La grande catena dell'essere e altri saggi storia delle idee

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JAAKKO HINTIKKA La grande catena dell'essere e altri saggi di storia delle idee a cura di Alberto Ml~

SP~O LIBRI EDITORI

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Introduzione

c,-m cos 't; LA STORIA DELLA ALOSOFIA E CHI! COSA DOVREBBE ESSERE (secondo Hintikka)

Jaakko Hintikka non è uno storico della filosofia di professione. Il suo nome è legato soprattutto a una ormai più che trentennale carriera di logico e filosofo della scienza. Le sue ricerche sulla storia delle idee filosofiche non sono, tuttavia, l'espressione casuale di una impetuosa molteplicità di interessi, né la manifestazione tardiva di un filosofo che, giunto a uno stadio avanzato del suo lavoro, si ferma a riflettere su porzioni (per lui) significative del la storia del pensiero. Sono, per dirla con un pizzico di retorica, l'espressione di una dinamica interna al pensiero di Hintikka, che fa s1 che la maggior parte delle tappe più significative del suo lavoro - in praticamente ogni campo ai confini fra logica, epistemologia e filosofia della scienza' -siano contrassegnate da esplorazioni nel pensiero di questo o quel filosofo storico alla ricerca di un terreno di applicazione e di confronto dei risultati di quel lavoro, in uno scambio che non è mai a senso unico perché, come sottolinea lo stesso Hintikka nel suo vivace schizzo autobiografico, le «indagini di carattere puramente storico accrescono spesso la nostra consapevolezza di imponanti questioni sistematiche, specialmente delle nostre assunzioni concenuali». 2 All'origine di una indagine storica vi è sempre, in altre parole, una importante intuizione sistematica che viene applicata e verificata sul terreno di questo o quell'aspetto (mai marginale) della dottrina di qualche figura dominante della filosofia antica e moderna. L 'indagine storica "retroagisce" quindi sul risultato sistematico ponendolo in una nuova luce, facendo intravvedere altre vie, altre possibilità di applicazione in direzione sia di altre indagini storiche che di ulteriori ricerche sistematiche. 3 Già questo ci consente di farci un'idea del tipo di indagine storico-filosofica che dobbiamo aspettarci da Hintikka. Il fatto è che Hintikka non ha, in generale, un 'idea troppo buona del modo tradizionale di fare storia della filosofia: Ciò che troviamo in testi e trattati di storia della filosofia è, tutto sommato, un'informazione su quali tesi e opinioni diversi filosofi hanno avanzato in tempi diversi. È fin troppo raro trovarvi degli indizi interessanti del perché essi 7

hanno adottato queste idee e del perché per essi era importante proporle come parte del loro pensiero esplicito.• Oppure: Ciò che quasi sempre si trova in libri e articoli di storia della filosofia sono tentativi di conciliare una interpretazione con la lettera di tutti i differenti testi rilevanti di qualche famoso filosofo. Questo lo si fa allo scopo, talvolta, di provare una interpretazione del filosofo in questione, talvolta di criticarlo, ma il metodo è in entrambi i casi lo stesso. Di solito, i risultati costruttivi non sono conclusivi. Un problema interpretativo che può essere risolto mettendo insieme una collezione di citazioni non è degno di essere sollevato.' O lettore di libri e saggi di storia della filosofia si trova, dunque, o coinvolto nel macabro rituale che la trasforma in niente «più di un cimitero di dottrine più o meno dimenticate»,6 oppure travolto da esercitazioni esegetiche preoccupate soprattutto di mostrare che una certa interpretazione è quella più (se non la sola) aderente ai testi (meglio se a tutti i testi) rilevanti di un filosofo. Il lettore dei saggi di Hintikka non si trova di fronte niente di tutto questo. Si trova, piuttosto, guidato ad addentrarsi nelle ragioni per cui diversi filosofi hanno adottato diverse opinioni o hanno considerato problematiche (o non problematiche) certe idee e soddisfacenti (o insoddisfacenti) certe soluzioni; gli viene mostrato come queste ragioni dipendano spesso dalle «assunzioni concettuali nascoste e [da] i modi caratteristici di argomentazione»7 propri di un dato pensatore o comuni a tutti o alla maggior parte dei pensatori di una data epoca; in una parola, viene portato a esplorare il «territorio concenuale» formato da queste (più o meno tacite) assunzioni e dai risultanti stili di argomentazione: ad acquisire conoscenza della «topografia concettuale»• del paesaggio, spesso piuttosto mosso e accidentato, in cui si muove un filosofo o si sviluppa un 'idea. Ve lo immaginate - tanto per usare la «rozza analogia» dello stesso Hintikka - uno storico militare che raccontasse la carica della Brigata leggera a Balaclava preoccupandosi dell'entità e disposizione delle forze in campo, dei piani Strategici e delle tatti8

che in uso, ma ignorando completamente la topografia del luogo in cui si svolse la carica, che spiega in gran parte perché l'ordine di effettuarla era destinato ad avere i disastrosi effetti che ebbe, e ci consente quindi di comprendere e valutare le decisioni del comando britannico? Come ci dice Hintikka, Nessuno storico militare può permettersi di trascurare la topografia delle battaglie che studia [ ... ] anche se questa informazione topografica da sola non equivale ancora a una conoscenza storica. Analogamente, uno storico delle idee è, nel migliore dei casi, seriamente svantaggiato se non padroneggia gli aspetti topici dei problemi affrontati dai filosofi precedenti e, nel peggiore, è incapace di rendere giustizia ai suoi predecessori.• Cartografia del pensiero, dunque, studio di ideali mappe concettuali: questo, secondo Hintikka, dovrebbe (almeno per una parte importante) essere la storia della filosofia, e questo è ciò che il lettore troverà nei saggi contenuti in questa antologia. Ma questo particolare modo di fare storia della filosofia si espone a due ovvie obiezioni (che, fra l'altro, spiegano l'accoglienza non troppo entusiastica riservatagli dagli storici della filosofia di professione): la prima è che esso porta - frequentemente, se non invitabilmente-a forzare il significato dei testi di un filosofo. La seconda è che, nel suo procedere per tagli locali, esso non tiene conto di tutto quello che un filosofo ha detto sull'argomento. Vediamo come Hintikka reagisce a queste obiezioni. Abbiamo visto poc'anzi che per Hintikka un problema interpretativo che può essere risolto per accumulo di citazioni non è, semplicemente, un problema degno di considerazione. «Per lo stesso motivo - egli ritiene - è una osservazione a buon mercato che una interpretazione proposta non calza immediatamente con quello che è per noi il significato letterale delle parole del filosofo in questione». 10 Spuntata come critica, questa argomentazione si rivela addirittura dannosa quando è proposta come una indicazione sul modo di fare storia della filosofia: Ciò che va perduto in discussioni che dipendono da questo genere di argomentazione sono due cose. Primo, va perduta la dinamica del pensiero di un filosofo: i suoi problemi,

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le sue tacite assunzioni concettuali, i suoi modi favoriti di argomentazione e i suoi diversi (e spesso reciprocamente incompatibili) tentativi di risolvere i propri problemi. Secondo. ciò che vn spesso perduto è il riconoscimento del fallo che le parole e nitre assunzioni concettuali di un filosofo storico sono diverse dalle nostre. Di conseguenza, la sttuttura argomentativa del pensiero del filosofo può venire facilmente fraintesa. 11 Che è come dire: una certa "forzatura" di «quello che è per noi il significato letterale delle parole» di un filosofo è inevitabile se si desidera cogliere la dinamica del suo pensiero attraverso i sentieri, spesso impervi e mal tracciati, del suo paesaggio concettuale. Ma questa «enfasi sulla conoscenza della topografia concelluale è compatibile con la credenza che le mappe del paesaggio intellettuale dei filosofi anteriori erano spesso tracciate in base a principi interamente diversi dai nostri» 12 - è così rinunciamo a evitare un tipo di forzatura, che alcuni storici della filosofia considerano pericolosa, per evitare quella, ancor più pericolosa, in cui si cade cedendo alla tentazione di esportare le nostre assunzioni concettuali nei filosofi studiati (tentazione in cui, pure, sono caduti alcuni rispettabili storici della filosofia). 13 Per quanto riguarda la seconda obiezione, lo stesso Hintikka ha coniato l'eticheua di «fallacia dei concetti monolitici» per l' «assunzione secondo cui una interpretazione o ricostruzione razionale di un concetto (distinzione, argomentazione, assunzione, ecc.) di un pensatore anteriore è ipso facto sbagliata se non copre tulio quello che egli ha detto in proposito».,. In realtà, al banco di prova di una seria indagine storica si mostra che i concetti e le argomentazioni di un filosofo sono, in ultima analisi, di rado monolitici. Al contrario, una delle scoperte più frequenti che un serio studioso può fare a un esame più ravvicinato della mappa concettuale di una figura storica è che in essa confluiscono e si assommano molti aspelli diversi. Una argomentazione o distinzione rilevante che troviamo nella storia concelluale è spesso un conglomerato di molte argomentazioni o distinzioni sovrapposte. In questi casi non può semplicemente darsi una interpretazione uniforme[ ... ] Una interpretazione parziale non dovrebbe 10

perciò essere criticata solo perché coglie una sola faccia dell'originale[ ... ] Mi sembra che[. .. ] questo tipo di critica coinvolga una forma di astoricità che è panicolarmente perniciosa perché cerca di nascondersi sotto la apparenza della precisione storica. Non posso fare a meno di pensare che il mancato riconoscimento delle ambiguità della storia delle idee filosofiche rappresenti una pericolosa fonna di anacronismo». 15 Il lettore è invitato a riflettere. La storia intellettuale è sempre più ricca, varia, "ironica", multilaterale di quanto i migliori storici delle idee non riescano aimmaginare 16 (neè un esempio eloquente la storia del Principio di Pienezza: si veda più sotto). Proprio per questo non vi è peggior anacronismo di quello che, in nome delle precisione storica, pretende di condannare «una interpretazione o ricostruzione razionale» perché «coglie una sola faccia dell 'originale». Ma se la storia delle idee è realmente troppo ricca, varia, ecc., per poter essere catturata da una «interpretazione uniforme», Io stesso non può dirsi forse anche di «una interpretazione o ricostruzione razionale» che si configuri come profilo di una ideale mappa concettuale alla luce di assunzioni che sono anch'esse - inevitabilmente - di natura filosofica? Non si potrebbe dire, rivoltando contro Hintikka una delle critiche di Kuhn a Lalcatos, che quella che egli considera come una storia delle idee filosofiche non è affatto una storia, ma una filosofia che si costruisce i propri esempi (le proprie "mappe")?" Ma vale allora, in appoggio a Hintikka, la risposta di Lalcatos a Kuhn: che ogni storia di idee siano esse filosofiche o scientifiche-è sempre una filosofia che si costruisce i propri esempi. 18 Il problema, in realtà, non è che «una interpretazione o ricostruzione razionale di un concetto (distinzione, argomentazione, assunzione, ecc.) di un pensatore anteriore» sia in larga misura detenninata (altri direbbero inquinata) dalle assunzioni in base alle quali si procede a delineare la mappa del suo territorio concettuale, bensì che non tutte le ricostruzioni (di un medesimo "pezzo" di storia delle idee) sono ugualmente buone. Alcune ricostruzioni sono, ovviamente, migliori di altre, e noi dobbiamo essere in grado di stabilire quale, fra diverse ricostruzioni rivali, è la migliore. Ora, un ovvio criterio di confronto fra ricostruzioni rivali di un

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medesimo "pezzo" di storia delle idee è la fedeltà storica. Fra diverse ricostruzioni, ad esempio, del pensiero di un filosofo, è giudicata migliore quella che appare più fedele ai dati storici (al filosofo "'storico"). 19 Questo criterio, tuttavia, cade esattamente sotto le obiezioni precedenti, dal momento che per "storicamente più fedele"' si intende generalmente "più fedele ai testi", o addirittura "confermata da un maggiornumero di testi" -col che si ricade nel metodo, consueto frn gli storici della filosofia di professione, di produrre evidenza testuale a favore di una data ricostruzione al fine di mostrare che essa è la più fedele al «significato letterale» dei testi (meglio se di un numero comparativamente maggiore di testi) del filosofo in esame. Dobbiamo dunque disperare della possibilità di trovare chiari criteri mediante i quali confrontare ricostruzioni rivali nella storia delle idee? Non solo Hintikka non dispera, ma ritiene addirittura che la storia della filosofia sia, sono questo profilo, un terreno privilegiato: «Forse non ci sono esperimenti cruciali nella scienza. Ci sono, però, test cruciali nella storia della filosofia».2° Vediamo un po'. Il criterio tradizionale della fedeltà (o della "precisione") storica fallisce di fronte al fatto, al quale abbiamo già più volte accennato in precedenza, che le assunzioni concettuali che costituiscono l'humus di un filosofo sono spesso "nascoste", "tacite", addirittura inconsapevoli: non emergono direttamente (dai testi) ma devono essere colte a partire dalle loro conseguenze indirette ma esplicite, «dalle implicazioni che producono insieme ad altre idee»,21 e quindi, in definitiva. dalle tracce, spesso piuttosto tenui e confuse, che esse lasciano nelle dottrine esplicite del filosofo. Quale test migliore, allora, di quello che mette alla prova, l'una contro l'altra, ricostruzioni rivali sul piano del loro successo esplicativo? Che premia, diciamo cosl, quella fra diverse ricostruzioni rivali che spiega più cose, o spiega le stesse cose in modo migliore: che ci consente, dunque, di vedere con maggior chiarezza come le dottrine esplicite di un filosofo sono connesse alla struttura argomentativa generale del suo pensiero e alle assunzioni (più o meno) tacite che costituiscono il suo territorio concettuale? Su uno standard di valutazione del genere convergono, essenzialmente, le «morali metodologiche» a cui Hintikka approda a conclUsione della sua brillante discussione del cosiddetto Princi-

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pio di Pienezza (nel primo saggio di questa antologia): il venerabile principio metafisico che (in una delle sue innumerevoli versioni) afferma che tutte le possibilità prima o poi si realizzano. Su questo terreno-tanto più interessante in quanto qui non abbiamo a che fare con una singola figura storica ma con una idea che assume facce diverse a seconda del sistema di pensiero in cui si incarna-si affrontano due punti di vista: quello "topografico" e "relazionale" di Hintikka e quello "atomistico" di ArthurO. Lovejoy, il creatore della storia delle idee (almeno come disciplina accademica). Secondo Lovejoy, idee come il Principio di Pienezza sono importanti in quanto «idee-unità»: 22 nuclei concettuali atomici il cui pregio maggiore, come catalizzatori dell'attenzione dello storico delle idee, consiste nella loro «presunta impenetrabilità» ad altre idee.23 Per Hintikka, invece, l'importanza di queste idee consiste nel loro essere «ideali punti focali»,. rivelatori di una intera topografia concettuale. Ciascuno di questi punti di vista porta a una detenninata ricostruzione della storia (o di aspetti della storia) del Principio. Quale di queste ricostruzioni ha più successo nel senso appena spiegato? Secondo Hintikka pesa, dalla parte di Lovejoy, qualcosa di molto simile alla «fallacia dei concetti monolitici»: l'incapacità di riconoscere che ciò che va sotto il nome di Principio di Pienezza è «un agglomerato di varie idee fra loro correlate»,25 molto più simile a un quadro con molte e variegate sfumature che a un compatto monolito concettuale-e queste sfumature si riflettono nel (e, in parte, dipendono anche dal) modo in cui esso è stato adottato da differenti filosofi come parte esplicita del loro sistema di pensiero. Ora, proprio un'indagine delle varie forme e manifestazioni del Principio in diversi pensatori mostra che «le sue implicazioni non sono - in generale - indipendenti dalla cornice teorica e concettuale in cui viene a inserirsi», e che esso «cambia[ ... ] fonna sono la pressione dei fondamenti della struttura in cui viene incorporato».26 Ad esempio, una simile indagine mostra che le diverse forme del Principio hanno legami «con le dottrine epistemologiche e metafisiche di uno stesso pensatore, e si connettono, attraverso di esse, a una intricata rete di altre idee». 27 Questo è il caso, ad esempio, di Aristotele. Guidato dalla sua concezione del Principio come esempio paradigmatico di ideaunità, e attratto dal suo ruolo in quei contesti-connessi con le idee di creazione, evoluzione e perfezione del mondo-in cui prevalgo-

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no condizioni conce11uali di ordine esplicitamente teologico,estetico e morale, Lovejoy ha attribuito ad Aristotele il rifiuto di qualsiasi forma del Principio. Viceversa, da una allenta analisi del pensiero di Aristotele (si veda, oltre ai riferimenti nel primo saggio. l'intero secondo saggio di questa antologia) emerge non solo che egli accettava il Principio-e lo accettava per ragioni che erano precisamente di natura metafisica. epistemologica e logica, anziché teologica, estetica o morale-ma addirittura che esso gioca un ruolo essenziale in molte parti fondamentali della sua filosofia. Emerge, inoltre, che il ruolo del Principio nel pensiero di Aristotele non è facil,nente riconducibile a degli schemi chiari e inequivocabili. Ad esempio, il Principio di Pienezza, al tempo stesso, presuppone e sostiene una interpretazione esclusivamente temporale delle nozioni modali (necessario, possibile, impossibile definiti, rispettivamente, come ciò che accade sempre, accade qualche volta, non accade mai). Naturalmente, chi aderisce a questa interpretazione non è, in genere, ponato a dare molta importanza alle nozioni modali in quanto tali, e men che meno a una logica modale, ma solo alle corrispondenti nozioni temporali (e a un logica temporale). Come si spiega, allora, l'interesse di Aristotele per le nozioni modali e il ruolo fondamentale che esse giocano nella sua filosofia? Ciò che abbiamo qui è una contraddizione, o non forse piuttosto «un indizio delle profonde tensioni che operavano nel pensiero di Aristotele»? 211 Chi si è trovato - e con buona ragione-a meravigliarsi delle "ambiguità" della storia delle idee ha di che riflettere. Questa ambiguità della storia delle idee è, in fondo, un riflesso della dinamica degli stessi sistemi concettuali che essa esplora e ricostruisce. In molti (forse nella maggior par1e dei) grandi pensatori, questa dinamica può effettivamente includere (e essere spesso il frutto) di tensioni irrisolte e di spinte contraddittorie operanti entro uno, e un medesimo, apparato concettuale (nel caso di Aristotele, la spinta verso una logica modale e l'indeterminismo, da un lato, e una logica temporale e il determinismo, dall'altro). La storia del Principio di Pienezza è, del resto, tutta una dimostrazione di questo fatto. Nelle diverse forme e ruoli rivestiti dal Principio entro il sistema di pensiero di diversi filosofi si riflettono non solo le sottili e complesse interazioni de) Principio con altri contesti concettuali, ma anche le tensioni che percorrono, al loro interno, questi stessi sistemi - cosi che il Principio finisce per 14

diventare una sorta di cartina di tornasole di tutte le tortuosità della storia delle idee. Un esempio calzante è costituito dall'atteggiamento di Kant nei confronti del Principio (si veda il terzo saggio di questa antologia). Qui ci troviamo ancora una volta di fronte a un percorso difficilmente riconducibile a uno schema chiaro e inequivocabile. Kant passa da una accettazione dogmatica del Principio, nel periodo cosiddetto "precritico", al suo più netto rifiuto nella fase di transizione al periodo "critico", per approdare infine a una riadozione, non priva di ambiguità, di esso nel periodo critico maturo. Il Principio di Pienezza mostra così tutta la sua capacità di farsi specchio dei profondi mutamenti intervenuti nel pensiero di Kant dal momento in cui egli si rende conto che le possibilità presenti nel mondo intelligibile ("noumenico") non possono semplicemente esaurirsi entro i confini del mondo sensibile ("fenomenico"), a quando la limitazione degli usi leciti del1'intelletto umano al campo dell'esperienza possibile - definito dalle operazioni che noi stessi compiamo - scuote uno dei presupposti del Principio stesso (l'assunzione di un dominio delle possibilità indipendentemente definito). Fin qui abbiamo visto che il Principio di Pienezza- ben lungi dal costituire quell'unità atomica intesa da Lovejoy - si trova sempre situato in un contesto di (spesso ambigue) interrelazioni con altre idee, sia interne che esterne al sistema di pensiero di un filosofo. Non basta. Il significalo stesso e la portata del Principio cambiano radicalmente a seconda di come si intendono le possibilità che il principio afferma si realizzeranno: se come possibilità a. di diversi ripidi individui; oppure b. di individui e eventi parricolari, oppure c. di sequenze di eventi. L'importanza di queste distinzioni è tale da mettere addirittura a repentaglio la correttezza della stessa denominazione di "Principio di Pienezza". (Infatti, solo se le possibilità a cui ci si riferisce sono intese come possibilità di tipi di individui, come i generi e le specie, il Principio è realmente un principio di pienezza nel senso inteso da Lovejoy, cioè nel senso che, se il nostro universo non esclude nessuno dei generi e delle specie possibili, allora esso è effettivamente il più completo, cioè il più pieno, possibile). Le conseguenze più profonde di questa distinzione si hanno però quando si intendono le possibilità come riferite a sequenze di eventi. Qui emerge di nuovo tutta la "parzialità" del punto di vista di Lovejoy. II caso di studio è fornito dal pensiero di Leibniz. 15

Secondo Lovejoy, non solo Leibniz non riesce a distinguere la sua posizione dn quella dei sostenitori del Principio di Pienezza, ma il «presupposto scientifico» stesso «secondo il quale la più semplice ipotesi esplicativa va sempre preferi1a appare a Leibniz[ ... ] come un corollario del principio». 29 Le cose, per Hintikka, stanno in realtà in modo molto diverso. 30 Non solo, infatti, il Principio di Pienezza è escluso dalle parti più profonde della metafisica leibniziana della possibilità e della creazione, ma nuove e inleressanti ragioni del rifiuto leibniziano del Principio emergono proprio dalla considerazione di quei "presupposti scientifici" a cui accenna (ma che vengono trascurati da) Lovejoy - in particolare quando si considera il conflitto che viene inevitabilmente a manifestarsi tra il Principio e le nostre "ipotesi esplicative" (leggi di natura). Uno dei capisaldi della scienza moderna è l'idea che esistono delle regolarità naturali che possono essere descritte matematicamente in termini generali. Orbene, il Principio di Pienezza si trova in conflitto sia con l'idea di leggi di natura genuinamente descrittive- cioè vere del mondo reale - sia con l'idea di leggi di narura formulate in temùni matematici (basti pensare alla s1::guente conseguenza del Principio: se non vi è nessuna possibilità che prima o poi non si realizzerà, ciò riguarda anche quelle possibilità che fanno eccezione a una qualunque legge di natura, col risultato che nessuna legge di natura formulata matematicamente può piil ritenersi al sicuro dalle confutazioni). Con simili conseguenze, non dovrebbe essere difficile capire le ragioni sia della netta opposizione del Leibniz fisico matematico al Principio di Pienezza sia, in particolare, della sua violenta opposizione a Cartesio. Tali conseguenze, tuttavia, emergono solo quando si sposta -come fa Leibniz- l'enfasi del Principio da individui e tipi di individui possibili a possibili sequenze di eventi (laddove Cartesio continuava a ritenere che esso avesse a che fare con possibili stati di cose). Questo spostamento, però, non è qualcosa che Leibniz affemù esplicitamente, ma è ricavabile, indirettamente, proprio dal suo atteggiamento esplicito nei confronti del Principio - e, quel che più conta, è ricavabile solo in quanto affiniamo la nostra comprensione delle conseguenze dall'applicazione del Principio a sequenze di eventi piuttosto che a eventi individuali o stati di cose. Questo ci porta diritti diritti al cuore della questione. Idee come il cosiddetto Principio di Pienezza sono importanti _ lo 16

sappiamo-non a motivo della loro pretesa unità ma in virtù della loro capacità di riflettere altre idee. Ma questo «potere di riflessione» non è una «proprietà intrinseca» di simili idee riflettenti «ma il risultato del modo in cui noi filosofi l[e] abbiamo intagliat[e) per accrescerne la brillantezza»." Chi, fin dall'inizio, si fosse lasciato fuorviare dal termine "razionale" a credere che una ricostruzione razionale di un "pezzo" di storia delle idee assolve il suo compito, proprio in quanto ricostruzione razionale, nell'instillare forzatamente la chiarezza e l'ordine delle più sofisticate tecniche analitiche nel materiale ribollente della storia può cominciare a ricredersi. Una ricostruzione di un certo "pezzo" di storia delle idee non è razionale perché impone il rigore sistematizzatore della logica ai dati storici recalcitranti ma, piuttosto, perché agisce come una sorta di lente concettuale a cui una accurata "molatura" analitica conferisce la capacità di riflettere tutte le contraddizioni, le ambiguità, «le spesso sorprendenti interrelazioni tra idee diverse» 12 che si annidano nei meandri della storia delle idee. Tutti i saggi - saggi, secondo la prudente riserva di Hintikka, «nel vecchio senso di esperimenti» 33 - inclusi in questa antologia sono, per un verso o per l'altro, esemplari di questo modo di fare storia della filosofia. Qui però c'è spazio per una ulteriore - forse decisiva-obiezione. D'accordo, potreste dire, siamo abbastanza convinti che ci sia del buono nel modo hintikkiano di selezionare e interpretare i materiali per una ricostruzione di un certo "pezzo" di storia delle idee vis à vis con quello degli storici della filosofia di professione. Ma Hintikka è pur sempre egli stesso un filosofo. Non c'è forse allora il pericolo che nei suoi "esperimenti", dopotutto, egli si confronti con le idee di un filosofo storico più perciò che esse possono significare per un certo problema in esame che per la loro importanza intrinseca e per come un loro chiarimento può contribuire alla conoscenza del filosofo in questione? Sappiamo tutti che questo modo di procedere è così generalmente diffuso tra i filosofi di ogni epoca che qualsiasi esempio comporterebbe soltanto l'imbarazzo della scelta. Ma come - appunto - mostrano la maggior parte di questi esempi, quando un filosofo, diciamo A, confronta (più o meno implicitamente) le proprie idee con quelle di un altro filosofo, diciamo B, egli è generalmente portato apresentarle in funzione del suo problema e dei suoi modi favoriti di argomentazione, cosicché il modo di A di presentare le idee di B finisce per essere assai più indicativo del modo di pensare di A che

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del modo di pensare di B (si veda, ad esempio, l'ultimo saggio dell'antologia, che è quello che può maggionnente dare questa impressione). Detto in modo franco: non dovremmo forse prepararci a imparare da questi saggi molto più sul "paesaggio intellettuale" di Hintikka che su quello dei filosofi a cui egli dedica apertamente In sua attenzione? Ebbene, non si può negare che in ciò possa esservi qualche elemento di vero. Ma in questo non vi è nulla di scandaloso, se vi è una ragionevole speranza che possa capitare ciò che Kant - uno dei filosofi più presentì in questa antologia - ci induce a sperare quando osserva, a proposito della sua presentazione della dottrina di Platone, «come non vi sia nulla di insolito- così nelle conversazioni abituali come negli scritti, e attraverso il raffronto dei pensieri che un autore esprime sul suo oggetto- nel fatto di riuscire ad intendere l'autore in questione magari meglio di quanto egli intendesse se stesso»." Fino a che punto questa speranza sia soddisfatta nel caso degli autori studiati da Hintikkaè, però, una questione che lasciamo giudicare al lettore. Gaps in rh, Grtat Chain o/B,ing: An Ex,rcis, in rh,, M,rhado/ogy o/rii, History a/ ldtas ~ staio pubblicato originariamente in "Proccedings and Adrcsscs of lhe Amcrican Philosophical Associa1ion,., voi. XLIX (1976). p. 22-38. Ristm1pa10 con revisioni in S. Knuunila (a cura di), R,forging 1/rt Grtal Chain o/ Being. S1udi~s in th, History o/ Moda/ Th,ori,s. D. Reidel Publishing Company. Dordrechl 1981, pp. 1-17. Aristorl, on tht R,ali:ation o/ Possibilities in Tim, ~ stato pubblicato originariamente come capitolo 5 di J. Hintikka. Time and Ntussity: Studies in Aris1011,·s Theory o/ Modality, Clarendon Press, Oxford 1973. Ristampato in S. Knuunila (a cura di), Reforging rhe Grear Chain o/ B,ing. Studits in tht History o/ Moda/ Thtories. D. Re idei Publishing Company, Dordrecht 1981. pp. 57-72. Kanr on "The Great Chain o/ Bting" orth, El'tntua/ Rtali:ation o/ Al/ Possibiliri,s: A Compararive Study (con Heikk.i Kannis10) ~ s1a10 pubblicato originariamente in ~Philosophic Exchange", 2 ( 1976), pp. 69-85. Ristampato in S. Knuunila(acuradi).Reforging the GrearChainofBting. Studi,s intht Historyo/Moda/Th,ori,s, D. Rcidcl l'llblishing Company, Donb-ech1 1981, pp. 287-306. Was I.Libniz' s Dtity an akratts? ~ staio pubblicato in S. Knuunila (a cura di), Modem Modalitits, Kluwer Academic, Dordrecht 1988, pp. 85-108. Ka,u on the Marhemarical Method è stato pubblicato originariamente in ""lbc Monist", 51 (1967), pp. 352-375. Ristampalo in L. W. Bcck (a cura di), Kant Studits To-day, Open Court, La Sallc, Ili. 1969, pp. 117-140 e in J. Hintikka, Knowltdgt and the Known. Hisrorical P,rspectivts in Episrtmology, D. Reidel Publishing Company, Dordrech1 1974, pp. 160-183. Kanr on Exisrenc,, Predication, and rhe Ontologica/ Argument ~ stato pubblicato originariamente in "Dialeclica", 35 ( 1981 ), pp. 127-146. Ristampalo in S. Knuunila e J. Hin1ikka (a cura di), The logie o/ Being. Historical Studies, D. Reidel l'llblishing Company,

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Dordrecht 1986, pp. 249-267. Tutti questi saggi sono stati tradoui con il permesso del l'autore, degli ed ilori edei curatori, che ringraziamo per la gentile concessione.

Note J. Alcuni dei contributi più imponanti di Hintikka, in particolare al problema dell'induzione e della logica induttiva, sono raccolti nell'antologia, a cura di

M. Mondadori e P. Parlavecchia, Induzione, acetilazione, informazione. il Mulino, Bologna 1974. 2. J. Hintikka, "Self-Profile", in J. Bodgan (a cura di), Jaakko Hin1i/cka, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht 1987, p. 38.

3. L'esempio forse più significativo di questa '"interazione a doppio senso'' (/oc. cit.) fra indagine storica e analitica è il libro logie. Language•Games. and /nfnrmalion, Oxford University Press, Oxford 1973 (trad il. il Saggiatore, Milano 1975), che rappresenta uno dei punti fermi della ricerca di Hintiklca nel dcccMiO a cavallo tra gli anni sessanta e seltanta. Per un"idea degli argomenti trattali in questo libro si veda il penultimo saggio di questa antologia. 4. J. Hintikka, Knowledge and the Known. Historical Perspecti\•es in Epis1emology, D. Rcidel Publishing Company, Dordrecht 1974. p. I (corsivi di Hintikka). S. J. Hintikka, "Kant'sTrascendcntal Melhodand HisThcoryofMalhematics~. Topoi,3(1984),p.107. 6. Hintikka, Knowledge and lhe Known, cit., p. I.

1. 8. 9. IO. 11.

lbid. lbid, p. V!Il. Jbid, p. VII. Hintikka, "Kant'sTrascendental Melhod", op. ci~p. 107.

lbid. 12. Hinlikka,Knowledgeand1heKnown,op. cit.,p. vm. 13. Cfr. Hintikka, "Kant's Trascendental Melhod", op. cii, p. 107. 14. Hintikka, Knowledge and the Known, op. cit., p. IX. 15. lbid., pp. IX-X. I 6. La frase riecheggia una delle citazioni preferite di Paul K. Feyerabcnd; cfr. P. K. Feyerabcnd, // rea/ismoscienlijico e I' a111orità dtlla scienza, il Saggiatore, Milano 1983, p. 298. 17. Cfr. T. S. Kuhn, "Noie su Lakatos", in I. Lakalos e A. Musgrave, Critica e crescita della conoscenza, Fellrinelli, Milano 1976, p. 415. 18. Cfr. I. Laka1os, "'Perché il programma di ricerca di Copcrnko superò quello di Tolomeo?", in I. Lakatos, Scritti filosofici, voi. I: La metodologia dei programmi di ricerca scienli/ici. il Saggiatore, Milano 1985, p. 244. Questo. in effetti, è anche quanto sembra potersi ricavare da ciò che Richard Rony dice dei"quattro generi" di storiografia filosofica: cfr. R. Rorty, "Thc

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Hisloriogmphy or Philosophy: Four Genrcs", in R. Rony ,r al. (n curo di), Philsophy in History, Cnmbridgc Universi1y Prcss, Cnmbridgc I 984, pp. 49-75. 19. Per un esempio significativo di uso di questo criterio cfr. C. Brown. Leibniz and Stra•·son. A N,w Essay in D,scripti1·, Mttaphysics, Philosophia Verlng Gmbh, MOnchen 1990. Cfr. anche le osservazioni di Rony su Strnwson in 'The His1oriog111phy or Philosophy", op. cit., p. 52. 20. Hintikl:a, "Kant'sTruscenden1al Melhod",op. cit., p. 107. 21. Questo volume, p. 38. 22. Cfr. A. O. Lovejoy. la Grand, Car,na d,11' Esstr,, Feltrinelli, Mi Inno 1966, pp. llsg. 23. Questo volume. p. 41. 24. Qucslo volume, pp. 37-38. 25. Ques10 volume, p. 29. 26. lbid. 27. Qucs1ovolume,p.41. 28. Questo volume, p. 62. 29. Lovejoy.La GrandeCat,nad,ll'Esstr,,op. cit.,p. 192. 30. C&. il primo e il quano saggio di questa an1ologia e inoln-c J. Hintikka. uibni: on Pl,ni111d,, R,lations, and th, "R,ign of law', in Harry G. Frankfwt (a cura di), uibni:: A Co/1,ction of Criticai Essays (Modem Studics in Philosophy), Doubleday, Garden Cil)I, N.Y. 1972, pp 155-190. Ris1ampa10 in S. Knuunila (a cura di), R,forging th, Grtat Chain of Being. Studi,s in the History o/ Moda/ Th,ori,s, D. Reidel Publishing Company. Dordm:h1 1981, pp. 259-286. 31. Ques10 volume, p. 41. 32. Qucs10 volume, p. 39. 33. Hintil:h.Knowl,dg,and the Known, op. cit., p. VIII. 34. I. Kant, Critica d,1/a ragion pura, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino I 967, p. 314. L'appello a Kan1 può sembrare prclestuosc; ma si veda l'uso che del "verdello di Kan1" fa Jocllc Prous1 nel suo libro Qu,stions d, forme. Logique ,r proposition analytiqued, Kantà Carnap, Fayatd, Paris 1986, pp. VIII sg., per sviluppare un 'idea di .. topica comparativa" che presenta diversi - e intcn:ssanti -punti di contano con il modo hintikk.iano di farc storia della filosofia così come siamo venuti delineandolo in questa introduzione.

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LACUNE NELLA GRANDE CATENA DELL'EssERE: UN ESERCIZIO DI METODOLOGIA DELLA STORIA DELLE IDEE•

Per ceni storici comprendere tutto significa perdonare tutto. Per altri, come lord Acton, la storia non è semplicemente un giudice, ma è addirittura un giudice forcaiolo. Ma quando tulio è già siato detto e fatto-e letto e compreso-di ceno la chiave piùadatla alla musica di Clio,lamusadellaStoria,èl'ironia.Enonpotrebbeesserviironiapiù pungente di quella che emerge dalla giustapposizione delle due citazioni che seguono. (Richiamo in panicolare la vostra attenzione sulle frasi in corsivo e sul loro ruolo nella globalità dell'argomentazione. I corsivi sono tutti miei). Tra le cose noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tal natura siano sempre state, perché ciò che può non essere, un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose [esistenti in natura sono tali che] possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste, non comincia ad esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c'era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque, non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualche cosa di necessario (Trad. it. in S. Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica, voi. 1, Salani, Firenze 1952, p. 76).

Io stimo il signor Descanes quasi quanto si può stimare un uomo e, benché fra le sue opinioni ve ne siano alcune che mi sembrano false e persino dannose, non tralascio di dire che dobbiamo in materia di filosofia a Galilei e a lui quasi altrettanto di quello che dobbiamo a tutta l'antichità. Non mi sovviene attualmente che una delle due proposizioni pericolose[ ... ] eccola con queste parole nei Principi di Fi21

/osojia, parte III, artìcolo47. «E del resto importa pochissimo quel che sì assume a questo proposito, dato che poi deve essere mutato secondo le leggi di natura. E appena si potrebbe immaginare alcunché da cui non possono essere dedotti gli stessi effetti, se non forse con maggiori difficol1à. Infatti poiché, in virtù di queste leggi, la materia ass11me s11ccessimme11te tlltte le forme di c11i è capace, se consideriamo ordinatamente tutte queste forme, potremo alla fine giungere a quella che esiste in questo mondo, di modo che non si può dubitare che qui vi sia qualcosa tratto da una falsa ipotesi». Non credo che sì possa formulare una proposizione più pericolosa di questa. Infatti, se la materia riceve tutte le forme possibili successivamente, ne deriva che non si possa immaginare nulla dì più assurdo né di più bizzarro e contrario a ciò che chiamiamo giustizia, che non sia avvenuto o non avvenga un giorno. Sono proprio le concezioni che Spinoza ha spiegato più chiaramente, cioè che giustizia, bellezza, ordine, altro non sono che cose che si riferiscono a noi, ma che la perfezione di Dio consiste in tale ampiezza del suo operare, che nulla sia possibile o concepibile che egli affila/mente non prod11ca. Sono queste le convinzioni dì Hobbes, che sostiene che tutto ciò che è possibile, è passato o presente ofuturo, e che pertanto nulla si potrà ripromettere dalla Provvidenza, se Dio produce tutto e non fa scelte tra gli esseri possibili[ ... ] Questa è, a mio avviso, la prima falsità e il fondamento della fùosofia atea che, ìr: apparenza, non trascura di dire belle cose a proposito dì Dio (Trad. ìt. in G. W. Leibniz, Scritti filosofici, a cura di D. O. Bianca, voi. 2, lITET, Torino 1968, pp. 61-62). Il primo brano è tratto dalla celebre tertia via, la terza prova dell'esistenza dì Dio nella Summa Theologiae di S. Tommaso d'Aquino; il secondo da una lettera di Leibniz a Philipp datata gennaio 1680. Il massimo com un denominatore dei due passi citati è costituito dal l'assunzione secondo cui tutto ciò che può accadere a lungo andare accadrà, cioè l'assunzione secondo cui nessuna possibilità genuina può rimanere irrealizzata per un tempo infinito. La storia di questa assunzione è la vena dalla quale estrarrò i materiali dì questa conferenza. L'Aquinate introduce una versione dì questo principio e conti22

nua a farvi ricorso quando affenna che, se tutte le cose esistessero contingcntemente (secondo la pura possibilità), allora avrebbe dovuto esserci un tempo in cui nulla esisteva. Leibniz ritrova la stessa assunzione formulata a chiare lettere dai signori Descartes, Spinoza e Hobbes. L'aspetto più ovvio dell'ironia di questi testi è che la stessa assunzione che fungeva da chiave di volta di una delle più importanti dimostrazioni dell'esistenza di Dio in S. Tommaso venga bollata da Leibniz con inusitata veemenza come «la prima falsità e il fondamento della filosofia atea». È opportuno dare una spiegazione di questo completo capovolgimento di atteggiamenti, visto che si tratta di uno dei mutamenti più drammatici di tutta la storia delle idee. Più avanti, in questo saggio, fomiremoalcuni ragguagli esplicativi. Nel frattempo, giova osservare che l'ironia qui non cade unicamente, né principalmente, sul barone von Leibniz o sul buon frate Tommaso. L'ironia cade anche, e soprattutto, sugli storici delle idee. Filosofi di professione meno sagaci di Leibniz non sarebbero i soli a stupirsi di ciò che accade, nel lungo periodo, alle idee con cui trafficano. I professionisti della storia del pensiero hanno di rado seguilo la genealogia delle nostre idee abbastanza a fondo e con una sistematicità sufficiente a preservarli da simili sorprese. Qui, comunque, l'ironia è ben più sottile di una semplice svista. Una delle poche idee di portata chiaramente identificabile il cui sviluppo sia staio effettivamente seguito lungo lutto il corso della storia del pensiero occidentale è infatti proprio il principio che stiamo esaminando. L'assunzione secondo cui tutte le possibilità si realizzano è una delle due idee il cui sviluppo è studiato nel classico di Arthur O. Lovejoy la Grande Catena del'Essere. 1 Negli Stati Uniti questo volume ha rappresentalo l'opera di storia delle idee forse più influente della seconda metà del secolo. Sebbene il suo autore fosse un filosofo di professione, l'influenza di questo libro sembra essere staia più forte tra gli studiosi di letteratura che tra gli storici, e tra gli storici più che tra i filosofi. Vista, dunque, l'attenzione piuttosto viva che è stata riservata all'idea che stiamo considerando-cioè all'idea che tutte le possibilità alla fine si realizzano-è doppiamente ironico che il resoconto fornito da Lovejoy della storia di questa idea sia gravemente difettoso non solo nei dettagli ma anche in alcune delle sue linee portanti. E allorché comprendiamo le ragioni delle pecche della narrazione di Lovejoy, l'ironia diventa ancora più pungente. Dal punto

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di vista di Lovejoy, il principio o assunzione in esame esemplificava alla perfezione il tipo più importante di idee che gli storici delle idee dovrebbero studiare. Era il caso paradigmatico di quelle che egli chiamava idee-1111irà. Secondo Lovejoy, le manifestazioni di queste specifiche idee-unità costituiscono il principale oggetto di interesse degli storici delle idee. Questa sera sosterrò che, sebbene In realizzazione finale di tutte le possibilità sia probabilmente quanto di più simile a una idea-unità possiamo trovare nel corso della storia, essa, in ultima analisi, 11011 è 1111' idea-1111irà. Una simile conclusione getta seri dubbi su tutta la metodologia seguita da Lovejoy. Questo perché la strategia sia pratica che teorica adottata da Lovejoy nell'ambito della storia delle idee consisteva, per usare una espressione da lui stesso coniata, in una «ricerca delle idee-unità» che, combinandosi in modi diversi, compongono i sistemi dei diversi pensatori. Queste idee unità costituiscono l'oggetto di studio proprio di quel tipo di storici di cui voleva essere egli stesso un esempio. Proprio all'inizio de La grande Carena del'Essere, Lovejoy dice che la storia delle idee «si differenzia in primo luogo per il carattere delle unità di cui si occupa» [trad. it. cìt. p. 11]. Queste unità sono, naturalmente, le idee-unità di Lovejoy. Di conseguenza, mettere in dubbio l'esistenza di genuine idee-unità vuol dire porre in discussione uno dei capisaldi teorici di tutta l'opera di Lovejoy. Dal momento che è comunque impossibile disconoscere l 'interesse e l'importanza dei libri e dei saggi di Lovejoy, siamo indotti a chiederci dove risiedano i motivi reali di questo interesse. Se nemmeno l'argomento del celebre libro di Lovejoy La Grande Carena dell'Essere è un 'idea-unità, da dove provengono il fascino e l'importanza della sua opera? Quali sono, a ogni modo, i difetti che riscontro nel libro di Lovejoy? Il più lampante è costituito forse dal fatto che il principio di cui stiamo discutendo è suscettibile di più interpretazioni e di più variazioni di quelle che l'autore stesso riconosce. Ed è, d •altronde, piuttosto sorprendente che un filosofo e uno storico che altrove 2 distingue oltre un centinaio di sfumature nel significato dei termini "natura" e "naturale" non sia stato in grado di distinguere tra le diverse applicazioni di cui è chiaramente suscettibile l'assunzione secondo cui tutte le possibilità si realizzano. Nondimeno ciò è quanto, a mio avviso, è accaduto. Persino la terminologia di Lovejoy risente di questo insuccesso. Egli chiama 24

l'assunzione in esame il Principio di Pienezza. Dato che nel corso della sua luminosa storia essa non ha mai avuto, a quanto pare, un nome di facile utilizzo, anch'io userò nel seguito questa denominazione. Dobbiamo comunque renderci conto che si tratta di un termine estremamente fuorviante, poiché pone troppa enfasi su una particolare applicazione dell'idea che ne è alla base. Nel chiamare Principio di Pienezza l'assunzione secondo cui tutte le possibilità genuine trovano alla fine un'esemplificazione nella realtà, Lovejoy pensava evidentemente alle possibilità di diversi tipi di individui, come i generi e le specie. Il principio afferma allora che la varietà dei tipi di entità che di fatto si realizzano è la più completa possibile: essa include tutto ciò che può esserci. La varietà degli esemplari di quello zoo a cui potremmo assimilare il nostro universo rappresenta i generi e le specie possibili con una completezza paragonabile a quella che veniva attribuita ali' Arca di Noé per i generi e le specie realmente esistenti: nulla ne viene lasciato fuori. Partendo da questo presupposto, può apparire piuttosto naturale chiamare Principio di Pienezza l'idea di cui stiamo discutendo. Procedendo in questa direzione, troviamo l'anello di congiunzione tra il Principio di Pienezza e l'idea a cui allude il titolo del famoso libro di Lovejoy. Viceversa, nella misura in cui il Principio di Pienezza vien meno nell'ambito appena delineato, ne risulta un numero equivalente di lacune nella Grande Catena del) 'Essere. Questa, comunque, non è l'unica applicazione possibile del principio; esso infatti può, ad esempio, venire applicato a individui particolari e eventi parlicolari (in quanto distinti dai tipi di essi) o a possibili sequenze di eventi. In tal caso, l'appropriatezzadel termine diviene molto meno ovvia. Nel seguito scopriremo motivi ancora più lampanti per ritenere insoddisfacente il termine adottato da Lovejoy. Tuttavia, mi prenderò ugualmente la libertà di continuare a usarlo, anche se unicamente come rerminus technicus. Val la pena di notare che le distinzioni appena introdotte sono assolutamente cruciali per quanto riguarda le implicazioni del Principio. Se tutte le specie possibili sono sempre realizzate, ci troviamo di fronte a una teoria della permanenza delle specie. Se tutti i tipi potenziali di esseri prima o poi si manifesteranno via via che il tempo scorre da un certo punto in avanti, abbiamo a che fare con una dottrina del! 'evoluzione infinita. Ma se tutte le possibilità concernenti eventi particolari si attualizzano, è facile approdare a

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un fenno detenninismo. Lovejoy non distingue sempre queste differenti conseguenze con sufficiente nettezza. D'altro pane, la distinzione tra le diverse accezioni del Principio di Pienezza non è di interesse esclusivamente tenninologico e sistematico. Questa distinzione riguarda direttamente la storia del Principio, ivi incluse le citazioni da Leibniz e Descanes riponate all'inizio. In effetti, potrebbe sembrare che tutto il vistoso disaccordo tra Leibniz e Descanes posto in evidenza dalla seconda di queste citazioni, si riduca a una differenza nel campo d'applicazione da essi assegnato al Principio. Uno degli aspetti più rimarchevoli del Principio è costituito dalle profonde conseguenze che ne derivano se si cerca di assumerne la validità in relazione a possibili sequenze di eventi. 3 Dato che sono, almeno concettualmente; possibili eccezioni a qualunque supposta legge di natura, e dato che il Principio afferma che queste possibilità si realizzeranno, ogni e qualsiasi pretesa legge di natura verrà prima o poi abbattuta. Non ci si deve dunque meravigliare se Leibniz era turbato dalla perdita di ordine e di bellezza che il Principio di Pienezza sembra componare. Questa apparente conclusione poggia su presupposti tun' altro che autoevidenti. Tuttavia, le debolezze della linea di pensiero seguita (in pane tacitamente) da Leibniz sono interessanti almeno quanto i suoi punti di forza. In primo luogo, inferire un 'eccezione reale a una legge di natura dal fatto che questa eccezione può essere concepita sembra forzare il Principio di Pienezza sino al punto di rottura, dato che con ciò si considerano le possibilità con le quali ha a che fare il Principio come possibilità logiche o concettuali. La legittimità di questa operazione non è ovvia, e verrà commentata più avanti. In secondo luogo, non è detto che, nel concentrare la propria attenzione su sequenze di stati possibili, Leibniz non stia aggiustando ad ane il proprio pacchetto di modalità in modo un po' troppo favorevole a se stesso. A noi risulta abbastanza evidente che egli concentra l'attenzione in questa direzione, anche se può non essere stato altrettanto chiaro allo stesso Leibniz. Proprio nel passo che ho citato Leibniz si riferisce a ciò che è «contrario alla giustizia». Orbene, la giustizia è in primo luogo una questione di sequenze di eventi e di azioni nelle loro relazioni con le successive ricompense e punizioni. Perciò l'interesse di Leibniz è cenamente rivolto a segmenti più o meno lunghi della storia degli eventi in

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, quanto distinti da intersezioni temporali di essa. Ma questi stati di cose contemporanei sono esattamente ciò di cui parla esplicitamente Descartes nel passo citato da Leibniz. Egli discute le diverse configurazioni o "forme" che la materia può assumere. Per contro, non ammette eccezioni alle leggi di natura; piuttosto prende tali leggi per vere e si chiede quali conseguenze ne derivino circa le possibili configurazioni che il mondo materiale può assumere. In sintesi, Leibniz e Descartes parlano di cose diverse. Per Leibniz, il Principio di Pienezza si applica a possibili sequenze di eventi, laddove Descartes ritiene che esso abbia a che fare con possibili stati di cose. Questa contrapposizione illustra una linea di sviluppo storico di vastissime proporzioni che, incidentalmente, illumina l'altra controversia - quella tra l'Aquinate e Leibniz, anch'essa esemplificata dalle mie citazioni iniziali. Essa illumina, altresl, la varietà di differenti concezioni-di differenti idee, se vogliamo usare la magica parola - che si intrecciano in quella formula di seducente semplicità che chiamo Principio di Pienezza. Potremmo esprimere il punto che sto cercando di focalizzare dicendo che il Principio di Pienezza non è una idea, ma un agglomerato di varie idee fra loro correlate. Per questa ragione, il Principio non è una idea-unità nel senso inteso da Lovejoy, sebbene egli lo etichetti come tale. Ma la storia del Principio di Pienezza non è resa cosl ingannevolmente sfuggente solo dal fatto che, essendo suscettibile di svariati tipi cli applicazioni, esso ha diverse varianti. Che il Principio non sia 1111a idea, ma varie idee, è solo un delle ragioni per cui non lo si può considerare una idea unità. Il Principio non può essere una unità di carattere atomico anche perché le sue implicazioni non sono indipendenti dalla cornice teorica e concettuale nella quale viene ad inserirsi. Questo preteso blocco da costruzione, che si vuole unitario, cambia, per così dire, forma sotto la pressione dei fondamenti della struttura in cui viene incorporato. Questa osservazione ha pesanti implicazioni per ciò che concerne l'appropriatezza del termine "il Principio di Pienezza". Questa tesi costituisce unicamente un bilancio ontologico, non una voce d'entrata in una colonna piuttosto che in un 'altra. Non asserisce la pienezza delle attualizzazioni, ma unicamente una equazione tra le possibilità e le loro realizzazioni. È tanto un Principio della Pochezza delle Possibilità quanto un Principio della Pienezza delle loro Realizzazioni. Nessuna pienezza, di nessun

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tipo. può essere derivata dal Principio se non accettando una assunzione sufficientemente forte sulla ricchezza del dominio di possibilità la cui realizzazione finale è asserita dal Principio stesso. Pertanto, il tem1ine "il Principio di Pienezza" adottato da Lovejoy è doppiamente fuorviante. Ciò a cui fa riferimento non è né il Principio di Pienezza né il Principio di Pienezza. In altri termini, un pensatore può adottare il cosiddetto Principio di Pienezza perché crede nella ricchezza del mondo reale. Ma può anche adottarlo perché possiede una visione restrittiva delle possibilità nascoste che si celano dietro al fondale ontologico del nostro mondo reale nella speranza di uscire alla ribalta della realtà. Il significato di questa osservazione ha, inoltre, una panata che va ben al di là delle questioni sistematiche e terminologiche. Riguarda direttamente la storia del Principio. Tra le altre cose, è uno dei tratti distintivi dello scenario che fa da sfondo ali' adozione del Principio in alcuni dei maggiori pensatori dell'Antichità e del basso come dell'alto Medioevo. Ed è anche una delle spie più importanti del graduale abbandono del Principio nel tardo Medioevo e agli inizi dell'Età Moderna. Una delle pecche dell'approccio di Lovejoy in termini di ideeunità sta nel fatto che esso lo porta a trascurare questo aspetto della saga del Principio di Pienezza. Ad esempio, è sintomatico che, trattando del periodo rinascimentale, l'attenzione di Lovejoy si concentri soprattutto sull'ampliarsi delle idee correnti sull'universo reale, cioè sull'ampliarsi della sfera delle attualizzazioni. Ma ciò riguarda soltanto metà dell'equazione in cui consiste il cosiddetto Principio di Pienezza. È ben più evidente di qualsiasi osservazione di Lovejoy che, a dispetto di questo tremendo espandersi dei confini intellettuali del mondo reale, furono relativamente pochi i pensatori- in genere pensatori eccezionalmente impulsivi dello stampo di Giordano Bruno-che accettarono il Principio di Pienezza, che riuscirono cioè a trovare un numero di attualizzazioni sufficienti a uguagliare il regno delle possibilità. Per molti pensatori, a quanto pare per la grande maggioranza di essi, le possibilità si erano moltiplicate ancora più rapidamente delle loro presunte realizzazioni. Questo ampliarsi del regno delle possibilità è uno dei tratti generali più interessanti della storia del pensiero occidentale che ci si chiarisce attraverso Io studio del Principio di Pienezza. Questo cambiamento non è limitato al Rinascimento, ma era già stato 28

stabilmente introdotto verso la metà del Medioevo.• Sebbene l'eziologia e la cronologia precisa di questo profondo cambiamento siano in gran parte ancora da studiare, non vi è più alcun dubbio tra i cognoscenti sulla sua importanza, non solo per la storia della filosofia, ma anche per la storia della scienza, della teologia, e per la storia intellettuale in generale. Cos1, ad esempio, John Murdoch ha enfatizzato l'importanza di questo ampliamento del regno delle possibilità che è servito «a spingere l'esame dei problemi oltre i limiti delle possibilità fisiche ammesse dalla filosofia naturale di Aristotele, entro il più vasto ambito di ciò che è logicamente possibile».' Resta solo da aggiungere che la distinzione tra possibilità logiche e possibilità fisiche non era inizialmente disponibile ai medievali, ma si è invece evoluta proprio nel corso del processo che stiamo descrivendo. Abbiamo visto più sopra come Leibniz fosse ancora incline, se non altro a scopi polemici, ad applicare il Principio di Pienezza a ciò che è immaginabile, cioè alle possibilità logiche e concettuali. Non è sempre facile riconoscere questo mutamento o esprimere un giudizio preciso su di esso. Dubito che gli stessi pensatori medievali fossero consapevoli di questo processo. Spesso il loro atteggiamento è tradito unicamente, o in maggior misura, dalle difficoltà che l'ampliarsi del regno delle possibilità comporta per i loro tentativi di conservare la validità del rispettabile Principio di Pienezza aristotelico. li pensiero tardo medievale (insieme con i suoi effetti postumi) è perciò una delle aree più importanti in cui ci si può aspettare che il Principio funzioni come un sensibilissimo barometro intellettuale. Ad esempio, è lampante che il graduale ampliarsi di ciò che si intende per possibile è una delle spiegazioni dell'ironico contrasto fra gli atteggiamenti, rispettivamente, dell'Aquinate e di Leibniz nei confronti del Principio di Pienezza. Ma la dipendenza del Principio di Pienezza dal campo di ciò che si intende per possibilità non è il solo modo in cui il Principio interagisce con altre idee importanti. Vi sono vari altri concetti e assunzioni nel cui contesto si è presentato, nel corso della storia del pensiero, il Principio di Pienezza. Lovejoy prende in considerazione relativamente pochi di questi contesti di idee, soprattutto idee come quelle di creazione e evoluzione. A suo parere il Principio di Pienezza è «una singola proposizione specifica o "Principio"» e «un tentativo di rispondere a un interrogativo filosofico che era naturale l'uomo si ponesse» (corsivo mio [trad. it. cit., p.

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21 l). Abbiamo già vislo come il Principio di Pienezza non sin affollo una singoh1 proposizione e non sia, di fallo, nemmeno cosl specifico. Emerger..\ om. per di più, che il famoso Principio può cos1i1uire unn risposla a molli e differenli imerrogativi. Se si considera il Principio unicamente nel contesto di idee come la creazione e la generosità divina, che dovrebbe garantire il dono dell'esistenza al maggior numero possibile di esseri. ci si potrebbe aspenare che Platone, alcontrariodi Aristotele, solloscriva il Principio. E ciò è effenivamente quanlo Lovejoy afferma. Ma questo è, in realtà, del tulio sbagliato. Ho mostralo in precedenza (si veda, in particolare, il capilolo 5 di Time and Necessiry) 6 che Aristotele nccennva il Principio, lo sosteneva e lo usava nella sua filosofia. Inoltre. Maula ha sostenuto di recente che Platone non ha mai acce11ato il Principio come una tesi filosofica incondizionata. 7 E le ragioni dell'errore di Lovejoy risiedono precisamente sopranutto nel caso di Aristotele - in una valutazione unilaterale dei dintorni concettuali del Principio di Pienezza. In una prospettiva topica, è addirittura un tantino sorprendente che un filosofo militante come Lovejoy so11ovaluti il significato logico e ontologico del Principio di Pienezza, che dopotullo crea una connessione quanto mai suggestiva tra tempo e modalità permettendo forse addirittura una riduzione delle nozioni modali a nozioni temporali. Ho analizzato altrove le ragioni addone da Aristotele a sostegno della sua adozione del Principio. 8 Si tratta di ragioni troppo complesse per sintetizzarle in poche righe, ma tra di esse si trovano senz'altro idee come il ruolo della sequenza reale di "ora" come unico tribunale di fronte al quale una possibilità può mettersi alla prova, le relazioni tra i concetti di tempo e verità, ecc .• vale a dire concezioni di natura metafisica, epistemologica e logica piuttosto che teologica, estetica o morale. Forse, la singola ragione più importante per l'adozione del Principio da parte dei filosofi di tradizione aristolelicaconsistette nell'assunzione secondo cui è possibile caratterizzare le modalità in termini che mi sono arrischiato a chiamare statistici. Secondo questo modello, possibile è ciò che accade sempre, e così via. Queste caratterizzazioni furono rese, a loro volta, possibili dal fatto che Arislotele considerava gli enunciati temporalmente indefinili (per esempio gli enunciati contenenti l'avverbio "ora") come veicoli paradigmatici del pensiero e della comunicazione. L'incapacità di dare il giusto valore a questo tipo di condizioni concettuali che, in Aristotele e in altri 30

importanti pensatori occidentali, circondano il Principio di Pienezza, ha indubbiamente avuto una parte importante nel portare Lovejoy fuori strada. Un lavoro in via di completamento di un mio collega, Simo Knuunila,9 ha mostralo con dovizia di argomenti che tutte le principali peculiarità concenuali concernenti il tempo, la verità, il Principio di Pienezza, ecc., che ho cercato di anribuire a Aristotele mediante laboriose argomentazioni basate su una minuziosa analisi dei testi aristotelici, sono esplicitamente e quanto mai chiaramente presenti negli aristotelici del! 'alto Medioevo, in particolare del tanto importante XIII secolo. A quanto pare, le loro motivazioni concettuali erano simili a quelle di Aristotele per quanto riguarda, tra le altre cose, il ruolo del modello statistico delle modalità come fonte del Principio di Pienezza. Anche se ciò non costituisce una fonte, nemmeno indiretta, di evidenza per quanto riguarda Aristotele, mostra quanto meno lo straordinario interesse storico delle mie pur discusse interpretazioni. È di particolare interesse osservare che i tentativi dei medievali di applicare il paradigma deterministico alle proposizioni temporalmente indetenninate (eventi particolari futuri) sono spesso approdati esattamente alle stesse difficoltà deterministiche discusse da Aristotele nel suo celebre problema della battaglia navale, secondo la mia interpretazione di questa famosa argomentazione aristotelica. 10 Né gli Aristotelici sono un esempio estremo del tipo di compagnia concettuale con cui il Principio di Pienezza ha avuto talvolta a che fare, ma che Lovejoy ha in larga misura trascurato. Nel celebre Argomento Vittorioso di Diodoro Crono, il Principio appare come la conclusione di una presunta argomentazione logica ( concettuale). Anche se è verosimile che vi fossero coinvolte ulteriori premesse metafisiche, qui siamo ben lontani dall'idea della generosità del Creatore enfatizzata da Lovejoy. Talvolta, piuttosto che una motivazione logica del Principio, ne è stata offerta una epistemologica. Non è difficile comprendere in che modo possa emergere una simile motivazione. Una delle possibilità più immediate che possono offrirsi a un filosofo moderno per argomentare in favore del Principio di Pienezza è il cosiddetto Argomento del Caso Paradigmatico. Nella discussione di questa dubbia argomentazione non posso al momento fare molto di più che rammentarvi il significato che essa assume nel caso che stiamo trattando. La sua rilevanza può forse venire 31

espresso nello maniera migliore nella fonnn della domanda retorica: come può una possibilità dar prova della propria tempra-della propria realtà- se non realizzandosi nel tempo? Ci si può dunque nnendere che In stessa ragione, o unn essenzialmente simile, in favore del Principio si debba trovare lungo il corso della sua travagliata storia. Almeno nel mio caso, questa aspenativa si rivelò giustificata soltanto dopo un certo numero di anni. Secondo Simo Knuuttila, la vittima più illustre dell'Argomento del Caso Paradigmatico nella storia del Principio di Pienezza è S. Tommaso d'Aquino. Per lui, tutti i nostri concetti "veri" sono forgiati dal!' intellectus agens n partire da fonne che il nostro intellecllls possibilis riceve dalla realtà esterna. Perché possiamo ricevere concetti "veri" bisogna dunque che essi siano già esemplificati nella realtà antecedente. Perciò, tutte le possibilità umanamente concepibili devono essere esemplificate nel mondo esterno. Una epistemologia di stampo empirista portava dunque l'Aquinate ad adottare il Principio di Pienezza, se non per le possibilità divine, per quelle umanamente concepibili. Il Principio, per farla breve, può essere motivato anche in termini epistemologici. Per non ingenerare il sospetto di occuparmi soltanto del lontano passato, mi si consenta di prendere in considerazione una divertente versione del Principio che ricorre nella storia più recente. Voi tutti ben conoscete la famosa critica di G. E. Moore della cosiddetta Fallacia Naturalistica ali 'inizio dei Principia Ethica (The University Press, Cambridge 1956, prima edizione 1903 [trad. it. Bompiani, Milano 1964]). Qual è dunque il succo logico di questa celebre fallacia? Moore dice quanto segue: «Può essere vero che tutte le cose che sono buone sono anche qualcosa d •altro [ ... ] Ma troppi filosofi hanno creduto di definire realmente il buono con l'enumerare semplicemente quelle altre qualità; pensando che tali qualità, di fatto, fossero semplicemente non "altre", ma assolutamente e interamente identiche alla "bontà"» (trad. it. cit., pp. 55-56). In altre parole, si commette la Fallacia Naturalistica se si eleva una proprietà ( o un complesso di proprietà) che accompagna sempre il bene al rango di tratto distintivo necessario del bene nel senso forte di tratto definitorio. Visto che una forma del Principio di Pienezza afferma, per contrapposizione, che tutto ciò che accade sempre accade necessariamente, il bersaglio delle critiche di Moore, ciò che egli etichetta col nome di "Fallacia Naturalistica", può essere interpretato come una versione del Principio

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-una versione molto forte in quanto asserisce che tutte le cose che non sono connesse in termini definitori si presenteranno talvolta separatamente. Il nocciolo dell'argomentazione di Moore emerge con ancor maggior chiarezza da ciò che egli dice più oltre nei Principia Ethica, nel capitolo dedicato all'etica metafisica. Per esempio a pagina 124 (trad. il., p. 207) leggiamo: «Ma i filosofi suppongono che la ragione per cui noi non possiamo prendere la bontà e trasferirla non sia che essa è un oggetto di specie diversa da tutti quelli che si possono trasferire, ma solo che essa necessariamente esiste in unione con la cosa con la quale di fatto si trova» (corsivo nell'originale). Una versione assai simile della critica di Moore al Principio di Pienezza è il suo famoso "Argomento della Domanda Aperta". Ogni filosofo morale che abbia discusso la Fallacia Naturalistica o l'Argomento della Domanda Aperta ha, dunque, ipso facto preso in considerazione il Principio di Pienezza in una delle sue molte forme. Del resto, non è questa l'unica incursione compiuta dal Principio nella filosofia del XX secolo. Tra le idee affini che interagiscono con il Principio di Pienezza, e su cui il Principio fa indirettamente luce, si collocano i suoi stessi presupposti. Vi sono alcuni pensatori il cui atteggiamento nei confronti del Principio è estremamente elusivo. Uno di essi è Descartes. Per questa ragione è difficile giustificare il violento attacco sferratogli da Leibniz, anche se non v'è dubbio che egli mirasse a qualche aspetto importante e fondamentale del pensiero di Descartes. 11 Un 'altro esempio calzante è quello di Kant. A prima vista, potrebbe sembrare che, per quanto riguarda il suo rapporto con il Principio, Kant sia più facile da classificare, ad esempio, di Descartes. In un altro articolo (scritto insieme a Heikki Kannisto) ho mostrato che nell'evoluzione del pensiero di Kant si trova un duplice mutamento. Il primo consiste nel passaggio da una iniziale accettazione dogmatica del Principio di Pienezza al suo più netto rifiuto. Questo cambiamento è legato al ruolo svolto per qualche tempo nel pensiero kantiano dalla contrapposizione tra mondo sensibile e mondo intelligibile. Le possibilità presenti nel secondo non possono semplicemente esaurirsi entro i confini del primo. Tuttavia, lo sviluppo cruciale del pensiero successivo di Kant consistette nel limitare gli usi leciti dell'intelletto umano ali' esperienza possibile, escludendo il mondo inteJligibile delle cose in sé.

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Questo dominio ristretto di possibilità esperienzinli era abbastanza contenuto da permettere a Kant di tornare a una fonna qualificnta del Principio di Pienezza. (I filosofi della logica contemporanei riconosceranno indubbiamente I• interesse della mossa di Kant che equivale al tentativo, dn parte di alcuni di noi, di trovare una via di uscita ai problemi semantici sollevati da Quine in relazione nJl'uso di concetti modali come la possibilità). 12 Questo duplice mutamento del pensiero di Kant, che lo portò dapprima a rifiutare e poi a riadottare il Principio, sembra essere stato trascurato dalla maggior parte degli storici. È ancora più lampante, tuttavia, la difficoltà di attribuire al Kant del periodo critico maturo una affermazione francamente incondizionata del Principio. Questa difficoltà va ben oltre quanto è implicato dalla ben nota oscurità di Kant. Mi pare che la vera spiegazione stia nel fatto che, secondo Kant, la limitazione del campo dell'esperienza possibile è qualcosa che noi stessi, inultima analisi, effettuiamo grazie al modo in cui strutturiamo e sintetizziamo la nostra esperienza. Sebbene non si tratti di un• operazione che viene compiuta da ciascuno di noi individualmente, ma solo mediante le attività della natura umana che tutti condividiamo, le limitazioni potrebbero, in teoria, essere in qualche senso differenti - o del tutto assenti. Dovrebbero risultare chiare le conseguenze che ne derivano per il Principio di Pienezza. li Principio afferma che tulle le Possibilità comprese in un ceno dominio si realizzeranno nel tempo. Il significato di questa affermazione è chiaro solo nella misura in cui questo dominio è specificato a priori indipendentemente da qualsiasi questione relativa alla realizzazione delle possibilità stesse. Ma in Kant (durante il suo periodo "critico" maturo) ciò non avviene. Il campo delle possibilità esperienziali, come abbiamo visto, è stato definito dalle operazioni che noi stessi compiamo. Se avessimo sintetizzato diversamente la nostra esperienza, ne sarebbe risultato un diverso campo di esperienze possibili. Per semplificare, l'esperienza possibile può essere diversa da come è per noi. Stando cosi le cose, non c •è da stupirsi se l 'aneggiamento del Kant maturo nei confronti del Principio di Pienezza è, in un ceno senso, ambiguo. La ragione dipende dal fatto che era venuto a mancare uno dei presupposti del Principio, cioè un dominio delle possibilità definito indipendentemente. Ciò che rende storicamente pregnante questa dialettica dell 'al-

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teggiamento di Kant nei confronti del Principio di Pienezza è la sua somiglianza con le difficoltà incontrate da molti altri pensatori anteriori nell'affrontare il problema dei rapporti fra la natura delle possibilità divine e il Principio di Pienezza. Descartes ne è forse l'esempio più calzante, ma non certo l'unico. Si suppone che il Dio cartesiano abbia deciso liberamente perfino che cosa conti e non conti come logicamente possibile. Perfino le leggi della logica sono in Suo potere. Di conseguenza, anche se per Descartes tutte le possibilità logiche che noi esseri umani possiamo comprendere (i pensatori medievali avrebbero detto in statu viae) dovrebbero realizzarsi, restano certe possibilità umanamente incomprensibili che non si realizzano. Ma la loro natura è destinata a rimanere misteriosa quanto il mondo kantiano delle cose in sé. In generale, un paragone tra Kant e Descartes ci offre un beli 'esempio dell'umanesimo kantiano-o della h11bris kantiana. A parte le differenze superficiali, un uomo kantiano è, rispeuo al Principio di Pienezza, nella stessa ambigua posizione in cui si trova il Dio cartesiano. Entrambi hanno creato da se stessi il campo delle possibilità rilevanti, e con ciò hanno determinato la loro stessa ambiguità. Possiamo trarre da questo repertorio di aneddoti storici due importanti morali metodologiche. Entrambe riguardano l'interrogativo, che ponevamo all'inizio, sull'interesse e l'importanza della storia delle idee di fronte all'insuccesso di Lovejoy nello spiegare, o anche solo descrivere, la vera natura di quest'impresa. Per dirla senza mezzi termini né compromessi, le morali alle quali siamo pervenuti riguardano le ragioni per cui nella storia intellettuale vale la pena di studiare determinate idee particolari come la realizzazione finale di tutte le possibilità. Abbiamo visto che la ragione non è quella addotta da Lovejoy. Questi concetti non sono idee-unità intese come blocchi da costruzione grazie ai quali possiamo, per così dire, rimontare la storia concettuale e intellettuale. Non vi sono idee unità di questo tipo. Nemmeno l'esempio più importante di Lovejoy lo è. Le vere ragioni per cui le idee costituiscono, per lo storico del pensiero e della filosofia, degli ideali punti focali, sono ben più sottili e profonde. Una di esse si fonda, in ultima analisi, sul fatto che un pensatore formula di rado in modo esplicito le proprie concezioni e assunzioni di carattere più generale. Esse vanno inferite dai loro effetti indiretti, dalle implicazioni che producono insieme ad altre idee. Queste conseguenze devono, naturalmente, essere esplicite per poter essere completamente appura-

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te. E quanto piìl chiara e nettn san\ In connessione tra queste conseguenze esplicite e le loro premesse nascoste, tanto piìl fedelmente esse riflettemnno i presupposti taciti di chi le sostiene. Per illustrare nel modo piìl semplice questo punto, mi limiterò a richiamare lo sfondo del Principio di Pienezza in Aristotele. Lo Stagirita non dice mai che ogni possibilità deve concernere la storia particolare del nostro mondo, né nega mai che vi siano mondi possibili con una storia del tutto diversa dalla nostra. Due presupposti tanto imponanti dovranno essere colti a panire dalle loro conseguenze, per esempio, a pani re proprio dal modo in cui essi lo inducono a sostenere il Principio di Pienezza. Di esempi del genere ve ne sono in abbondanza. I pensatori tardo medievali non sottoposero mai esplicitamente a sé stessi o agli altri la proposizione «Si consideri un nuovo, piìl ampio campo di possibilità». Piuttosto, lo fecero in larga misura inconsapevolmente, a causa di pressioni e intuizioni di cui non erano del tutto consapevoli. Si può dunque inferire che essi sostenevano effettivamente questa tesi solo partendo dalle tensioni tra questa concezione piìl ampia della possibilità e il Principio di Pienezza, insieme ad altri analoghi elementi indiretti di evidenza. (Più possibilità ci sono, più diventa difficile sostenere che esse si realizzano o si realizzeranno tutte). Analogamente, Leibniz fa soltanto un accenno alla posizione privilegiata accordata alle leggi che governano sequenze di eventi successivi in antitesi a questioni riguardanti la scelta di differenti tipi di individui o di differenti tipi di eventi esemplificati nel mondo reale. Per dare sostanza a questi accenni abbiamo bisogno proprio del ti podi evidenza offenaci dalle affermazioni di Leibniz sul Principio di Pienezza. Per di più, possiamo procurarci questa evidenza solo affinando le nostre intuizioni concettuali topiche. Nell'esempio in questione, una delle intuizioni rilevanti riguarda le implicazioni dell'applicazione del Principio di Pienezza a sequenze di eventi piuttosto che a eventi individuali o stati di cose. È questo tipo di interazione tra idee diverse che conferisce ad assunzioni chiaramente formulate, come il cosiddetto Principio di Pienezza, un ruolo tra i più imponanti nella storia delle idee. Il Principio non è indipendente dalle idee che lo circondano. Esso può servire come uno specchio in cui vedere riflesse queste altre idee, comprese spesso quelle sostenute implicitamente. Questo specchio è reso particolarmente nitido dalla specificità concettua-

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le del Principio. Ma questa specificità concettuale non è scevra da problemi. La specificità è ciò che un filosofo, proprio in quanto filosofo, può, e deve, ottenere mediante le proprie analisi e sintesi. Qui, in effetti, ci troviamo di fronte a un'altra fondamentale ragione del fascino e dell'importanza della storia delle idee. È anche una delle ragioni per cui noi filosofi dobbiamo occuparci di questa disciplina. Se la storia delle idee consistesse tutta nell 'isolare le idee-unità e nel seguirne le tracce attraverso la storia, i filosofi in quanto filosofi non potrebbero sperare di dare un grande contributo all'impresa. Tuttavia, è proprio svelando ambiguità nascoste e scoprendo e chiarendo le spesso sorprendenti interrelazioni tra idee diverse che i filosofi di professione possono affermare la propria autorità. È dunque proprio in relazione a questi fenomeni che Lovejoy, in parte, trascura il contributo che i suoi colleghi potrebbero dare al campo che lui stesso ha aiutato a scoprire. Allo stesso tempo questi fenomeni, in special modo le sottili interdipendenze tra idee differenti, ci permettono di giungere a una spiegazione dell'importanza di uno studio analitico della storia delle idee. Non posso resistere alla tentazione di darvi un piccolo saggio del potere che una più acuta comprensione concettuale ha di far luce sul materiale storico. Un approccio al problema che ho in mente è offerto dal passo in cui Aristotele descrive il proprio atteggiamento nei confronti dei «nostri padri e dei pensatori più antichi», in Metafisica A 8. 1074"38-bl4. Cosi recita, parzialmente riportato, il passo:

Ma se si assumesse, separandola da tutto il resto, soltanto la concezione originaria[ ... ] si potrebbe reputare [ ...]che, me/lire verosimilmente ogni arte e ogni filosofia si è più

volte perfezionata fino ai limiti del possibile e poi di nuovo è andata perduta, quelle loro opinioni, invece, sono state

conservate fino ai nostri giorni come reliquie! Entro questi limiti soltanto ci riesce chiaramente comprensibile la mentalità dei nostri padri e dei pensatori più antichi. (Il corsivo, inutile dirlo, è mio. [Trad. it. in Aristotele, Opere, voi. 3, Laterza, Bari 1973, p. 364]). Una affermazione analoga si trova in Politica, VII 10. 1329• 25-35.

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Queste parole paiono memmente riflenere un nneggiamento re\'erenziale di Aristotele verso la suggezzu degli antichi e sono state solitamente intese come nient'altro che una pia fonnula di questo tipo. Nella migliore delle ipotesi, ci si è chiesti quali siano le matrici culturali di questo at1cggi11mento. Tuuavia, non appena riconosciamo nel nucleo dell'affermazione aristotelica un corollario del Principio di Pienezza, una applicazione del Principio a dctcm1inate possibilità umane (le arti e le scienze), le parole di Aristotele assumono d'un trailo un rilievo sistematico mollo più netto. Invece che a una espressione di nobili sentimenti, ci troviamo di fronte a una netta, specifica applicazione della teoria logicometafisicn di Aristotele alla filosofia della storia. E una volta resici conto di ciò, possiamo anche vedere quali sono le relazioni che legano questa affermazione a molti altri aspetti del pensiero di Aristotele e ad altri luoghi della storia della filosofia della storia. Tanto per cominciare, si può vedere quanto siano strelli i legami fra la affennazione di Aristotele e la sua tormentata tecnica argomentativa, nella misura in cui egli cerca di estrarre le proprie tesi da quelle dei suoi predecessori - o, come alcuni storici poco caritatevoli hanno suggerito, cerca di leggere nelle loro tesi le proprie. Adesso possiamo vedere che la procedura seguila da Aristotele non è fortuita, non è un semplice espediente espositivo. Dato che gli stessi principi metafisici di Aristotele implicano che ogni possibile verità sia stata scoperta in qualche momento dell'infinito passato, non dobbiamo stupirci se egli tenta seriamente di scoprire la verità su un certo problema particolare in discussione passando al setaccio le opinioni che i suoi predecessori hanno espresso in merito: egli è convinto che la verità si trovi da qualche parte tra queste opinioni. Adesso siamo in grado di comprendere meglio una serie di affennazioni, analoghe a quelle di Aristotele, che compaiono nel corso della storia della filosofia della storia. (Eccone due: Dante De Monarchia, in Ralph Lemer e Muhsin Mahdi, Medieva/ Politica/ Philosophy: A S011rcebook, The Free Press, Glencoe, Ili. I 963, pp. 422-423; I. Kant,ldee z11 einer allgemeinen Geschichte, Academy Edition, voi. 8, Berlin 1912, pp. I 8-19). La formulazione originale di Aristotele fa però emergere una dimensione particolarmente interessante. Se vale il Principio di Pienezza e il passato è infinito, non può esservi nel mondo nessuna genuina novità. Di conseguenza, le idee dei filosofi riguardo a

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cose come la novità, l'invenzione, la creazione artistica e il progresso possono dipendere dalla loro accettazione del Principio, specialmente in congiunzione con l'assunzione secondo cui il passato è infinilo. Quesle potenziali implicazioni del Principio sono imponami quanto ogni altra nell 'iniera scoria della filosofia. I legami Ira quesle applicazioni del Principio nella scoria della filosofia sono alrrettanto interessanti. Nei loro differenti con lesti, le svariate affermazioni del Principio non sono connesse tra loro unicamente in senso orizzontale da una tradizione companimentale tra i filosofi della storia. Spesso hanno anche legami in senso venicale con le dottrine epistemologiche e metafisiche di uno stesso pensatore, e si connettono, attraverso di esse, a una intricata rete di al tre idee. Tutti questi elementi di comprensione emergono, in ultima analisi, dal semplice riconoscimento concettuale del fatto che la affermazione aristotelica ha il valore di una applicazione del Principio di Pienezza. La fonte da cui scaturisce l'importanza del Principio di Pienezza differisce dunque dal concetto di idea-unità di Lovejoy. II Principio, in verità, è simile a una gemma non a causa della sua presunta impenetrabilità alla pressione di altre idee, ma grazie alla sua capacità di rifletterne brillantemente la luce. E questo potere di riflessione non è necessariamente una proprierà intrinseca del Principio, ma il risultato del modo in cui noi filosofi lo abbiamo intagliato per accrescerne la brillantezza. La lezione che vorrei scaturisse da questa conversazione è che proprio a questo dobbiamo, in generale, mirare nella storia concettuale e intellettuale: non alle idee unità, ma a idee che possano riflettere accuratamente le concezioni dei diversi pensalori. E quanto più riusciremo a essere chiari sulle relazioni logiche tra le diverse assunzioni, e percettivi riguardo alle questioni concettuali coinvolte, tanto più queste immagirii riflesse saranno nitide. È col forbire questi specchi e queste lenti concettuali che noi filosofi possiamo rendere un servizio anche ai nostri colleghi non-filosofi, in panicolare ai nostri confratelli che faticano nella vigna della ricerca storica. Per dirla in termini metaforici, dovremmo assimilare il nostro compito al metièr del grande filosofo di cui celebreremo il prossimo anno 13 il tricentenario: molare lenti.

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N01e

• Prolusione presidenziale del prof. Hintikkn nl Cinqunn1esim0Convcgno An• nuale dcllnAmtrir,111 Pliilnsophica/Assnciation. Pncific Division, Berkeley, Californio, 26 Mano 1976. Harvo.nl University Prcss, Crunbridge, Mass. 1936 [tnd. it. Feltrinelli, Mila• no 1966].

2 Si veda G. Boas e A. O. Lovcjoy, Primitivism and Reiated ldras inAntiq"ily, John Hopkins Universi1y Prcss, Bohimorc 1935.

Cfr. il mioanicolo "Leibniz on Pleni1ude, Rc!ations, and thc Reign of Law", in S. Knuuttila (a cura di), Rtforging rh, Gr,a, Chai11 of Being. S111di,s in rh, Historyo/Moda/Thtories, D. Reidel Publishing Company, Donlrccht 1981, pp. 259-286.

4 Non si truna neppure di un cambiamento lineare omogeneo. Duns Sco,o era pi~ libero dalle pastoie del Principio di quanto lo fossero molli filosofi rinoscimentali, e il revival dell'Aristotelismo nella filosofia accademica del XVII secolo sembra over incoraggiato i filosofi ad adOltare il Principio di Pienezza in uno. forma o nell'altra.

S Si veda John Murdoch, "Philosophy and the Enterprise of Sciencc in the Later Middlc Ages", in Yehuda Elkana (a cura di), The /nrtraction Beiwun Scitnct and Philosophy, Humanitics Press, New Yorl< 1974, pp. 51-74. 6 Ti= and Necessiry. Srudies in Arisrorle' s Thtory of Modaliry, Clarendon Press. Oxford 1973; parzialmente ristampato in S. Knuuttila (a cura di), Reforging rhe Grear Chain ofBeing, op. cit., pp. 57-73 [trad. it. parziale in qucstovolume,pp. 44-63]. 7 Si veda il suo anicolo "Plato on Plenitude", inAjatus, 29 (1967), pp. 12-50. (Sebbene Maula non ne faccia cenno, buona parte di quell'articolo~ stata scrina da me). Di rccen1e. Michael D. Rohr ha soslenuto la conclusione opposta. come ~ testimoniato dal suo contributo a S. Knuuttila (a cura di), Reforging tht Gr,atChain ofBeing,op. cir. A dispetto delle sue dotte e abili argomentazioni, rimango critico nei confronti della leggerezza con la quale Lovejoy attribuisce il Principio di Pienezza a Platone. Anche ammesso che Rohr abbi• ragione, Lovejoy semplifica troppo la posizione di Platone, specialmente il ruolo del demiurgo.

8 Si •eda Time and Nectssiry, e cfr. Aristotlt on Modaliry and Dtterminism, North Holland, Amsterdam 1977. 9 Si veda il suo contributo a S. Knuuttila (a curadi),Reforging thtGrtatChain o/Being, op. cit .. e gli ulteriori riferimenti qui contenuti. 10 Cfr. l'ultimo capitolo di Time and Ntcessiry e la letteratura qui menzionata. 11 11 ruolo del modello "statistico" dei concetti modali e epistemici in Descartes ~ stato recentemente sottolineato da John Etchcmendy (di prossima pubblicazione). 12 Cfr. il mio "Quine on Quantlfying In", in Tht lntenrions oflnttnt/onaliry, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht 1975. 13 Ci~nel 1977.

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2 ARISTOTELE I! LA REALIZZAZIONI! DELLI! POSSIBILITÀ N1!L Tl!MPO

1. La relazione tra modalità e tempo in Aristotele~ problematica Un lettore attento del corpus aristotelico non può non osservare che, in ceni contesti, lo Stagirita usa le nozioni modali di possibilità e necessità diversamente da come le usiamo noi moderni. Un esempio calzante è costituito dalla relazione tra tempo e modalità. Le ripetute affermazioni di Aristotele secondo cui il passato è necessario' già fanno sospettare che vi sia qualcosa di non del tutto familiare nel modo in cui egli era uso operare con i concetti di possibilità e necessità. Per quanto queste affermazioni appaiano naturali, esse coinvolgono un senso di necessità che non è familiare al repenorio concettuale dei filosofi contemporanei. Un altro indizio della differenza esistente tra le nozioni modali di Aristotele e le nostre è la stretta connessione che egli vede tra verità necessarie (apodittiche) e verità generali semplici (assertorie), in breve tra necessità e universalità. Ciò risulta evidente se si considera il ruolo che egli assegna al sillogismo categorico come veicolo della dimostrazione scientifica. Dal momento che egli ha anche sostenuto che «la conoscenza, cui si riferisce la scienza dimostrativa, è necessaria» (An. Post. I 4. 73"21-4)' e che ·se qualcuno conosce dimostrativamente, la conclusione deve esprimere un 'appartenenza necessaria, così che risulta clùaro che la dimostrazione deve essere ottenuta attraverso un medio necessario» (An. Post. I 6. 75• 12-14), è evidente che un sillogismo categorico deve essere in grado di dimostrare la necessità. Aristotele, d'altronde, distingueva tra premesse e conclusioni categoriche (semplici) e apodittiche (necessarie). Poiché si riteneva che gli stessi sillogismi categorici fossero in grado di dimostrare verità scientifiche necessarie, ci si può aspettare che essi siano, con i sillogismi apodittici, in una relazione un po• più stretta di quanto siamo soliti credere.

2. La realizzazione delle possibilità nel tempo Per quanto riguarda le interrelazioni tra tempo e modalità. vi è una 41

assunzione che h,1 indubbiamente giocato, nella storia del pensiero occidentale- nella storia della metafisica, della teologia, della logicn, delln filosofi.i nnturnle, e addirittura dclln poesia speculativa - un ruolo più importante di qualsiasi altra. Si tratta dell'assunzione secondo cui 1,me le possibilità genuine, o quanto meno tutte le possibilità di qualche tipo cruciale e importante, si auua/i::ano nel tempo. Ognuna di queste possibilità è dunque stata, è o sara realizzata; non può rimanere irrealizzata per un tratto infinito di tempo; in un certo senso, ogni cosa a lungo andare accadrà. Ovviamente, questa assunzione ammette molte varianti, alcune delle quali verranno distinte dalle altre nel seguito di questo capitolo. Tanto per cominciare, non è chiaro di che tipo di possibilità si parli in esse. Eventi possibili? Possibili corsi di eventi? Tipi possibili di individui? Individui (particolari) possibili? Alcune di queste distinzioni risultano cruciali per lo studio degli stadi successivi della storia di questo principio. 2 Se il Principio è applicato a possibili tipi di individui, esso afferma che 1111/Ì i possibili tipi di individui si realizzano nel corso del tempo- in quel particolare "mondo possibile", come avrebbe detto Leibniz, effettivamente attualizzato. In un certo senso. l'assunzione in esame equivale all'affermazione secondo cui il mondo reale è il più pieno possibile, è cioè il più pieno o il più abbondante dei mondi possibili. Ciò ha indolto ArthurO. Lovejoy a battezzare questa assunzione "il Principio di Pienezza".' Mancando un 'altra designazione adatta allo scopo, adotterò questo termine, benché sia importante rendersi conto che una simile espressione può essere estremamente fuorviante quando usata in contesti diversi da quello, relativamente ristretto, che Lovejoy ha soprattutto presente. Per noi sarà un puro terminus technicus.

3. Una molteplicità di formulazioni del Principio Per far emergere alcuni aspetti del ruolo del Principio di Pienezza può essere utile enunciare alcune delle sue formulazioni alternative. Il Principio stesso può venire (provvisoriamente e approssimativamente) formulato nel modo che segue: ogni possibilità si realizza in qualche istante di tempo

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Più avanti vedremo come, per cogliere le intenzioni di Aristotele, questa fonnulazione deve probabilmente essere sottoposta a qualche lieve restrizione. (T)

nessuna possibilità incondizionata rimane inattualizzata per un tempo infinito.

Quindi, se è possibile che qualcosa esista, prima o poi esisterà. Dunque, solo le cose impossibili non esisteranno mai. Otteniamo così la seguente variante di (T): (T) 1 ciò che non è mai, è impossibile.

Per lo stesso motivo, ciò che non manca mai di essere, non può non essere, e dunque è necessariamente: (T) 2 ciò che è sempre, è per necessità.

Per certi scopi, potremmo riformulare (T)2 nella maniera seguente: ciò che è eterno, è per necessità. Comunque, con il termine "eterno" non siamo qui autorizzati a designare se non ciò che è in ogni tempo. Se qualcuno, dunque, volesse tracciare una distinzione tra ciò che è in ogni tempo e ciò che è senza tempo (è cioè eterno in un senso del termine) non potrebbe utilizzare questa formulazione. Si può comunque affermare, tralasciando questo punto, che chiunque adotta il Principio di Pienezza stabilisce una equivalenza, almeno materiale, tra attributi come "necessario" e "eterno", e lo stesso vale incondizionatamente per attributi come "necessario", "imperituro", "indistruttibile", "che è in ogni tempo", "che esiste sempre". Per quanto riguarda Aristotele, egli in realtà non distingue tra ..eterno" e "che è in ogni tempo". Quando afferma che determinate cose "non sono nel tempo" chiarisce come la sua affermazione si limiti a sottolineare che esse non sono "contenute nel tempo", cioè che la loro esistenza non è limitata dai momenti temporali precedenti e successivi. In altre parole, "non essere nel tempo" equivale

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semplicemente n "essere in ogni tempo". (Si veda, n sostegno di ciò,Phys. IV 12). Per Aristotele ciò che esiste contingentemente non esiste per necessità, cd è quindi possibile che non esista affatto. Se questa possibilità tnlvoltn sì realizza, ciò che è contingente non può essere eterno. Otteninmo dunque, per contrapposizione, la seguente fonnulazione del principio: (T), niente di ciò che è eterno è contingente.

Con il termine "contingente" intendiamo qui "né necessario né impossibile". È chiaro che, fatta eccezione per (T) 3, le implicazioni che abbiamo formulato possono essere (date opponune assunzioni acceltate da Aristotele) rafforzate in equivalenze. In effetti, le loro converse non presentano problemi e sono indipendenti dal Principio di Pienezza. Esse non verranno quindi discusse in questa sede. Va sottolineato che l'equivalenza delle quattro forme del principio sopra elencate non è ottenuta proiettando su Aristotele la logica contemporanea. Al contrario, tutte le assunzioni necessarie a muovere deduttivamente dall'una alle altre sono formulate esplicitamente da Aristotele in De lnt. 12-13.• Perdi più, lo stesso Aristotele si è servito della possibilità di rifonnulare il principio (T). Egli opera in più occasioni con le altre fonnulazioni mostrando di identificarle tra loro e con (T). Inoltre, egli abbozza occasionalmente delle argomentazioni che mettono in relazione tra loro alcune delle varianti del principio. Un esempio calzante di ciò si trova in Met. 0 8. IOSCJb6-24. Perciò, qualunque testimonianza si possa trovare in Aristotele pro (o contro) una versione del Principio di Pienezza, costituirà altresl una testimonianza pro (o contro) tutte le altre.

4. Contro Lovejoy Lovejoy cerca di portare delle prove contro la tesi secondo cui Aristotele sottoscriveva il Principio di Pienezza. Per sostenere il suo punto di vista, fa riferimento a due, e due sole, citazioni: Met. B 6. I 003"2 e A 6. I 07 J• 13-14. In apparenza, comunque, Lovejoy 44

non si rende conto che entrambi questi passi sono ambigui. Egli li cita nel modo seguente: «non è necessario che tutto ciò che è possibile sia attuale»; «ciò che ha la mera capacità, può darsi che non passi all'atto». Questi enunciati possono essere interpretati in diverse maniere. Essi trattano i casi in cui una determinata potenzialità non arriva ad attualizzarsi. Dobbiamo chiederci: questi ambigui enunciati riguardano ogni potenzialità oppure solo certe potenzialità? E inoltre: si riferiscono unicamente a casi in cui le potenzialità non si attualizzano temporaneamente, oppure questa mancata attualizzazione può avere una durata infinita? Secondo le risposte che si danno a queste domande si ottengono quattro possibili interpretazioni della tesi aristotelica: (a) (b) (a)' (b) •

Alcune potenzialità possono non attualizzarsi a volte Alcune potenzialità possono non attualizzarsi mai Ogni potenzialità può non attualizzarsi a volte Ogni potenzialità può non attualizzarsi mai.

II testo non sembra permettere una scelta netta tra queste interpretazioni. Perciò sarà il contesto a dover decidere. Tra le interpretazioni elencate, (a) e (a)• sono compatibili con il Principio di Pienezza nella forma in cui Io stiamo esaminando, e perciò non sostengono la affermazione di Lovejoy secondo cui Aristotele rifiutava il principio, mentre (b) e (b)' lo contraddicono. Dobbiamo perciò stabilire quale delle due sia presupposta da Aristotele. Non vi è nessuna maniera ovvia di stabilire che cosa intendesse Aristotele in Met. B 6. 1003•2; e anche se ve ne fosse una, non risolverebbe la questione in un senso o nel! 'altro, perché in questo passo egli formula un problema, piuttosto che esprimere una propria ponderata opinione. Sebbene anche il secondo passo citato da Lovejoy sia molto conciso, il contesto ne chiarisce il senso. Poche righe più avanti Aristotele scrive: «Ma c'è di più: pur ammettendo che essa (cioè una Forma platonica) sia in-atto, parimenti non ci sarà movimento, qualora la sostanza di questa causa sia una potenza: difatti, in tal caso, sarebbe impossibile l'eternità del moto, perché ciò che è in-potenza può anche non essere» (Met. A 6. 107 I •18-20). Il principio a cui Aristotele si appella nell'ultima frase è, evidentemente, 45

lo stesso enunciato poche righe primn nel passo citato da Lovejoy, Il modo in cui egli ne fa uso mostra. in primo luogo, che Aristotele presuppone un senso dellu potenzinlità secondo cui ciò che potenzialmente è altrettanto potenzialmente non è. In altre parole, Aristotele usa la potenzialità come una possibilità (contingenza) a doppio senso: per lui, In possibilità (intesa come contingenza) di essere implica In possibilità di non essere. Aristotele usa il Principio per sostenere che una Forma che esiste solo in potenza non può garantire il movimento eterno poiché (essendo puramente potenziale) può darsi che in qualche istante di tempo non si attualizzi, e può quindi non essere in grado, in quell'istante. di sostenere il movimento. Ovviamente, le formulazioni (b) e (b)' sono estranee agli scopi che qui Aristotele apertamente persegue. (Qui egli non afferma che una forma potenziale non possa mai essere un principio di movimento). Perciò, nella propria argomentazione egli non nega il Principio di Pienezza; ne adotta piuttosto una delle formulazioni deboli (a)-(a)'. Delle due alternative che restano, (a) è chiaramente troppo debole per sostenere l'argomentazione aristotelica. Aristotele vuole dimostrare che se una Forma è una pura potenzialità, essa può non esistere. A tale scopo, non basta assumere che alcune potenzialità possono non esistere perché tra di esse potrebbero non essere incluse le forme. Perciò Aristotele deve assumere (a)' e non (a). Nemmeno questo, però, è sufficiente agli scopi di Aristotele. Anche se è vero che ogni essere puramente potenziale può non esistere in qualche momento, può comunque accadere che esso esista per tutta l'eternità. O, piuttosto, può esistere in questo modo a meno che si assuma che la sua possibilità di non esistere si attualizzi in qualche momento. È chiaro, allora, che Aristotele deve far propria questa assunzione poiché, altrimenti, si potrebbe asserire che le forme godono di una eternità accidentale e che quindi, dopo tutto, possono sostenere il movimento eterno. (Una simile eternità accidentale veniva forse attribuita alle Forme platoniche in Met A 9. 990"29-991 '7). In altre parole, Aristotele conferisce tacitamente al principio di cui fa menzione il seguente senso forte: (a)" Ogni mera possibilità (contingenza) di fatto non si realizzerà in qualche istante di tempo. 46

Questo principio è una versione del Principio di Pienezza; esso affenna che la possibilità che ogni essere puramente possibile (potenziale) ha di non essere non può rimanere inattualizzata per un tempo infinito. Possiamo dunque ribaltare la situazione a sfavore di Lovejoy. lnvecedi dimostrare che Aristotele rifiutava il Principio di Pienezza (nella fonna in cui lo abbiamo discusso), il brano che abbiamo consideralo mostra che in effetti Aristotele si basava su di esso.

5. Altri apparenti indizi contrari A parte gli indizi testuali offerti da Lovejoy, potrebbe sembrare che in Aristotele vi siano dei passi e delle intere teorie che contraddicono il Principio di Pienezza. Un esempio calzante è costituito dalla concezione aristotelica dell'infinito che viene spesso fonnulata affermando che per lo Stagirita l'infinito esiste solamente in potenza-che è concepibile ma non si realizza mai. In uno scritto precedente, 5 ho mostrato che la tesi aristotelica autentica è diametralmente opposta a questa concezione volgarizzata. Secondo la sua formulazione più precisa, l'infinito, nel senso in cui è potenziale, è anche attuale e, fin dove è concepibile, è anche attualizzato. Lungi dal costituire un controesempio al Principio di Pienezza in Aristotele, la sua teoria dell 'inftnito dipende da esso. Un'altro indizio apparentemente contrario è rappresentalo dall'esempio aristotelico in De lnterpretatione 9: «ad esempio, un determinato mantello ha la possibilità di venire tagliato in due, eppure non sarà tagliato, ma si logorerà prima di allora». In effetti, ci troviamo di fronte a un chiaro esempio di una possibilità che secondo Aristotele non si realizzerà. Ciò, tuttavia, non equivale a dimostrare che non si possono attribuire ad Aristotele le forme principali del Principio di Pienezza. La possibilità che un particolare mantello sia tagliato a pezzi concerne un oggetto individuale, e non tipi di individui o di eventi. D'altra parte, la possibilità incompiuta menzionata da Aristotele non rimane tale all'infinito poiché, quando il mantello si logora, esso esce dal campo dell 'esistenza e non gli può più essere attribuita nessuna possibilità. L'esempio mostra dunque che per Aristotele le possibilità relative a oggetti individuali che esistono solo per un periodo determinato di tempo non sono comprese tra le possibilità "genuine" la cui

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nttunlizznzione è nffermntn d11l Principio. In ogni caso, non dimostro che Aristotele non ritenesse valide ultre fanne del principio che sono comunque, n prima visto, ben più plausibili. Bisogno lìquidnre 11lcune altre testimonianze che invalidano apparentemente In nostra tesi. Per esempio, in un passo di An. Post. (si vedn I 6. 75'31-5), Aristotele affenna che le determinazioni accidentali ("tà a'tE (li>a'tE seguito dall'infinito e non dall'indicativo) nelle righe 5-6. come una qualificazione del precedente 'tb Elnelv [ ...] oòic lta'to:t 6t piuttosto che come l'affermazione di una conseguenza che si può trarre da esso. Possiamo allora interpretare l'enunciato come segue: "Non può essere vero dire che questo è possibile ma non accadrà e dirlo con l'effetto che l'esistenza del1'impossibile in questo modo ci sfuggirà"» (Martha Kneale. comunicazione privata). Sia la citazione originale che la traduzione della Kneale sono filologicamente possibili. Per poter utilizzare secondo i miei scopi Met. 0 4.1047°3-6 devo dunque eliminare la seconda interpretazione. Posso farlo come segue. Nel brano che stiamo esaminando Aristotele ci mette in guardia contro un errore. Questo errore è differente a seconda delle due interpretazioni. Secondo la prima interpretazione, Aristotele ci dice che tutto ciò che è possibile accadrà, cioè ci diffida dall'assumere che qualcosa, pur essendo possibile, non esisterà mai. Secondo l'interpretazione della Kneale, Aristotele ammette che una possibilità possa non realizzarsi mai, a condizione che questa assunzione non permetta che l'impossibile ci sfugga completamente - qualunque cosa ciò significhi. Il seguito mostra quali di questi due ammonimenti abbia in mente Aristotele: [ ... ] e faccio l'esempio di uno - di uno, cioè, che non si rende conto della nozione di "impossibile" - il quale ci viene a dire che la diagonale non è commensurabile al lato, ma che, tuttavia, essa nel futuro verrà misurata, perché nulla vieta che qualcosa avente la possibilità di essere o di

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divenire esistn nel presente o nel futuro ( I047"6-9). Mi pare che ciò mostri molto chiaramente che l'errore di cui Aristotele si preoccupa consiste ne li 'assumere che una possibilità possa rimanere irrcalizznta in eterno. (Si veda in par1icolare l'ultimo periodo della citazione.) Egli presuppone dunque la prima interpretazione e non quelln cnldegginta dalla Kneale. Si potrebbe pensare che ciò non escluda completamente I'interpretazione di Owen e della Kneale, se integrata dall'assunzione secondo cui l'errore contro il quale ci mette in guardia Aristotele è «supporre che ogni qual 1•0/ta possiamo dire "Questo non accadrà mai", possiamo anche dire "Questo è possibile"». sig.ra Kneale). Tuttavia. per diverse ragioni il significato delle parole di Aristotele non può essere questo. In primo luogo, ciò che egli ha in mente non è un tale che dice che una diagonale può essere misurata perché non lo sarà mai, ma uno che dice che essa può essere misurata e tuttavia (µtvtot) non lo sarà. D'altra par1e, non mi pare che la presunta formula aristotelica «dire che qualcosa è possibile ma non esisterà-e dire questo in modo che l'esistenza dell 'impossibile ci sfugga» possa esprimere in modo naturale una inferenza generale fallace da "mai" a "possibilmente". La formula non ha a che fare con la fallacia generale - che Aristotele avrebbe comunque potuto descrivere molto più semplicemente - ma con un suo caso particolare. In terzo luogo, è molto poco verosimile che una tesi così scorretta come la fallacia inferenziale in questione abbia meritato un esplicito rifiuto da parte di Aristotele. (Non vi è altrove alcun indizio che Aristotele si sia preoccupato di questa fallacia). Inoltre, una analisi a par1e mostrerà che, contrariamente a quanto sembrano assumere coloro che criticano la mia interprelaZione, in Met. 0 3 Aristotele non si compromette nemmeno con la tesi secondo cui una possibilità può talvolta rimanere irrealizzata in eterno, tesi che incoraggerebbe la fallacia in questione. Mi sembra quindi evidente che l'interpretazione corrente di 1047•3-6, con la quale concordo, è corretta. Ciò significa che il passo offre una eccellente conferma dell'adesione di Aristotele al principio secondo cui ogni possibilità genuina prima o poi si rea-

lizza.

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9. La pienezza e la definizione aristotelica della possibilità Se r i ntcrpretazione a cui abbiamo dato la preferenza è corretta, ne deriveranno ulteriori interessanti conclusioni. Gli interpreti possono essere stati fuorviati dal fatto che l'esempio aristotelico della diagonale sembra coinvolgere un principio completamente diverso da quello della realizzazione di tutte le possibilità nel tempo. Sembra che l'argomentazione aristotelica non miri a mostrare che tutte le possibilità si realizzeranno, ma che si può assumere che esse si realizzino senza che ciò implichi alcuna contraddizione. Ciò che abbiamo scoperto lascia chiaramente capire che qui Aristotele assimila i due principi. (Si noti che in Met. 0 3. 104 7"24-9 egli aveva già fatto appello al secondo dei essi). Questa osservazione è importante per comprendere in generale la sua teoria della moda) ità. La concezione aristotelica è, probabilmente, motivata dall'idea che possiamo concepire la realizzazione di una possibilità soltanto in relazione a qualche momento della nostra "storia del mondo" attuale. Ma se in quel momento accade qualcosa di diverso da ciò che si è assunto sembra risultarne una contraddizione. Può sembrare, quindi, che il secondo principio implichi il primo. 12 · Comunque sia, ora possiamo comprendere perché Aristotele ritenesse che un rifiuto della sua tesi sulla realizzazione di tutte le possibilità nel tempo avrebbe perso di vista tutti gli esempi di impossibilità nel senso più stretto dell'espressione. La vera definizione (caratterizzazione operativa) aristotelica della possibilità è formulata come segue: «Orbene, parlando di possibilmente e di possibile, io intendo una relazione che, non essendo necessaria, e posta tuttavia come relazione di appartenenza, non risulterà da ciò nulla di impossibile.» (An. Pr. I 13. 32'18-20). Avendo assimilato i due principi l'uno all'altro. una possibilità irrealizzata si sarebbe tradotta per Aristotele in una possibilità della quale non si può assumere la realizzazione senza ricadere nell'impossibilità, e avrebbe quindi portato alla rovina della principale caratterizzazione aristotelica di ciò che è possibile e (per implicazione) di ciò che è impossibile. E ciò significherebbe, in effetti, perdere di vista la distinzione tra ciò che, secondo la definizione aristotelica di queste nozioni, è possibile e impossibile. Di fatto, è verosimile che, nel seguito del brano che abbiamo citato da Met. 0 4., Aristotele abbia in mente esattamente questa

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gioe dell'interesse nntiqunrio di Aristotele che lo condusse, inter alia. a compilare la fumosa collezione perduta delle costituzioni. Cominciamo cosi II comprendere il rapporto che lega la ricerca aristotelica di nmteriali fattuali nll11 sua teoria dell'induzione. Lu stessa idea è esprcss11 in Po/irica 115.1264'1 •5 come segue: «Non bisogna dimenticare oltre tulio che si deve tener conto del lungo tempo e dei lunghi anni trascorsi (... ] perché lutto più o meno è stato scoperto, ma alcune idee non sono state escogitate, altre. sebbene si conoscano, non sono applicate». Un argomento nnnlogo si trovn in Meteor. l 13 339b27 sg.

I I. Co11seg11e11:e del Principio: la logica modale e la logica non modale sono inseparabili Un 'ulteriore conseguenza del Principio di Pienezza è la seguente: se si possono verificare delle eccezioni a una generalizzazione priva di restrizioni temporali, tali eccezioni di fatto si verijichera11no. In altre parole, le uniche generalizzazioni vere senza restrizioni saranno quelle necessarie. Visto che Aristotele assumeva che nelle premesse del sillogismo si quantificasse su individui passati, presenù e futuri senza restrizioni temporali (si veda An. Pr. I 15. 34•7.11), ciò vale per le generalizzazioni con cui Aristotele aveva a che fare sia nella teoria del sillogismo che nella sua teoria della scienza. Così, uno dei problemi che ci eravamo posù all'inizio di questo capilolo riceve una soluzione definitiva. Dobbiamo invece affrontare il problema opposto. Il risultato della nostra analisi è quasi paradossale. In Aristolele sembra dissolversi proprio la distinzione tra generalizzazioni assertorie e generalizzazioni apodittiche. Ciò è paradossale se si considera che Aristotele fu il fondatore della logica modale. Inoltre, le nozioni modali giocavano un ruolo di vitale importanza nella sua filosofia. Eppure, per lui, come per chiunque acceui il Principio di Pienezza, non dovrebbe esservi alcuna distinzione netta tra logica modale e semplice sillogistica. In ultima analisi, tuui gli enunciati modali dovrebbero ammeuerc una riformulazione in termini temporali (oltre che interamente estensionali). Al contrario, ci si può aspenare che i pensatori (come alcuni di quelli caratteristicamente moderni) che rifiutano il principio siano gli stessi che si occupano della logica e delle nozioni modali in generale. Per loro, contra-

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riamente che per Aristolele, può esservi una distinzione tra generalizzazioni vere in maniera meramente contingente ("accidenti eterni") e generalizzazioni necessarie ("nomichc"). Eppure la situazione slorica riflette, in larga misura, specularmente queste legittime aspettative. Vi è un certo qual rapporto tra il venir meno del principio e il declino della logica modale. Non ho una risposta semplice a questo problema. Può darsi che esso sia un indizio delle profonde tensioni che operavano nel pensiero di Aristotele. Egli credeva nell'indeterminismo e nel ruolo speciale delle nozioni modali. Eppure, nel suo stesso apparato concettuale erano presenti dei fattori che tendevano a spingerlo verso il determinismo e verso una riduzione estensionale (in termini di logica temporale) delle nozioni modali a nozioni non modali.

Note Si veda. p. es., Rhtt. m 17. 1418'3-5; Eth. Nic. VI 2. 1139'7-9; Dt Catlo I 12. 283'13 sg. • Le traduzioni italiane dei passi aristotelici sono traltc da Aristotele. Opere. 4 volt., Lacerza, Bari 1973, modificale calvolca per uniformità con il testo inglese (N.d.T). 2 Si veda, p. es., il mio saggio "Leibniz on Plenicude, Relations, and tlie "Reign of Law'», in S. Knuunila (a cura di). Reforging 1he Great Chain o/ Being.

Studies in the History of Moda/ Thtorits, D. Reidel Publishing Company, Oordrccht 1981, pp. 259-286. 3 Anhur O. Lovejoy, Tht Great Chain of Being: a S111dy in tlzt Hisrory of an /dea, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 1936 (trad. il. Feltrinelli, Milano 1966]. 4 Si veda il mio Tim,and Necessiry, Clarendon Press, Oxford 1973. cap. !Il. 5 "Aristotelian lnfinicy", Phi/osophical Re,•iew, 75 (1966), pp. 197-212. 6 Si veda J. Hintikka et al .. Aris10t/e on Modality and Dererminism. Nonh

Holtand, Amsterdam 1977, in panicolare par. 17, e cfr. Time and Nectssiry, pp. 161-162.194-201. 7 Si veda Annelise Maier, "Notwendigkeit, Kontingenz und Zufall", in Di~ Vorliiufer Galileis im 14. Jahrl11111dert: Swditn :11r Naturphilosophi~ d~r Spiitscholastik, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1949, pp. 219-50. 8 Si veda Aris101/e on Modality. op. cit .. in particolare par. 4.

9 L'attribuzione del Principio di Pienezza ad Aristotele è stata discussa (in riferimento al mio precedente lavoro)da C. J. F. Williarns in "Aristotle and

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Comaplibilily", Rtligious Studits, I (1965), pp. 95-107, 203-215, in panicolare pp. 210-214. Sono debi1ore per diversi ospelli olle osservazioni di WilliMlS. IO Si ,-edo Timt and Ntp. cit.• p. 82. [Tmd. il. in Sa/lgi pr,cri1ici. op. rii.• p. 119 : «Un ttinngolo che ha un angolo reno. i in sf possibile. Cosi sin il 1rinngolo che l'angolo recto sono i "dmi" ovvero il "mo1crialc" in qucslo possibile. ma l"acconio dell'uno coll'altro secondo il principio di con1ruddizionc sono il "formale" della possihililà. E questo accordo io chiDmcrò anche il "logico" della possibili1i\. poichf il rngguogliodei predico1i col loro soggeuo secondo la regola dc-Ua verità non ~ altro che lo relazione logico; il qunlcosa. ovvero ciò che su in questo accordo, si dirà 1alon1 il "reale" dello possibili là»). 7 Trud. il. in Saggi pr,cri1ici. op. cii .• p. 453. 8 Tmd. ii. cii. p. 454. 9 Trud. il. cii. p. 459. IO Tmd. il. cii. p. 423. 11 Cfr. G. Schneebcrger, Kants Kon;,ption dtr Modalb,grijft (Philosophische Forschungcn, N.S. I). Vcrlng fur Rechi und Gcs