La guerra del Peloponneso [1-3 (libri I-VIII), 10 ed.]
 9788817129640, 881712964X

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Tucidide LA GUERRA DEL PELOPONNESO ?

Introduzione di Moses I. Finley Traduzione a cura di Franco Ferrari Bibliografìa e note di Giovanna Daverio Rocchi

VOLUM E PRIM O

(libri I - II) Testo greco a fronte

Tucidide (460-395 a.C.) da un originale del IV secolo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale,

CLASSICI

GRECI

E LATINI

INTRODUZIONE*

Proprietà letteraria riservata © 1985 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano © 1994 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano © 1998 RCS Libri S.p.A., Milano Titolo originale dellopera: ISTOPIAI

Prima edizione: dicembre 1985 Decima edizione: settembre 2004

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Molte guerre antiche devono la loro fama soprattutto a miti ed episodi romanzeschi. Se esse vivono nella memo­ ria dei popoli, è a causa di personaggi come Elena di Troia, Annibale, Alessandro, o di avvenimenti quali la battaglia delle Termopili. Non è questo il caso della co­ siddetta guerra del Peloponneso, combattuta da Atene e Sparta dal 431 al 404 a.C., con un intervallo di sette an­ ni, durante il quale la pace venne per altro scarsamente rispettata. Questa guerra è in realtà famosa non tanto per qualche avvenimento o guerriero, ma per l’ uomo che ne parlò, Tucidide di Atene. Nessun’altra guerra è frutto del suo cronista in modo altrettanto evidente. L ’impresa è di per sé sufficientemente lodevole, ma lo è ancora di più se si considerano più da vicino l’uomo e la sua opera. Tutto ciò che sappiamo di Tucidide si trova in pochi frammenti autobiografici ed in una biografia, alquanto strana ed inattendibile, attribuita nell’ antichità ad un certo Marcellino. Era certamente persona di poco spirito, pessimista, scettica, profondamente intelligente, fredda e riservata, almeno a giudicare dalle apparenze, animata però da tensioni interiori, che a volte si aprivano un varco attraverso il tono impersonale della sua scrittu* La casa editrice Penguin Books mi ha gentilmente concesso di ser­ virmi liberamente della mia Introduzione alla traduzione inglese della

Guerra del Peloponneso.

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ra sotto forma di commenti sferzanti e crudeli, quali: «Iperbole, un miserabile, messo al bando non perché qualcuno ne temesse il potere o il prestigio, ma perché era un essere squallido, una vera disgrazia per la città» (V ili, 73). Scrisse in uno stile complicato, pesante, senza attrattive. Non che egli fosse indifferente alla lingua e al­ le sue sfumature; al contrario, credeva che un uso corretto della lingua fosse una questione morale e che un cedi­ mento di stile fosse segno di cedimento morale. Riassu­ mendo le conseguenze della stasis (guerra civile), ebbe adire:

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utile da coloro che vogliono capire con chiarezza i fatti passati che, essendo la natura umana quello che è, torneranno prima o poi a ripetersi con modalità simili. Il mio lavoro non è rivolto ai bisogni di un pubblico contemporaneo, ma è stato scritto per l’eternità (1,22).

Quando la gtierra incominciò, Tucidide era uh giovane di quasi trent’anni. Si suppone infatti che sia nato intorno al 460 a.C., ma non ne siamo affatto certi. Doveva essere abbastanza avanti negli anni per ottenere, nel 424, la ca­ rica di strategos (generale), per la quale l’età minima ri­ chiesta era probabilmente di trent’anni, ma doveva esse­ re anche abbastanza giovane, se vogliamo dare una spie­ gazione all’affermazione che inserì a sua difesa in quella I 1 che è ora convenzionalmente chiamata «Seconda Intro­ I duzione»: j

Per adattarsi ai nuovi eventi, anche le parole dovettero cambia­ re significato. Ciò che era solitamente descritto come un aitò avventato di aggressione, veniva óra considerato come il coraggio che ci si doveva aspettare da un membro del proprio partito; pensare al futuro, attendere, era semplicemente un modo di dire codardo; qualsiasi idea di moderazione era solo un tentativo di nascondere la propria vigliaccheria e la capacità di capire un problema da ogni punto di vista significava essere totalmente incapaci d’ azione (III, 82).

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Ricordo persònalmente che, daU’inizio alla fine della guerra, molti andavano sussurrando che sarebbe durata ventisette an­ ni. Ió l’ho vissuta tutta, in un’età in cui ero ben in grado di ca­ pire ciò che stava accadendo (V, 26).

! Sforzandosi di esprimere con precisione il senso di una azione o di una affermazione, T’ucidide si destreggiò con i tempi in modo complicato, ammassò proposizioni subordinate senza alcun limite e ricorse a molti altri mezzi che sono, spesso la disperazione dei lettori moderni. (I commenti, alla sua opera sohoin gran parte necessari per chiarire ciò che Tucidide voleva dire in un determinato punto.) Non fece mai ai lettori la benché minima concessione, né di stile né di contenuto. Gli importavano solo fatti e problemi, solo questi avrebbe messo in luce con dedizione quasi religiosa, con precisione e finezza illimitate, redigendo le sue scoperte con una scrittura disadorna.

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M i rendo conto che la mia storia potrà forse sembrare di diffiCile lettura, perché priva di elementi fantastici (to mythodes). M i riterrò comunque soddisfatto se quanto dirò sarà giudicato

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Tucidide ci racconta che, appena la guerra incominciò, decise di divenirne lo storico, perché si era reso conto che sarebbe stato un conflitto lungo e senza precedenti. Co­ me cittadino ateniese abile e possidente, anzi aristocrati­ co, non potè dedicare al suo progetto tutto il tempo, poi­ ché dovette anche combattere. Ma nel 424 venne esiliato, perché era stato ricònòsciùto incapace di condurre a buon esito l'incarico affidatogli con la nomina a coman­ dante della zona nord-orientale. Còme sempre, Tucidide ricorda brevemente il fatto, senza alcun commento; ag­ giunge solamente che si venne costa trovare in una posi­ zione migliore per ottenere informazioni da tutte e due le parti (IV , 104-107 e V, 26). Non aveva problemi dì dena­ ro perché le miniere ereditate in Tracia gli fornivano le entrate necessarie. Potè probabilmente rientrare in patria %

dopo la sconfitta ateniese del 404 e mori ad Atene subito dopo, per quanto non sé ne conosca la data esatta. Non si sa neppure come Tucidide abbia portato avanti il compito che si era assegnato, poiché dice molto poco dei suoi metodi di lavoro, se si esclude il passo sulla inat­ tendibilità dei testimoni oculari, passo che, comunque, ci dà meno informazioni di quanto si potrebbe credere da alcuni elogi tributatigli in epoca moderna: Per quanto riguarda la mia cronaca dei fatti di guerra, mi sono imposto il principio di non scrivere mai la prima storia in cui mi imbattessi e di non lasciarmi neppure guidare da impressioni generali; o ero presente personalmente ai fatti che ho narrato o mi sono servito di testimòni oculari, controllando però con la maggior attenzione possibile quanto mi veniva detto. Neppure così è stato facile scoprire la verità: differenti testimoni davano degli stessi fatti versioni diverse, o perché favorivano l’una o l’altra parte o perché non si ricordavano bene (1,22).

Propositi encomiabili e persino rivoluzionari per i tempi di Tucidide; i fatti, però, sono per noi alquanto deluden­ ti. Diversamente da Erodoto, Tucidide non nomina mai i suoi informatori e afferma di aver partecipato direttamente agli avvenimenti soltanto in due occasioni: quan­ do si ammalò di peste e quando fu generale ad Anfipoli, A volte traspaiono delle indicazioni: la conoscenza detta­ gliata dei fatti del 413-412, visti dalla parte di Chio, im­ plica che Tucidide si servì essenzialmente di una fonte (o fonti) di Chiò per stendere una parte del libro V ili. Ma era personalmente presente all’ assemblea in cui Cleone e Diodoto discussero dei destini di Mitilene (III, 36-49)? Chi lo informò sulla strana discussione strategica tenuta da tre generali ateniesi dopo lo sbarco in Sicilia (VI, 46-50)? Non lo sappiamo, né possiamo ragionevolmente sperare di saperlo. Non si tratta certo di domande oziose, perché bisogna pur essere in grado di valutare le asserzio­ ni in termini credibili. Alla fine, siamo solo in grado di evocare una immagine fittizia di Tucidide, che cerca in­ 8

stancabilmente nei due campi avversi numerosissimi te­ stimoni per sottoporli a confronti serrati, che raccoglie appunti, seleziona dati, sceglie, valuta, scrive. Lesse ciò che era allora disponibile, ma non doveva certo essere molto. Dovette ricostruire tutto (i dibattiti nelle assem­ blee, le manovre dietro le quinte, le battaglie) soprattutto sulla base di ciò che veniva a sapere o aveva visto personal­ mente. Solo così riuscì a raggiungere il suo obiettivo: crea­ re uno ktema es aéi, «un possesso che vale per l’eternità». Quando morì, qualcuno pubblicò il suo manoscritto così come si trovava, non ancora terminato e con aspetti piuttosto inquietanti dal punto di vista della forma. Tut­ to l’ultimo libro è completamente diverso dai sette prece­ denti, poiché si presenta come una raccolta di appunti, già in ordine ma non ancora rielaborati.1 Termina bru­ scamente nell’ anno 411 a.C., quasi sette anni prima della fine della guerra. Si può quindi ragionevolmente suppor­ re che Tucidide abbia terminato di scrivere la sua storia proprio a questo punto. Ci sono però delle parti impor­ tanti alPinizio dell’ opera che devono essere state scritte solo dopo il 404, come la discussione (V, 26) sulla data­ zione esatta della guerra e della sua durata. Tucidide, co­ me è ovvio, lavorava ancora attivamente alla sua storia dopo il 411. Durante la guerra Tucidide cambiò idea (i ventisette 1 A ll’ epoca di Tucidide i volumi erario formati da rotoli di papiri. La divisione convenzionale di un’opera in un certo numero di «lib ri» sepa­ rati fu una innovazione posteriore ad Alessandro il Grande e dovuta ai grammatici dell’Età ellenistica, soprattutto a quelli che lavoravano nel­ la grande biblioteca di Alessandria. Benché la divisione della Storia di Tucidide in otto libri risalga a quel periodo, Marcellino si riferisce ad una edizione in tredici libri e Diodoro (X III, 37,2 e X III, 42, 5) a una in nove. Non si deve quindi supporre che sia stato Tucidide a pensare a ciascuno degli otto libri come a un tutto unico (alla stregua di un capi­ tolo in un testo moderno). I soli intervalli da lui indicati erano cronolo­ gici: «Così finì l’inverno e l’ anno x della guerra narrata da Tucidide». I càpitoli, in cui ogni libro è diviso nelle edizioni moderne, furono intro­ dotti per la prima volta nella edizione di Oxford del 1696.

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anni trascorsi avevano evidentemente Lasciato delle trac-1 ce) e considerò da un punto di vista nuovo alcune que-1 stioni fondamentali, come l’impero e la leadership p oliti-1 ca; dovette inoltre affrontare costanti problemi tecnici di ? composizione storica. Può forse essere rischioso, spesso 1 impossibile, «datare» parti del testo, così còme ci sono pervenute; se vogliamo però fare un esempio, la prosa | grave ed austera della spedizione in Sicilia (libri V I e V II) dà la netta sensazione che sia stata scritta di getto, non molto tempo dopo il 413. Possiamo d’ altra parte suppor­ re che l’orazione funebre (II, 34-46), pronunciata da Pe­ ricle nel primo anno della guerra, e il suo ultimo discorso, nel 430 (II, 60-64), siano stati elaborati da Tucidide non contemporaneamente agli altri fatti, ma solo quasi trènt’ anni dopo. Si tratta infatti di opinioni retrospettive del vecchio storico sulla forza e sulle grandi possibilità di Atene all’inizio della guerra, messe per iscritto alla luce della più completa ed inutile sconfitta della sua città. E ancorai nel primo libro, durante il resoconto dettagliato degli avvenimenti che portarono alla guerra, si possono trovare delle frasi che hanno l’ aspetto di note marginali, che Tucidide fece per sé molto più tardi, in vista di ulte­ riori rimaneggiamenti e rifacimenti. Nel libro V III, infi­ ne, lo storico suggerisce implicitamente di aver capito s o -1 lo tardi l'importanza della Persia nel conflitto. Chi può 1 dire che, vivendo più a lungo, Tucidide non avrebbe rivi­ sto i suoi primi, insufficienti riferimenti alla Persia alla luce di questa nuova valutazione? Non sapremo mai cosa Tucidide andasse pensando nei suoi ultimi anni, perché ritornasse all’ inizio dell’ opera, trascurandone completamente la fine. È necessario, co­ munque, fare qualche ragionevole congettura, se voglia­ mo giungere al nocciolo del suo pensiero. Non c’ è una sola frase nell'opera (non lo si può mai ripetere sufficien­ temente), in cui Tucidide dica in modo esplicito cosa sia per lui la storia; egli non ci spiega nemmeno perché valga

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la pena lavorare una vita intera per narrare una guerra in modo dettagliato e preciso e perché, infine, la storia pos­ sa aspirare ad essere «un possesso che vale per l’ eterni­ tà». Queste non erano certo domande ovvie ai suoi tem­ pi, per la semplice ragione che si cominciava solo allora a scrivere la storia. I Greci erano profondamente legati al loro passato, ma era un passato distante e senza tempo, l’età di dei ed eroi, resi noti da Omero e dai poeti tragici. Per il resto, i secoli post-eroici, alcune tradizioni popolari erano più che sufficienti, come le storie su Solone, sui tiranni e su pochi altri personaggi. Si trattava di racconti senza dub­ bio poco accurati, ma non importava. Miti e mezze veri­ tà servivano al loro scopo, poiché selezionavano e fissa­ vano alcuni momenti importanti fra tanti eventi lontani e incomprensibili. Davano essi ai Greci una sensazione di continuità fra una antichità immemorabile e il presente, rafforzavano il loro sentimento nazionale e fornivano, infine, insegnamenti religiosi e morali. Una cronologia precisa non serviva a questi scopi; « c ’era una volta» po­ teva bastare. Né servivano parimenti particolari accurati o documentazioni complete. Per concludere, a quei tem­ pi non c’era bisogno della storia, almeno come la inten­ diamo noi o la intendeva Tucidide. ; C’ erano certamente scettici e razionalisti insoddisfatti, che non credevano a quel cascamorto di Zeus e neppure alle terribili gelosie di Era e che non accettavano un codi­ ce morale basato su elementi cosi inattendibili. A t tempi di Tucidide, già un buon numero di filosofi aveva messo in dubbio l’ intera struttura mitica e aveva sviluppato concezioni di metafisica e di etica assai più attuali, fon­ date sulla ragione. C iò che essi mettevano in discussione non era comunque la storia raccontata nei vecchi miti; per esempio, non mettevano in discussione la guerra di Troia, ma i principi morali degli eroi, le credenze religio­ se, l’universo e l’uomo in genere. Non era da questi inteU

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ressi che doveva venire lo stimolo a scrivere la storia. La spiegazione va ricercata altrove, nella vita e nella situa­ zione politica della Grecia del V secolo. La politica, come anche la filosofia, fu una «invenzione» greca. Mai prima di allora, almeno in Occidente, si era dato il caso di una società in cui uomini comuni, senza alcuna autorità ricevuta dai padri e non legittimati da un decreto divino, dibattessero apertamente i problemi e decidessero questioni vitali quali la pace e la guerra, le finanze pubbliche, i delitti e le relative punizioni. L ’attività politica si era oramai imposta non solo come attività legittima, ma come la più alta forma di vita sociale. La sconfitta del grande Impero persiano mostrò a sua volta quanto fosse efficace e valido questo nuovo modo di gestire la società. Poiché si ammise apertamente che si trattava di un modo nuovo; come si ammise anche che fra i Greci c’erano an­ cora potenti avversari della città-stato, in cui uomini li­ beri organizzavano la loro vita nel rispetto delle leggi. In questo clima ideale si avverti quindi l’esigenza di una in­ dagine sul passato (distinta dalla pura ripetizione di fa­ vole accettate dai più), complemento delle indàgini etiche e filosofiche. Il termine greco per «indagare» è historein e Erodoto fu il primo a condurre una historia, cioè un’indagine ri­ gorosa sul passato. Era nato e cresciuto nei primi anni del V secolo a.C. ad Alicarnasso, sulla sponda del Mar Egeo opposta ad Atene, in una parte del mondo greco contigua ai «barbari», per molti anni assoggettata ai Per­ siani e, prima ancora, ai Lidi. Per soddisfare la curiosità dei Greci per questi popoli, non solo per i «barbari» vici­ ni, ma anche per quelli più lontani, nessuno dei quali aveva un proprio posto nei miti e nelle tradizioni elleni­ che, era venuta formandosi tutta una letteratura che par- ' lava di usanze e costumi, di geografia ed anche di mo­ menti storici, spesso parzialmente o totalmente immagi­ nari. A quanto sembra, anche Erodoto aveva pensato ad 12

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un lavoro del genere e aveva viaggiato senza sosta per raccogliere le informazioni necessarie. Alla fine giunse ad Atene 6 fu lì che ebbe una visione completamente nuova della sua vocazione. Si rese infatti conto solo allo­ ra che se, durante la sua infanzia, i Persiani erano stati sorprendentemente respinti dagli Ateniesi per ben due volte, era perché questi ultimi godevano di un prestigio morale e politico indiscusso. Anche questa era quindi una storia eroica, non solo di singoli eroi, come nella guerra di Troia, ma dell’intera città-stato. Tutto sarebbe stato presto dimenticato se non fosse stato messo per iscritto. Fu così che Erodoto scrisse il primo libro di sto­ riagreca. Tucidide non cita mai Erodoto per nome, ma ci sono sufficienti indizi per poter affermare che lesse la sua ope­ ra con attenzione. Sebbene non possiamo mai essere certi che le molte divergenze fra i due storici su determinati particolari siano dovute a deliberate rettifiche da parte di Tucidide, e benché non possiamo neppure essere del tut­ to certi (per quanto lo potremmo anche essere) che l’e­ splicito rifiuto di un «elemento fantastico» si riferisca a Erodoto in particolare, non possiamo avere dubbi sul ri­ ferimento che si trova alPinizio dell’opera tucididea, lad­ dove lo storico espone il suo programmaci, 20): Anche gli altri Elleni formulano congetture errate non solo sul passato, indistinto ed oscurò, ma anche sulla storia contempo­ ranea. Per esempio, è opinione comune che i re di Sparta abbia­ no diritto a due voti ciascuno, mentre, per essere precisi, hanno diritto ad un solo voto; si crede anche che gli Spartani abbiano una milizia chiamata «Pitanate». Tale milizia non è mai esisti­ ta. La maggior parte della gènte, infatti, non si preoccupa di scoprire la verità, ma trova molto più facile accettare la prima storia che sente.

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Entrambi gli errori qui ricordati appaiono in Erodoto (VI, 57 e IX , 53) e Tucidide li doveva certamente cono­ scere. È comunque difficile immaginare che ci fosse un

grande interesse per sapere se gli Spartani avessero o me­ no una milizia chiamata «Pitanate» o per conoscere i particolari precisi del procedimento di voto nella Gerusia (Consiglio degli Anziani) di Sparta. Possiamo con tutta tranquillità affermare che solo un pedante sarebbe pronto a trarre da due particolari così insignificanti la dura valutazione che ne fa Tucidide. Sa­ rebbe però errato voler dire con questo che Tucidide non stimasse l ’ impresa di Erodòtò. Dopotutto egli fece al suo predecessore il grande complimento di iniziare dove que­ st’ ultimo aveva finito, ammettendo così implicitamente che non c’ era alcun bisogno di ritornare su fatti già nar­ rati. Sarebbe stato solo necessario colmare la lacuna fra le guerre persiane e la guerra dei Peloponneso, ciò che fe­ ce Tucidide con una breve digressione (I, 89-118), in cui mise in rilievo alcuni degli avvenimenti più importanti occorsi fra il 479 a.C. e l’inizio dell’ affare di Corcira, nel 435. A seguito della definizióne di un commentatore del­ la tarda antichità, questa digressione è ora convenzional­ mente, anche se impropriamente, ricordata come la Pentecontaetia (11 Cinquantennio). Inoltre Tucidide fece ad Erodoto un complimento ancora più grande: capì ed ac­ cettò (cosa che in pratica nessun contemporaneo aveva fatto) la grande scoperta del Padre della Storia, e cioè che era possibile analizzare le questioni politiche e morali del tempo attraversò uno studio attento degli avvenimen­ ti e della realtà sociale di ogni giorno, evitando così le astrazioni dei filosofi da una parte è i miti dei poeti dal­ l ’ altra. Anche Tucidide avrebbe dedicato la propria vita ad una impresa del genere, anche se poi si discostò dal suo modello su parecchie questioni fondamentali. Ne ab­ biamo già analizzato un paio, ma dobbiamo ora proce­ dere ad un esame più completo. Erodoto, non dobbiamo dimenticarlo, cercò soprat­ tutto di ricreare l'atmosfera e gli avvenimenti del passa­ to, alcuni dei quali erano cosi remoti che non avrebbe 14

certo potuto interrogare alcun testimone diretto. Tucidi­ de, al contrario, non solo visse al tempo della guerra che descrisse, ma vi partecipò anche direttamente, almeno per un certo periodo. Per essere più precisi, quando deci­ se di scrivere la sua Storia, gli avvenimenti che avrebbe trattato dovevano ancora accadere. Non era stata una li­ bera scelta: dopo le guerre persiane e fino alla guerra del Peloponneso, non c’ era più stato, secondo lui, alcun av­ venimento che meritasse una seria indagine storica. E c’era di più. Il passato non è confutabile, mentre Tucidi­ de aveva chiarito fin dall’ inizio che si poteva raggiungere la verità solo controllando e ricontrollando i fatti con la più grande pazienza. Non si può quindi conoscere vera­ mente il passato (e, come vedremo, la storia contempora­ nea è comunque sufficiente per tutti gli scopi più impor­ tanti). Nel paragrafo di apertura (1 ,1) Tucidide scrisse: Mi è stato impossibile, causa la distanza nel tempo,,avere una conoscenza véramente esatta del passato lontano e, persino, della storia che precede l’epoca in cui viviamo; eppure, dopo aver volto uno sguardo il più addentro possibile nel passato, o g n i traccia mi porta à concludere che quei periodi non furono grandi né dal punto di vista della guerra né da alcun altro punto di vista.

Ci sono tuttavia in Tucidide parecchi excursus nel passa­ to, sempre ben motivati e densi di significato. Non è pos­ sibile esaminarli tutti in questa sede, ma ce ne sono tre che meritano la nostra attenzione. II primo si trova all’i­ nizio (1,2-21) ed ha lo scopo di sottolineare l’affermazio­ ne che niente nel passato fu mai così grande come le guerre nel Peloponneso. È quindi la giustificazione stessa della Storia di Tucidide. Alcune delle prove addotte pro­ vengono da Erodoto; per il resto Tucidide poteva consul­ tare solo Omero, alcuni poeti e, infine, dei cronisti in prosa (che congedò con disprezzo nel paragrafo I, 21). Per esaminare i segni del suo mondo aveva però anche a 15

disposizione una mente ferrea e disciplinata. Il risultato è una brillante teoria generale, secondo la quale la potenza e la grandezza degli Elleni erano dovute allo sviluppo si­ stematico della navigazione e del commercio, il che signi­ ficò una accumulazione di risorse, una organizzazione comunitaria stabile, degli imperi e, infine, anche la guer­ ra del Peloponneso, il più grande conflitto greco per la conquista del potere. Per quanto questa teoria sia storU ca, poiché Tucidide avanzò l’ idea coraggiosa di una con­ tinuità di sviluppo in Grecia dai tempi più antichi fino al­ la sua epoca, è soprattutto una teoria sociologica, nata da una meditazione profonda sul mondo in cui Tucidide viveva e non da uno studio storico sistematico. L ’intero excursus presenta ben pochi fatti concreti e, fra questi, solo quattro sono datati: la migrazione dei Beoti in Beozia, sessanta anni dopo la guerra di Troia, e dei Dori nel Peloponneso, venti anni più tardi; la costru­ zione di quattro navi da parte di Aminocle di Corinto per i Sami — trecento anni prima della fine della guerra del Peloponneso (cioè a dire, circa il 700 d.C.); quaranta an­ ni dopo, la prima battaglia navale documentata fra Co­ rinto e Corcira. Tucidide non dà alcuna data per la guer­ ra di Troia e così due degli avvenimenti sono datati solo in senso relativo e non assoluto. Se, tuttavia, lo storico accettò la cronologia di Erodoto, la migrazione dei Beoti deve essere fatta risalire a circa il 1190 a.C. e quella dei Dori a circa il 1170. Non c’ è alcun evento datato per i 470 anni seguenti, un periodo lungo come quello intercorso fra le fortune di Cesare Borgia e i nostri giorni. Tutto ciò che capitò in quegli anni potè solo venir fissato con un «più tardi» o «molto più tardi». È doveroso notare che l’estremo scetticismo di Tucidi­ de non arrivò a negare i miti e i poemi nel loro insieme. I poeti, «aventi come scopo più il diletto dell’udito che la verità», possono anche esagerare l’ importanza dei fatti e dei temi che hanno scelto, ma Tucidide crede pur sempre 16

che ci siano alla base degli eventi storici. Anche Elleno, figlio di Deucalione, il progenitore mitologico degli Elle­ ni (così, infatti, i Greci solevano chiamare se stessi), ap­ pare come un personaggio storico autentico. In un altro contesto (III, 104) Tucidide fa una lunga citazione del cosiddetto «Inno omerico» ad Apollo, considerandolo come una prova non solo di antichi riti nell’isola di Deio, ma anche dell’esistenza di Omero. Non vi traspare alcun dubbio sulla autenticità del testo, diversamente da quan­ to afferma, tanto per dare un esempio, in I, 10: «Se pos­ siamo credere alle prove addotte da Omero»; è probabile che neppure alcun contemporaneo avesse dei dubbi sul testo in questione. Oggigiorno, comunque, si ritiene co­ munemente che, qualunque cosa siano questi inni, non sono certo di Omero. Difficoltà di questo genere non si presentarono a Tuci­ dide nel secondo excursus più importante, la Pentecontaetia. C’ èrano non poche persone vive, fra amici e pa­ renti, che avevano partecipato àgli avvenimenti ivi narra­ ti e che Tucidide avrebbe potuto mettere a confronto. Nonostante l’affermazione già citata, secondo la quale: «G li avvenimenti precedenti alla guerra e quelli ancora più antichi erano impossibili ad investigarsi perfettamen­ te», non possiamo certo credere che Tucidide mettesse sullo s t e s s o piano il periodo seguente alla guerra di Troia e la Pentecontaetia, considerandoli entrambi egualmente inaccessibili. Se questo secondo excursus non è la storia di cinquantanni, se è privo di date esatte come la prima digressione, lo si deve a una decisione precisa dello storico. Questa volta egli si limitò a scegliere e de­ scrivere una serie di avvenimenti, facendo pochi com­ menti e nessuna generalizzazione, perché voleva dimo­ strare con l’ esempio, più che con affermazioni esplicite, come la Lega di Deio fosse rapidamente divenuta un im­ pero centralizzato. Voleva insomma fissare lo scenario delle sue guerre. Il risultato non è molto soddisfacente, 17

almeno a giudicare da tutti i commenti su Tucidide o da qualsiasi storia del periodo scritta in epoca moderna. Poiché non possiamo dubitare che Tucidide sarebbe sta­ to in grado di scrivere un resoconto più sistematico, dob­ biamo concludere che non volle farlo, probabilmente perché riteneva che solo la storia contemporanea fosse interessante. C ’è poi un terzo, breve excursus, all’ inizio della storia della spedizione in Sicilia, in cui lo storico riassume la co­ lonizzazione della Sicilia da parte dei Greci e di altri po­ poli (V I, 2-5). Per questo excursus Tucidide adottò uno stile diverso di presentazione e la digressione è, nell’insie­ me, alquanto strana. L ’argomento viene introdotto dalla annotazione critica che gli Ateniesi decisero di invadere la Sicilia nonostante «fossero in gran parte all’oscuro della grandezza dell’ isola e del numero dei suoi abitan­ ti». Quindi, invece di approfondire questa informazione di importanza vitale, Tucidide continua con notizie pura­ mente d’ antiquaria, di scarsa importanza per la guerra ed esposte in forma monotona, iniziando dai personaggi mitologici: dei Ciclopi e dei Lestrigoni, già citati da Ome­ ro. La cronologia è, ancora una volta, relativa e spesso vaga, ad eccezione della fondazione di Megara Iblea, av­ venuta 245 anni prima che i suoi abitanti ne venissero cacciati da Gelone, tiranno di Siracusa; la città sarebbe quindi stata fondata intorno al 728 a.C. Perché Tucidide si preoccupò di scrivere queste pagine e da dove prese le informazioni? Come al solito non lo dice, ma è probabile che la sua fonte sia stata una storia della Sicilia di Antio­ co di Siracusa che, come dice Diodoro (X II, 71, 2), ini­ ziava da Cocalo, mitico re dei Sicani, e terminava con gli avvenimenti del 424 a.C. Probabilmente non era da mol­ to che si poteva disporre del testo e Tucidide non potè re­ sistere alla tentazione di avvalersi di un’ opera ancora po­ co conosciuta per sfoggiare un po’ di cultura su un passa­ tolontano. 18

Si deve quindi concludere che lo stile «tucidideo» ven­ ne soprattutto riservato a ciò che interessava allo scritto­

re, cioè alla storia contemporanea, che forma gran parte dell’opera. Qui Tucidide si impose delle norme di assolu­ to rigore che, per quanto ovvie possano sembrare oggigiorno, erano del tutto straordinarie nel V secolo a.C. I soli modelli possibili erano alcuni filosofi e scrittori di medicina della scuola di Ippocrate di Coo. Ma il semplice fatto che siano esistiti dei paralleli non spiega perché Tu­ cidide abbia voluto trasferire nella sua storia una passio­ ne altrettanto grande per la precisione. Come ogni altra manifestazione di psicologia individuale, anche questo problema rimane insolubile. Qualunque siano state le ra­ gioni, Tucidide fu comunque una figura straordinaria­ mente isolata nel panorama degli storici antichi, perché nessuno dopo di lui, né in Grecia né a Roma, senti mai questa passione con eguale intensità, nonostante parec­ chi abbiano affermato il contrario. Da questo punto di vista Tucidide aveva scritto un tipo di storia che non po­ teva avere seguito. Nelle generazioni seguenti troviamo qualche cosà di simile solo fra i filo s o fi, come Aristotele e i suoi discepoli, che non presero mai la storia sul serio. Il lettore moderno rimane certamente perplesso davan­ ti al fatto che questa appassionata dedizione alia verità non abbia portato Tucidide a consultare anche i docu­ menti, che sono il fondamento stesso di ogni ricerca sto­ rica in epoca moderna. Solo alcuni documenti vengono citati con una certa ampiezza, quasi esclusivamente nei libri V e V III, che sono in uno stato di così scarsa riela­ borazione da farcì pensare che forse le lunghe citazioni sarebbero scomparse in quella revisione finale che Tuci­ dide avrebbe certamente compiuto, se fosse vissuto ab­ bastanza a lungo da poterlo fare. Nella digressione sui ti­ rannicidi di Atene (V I, 54-59), Tucidide si serve, con grande efficacia, di una iscrizione ateniese dimenticata e di un’altra proveniente da Lampsaco. Lo storico sapeva 19

certamente che i documenti potevano essere usati come prove, ma se né servì raramente. Non possiamo quindi supporre che abbia sempre consultato personalmente i testi disponibili ogni volta che ricorda un’ alleanza e quando cita il decreto ateniese che esclude gli abitanti di Megara da tutti i porti situati nell’impero (I, 67). Dove­ vano infatti essere notizie risapute dai cittadini attivi po­ liticamente. Tucidide, quindi, quando parla dei suoi me­ todi di lavoro, non include l’ esame di documenti non per una svista, ma di proposito. Come aveva già fatto Ero­ doto prima di lui, egli cercava tra la folla, non tra i fogli. Tucidide credeva che la storia fosse una vicenda esclu­ sivamente umana nel senso più stretto della parola e che quindi la si potesse analizzare e capire secondo parametri umani, senza ricorrere al sovrannaturale. È impossibile sapere quale fosse il suo credo religioso ma è chiaro che, se fu pio, non giunse però mai a credere in indovini ed aruspici, che erano particolarmente numerosi ed intra­ prendenti in tempo di guerra. Come storico, registrò casi in cui l’azione venne determinata o ritardata da pronostici ed oracoli, ma non esitò mai a condannare ogni forma di ingenuità popolare. Se ne trova l’ esempio più proban­ te quasi alla fine del resoconto sulla peste (II, 54): In questo periodo di angoscia fu naturale per il popolo ricorre­ re a vecchi oracoli. Fra questi c’era un verso che gli anziani so­ stenevano fosse stato proferito anticamente e che diceva: Guer­ ra Verrà con i Dori e al suo seguito ci sarà una morte. C ’era sta­ ta una controversia per decidere se la parola dell’ antico verso fosse «carestia» (limos) e non «m orte» (loimos); allo stato at­ tuale delle cose prevalse naturalmente la versione «m orte». Fu un caso in cui la gente adattò i ricordi alle proprie sofferenze. Sono certo che se ci sarà mai un’ altra guerra con i Dori e se ne seguirà una carestia, allora il popolo citerà molto probabilmen­ te l’ altra versione.

Sono pensieri che ricordano l’inizio del famoso trattato di Ippocrate sulla epilessia:

Discuterò ora della malattia chiamata «sacra». Secondo me, non è più divina o più sacra di qualsiasi altra malattia, poiché ha una causa naturale e, se la si crede divina, è perché gli uomini non la conoscono e provano stupore davanti alla sua stranezza.

Come i migliori scritti di Ippocrate, la Storia di Tucidide si svolse senza dei, oracoli o pronostici. Questa fu forse la più grande novità di Tucidide rispetto a Erodoto. Certamente Tucidide non credeva che gli uomini fosse­ ro sempre in grado di controllare azioni e circostanze, sia pure su un pianoideale. Il caso aveva la sua parte, come nella tempesta che spinse dapprima Demostene e la sua flotta a Pilo (IV, 3), o nell’ incendio fortuito che fu un preludio così importante alla conquista ateniese di Sfacteria (IV, 30). Tucidide registrò questi casi senza trarne alcuna conclusione; non volle meditare su interventi divi­ ni o cose del genere, neppure quando si trattò di descrive­ re la peste (II, 47-54), il più rovinoso «incidente» della guerra, il più gravido di conseguenze, che portò Tucidide a scrivere un passo mai più superato per vigore dramma­ tico e intensità di emozioni (molto diverso dal primo li­ bro delle Epidemie di Ippocrate, cui è stato erroneamen­ te paragonato). Ma Tucidide si astenne esplicitamente dall’ esaminare le cause e mise in rilievo, altrettanto espli­ citamente, che «quanto agli dei, sembrava indifferente venerarli o meno, poiché si potevano vedere morire indi­ scriminatamente buoni e cattivi». I vari punti trattati erano di primaria importanza per Tucidide e diedero al suo lavoro la caratteristica fondamentale. Non potevano però dargli anche le tecniche ne­ cessarie. Come si scrive la storia di una lunga guerra combattuta su vari fronti? Tucidide non aveva preceden­ ti cui guardare, non aveva libri o maestri da cui appren­ dere il mestiere di storico. Neppure Erodoto poteva aiu­ tarlo, perché troppo prolisso, dispersivo, mentre Tucidi­ de intendeva mettere a fuoco la sola guerra e le relative questioni politiche. Non si allontanò mai da questo unico 21

tema, neppure nelle digressioni. Riteneva che non si do­ vesse guardare alla storia e alla politica superficialmente, quasi consistessero solo di tattiche militari e rozzi intrighi da corridoio* per quanto né le une né gli altri potessero essere tralasciati da uno storico. Per Tucidide, come per ogni serio pensatore greco, problemi e conflitti di ordine morale facevano parte integrante della politica, come ne faceva parte anche ciò che dovremmo chiamare «psicolo­ gia sociale». Il resoconto della peste è, ancora una volta, esemplare. Qualsiasi altro storico della guerra del Pelo­ ponneso avrebbe trattato della peste, per il semplice mo­ tivo che vi erano periti numerosi Ateniesi. Per fare que­ sto, però, Tucidide non avrebbe avuto bisogno di com­ porre il quadro terrificante che invece compose, accumu­ lando particolari su particolari con superba maestria. Non era neppure sua intenzione suscitare emozioni su­ perficiali, dando vita a ciò che alcuni storici posteriori avrebbero chiamato con disprezzo «storia tragica». Tu­ cidide raccolse molti particolari per porre le basi di quel­ lo che era il suo obiettivo finale, la lunga perorazione sul­ lo sfacelo morale e sodale provocato dalla peste, quella perorazione che inizia con le parole: «Poiché la catastro­ fe fu così immane che gli uomini, non sapendo cosa altro sarebbe loro successo, divennero indifferenti a ogni reli­ gione e a ogni legge». Ci tornano qui in mente le parole, già citate all'inizio, sulle conseguenze della guerra civile. Pensando alla tecnica da seguire, Tucidide fu presto costretto ad affrontare il problema fondamentale delle date. Noi diciamo che la guerra del Peloponneso iniziò nel 431 a.C.; un ateniese, invece, doveva dire che era in­ cominciata durante Parcontato di Pitodoro, il che non si­ gnificava nulla per coloro che non fossero Ateniesi. Non avrebbe significato nulla neppure per gli stessi Ateniesi solo venti o trenta anni dopo, a meno che, mentre legge­ vano, tenessero accanto un elenco degli arcónti di ogni anno. Inoltre, trattandosi di guerre su vasta scala, con 22

molti avvenimenti che accadevano nello stesso momento in luoghi diversi, la sola datazione annuale non avrebbe dato, secondo Tucidide, la giusta prospettiva. Sarebbero infatti andati persi tutti i collegamenti e le sequenze di minore importanza, i motivi e le conseguenze dei piccoli fatti quotidiani. Come ebbe a dire lo stesso storico (V, 20), se ci si dovesse «fidare di un qualsiasi computo basa­ to sui nomi dei magistrati nei vari Stati», non ci potrebbe essere «precisione alcuna, poiché un dato evento sarebbe potuto accadere all’inizio, a metà o in qualsiasi altro mo­ mento del loro incarico». Avrebbe anche potuto aggiun­ gere che sarebbe stato per lui molto difficile ottenere dai suoi informatori delle date precise, poiché essi proveni­ vano da diversi stati greci. Neppure l’introduzione dei mesi lo avrebbe aiutato. Ogni città, infatti, aveva il proprio calendario, per cui i nomi dei mesi non erano sempre eguali (oggigiorno si co­ noscono più di 300 nomi), né era eguale l’ordine in cui si succedevano né, persino, il periodo d’inizio di ogni nuo­ vo anno. Il trattato di pace del 421, secondo il testo uffi­ ciale citato da Tucidide (V, 19), «ha effetto, a Sparta, dal ventisettesimo giorno -del mese di Artemisio, essendo eforo Plistola; ad Atene, invece, dal venticinquesimo giorno del mese di Elafebolione, essendo arconte A l­ ceo». Tucidide dovette quindi inventare un proprio siste­ ma per poter scrivere in modo coerente. Dopo aver fissa­ to l’ inizio della guerra, datò gli avvenimenti seguenti contando dapprima 11numero di anni (solari) passati dal­ l’inizio, dividendo poi ogni anno in «inverno» e ««sta­ te». Per quanto semplice, questo sistema era pur sempre unico e Tucidide ne era apertamente orgoglioso. Era co­ munque anche incompleto, poiché lo storico non dice se l ’ inverno e l’estate iniziassero in un determinato giorno; inoltre, nell’ambito di ogni stagione, Tucidide si limita a dire «a ll’inizio», «a metà» o «alla fine». Il problema più difficile era fissare l’ inizio della guer­ 23

ra. Una guerra non scoppia ali-improvviso in un dato giorno. Il primo colpo o la dichiarazione formale di apertura delle ostilità sono in genere considerati come l’ i­ nizio di una guerra, ma per uno storico questo non basta. Quanti anni addietro si deve risalire? È questa la decisio­ ne più difficile per Tucidide, da cui dipende poi l’inter­ pretazione dei fatti presentata ai lettori. C ’era indubbia­ mente disaccordo ad Atene e in tutto il resto della Grecia sulle cause della guerra del Peloponneso. Tucidide fu il primo a tentare una analisi seria del problema, non solo per la guerra del Peloponneso, ma per tutte le guerre in genere. Egli distinse l’ essenziale dal transitorio, le cause pri­ marie dai rancori e dai pretesti più immediati; di questi ultimi scrisse in gran dettaglio, dedicando allo sfondo storico tutto il primo libro. Il risultato è chiaro, brillante, eppure incompleto. Anche Tucidide, credo, non ne fu mai veramente soddisfatto. Idee che parevano lampanti all'inizio della guerra, avevano perso, venti o venticinque anni più tardi, molta credibilità. A distanza di tempo, per esempio, le rimostranze di Corinto contro Corcira e Potidea non sembravano più avere tanta consistenza. L ’ egemonia ateniese appariva sotto un’altra luce, a con­ siderarla retrospettivamente, dopo la sua caduta; anche Pericle era visto con altri occhi, dopo che gli erano succe­ duti come capi Cleone e Iperboio, contro i quali Tucidide nutriva un tal rancore e un tal disprezzo che non si curò mai di nasconderli. Il potere, la moralità del potere, i di­ ritti e i torti sembravano divenire, sempre più, i soli ele­ menti importanti e permanenti dell’ intera situazióne, mentre i particolari concreti non apparivano altro che pure e semplici esemplificazioni. Per Tucidide, oramai, «la vera ragione della guerra, ciò che la rese inevitabile, fu lo strapotere di Atene e la paura che ne nacque a Spar­ ta» (I, 23). Non si potrà mai provare con sufficiente cer­ tezza che questa affermazione venne inserita più tardi;

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anzi, molti studiosi lo negano esplicitamente. Eppure è un fatto sorprendente che la paura di Sparta per Atene non appaia più nel racconto alquanto dettagliato che segue e che inizia con la lite fra Epidamno e Corcira. È ovvio che lo storico, ogni storico, debba sempre sce­ gliere fra i moltissimi dati che ha a disposizione, decidere ciò che deve essere riferito e ciò che deve essere escluso, ciò che va sottolineato e ciò che va invece ridimensiona­ to. Più o meno coscientemente, ogni storico si serve di | criteri personali di scelta, delle sue idee sulla natura della | politica e del comportamento sociale, sulla storia, insom­ ma. Anche quando uno storico ci dice esplicitamente co­ sa sia per lui la storia, egli non viene giudicato tanto dalle teorie, quanto dall’opera. Tucidide non ci dice niente e così possiamo conoscere il suo pensiero solo attraverso la sua opera, così come ce l’ ha lasciata. E l’opera è, da un certo punto di vista, contraddittoria, poiché lo storico sembra sempre spingere, o essere spinto, in opposte direrioni.Da una parte c’è la sua passione più autentica per i particolari (comandanti minori, schieramenti, brevi notizie di geografia e altre cose del genere), dall’ altra ci sono lacune e silenzi sorprendenti, interi periodi di storia completamente dimenticati e congedati in blocco con una espressione o una frase d’occasione. Qualche volta po­ trebbe anche trattarsi di lacune o di errori di valutazione da parte di Tucidide, come quando non mette nel dovuto rilievo il ruolo della Persia, cui abbiamo già peraltro ac­ cennato. Tucidide sapeva però certamente che nel 425 a.C. gli Ateniesi, a corto di fondi, fecero una revisione radicale dei tributi che provenivano loro dall’impero, per cui le somme richieste vennero più che triplicate. Non è possibile credere che egli ritenesse la cosa meno impor­ tante di migliaia di particolari insignificanti che volle sal­ vare dall’oblio. Eppure non accennò mai al decreto. Pur con stato d’ animo diverso, Tucidide usa lo stesso metodo

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anche con la guerra civile, che ebbe un ruolo importante I nella guerra del Peloponneso, influendo sulle forze di molti stati e determinando, ora in un modo, ora nell’ al­ tro, i loro rapporti con Sparta ed Atene. Per noi tutto questo è ovvio, se non altro perché Tucidide stesso lo ha messo ben in luce. Eppure, dopo il magnifico resoconto della guerra civile a Corcira nel 427 a.C., Tucidide tratta della stasis in termini poco impegnativi, pur facendone frequenti accenni, fino al colpo oligarchico del 411 nella r stessa Atene. Di quante altre guerre civili non parlò? È jf impossibile saperlo. I Tucidide era un genio che si dedicò completamente al | proprio lavoro. Non è quindi il caso di ricorrere a spiega-1 zioni sbrigative. Le sue difficoltà avevano profonde radi-1 ci, tanto è vero che ancor oggi rimangono un grosso prò-1 blema per ogni storico. È segno della grandezza di Tuci- j dide averle affrontate cosi presto, all’inizio stesso della l storiografia. I dati a disposizione dello storico sono per-1 sone ed avvenimenti singoli e la somma delle loro relazio-1 ni reciproche forma il processo storico. Diversamente dal un poeta, lo storico deve inquadrare fatti e persone nella | giusta prospettiva, cosi come erano nella realtà, e non | come avrebbero potuto o dovuto essere «per caso o per» necessità», come ebbe a dire Aristotele a proposito della S tragedia (Poetica, 9). E allora? Una pura ripetizione d if singoli avvenimenti in successione, per quanto accurata e esatta, sarebbe pur sempre solo una ripetizione e nulla | più. Potrebbe anche essere eccitante, emozionante, -scan-i dalosa e divertente, ma sarebbe anche importante? E| varrebbe la pena dèdicarle una vita di sforzi ininterrotti? | Tucidide e tutti gli intellettuali greci credevano veramen-S te che l’ uomo fosse un essere razionale. Di conseguenza, | ritenevano anche che 11 sapere fine a se stesso non avesse I alcun senso, fosse una semplice perdita di tempo. Il sape-| re doveva infatti portare a capire. L o storico, anche se li­ mitava la sua indagine alla storia contemporanea, dove-1

tostavano alle azioni umane, sia nella politica sia nei pe­ riodi di guerra, sia durante le rivoluzioni che nei tempi di pace. In conclusione, il problema di Tucidide era di pas­ sare dal particolare all’universale, dal singolo fatto con­ creto ai disegni e ai principi generali che lo spiegavano, da una rivoluzione storica particolare (quale quella di Corcira) alla rivoluzione in sé, da un demagogo come Cleone alla natura della demagogia, da esempi specifici di politica di potere al potere in quanto tale. Tucidide, chiaramente, non colse la complessità del problema nel momento in cui si mise a scrivere l’ opera, né trovò mai una soluzione che lo soddisfacesse comple­ tamente. Continuò infatti a indagare e sperimentare, a verificare e perfezionare nuove tecniche. Volendo essere il più scrupoloso possibile, mantenne sostanzialmente un tono impersonale in quasi tutti i passi di carattere narra­ tivo, pur servendosi anche in questi casi di ingegnose fi­ gure retoriche per suggerire le cause; non rifuggì neppure dal fare, di tanto in tanto, commenti brevi e pungenti. Ricorse, comunque, soprattutto aiìdiscorsi per mettere a nudo ciò che stava dietro il raccontò: i problemi politici e morali, i dibattiti e i contrasti sulle decisioni da prendere, le varie possibilità, gli errori, i timori e le cause. Si servì dei discorsi con varietà è maestria: a volte scelse un solo discorso fra i tanti tenuti in un’ assemblea o ad una con­ ferenza, altre volte ne scelse due che, essendo antitetici, presentavano due possibilità opposte di azione^ altre Vol­ te, infine, riportò un discorso tenuto da un domandante davanti alle sue truppe prima della battaglia. L ’impatto generale è irresistibile. Il lettore ne reista affascinato pèr­ che ha non solo la sensazione di vivere la guerra del Pelo­ ponneso, ma è anche sicuro di conoscere perfettamente i problemi del momento e il perché degli avvenimenti. Più àncora, ha l’ impressione di venire informato dagli attori stessi del dramma, senza alcun intervento dello storico.

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va pur sempre cercare di cogliere le idee generali che sot­

Si tratta di discorsi diretti, molto abbreviati, secondo un procedimento del tutto legittimo. Il lettore moderno rimane però anche perplesso perché tutti questi discorsi sono scritti, senza alcuna eccezione, nello stile tipico di | Tucidide. Dubbi a questo riguardo erano già stati solle­ vati da critici antichi ed anche gli storici successivi hanno i espresso sull’ argomento pareri sostanzialmente ambiva­ lenti. Mai nessun popolo come i Greci antichi seppe fare della parola e della discussione un autentico modo di vi­ vere. Parlavano sempre, in pubblico e in privato, con en~ | tusiasmo e forza di persuasione. Tutta la letteratura gre- | ca è satura di conversazioni, a cominciare dai lunghi di- j scorsi àeìY Iliade e dell’ Odissea per finire, attraverso i 1 monologhi dei tragici, agli altrettanto lunghi discorsi e 1 dibattiti di Erodoto. È probabile che Erodoto non abbia ì dovuto pensarci molto per decidere di inserire dei discor- 1 si nella sua Storia, perché questa era allora la prassi. Do­ potutto, in che cosa consiste il comportamento umano, se non in parole ed azioni? È abbastanza sorprendente che, per quanto possiamo i giudicare, sia stato proprio Tucidide a rendersi conto per primo che i discorsi costituivano un problema per ogni & storico. Nel breve passo sul metodo, che abbiamo già in parte citato, fece una digressione per precisare la diffe­ f renza esistente fra il riferire un discorso e il raccontare i j una azione (1,22): [ Mi è stato difficile ricordare le parole precise usate nei discorsi che ho sentito personalmente ed anche i miei informatori han­ no sperimentato le stesse difficoltà; ho seguito quindi il metodo di tenermi il più possibile vicino al pensiero generale dei discor­ si effettivamente pronunciati, facendo però dire agli interlocu­ tori ciò che, secondo me, ogni situazione richiedeva.

Non c’è modo di sanare la contraddizione esistente fra le due parti dell’ affermazione citata. Se tutti gli interlocu­ tori dicevano, secondo Tucidide, ciò che la situazione ri­

chiedeva, allora l’ asserzione non ha più alcun senso; se invece non dicevano sempre ciò che veniva richiesto dalla situazione, allora, poiché Tucidide attribuiva loro tale intenzione, egli non avrebbe potutp tenersi «il più possi­ bile vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamen­ te pronunciati». Vale anche la pena ricordare che, per esempio, Tucidide non pretese mai di far agire i generali secondo quanto richiesto da una determinata situazione e non come, invece, effettivamente agirono. Dopo Tucidide, tutti gli storici continuarono a riferire discorsi, ma con una certa cautela. Sappiamo persino che u n tale Cratippo, contemporaneo di Tucidide ma di lui più giovane, ebbe a dire che lo stesso Tucidide si rese conto di aver sbagliato a introdurre i discorsi nella sua opera e che si decise quindi ad abbandonarli. Si tratta si­ curamente di un ragionamento post factum , non basato cioè su nozioni reali, ma semplicemente dedotto dalla mancanza di discorsi nel libro V ili, rimasto incompiuto. L ’informazione di cui sopra ci viene da Dionigi di Alicarnasso che, nella Roma di Augusto, divenne forse la più grande autorità nel campo della letteratura e della retori­ ca e al quale dobbiamo la più vasta analisi critica che ci sia pervenuta sugli storici antichi.2 Lo stesso Dionigi non era contrario ai discorsi in quanto tali e ne scrisse egli stesso alcuni, molto lunghi e del tutto fantastici, nelle sue Antichità romane, ma disapprovava quelli di Tucidide per la loro struttura. Perché, si chiedeva, proprio questa orazione funebre? Il momento non era né glorioso né si­ gnificativo. Dionigi suggeriva che si doveva cercare la ri­ sposta nel desiderio di Tucidide di riferire ad ogni costo un’ orazione funebre pronunciata da Pericle. Dionigi si chiedeva anche perché mai Tucidide avesse riportato il lungo dibattito che si era tenuto quando si ridiscusse la 2 L ’edizione migliore del saggio di Dionigi su Tucidide, corredata di traduzione e commento, è quella di G. Pavano (Palermo, 1958). Il rife­ rimento a Cratippo si trova nel capitolo 16 del saggio.

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non accennano mai alle reazioni che furono la causa pri­ decisione di mandare a morte tutti i maschi di Mitilene, mentre avrebbe fatto meglio a riportare il dibattito origi­ ma della discussione, non avanzano mai, né respingono, nario. E comunque, sempre secondo Dionigi, Tucidide ragioni di decenza e di moralità che, secondo noi, dove­ avrebbe fatto meglio a finire il proprio lavoro, invece di vano pur essere state sollevate in quella situazione! Se lasciarsi continuamente fuorviare dalla sua ossessione Diodoto si astenne da un tale appello, sarebbe stato pra­ ticamente un caso unico negli annali dell’oratoria politi­ per i discorsi.3 È impossibile citare in questa sede tutte le discussioni ca. Tutti i discorsi autentici in nostro possesso che furo­ degli antichi, per quanto sia difficile non ricordare l’ e­ no pronunciati dagli Ateniesi sono zeppi di questo tipo di sempio poco edificante di Polibio, scrittore del II secolo retorica. Quindi, anche supponendo che Tucidide non a.C., che fu sempre molto magnanimo nel criticare i pre­ abbia aggiunto niente (supposizione che non posso qui decessori che avevano inventato discorsi, pur lasciandoci accettare), dobbiamo pur sempre convenire che le omis­ egli stesso un’ opera in cui ci sono trentasette discorsi, per sioni sono incompatibili con la sua pretesa di tenersi «il un buon numero dei quali non poteva avere non dico del­ più possibile vicino al pensiero generale dei discorsi effet­ le informazioni attendibili, ma neppure delle informazio­ tivamente pronunciati». Nel primo libro c’è un’altra omissione. Quando gli ni. Non è nemmeno possibile esaminare le discussioni senza fine degli studiosimoderni, che sollevano diverse Spartani mandarono un’ ambasciata a Atene nel 431 con questioni a ragion veduta, spinti in questo dalle idee che un ultimatum, venne Convocata un’ assemblea alla quale noi oggi abbiamo su ciò che uno scritto storico dovrebbe; «si presentarono molti oratori per sostenere opinioni o non dovrebbe, essere. Posso solo presentare il punto di contrapposte: per alcuni la guerra era inevitabile, per al­ vista che io condivido ed indicare alcune ragioni di que- tri il decreto di Megara doveva essere revocato, poiché non si doveva permettere che, rimanendo in vigore, im­ sta scelta. Il dibattito di Mitilene è un buon punto di partenza. pedisse la pace» (1 ,139). Quindi si presentò a parlare Pe­ Tucidide Io introduce con le seguenti parole: «C i fu un ricle, e il suo discorso rimane solo, non essendo bilancia­ cambiamento improvviso di umore e la gente cominciò a to da uno contrario, in evidente contrasto con la brillante pensare quanto crudèle e senza precedenti fosse la deci­ serie di dibattiti di parte spartana che ci sono stati prima sione di annientare non solo ì colpevoli, ma l’ intera po­ presentati. Non ei viene data alcuna indicazione delle tesi polazione dello stato» (III, 36). Fu quindi convocata una presentate dagli oratori contrari alla guerra o almeno di seconda assemblea, nella quale «tutte e due le parti ciò che avrebbero dovuto dire. C’ è inoltre, nel discorso, espressero varie opinioni». Tucidide decise di limitarsi ad troppa «telepatia». C ’era stata Una circostanza (I, 69) in esporne due, una di Cleone e l’ altra di un certo Diodoto, cui i Corinzi avevano detto a Sparta: «Sapete che ci sono non altrimenti noto. Questi discorsi antitetici, cosi come state molte occasioni in cui siamo stati capaci di resistere ci sono presentati, non si allontanano mai da considera­ soli all’ aggréssione ateniese più per gli errori di Atene che zioni brutali di necessità e di vantaggi pratici (il che acca­ per l’aiuto da voi ricevuto». E Pericle a sua vòlta a Atene de regolarmente in Tucidide quando si tratta di dibattiti), (I, 144): «C iò che temo non è la strategia nemica, m a i nostri errori». In un altro incontro a Sparta i Corinzi avevano avanzato il seguente suggerimento (I, 121): «Se 3Si vedano i capitoli 16-18 del saggio. 30

prendiamo in prestito denaro» da Olimpia e Delfi «pòtremo attirare dalla nostra parte i marinai stranieri della flotta ateniese, offrendo loro salari più alti, poiché la po­ tenza di Atene è fondata più sui mercenari che sui propri cittadini». Ed ancora una volta Pericle replica ad Atene (I, 143): «Supponete che mettano le mani sui soldi di Olimpia o di Delfi e che tentino di attirare dalla loro par­ te i marinai stranieri della nostra flotta, offrendo loro salari più alti. Sarebbe grave se non fossimo egualmcn te capaci di tener loro testa solo con le nostre forze e [ con quelle dei residenti stranieri che servono sulle nostre navi». Si deve quindi concludere che in uno scritto storico di­ scorsi e parti narrative non si equivalgono. Non si vuole con questo dire che Cleone e Diodoto non abbiano effettivamente parlato all’ assemblea durante il secondo dibat- \ tito di Mitilene (per quanto è interessante notare come i [ singoli oratori non vengono sempre designati per nome), f o che non abbiano detto, con le loro parole, alcune delle j cose che Tucidide fa loro dire con le proprie parole; si ! vuole solo rilevare che non è possibile che abbiano detto [ tutto quanto è stato loro attribuito, mentre hanno certa-1 mente sostenuto tesi che lo storico ha omesso. Le nostre j difficoltà sono dovute al fatto che è di solito impossibile I capire come stiano veramente le cose, per quanto io sia, | ad esempio, assai restio a credere che Pericle abbia detto ; nel corso dell’assemblea ateniese: « I l vostro impero è ora ! quasi una tirannia» (II, 63, ripreso da Cleone in III, 37, [ ma senza la parola «quasi»). L ’ osservazione che Tucidide fece in I, 22 era, secondo [ me, un ammonimento che mise per iscritto quando era f ancora giovane poiché credo che, col passare degli anni, • egli si sia preoccupato sempre meno di tenersi «il più pos- S sibile vicino al pensiero generale dei discorsi effettiva- | mente pronunciati». Si sarebbe infatti indirizzato su una ì strada diversa, lungo la quale avrebbe cercato di capire le ! ,-32

ragioni più profonde del comportamento politico e lotta­ to per liberarsi dalla tirannia del concreto e del particola­ re, volendo soprattutto capire, e quindi comunicare, il reale e l’ universale. In questa Introduzione non intendo certo denigrare in alcun modo lo storico Tucidide. Sarebbe un grave errore criticarlo o giudicarlo secondo i parametri della ricerca storica contemporanea (non certo più errato, comunque, di alcune rivendicazioni assurde di una sua presunta at­ tualità). Ciò che voglio invece sottolineare è che siamo costretti a credere a Tucidide solo sulla parola. Non la­ sciò spazio per un riesame o per un giudizio alternativo. Non possiamo accertare se i suoi informatori siano degni di fiducia, perché non li nomina. Non possiamo control­ lare ciò che secondo lui era irrilevante, perché lo omette senza tanti complimenti, né ciò che intendeva per notizia falsa o spiegazione errata, perché non ne fa cenno. Una iscrizione casuale conferma ora una ora l’ altra af­ fermazione, colma una lacuna esistente nelle informazio­ ni che ci ha dato. Qualche volta Tucidide mette in dubbio se stesso: forse l’ esempio più strano si ha nella spedizione in Sicilia (libri V I e V II), in cui il tono del racconto non convalida, anzi smentisce, la conclusione (II, 65), secon­ do la quale « l ’errore non fu tanto di giudizio... quanto di incapacità da parte di coloro che si trovavano in patria di fornire aiuti adeguati alle proprie forze oltremare». Qualche volta altri scrittori greci gettarono una luce di­ versa su una data situazione. Per esempio, nel 431 c’ era­ no in Atene persone che si opponevano alla guerra e che, per difendere il loro punto di vista, ricorrevano non solo ad argomenti di ordine politico, ma anche ad insinuazio­ ni sulla vita privata di Pericle e sulle ragioni personali per cui lo stesso avrebbe trascinato Atene in guerra. Tucidide fece bene a rigettare dicerie così grossolane, ma le ignorò in modo così completo (insieme ad altri argomenti ben più seri) che ne saremmo completamente all’oscuro, se 33

non ci fossero degli accenni in Aristofane, Diodoro « Plutarco.4 i A prescindere da alcune altre rare indicazioni di questo genere, non abbiamo una storia alternativa della guerra del Peloponneso e non siamo quindi in grado di procede-] re ad una comparazione. A d Eforo, discepolo di IsocraJ te, la storia tucididea non piacque e ne scrisse una pro­ pria, parte di una Storia Universale (in trenta libri) che arriva all’ anno 341 a.C. Ma Eforo non fece sulla guerra alcuna ricerca personale e si limitò a interpretare, da un diverso punto di vista, il materiale che Tucidide aveva raccolto; a giudicare dalla versione abbreviata che ne fe­ ce Diodoro (libri X II e X III), faremmo comunque me­ glio ad attenerci alla storia di Tucidide. j Ciò che è più sorprendente è che noi, di fatto, prestia­ mo sempre fede a Tucidide, benché potremmo fare una distinzione più netta fra Tucidide il cronista e Tucidide; l’interprete. Probabilmente egli ha ora più lettori in uni anno di quanti ne abbia avuto in tutta l’ antichità e, ciò; che è ancora più significativo, gode oggi di una autorità maggiore che nei tempi antichi. Alcuni scrittóri del IV se-j colo a.C. continuarono la narrazione dal punto in cui egli l’aveva lasciata. Il solo esempio in nostro possesso è] la Storia di Senofonte, che inizia esattamente al punto in cui finisce il libro V III di Tucidide. Ma Tucidide non eb-J be mai dei veri successori. È vero che i più importanti storici greci e romani che vennero dopo di lui credevano, { come lui, che la storia contemporanea fosse di primaria importanza e che dovessero prestare soprattutto atten­ zione alle jguerre e alla politica. Come lui, ed Erodoto!

prima di lui, tennero in maggior conto le tradizioni orali e i testimoni oculari che le ricerche condotte su documen­ ti. Ma, allo stesso tempo, non diedero importanza pro­ prio a quelli che erano gli aspetti più caratteristici dell’ o­ pera di Tucidide: la sua autentica passione per la preci­ sione, la gravità, il rifiuto di ciò che era irrilevante e «ro ­ manzesco». Dionigi scrisse di lui in un lungo brano: Il compito principale, si potrebbe dire il più necessario, di qual­ siasi storico è quello di scegliere un argomento di carattere ele­ vato, che sia allo stesso tempo interessante per i suoi lettori. In ciò mi pare che Erodoto abbia avuto la meglio su Tucidide... (che) scrive di una sola guerra, per d i più ingloriosa e sfortuna­ ta, che sarebbe stato meglio non fosse accaduta o (almeno) fos­ se stata dimenticata dai posteri, circondata dal silenzio e dall’o­ blio. Nella sua Introduzione dice chiaramente di aver scelto un brutto argomento, poiché proprio a causa di quella guerra mol­ te città greche erano precipitate in uno stato di desolazione... La conseguenza più ovvia è che i lettori della Introduzione pro­ vano avversione per l ’ argomento, poiché sono sul punto di co­ noscere le disgrazie della Grecia.5

È questo un giudizio che scandalizza i lettori moderni, che tendono a respingerlo, perché sciocco e spregevole. Non io era comunque Dionigi, che ebbe il merito di rias­ sumerci un atteggiamento di gran lunga prevalente frale classi colte dell’ antichità, quelle appunto cui si rivolgeva­ no allora gli storici. I moderni, invece, sono stati sempre di parere diverso. Il grande umanista Lorenzo Valla pubblicò una traduzio­ ne latina di Tucidide fra il 1450 e il 1452 (cui fece seguire una traduzione di Erodoto, rimasta incompiuta). La pri­ ma traduzione in una lingua moderna apparve nel 1527 4 Si vedano: Aristofane, La pace, 619-24; Diodoro, XII, 38-41; Più- ! in francese (condotta sul testo latino del Valla e non di­ tarco, Pericle, 29-33. La questione di Cteone era diversa: Tucidide non j rettamente sul testo greco); la prima traduzione italiana esitò ad affermare, a suo nome, non a nome di altri, che Cleone bloccò risale inVece al 1548. In quel periodo Tucidide era già asogni iniziativa di pace «perché pensava che in tempi pacifici e tranquillij la gente avrebbe più facilmente notato le sue malefatte e sarebbe stata { meno disposta a credere alle sue calunnie» (V, 16). 34

5Lettera a Pompeio, sezione terza. 35

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surto fra i grandi autori. Non solo i classicisti se ne inte­ ressavano; il primo scritto che Thomas Hobbes diede alle stampe, all’ età di quarant’anni, fu proprio una tradu/io ne inglese di Tucidide, pubblicata nel 1628. Lo stile c molto bello, corposo, tipico del filosofo inglese. Era il primo segno della grande considerazione in cui lo storico gréco sarebbe stato tenuto da coloro che coltivavano gli studi di politica nell’ Inghilterra vittoriana. Bisogna ammettere che Tucidide non fu un pensatore originale. Le sue idee fondamentali erano poche e sem­ plici. Aveva una visione pessimistica della natura umana e, quindi, anche della politica. Alcuni individui ed alcune comunità hanno diritto, per le loro qualità morali, a po sizioni di comando e di potere. Ma il potere è pericoloso perché corrompe e, se esercitato da persone sbagliate, conduce a comportamenti immorali, quindi alla guerra civile, a conflitti ingiusti e, infine, ad uno sfacelo genera­ le. Si trattava di temi condivisi da poeti e filosofi. Tucidi­ de si mostrò geniale ed originale perché si sforzò di pre­ sentarli in mòdo nuovo, scegliendo la storia contempora-, nea ed esponendoli con grande maestria. Il suo grande successo è provato dal fatto che, per esempio, l’immagine che noi abbiamo di Pericle o di Cleone è quella che ha saputo creare Tucidide, con la sua scrittura attenta e sobria. Cleone fu a capo di Atene per parecchi anni dopo la morte di Pericle, ma Tucidide Io presenta solo quattro volte, limitandosi, una volta, ad una sola frase e, un’altra, ad un discorso. Ne emerge co­ munque una immagine a tutto tondo, drammatica, s S i

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circa trecento anni alla fine di questa guerra da che Aminocle andò dai Sami. [4] E la più antica battaglia navale di cui abbiamo notizia è guelfa dèi Corinti contro i Còrdresi; da questa fino alla medesima data della fine della guerra attuale sono circa 260 anni. [5] Abitando infatti la città sulPistmo ìi Corinti avevano sempre un centro com­ merciale, giacché anticamente i Greci, sia quelli dentro che quelli fuori del Peloponneso, avevano rapporti reci­ proci più per terra che per mare passando attraverso la terra dei Corinti stessi; essi erano potenti per ricchezze, come è mostrato anche dài poeti antichì che cEiàmànò «opulenta» quella località. E poiché i Greci si dettero di più alla marineria, i Corinti, procuratesi le navi, elimina­ rono i oirati e, creando'un15S®oiarcSffiffierao per tèrra ep jfm a re ebbero una città potente per le entrate in de­ naro che riceveva. [6] Anche gli Ioni più tardi ebbero la flotta al tempo di Ciro, primo re dei Persiani, e di Cambise, suo figlio, e combattendo con Ciro dominarono per un certo tempo il mare davanti al proprio paese. E Policrate, tiranno di Samo al tempo di Cambise, potente per la sua flotta, sottomise le varie altre isole e, conqui­ stata Reneà, la consacrò ad Apollo Delio. E i Focesi co­ lonizzando Marsiglia vinsero i Cartaginesi in battaglia navale. 14. Queste erano le più importanti potenze marittime. Ma anche queste, sebbene sorte parecchie generazioni dopo la guerra di Troia, usarono, a quanto pare, poche triremi, e furono attrezzate ancora con navi a cinquanta remi e con vascelli lunghi, come un tempo. [2] Poco tem­ po prima della guerra coi Medi e della morte di Dario, re dei Persiani dopo Cambise, i tiranni di Sicilia e i Corciresi ebbero triremi in gran numero: queste furono, in Gre­ cia, le ultime potenze navali importanti prima della spe­ dizione di Serse. [3] Ché gli Egineti e gli Ateniesi, ed eventualmente altri, avevano scarse navi e soprattutto di

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