la Vergine Maria, dalla quale nacque Nostro Signore il Cristo, girate la mia faccia! Acconsentirono alla sua preghiera. In questo modo fu annientato, e verso la morte andò con tale serenità, da suscitare in tutti grande meraviglia58.

Il poeta restò impressionato dall’eroismo del vecchio frate guerriero, e dalla sua fede; sono i punti fondamentali che mette in risalto nella sua descrizione del rogo, i pilastri dell’episodio. Un’altra fonte ugualmente contemporanea, strettamente legata all’ordine del Tempio, ci rivela nei dettagli che la scena ebbe un profilo alquanto più caotico e drammatico: In quello stesso tempo il Gran Maestro e il Commendatore di Guascogna furono portati a Parigi, dinanzi a tutto il popolo, dove si erano radunate più di 50.000 persone. Là stavano anche i due cardinali inviati dal papa; fecero leggere lo scritto della regola, cioè quel testo che spacciavano per una loro confessione. Ma alcuni mercanti che si trovavano laggiù, dissero che il Maestro si voltò verso il popolo e gridò che tutto quel testo scritto era falso, che lui non aveva mai detto quelle cose né le aveva credute, che era un buon cristiano. Su questa parola s’interruppe, perché uno dei soldati del re lo colpì sulla bocca con tale violenza che non poté più parlare. Lo presero per i capelli e lo trascinarono in una vicina cappella. Lo tennero lì dentro per lungo tempo, finché il popolo non fu sedato e fatto disperdere per la maggior parte. Allora il Maestro e il Commendatore di Guascogna furono messi su una barca e condotti sull’isola che si trova in mezzo al fiume. Lì era stato allestito il rogo. Il Maestro li pregò affinché gli lasciassero dire le sue ultime preghiere, che rivolse a Dio; poi si abbandonò nelle loro mani. 127­­­­

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Così lo presero e lo bruciarono. Dio onnipotente, che tutto sa e che conosce le cose dello spirito, sa che era innocente di quelle colpe che gli furono gettate addosso. E così pure gli altri che furono arsi, sono martiri dinanzi a Dio59.

Entrambe le fonti collegano il rogo di Molay a un fatto che lo precede immediatamente: quello stesso giorno, 18 di marzo, i quattro principali dignitari del Tempio (Gran Mae­ stro, Visitatore di Occidente, Comandante di Guascogna e Comandante di Normandia) erano stati ascoltati da una commissione inquirente che agiva in nome di papa Clemente V, formata da due cardinali. I commissari avevano davanti agli imputati le risultanze del processo – che, si badi bene, era stato chiuso già due anni prima, durante il concilio di Vienne. In quella sede, come abbiamo visto, papa Clemente V aveva sancito con la bolla Vox in excelso che le varie inchieste sui Templari non avevano fatto emergere prove concrete di eresia, ma l’ordine versava in un tale stato di degrado morale da renderne opportuna la chiusura. Il Tempio era stato così «sollevato» dall’autorità pontificia con una formula quanto mai ambigua, priva di termini capaci di esprimere condanna (come abolire, cancellare, cassare e così via), ma era nient’altro che una provisio, ovvero un comune atto amministrativo. PERCHÉ UCCIDERE JACQUES DE MOLAY? Il lungo processo, durato ben sette anni, che aveva coinvolto l’intero mondo cristiano, rovesciando fiumi di accuse sul più potente e politicamente influente degli ordini religioso-militari, si chiudeva così per volontà papale senza alcun verdetto, ma con la semplice proibizione di continuare a usare il nome e i simboli specifici del Tempio. La decisione era nata in un contesto di chiara illegalità, e sotto il segno del ricatto politico. Clemente V l’aveva presa mentre sedeva fra i padri conciliari a Vienne, una città che, 128­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

come già detto, aveva scelto anni prima quale sede per l’importante riunione perché si trovava nei territori appartenenti all’impero, non al regno di Francia; e questo, a suo parere, dava qualche speranza di libertà dalle pressioni di re Filippo il Bello. Invece arrivò l’esercito di Francia al comando del Delfino Luigi, erede al trono, e del principe Luigi d’Évreux, fratellastro del sovrano, che circondarono la città come se dovessero organizzare un assedio. La circondarono a scopo chiaramente intimidatorio, e penetrarono in armi in un territorio straniero senza trovare la minima forma di opposizione. L’imperatore si guardava bene dal far notare che si stavano violando i suoi diritti; non aveva nessuna intenzione di creare un grave incidente diplomatico che poteva inimicargli il sovrano di Francia, capace, con il suo contingente di ben diecimila cavalieri e un numero non precisabile di fanti, di lanciare una crociata anche da solo. Questa incertezza, questo tremendo imbarazzo nel quale Clemente V si trovò costretto ad agire, spiegano come mai volle porre fine al processo senza un verdetto. Né colpevoli né innocenti, dunque; ma sbandati, privi ormai di quelle motivazioni che in passato li avevano resi gloriosi, i Templari in qualche modo erano diventati un anacronismo che andava rimosso. Con le successive bolle il papa stabilì che gli uomini e i possessi templari dovessero confluire nell’ordine religioso-militare degli Ospitalieri, perché in tal modo avrebbero continuato a servire la causa della crociata e il riscatto della Terrasanta. Ad ogni modo, nel concilio papa Clemente V e Filippo il Bello avevano definito la questione templare arrivando a un compromesso, trovando cioè un accomodamento che poteva dirsi, se non soddisfacente, almeno accettabile per entrambe le parti. Il re di Francia avrebbe voluto eliminare anche l’ordine degli Ospitalieri che, sebbene meno nocivi dei Templari, erano anch’essi ormai inutili, ma ricchi di un ingente patrimonio fondiario; accettò la loro sopravvivenza, e che il papa devolvesse a loro ciò che un tempo era stato il vasto patrimonio templare. Quanto a Clemente V, piegò la testa dinanzi 129­­­­

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alla necessità di chiudere il Tempio, ma continuò a riservare alla sua persona il giudizio sul Gran Maestro e i principali dignitari, ancora in prigione60. Non è ben chiaro perché nel marzo 1314 si vollero interrogare di nuovo Jacques de Molay e altri tre dignitari, quando ormai il Tempio non esisteva più da due anni. Perché questi capi templari furono di nuovo esaminati da una commissione papale? Nella montagna di carte che il processo aveva prodotto, c’erano diverse testimonianze rilasciate da Jacques de Molay e dagli altri. Il contenuto non era sempre lo stesso, è vero; ad ogni modo, il caso era stato chiuso, il papa aveva parlato. Nel marzo 1314 evidentemente bisognava risolvere la questione di quei quattro dirigenti, i quali dovevano rappresentare un problema per il sovrano. Erano uomini scomodi, assolti dal papa però ancora imprigionati, mentre si faceva strada il sospetto che fossero stati processati ingiustamente. Proprio il sospetto doveva animare il malumore del popolo, se il Templare di Tiro ha ragione quando specifica che fu necessario portare via il Gran Maestro e nasconderlo dentro una cappella fino a quando la folla non fu sedata e dispersa; vale a dire che si scatenò una sommossa. La stessa decisione di allestire il rogo in un isolotto disabitato, l’Île aux Juifs – oggi corrispondente al sito di Square du Vert-Galant –, serviva a sottrarre il Gran Maestro dalle mani della gente, che avrebbe potuto facilmente liberarlo. Quattro anni prima, nel maggio del 1310, Parigi aveva visto andare al rogo cinquantadue Templari: un’esecuzione di massa, decisa dall’arcivescovo di Sens contro il parere dei commissari pontifici per spezzare la resistenza dei Templari che stavano organizzando una strategia difensiva in seno al processo; il rogo si era tenuto subito fuori le mura cittadine, nel sobborgo Saint-Antoine. L’Île aux Juifs, invece, si trovava allora al centro della Senna, e si poteva raggiungere soltanto in barca. Non era nemmeno una pertinenza reale, poiché la giurisdizione su quell’area spettava agli agostiniani del convento 130­­­­

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di Saint-Germain-des-Prés; dopo il rogo, il sovrano fu costretto a firmare un atto nel quale dichiarava che con il suo gesto non aveva voluto in nessun modo pregiudicare i diritti dell’abbazia su quel possesso. Il fatto è una spia importante: mostra come il rogo fosse qualcosa di imprevisto, consumato in modo precipitoso e senza esaminare la situazione complessiva con la dovuta calma61. L’idea di far comparire nuovamente Jacques de Molay e gli altri tre dignitari davanti a una commissione di inquirenti fu pessima, a prescindere da chi ne prese l’iniziativa; indignato e disgustato dalle manipolazioni del processo, l’anziano capo del Tempio decise di giocarsi quell’ultima occasione per gridare l’innocenza del suo ordine con un gesto eclatante, plateale. I commissari non si aspettavano una simile reazione, e decisero di sospendere l’udienza per deliberare; nel pomeriggio, in virtù di un ordine la cui genesi non è affatto chiara, venne allestito in fretta e furia il rogo di Molay, all’insaputa dei delegati papali che non avevano ancora preso nessuna decisione. Sei anni prima, nell’agosto 1308, Jacques de Molay era stato assolto per volontà di papa Clemente V, che lo aveva riammesso nella comunione della Chiesa e gli aveva restituito i sacramenti; nella sua cella, il Gran Maestro aveva un cappellano incaricato di fargli visita per dire la messa ogni giorno. La sua pietà religiosa era insomma un fatto ben noto alla gente, e questo nel tempo originò la convinzione popolare che Molay, morendo in modo atroce per testimoniare la sua innocenza e la fede cristiana, possedeva in qualche modo il profilo del martire62. Il giorno del rogo, come abbiamo visto, Clemente V giaceva a letto ed era probabilmente in coma perché giunto allo stadio terminale della sua malattia. Quanto a Filippo il Bello, nell’autunno seguente fu disarcionato da cavallo mentre inseguiva un cinghiale nelle foreste della Bièvre e morì, dopo settimane di agonia, il 29 novembre dello stesso anno. Gli incidenti di caccia erano molto frequenti a quel tempo, e gli uomini dell’aristocrazia militare credevano che ci fossero 131­­­­

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solo due tipi di morte decorosa, per un cavaliere: in guerra e a caccia, due attività che in effetti si somigliavano molto e comportavano livelli di rischio simili. Secondo la mentalità del medioevo, insomma, il re di Francia aveva avuto una bella fine, una morte degna della sua condizione; nondimeno, era trascorso poco tempo dal rogo di Jacques de Molay, e ciò impressionava la gente. Ce ne accorgiamo da altri aspetti della cultura del tempo che non riguardano direttamente la vicenda dei Templari. Michel Pastoureau, esperto esaminatore di simboli, ha riscontrato che la sorte di re Filippo il Bello contribuì a modificare l’immagine allegorica che le persone del tempo avevano del mondo animale. Il re amava dare la caccia ai cinghiali, sollevando le critiche del poeta Geoffroy de Paris; uccidere questo tipo di animale selvatico era un’impresa che richiedeva non poco coraggio, poiché la bestia andava affrontata corpo a corpo, armati solo di un pugnale o di uno spiedo, e l’attacco dei suoi denti, che erano in grado di sventrare i cani ma anche i cavalli, poteva essere letale. Del resto, la carne del cinghiale era la più amata e la più apprezzata sulle tavole dei nobili, e durante l’antichità romana, come pure nell’alto medioevo, la caccia al cinghiale veniva considerata un’attività tipica dei sovrani. Dopo l’incidente che portò alla morte Filippo il Bello le cose cambiano, e il maiale selvatico comincia ad essere visto come un essere dai connotati diabolici; sarà rimpiazzato dal cervo, da allora in poi ritenuto la preda più nobile, perché non è aggressivo ma impegna comunque i cacciatori in una gara spossante a causa delle sue interminabili corse63. Filippo il Bello era un uomo robustissimo che all’età di quarantasei anni – non pochi per l’epoca – poteva ancora lanciarsi in sfrenate corse al galoppo seminando i suoi compagni di caccia; l’incidente mortale occorse mentre si trovava da solo, perché tutti gli altri si erano stancati di correre nella foresta inseguendo la preda. Benché il cavallo lo avesse trascinato per gran parte del bosco riducendolo in condizioni 132­­­­

III. Nelle mani dell’Inquisizione

pietose, visse ancora tanti giorni, durante i quali la sua fibra eccezionalmente robusta lottò contro una probabile setticemia. L’intero scenario del suo decesso, insomma, aveva caratteri anomali, capaci di stuzzicare l’immaginazione64. Erano trascorsi alcuni mesi dalla memorabile maledizione che Jacques de Molay aveva lanciato contro il sovrano assassino e il papa suo complice. Parole che nella fantasia popolare avrebbero lavorato creando potenti suggestioni, e quindi convinzioni destinate a durare nei secoli venturi. I confratelli del Tempio e altre persone di Chiesa raccolsero le ceneri e le ossa di quel rogo e le deposero in luoghi di culto per onorarle, come racconta Giovanni Villani: E nota che la notte appresso che ’l detto Maestro e ’l compagno furono martorizzati, per frati e altri religiosi le loro corpora e ossa come reliquie sante furono ricolte, e portate via in sacri luoghi65.

Nessuna leggenda avrebbe potuto sorgere su basi migliori di quelle ceneri, di quelle ossa. Qualcosa che si può vedere e toccare, capace di documentare una verità materiale e, nello stesso tempo, scatenare l’immaginario.

Capitolo quarto

DALLA STORIA ALLA LEGGENDA

IL COFANO VERDE Per la Santa Sede, il processo ai Templari era diventato una questione scabrosissima che si era conclusa nella primavera del 1312 con la posizione ambigua assunta da Clemente V: nessuna condanna contro l’ordine, ma anche nessuna continuità. Il succo delle affermazioni papali si può riassumere in questi termini: la cristianità aveva ancora bisogno dei Templari e, se fosse stato libero di scegliere, il papa non avrebbe mai fatto alcuna mossa ai loro danni. Le contingenze storiche, tuttavia, avevano un profilo tale che era più prudente privarsi di quel braccio armato della Chiesa, anche considerando l’ormai innegabile evidenza che l’epoca delle crociate era tramontata. Gerusalemme e il Santo Sepolcro giacevano in mano islamica da ben centoventicinque anni; e a dispetto degli innumerevoli tentativi patrocinati anche da uomini eroici e potenti come il re di Francia Luigi IX, tutto induceva a supporre che lo sarebbero rimasti a lungo. Erano trascorsi vent’anni da quella fatidica estate del 1291, quando era caduta anche la città di Acri, ultima roccaforte cristiana in Terrasanta; da allora, a parte un diluvio di discussioni e progetti, ben poco era stato fatto concretamente per cercare di riscattare il Santo Sepolcro. Costretto ad archiviare la crociata, Clemente V archiviò di rimando la questione templare. Lo fece politicamente ma anche nel senso più letterale del termine: i documenti del processo vennero ordinatamente raccolti, siglati, classificati, quindi rinchiusi in un capiente cofano che le fonti ci dicono 135­­­­

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di colore verde (fatto quindi probabilmente di legno dipinto, o magari rivestito di cuoio tinto in quel colore). Nella biblioteca pontificia si trovava anche un codice di piccolo formato contenente la regola dell’ordine: Inoltre un piccolo libro scritto in francese e rilegato in cuoio rosso, contenente gli statuti dei Templari, che comincia nel secondo foglio con le parole come diur, e finisce nel penultimo con potest1.

Gli inventari medievali ci informano che il fondo (intitolato Super processu Templariorum) era composto da documenti molto diversi per autorità emanante, forma, materiale; oltre agli atti prodotti dalla Cancelleria apostolica, ovviamente, c’erano i resoconti delle inchieste avvenute nelle varie diocesi dell’orbe cristiano, le lettere giustificative dei prelati incaricati di dirigere gli interrogatori che si erano defilati con motivi autentici o pretestuosi, gli inventari dei beni rinvenuti nelle varie commende del Tempio. All’esterno, una dettagliata etichetta ne elencava compiutamente il contenuto: Inoltre in un altro cofano verde rinforzato con ferro, a una sola serratura, segnato con la lettera Y, si trovano gli atti del processo svolto in tutto il mondo cristiano su ordine di papa Clemente V contro i capi e i frati della milizia del Tempio, che furono arrestati tutti insieme in un solo giorno come è scritto nella cedola affissa al cofano, che sarebbe complicato descrivere in dettaglio2.

Il papato aveva creato l’ordine e lo aveva favorito; nel momento della crisi, non aveva saputo tutelarlo affrontando i rischi che la sua difesa comportava. La vicenda del Tempio, l’esperimento più audace della Chiesa militante, si concludeva così con la chiusura di quel grande cofano verde in cui erano stipati i documenti che ne sancivano la fine. Da quel giorno, per molto tempo più nessuno se ne interessò. La Chiesa era pressata da ben altre emergenze. Bloccata dapprima in territorio francese ma con forti velleità di rientro a Roma, la Santa Sede tornò in Italia soltanto 136­­­­

IV. Dalla storia alla leggenda

nel 1377 per volontà dell’energico e sagace Gregorio XI, che pose fine al periodo della cosiddetta cattività avignonese. La vittoria fu pagata a caro prezzo: l’elezione di un antipapa, Clemente VII (Roberto da Ginevra), aprì lo scisma d’Occidente che doveva durare quasi quarant’anni (1371-1417), generando una gravissima instabilità all’interno della Chiesa; i documenti, che sempre rispecchiano la vita delle istituzioni da cui derivano, mostrano tutto questo con drammatica evidenza3. Dopo la fine dello scisma seguì a breve la caduta di Costantinopoli, conquistata dai Turchi Ottomani nel 1453, con il conseguente vasto afflusso in Europa di intellettuali profughi dalla perduta capitale dell’impero greco. Il loro apporto orientò in modo potente la cultura verso lo studio delle antichità classiche, tratto distintivo dell’umanesimo. Il secolo XVI chiamò poi la Santa Sede a sfide estremamente impegnative: lo scisma protestante e le devastazioni del sacco di Roma, le guerre di religione che dilagavano in tutta l’Europa cristiana, la minaccia dei Turchi che premevano lungo le frontiere orientali, fermati a Lepanto nel 1571, ma anche l’impegno massimo per l’evangelizzazione del continente americano assorbirono ogni sua energia4. I Templari potevano fornire un’allettante materia di studio per i cultori di storia, ma gli umanisti e i loro eredi del Rinascimento erano più interessati all’età classica, alla riscoperta della letteratura greca e romana, con un aggiuntivo disprezzo verso il buio medioevo che li indusse a snobbare la questione. In seguito, gli intellettuali furono impegnati massicciamente negli studi biblici: da una parte c’erano gli attacchi della cultura protestante che offriva della Sacra Scrittura una lettura contraria rispetto alla versione tradizionale, dall’altra la risposta cattolica. Soprattutto, la Chiesa della Controriforma era impegnata a combattere con ogni sua risorsa sul fronte del concilio di Trento, che durò vent’anni se consideriamo le date di apertura e di chiusura, ma molti in più ce ne vollero contro le resistenze diffuse per vedere messi in pratica i suoi decreti. Chiarire l’oscura questione del processo ai Templari de137­­­­

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cisamente non rappresentava una priorità; ma qualcuno, nonostante tutto, s’interessò di loro. PLATINA E I FILOSOFI DELL’OCCULTO Per oltre un millennio e mezzo, le carte prodotte e ricevute dai pontefici romani vennero custodite alla stregua di un archivio privato, sicuramente molto più grande ma non troppo diverso nella sostanza da quelli che si andavano formando ad esempio nelle case aristocratiche. Quando la Chiesa cominciò a possedere la fisionomia di uno Stato, ai documenti riguardanti la religione si unirono anche negozi amministrativi, patrimoniali e giudiziari; si trattava in ogni caso di incartamenti privati, accessibili agli impiegati della Curia ma pur sempre nello stretto ambito degli addetti ai lavori. Fra questi, naturalmente, ci furono uomini preparatissimi e di grande talento che si occuparono di usare quegli atti per ricostruire la vita millenaria della Chiesa nei suoi aspetti più salienti; l’oscura vicenda dei Templari, nati per difendere la fede cristiana ma paradossalmente processati per eresia, vi rientrava a pieno titolo. Il celebre umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che nel 1475 fu nominato prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, compose una monumentale opera intitolata Liber de vita Christi ac omnium pontificum, nella quale ricostruiva la biografia dei papi fino ai suoi tempi. Ai Templari dedicò una menzione brevissima secondo ciò che doveva essere lo stereotipo corrente all’epoca, e che dunque oggi ha grande valore per capire quale fosse allora l’immagine diffusa fra le persone abbastanza fornite di tempo e denaro per interrogarsi sulle questioni storiche. Platina li ritrasse come eroici guerrieri che fronteggiano il Saladino, ma in un certo senso quasi rivestiti di un’aura oscura; in sostanza si limitava ad offrire un cliché ambiguo come a suo tempo lo era stata la decisione presa da Clemente V nel concilio di Vienne, quando fece mettere nero su bianco 138­­­­

IV. Dalla storia alla leggenda

che il processo non aveva fatto emergere prove concrete della loro eresia, ma in ogni caso pose fine alla loro esistenza. Le opinioni del papato sui Templari non erano dunque mutate, nella seconda metà del Quattrocento? In quanto prefetto della Biblioteca Vaticana, il Platina doveva avere l’agio necessario per farsi un’idea accurata e ben documentata sull’argomento, esaminando le risultanze processuali racchiuse in quel grande cofano verde segnato negli inventari con la lettera Y. Questo però non accadde, e lo storico naturalmente deve chiedersi perché. Forse cospirarono alla congiura del silenzio le propensioni culturali del grande umanista, che amava la Grecia e la Roma dei Cesari; ricostruire la verità in quel marasma di carte che è il processo templare risulta un lavoraccio, perché oltre alla mole dei testi da esaminare c’è il problema che i testimoni a volte ritrattano, e le fonti offrono di uno stesso fatto anche versioni che non coincidono. Per orientarsi in un simile labirinto bisogna possedere un certo istinto da segugio, ma più ancora aiuta una motivazione molto forte, essere ben armati di pazienza e di tempo a disposizione. Può darsi che al Platina sembrasse un lavoro lungo, oneroso e poco interessante in vista della sua opera che doveva abbracciare un arco cronologico molto ampio. Il bibliotecario papale si accontentò dunque di riprodurre l’immagine vaga e tenebrosa che dei Templari aveva la sua epoca, valorizzando invece altri aspetti della storia cristiana, come per esempio le evidenze archeologiche e i monumenti, per i quali nutriva un’autentica passione5. Diciamo pure che Platina nominò i Templari per mero scrupolo di completezza, perché tacere di loro avrebbe dato al suo lavoro un carattere lacunoso; ma per scrivere quanto scrisse, decisamente non aveva bisogno di svolgere ricerche fra le antiche risultanze processuali. Con ogni verosimiglianza non aprì nemmeno quel cofano verde, e si limitò a sintetizzare i dati presenti nelle cronache più celebri o nelle lettere pontificie. 139­­­­

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Dopo il Platina, per reperire un altro brevissimo riferimento ai Templari occorre aspettare cinquant’anni, quando a partire dal 1531 il filosofo e astrologo tedesco Cornelius Agrippa da Nettesheim fece circolare in forma manoscritta e poi anche stampata i vari libri del suo trattato De occulta philosophia. Se Bartolomeo Sacchi citava l’ordine usando un certo cliché senza particolare scrupolo critico, Agrippa ne dava una lettura molto personale e trasformava così i frati guerrieri in potenti cultori di magia nera e scienze occulte; del resto la sua non era un’opera storica, bensì un trattato di magia, e l’aura oscura che durante il processo si era addensata intorno alla memoria dell’ordine estinto suggeriva all’autore una simile interpretazione6. Naturalmente il De occulta philosophia influì in modo relativo nel formare l’immagine collettiva dei Templari, perché fu un’opera condannata anche nel mondo protestante e non circolò ampiamente fra le persone; in ogni caso, contribuì a rendere un poco più fosche le tinte con cui il mondo si figurava i discussi guerrieri del Tempio, che a livello popolare erano già stati ampiamente diffamati dalla strategia del processo imbastita dal Nogaret con la connivenza dell’Inquisizione. Altri cinquant’anni dopo, nel 1584, Giordano Bruno pubblicava a Londra La cena de le ceneri. Immaginando un dialogo svoltosi proprio il giorno delle Ceneri, l’autore discuteva alcuni argomenti della teologia che riguardavano più strettamente il cosmo, elogiando le teorie copernicane. In modo allusivo, riferiva anche di un convegno segreto avvenuto proprio nella capitale d’Inghilterra, presso un non meglio specificato Tempio che doveva essere per i suoi lettori la chiesa di Temple Church, antico quartier generale dell’ordine situato nel cuore della City, ancor oggi visitabile: A questo modo, avanzando molto di tempo e poco di camino, non avendo già fatta la terza parte del viaggio, poco oltre il loco che si chiama il Tempio, ecco che i nostri patrini, invece d’affrettarsi, accostano la proda verso il lido. 140­­­­

IV. Dalla storia alla leggenda

Li astri, per esserno tutti ricoperti sotto l’oscuro e tenebroso manto, e lasciandoci l’aria caliginosa, ne forzavano al ritorno. Le cose ordinarie e facili son per il volgo ed ordinaria gente; gli uomini rari, eroichi e divini passano per questo camino de la difficoltà, a fine che sii costretta la necessità a concedergli la palma de la immortalità7.

Come Agrippa, Giordano Bruno non aveva alcuna intenzione di scrivere un’opera storica. Non faceva il minimo cenno alla vicenda dei Templari né al processo; ma il carattere esoterico di quell’incontro, fra uomini d’intelligenza superiore decisi a discutere di temi proibiti, l’ambientazione un po’ sinistra nel buio caliginoso della notte londinese, e soprattutto il fatto di trovarsi nell’antico sacello del Tempio, conferivano al passo un’atmosfera densa di mistero. In qualche modo, Bruno seguiva la suggestione lasciata dall’occultista tedesco, e vi aggiungeva a sua volta del fertile materiale. Sono del resto gli anni in cui il panorama intellettuale inglese è dominato dalla figura di John Dee, favorito della regina Elisabetta I; grande esponente del Rinascimento britannico, ingegno poliedrico che s’interessava di tante cose diverse, era anche astrologo, occultista, alchimista e praticante di necromanzia8. È un’epoca in cui si avverte anche una rinnovata curiosità per il Tempio di Salomone. In passato gli artisti ne avevano un’idea un po’ generica, basata sulla Cupola della Roccia di Gerusalemme, che Raffaello Sanzio pose come sfondo per Lo sposalizio della Vergine (conservato nella Pinacoteca di Brera, a Milano). In seguito diversi studiosi, ebrei ma non solo, cercarono di ricostruirne l’aspetto seguendo le indicazioni della Bibbia, ma anche con immancabile apporto di fantasia; il tratto comune a queste ricostruzioni è la grandiosità a volte anche un po’ esagerata, che riflette bene l’enorme valore simbolico e religioso dell’edificio9. La memoria del santuario è sempre collegata al mito magico del suo regale costruttore, Salomone. In tutta Europa si 141­­­­

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diffonde il celebre trattato Clavicula Salomonis, riferito alla sapienza del mitico sovrano giudaico e alla sua capacità di dominare i demoni. Gli intellettuali protagonisti di questi decenni, come Elias Ashmole che fondò il nucleo primitivo del British Museum, erano appassionati di esoterismo; nel 1672 egli definiva i Templari come «le colonne principali che sostenevano il Tempio di Gerusalemme»10. In un simile contesto culturale, ogni allusione ai Templari e a un incontro segreto fra uomini eroici e «divini» che vogliono trattare cose troppo elevate per essere rivelate al volgo non poteva che essere letta in chiave magica. Che Bruno finisse condannato al rogo, esattamente come l’ultimo Gran Maestro Jacques de Molay, stabiliva fra i due personaggi una sorta di implicita, sinistra relazione. LE RAGIONI DELLA STORIA Un’aria culturalmente diversa tirava invece sull’altra sponda del canale della Manica, in special modo a Parigi, dove solo un anno prima (1583) il filosofo e giurista Jean Bodin aveva citato i Templari nella sua opera maggiore, Les six livres de la Republique. Non diversamente da chi lo aveva preceduto, l’autore dedicava loro appena un rapido cenno; ciò che invece segna una differenza importante è il carattere radicalmente opposto del suo giudizio, uno stacco netto rispetto all’idea appiattita che l’Inquisizione aveva creato e il tempo consolidato, che cioè l’ordine templare forse non era proprio colluso con l’eresia, ma comunque rivestito di un carisma tenebroso, sì che la Chiesa aveva fatto bene a porre fine alla sua storia. Jean Bodin ribaltava tutto ciò con una sentenza di piena assoluzione. L’attacco ai Templari era stato secondo lui una mera operazione di ciò che oggi diciamo Realpolitik, e che Machiavelli aveva definito «ragion di Stato»; in breve, obbediva al mero scopo di raggranellare quattrini per l’economia della Francia in serie difficoltà, non diversamente da quanto accadde agli ebrei in altre epoche. 142­­­­

IV. Dalla storia alla leggenda

I Templari furono vittime innocenti del potere oppressivo e tirannico: La stessa accusa venne addossata ai Templari sotto il regno di Filippo il Bello, che ne fece bruciare molti sul rogo e soppresse tutte le loro comunità; i Tedeschi però hanno lasciato scritto che si trattò di pura calunnia, finalizzata a ottenere i loro vasti possessi e ricchezze. Lo stesso fu compiuto contro le comunità e le associazioni di Giudei, sia nella Francia sotto re Dagoberto, Filippo Augusto e Filippo il Lungo, sia più tardi in Spagna sotto Ferdinando re d’Aragona e di Castiglia, il quale, forte di una devozione spietata, li esiliò da tutto il regno e s’impadronì dei loro averi11.

Bodin non specificava chi fossero, questi «Tedeschi» che avevano definito pura menzogna le accuse lanciate contro i Templari dal re di Francia; è possibile tuttavia che l’autore avesse in mente i documenti fatti redigere da Peter arcivescovo di Mainz, che come Rinaldo da Concorezzo, arcivescovo di Ravenna, non era affatto convinto della colpevolezza dei Templari e così ordinò che i loro beni venissero inventariati in modo accurato, sì da agevolare la restituzione del patrimonio in caso di assoluzione12. Jean Bodin scriveva dei Templari cose abissalmente diverse dagli altri perché ragionava in un’ottica storica, anche se il suo trattato aveva per tema la politica. Allora come oggi, non si può imbastire un’analisi politica senza considerare attentamente le istituzioni e il modo in cui interagiscono fra loro, alleandosi oppure entrando in conflitto; e la faccenda dei Templari era un terreno obbligato per questo genere di riflessioni, perché si poneva esattamente nel grande scontro fra il potere monarchico di Filippo IV, deciso a promuovere l’indipendenza dello Stato laico, e la teocrazia sostenuta da Bonifacio VIII per tradizione ecclesiastica e convinzione personale. Bodin vide probabilmente i documenti del processo che si trovavano a Parigi, nell’archivio reale, quelli che a suo tempo erano stati prodotti dalla cancelleria di Filippo IV; ma esiste la possibilità almeno teorica che abbia potuto consultare an143­­­­

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che quelli appartenenti all’archivio papale. Come vedremo, è altamente probabile che a quell’epoca il fondo si trovasse in terra di Francia. Negli ultimi anni il patrimonio archivistico vaticano è stato indagato molto più che in passato, sono stati prodotti inventari basati su criteri moderni e più analitici, ma anche studi mirati a ricostruire la storia dei vari fondi nei suoi numerosi spostamenti, smembramenti e ricomposizioni. Disponiamo insomma di strumenti che un tempo non esistevano, e forse non sarebbero neppure stati concepiti in questi termini. Esaminando gli inventari antichi, confrontandoli fra loro e seguendo la struttura dell’archivio papale nel corso del tempo, ci accorgiamo che il grande cofano verde del processo templare «sparisce» per quasi trecento anni, inabissato nel silenzio dei cataloghi che, per qualche motivo, non ne parlano affatto. Questa curiosa sparizione merita di essere seguita in dettaglio, perché può rivelarci molte cose. UN LUNGHISSIMO ESILIO Nel 1309, ormai consapevole che Filippo il Bello non gli avrebbe mai permesso di tornare a Roma, papa Clemente V fissò la Santa Sede in Avignone. Il pontefice fece ingrandire un palazzo preesistente trasformandolo in una residenza stupenda, adatta ai bisogni e al prestigio della Curia romana; tutto infatti lasciava intuire che i suoi successori sarebbero dovuti restare lì per un bel po’. Nel periodo avignonese le carte della Camera Apostolica, i registri e gli altri documenti prodotti furono accatastati in vari locali di questa residenza, senza un vero criterio ma sistemandoli dove c’era posto; non esisteva ancora il concetto di un archivio come insieme di documenti separato dalla biblioteca, ma gli atti e i libri formavano una sola entità. Si cercava, nei limiti del possibile, di custodirli con cura, ma il concetto della fruizione come lo intendiamo oggi era estraneo ai curiali di allora; gli inventari erano semplici elenchi assolutamente 144­­­­

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laconici, quasi inservibili per le moderne esigenze di consultazione. Del resto, nessuno esaminava quei fondi, a meno che ciò non servisse per ripescare un antico privilegio capace di provare che la Chiesa aveva acquisito un certo diritto in questo o quel territorio. Il cofano verde del processo ai Templari era alloggiato nella Torre della Tesoreria del palazzo avignonese, e così è regolarmente descritto nell’inventario del tardo XIV secolo; il mezzo fisico del contenitore garantiva l’unità del fondo, che probabilmente nessuno aprì per decenni. Le risultanze processuali infatti riguardavano una vicenda che era stata ormai definita, e non esistevano diritti che la Chiesa potesse rivendicare grazie alle carte lì comprese. Tornata di nuovo a Roma la Santa Sede, superato il momento difficile dello scisma d’Occidente, la Chiesa entrò in una fase di maggior stabilità della quale i papi approfittarono per consolidare l’istituzione sotto ogni punto di vista; e per avere un’amministrazione più efficiente era di vitale importanza poter disporre di un archivio ben ordinato e gestito, dove fosse facile ritrovare gli atti di governo. Così Sisto IV varava l’idea di formare un archivio pontificio autonomo e separato dalla ricca collezione di libri che componevano la bibliotheca secreta (l’aggettivo secretum è da intendersi «privato») dei papi, istituita da Niccolò V. Si decise sul momento di sistemare in locali appositi non già l’immane quantità di documenti (registri, rotoli di pergamena, diplomi imperiali e così via) che il papato aveva accumulato nei secoli, ma solo i pezzi archivistici più preziosi e ufficiali, che erano comunque tantissimi. Si trattava di un lavoro complesso e molto oneroso, perciò la supervisione venne affidata proprio al Platina, che raccolse in un codice diplomatico i documenti principali, trascrivendo per intero quelli che riteneva più interessanti. Il lavoro utilizzava lo spoglio realizzato verso il 1472 da Urbano Fieschi di Lavagna, già protonotaro apostolico, ma né il Fieschi né il Platina fanno cenno agli atti del processo templare13. 145­­­­

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Ciò non implica affatto che il fondo fosse andato smarrito; se una porzione abbondante di atti aveva trovato posto in Castel Sant’Angelo, il grosso dell’archivio papale rimaneva sull’altra sponda del Tevere, nel complesso dei Sacri Palazzi che proprio Sisto IV aveva fatto ampliare. Non esistevano indici o strumenti di ricerca paragonabili a quelli odierni, e per trovare un certo documento bisognava avventurarsi fra centinaia e centinaia di registri, sfogliare migliaia e migliaia di pagine. Paolo V, un giurista raffinato e consapevole di quanto fosse importante per il governo poter trovare in tempi rapidi un certo atto durante una controversia, si rese conto che era necessario raccogliere l’intera mole dell’archivio pontificio in una sede unica, e poi lavorare a redigere inventari accurati. La nascita ufficiale dell’Archivio Segreto Vaticano si pone infatti solo nel 1612, sotto il suo pontificato, e fu una decisione presa per fini amministrativi, non culturali. Già due anni prima il papa aveva assegnato tre nuove stanze agli appartamenti del cardinale bibliotecario nelle cosiddette Sale Chigiane dell’Archivio, che erano rimaste disabitate dal 1607, quando morì il titolare Cesare Baronio, grande studioso di storia ecclesiastica14. Le tre sale furono affrescate e munite di grandissime armadiature in pioppo, tuttora utilizzate per contenere i fondi di varie Nunziature e Legazioni Apostoliche; con altri colleghi, condivido il privilegio di avere la scrivania proprio in questo primitivo nucleo dell’Archivio. Pur formando una galleria, risultava comunque uno spazio irrisorio in confronto alla mole dei materiali da alloggiare, rimasti in altre sedi; in realtà sarebbero occorsi ancora decenni per la raccolta dei fondi più importanti, e secoli addirittura per raggiungere la struttura attuale dell’Archivio. Gli sforzi ingenti di Paolo V furono solo l’inizio15. Durante questo lungo processo di raccolta, i materiali ancora rimasti nelle diverse residenze usate dalla Santa Sede, fra cui Avignone, furono convogliati a Roma per entrare finalmente a far parte della nuova struttura. 146­­­­

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Cosa accadde al cofano verde che conteneva gli atti del processo ai Templari? QUANDO LA RICERCA TACE Nel 1628 Giovanni Battista Confalonieri, prefetto dell’archivio di Castel Sant’Angelo, redasse un inventario degli Armaria superiora collocati nella grande sala circolare16. L’antica fortezza di età romana, nata in realtà come mausoleo dell’imperatore Adriano e poi usata dai pontefici a scopo difensivo, ospitava una parte importante dell’archivio papale, in un contenitore che gli inventari del tempo chiamano scrinio ferrato, una specie di ancestrale cassaforte. Ancor oggi i visitatori di Castel Sant’Angelo, ormai di proprietà della Repubblica italiana, sono incuriositi dai possenti forzieri antichi che un tempo custodivano monete d’oro e gioielli; è comunque possibile che per scrinio ferrato si intendesse la stanza intera, visto che la chiude un pesantissimo portone di legno rinforzato da lamine di ferro con borchie, e solidi chiavistelli. La qualità degli atti lì custoditi, fra i quali numerosi privilegi imperiali muniti di grandi sigilli d’oro massiccio, giustificava quella cautela17. Numerose pergamene appartenenti al processo dei Templari compaiono nell’inventario del Confalonieri (nella sezione segnata Archivum Arcis, Armarium D, 207-230), che fornisce una descrizione del fondo molto stringata, ma abbastanza chiara da farci capire cosa aveva davanti l’archivista; però nel suo inventario non si menziona più il cofano verde: quindi l’unità era stata smembrata. Gli originali delle varie inchieste, per lo più rotoli di pergamena, risultano ancora presenti, anche se sono una minoranza rispetto a quelli che dovevano esistere agli inizi del Trecento. E non c’è più traccia dei fascicoli cartacei un tempo racchiusi in sacchetti di lino, secondo l’uso del tempo, che erano con ogni verosimiglianza le copie delle varie inchieste svolte nei regni cristiani e inviate alla Santa Sede. 147­­­­

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Alcuni frammenti di quelle copie cartacee li troviamo oggi rilegati con altro materiale eterogeneo nella serie dei Registri avignonesi, che sono in prevalenza codici fattizi di carta contenenti soprattutto documenti della Camera Apostolica frammisti a parti di registri di suppliche e altro materiale di risulta. Le rilegature sono moderne e la loro forma segue presumibilmente quella più antica, ma è possibile che da Avignone ritornassero in realtà tanti fascicoli sciolti, ancora da rilegare. Le difficoltà politiche del periodo avignonese, specie durante i primi due decenni, fecero sì che la documentazione venisse ammassata in condizioni precarie, sempre con l’idea che il papato stesse per tornare a Roma entro breve tempo. Questa fase caratterizzata dalla provvisorietà durò a lungo, circa settant’anni (1309-1378), durante i quali la Curia continuava a produrre una grande quantità di carte ogni singolo giorno; i funzionari facevano il possibile per tenere bene la documentazione antica, ma quella recente aveva la precedenza nei loro pensieri, perché lì c’erano scritti negozi politici, giuridici e diplomatici di viva attualità18. Quando nel febbraio 1374 Gregorio XI annunciò la ferma volontà di rientrare a Roma, i conflitti allora in atto consigliavano di rendere i preparativi per la partenza quanto più rapidi possibile, perciò i materiali accumulati dall’attività della Curia furono rilegati alla svelta, secondo criteri sommari. E molti altri, probabilmente, si decise di trasportarli esattamente com’erano, cioè ancora sciolti, chiusi nei sacchetti di tela19. Quando dunque fu aperto quel cofano verde in cui Clemente V aveva fatto racchiudere la scabrosa verità sul caso dei Templari? Non abbiamo certezze al riguardo; per il momento sappiamo soltanto che il fondo era unito e ben protetto dal contenitore ancora oltre la metà del XIV secolo, e che di esso invece non si fa più menzione negli inventari redatti in seguito. Per ritrovare cenni a quelle carte bisognerà aspettare quasi trecento anni. Cosa accadde? 148­­­­

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Il viaggio per tornare da Avignone fu lungo e travagliato, durò dal settembre 1377 al febbraio 1378 e fra l’altro venne funestato da varie tempeste20; forse la cassa di legno andò danneggiata durante le tante tappe del tragitto, ma questo non avrebbe comportato la perdita dei materiali, che potevano essere deposti in un altro cofano nuovo. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, l’ipotesi più probabile è che il fondo del processo ai Templari tornò in Vaticano molto tempo dopo il rientro dei papi a Roma, compreso in quella parte dell’archivio pontificio che era rimasta in Avignone perché, tutto sommato, conteneva documenti meno necessari al governo e alle necessità correnti della Chiesa. Il silenzio del Platina potrebbe non dipendere soltanto dal fatto che entrare nell’argomento poteva comportare una digressione eccessiva nel suo già titanico lavoro sulle vite dei pontefici; forse il motivo è più semplice: il bibliotecario papale non aveva fisicamente a disposizione i documenti del processo. Il grande cofano verde chiuso dai funzionari di Clemente V e non più aperto per molto tempo in qualche modo è la chiave per capire come nacque la leggenda nera dei Templari. Proprio nel lasso di tempo che corre dall’inventario avignonese a quello del Confalonieri (dalla fine del Trecento ai primi decenni del Seicento), nel pensiero collettivo d’Europa prese corpo il mito oscuro intorno all’ordine estinto. Per essere più precisi, il materiale già esisteva, perché l’immaginario collettivo era già stato ampiamente impressionato dalla strategia diffamatoria del processo, dai verbali dell’Inquisizione; solo che in quel periodo la questione ricevette, per così dire, dignità letteraria, sancita nelle opere di uomini illustri che erano intellettuali molto in vista e – almeno due di loro – giudicati molto esperti in fatto di cose occulte. La leggenda nera uscì dalle speculazioni teosofiche di uomini come Agrippa e Giordano Bruno, mentre gli intellettuali, tra i quali il Platina, si trinceravano dietro un giudizio laconico e ambiguo, dal sapore fortemente reticente. Ma 149­­­­

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quella stessa reticenza da parte del Platina, colui che si presumeva sapere tutto perché custode dei segreti pontifici, era una specie di omertà colpevole che avvalorava con il silenzio le suggestioni tenebrose circolanti. Il mito dunque nacque proprio nell’epoca in cui la ricerca decadde perché si verificò questa «scomparsa» delle fonti d’archivio; verrebbe da pensare che le due cose siano in stretta relazione fra loro. Quanto alla permanenza di quel cofano verde lontano da Roma, sarebbe molto interessante capire la dinamica di questo ritardo; ci fu un criterio in base al quale certi fondi dell’archivio papale vennero riportati a Roma subito, alla fine del Trecento, e altri invece restarono per così dire in esilio ancora per molto tempo? Per ora non possiamo rispondere, e l’idea pragmatica che si facessero arrivare subito i fondi necessari al governo della Chiesa, come i registri pontifici e i materiali più recenti, tralasciando invece gli altri, non sembra soddisfare del tutto; non si capisce, per esempio, quale utilità corrente potessero avere degli antichissimi privilegi apostolici, scritti addirittura su papiro, risalenti all’epoca carolingia, fra i quali ce n’era uno, emanato da un papa di nome Sergio, dove ormai la scrittura nemmeno si leggeva più. Eppure questi cimeli figurano con altri documenti per così dire «inutili» nell’inventario del 1472, probabilmente scritto da Urbano Fieschi21. In attesa che la ricerca ci dia maggiori certezze, vale la pena ricordare un fatto simile avvenuto circa due secoli dopo, una curiosa «detenzione» di alcuni documenti che forse può offrirci spunti interessanti. L’archivio pontificio subì infatti una seconda deportazione agli inizi dell’Ottocento, dopo che Napoleone occupò Roma e prese in ostaggio papa Pio VII. Durante la sua permanenza in Parigi il fondo del processo ai Templari venne sottoposto a una nuova catalogazione difforme rispetto a quella originaria: lo si vede dalla segnatura formata da tre E maiuscole in sequenza che ancora si legge sul verso di alcune pergamene 150­­­­

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(EEE), la quale non si ritrova in tutti i pezzi membranacei, né sui registri formati da fascicoli di carta (a meno che, ovviamente, non fosse stata apposta sulla rilegatura esterna). Poi Pio VII tornò a Roma e, dopo di lui, anche i documenti del papato. Con la Restaurazione e il ritorno in Vaticano i documenti furono ricollocati al loro antico posto; l’apertura al pubblico dell’Archivio Segreto, voluta da papa Leone XIII ed avvenuta nel 188122, rese necessari ampi lavori di risistemazione dei vari fondi; e così, fra il 1909 e il 1912, l’archivista Vincenzo Nardoni realizzò un nuovo, dettagliato inventario dei materiali custoditi nell’Archivio di Castel Sant’Angelo, al quale il fondo super processu Templariorum apparteneva dal 1628. Purtroppo, il Nardoni dovette constatare che diversi pezzi contemplati negli inventari antichi mancavano ormai da molto tempo23. Gli uomini dei secoli andati nutrivano per i Templari una curiosità nient’affatto inferiore a quella del nostro tempo. Cercavano di raggiungere i documenti laddove erano deposti. Frugavano, consultavano; e, quando possibile, ne sottrae­ vano dei pezzi. Vediamolo in dettaglio. DI NUOVO IN FRANCIA! Nel febbraio 1810, in una Roma avvilita dall’assenza del papa – Pio VII era stato deportato dai soldati francesi nell’estate precedente –, si diffuse una notizia sconcertante: Napoleone aveva emanato un decreto sull’occupazione degli archivi pontifici. Insieme alle migliaia di volumi antichi e rari della Biblioteca Apostolica, i documenti che i papi avevano accumulato per quasi duemila anni dovevano viaggiare fino a Parigi. Il Bonaparte intendeva alloggiarli a Palazzo Soubise, in attesa di farli confluire nel grande Archivio Centrale dell’impero, situato nel Campo di Marte24. Quando già le molte migliaia di libri, pergamene e faldoni erano state sistemate e il convoglio si preparava a lasciare l’Urbe, due generali francesi pretesero di schiodare le casse, 151­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

cercando oggetti particolari. Così narra l’evento don Marino Marini, che affiancava lo zio Gaetano, allora prefetto dell’Archivio Pontificio e di Castel Sant’Angelo: S’incominciarono ad incassare i Volumi delle Bolle; il Padre Altieri ed io presedevamo a questa operazione, previo il permesso di Monsig. Maggiordomo; e se allora i nostri occhi non si sciolsero in lagrime, cagion ne fu lo smarrimento che impediva dar luogo a riflessione. Miollis chiese la Bolla di Scomunica contro Napoleone: Radet fece ricerca de’ processi dei Templari: Altieri credé non dover ricusar loro que’ documenti: e come negarli, se gli Archivi interi erano in potere della forza loro?25

Così dunque le casse già stipate di volumi e faldoni vennero buttate all’aria sotto lo sguardo degli interdetti funzionari apostolici. Miollis trovò e requisì la bolla Quum memoranda (10 giugno 1809) con la quale il Bonaparte era stato estromesso dalla comunione della Chiesa, mentre il barone Radet s’impadroniva degli atti che formavano il complicato affaire del Tempio. I documenti templari appartenevano a una lista che comprendeva anche gli atti del processo a Galileo Galilei e il celebre Liber diurnus, ovvero il più antico repertorio di formule in uso nella Cancelleria apostolica26. Questi pezzi erano oggetto di speciali direttive imperiali: viaggiarono in un plico separato, una sorta di ‘scrigno’ archivistico per una selezione di testimonianze giudicate di valore nettamente superiore al resto. Il pacco era diretto a un esponente di primo piano nel governo napoleonico, il ministro dei Culti conte Bigot de Préameneu, il che farebbe supporre che i pezzi isolati servissero per imbastire una qualche strategia politica sui rapporti fra potere laico e religioso27. A muovere il Miollis erano istanze squisitamente politiche; sequestrando un documento così compromettente, eliminava le tracce di una condanna apostolica capace di ledere l’autorità del potere imperiale o, quanto meno, di porlo in serio imbarazzo. Benché in un contesto sociale e culturale come quello che regnava in Francia dopo l’Illuminismo e 152­­­­

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la Rivoluzione, il Bonaparte desiderava passare per un capo carismatico; non era un obiettivo facile da raggiungere se il Vicario di Dio in terra, come il papa continuava ad essere largamente considerato dalla gente comune, vi si opponeva lanciando contro l’imperatore addirittura un anatema. In fin dei conti, Napoleone aveva preso la corona imperiale in Notre-Dame a Parigi, cuore ecclesiastico della Francia e simbolo della sua spiritualità; era accaduto in presenza del sommo pontefice romano, che aveva benedetto le sue insegne con una ritualità in fondo non troppo distante – mutatis mutandis – da quella con cui i vescovi dell’alto medioevo benedivano le armi imperiali28. La consegna data al Miollis circa la Quum memoranda è perciò facilmente comprensibile, forse addirittura scontata; non altrettanto si può dire per l’altra ricerca, quella compiuta dal barone Radet. Aveva anch’egli ricevuto precise istruzioni da Parigi o invece agiva di sua iniziativa, sfruttando l’intervento dell’altro generale che andava buttando all’aria i documenti ormai stipati nelle casse? La mole dell’archivio papale era già a quel tempo impressionante, e annoverava testimonianze di enorme valore storico, oltre a un numero considerevole di diplomi imperiali capaci di apparire preziosi anche ai profani perché portavano appesi pesanti sigilli d’oro. Eppure, il barone francese non se ne curò. Solo gli atti del processo ai Templari sembravano rilevanti. Per quanto sappiamo, il generale Radet non sequestrò l’intero fondo che portava il titolo super processu Templariorum. Requisì soltanto il pezzo che aveva un aspetto più appariscente, che dunque ai suoi occhi poteva verosimilmente contenere le informazioni principali: è il grande rotolo lungo oltre 50 metri con gli atti dell’inchiesta tenuta in Parigi da alcuni commissari apostolici nel 1310-1311, derivato dalle minute originali usate dai funzionari di cancelleria di Filippo il Bello29. Lo storico sa bene che i documenti preparatori, ad esempio le minute ricche di correzioni e note marginali, offrono 153­­­­

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molte più informazioni rispetto all’atto originale, la ‘bella copia’ passata attraverso tante revisioni che hanno eliminato quanto non doveva essere detto per ragioni spesso legate all’ideologia o alla diplomazia; ma il generale non era uno storico. Il gran rotolo di Castel Sant’Angelo, così voluminoso e inconsueto, era sempre stato custodito nei fondi pontifici, sostanzialmente inaccessibili; ciò bastò a Radet per arguire che proprio lì dentro, in quel lunghissimo involto scritto in un’antica grafia impenetrabile ad un occhio profano, fossero racchiusi contenuti di carattere misterioso. Fosse stato un po’ più esperto di storia templare, avrebbe potuto risparmiarsi la fatica del sequestro; le risultanze processuali erano reperibili anche a Parigi, e in abbondanza. L’udienza testimoniata dal grande rotolo vaticano si trova infatti anche nel manoscritto latino 10919 della Bibliothèque Nationale, di cui Jules Michelet fornì l’edizione a metà Ottocento. È una copia cartacea autenticata che originariamente si custodiva nel tesoro di Notre-Dame; nel secolo XVI, secondo Michelet, apparteneva alla biblioteca di Barnabé Brisson, nominato presidente del Parlamento nel 1589, per poi passare nelle mani di M. Servin e in seguito di Achille Harlay de Sancy, che verso la metà del XVIII secolo lo consegnò ai benedettini di Saint-Germain-des-Prés. Fortunatamente scampato all’incendio che colpì l’abbazia nel 1793, il manoscritto entrò nella Bibliothèque Royale, nel fondo Harlay n. 4930. Sempre a Parigi, presso gli Archivi reali, si trovava anche il ponderoso rotolo di pergamena, composto da 44 membrane e lungo oltre ventidue metri (m 22,37x0,38), contenente le confessioni rilasciate dai Templari di Parigi subito dopo l’arresto, nell’ottobre 1307, e numerosi altri documenti processuali. Queste antiche testimonianze sui Templari restavano comunque oggetti noti agli studiosi, a quella cerchia di persone che conoscevano i fondi di archivi e biblioteche, che sapevano decifrare le complesse scritture medievali e che si riunivano in simposi e accademie. I profani, i dilettanti e gli autodidatti 154­­­­

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non potevano che fissare con ammirazione e cupidigia quelle pagine più o meno indecifrabili, lasciando che la fantasia corresse a briglia sciolta colmando a furia di congetture le inevitabili lacune dovute alla loro ignoranza. Il barone Radet era un uomo di guerra, non di lettere; al grande rotolo vaticano, rimasto inviolato per secoli, guardava già con gli occhi pieni di leggenda. IL FASCINO IRRESISTIBILE DEL SEGRETO Nella capitale francese si poteva anche reperire un’autentica rarità: un codice degli Statuti templari, appartenuto alla raccolta privata del cardinal Mazzarino31. L’eminente porporato che aveva legato il proprio nome a quello della Francia non era certo il solo cui la ricchezza e il potere avessero concesso il lusso di procurarsi uno dei rarissimi codici originali appartenuti all’ordine del Tempio. In tutta Europa (e non solo) i manoscritti appartenuti ai misteriosi frati guerrieri erano molto ricercati nel circuito del mercato antiquario; immaginati come arcani repositori di segreti, erano ancora più ambiti in quanto ne esistevano solo pochissimi esemplari. Già nel medioevo la loro circolazione era stata limitata in modo drastico; per tutelare il rigido segreto che circondava la vita dell’ordine come una muraglia era vietato a tutti i membri possedere anche solo brevi estratti della normativa, che solo i precettori e i dignitari con funzioni di comando potevano custodire. A suo tempo, la strategia di Nogaret aveva sapientemente sfruttato il fatto che ne esistessero pochissimi manoscritti. Gli esemplari oggi noti sono legati a nomi di uomini celebri e famose dinastie. Uno dei più importanti si trova a Roma, presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, dove giunse dalla raccolta privata del principe Corsini32; se ne conoscono altri a Londra, proprietà di sir Robert Bruce Cotton (15711631) e Henri Savile (1549-1622), a Praga33, dal fondo del diplomatico ceco Lobkowicz, collezionista di Rudnicz alla fine 155­­­­

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del secolo XVIII34, a Baltimora, appartenuto a Jean-Baptiste Barrois di Lille (ca. 1785-1855)35, e potrebbero esistere altri ancora, magari non noti alla comunità scientifica. Il prezzo di questi codici doveva essere ingente, probabilmente superiore a quello di altri manoscritti ugualmente antichi, ma di contenuto diverso; il nome dei possessori mostra chiaramente che si muovevano nell’ambiente delle élites sociali. Nel manoscritto Cotton gli Statuti del Toson d’Oro seguono il testo latino della regola templare; il codice venne chiaramente assemblato in un milieu di facoltosi nobili eruditi, appassionati di questioni cavalleresche. L’alta società dei secoli XVII e XVIII nutriva una specie di mania per la cavalleria medievale; in Epernay, nel 1737, il cavaliere scozzese Andrew Michael Ramsay tenne un celebre discorso presso la loggia massonica San Giovanni, nel quale asseriva che le origini della massoneria dovevano rimontare ai tempi delle crociate. In quel momento le logge massoniche, attive già da molto tempo, vivevano il passaggio dalla cosiddetta massoneria operativa, formata cioè da corporazioni di artigiani, a quella speculativa, che attirava membri della nobiltà e della maggiore borghesia; Ramsay non aveva fatto nessun cenno ai Templari, ma la possibilità che le origini massoniche fossero nobili ed elevate seduceva profondamente i sodali di illustre estrazione sociale, molto più che non la certezza di derivare da una specie di sindacato operaio ante litteram. La suggestione lavorò nella cultura del tempo; e supponendo che la prima massoneria fosse stata composta da nobili cavalieri, sembrava scontato che fra loro ci fossero i Templari, il nerbo della cavalleria crociata36. L’idea ebbe sviluppi ulteriori in Germania, dove i massoni ripresero la teoria di Ramsay ricavandone una specie di equazione lineare: visto che i Templari avevano occupato il Tempio di Salomone, luogo denso di mistero e di magia, era impossibile che non si fossero impadroniti di particolari conoscenze occulte ancora custodite in quel luogo speciale. 156­­­­

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In questo modo, l’antico ordine del Tempio fu identificato con il nucleo originario dell’ideale massonico. La tradizione massonica ha del resto un concetto proprio della storia, nel quale non è possibile addentrarci perché comporterebbe una lunga digressione; in breve, attribuisce al mito grande dignità e valore considerandolo un prezioso repositorio di verità nascoste, benché frammiste a una certa parte di invenzioni37. In Francia, più che altrove, il revival dei Templari era vissuto con un deciso sentimento di appartenenza nazionale. Non era forse a Parigi che il potente ordine aveva edificato il suo quartier generale d’Occidente? Non era a Parigi che l’eroico Gran Maestro Jacques de Molay aveva trovato la morte sul rogo? E Filippo il Bello, il grande nemico del Tempio, non regnava forse sul trono di Francia? Napoleone era molto attento a ciò che si muoveva intorno ai Templari, vuoi per un sincero interesse personale, vuoi per opportunismo politico. Ne abbiamo la prova grazie a un fatto alquanto curioso, che accadde mentre l’imperatore si trovava sul campo di Pultusk, alla vigilia della battaglia che lo avrebbe condotto al culmine della sua ascesa. Si avvicinava il Natale dell’anno 1806, quando il Bonaparte ricevette un dispaccio da un funzionario di Polizia che gli scriveva da Parigi per inviargli il testo di un’opera teatrale scritta da un avvocato francese appassionato di studi storici, tale François Raynouard. Era una tragedia intitolata Les Templiers, e metteva in scena la drammatica fine dell’ordine secondo una lettura che oggi diremmo filologica, cioè basata sul dettato delle fonti antiche. Una visione molto lontana dall’immagine leggendaria in voga in quegli anni; deprivata di ogni mistero, spogliata del suo immancabile alone magico, la versione del Raynouard riduceva l’intera vicenda del processo a una prosaica questione di denaro. La ragion di Stato contro la giustizia; la forza bruta e la tortura assurte al rango di mezzi leciti per ottenere una vittoria necessaria alla sopravvivenza della Francia. Napoleone rispose al suo sottoposto che l’opera non gli spiaceva, ma biasimava l’autore per il modo in cui aveva 157­­­­

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trattato il personaggio di Filippo il Bello; non era opportuno, secondo il Bonaparte, sottolineare in modo così aperto il ricorso alla tortura. Raynouard avrebbe dovuto dipingere il sovrano con tinte meno fosche, come un uomo che un tragico destino costrinse a compiere gesti estremi. Forse Napoleone cominciava a provare ammirazione verso Filippo il Bello, e in capo a qualche anno ne avrebbe emulato – stavolta con successo – l’impresa di arrestare il sommo romano pontefice per deportarlo in territorio francese; è verosimile che l’imperatore volesse essere avvisato di tutto ciò che riguardava i Templari, se l’intendente decise di inviargli il testo di quell’opera teatrale, che lui lesse nel gelo dell’accampamento alla vigilia di Pultusk, onde poi spedire subito a Parigi le relative disposizioni. Perché tale premura? La risposta, ovviamente, non aveva a che fare con questioni soltanto culturali. IN CERCA DELLE PROPRIE RADICI Il 18 marzo 1808, anniversario del giorno in cui quasi cinquecento anni prima era stato giustiziato l’ultimo Gran Mae­stro, fu celebrata una solenne messa di requiem in onore di Jacques de Molay nella chiesa parigina di Saint-Paul, vicina al luogo dove il capo dei Templari era stato tenuto prigioniero. La cerimonia era voluta dal gruppo neotemplare dei Chevaliers de la Croix, un’organizzazione abbastanza presente a Parigi e sul territorio francese, fondata nel 1805 dal Grande Oriente di Francia; scopo dell’organizzazione era ricostituire l’antico ordine del Tempio, che secondo i Cavalieri ben presto sarebbe ritornato alla luce del sole. Ne era Gran Maestro BernardRaymond Fabré-Palaprat, un uomo di estrazione modesta, nato a Cordes (Tarn) nel 1775, che aveva trascorso alcuni anni in seminario a Cahors, per poi abbandonarlo e dedicarsi agli studi scientifici. Con lui c’erano diversi sacerdoti cattolici, come Lacossey, Vié-Césarini e Châtel, oltre all’anziano abate Pierre Romains-Clouet, insignito del titolo di canoni158­­­­

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co a Notre-Dame e di primate dell’ordine; formavano una Chiesa autonoma, in rotta con quella cattolica, poiché già Clemente XII aveva sancito la scomunica contro chiunque aderisse alle logge massoniche (In eminenti, 28 aprile 1783), e la censura era stata ribadita da Benedetto XIV (Providas, 17 maggio 1751) e in seguito anche da Pio VII. Gli ufficiali indossavano sontuosi costumi di ispirazione medievale, ed esibivano reliquie introvabili, come le ossa del Gran Maestro Molay o la spada del Delfino d’Alvernia, che allora si riteneva essere morto sul rogo con lui38. Molti fra i Chevaliers de la Croix appartenevano alla più alta nobiltà di Francia, e non è un caso se, come si dice, alla cerimonia presenziò in veste semiufficiale un distaccamento delle truppe imperiali. Secondo Peter Partner, il governo forse incoraggiò i neotemplari per dare maggiore lustro alle associazioni massoniche che potevano risultare utili; nonostante il fasto delle liturgie, e l’aspetto sontuosamente cattolico delle cerimonie, il gruppo di Fabré-Palaprat perseguiva ideali politici, più che religiosi. Inoltre, aveva due assi nella manica capaci di conferirgli un prestigio fuori dal comune, e di conseguenza, una maggiore potenza di attrarre persone facoltose, nobili, influenti39. Nel 1804, dunque un anno prima che il Grande Oriente di Francia riconoscesse i Chevaliers come una propria branca, un membro del gruppo, Charles Ledru, rese nota agli altri l’esistenza di una testimonianza straordinaria, capace di provare che l’ordine dei Templari non si era affatto estinto con il processo: al contrario, era sopravvissuto alla censura della Chiesa, vivendo per secoli in clandestinità. Il possessore di questa testimonianza straordinaria era figlio del dottor Nicholas Ledru, persona ben nota a Parigi e anche stimata; era stato archiatra del defunto Luigi XVI, e teneva aperta una bottega dove vendeva pregevoli giochi di illusionismo e automi di sua invenzione, richiesti dai ricchi clienti per animare le proprie serate in società. La prova presentata da Charles Ledru era una pergamena 159­­­­

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che recava la data dell’anno 1324 e risultava scritta su ordine di un certo Iohannes Marcus Larmenius, Gran Maestro dei Templari dopo Jacques de Molay e da lui designato per continuare l’ordine; dal nome latinizzato del personaggio, il documento è noto come Carta di Larmenius. L’atto conteneva una lista dei Gran Maestri, i quali avevano addirittura apposto la propria firma autografa; e il successore di Larmenius, Thomas Theobald di Alessandria, appena assurto al magistero aveva lanciato l’anatema contro i Templari scozzesi, in tal modo privati di ogni legittimità. L’autore sarebbe stato dunque un templare di origine orientale, più precisamente armena, come il nome sembra indicare (Larmenius come possibile corruzione dal latino armenus?), compagno di prigionia dell’ultimo Gran Maestro Molay nei mesi prima del rogo. Da Molay, l’armeno avrebbe ricevuto il mandato di continuare l’ordine del Tempio, nonostante il processo e il decreto papale che lo scioglieva. Ma chi era costui? Sappiamo che i Templari avevano molte installazioni in Armenia, una regione di transito verso la Terrasanta, e dunque preziosa per ragioni strategiche. Una provincia con questo nome compare negli Statuti gerarchici, la parte più antica della normativa templare, e questa terra mantenne sempre stretti rapporti con l’ordine, fino alla sua fine. Ancora nel 1306, Jacques de Molay si faceva latore presso papa Clemente V di certi timori che gli armeni nutrivano nei confronti di re Filippo il Bello e che gli avevano confidato: il sovrano aveva preso solennemente la croce per emulare suo nonno Luigi IX, il re santo, morto a Tunisi nell’agosto 1270 proprio mentre stava cercando di riscattare Gerusalemme. Tuttavia, gli armeni temevano che i francesi covassero la segreta intenzione di attaccarli e conquistare le loro fortezze, anche se erano cristiani come loro. Che ai tempi del processo l’ordine del Tempio contasse uomini di origine armena è non solo plausibile, ma anche molto probabile; può darsi che ve ne fosse qualcuno di nome 160­­­­

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Marco. Oltre questi punti fermi, ci si sposta su un terreno minato dall’incertezza, per il quale le fonti non offrono elementi di prova. Non risulta nessun frate con questo nome fra gli uomini che comparvero al processo, di cui oggi conserviamo un migliaio di testimonianze. Alcuni documenti del processo sono sicuramente andati smarriti nel corso dei secoli: come già detto, l’Archivio Segreto Vaticano ne lamentava la scomparsa già nell’inventario del Nardoni nel 1912. Sappiamo inoltre che molti Templari si sottrassero alla cattura con la fuga, specie fuori dai confini della Francia, dove i governanti non avevano la stessa urgenza di Filippo il Bello di impadronirsi degli uomini e sequestrare i loro beni. Sparsi fra l’Europa e il Medio Oriente, i Templari erano sicuramente più di quelli processati; di molti non abbiamo notizie. L’abate Ludolfo di Sudheim, viaggiando in Terrasanta verso la metà del Trecento, ebbe la ventura di incontrare lungo le rive del Mar Morto due uomini anziani che erano stati Templari; avevano mogli e figli, vivevano lavorando al servizio del sultano, erano tagliati fuori da qualunque comunicazione con l’Occidente, al punto da non sapere nemmeno che l’ordine del Tempio era stato processato e poi sciolto40. In lande sperdute dell’Europa, possiamo ragionevolmente presumere che dopo il 1312 ci fossero molti altri ex Templari dediti a vita privata, come i due che incontrò l’abate Ludolfo; però questo compagno del Gran Maestro è collocato a Parigi, visto che la Carta di Larmenius descrive un legame forte di familiarità fra loro due, stretto nella comune prigionia poco prima del rogo. Non è facile trovare un argomento per giustificare come mai questo templare vivesse nella stessa cella di Molay e non comparisse fra gli interrogati; magari in futuro la ricerca ci darà risposte, ma per il momento non appaiono ragioni plausibili. Sappiamo anche che ogni Gran Maestro si sceglieva alcuni collaboratori più stretti, uomini più fidati, ai quali si rivolgeva per chiedere consiglio in momenti di dubbio; sono i compa161­­­­

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gnons dou Meistre, in genere in numero di due. Nella scelta contavano motivazioni militari o magari di tipo personale, mentre il rango che questi cavalieri occupavano nelle gerarchie templari non era determinante. Erano uomini che avevano legami personali con il capo dell’ordine, di confidenza e fiducia reciproca. Vediamone qualche dettaglio. Nell’estate del 1308, dopo otto mesi di un’aspra guerra diplomatica tra re Filippo il Bello, che chiedeva una condanna immediata dei Templari per eresia, e papa Clemente V, che non voleva emettere alcuna sentenza prima di aver potuto interrogare i prigionieri, il sovrano finalmente concesse che una minoranza di Templari raggiungesse la città di Poitiers, dove si trovava allora la Curia romana. Lo scopo era quello di comparire al cospetto del pontefice, che voleva imbastire un’inchiesta della Chiesa sui Templari inquisiti; per boicottare la validità del processo pontificio, il Nogaret fece fermare presso il castello di Chinon lungo la Loira il Gran Maestro Molay e un gruppo di dignitari più importanti che viaggiavano con lui. Il motivo addotto era probabilmente un pretesto: i Templari erano in uno stato di salute così penoso che non ce l’avrebbero fatta a cavalcare. Poiché non si poteva impedire al papa di tenere la sua udienza, la si decurtava e decapitava, facendo in modo che Clemente V non potesse fisicamente raccogliere le testimonianze dei capi, gli uomini al vertice, quelli che più contavano e dunque più sapevano. Tra i sequestrati a Chinon troviamo il Visitatore d’Occidente Hugues de Payraud, il secondo in ordine gerarchico dopo il Gran Maestro; e poi Jeoffrey Gonneville, Precettore delle due province di Aquitania e Poitou, Geoffroy de Charny, Precettore della Normandia, Raimbaud de Caron, Visitatore di Outremer, cioè i possessi templari in Oriente. In precedenza, durante un celebre interrogatorio, Molay aveva parlato a nome suo e di altri quattro confratelli cavalieri: oltre al già citato Geoffroy de Charny, il gruppo era formato da Gérard de Gauche, Guy Dauphin e Gautier de 162­­­­

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Liencourt. Guy Dauphin era un uomo di alto lignaggio, della famiglia dei conti di Alvernia, gli altri invece non rivestivano incarichi di comando e non avevano altro motivo di figurare in questa compagnia se non l’amicizia personale con Molay. In questo gruppo di uomini più vicini al Gran Maestro non sembra trovarsi un templare di nome Larmenius, o di origini armene. Se è esistito davvero, questo personaggio non rivestiva un ruolo particolare nel quadro dell’ordine41. Questo ipotetico Marcus Armenus è dunque una figura storica in sé plausibile, però non possiamo seguirne le tracce, né ci risulta trovarsi nella cerchia di uomini che ebbero un rapporto speciale con l’ultimo Gran Maestro Jacques de Molay. Potrebbe trattarsi di un personaggio letterario, per così dire, nel quale si cela il ritratto di un soggetto reale, ma con altro nome. La congettura ha senso, ma non va scambiata per una certezza. In ogni caso, nel concilio di Vienne Clemente V proibì a chiunque, sotto pena di scomunica latae sententiae, di usare ancora il nome, i simboli e le prerogative che erano stati dei Templari. Se anche Molay avesse voluto dare continuità al suo ordine, ciò che poteva consegnare ai compagni era una specie di testamento spirituale, un mandato morale, non certo giuridico. LA CARTA DI LARMENIUS, UN «FALSO ONESTO» In breve, il profilo storico di questo Marco Armenus si presenta incerto; lo storico dev’essere abbastanza onesto da ammettere che non ne sa nulla. La Carta è generalmente ritenuta un manufatto tardo in forza di certi argomenti. Il latino usato non sembra lo stile corrente nel medioevo; la lista dei Gran Maestri succeduti a Larmenius nella vita clandestina dell’ordine annoverava, ai primi del secolo XVIII, uomini con nomi e titoli dei principi borbonici; i personaggi contro i quali si lanciava la scomunica appartenevano a un gruppo neotemplare tedesco, i Templari 163­­­­

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della Stretta Osservanza, fondato nel 1751 dal ricco proprietario terriero Karl Gotthelf von Hund, un personaggio che per un certo tempo aveva avuto un ruolo di spicco nell’apparato della massoneria tedesca. La scomunica sancita nella Carta di Larmenius doveva dunque esautorare e togliere legittimità a un gruppo neotemplare concorrente, molto diffuso nelle regioni dell’Europa orientale, potente, e con il pregio di essere più antico (anche se di poco) rispetto ai Chevaliers de la Croix. A me è sembrata un manufatto del primo XIX secolo per i suoi caratteri estrinseci (pergamena, miniatura, ecc.), che ho potuto esaminare direttamente grazie alla cortesia della Mark Mason Hall; quanto allo stile del latino, va ricordato che la Carta contiene una grande quantità di simboli supposti essere un codice alfabetico, di cui a fine Ottocento è stata tentata un’interpretazione. Possiamo prenderla per buona, finché non se ne avrà uno studio soddisfacente, ma con estrema cautela: siamo lontani da quel metodo critico che ci permetterebbe davvero di discettare sullo stile del latino. La Carta di Larmenius viene etichettata come un falso; il termine è grossolano e impreciso, però è utile usarlo affinché il lettore non pensi di avere a che fare con un oggetto del medioevo. Per gli specialisti di documenti ha un profilo diverso, è una ricostruzione interpretativa che voleva riprodurre un atto precedente, creduto autentico e andato perduto. Nessun falsario, per intenderci, penserebbe di spacciare come trecentesca una pergamena in cui sono scritte date che risalgono anche al Quattrocento, Cinquecento, Seicento e così via, perché ciò trasgredisce ogni logica. Un falsario deciso a far circolare un credibile atto legato a Jacques de Molay lo avrebbe senza dubbio datato al 1314, anno della sua morte, di cui era sicura anche la gente del popolo per la singolare circostanza che aveva visto morire nello stesso anno re Filippo il Bello, il grande nemico dei Templari abbattuto dalla maledizione. Invece la Carta di Larmenius pone la fondazione di questa continuità templare nel 164­­­­

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1324, molto tempo dopo la morte di Molay, in un anno che con l’ultimo capo templare non ha proprio nessun legame. Tecnicamente la Carta appartiene alla categoria di documenti che in diplomatica si chiamano «falsi onesti»: sono atti prodotti senza volontà di frode e in genere per autodifesa, che spesso inseriscono elementi nuovi in un testo autentico, preso da documenti più antichi. Ricorrevano a questo espediente, ad esempio, le abbazie del medioevo quando dichiaravano di essere sotto la speciale protezione apostolica per sottrarsi agli abusi di qualche prepotente signore laico, perché in tal modo gli lasciavano credere che stava rischiando la scomunica42. La Carta di Larmenius non venne mai usata né esibita per rivendicare diritti o possessi, poterla vedere rimase un privilegio dei sodali appartenenti alla loggia dov’era custodita; qualunque cosa ci fosse scritta sopra, serviva unicamente a soddisfare il desiderio di legittimità di chi la deteneva. Nel corso del Novecento, i custodi si sono rivolti a diversi esperti di storia e di antichità per una valutazione del reperto, ricevendo parere pressoché unanime che lo riferisce all’età contemporanea; questo giudizio è stato accolto e reso pubblico, senza nessun tentativo di occultare le testimonianze di un parere sfavorevole all’antichità del pezzo. Sia la Carta sia i documenti che ad essa si riferiscono sono accessibili agli studiosi professionisti (non certo ai curiosi) che fanno domanda di esaminarli43. La cosa che le somiglia di più in assoluto è lo stemma genealogico di una famiglia nobile decisa a ricostruire il proprio lignaggio fino ad epoca remota. Serve solo per l’orgoglio dinastico; e tanto più indietro si va nei secoli, tanto più incerto è il profilo dei rami. Charles Ledru era probabilmente un personaggio equivoco, che ingannò Fabré-Palaprat e i suoi compagni per ottenere denaro e un ruolo influente nella loro organizzazione, con tutti i vantaggi connessi; ma nella Carta di Larmenius ci sono dettagli interessanti che meriterebbero attenzione. 165­­­­

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Nessuno finora si è applicato a studiare questo documento; non sarà una pergamena medievale, ma resta comunque importantissimo nella storia della cultura, e una vera chiave di volta per capire il percorso della leggenda templare. Nella sequenza dei Gran Maestri figurano molti personaggi; sono nomi di fantasia, oppure tratti da documenti reali per dare al tutto una maggiore solidità storica? È possibile che qualcuno, non lo stesso Ledru, abbia compiuto ricerche storiche convinto in buona fede che il glorioso ordine dei Templari potesse realmente essere sopravvissuto al processo; possiamo immaginarlo come uno dei tanti aristocratici del Seicento o inizi Settecento che subivano l’enorme fascino del revival cavalleresco. In quei decenni fiorivano le ricerche degli eruditi che si appassionavano di tanti temi diversi e li indagavano con i mezzi a loro disposizione; per citare un uomo illustre, un ingegno davvero poliedrico, si può chiamare in causa il gesuita Athanasius Kircher, che si occupò anche di Atlantide e cercò di decifrare il misterioso linguaggio dei geroglifici. Fra questi esploratori di fondi d’archivio e di biblioteca c’era anche il nostro ignoto studioso che cercava prove per affermare che i Templari in realtà non si erano mai estinti; la continuità e la sopravvivenza occulta dell’ordine sono esigenze che emergono nel Settecento, per quanto sappiamo, mentre prima chi aveva parlato dei Templari li riteneva comunque un fatto del passato. Questo sconosciuto erudito raccolse un nucleo di fatti rea­li, li accostò e li mise in relazione fra loro forse con poco scrupolo critico, in una sequenza che sembrava accettabile per i criteri del tempo: del resto, persino il metodo storico dei maggiori studiosi, come Baronio o Lucas Holstein, non regge nell’ottica attuale. Da un piccolo nucleo di notizie vere, di cui ora nulla sappiamo, i neotemplari di fine Settecento edificarono un castello di illazioni immaginando che Molay avesse passato al giovane compagno il suo titolo magistrale e l’incarico di perpetuare l’ordine già ufficialmente abolito. 166­­­­

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Non possiamo escludere che Marco l’Armeno o chi per lui, un templare realmente vissuto, abbia deciso a una certa età di raccogliere attorno a sé un gruppo di ex commilitoni superstiti, credendo in ciò di onorare la memoria e le ultime volontà di Jacques de Molay. Sappiamo che questo in Spagna accadde sul serio, e ce lo dicono fonti autentiche e indiscutibili; i Templari del regno aragonese tornarono laici, dopo la fine del processo, e mantennero comunque legami fra di loro. Così può essere stato anche altrove, ma si trattava comunque di associazioni private che non avevano un profilo istituzionale, una realtà ben diversa dall’ordine militare e religioso del Tempio che era stato un pezzo della Chiesa cattolica. La Carta fu dunque costruita, o meglio ricostruita, partendo da un briciolo di verità. Con lo stesso criterio nell’Ottocento si edificavano castelli rifatti come si immaginavano essere quelli antichi, senza seguire un progetto o un disegno autentico, ma secondo il gusto e le esigenze del momento. Sotto l’alzato recente – sostanzialmente un prodotto della fantasia – giacevano fondamenta antiche. Di modestissima entità, ma comunque vere. UNA MODA PER L’ALTA SOCIETÀ L’interesse verso i Templari era anche una moda, non fosse altro che per emulare Napoleone, noto appassionato del tema44. Raynouard aveva consultato i verbali originali del processo, i documenti vaticani allora stipati in Palazzo Soubise; non aveva trovato nelle fonti alcun riscontro alle fosche accuse di stregoneria e altri reati contro la religione usate dai giuristi di Filippo il Bello per imbastire il processo strumentalizzando l’Inquisizione. Il dramma avrebbe incontrato un successo ben maggiore se non avesse deluso il pubblico negandogli quell’afflato di soprannaturale, quell’aria oscura di cui era avido, il tutto in nome di un asciutto quadro storico per il quale, in concreto, la sua epoca non nutriva interesse45. 167­­­­

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A Parigi il revival templare ebbe un carattere forse più colto e illustre che altrove, e questo spiega il successo dell’opera teatrale di Raynouard, anche se in fondo aveva deluso quella parte del pubblico assetata di misteri e di magie. La capitale di Francia offriva uno scenario perfetto per il mito templare, munita com’era di vestigia illustri. Jacques de Molay era stato arso vivo con il confratello Geoffroy de Charny in un isolotto situato al centro della Senna, e si discuteva sulla sua esatta ubicazione che non era più così facile da trovare dopo i grandi rifacimenti che in età moderna avevano toccato l’Île-de-la-Cité, collegando in un solo blocco tutti gli isolotti al centro del fiume. Fino a poco tempo prima della Rivoluzione, inoltre, si poteva ancora ammirare la possente mole del quartiere del Tempio, una cittadella fortificata nel cuore della capitale francese, presso l’attuale quartiere del Marais. Possiamo oggi stimarne la bellezza e l’imponenza grazie ad alcune stampe realizzate dall’incisore Jean Marot, attualmente conservate alla Bibliothèque Nationale. Al centro del quartiere fortificato troneggiava la Torre della Tesoreria, un grande bastione a pianta rotonda affiancato da altre quattro torri con tetto conico: era lì dentro, secondo le antiche cronache medievali, che i Templari avevano accumulato il loro ingente tesoro. Un patrimonio di metalli preziosi talmente vasto che re Filippo il Bello, costretto a rifugiarsi nella Torre dallo scoppio di una sommossa alla fine dell’anno 1306, meditò di usarlo per sanare i suoi perenni debiti di Stato. La chiesa non era meno imponente, o meno suggestiva. Aveva grandi dimensioni e vetrate altissime, una struttura analoga alle famose cattedrali del gotico francese; la affiancava un edificio a pianta circolare costruito a imitare la Rotonda dell’Anastasis a Gerusalemme. La didascalia di Marot recita così: «Profilo della chiesa del Tempio, della quale tutti gli architetti ammirano il progetto, e lo ritengono essere fra i più belli della cristianità». Il fascino esercitato da queste antiche memorie storiche, 168­­­­

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e dalle leggende cresciutevi intorno, trovava ferventi seguaci nelle classi più alte, fra persone di notevole cultura, come ad esempio Alexandre Lenoir (1761-1839), medievista e appassionato di storia. Incaricato di raccogliere antiche vestigia sopravvissute alle distruzioni della Rivoluzione francese, egli dette vita, presso i Petit-Augustins, al Musée des monuments français, che fu inaugurato nel 1795. Inoltre pubblicò, nel 1814, uno studio sulle origini della massoneria in cui faceva risalire i suoi rituali ai culti misterici dell’antico Egitto46. Sui Templari si sapeva ancora troppo poco, tante fonti sparpagliate nelle biblioteche reali e private di tutta Europa non si conoscevano, né erano mai state edite; il mondo di allora guardava ai frati guerrieri soprattutto in cerca di miti. L’attrazione verso i favoleggiati segreti dei Templari era una moda imperante, e comunque una moda per uomini ricchi; le masse popolari analfabete o poco istruite, impegnate a fronteggiare problemi più urgenti, non si curavano di certe cose. Il templarismo, come lo definiscono gli storici odierni, seduceva profondamente l’intellighenzia mitteleuropea, annoverando fra i suoi cultori personaggi rinomati e illustri e attirando di conseguenza chi aveva origini umili ma era affamato di elevazione sociale. Appartenere a questo o quel gruppo templare era un segno di distinzione che si otteneva pagando un certo prezzo; la guerra fra i diversi gruppi, combattuta a furia di documenti antichi (veri o presunti) e di reliquie venerabili, non si risolveva in un fenomeno culturale, ma sviluppava un vero e proprio business. Questa tendenza era il terreno di caccia ideale per gli speculatori che sfruttavano a scopo di lucro le ambizioni dei nuovi ricchi, i quali chiedevano l’affiliazione a qualche loggia templare per ricavarne una nobilitazione altrimenti loro preclusa; ma c’erano anche gli appassionati in buona fede, gente già nobile dalla nascita che si accostava a questi gruppi con curiosità e passione genuine. La leggenda furoreggiava e animava un fiorente commercio antiquario; è impossibile stabilire quanti oggetti auten169­­­­

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tici circolassero fra i collezionisti del tempo, presi magari da antiche tombe nelle chiese templari, e quanto ciarpame venisse spacciato agli ingenui. Verso il 1789 sbucarono fuori, presso Volterra e in un piccolo centro rurale della Francia, due misteriosi cofanetti di pietra che portavano incise strane figure e scene dal significato oscuro; non c’era nessun simbolo che li collegava all’ordine del Tempio, e tuttavia i due reperti furono considerati oggetti templari perché non lontano dai luoghi del ritrovamento c’erano antiche magioni dell’ordine. Le immagini raffiguravano divinità e simboli astrologici, perciò avevano un forte potere di suggestione; la prova concreta che i Templari praticavano oscuri rituali pagani? Se li aggiudicò un uomo ricco e importante, il duca di Blacas, con tutto il loro carico di misteri inviolati; di sicuro non li comprò a buon mercato. Nel mito templare entrava un po’ di tutto: storia e invenzione, ricerca antiquaria e disonestà di chi voleva approfittare della creduloneria altrui. Benché formato da tante correnti diverse e spesso anche in aspra lotta fra loro, se guardato a distanza di secoli il templarismo sembra omogeneo almeno sotto un punto di vista47: era un movimento intimamente connesso ai fermenti politici di quell’epoca, diffuso in tutte le élites d’Europa come pure nelle colonie d’America, e guardava alla storia passata in un’ottica selettiva isolando di essa solo quei tratti che sembrassero ancora attuali, validi, riproponibili insomma per le vigenti esigenze del tempo. Senza dilungarci troppo, ecco qualche esempio capace di illustrare il clima di quegli anni. IL SEGRETO DEI COSPIRATORI Nel 1796, anno IV del Direttorio, veniva stampato a Parigi un libro dal titolo inquietante: La tomba di Giacomo de’ Molay, o il Segreto dei Cospiratori. L’autore si chiamava Louis Cadet de Gassicourt e svolgeva professione di farmacista, benché fosse, a quanto sembra, un figlio illegittimo di re Luigi XVI, 170­­­­

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ghigliottinato appena tre anni prima. L’opera si proponeva come un trattato storico vero e proprio, ripercorreva la storia della Francia partendo dal medioevo e dava spiegazione a certi fatti epocali del suo tempo scovandone le remote ma inestinte radici proprio nel crogiolo dei secoli bui. La Rivoluzione, il Terrore, le stragi di tante persone innocenti in mezzo a personaggi ignobili forse davvero meritevoli del patibolo, avevano a ben vedere un solo responsabile: il Vecchio della Montagna. Era costui l’oscuro capo della setta degli Assassini, feroci guerrieri islamici nella Siria del secolo XII, così detti per l’abitudine di drogarsi con l’hashish, grazie al quale combattevano contro i cristiani di Terrasanta con efferatezza disumana. La morte di quell’essere perverso non aveva messo fine agli abomini da lui perpetrati; il segreto terribile e infame che il Vecchio custodiva si era tramandato nel corso dei secoli, legando a sé uomini abietti che si erano alleati nel sogno della cospirazione. Dalla Siria medievale i nemici del genere umano, sovvertitori della religione e dello Stato, si erano trasferiti in Europa, alimentando ogni sorta di calamità politica che si fosse abbattuta sul continente: a cominciare dai Templari, questi guerrieri religiosi istituiti per difendere la fede in Terrasanta che avevano voltato le spalle al Signore, alleandosi con il Vecchio della Montagna e mutuando dalla sua immonda setta ogni genere di rituali diabolici e perversi. Nel 1314 la monarchia francese, nella persona di re Filippo il Bello, aveva fatto giustizia delle loro nefandezze mettendo a morte Jacques de Molay, l’ultimo Gran Maestro. Distrutto l’ordine del Tempio, non era stato però possibile svellere l’orrenda radice occulta che ne formava l’anima. In segreto l’ordine cospiratore si era perpetuato, riuscendo finalmente a compiere quello che ormai da quasi cinquecento anni costituiva l’obiettivo del suo agire: una vendetta solenne e implacabile sulla corona di Francia, quel potere ingiusto che aveva rovesciato le sorti della setta costringendola a rifugiarsi nella clandestinità. 171­­­­

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Appena tre anni prima che uscisse questo libro, il 21 gennaio 1793, dinanzi alla morte di re Luigi XVI sulla ghigliottina un grido si era levato dalla folla: «Jacques de Molay, sei vendicato!»48. Quel grido esprimeva l’idea diffusa che la monarchia francese, orribilmente rea d’aver distrutto per biechi motivi l’antico ordine dei Templari, pagasse ora il giusto scotto per le sue colpe, che dunque soccombesse a una terribile maledizione lanciata su tutti i suoi membri. Nel clima della Rivoluzione il tema della ‘vendetta’ templare acquisì le proporzioni di una tradizione molto accreditata. Si riteneva ad esempio che Luigi XVI, ventiduesimo successore di Filippo il Bello, si recasse verso il patibolo uscendo da quella stessa Torre del Tempio in cui era stato torturato l’ultimo Gran Maestro Jacques de Molay; nella stessa prigione scomparve il Delfino di Francia. In realtà non esisteva vera successione tra Filippo IV (morto nel 1314) e il sovrano ghigliottinato, poiché tutti i figli maschi sopravvissuti al monarca capetingio divennero re uno dopo l’altro (Luigi X, Filippo V, Carlo IV), ma la dinastia si esaurì portando sul trono il loro cugino Filippo VI, figlio del principe di Valois: questo però non destituì di fondamento la leggenda, anzi rinfocolò l’idea che una «maledizione» si fosse abbattuta sulla colpevole casa regnante. Cadet de Gassicourt dipingeva il duca d’Orléans, Filippo Egalité, come il più nero dei cospiratori massonici giacobini; e la seconda edizione del suo trattato portava la macabra immagine della tomba aperta di Jacques de Molay, non lungi da un corpo decapitato: il corpo di re Luigi XVI, che lo spirito oscuro ed inquieto dell’antico Templare era risalito dalle tenebre per giustiziare49. Le durezze che l’autore aveva sofferto in prigione durante il Terrore entravano in parte nella composizione di questo scritto, e ampia porzione del suo profondo rancore era dovuta al fatto di avere egli stesso, come si ritiene, il sangue ‘maledetto’ dei sovrani di Francia che gli scorreva nelle vene. Tuttavia, Cadet de Gassicourt non era il solo a professare certe convinzioni. Nella Londra felicemente monarchica, dove la massoneria 172­­­­

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non era rivoluzionaria, ma anzi aveva accolto nei suoi gradi più alti anche alcuni membri della famiglia reale50, il gesuita francese in esilio Augustine de Barruel dava alle stampe negli anni 1797-1798 un saggio destinato a incontrare larga fortuna. Il titolo, Mémoires pour servir à l’histoire du Jacobinisme, non chiamava direttamente in causa i Templari; in effetti l’abate non intendeva redigere un saggio sull’ordine del Tempio antico o sui diversi moderni che, spesso in discordia fra loro, se ne dichiaravano legittimi continuatori da un capo all’altro del mondo occidentale, in Europa come pure nelle Americhe, dove esistevano logge massoniche templariste già dal 1769. Barruel voleva dimostrare come i giacobini fossero in realtà la propaggine contemporanea di una setta immonda che aveva travagliato il genere umano da tempo immemore; quasi filiazione di Satana, di Caino, di tutti coloro che avevano incarnato nel tempo il principio del Male, i giacobini avevano a suo dire radici perdute nella notte dei tempi. L’origine di questo malefico bubbone doveva individuarsi in Mani, l’eretico visionario che aveva fondato il manicheismo sviando dalla salvezza una quantità infinita di anime. La loro pericolosa eresia era sopravvissuta alla fine dell’impero di Roma giungendo ad annidarsi nel meridione della Francia cattolica, figlia primogenita della Chiesa: qui i Catari avevano diffuso le loro blasfeme teorie che nemmeno la crociata contro gli Albigesi aveva potuto sgominare del tutto. I cavalieri Templari ne avevano raccolto l’infame eredità celando nel proprio segreto culti e rituali innominabili; dopo la fine dell’ordine la setta aveva continuato il suo cammino tornando a manifestarsi periodicamente in tutti i peggiori eversori: il romano Cola di Rienzo, il napoletano Masaniello, colui che aveva assassinato re Enrico IV, i cospiratori che avevano agitato il Portogallo, il Brasile e la Svezia, fino ai giacobini animatori della Rivoluzione nel 1789, compresi uomini come Robespierre e Danton. Tutti complici dello stesso universale piano malefico contro il buon ordine del mondo, tutti agenti della stessa nefanda società templare. 173­­­­

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Barruel non giudicava importante sapere se davvero le moderne logge templari derivassero o meno dall’ordine medievale: che i massoni sostenessero di avere per fondatori quegli orribili eretici antichi, bastava a dimostrare la loro nefandezza. Accettò senza esitazione l’idea che i giuramenti massonici impegnassero gli adepti alla vendetta contro la Chiesa e la corona, che si compissero rituali in cui fantocci raffiguranti re Filippo il Bello e papa Clemente V venissero decapitati. Uomini tanto perversi, del resto, non potevano fare niente di meno orribile51. Il testo di Barruel ottenne un successo incredibile e fu letto in tutta Europa; anche perché in un certo senso il terreno gli era stato preparato circa vent’anni prima dall’opera di un altro scrittore con idee politiche ugualmente radicali, benché di tutt’altro colore. IL TENEBROSO BAPHOMET Il templarismo non era un fenomeno di costume limitato alle élites parigine; fuori di Francia la moda era ancora più antica, ed aveva una diffusione e una presa sull’immaginario collettivo persino maggiori. Nel 1776 era morto un ricco proprietario terriero dell’Elettorato di Sassonia, Karl Gotthelf von Hund. Fu sepolto con indosso il costume che egli stesso aveva ideato per il Gran Maestro provinciale dell’Ordine del Tempio, titolo del quale si sentiva insignito. Von Hund aveva speso ampia parte della sua esistenza agiata visitando l’universo delle logge massoniche d’Europa, e poi nel 1751 aveva creato un proprio sistema di logge posto sotto il suo controllo, che chiamò Ordine della Stretta Osservanza Templare; egli riuscì a diffondere la sua idea arruolando moltissimi affiliati, che inizialmente erano soltanto uomini di estrazione nobile o comunque gente dell’alta società. Ciascuna delle nove Province possedeva un suo Maestro o Rettore Supremo, ma al vertice dell’organizzazione stava un’autorità 174­­­­

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dal profilo misterioso, detta dei Superiori Ignoti. Ogni persona ammessa ai vari gradi (apprendista, novizio, maestro e cavaliere) pagava una quota, e questo permetteva di garantire un vitalizio ai confratelli che si occupavano di amministrare le proprietà dell’Ordine, che non perseguiva solo scopi ideali: ad esempio, ricercava il luogo in cui era sepolto da secoli il favoloso tesoro sottratto ai Templari dalle mani rapaci di Filippo il Bello, o praticava l’antica dottrina alchemica in cerca del modo di ricavare l’oro puro dai metalli vili. Nel 1764 von Hund aveva avuto un incontro, rimasto famoso, con il capo di un’altra organizzazione che si diceva anch’essa diretta filiazione dell’ordine templare antico. Il rivale di von Hund era un abile impresario, di nome Johnson, il quale aveva arruolato tra le sue file numerosi nobili della Germania settentrionale. Johnson gli aveva chiesto un colloquio per comunicargli un grande segreto noto a lui solo. Insomma gli tendeva la mano per unire le loro forze. Fu così che i due sedicenti capi templari s’incontrarono nel castello di Haltenberg, in Turingia. L’evento fu una cerimonia molto scenografica. Johnson e i suoi arrivarono ricoperti da lucenti armature e occuparono il castello, temendo che Federico II di Prussia potesse intervenire e mandare a monte l’incontro. Poi prestarono un omaggio feudale a von Hund, che li raggiunse bardato anch’egli nel suo magnifico costume da Templare. Dopo alcuni giorni fu evidente che Johnson aveva mentito: non possedeva nessun segreto arcano da poter rivelare all’altro. Smascherato e accusato di essere un ciarlatano, si salvò con la fuga. Ma l’organizzazione di von Hund era potente, e ottenne di farlo imprigionare nella fortezza di Wartburg, dove rimase fino alla morte52. Nondimeno, se pure aveva potuto liberarsi di Johnson riuscendo a metterne in luce la natura di impostore, von Hund non poté prevalere contro un altro aspirante al ruolo di guida del templarismo settecentesco; era costui un uomo di ben altro profilo, dotato di un’istruzione elevata e con idee piuttosto chiare. 175­­­­

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Johann August Starck era figlio di un pastore protestante di Schwerin (nel Meclenburgo) e aveva studiato lingue orientali all’università di Göttingen, città dove la massoneria era ben radicata e dove incontrò sodali che avevano molti contatti in Italia e in Russia. Nel 1766 si recò a Parigi per ricercare la segreta tradizione massonica e templare; in questa città, dove l’atmosfera della civiltà cattolica era ancora molto forte e di gran fascino, egli maturò un’idea particolare53. Rientrato in patria, senza peraltro essere mai divenuto cattolico, istituì un nuovo ordine templare, formato questa volta non da cavalieri ma da chierici. Starck interpretava liberamente un passo della cronaca di Guglielmo, vescovo di Tiro, secondo il quale accanto al gruppo del fondatore Hugues de Payns c’era stato anche un corpo di canonici del Tempio che formavano una parte separata rispetto al resto dell’ordine; sfruttando alcune suggestioni diffuse nel tempo, affermò che tali chierici templari custodivano la conoscenza segreta trasmessa dalla setta degli Esseni. Erano loro i veri detentori della sapienza occulta, le cui fonti andavano ricercate nell’Oriente, nella Persia e in Egitto. Il fascino esercitato sull’arte del tempo dalla moda neoclassica, che distribuiva dovunque geroglifici imitati dagli obelischi e da altre opere antiche presenti in Occidente, conferiva all’idea una ulteriore forza di seduzione. La storia dei Templari finì così per intrecciarsi ai primordi della futura egittologia; tutto ciò che sembrava grande, potente e misterioso doveva per forza di cose avere un qualche rapporto con l’ordine del Tempio. Per capire il fenomeno dobbiamo tener conto del contesto storico e culturale. Nella Roma di quel momento era attivo Giambattista Piranesi, che usò abbondantemente decorazioni ispirate alla scrittura geroglifica per il loro aspetto esotico e la suggestione che sapevano evocare; la decifrazione degli ideo­ grammi, com’è noto, procederà soltanto con il ritrovamento della famosa stele di Rosetta durante le campagne napoleoniche, e soprattutto negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento grazie agli studi di Champollion. La sensibilità culturale del 176­­­­

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momento storico, già abbondantemente romantica, traeva una suggestione potenziata dall’idea che quei segni racchiudessero un senso ignoto, quasi lettere di un arcano alfabeto ermetico sul quale l’immaginazione fantasticava volentieri. Ma l’ignoranza offre la sponda alle imposture; questa è anche l’epoca in cui Giuseppe Balsamo, più noto come conte di Cagliostro, mise in piedi la sua associazione imperniata sul cosiddetto Rito egiziano, del quale si proclamò sommo sacerdote con il titolo di Gran Cofto. Anche Cagliostro, immancabilmente, attingerà all’aura oscura che circondava il nome dei Templari per accrescere il suo personale carisma esoterico, ed asserì di aver visto un loro libro segreto che riteneva fosse stato scritto con il sangue54. Starck fu più bravo di altri nel diffondere il suo modello di templarismo, conquistò il favore di principi e di membri importanti dell’aristocrazia, riuscì a ottenere addirittura prestigiose cariche accademiche a Königsberg e nel Kurland. Era ritenuto una persona molto seria e stimabile, e fu nominato predicatore di corte presso il duca Giorgio di MecklenburgStrelitz. Come altri, impiegò molta cura per ideare costumi di gusto adatti ai confratelli. I suoi adepti indossavano una veste di color viola con il colletto rosso, un insieme che ricordava il vestiario di un prete cattolico secolare; i canonici avevano un mantello bianco che scendeva fino a terra, con una croce rossa portata sul petto e un berretto di velluto color porpora. Questa è del resto l’epoca d’oro del revival cavalleresco, gli strati superiori della società impazziscono per i costumi cerimoniali e le scenografiche decorazioni dal sapore arcaizzante. Persino gli ordini cavallereschi di sicura radice medievale crearono abiti molto spettacolari, con ampie cappe e lunghi strascichi, travalicando l’austera frugalità delle divise antiche55. Le cerimonie d’iniziazione al gruppo di Starck, nonostante una patina vagamente cristiana, avevano un carattere dottrinalmente equivoco: il nuovo Canonico, dopo i riti che lo avevano reso parte della fratellanza, otteneva il privilegio di allungare la mano per toccare una mistica immagine posta 177­­­­

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sull’altare – situata davanti a candelabri con sette bracci, dei quali solo tre erano accesi –, così da poter assorbirne le magiche proprietà. Questa immagine era chiamata Baphomet. La parola, in realtà, nelle fonti del processo compare un paio di volte appena, e l’idolo misterioso è chiamato anche con altri nomi astrusi, come Yalla o Mandaguorra; però Baphomet suonava più suggestivo, o almeno eccitò la fantasia dei neotemplari. Per Nicolai la parola era una specie di codice, cioè nascondeva il particolare credo religioso del gruppo, la gnosi millenaria celata sotto una lieve patina di falso cattolicesimo; Starck riteneva invece che designasse un oggetto concreto, un idolo potente, l’identità del quale veniva tenuta rigorosamente segreta. Il misterioso Baphomet aveva così fatto carriera, assurgendo addirittura all’onore degli altari, che del resto in quel momento erano – per così dire – rimasti vuoti. Nei paesi di cultura tedesca di quegli anni si afferma un orientamento fortemente anticristiano, e anche gli studi sulla Sacra Scrittura vanno in questa direzione. Emergono le teorie del filosofo deista Hermann Samuel Reimarus (morto nel 1768), che riduceva la figura di Gesù Cristo a un mero personaggio storico, un patriota rivoluzionario attorno al quale erano stati scritti testi fantastici (i vangeli). L’autore rigettava come frutto di invenzione anche l’Antico Testamento, e le sue idee trovarono grande credito fra gli intellettuali specialmente dopo che le divulgò (nel periodo 1771-1774), avvalorandole con il prestigio del suo nome, il grande scrittore Gotthold Ephraim Lessing56. Appena qualche anno dopo, nel 1782, il libraio massone Friedrich Nicolai pubblicò a Berlino un’opera che in seguito fu diffusa nella sua traduzione francese, il Saggio circa le accuse lanciate contro i Templari 57. Anche lui era fermamente convinto che l’ordine fosse in realtà una setta di origini antichissime, le cui prime propaggini potevano rintracciarsi fra gli eretici dell’Asia Minore: e confortava le sue teorie con roboanti citazioni dalla lingua siriaca e dotti passi tratti dagli 178­­­­

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scritti dei Padri della Chiesa. Eredi dell’antica dottrina gnostica che non credeva in Gesù Cristo come vero uomo e vero Dio, i Templari del medioevo praticavano rituali occulti che la Chiesa ufficiale non doveva assolutamente conoscere. Il più grande di essi era il «battesimo dello Spirito», qualcosa che nelle carte dei processi compiuti dagli inquisitori contro i Catari del meridione francese veniva chiamato consolamentum: l’imposizione delle mani per mezzo della quale si trasmetteva lo Spirito Santo, l’unico sacramento in cui i Catari effettivamente credessero. Proprio da questo rito fondamentale traeva il nome l’oggetto che i Templari tenevano per sommamente sacro, quello che gli ottusi inquisitori del Trecento, durante gli interrogatori, avevano scambiato per un idolo con diverse facce e tratti demoniaci: il Baphomet. Nessun simulacro fatto di materia concreta, secondo Nicolai, ma piuttosto un rito sacro ed ereticale. Baphomet era infatti una parola nata dalla fusione di due antichi termini greci, che nel loro insieme componevano appunto questo significato: «battesimo dello Spirito». L’insegnamento di Mani non era dunque mai morto, nonostante una guerra spietata che il cristianesimo vincitore di Costantino gli aveva sferrato contro per quasi mille anni. Questi scritti di largo consumo fecero moltissima presa in un clima sociale agitato da sussulti di rivolta, in una cultura che contiene già i germi vivi del Romanticismo ed è affamata di suggestioni irrazionali, pronta ad accettare passivamente qualunque teoria presentasse il giusto alone di misticismo, di esoterismo, di magia. Eroici avversari di una Chiesa papista ingiusta e tirannica secondo Nicolai, biechi seguaci di idee eversive ispirate dal diavolo in persona secondo Cadet de Gassicourt e l’abate Barruel, nondimeno alla fine del Settecento i Templari di frate Jacques de Molay avevano stabilmente guadagnato nella cultura popolare una propria fisionomia ben definita: quella di un «gruppo sospetto che puzzava vagamente d’inferno»58.

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IDOLI, MAGIA E POLITICA Di lì a pochi anni, il fantomatico idolo oscuro, la ‘maestà nefanda’ venerata dai Templari, avrebbe ricevuto addirittura una consacrazione accademica negli studi di Joseph von Hammer-Purgstall (1774-1856), un orientalista di tutto rispetto, autore di uno studio sull’impero ottomano che rimase a lungo il punto di riferimento per gli studi scientifici sul settore. Studioso di vaglia, viaggiò a lungo in Medio Oriente nella spedizione dell’ammiraglio britannico William Sidney Smith e in seguito sostenne la fondazione della prestigiosa Österreichische Akademie der Wissenschaften, diventandone il primo presidente (1847-1849). Stavolta l’autore era un intellettuale di primo piano, agli antipodi rispetto al volgare ciarlatano che spaccia favole vagamente colorite di un’aura storica; nel periodo in cui i documenti dell’archivio papale erano trattenuti in Parigi e l’abate Marini penava per ottenerne il ritorno in Vaticano, Hammer-Purgstall stava lavorando a un trattato sul Baphomet che avrebbe visto le stampe poco dopo, nel 1818. Il titolo è già in se stesso un’eloquente esposizione dei contenuti: Mysterium Baphometis revelatum, seu Fratres Militiæ Templi, qua Gnostici et quidem Ophiani, Apostasiæ, Idoloduliæ et Impuritatis convicti, per ipsa eorum Monumenta. I Templari, in breve, avevano raccolto la quintessenza di ogni dottrina deviante in materia di fede sin dagli albori dell’era cristiana, o forse anche quelle precedenti, visto che gli Ofiti erano ritenuti adorare il serpente della Genesi; le scarse cognizioni che si avevano al tempo sulle correnti gnostiche, oggi per noi molto più note grazie ai rinvenimenti archeologici e a una solida tradizione di studi, favorivano questa enorme confusione che finiva per assommare in un vasto calderone errori di vario tipo, che attribuiva immancabilmente ai Templari, effigiati quali eredi naturali di tutti coloro che, nel corso dei secoli, si erano opposti segretamente al dettato delle istituzioni statali e religiose. 180­­­­

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Peter Partner stenta a credere che un ingegno dotato come quello dello studioso austriaco possa aver nutrito simili convinzioni in tutta sincerità, e suppone che egli scrivesse le sue incredibili tesi sul Baphomet in qualche modo sotto dettatura, ovvero su richiesta del governo viennese che desiderava demonizzare i Templari a scopo politico, poiché era proprio dai Templari del medioevo che le forze eversive di Francia facevano derivare la loro origine59. Personalmente ritengo che una simile influenza avesse il suo peso, ma Hammer-Purgstall non avrebbe sostenuto simili congetture se non fosse stato almeno in parte convinto della loro fondatezza. La cultura del tempo avvalorava simili idee, non soltanto in Austria; i due cofanetti templari acquistati dal duca di Blacas erano ritenuti una preziosa rarità che ritraeva le oscure cerimonie di iniziazione praticate dai membri dell’ordine. Benché il senso di queste scene sia tutt’altro che chiaro, la ricchezza di strani simboli raffigurati faceva galoppare la fantasia lungo rotte mitiche, sui sentieri dell’esoterismo e dell’occultismo; si ritiene siano due falsi creati in quel periodo storico per dare un volto concreto alle leggende oscure che si stavano diffondendo. Con gli oggetti realmente templari in nostro possesso non hanno nulla a che vedere60. I frati del Tempio erano uomini d’arme in gran parte analfabeti e incapaci d’intendere il latino, tanto che durante il processo tutti i capi d’accusa dovettero essere letti loro in volgare61; cosa potevano capirne delle astruse questioni teo­ logiche, astrologiche o alchemiche cui vorrebbero alludere certi simboli ritratti sui due cofanetti? Le immagini riproducevano senza troppa coerenza antichi rilievi classici con scene desunte dai misteri orfici: fatto logico, se quelli dei Templari dovevano essere misteri iniziatici; i decenni centrali del Settecento, del resto, avevano segnato un’intensa stagione di scavi nel sito dell’antica Pompei (dove si trova la Villa dei Misteri, così detta dal suo celebre affresco), che valse al re di Napoli Carlo VII di Borbone il soprannome di «re archeologo»62. 181­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

La mitologia del templarismo incantò anche Carl Gustav Jung, che non era ignorante né sprovveduto. Jung giungeva addirittura a razionalizzare l’alchimia ritenendola «un grandioso affresco proiettivo di processi di pensiero inconsci», convinto che l’alchimista medievale, intento a raffinare la materia, compiva in realtà un processo di liberazione dell’io interiore dai moltissimi vincoli esterni. In mezzo a un’abbondante iconografia desunta da trattati alchemici di epoca medievale e moderna, Jung contemplava anche le presunte immagini misteriche presenti su uno dei cofanetti63. A dispetto delle nostre obiezioni, i due scrigni erano parte della ricca collezione antiquaria del duca di Blacas, uno degli uomini più noti e potenti di quel tempo; a lui HammerPurgstall dedicò la sua ricerca sul Baphomet ringraziandolo per la munificenza con cui gli aveva lasciato studiare il cofanetto in suo possesso, fonte, secondo lo studioso austriaco, di così ingenti scoperte sulle abitudini segrete dei famigerati cavalieri64. Non è certo un caso se fu proprio il duca di Blacas a sottrarre dal corpo dell’archivio papale gli atti del processo contro Galileo Galilei, un gesto deliberato e nutrito di vari pretesti con i quali egli si oppose ai numerosi tentativi operati da Gaetano Marini e suo nipote Marino per riportare in Vaticano il prezioso cimelio. Un atto di ostruzionismo irriducibile: sarà soltanto dopo la sua morte, e per l’integrità morale della vedova, che i documenti su Galileo torneranno al loro legittimo proprietario: immune alle suggestioni che avevano tanto potentemente catturato l’immaginazione del marito, la duchessa si accorse che quel voluminoso plico di carte antiche portava scritture che lo riferivano al Vaticano, e si sentì in dovere di restituirlo. Correva allora l’anno 1843. Uomo istruito, Pierre-Louis-Jean-Casimir de Blacas d’Aulps fu membro dell’Académie des inscriptions et belles lettres e dell’Académie des beaux-arts; è difficile che il barone Radet sequestrasse le carte del processo ai Templari dietro 182­­­­

IV. Dalla storia alla leggenda

sua richiesta, poiché i rapporti tra Blacas (allora conte) e Bonaparte non erano buoni, anzi in qualche modo egli poteva dirsi caduto in disgrazia presso l’imperatore. «DIVENTA LEGGENDA CIÒ CHE È NECESSARIO FAR CREDERE» Avidamente sottratti all’archivio papale su ordine di Napoleone, i documenti del processo a Galileo furono resi al papa perché, in buona sostanza, non si era scoperto nelle loro pagine il materiale ‘scottante’ che invece si riteneva vi fosse65. E quanto ai Templari? Il grosso rotolo membranaceo rientrò a Castel Sant’Angelo molto tempo prima, per un motivo analogo. Battuto a tappeto da studiosi e incaricati vari, risultò non diverso dai molti atti delle inchieste locali che si custodivano negli archivi reali di Francia; benché nella forma di un’opera teatrale, Raynouard aveva divulgato una visione dei fatti cavata direttamente dalle fonti originali, cui dette forma accademica in una pubblicazione di poco successiva. Questo essenzialmente spiega il successo di lungo termine della sua opera, ripetuta per tutto l’Ottocento e inclusa in una raccolta molto popolare, intitolata Les Bons Livres, insieme a testi di Racine e Corneille66. Per gli amanti dell’occultismo, i misteriosi documenti papali si erano rivelati oltremodo deludenti. Niente riti ancestrali dal carattere anticristiano, né verità alternative sul destino dell’uomo e i suoi rapporti con il divino. Nessuna traccia di segreti capaci di conferire a chi ne venisse in possesso, come pure si credeva, lo stesso destino di ricchezza e potere a suo tempo incontrato dai Templari. I quali, a ben vedere, non dovevano possedere grandi doti divinatorie, visto che poi avevano fatto una brutta fine. Vorrei congedarmi dal lettore con un bel passo dello storico Massimo Oldoni; non è riferito ai Templari, ma si attaglia perfettamente al tema di questo libro: 183­­­­

LA LEGGENDA NERA DEI TEMPLARI

Ciò che è «leggenda» contiene, intatto, un equivalente importo di verità storica, perché attraverso la leggenda si definiscono le fisionomie e le strumentalizzazioni possibili di ogni personaggio, la leggenda ha motivazioni precise di propaganda, diventa leggenda ciò che è necessario far credere67.

Il templarismo come orizzonte mitico sembra essere nato in Germania, anche se poi si diffuse ovunque; il suo sviluppo fu intenso nei paesi di religione e cultura protestante, dove la conoscenza dell’Antico Testamento era più profonda e più sentita che non, ad esempio, nei vari regni italiani o nella Spagna del re cattolicissimo. Il templarismo inoltre dipende dal Tempio, dalla foresta di simboli e di significati cresciuti nei millenni intorno alla memoria di quel santuario; se i confratelli di Hugues de Payns fossero stati alloggiati altrove, non è affatto sicuro che si sarebbe sviluppata intorno a loro una leggenda così sentita e di lungo termine. Nell’immaginario sacro della religione riformata, il Tempio occupava un ruolo simbolico molto importante: ben oltre le descrizioni della Bibbia, esso rappresentava il Sancta Sanctorum, contenitore di tutti i misteri, i poteri e i segreti della dimensione divina. L’Illuminismo cercò una nuova strada religiosa e spirituale, e tale ricerca ebbe quale icona il Tempio esoterico; gli studi di ambito protestante che volevano rileggere i vangeli secondo un’ottica diversa contribuirono ad alimentare il fenomeno. Ci fu un rinnovato interesse per i vangeli gnostici e apocrifi, di cui si sapeva poco; senza uscire dalla tradizione cristiana, molto radicata nella gente, mostravano che poteva esistere una forma di cristianesimo alternativa a quella del clero cattolico. Passando in Francia, questa potente moda culturale si colorì di forti tinte eversive, perciò elesse l’ultimo Gran Maestro Jacques de Molay quale campione e simbolo delle sue velleità; inevitabilmente, ciò comportava che il personaggio fosse riscritto secondo il contesto che si voleva animare. Historia magistra vitae, direbbe Cicerone; oggi parliamo di «uso politico del passato», ma le dinamiche non sono diverse. 184­­­­

IV. Dalla storia alla leggenda

La Rivoluzione francese aveva bisogno dei propri santi. E dovevano essere per forza laici, antimonarchici e campioni di una fede che non fosse quella della Chiesa cattolica: quest’ultima, infatti, costituiva un sistema di potere e di controllo sulla società strettamente colluso alla corona, il nemico numero uno che bisognava combattere e scardinare. Dopo il processo e fino alla metà del Settecento, nessuno in buona sostanza si occupò del tramontato ordine religiosomilitare, se non una ridottissima minoranza di intellettuali sparpagliati qua e là, in ragione di due o tre ogni cent’anni, i quali comunque dedicarono ai Templari appena una manciata di righe. In seguito, l’Illuminismo si costruì una teologia propria e una storia del cristianesimo alternativa a quella tradizionale; il mitico Tempio di Salomone ne era il fulcro. Come abbiamo visto, gli studiosi tendevano a farsi del santuario un’idea interpretativa, quasi personale. Sul finire dell’Ottocento, grazie alle esplorazioni archeologiche, Conrad Schick e James Ferguson ne fornirono un quadro più realistico, ma la visione del Tempio restava un’icona universale, che ognuno tendeva a interpretare a modo proprio. Tant’è vero che l’archeologo tedesco Carl Watzinger, nell’anno 1933, ne disegnò la facciata con tratti tipici dell’architettura del Terzo Reich. Del resto, come nota Simon Goldhill, Il Tempio non è solo un edificio, ma un modo di esprimere le speranze dell’idealismo religioso e di costruire un quadro delle relazioni fra l’umanità e il divino68.

I Templari abitavano proprio lì. E meritavano di essere leggenda.

NOTE

CAPITOLO PRIMO 1   Jacques de Vitry, Historia Hierosolymitana, in A. Demurger, Vita e morte dell’Ordine dei Templari, Milano 1987 (nuova ed. 2005), pp. 15-16. 2   C. Eubel, Hierarchia Catholica medii aevii, vol. I, Münster 1913, p. 68 e nota 2. Jacques de Vitry, in seguito cardinale del titolo di Tuscolo, fu un personaggio centrale nella storia religiosa e intellettuale della Terrasanta, attivamente impegnato nel contesto della quinta crociata. La sua Historia Hierosolymitana è una delle fonti più preziose per ricostruire la vita degli occidentali nel regno cristiano di Terrasanta e le vicende degli ordini militari. Cfr. S. Runciman, Storia delle crociate, trad. it. di A. e F. Comba, 2 voll., Torino 1966, vol. I, pp. 229-248; F. Cardini, Le crociate fra il mito e la storia, Roma 1984, pp. 51-82; A. Demurger, Chevaliers du Christ. Les ordres religieuxmilitaires au Moyen Âge (XIe-XVIe siècle), Paris 2002, pp. 37-38, 147, 199. 3   Runciman, Storia delle crociate, cit., vol. I, pp. 303-323; J. Flori, Bohémond, croisé modèle?, in «Come l’orco della fiaba». Studi per Franco Cardini, a cura di M. Montesano, Firenze 2010, pp. 123-132. 4   S. Cerrini, La rivoluzione dei Templari. Una storia perduta del dodicesimo secolo, Milano 2008, pp. 21-23; G. Ligato, Fra Ordini cavallereschi e crociata: «milites ad terminum» e «confraternitates armate», in «Militia Christi» e crociata nei secoli XI-XIII. Atti della undecima Settimana internazionale di studio, Mendola, 28 agosto-1° settembre 1989, Milano 1992, pp. 645-697. Sulla presenza e il ruolo dei volontari che servivano a tempo negli ordini militari, cfr. anche A. Forey, ‘Milites ad terminum’ in the Military Orders During the Twelfth and Thirteenth Centuries, in The Military Orders, vol. IV, On Land and by Sea, a cura di J. Upton-Ward, Aldershot 2008, pp. 5-11; per il caso specifico del Tempio, cfr. J. Schenk, Templar Families: Landowning Families and the Order of the Temple in France, Cambridge 2012, pp. 70-74. 5   Cardini, Le crociate fra il mito e la storia, cit., p. 36; L. Russo, Le fonti della «prima crociata», in Mediterraneo medievale: cristiani, musulmani ed eretici tra Europa e Oriente, a cura di M. Meschini, Milano 2001, pp. 51-65. Sulla percezione della gente comune e la spiritualità che animò il movimento, è datato ma sempre valido il lavoro di P. Alphandéry, A. Dupront, La cristianità e l’idea di crociata, trad. it. di B. Foschi Martini, Bologna 1974, pp. 19-45. Ricco per la ricostruzione degli aspetti materiali delle crociate (politica, colonizzazione, indulgenze papali) è il recente volume di A. Demurger,

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Note Crociate e crociati nel medioevo, trad. it. di E. Lana, Milano 2010, anche se l’autore riserva uno spazio forse troppo esiguo alle componenti emotive e spirituali del movimento, che furono determinanti, specie nella fase iniziale. 6   M. Defossez, Giosafat, valle di, in Dizionario Enciclopedico della Bibbia (d’ora in poi DEB), Roma 20022, p. 633. 7   Il pellegrinaggio era di certo favorito dall’abitudine di fornire ospitalità gratuita a chi viaggiava per fini religiosi, mentre sembra che la pratica di far pagare vitto e alloggio sia entrata in uso più tardi, dopo l’anno Mille. Singolare è il racconto del monaco francese Richerio, che nel 991 viaggiò da Reims a Chartres coprendo una distanza di 250 km nell’arco di una settimana, munito soltanto di un servo e di una bestia da soma concessi dall’abate di Reims, ma senza né denaro né vestiti; cfr. H.C. Peyer, Viaggiare nel medioevo. Dall’ospitalità alla locanda, trad. it. di N. Antonacci, Roma-Bari 2009, pp. 31-61, alla p. 53. 8   Hues de Paiens delez Troies si trova nell’antica traduzione in francese (1220-1223 circa) della Historia di Guglielmo, arcivescovo di Tiro (morto dopo il 1186); nel testo della regola templare approvato dal concilio di Troyes (gennaio 1129) è chiamato semplicemente magister militie Hugo, mentre un documento datato al 20 maggio 1130 lo definisce Hugo de Paianis. Altri testi leggermente più tardi concorrono a presentarlo come nativo del territorio di Troyes, ma è stato anche ipotizzato che fosse di origine italiana (presso Nocera dei Pagani), benché con prove ancora troppo fragili. Per una visione generale sul fondatore dei Templari cfr. M.C. Barber, The Origins of the Order of the Temple, in «Studia monastica», XII (1970), pp. 219-240; M.L. Bulst-Thiele, Sacrae Domus Militiae Templi Hierosolymitani Magistri, Göttingen 1974, pp. 19-29; Demurger, Vita e morte, cit., pp. 20-24. Per la disputa sulle origini francesi o italiane del fondatore dei Templari, cfr. i due libri recenti di T. Leroy, Hugues de Payns, chevalier champenois, fondateur de l’ordre des templiers, Troyes 2000, e M. Moiraghi, L’italiano che fondò i Templari. ‘Hugo de Paganis’ cavaliere di Campania, Milano 2005. 9   Sul tema esiste una bibliografia vastissima; fanno in ogni caso ancora da guida i lavori di F. Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Firenze 1981 (nuova ed. Bologna 2014), in particolare pp. 293-333, e di J. Flori, L’idéologie du glaive. Préhistoire de la chevalerie, Genève 1983. 10   «Accipe [...] hunc gladium, quo eicias omnes Christi adversarios, barbaros et malos Christianos», in Widukindo de Corvey, Res Gestae Saxonicae, liber II, 3, ed. G. Waitz, Scriptores Rerum Germanicarum, Hannover 1904, p. 56, cit. in Flori, L’idéologie du glaive, cit., pp. 94, 99. 11   J. Leclercq, «Militare Deo» dans la tradition patristique et monastique, e R. Grégoire, Esegesi biblica e «militia Christi», entrambi in «Militia Christi» e crociata, cit., rispettivamente alle pp. 3-20 e 21-47. Va detto comunque che tutti i contributi del volume offrono un apporto importante riguardo al tema. 12   Sulla questione esiste una bibliografia molto vasta; per averne un’idea, si vedano ad esempio A. García y García, Reforma gregoriana e idea de la «Militia sancti Petri» en los reinos ibéricos, in La Riforma Gregoriana e l’Europa. Atti del Congresso Internazionale, Salerno, 20-25 maggio 1985, Roma

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Note AL CAPITOLO PRIMO 1989, pp. 241-262; F. Tommasi, ‘Pauperes commilitones Christi’. Aspetti e problemi delle origini gerosolimitane, in «Militia Christi» e crociata, cit., pp. 443-473; P. Siniscalco, Dal soldato martire all’imperatore: modelli di cristiani per la Chiesa antica, in ΕΥΚΟΣΜΙΑ. Studi miscellanei per il 75° di Vincenzo Poggi S.J., a cura di V. Ruggieri e L. Pieralli, Soveria Mannelli 2003, pp. 453-469. 13   Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, cit., p. 212. 14   F. Cardini, I poveri cavalieri del Cristo. Bernardo di Clairvaux e la fondazione dell’ordine templare, Rimini 1992 (nuova ed. 1999), pp. 81-114; Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 63-95; interessante anche la lettura di L. García-Guijarro-Ramos, Ecclesiastical Reform and the Origins of the Military Orders: New Perspectives on Hugh of Payn’s Letter, in The Military Orders, vol. IV, cit., pp. 77-83; R. Hiestand, The Military Orders and Papal Crusading Propaganda, in The Military Orders, vol. III, History and Heritage, a cura di V. Mallia-Milanes, Aldershot 2008, pp. 155-165, alla p. 155. 15   Celebre ma non certo unica è la critica di Isacco di Stella, che parlava dei Templari come di un «nuovo mostro» perché seguivano un modello di vita consacrata talmente estraneo all’insegnamento di Cristo da essere «un ordine del quinto vangelo»; cfr. Isaac de l’Étoile, Sermons, III, a cura di A. Hoste e G. Raciti, Paris 1987, sermone 48, pp. 158-161. Tuttavia, va rilevato che Isacco non cita espressamente i Templari, e ciò ha indotto alcuni studiosi a supporre che non voglia riferirsi ad essi; cfr. Demurger, Chevaliers du Christ, cit., p. 299; B.Z. Kedar, Crociata e missione. L’Europa incontro all’Islam, Roma 1991, pp. 136-137, e la discussione complessiva in Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 26-27. 16   Il De laude novae militiae (conosciuto anche come Sermo Christi militibus) è inserito nella Patrologia Latina del Migne, vol. 182, coll. 911-940; la successiva edizione di riferimento è quella curata da J. Leclercq e H.M. Rochais nel vol. III della raccolta Sancti Bernardi Opera, Roma 1957-1977, pp. 212-239; una traduzione italiana è offerta da Cardini, I poveri cavalieri del Cristo, cit., pp. 131-159, nella quale il passo in oggetto si trova alla p. 140. 17   Nel De laude novae militiae (ad esempio III, 6; IV, 8) san Bernardo li paragona ai guerrieri di Israele, richiama Giuda Maccabeo e considera la nuova milizia benedetta da Dio come quella antica; cfr. Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., p. 68. 18   Per il testo della regola si veda S. Cerrini, Une expérience neuve au sein de la spiritualité médiévale: l’ordre du Temple (1120-1314). Étude et édition des règles latine et française, Thèse de doctorat sous la direction de Mme G. Hasenohr, 2 voll., Université de Paris-Sorbonne (Paris IV), 1997, vol. I, pp. 161-226 per l’edizione, e inoltre pp. 164, 167, 172, 175; vol. II, pp. 384-389. Una traduzione italiana, che comprende anche i diversi statuti sviluppati in seguito, è stata curata da G. Amatuccio, Il ‘Corpus’ normativo templare. Edizione dei testi romanzi con traduzione e commento in italiano, Martina Franca 2009. 19   Cerrini, Une expérience neuve, cit., vol. I, rispettivamente capp. 48 e 20, pp. 207 e 188. 20   La studiosa fa notare che il titolo con cui Bernardo designa Hugues de Payns, e cioè «cavaliere di Cristo e maestro della milizia», non contiene

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Note nessun riferimento ecclesiastico, come invece sarebbe dovuto accadere se fosse già stato il capo di un gruppo religioso riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa; pochi anni dopo, quando ormai il concilio di Troyes aveva sancito la nascita dell’ordine come istituzione, Guigues I de la Grande Chartreuse potrà chiamare Payns con il titolo di «priore della santa cavalleria»; cfr. Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 66-67. 21   Bernardi Clarevallensis, De laude novae militiae, V, 9, PL, cc. 917-940. Per comodità ho indicato tra parentesi i passi biblici a cui fa riferimento Bernardo, le cui allusioni sono ben chiare per i suoi lettori e uditori, che avevano una grande familiarità con il testo della Scrittura. 22   Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, VII, XIV, 335-336, 363-364, edizione a cura di L. Moraldi, 2 voll., Torino 2006, vol. I, p. 468. 23   J. Aunier, Chiram, in DEB, pp. 336-337; H. Frehen, J.-C. Margot, Cedro, in DEB, pp. 317-318. 24   Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, VIII, V, 141-142, ed. Moraldi, vol. I, p. 503. 25   A. Parrot, Le Temple de Jerusalem, Neuchâtel-Paris 1962 («Cahiers de Archeologie Biblique», 5; ed. precedente Michigan 1957); E.M. Laperrousaz, Après le «Temple de Salomon», la Bamah de Tel-Dan: l’utilisation de pierres à bossage phénicien dans la Palestine préexilique, in «Syria», 59 (1982), pp. 223-227; Id., Tempio, in DEB, pp. 1265-1267. 26   A. Boudart, Iachin e Boaz, in DEB, p. 685. 27   E. Lipiński, Ulam, in DEB, pp. 1307-1308; Id., Betel, in DEB, p. 259; Id., Kamid el-Loz, in DEB, p. 740. Per l’interpretazione del valore esatto del cubito, sulla quale si discute, cfr. A. Lemaire, Metrologia biblica, in DEB, pp. 851-855, alla p. 851. 28   Antichità giudaiche, VIII, V, 143-149, VI, 163, VII, 176-178, ed. Moraldi, vol. I, pp. 503-504, 507. 29   M. Defossez, Moria, in DEB, p. 885; J. Maier, Tempel. II. Biblischtheologisch, in Lexikon für Theologie und Kirche (d’ora in poi LTK), vol. 9, Freiburg 2000, coll. 1322-1325. 30   E. Lipiński, Hekal, in DEB, p. 681; Id., Altare dei profumi, in DEB, pp. 92-93; A. Lemaire, Tavola, in DEB, p. 1261; A. Boudart, Oblazione, in DEB, pp. 932-933. 31   Antichità giudaiche, VIII, IV, 103, ed. Moraldi, vol. I, p. 496. Le immagini dei cherubini ricorrevano anche sulle porte del Santo dei Santi e dell’Hekal, e secondo l’Esodo (26, 1.31; 36, 8.35) anche sui teli e sui veli della Dimora. Si ritiene che corrispondano alle sfingi custodi dell’albero della vita. Cfr. A. Boudart, Propiziatorio, in DEB, p. 1060; E. Lipiński, Cherubino, in DEB, pp. 328-329; A. Lemaire, Velo del santuario, in DEB, p. 1324. 32   E. Lipiński, Santo dei Santi, in DEB, p. 1163; Id., Arca dell’alleanza, in DEB, pp. 180-181; A. van der Born, A. Lemaire, Tenda, in DEB, p. 1269; J. Aunier, Manna, in DEB, p. 803. 33   M. Carrez, Espiazione, giorno dell’, in DEB, pp. 514-515. 34   Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, X, VIII, 144-148, ed. Moraldi, vol. I, pp. 625-626; P. Sacchi, Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Roma 1994, pp. 23-27.

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Note AL CAPITOLO PRIMO   C. Saulnière, Antioco IV Epifane, in DEB, pp. 135-136; P.M. Bogaert, La versione dei LXX, in DEB, pp. 1330-1332; E. Lipiński, Ebraica, lingua, in DEB, pp. 441-442. 36   I Maccabei 4, 36-43; H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, trad. it. di M. Lo Buono, Milano 1986, p. 417. 37   Sacchi, Storia del Secondo Tempio, cit., pp. 34-39; Ch. Augrain, Zorobabele, in DEB, pp. 1379-1380. 38   Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XV, XI, 380-425, ed. Moraldi, vol. II, pp. 978-985; Id., Guerra giudaica, V, 184-237; Ez 43, 4-7, oltre a quanto esposto in Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, cit., pp. 415-423. 39   A. Drubbel, J.-C. Margot, Uva, vigna, vite, vino, in DEB, pp. 1318-1320. 40   S. Goldhill, Il Tempio di Gerusalemme. Storia e letteratura del luogo più sacro del mondo, Cinisello Balsamo 2009, p. 10. 41   Ivi, pp. 7-8. 42   Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, VI, 4, 249-250. Va ricordato che Giuseppe era molto favorevole ai romani, e aveva assunto il nome Flavio proprio in onore di Vespasiano, che lo aveva reso libero dopo essere divenuto schiavo fra i prigionieri di guerra ebrei; ad ogni modo, la notizia dello scrupolo usato da Tito per salvaguardare il luogo sacro finché fosse possibile collima con quanto si sa sulle tendenze generali dei romani, che erano molto rispettosi verso la religione dei popoli sottomessi. Cfr. G. Vitucci, Introduzione, in Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, pp. ix-xxxv. 43   D. Garribba, I diritti delle comunità della diaspora nel I secolo d.C., in Giudei e cristiani nel I secolo. Continuità, separazione, polemica, a cura di M.B. Durante Mangoni e G. Jossa, Trapani 2006, pp. 67-103, alle pp. 92-102. 44   M. de Mérode, Dura Europos, in DEB, pp. 438-439. 45   D. Marguerat, Ebrei e cristiani: la separazione, in Storia del cristianesimo. Religione-politica-cultura, 14 voll., ed. it. a cura di G. Alberigo, vol. I, Il Nuovo Popolo dalle origini al 250, a cura di P. Grech e A. Di Berardino, trad. it. di M. Zappella, Roma 2003, pp. 190-222, alle pp. 214-216 (ed. or., Histoire du Christianisme, diretta da J.-M. Mayeur, Ch. e L. Pietri, A. Vauchez e M. Venard, 14 voll., Paris 1990-2001, t. I, Le Nouveau Peuple [des origines à 250], a cura di C. Lepelley, M.-Y. Perrin, L. Cirillo e J. Flamant, Paris 2000). La questione è tuttavia controversa e non tutti gli studiosi sono d’accordo sul fatto che i mînîm, letteralmente «eretici», siano proprio i cristiani; cfr. G. Jossa, La separazione dei cristiani dai giudei, in Giudei e cristiani nel I secolo, cit., pp. 105-126. Sui caratteri del Talmud come fonte si veda J.T. Nelis, S. Hirsch, Talmud, in DEB, pp. 1257-1258. 46   Per una visione d’insieme su queste antichissime comunità cristiane cfr. i diversi contributi pubblicati in Il giudeo-cristianesimo nel I e II secolo d.C. Atti del IX Convegno di Studi Neotestamentari, a cura di A. Pitta, in «Ricerche storico-bibliche», 2 (2003); Giudei e cristiani nel I secolo, cit. 47   Lc 1, 5-25; 1 Par 24; A. van der Born, A. Lacocque, Zaccaria, in DEB, pp. 1370-1371; E. Lipiński, Sacerdotale, classe, in DEB, pp. 1134-1135. 48   Lc 2, 25-26, 27-32, 36-38, 41-52. Cfr. J. Mercier, Simeone, in DEB, p. 1212; Id., Anna, in DEB, p. 117. 35

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Note   Lc 19, 47; 21, 37; 22, 53. Gv 8, 20-59. Mt 21, 12. Gv 2, 14-16. Rm 8, 11. Eb 9, 11-14, 24. 50   Cfr. R.E. Brown, La morte del Messia. Un commentario ai Racconti della Passione nei quattro vangeli, introduzione di G. Ravasi, ed. it. a cura di G. Corti, Brescia 20032, pp. 1239-1261. 51   A. van der Born, J.-C. Margot, Porpora, in DEB, p. 1039; J. Radermakers, Maria negli apocrifi, in DEB, p. 815; A. van der Born, J. Mercier, Giacomo, Protovangelo, in Apocrifi del Nuovo Testamento, DEB, pp. 166-167. Origene, nel suo Commento a Matteo, parla di Maria che abita nel Tempio con altre vergini d’Israele; cfr. PG XIII, coll. 1631 sgg. 52   Gli apocrifi. L’altra Bibbia che non fu scritta da Dio, a cura di E. Weidinger, trad. it. di E. Jucci, Casale Monferrato 1992, pp. 116-117, 144-148, alla p. 147. 49

CAPITOLO SECONDO 1   Oggi alcuni studiosi dubitano che tutti i re d’Israele fossero soggetti al rito dell’unzione, ma nel corso del medioevo si riteneva sicuro. Ad esempio i sovrani di Francia, considerati depositari di un carisma sacro così forte da guarire con il tocco delle loro mani i malati di scrofola, ricevevano l’unzione ben sette volte, anche se una decretale di Innocenzo III aveva riservato il sacro Crisma alla sola consacrazione dei vescovi. Cfr. J.-C. Bonne, Images du sacre, in J. Le Goff, E. Palazzo, J.-C. Bonne, M.-N. Colette, Le Sacre royal à l’époque de saint Louis, Paris 2001, pp. 91-226, alle pp. 168-173; J.T. Nelis, A. Lacocque, Messia, in DEB, pp. 844-845; G.L. Prato, In nome di Davide: simbologia, polivalenza e ambiguità del potere messianico, in Gesù e i messia d’Israele. Il messianismo giudaico e gli inizi della cristologia, a cura di A. Guida e M. Vitelli, Trapani 2006, pp. 31-55, alle pp. 44-47. Sulla sovranità sacra dell’Occidente medievale è ancora un punto di riferimento lo studio di M. Bloch, I re taumaturghi, prefazione di J. Le Goff, trad. it. di S. Lega, Torino 2005. 2   I Re 10, 19; I. Herklotz, Gli eredi di Costantino. Il papato, il Laterano e la propaganda visiva nel XII secolo, Roma 2000, pp. 32-37; C. Mercuri, Corona di Cristo, corona di re. La monarchia francese e la corona di spine nel medioevo, Roma 2004, pp. 57, 126. 3   Il nome di «cavaliere del Tempio» è invece riferito a Roberto di Craon in un documento fatto comporre da Bernardo, vescovo di Nazareth. Cfr. M.C. Barber, The New Knighthood. A History of the Order of the Temple, Cambridge 1994, p. 8. 4   Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., p. 77. 5   Continuity and Innovation in the Magical Tradition: A Jerusalem Symposion and Its Wider Context, in Continuity and Innovation in the Magical Tradition, a cura di G. Bohak, Y. Harari e S. Shaked, Leiden 2011, pp. 1-10, alla p. 3. 6   Niceta Coniate, De Manuele Comneno, IV, 7, in PG 139, p. 490 A-B. 7   I Re 7, 13-46, 2Cr 4, 6; A. van der Born, J.-C. Margot, Bronzo, rame, in

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Note AL CAPITOLO SECONDO DEB, p. 272; A. van der Born, B. Escaffre, Il «mare di bronzo» del Tempio, in DEB, pp. 811-812. Secondo Giuseppe Flavio era stato forgiato con il bronzo che Davide aveva sottratto con una notevole quantità d’oro e altri metalli nobili alle città di Battaia e Machon, probabilmente Tibhat e Chun nell’Antilibano; cfr. Antichità giudaiche, VII, V, 106, ed. Moraldi, vol. I, p. 428. 8   Cfr. A. Cosentino, La tradizione del re Salomone come mago ed esorcista, in Gemme gnostiche e cultura ellenistica, Atti dell’incontro di studio, Verona, 22-23 ottobre 1999, a cura di A. Mastrocinque, Bologna 2002, pp. 41-59. 9   J.T. Nelis, S. Hirsch, Midrash, in DEB, p. 857. 10   Goldhill, Il Tempio di Gerusalemme, cit., pp. 36-37. 11   M. de Mérode, Nag Hammadi, in DEB, pp. 906-908; Sull’origine del mondo, 70, 6-30; 107, 3; Apocalisse di Adamo, 79, 3-13. Per una visione d’insieme cfr. Nag Hammadi, Gnosticism, and Early Christianity, a cura di C.W. Hedrick e R. Hodgson, Peabody (Mass.) 1986; K. Rudolph, Die Gnosis: Texte und Übersetzung, in «Theologische Rundschau», 55 (1990), pp. 113-152. 12   Itinerarium burdigalense, 589, 7-11; cfr. P. Geyer, O. Cunz, Itinerarium Burdigalense, in Itineraria et alia geographica, Turnhout 1965, pp. 14-15 («Corpus Christianorum Series Latina», 175). 13   P. Perdrizet, Étude sur le ‘Speculum humanae salvationis’, Paris 1908, pp. 38-44; Id., Negotium perambulans in tenebris. Études de démonologie gréco-orientale, Paris 1922, p. 34. 14   G.B. De Rossi, Le medaglie di devozione dei primi sei o sette secoli della Chiesa (continuazione e fine), in «Bullettino di archeologia cristiana», VII, 4, 1869, p. 62; Perdrizet, Negotium perambulans, cit., p. 29, fig. 9, e pp. 34-35; F. Pomarici, Cavaliere, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, IV, Roma 1993, p. 570; C. Bonner, Studies in Magical Amulets: Chiefly Greco-Egyptian, Ann Arbor-London 1950, pp. 209-210; Cosentino, La tradizione del re Salomone, cit., p. 46. 15   Parigi, BN, Ms. lat. 1028, f. 290v; Mercuri, Corona di Cristo, corona di re, cit., pp. 126-128; G. Riva, Il nodo di Salomone che Cristo lega e scioglie, in «Avvenire», 11 settembre 2014, pp. 126-127. 16   Bernardo, De laude, IV, 8; Cardini, I poveri cavalieri del Cristo, cit., p. 140. 17   L’edizione di riferimento è quella di D.C. Duling, The Testament of Solomon, in The Old Testament Pseudoepigrapha, a cura di J.H. Charlesworth, vol. I, New York 1983, pp. 935-959. In lingua italiana si veda Testamento di Salomone, introduzione, trad. e note di A. Cosentino, Roma 2013. Una sintesi molto chiara e anche piacevole da leggere sul quadro degli studi è quella di J. Harding, L. Alexander, Dating the Testament of Solomon, pubblicata online sul sito della St. Andrews University (1999). 18   Testamento di Salomone, cit., p. 30. 19   Ivi, pp. 50-51. 20   B. Bagatti, I Giudeo-cristiani e l’anello di Salomone, in «Recherches de Science Religieuse», 60 (1972), pp. 151-168; S. Perea Yébenes, El poder mágico de los anillos, in El sello de Dios. Nueve estudios sobre magia y creencias populares greco-romanas, Madrid 2000, pp. 17-36, alle pp. 18-22.

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Note   A. Lemaire, Sigillo, in DEB, pp. 1204-1207; E. Lipiński, Stella, in DEB, pp. 1245-1247. 22   A. Paravicini Bagliani, Bonifacio VIII, Torino 2000, p. 328. 23   R. Kieckhefer, La magia nel Medioevo, Roma-Bari 2004, pp. 128-134. 24   G. Sfameni Gasparro, Religione e magia nel mondo tardo-antico: il caso delle gemme magiche, in Gemme gnostiche e cultura ellenistica, cit., pp. 258-266. 25   Galeno, De simplicibus, 10, 19; C. Sfameni Gasparro, Magia e potere delle immagini: il caso dei soggetti egiziani, in Gemme gnostiche e cultura ellenistica, cit., pp. 225-242, alla p. 232; Bonner, Studies in Magical Amulets, cit., p. 325; F. De Mely, Les lapidaires de l’antiquité et du Moyen Age, vol. II, Paris 1898, p. 177; O. Neverov, Les amulettes magiques de l’Ermitage. Essai d’une classification, in Gemme gnostiche e cultura ellenistica, cit., pp. 199, 203-205. 26   Sfameni Gasparro, Religione e magia, cit., p. 252. 27   M.G. Lancellotti, Il serpente Ouroboros nelle gemme magiche, in Gemme gnostiche e cultura ellenistica, cit., pp. 71-85, alle pp. 82-85. 28   Plinio il Vecchio, Storia naturale, XXX, 11; J.G. Gager, Moses in Graeco-Roman Paganism, in «Society of Biblical Literature. Monograph Series», 16, 1972. Per l’amuleto, schedato nel corpus delle Inscriptiones Graecae (IG XIV, 2413, 17), cfr. E. Peterson, Das Amulett von Acre, in «Aegyptus», 33 (1953), pp. 172-180; F. Gratz, La magia nel mondo antico, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Roma-Bari 1995, pp. 6-7, 231. 29   Origene, Contra Celsum, IV, 35, cit. in Sfameni Gasparro, Magia e potere delle immagini, cit., pp. 225-242, alla p. 236. 30   A.A. Barb, Three Elusive Amulets, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 27 (1964), pp. 10-17, alla p. 15; Sfameni Gasparro, Magia e potere delle immagini, cit., pp. 240-241. 31   Origene, Contra Celsum, VIII, 58-61; Sfameni Gasparro, Magia e potere delle immagini, cit., p. 232. 32   Cosentino, La tradizione del re Salomone, cit., p. 51. 33   Sacchi, Storia del Secondo Tempio, cit., pp. 318-329; S. Médala, Apocrifi dell’AT, 28, B.b., Libro dei Vigilanti, in DEB, p. 149; E. Lipiński, Nefilim, in DEB, p. 915. 34   Mc 5, 1-20; Mt 8, 28-34; Lc 8, 26-39. 35   Bernardus Claraevallensis, De laude novae militiae, 921C: «Novum, inquam, militiae, et saeculis inexpertum: qua gemino pariter conflictu infatigabiliter decertatur, tum adversus carnem et sanguinem, tum contra spiritualia nequitiae in coelestibus»; Cardini, I poveri cavalieri del Cristo, cit., p. 132. 36   Salmi 10, 9; Siracide 27, 10 e 28, 23, ma soprattutto 1 Pietro 5, 8: cfr. H. Frehen, J.-C. Margot, Leone, in DEB, pp. 757-758; Origene, Contra Celsum, VI, 31; Sfameni Gasparro, Magia e potere delle immagini, cit., p. 238. 37   Cosentino, La tradizione del re Salomone, cit., pp. 41-59, alla p. 41 e nota 3, con ampia bibliografia di riferimento. 38   P. Torijano, La Hygromanteia de Salomón, in «Ilu. Revista de Ciencias de las Religiones», 4 (1999), pp. 327-345. 39   Perdrizet, Negotium perambulans, cit. 21

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Note AL CAPITOLO SECONDO   B. Bagatti, Altre medaglie di Salomone Cavaliere e loro origini, in «Rivista di Archeologia Cristiana», 47 (1971), pp. 322 sgg.; alcuni esemplari, in cui Salomone ha l’aureola, sono riprodotti in Perea Yébenes, El poder mágico, cit., pp. 22-25; Cosentino, La tradizione del re Salomone, cit., pp. 50-53. 41   Per gli studi e le edizioni di questi scritti, cfr. S. Hollis, M. Wright, Annotated Bibliographies of Old and Middle English Literature, vol. IV, Old English Prose of Secular Learning, Cambridge 1993, pp. 51-63; E. Zolla, Le metafore bellicose nella poesia anglosassone ed il dialogo fra Salomone e Saturno, in «Strumenti critici», 2 (1968), pp. 364-377; G. Cilluffo, Il dialogo in prosa Salomone e Saturno del ms. CCCC 422, in «Filologia Germanica», 23 (1980), pp. 121-146; D.C. Skemer, Binding Words: Textual Amulets in the Middle Ages, University Park 2006, pp. 90-91; P. O’Neill, On the Date, Provenance and Relationship of the Solomon and Saturn Dialogues, in «AngloSaxon England», 26 (1997), pp. 139-168; K. Powell, Orientalist Fantasy in the Poetic Dialogues of Solomon and Saturn, in «Anglo-Saxon England», 34 (2005), pp. 117-143; D. Anlezark, The Old English Dialogue of Solomon and Saturn, Cambridge 2009 («Anglo-Saxon Texts», 7). 42   Skemer, Binding Words, cit., p. 91; T.D. Hill, Tormenting the Devil with Boiling Drops: An Apotropaic Motif in the Old English Solomon and Saturn I and Old Norse-Icelandic Literature, in «Journal of English and German Philology», 92, n. 2 (April 1993), pp. 157-166; Perea Yébenes, El poder mágico, cit., pp. 34-36 (il frammento è stato studiato da Mordecai Margalioth e Michael A. Morgan). 43   C.E. Bühler, Prayers and Charms in Certain Middle English Scrolls, in «Speculum», 39, 2 (1964), pp. 270-278; F. Cardini, Il «breve» (secoli XIVXV): tipologia e funzione, in «La ricerca folklorica», 5 (1982), pp. 63-73; D.C. Skemer, Written Amulets and the Medieval Book, in «Scrittura e Civiltà», 23 (1999), pp. 253-305; Id., Amulet Rolls and Female Devotion in the Late Middle Ages, in «Scriptorium», 55 (2001), pp. 197-227; Id., Binding Words, cit., pp. 4-5. 44   E. Lipiński, Asmodeo, in DEB, p. 205; Kieckhefer, La magia nel Medioevo, cit., p. 108. 45   G. Bascapè, Sigillografia. Il sigillo nella diplomatica, nella storia, nel diritto, nell’arte, 2 voll., Milano 1969-1978, vol. II, p. 262; si veda anche L. de Mas-Latrié, Lettre à M. Beugnot sur les sceaux de l’ordre du Temple et sur le temple de Jérusalem au temps des croisades, in «Bibliothèque de l’École des Chartes», 1 (1848), pp. 385-404. 46   L. Doüet D’Arcq, Archives de l’Empire. Collection de sceaux, nn. 98609861; Lille, Archives du Nord, Chambre des Comptes, B 1359/423; Paris, Archives Nationales, J 731 n. 23; S 2155 n. 40; J 153 (Paris, IV 2); DA (9861), in P. de Saint-Hilaire, Les sceaux templiers, Paris 1991, pp. 77-78, 80. 47   E. Sanzi, Magia e culti orientali. Osservazioni storico-religiose intorno ad una gemma eliopolitana conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, in Gemme gnostiche e cultura ellenistica, cit., pp. 207-224, alle pp. 217-222. 48   B. Nardelli, Gemme magiche dalla Dalmazia, in Gemme gnostiche e cultura ellenistica, cit., pp. 181-194, alle pp. 191-195; Neverov, Les amulettes 40

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Note magiques, cit., p. 199; A. Delatte, Ph. Derchain, Les intailles magiques grécoégyptiennes, Paris 1964, p. 24; A. Procopé-Walter, Jao und Set, in «Archiv für Religionswissenschaft», 30 (1933), p. 34. 49   L’associazione di Abraxas con i nomi divini Iao e Sabaoth è comunque ricorrente, prescritta ad esempio nella ricetta per fabbricare un amuleto dal papiro magico di Leida J 384 (PGM XII, 203-210 = Betz, GMPT, p. 161); cfr. Sfameni Gasparro, Magia e potere delle immagini, cit., pp. 233, 240. 50   Sfameni Gasparro, Religione e magia, cit., pp. 243-269, alla p. 255. 51   L. Blau, K. Kohler, voce Abraxas, in Jewish Encyclopedia, vol. VI, New York-London 1901, pp. 129-130. 52   W. Deonna, Abra, abraca: la croix talisman de Lausanne, in «Genava», 22 (1944), pp. 116-137; Skemer, Binding Words, pp. 49-50, 116. 53   M.M. Fulghum, Coins Used as Amulets in Late Antiquity, in Between Magic and Religion: Interdisciplinary Studies in Ancient Mediterranean Religion and Society, a cura di S.R. Asirvatham, C.O. Pache e J. Watrous, Lanham 2001, pp. 139-147; H. Maguire, Magic and Money in the Early Middle Ages, in «Speculum», 72, 4 (ottobre 1997), pp. 1037-1054. 54   PLugBat V, col. 6, linee 27-35 Leemans (PGM XII, linee 203-210), discusso in Perea Yébenes, El poder mágico, cit., pp. 32-33. 55   V. Pace, Arte federiciana e arte sveva. La scultura. La glittica. La miniatura, in Federico II e l’Italia. Percorsi, luoghi, segni e strumenti, Catalogo della mostra, Roma, Palazzo Venezia, 22 dicembre 1995-30 aprile 1996, a cura di O. Zecchino e C. Strinati, Roma 1995, pp. 242-267. 56   Tema ampio e molto dibattuto; per una visione generale, cfr. L. Delisle, Mémoire sur les opérations financières des Templiers, Paris 1889 («Mémoires de l’Institut National de France. Académie des Inscriptions et BellesLettres», 33; nuova ed. Genève 1975); I. de la Torre, The London and Paris Temples:
A Comparative Analysis of their Financial Services for the Kings during the Thirteenth Century, in The Military Orders, vol. IV, cit, pp. 121-127. 57   Cerrini, Une expérience neuve, cit., vol. I, pp. 62-68. 58   H. de Curzon, La Règle du Temple, Paris 1886, § 326. Cfr. anche G. Amatuccio, Il ‘Corpus’ normativo templare. Edizione dei testi romanzi con traduzione e commento in italiano, Martina Franca 2009, pp. xvii-xviii, 170-172. 59   F. Gasparri, Textes autographes d’auteurs victorins du XIIe siècle, in «Scriptorium», 35 (1981), pp. 227-284, e G. Ouy, Manuscrits entièrement ou partiellement autographes de Godefroid de Saint-Victor, in «Scriptorium», 36 (1982), 1, pp. 29-42; nello stesso volume, cfr. anche F. Gasparri, Observations paléographiques sur deux manuscrits partiellement autographes de Godefroid de Saint-Victor, pp. 43-50. 60   S. Cerrini, Nuovi percorsi templari tra i manoscritti latini e francesi della Regola, in I Templari in Piemonte, dalla storia al mito. Atti del convegno, Torino, 20 ottobre 1994, a cura di R. Bordone, Torino 1995, pp. 35-36, note 42 e 43; Ead., La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 47-49. 61   Formule di esorcismi con parole di questo inno, scritte in caratteri runici su alcune croci, sono riportate da L. Gjerløw, Deus pater piissime og blykorsene fra Stavanger bierbedømme, in «Stavanger Museums årbok», 54, 1954, pp. 85-109.

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Note AL CAPITOLO SECONDO   M. MacLeod, B. Mees, Runic Amulets and Magic Objects, Woodbridge 2006, pp. 188-192. 63   Si trova in un amuleto di piombo da Tårnborg (Danimarca); cfr. ivi, p. 138. 64   Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 48-49, 198-199. 65   Ivi, p. 49. 66   Cerrini, Une expérience neuve, cit., vol. I, pp. 88-92; Ead., La rivoluzione dei Templari, cit., p. 157. 67   «Seinhas primirament tu meteis / .iii vegadas e la bestia .i. e dy .iiii. / pater nostre a la honor de mosseinher / sant Gorgi, pueys .iii. vegadas, ayssi val / a my manescalcia», cfr. Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 157-158. 68   Ivi, pp. 14-15, 189. 69   Ivi, p. 28. Sul documento cfr. R. Scholl, Der Papyrus Ebers. Die größte Buchrolle zur Heilkunde Altägypten, Leipzig 2002 («Schriften aus der Universitätsbibliothek», 7). 70   E. Bresciani, Potere della parola e riti di resurrezione nell’Egitto faraonico, in Storia d’Italia. Annali 25. Esoterismo, a cura di G.M. Cazzaniga, Torino 2010, pp. 27-47, alla p. 27; Ead., La stele di Sciabaka, in Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, Torino 1990, pp. 15-18 (nuova ed. 2007). 71   Ivi, pp. 31-36. 72   R. Pépin (ed.), Quintus Serenus (Serenus Sammonicus): Liber medicinalis (le livre de médicine), Paris 1950, p. 48, nota 51, 1.4 (935); Skemer, Binding Words, cit., pp. 24-25. 73   P. Mander, Divinazione e magia cerimoniale nelle civiltà mesopotamiche, in Storia d’Italia. Annali 25. Esoterismo, cit., pp. 5-26. 74   J.G. Frazer, Il ramo d’oro, Einaudi, Torino 1950, p. 47; L.B. Pinto, Medical Science and Superstition: A Report on a Unique Medical Scroll of the Eleventh-Twelfth Century, in «Manuscripta», 17 (1973), pp. 12-21; Kieckhefer, La magia nel Medioevo, cit., pp. 17-18. 75   Simo Parpola ha espresso la convinzione che le radici della Cabbala si trovino proprio nella religiosità assira; cfr. S. Parpola, The Assyrian Tree of Life: Tracing the Origin of Jewish Monotheism and Greek Philosophy, in «Journal of Near Eastern Studies», n. 52 (1993), pp. 161-208. 76   Mander, Divinazione e magia cerimoniale, cit., pp. 8-11. 77   Amatuccio, Il ‘Corpus’ normativo templare, cit., pp. ix-xi; M.S. Corradini Bozzi, Ricettari medico-farmaceutici medievali nella Francia meridionale, vol. I, Firenze 1997, pp. 133-154. 78   R.E. Van Voorst, Gesù nelle fonti extrabibliche. Le antiche testimonianze sul Maestro di Galilea, trad. it. di M. Rimoldi, Cinisello Balsamo 2004, pp. 100-124. 79   Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, a cura di N. Natalucci, Firenze 1991, p. 200 («Biblioteca Patristica», 17); Mercuri, Corona di spine, corona di re, cit., p. 27, nota 10. 80   H. Usener, Acta S. Marinae et S. Christophori, Bonn 1896, f. 138r (pp. 36, 28-29); R. Tortorelli, Le fonti agiografiche su santa Marina di Antiochia e san Nicola di Myra e il culto dei due santi nel Mezzogiorno d’Italia, in «Spolia. 62

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Note Journal of Medieval Studies», LVI (2008), pp. 1-32, alle pp. 4-5; Cosentino, La tradizione del re Salomone, cit., pp. 45-46. 81   Decretum gelasianum, V, 8; Origene, PG XIII, 1757C, cfr. Cosentino, La tradizione del re Salomone, cit., p. 45. 82   D.E. Aune, Apocalypticism, Prophecy and Magic in Early Christianity: Collected Essays, Tübingen 2006, pp. 368-420, specie alle pp. 382, 393.  83   Agostino d’Ippona, Enarratio in Psalmos, XL, 3, cfr. Sfameni Gasparro, Religione e magia, cit., p. 269. 84   Agostino d’Ippona, De doctrina christiana, 2, 20, 30; De civitate Dei, VIII, capitolo 19; Skemer, Binding Words, cit., pp. 32-33. 85   Epistolae karolini aevi, in Monumenta Germaniae Historica: Epistolae, vol. IV, a cura di E.L. Dümmler, Hannover 1895, p. 448, nota 290; Skemer, Binding Words, cit., pp. 36-37. Sulla normativa dei concili, K.J. von Hefele, Histoire des conciles d’après les documents originaux, Paris 1907, vol. I, pp. 1018-1019 (canone 36); Graziano, Decretum, causa 26, q. 5, cap. 4; Skemer, Binding Words, cit., pp. 45-47. 86   P. Boglioni, L’Église et la Divination au Moyen Âge, ou les avatars d’une pastorale ambiguë, in «Théologique: Revue de la Faculté de Théologie de l’Université de Montréal», 8, n. 1 (April 2000), pp. 33-66; Kieckhefer, La magia nel Medioevo, cit., pp. 197-230. 87   M. Ascheri, Streghe e devianti: alcuni «consilia» apocrifi di Bartolo da Sassoferrato?, in Scritti di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei, a cura di M. Ascheri, Padova 1991, pp. 203-234, alla p. 225; A. Romano, Medici, streghe e fattucchiere nelle fonti giuridiche siciliane del tardo medioevo e della prima età moderna, in Stregoneria e streghe nell’Europa moderna. Convegno internazionale di studi (Pisa, 24-26 marzo 1994), a cura di G. Bosco e P. Castelli, Roma 1996, pp. 273-286; M.G. Nico Ottaviani, «Exorcismata et incantationes» nella legislazione statutaria umbra dei secoli XIII-XVI, in «Non lasciar vivere la malefica»: le streghe nei trattati e nei processi (secoli XIV-XVII), a cura di D. Corsi e M. Duni, Firenze 2008, pp. 45-52, alle pp. 46-49. 88   J. Walker, P. Fenton, Sulayman b. Dāwūd, in Encyclopédie de l’Islam, Nouvelle édition, vol. IX, Leiden 1998, pp. 857-858. Cfr. anche sure 21, 8; 38, 36; 27, 15-18. 89   Sura 34, 12-14, al punto 13. Le citazioni sono tratte da Il Corano, introduzione, traduzione e commento di F. Peirone, Milano 1995. In modo simile anche nella sura 21, 81 (I, 460): «Padrone del vento fu pure Sulaymān, il vento carico di tempesta, che ai suoi cenni soffiava fino alle frontiere della terra sulla quale avevamo riversato le nostre benedizioni. [...] Gli assoggettammo altresì i shayṭān: ai suoi cenni alcuni si tuffavano in mare e compivano, sotto la nostra sorveglianza, ogni sorta di cose: in fin dei conti proteggiamo anche loro!». 90   A. Dietrich, Al-Būnī, in Encyclopédie de l’Islam, Nouvelle édition, Supplément, Livraison 1-2, Leiden 1980, pp. 156-157; M. Ullmann, Die Medizin im Islam, Leiden 1970, p. 249. 91   A. Ateș, Ibn al-҅Arabī, in Encyclopédie de l’Islam, Nouvelle édition, vol. III, Leiden 1971, pp. 729-734.

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Note AL CAPITOLO TERZO   Ibn al-Athīr, Annales du Maghreb et de l’Espagne, trad. fr. e note di E. Fagnan, Algeri 1898, pp. 37 sgg.; Ṭabarī, La Chronique, trad. fr. di H. Zotenberg, 4 voll., Nogent-le-Rotrou 1867-74, vol. IV, p. 183; R. Dozy, Recherches sur l’histoire et la littérature de l’Espagne pendant le moyen âge, Paris 1881; F. Rosenthal, Ibn al-Athīr, in Encyclopédie de l’Islam, Nouvelle édition, vol. III, Leiden 1971, pp. 746-747. 93   J.G. Frazer, Folklore in the Old Testament. Studies in Comparative Religion Legend and Law, vol. II, London 1919, p. 390. 94   A. Geoffroy, Al-Suyūṭī, in Encyclopédie de l’Islam, Nouvelle édition, vol. IX, cit., pp. 951-954; H.N. Kennedy, The Historiography of Islamic Egypt (c. 950-1800), Leiden 2000, p. 89. 95   F. Rosenthal, Fithāghūras, in Encyclopédie de l’Islam, Nouvelle édition, vol. II, Leiden 1965, pp. 951-952. 96   S. Brentjen, Uḳlīdis, in Encyclopédie de l’Islam, Nouvelle édition, vol. X, Leiden 2002, pp. 855-856. 97   E. Garin, Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Roma-Bari 2007, pp. 3-30, e su Picatrix, pp. 33-60; F. Saxl, La fede negli astri. Dall’antichità al Rinascimento, a cura di S. Settis, Torino 2007, pp. 175-185, e su Picatrix, pp. 142, 464-466. 98   E. Paschetto, Pietro d’Abano, medico e filosofo, Firenze 1984, p. 29; A. Paravicini Bagliani, Medicina e scienze della natura alla corte dei papi nel Duecento, Spoleto 1991, pp. 38-39; D. Pingree, The Diffusion of Arabic Magical Texts in Western Europe, in La diffusione delle scienze islamiche nel Medioevo europeo, Roma 1987, pp. 57-102; A. Paravicini Bagliani, Bonifacio VIII, Torino 2003, pp. 327-330. 99   «Un pagano, Flegetanis, si era acquistato una grande fama col sapere delle arti: quel fisiomante discendeva da Salomone, da una stirpe di Israele di un’epoca remota, quando il battesimo non era ancora il nostro scudo contro il fuoco dell’inferno, e mise per iscritto la portentosa avventura del Graal», in Wolfram von Eschenbach, «Parzival», a cura di A. Cipolla, in Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, a cura di M. Liborio, testo introduttivo di F. Zambon, Milano 2005, pp. 1155-1618, alla p. 1410; nello stesso volume, cfr. anche A. Cipolla, La pietra e la scrittura, pp. 1117-1154, alla p. 1133. 92

CAPITOLO TERZO 1   E. Lalou, Itinéraire de Philippe IV le Bel (1285-1314), 2 voll., Paris 2007, vol. II, p. 299. 2   A. Paravicini Bagliani, Clemente V, in Enciclopedia dei Papi, 3 voll., Roma 2000, vol. II, pp. 501-512. Sulla personalità e la vicenda storica di questo pontefice, si veda S. Menache, Clement V, Cambridge 2002. 3   La bibliografia sul processo contro i Templari è così vasta che si rende necessario rinviare il lettore ad alcuni studi di riferimento, i quali formano una base di partenza per qualunque approfondimento: K. Schottmüller, Der Untergang des Templerordens, 2 voll., Berlin 1887; H. Finke, Papsttum und

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Note Untergang des Templerordens, 2 voll., Münster 1907; M.C. Barber, The Trial of the Templars, Cambridge 1978 (nuova ed. 2006); Demurger, Vita e morte, cit.; B. Frale, L’ultima battaglia dei Templari. Dal codice ombra d’obbedienza militare alla costruzione del processo per eresia, Roma 2001; Ead., Il Papato e il processo ai Templari. L’inedita assoluzione di Chinon alla luce della diplomatica pontificia, Roma 2003; The Debate on the Trial of the Templars, a cura di J. Burgtorf, P.F. Crawford e H. Nicholson, Aldershot 2010. 4   J. Chiffoleau, Le procès comme mode de gouvernement, in L’età dei processi. Inchieste e condanne tra politica e ideologia nel ’300, Atti del Convegno di Ascoli Piceno, 30 novembre-1° dicembre 2007, a cura di A. Rigon e F. Veronese, Roma 2009, pp. 321-347. 5   Finke, Papsttum und Untergang, cit., vol. II, p. 51: «Intendo tamen, quod summus pontifex et dominus rex hoc faciant causa habendi de eorum moneta et quia [facere] volunt de Hospitali et Templo et omnibus aliis freriis unam simplicem mansionem, cuius mansioni rex predictus unum ex eius filiis regem facere dexiderat et intendit. Templum autem de hiis multum durum existit nec adhuc in hiis voluit convenire». 6   P. Amargier, La défense du Temple devant le Concile de Lyon en 1274, in 1274, année charnière: mutations et continuité, Colloque International du Cnrs, Lyon-Paris 1974, Paris 1977, pp. 495-501. 7   Del memoriale di Jacques de Molay si conserva una copia eseguita nella Cancelleria di Filippo IV e trascritta nel registro di Pierre d’Étampes, Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. lat. 10919, ff. 151-153; l’edizione moderna relativa al progetto di fusione è in G. Lizerand, Le dossier de l’affaire des Templiers, Paris 1923 (ristampa anastatica 1989), pp. 2-15. Quello di Folques de Villaret, capo degli Ospitalieri, ci è giunto in originale e si conserva nei fondi dell’Archivio Segreto Vaticano. Pubblicato da Joseph Petit, che ne curò l’edizione in Mémoire de Folques de Villaret sur la croisade, in «Bibliothèque de l’École des Chartes», 60 (1899), pp. 602-610, e discusso anche da Alain Demurger (Jacques de Molay, cit., pp. 195-202; 323, nota 8), viene però citato con una segnatura inesatta che ostacola il compito di ritrovarlo nella mole sterminata di documenti dell’Archivio Segreto. Quella corretta è Instrumenta miscellanea (A. 1298-1309), II, Cronologico, 3, n. 393. Si tratta di un originale composto da due pergamene cucite, non reca data. Sul tergo, un archivista del passato ne ha dedotto la datazione così: Forte est (ann.) 1306; memoratur enim quod 118 anni effluxerunt a capta Ierusalem, quae an. 1187 expugnata fuit. Il titolo con cui venne recepito dalla Cancelleria apostolica suona così: Instructiones magistri Hospitalis super negotio Terrae Sanctae, seu generali passagio. 8   Demurger, Chevaliers du Christ, cit., pp. 215-230; N. Morton, Gli ordini religiosi militari, trad. it. di F.P. Terlizzi, Bologna 2014, in particolare pp. 179-202. 9   Sulla cooperazione fra Templari e corona francese si vedano ad esempio i rapporti eccellenti intrattenuti da re Luigi IX con frate Amaury de La Roche, e le insistenze reali presso il papa per ottenere che quel cavaliere rivestisse il ruolo di comandante del Tempio in Francia, cfr. Les registres d’Urban IV (1261-1264), a cura di J. Guiraud e S. Clémencet, 4 voll., Paris

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Note AL CAPITOLO TERZO 1899-1958, vol. I, nn. 760, 763, 771, pp. 364-365, 369-370, 373-374; si veda anche J. Le Goff, San Luigi, Torino 1996, pp. 157, 369. 10   Lizerand, Le dossier de l’affaire des Templiers, cit., pp. 20-21. 11   É. Baluze, Vitae paparum Avenionensium (1693), a cura di G. Mollat, Paris 1921, vol. III, pp. 91-92; Frale, Il Papato e il processo ai Templari, cit., p. 79. 12   Molti Templari ribadirono in diversi momenti del processo che secondo loro la sostanza delle accuse era infondata, come fece ad esempio Baudoin de Saint-Just, precettore di una magione nella diocesi di Amiens: «credit contenta in dictis articulis esse trufatoria et non vera», in J. Michelet, Le procès des Templiers, 2 voll., Paris 1841-1851 («Collection des documents inédits sur l’Histoire de France»), vol. I, p. 244 (l’opera è stata riedita nel 1987, con prefazione di J. Favier). 13   G. Brugnoli, I Templari in Dante e nell’Antico Commento alla Commedia, in Acri 1291. La fine della presenza degli ordini militari in Terra Santa e i nuovi orientamenti nel XIV secolo, a cura di F. Tommasi, Perugia 1996, pp. 195-210. 14   D. Doré, Pilato, Atti, in DEB, pp. 169-170; A. Penna, Pilato, Ponzio, in Enciclopedia Dantesca, vol. IV, Roma 1973, p. 521. 15   Si veda in proposito l’accurata analisi del processo romano di Gesù (specie Parte Terza e Quarta) condotta da R.E. Brown, La morte del Messia. Un commentario dei racconti della Passione nei quattro vangeli, introduzione all’ed. it. di G. Ravasi, Brescia 1999, pp. 888-972. 16   J. Favier, L’enigma di Filippo il Bello, Roma 1982, pp. 229, 533; J. Coste, Boniface VIII en procès. Articles d’accusations et dépositions des témoins (1303-1311), Roma 1995, pp. 441, 755; Lalou, Itinéraires de Philippe IV le Bel, cit., vol. II, pp. 358, 365, 367, 374, 376 (nota), 392, 394, 415 (nota), 416, 419. 17   Lalou, Itinéraires de Philippe IV le Bel, cit., vol. II, p. 278 (con indicazione degli atti che lo riguardano); Michelet, Le procès des Templiers, cit., vol. I, p. 276, testimonianza di frate Amaury de Villiers-le-Duc, il quale ammise d’aver confessato i crimini richiesti perché spaventato dalla notizia che cinquantaquattro Templari erano stati arsi vivi poiché avevano negato le colpe, e indotto «propter multa tormenta sibi, ut dixit, illata per dominos G. de Marcilhiaco et Hugo de Cella milites regios, qui inquisiveant cum eodem»; ivi, vol. II, pp. 316, 357, 361. 18   «Il re si stracca il corpo / nei boschi, cacciando il porco / e gli uccelli che son volatili. / [...] Sire, voi non fate che cacciare!», in La chronique métrique attribuée à Geoffroy de Paris, in Lalou, Itinéraire de Philip IV le Bel, cit., vol. I, p. 102. Ho reso «porco» al singolare invece del plurale presente nella fonte per cercare di rendere almeno in parte con un’assonanza la rima insita nel testo originale. 19   Cronaca di Jean de Saint-Victor, in Recueil des Historiens des Gaules et de la France, XXI, Paris 1855, 658C; Lalou, Itinéraires de Philippe IV le Bel, cit., vol. II, p. 417. 20   Un resoconto di quanto accadeva – teoricamente a porte chiuse – nella canonica della cattedrale di San Lorenzo a Perugia, sede del conclave, ci

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Note viene offerto specialmente dalle relazioni inviate a re Giacomo II d’Aragona dai suoi agenti in loco. La migliore descrizione di questi scontri, anche per la ricchezza delle fonti citate, è ancora quella offerta da G. Fornaseri, Il conclave perugino del 1304-1305, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 10 (settembre/dicembre 1956), pp. 321-344; un aggiornamento si trova in Menache, Clement V, cit., pp. 13-22. 21   L. Gatto, Gregorio X, beato, in Enciclopedia dei Papi, 3 voll., Roma 2000, vol. II, pp. 411-422. 22   H. Finke, Acta Aragonensia, Rothschild, Berlin 1908-22, vol. I, pp. 195-197: «Demum nos et terram nostram vobis offerimus, ut, si sanctitati vestre placuerit per terram ipsam transitum facere, per quam esse credimus iter rectum, ad vos continuo cum nobilibus, militibus et alia gente nostra usque ad confinia Vaschonie et intra etiam obviam exientes et si de vestro fuerit beneplacito voluntatis, ut per mare vester fiat accessus, galeas aliaque vasa, cum quibus secure et libere transfretare poteritis, parata tenemus». 23   Ivi, p. 197. Il neoeletto ringrazia re Giacomo II per la sua offerta, ma non vuole prendere atto di essere divenuto papa poiché non gli è ancora stato consegnato il decreto elettivo, il documento probante che rende il fatto indubitabile: «magnificencie vestre referimus graciarum uberes acciones, vobis intimantes, quod nondum recepimus decretum electionis, que de nobis dicitur celebrata». 24   Matteo Rosso morì il 4 settembre, e subito dopo il papa si fece confezionare il proprio sigillo apostolico (bulla); cfr. le fonti edite in Finke, Acta Aragonensia, cit., vol. I, pp. 193, 198. 25   L’incessante peregrinazione della corte papale nei primi tempi di regno si osserva bene grazie alla data topica dei suoi documenti, che cambiano continuamente luogo durante il primo anno, trovando poi una momentanea sosta nella città di Poitiers dal maggio 1307 e quindi, dopo l’aprile 1309, in Avignone (cfr. Regestum Clementis papae V, voll. I-III, Roma 1885-1886, anni I-IV; vol. I, pp. 1-284; vol. II, pp. 24 sgg.; vol. III, pp. 68 sgg.). 26   Per una sintesi sull’evoluzione degli Stati di Terrasanta, cfr. M.C. Barber, The Two Cities. Medieval Europe, 1050-1320, London-New York 2004, pp. 353-372. 27   Cfr. S. Schein, «Fideles crucis». Il papato, l’Occidente e la riconquista della Terrasanta, 1274-1314, trad. it. di G. Pasquali, presentazione di F. Cardini, Roma 1999, p. 52. 28   A. Demurger, Crociate e crociati nel medioevo, trad. it. di E. Lana, Milano 2006, pp. 97-102. 29   Schein, «Fideles crucis», cit., pp. 52, 60; Demurger, Crociate e crociati, cit., pp. 97-109; M. Villey, La croisade. Essai sur la formation d’une théorie juridique, Paris 1942, p. 136; P. Pirillo, Terra santa e ordini militari attraverso i testamenti fiorentini prima e dopo la caduta di San Giovanni d’Acri, in Acri 1291, cit., pp. 121-135, alle pp. 125-126. 30   Per una rapida visione d’insieme si veda anche Demurger, Crociate e crociati, cit., pp. 227-261. 31   Il dossier che Beaujeu lesse davanti ai padri conciliari si conserva in

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Note AL CAPITOLO TERZO Francia, Archives Départementales des Bouches-du-Rhône, 56 H, 5.168, ed è stato edito da Amargier, La défense du Temple devant le Concile de Lyon en 1274, cit., pp. 495-501. Si veda F. Cardini, Il ruolo degli ordini militari nel progetto di ‘recuperatio’ della Terrasanta secondo la trattatistica dalla fine del XIII al XIV secolo, in Acri 1291, cit., pp. 137-142, e P. Evangelisti, Il ‘Liber recuperationis Terre Sancte’ di Fidenzio da Padova: un progetto egemonico francescano per il recupero ed il governo della Terrasanta, ivi, pp. 143-170. 32   Sul mutamento dell’opinione pubblica nei confronti degli ordini militari e la fioritura di opere polemiche, si veda Demurger, Vita e morte, cit., pp. 218-231; sui Templari in particolare cfr. C. Manetti, «Come Achab al calar del sole»: un domenicano giudica i Templari. La caduta d’Acri nella testimonianza di Fra’ Ricoldo da Monte Croce, in Acri 1291, cit., pp. 171-180, ed E. Coli, Perdita della Terrasanta e abolizione dell’ordine templare nella Cronaca di Fra’ Elemosina, O.f.m., ivi, pp. 181-193. 33   J. Le Goff, Società tripartita, ideologia monarchica e rinnovamento economico nella cristianità dal secolo IX al XII, in Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino 2000, pp. 31-51. 34   Erano soprattutto fiorentini e lombardi i banchieri e gli appaltatori delle zecche in Europa, fra cui anche quella di Francia; da questi appalti ottenevano lauti guadagni, e naturalmente ne ricavavano anche una posizione di potere in ambito sociale. Sotto il regno di Filippo il Bello gli italiani avevano conquistato un ruolo importante nella finanza francese; Gandolfo degli Arcelli da Piacenza controllava i mercati di Parigi, Bettino Cassinelli deteneva in appalto la zecca, e i banchieri Albizzo e Musciatto Guidi, chiamati Biche e Mouche, prestavano denaro al sovrano in caso di bisogno, ottenendo fra l’altro di essere da lui nobilitati con il titolo di milites. Cfr. Favier, L’enigma di Filippo il Bello, cit., pp. 32-33, 137, 189, 215, 225; Lalou, Itinéraires de Philippe IV le Bel, cit., vol. I, pp. 270 (Biche), 322 (Mouche); vol. II, p. 101 (Bettino Cassinelli), 246, 332 (Gandolfo degli Arcelli). Si vedano anche L. Di Fazio, Lombardi e templari nella realtà socio-economica durante il regno di Filippo il Bello (1285-1314), Milano 1986, e L. Travaini, L’organizzazione delle zecche toscane nel XIV secolo, in La Toscana nel secolo XIV. Caratteri di una civiltà regionale, a cura di S. Gensini, Ospedaletto (PI) 1988, pp. 241249, specie pp. 245-248. 35   Il Tempio di Parigi aveva ospitato e gestito il Tesoro reale di Francia per molti decenni, prescelto sia per le garanzie di sicurezza che offriva la sua struttura fortificata, sia perché la regola templare era molto rigida sulle questioni connesse con il furto; cfr. Delisle, Mémoires sur les opérations financières des Templiers, cit., p. 3; I. de la Torre, The London and Paris Temples, cit., pp. 121-127. 36   Una buona analisi sul carattere del re di Francia è quella sviluppata da E. Brown, The Prince Is Father of the King: The Character and Childhood of Philip the Fair of France, in The Monarchy of Capetian France and Royal Ceremonial, Aldershot 1991, pp. 282-334. Sulla biografia e la personalità del Gran Maestro si veda invece Demurger, Jacques de Molay, cit., dove alle pp.

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Note 292-297 lo storico esamina le responsabilità di Molay nel processo, secondo la sua visione personale. Sulla monarchia capetingia, cfr. Barber, The Two Cities, cit., pp. 247-274. 37   Favier, L’enigma di Filippo il Bello, cit., pp. 157-229; E. Brown, The Marriage of Isabelle and Royal Finances, 1308, e Protest and Negotiation in Paris and the Provinces, 1309-1311, entrambi in Customary Aids and Royal Finance in Capetian France, Cambridge 1992, rispettivamente alle pp. 11-33, 147-185; E. Brown, N. Freeman Regalado, ‘La grant feste’: Philip the Fair’ Celebration of the Knighthing of His Sons in Paris at Pentecost of 1313, in City and Spectacle in Medieval Europe, a cura di B.A. Hanawalt e K.L. Reyerson, Minneapolis 1994, pp. 56-88. 38   Favier, L’enigma di Filippo il Bello, cit., pp. 513-518; Barber, The Trial, cit., pp. 259-270. 39   Giovanni Villani, Nova Cronica, a cura di G. Porta, Parma 1991, libro XCII, pp. 662-663. 40   Sulla regalità monarchica sono sempre valide le opere generali di E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re, introduzione di A. Boureau, trad. it. di G. Rizzoni, Torino 2012 (per la teoria del re come gemina persona, o persona mixta, pp. 42-85), e J. le Goff, Il re nell’Occidente medievale, trad. it. di R. Riccardi, Roma-Bari 2006; sul tocco delle scrofole e l’ideologia regale sottesa, cfr. Bloch, I re taumaturghi, cit., pp. 35-98, 108, 161. 41   Cronaca del Templare di Tiro. La caduta degli Stati crociati nel racconto di un testimone oculare, a cura di L. Minervini, Napoli 2000, capp. 695-696; questa fonte, di primaria importanza nella storia dei Templari, mette addirittura in relazione diretta il conflitto scoppiato tra il Gran Maestro e Filippo IV per il prestito forzoso e il successivo rogo di Jacques de Molay. La relazione di un inviato presso la Curia romana scritta al comandante templare della casa di Ascó conferma questo litigio: «Encara sapiats, segon que hun scuder ha comtat, qui es vengut de Paris, quel seynor maestre ha aguts forç paraules e molt grasses ab lo seynor rey de França», in Finke, Papsttum und Untergang, cit., vol. II, pp. 58-60. 42   In alcune bolle successive, lo stesso pontefice cita queste denunce ufficiose sporte dal sovrano durante la sua cerimonia di consacrazione, nell’autunno 1305; la notizia delle dodici spie viene da una fonte sicura e di prima mano: il giurista Guillaume de Plaisians, braccio destro di Nogaret; cfr. Finke, Papsttum und Untergang, cit., vol. II, p. 145. 43   L’immunità particolare di cui godeva l’ordine del Tempio si doveva a una lunga serie di privilegi apostolici cominciata con l’Omne datum optimum, emesso nel 1139 da papa Innocenzo II (già allievo di san Bernardo di Clairvaux), che i successori ripresero e amplificarono. Cfr. R. Hiestand, Papsturkunden für Templer und Johanniter, 3 voll., Göttingen 1972-1983. Agli inizi del Duecento, dopo le grandi conquiste di Saladino che avevano sottratto ai cristiani Gerusalemme e inferto grandi perdite umane agli ordini militari, e dovendo supportare una nuova colonizzazione cattolica nei territori sottratti al dominio bizantino con la quarta crociata, papa Innocenzo III varò una serie di provvedimenti per rimpinguare le file di Templari e Ospitalieri; concesse in tal modo deroghe alla normativa vigente che amplia-

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Note AL CAPITOLO TERZO vano ulteriormente le immunità già in loro possesso (cfr. B. Frale, La quarta crociata e il ruolo dei Templari, in Quarta crociata. Venezia-Bisanzio-Impero latino, relazioni presentate alle giornate di studio organizzate per l’ottavo centenario della quarta crociata, 2 voll., a cura di G. Ortalli, G. Ravegnani e P. Schreiner, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 2006, pp. 467-484, alle pp. 460-466). 44   Baluze, Vitae paparum avenionensium, cit., vol. III, pp. 58-60; Demurger, Jacques de Molay, cit., pp. 233-234. 45   Il testo della bolla con cui Filippo il Bello fu scomunicato è edito in J. Dupuy, Histoire du différend d’entre le pape Boniface VIII et Philippes le Bel roy de France, Paris 1655, pp. 182-186; la discussione nel contesto dell’agguato di Anagni in A. Paravicini Bagliani, Bonifacio VIII, Torino 2003, pp. 342-363. 46   Si vedano le varie fasi dalla sequenza usata per l’incoronazione di Luigi IX, in J.-C. Bonne, Images du sacre, in Le sacre royal à l’époque de Saint Louis d’après le manuscrit latin 1246 de la BNF, Paris 2001, pp. 91-226. 47   Lettera scritta da Bernard de Baynuls al confratello Arnaud, precettore della casa templare di Gardeny (Aragona) agli inizi del 1308; Finke, Papsttum und Untergang, cit., vol. II, pp. 110-112, alla p. 111. 48   Ivi, p. 110: «Et com aquestes paraules agren coregut tro VIII dies, vengren ne autres, quel maester mayor avia confesat ab CCL frares tots aquels capitols, que contra vosaltres son posats, eser ver, et daso corec gran romor per tota nostra terra». L’informatore riferisce che le confessioni dei Templari francesi raccolte durante le prime settimane dopo l’arresto erano dunque 250, ma una lettera successiva (datata al 21 aprile 1308), diretta sempre al precettore di Gardeny, aggiorna la cifra a 300 testimonianze (ivi, p. 123). 49   Elizabeth Brown, che ha studiato per anni la monarchia capetingia, crede che dopo essere rimasto vedovo (il 2 aprile 1305) re Filippo il Bello si fosse in qualche modo ritirato a vita privata, limitandosi ad avallare le operazioni principali della politica regale senza però dirigerle di persona: «After his wife’s death, for three years and more, he contemplated abdicating the throne, leaving his eldest son as king of France, and himself becoming ruler of the Holy Land and the director of a single, united crusading order», in Brown, The Prince Is Father of the King, cit., pp. 282-334. 50   Favier, L’enigma di Filippo il Bello, cit., pp. 13-79. 51   B. Frale, L’interrogatorio ai Templari nella provincia di Bernardo Gui: un’ipotesi per il frammento del Registro Avignonese 305, in Dall’Archivio Segreto Vaticano. Miscellanea di testi, saggi e inventari, vol. I, Città del Vaticano 2006, pp. 198-272 («Collectanea Archivi Vaticani», 61); V. Challet, Entre expansionisme capétien et relent d’hérésie: le procès des templiers du Midi, in Les ordres religieux militaires dans le Midi (XIIe-XIVe siècle), in «Cahiers de Fanjeaux», 41 (2006), pp. 139-168, e B. Frale, Du catharisme à la sorcellerie: les inquisiteurs du Midi dans le procès des templiers, ivi, pp. 169-210. 52   Barber, The Trial, cit., pp. 306-307; Demurger, Vita e morte, cit., pp. 268-269; Frale, L’ultima battaglia dei Templari, cit., pp. 168-205; Ead., Il Papato e il processo ai Templari, cit., pp. 95-132.

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Note   B. Frale, The Chinon Chart. Papal Absolution to the Last Templar Master, Jacques de Molay, in «Journal of Medieval History», 30/2 (April 2004), pp. 109-134; A. Demurger, «Manuscrit de Chinon» ou «Moment de Chinon»? Quelque remarque sur l’attitude du pape Clément V envers les Templiers à l’été 1308, in «Come l’orco della fiaba». Studi per Franco Cardini, cit., pp. 111-121. 54   Barber, The Trial, cit., pp. 217-258; Demurger, Vita e morte, cit., pp. 54, 244-245, 278-284. Nella penisola italiana, che pure era disseminata di case templari, furono arrestati solo pochissimi frati, poiché la maggioranza, come del resto accadde in altre zone d’Europa, aveva potuto darsi alla fuga grazie alla connivenza delle autorità locali; cfr. B. Frale, Lo strano caso del processo ai Templari in Italia, in L’età dei processi, cit., pp. 33-62. 55   Finke, Papsttum und Untergang, cit., vol. II, pp. 364-379; A. Mercati, Interrogatorio dei Templari a Barcellona (1311), in «Gesammelte Aufsätze zur Kulturgeschichte Spaniens», VI (1937), pp. 240-251; J.M. Sans i Travé, L’inedito processo dei Templari in Castiglia (Medina del Campo, 27 aprile 1310), in Acri 1291, cit., pp. 227-264. 56   Barber, The New Knighthood, cit., pp. 265-279. Sulle persone e i beni del Tempio dopo lo scioglimento dell’ordine esistono studi relativi a zone circoscritte, come ad esempio quelli di A. Demurger, Dal Tempio all’Ospedale: il destino delle commende templari nella contea di Auxerre (sec. XIV), in Acri 1291, cit., pp. 93-98, e di R. Vinas, Le destin des Templiers du Roussillon, 1276-1330, in «Cahiers de Fanjeaux», 41 (2006), pp. 187-210. Uno studio recente sulla bolla di chiusura è quello di D. Lancianese, ‘Vox in excelso’. La bolla che cancellò i Templari, in Dall’Archivio Segreto Vaticano. Miscellanea di testi, saggi e inventari, vol. V, Città del Vaticano 2011, pp. 187-256 («Collectanea Archivi Vaticani», 84). 57   Regestum Clementis Papae V, anni VIII-IX, Roma 1888, n. 10355, pp. 126-130. 58   Chronique rimée attribuée à Geoffroy de Paris, in «Revue historiques des Gaules et de la France», XXII (1865), pp. 143-145. 59   Cronaca del Templare di Tiro, cit., cap. 462; il testo originale alle pp. 462 e 464. 60   Barber, The Trial, cit., pp. 258-282. 61   Lalou, Itinéraires de Philippe IV le Bel, cit., vol. II, p. 417. 62   Frale, L’ultima battaglia dei Templari, cit., pp. 300-304; Ead., Il Papato e il processo ai Templari, cit., pp. 139-192. 63   M. Pastoureau, Medioevo simbolico, trad. it. di R. Riccardi, Roma-Bari 2009, pp. 56-68. Sul tema si vedano anche P. Galloni, Il cervo e il lupo. Caccia e cultura nobiliare nel Medioevo, Roma-Bari 1993; La Chasse au Moyen Âge. Société, traités, symboles, a cura di A. Paravicini Bagliani e B. Van den Abeele, Firenze 2000. Sulle abitudini alimentari dell’aristocrazia e il predominio della carne, cfr. M. Montanari, Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Roma-Bari 2012, pp. 68-79. 64   L. Douët d’Arcq, Note sur la mort de Philippe le Bel, in «Revue des sociétés savantes», serie VI, 4 (1876), pp. 277-280; C. Baudon de Mony, La mort et les funérailles de Philippe le Bel d’après un compte rendu à la cour de Majorque, in «Bibliothèque de l’École des Chartes», 68 (1897), pp. 5-14; 53

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Note AL CAPITOLO QUARTO Favier, L’enigma di Filippo il Bello, cit., pp. 575-576; Lalou, Itinéraires de Philippe IV le Bel, cit., vol. II, pp. 426-427. 65   Villani, Nova Cronica, cit., XCII, p. 665.

CAPITOLO QUARTO   Archivio Segreto Vaticano (d’ora in poi ASV), Collectoriae, n. 468, f. 95v: «Item libretus in gallico scriptus, coopertus corio rubeo, continens ordinaciones Templariorum, qui incipit in secundo folio: come diur, et finit in penultimo folio: potest»; F. Ehrle, Historia Bibliothecae Romanorum Pontificum tum Bonifatianae tum Avenionensis enarrata et antiquis earum indicibus aliisque documentis illustrata, Romae 1890, p. 417. 2   ASV, Collectoriae, n. 468, f. 19v: «Item in quodam alio coffro viridi, ferrato, cum sola sera, signato per litteram Y, sunt informationes facte de mandato domini Clementis pape quinti per universum mundum contra magistros et fratres militie Templi, qui una die fuerunt omnes capti, sicut in cedula dicto coffro affixa continetur, que fuisse[n]t difficile seriatim designare»; cfr. Ehrle, Historia Bibliothecae Romanorum Pontificum, cit., p. 283. 3   B. Guillemain, La Chiesa nel Regno di Francia, in Storia del cristianesimo, cit., vol. 6, Un tempo di prove (1274-1449), a cura di A. Vasina, Roma 1998, pp. 590-615. B. Frale, I documenti non pontifici conservati in inserto nei Registri Lateranensi: un esempio significativo (Reg. Lat. 817), in ‘Religiosa Archivorum Custodia’. IV centenario della fondazione dell’Archivio Segreto Vaticano (1612-2012). Atti del Convegno di Studi, Città del Vaticano, 17-18 aprile 2012, Città del Vaticano 2015, pp. 569-597, alle pp. 569-572. 4   Sulle difficoltà della Chiesa dopo la cattività avignonese e durante il Quattrocento, cfr. i contributi in Storia del cristianesimo, cit., vol. 7, Dalla Riforma della Chiesa alla Riforma protestante (1450-1530), a cura di M. Marcocchi, Roma 2000, specie F. Rapp, Il consolidamento del Papato: una vittoria imperfetta e costosa, alle pp. 82-144, e A. Ducellier, L’ortodossia sotto la prima dominazione ottomana, alle pp. 25-81. 5   Bartolomeo Platina, Liber de vita Christi ac omnium pontificum, a cura di G. Gaida, in Rerum Italicarum Scriptores, serie II, 3, 1, Città di Castello 1913-1932. Sull’ottica particolare dell’autore cfr. S. Bauer, ‘Quod adhuc extat’. Le relazioni tra testo e monumento nella biografia papale del Rinascimento, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 91 (2011), pp. 217-248. Cfr. anche A. Godin, Umanesimo e cristianesimo, in Storia del cristianesimo, vol. 7, cit., pp. 567-619. 6   W. Schmidt-Biggemann, Agrippa v. Nettesheim, Heinrich Cornelius, in LTK, vol. 1, Freiburg 1993, cc. 251-252. 7   Testo e discussione in F. Cardini, Templari e templarismo. Storia, mito, menzogne, Rimini 2005, pp. 124-125 (II ed. 2011). 8   Sul personaggio cfr. P.J. French, John Dee: The World of the Elizabethan Magus, New York 2002; John’s Dee Five Books of Mystery: Original Sourcebook of Enochian Magic, a cura di J.H. Peterson, Boston 2003. 1

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Note   Alcune celebri ricostruzioni sono quelle fornite da Juan Bautista Villalpando (In Ezechielem Explanationem, 1594-1603), Jacob Judah Leon (Retablo del Templo de Selomoh, 1640) e Bernard Lamy (De tabernaculo, 1720); cfr. Goldhill, Il Tempio di Gerusalemme, cit., figg. 13-22. 10   Goldhill, Il Tempio di Gerusalemme, cit., p. 144; sul valore mitico del santuario cfr. M.K. Schuchard, Restoring the Temple of Vision: Cabalistic Freemasonry and Stuart Culture, Leiden 2002. 11   «La même accusation fut intentée contre les Templiers sous le règne de Philippe le Bel, qui fut cause d’en faire brûler grand nombre, et abolir tous leurs collèges; mais les Allemands ont laissé par écrit que c’était une pure calomnie, pour avoir leurs grands biens et richesses. On fit le semblable envers les corps et collèges des Juifs, tant en France sous Dagobert, Philippe Auguste, et Philippe le Long, que depuis en Espagne sous Ferdinand Roi d’Aragon et de Castille, lequel par piété impitoyable les chassa de tout le pays, et s’enrichit de leurs biens», in Les six livres de la République. Un abrégé du texte de l’édition de Paris de 1583, a cura di G. Mairet, Paris 1993, pp. 184-185. 12   Frale, Il Papato e il processo ai Templari, cit., p. 150. Sul presule di Ravenna si veda R. Caravita, La figura di Rinaldo da Concorezzo, arcivescovo di Ravenna, grande inquisitore per il processo ai Templari, in I Templari, mito e storia. Atti del Convegno internazionale di studi alla magione templare di Poggibonsi-Siena, 29-31 maggio 1987, a cura di G. Minnucci e F. Sardi, Sinalunga 1989, pp. 87-105; Id., Rinaldo da Concorezzo, arcivescovo di Ravenna (1303-1321) al tempo di Dante, Firenze 1964 (nuova ed. 2001). 13   G. Venditti, Il ‘Liber privilegiorum Romanae Ecclesiae’ di Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, in L’Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 2009, p. 104; M. Maiorino, Gli antefatti. L’archivio papale fra Quattro e Cinquecento negli antichi inventari, e A. Manfredi, Prima dell’Archivio Segreto: registri pontifici e altri documenti nella Biblioteca Vaticana, in ‘Religiosa Archivorum Custodia’, cit., rispettivamente pp. 23-64 e 65-85. 14   S. Pagano, Paolo V e la fondazione del moderno Archivio Segreto Vaticano (1611-1612), in ‘Religiosa archivorum custodia’, cit., pp. 15-21; A. Pincherle, Baronio, Cesare, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 6, Roma 1964, pp. 470-478. 15   La storia millenaria dell’Archivio pontificio non è cosa che si possa trattare in questa sede per ovvie ragioni di spazio. Mi limito dunque a suggerire, per una visione d’insieme, il contributo di Ch. Burns, Archivio Segreto Vaticano, in Dizionario storico del Papato, diretto da Ph. Levillain, trad. it. di F. Saba Sardi, vol. I, Milano 1996, pp. 105-108, e la panoramica di M. Maiorino, Archivio Segreto Vaticano. Un viaggio nella storia, Milano 2015, divulgativa ma accurata e ben scritta. Alcuni studi recenti su temi circoscritti saranno poi indicati di volta in volta. 16   A. Foa, Confalonieri, Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 27, Roma 1982, pp. 778-782. 17   Maiorino, Gli antefatti, cit., pp. 42-44. 18   La genesi e la storia dei Registri avignonesi si possono ricostruire attraverso gli inventari antichi: se la bibliografia degli studi parziali è piuttosto 9

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Note AL CAPITOLO QUARTO ricca, manca però ancora un lavoro critico dedicato a quest’importantissimo fondo. Ciò del resto non sorprende, considerando che la grande vastità (oltre 300 volumi) ed eterogeneità del fondo, oltre alla presenza di molti documenti da identificare, ne fanno un terreno in gran parte inesplorato. Una descrizione sintetica ma chiara è data da T. Frenz, I documenti pontifici nel medioevo e nell’età moderna, seconda ed. it. a cura di S. Pagano, Città del Vaticano 1998, pp. 54-56 («Littera Antiqua», 6); per il contenuto, benché descritto in maniera sommaria, è necessario rifarsi all’inventario compilato nel 1949 da mons. Pietro Guidi, viceprefetto dell’Archivio Vaticano: ASV, Sala Indici, Indice 1036 (Fondo Camerale), pp. 149-189. 19   Le legature attuali dei registri, con piatti in cartone ricoperto di pergamena, ricalcano nella forma quelle originali ma risalgono al periodo subito seguente la formazione di un Archivio Vaticano come struttura distinta rispetto alla Biblioteca, nel secolo XVI. Cfr. V. Peri, Progetti e rimostranze. Documenti per la storia dell’Archivio Segreto Vaticano dall’erezione alla metà del XVIII secolo, in «Archivum Historiae Pontificiae», 19 (1981), pp. 191-237. Cfr. anche B. Guillemain, La cour pontificale d’Avignon (1309-1376). Étude d’une société, Paris 1962; A.M. Hayez, Gregorio XI, in Dizionario storico del Papato, cit., vol. I, pp. 714-715. 20   Cfr. in particolare P. Ronzy, Le voyage de Grégoire XI ramenant la Papauté d’Avignon à Rome (1356-1377), suivi du texte latin et de la traduction française de l’«Itinerarium Gregorii XI» de Pierre Ameilh, Firenze 1952. 21   L’inventario, tuttora inedito, si conserva nell’Archivio Segreto Vaticano con segnatura Indice 71, ff. 39v-48r. Era già noto a Gaetano Marini, prefetto della Biblioteca e dell’Archivio Vaticano agli inizi dell’Ottocento, che però non fornì nessuna ipotesi di attribuzione. Redatto da una mano di tardo XV secolo, venne prodotto proprio nel periodo in cui il Fieschi stava lavorando al suo codice diplomatico dei documenti che attestavano i diritti della Chiesa, perciò l’idea che egli ne sia l’autore, che cioè attendesse in parallelo a entrambe le cose, ha una sua consistenza. Per questi temi si veda il già citato contributo di Maiorino, Gli antefatti, cit., in particolare pp. 25-33. 22   Sulla questione è imprescindibile il contributo di S. Pagano, Leone XIII e l’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano, in Leone XIII e gli studi storici. Atti del Convegno Internazionale Commemorativo (Città del Vaticano, 30-31 ottobre 2003), a cura di C. Semeraro, Città del Vaticano 2004, pp. 44-63 («Pontificio Comitato di Scienze Storiche. Atti e documenti», 21). 23   ASV, Sala Indici, Indice 1001: Archivio di Castello. Concordanze fra la vecchia e la nuova collocazione degli Armari C.D.E.F, Città del Vaticano 1913, pp. 281-290. 24   I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (1611-1741). Nuova edizione accresciuta, rivista e annotata da S. Pagano, Città del Vaticano 2009, pp. ccxix-ccxxxiv, in particolare la bibliografia citata alla nota 622 («Collectanea Archivi Vaticani», 69); G. Castaldo, Marini Marino, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 70, Roma 2008, pp. 472-475. 25   Memorie storiche dell’occupazione, e restituzione degli Archivi della S. Sede e del riacquisto de’ Codici e Museo Numismatico del Vaticano, e de’ manoscritti, e parte del Museo di Storia Naturale di Bologna, raccolte da Marino

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Note Marini Cameriere secreto di N.S. Prefetto de’ detti Archivi e già Commissario pontificio in Parigi, Città del Vaticano 1816. 26   I documenti vaticani del processo, cit., p. ccxx, nota 625. 27   Cfr. B. Frale, Le tribolazioni di un archivista. Gaetano Marini e i documenti vaticani del processo ai Templari, in Gaetano Marini (1742-1815) protagonista della cultura europea. Scritti per il bicentenario della morte, a cura di M. Buonocore, 2 voll., Città del Vaticano 2015, pp. 493-514. 28   I riti di benedizione della spada, simbolo e insegna fondamentale del potere nel medioevo che la Chiesa inseriva nei rituali di incoronazione imperiale, sono noti grazie alla documentazione che riguarda Ottone I: «Accipe hunc gladium quo eicias omnes Christi adversarios, barbaros et malos christianos, auctoritate divina tibi tradita, omni potestate totius imperii Francorum, ad firmissimam pacem omnium Christianorum», in G. Waitz, Die Formeln der deutschen Königs- und der römischen Kaiser-Krönung, in «Abhandlungen der Königlichen Gesellschaft der Wissenschaft zu Göttingen», 18 (1872), pp. 33 sgg., citato e discusso con altre fonti in Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, cit., p. 311; ed anche J. Flori, Les origines de l’adoubement chevaleresque: étude des remises d’armes et du vocabulaire qui les exprime dans les chroniques et annales latines du IXe au XIIIe siècle, in «Traditio», 35 (1979), pp. 209-272, alla p. 219; dello stesso autore, anche il più recente Chevaliers et chevalerie au Moyen Âge, Paris 20042; una visione di lunga prospettiva in A. Barbero, Aristocrazia e cavalleria dalla Grecia classica all’Italia comunale, in La civiltà cavalleresca e l’Europa: ripensare la storia della cavalleria. Atti del I Convegno Internazionale di Studi, San Gimignano, 3-4 giugno 2006, a cura di F. Cardini e I. Gagliardi, San Gimignano 2007, pp. 33-41. 29   Archivum Arcis, Armarium D, 206, inedito. In origine era composto da ben 96 pergamene, oggi ne restano meno; cfr. ASV, Sala Indici, Indice 1001, pp. 281-284. 30   Michelet, Le procès des Templiers, cit., vol. I, pp. v-xii. 31   Paris, Archives Nationales, J 413, n. 18; Bibliothèque Nationale de France, fr. 1977, antica segnatura n. 780, codice membranaceo (mm 230x160), 27-30 linee su due colonne di mm 48; terzo quarto del secolo XIII, prodotto in area francese; Cerrini, Une expérience neuve, cit., vol. I, pp. 88-92. 32   Roma, Accademia dei Lincei, Cod. 44. A. 14, pergamena (ff. I-II, 1-133, 134-135), mm 231x162, due colonne di mm 55 a 28 linee, prodotto in area mediorientale (forse in Acri) nell’ultimo quarto del secolo XIII; Cerrini, Une expérience neuve, cit., vol. I, pp. 92-95. 33   British Library, Cotton, Cleopatra B. III. 3, ff. 70r-79r, codice membranaceo (mm 180x130), 34 linee di scrittura, risalente al secondo terzo del secolo XII, prodotto in area inglese, forse nella diocesi d’Ely; il testo risulta essere ancora inedito. Per le altre referenze si veda Cerrini, Une expérience neuve, cit., vol. I, pp. 49-53. 34   Praha, Národní Knihovna, XXIII. G. 66, ff. 1r-46r, codice membranaceo (130x97 mm), ultimo quarto del secolo XII, origine francese; cfr. Cerrini, Une expérience neuve, cit., vol. I, p. 68. 35   Baltimore, Walters Art Gallery, W. 132, ff. 4v-24v, testo francese della

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Note AL CAPITOLO QUARTO regola templare, prodotto in una precettoria settentrionale dell’ordine, probabilmente nel settore del Nord-Pas-de-Calais, in seguito divenuto proprietà del conte Ashburnham; cfr. Cerrini, Une expérience neuve, cit., vol. I, pp. 82-85. 36   Barber, The New Knighthood, cit., pp. 317-318. Sulla formazione del mito si veda M.L. Baldi, Verisimile, non vero: filosofia e politica in Andrew Michael Ramsay, Milano 2002. 37   Una buona visione generale si può trovare nel testo (e nella bibliografia) di B. Plongeron, Chiesa, massoneria e illuminismo nel crogiolo dei Lumi, in Storia del cristianesimo, cit., vol. 10, Le sfide della modernità (1750-1840), a cura di G. Alberigo, Roma 2004, pp. 199-209 e 216. Per il caso italiano cfr. C. Francovich, Storia della massoneria in Italia. Dalle origini alla Rivoluzione francese, Firenze 1989, e A.A. Mola, Storia della Massoneria italiana: dalle origini ai nostri giorni, Milano 2001. Sul mito, cfr. J.M. Roberts, The Mythology of the Secret Societies, London 1972. 38   E. de Montagnac, Les chevaliers Templiers et leurs prétendus successeurs, Paris 1864; H. Grégoire, Histoire des sectes religieuses, vol. II, Paris 1828; A. Lantoine, La Franc-Maçonnerie chez elle, Paris 1925; J. Morienval, Fabré-Palaprat (Bernard Raymond), in Catholicisme, vol. IV, Paris 1956, col. 1039; P. Pirri, Massoneria. IX, Condanne emanate dalla Santa Sede, in Enciclopedia Cattolica, VIII (1952), col. 324. 39   P. Partner, I Templari, trad. it. di L. Angelini, Torino 1991 (ed. or., The Murdered Magicians: The Templars and Their Myth, Oxford 1982), pp. 158-167. 40   Barber, The New Knighthood, cit., p. 1. 41   Cfr. Frale, Il Papato e il processo ai Templari, cit., pp. 72-73, 95-192. 42   La categoria dei falsi è oggi molto rivalutata dagli studiosi, che un tempo tendevano invece ad accantonare questi documenti considerandoli menzogneri in tutto; la ricerca dimostra infatti che la falsificazione si annida in genere solo in punti precisi, e capire perché vennero prodotti simili atti fornisce preziose informazioni sul loro contesto storico. Per alcuni esempi, cfr. J.-H. Foulon, Église et réforme au Moyen Âge. Papauté, milieux réformateurs et ecclésiologie dans le Pays de la Loire au tournant des XIe-XIIe siècles, Bruxelles 2008 («Bibliothèque du Moyen Âge», 27), e la mia recensione in «Studi Medievali», serie III, 52 (2011), pp. 913-916; sul tema dei falsi si vedano anche i recenti studi di M. Ansani, ‘Caritatis negocia’ e fabbriche di falsi. Strategie, imposture, dispute documentarie a Pavia fra XI e XII secolo, Roma 2011, e B. Frale, ‘Redeat nobis quod sacrum est’. Una lettera sulla presenza della sindone in Atene all’indomani della quarta crociata, in «Aevum», 86 (2012), pp. 589-641. 43   Ringrazio Martin Budds (Grand Lodge of Mark Master Mason, Londra) per avermi cortesemente permesso di visionare la Carta e i pareri degli studiosi ai quali è stata sottoposta. 44   Partner, I Templari, cit., pp. 157-158; Demurger, Jacques de Molay, cit., pp. 275-276. 45   F. Raynouard, Monuments historiques relatifs à la condemnation des Chevaliers du Temple et à l’abolition de leur ordre, Paris 1813; Nouvelle Biographie Générale, vol. XIV, Paris 1862, coll. 773-778; per la critica avanzata

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Note da Napoleone si veda Correspondance de Napoléon I, publiée par ordre de l’Empereur Napoléon III, vol. XIV, Paris 1863, p. 127, in Partner, I Templari, cit., pp. 158-159. Sappiamo che l’Inquisitore di Francia, frate Guillaume Imbert, venne probabilmente ingannato da Guillaume de Nogaret, a quel tempo Guardasigilli, quanto agli scopi e alle proporzioni dell’arresto dei Templari che egli autorizzò: alcuni mesi dopo la cattura il domenicano, censurato da papa Clemente V per abuso di potere, si recò dal pontefice protestando la sua buona fede personale e denunciando il raggiro di cui si era reso involontariamente vittima; cfr. Finke, Papsttum und Untergang, cit., vol. II, pp. 45, 61; Frale, Il Papato e il processo ai Templari, cit., pp. 79-82. 46   A. Lenoir, La Franque-Maçonnerie rendue à sa véritable origine ou l’antiquité de la Franche-Maçonnerie prouvée par l’explication des mystères anciens et modernes (1814), avant-propos par P. Mollier (pp. 3-4), préface et documents par C. Rétat (pp. 5-62), Paris 2007. 47   C. Francovich, Storia della Massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, Firenze 1974; Partner, I Templari, cit.; R. Le Forestier, La massoneria templare e occultista, Roma 1991; A.A. Mola, Alla ricerca del Tempio perduto. Templari e templarismo, in I personaggi della storia medievale, a cura di R.H. Rainero, Milano 1988, pp. 33-78; Cardini, Templari e templarismo, cit. 48   Cfr. A.A. Mola, Il templarismo nella massoneria fra Otto e Novecento, in I Templari: mito e storia, cit., p. 266; Cardini, Templari e templarismo, cit., pp. 138-139. 49   Roberts, The Mythology of the Secret Societies, cit., pp. 180-181; Partner, I Templari, cit., pp. 150-153. 50   In Inghilterra la massoneria si era diffusa con il favore della corona, ma il fenomeno cessò durante il regno di Elisabetta I, che osteggiava le logge giudicandole luoghi dove il cattolicesimo si annidava in segreto; in seguito tornò in auge dagli anni Quaranta del Settecento. Cfr. P. Pirri, Massoneria, in Enciclopedia cattolica, vol. 8, Roma 1952, coll. 312-326; V. Thorpe, Mysterious Jacobite Iconography in the Stuart Court of Rome. The Legacy of Exile, a cura di E. Korp, Ashgate 2003, pp. 95-110; A. Merlotti, Gli ordini monastici nell’Europa delle dinastie (secoli XIV-XVIII), in Cavalieri. Dai Templari a Napoleone. Storie di crociati, soldati, cortigiani, catalogo della mostra (Torino, 28 novembre 2009-11 aprile 2010), a cura di A. Barbero e A. Merlotti, Milano 2009, pp. 188-189. 51   A. de Barruel, Mémoires pour servir à l’histoire du Jacobinisme, vol. II, Hambourg 1798, pp. 363, 387-388; Partner, I Templari, cit., pp. 150-153; Cardini, Templari e templarismo, cit., pp. 144-145. 52   Mola, Il templarismo, cit., pp. 259-277, alle pp. 265-266; Partner, I Templari, cit., pp. 135-138 e p. 153, nota 5; Merlotti, Gli ordini monastici, cit., pp. 175-193, alle pp. 188-189; Cardini, Templari e templarismo, cit., pp. 140-141. 53   G. Krüger, Johann A. Starck der Kleriker: ein Beitrag zur Geschichte der Theosophie im 18. Jahrhundert, in Festgabe von Fachgenossen und Freunden Karl Müller zum 70. Geburtstag dargebracht, Tübingen 1922, pp. 244-266; Partner, I Templari, cit., pp. 138-142; Cardini, Templari e templarismo, cit., pp. 141-144.

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Note AL CAPITOLO QUARTO   Partner, I Templari, cit., p. 149; Cardini, Templari e templarismo, cit., pp. 142-143. 55   Si veda ad esempio la «cappa magna» da cavaliere dell’ordine di Santo Stefano conservata a Firenze, Museo Stibbert, inv. n. 14160, fine del XVIII secolo-inizi del XIX, che nei suoi tratti e colori fondamentali ricalca la forma originaria, assumendo però un aspetto particolarmente imponente; rispetto agli abiti cerimoniali di altri ordini cavallereschi, come ad esempio quello dell’Annunziata in un ritratto del marchese Francesco Villa di Prazzo (dipinto di Marcus Gheeraerts, 1620, Ferrara, Pinacoteca Nazionale), o quello dell’Ordine del Cardo indossato da John Drummond conte di Melfort (dipinto di sir Godfrey Kneller, 1688, a Edimburgo, Scottish National Portrait Gallery), risulta comunque più vicina all’estrema frugalità degli abiti in uso presso gli ordini del medioevo, per esempio quelli dei Templari, degli Ospitalieri, dei Teutonici. Cfr. Merlotti, Gli ordini monastici, cit., p. 182, e S. Di Marco, «Cappa magna» dell’ordine di Santo Stefano, in Cavalieri. Dai Templari a Napoleone, cit., p. 377; H. Houben, L’ordine teutonico, in Monaci in armi. Gli ordini religioso-militari dai Templari alla Battaglia di Lepanto: storia ed arte, a cura di F. Cardini, Roma 2004, pp. 101-112. 56   A. Schilson, Reimarus, Hermann Samuel, in LTK, vol. 8, Freiburg 1999, coll. 1005-1106, e nella stessa enciclopedia, del medesimo autore, anche la voce Lessing, Gotthold Ephraim, vol. 6, Freiburg 1997, coll. 851-852. Per l’edizione, cfr. H.S. Reimarus, I frammenti dell’Anonimo di Wolfenbüttel pubblicati da G.E. Lessing, a cura di F. Parente, Napoli 1977. Su questi orientamenti culturali, cfr. B. Plongeron, Combattimenti spirituali e risposte pastorali all’incredulità del secolo, in Storia del cristianesimo, vol. 10, cit., pp. 217-257, alle pp. 243-245. 57   Essai sur les accusations intentées aux templiers, Amsterdam 1783; il titolo originale era Versuch über die Beschuldigungen welche dem Tempelherrenorden gemacht worden und über dessen Geheimniss, Berlin-Stettin 1782; cfr. Partner, I Templari, cit., pp. 148-149, 160; Cardini, Templari e templarismo, cit., p. 143. 58   Partner, I Templari, cit., p. 153. 59   Ivi, pp. 160-167. Le principali opere in cui lo studioso austriaco espresse le sue teorie sui Templari sono, oltre a quella già citata, Mémoire sur deux coffrets gnostiques du moyen âge du cabinet de M. le Duc de Blacas, Paris 1832; Die Schuld der Templer, in Denkschriften der Kaiserliche Akademie der Wissenschaften. Philosophisch-historische Classe, vol. VI, Wien 1855; Geschichte der Assassinen, risalente al 1815 ma edito a Londra in inglese nel 1835. Circa i suoi rapporti con l’ammiraglio si veda J. Borrow, The Life and Correspondence of Admiral Sir William Sidney Smith, vol. I, London 1848, pp. 425-428. 60   Un famoso ‘elemento arcano’ di sicura pertinenza templare è la presunta formula magica contenuta in un manoscritto del secolo XII, che Henri Grégoire nel suo trattato Histoire des sectes religieuses (1810) pensò scritta con lettere di un alfabeto occulto, scatenando le congetture in seguito esposte da C.H. Maillard de Chambure, Règles et statuts secrets des Templiers, Paris 1840, p. 37. Simonetta Cerrini ha ricostruito la struttura di questo testo con gli strumenti della filologia, dimostrando che in realtà era un esorcismo 54

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Note per guarire i cavalli grazie all’intercessione di un santo cristiano (san Giorgio o sant’Ireneo): Cerrini, La rivoluzione dei Templari, cit., pp. 157-159. 61   Si veda a titolo di esempio la deposizione al processo dell’ultimo Gran Maestro Molay, che si definiva troppo ignorante per difendere il suo ordine (dixit eciam quod ipse non erat ita sapiens sicut expediret sibi), e al quale le lettere papali relative al procedimento furono tradotte in francese (cui cuidem magistro supradicti domini commissarii, ut plene deliberare posset, fecerunt cum diligencia legi et vulgariter exponilitteras apostolicas de commissione inquisicionis, ecc.). I Gran Maestri del Tempio non erano propriamente ignoranti, poiché gli Statuti imponevano di eleggere il capo templare fra coloro che parlavano diverse lingue fra quelle delle molte province diffuse sull’intero bacino del Mediterraneo, e sappiamo che vi furono rare eccezioni, come nel caso del cavaliere Ricaut Bonomel, il quale ha lasciato un componimento famoso sulla crociata intitolato Ir’e dolors; si trattava però di eccezioni particolarissime, e la gran parte dei confratelli restavano illetterati. Michelet, Le procès des Templiers, cit., vol. I, pp. 32-35; de Curzon, La Règle du Temple, cit., § 207; Demurger, Vita e morte, cit., pp. 219-220. L’analfabetismo è del resto comune negli uomini d’arme del medioevo; ancora agli inizi del Duecento il famoso William Marshall, conte di Pembroke nonché reggente d’Inghilterra per il minorenne Enrico III, si vantava di non saper leggere né scrivere, attività precipue dei chierici o dei mercanti. Cfr. J. Le Goff, Gli intellettuali nel medioevo, trad. it. di C. Giardini, Milano 1999; S. Painter, William Marshall. Knight-Errant, Baron, and Regent of England, London 1933 (nuova ed. Toronto 1982); J. Le Goff, Guglielmo il Maresciallo. L’avventura di un cavaliere, trad. it. di M. Garin, Roma-Bari 2004. 62   Le riproduzioni dei rilievi sono illustrate da stampe dell’epoca, ad esempio riportate in A. de Dánann, Baphometica. Quelques aperçus sur l’ésotérisme du Graal et de l’Ordre du Temple, suivi de textes de Joseph von Hammer-Purgstall et Prosper Mignard sur les mêmes sujets, Milano 2005, libro che appartiene al filone esoterico, dove, a parte le immagini, lo studioso non troverà materiale adatto ai fini della ricerca scientifica. Non pare sia mai stato svolto uno studio scientifico su questi reperti e l’insieme dei messaggi che volevano trasmettere agli uomini del loro tempo; benché falsi, rappresentano comunque un’interessante testimonianza sul modo in cui il primo Ottocento voleva leggere in chiave fantastica certi aspetti del medioevo e della storia antica. Sugli scavi a Pompei, dove si rinvennero fra l’altro migliaia di papiri, cfr. M. Capasso, Introduzione alla papirologia, Bologna 2005, pp. 132-136. 63   C.G. Jung, Psicologia e alchimia, trad. it. di R. Bazlen, Torino 2006, p. 145, fig. 70. Va rilevato comunque che Jung non prende in considerazione l’idea che il cofanetto abbia rapporti di qualunque sorta con l’antico ordine templare del medioevo. 64   Peter Partner ritiene che Blacas sia responsabile di aver commissionato personalmente questi due falsi, i quali potevano essere autentiche urne medievali di pietra, poi munite di immagini contraffatte; nemmeno Hammer-Purgstall, con tutta la buona volontà, trovò appigli capaci di provare un rapporto fra i due oggetti e i Templari del medioevo. Partner, I Templari, cit., p. 162.

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Note AL CAPITOLO QUARTO   Il 12 marzo 1811 il bibliotecario imperiale Antoine-Alexandre Barbier presentò a Napoleone un progetto per l’edizione del processo a Galileo nel quale prospettava in modo enfatico l’unicità del documento, ponendo in luce non solo l’elevatezza dello scienziato, ma anche il perverso fanatismo dell’Inquisizione; lo storico italiano Carlo Denina dissuase Bonaparte: l’edizione del manoscritto non gli avrebbe arrecato nessun lustro particolare, poiché la sostanza dei contenuti era ben nota da tempo; cfr. M. Marini, Galileo e l’Inquisizione. Memorie storico-critiche dirette alla Romana Accademia di Archeologia da mons. Marino Marini, Roma 1850, p. ccxxxvii; A. Favaro, Napoleone e il processo di Galileo, in «Revue Napoléonienne», 2 (1902), pp. 11-12; I documenti vaticani del processo, cit., pp. ccxxiv-ccxxv. 66   F. Raynouard, Monuments historiques relatifs à la condemnation des chevaliers du Temple et à l’abolition de leur ordre, Paris 1813; Demurger, Jacques de Molay, cit., p. 276. 67   M. Oldoni, Gerberto e il suo fantasma. Tecniche della fantasia e della letteratura nel medioevo, Napoli 2008, p. 31. 68   Goldhill, Il Tempio di Gerusalemme, cit., p. 42, fig. 21. 65

CARTINE

Temple Cowley c. 1139

Temple Guiting

Willoughton c. 1150

Temple Dinsley c. 1147 Cressing 1137 London

1147

c. 1128

Shipley

Sommereux 1150 Laon 1140-1 Beauvais 1140-1 La Neuville Paris 1146 1132-42 Coulours 1135-42 Nantes 1141 Orléans 1148 Marmoutier 1144 1134-9

La Rochelle 1139-40

La Selve

c. 1150

Pézenas 1140 Braga 1148

Soure 1128

Santarém 1147

Monzón 1143

Montsaunès c. 1140

Rodez 1150 Richerenches 1136 Roaix 1138-41 Avignon c. 1150

Arles 1143-6 Douzens 1133 Chalamera Albenga 1143 Granera 1143-5 Novillas 1139 Corbins 1143 1130 Mas-Deu Saint-Gilles c. 1150 1137 Ambel Palau 1140 1141 Barbarà 1132

Remolins

Siena 1148

Roma 1138

1143

Le comunità e i castelli dei templari in Occidente fino al 1150. (Questa cartina e le successive sono adattate da M.C. Barber, The New Knighthood. A History of the Order of the Temple, Cambridge 1994.)

La Roche de Roussel, perhaps late 1130s La Roche Guillaume, perhaps late 1130s Darbsak, perhaps late 1130s Baghras, perhaps late 1130s Port Bonnel, perhaps late 1130s Antioch

r RO

on

tes

La Colée,

before 1243

Tortosa,

1152

Chastel-Blanc, before 1152

al-’Arimah, before 1152

Tripoli

Beirut

Sidon Beaufort, 1260 Tyre Safad, Acre Haifa Destroit, before 1137 ’Atlit, 1218 Merle (Dor), before 1187 Caesarea

before 1168

Chastellet, 1178

Saffran, before 1172 before 1172

Nablus Jaffa

Caco, before 1187 Le Petit Gerin, before 1184 R Jordan

La Fève,

Castel Arnald,

1150s

Casal des Plains,

Jerusalem Ascalon

Quarantene, before 1172 Ahamant (Amman), 1166

before 1187

Toron of the Knights, Dead before 1172

Maldoim, (Red Cistern) before 1172

Sea

Gaza

1149-50

Le principali fortezze dei Templari in Siria e Palestina.

Abbeville Abbeville ArrasArras Sommereux Sommereux Prunay Prunay Provins Provins Nantes Nantes La Guerche La Guerche Troyes Troyes Coulours Coulours Bure-lesBure-lesCivray Civray Templiers Templiers Baugy Baugy Angoulême Angoulême Gentioux Gentioux Le PuyVaourVaour Romestaing Romestaing Le Puy Valence Valence Richerenches AgenAgenRicherenches

Soure Soure Pombal Pombal Tomar Tomar

Montsaunès Montsaunès Albenga Montpellier MontpellierRoaixRoaix Albenga Douzens Douzens Lucca Lucca Carcassonne Carcassonne Huesca Segovia Segovia Huesca Saint-Gilles Marsiglia Marsiglia Saint-Gilles Hyères Hyères Monzon Monzon Saragozza Saragozza SienaSiena Mas-Deu Mas-Deu P Tortosa Tortosa P

Distribuzione delle magioni templari in Occidente alla fine del XIII secolo.

Wielka Wielka WeisWeis

Perugia Perugia

Penne Penne TroiaTroia

Bari Bari Brindisi Brindisi Taranto Taranto Lamia Lamia

Messina Messina Siracusa Siracusa

INDICE DEI NOMI

Ashmole, E., 142. Asirvatham, S.R., 196. Ateş, A., 198. Augrain, Ch., 191. Aume, D.E., 198. Aunier, J., 190.

Aaron Isacco, 41. Adriano, imperatore romano, 27, 147. Aethelred, arcivescovo di Canterbury, 84. Agostino d’Ippona, santo, 8-9, 83, 198. Agrippa da Nettesheim, Cornelius, 140-141, 149. Aimard, frate, 65, 69. Alberigo, G., 191, 211. Alcuino di York, 37, 84. Alessandro Magno, 22. Alexander, L., 193. Alfonso X, il Saggio, re di Castiglia e di León, 89. Alfredo il Grande, re del Wessex, 62. Alphandéry, P., 187. Altieri, A., 152. Amargier, P., 200, 203. Amatuccio, G., 80, 189, 196-197. Amaury de La Roche, 200. Amaury de Villiers-le-Duc, 201. André de Coolors, 65. Andrea Pisano, 69. Angiò, dinastia, 103. Anlezark, D., 195. Anna, profetessa, 29. Anna Comnena, 4. Ansani, M., 211. Anselmo, santo, 70. Antioco IV Epifane, sovrano seleucide, 22. Arculfo, vescovo franco, 6. Aristotele, 31, 69. Arnaldo da Villanova, 89-90. Arnaud de Baynuls, 205. Ascheri, M., 198. Ashburnham, Bertram, conte di, 211.

Bacone, Ruggero, 89. Bagatti, B., 193, 195. Baldi, M.L., 211. Baldovino II, re di Gerusalemme, 8, 37-38. Baldrico di Dol, 5. Balsamo, Giuseppe (Cagliostro), 177. Baluze, É. 201, 205. Barb, A.A., 55, 194. Barber, M.C., 38, 188, 192, 200, 202, 204-206, 211. Barbero, A., 210, 212. Barbier, Antoine-Alexandre, 215. Baronio, C., 146, 166. Barrois di Lille, J.-B., 156. Barruel, A. de, 173-174, 179, 212. Bascapè, G. 65, 69, 195. Baudoin de Saint-Just, 201. Baudon de Mony, C., 206. Bauer, S., 207. Baybars, sultano mamelucco, 106. Benedetto XI (Niccolò Boccasini), papa, 103-104. Benedetto XIV (Prospero Lambertini), papa, 159. Bernard de Baynuls, 205. Bernardo, vescovo di Nazareth, 192. Bernardo di Chiaravalle, santo, 8-11, 13, 31, 33-34, 39-40, 48, 58-59, 70, 73, 92, 100, 189-190, 193-194, 204.

223

Indice dei nomi Bernardo di Fontaines, 40. Bigot de Préameneu, 152. Blacas, Pierre-Louis-Jean-Casimir, duca di, 170, 181-183, 214. Blau, L., 196. Bloch, M., 192, 204. Bodin, J., 142-143. Boemondo, principe di Antiochia, 4. Bogaert, P.M., 191. Boglioni, P., 198. Bohak, G., 192. Bonifacio, generale romano, 9. Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa, 53, 89-90, 102-103, 114, 124, 143. Bonne, J.-C., 192, 205. Bonner, C., 193-194. Bonomel, R., 214. Bordone, R., 196. Borges, J.L., 87. Born, A. van der, 190-193. Borrow, J., 213. Bosco, G., 198. Boudart, A., 190. Boureau, A., 204. Brentjen, S., 199. Bresciani, E., 197. Brisson, B., 154. Brown, E., 203-205. Brown, R.E., 192, 201. Brugnoli, G., 201. Bruno di Segni, legato pontificio, 4. Bruno, Giordano, 140-142, 149. Budds, M., 211. Bühler, C.E., 195. Bulst-Thiele, M.L., 188. al-Būnī, 87. Buonocore, M., 210. Burcardo di Worms, 84. Burgtorf, J., 200. Burns, Ch., 208.

Carlo VII di Borbone, re di Napoli, 181. Carlomagno, re dei franchi e imperatore, 37, 51. Carrez, M., 190. Cassinelli, Bettino, 203. Castaldo, G., 209. Castelli, P., 198. Caterina di Courtenay, imperatrice titolare d’Oriente, 93. Cazzaniga, G.M., 197. Celestino V (Pietro del Morrone), papa, 124. Celso, 56. Cerrini, S., 9, 11, 40, 73-74, 76-77, 187, 189-190, 192, 196-197, 210211, 213-214. Challet, V., 205. Champollion, J.-F., 69, 176. Charlesworth, J.H., 193. Châtel, Ferdinand-François, 158. Chiffoleau, J., 200. Chiram (Eirom), re di Tiro, 15. Cicerone, 184. Cilluffo, G., 195. Cipolla, A., 199. Cirillo, L., 191. Ciro il Grande, imperatore persiano, 21. Clémencet, S., 200. Clemente V (Bertrand de Got), papa, 94-98, 103-105, 107, 110-111, 113115, 118-122, 124-125, 128-129, 131, 135-136, 138, 144, 148-149, 160, 162-163, 174, 212. Clemente VII (Roberto da Ginevra), antipapa, 137. Clemente XII (Lorenzo Corsini), papa, 159. Cola di Rienzo, 173. Colette, M.-N., 192. Coli, E., 203. Confalonieri, Giovanni Battista, 146, 149. Coniate, Niceta, 41, 192. Corneille, P., 183. Corradini Bozzi, M.S., 197. Corsi, D., 198. Corsini, Tommaso, 155.

Caetani, Francesco, cardinale, 90. Capasso, M., 214. Caravita, R., 208. Cardini, F., 187-189, 193-195, 202203, 207, 210, 212-213. Carlo di Valois, 93. Carlo IV, re di Francia, 172.

224

Indice dei nomi Corti, G., 192. Cosentino, A., 56, 82, 193-195, 198. Costantino, imperatore romano, 81, 179. Costanza di Francia, 4. Coste, J., 201. Cotton, R.B., 155. Courtenay, dinastia, 93. Crawford, P.F., 200. Cunz, O., 193. Curam (Curam-Abi, Cheiròm), 1516. Curzon, H. de, 196, 214.

Duni, M., 198. Dunstan, abate di Glastonbury, 62. Dupront, A., 187. Dupuy, J., 205. Durante Mangoni, M.B., 191. Egas Fafez, arcivescovo di Compostella, 53. Egeria, matrona romana, 6, 82, 197. Ehrle, F., 207. Eleazaro, 43-44. Elisabetta I, regina d’Inghilterra, 141, 212. Enguerrand de Marigny, 102. Enrico I, re d’Inghilterra, 39. Enrico III, re d’Inghilterra, 214. Enrico IV, re di Francia, 173. Erode Antipa, 101. Erode il Grande, 23, 100. Escaffre, B., 193. Eubel, C., 187. Euclide, 88. Evangelisti, P., 203. Ezechiele, profeta, 20, 23.

Dagoberto, re di Francia, 143. Dánann, A. de, 214. Daniel-Rops, H., 191. Dante Alighieri, 67, 99-100, 102. Danton, Georges Jacques, 173. Dauphin, Guy, 162-163. Davide, re d’Israele, 12-14, 29, 37-38, 46, 48-49, 62, 86, 193. Dee, J., 141. Defossez, M., 188, 190. Delatte, A., 196. Delisle, L., 196, 203. De Mely, F., 194. Demetrio, santo, 61. Demurger, A., 187-189, 200, 202-203, 205-206, 211, 214-215. Denina, C., 215. Deonna, W., 196. Derchain, Ph., 196. De Rossi, G.B., 193. Di Bernardino, A., 191. Dietrich, A., 198. Di Fazio, L., 203. Di Marco, S., 213. Dioniso, autore latino, 54. Doré, D., 201. Doresse, Jean, 45. Doüet D’Arcq, L., 65, 195, 206. Dozy, R., 199. Drubbel, A., 191. Drummond, John, conte di Melfort, 213. Ducellier, A., 207. Duling, D.C., 193. Dümmler, E.L., 198.

Fabré-Palaprat, Bernard-Raymond, 158-159, 165. Fagnan, E., 199. Fanuele, padre della profetessa Anna, 29. Favaro, A., 215. Favier, J., 201, 203-205, 207. Federico II, imperatore, 69, 175. Fenton, P., 198. Ferdinando d’Aragona, re di Spagna, 143. Ferguson, J., 185. Fieschi, Urbano, 145, 150, 209. Filippo I, re di Francia, 4. Filippo III, re di Francia, 93, 109. Filippo IV il Bello, re di Francia, 93, 95-97, 99-101, 103-105, 108-116, 121, 123-124, 129, 131-132, 143144, 153, 157-158, 160-162, 164, 167-168, 171-172, 174-175, 200, 203-205. Filippo V il Lungo, re di Francia, 143, 172. Filippo VI, re di Francia, 172.

225

Indice dei nomi Filippo Augusto, re di Francia, 143. Finke, H., 199-200, 202, 204-206, 212. Flamant, J., 191. Flegetanis, astronomo musulmano, 91, 199. Flori, J., 187-188, 210. Foa, A., 208. Folco V, conte di Angiò, 38-39. Folques de Villaret, Jacques, 95, 200. Forey, A., 187. Fornaseri, G., 202. Foulon, J.-H., 211. Frale, B., 200-201, 205-208, 210-212. Francesco d’Assisi, santo, 47. Francovich, C., 211-212. Frazer, J.G., 197, 199. Frédol, Bérenger, 122. Freeman Regalado, N., 204. Frehen, H., 190, 194. French, P.J., 207. Frenz, T., 209. Fulghum, M.M., 196.

al-Ghazālī, 88. Gheeraerts, M., 213. Giacomo II d’Aragona, 94, 104, 202. Giorgio, santo, 8, 61, 78, 214. Giorgio di Mecklenburg-Strelitz, 177. Giotto di Bondone, 69. Giovanni, evangelista, 100. Giovanni Battista, santo, 29, 81. Giovanni XXII (Jacques Duèze), papa, 86. Giuseppe Flavio, v, 14, 18, 20, 25-26, 42, 81, 190-191, 193. Gjerløw, L., 196. Godefroy de Saint-Victor, 70-74. Godin, A., 207. Goethe, Johann Wolfgang von, 59. Goffredo, conte di Angiò, 39. Goldhill, S., 185, 191, 193, 208, 215. Gonneville, Jeoffrey, 162. Gratz, F., 194. Graziano, monaco, 84, 198. Grech, P., 191. Grégoire, H., 75-76, 211, 213. Grégoire, R., 188. Gregorio I, papa, 84. Gregorio IX (Ugolino di Anagni), papa, 86. Gregorio X (Tedaldo Visconti), papa, 104, 107. Gregorio XI (Pierre-Roger de Beaufort), papa, 137, 148. Guglielmo di Tiro, 10, 176, 188. Guibert de Nogent, 108. Guida, A., 192. Guidi, Albizzo, 203. Guidi, Musciatto, 203. Guidi, P., 209. Guigues I de la Grande Chartreuse, 190. Guillaume de Beaujeu, 107, 111, 202. Guillaume de Bures, 38-39. Guillaume de Plaisians, 204. Guillemain, B., 207, 209. Guiraud, J., 200. Guy de Brisebarre, 38. Guy di Trois-Fontaines, 40.

Gabriele, santo, 29. Gager, J.G., 194. Gagliardi, I., 210. Gaida, G., 207. Galart, Pierre, 101. Galeno, 53, 194. Galilei, Galileo, 152, 182-183, 215. Galloni, P., 206. Gandolfo degli Arcelli, 203. García-Guijarro-Ramos, L., 189. García y García, A., 188. Garin, E., 199. Garribba, D., 191. Gasparri, F., 74, 196. Gassicourt, L.C. de, 170, 172, 179. Gatto, L., 202. Gautier, priore di Saint-Victor, 71, 73. Gautier de Liencourt, 162. Gelasio, papa, 83-84. Gensini, S., 203. Geoffroy de Charny, 162, 168. Geoffroy de Paris, 126, 132. Geoffroy de Plesses, 97. Gérard de Gauche, 162. Gervasio di Tilbury, 53. Geyer, P., 193.

Hammer-Purgstall, J. von, 180-182, 214. Hanawalt, B.A., 204.

226

Indice dei nomi Harari, Y., 192. Harding, J., 193. Harding, Stephen, 40. Harlay de Sancy, A., 154. Hayez, A.M., 209. Hedrick, C.W., 193. Hefele, K.J. von, 198. Herklotz, I., 192. Hiestand, R., 9, 189, 204. Hill, T.D., 63, 195. Hiram, personaggio biblico, 41. Hirsch, S., 191, 193. Hodgson, R., 193. Hollis, S., 195. Holstein, L., 166. Hoste, A., 189. Houben, H., 213. Hubert de Burgh, 52. Hugues, conte di Mâcon, 40. Hugues de La Celle, 102. Hugues de Payns, 4, 6, 10, 38-39, 63, 91, 176, 184, 189-190. Hugues de Payraud, 162. Hugues de Réthel, 38. Humbert de Payraud, 111. Hund, Karl Gotthelf von, 164, 174-175.

Jean de La Tour, 111. Johnson, Georg Friedrich von, 175. Jossa, G., 191. Jung, C.G., 182, 214. Kantorowicz, E.H., 204. Kedar, B.Z., 189. Kennedy, H.N., 199. Kieckhefer, R., 85, 194-195, 197-198. Kircher, Athanasius, 166. Kneller, G., 213. Kohler, K., 196. Korp, E., 212. Krüger, G., 212. Lacocque, A., 191-192. Lacossey, sacerdote, 158. Lalou, E., 199, 201, 203, 206-207. Lamy, B., 208. Lancellotti, M.G., 194. Lancianese, D., 206. Lantoine, A., 211. Laperrousaz, E.M., 190. Larmenius, Iohannes Marcus, 160, 163. Leclercq, J., 188-189. Ledru, Charles, 159, 165-166. Ledru, Nicholas, 159. Le Forestier, R., 212. Le Goff, J., 192, 201, 203-204, 214. Lemaire, A., 190, 194. Lenoir, A., 169, 212. Leofric, vescovo, 62. Leon, J.J., 208. Leonardo, santo, 4. Leone IV, papa, 62. Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci), papa, 151. Lepelley, C., 191. Leroy, T., 188. Lessing, G.E., 178. Levillain, Ph., 208. Liborio, M., 199. Ligato, G., 187. Lipiński, E., 190-191, 194-195. Lizerand, G., 200-201. Lobkowicz, J.F., 155. Luca, evangelista, 29, 47, 58, 100. Ludolfo di Sudheim, 161. Luigi d’Évreux, 129.

Ibn al-‘Arabī, 87. Ibn al-Athīr, 87, 199. Ildeberto, arcivescovo di Magonza, 7. Imbert, Guillaume, 98, 116-118, 212. Innocenzo II (Gregorio Papareschi), papa, 11, 204. Innocenzo III (Lotario dei Conti di Segni), papa, 106, 192, 204. Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi), papa, 107. Ireneo, santo, 214. Isabella d’Aragona, 93. Isabella di Francia, 110. Isacco di Stella, 189. Isaia, profeta, 15, 17, 33, 51. Ivo di Chartres, 84. Jacques de Molay, 93, 101-102, 107, 111-113, 122-123, 125, 128, 130133, 142, 157-168, 171-172, 179, 184, 200, 204, 214. Jacques de Vitry, 3, 187.

227

Indice dei nomi Luigi IX, re di Francia, santo, 48, 135, 160, 200, 205. Luigi X, re di Francia, 129, 172. Luigi XVI, re di Francia, 159, 170, 172.

Michelangelo Buonarroti, 68. Michele, santo, 49, 61-62. Michele Psello, 59. Michele Siriano, 10. Michele VIII Paleologo, imperatore bizantino, 93. Michelet, J., 154, 201, 210, 214. Migne, J.-P., 189. Minervini, L., 204. Minnucci, G., 208. Miollis, Sextius Alexandre François de, 152-153. Mitridate, tesoriere di Ciro il Grande, 21. Moiraghi, M., 188. Mola, A.A., 211-212. Mollat, G., 201. Mollier, P., 212. Montagnac, E. de, 211. Montanari, M., 206. Montesano, M., 187. Moraldi, L., 190-191, 193. Morgan, M.A., 195. Morienval, J., 211. Morton, N., 200. Mosè, 5, 18, 55, 72.

Machiavelli, Niccolò, 142. MacLeod, M., 197. Maier, J., 190. Maillard de Chambure, C.H., 75-76, 213. Maiorino, M., 208-209. Mairet, G., 208. Mallia-Milanes, V., 189. Mander, P., 197. Manetti, C., 203. Manfredi, A., 208. Mani, predicatore religioso ispiratore del manicheismo, 173, 179. Manuele Comneno, imperatore bizantino, 41. Marbodo, vescovo di Rennes, 53. Marco l’Armeno, 163, 167. Marcocchi, M., 207. Margalioth, M., 195. Margot, J.-C., 190-192, 194. Marguerat, D., 191. Marini, G., 152, 180, 182, 209. Marini, M., 152, 182, 215. Marot, Jean, 108, 168. Martino di Tours, santo, 8, 61. Masaniello (Tommaso Aniello), 173. Mas-Latrié, L. de, 195. Mastrocinque, A., 193. Matilde, regina d’Inghilterra, 39. Matteo, evangelista, 47, 85. Matteo, vescovo di Albano, 9. Maurizio, santo, 8, 61. Mayeur, J.-M., 191. Mazzarino, G., 155. Médala, S., 194. Mees, B., 197. Melisenda, regina di Gerusalemme, 38. Menache, S., 199, 202. Mercati, A., 206. Mercier, J., 191-192. Mercuri, C., 192-193, 197. Merlotti, A., 212-213. Mérode, M. de, 191, 193. Meschini, M., 187.

Nabucodonosor, re di Babilonia, 19, 21, 26. Napoleone Bonaparte, imperatore, 52, 69, 150-153, 157-158, 167, 183, 212, 215. Nardelli, B., 195. Nardoni, V., 151, 161. Natalucci, N., 197. Natan, personaggio biblico, 14. Nechepsos, re egizio, 54. Neemia, personaggio biblico, 22. Nelis, J.T., 191-193. Neverov, O., 194-195. Nicanore, santo, 24. Niccolò III (Giovanni Gaetano Orsini), papa, 105. Niccolò V (Tomaso Parentucelli), papa, 145. Nicholson, H., 200. Nico Ottaviani, M.G., 198. Nicola di Fréauville, 116. Nicola Pisano, 69.

228

Indice dei nomi Nicolai, F., 178-179. Nogaret, Guillaume de, 70, 102-103, 113, 115, 118, 140, 155, 162, 204, 212.

Petit, J., 200. Peyer, H.C., 188. Pieralli, L., 189. Pierre de La Chapelle, 114. Pierre d’Étampes, 200. Pietri, Ch., 191. Pietri, L., 191. Pietro d’Abano, 89. Pincherle, A., 208. Pingree, D., 199. Pinto, L.B., 197. Pio VII (Barnaba Chiaramonti), papa, 52, 150-151, 159. Piranesi, G., 69, 176. Pirillo, P., 202. Pirri, P., 211-212. Pitagora, 88. Pitta, A., 191. Platina (Bartolomeo Sacchi, detto il), 138-140, 145, 149-150, 207. Platone, 50. Plinio il Vecchio, 55, 194. Plongeron, B., 211, 213. Pomarici, F., 193. Ponzio Pilato, 51, 99-101. Porfirio, 88. Porta, G., 204. Powell, K., 195. Prato, G.L., 192. Procopé-Walter, A., 196.

Oldoni, M., 183, 215. O’Neill, P., 195. Onorio II (Lamberto Scannabecchi), papa, 9, 39. Onorio III (Cencio Savelli), papa, 117. Origene, 55, 59, 83, 192, 194, 198. Orléans, Filippo Egalité, duca di, 172. Ornan il Gebuseo, 14. Orsini, Matteo Rosso, 105, 202. Ortalli, G., 205. Ottone I, re di Germania e imperatore, 7, 210. Ouy, G., 196. Pace, V., 196. Pache, C.O., 196. Pacomio, santo, 45. Pagano, S., 208-209. Painter, S., 214. Palazzo, E., 192. Paolo, santo, 30. Paolo V (Camillo Borghese), papa, 146. Paravicini Bagliani, A., 53, 194, 199, 205-206. Parente, F., 213. Parpola, S., 197. Parrot, A., 190. Partner, P., 159, 181, 211-214. Paschetto, E., 199. Pasquale II (Raniero Raineri), papa, 4. Pastoureau, M., 132, 206. Peirone, F., 198. Pembroke, William Marshall, conte di, 214. Penna, A., 201. Pépin, R., 197. Perdrizet, P., 193-194. Perea Yébenes, S., 193-196. Peri, V., 209. Perrin, M.-Y., 191. Peter di Mainz, 143. Peterson, E., 194. Peterson, J.H., 207.

Racine, J., 183. Raciti, G., 189. Radermakers, J., 192. Radet, Étienne, 152-155, 182. Raffaele, santo, 58, 64. Raffaello Sanzio, 141. Raimbaud de Caron, 162. Rainero, R.H., 212. Ramsay, A.M., 156. Rapp, F., 207. Ravasi, G., 192, 201. Ravegnani, G., 205. Raynouard, F., 157-158, 167-168, 183, 211, 215. Reimarus, H.S., 178, 213. Rétat, C., 212. Reyerson, K.L., 204. Richard de Preston, 52.

229

Indice dei nomi Richerio di Reims, 188. Rigon, A., 200. Rinaldo da Concorezzo, 123, 143. Riva, G., 193. Roberto di Craon, 192. Roberto il Monaco, 5. Roberts, J.M., 211-212. Robespierre, Maximilien de, 173. Rochais, H.M., 189. Romains-Clouet, Pierre, 158. Romano, A., 198. Ronzy, P., 209. Rosenthal, F., 199. Rudolph, K., 193. Ruggieri, V., 189. Runciman, S., 187. Russo, L., 187.

Simeone, santo, 29. Siniscalco, P., 189. Sisto IV (Francesco della Rovere), papa, 145-146. Skemer, D.C., 195-198. Smith, W.S., 180. Socrate, 54. Spinola, Cristiano, 94-96. Starck, Johann August, 176-178. Strinati, C., 196. al-Suyūtī, 88. Ṭabarī, 199. Ṭārik, 88. Teodoro, santo, 8. Thomas Theobald di Alessandria, 160. Thorpe, V., 212. Tito, imperatore romano, 25-26, 191. Tommasi, F., 189, 201. Torijano, P., 194. Torre, I. de la, 196, 203. Tortorelli, R., 197. Travaini, L., 203.

Sacchi, P., 190-191, 194. Saint-Hilaire, P. de, 65, 195. Saladino, sultano, 106-107, 204. Salomone, re d’Israele, 11, 14-15, 18, 23, 37-38, 40-50, 53, 56, 59-64, 8183, 85-88, 90-91, 141, 195, 199. Sans i Travé, J.M., 206. Sanzi, E., 195. Sardi, F., 208. Saulnière, C., 191. Savile, H., 155. Saxl, F., 199. Schein, S., 202. Schenk, J., 187. Schick, C.,185. Schilson, A., 213. Schmidt-Biggemann, W., 207. Scholl, R., 197. Schottmüller, K., 199. Schreiner, P., 205. Schuchard, M.K., 208. Semeraro, C., 209. Sereno Sammonico, Quinto, 78. Sergio, papa, 150. Servin, M., 154. Settis, S., 199. Sfameni Gasparro, G., 66, 194, 196, 198. Shaked, S., 192. Sheshbassar, personaggio biblico, 21. Shimon Bar Kochba, 27-28.

Ugo, conte di Champagne, 4. Ugo Capeto, 99. Ullmann, M., 198. Upton-Ward, J., 187. Usener, H., 197. Van den Abeele, B., 206. Van Voorst, R.E., 197. Vasina, A., 207. Vauchez, A., 191. Venard, M., 191. Venditti, G., 208. Veronese, F., 200. Vespasiano, imperatore romano, 2527, 43-44, 191. Vié-Césarini, J.A., 158. Villa di Prazzo, Francesco, 213. Villalpando, J.B., 208. Villani, G., 111, 133, 204, 207. Villey, M., 202. Vinas, R., 206. Virgilio Marone, Publio, 67. Vitelli, M., 192. Vittore, santo, 70. Vitucci, G., 191.

230

Indice dei nomi Waitz, G., 188, 210. Walker, J., 198. Watrous, J., 196. Watzinger, C., 185. Weidinger, E., 192. Widukindo de Corvey, 188. Wolfram von Eschenbach, 91. Wright, M., 195.

Zaccaria, sacerdote, padre di Giovanni Battista, 29. Zambon, F., 199. Zecchino, O., 196. Zolla, E., 195. Zoroastro, 40. Zorobabele, personaggio biblico, 21.