La gestione dell'impresa. Organizzazione, processi decisionali, marketing, acquisti e supply chain [3° ed.] 8817057991, 9788817057998

Il management non è un sapere che si possa imparare solo sui libri. L'esperienza pratica è insostituibile. E, tutta

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La gestione dell'impresa. Organizzazione, processi decisionali, marketing, acquisti e supply chain [3° ed.]
 8817057991, 9788817057998

Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Introduzione
Ringraziamenti
Parte prima Organizzazione
1 Introduzione all’organizzazione
1.1 L’organizzazione e le organizzazioni
1.2 Le tre prospettive di analisi
1.3 Le tre questioni organizzative
2 Organizzazione e crescita
2.1 Le spinte verso la crescita
2.2 Il ciclo di vita delle organizzazioni
2.3 Specializzazione orizzontale e verticale
2.3.1 I vantaggi della specializzazione
2.4 I meccanismi di coordinamento
2.4.1 L’adattamento reciproco
2.4.2 La supervisione diretta
2.4.3 La standardizzazione dei processi
2.4.4 La standardizzazione dei risultati
2.4.5 La standardizzazione delle competenze
2.5 I costi della specializzazione e del coordinamento
2.6 Progettare l’organizzazione: microstruttura,macrostruttura e processi aziendali
3 L’individuo nell’organizzazione
3.1 Introduzione
3.2 La microstruttura
3.2.1 Compiti, mansioni e interdipendenze
3.2.2 I ruoli manageriali
3.2.3 Le mansioni professionali
3.2.4 La formalizzazione del comportamento
3.2.5 I sistemi organici e meccanici
3.2.6 La formazione
3.3 Prestazioni, capacità e motivazioni individuali
3.3.1 Capacità e competenze
3.3.2 Le teorie della motivazione
3.4 La dimensione sociale: gruppi e conflitti
3.4.1 I gruppi
3.4.2 I conflitti
4 La struttura dell’organizzazione
4.1 Introduzione
4.2 Gerarchia e ampiezza del controllo
4.3 Le unità organizzative: linea e staff
4.4 I criteri di raggruppamento
4.5 Il coordinamento tra unità organizzative
4.6 Le strutture organizzative
4.6.1 La struttura semplice
4.6.2 La struttura funzionale
4.6.3 La struttura divisionale
4.6.4 La struttura ibrida
4.6.5 La struttura a matrice
5 I processi aziendali
5.1 Introduzione
5.2 La lettura per processi dell’organizzazione
5.3 I processi aziendali
5.4 Tipologie di processi aziendali
5.5 Le prestazioni dei processi aziendali
5.5.1 Le prestazioni di costo
5.5.2 Le prestazioni di qualità
5.5.3 Le prestazioni di tempo
5.5.4 Le prestazioni di flessibilità
5.6 La gestione dei trade-off tra prestazioni
5.7 L’azienda orientata ai processi
5.8 Le leve organizzative: l’organizzazione per processi
5.8.1 Introduzione dei process owner
5.8.2 Riprogettazione delle mansioni (job redesign)
5.8.3 Delega decisionale
5.8.4 Riorganizzazione degli staff e delle attività di supporto
5.8.5 Lean organization
5.9 Le leve gestionali
5.10 Conclusioni
6 L’organizzazione nel contesto
6.1 Efficacia organizzativa e fattori di contesto
6.2 I fattori ambientali: incertezza e complessità
6.2.1 Il contesto socioeconomico
6.2.2 Il settore e i mercati
6.2.3 Incertezza e complessità
6.3 La tecnologia: processi industriali,tecnologie dei servizi e ICT
6.3.1 Le tecnologie industriali
6.3.2 Le tecnologie dei servizi
6.3.3 Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT)
6.4 Il contesto interno: i fattori strategici
6.5 Il contesto interno: i fattori anagrafici
Parte seconda Processi decisionali
7 Le decisioni nelle organizzazioni
7.1 Successo e consapevolezza delle decisioni
7.2 Programmazione, rischio e ruoli organizzativi
7.3 La razionalità limitata
7.3.1 La dimensione politica delle decisioni: conflitti e coalizioni
7.3.2 Percezione, intuito ed esperienza
7.4 Oltre la razionalità limitata: garbage can, incrementalismoe sensemaking
7.4.1 Scarsità o ridondanza informativa?
7.4.2 Il modello del garbage can
7.4.3 L’incrementalismo
7.4.4 Il sensemaking
8 Il processo decisionale
8.1 La decisione come processo: problem settinge problem solving
8.2 Il problem setting
8.2.1 Definizione degli obiettivi
8.2.2 I vincoli
8.2.3 La costruzione dei modelli
8.2.4 Tecniche di modellizzazione: le mappe causali
8.2.5 Tecniche di previsione
8.3 Il problem solving
8.3.1 Tecniche di generazione delle alternative
8.3.2 Tecniche di valutazione e scelta
8.4 Tre approcci alle decisioni: thinking first, doing firste seeing first
8.4.1 L’approccio thinking first
8.4.2 L’approccio doing first
8.4.3 L’approccio seeing first
8.5 Decisioni in condizioni non deterministiche
8.5.1 Le tipologie di rischio
8.5.2 Il rischio e l’incertezza
8.5.3 Decisioni in condizioni di rischio
8.5.4 Decisioni in condizioni di incertezza
9 Le decisioni interattive
9.1 L’incertezza ambientale e l’incertezza strategica
9.2 Introduzione alla Teoria dei giochi
9.3 Le alternative dominanti
9.4 L’efficienza di Pareto
9.5 L’equilibrio di Nash
9.6 Il Dilemma del prigioniero
9.7 La pluralità degli obiettivi
9.8 Decidere per primi o per ultimi?Il valore dell’informazione e della comunicazione
9.9 Conclusioni
10 Il ruolo del tempo
10.1 Il tempo nei processi decisionali
10.2 Gli stadi della conoscenza: il modello di Ansoff
10.3 La turbolenza ambientale
10.3.1 Velocità del cambiamento
10.3.2 Novità del cambiamento
10.3.3 Complessità del cambiamento
Parte terza Marketing
11 Il marketing management
11.1 Introduzione
11.1.1 Bisogni e domanda
11.1.2 Offerta, valore e marca
11.1.3 L’orientamento al marketing
11.1.4 Gli stati della domanda e il ruolo del marketing
11.2 Marketing e innovazione tecnologica
11.2.1 Le fonti dell’innovazione
11.2.2 I conflitti di standard e il disegno dominante
11.2.3 Il timing dell’innovazione
11.3 Marketing e società
11.3.1 Il marketing strategico
11.3.2 Le tendenze emergenti
11.4 Il ciclo di vita della tecnologia e del prodotto
11.5 L’organizzazione di marketing
11.5.1 L’evoluzione della funzione
11.5.2 Le strutture organizzative e i ruoli di marketing
11.6 Le decisioni di marketing
11.6.1 Il processo decisionale
11.6.2 Il grado di decentramento delle decisioni
12 L’analisi di mercato
12.1 Introduzione
12.2 L’analisi del contesto socioeconomico
12.3 L’analisi dell’ambiente di mercato:la concorrenza e i clienti
12.3.1 La concorrenza
12.3.2 L’analisi del mercato
12.3.3 Il mercato dei consumatori finali
12.3.4 Il mercato industriale
12.3.5 Il mercato degli intermediari
12.3.6 Il mercato delle pubbliche amministrazioni
12.4 La misura e previsione della domanda
12.4.1 La domanda di mercato
12.4.2 La quota di mercato
12.4.3 I modelli di previsione della domanda
12.5 La segmentazione del mercato
12.5.1 La segmentazione nel mercato B2C
12.5.2 La segmentazione nel mercato B2B
12.5.3 Il marketing one-to-one
12.5.4 Targeting: l’individuazione del mercato obiettivo
13 La strategia di marketing
13.1 Il posizionamento dell’offerta
13.2 La definizione del prodotto/servizio
13.2.1 Gli oggetti del marketing
13.2.2 Gli elementi di differenziazione dei prodotti e dei servizi
13.2.3 Il brand
13.2.4 Il product mix
13.2.5 Le strategie di prodotto nel ciclo di vita
13.3 La determinazione del prezzo
13.3.1 Prezzo, domanda, ricavi e profitto
13.3.2 Il processo di determinazione del prezzo
13.3.3 La politica e gli obiettivi di pre
13.3.4 Criteri di fissazione dei prezzi
13.3.5 Le modifiche di prezzo: product bundling, sconti, promozionie discriminazione di prezzo
13.3.6 Le manovre competitive di prezzo
13.3.7 Le strategie di pricing nel ciclo di vita
13.4 Le scelte di distribuzione
13.4.1 Il canale di marketing
13.4.2 La lunghezza del canale
13.4.3 La strategia di distribuzione
13.4.4 Le strategie di distribuzione nel ciclo di vita
13.5 La comunicazione d’impresa
13.5.1 Gli obiettivi della comunicazione d’impresa
13.5.2 La fidelizzazione del mercato di riferimento
13.5.3 La comunicazione istituzionale e di prodotto
13.5.4 Gli strumenti della comunicazione
13.5.5 Le strategie di comunicazione nel ciclo di vita
Parte quarta Acquisti e supply chain
14 Le scelte strategiche di make-or-buy
14.1 L’evoluzione dei rapporti cliente-fornitore
14.2 Mercato competitivo, mercato collaborativoe integrazione verticale
14.2.1 Il mercato competitivo
14.2.2 L’integrazione verticale
14.2.3 Il mercato collaborativo
14.3 Le condizioni per il mercato: complessità,specificità e incertezza
14.4 I driver strategici
14.4.1 Gestione delle competenze
14.4.2 Gestione dei costi
14.4.3 Gestione del capitale
14.5 Le reti di fornitura
15 Gli acquisti
15.1 Le tipologie di acquisti: diretti, indiretti e servizi
15.2 Il processo di acquisto: strategic purchasing,sourcing e supply
15.2.1 Strategic purchasing
15.2.2 Sourcing
15.2.3 Supply
15.3 L’organizzazione degli acquisti
15.3.1 Raggio di azione
15.3.2 Criteri di raggruppamento
15.3.3 Livello di centralizzazione
15.4 La gestione del portafoglio acquisti
15.4.1 La matrice di Kraljic
15.4.2 Local sourcing e global sourcing
15.4.3 La valutazione dei fornitori: il vendor rating
15.5 La selezione dei fornitori: offerte, gare e aste
15.6 La negoziazione: obiettivi e strategie
15.7 I contratti
15.8 E-procurement
15.9 L’innovazione negli acquisti
16 La gestione della partnership
16.1 La partnership: modalità di gestionee meccanismi di protezione
16.1.1 Gestione della partnership
16.1.2 Meccanismi di protezione
16.1.3 Tipologie di par
16.2 La collaborazione tecnologica
16.2.1 La collaborazione tecnologica16.2.1 Obiettivi e requisiti
16.2.2 Tipologie di codesign
16.2.3 Tecniche e strumenti
16.3 La collaborazione operativa
16.3.1 Obiettivi e requisiti
16.3.2 Livelli di collaborazione operativa
16.3.3 Tecniche e strumenti
16.4 Verso la partnership completa
17 Supply chain management
17.1 Introduzione al supply chain management
17.2 Le strategie per la supply chain
17.2.1 Le prestazioni chiave: costo e servizio
17.2.2 Le quattro strategie di base
17.2.3 Tecniche di posticipazione e mass-customization
17.3 Il valore dell’informazione nella supply chain
17.3.1 L’effetto bullwhip
17.4 Driver e barriere alla collaborazione
Glossario
Bibliografia

Citation preview

MANAGEMENT

La gestione dell’impresa: organizzazione, processi decisionali, marketing, acquisti e supply chain Terza edizione

GIANLUCA SPINA

Con il contributo di Raffaella Cagliano, Stefano Ronchi, Matteo Kalchschmidt, Federico Caniato, Francesca Bodini e Davide Luzzini

Raffaella Cagliano è professore straordinario di Gestione Aziendale al Politecnico di Milano. È presidente dell’European Operations Management Association. È inoltre responsabile dei master specialistici del MIP – Politecnico di Milano. Stefano Ronchi è professore associato di Gestione Aziendale al Politecnico di Milano e membro del Comitato di gestione del MIP – Politecnico di Milano. Matteo Kalchschmidt è professore associato di Gestione Aziendale all’Università degli Studi di Bergamo e direttore della School of Management dell’Università di Bergamo. Federico Caniato è professore associato di Gestione Aziendale al Politecnico di Milano e direttore del master in Supply Chain and Purchasing Management del MIP – Politecnico di Milano. Francesca Bodini è giornalista professionista e consulente di marketing e comunicazione. Davide Luzzini è collaboratore alla ricerca e docente a contratto presso il Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano. Contributi Quest’opera è stata impostata ed elaborata in tutte le sue parti dall’autore, il quale è pertanto l’unico responsabile per tutto quanto contenuto nel testo. Tuttavia diverse persone hanno materialmente contribuito alla stesura dei testi come elencato nel seguito: Raffaella Cagliano: capitolo 4 (paragrafi 4.3, 4.4, 4.5 e 4.6); capitolo 5 (paragrafi 5.2, 5.4, 5.5, 5.6, 5.7 e 5.8); capitolo 6 (caso 6.2); capitolo 12 (paragrafi 12.2, 12.3, 12.4 e 12.5); capitolo 13 (paragrafi 13.2 e 13.3) Stefano Ronchi: capitolo 3 (caso 3.2); capitolo 5 (caso 5.5); capitolo 7 (paragrafo 7.2); capitolo 8 (paragrafi 8.2.1, 8.2.2, 8.4.1 e 8.4.2); capitolo 14 (paragrafi 14.3, 14.4 e 14.5); capitolo 15 (paragrafi 15.2 e 15.9); capitolo 17 (paragrafi 17.2.2, 17.3 e 17.4) Matteo Kalchschmidt: capitolo 8 (paragrafi 8.2.3 e 8.3); capitolo 9 (paragrafi 9.3, 9.4, 9.5, 9.6, 9.7 e 9.8); capitolo 10 (paragrafi 10.2 e 10.3) Federico Caniato: capitolo 8 (paragrafo 8.5); capitolo 11 (caso 11.5); capitolo 13 (paragrafo 13.4); capitolo 14 (caso 14.3); capitolo 15 (paragrafi 15.3, 15.5, 15.6, 15.7 e 15.8); capitolo 16 (paragrafi 16.2.3, 16.3 e 16.4) Francesca Bodini: capitolo 13 (paragrafo 13.5) Davide Luzzini: capitolo 15 (casi 15.3 e 15.6); capitolo 16 (caso 16.3); capitolo 17 (caso 17.8)

Impostazione grafica di Matteo Bologna Design - NY Fotocomposizione: Servizi editoriali Studio Norma - Parma

ISBN 978-88-58-63799-9 Copyright © 2008 RCS Libri SPA Prima edizione digitale 2012 da Terza edizione Rizzoli Etas: ottobre 2012

Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail: [email protected] e sito web www.aidro.org.

Introduzione

Questo testo introduce alla gestione d’impresa in senso lato e dunque al mestiere del manager. L’attività manageriale richiede alcune conoscenze di base che difficilmente possono essere apprese esclusivamente sul campo. Naturalmente l’esperienza diretta è insostituibile: per diventare manager a tutto tondo occorre vivere sulla propria pelle le mille situazioni quotidiane nella gestione delle risorse umane, nei rapporti con i clienti, nella gestione dei fornitori, nei rapporti con i mercati e le istituzioni finanziarie, nelle strategie di competizione e talvolta di collaborazione con i concorrenti. L’ho vissuto anch’io nel mio piccolo: dopo oltre dieci anni di pura carriera accademica, trascorsi a fare ricerca e a insegnare la gestione aziendale, ho da alcuni anni la responsabilità del MIP, la business school del Politecnico di Milano, un’organizzazione, ormai internazionale, che impiega oltre ottanta persone, conta circa duecento docenti, e si mantiene in autonomia progettando, realizzando e vendendo servizi di formazione manageriale. Quando assunsi questo incarico mi sentivo abbastanza preparato dagli anni precedenti di studio e di ricerca. Dovetti almeno in parte ricredermi. Studiare il management e praticarlo sono due cose abbastanza diverse. L’esperienza concreta è insostituibile. E, tuttavia, la conoscenza teorica dei basics di management certamente aiuta, sia i neofiti che si preparano a entrare nel mondo del lavoro, sia i manager con esperienza o i tecnici e gli specialisti che aspirano a una posizione manageriale. I neofiti facilmente si rendono conto che le imprese, e in misura crescente anche le pubbliche amministrazioni, ricercano continuamente giovani con una preparazione gestionale specifica. I manager e i tecnici già attivi nelle imprese sempre più sentono la necessità di frequentare corsi di formazione gestionale per dare corpo sistematico alla propria esperienza, trovando così nuovi spunti e aprendo nuove prospettive professionali. Dunque il management si può imparare e certamente lo dovrebbero studiare coloro che vogliono praticarlo. Meglio se lo studio avviene a più riprese, con la possibilità di ritornare in aula e sui libri anche dopo l’esperienza del lavoro, per rileggerla, valorizzarla e aggiornare il proprio bagaglio di conoscenze. Questo testo, giunto ormai alla terza edizione, si propone come un aiuto in tal senso. È anzitutto volto a rispondere alle esigenze dell’insegnamento di Gestione aziendale, ma anche a quelle dei corsi Master e della formazione aziendale. I nu-

) LA

GESTIONE DELL’ IMPRESA

merosi suggerimenti degli studenti e di coloro che hanno letto le prime edizioni mi hanno aiutato a migliorarlo, soprattutto a renderlo più fruibile. L’imprinting della trattazione è quello della Scuola di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano. L’attenzione è al saper fare (e non solo al sapere), al “progetto di impresa”, all’innovazione dei sistemi organizzativi e tecnologici, all’uso strategico delle tecnologie e in particolare delle ICT, alla gestione dell’impresa-rete inserita nei network di relazioni collaborative con altre imprese e istituzioni. In questo senso il management è molto più della semplice buona amministrazione, pur necessaria. È essenzialmente capacità di organizzare e mobilitare le risorse verso gli obiettivi di innovazione. Il testo raccoglie il testimone di una lunga esperienza di ricerca e insegnamento sui temi organizzativi e manageriali a opera di numerosi colleghi del Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano, alcuni dei quali hanno anche ricoperto per me il ruolo di maestri. Certamente esso non ha la pretesa di racchiudere in sé tutti gli spunti tematici per la docenza maturati in questo gruppo. Altre opere, come ad esempio L’impresa dell’innovazione (Verganti et al., 2004) e L’organizzazione dell’impresa: processi, progetti, conoscenza e persone (Bartezzaghi, 2010) coprono alcuni argomenti non trattati se non marginalmente in questo testo, come ad esempio la strategia tecnologica e il project management. Il concetto chiave che ha ispirato la ricerca e la didattica della Scuola di Ingegneria gestionale è l’impresa come sistema aperto che interagisce con l’ambiente scambiando risorse (prodotti, servizi, informazioni, risorse finanziarie, tecnologie, know-how, risorse umane ecc.). Questo stesso testo si richiama profondamente a tale visione, i cui aspetti salienti sono così riassumibili: • il sistema-impresa è complesso, in quanto formato da parti diverse tra loro con funzioni distinte (pensiamo alla produzione, alla vendita, allo sviluppo dell’innovazione, agli acquisti, alla gestione del personale ecc.). Le risorse umane e tecnologiche che fanno parte del sistema sono specializzate per compiere determinate attività e necessitano di coordinamento tra loro. Non tutte le parti del sistema hanno le stesse dimensioni e poteri. In particolare, alcune di esse sono sovraordinate e ne raggruppano altre, configurando così relazioni interne di tipo gerarchico. La complessità del sistema deriva dalla numerosità e dall’eterogeneità delle parti e dalla struttura delle loro relazioni. Un aspetto dunque fondamentale per comprendere il reale funzionamento del sistema-impresa fa riferimento all’organizzazione, ovvero alle modalità con le quali il lavoro viene diviso e coordinato tra le persone e, a un livello più aggregato, tra le unità organizzative; • il sistema-impresa è dotato di finalità che ne determinano le strategie e i comportamenti all’interno del più vasto sistema economico e sociale; quali che siano le finalità generali (obiettivi come il profitto, la crescita, il valore d’impresa, la soddisfazione degli stakeholder ecc.) il sistema-impresa procede per decomposizione, individuando sotto-obiettivi, obiettivi parziali, strumentali o intermedi che, complessivamente presi, contribuiscono alle finalità generali; un aspetto fondamentale per inquadrare la pratica manageriale è dunque la comprensione di come si mettono a fuoco gli obiettivi e, conseguentemente, come vengono prese le decisioni nei contesti organizzati. Le teorie dei processi decisionali spiegano come le persone, le unità organizzative e le organizzazioni intere prendono le decisioni, ovvero come esse, di fronte a un problema, individuano alcune alternative e arrivano a selezionarne una in presenza di risorse scarse e di incertezza;

Introduzione )

• il sistema-impresa è aperto e dinamico, e dunque interagisce con il contesto socioeconomico, cerca di adattarsi ai cambiamenti esterni, di sfruttare le opportunità e di evitare i pericoli o sterilizzare le minacce, tenendo conto delle manovre dei concorrenti. Quando può, e nella misura in cui può, cerca di modificare l’ambiente circostante a proprio vantaggio. In ogni caso deve cercare di prevederne l’evoluzione. La gestione delle interfacce diviene dunque l’aspetto fondamentale e consiste nel governare le relazioni con gli altri attori del più vasto sistema economico e in particolare con i mercati “a monte” e “a valle”. L’impianto logico del testo riflette appieno questa visione. Il volume è diviso in quattro parti, come illustrato nella Figura 1: l’organizzazione aziendale (parte prima); i processi decisionali (parte seconda); il marketing (parte terza); gli acquisti e la supply chain (parte quarta). Figura 1

LO SCHEMA E LE PARTI DEL LIBRO Impresa

Organizzazione

Fornitori

Acquisti e supply chain

Marketing

Clienti

Processi decisionali

Le prime due parti rappresentano il cuore concettuale e sono intimamente legate tra loro: in chiave manageriale organizzare e decidere sono due facce della stessa medaglia. Anzitutto perché l’articolazione degli obiettivi generali in sottoobiettivi strumentali deve essere coerente con il disegno organizzativo. L’organizzazione che funziona è quella in cui i compiti e gli obiettivi attribuiti a ciascuna parte (sia essa una funzione, una divisione, un gruppo di lavoro, un comitato, un team di progetto, una task force ecc.) sono relativamente autonomi, non sovrapposti e compatibili con quelli delle altre parti. In secondo luogo perché gli aspetti meno visibili ma più resistenti dell’organizzazione come i valori, le culture e le identità influenzano fortemente i processi decisionali strategici delle imprese. Le ultime due parti del testo hanno un valore esemplificativo e applicativo. Esse sono dedicate alla gestione delle interfacce e in particolare ai rapporti con i mercati di sbocco per i prodotti e i servizi (marketing, parte terza) e a quelli con i mercati di approvvigionamento, i fornitori e in generale i partner della filiera (acquisti e supply chain, parte quarta). Naturalmente la gestione d’impresa non si esaurisce in questi ambiti funzionali. Molte altre aree hanno rilievo e criticità: dalla gestione finanziaria a quella delle risorse umane, dalla gestione dell’innovazione tec-

) LA

GESTIONE DELL’ IMPRESA

nologica a quella industriale, della produzione alle attività logistiche. Tuttavia, si è scelto di rileggere e applicare i fondamenti dell’organizzazione aziendale e del decision making in primo luogo alla gestione delle interfacce nella catena del valore. Il rapporto con il mercato è da sempre e rimane la chiave del successo per le imprese; e d’altra parte la continua tendenza verso l’outsourcing rende assolutamente critica anche l’interfaccia a monte, i processi di acquisto e in generale i rapporti con i fornitori e i partner della filiera. Questo non è un testo per iniziati o per ricercatori e pertanto non richiede conoscenze propedeutiche particolari. Tuttavia, alcuni elementi di base dell’economia aziendale sono dati per scontati. In particolare, per meglio assimilare i contenuti il lettore dovrebbe avere qualche cognizione di che cos’è un’impresa, di quali sono i sistemi di governance, di come si effettuano le misurazioni quantitative dell’attività d’impresa (contabilità generale e contabilità analitica) e degli strumenti di programmazione e controllo che le imprese utilizzano. Per gli studenti universitari questi contenuti formano il programma dell’insegnamento base di Economia e organizzazione aziendale e costituiscono l’oggetto di L’impresa: sistemi di governo, valutazione e controllo (Azzone e Bertelè, 2011). Per certi versi questo testo ne costituisce idealmente la continuazione. Allo scopo di alleggerire la lettura e favorire l’apprendimento, questo testo ha alcune caratteristiche peculiari cosi riassumibili: • casi aziendali reali. Si è costantemente cercato di esemplificare i concetti e le considerazioni attraverso gli oltre cento casi reali, evidenziati negli appositi box e disseminati in tutte le parti e i capitoli del libro. Tra varietà e dettaglio si è privilegiata la prima. Si è deciso di usare casi brevi che, a parte tre o quattro eccezioni, stanno nello spazio di una pagina o poco più, in modo da offrire al lettore uno spettro ampio di situazioni gestionali tratte da settori diversi, dall’industria ai servizi, dalle piccole imprese alle imprese globali. In questa terza edizione tutti i casi sono stati rivisti e aggiornati e talvolta sostituiti con altri più recenti; • glosse a margine, lungo tutto il testo per localizzare subito gli argomenti e fissare i messaggi chiave; • tabelle e figure, quasi duecento, per favorire la comprensione; • schemi-guida all’inizio di ogni parte che guidano il lettore attraverso i diversi capitoli, richiamando i principali concetti trattati e il “filo logico” dell’intera parte; • glossario finale per ritrovare circa 260 voci specialistiche, utilizzate nel testo. Per ciascuna voce vengono forniti una sintetica definizione, la traduzione inglese e i rimandi ai capitoli o paragrafi nei quali la voce viene descritta o utilizzata. Il glossario intende offrire non solo agli studenti ma anche ai manager che già lavorano uno strumento agile e sistematico di consultazione rapida; • bibliografia essenziale. Si è deciso, per quanto possibile, di contenere la bibliografia, nella consapevolezza che lo studente universitario, l’allievo Master e il manager sono poco interessati alla letteratura ultraspecialistica di matrice accademica. Si è scelto di limitare i testi divulgativi di base e si è fatto ricorso alla letteratura specializzata solo quando vengono utilizzati schemi, modelli e dati di altri autori. Politecnico di Milano, luglio 2012

Gianluca Spina

Ringraziamenti

A Pietro e Annachiara

Nel 2005, quando decisi di scrivere questo libro, ebbi una sensazione di liberazione da un lieve senso di colpa: erano diversi anni che, a ogni sessione di esame, i miei studenti mi ricordavano che il materiale bibliografico del corso era disperso e frammentario, il che non agevolava la loro preparazione. Quando mi sono finalmente deciso sapevo che l’opera mi sarebbe costata fatica. È molto più facile scrivere un libro di ricerca su argomenti specialistici che un testo di studio per studenti universitari e allievi Master che affronti tematiche ad ampio spettro con la chiarezza richiesta per spiegare i basics. Non so se allora sono riuscito nell’intento. Certamente non avrei potuto provarci senza l’aiuto di numerose persone. Le stesse che mi hanno aiutato in questa terza edizione riveduta in molte parti. Si tratta anzitutto di coloro che mi hanno materialmente aiutato nella gestazione: Raffaella Cagliano, Stefano Ronchi, Matteo Kalchschmidt e Federico Caniato. Hanno tutti generosamente contribuito alla raccolta, al vaglio e alla sistematizzazione del mare magno dei materiali utilizzati durante venti anni di insegnamento universitario dell’organizzazione e della gestione aziendale. Hanno messo a punto molti nuovi casi aziendali, hanno preso parte a interminabili discussioni sull’impostazione delle parti e dei capitoli e infine hanno individualmente contribuito all’estensione materiale di molte parti del testo. Ringraziamenti addizionali li devo a Federico Caniato per il lavoro duro e minuzioso di rilettura dei testi e per i mille piccoli preziosi suggerimenti, e a Daniela Mataro per il supporto nella correzione delle bozze. C’è un’altra persona che, pur non avendo preso parte alla concezione e all’elaborazione di questo testo, ha avuto un ruolo indiretto ma cruciale. È Emilio Bartezzaghi, mio maestro e mentore, dal quale ho imparato il mestiere di ricercatore e di docente. Nei suoi confronti ho un debito morale e intellettuale, riconducibile all’imprinting della Scuola di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano. Per motivi simili ho un debito anche nei confronti di Adriano De Maio. Per questa nuova edizione devo anche un ringraziamento particolare a centinaia di nostri studenti dei corsi di Gestione Aziendale presso il Politecnico di Milano ai quali abbiamo chiesto di esprimere valutazioni dettagliate, suggerire miglioramenti e segnalare ogni possibile errore o incongruenza nel testo. Gran parte delle modifiche che abbiamo apportato si deve all’analisi dello loro risposte.

) LA

GESTIONE DELL’ IMPRESA

Ho lasciato per ultimo un ringraziamento particolare, quello a mia moglie Francesca, per il suo sintetico e prezioso contributo professionale, ma soprattutto per la comprensione e l’aiuto che mi ha dato, nonostante tutto il tempo che, per scrivere questo libro, ho sottratto a lei e ai nostri figli. Voglio anche ringraziare tutti i manager e professionisti che con le loro testimonianze e contributi hanno reso possibile la redazione degli oltre 100 casi contenuti nel volume, e in particolare: Luca Altieri, Paola Accornero, Roberto Bamberghi, Matteo Bazan, Gianfranco Bazzigaluppi, Carlo Bettani, Jean Marie Boixel, Valerio Blini, Silvia Borsani, Fabio Buoncristiano, Sergio Camolese, Cristina Caniato, Sergio Casartelli, Roberto Caravati, Carmine Carella, Antonio Carretta, Stefano Cavenati, Denis Charlier, Manlio Ciralli, Fabio Coppola, Paolo Crucitti, Nadia Dal Maso, Claudio De Alberti, Maria Pia Di Bello, Stefano Epis, Mario Franci, Marco Generali, Chiara Grosselli, Dario Lezziero, Elena Luraschi, Dino Maggioni, Antonio Marra, Carla Milani, Tullia Panconi, Giorgia Paoletti, Daniela Patrone, Antonella Riva, Luca Ruini, Alessandro Santucci, Fabiana Spina, Carlo Turatto, Fabrizio Uguzzoni e Riccardo Villa. Ringrazio infine Tommaso Buganza, Alessio Marchesi, Claudio Dell’Era e Giovanni Miragliotta del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano per avermi messo a disposizione casi e materiali tratti dalle loro ricerche.

parte prima

Organizzazione Impresa

Organizzazione

Fornitori

Acquisti e supply chain

Marketing

Processi decisionali

Clienti

I. Introduzione • Management, sociologia e politica • Le norme, le decisioni e le tecnologie

L’ottica manageriale: progettare l’organizzazione

2. Divisione del lavoro e coordinamento • Specializzazione orizzontale e verticale • Meccanismi di coordinamento • Costi di esecuzione e di coordinamento La progettazione organizzativa in pratica

3. L’individuo nell’organizzazione (Microstruttura) • Compiti, mansioni e ruoli • I gruppi 6. L’influenza del contesto • L’ambiente competitivo e socioeconomico • La strategia aziendale • Le tecnologie di prodotto e di processo • I fattori anagrafici (età, dimensione)

4. La struttura dell’organizzazione (Macrostruttura) • Gerarchia e controllo • Unità di linea e unità di staff • Funzioni e divisioni

• • • •

5. I processi aziendali Output, fasi, input e interdipendenze Processi primari e di supporto Prestazione trade-off Business Process Re-engineering

Nella parte prima viene affrontato il tema dell’organizzazione, elemento indispensabile per comprendere il reale funzionamento di ogni impresa e, più in generale, di qualsiasi istituzione privata e pubblica alla quale partecipino più persone. L’organizzazione implica decisioni su come si suddivide il lavoro e come si garantisce il coordinamento tra le varie attività e tra le persone che le svolgono in autonomia. L’organizzazione fa dunque parte del know-how manageriale di base, necessario per gestire qualunque impresa. Il taglio della trattazione è prevalentemente orientato alla progettazione organizzativa. Nel capitolo 1 viene introdotto il tema, presentandone le diverse accezioni, le possibili prospettive di analisi e le principali questioni affrontate. Nel capitolo 2 i problemi organizzativi vengono inquadrati nelle dinamiche di crescita delle imprese. All’aumentare delle dimensioni, infatti, crescono i bisogni e le opportunità di specializzazione delle risorse e di conseguenza le necessità di coordinamento. Le tematiche organizzative devono essere affrontate a tre livelli complementari: i singoli individui (micro organizzazione), oggetto del capitolo 3; le unità organizzative che raggruppano più individui (macro organizzazione), oggetto del capitolo 4; e infine i processi aziendali (insiemi di attività e decisioni) oggetto del capitolo 5. Nel capitolo 6 si prendono in considerazione i fattori di contesto interni ed esterni all’impresa (settori, mercati, tecnologie, strategie ecc.) che influenzano la produzione organizzativa e ne condizionano l’efficacia.

1

Introduzione all’organizzazione

SOMMARIO

1.1

Scopi, ruoli e compiti

1.1 L’organizzazione e le organizzazioni j 1.3 Le tre questioni organizzative

j

1.2 Le tre prospettive di analisi

L’organizzazione e le organizzazioni Il termine organizzazione può significare molte cose. In generale fa riferimento a circostanze in cui un insieme di individui condivide uno scopo comune che può essere perseguito tramite azioni collettive. Con un po’ di semplificazione le molte valenze del termine possono essere ricondotte a due significati principali: organizzazione come istituzione sociale alla quale partecipano più individui con ruoli e compiti differenziati e organizzazione come atto dell’organizzare. L’organizzazione come istituzione sociale richiama una varietà infinita di aggregati umani. Le imprese private, le pubbliche amministrazioni, la Chiesa, l’Esercito, le associazioni professionali, i partiti politici, sono esempi di quelle che nel linguaggio comune si chiamano “organizzazioni”. Si tratta di una serie molto eterogenea di istituzioni o enti che hanno scopi, forme, caratteristiche e dimensioni variabili nel tempo. Consideriamo un’organizzazione bimillenaria ad alta stabilità come è appunto la Chiesa cattolica. Si tratta certamente di un’organizzazione, anche se probabilmente non è questa la prima definizione che ne darebbero i suoi membri più autorevoli. È un’organizzazione perché è facile riconoscere scopi generali fortemente condivisi dai suoi membri, ed è altrettanto facile riconoscere ruoli distinti, compiti e adempimenti abbastanza circostanziati per ciascuno dei membri; inoltre tra le diverse categorie di appartenenti, i fedeli, i diaconi, i sacerdoti, i vescovi, il pontefice – esistono rapporti di natura gerarchica, ma anche di intensa condivisione e collaborazione; esistono norme e regole codificate alle quali ci si deve attenere; esistono requisiti e procedure che regolano l’accesso a determinati ruoli, ad esempio il ministero sacerdotale; vi sono infine sanzioni e procedure in caso di violazione delle norme. Osservazioni simili valgono anche per altri casi di organizzazioni citate, ad esempio l’Esercito, un partito politico o un’impresa privata. Veniamo al secondo significato: l’organizzazione come atto dell’orga-

4 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

know-how organizzativo

1.2 La specializzazione e il coordinamento

Organizzazione come sistema

nizzare. In questo senso l’organizzazione consiste nel decidere “chi fa che cosa”, come si suddivide il lavoro, come si garantisce il coordinamento tra le varie attività e tra le persone che le svolgono in autonomia. Come tale l’organizzazione è sia un “sapere” – e dunque una disciplina con le sue teorie e le sue metodologie di analisi – sia un “saper fare” – e dunque un know-how con le sue professioni, ad esempio quella di responsabile dell’organizzazione e delle risorse umane o quella di consulente di organizzazione. Tutti questi significati hanno preso consistenza con l’avvento delle prime grandi organizzazioni industriali e amministrazioni pubbliche moderne (le cosiddette “burocrazie”) tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo. Sono di quell’epoca le prime teorie sull’organizzazione scientifica del lavoro che avrebbero reso celebre F.W. Taylor (1867-1915) fino al punto di identificare con il termine di taylorismo un insieme di pratiche di organizzazione industriale volte a rendere il lavoro più specializzato e dunque più frammentato, pianificato e controllabile. Da allora, dunque, l’organizzazione si è prestata a divenire una scienza sociale, popolata di teorie, talvolta contrastanti, che si sono accavallate e succedute nel tempo con lo scopo di interpretare perché e come nel mondo reale, potremmo dire nelle “organizzazioni reali”, il lavoro viene specializzato, cioè suddiviso tra persone diverse e coordinato.

Le tre prospettive di analisi Nel secolo e più di storia del pensiero organizzativo, il problema centrale della specializzazione e del coordinamento del lavoro è stato studiato da una gran quantità di punti di vista, riconducibili a tre prospettive: quella manageriale, quella sociologica e quella politica. La prospettiva manageriale, legata alle scelte degli imprenditori, dei dirigenti di azienda o di quelli delle pubbliche amministrazioni, in sostanza di coloro che gestiscono le organizzazioni e cercano di raggiungerne gli scopi istituzionali, tende a considerare l’organizzazione come un sistema, composto da parti che interagiscono – le unità organizzative (dipartimenti, uffici, enti, filiali ecc.). L’attenzione si concentra sugli aspetti formali e oggettivi, quali ad esempio le mansioni attribuite agli individui, la delega dei poteri decisionali, le funzioni svolte dalle unità organizzative, la stessa composizione delle unità – ovvero i criteri per raggruppare posizioni diverse sotto un’unica responsabilità gerarchica – e, infine, i meccanismi di coordinamento tra individui e unità. Nella prospettiva manageriale l’organizzazione è stata spesso spersonalizzata, ponendo in secondo piano considerazioni di tipo culturale e psicologico che pure hanno un loro peso. Anche assumendo una logica manageriale, il sistema organizzativo non può tuttavia essere reso del tutto oggettivo, perché gli individui che lo compongono non sono totalmente intercambiabili, come fossero ingranaggi di un meccanismo; viceversa le persone con le loro esperienze, le loro competenze e il loro sistema di relazioni sociali nell’ambiente di lavoro, costituiscono un elemento stesso del-

1. Introduzione all’organizzazione ) 5

Organizzazione come ambiente sociale

Organizzazione, potere e consenso

l’organizzazione e un valore per l’impresa. Nella maggior parte delle organizzazioni sono poche le persone assolutamente insostituibili, ma sono anche poche o forse nessuna quelle sostituibili senza che vada perso alcunché. In ultima istanza resta però vero che l’organizzazione in una logica manageriale è vista come strumento che viene plasmato da chi detiene il potere per raggiungere i propri scopi. La prospettiva sociologica si concentra invece sui singoli individui; essa è tesa a esplorare e interpretare il comportamento delle persone nei contesti organizzativi, le motivazioni che le animano, i vincoli posti dall’organizzazione al loro agire e alle loro aspirazioni. Per certi aspetti la prospettiva sociologica si contrappone a quella precedente: l’organizzazione non è un mezzo per realizzare dei fini, ma un contesto, un ambiente sociale nel quale le persone si realizzano; la prospettiva è dunque totalmente soggettiva e, anzi, il sistema organizzativo in senso oggettivo perde significato, e l’organizzazione non necessariamente ha una sua razionalità e persegue obiettivi chiari. Più spesso è il risultato casuale della somma dei comportamenti individuali. Nella prospettiva sociologica vengono piuttosto approfonditi gli aspetti culturali delle organizzazioni, i processi e le relazioni interpersonali, le caratteristiche dell’organizzazione in relazione ai valori e alle culture che la circondano. Ad esempio un modello organizzativo che è stato ampiamente studiato secondo una prospettiva sociologica è quello dei distretti industriali, nei quali molte aziende di dimensioni piccole o medie e specializzate in produzioni simili o complementari si sviluppano contemperando competizione e collaborazione. L’indubbio successo di alcuni distretti è stato posto in relazione alle caratteristiche socioeconomiche del territorio, alle culture omogenee e condivise tipiche delle aree locali, alle forme del microcapitalismo familiare e dell’imprenditorialità diffusa, allo stesso sovrapporsi della figura dell’imprenditore-capitalista a quella del lavoratore-operaio. Vi è infine la prospettiva politica, che è volta a indagare i modi in cui i grandi sistemi sociali – il capitalismo e l’economia di mercato, il socialismo, la socialdemocrazia ecc. – o le tendenze di fondo delle società avanzate – la globalizzazione, la società postindustriale basata sull’informazione e sui servizi ecc. – si organizzano e si servono di “organizzazioni” ben precise per regolare i rapporti sociali, canalizzare i conflitti e consentire alle élite di esercitare il potere. Come la prospettiva manageriale, anche quella politica guarda all’organizzazione come a un mezzo, ma rivolto a fini più ampi e talvolta inconsapevoli: le caratteristiche delle organizzazioni vengono cioè valutate in relazione alla loro capacità di generare consenso, di esercitare il potere e di distribuire la ricchezza. Ad esempio, la grande impresa automobilistica giapponese del secondo dopoguerra è stata studiata anche come macchina organizzativa capace di generare consenso e ridurre i conflitti sindacali, in cambio di un sistema basato sull’impiego a vita e sul prendersi cura dell’intero nucleo familiare del dipendente, dagli studi dei figli alle cure mediche al tempo libero; la metafora è quella dell’azienda-mamma che accompagna il dipendente “dalla culla alla

6 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

tomba”. L’importanza simbolica che ha rivestito nel XX secolo il settore automobilistico, l’industria delle industrie, è tutta riassunta da due termini evocativi derivati dai nomi di due giganti del settore: Toyota e Ford. Infatti, per designare il modello dell’azienda-mamma che genera consenso a tutto beneficio della produttività è stato coniato il termine di toyotismo, contrapposto a quello di fordismo che identifica invece il modello della grande impresa occidentale nella quale vi è nettissima separazione tra management e forza-lavoro, il consenso non è un obiettivo e la flessibilità del mercato del lavoro garantisce la sostituibilità continua della maggior parte dei membri dell’organizzazione. Un altro esempio di prospettiva politica degli studi organizzativi riguarda il modello del cosiddetto capitalismo renano e della cogestione: le grandi imprese tedesche al cui capitale partecipano anche le banche e alla cui gestione contribuiscono anche i sindacati. Più recentemente le grandi multinazionali, capaci di imporre marchi commerciali globali e di spostare le produzioni alla ricerca delle condizioni più favorevoli, sono state accusate di essere lo strumento di élite capitaliste senza volto in grado di spremere profitti ovunque, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, dove più deboli sono le istituzioni e scarsa la protezione dei diritti delle persone. Per gli scopi di questo libro la prospettiva manageriale è quella di maggiore interesse. Essa ha due implicazioni che verranno sviluppate in dettaglio: Progettare l’organizzazione

1.3

Le tecnologie

• l’attenzione prevalente va alla progettazione organizzativa, cioè alla definizione degli aspetti formali, strutturali e sistemici dell’organizzazione; in sostanza si tratta di forgiare gli strumenti organizzativi per il raggiungimento degli obiettivi istituzionali, pur nella consapevolezza che nessuna organizzazione funziona “sulla carta”, prescindendo cioè dalle caratteristiche delle persone che la popolano e delle loro relazioni; • la prospettiva manageriale implica sostanzialmente un approccio contingente e normativo. Si tratta cioè di individuare criteri che, a seconda delle situazioni, delle variabili tecnologiche e settoriali, degli obiettivi che si vogliono raggiungere – in questo sta la contingenza –, indichino al management l’assetto organizzativo migliore, la soluzione più efficace – e in questo sta la normatività.

Le tre questioni organizzative Il tipo di prospettiva – manageriale, sociologica e politica – non è l’unico asse di analisi. Esistono infatti tre grandi tematiche o questioni organizzative che attraversano un po’ tutta la storia dell’organizzazione e interessano tutte e tre le prospettive evidenziate (Bonazzi, 1989). Si tratta della questione tecnologica, di quella burocratica e di quella decisionale. La questione tecnologica (o industriale) affronta la relazione complessa tra le tecnologie e le variabili più propriamente organizzative

1. Introduzione all’organizzazione ) 7

Le norme

Le decisioni

come la specializzazione e il contenuto del lavoro individuale, la motivazione e il consenso degli attori. Si pensi agli enormi progressi compiuti dalle tecnologie di automazione negli ultimi decenni, in fabbrica come negli uffici: la tecnologia affianca e sostituisce il lavoro umano, talvolta lo migliora, talvolta lo cancella o lo stravolge, spesso consente di controllarlo meglio e di eliminare margini di discrezionalità e zone d’ombra che i lavoratori tendono a ritagliarsi. È quindi del tutto comprensibile che l’innovazione tecnologica volta ad automatizzare i processi aziendali abbia avuto pesanti implicazioni organizzative, alcune volte incontrando resistenze e altre servendo e assecondando modelli organizzativi ben precisi. In secondo luogo, gli studi organizzativi sono attraversati dalla questione burocratica, che affronta il rapporto tra i comportamenti degli attori che perseguono i propri scopi soggettivi e le norme che li regolano, in modo più o meno rigido. Il concetto di burocrazia, studiato originariamente dal sociologo tedesco Max Weber (1864-1920), definisce l’apparato amministrativo per l’esercizio dell’autorità formale. Gli esempi che immediatamente vengono alla mente sono le pubbliche amministrazioni (Ministeri, Regioni, Comuni, Università, Aziende sanitarie ecc.). Sono o sono state burocrazie anche le grandi imprese private, quelle industriali, ma anche quelle nei servizi, ad esempio banche, assicurazioni, compagnie telefoniche ecc. L’apparato burocratico è necessario alle grandi organizzazioni in quanto l’autorità, pur concentrata nelle mani dei vertici, non può essere esercitata da un numero ristretto di individui, ma ha bisogno di una macchina organizzativa in cui alcuni poteri vengono delegati seguendo una gerarchia. L’aspetto saliente della macchina burocratica è un insieme di norme generali che, applicate caso per caso, dettano i comportamenti e le decisioni, spersonalizzando le relazioni tra i soggetti nel tentativo di assicurare uniformità e continuità nelle attività. In questo senso la burocrazia è la forma razionale per le grandi organizzazioni che operano in un contesto stabile. Vi è infine la questione decisionale che affronta il modo in cui le organizzazioni arrivano a prendere le decisioni critiche, quelle che non possono essere incorporate nelle regole della macchina burocratica. La questione decisionale esplora come gli individui che hanno l’autorità di decidere interagiscono tra loro e arrivano a compiere le scelte avendo individuato le alternative possibili. Si pensi ad esempio ai processi e anche ai conflitti che portano le aziende a decidere le acquisizioni, le fusioni, le cessioni di rami di attività, lo sviluppo di nuove tecnologie o il lancio di nuovi prodotti e servizi. Si tratta di processi nei quali la comprensione delle implicazioni di ciascuna alternativa e la valutazione dei rischi e dei benefici richiedono il concorso di più attori. Sono situazioni nelle quali è necessario o comunque fortemente consigliabile creare consenso e mobilitare le competenze e le energie manageriali. Anche se la responsabilità finale della decisione spetta spesso a una sola persona – ad esempio l’imprenditore –, i processi che conducono alla decisione finale coinvolgono quasi sempre molti manager che portano visioni e interessi particola-

8 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Le risorse

ri ma anche competenze e informazioni di natura specialistica, indispensabili per arrivare a scelte informate e consapevoli. Nell’affrontare queste tematiche non si può prescindere dal rapporto tra decisioni e risorse. Nessuna organizzazione, per quanto grande e potente, ha a disposizione risorse – denaro, tempo, uomini, competenze, asset materiali e immateriali – che siano infinite. E, dunque, la bontà della decisione non è mai un parametro assoluto, ma deve commisurarsi alle risorse impegnate. La questione decisionale è quella dove l’organizzazione, intesa come studio della specializzazione e del coordinamento delle attività, e il management (la gestione aziendale), che appunto consiste principalmente nel prendere decisioni e nel realizzarle, si incrociano nel modo più stretto. A essa dedicheremo tutta la parte seconda del libro. In realtà, affronteremo a più riprese tutte e tre le grandi questioni sopra citate – tecnologica, burocratica e decisionale – mantenendo però una prospettiva prevalentemente manageriale (come illustrato nella Figura 1.1), e ponendo in secondo piano le prospettive sociologica e politica. Naturalmente è utile tenere sempre a mente la vastità e l’ampiezza di queste altre prospettive e non cadere nell’eccesso di ritenere che l’organizzazione sia completamente progettabile, controllabile e asservita al raggiungimento di scopi espliciti. Un rischio questo insito nella prospettiva manageriale.

Figura 1.1

LE PROSPETTIVE SULL’ORGANIZZAZIONE E LE GRANDI QUESTIONI ORGANIZZATIVE Prospettiva manageriale

Questione tecnologica Questo libro Questione burocratica

Questione decisionale

Prospettiva sociologica

Prospettiva politica

2

Organizzazione e crescita Specializzazione e coordinamento

SOMMARIO

2.1

Specializzazione e coordinamento

2.1 Le spinte verso la crescita j 2.2 Il ciclo di vita delle organizzazioni j 2.3 Specializzazione orizzontale e verticale j 2.4 I meccanismi di coordinamento j 2.5 I costi della specializzazione e del coordinamento j 2.6 Progettare l’organizzazione: microstruttura, macrostruttura e processi aziendali

Le spinte verso la crescita L’origine del problema organizzativo sta nella necessità, o quantomeno nell’opportunità, di suddividere il lavoro tra persone differenti al fine di migliorare l’efficienza. La suddivisione del lavoro conduce alla specializzazione degli operatori che in tal modo si concentrano e appunto si specializzano solo su alcune attività tralasciandone altre. Naturalmente vi sono modalità e forme diverse di specializzazione, cosa di cui parleremo in seguito. D’altra parte, maggiore è la specializzazione, maggiore è la spinta a ricercare le modalità più efficaci per garantire il coordinamento tra individui e tra aggregati di individui (le unità organizzative) che svolgono attività specializzate, le quali costituiscono solo una frazione del complesso di attività svolte dall’organizzazione. Specializzazione e coordinamento sono dunque due fenomeni che procedono di pari passo, due facce della stessa medaglia, che assumono importanza e criticità al crescere delle dimensioni dell’organizzazione. Nelle imprese e nelle istituzioni di grandi dimensioni i problemi organizzativi sono maggiori e le “soluzioni” sono più complesse. La crescita richiede maggiore specializzazione e introduce problemi di coordinamento. Non è possibile che tutti facciano tutto! In generale ciò sarebbe fonte di confusione e di inefficienze; occorre suddividere il lavoro, specializzarlo e coordinarlo. E più l’organizzazione cresce, più questa “tendenza fondamentale” diviene irrefrenabile. Organizzazione e crescita sono dunque due fenomeni intimamente collegati: la crescita pone problemi organizzativi sempre nuovi e, d’altra parte, senza un’organizzazione minimamente efficiente crescere è impossibile. Potremmo allora interrogarci sul perché e sul quando le imprese crescono di dimensioni. La questione è complessa e non è questa la sede per trattare le teorie della crescita. Intuitivamente è però facile rendersi conto che, per le imprese dei più svariati settori, esistono molteplici e potenti fattori di stimolo alla crescita: dallo sfruttamento delle

10 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE Spinte alla crescita

Freni alla crescita

Le unità organizzative

economie di scala alla ricerca delle sinergie tra business diversificati (economie di scopo) che sono possibili nelle attività finanziarie, di marketing, di distribuzione, di ricerca e sviluppo e di produzione. Inoltre, crescere è spesso necessario per poter poi accedere ai mercati finanziari e alle forme di finanziamento più evolute (ad esempio attraverso la quotazione borsistica). Ancora, essere grandi serve per attrarre le risorse umane più qualificate che sono invogliate da opportunità professionali che solo le imprese maggiori possono offrire. Infine, come spinta alla crescita non bisogna sottovalutare anche l’ambizione personale di imprenditori e manager, non solo attirati da maggiori profitti potenziali, ma certe volte, e in misura anche più grande, semplicemente desiderosi di potere e determinati a contare di più nella business community e nella società civile. Naturalmente esistono anche forze che si oppongono alla crescita. Se le tecnologie del settore non sono particolarmente sofisticate e le economie di scala non giocano un ruolo significativo (ad esempio nel settore tessile e in quello della meccanica), le imprese talvolta scelgono deliberatamente di rimanere piccole. Una motivazione frequente è la ritrosia dei piccoli imprenditori ad aprire l’accesso al capitale nel timore di perdere il controllo della propria azienda. Altre volte vi è il timore di perdere la flessibilità e l’agilità che le piccole dimensioni talvolta sembrano garantire meglio. In luogo delle grandi imprese possono allora affermarsi reti collaborative di piccole imprese. Tuttavia, al di là di queste considerazioni sul “piccolo è possibile, magari anche bello”, resta pur vero che la dinamica di crescita, laddove possibile, è comunque prevalente. Il punto di partenza della nostra riflessione è dunque semplice: le imprese in generale tendono a crescere di dimensione; mentre le imprese piccole hanno organizzazioni semplici, poco specializzate, con meccanismi di coordinamento prevalentemente informali, le imprese più grandi hanno inevitabilmente organizzazioni più complesse con una maggiore specializzazione del lavoro, ruoli e mansioni differenziati, meccanismi di coordinamento sofisticati e variegati. Con la crescita le organizzazioni tendono ad articolarsi in unità organizzative. Le unità organizzative sono strutture relativamente autonome che raggruppano individui che svolgono attività collegate e che rispondono a un unico capo. Sono piccole organizzazioni nell’organizzazione. Consideriamo la filiale di una banca: i diversi impiegati svolgono mansioni differenti – sportello, ufficio titoli, evasione di pratiche di finanziamento, concessione di mutui ecc. – e tutti rispondono al Direttore di filiale. È un microcosmo organizzativo con legami sociali e interazioni molto più frequenti al suo interno che con il resto dell’organizzazione. La banca nel suo complesso è composta da decine o centinaia di simili unità organizzative alle quali si aggiungono le unità organizzative centrali, ad esempio l’ufficio legale o l’unità per lo sviluppo dei sistemi e delle applicazioni informatiche. Similmente un’azienda industriale è spesso strutturata in funzioni – la produzione, l’ufficio tecnico per la progettazione, l’ufficio marketing e vendite, l’ufficio acquisti. A sua volta la funzione produzione può essere articolata in reparti o linee di produzione, specializzati in specifiche operazioni e tecnologie (i reparti) o dedicati a

2. Organizzazione e crescita ) 11

specifici prodotti (le linee). Si tratta di organizzazioni con livelli di aggregazione multipli, dove le unità più piccole vengono riunite in unità di dimensioni superiori. Maggiore è la dimensione dell’organizzazione più articolata e complessa è la struttura organizzativa formata da unità organizzative via via più numerose e diversificate. Al crescere delle dimensioni il concetto di specializzazione trascende la sfera individuale e si applica alle unità organizzative che sono aggregati di individui. Consideriamo due esempi differenti dal panorama delle grandi multinazionali: Panasonic (Caso 2.1) ed ENI (Caso 2.2). CASO

2.1

Panasonic: la crescita diversificata Panasonic è uno dei maggiori produttori mondiali nei settori dell’elettronica, con un catalogo di oltre 15.000 prodotti. Il gruppo opera attraverso diversi marchi molto noti, tra i quali Panasonic stesso, National (lanciato nel lontano 1927), Technics, Quasar, JVC (Victor Company of Japan), il noto marchio per audio e video di alta gamma e professionali, Sanyo (definitivamente acquisita nel 2009) e molti altri ancora. Nel 2011 il fatturato consolidato è stato di 8693 miliardi di yen (circa 80 miliardi di euro). La dimensione dell’organizzazione è imponente: 366.000 dipendenti distribuiti in 634 società operative. La struttura organizzativa è complessa e organizzata in tre macro-aree di business. A ciascuna area fanno riferimento interi settori di attività, dieci in totale. 1. Prodotti di consumo 1.1. AVC (audio-visual chain), che include i business dei prodotti di telefonia fissa e mobile, i prodotti per la fotografia, la ripresa e la riproduzione, i car stereo e i navigatori. 1.2. Home appliances, che include tutti i segmenti degli elettrodomestici, dei condizionatori e degli apparecchi per la cura della persona. 1.3. Global Consumer Marketing, che raggruppa tutta le attività di vendita, distribuzione e assistenza dei prodotti di consumo. 2. Dispositivi e componenti 2.1. Automotive systems, che raggruppa tutta la componentistica per il settore auto. 2.2. Industrial devices, che raggruppa semiconduttori, display, componenti elettronici e motori elettrici. 2.3. Energy, che include tutti i tipi di batterie e sistemi energetici, e i componenti per il settore fotovoltaico. 3. Solutions 3.1. System and Communications, che include tutti i sistemi e apparati per le comunicazioni fisse e mobile. 3.2. Eco Solutions (ex Matsushita Electric Works), che include impianti, cablaggi e dispositivi elettrici e soluzioni integrate per gli edifici e le abitazioni e tutti sistemi di illuminazione. 3.3. Healthcare, sistemi e apparecchi per il settore medicale. 3.4. Manufacturing Solutions, che include l’elettronica industriale, i sistemi di automazione e di saldatura. A questa gamma di prodotti e servizi si aggiunge quella di Sanyo, incorporata nel 2009, e gestita attraverso strutture organizzative ancora differenti. Lo spettro di prodotti, servizi e tecnologie del gruppo Panasonic è dunque sterminato. I mercati e i clienti sono molto diversificati e includono settori di consumo e settori industriali. Il gruppo opera in tutto il globo e la sua organizzazione geografica è strutturata in 7 macroregioni: 1) Giappone (headquarter); 2) Cina e Nordest Asia; 3) Sudest Asia e Oceania; 4) Europa; 5) Nord

12 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE America; 6) Sud America; 7) Russia, Asia centrale, Medio Oriente e Africa. Inoltre, ciascuno dei dieci settori è dotato di unità proprie di ricerca e sviluppo, di marketing e vendite e di produzione e opera con forte autonomia. Nel corso della sua storia quasi centenaria, Panasonic è cresciuta costantemente diversificandosi. Fondata a Osaka nel 1918 da Konosuke Matsushita con il nome di Matsushita Electric, l’azienda iniziò la produzione di prese e altro materiale elettrico, cavalcando lo sviluppo e l’elettrificazione del Paese. Nel corso degli anni Venti la Matsushita portò sul mercato diversi prodotti innovativi – ad esempio il ferro da stiro elettrico, le lampade per bicicletta alimentate a batteria e gli apparecchi radio –, iniziando una diversificazione di prodotto accompagnata dall’affermazione del marchio National. Sebbene i prodotti raramente fossero delle novità in senso assoluto, Matsushita seppe cogliere il potenziale di massa raggiungendo immediatamente elevati volumi e costi molto contenuti che rendevano i prodotti accessibili al più vasto pubblico. Il fondatore stesso, che ebbe un’infanzia sull’orlo dell’indigenza, sintetizzò questa vocazione in un celebre passaggio di un discorso pubblico del 1932: “La nostra missione come produttore è creare abbondanza materiale, fornendo beni in quantità e a costi contenuti così come l’acqua che sgorga dalle fontane pubbliche. Questo è il modo attraverso il quale possiamo sconfiggere la povertà, portare un po’ di felicità nella vita delle persone e rendere il mondo un posto migliore”. Nel 1933 Matsushita rivoluzionò l’organizzazione aziendale, introducendo le “divisioni” e un corrispondente sistema di management che diede forte autonomia a queste “aziende nell’azienda”. Ciascuna divisione era dotata di proprie funzioni di amministrazione, produzione, vendita, ricerca ecc. Verso la metà degli anni Trenta l’azienda iniziò una significativa espansione estera, una strategia allora inusuale. Nell’immediato dopoguerra la missione aziendale fu quella di contribuire alla rinascita del Paese distrutto dalla guerra attraverso l’immediata ripresa delle produzioni su vasta scala. Convinta che tale rinascita dovesse passare attraverso lo sviluppo tecnologico, l’azienda arrivò a siglare nel 1952 un ampio accordo con Philips per la cooperazione nella ricerca e sviluppo. Questo passaggio fondamentale segnò l’ingresso nel settore nascente dell’elettronica. Nella seconda metà degli anni Cinquanta la crescita fu impressionante: sospinta dalla domanda interna e dal potenziale di massa del mercato degli elettrodomestici, Matsushita quadruplicò il volume di affari e raddoppiò quasi il numero di dipendenti in soli cinque anni. Contemporaneamente operò un’ampia diversificazione, introducendo la sua prima lavatrice (1951), il televisore (1952), il frigorifero (1953), la radio portatile (1956), il condizionatore (1956) e il registratore a nastro (1956). Forte di questi successi interni l’azienda sbarcò stabilmente negli Stati Uniti nel 1959. Verso la metà degli anni Sessanta un periodo di stagnazione dell’economia giapponese causò seri problemi all’azienda, che procedette a una ristrutturazione delle unità commerciali e dei processi manageriali. Tuttavia ciò non arrestò la capacità innovativa e l’ulteriore diversificazione attraverso l’introduzione del tv color (1960), del fax (1962), del forno a microonde (1966), del registratore a cassette (1967), del Varistor all’ossido di zinco, delle macchine a inserzione automatica dei componenti elettronici (1969). Negli anni Settanta, Matsushita si affermò come colosso del settore elettronico vincendo la memorabile battaglia contro Sony per affermare lo standard di videoregistrazione VHS. Effettuò investimenti massicci nel settore elettronico stabilendo centri di ricerca avanzati negli Stati Uniti. Acquisì anche la divisione TV di Motorola. Nel 1982 entrò come attore primario nel mercato nascente dei cd player. Nel 1987, approfittando della svolta del governo di Pechino, fu la prima corporation straniera a sbarcare in Cina attraverso una joint venture. Con l’acquisizione di MCA (1990), Matsushita si diversificò ulteriormente nel settore dell’entertainement, ma nel 1995 ne cedette il controllo, ritornando a una sua vocazione più prettamente industriale. Gli anni Novanta videro per Matsushita (oggi definitivamente Panasonic) una marea inarrestabile di nuovi prodotti e nuovi mercati: dal dvd ai telefoni cellulari, dai televisori al plasma ai notebook, dalle batterie ultrasottili al litio ai sistemi di navigazione per auto. Nel 2008 l’azienda cambiò definitivamente nome in Panasonic. Il processo di diversificazione e di crescita, durato ottant’anni, ha prodotto un’organizzazione dall’enorme complessità, articolata in migliaia di unità organizzative, con uno spettro amplissimo di competenze tecniche e gestionali e basata su meccanismi di coordinamento sofisticati.

2. Organizzazione e crescita ) 13

CASO

2.2

ENI: la crescita correlata L’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) è stato creato nel 1953 per dare l’indipendenza energetica al Paese che usciva dalla guerra e iniziava allora un percorso di rapido sviluppo economico e industriale. Sviluppatosi grazie alle straordinarie capacità di Enrico Mattei, negli anni Novanta l’ENI viene trasformato in una SpA quotata a Piazza Affari e a Wall Street. Ad oggi lo Stato italiano conserva circa il 30% del capitale ed ENI rappresenta la prima impresa italiana per capitalizzazione (circa 66 mld di euro a maggio 2012, dopo aver superato il tetto dei 100 mld nel 2007, prima della grande crisi finanziaria). Oggi conta oltre 80.000 dipendenti ed è presente in 85 Paesi. Nel 2011 ha riportato ricavi consolidati per 110 mld di euro e un utile netto di 6,9 mld di euro. ENI è uno dei giganti mondiali del settore energetico, concentrato sul petrolio e il gas naturale, ma attivo anche nella generazione dell’energia elettrica, nell’ingegneria e nelle costruzioni e nella petrolchimica. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso ENI si è notevolmente diversificata nella chimica con alterne fortune. A partire dagli anni Novanta si è concentrata sul settore di elezione, quello energetico (petrolio e gas) e in particolare sugli stadi a monte della filiera (upstream), ovvero sull’esplorazione e sulla produzione. La diversificazione appare dunque limitata, soprattutto in relazione alle dimensioni del gruppo, e comunque riguarda attività strettamente correlate tra loro, in ultima analisi legate al settore energetico. La crescita è stata sostenuta dallo sviluppo sui mercati internazionali, attraverso il tentativo riuscito di assicurarsi l’accesso alle maggiori fonti di greggio e di gas. Già negli anni Novanta ENI concludeva accordi in Asia centrale con diversi Stati emersi dal disfacimento dell’Unione Sovietica, al fine di assicurarsi l’accesso ai giacimenti di gas naturale, divenendo così uno dei maggiori operatori nell’area. Nel 2004, alla testa di una cordata internazionale si è assicurata i diritti di esplorazione e sfruttamento del più vasto e promettente campo petrolifero in Arabia Saudita. Il 2006 è l’anno del grande accordo con Gasprom, che darà all’ENI l’accesso al gas russo fino al 2035. Più recentemente il gruppo ha proseguito nella diversificazione geografica delle fonti energetiche consolidando la sua presenza in Sudamerica e in Africa. Oggi il gruppo è articolato in tre aree di business fondamentali: Exploration & Production, Gas & Power, Refining & Marketing, alle quali si aggiungono le attività di ingegneria e costruzioni per il settore energetico attraverso la controllata Saipem, le attività petrolchimiche e quelle diversificate. La struttura organizzativa del gruppo è estremamente complessa e articolata su scala globale, con molteplici unità organizzative geograficamente disperse negli 85 Paesi in cui opera il gruppo e numerose funzioni centrali di staff per assicurare il coordinamento. Nonostante la crescita degli ultimi decenni non abbia portato a una grande diversificazione delle attività e anzi si sia concentrata sul core business, la complessità organizzativa, il livello di specializzazione e il fabbisogno di coordinamento all’interno del gruppo sono notevoli.

I casi Panasonic ed ENI illustrano processi di crescita diversi, con motivazioni differenti: nel primo caso, diversificazione, economie di scopo e affermazione nei settori tecnologici emergenti anche grazie a una forte capacità innovativa; nel secondo caso, ricerca di economie di scala e conquista di posizioni competitive nel mercato globale, rimanendo concentrati sul settore energetico. In entrambe le organizzazioni la complessità è considerevole. Infatti, nel caso della multinazionale giapponese la grande diversificazione richiede strutture specializzate con competenze e know-how molto diversi e risorse dedicate che non è cer-

14 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

to semplice coordinare. Nel caso ENI, l’enorme scala delle operazioni si presta a notevoli specializzazioni e la copertura geografica globale richiede strutture organizzative disperse, anche in questo caso con complesse problematiche di coordinamento. Questi due esempi illustrano come, pur in presenza di motivazioni differenti, le potenti spinte alla crescita implichino complessità organizzative crescenti.

2.2

Il ciclo di vita delle organizzazioni Le organizzazioni, al pari degli individui, sono soggette a un ciclo di vita. Dopo una o più fasi di crescita inevitabilmente inizia il declino e, spesso, la contrazione dimensionale che può concludersi nell’estinzione o nell’incorporazione da parte di altre organizzazioni più vitali. Il Caso 2.3 illustra una vicenda aziendale, quella della Bodin, lunga oltre 40 anni e che consente di capire meglio come, con la crescita e il necessario progredire della specializzazione, l’organizzazione si modifica, emergono problemi nuovi e cambiano i meccanismi di base per il coordinamento.

CASO

2.3

Bodin Le origini e l’idea imprenditoriale Nel 1955 Edmondo Bodin, classe 1930, ereditò dal padre, prematuramente scomparso, un piccolo laboratorio tessile in provincia di Milano che produceva nastri tessuti di seta e raso per la corsetteria femminile. Le attrezzature consistevano essenzialmente in due vecchi telai a navetta per la produzione di nastri continui e in un rozzo orditoio manuale. Nel laboratorio oltre a Bodin erano impiegate due lavoranti. Il processo era veramente semplice. Le bobine di filato che il Bodin acquistava da alcune grandi filature nel Biellese venivano preparate manualmente dalle lavoranti per formare le rocche di ordito che alimentavano i telai a navetta. Il nastro continuo che usciva dai telai veniva ogni tanto tagliato e avvolto manualmente su appositi rocchetti dalle due lavoranti. Il prodotto finito veniva così consegnato ai clienti che erano soprattutto produttori di corsetteria femminile. L’organizzazione era del tutto informale, non esisteva alcuna chiara suddivisione dei compiti tra le due lavoranti e, sebbene una fosse più esperta e precisa, entrambe partecipavano a tutte le operazioni del processo: l’orditura, la tessitura a telaio, la preparazione dei rocchetti di nastro e l’inscatolamento. Lo stesso Bodin passava molto tempo in laboratorio e contribuiva anche alle stesse operazioni manuali. Per il resto del tempo, al volante della sua Fiat 1100, percorreva avanti e indietro le strade della pianura con il bagagliaio pieno di nastri da consegnare ai clienti e con la speranza di acquisire nuove commesse. Alla fine degli anni Cinquanta gli affari però non andavano granché bene. La moda femminile stava rapidamente cambiando e la corsetteria stava cadendo in disuso. Edmondo Bodin, giovane e ambizioso, vedeva con chiarezza la crisi dei suoi clienti e capì che sarebbe stata anche la sua. Ed ebbe un’idea: le etichette tessute! Negli anni del boom economico la pianura padana si andava riempiendo di fabbriche e laboratori tessili, dalla maglieria alle confezioni. Tutti i capi avevano bisogno di etichette, dapprima solo per identificare le taglie, suc-

2. Organizzazione e crescita ) 15 cessivamente per qualificare la composizione dei tessuti e le specifiche di lavaggio e per rappresentare il marchio. Se Bodin avesse trovato il modo di tessere un nastro continuo sul quale le diciture fossero rappresentate in un colore di contrasto, non avrebbe dovuto fare altro che tagliare il nastro tra una dicitura e l’altra per avere tante etichette uguali. Bodin non era un ingegnere e non aveva nemmeno finito di studiare, costretto a prendere in mano il laboratorio alla morte del padre. Ma era molto ingegnoso. Recuperò testi e dispense di tecnologia tessile. Varcò le Alpi, andò in Svizzera e in Germania dai grandi produttori di macchinari tessili (Sulzer e Benninger) e scoprì che la tecnologia che faceva al caso suo esisteva già: la macchina jacquard! Questa macchina può comandare l’alzata dei fili di ordito sul telaio, a seconda dei vuoti o dei pieni incontrati su un cartone perforato opportunamente predisposto. A ogni battuta del telaio le navette recanti il filato per la trama passano sopra o sotto i singoli fili di ordito, a seconda del fatto che il cartone perforato consenta o meno l’alzata del filo di ordito. Se il colore della trama e quello dell’ordito sono in contrasto, ad esempio ordito bianco e trama nera, il tessuto risultante riporta un motivo (scritta o disegno) in nero sul fondo bianco. Infine, il cartone ripiegato su se stesso e cucito a forma di cingolo consentiva di tessere sequenzialmente la stessa etichetta sull’ordito per migliaia di volte. Inoltre, su un singolo telaio si potevano affiancare fino a 30 piste di ordito. Edmondo Bodin acquistò una macchina jacquard, la montò, adattandola con l’aiuto di un fabbro, su uno dei suoi telai e fece alcune prove. C’erano dei problemi tecnici e la macchina si inceppava spesso. Ma il risultato era sorprendente. Una domenica mattina del 1960 Bodin portò tutto fiero sua moglie Miranda a vedere il prodigio: un telaio sferragliante che vomitava trenta nastrini bianchi; sua moglie si chinò, ne raccolse uno e lo osservò: era alto circa un centimetro e c’era scritto Edmondo Bodin… Edmondo Bodin… Edmondo Bodin all’infinito. In un angolo una delle lavoranti, con un paio di forbici, stava tagliando uno di quei nastri in tante striscioline uguali con la scritta “Edmondo Bodin”. Erano le etichette. La crescita degli anni Sessanta e Settanta Nei mesi successivi, Edmondo Bodin, con alcune prove delle sue etichette, si presentò alla porta di alcuni produttori di maglieria. Si trattava di aziende destinate a conoscere un grande sviluppo nei decenni successivi, marchi come Ragno, Liabel e Sarah Lee. Ebbe successo e acquisì alcuni ordini di prova per piccoli quantitativi. Ben presto però gli ordini arrivarono più massicci, per centinaia di migliaia di pezzi. Ora il laboratorio non bastava più. Bodin si indebitò e acquistò altri 2 telai, più moderni, e altre macchine jacquard. Assunse altre 4 lavoranti e le affidò alla più esperta perché imparassero il mestiere. Le assegnò la responsabilità di supervisionare il lavoro e di prendere le piccole decisioni quotidiane in laboratorio. In quella fase il lavoro era però abbastanza disorganizzato e non vi era una chiara attribuzione di compiti. Inoltre, i quattro telai sfornavano nastri continui senza sosta e spesso le lavoranti erano tutte impegnate a tagliare le etichette a mano, lasciando i telai a se stessi, con inceppamenti frequenti che danneggiavano anche i prodotti. Nel 1964 Bodin, di ritorno da un’importante fiera tessile a Hannover, acquistò una macchina americana per il taglio automatico delle etichette, il ripiegamento degli orli e la loro cucitura. Alle operaie non restava che inserire le etichette in apposite scatoline di cartone, pronte per la consegna. Edmondo Bodin passava ormai la maggior parte del suo tempo a visitare i clienti che nel frattempo si erano fatti più esigenti. Richiedevano etichette sempre più complicate e di altezze variabili. Assunse dunque due giovani appena diplomati da un noto istituto tecnico con specializzazione tessile, con lo scopo preciso di affidare a uno i disegni delle etichette in scala e all’altro la progettazione e la preparazione dei cartoni per le macchine jacquard. Po-

16 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE chi mesi dopo assunse un altro giovane diplomato per la manutenzione e la supervisione tecnica delle macchine tessili. Nel 1968 la dimensione del giro di affari lo spinse ad altri cospicui investimenti. Costruì un nuovo stabilimento, quadruplicando lo spazio coperto. Acquistò altri telai, adesso ne aveva ben 28, e soprattutto un nuovo orditoio che poteva tenere dietro alla capacità produttiva dei telai. L’azienda impiegava ora circa 35 persone. Non appena trasferitosi nella nuova sede Edmondo Bodin realizzò che il modo informale e flessibile con il quale si era proceduto fino ad allora era fonte di problemi e disorganizzazione. Si rendeva conto che solo le operaie più esperte erano in grado di svolgere tutte le attività del ciclo di trasformazione, mentre le nuove assunte avrebbero dovuto impratichirsi in alcune specifiche fasi di lavorazione. Con l’aiuto dei tecnici e degli esperti messigli a disposizione dalla Sulzer, organizzò l’azienda in 4 reparti produttivi: orditura, tessitura, taglio e piega e confezionamento. Gli addetti furono suddivisi e assegnati in modo permanente ai reparti. Furono sviluppati programmi di addestramento mirati a far acquisire le capacità di uso delle macchine di ciascun reparto. Solo alcuni addetti più anziani conservarono una significativa polivalenza, ovvero le conoscenze e le capacità per operare in tutti i reparti e con tutte le macchine. Furono sviluppate procedure operative che prescrivevano agli addetti che cosa fare esattamente, quale era la sequenza corretta delle operazioni da svolgere, che cosa fare in caso di inceppamento delle macchine, almeno nei casi più frequenti. Le procedure furono anche codificate in “manuali di lavoro” affinché vi fossero riferimenti certi per tutti gli addetti e si potesse più rapidamente rendere operativi i nuovi assunti. Anche nell’area della progettazione il lavoro fu suddiviso e specializzato: 2 disegnatori preparavano in scala 30 : 1 i disegni delle etichette da produrre su un’apposita carta retinata, mettendo in evidenza ogni singolo filato e il percorso in trama e ordito di ciascuna fibra; altri 2 addetti (i cartonisti) preparavano i cartoni perforati e i cingoli per le macchine jacquard. L’espansione della Bodin continuò negli anni Settanta. Edmondo Bodin, sempre attento all’innovazione tecnologica, sostituì i telai più vecchi con macchine nuove, che egli stesso modificò e adattò, arrivando a realizzare un prodotto di qualità superiore e tessuto con un massimo di 20 colori differenti, mentre la tecnologia dei diretti concorrenti non riusciva a gestire più di 5 colori sulla stessa etichetta. In sostanza l’azienda era in grado di realizzare, accanto alle normali etichette a 2 o 3 colori, anche le cosiddette “etichette multicolor”, molto più remunerative. Forse ancora più importante fu la scelta tecnologica nel reparto di taglio e piega. Bodin optò per le macchine a taglio meccanico (a coltello), seguito dalla piega e cucitura degli orli liberi. Questa tecnologia, sebbene costosa perché aggiungeva la fase di cucitura degli orli, consentiva di ottenere etichette qualitativamente perfette, di gran lunga superiori a quelle in cui le operazioni di rifinitura finale venivano eseguite tramite la termosaldatura, allora prevalente ma che lasciava il margine rigido, fastidioso soprattutto nei prodotti di maglieria. Nel 1977, notando che le sue macchine di taglio e piega si inceppavano spesso, ne modificò una, più per hobby forse, invertendo la sequenza di alcune operazioni. Spedì i disegni al fornitore americano che incorporò in modo stabile la modifica e in segno di gratitudine gli regalò una macchina nuova. La complessità organizzativa e i primi segni della crisi Verso la metà degli anni Ottanta la Bodin era il leader nazionale nella sua nicchia di mercato, contava circa 50 addetti e 40 telai, con una produzione annua attorno ai 200 milioni di pezzi. Il fatturato si aggirava sui 15 miliardi di vecchie lire (circa 8 milioni di euro). I clienti della Bodin erano le principali industrie tessili e di confezioni prevalentemente concentrate in Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Canton Ticino, Tirolo e Savoia. Già da tempo Edmondo Bodin non era più in grado di seguire questi mercati da solo. Aveva assunto alcuni venditori e ingaggiato diversi agenti e, nel 1981, un responsabile commerciale.

2. Organizzazione e crescita ) 17 La varietà dei prodotti che gli venivano richiesti e le esigenze di personalizzazione dei clienti crescevano senza sosta. Edmondo Bodin si rese conto che occorreva programmare con cura l’attività produttiva per limitare la confusione nei reparti e i ritardi nel processo produttivo. Assunse dunque un perito industriale con una specializzazione in pianificazione della produzione, e che aveva già un po’ di esperienza in un’altra azienda tessile. Gli affidò il compito di programmare la produzione su base settimanale, ovvero decidere che cosa produrre, su quali macchine e per quali clienti. I programmi di produzione venivano passati ai responsabili dei reparti e questi dovevano organizzare il lavoro come meglio ritenevano, purché alla fine della settimana i quantitativi richiesti fossero stati prodotti. La gestione migliorò notevolmente e i ritardi diminuirono. A quell’epoca la struttura organizzativa della Bodin poteva essere rappresentata come nella Figura 2.1. L’organizzazione era ancora piuttosto semplice e il Bodin gestiva in prima persona la maggior parte delle unità organizzative, incluso il reparto tecnico (disegnatori e cartonisti) e i reparti di produzione.

Figura 2.1

LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA DELLA BODIN Presidente e Amministratore delegato (E. Bodin)

Amministrazione

Responsabile commerciale

Reparto orditura (4)

Reparto tessitura (21)

Taglio e piega (4)

Confezionamento (3)

Venditori (2) Agenti (2)

Programmatore della produzione (1)

Officina (2)

Magazzino (1)

Disegnatori (2)

Reparto cartoni (2)

Impiegati (3)

Le unità organizzative riportano anche tra parentesi il numero di addetti.

Due anni dopo, nel 1983, introdusse una nuova organizzazione in fabbrica, anche sulla base dei consigli di un consulente. Dopo molte incertezze, Bodin si risolse a specializzare una parte della tessitura nella produzione delle sole etichette multicolor, dedicandovi i telai più sofisticati e le operaie più esperte. Agli altri telai e agli altri addetti lasciò la produzione delle etichette standard. Da un lato egli si rendeva conto che specializzare una parte delle risorse umane e tecnologiche sulla produzione più complessa gli avrebbe consentito un maggiore livello di servizio ai clienti (rapidità e puntualità) e anche una maggiore efficienza produttiva. Dall’altro però temeva di dover fare investimenti in nuove macchine e non sapeva se sarebbe stato effettivamente in grado di saturarne la capacità. Alla fine prevalse la logica della specializzazione, che fu successivamente estesa anche al reparto di taglio e piega. In pratica egli creò due linee di produzione completamente indipendenti e specializzate per prodotto. Verso la metà degli anni Ottanta lo scenario competitivo cambiò rapidamente. La tecnologia per la stampa a inchiostro delle etichette si sviluppò notevolmente. Sebbene la qualità del

18 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE prodotto finito fosse nettamente inferiore, anche i costi di produzione lo erano. Alcuni clienti, a loro volta pressati dalla concorrenza dei produttori asiatici a basso costo, abbandonarono progressivamente la Bodin che cercò di reagire migliorando ancora la sua capacità di adattamento e personalizzazione e la qualità delle sue etichette. Verso l’estinzione Nella prima metà degli anni Novanta la Bodin sopravvisse con difficoltà alla crisi spaventosa dei suoi clienti, nei settori della maglieria e delle confezioni. Così come, negli anni Sessanta, questi settori avevano trascinato la Bodin verso la crescita e il successo, allo stesso modo ora ne stavano affossando le prospettive. La Bodin aveva anche un problema organizzativo tipico della piccola impresa, quello dell’eccessivo accentramento decisionale. Edmondo Bodin, classico esempio di self-made man italico, era sempre rimasto quello che era all’inizio: un grandissimo lavoratore e un tecnico eccezionale che conosceva le sue macchine e i suoi prodotti come le sue tasche e che delegava poche responsabilità ai suoi collaboratori. Era capace di piombare in reparto in qualunque momento per interferire nella più piccola decisione e, addirittura, per mettere egli stesso le mani su una macchina. Pensava che il suo prodotto fosse superiore. Guardava al cambiamento e alla concorrenza aggressiva dei produttori di etichette stampate con un misto di superiorità e di nostalgia per i tempi andati, quando “si poteva lavorare bene”. Prontissimo ad accogliere le esigenze di clienti sofisticati, era poco incline a sviluppare approcci di marketing innovativi e anche a ripensare il suo business e le sue tecnologie. Non vedeva con favore alcune innovazioni fondamentali nelle tecnologie tessili come i telai ad ago e a getto d’aria, che aumentavano enormemente la velocità di lavorazione e la produttività perché, a suo dire, peggioravano la qualità e limitavano le possibilità di realizzare etichette tessute complesse. Non ne acquistò mai nemmeno uno. Fatto ancora più emblematico, non cavalcò la rivoluzione informatica, non introdusse i computer che, con le applicazioni CAD-CAM, gli avrebbero consentito di pilotare le macchine jacquard via software, eliminando la costosa fase di preparazione dei cartoni. Edmondo Bodin aveva due figlie. Già alla fine degli anni Ottanta, si oppose decisamente a che entrassero in azienda spingendole in ogni modo a fare altro. Nel 1999, stanco e sfiduciato sul futuro, decise di vendere. Trattò dapprima con un fondo chiuso che avrebbe voluto rilevare la sua azienda per fonderla con un’altra che operava prevalentemente nel settore delle etichette stampate. Si fece l’idea non del tutto errata che le “sinergie” di cui gli parlavano gli acquirenti avrebbero portato al licenziamento della maggior parte dei suoi dipendenti. Preferì agire altrimenti. Visitò personalmente tutti i suoi clienti e fornitori, con lo scopo di trovare un nuovo impiego per ciascuno dei suoi dipendenti. Grazie alla reputazione che si era costruito riuscì a ricollocare oltre 30 persone. Gli altri andarono anticipatamente in pensione o trovarono altri impieghi autonomamente. Liquidò quindi l’azienda, vendendo i macchinari e cedendo il terreno. Oggi su quel terreno sorge una concessionaria di auto giapponesi.

2.3

Crescita e frammentazione

Specializzazione orizzontale e verticale Il caso Bodin si presta a molte considerazioni sullo sviluppo delle organizzazioni. Ci consente anzitutto di osservare come le diverse fasi del ciclo di vita siano accompagnate da trasformazioni organizzative significative. Al crescere della dimensione si manifesta quella tendenza inarrestabile che è la frammentazione dei processi in attività più semplici, che vengono svolte da operatori differenti. In realtà questo feno-

2. Organizzazione e crescita ) 19

meno è spesso il frutto di un processo più complesso. Consideriamo il caso Bodin. Con la crescita degli anni Sessanta e Settanta Edmondo Bodin si rende conto di dover meglio organizzare il lavoro, e con il supporto dei fornitori di macchinari compie un’analisi dettagliata delle attività, che porta a un’organizzazione basata sui reparti con attribuzioni di compiti limitati a ciascuno degli operatori. Il processo di specializzazione avviene dunque in due stadi, o meglio lungo due dimensioni. In primo luogo si realizza la separazione tra la progettazione del lavoro e la sua esecuzione, nel senso che il “chi fa che cosa” e le modalità operative vengono stabiliti a priori da qualcuno che non necessariamente coincide con chi svolge il lavoro successivamente. Questo aspetto della divisione del lavoro prende il nome di specializzazione verticale. Essa trova il suo fondamento teorico in uno dei padri delle teorie organizzative classiche, il già citato F.W. Taylor, che postulò la necessità di un approccio scientifico e razionale all’organizzazione del lavoro. Attraverso l’analisi dettagliata dei movimenti e dei tempi del lavoro, l’approccio taylorista si propone di semplificare e razionalizzare le attività, eliminando quelle inutili. La specializzazione verticale del lavoro è dunque insita nell’approccio scientifico. Di fatto la separazione tra progettazione ed esecuzione ne implica un’altra, gravida di conseguenze: quella tra esecuzione e controllo. L’ambiente sociale di lavoro viene a essere separato in due gruppi: coloro che eseguono il lavoro e coloro che controllano l’operato degli esecutori. Il secondo stadio del processo di specializzazione, che porta a parcellizzare il lavoro attribuendo poche semplici attività a ciascuno degli operatori, prende il nome di specializzazione orizzontale. La specializzazione orizzontale porta con sé il proliferare delle mansioni, ovvero delle diverse denominazioni degli insiemi di compiti attribuibili a una singola persona (il concetto di mansione verrà ripreso nel capitolo 4). Più tali insiemi sono ristretti e includono compiti e competenze limitati, maggiore sarà il loro numero. La Figura 2.2 illustra un pro-

Figura 2.2

LA SPECIALIZZAZIONE DEI PROCESSI

Processo non specializzato

Attività 1

Attività 2

Attività 3

Risultato

Attività 1

Attività 2

Attività 3

Risultato

Processo specializzato

20 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Figura 2.3

LEGAME TRA DIMENSIONE E SPECIALIZZAZIONE

70 60

Numero mansioni

50 40 30 Imprese industriali tedesche (Fonte: Kieser, 1973) Imprese industriali e di servizio inglesi (Fonte: Child, 1972)

20 10 0 0

Specializzazione e dimensione

2.3.1

500

1000 1500 2000 Numero addetti

2500 3000

cesso aziendale non specializzato in cui un unico operatore svolge tutte le attività e uno orizzontalmente specializzato, in cui le diverse attività sono svolte da persone differenti. Il legame tra specializzazione orizzontale e dimensione è immediato. Ad esempio, in una piccola azienda sarà facile trovare un’unica mansione di responsabile dell’amministrazione della finanza e del controllo di gestione, mentre in una grande azienda sarà più probabile trovare tre mansioni distinte – un responsabile dell’amministrazione, un responsabile della finanza e, infine, un responsabile del controllo. Questo legame è stato anche dimostrato empiricamente da diverse ricerche. La Figura 2.3 illustra come in diversi settori al crescere della dimensione cresce la specializzazione misurata attraverso il numero di mansioni differenti rinvenute.

I vantaggi della specializzazione Ma quali sono i vantaggi della specializzazione orizzontale? Dopo più di due secoli la più efficace descrizione è ancora quella, celeberrima, della fabbrica di spilli di Adam Smith illustrata nel box seguente.

La fabbrica di spilli di Adam Smith Già nel 1776 Adam Smith nel suo famoso La ricchezza delle nazioni così racconta l’estrema divisione del lavoro (specializzazione orizzontale), osservando il modo in cui era organizzata la produzione degli spilli in una manifattura all’epoca della prima rivoluzione industriale inglese: “Un uomo tira il filo di metallo, un altro lo tende, un terzo lo taglia, un quarto lo appunta, un

2. Organizzazione e crescita ) 21 quinto lo arrota all’estremità in cui deve farsi la testa, operazione che richiede due o tre operazioni distinte, collocarla è un’operazione particolare, così come pulire gli spilli e il disporli dentro la carta”. Smith annota che una decina di uomini specializzati in una sola delle operazioni descritte era in grado di produrre quasi 5.000 spilli al giorno. Se ciascuno di essi avesse dovuto svolgere tutte le operazioni necessarie in modo separato e indipendente, la produzione individuale avrebbe a stento raggiunto i 20 spilli al giorno, per un totale massimo di 200 spilli. Una bella differenza con i 5.000 spilli producibili con la stessa manodopera, ma con la parcellizzazione del lavoro.

Più esperienza e standardizzazione

Frustrazione e alienazione

I rischi dell’iperspecializzazione

Come mai la specializzazione orizzontale nella fabbrica di spilli ha prodotto un così forte aumento di produttività? Vi sono diverse ragioni. Anzitutto la migliore abilità che l’operatore consegue focalizzandosi su una sola operazione. La limitatezza e la ripetitività dei compiti favoriscono i processi di apprendimento locali. Gli operatori specializzati cumulano un maggiore volume per le loro singole operazioni e per questa via maturano esperienza più rapidamente, imparano a evitare gli errori e inoltre non perdono tempo nel passaggio da un’operazione all’altra minimizzando i costi di attrezzaggio (setup). Infine, la specializzazione orizzontale rende possibile il miglioramento dei metodi di lavoro e la standardizzazione dei processi e pone le premesse per l’automazione delle operazioni, ovvero per la sostituzione dell’attività manuale con quella svolta dalle macchine. Infine, poiché l’elevata specializzazione orizzontale comporta compiti limitati e ripetitivi, essa richiede minori capacità e competenze, e minore necessità di addestramento. Pertanto è presumibile che un processo altamente specializzato richieda forza lavoro meno qualificata e dunque meno costosa. Tuttavia, l’elevata frammentazione delle mansioni fa perdere visibilità sui processi aziendali complessivi e richiede la presenza di supervisori e coordinatori. Concentrare la capacità decisionale su un numero ridotto di persone riduce il fabbisogno di risorse umane pregiate (e costose) e dunque risponde anche a un criterio di economicità dell’organizzazione. Si intuisce come la specializzazione orizzontale e quella verticale, sebbene distinte, spesso si accompagnino e rinforzino i loro effetti. Occorre però tenere presenti alcuni effetti negativi della specializzazione del lavoro. L’eccessiva frammentazione dei compiti può portare a quello che è stato definito l’“operaio robotico”, un lavoratore la cui mansione è così limitata e ripetitiva da indurre demotivazione e addirittura l’alienazione. Tempi moderni di Charlie Chaplin ha reso popolare e immortale la condizione dell’operaio robotico, un ingranaggio nella macchina infernale della produzione organizzata scientificamente. E proprio in quel periodo, negli anni tra le due guerre, diversi autori – ad esempio Mayo – documentarono la frustrazione, l’apatia, la depressione, l’alienazione e persino l’ostilità dei lavoratori ultraspecializzati delle grandi fabbriche americane. Nel secondo dopoguerra si è poi progressivamente affermato un vasto movimento

22 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

in favore di una più elevata qualità della vita lavorativa (quality of working life) e in generale, molti hanno ravvisato che la specializzazione del lavoro si è spinta spesso oltre i livelli richiesti dalla ricerca di efficienza. Ma vi è di più. Infatti le istanze per un’inversione di rotta rispetto all’estrema frammentazione dei compiti acquistarono maggiore concretezza allorché il management cominciò a percepire chiaramente che l’alienazione dei lavoratori poteva costituire una seria minaccia alla produttività. È emersa così l’idea dell’allargamento delle mansioni – job enlargement – ovvero di una riduzione della specializzazione orizzontale, e anche di un loro arricchimento – job enrichment – attraverso un aumento dell’autonomia e dunque con una riduzione della specializzazione verticale. Peraltro, esistono evidenze contrastanti sul fatto che i lavoratori preferiscano sempre e comunque compiti più ampi e meno ripetitivi. Sui fattori motivanti e l’ampiezza dei compiti torneremo con maggior dettaglio nel capitolo 3. In conclusione la specializzazione orizzontale del lavoro è stata storicamente ampiamente perseguita allo scopo di aumentare l’efficienza attraverso uno o più dei seguenti vantaggi: • • • •

maggiori economie di apprendimento; minori costi di attrezzaggio; maggiore standardizzazione e possibilità di automazione; minor costo del lavoro.

D’altra parte sono ormai evidenti non solo gli effetti negativi dell’eccessiva specializzazione sullo stato psicologico dei lavoratori ma anche quelli sull’efficienza complessiva dei processi aziendali. In realtà le specializzazioni orizzontale e verticale del lavoro non procurano solo riduzioni di costo attraverso aumenti della produttività del lavoro (rapporto tra la quantità di output e l’impiego di fattore lavoro). Esse influenzano anche la capacità dell’organizzazione di realizzare prodotti e servizi di qualità elevata, grazie alla focalizzazione e all’accumulo di esperienza. Nel linguaggio comune infatti con “operaio specializzato” si intende appunto un addetto che in uno specifico campo ha una competenza e una maestria superiori rispetto a un operaio generico, per così dire “tuttofare”. Quando un’alta specializzazione orizzontale si accompagna a una bassa specializzazione verticale si configurano i cosiddetti ruoli professionali. Si tratta di figure focalizzate su attività specifiche che spesso richiedono competenze certificate, ma anche autonome e relativamente libere di impostare e svolgere il loro lavoro come meglio credono. Le organizzazioni in cui prevalgono i ruoli di tipo professionale sono mediamente più motivanti. Torneremo con maggior dettaglio su questi aspetti nel prossimo capitolo e in particolare nel paragrafo 3.2.3.

2. Organizzazione e crescita ) 23

2.4

I meccanismi di coordinamento Al crescere della specializzazione, sia orizzontale sia verticale, il problema del coordinamento diviene più pressante. Anche qui il caso Bodin ci offre diversi spunti. In particolare ci consente di mettere a fuoco i cinque meccanismi di base – individuati da Mintzberg (1983) – attraverso i quali può avvenire il coordinamento.

2.4.1

Risolvere problemi informalmente

L’adattamento reciproco Nella fase pionieristica durante la quale si sviluppa l’idea imprenditoriale i problemi organizzativi sono trascurabili. Il lavoro è poco specializzato, lo stesso Edmondo Bodin interviene nell’attività operativa. Il coordinamento è del tutto informale, ma comunque efficace. Possiamo dire che è l’adattamento reciproco il primo e più immediato meccanismo di coordinamento. Gli operatori si accordano direttamente ogni volta che emerge un problema e modificano operazioni e comportamenti per far sì che il risultato finale del processo sia garantito. Le modalità sono innumerevoli: parlarsi direttamente per risolvere un imprevisto, convocare una riunione con tutti gli interessati per risolvere un problema, ma anche cogliere l’occasione incontrando casualmente un collega (è l’effetto “coffee machine”). In questo senso l’adattamento reciproco è un meccanismo di coordinamento ex post, poiché interviene dopo che un problema si è presentato e ogniqualvolta compare. Esso non richiede dunque particolari sforzi di progettazione. Inoltre, con l’adattamento reciproco il controllo del lavoro e la discrezionalità restano nelle mani degli operatori. L’adattamento reciproco è il meccanismo dominante nelle piccole organizzazioni. Tuttavia, anche in organizzazioni complesse e con elevati livelli di specializzazione, pur in presenza di altri meccanismi di coordinamento, esso gioca un ruolo fondamentale, soprattutto in presenza di incertezza e ambiguità. Consideriamo lo sviluppo di una nuova versione di Windows da parte di Microsoft. Si tratta di una situazione organizzativa ad alta complessità con il concorso di un numero enorme di persone distribuite in varie parti del mondo nei ruoli di progettazione, di sviluppo e di test del software. Vi è una estrema specializzazione del lavoro e per garantire il risultato occorre fare ricorso a svariati meccanismi di coordinamento formali dei quali diremo fra breve. Nonostante l’esperienza accumulata dai tecnici e da Microsoft come organizzazione complessa, all’inizio del processo nessuno ha la certezza assoluta di come devono essere svolte le attività. La conoscenza si accumula a mano a mano che il processo avanza, anche attraverso tentativi che poi si rivelano fallimentari. A fronte degli inevitabili problemi che sorgono quando si testano i prototipi dei vari moduli, e quando si “assemblano” i moduli stessi e si verifica l’intero pacchetto nelle più svariate situazioni di uso, è solo attraverso l’adattamento reciproco che i tecnici possono arrivare a un risultato stabile e soddisfacente.

24 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

2.4.2

Il mestiere di “capo”

2.4.3

La supervisione diretta Torniamo al caso Bodin. La fase di crescita degli anni Sessanta vede un allargamento dell’organico. Con esso appare una prima specializzazione dei compiti. Il Bodin si dedica prevalentemente all’attività commerciale, mentre una dipendente esperta si occupa di istruire le lavoranti e di coordinarne il lavoro del laboratorio anche se a quell’epoca la disorganizzazione era notevole e il blocco dell’attività frequente. La scarsa specializzazione, anche in una piccola struttura, crea problemi. In questa fase l’organizzazione della Bodin non si basa più solamente sull’adattamento reciproco. Appare un secondo meccanismo: la supervisione diretta. Una persona assume formalmente il ruolo di capo, e dunque la responsabilità del lavoro degli altri, decidendo di volta in volta che cosa essi devono fare e controllando gli esiti del loro lavoro. Questa è la situazione della dipendente anziana nel momento in cui l’organico del laboratorio cresce a 6 unità. La supervisione diretta non sostituisce l’adattamento reciproco ma lo integra a un livello superiore. Interviene solo per i problemi più gravi oppure per anticipare e fissare a grandi linee “chi fa che cosa”. Una squadra di incursori che si addentra in territorio nemico agli ordini di un comandante – che decide di volta in volta che cosa devono fare i suoi uomini, chi mandare avanti e a fare che cosa – è un altro esempio di supervisione diretta che si innesta in un contesto di adattamento reciproco, rappresentato ad esempio dal fatto che gli incursori si coprono a vicenda e si coordinano informalmente. La supervisione diretta incontra un limite nel numero di persone che possono essere efficacemente coordinate da un solo capo. Il numero di subordinati per capo può anche essere molto variabile, ma non può crescere troppo, altrimenti il coordinamento fallisce, lasciando gli operatori abbandonati a se stessi. È il problema noto con il termine di span of control, che verrà ripreso nel paragrafo 4.2. Così come l’adattamento reciproco, anche la supervisione diretta è un meccanismo ex post perché interviene contestualmente al problema o quando questo si è già manifestato in una situazione precisa.

La standardizzazione dei processi Con la crescita dimensionale adattamento reciproco e supervisione diretta non bastano più. Alla Bodin, nei tardi anni Sessanta la specializzazione del lavoro procede in modo più spinto. Il laboratorio, che ormai è diventato una fabbrica, viene riorganizzato completamente, creando reparti specializzati, ovvero aree nelle quali i lavoratori svolgono in modo ripetitivo un insieme ristretto di attività, ad esempio la tessitura, senza essere coinvolti nelle altre attività del processo a monte, l’orditura, e a valle, il taglio e il confezionamento. L’operaio in tessitura deve far funzionare e controllare i telai e nulla gli è chiesto sulle altre fasi del processo e, al limite, nulla gli è dato sapere. La specializzazione procede inarrestabile non solo in produzione, ma an-

2. Organizzazione e crescita ) 25

Progettare il “come”

che nelle attività di progettazione, con l’introduzione dei disegnatori e dei cartonisti che svolgono mansioni differenti. La supervisione non è più sufficiente a garantire il coordinamento che viene invece pensato a tavolino, progettato ex ante. I manuali di lavoro della Bodin ne sono un esempio. Con l’aiuto esterno di consulenti e di analisti del lavoro – nel caso della Bodin i fornitori di macchinari – il lavoro viene suddiviso, progettato e normato a priori. Se la progettazione organizzativa è accurata, il coordinamento è garantito già sulla carta e il singolo lavoratore non deve preoccuparsene, deve solo eseguire delle “istruzioni”, seguire delle procedure. Se le operazioni di orditura vengono eseguite correttamente, in modo conforme al manuale, l’ordito sarà pronto per la tessitura – dell’altezza e lunghezza corrette, del filato del colore e del titolo voluti ecc. – e questa potrà procedere senza intoppi e senza che i lavoratori debbano interagire. La standardizzazione dei processi è dunque un potente meccanismo di coordinamento. Essa previene i problemi, cerca di evitarli o di ridurli al minimo. Fatta per stabilizzare il processo, la procedura standard può, entro limiti ristretti, gestire le variazioni in qualche modo prevedibili. Se il problema è del tutto nuovo e dunque non previsto occorre per forza tornare alla supervisione diretta o all’adattamento reciproco. Dunque, la standardizzazione dei processi incontra seri limiti di applicazione nei contesti turbolenti, nei quali è difficile o impossibile prevedere in anticipo le condizioni operative di svolgimento del lavoro, come avviene in tutte le attività innovative, ad esempio nello sviluppo di nuovi prodotti, servizi e tecnologie o nelle fasi iniziali di un nuovo business. Consideriamo il caso McDonald’s. È un esempio di estrema standardizzazione dei processi di lavoro in un settore di servizio, la ristorazione fast food. Le norme prescrivono in modo rigido agli addetti come si prepara un hamburger; il processo prevede una forte specializzazione perché anche la semplice preparazione di un hamburger coinvolge diversi operatori: chi taglia il pane, chi cuoce la carne (che viene consegnata a ogni fast food locale già preparata in dosi standard), chi frigge le cipolle, chi prepara insalata e pomodori, chi assembla il tutto e lo confeziona nel vassoietto di polistirolo. Il processo è per così dire industrializzato e replicato in migliaia di locali in tutto il mondo, secondo un modello che adatta la catena di montaggio industriale a un settore di servizio come quello della ristorazione. Il layout, ovvero la disposizione fisica degli addetti e delle attrezzature nella cucina, è accuratamente studiato per massimizzare l’efficienza e minimizzare i tempi morti e gli spostamenti, proprio come avviene nella progettazione delle fabbriche. Addirittura si utilizzano tecnologie di trasferimento automatico del materiale quali convogliatori e nastri trasportatori. La procedura prescrive anche come gestire i piccoli imprevisti, ad esempio la mancanza di ingredienti. Naturalmente imprevisti maggiori, ad esempio le pesanti lamentele di un cliente o un serio incidente sul lavoro di uno dei cuochi, possono essere gestiti solo attraverso la supervisione diretta del responsabile capo del locale. La standardizzazione dei processi tende a ridurre il

26 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Agire in anticipo, uniformare

2.4.4

Progettare il “che cosa”

fabbisogno di supervisione diretta e di adattamento reciproco, anticipando i problemi di coordinamento. Standardizzare significa agire in anticipo per stabilizzare e uniformare. Il principio non si applica solo al “come fare” – standardizzazione dei processi – ma anche al “che cosa fare” – standardizzazione dei risultati o degli output – e al “con quale conoscenza agire” – standardizzazione delle competenze.

La standardizzazione dei risultati Il caso Bodin offre altri spunti di analisi dei meccanismi di coordinamento. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, l’azienda si rende conto di dover cominciare seriamente a programmare le proprie attività, perché la sua capacità di rispondere per tempo ai clienti si sta deteriorando. Partendo dalle esigenze di consegna dei prodotti finiti ai clienti, si deve pianificare la produzione su base settimanale, allocando correttamente la capacità produttiva e arrivando a determinare i fabbisogni aggregati di materie prime e manodopera. Una risorsa specializzata viene dedicata a questo compito. Il normale processo di budgeting e pianificazione è, dal punto di vista organizzativo, un potente meccanismo di coordinamento: infatti ai responsabili dei vari reparti viene specificato il risultato che devono produrre – in quantità e tipologia – senza specificare come produrlo. In questo senso si parla di standardizzazione dei risultati e non dei processi. Il coordinamento è garantito dal fatto che, poiché il risultato di un reparto a monte serve da input per un reparto a valle, se esso viene assicurato (indipendentemente dal come), allora il reparto a valle potrà operare correttamente e produrre a sua volta il risultato richiesto. Anche questo meccanismo di coordinamento agisce a priori, come ogni forma di standardizzazione. Negli anni Ottanta la Bodin introduce una significativa diversificazione nella gamma dei prodotti, per seguire le esigenze del mercato. Emerge allora una nuova forma di specializzazione non più limitata alle fasi di un unico processo, ma che si applica a insiemi di processi. La produzione e la progettazione delle etichette standard e di quelle multicolor vengono separate. Le risorse vengono specializzate non solo sulla fase (attività) del processo, ma anche dedicate in modo esclusivo a un determinato processo con un certo tipo di output, in questo caso prodotti differenti. È in atto un processo di “divisionalizzazione”, ovvero di introduzione di strutture organizzative semi-indipendenti – le divisioni – dotate di mezzi tecnologici e risorse umane dedicate all’output specifico. Torneremo su questo tema successivamente, nel capitolo 4, quando affronteremo le strutture organizzative di base. In questa fase la standardizzazione dei risultati si rinforza ulteriormente: occorre pianificare in modo aggregato la produzione sulle due linee e aggregare i fabbisogni di filati per ottenere condizioni di acquisto più favorevoli dai fornitori. Per gli operatori la standardizzazione dei risultati è meno vincolante di quella dei processi. Lascia maggiore libertà di azione, poiché ciò che viene prefissato è il risultato e non il modo in cui lo si

2. Organizzazione e crescita ) 27

raggiunge. Con questa forma di standardizzazione, esecuzione e controllo non sono più necessariamente separati e dunque il livello di specializzazione verticale tende a essere più contenuto.

2.4.5

Fornire il know-how necessario

Il ruolo della formazione

La standardizzazione delle competenze Il quinto e ultimo meccanismo di coordinamento è la standardizzazione delle competenze. Essa consiste nell’assicurarsi che gli operatori siano in grado di svolgere i compiti assegnati e di interagire tra loro sulla base di competenze che hanno acquisito in precedenza. Come le altre forme di standardizzazione, anche questa è un meccanismo a priori. Pensiamo a una sala operatoria di un grande ospedale dove un’équipe di chirurghi sta effettuando un’operazione difficile per la quale esiste un protocollo standard (standardizzazione dei processi). Tuttavia, a fronte di una complicazione improvvisa che mette a rischio la vita del paziente, nessun manuale, nessuna regola può risolvere il problema. Anche la standardizzazione dei risultati è scarsamente applicabile, perché è difficile o impossibile determinare a priori quale deve essere il risultato. D’altra parte l’adattamento reciproco da solo non basta e nemmeno la supervisione diretta. Occorre che le persone abbiano le competenze per agire e per interagire tra loro. Gli operatori hanno seguito lunghi processi di formazione e addestramento. Hanno conseguito una laurea in medicina e chirurgia e una specializzazione. Da studenti hanno assistito diverse volte a interventi simili. Successivamente li hanno praticati decine o centinaia di volte, esponendosi a una vasta casistica e a innumerevoli imprevisti. È probabile che oltre alla laurea abbiano seguito ulteriori corsi di aggiornamento. Tutto ciò fa sì che abbiano delle competenze certificate a priori che dovrebbero metterli in grado di agire e di coordinarsi tra loro in caso di necessità. Quando l’ospedale li ha assunti, lo ha fatto sulla base di competenze costruite in precedenza da qualcun altro, ad esempio l’università, e certificate. La formazione è lo strumento essenziale per la standardizzazione delle competenze, sia quella tradizionale, costituita dall’istruzione universitaria e dai corsi di formazione professionale, sia quella che gli individui possono acquisire successivamente attraverso la formazione aziendale o i corsi di aggiornamento. Anche nel caso Bodin possiamo rintracciare varie forme di standardizzazione delle competenze: quando vengono assunti i due diplomati dall’istituto tecnico, rispettivamente per il ruolo di disegnatore e per quello di cartonista, Bodin si aspetta che i giovani conoscano già il mestiere, grazie alla formazione che hanno ricevuto, e siano perciò in grado di coordinarsi più facilmente nel processo di industrializzazione delle etichette. Quando egli assume un altro diplomato dal medesimo istituto per la manutenzione e la supervisione tecnica delle macchine tessili, si aspetta che ne risulti agevolato il coordinamento con la dipendente più anziana in qualità di responsabile della produzione. Ancora, quando viene selezionato il tecnico programmatore, Bodin si aspetta implicitamente che il coordinamento

28 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Incertezza crescente

tra i vari reparti derivante dalla standardizzazione dei risultati sia raggiungibile grazie alle competenze (standardizzate) del programmatore. Più in generale quando le imprese ricercano e assumono personale con curricula precisi e in possesso di titoli di studio e di specializzazione specifici – ingegneri progettisti, revisori dei conti, diplomati con un MBA (Master of Business Administration), legali ecc. – stanno implicitamente assicurandosi un miglior coordinamento grazie alla standardizzazione delle competenze. Sebbene concettualmente distinti, i cinque meccanismi operano spesso contemporaneamente. Le organizzazioni di una certa dimensione li utilizzano tutti, anche se le caratteristiche dell’ambiente competitivo e delle tecnologie spingono il management ad adottare maggiormente alcuni meccanismi piuttosto che altri (torneremo su questo punto nel capitolo 6). Mentre la standardizzazione dei processi e, in parte, quella dei risultati mirano a ridurre il fabbisogno di adattamento reciproco e di supervisione diretta, la standardizzazione delle competenze mira a rendere l’adattamento e la supervisione più efficaci, meno dispersivi o meno onerosi. Guardiamo più da vicino alle tre forme di standardizzazione: quella dei processi di lavoro, come si è detto, restringe la discrezionalità degli operatori e si adatta a situazioni ripetitive, certe e stabili nel tempo. Al crescere dell’incertezza e della varietà emerge la standardizzazione dei risultati che rinuncia a prescrivere come fare, e si limita a specificare il risultato, lasciando agli operatori maggiori

Figura 2.4

LA CICLICITÀ DEI MECCANISMI DI COORDINAMENTO Specializzazione verticale e orizzontale

1. Mutuo adattamento

2. Supervisione diretta

Complessità e dimensione 5. Competenze standard

3. Compiti standard

Turbolenza 4. Risultati standard

Incertezza Ince rtezz a e diversificazione

2. Organizzazione e crescita ) 29

spazi di autonomia sul come realizzare il lavoro. Quando l’incertezza è ancora maggiore risulta difficile persino specificare il risultato; ci si affida dunque alle competenze degli operatori che sono state costruite e verificate in precedenza, nella speranza che questo produca un risultato accettabile. Esiste dunque una sorta di ciclicità dei meccanismi che a partire dal più semplice, l’adattamento reciproco, al crescere di dimensione, complessità e incertezza, vedono l’affiancamento della supervisione diretta e poi delle tre forme di standardizzazione, fino a quella delle competenze, che paradossalmente, per funzionare, richiede nuovamente adattamento reciproco. La Figura 2.4 illustra questa ciclicità.

2.5

La piramide gerarchica

I costi della specializzazione e del coordinamento Specializzazione e coordinamento implicano vantaggi, ma anche costi. Dall’analisi dei costi possono venire utili indicazioni per capire fino a che punto spingersi nella specializzazione orizzontale e verticale. Consideriamo dapprima i costi di esecuzione complessivi di un processo generico, intesi come la somma dei costi di esecuzione delle singole attività. L’andamento dei costi di esecuzione in funzione della specializzazione orizzontale del lavoro è rappresentato nella Figura 2.5a). Esso è decrescente fino a una soglia di alienazione oltre la quale non si conseguono ulteriori riduzioni di costo e anzi si manifestano perdite di efficienza. A fronte di tali riduzioni di costo, la specializzazione orizzontale del lavoro implica anche costi di coordinamento aggiuntivi. Ancora una volta il caso Bodin ci viene in aiuto. Come abbiamo visto, i primi meccanismi che compaiono sono l’adattamento reciproco e la supervisione diretta. Nessuno dei due è però senza costi. L’adattamento reciproco comporta l’interruzione frequente dell’attività con ovvie perdite di produttività. La supervisione diretta implica l’inserimento delle figure dei capi che intervengono per prevenire e gestire i problemi di coordinamento. Considerando che un capo non può controllare un numero eccessivo di persone subordinate, più il lavoro viene suddiviso, più occorrono capi e, anzi, oltre un certo limite sono necessari “capi di capi” per coordinare tra loro le attività dei capi intermedi (middle management). Si forma così una struttura gerarchica piramidale a più livelli. All’aumentare della specializzazione del lavoro, la gerarchia tende a proliferare in modo esponenziale e con essa i costi di coordinamento. Come abbiamo visto, i meccanismi di standardizzazione intervengono quando adattamento reciproco e supervisione diretta non bastano più. Da un punto di vista economico si potrebbe dire che quando la gerarchia diviene troppo costosa diventa conveniente ricorrere alle varie forme di standardizzazione per ridurre il fabbisogno, e dunque i costi, del coordinamento ex post. La Figura 2.5b) rappresenta l’andamento dei costi di coordinamento in funzione della specializzazione orizzontale del lavoro. In sintesi, è possibile concludere che per un determinato processo

30 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Figura 2.5

COSTI DI ESECUZIONE E COSTI DI COORDINAMENTO

Costi di esecuzione

a)

Soglia dell’alienazione

Costi di coordinamento

Specializzazione orizzontale

b)

Standardizzazione

Specializzazione orizzontale

Costi totali del processo

c)

Costo minimo

Livello di specializzazione ottimale

Specializzazione orizzontale

2. Organizzazione e crescita ) 31

aziendale sia esso industriale (di trasformazione fisica), di distribuzione o di produzione ed erogazione di servizi, all’aumentare del grado di specializzazione orizzontale diminuiscono i costi di esecuzione

per effetto di uno o più dei quattro fattori citati in precedenza (economie di apprendimento, bassi costi di setup, maggiore standardizzazione e automazione, minor costo del lavoro). Viceversa, all’aumentare del grado di specializzazione orizzontale aumentano i costi di coordinamento

per effetto di un maggior ricorso ai cinque meccanismi di base. Certamente il ricorso alla standardizzazione aiuta a mantenere limitati i costi di coordinamento, ma non li elimina, come evidenziato nella Figura 2.5b. La Figura 2.5c sintetizza l’andamento dei costi totali di un processo, dati dalla somma dei costi di esecuzione e di quelli di coordinamento: si tratta di una funzione con andamento a “U”. Esiste pertanto un livello di specializzazione orizzontale ottimale in corrispondenza del quale si hanno i minimi costi totali del processo. In generale tale livello ottimale non è il massimo possibile, ed è inferiore alla “soglia dell’alienazione”. Questo livello inoltre varia da caso a caso e dipende da fattori quali la complessità dei compiti, la tecnologia e il livello di automazione, le competenze degli operatori ecc. Molte imprese sovrastimano i benefici della specializzazione e sottostimano i costi di coordinamento, di fatto specializzando eccessivamente il lavoro con effetti dannosi non solo sul benessere psico-fisico dei lavoratori, ma anche sulla produttività e l’efficacia organizzativa.

2.6 Raggruppamento e unità organizzative

Progettare l’organizzazione: microstruttura, macrostruttura e processi aziendali Nei processi di crescita le organizzazioni tendono da un lato a suddividere il lavoro tra i loro membri e dall’altro a raggrupparli in unità organizzative relativamente autonome e governate da un responsabile (il capo) al quale riportano tutti i membri dell’unità. L’unità organizzativa è l’ambito di esercizio dell’autorità formale e dunque della supervisione diretta come meccanismo di coordinamento. Nelle organizzazioni di una certa dimensione le decisioni e i processi aziendali per realizzare i servizi e i prodotti richiedono il concorso di unità organizzative differenti. Il problema del coordinamento riguarda dunque anche la macrostruttura. Occorre infatti far sì che vi sia coordinamento tra le diverse unità e non solo tra gli individui all’interno delle unità. Assumiamo ora la prospettiva manageriale introdotta nel capitolo 1, secondo la quale l’organizzazione è un sistema sociale che può essere determinato almeno in parte dalle scelte dei manager. La progetta-

32 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Individui, strutture e attività

zione organizzativa riguarda allora tre ambiti distinti, seppur fortemente interconnessi: la microstruttura, la macrostruttura e i processi aziendali. La microstruttura riguarda il complesso di scelte per determinare il livello di specializzazione orizzontale e verticale delle mansioni individuali, per formalizzare in modo più o meno dettagliato i compiti che ciascuno deve svolgere, per individuare, infine, i meccanismi di coordinamento necessari o più efficaci tra le persone; la progettazione microstrutturale si incrocia con quella che più propriamente prende il nome di gestione delle risorse umane che prevede ad esempio la definizione dei meccanismi di ricompensa e di incentivo dei singoli, l’identificazione dei percorsi di crescita e di sviluppo. La macrostruttura è l’insieme di unità organizzative frutto del raggruppamento delle posizioni individuali; si tratta cioè di scomporre l’organizzazione in parti dotate di un certo grado di autonomia e sottoposte all’autorità di un singolo individuo (il capo dell’unità); per ogni unità occorre determinare la dimensione (il numero di individui che ne fanno parte), il profilo di competenze dei membri, i confini e il raggio di azione (obiettivi e responsabilità), le eventuali sottounità contenute, e i meccanismi di coordinamento con le altre unità che formano l’organizzazione complessiva. Progettare la macrostruttura significa anzitutto individuare i criteri di raggruppamento secondo i quali effettuare le aggregazioni degli individui e pervenire in tal modo a una suddivisione del lavoro tra le unità stesse. Si pensi ancora all’esempio proposto in precedenza di una tipica impresa industriale in cui le principali attività (progettare, vendere, produrre, acquistare) sono delegate ad altrettante funzioni, che sono unità organizzative dotate di autonomia e finalità propria, le quali eventualmente possono contenere unità di livello inferiore, specializzate su un insieme di compiti più ristretto. Il caso Bodin ci ha illustrato una situazione simile: la funzione produzione che raggruppava tutte le risorse dedicate alla trasformazione fisica (e non includeva ad esempio quelle dedicate alla vendita) fu a sua volta suddivisa in reparti autonomi specializzati su alcune fasi del processo di trasformazione (l’orditura, la tessitura, il taglio e la piega, il confezionamento). Successivamente furono create nuove aggregazioni, le linee di produzione dedicate alle due tipologie di prodotto, utilizzando un criterio differente, non più il tipo di tecnologia/operazione, bensì il tipo di prodotto realizzato. Infine, la dimensione più avanzata della progettazione organizzativa riguarda i processi aziendali, ovvero gli insiemi organizzati di attività e di decisioni, finalizzati alla realizzazione di output (prodotti, servizi, informazioni) effettivamente richiesti dai clienti (o dagli utenti) e ai quali questi attribuiscono un “valore” ben definito. Il tema dei processi è rilevante perché una buona progettazione degli aspetti strutturali (micro e macro) non garantisce da sola il raggiungimento degli obiettivi aziendali. Le organizzazioni hanno bisogno di decisioni e azioni, i processi appunto, che siano rapidi, efficaci e riconfigurabili in risposta alle esigenze del mercato. Sia che si tratti di processi pro-

2. Organizzazione e crescita ) 33

Efficacia organizzativa e sostenibilità

duttivi, amministrativi, o di innovazione occorre guardare all’organizzazione nel suo funzionamento reale e quotidiano come macchina che produce output di valore al di là degli aspetti micro- e macrostrutturali. In senso lato la progettazione dei processi aziendali ha ancora a che fare con il coordinamento. Negli ultimi decenni lo sviluppo delle tecnologie informatiche e di comunicazione ha schiuso grandi opportunità per riprogettare i processi aziendali e migliorarne l’efficienza. Indipendentemente dall’ambito di applicazione, la progettazione organizzativa ha l’obiettivo di selezionare e definire i modi migliori con cui l’impresa utilizzerà le proprie risorse e le coordinerà al fine di raggiungere gli obiettivi che si è proposta e creare così valore. La bontà della progettazione organizzativa è misurata dal concetto di efficacia organizzativa, ovvero l’effettiva capacità dell’impresa di raggiungere i suoi obiettivi. Come si discuterà ampiamente nel Capitolo 6, la progettazione organizzativa prevede numerose possibilità di scelta, in quanto ogni soluzione organizzativa non è valida (o efficace) in assoluto, ma solo se coerente e allineata all’ambiente che circonda l’organizzazione, dal contesto socio-economico alle caratteristiche del mercato, dalla strategia che l’impresa persegue allo stadio di maturità che la caratterizza. Come misurare l’efficacia organizzativa? Questo dipende fortemente dal tipo di obiettivi che ciascuna impresa si propone e dalle modalità attraverso le quali i manager dell’impresa intendono perseguirli. In generale però si può dire che l’efficacia organizzativa deve trovare riscontro in una performance aziendale adeguata. Se in passato tale performance faceva riferimento prevalentemente alla dimensione economico-finanziaria (profitti, flussi di cassa ecc.), oggi sempre più le imprese devono porsi obiettivi molteplici, che soddisfino non solo gli azionisti (i cosiddetti shareholders) ma anche altri portatori di interessi (stakeholders), in primo luogo il personale, i fornitori, la comunità locale e in generale la società intera in cui l’impresa opera e che subisce gli impatti positivi e negativi dell’attività d’impresa. I concetti di sostenibilità aziendale e di organizzazione sostenibile si riferiscono proprio all’ampliamento delle misure di performance per valutare l’efficacia organizzativa, includendo anche la dimensione di impatto ambientale e sociale. Questa accezione di sostenibilità è ben sintetizzata nel concetto di “triple bottom line”, proposto da Elkington (1998), che si riferisce alle tre dimensioni di People, Planet, Profit. I prossimi capitoli affrontano in dettaglio questi temi. In particolare il capitolo 3 approfondisce il ruolo degli individui nell’organizzazione e dunque la microstruttura; il capitolo 4 analizza i criteri di raggruppamento della macrostruttura e le principali configurazioni che ne derivano; il capitolo 5 affronta il tema più avanzato della progettazione e gestione dei processi aziendali.

3

L’individuo nell’organizzazione

SOMMARIO

3.1

Il punto di vista degli individui

3.1 Introduzione j 3.2 La microstruttura j 3.3 Prestazioni, capacità e motivazioni individuali j 3.4 La dimensione sociale: gruppi e conflitti

Introduzione La progettazione organizzativa della microstruttura consiste essenzialmente nel definire il contenuto del lavoro e il ruolo dei singoli individui all’interno dell’organizzazione, formalizzandone in modo più o meno marcato il comportamento atteso e intervenendo, ove necessario, per sviluppare le competenze e le capacità delle persone in funzione della posizione che ricoprono o che potrebbero ricoprire in futuro. Se assumiamo il punto di vista degli individui, notiamo che nella grande maggioranza delle organizzazioni, e certamente nelle imprese che operano nelle società libere e nelle economie di mercato, le persone aderiscono liberamente alle organizzazioni e, pur mosse dall’esigenza materiale di procurarsi di che vivere, trovano motivazioni al lavoro anche differenti dalla mera necessità. L’adesione a un’organizzazione può talvolta avere poche alternative, ma, in generale, per molte persone si tratta di una scelta tra diverse opzioni possibili. Inoltre, nei Paesi sviluppati e nei periodi di crescita e sviluppo dell’economia, molti individui decidono di cambiare organizzazione, e spesso anche tipo di lavoro, sulla base di considerazioni economiche, personali, di sviluppo delle proprie conoscenze o altro ancora. Aderire a un’organizzazione significa per una persona immergersi in un ambiente sociale che costituisce una delle esperienze fondamentali e più complesse della vita di ciascuno. In tutto ciò vi è dunque un certo grado di libertà da parte degli individui, pur in considerazione dei vincoli materiali e delle spinte economiche. Se da un lato le organizzazioni selezionano le persone per scopi specifici e tendono a definire in modo preciso il contenuto del lavoro individuale, dall’altro le persone “scelgono” le organizzazioni sulla base della loro attrattività non solo economica. Non solo, una volta membri di un’organizzazione gli individui possono contribuire e “spendersi” in modo variabile a seconda delle loro motivazioni, del fatto che tali motivazioni si rafforzino oppure si indeboliscano.

3. L’individuo nell’organizzazione ) 35

Obiettivi compatibili

Necessità di consenso

3.2

La progettazione organizzativa ha a che fare con le risorse umane che, a differenza delle risorse materiali e tecnologiche, interagiscono in modo attivo con l’organizzazione e non si lasciano semplicemente plasmare e adattare passivamente al disegno organizzativo. La risorsa umana è mossa da obiettivi personali e da aspirazioni che non coincidono con quelli dell’organizzazione. Gli obiettivi individuali e quelli organizzativi, seppur distinti, devono però essere almeno compatibili e non in aperto conflitto. E non è un caso che i movimenti in difesa dei diritti dei lavoratori e i sindacati abbiano da sempre dedicato attenzione ai temi microstrutturali, cercando di favorire la regolamentazione e la limitazione della libertà di progettazione organizzativa, tipicamente per quanto attiene le mansioni, e cercando di legare i livelli di inquadramento contrattuale e di retribuzione alle mansioni effettivamente ricoperte. Un altro vincolo che la risorsa umana pone alla progettazione organizzativa riguarda le capacità e le competenze di ciascuno, che possono essere molto variabili e talvolta inadeguate. In ogni caso capacità differenti applicate alla stessa mansione producono livelli di prestazione differenti. In sostanza, la progettazione della microstruttura ha bisogno di un certo livello di consenso tra i membri dell’organizzazione stessa e di risorse che siano in grado di svolgere i compiti assegnati. Per questo motivo, quella che nel capitolo 1 abbiamo definito la prospettiva manageriale sull’organizzazione deve necessariamente incrociarsi almeno in parte con la prospettiva sociologica, che assume il punto di vista degli individui e delle loro motivazioni. In questo capitolo queste due prospettive si alternano. Inizieremo con la progettazione delle mansioni e dei compiti individuali, la formalizzazione del comportamento e la formazione come strumento di standardizzazione delle competenze. Affronteremo successivamente le variabili più strettamente individuali come le capacità, le competenze e le motivazioni degli individui. Passeremo quindi all’analisi dei gruppi e del lavoro di gruppo, un elemento questo che nelle organizzazioni moderne assume una valenza fondamentale. Il tema dei gruppi deve essere approfondito sia in prospettiva manageriale, in quanto il lavoro di gruppo deve essere progettato, gestito e finalizzato, sia in prospettiva sociologica in quanto il gruppo costituisce un microambiente sociale dove motivazioni, conflitti, leadership e potere si amplificano nell’esperienza dei singoli e contribuiscono enormemente al successo o al fallimento del gruppo stesso.

La microstruttura Introduciamo i quattro concetti chiave della progettazione microstrutturale: il compito è un insieme di attività intrinsecamente collegate e inscindibili in relazione al lavoro dell’uomo e alle caratteristiche della tecnologia; la mansione – detta anche job – è un insieme di compiti che viene attribuito a una posizione individuale; ogni posi-

36 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

zione individuale può essere assegnata a una sola persona. Ma la stessa mansione può essere assegnata a più posizioni, cioè a più persone, in funzione del volume di attività, determinando in tal modo più posizioni disponibili all’interno dell’organizzazione, corrispondenti a un’unica mansione. Infine, il ruolo, cioè l’insieme delle aspettative di comportamento che l’organizzazione si attende da una persona che ricopre una certa posizione in relazione agli obiettivi dell’organizzazione.

3.2.1

Attività inseparabili

Il ruolo dei volumi

Compiti, mansioni e interdipendenze Consideriamo, a titolo d’esempio, il caso di un poliambulatorio medico e il complesso di attività di supporto alle visite specialistiche del personale medico e agli esami di laboratorio. La ricezione delle telefonate dei pazienti, la verifica delle disponibilità dei medici e la prenotazione degli appuntamenti costituiscono un unico compito. Le singole attività sono infatti difficilmente separabili a causa della natura integrata del lavoro e dell’uso di un unico strumento informatico (un sistema su PC con il calendario dei medici specialisti e sul quale le operatrici registrano gli appuntamenti) che serve a verificare la disponibilità dei medici e a incrociarla con quella dei clienti. Identifichiamo dunque un primo compito che per semplicità chiamiamo “prenotazione”. Tuttavia, vi sono anche altre attività essenziali, quali ad esempio fornire informazioni ai pazienti sui prezzi dei servizi, sul regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale, sugli esami diagnostici preventivi. Vi è dunque un altro compito che potremmo definire “informazione”. In generale l’informazione precede la prenotazione. Un terzo compito, che definiamo “accoglienza”, consiste nel ricevere i pazienti che si presentano per le visite, nel verificare che la documentazione e gli esami preliminari siano disponibili, nell’indirizzarli nelle sale di aspetto, nell’introdurli negli studi medici ecc. Un quarto compito, definito “amministrazione”, consiste nell’incassare il denaro e nell’emettere la documentazione di supporto e le fatture. Infine, il quinto compito, definito “consegna”, consiste nell’archiviazione e nella consegna dei referti degli esami e delle visite specialistiche ai pazienti o ai loro delegati che si presentano per il ritiro. In sintesi il processo di supporto prevede cinque compiti base: informazione, prenotazione, accoglienza, amministrazione e consegna. Consideriamo due situazioni differenti, dapprima il caso di un piccolo studio in cui operano non più di una decina di medici su base parttime. Il volume di attività non giustifica più di due impiegati, con mansioni distinte. Almeno una di queste sarà ampia e incorporerà i compiti di informazione, prenotazione, accoglienza e consegna mentre l’altra potrebbe verosimilmente essere più specializzata sul solo compito amministrativo. Due persone per due mansioni distinte – una segretaria e un’impiegata amministrativa – corrispondenti a due posizioni diverse. Osserviamo ora l’esempio di un’organizzazione di maggiori dimensioni, rappresentato dal caso IDI (Caso 3.1).

3. L’individuo nell’organizzazione ) 37

CASO

3.1

IDI: compiti e mansioni in un grande poliambulatorio IDI è un grande poliambulatorio privato convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale che presta tre tipi di servizi: gli esami di laboratorio basati su prelievi sanguigni; gli esami diagnostici per immagini (radiografie tradizionali, ecografie, TAC e Risonanza magnetica nucleare ecc.) e infine le visite specialistiche. In IDI lavorano decine di tecnici e di medici specialisti. La struttura di supporto è molto articolata e conta ben 17 posizioni. Le mansioni sono definite in modo variabile. La prenotazione è un compito centralizzato favorito dal fatto che è stato istituito un numero telefonico unico per le prenotazioni. Si tratta di un classico call center nel quale operano 6 persone che forniscono le informazioni richieste dai potenziali clienti e prenotano indifferentemente gli esami diagnostici per immagini e le visite specialistiche. Gli esami di laboratorio non richiedono alcuna prenotazione, in quanto i clienti si presentano direttamente la mattina degli esami. Accoglienza e amministrazione per le immagini sono riunite in un’unica mansione. Analogamente sono accorpate anche l’accoglienza e l’amministrazione per le visite specialistiche. Tuttavia le due mansioni sono distinte per diverse ragioni: anzitutto l’amministrazione delle visite specialistiche richiede una contabilità separata per i vari professionisti e regimi fiscali differenti (dipendenti IDI e liberi professionisti). Inoltre, l’accoglienza per alcuni esami diagnostici è un compito particolare poiché richiede di preparare accuratamente il paziente. Infine, i due servizi sono fisicamente separati. Tutta la diagnostica per immagini è concentrata nei sotterranei dell’edificio principale mentre le visite specialistiche sono in una palazzina separata. In aggiunta, i due servizi hanno orari differenti: le visite specialistiche sono solo il pomeriggio e proseguono fino a tarda sera. Per questi motivi le due mansioni sono distinte e prevedono due posizioni ciascuna per far fronte al volume di attività. Per quanto riguarda gli esami di laboratorio, accoglienza, informazione e amministrazione sono riunite in un’unica mansione in quanto il cliente si presenta allo sportello con gli esami prescritti, riceve le informazioni del caso, paga in anticipo il servizio e viene indirizzato verso il prelievo da un’unica persona. La consegna dei referti è anch’essa un’attività centralizzata e condivisa fra le tre tipologie di servizi e specializzata, in quanto la mansione prevede l’unico compito della consegna, previo riconoscimento mediante documento di identità e verifica dell’eventuale delega al ritiro. Le mansioni identificate per il personale di staff della IDI sono 5 (come schematizzato nella tabella): • l’operatore del call center, che svolge attività di prenotazione e informazione per la quale esistono ben 6 posizioni per coprire un orario esteso e far fronte alla massa delle chiamate negli orari di punta; • l’operatore al desk del laboratorio, che integra tutti i compiti a eccezione della consegna ma limitatamente ai servizi di laboratorio e per il quale esistono 5 posizioni distinte per soddisfare, soprattutto nelle ore mattutine, la mole di clienti che si presenta per i prelievi; • l’addetto alla consegna, che svolge un solo compito ma per tutti i servizi e per il quale esistono 2 posizioni; • l’operatore al desk delle immagini, che svolge accoglienza e amministrazione per i servizi di diagnostica per immagini: 2 posizioni in organico; • l’operatore al desk delle visite specialistiche, che svolge accoglienza e amministrazione per i servizi di diagnostica per immagini: 2 posizioni previste.

38 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE Servizi

Laboratorio

Immagini

Visite specialistiche

Compiti Operatore call center 6 posizioni

Prenotazione Informazione Accoglienza Amministrazione Consegna

L’ampiezza delle mansioni

Op. desk laboratorio 5 posizioni

Op. desk immagini 2 posizioni

Op. desk visite 2 posizioni

Addetto alla consegna, 2 posizioni

Il caso IDI ci illustra dunque concretamente i concetti di compito, mansione e posizione. Ci fa vedere come la maggiore dimensione e la varietà dei compiti e delle situazioni, nel caso specifico dovuta alla presenza di servizi diversificati, si presti a soluzioni organizzative differenti in termini di specializzazione orizzontale delle mansioni. Alcune sono più ampie, altre sono più ristrette. Ma quali sono i fattori che determinano l’ampiezza della mansione? Certamente, come abbiamo già osservato, un volume elevato di attività rende possibili mansioni più specializzate orizzontalmente e dunque più ristrette. Viceversa se i volumi sono modesti le mansioni sono necessariamente più ampie, come nel caso del piccolo poliambulatorio in cui una segretaria svolge tutti i compiti di informazione, prenotazione, accoglienza e consegna. Tuttavia, anche in presenza di volumi elevati le mansioni possono essere ampie, rinunciando ai vantaggi della specializzazione. Ciò accade quando tra compiti diversi vi sono interdipendenze significative, cioè legami logici e di precedenza (il concetto di interdipendenza è stato originariamente introdotto da Thompson, 1967). Le interdipendenze tra i compiti possono essere di diversi tipi, come illustrato dalla Figura 3.1. La presenza di interdipendenze suggerisce di accorpare i compiti e di affidarli, quando possibile, a un’unica persona per eliminare o ridurre il fabbisogno di coordinamento. Ad esempio, nel caso IDI accorpare informazione e prenotazione sembra una buona scelta. Infatti tra i due compiti vi è un’interdipendenza sequenziale, in quanto normalmente il cliente prima si informa e poi prenota o meno a seconda delle informazioni che riceve, oppure prenota in una certa data o con un certo specialista. In realtà, vi potrebbero essere anche interdipendenze reciproche in quanto il cliente che ha prenotato una prestazione può successivamente richiedere ulteriori informazioni, per rispondere alle quali l’operatore deve poter recuperare i dettagli della prenotazione. Se i due compiti fossero attribuiti a persone diverse, tra queste sarebbe necessario un coordinamento. Inoltre accorpando i due compiti interdipendenti il cliente riceve tutte le informazioni in una sola volta e parlando con una sola persona, senza attese e perdite di tempo. Questa scelta richiede tuttavia una maggiore competenza degli operatori, che devono essere informati e ca-

3. L’individuo nell’organizzazione ) 39

Figura 3.1

TIPI DI INTERDIPENDENZE

Interdipendenze sequenziali

Il compito A p recede il compito B, in quanto produce un risultato fisico o informativo che è un input necessario allo svolgimento di B. La struttura del processo e/o la tecnologia impongono le sequenze

Compito A

Compito B

Interdipendenze reciproche

I compiti A e B p roducono output che costituiscono input rispettivamente necessari a entrambi. L’attività procede attraverso un certo numero di cicli iterati di A e B

Compito A

Compito B

Interdipendenze legate alle risorse

A e B, pur non essendo logicamente collegati, di fatto interagiscono, perché condividono le stesse risorse tecnologiche o le stesse competenze

Compito A

Compito B

Interdipendenze spazio-temporali

Unitˆ di tempo e luogo

A e B pur non essendo logicamente collegati di fatto interagiscono, perché vengono svolti nello stesso luogo e/o nello stesso momento (unità di tempo e/o di luogo)

Compito Compito B A

paci di dare le risposte giuste al cliente. Dunque, mansioni ampie richiedono competenze variegate. Nel caso dei servizi di laboratorio la mansione è ancora più ampia e incorpora informazione, accoglienza e amministrazione. I tre compiti sono vincolati da interdipendenze legate alle risorse e spazio-temporali. Infatti i compiti vengono svolti contemporaneamente e nello stesso luogo a causa dell’interazione diretta tra cliente e operatore, il quale accede a un unico sistema integrato (risorsa condivisa) che fornisce informazioni sugli esami e sui costi delle prestazioni e che stampa la documentazione amministrativa. Si noti che nel caso degli altri servizi (diagnostica per immagini e visite specialistiche) informazione e prenotazione avvengono via telefono, mentre l’amministrazione avviene in presenza del cliente al momento dell’erogazione del servizio, anche diverso tempo dopo la prenotazione. Viene così meno l’unità di tempo e di luogo e dunque l’interdipendenza tra amministrazione e gli altri compiti. Per questo motivo è ragionevole progettare mansioni amministrative a sé stanti accorpate con l’accoglienza (ancora l’unità di tempo e luogo).

40 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

3.2.2 Discrezionalità e controllo

CASO

I ruoli manageriali Il caso IDI ci ha illustrato diversi aspetti della progettazione delle mansioni operative, quelle con un basso grado di autonomia e di delega decisionale. Naturalmente nelle organizzazioni vi sono anche mansioni per le quali il grado di discrezionalità è superiore e le persone hanno un controllo molto maggiore sul lavoro che svolgono. Il caso Italcementi (Caso 3.2) ci consente di introdurre queste mansioni, ripercorrendo lo sviluppo di carriera di uno dei suoi membri.

3.2

Italcementi: ruoli e mansioni in un gruppo in rapida crescita D.A., dopo essersi brillantemente laureato in ingegneria elettrica, venne assunto a metà degli anni Ottanta da Italcementi, impresa italiana leader nel settore del cemento, con una quota di mercato pari a circa il 30% e oltre 25 cementerie sul territorio. La crescita portò Italcementi ad adottare una struttura organizzativa nella quale i capi delle 5 funzioni principali – Produzione, Acquisti, Vendite, Risorse umane, Finanza e controllo, in forma di unità organizzative autonome – rispondevano direttamente al vertice aziendale. Il cemento, per quanto offerto in alcune linee di prodotto destinate a usi diversi, è considerato una commodity, ovvero un prodotto poco differenziato per il quale il cliente è sensibile quasi esclusivamente al prezzo. In passato alcune imprese straniere cercarono di entrare nel mercato italiano puntando su una forte riduzione dei prezzi. L’azienda rispose ponendo una forte enfasi sulla riduzione dei costi; in particolare all’interno della funzione Produzione furono standardizzati in modo efficiente i processi di lavorazione del cemento. La lavorazione del cemento prevede numerose fasi: estrazione del calcare e della marna dalla cava, trasporto in cementeria, macinazione in appositi mulini, essiccazione della farina ottenuta, cottura nei forni a oltre 1400 °C, raffreddamento, frantumazione della miscela ottenuta, e, infine, aggiunta di additivi specifici. L’Ing. D.A., dopo un periodo di formazione interna sulle principali tecnologie di processo, assunse l’incarico di controllore del mulino di macinazione nella cementeria di Vibo Valentia. Il suo compito principale era quello di controllare continuamente i parametri di funzionamento del mulino (ad esempio temperatura, grado di umidità, velocità di rotazione ecc.) e, nel caso essi si fossero discostati dai valori standard, egli avrebbe dovuto agire prontamente per ripristinare la situazione ideale seguendo procedure predefinite. Nel caso di situazioni impreviste, avrebbe dovuto invece interpellare il suo capo diretto, il supervisore di processo. Gli anni Novanta All’inizio degli anni Novanta l’azienda decise di rispondere alle minacce provenienti dai competitori stranieri tramite una strategia di fusioni e acquisizioni. Italcementi riuscì a insediare diversi impianti produttivi sia in Europa sia al di fuori di essa. All’interno della struttura organizzativa rimasero le 5 funzioni a livello di gruppo, alle quali si affiancarono le direzioni generali dei diversi Paesi (Italia, Francia, Marocco, Thailandia ecc.). Le funzioni di gruppo avevano il compito di coordinare le funzioni aziendali corrispondenti presenti in ogni Paese. La funzione Produzione di gruppo, ad esempio, definiva gli standard di processo da applicare nelle diverse funzioni Produzione che gerarchicamente rispondevano ai rispettivi Direttori generali di Paese. Al fine di mantenere il presidio delle attività a livello internazionale, la politica aziendale si concentrò sempre più sulla standardizzazione delle

3. L’individuo nell’organizzazione ) 41 procedure, sulla descrizione di come applicarle, e il potere decisionale dei manager locali risultò fortemente limitato. In questo contesto, l’Ing. D.A. accettò di assumere il ruolo di Responsabile della manutenzione all’interno della funzione Produzione in Jalaprathan Cement (una società acquisita in Thailandia). Egli rispondeva direttamente al Direttore di produzione ed era a capo di un team di 10 persone che si occupava della manutenzione delle due cementerie della Jalaprathan Cement. Il nuovo lavoro era completamente diverso da quello precedente e prevedeva compiti diversificati con una certa autonomia nello svolgimento delle attività di manutenzione. L’Ing. D.A. cercò di integrarsi nel miglior modo possibile nella nuova realtà interagendo frequentemente con i suoi colleghi all’interno e all’esterno della funzione Produzione, fronteggiando situazioni impreviste. Il contesto di un gruppo multinazionale Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio la situazione cambiò nuovamente. Italcementi proseguì la politica di fusioni e acquisizioni e diventò il quinto produttore di cemento a livello mondiale. La presenza in 20 Paesi pose l’azienda di fronte a situazioni molto diverse tra loro: Paesi in via di sviluppo presentavano caratteristiche ed esigenze completamente diverse rispetto a Paesi maturi e più avanzati. Questo portò l’azienda a differenziare le linee di prodotto Paese per Paese e a delegare molte decisioni alle realtà locali. Inoltre, anche le normative ambientali cambiavano a seconda delle diverse aree geografiche; di conseguenza un processo di produzione utilizzato in un Paese poteva non essere ottimale per un altro. Nel 2003, all’Ing. D.A. si presentò l’opportunità di assumere l’incarico di Direttore di stabilimento in Devnya Cement (in Bulgaria), con il compito principale di certificare i processi di produzione e manutenzione entro il 2004. Devnya Cement fu acquisita dalla Italcementi nel 1999 e da allora ha vissuto un periodo di forte ristrutturazione e riduzione del personale (da 900 a 250 persone) con l’obiettivo di rendere l’azienda più efficiente e più flessibile al cambiamento tramite una struttura organizzativa snella e fortemente centralizzata; le figure più rilevanti diventarono di fatto il Direttore generale, il Direttore di stabilimento e il Direttore vendite. In particolare, l’Ing. D.A. in qualità di Direttore di stabilimento ora supervisionava il lavoro di tre persone: il Responsabile di produzione, il Responsabile della manutenzione e il Responsabile della qualità. Queste 3 posizioni avevano a loro volta un team di persone allocate ad attività specifiche del lavoro.

Se guardiamo allo sviluppo professionale dell’Ingegner D.A. osserviamo come nella prima fase la sua mansione (controllore del mulino di macinazione) fosse piuttosto specializzata sia orizzontalmente (pochi i compiti previsti e accuratamente descritti) che verticalmente (poca l’autonomia e la delega decisionale, forte la presenza di procedure formalizzate). In una seconda fase della sua carriera la nuova mansione (responsabile della manutenzione) fu caratterizzata da minore specializzazione orizzontale (compiti più ampi e vari) anche se l’autonomia decisionale rimase sostanzialmente modesta. Anche il livello di formalizzazione della mansione era più basso. Non tutte le attività da svolgere erano descritte in modo minuzioso, molte lo erano in modo solo generico. Nella terza fase la mansione di D.A. (responsabile di stabilimento) è finalmente caratterizzata da una varietà di compiti molto ampia e da un potere decisionale elevato, circostanza questa favorita non solo dalla maturazione professionale individuale, ma an-

42 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Crescita professionale, allargamento e arricchimento dei ruoli

3.2.3

che dal mutato contesto strategico e organizzativo dell’azienda che induce il top management a delegare maggiori poteri alle realtà locali. Il percorso di D.A. è un caso tipico. Nelle organizzazioni sufficientemente grandi la crescita professionale delle persone progredisce da mansioni operative specializzate sia orizzontalmente sia verticalmente verso un allargamento (job enlargement) che porta a una mansione più varia fatta di compiti diversificati. Questo processo di allargamento conduce dapprima a quelle che potremmo definire come mansioni operative allargate caratterizzate da una spiccata versatilità degli operatori che possono svolgere compiti diversi. Un ulteriore allargamento conduce a quelle che definiamo come mansioni manageriali di livello medio-basso. L’essenza di queste mansioni è quella di gestire e coordinare attività complesse ma senza godere di un potere decisionale vero e ampio, bensì applicando schemi e procedure preordinati. Un’altra direzione della crescita professionale è tipicamente quella di arricchimento della mansione (job enrichment) con un aumento sensibile della delega decisionale. Questo processo conduce ai ruoli manageriali di livello elevato. Qui il livello di autonomia cresce e i manager di questo tipo hanno responsabilità ampie. I processi decisionali che li vedono coinvolti corrono spesso su un doppio binario: da un lato essi decidono in proprio, nell’ambito di deleghe ampie, e coordinano l’attività di molti collaboratori; dall’altro partecipano ai processi decisionali strategici dell’organizzazione, tipicamente condivisi tra un numero ristretto di persone che formano il top management di un’organizzazione (si veda in proposito il capitolo 7). I processi di job enrichment possono riguardare anche le mansioni operative. Ad esempio un operatore di linea in un processo produttivo può essere investito della responsabilità del controllo della qualità e delle azioni correttive per ristabilire gli standard qualitativi, o anche di alcune attività di manutenzione. In questi casi la sua autonomia e la delega decisionale aumentano, con un conseguente arricchimento della mansione.

Le mansioni professionali In molte organizzazioni vi è spazio anche per mansioni ancora diverse, le cosiddette mansioni professionali, caratterizzate da alta specializzazione orizzontale, ossia da un numero di compiti limitato (come le mansioni operative) ma viceversa da una elevata discrezionalità e autonomia decisionale (come i manager di livello elevato). Le mansioni professionali sono quelle che richiedono competenze avanzate, costruite attraverso processi formativi di alto livello e maturate attraverso l’esperienza sul campo. I medici specialisti del caso IDI (Caso 3.1) sono un esempio tipico di mansione professionale: l’insieme di compiti è piuttosto limitato e nessuno specialista è intercambiabile con un altro di una specialità differente. In questo caso la specializzazione orizzontale è il frutto non già della ricerca di efficienza e ripetitività – come

3. L’individuo nell’organizzazione ) 43

Figura 3.2

      

ESEMPI DI MANSIONI PROFESSIONALI

Ingegnere progettista meccanico con una forte competenza nell’uso del CAD 3D e nella progettazione virtuale a elementi finiti, impiegato nell’ufficio tecnico di un’azienda del settore aerospaziale Avvocato specializzato nelle operazioni di mergers and acquisition (M&A) nel settore bancario operante in un grande studio legale internazionale Tecnico manutentore di un’azienda manifatturiera con elevata conoscenza dei processi automatizzati, in grado di riprogrammare e mettere a punto le macchine e gli impianti Analista finanziario dell’ufficio studi di una banca di investimenti specializzato nelle analisi del settore delle public utilities Ricercatore farmaceutico impegnato nella ricerca e nei test sugli antitumorali impiegato nell’ufficio ricerche di una multinazionale Professore universitario che insegna una materia specialistica e conduce ricerche in un settore ben specifico all’interno di un dipartimento di un grande ateneo con più facoltà e corsi di laurea Pubblicitario ideatore di slogan, messaggi promozionali e loghi operante in un’agenzia di pubblicità

Know-how specifico avanzato

Differenze tra professionisti e manager

nel caso delle mansioni operative – ma della necessità di disporre di know-how avanzato, difficile da accumulare se non in un campo limitato. Per contro la possibilità di formalizzare più di tanto il comportamento specifico è limitata. Anche l’uso della supervisione diretta è solo parziale. Ancora con riferimento al caso IDI il potere gerarchico del Direttore sanitario sui medici specialisti è limitato agli aspetti di coordinamento tra i vari professionisti sull’uso delle risorse tecniche e del supporto degli staff. Ogni singolo professionista mantiene piena autonomia sul modo di svolgere il proprio lavoro. In termini di coordinamento, dunque, le mansioni professionali non possono essere efficacemente gestite attraverso la sola supervisione diretta, e ancora meno con la standardizzazione dei processi. Viceversa vengono gestite attraverso la standardizzazione delle competenze ed eventualmente dei risultati, oltre che mediante il mutuo adattamento. Le mansioni professionali accomunano differenti figure nei campi più svariati e nelle organizzazioni più diverse. Nella Figura 3.2 si riportano alcuni esempi di mansioni professionali. Ma dove e quando emergono i ruoli professionali? Dove le tecnologie si fanno sofisticate o più in generale la dimensione del sapere tecnico è fondamentale, là emerge il fabbisogno di professionisti. In alcuni casi la “professionalità” deve essere certificata da soggetti esterni e il professionista deve essere abilitato all’esercizio della professione, come nel caso del medico o dell’ingegnere che firma un progetto. La Figura 3.3 rappresenta le cinque tipologie di mansione che abbiamo analizzato in funzione della loro ampiezza e del potere decisionale. Occorre notare che la differenza tra ruoli manageriali di alto livello e ruoli professionali non sta solo nella maggiore ampiezza e varietà dei compiti dei primi. Anche il ruolo nei processi decisionali è fondamentalmente diverso: se per i professionisti il potere decisionale elevato riguarda l’ambito locale (il proprio lavoro e le proprie

44 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Figura 3.3

I DIVERSI TIPI DI MANSIONI

Specializzazione verticale

Potere decisionale

Job enrichement

Job enlargement Mansioni operative ristrette • Ripetitività • Norme e procedure

Mansioni operative allargate • Versatilità • Multifunzionalità • Norme e procedure

Mansioni manageriali di medio-basso livello • Coordinamento • Norme e procedure • Autonomia limitata

Mansioni manageriali di alto livello • Delega e autonomia • Bassa formalizzazione • Varietà e imprevedibilità dei compiti • Coinvolgimento nei processi decisionali strategici

Mansioni professionali • Compiti limitati ma sofisticati • Conoscenza tecnica • Autonomia decisionale locale

Specializzazione orizzontale

Ampiezza dei compiti

competenze), per i top manager l’ambito stesso delle decisioni è molto più ampio e, soprattutto, vi è la partecipazione diretta alle grandi decisioni di carattere strategico che coinvolgono anche gli altri manager. In generale i processi di job enlargement e di job enrichment sono stati visti con favore da molti studiosi, dai sindacati e dagli stessi lavoratori, in quanto renderebbero il lavoro più interessante e motivante. In una prospettiva sociologica e motivazionale assumono dunque un valore positivo. Questo è sicuramente vero per il job enrichment: autonomia decisionale e delega sono in generale un potente fattore di soddisfazione. Un po’ più ambiguo è viceversa il ruolo del job enlargement. In caso di mansioni veramente ristrette e ripetitive il solo job enlargement ha effetti positivi. In altri casi, e soprattutto per le mansioni professionali, l’allargamento della mansione può avere una valenza negativa: il professionista spesso vuole concentrarsi sul proprio lavoro specialistico senza dover dedicare tempo ed energie ad altri compiti. Ad esempio i medici specialisti del caso IDI (Caso 3.1) non vedrebbero con favore il fatto di dover svolgere anche solo in parte i compiti di supporto affidati allo staff (prenotazione, informazione, accoglienza, amministrazione e consegna dei referti)!

3. L’individuo nell’organizzazione ) 45 Liberi professionisti e professionisti organizzati

Il know-how tacito

3.2.4

Anche le mansioni professionali sono state oggetto di molta attenzione. Sul piano storico è avvenuto un cambiamento epocale. In principio vi erano le grandi organizzazioni burocratiche in cui le mansioni operative convivevano con quelle manageriali. Al contrario, le attività professionali erano per lo più svolte in forma autonoma: si pensi alla professione tradizionale del medico, dell’avvocato e anche dell’ingegnere progettista. Nelle organizzazioni i professionisti non c’erano o erano pochi. La crescente sofisticazione delle tecnologie e dei saperi tecnici ha indotto molte organizzazioni a ricercare sempre più i professionisti. Più la società nel suo complesso è basata sulla conoscenza e un numero crescente di lavoratori si trasforma nei cosiddetti knowledge workers, più le aziende diventano organizzazioni di professionisti. Nelle società evolute molte mansioni tendono a professionalizzarsi. D’altra parte alcune professioni in passato libere e svolte in forma autonoma oggi lo sono sempre meno. Quello che è avvenuto ormai un secolo fa nella professione medica – specializzazione e ospedalizzazione – sta avvenendo ora nella professione legale che in quasi tutti i campi si specializza e non è più un mestiere individuale. Emergono così strutture organizzative anche di grandi dimensioni – negli USA vi sono studi legali con più di 2000 avvocati! Le mansioni professionali presentano alcune peculiarità. Coordinare i professionisti tra loro e con il resto dell’organizzazione può essere complicato, poiché talvolta essi sono poco collaborativi. In alcuni casi il loro senso di identificazione con l’organizzazione è piuttosto basso mentre il senso di appartenenza va spesso alla categoria professionale (ordine, associazione professionale). Il desiderio di comunicare e di interagire si rivolge più ai pari che non ai colleghi di lavoro. Anzi, il termine “collega” viene usato nel senso di “pari”: un chirurgo ortopedico di un ospedale identifica come colleghi principalmente altri ortopedici impiegati in altri ospedali e non tanto i medici internisti e, meno che mai, gli infermieri impiegati nel suo stesso ospedale. Un altro aspetto peculiare dei professionisti riguarda la natura delle conoscenze che essi accumulano. Frequentemente tali conoscenze hanno un carattere tacito, ovvero non codificabile, non descrivibile in forma scritta (si veda anche il paragrafo 3.3.1). Questo le rende patrimonio dei singoli professionisti, difficilmente “appropriabile” da parte dell’organizzazione.

La formalizzazione del comportamento La formalizzazione del comportamento è il mezzo attraverso il quale il management riduce la discrezionalità dei membri dell’organizzazione, ricorrendo alla standardizzazione dei processi come meccanismo di coordinamento. Le modalità per formalizzare il comportamento sono essenzialmente due: 1. attraverso la descrizione minuziosa delle diverse mansioni e dunque vincolando il comportamento di ogni individuo alla mansione

46 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

che ricopre; si arriva in questo modo a determinare il cosiddetto mansionario, una raccolta delle diverse mansioni che prescrive gli specifici comportamenti individuali; 2. attraverso norme e procedure che hanno una valenza generale e, indipendentemente dalla mansione, prescrivono il comportamento in determinate circostanze. Ad esempio, la mansione di “custode” presso la sede di un’azienda può prevedere la presenza fisica nella guardiola per il turno di lavoro, il controllo dell’identità e la registrazione di ogni persona non dipendente che si presenti all’ingresso, il contatto telefonico per avvertire la persona ospitante dell’arrivo del visitatore, lo smistamento della corrispondenza, il giro di ispezione dopo la chiusura ecc. Esempi di procedure possono riguardare: • che cosa fare in caso di reclamo da parte di un cliente insoddisfatto che si rivolge a un dipendente generico, quale unità organizzativa contattare, quale modulistica utilizzare e come compilarla; • come comportarsi in caso di sospetta violazione della sicurezza dei dati, come bloccare gli accessi agli archivi informatici, come fare la tempestiva segnalazione ai tecnici ecc. La formalizzazione come strumento di controllo

La formalizzazione come strumento di coordinamento

Il comportamento viene formalizzato per ridurne la variabilità e quindi per prevederlo e controllarlo. Più in dettaglio le ragioni per formalizzare il comportamento sono molteplici: • anzitutto si riduce la probabilità e la frequenza di comportamenti indesiderati da parte dei membri dell’organizzazione e, in ogni caso, il management dispone di una base per le sanzioni contro tali comportamenti; nell’esempio precedente se un custode si allontana dalla guardiola durante il turno, o se alla fine del turno non effettua il giro di ispezione, ciò costituisce la base per una sanzione in quanto il comportamento non è stato conforme a quanto previsto dalla mansione ricoperta; • la formalizzazione del comportamento è l’altra faccia della standardizzazione dei processi; si formalizza per standardizzare e dunque per favorire il coordinamento; in particolare le norme e le procedure servono come potente meccanismo di automatico coordinamento tra persone diverse; il personale medico e paramedico a bordo di un’autoambulanza si affida a una procedura standard per eseguire una rianimazione su un paziente traumatizzato in un incidente stradale: il comportamento di ciascun membro della squadra è formalizzato e perciò prevedibile per gli altri membri; in tal modo il processo è coordinato; • in altri casi la formalizzazione serve a garantire un trattamento uniforme dei clienti o degli utenti evitando trattamenti preferenziali o lesivi della parità di diritti o di opportunità; questo aspetto è particolarmente rilevante nella pubblica amministrazione o in ambito bancario e assicurativo, tutti settori nei quali la presenza di

3. L’individuo nell’organizzazione ) 47

La formalizzazione come strumento di garanzia

Comportamenti elusivi

Mansioni formalizzate vs. ruoli interpretati

I professionisti e la formalizzazione

norme e procedure standardizzate è particolarmente forte e la formalizzazione del comportamento particolarmente spinta; • in alcuni casi la formalizzazione protegge non già i clienti bensì i membri dell’organizzazione contro l’arbitrio del management o le richieste e le pressioni dei clienti/utenti; l’esistenza di procedure difende il burocrate che può in tal modo appellarsi alle norme o al contenuto della propria mansione per non comportarsi come egli non desidera e come gli viene invece richiesto da qualcuno (superiore o cliente); naturalmente questo aspetto, in principio positivo, può anche degenerare, come accade talvolta nella pubblica amministrazione quando le norme vengono fatte per il comodo dei burocrati senza alcuna cura per il servizio reso agli utenti o quando la mansione viene usata in modo “difensivo”: quante volte ciascuno di noi non ha trovato soddisfazione a uno sportello e si è sentito rispondere “non dipende da me” oppure “non è compito mio”, oppure “questo non è previsto dalla procedura”! In linea generale è prevedibile che l’organizzazione cerchi di formalizzare almeno in parte il comportamento per controllarlo e il personale cerchi di contrastare questa tendenza, soprattutto quando la spinta alla formalizzazione si fa opprimente. L’opposizione può anche non essere esplicita, e basarsi sulla ricerca di margini residui di discrezionalità nelle pieghe di mansioni e procedure che in ogni caso non possono mai arrivare a determinare completamente il comportamento degli individui. In tutte le organizzazioni fortemente formalizzate si riscontra la tendenza ai comportamenti elusivi, basti pensare ai comportamenti tipici nei corpi militari. Naturalmente la formalizzazione del comportamento è collegata con gli altri parametri della progettazione della microstruttura e in particolare con la specializzazione orizzontale e verticale di cui abbiamo discusso nel capitolo 2. Le mansioni operative sono normalmente molto formalizzate, o almeno vi sono maggiori possibilità di formalizzarle. Le mansioni manageriali, soprattutto quelle di livello elevato, sono invece poco formalizzabili. Non a caso si parla più correttamente di ruolo manageriale. Il ruolo è l’insieme di aspettative di comportamento che l’organizzazione nutre nei confronti dell’individuo. Se la mansione è ampia e ricca, il margine di discrezionalità è elevato. Ciò significa che l’organizzazione è in grado di specificare solo in modo molto generico che cosa vuole dal singolo. Anzi, l’aspettativa riguarda i risultati e non tanto i modi, il che implica la prevalenza della standardizzazione dei risultati e delle competenze rispetto a quella dei processi. Per questo svolgere una mansione manageriale in realtà richiede di interpretarla: di qui il concetto di ruolo. Mentre la mansione si svolge, la posizione si ricopre, il ruolo si interpreta. Anche le mansioni professionali sono solitamente poco formalizzate. La natura stessa dei compiti e la presenza di conoscenza tacita le rendono poco formalizzabili in sé. Inoltre i professionisti sono in genere piuttosto insofferenti alle norme e alle procedure e, in alcuni casi,

48 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

anche alla gerarchia. Possono mostrarsi refrattari a condividere la conoscenza e perfino le informazioni più banali, consci che il loro potere nell’organizzazione e i benefici di cui godono dipendono in larga misura dalle competenze esclusive e difficilmente replicabili. Alcune organizzazioni cercano così di formalizzare almeno in parte le mansioni professionali, identificando i livelli e i percorsi di carriera e definendo le pratiche e i comportamenti da seguire. Da un lato, può esservi la necessità di rendere più omogeneo il livello di servizio e di standardizzare le pratiche professionali e le modalità di approccio ai clienti. Dall’altro, vi è spesso il tentativo di predisporre strumenti e meccanismi organizzativi per “estrarre” la conoscenza tacita dei professionisti e renderla più disponibile e trasferibile agli altri membri dell’organizzazione. Il Caso 3.3 illustra proprio una situazione al riguardo.

CASO

3.3

Bonelli Erede & Pappalardo: l’organizzazione dei servizi professionali L’evoluzione delle business law firm Bonelli Erede & Pappalardo (BEP) è una cosiddetta business law firm, ovvero uno studio legale che opera al servizio di imprese e istituzioni, assistendole nei contenziosi societari e nella stesura dei contratti complessi che hanno a che fare con le operazioni (fusioni e acquisizioni, scorpori e cessioni ecc.). Si tratta di servizi professionali di alta gamma che possono essere considerati il prototipo dell’organizzazione di professionisti. In effetti BEP conta circa 300 avvocati professionisti (di cui circa 60 soci) e un centinaio di persone di staff adibite a funzioni tecniche, amministrative e di segreteria. Lo studio ha 5 sedi: Milano, Roma, Genova, Bruxelles e Londra. Tradizionalmente, soprattutto in Italia, la professione legale è stata svolta in forma autonoma o attraverso piccoli studi che aggregano un numero limitato di professionisti. Solo recentemente sono emerse strutture di dimensioni medie e grandi, come appunto BEP. Nell’ultimo decennio, il settore delle business law firm ha avuto un forte sviluppo. In Italia alcuni studi nazionali hanno cavalcato questa tendenza e, attraverso fusioni e processi di crescita, sono stati in grado di fronteggiare le filiali italiane dei grandi studi di matrice anglosassone che hanno messo radici nel nostro Paese. BEP è uno dei grandi operatori italiani, nato appunto nel febbraio del 1999 dalla fusione dei rispettivi tre studi omonimi: Bonelli & Associati, Erede & Associati e Pappalardo & Associati. Ciascuno dei tre studi rappresentava un tipico esempio di “studio boutique”: di piccole dimensioni, caratterizzati da aree di competenza e attività ben determinate, dalla clientela estremamente selezionata per conto della quale venivano trattate operazioni particolari. Negli studi boutique, come in tutte le piccole strutture di professionisti, i ruoli sono assai poco formalizzati, il singolo professionista è abituato a muoversi con grande discrezionalità a coltivare un rapporto personale e fiduciario con il cliente, al punto che alcune piccole strutture sono di fatto delle associazioni dai legami molto deboli, nei quali l’aspetto predominante è la condivisione degli spazi e delle risorse di staff e quindi dei costi. Per BEP il balzo dimensionale a seguito della fusione generò una complessità organizzativa prima sconosciuta. Il governo dell’intera struttura fu affidato al Consiglio degli Associati, un organo elettivo con funzioni manageriali, di disegno delle strategie e assetti organizzativi: configurazione dei dipartimenti, introduzione di tecnologie IT, definizione formale dei meccanismi di avanzamento di carriera all’interno dello studio. All’indomani della fusione i pro-

3. L’individuo nell’organizzazione ) 49 fessionisti furono strutturati in 6 dipartimenti corrispondenti alle principali tipologie di servizi (Contenzioso, Diritto amministrativo e arbitrati internazionali; Diritto comunitario e antitrust; Società e finanza; Diritto del lavoro; Fiscale e tributario; Bancario e finanziario). In ogni dipartimento era presente la figura di un socio con il ruolo di coordinatore, una carica con una valenza organizzativa interna, per valutare i carichi di lavoro e la saturazione dei professionisti nell’allocazione ai progetti. I coordinatori furono anche incaricati di seguire la crescita professionale delle risorse. I professionisti I professionisti furono divisi in 2 categorie: soci e non soci (collaboratori). I ruoli dei collaboratori furono articolati su 3 livelli: professionista senior, junior e praticante. I soci furono articolati in due categorie: soci equity e soci non equity (junior partner). I soci equity partecipavano alla distribuzione degli utili dello studio, essendone a tutti gli effetti comproprietari. La categoria dei junior partner fu introdotta a seguito della fusione per consentire la maturazione di professionisti in possesso delle capacità, ma non dell’esperienza, necessaria per il ruolo di socio equity. Questa categoria apparve progressivamente di notevole utilità: consentiva infatti alle persone di essere valutate in modo più completo, acquisendo gradualmente le responsabilità connesse allo status di socio. Tuttavia, nonostante l’istituzionalizzazione del percorso di accesso alla partnership, i meccanismi di selezione e promozione rimasero di tipo informale, basati sul consenso e la cooptazione tra i soci anziani. Al contrario, la procedura di ripartizione dei profitti tra i soci equity era estremamente formalizzata e teneva conto della seniority, del contributo alla generazione di fatturato, di attività che portavano prestigio allo studio e anche dell’eventuale coinvolgimento dei soci giovani e dei collaboratori in nuovi progetti e attività. Questo aspetto era particolarmente significativo. Infatti, in molte realtà professionali la tendenza dei singoli avvocati a sentirsi in competizione, e a percepire i propri pari come una minaccia, si concretizza in una sostanziale resistenza alla condivisione del lavoro e delle informazioni. Poiché un simile comportamento non era coerente con la strategia di istituzionalizzazione di BEP, furono incentivati, anche economicamente, i comportamenti volti a favorire le collaborazioni. BEP istituì un sistema di reporting piuttosto strutturato, basato sulla compilazione di “timesheet”, nei quali venivano indicate le informazioni relative alle ore dedicate dal professionista alle diverse attività dello studio. Il sistema di reporting consentiva al Consiglio degli Associati di ricevere in automatico i dati mensili delle grandezze monitorate: le ore lavorate da tutti i professionisti, l’andamento del fatturato e dell’incassato – confrontato con i rispettivi valori dei due anni precedenti –, l’andamento dell’incassato individuale di ogni socio confrontato con il budget formulato a inizio anno. Considerata la grande variabilità delle attività realizzate dagli avvocati, la formulazione e la revisione trimestrale dei budget era spesso complessa. I ruoli di supporto All’epoca della fusione la struttura di staff era composta da ben 86 persone. Lo staff era gestito da un Direttore generale che riportava al Consiglio degli Associati. Le unità organizzative nelle quali erano inquadrate le risorse di staff erano le seguenti: Gestione delle risorse umane; Amministrazione e Controllo di gestione; Servizi generali e Sviluppo della struttura IT. La gestione dell’informatica, affidata in precedenza a persone esterne non specializzate, fu portata all’interno e affidata a un responsabile, con una qualifica e una solida esperienza nel settore. Le diverse sedi furono successivamente collegate mediante una rete Intranet. Si decise di utilizzare un sistema standard per la gestione della documentazione, che costituiva un elemento indispensabile per garantire il livello richiesto di produttività (mediamente si producevano 20.000 documenti nuovi ogni anno e si dovevano gestire 80.000 revisioni). La formalizzazione della struttura di staff era anche finalizzata all’istituzionalizzazione del rapporto con i soci. La presenza di un capo del personale dipendente (non dei professionisti),

50 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE ad esempio, contribuiva a slegare le esigenze dello studio da quelle dei singoli soci, togliendo di fatto a questi ultimi un grande margine di discrezionalità sulle risorse di staff. Il capo del personale interagiva con i soci anche per alcuni aspetti relativi ai collaboratori: in particolare nella gestione dei processi di valutazione, definizione dei percorsi di carriera, revisione delle retribuzioni, organizzazione di stage e periodi all’estero. La formazione Lo studio sostiene direttamente e indirettamente molte attività formative, per favorire la crescita professionale dei suoi giovani membri. In seguito alla fusione fu predisposto un sistema di supporto per i giovani praticanti, finalizzato al superamento dell’esame di abilitazione, mediante l’affiancamento a un avvocato nelle fasi di preparazione e svolgimento dell’attività processuale. Furono inoltre istituiti specifici corsi di preparazione all’esame di abilitazione. Per i praticanti e gli appartenenti alle prime fasce di avvocati furono organizzati degli ulteriori corsi interni di formazione. Si trattava di corsi tenuti prevalentemente da soci junior provenienti dai diversi dipartimenti, su alcuni argomenti di interesse. Un socio anziano fu incaricato di svolgere il ruolo di tutor per i praticanti. I corsi di formazione rivolti invece a tutti i menbri dello studio erano tenuti dai professionisti senior, eventualmente anche avvocati, notai o professori esterni. Infine, BEP favoriva ampiamente esperienze formative all’estero. L’opportunità era offerta ai professionisti meritevoli e attivi nello studio da almeno 2 anni. Lo studio finanziava anche una parte dei costi dei Master in Law, generalmente in scuole americane o inglesi. Di norma si cercava di abbinare a questa esperienza anche un periodo di secondment in uno studio straniero nell’ambito di un programma di scambi tra “studi amici”. I percorsi di carriera Le persone erano dedicate, fin dal loro ingresso nello studio come praticanti, ai dipartimenti specifici. All’interno dei singoli dipartimenti, nell’ambito quindi delle medesime competenze, si cercava di mantenere un’elevata flessibilità, evitando che i professionisti si specializzassero eccessivamente, favorendo al contrario il loro impiego in attività variegate. L’obiettivo di molte scelte organizzative era la creazione di un contesto di collaborazione e mobilità delle risorse. Nell’ambito delle valutazioni annuali venivano fornite ai professionisti le indicazioni relative agli avanzamenti di carriera, ai passaggi di fascia retributiva, o alla nomina a socio. Seppur in modo non formalizzato e rigoroso, BEP utilizzava il principio dell’up-or-out: dalle risorse infatti ci si attendeva annualmente una progressione di carriera; se questo non accadeva per due anni consecutivi a causa di valutazioni non eccellenti o almeno buone, la persona era portata a trovare una nuova collocazione. Tuttavia, in alcune occasioni venne chiaramente indicata la non idoneità del candidato alla posizione di socio, ma non per questo la persona fu indotta ad abbandonare lo studio. Esistevano infatti delle figure, indicate come senior lawyers, che svolgevano un lavoro utile e apprezzato all’interno dello studio, pur senza accedere alla partnership. La gestione della conoscenza Nelle organizzazioni come BEP si generano molte forme di scambio e condivisione della conoscenza di tipo informale, basate essenzialmente sul dialogo tra i professionisti. Tuttavia, BEP cercò di esplicitare la conoscenza in forme più strutturate. La collaborazione con gli studi stranieri, ad esempio, si concretizzava in una serie di documentazioni relative alle best practices in alcune tematiche di particolare interesse. Furono inoltre costituiti gruppi di studio e di lavoro che si occupavano di elaborare, a seguito di analisi tecnico-giuridiche, un’opinione riguardo alcuni temi. Questa costituiva poi la posizione concorde e ufficiale dello studio su determinati punti di dibattito. Tutti i membri dello studio potevano usufruire della documentazione per la ricerca testuale in rete, a eccezione di alcuni documenti riservati. Esi-

3. L’individuo nell’organizzazione ) 51 stevano archivi su svariate materie di comune trattazione, con strumenti di ricerca per l’individuazione di pareri o precedenti. A differenza di quanto già avveniva in alcuni studi internazionali, BEP non utilizzava archivi di modelli standard, che mostrassero le modalità più utilizzate per una certa pratica. Le motivazioni erano più culturali che tecniche: l’intento di BEP era infatti quello di stimolare nei praticanti la capacità di sviluppare autonomamente una pratica, e non solo di applicare modelli già preparati. Di fatto però i professionisti con maggiore esperienza agivano come filtro e guida: erano infatti portatori di una serie di modelli di riferimento, che venivano utilizzati dai collaboratori come base di partenza. Lo studio riconosceva, tuttavia, di dover recuperare un certo ritardo su questo tema rispetto agli studi stranieri. Nonostante infatti il lavoro venisse ritenuto non completamente standardizzabile, l’utilizzo di modelli simili poteva presentare una notevole utilità.

Il caso BEP illustra chiaramente come la trasformazione del settore, la concentrazione e la crescita dimensionale abbiano imposto profonde trasformazioni a una tipica organizzazione di professionisti. Lo scopo dichiarato delle trasformazioni organizzative è stato quello dell’istituzionalizzazione, ovvero dell’affermare la logica dell’istituzione nel suo complesso con valori, obiettivi, saperi e pratiche fortemente condivisi al di là delle individualità dei singoli professionisti. Naturalmente, in quella che rimane un’organizzazione di professionisti, le mansioni non possono essere formalizzate più di tanto, pena la perdita di qualità e di capacità tecnica e relazionale. Tuttavia, comportamenti più omogenei e coerenti con lo spirito dell’istituzione sono stati realizzati senza coercizione (norme rigide o mansioni dettagliate) grazie al complesso delle azioni strutturali come la creazioni dei dipartimenti, i livelli di carriera e il meccanismo dell’up-or-out, i sistemi formalizzati di reporting, gli investimenti tecnologici per la creazione di database condivisi, la managerializzazione della struttura di staff e la rottura del legame esclusivo tra professionisti e staff di supporto.

3.2.5

L’organizzazione come “macchina”

I sistemi organici e meccanici La formalizzazione del comportamento è molto variabile non solo all’interno della stessa organizzazione (tra una mansione e l’altra). Differenze notevoli emergono anche confrontando organizzazioni distinte, in alcune delle quali il comportamento è mediamente assai più formalizzato che in altre. Tale varietà è descritta da un continuum tra due estremi, rappresentati da due celebri metafore organizzative: il sistema meccanico e il sistema organico (si veda in proposito Morgan, 1986). La metafora del sistema meccanico guarda all’organizzazione come a una macchina, composta da molteplici parti, meccanismi e ingranaggi, ciascuno dei quali svolge una funzione predeterminata. Specializzazione e differenziazione dei compiti sono spinte al massimo. L’interazione tra le diverse parti è pure predeterminata. La macchina raggiunge i suoi scopi in un solo modo: essa può funzionare solo se tutte

52 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

L’organizzazione come “essere vivente”

Le persone: parti di ricambio o organi per trapianti

le parti svolgono in modo corretto le funzioni per le quali sono state progettate e se interagiscono come prescritto. Le parti sono anche sostituibili se non sono in grado di svolgere correttamente la funzione. Le analogie si colgono immediatamente. Gli individui sono le parti del sistema, così come gli ingranaggi lo sono della macchina. Come gli ingranaggi, gli individui della macchina organizzativa devono svolgere funzioni rigidamente e precisamente progettate. Sono sostituibili in ogni momento e anzi qualunque individuo, con una preparazione adeguata, può diventare un ingranaggio della macchina. La standardizzazione dei processi e, in secondo luogo, la supervisione diretta sono i meccanismi di coordinamento principali. L’organizzazione è concettualmente scissa dai suoi membri che, appunto, sono individualmente inessenziali in quanto sostituibili. Il concetto di ruolo da interpretare non fa parte della metafora meccanica. L’idea di sistema meccanico ha molti punti di contatto con quella di burocrazia weberiana introdotta nel capitolo 1. Il sistema organico presenta caratteristiche opposte. La metafora è quella biologica di un organismo vivente nel quale le diverse parti svolgono sì funzioni differenziate, ma contribuiscono allo scopo collettivo attraverso funzioni individuali che vengono continuamente ridefinite attraverso l’interazione con gli altri. Il sistema organico è aperto, consegue i suoi obiettivi in modi differenti, interagisce con l’ambiente adattandosi a situazioni esterne mutevoli. Nel sistema organico, accanto alle relazioni gerarchiche e verticali vi sono, forse più importanti, relazioni orizzontali e flussi informativi tra pari. Alla base della metafora biologica vi sono i concetti di sopravvivenza e di crescita. Un sistema meccanico e predeterminato è inadatto a sopravvivere e prosperare in un ambiente mutevole. Vi sopravvive invece un’organizzazione flessibile, non rigidamente preordinata ma per così dire fluida, capace di modificarsi in quanto basata sul mutuo adattamento e sulle forme più evolute di standardizzazione (quelle delle competenze e, in parte, dei risultati). Nei sistemi organici, dunque, la formalizzazione delle mansioni è necessariamente bassa. Infine, nei sistemi organici le risorse umane non sono perfettamente intercambiabili e facilmente sostituibili, proprio perché il loro valore è legato non solo alla funzione o al compito che devono svolgere in astratto ma, soprattutto, al network di relazioni, alle conoscenze tacite, al fatto di essere inseriti in un contesto organizzativo che si conosce e al quale si contribuisce al di là del compito. Proseguendo ancora nella metafora, se in un sistema meccanico le parti di ricambio possono facilmente prendere il posto dei componenti originari e anzi una “normale politica di manutenzione” prevede la sostituzione delle parti, in un sistema organico la sostituzione di un organo prevede un trapianto, non impossibile ma comunque più problematico di una sostituzione. In cambio, i sistemi organici sopravvivono e si adattano entro certi limiti alla compromissione o anche alla perdita di alcuni organi, magari sviluppando funzioni suppletive a opera di altri organi: senza un rene si sopravvive facendo lavorare maggiormente l’altro!

3. L’individuo nell’organizzazione ) 53

Sistemi organici e meccanici sono tipi ideali che in quanto tali non esistono nella realtà. Le organizzazioni reali possono essere più o meno sbilanciate verso un tipo o verso l’altro. Inoltre, una singola organizzazione può avere alcune sue parti più aderenti al tipo meccanico e altre al tipo organico. Ad esempio, nelle grandi imprese industriali solitamente l’ambiente di fabbrica è più orientato al sistema meccanico, con forte standardizzazione dei compiti ed elevata formalizzazione delle mansioni; viceversa, nel reparto ricerca e sviluppo dove vengono progettati i nuovi prodotti e sviluppate le nuove tecnologie l’organizzazione è più orientata al tipo organico, con mansioni professionali meno formalizzate e bassa standardizzazione. Nel capitolo 4 i sistemi meccanici e organici saranno ripresi in relazione alla macrostruttura, mentre nel capitolo 6 le due metafore saranno nuovamente utilizzate per descrivere come cambiano le organizzazioni al variare dell’ambiente in cui operano.

3.2.6

Formazione e apprendimento sul “campo”

La formazione Un elemento essenziale della progettazione organizzativa a livello micro è la formazione. Se le mansioni sono semplici e ristrette la formazione ha un ruolo marginale e chiunque può rapidamente apprendere quello che deve fare ed essere inserito nell’organizzazione. In questi casi si parla più propriamente di addestramento. Viceversa, più la mansione è complessa e il corpo di conoscenze necessarie è ampio e sofisticato, più l’organizzazione deve preoccuparsi di dar modo e tempo alle risorse di apprendere e consolidare le conoscenze. Questo può avvenire in diversi modi, anche complementari. Quando le conoscenze, per quanto vaste e complesse, hanno natura astratta e soprattutto codificabile, la formazione è lo strumento essenziale. Come abbiamo già osservato nel capitolo 2, la formazione è necessaria per realizzare la standardizzazione delle competenze. In molti casi le organizzazioni cercano di reclutare risorse già formate e quindi già in possesso delle conoscenze necessarie allo svolgimento della mansione. Nel caso Bodin del capitolo 2 (Caso 2.3) vengono assunti due diplomati da un istituto tecnico, rispettivamente per il ruolo di disegnatore e per quello di cartonista, e il titolare si aspetta che già conoscano le tecniche del disegno industriale. La formazione curriculare, precedente l’inserimento nel mondo del lavoro, non solo standardizza le competenze ma ne offre anche una certificazione. Con il compimento di determinati studi gli individui conseguono dei titoli che certificano determinate loro capacità, e in alcuni Paesi, tra i quali il nostro, i titoli conseguiti hanno un valore legale. Tuttavia, raramente le conoscenze necessarie hanno solo una natura astratta e codificata. Nella maggior parte dei casi vi è una significativa componente tacita che anzi può essere predominante. Occorre allora il cosiddetto affiancamento, un periodo nel quale la nuova persona svolge un ruolo di apprendista sotto la guida di un maestro e apprende i “segreti del mestiere” da un esperto che ha già accumulato

54 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Strumenti e durata della formazione

Valori, cultura, socializzazione e indottrinamento

esperienza. Il training on the job ovvero la formazione all’interno del contesto lavorativo e durante l’esperienza di lavoro si rivela in molti casi una combinazione vincente per apprendere concretamente ciò che serve alla mansione. Tutte le mansioni professionali richiedono l’affiancamento, a causa di una componente significativa di conoscenza tacita. Un chirurgo prima si forma sui banchi di un’università dove apprende tutte quelle nozioni ampie, variegate ma sostanzialmente codificate e astratte che sono necessarie alla professione, e poi deve seguire un periodo più o meno lungo di tirocinio durante il quale frequenta un’organizzazione reale (un ospedale) e apprende osservando e assistendo altri chirurghi. Solo al termine di questo percorso egli è abilitato effettivamente alla professione. Logiche e prassi simili esistono nella maggior parte delle professioni. Maggiori sono le competenze necessarie più ampio e variegato diviene lo spettro di strumenti di supporto. Il caso BEP (Caso 3.3) ci illustra una pluralità di strumenti per elevare e standardizzare le competenze in un’organizzazione di professionisti: formazione tradizionale, quella che le persone conseguono nel loro curriculum scolastico e universitario prima di entrare nel mondo del lavoro; ma anche formazione interna ad hoc su tematiche specialistiche e innovative, affiancamento e ruolo dei mentori che seguono e verificano la maturazione dei giovani; formazione post laurea e post esperienza come quella dei master. Con l’affermarsi della società della conoscenza la formazione esce dai confini tradizionali e diventa un’esperienza continua che dura tutta la vita. Si fa riferimento alla cosiddetta life-long education, attraverso la quale gli individui – i professionisti – mantengono aggiornato lo stock di conoscenze necessarie ritornando periodicamente ad apprendere e a sperimentare sul campo le competenze acquisite. La formazione, in particolare quella svolta internamente, contribuisce alla socializzazione, ovvero a quel processo attraverso il quale i membri dell’organizzazione apprendono e interiorizzano i valori, la cultura e gli stili di comportamento propri dell’organizzazione. Questo aspetto è sempre presente in modo più o meno esplicito e in ultima analisi è finalizzato a sviluppare o a rafforzare il senso di lealtà, di identificazione e di appartenenza degli individui nei confronti dell’organizzazione. In alcuni casi si può parlare di una forma ulteriore di coordinamento basato sulla standardizzazione che, al di là dei processi, risultati e competenze, mira alla standardizzazione dei valori. Nelle organizzazioni di natura ideologica, politica o religiosa questo aspetto assume una rilevanza centrale. L’organizzazione si assicura che i suoi membri condividano ideali e valori e che le norme siano vissute come emanazione diretta di tali valori e ciò, più di ogni altra cosa, garantisce che i membri agiscano nell’interesse collettivo. Lo strumento che l’organizzazione utilizza a tal fine è il cosiddetto indottrinamento, indissolubilmente legato alla formazione. Il periodo di seminario per coloro che si preparano a divenire ministri della Chiesa, il periodo dell’accademia per gli ufficiali dell’Esercito o le vecchie scuole di formazione politica dei partiti politici tradizionali

3. L’individuo nell’organizzazione ) 55

sono (o erano) esempi tipici di formazione-indottrinamento. Anche nelle organizzazioni non ideologiche come le aziende e le pubbliche amministrazioni sono però presenti forme più blande di indottrinamento tipicamente mescolate alla formazione di ingresso.

3.3

I driver delle prestazioni individuali

Figura 3.4

Prestazioni, capacità e motivazioni individuali Abbiamo fin qui trattato i compiti e le mansioni prescindendo dagli individui che le ricoprono. È di tutta evidenza che individui diversi che svolgono la stessa mansione o, più genericamente, la stessa attività possono ottenere risultati diversi. La prestazione individuale può essere definita in termini quantitativi e/o qualitativi e in ogni caso è legata alla mansione. Per le mansioni semplici e ristrette la prestazione è facile da valutare e spesso collegabile a uno o pochi parametri quantitativi. Ad esempio, con riferimento al caso IDI (Caso 3.1) l’operatore al desk laboratorio sarà facilmente valutabile sul numero di clienti serviti e sulla percentuale di errori nelle attività amministrative. Per le mansioni complesse e poco formalizzate la valutazione della prestazione è più complessa e di norma implica una maggiore soggettività da parte del valutatore. Ad esempio, nel caso BEP (Caso 3.3) la valutazione degli avvocati da parte dei soci è alquanto complessa, implica diversi parametri e una notevole soggettività nel giudizio. Non a caso in situazioni simili vi è lo sforzo costante per rendere la valutazione più oggettiva e trasparente se non proprio quantitativa. La prestazione dipende da due fattori: la capacità e la motivazione. Individui con capacità analoghe possono ottenere prestazioni diverse così come individui meno motivati possono anche ottenere prestazioni superiori grazie a capacità eccellenti. La Figura 3.4 esemplifica la relazione qualitativa tra prestazione, capacità e motivazione. RELAZIONE TRA PRESTAZIONE, CAPACITÀ E MOTIVAZIONE Prestazione Individuo con capacità superiore

Individuo con capacità inferiore

Motivazione

56 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

3.3.1 Intelligenza, destrezza, abilità psicomotorie

Capacità innate e competenze acquisite

Le comunità di pratiche; la socializzazione delle competenze

Capacità e competenze La capacità è una caratteristica intrinseca individuale che sta alla base di una prestazione efficace o superiore in una specifica attività o mansione. È un insieme di caratteristiche intellettuali, di abilità mentali e psicomotorie, di conoscenze esplicite e tacite e, infine, del grado o della possibilità di utilizzo della tecnologia. Per uno sciatore agonistico la capacità di sciare è il risultato delle sue abilità motorie, della prontezza di riflessi, di precise conoscenze tecniche, prevalentemente tacite e rinforzate dall’esperienza delle gare e degli allenamenti, e del fatto di utilizzare e far rendere al meglio le tecnologie necessarie (sci e scarponi). Nel caso di un pilota di Formula 1 il ruolo della tecnologia è ancora superiore e la capacità è una combinazione di abilità psicomotorie e di destrezza nell’uso della tecnologia. Le capacità sono caratteristiche individuali relativamente stabili nel tempo. Possono essere migliorate attraverso l’applicazione e l’apprendimento, ma entro determinati limiti. Infatti, vi sono individui naturalmente dotati di capacità eccezionali, il cui livello è comunque irraggiungibile per le persone “normali”. Frequentemente, nella realtà aziendale e nella letteratura organizzativa, al posto del termine capacità si utilizza il termine competenza. I due concetti, invero molto simili, differiscono per alcune sfumature. Le capacità hanno una valenza più innata e, viceversa, il termine competenza dà l’idea che lo studio e l’esperienza abbiano un ruolo dominate. Nel linguaggio corrente quella di un grande pianista la definiremmo “capacità” (anche se indubbiamente occorrono anni di studio e di applicazione per farla maturare), mentre quella di un egittologo capace di decifrare geroglifici la definiremmo più facilmente “competenza”. In questo senso, la formazione contribuisce direttamente alla generazione delle competenze più che delle capacità. Anche in senso negativo i due termini hanno sfumature differenti. Dire di qualcuno che non ha le capacità per svolgere un’attività significa esprimere un giudizio negativo abbastanza definitivo relativo all’insufficienza delle capacità fisiche e intellettuali rispetto agli obiettivi. Dire che non ha le competenze significa lasciare aperta la porta al fatto che potrebbe forse acquisirle se fosse adeguatamente formato e si applicasse. Infine, la competenza fa spesso riferimento non solo agli elementi tecnici ma anche a quelli comportamentali, legati al ruolo e alla sua corretta interpretazione. Infatti, per i professionisti e i manager si fa riferimento rispettivamente alle competenze professionali e manageriali. Nei paragrafi 3.2.3 e 3.2.4 abbiamo già accennato alla tendenza dei professionisti a intrattenere relazioni con i loro pari anche esterni all’organizzazione e al carattere tacito della conoscenza che sta alla base delle loro competenze. Un fenomeno interessante emerso di recente è quello che va sotto il nome di comunità di pratiche: si tratta di gruppi informali di persone che condividono interessi professionali pur avendo bassi legami operativi e scarsa occasione di interazione sul lavoro. I membri di queste comunità possono perfino appartenere a organizza-

3. L’individuo nell’organizzazione ) 57

zioni diverse, ma la spinta comune a confrontare le esperienze e ad apprendere sono così forti e trovano un supporto nelle tecnologie informatiche di comunicazione (siti, forum, comunità virtuali) che le comunità possono costituire un ambito sociale “virtuale” denso di senso più che non l’ambiente fisico di lavoro. Le comunità di pratiche si differenziano dai gruppi di lavoro o team (che discuteremo più avanti) in quanto non sono direttamente finalizzate a obiettivi di carattere aziendale. Le comunità di pratiche sono il contesto autorganizzato e parallelo nel quale i professionisti si scambiano e socializzano le conoscenze tacite, arrivando a determinare implicitamente linguaggi, comportamenti, simbologie e risposte coerenti a problemi e situazioni simili. Il Caso 3.4 illustra un noto esempio di comunità di pratiche.

CASO

3.4

Xerox: la comunità di pratiche dei tecnici di manutenzione Nata negli anni Cinquanta del secolo scorso, Xerox è una multinazionale leader nel settore delle macchine copiatrici per ufficio. Il problema della manutenzione di queste macchine è sempre stato molto critico, per la complessità tecnologica e l’elevato utilizzo. La fotocopiatrice guasta è un classico in qualunque ufficio! Negli ultimi due decenni il livello di servizio richiesto dai clienti è diventato maggiore. Parallelamente si sono fatte più pressanti le necessità di contenere i costi della manutenzione. All’inizio degli anni Novanta, Xerox cercò di migliorare notevolmente la sua capacità di intervento rapido ed economico. Predispose a tal fine una considerevole mole di materiale documentale sui problemi tecnici e sul modo migliore di risolverli presso il cliente. Venne realizzato anche un sistema esperto installato su computer portatili che doveva consentire ai tecnici di identificare ogni problema e di rintracciare la migliore soluzione e intervento di ripristino. I risultati furono però deludenti. Numerosi problemi, molto più frequenti del previsto, non erano contemplati dal sistema esperto oppure si presentavano in forme diverse. Xerox abbandonò il progetto e cambiò approccio. Decise di studiare direttamente il comportamento dei tecnici, almeno di quelli più esperti, e scoprì un fatto allora ritenuto sorprendente. Nonostante quella del tecnico manutentore fosse ritenuta una mansione professionale altamente individuale – in effetti il lavoro di manutenzione si svolge in autonomia e solitudine presso il cliente – e con un forte contenuto di conoscenza tacita, i tecnici coltivavano una forte dimensione sociale, condividendo esperienze e conoscenze. Utilizzando tutti gli spazi informali quali le pause pranzo, i coffee break a metà turno e perfino il tempo libero nei weekend, la comunità dei tecnici si incontrava e si scambiava esperienze, problemi, consigli, socializzando la conoscenza e sviluppando una dimensione collettiva del sapere, sebbene del tutto informale. Il veicolo principale di questo processo si rivelò la narrazione delle cosiddette war stories, cioè casi difficili e situazioni complicate il cui racconto, venato spesso di toni epici e talvolta esagerati, costituiva però l’occasione per catalizzare l’interesse e il coinvolgimento dei tecnici. La comunità di pratiche funzionava molto meglio del sistema esperto.

Negli ultimi anni il concetto di competenza ha ricevuto molta attenzione in particolare sotto due profili, il primo di carattere strategico, il secondo legato al tema della gestione operativa del personale. Dal

58 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE Dalle competenze individuali a quelle organizzative

La valutazione delle competenze

CASO

punto di vista strategico è diffuso il concetto di competenze chiave o core compentences (Prahalad e Hamel, 1990). Secondo questo approccio le organizzazioni sono viste come insiemi di competenze e il loro successo competitivo dipende dal possesso di competenze distintive rispetto ai concorrenti, ovvero dal sapere efficacemente combinare superiori capacità individuali o collettive in uno o più dei principali processi aziendali (l’innovazione, il servizio al cliente, il marketing e le vendite, gli acquisti). In questo senso la competenza perde il suo carattere strettamente individuale e diventa competenza tipica dell’organizzazione. Il secondo ambito di interesse per il concetto di capacità/competenza è legato alla valutazione e retribuzione delle risorse. Recentemente si sono infatti affermate logiche di valutazione non più rigidamente collegate alla mansione, ma volte a valutare le competenze effettivamente possedute dagli individui, non solo nei ruoli professionali o manageriali, ma anche in quelli operativi, come dimostra il caso Heineken (Caso 3.5a).

3.5a

Heineken: pay for competence La produzione della birra Heineken Italia è la società operativa italiana che fa capo alla multinazionale olandese Heineken NV, produttore di birra tra i leader a livello mondiale. Nel 2007 l’azienda introdusse diversi cambiamenti organizzativi nei suoi stabilimenti. All’epoca Heineken Italia impiegava circa 1.100 persone e aveva una quota di mercato nazionale pari al 33%. La produzione complessiva era di ben 5,8 milioni di ettolitri e veniva realizzata in cinque differenti stabilimenti. I processi produttivi erano altamente automatizzati, sia nella fase di fabbricazione della birra sia nel confezionamento e imballaggio. Il ruolo del personale addetto alle linee era di impostazione, controllo e gestione delle macchine, mentre i compiti manuali erano già assai ridotti. Alcune attività, come la movimentazione a fine linea, erano appaltate a cooperative di handling per trasformare i costi fissi in costi variabili: si trattava di attività poco critiche e relativamente semplici. Le attività critiche di produzione erano invece svolte esclusivamente dai dipendenti dell’azienda. Le attività di manutenzione semplice furono delegate agli operatori, grazie a un programma di Total Productive Maintenance (TPM). La figura dei manutentori di reparto fu quindi eliminata: rimase uno staff dedicato ai servizi tecnici a livello di stabilimento, che si occupava degli interventi tecnici maggiori e della manutenzione programmata e preventiva. Anche per quanto riguarda la qualità, alcuni controlli furono delegati agli operatori in linea mentre altri furono automatizzati o svolti in laboratorio. Gli operatori in produzione, anche in virtù del layout dell’area di imbottigliamento, avevano finalmente una visione d’insieme dei risultati e delle problematiche a livello di processo. Questo stimolò un atteggiamento attivo. Il coinvolgimento e la responsabilità si dimostrarono fattori motivanti, ma comportarono anche alcuni svantaggi. Si registrò un aumento dello stress sia per gli operatori che per il management a causa dell’incalzare delle attività. Entrambi i gruppi testimoniarono che un’organizzazione di questo tipo è più provante rispetto a una gerarchia tradizionale, con compiti semplici e ben definiti.

3. L’individuo nell’organizzazione ) 59 Il sistema Multitasking Multiskilling Successivamente a questi cambiamenti Heineken Italia introdusse un sistema di valutazione e di gestione delle competenze a supporto della polivalenza degli operatori denominato Multitasking Multiskilling System (MTS). Per ogni area e reparto della produzione, si avviò la mappatura delle competenze tecniche (ad esempio la capacità di avviare le macchine, di cambiare il formato di imbottigliamento, di eseguire compiti di manutenzione e di controllo qualità) e di quelle professionali (ad esempio, il saper gestire delle risorse o saper coordinare il lavoro di gruppo). Alcune competenze e capacità erano specifiche di alcuni reparti (ad esempio fabbricazione o imbottigliamento), altre erano specifiche di alcuni ruoli (ad esempio i tecnici della manutenzione), altre ancora infine erano comuni a tutti i dipendenti in produzione. A partire dalla mappa furono costruite schede per la valutazione di tutti i dipendenti. A ogni competenza corrisposero un punteggio di base e diversi coefficienti, variabili a seconda dei diversi gradi di padronanza, dal “saper fare assistiti” al “saper fare da soli”, fino al “saper insegnare”. Il punteggio conseguito da ogni dipendente per ogni singola competenza posseduta corrispondeva al punteggio di base, moltiplicato per il coefficiente del grado di padronanza. A questo si sommava il punteggio dato dalle capacità professionali. Il totale conseguito da ogni dipendente determinava l’inquadramento professionale e retributivo. Al momento della valutazione, oltre al risultato attuale veniva indicato l’obiettivo a 12 mesi, assieme a un percorso di miglioramento graduale e sostenibile, guidato dalle esigenze dell’azienda. Questo sistema di valutazione si dimostrò capace di promuovere naturalmente la polivalenza degli operatori, identificando competenze e capacità relative a tutti i reparti. Risultò inoltre funzionale al lavoro di gruppo, perché permetteva di costituire i team assicurando che tutte le competenze necessarie fossero presenti. Il sistema era compatibile con la struttura non gerarchica dei team (si veda il Caso 3.5b). La crescita professionale non avveniva solo ed esclusivamente tramite l’avanzamento gerarchico, ma poteva ora procedere in maniera parallela per tutte le persone capaci e disponibili a imparare e migliorare le proprie competenze e capacità. Rispetto a questo sistema di valutazione, la contrattazione collettiva e gli inquadramenti contrattuali tradizionali costituivano un vincolo. Data la professionalità elevata richiesta dai ruoli, gli operatori in Heineken erano di fatto tutti inquadrati nei tre livelli più alti previsti. Non era quindi possibile premiare il miglioramento delle competenze e offrire a ognuno un percorso personalizzato di crescita. Heineken Italia allora contrattò con le rappresentanze sindacali aziendali un sistema di inquadramento ad hoc, che prevedeva alcuni livelli intermedi tra quelli previsti dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. Infine, oltre al sistema individuale di valutazione di tipo pay for competence, Heineken introdusse un premio aziendale a livello di stabilimento in funzione di obiettivi di qualità, rese, consumo di risorse e sicurezza.

3.3.2

Le teorie della motivazione Consideriamo nuovamente l’esempio dello sportivo visto in precedenza. Tutti i grandi campioni di ogni sport attraversano periodi di crisi nei quali la prestazione scade anche se la capacità, inclusa la componente tecnologica, rimane inalterata. La ragione di prestazioni variabili nel tempo a parità di capacità (ivi incluso lo stato di for-

60 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE La motivazione determina la prestazione

ma fisica) è la differente motivazione che, può variare nel tempo. Infatti, anche nella percezione corrente si accetta l’idea che quando lo sportivo ritrova la giusta motivazione senza aver perso la capacità ritorna ad avere buoni risultati. Che cos’è dunque la motivazione? Anche se il concetto è abbastanza intuitivo, una definizione formale e univoca di motivazione è difficile da dare. Tuttavia, si riconosce che alla base della motivazione vi è un insieme di forze consce e inconsce che spinge gli individui verso determinate azioni o comportamenti. Tali spinte possono essere dovute a fattori diversi spesso compresenti: l’edonismo, ovvero la ricerca di piacere e soddisfazione immediata, gli istinti, cioè le tendenze biologiche innate, ma anche le esperienze passate e i segni consci o inconsci e i valori che queste lasciano negli individui e, infine, i bisogni e le aspettative future. Tra le molte definizioni qui utilizziamo quella fornita da Pilati (1995): “La motivazione è l’insieme dei motivi che ci spingono ad agire, che sono in relazione con obiettivi e interessi e che sono guidati da processi cognitivi ed emotivi”. In una prospettiva manageriale, la motivazione è anche l’insieme delle azioni e dei meccanismi che un’organizzazione utilizza per spingere (motivare appunto) i suoi membri verso gli obiettivi istituzionali. Quali sono i fattori che influenzano la motivazione? E quali sono i processi decisionali e i meccanismi attraverso i quali la motivazione si origina, si consolida e poi si estingue? Vi sono diverse teorie che cercano di rispondere a queste domande senza che nessuna da sola sia in grado di spiegare completamente il fenomeno della motivazione. In accordo con lo schema presentato da Tosi et al. (2002) quelle che rispondono alla prima questione (quali sono i fattori) sono classificabili come teorie del contenuto; quelle che rispondono alla seconda questione (quali sono i meccanismi) sono classificabili come teorie del processo. La Tabella 3.1 riassume le diverse teorie della motivazione.

I bisogni come fattori motivazionali

Fra le teorie del contenuto vi è anzitutto la scala dei bisogni originariamente messa a punto da Maslow (1954). Secondo questa teoria la motivazione si sviluppa a partire da bisogni più elementari, e solo

Tabella 3.1

LE TEORIE DELLA MOTIVAZIONE

Teorie del contenuto

Teorie del processo

Quali sono i fattori che stanno alla base della motivazione?

Quali sono i meccanismi che spiegano il formarsi, consolidarsi ed estinguersi della motivazione?

• Scala dei bisogni • Fattori duali • Successo-potere-affiliazione

• Rinforzi • Goal setting • Aspettativa-valenza • Equità

Fonte: adattato da Tosi et al. (2002).

3. L’individuo nell’organizzazione ) 61

quando questi sono soddisfatti l’individuo ne percepisce di nuovi e orienta la sua motivazione e la sua azione verso il livello di bisogno superiore. Un bisogno cessa di essere fonte di motivazione quando è soddisfatto. Maslow identifica cinque livelli progressivi: 1. bisogni fisiologici: sono quelli legati alla sopravvivenza come la fame, la sete, il sonno; 2. bisogni di sicurezza: riflettono la necessità di protezione dai pericoli, dalle minacce e dalle privazioni; riguardano la conoscenza del proprio ambiente e del territorio; 3. bisogni di appartenenza: riguardano la sfera affettiva e riflettono il bisogno di essere amati e compresi, di sentirsi parte di un nucleo sociale sia esso la famiglia o anche un gruppo più ampio; 4. bisogni di stima: riguardano sia l’autostima, la propria autonomia e indipendenza, sia la stima degli altri, il riconoscimento e lo status sociale; 5. bisogni di autorealizzazione: sono quelli di ordine superiore, legati allo sviluppo delle proprie potenzialità.

Motivazione e demotivazione

Differenze individuali

La scala di Maslow è un modello semplice e intuitivo, e per questo attraente. Tuttavia, è rigido e presuppone che l’individuo frustrato che non riesce a soddisfare completamente i bisogni a un livello non è motivato dai bisogni di ordine superiore. Questo non è necessariamente vero, come sa bene chi ha vissuto in tempo di guerra magari per anni, frustrato nel suo bisogno di sicurezza, ma non per questo meno motivato dai bisogni di appartenenza e fors’anche di stima. Una teoria alternativa piuttosto nota è quella dei fattori duali sviluppata da Herzberg (1966). Secondo questo approccio i fattori alla base della soddisfazione e, viceversa, dell’insoddisfazione, non sono necessariamente gli stessi. I primi sono i cosiddetti fattori motivanti, la cui presenza o aspettativa crea soddisfazione e dunque aumenta la prestazione. I secondi sono invece i fattori igienici, la cui assenza crea insoddisfazione e dunque scadimento della prestazione, ma la cui presenza non aumenta la soddisfazione e dunque non migliora la prestazione. Ad esempio, è stato riscontrato in diversi casi che una retribuzione ritenuta adeguata è un fattore igienico e viceversa il coinvolgimento da parte dei superiori nelle decisioni importanti o il riconoscimento pubblico della propria prestazione sono fattori motivanti. La teoria dei fattori duali ha implicazioni manageriali importanti. Infatti implica che ciò che l’organizzazione deve fare per migliorare le prestazioni al di sopra della media o dello standard può essere significativamente diverso da quello che si deve fare per riportare prestazioni scadenti a livelli normali. Anche la teoria dei fattori duali ha delle limitazioni. La principale è che i fattori possono variare da individuo a individuo. Ciò che è motivante per uno può essere igienico o irrilevante per un altro. La teoria successo-potere-affiliazione (achievement-power-affiliation) tiene appunto in considerazione il fatto che gli individui hanno tendenzialmente spinte motivazionali differenti, riconducibili a uno dei tre tipi. Vi sono individui per i quali la spinta ad agire è prevalente-

62 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Come nasce e si consolida la motivazione

Incentivi e disincentivi

Obiettivi ambiziosi ma raggiungibili

mente la riuscita, il successo, il raggiungimento di obiettivi ambiziosi e personali che non dipendano più di tanto da altri o dal caso ma dal proprio impegno e capacità. La figura dell’imprenditore è il prototipo del soggetto motivato dal successo. Il bisogno di potere è invece diverso e consiste nell’imporsi all’attenzione altrui e nel creare legami di dipendenza esplicita o implicita. Il bisogno di potere può essere soddisfatto attraverso azioni dirette come la coercizione, la supervisione e il controllo o anche l’assistenza, ma anche in modo indiretto creando forme di reputazione o tramite azioni che impressionano fortemente gli altri. La figura del top manager o quella del politico in un certo senso sono i prototipi dei soggetti principalmente motivati dal potere. Vi è infine il bisogno di affiliazione, in tutto simile al bisogno di appartenenza definito dalla scala dei bisogni di Maslow. Anche questo modello presenta dei limiti. Raramente infatti le motivazioni di un individuo sono riconducibili a un tipo puro. Molti individui pur motivati dal successo o dal potere sentono comunque una certa spinta verso l’affiliazione, così come altri principalmente bisognosi di affiliazione non sono immuni dal richiamo del potere. Complessivamente questi modelli spiegano la maggior parte dei fattori che stanno alla base della motivazione, che rimane però un fenomeno estremamente complesso da indagare e, proprio per questo, nessuna delle teorie messe a punto ha il potere di spiegare interamente la spinta motivazionale degli individui. Veniamo ora alle principali teorie del processo. In sostanza si tratta di capire non solo che cosa sta alla base della motivazione individuale ma anche come la motivazione si genera, si consolida ed eventualmente si estingue. Una prima teoria è quella dei rinforzi: i comportamenti che producono conseguenze positive per l’individuo tendono a essere ripetuti e quelli che producono conseguenze negative tendono a essere scartati o sospesi. Il comportamento degli individui può così essere orientato con l’incentivazione dei comportamenti voluti, attraverso rinforzi positivi (gratificazioni, aumenti retributivi, incarichi di prestigio ecc.) o anche rinforzi negativi: ad esempio un’organizzazione che è solita distribuire gratifiche di fine anno alla totalità dei dipendenti, ma che si trovi in difficoltà economiche, può decidere di sospenderle a tutti, a eccezione di alcuni particolarmente meritevoli. Tuttavia, il comportamento può essere influenzato anche con la disincentivazione dei comportamenti indesiderati, precisamente attraverso la punizione. Punizioni e rinforzi negativi hanno effetti rapidi e immediati anche se possono creare problemi di relazione nei contesti di lavoro. Viceversa, il rinforzo positivo ha un’importanza fondamentale nel sostenere lo sviluppo delle risorse umane nel lungo termine anche se non è semplice o possibile usare in modo continuo gratifiche, aumenti retributivi o nuovi incarichi come meccanismi di rinforzo positivo. Una seconda teoria è quella del goal setting. L’assunto di base è semplice: la prestazione dipende ovviamente dalla capacità ma anche dall’intenzione personale di agire per ottenerla. Più l’intenzione si rivolge a obiettivi ambiziosi più la prestazione sarà elevata; più gli

3. L’individuo nell’organizzazione ) 63

L’importanza del feedback

Rapporti costi/benefici

obiettivi sono modesti più la prestazione sarà modesta. Per motivare, gli obiettivi devono essere sufficientemente sfidanti ma non troppo difficili o impossibili da raggiungere, altrimenti l’individuo prova un senso di frustrazione e si demotiva. Inoltre, obiettivi specifici e dettagliati producono una maggiore motivazione e, infine, una maggiore prestazione rispetto a obiettivi generici poco dettagliati che incitano vagamente il soggetto a “fare del proprio meglio” e non pongono traguardi quantitativi, temporali, di efficienza ecc. Un altro aspetto importante di questa teoria riguarda il fatto che la partecipazione alla determinazione degli obiettivi, o almeno la negoziazione sui target da raggiungere, aumenta l’impegno e la motivazione. Infine un ultimo aspetto riguarda il feedback che l’organizzazione dà agli individui circa le prestazioni ottenute rispetto agli obiettivi stabiliti. Le persone chiedono spesso e giustamente valutazioni sul come sono andate, anche se queste possono non essere del tutto positive. Il feedback è dunque un elemento importante della motivazione. La teoria del goal setting ha conseguenze pratiche rilevanti, la maggiore delle quali riguarda i cosiddetti sistemi di management by objectives (MBO). Si tratta di sistemi di retribuzione dei singoli nei quali una parte rilevante della retribuzione è variabile e legata a obiettivi individuali assegnati ai singoli manager. Gli obiettivi individuali discendono dalla scomposizione degli obiettivi generali, a opera del top management, e alla negoziazione e attribuzione di sottobiettivi specifici ai diversi membri dell’organizzazione secondo un meccanismo in cascata che ne coinvolge i vari livelli: ad esempio, nell’ambito di obiettivi di crescita, a un Direttore vendite di una determinata area geografica saranno assegnati obiettivi di aumento delle vendite o della quota di mercato in quell’area e parte dei suoi compensi dipenderanno dal raggiungimento di tali obiettivi. Il MBO funziona se c’è un forte allineamento tra il processo di pianificazione strategica, il sistema di misura e valutazione delle prestazioni e il sistema di retribuzione; altrimenti vi è il rischio che il MBO incentivi comportamenti distorti orientati al breve termine e non coerenti con le strategie generali dell’azienda. In sintesi la teoria del goal setting stabilisce che la motivazione si forma e si consolida se il processo di definizione degli obiettivi individuali è chiaro e condiviso, se gli obiettivi sono sfidanti ma non impossibili e se vi è un adeguato feedback sul rapporto tra le prestazioni raggiunte e gli obiettivi preposti. Un’altra teoria importante che spiega come si forma la motivazione è quella dell’aspettativa-valenza. Secondo questo approccio gli individui orientano azioni e comportamenti verso quelle alternative per le quali nutrono migliori aspettative circa il rapporto tra sforzo e prestazione o risultato, combinando le aspettative con il valore (valenza) attribuito al risultato. In altri termini, gli individui sono più motivati verso quelle azioni che consentono più rapidamente, con minor sforzo e con maggiore probabilità di raggiungere quei risultati a cui essi danno valore. Si noti che buone aspettative di riuscita di per sé non sono sufficienti a motivare se la valenza del risultato è scarsa. Nella sua banalità la teoria aspettativa-valenza è importante perché intro-

64 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Contribuzione e compensazione

Trasparenza e pari opportunità

3.4

duce nel processo di formazione della motivazione le stime (aspettative) che il singolo fa circa la probabilità di riuscita e il rapporto costi/benefici. Infine, vi è un’ultima teoria che possiamo definire dell’equità (o giustizia organizzativa). Questo approccio si basa sull’idea che gli individui nei contesti organizzati tendono a paragonarsi ai colleghi ritenuti loro pari e, più in generale, agli altri membri dell’organizzazione. Vi sono due aspetti distinti del concetto di equità. Il primo è quello di equità distributiva e fa riferimento al fatto che gli individui hanno bisogno di sentire che il rapporto tra ciò che danno all’organizzazione (come sforzo, impegno e risultato) e ciò che ricevono dall’organizzazione (retribuzione, ruolo, riconoscimento, opportunità di crescita ecc.) è sostanzialmente allineato con quanto accade per gli altri membri dell’organizzazione. In altri termini, la motivazione individuale scema se vi è la percezione che a parità di contribuzione si riceve inferiore compensazione aggregata (includendo tutte le forme di compensazione) o che, analogamente, in presenza di maggiore contribuzione non si riceve maggiore compensazione. Vi è però un secondo aspetto importante, quello di equità procedurale: gli individui per essere motivati hanno bisogno di sentire che i processi decisionali sono equi e trasparenti, che opportunità simili sono offerte a individui che hanno capacità simili. O, ancora, che essi hanno la possibilità di far presente il proprio punto di vista e che sono stati informati per tempo di certe decisioni. La teoria dell’equità ci illustra un meccanismo fondamentale: nei contesti organizzati la motivazione degli individui dipende talvolta più dal senso di giustizia relativa rispetto agli altri membri che non dagli obiettivi e dai risultati in senso assoluto. Torneremo in dettaglio su questo punto nel capitolo 9 sulla Teoria dei giochi per descrivere, nel famoso “gioco del dispetto” (paragrafo 9.7), comportamenti apparentemente irrazionali, in realtà potentemente guidati dall’ossessione dell’equità. Sebbene nessuna della teorie della motivazione da sola appaia esaustiva, il loro complesso consente di afferrare che cosa muove gli individui nel loro operare come membri di un’organizzazione. Gli studi nel campo della motivazione hanno radici culturali prevalentemente estranee al campo del management e dell’organizzazione aziendale. Tuttavia, per il buon manager è di fondamentale importanza avere una conoscenza almeno superficiale di questi temi, proprio per poter progettare e gestire al meglio l’organizzazione ed evitare così situazioni buone sulla carta, ma scadenti nella realtà a causa della scarsa motivazione delle persone.

La dimensione sociale: gruppi e conflitti Nelle organizzazioni, di qualunque tipo esse siano, i membri interagiscono tra loro in molti modi e per diversi motivi. Anzitutto le persone desiderano stringere delle relazioni con i propri colleghi con i quali trascorrono molto del loro tempo. Inoltre l’organizzazione

3. L’individuo nell’organizzazione ) 65

promuove l’interazione tra gli individui per migliorare l’efficienza e l’efficacia o anche semplicemente per ottenere risultati che richiedono la collaborazione di più persone. In questa sede ci interessa discutere brevemente solo due aspetti fondamentali dell’interazione sociale: i gruppi e i conflitti, tralasciando altri aspetti pure estremamente rilevanti come il potere, l’influenza e la leadership. Inoltre, considereremo questi aspetti privilegiando l’ottica manageriale che guarda alle relazioni sociali in vista dell’efficacia e dell’efficienza dell’organizzazione nel suo complesso.

3.4.1

Dal lavoro individuale ai piccoli gruppi

Riconoscimento interno ed esterno

Il gruppo: adattamento e partecipazione

I gruppi Un aspetto fondamentale dell’interazione sociale riguarda la formazione più o meno guidata dei gruppi. Il lavoro di gruppo e le condizioni in cui esso dà buoni risultati sono diventati un tema di importanza cruciale per tutte le organizzazioni. In moltissime attività, infatti, il lavoro degli individui si svolge sempre più in piccoli gruppi piuttosto che in forma meramente individuale. Per alcune aziende la filosofia del lavoro di gruppo è così importante che viene addirittura dichiarata nella mission e nei valori dell’organizzazione. Altre aziende, quando ricercano personale da assumere, richiedono espressamente esperienze di lavoro in gruppo, e cercano di misurare attraverso opportuni test e colloqui di selezione l’attitudine dei candidati a lavorare in gruppo. Anche i sistemi di incentivo spesse volte vengono orientati ai gruppi. Anzi si può dire che nelle organizzazioni innovative basate sul concetto di gruppo (team-based organizations) uno degli aspetti critici e cruciali è la messa a punto di sistemi di misura delle prestazioni e di incentivo che bilancino la necessità di favorire il lavoro di gruppo e la collaborazione con quella di riconoscere il contributo individuale. Ma cos’è un gruppo? È un insieme di almeno due individui che interagiscono e dipendono reciprocamente per il conseguimento di un fine che condividono. L’esistenza di un gruppo necessita di riconoscimento interno ed esterno, ovvero richiede che i suoi membri si riconoscano effettivamente come tali condividendo gli obiettivi e che almeno un altro individuo esterno al gruppo ne abbia percezione e visibilità. In questo senso un gruppo di persone in coda alla fermata di un autobus non è un gruppo per mancanza di riconoscimento interno e, d’altra parte, una società segreta non è un gruppo, per mancanza di riconoscimento esterno. Vi sono diverse ragioni per le quali il lavoro di gruppo (o teamworking) è divenuto così rilevante nelle organizzazioni: • anzitutto il gruppo è il contesto organizzativo formalizzato nel quale il mutuo adattamento si esplica meglio; più le organizzazioni sono di tipo organico (vedi paragrafo 3.2.5) più vi è necessità di coordinamento continuo, attraverso mutuo adattamento; • il gruppo è poi un meccanismo ideale per rendere l’ambiente di lavoro più partecipativo; attraverso gruppi di lavoro anche temporanei (le cosiddette “task force” o “gruppi di progetto”) il management

66 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

I gruppi interfunzionali

Bilanciamento tra specializzazione e coordinamento

crea un senso di mobilitazione comune verso gli obiettivi e offre la possibilità almeno parziale di partecipare ai processi decisionali; • problemi complessi e imprevisti vengono meglio affrontati attraverso tecniche decisionali di gruppo (si veda in proposito il capitolo 8), con le quali si cerca di esaminare il problema da punti di vista differenti, facendo leva su un insieme più ampio di competenze per stimolare idee e generare alternative innovative; • la maggior parte delle organizzazioni si trova poi a dover affrontare cambiamenti tecnologici e/o organizzativi per i quali occorre mobilitare competenze variegate; lavorare per progetti diventa una forma mentis, anzi per molte organizzazioni la condizione normale di lavoro, dove il progetto, per definizione temporaneo, trascende la dimensione puramente tecnologico-ingegneristica e riguarda qualunque cambiamento; progetti di una certa complessità vengono impostati e realizzati da gruppi di progetto che “tagliano trasversalmente” l’organizzazione, includendo persone che operano in unità organizzative diverse con responsabilità e livelli gerarchici anche differenti. Sono i cosiddetti “team interfunzionali”. Si pensi ad esempio ai team di progetto delle case automobilistiche impegnati nello sviluppo di nuovi prodotti. Tipicamente tali gruppi includono tecnici progettisti con specializzazioni diverse, esperti di styling anche esterni all’azienda, uomini del marketing, responsabili delle vendite e della distribuzione, esperti di processi industriali e tecnologici, addirittura tecnici delle aziende fornitrici dei principali componenti ecc.; • infine, l’evoluzione delle tecnologie informatiche e di comunicazione facilita enormemente la formazione di gruppi e l’interazione continua tra i membri che li compongono, anche se questi sono geograficamente dispersi, dando luogo ai gruppi virtuali: tecnologie Intranet, call conference, video conference, database condivisi, ma anche la semplice e-mail e più recentemente i social media sono tutti strumenti che rendono più efficace il lavoro di gruppo e pertanto ne facilitano la diffusione. Naturalmente, quelle esposte sono ragioni manageriali e organizzative, istituzionali per così dire, affinché i gruppi si formino. In sintesi esse scaturiscono dall’esigenza di bilanciare la tendenza verso la specializzazione del lavoro con la necessità di integrare a livello locale attività e competenze frammentate. Da questo punto di vista il gruppo è il microambiente sociale nel quale specializzazione e integrazione trovano composizione attraverso il contatto diretto e il mutuo adattamento. Tuttavia le spinte verso i gruppi hanno anche potenti motivazioni individuali. Anzitutto i bisogni di affiliazione e appartenenza secondo la scala di Maslow. Ma anche il bisogno di potere. Molti individui vedono nel gruppo l’opportunità per affermarsi ed esercitare una leadership. O ancora vedono attraverso il gruppo la possibilità di avere maggiore influenza sul resto dell’organizzazione. Nelle organizzazioni si formano sia gruppi formali sia gruppi informali. I gruppi formali sono costituiti dall’organizzazione per scopi precisi, hanno una chiara collocazione e un ambito di azione determinato. Possono avere carattere temporaneo o permanente. I gruppi

3. L’individuo nell’organizzazione ) 67

Formalizzazione e istituzionalizzazione dei gruppi

CASO

informali si costituiscono in modo indipendente dalla volontà del management, come ad esempio le comunità di pratiche di cui abbiamo parlato al paragrafo 3.3.1, che altro non sono che gruppi informali di professionisti. In alcuni casi l’organizzazione ha interesse a formalizzare, cioè a istituzionalizzare, i gruppi informali per sfruttare ai fini organizzativi la conoscenza tacita e i risultati dell’azione di gruppo. In altri casi invece i gruppi informali sono sgraditi e vengono combattuti dall’organizzazione, anche perché possono perseguire in modo non trasparente obiettivi non compatibili con quelli dell’organizzazione stessa o almeno di chi in quel momento la governa. Il Caso 3.5b illustra un cambiamento organizzativo orientato all’introduzione di gruppi formali.

3.5b

Heineken: la team-based organization Nel Caso 3.5a abbiamo illustrato come Heineken Italia abbia realizzato un cambiamento organizzativo importante introducendo un sistema di valutazione e di gestione delle competenze a supporto della polivalenza degli operatori (Multitasking Multiskilling System). Quel progetto fu preceduto da un intervento complementare, orientato all’introduzione del lavoro di gruppo e denominato Team-Based Organization (TBO). Il progetto team-based organization Il progetto TBO venne ideato in uno dei quattro stabilimenti italiani di Heineken, quello di Comun Nuovo (BG), in occasione dell’introduzione di una nuova linea di imbottigliamento. Con l’espansione della capacità produttiva, mancava un capoturno per uno dei nuovi turni da formare. Si decise, dunque, di sperimentare l’organizzazione in team limitatamente al nuovo turno, mantenendo per gli altri due turni della nuova linea l’organizzazione gerarchica tradizionale. Ben presto vi furono pressioni esplicite degli operatori dei turni tradizionali per partecipare anch’essi alla sperimentazione. Di conseguenza, anche in considerazione dei positivi risultati ottenuti, il management decise di estendere la TBO anche agli altri due turni della linea. Infine, dopo un ulteriore periodo di assestamento la nuova organizzazione fu estesa a tutte le linee dello stabilimento. I team gestivano in maniera autonoma la produzione. A seconda della linea produttiva erano composti da un numero di persone compreso fra 6 e 12, con una ridondanza nel numero di operatori rispetto ai ruoli minimi necessari di circa il 20% (da 5 a 10 posizioni da coprire). Questi operatori, considerati “jolly”, servivano a far fronte a malattie, assenze o altre esigenze impreviste. I team avevano ampia delega su molte decisioni operative, dalla gestione delle ferie e delle sostituzioni all’assegnazione quotidiana dei posti sulla linea, alla richiesta di interventi da parte dello staff dei servizi tecnici. Ogni team quindi riceveva dal caporeparto solo gli obiettivi (che cosa, quanto e quando produrre) e progressivamente imparò a decidere le modalità d’azione (come produrre). Nonostante la presenza di un “team leader”, la squadra era organizzata in maniera non gerarchica. Fu presa questa decisione per non rischiare che continuasse a esistere un capo di fatto, semplicemente con un altro nome. Il team leader non costituiva un inquadramento gerarchico diverso. Era un operatore come gli altri, che fungeva da interfaccia (portavoce) verso il caporeparto e gli altri team. Con l’introduzione della TBO, l’organizzazione fu di fatto snellita. In stabilimento vi erano solo tre livelli gerarchici, i team rispondevanono direttamente ai capireparto e questi ultimi al Direttore di stabilimento.

68 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE I referenti dei team potevano essere scelti o eletti democraticamente all’interno del team. Teoricamente questo ruolo era aperto a tutti i membri del team, anche se col passare del tempo le persone che di fatto lo ricoprivano tendevano ad essere le stesse. Servivano comunque competenze specifiche e occorreva essere in grado di relazionarsi in mdo costruttivo con i capireparto e con i referenti degli altri team. Alcuni operatori si rendevano conto di non possedere le caratteristiche adatte e non intendevano minimamente candidarsi al ruolo. Era il gruppo stesso a non lasciare che il referente diventasse un capo a tutti gli effetti. Fu usata una metafora calcistica: “Il nostro referente è come il capitano di una squadra di calcio, un giocatore come gli altri con alcune funzioni in più, non l’allenatore né un dirigente della società”. La TBO doveva confrontarsi con la stagionalità della domanda e le esigenze variabili della produzione. In bassa stagione c’era un numero base di team formato da dipendenti a tempo indeterminato. In alta stagione, per costituire altri team e coprire così più turni, venivano smembrati i team esistenti e ne venivano formati altri, in numero maggiore, inserendo i lavoratori stagionali. Non era infatti opportuno formare team composti esclusivamente da lavoratori stagionali con minore esperienza. I dipendenti fissi furono responsabilizzati nel ruolo di tutor dei nuovi arrivati. Il rimescolamento periodico dei gruppi e la stessa rotazione dei ruoli, se da un certo punto di vista era oneroso e richiedeva adattamento, contribuiva però ad abbattere le barriere fra i team, fra i turni e fra reparti differenti. Si scongelavano gli schemi, si favoriva il clima di innovazione, si impediva la cristallizzazione delle persone in ruoli definiti. Il concetto che l’azienda cercò di trasmettere fu quello di non vivere il team come un gruppo chiuso e autoreferenziale, ma di sentirsi parte di una squadra più ampia, quella del reparto e dell’intero stabilimento. Le resistenze al cambiamento L’esperienza della Team-Based Organization in Heineken fu certamente un successo, ma la gestione del cambiamento non fu affatto semplice: fin dall’inizio fu evidente che la trasformazione per il middle management presentava notevoli criticità. La TBO di fatto prevedeva l’eliminazione dei capiturno e la trasformazione del ruolo dei capireparto: questi ultimi avrebbero dovuto interfacciarsi direttamente con gli operatori. Fu fatta molta formazione per spiegare ai capireparto il cambiamento, e per presentare agli ex capiturno il nuovo percorso che li avrebbe fatti diventare coach, responsabili di formare le competenze degli operatori. Naturalmente fu anche colta un’opportunità, scegliendo un momento in cui alcuni capiturno anziani lasciavano spontaneamente l’organizzazione per il pensionamento. Il capoturno più coinvolto nel progetto e potenzialmente più adatto al nuovo modello organizzativo fu promosso a caporeparto, mentre il precedente caporeparto, legato a logiche organizzative tradizionali, fu trasferito a un altro incarico. Il cambiamento organizzativo fu spiegato fin dall’inizio anche agli operatori: furono illustrati i vantaggi ma anche i rischi della TBO; in particolare fu sottolineato con chiarezza che il nuovo assetto avrebbe comportato una maggiore assunzione di responsabilità da parte degli operatori su aspetti che prima erano gestiti dai capi. Nell’organizzazione tradizionale i bravi operatori diventavano conduttori di macchine, avevano capacità tecniche come saper cambiare il formato di imbottigliamento ed effettuare gli interventi tecnici, ma non le capacità manageriali e di gestione delle risorse umane. Le persone erano arrivate a ricoprire questo ruolo dopo anni di esperienza, quindi al momento di introdurre la TBO si erano opposte al cambiamento, perché non riuscivano a capirne le ragioni. Per coinvolgerle nel progetto fu necessaria molta formazione su come rapportarsi con gli altri, come gestire il lavoro di gruppo e le riunioni. Un grande aiuto al cambiamento venne dalle caratteristiche della forza lavoro di uno stabilimento con un’età media inferiore ai 30 anni in produzione, e un buon livello di istruzione, variabili considerate fondamentali per proporre un’innovazione così radicale. Sarebbe stato difficile o forse anche impossibile convincere persone abituate a lavorare in modo tradizionale da 20 o 30 anni a rimettersi in gioco con regole nuove. Per i giovani con una buona

3. L’individuo nell’organizzazione ) 69 istruzione, invece, un simile modello organizzativo rappresentò un’opportunità di lavorare in maniera più coinvolgente e con maggiori possibilità di crescita professionale. A posteriori le scelte fatte si dimostrarono corrette: la TBO funzionò bene e produsse buoni risultati in termini di produttività. Entrò nella logica normale della produzione, e da allora furono gli operatori stessi a insegnare ai nuovi entranti come si lavora nei gruppi.

Delega ma “empowerment”

Il caso Heineken offre diversi spunti di riflessione. Anzitutto, illustra come il lavoro di gruppo sia uno strumento organizzativo che consente di ridurre il ruolo della gerarchia e in diversi casi anche il numero di livelli gerarchici (delayering organizzativo). Per dare buoni risultati richiede però alcuni elementi di contorno. In primo luogo il management deve crederci veramente e far sentire agli addetti che il cambiamento è reale e non fittizio. Occorre che i gruppi abbiano per così dire degli sponsor, ovvero dei manager di alto livello che non fanno parte del gruppo ma ne difendono le ragioni, gli obiettivi e la necessità di fronte al resto dell’organizzazione. Compito dello sponsor è poi anche quello di motivare i membri del gruppo, in particolare attraverso la chiara definizione degli obiettivi (si veda la teoria del goal setting, paragrafo 3.3.2). Si badi bene che lo sponsor non è il capo del gruppo. Il suo ruolo è importante sia nelle operazioni in cui vengono introdotti i gruppi in modo esteso come modalità standard di lavoro (come nel caso Heineken, Caso 3.5b), sia nel caso di singoli gruppi che vengono costituiti ad hoc per affrontare problemi specifici o per gestire progetti e che possono essere vissuti come corpi estranei dal resto dell’organizzazione. Nel caso di gruppi formati da personale operativo un compito fondamentale degli sponsor è quello di garantire, come è avvenuto nel caso Heineken, che il gruppo goda di deleghe reali, limitando al minimo l’intervento dei capi. Infatti, i gruppi eterodiretti, cioè governati dall’esterno e per i quali i ruoli e la leadership sono definiti a priori, in generale funzionano peggio dei gruppi autodiretti (self-managed). Affinché il gruppo sia quanto più possibile autodiretto vi sono alcuni requisiti. Anzitutto occorre che esso sia effettivamente capace di una maggiore autonomia. Se ciò non è, come talvolta accade, occorre che i membri del gruppo siano potenziati nelle loro competenze individuali e nelle loro capacità relazionali. Questo processo è noto come empowerment del gruppo. Inoltre, i gruppi per dare il meglio e fornire prestazioni elevate devono per così dire maturare. Il management quasi sempre sottovaluta questo aspetto. Non basta mettere assieme persone con le competenze adeguate perché il gruppo funzioni. È necessario un processo che in molti casi è riconducibile a quattro fasi, forming, storming, norming e performing (si veda ad esempio Pilati, 1995): • nel forming (fase di orientamento) il gruppo è allo stadio nascente, gli obiettivi sono ancora in discussione o non ancora compresi appieno in tutte le loro implicazioni, la leadership non è ancora emersa e i membri cercano di capire l’ambiente del gruppo. È la fase essenziale per il formarsi e il consolidarsi della motivazione, per la socializzazione e per il ritagliarsi dei ruoli;

70 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

• nella fase di storming (fase di conflittualità potenziale) nel gruppo si delineano i ruoli, si capiscono le potenzialità e le inclinazioni dei membri, si consolida la leadership. È una fase nella quale vi sono potenziali conflitti, ad esempio per la leadership all’interno del gruppo o rispetto ai modi di operare e ai comportamenti dei membri. Nella fase di storming, oltre alle tensioni e resistenze possono formarsi sottogruppi e, nei gruppi informali, anche prodursi delle scissioni. Molti gruppi non sopravvivono a questa fase; • se sopravvivono i gruppi entrano nella fase di norming, nella quale si consolidano le regole (norme) di comportamento e quella che possiamo definire l’etica del gruppo. Le norme anche implicite sono il collante dei gruppi. Se condivise e non imposte sono il fattore di coesione. Le norme di un gruppo hanno un ruolo fondamentale nella motivazione perché sono alla base della teoria dell’equità che, come abbiamo visto in precedenza, spiega come si forma e si distrugge la motivazione degli individui. Il gruppo come microambiente sociale, più ancora che l’organizzazione nella sua interezza, è la sede dove è importante che gli individui percepiscano equità distributiva e procedurale (si veda il paragrafo 3.3.2); • infine vi è la fase di performing nella quale il gruppo ormai pienamente maturo produce i migliori risultati, riduce i conflitti e le controversie, si orienta più all’esterno, cercando di influenzare il resto dell’organizzazione, in quanto ormai più sicuro al proprio interno. Nella fase di performing molti gruppi informali cercano riconoscimenti formali e istituzionalizzazione.

Le dimensioni ottimali di un gruppo

In alcuni casi ci vogliono anni perché questo processo di maturazione giunga a compimento. Vi sono molti esempi di fallimento di gruppi perché le aspettative di performance superiori si sono scontrate con processi di maturazione lenti. In altri casi il fallimento è riconducibile alla disillusione dei gruppi che dopo una fase iniziale di euforia hanno lamentato l’intrusione del management e la scarsa delega e hanno percepito che, nella sostanza, nulla è cambiato. Un aspetto importante riguarda la dimensione. Quali sono i limiti superiori e inferiori? Normalmente sotto le quattro persone (le diadi e le triadi) un gruppo presenta alcune caratteristiche peculiari tali da renderne sconsigliabile o non ottimale l’utilizzo. Un gruppo formato da quattro persone può contemplare sei relazioni personali, uno di cinque dieci. Sono i numeri minimi per innescare quei processi cognitivi di gruppo e quei confronti di idee e di opinioni che contraddistinguono e costituiscono il vero valore aggiunto del teamworking. I gruppi di più di una decina di persone presentano problemi opposti, di difficoltà di interazione e di partecipazione di tutti i membri, generando fenomeni di emarginazione o di autoesclusione. In ogni caso al crescere della dimensione del gruppo diminuiscono la coesione e il senso di appartenenza e, solitamente, la soddisfazione dei partecipanti. A titolo di esempio i gruppi di discussione dei business case che vengono utilizzati nelle business school sono tipicamente di 5-6 persone, un numero ottimale per scatenare le dinamiche di gruppo e far

3. L’individuo nell’organizzazione ) 71

Deresponsabilizzazione, inerzia e conformismo

3.4.2

Conflitti e innovazioni

partecipare tutti alla discussione. In sintesi, pur senza pretesa di universalità, poiché molte condizioni esterne influenzano l’efficacia dei gruppi, si può tuttavia concludere che i gruppi di lavoro migliori hanno una dimensione normalmente compresa tra le 5 e le 10 persone. Nella percezione comune e nella letteratura manageriale il lavoro di gruppo ha generalmente una valenza positiva in quanto serve a promuovere la collaborazione e la partecipazione delle persone. Ciò è certamente vero e, peraltro, il teamworking è stato nella pratica oggetto di vasta sperimentazione. Tuttavia, è giusto anche riportare alcuni punti di debolezza e alcune critiche che sono state mosse, fino a far parlare dei gruppi come di una “moda manageriale”. Alcune criticità frequentemente riportate riguardano la deresponsabilizzazione, il conformismo e l’inerzia sociale, quel fenomeno tipico dei gruppi di grandi dimensioni per il quale gli individui sono portati a pensare che ci sarà comunque qualcun altro che si farà carico di una situazione difficile e che porterà a termine compiti impegnativi o sgradevoli. Nel complesso queste critiche fanno riferimento al fatto che talvolta i gruppi possono rivelarsi entità organizzative più orientate alla conservazione che all’innovazione.

I conflitti Un altro aspetto fondamentale dell’interazione sociale degli individui all’interno delle organizzazioni riguarda il conflitto. Il tema, amplissimo e dai molti risvolti, è stato oggetto di studi innumerevoli. In questa sede ci limitiamo a tratteggiare alcuni aspetti di base dei conflitti tra i membri delle organizzazioni. Anzitutto il conflitto è un fattore ineliminabile nei contesti organizzati. Si può tentare di prevenirlo, oppure si può cercare di gestirlo. In alcuni casi lo si può anche considerare salutare. Infatti, le organizzazioni senza conflitti e senza tensioni sono in genere poco innovative e non particolarmente efficienti. L’emergere di conflitti può in questi casi sbloccare l’organizzazione e dare l’avvio a processi innovativi e di ristrutturazione. Le situazioni di conflitto possono essere ricondotte a: • fattori individuali, poiché le persone hanno punti di vista, percezioni e personalità differenti; inoltre, gli individui possono avere obiettivi personali e valori etici che li portano in contrasto gli uni con gli altri; possono infine avere differenze culturali che li portano ad avere visioni differenti, una situazione questa tipica delle grandi organizzazioni multinazionali nelle quali individui con background e nazionalità diverse entrano spesso in contatto tra loro per ragioni di lavoro; anche lo stesso atteggiamento verso il conflitto può essere molto dissimile, ad esempio nelle culture orientali il conflitto aperto è generalmente poco tollerato e socialmente riprovevole, mentre nella cultura americana la competizione e anche il conflitto sono situazioni accettate e anche positive; • fattori contingenti, legati a situazioni specifiche come ad esempio la prossimità fisica, la condivisione di risorse e la conseguente

72 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

competizione per accaparrarsele; o ancora l’incertezza e la sovrapposizione di responsabilità in situazioni particolari: si pensi ai contrasti che talvolta insorgono tra forze dell’ordine, protezione civile, soccorritori e volontari accorsi sul luogo di una calamità; • fattori organizzativi, legati ai contrasti intrinseci tra gli obiettivi assegnati ai diversi manager e alle unità organizzative; ad esempio, un responsabile di produzione che cerca di minimizzare le scorte di prodotti finiti, perché questo rientra negli obiettivi di efficienza assegnatigli, potrebbe entrare in conflitto con il responsabile delle vendite che vorrebbe avere sempre prodotti disponibili per soddisfare prontamente le esigenze dei clienti, ciò che certamente è coerente con il suo obiettivo di massimizzare le vendite (si tornerà su questo punto nel capitolo 7). Anche le norme e le procedure che, in teoria, sono create per evitare i conflitti, possono invece alimentarli quando sono percepite come troppo rigide e vincolanti. Infine, molte organizzazioni prevedono strutturalmente linee gerarchiche multiple, ovvero situazioni nelle quali un individuo risponde a più capi (si tornerà su questo punto nel capitolo 4), ad esempio il capo dell’unità organizzativa di cui fanno parte e il responsabile del progetto al quale sono temporaneamente assegnati. Situazioni di questo tipo sono fonte frequente di conflitti.

Leadership, equità e compromesso

Minacce esterne e coesione interna

I conflitti nei quali i fattori individuali sono prevalenti sono più difficili da gestire, poiché spesso vertono su questioni di principio più che su fatti concreti. Un’organizzazione ben progettata e processi decisionali razionali e partecipativi possono invece risolvere o prevenire i conflitti nei quali i fattori organizzativi e contingenti sono prevalenti (si tornerà sull’argomento nei capitoli 7 e 8). Naturalmente anche altri elementi influenzano la possibilità di gestire e risolvere i conflitti, quali ad esempio la presenza di leadership autorevoli – non autoritarie – che dirimano le questioni lasciando nelle parti in conflitto il senso di equità procedurale e distributiva. O anche il fatto che le parti debbano interagire nel lungo termine, ciò che le orienta più positivamente verso il compromesso che non il sapere di dover interagire in quell’unica occasione. Le ultime osservazioni riguardano il conflitto nei gruppi e tra gruppi. Per certi aspetti il gruppo è la sede privilegiata della collaborazione e dunque dell’antitesi del conflitto. Peraltro, abbiamo visto che nelle prime fasi del processo di maturazione dei gruppi spesso si manifestano conflitti che ne minacciano la sopravvivenza. Infine, i gruppi, soprattutto quelli informali, entrano in conflitto tra loro (conflitto esterno) e anzi queste circostanze normalmente sono un fattore di coesione del gruppo: la minaccia esterna compatta le fila e cementa il fronte. In questo lungo capitolo abbiamo delineato il ruolo dell’individuo nell’organizzazione, affrontando gli aspetti di progettazione della microstruttura, ma anche assumendo il punto di vista individuale e dunque le motivazioni e le capacità dei singoli. Infine abbiamo sintetizzato alcuni aspetti dell’interazione sociale in particolare legati ai gruppi e alla cooperazione da un lato, e ai conflitti dall’altro. Sulla scorta di questi concetti possiamo ora affrontare la macrostruttura organizzativa.

4

La struttura dell’organizzazione

SOMMARIO

4.1

Unità organizzative e complessità

4.1 Introduzione j 4.2 Gerarchia e ampiezza del controllo j 4.3 Le unità organizzative: linea e staff j 4.4 I criteri di raggruppamento j 4.5 Il coordinamento tra unità organizzative j 4.6 Le strutture organizzative

Introduzione La progettazione della macrostruttura dell’organizzazione consiste nella creazione di unità organizzative, e nella definizione degli opportuni meccanismi di coordinamento tra esse. Le unità organizzative sono raggruppamenti di mansioni e posizioni tra loro interdipendenti o simili. Così come la divisione del lavoro in più compiti nasce dall’esigenza di semplificare e rendere più efficienti attività complesse, la creazione di unità organizzative si rende necessaria a fronte della crescita di complessità dell’impresa, che spesso è la conseguenza sia delle maggiori dimensioni, sia di un contesto esterno più complesso. Il caso Bodin riportato nel capitolo 2 ben esemplifica come sia opportuno creare unità organizzative laddove il numero di individui coinvolti nelle attività dell’impresa cresca al di sopra di un certo limite. Nel momento in cui furono assunte quattro nuove lavoranti, raggiungendo così un numero totale di sei, Bodin mise a capo del laboratorio la più esperta, che diventò dunque responsabile della nuova unità organizzativa creata. Successivamente Bodin divise il laboratorio di produzione in reparti – ovvero sottounità organizzative. Questa volta la scelta non fu dettata solo dal numero elevato di persone coinvolte, ma anche dalla necessità di specializzare le mansioni delle persone che operavano in ciascuna fase del processo produttivo. Raggruppare mansioni e posizioni all’interno di un’unica unità organizzativa ha l’obiettivo di facilitarne il coordinamento e il controllo, innanzitutto attraverso il meccanismo della supervisione diretta che viene messo in atto a seguito dell’individuazione del responsabile dell’unità organizzativa. La creazione di unità facilita anche il mutuo adattamento e l’utilizzo di meccanismi di standardizzazione, resi possibili dalle comunanze e interdipendenze presenti nell’unità organizzativa. Complessivamente, la struttura organizzativa è descritta in modo sin-

74 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

tetico dall’organigramma, ovvero la rappresentazione grafica, tipicamente realizzata con uno schema a blocchi, delle diverse unità organizzative, delle loro dimensioni, delle linee gerarchiche esistenti tra queste ed eventualmente delle persone a capo di ciascuna unità. L’organigramma è lo strumento per eccellenza utilizzato per la formalizzazione della macrostruttura, e ha dunque l’obiettivo di rendere esplicite e oggettive le scelte progettuali. Oltre a rappresentare le unità organizzative e le relazioni gerarchiche esistenti tra esse, gli organigrammi possono dettagliare anche: • • • •

Organigramma formale vs. organizzazione reale

le posizioni che compongono ciascuna unità organizzativa; il nome delle persone che ricoprono le diverse posizioni; l’organico delle diverse unità organizzative o delle diverse posizioni; i collegamenti orizzontali o diagonali esistenti tra posizioni e unità organizzative.

Come già nel caso della microstruttura (capitolo 3), il livello di formalizzazione della macrostruttura può variare molto da caso a caso e dipende, tra le altre cose, dal livello di sofisticazione dell’organizzazione, dalla stabilità e complessità del contesto, dallo stile di management dell’azienda. Per questo motivo non in tutte le imprese è possibile trovare un organigramma completo; in altri casi, poi, a fronte di organigrammi riportati nelle presentazioni ufficiali e nel manuale di qualità dell’azienda, il funzionamento effettivo si discosta nettamente da quello formalizzato, sia a seguito dell’evoluzione della struttura non affiancata da un aggiornamento dei documenti aziendali, sia a seguito dell’emergere di comportamenti “laterali” all’organizzazione formale, non scritti ma largamente accettati all’interno dell’azienda (ad esempio linee gerarchiche non rappresentate ma fortemente rilevanti, o sottounità organizzative non esplicitate ma operanti a tutti gli effetti come unità autonome). Esempi di organigrammi sono riportati più avanti nel capitolo (paragrafo 4.6). In sintesi, la progettazione della macrostruttura comporta la definizione dei criteri da utilizzare nel raggruppamento delle attività dell’impresa, oltre che il dimensionamento delle variabili strutturali di base e la scelta dei meccanismi più adeguati per recuperare l’integrazione delle attività interdipendenti ma posizionate, a seguito dei criteri utilizzati, in unità organizzative diverse. Il presente capitolo è dedicato a esplorare i criteri e le modalità principali con cui vengono attuate queste scelte nelle imprese. Dopo avere fornito alcuni concetti chiave della progettazione della macrostruttura, ovvero il concetto di gerarchia, di ampiezza del controllo, di unità organizzativa, di criterio di raggruppamento, tratteremo nel dettaglio i diversi modelli organizzativi che costituiscono opzioni teoriche tra le quali scegliere nel disegnare l’organizzazione dell’impresa.

4. La struttura dell’organizzazione ) 75

4.2

Raggruppare rispettando le interdipendenze

Gerarchia e ampiezza del controllo Un’unità organizzativa è dunque un sottoinsieme di posizioni e ruoli a cui è assegnato un insieme di compiti attribuibili in modo relativamente stabile, interrelati tra loro, sufficientemente autonomi e misurabili. Esempi di unità organizzative sono le business unit di una grande impresa, il reparto produttivo di un’azienda manifatturiera, la filiale di una banca, un negozio di un’azienda commerciale, un dipartimento di un’università. Possiamo delineare alcune caratteristiche importanti delle unità organizzative a partire dalla definizione data. Innanzitutto, uno dei primi problemi che ci si pone nella progettazione delle unità organizzative è la definizione della loro dimensione, che, come vedremo tra breve, dipende fortemente dalla possibilità e capacità di ciascun capo di supervisionare le persone di cui sarà responsabile. In secondo luogo, la definizione di un’unità organizzativa richiede un certo grado di stabilità nell’attribuzione dei compiti. Questo per garantire che lo sforzo progettuale e i meccanismi stessi di funzionamento delle unità organizzative non vengano vanificati o resi inefficaci dalla temporaneità del raggruppamento. Infine, la definizione di unità organizzativa suggerisce che il criterio di fondo nella loro progettazione consiste nel raggruppare tra loro posizioni e ruoli fortemente interdipendenti, e il più possibile autonomi da altre posizioni e ruoli posti al di fuori dell’unità organizzativa. Ritorneremo con maggiore dettaglio su questo problema nel paragrafo 4.4. Riprendiamo invece qui il problema della definizione delle dimensioni delle unità organizzative e, di conseguenza, del loro numero. Un concetto di base che occorre definire a questo proposito è quello di ampiezza del controllo (o span of control), ovvero il numero di persone (posizioni) che sono direttamente dipendenti da un capo o supervisore. Questo concetto è fortemente collegato alla dimensione delle unità organizzative: maggiore è l’ampiezza del controllo, maggiore è la dimensione dell’unità organizzativa governata dal supervisore in considerazione. L’ampiezza del controllo configura dunque la dimensione orizzontale dell’organizzazione. Un concetto simile ma non coincidente è quello di ampiezza manageriale, ovvero il numero di attività o funzioni di cui il supervisore risponde attraverso la direzione e il coordinamento delle persone. Essa è data dal numero di diverse mansioni organizzative dipendenti dal supervisore. Un’unità organizzativa può avere una notevole ampiezza di controllo ma scarsa ampiezza manageriale quando include molte posizioni tra loro simili, e dunque un’unica tipologia di mansione. È questo il caso ad esempio del supervisore di un grande call center. Una seconda dimensione caratteristica dell’organizzazione è quella verticale, determinata dal numero di livelli gerarchici presenti in un’azienda, ovvero la catena gerarchica. Per gerarchia si intende la relazio-

76 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Strutture piramidali

Bilanciare ampiezza e profondità della struttura

ne di subordinazione di un’unità organizzativa (o di una posizione) rispetto a un’altra unità organizzativa (o a una posizione). La lunghezza della catena è spesso misurata con il numero dei riporti gerarchici nella più lunga catena di comando del sistema organizzativo. Nella Bodin, ad esempio, la lunghezza gerarchica nella struttura del 1981 (si veda capitolo 2) era pari a un solo livello intermedio, essendoci un solo responsabile (il supervisore del reparto) tra gli operatori che lavorano nei reparti produttivi e il vertice dell’azienda, ovvero Edmondo Bodin. Questa struttura ha una catena gerarchica estremamente snella, mentre imprese di grandi dimensioni possono avere anche 7-8 livelli gerarchici o più. La nozione di linea gerarchica è strettamente collegata a uno dei principi chiave che hanno dominato il pensiero organizzativo e la progettazione delle organizzazioni fino ad anni recenti, ovvero il principio dell’unicità del comando (Fayol, 1931). Secondo questo principio in una buona organizzazione ogni individuo e ogni unità organizzativa deve ricevere ordini da un solo responsabile gerarchico. Da qui l’idea della struttura organizzativa in forma piramidale, con linee gerarchiche univoche e ben definite. Come si vedrà più avanti nel capitolo, alcune forme organizzative di più recente affermazione (ad esempio le strutture a matrice) hanno mostrato la possibilità e i benefici che possono derivare dall’individuare più capi per ogni individuo in corrispondenza dei diversi obiettivi che l’organizzazione si pone. In questi casi vi è la compresenza di più linee gerarchiche. Ampiezza del controllo e lunghezza della catena gerarchica sono due dimensioni tra loro strettamente collegate: se ogni capo supervisiona un numero limitato di persone, il numero di capi necessari è maggiore in ciascuno dei livelli gerarchici superiori, fino a richiedere l’introduzione di ulteriori livelli gerarchici per controllare i supervisori. La Figura 4.1 esemplifica il collegamento esistente tra le due dimensioni, mostrando una struttura organizzativa “orizzontale”, caratterizzata da elevata ampiezza di controllo e linea gerarchica breve, e una struttura “verticale”, che accoppia limitata ampiezza di controllo con linea gerarchica piuttosto lunga. Nel progettare l’organizzazione occorrerà dunque bilanciare al meglio le due dimensioni, in modo che l’ampiezza del controllo non sia eccessivamente estesa, per assicurare la governabilità delle unità organizzative, e, d’altra parte, che la linea gerarchica non diventi troppo lunga, al fine di limitare i costi di struttura e i tempi decisionali e di passaggio delle informazioni lungo l’asse verticale. Nelle teorie organizzative tradizionali si è tentato di fornire indicazioni precise su quali potessero essere ampiezze di controllo ottimali. È stato innanzitutto evidenziato come l’ampiezza del controllo sia molto diversa a seconda del livello gerarchico a cui si fa riferimento. In particolare, a livello operativo l’ampiezza di controllo è generalmente più elevata: i supervisori della manodopera possono ad esempio controllare fino a 30-40 persone. Questo è dovuto alla minor complessità dei compiti che generalmente riguardano gli operatori,

4. La struttura dell’organizzazione ) 77

Figura 4.1

STRUTTURA ORGANIZZATIVA ORIZZONTALE E VERTICALE

Struttura organizzativa orizzontale

Struttura organizzativa verticale

oltre che a un maggior ricorso alla standardizzazione dei processi nei livelli operativi, che, come ricordato nel capitolo 2, riduce la necessità di supervisione diretta. Viceversa, a livelli manageriali l’ampiezza del controllo si riduce fino a circa 8-10 persone in media, in conseguenza della maggiore complessità e differenziazione delle posizioni controllate e dei problemi affrontati, e del minore ricorso alla standardizzazione dei processi. Tuttavia le indicazioni quantitative hanno dei limiti, poiché si è riscontrato che l’ampiezza del controllo, e conseguentemente la lunghezza della linea gerarchica, variano significativamente da un’impresa all’altra, anche a parità di dimensioni. Già Woodward (1965), nei suoi studi sul ruolo della tecnologia nel determinare la struttura organizzativa, aveva rilevato significative differenze tra imprese che operano con produzioni unitarie, imprese che lavorano con produzioni di massa e imprese con processi continui (i suoi lavori riportano una mediana dello span of control per i supervisori pari rispettivamente a 23, 49 e 13 nelle tre diverse tipologie di sistemi produttivi).

78 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Standardizzazione e ampiezza del controllo

4.3

D’altra parte è evidente come le indicazioni sull’ampiezza di controllo “migliore” per ciascuna impresa siano strettamente legate all’ipotesi di ricorrere unicamente (o prevalentemente) alla supervisione diretta come meccanismo di coordinamento delle unità organizzative. Laddove la standardizzazione o l’adattamento reciproco giocano un ruolo più importante, questi meccanismi si sostituiscono in parte alla supervisione diretta nel garantire il coordinamento dell’unità organizzativa, rendendo possibili ampiezze di controllo maggiori. Questa osservazione spiega in parte anche le evidenze riportate dagli studi della Woodward citati in precedenza, dove a tecnologie produttive diverse corrispondono anche diversi livelli di standardizzazione (ad esempio la produzione di massa usa generalmente livelli di standardizzazione dei processi significativamente più elevati). Si tornerà su questo tema nel capitolo 6 a proposito della relazione complessa tra tecnologia e organizzazione. Altri fattori sono poi importanti nel determinare ampiezza del controllo e linea gerarchica: lo stile direzionale e di leadership dei capi, la differenza o la complessità delle posizioni controllate – ovvero l’ampiezza manageriale, la preparazione e l’addestramento delle persone controllate, l’interdipendenza tra le posizioni, il supporto dello staff ecc. Come si vedrà in seguito (capitolo 5), le nuove tendenze nella progettazione organizzativa convergono verso un ampliamento dello span of control, a seguito dell’ampliamento e dell’arricchimento delle mansioni (job enlargment e job enrichment), e la conseguente riduzione (a volte molto significativa) del numero di livelli gerarchici (delayering). Di conseguenza, le strutture organizzative vengono caratterizzate come “snelle” (lean organisation) o anche piatte, in quanto la dimensione orizzontale prevale su quella verticale.

Le unità organizzative: linea e staff Parlando di progettazione organizzativa è importante descrivere le diverse tipologie di unità organizzative che si ritrovano in un’impresa. Come si può immaginare, è molto diverso progettare un reparto produttivo rispetto a una divisione geografica di un’impresa, un comitato esecutivo o l’ufficio legale. Le unità organizzative si caratterizzano innanzitutto per il contenuto del lavoro, e quindi delle mansioni in esse raggruppate. Da questo punto di vista, in un’organizzazione si distinguono organi di linea (o line) e organi di staff. Gli organi di linea sono quelli che si collocano lungo la linea gerarchica che va dall’alta direzione agli organi operativi, e si occupano dell’attività centrale dell’azienda in questione – il cosiddetto core business (la progettazione, produzione e vendita di prodotti per un’azienda manifatturiera, l’acquisizione, distribuzione e vendita di beni di largo consumo per un’azienda della grande distribuzione, la progettazione, vendita ed erogazione di servizi per una compagnia di assicurazioni e così via). Gli organi di

4. La struttura dell’organizzazione ) 79

Staff centrali e staff periferici

Figura 4.2

staff viceversa non si collocano direttamente in questa linea gerarchica ma affiancano gli organi di linea a diversi livelli gerarchici per supportarne le attività e intrattengono dunque con questi relazioni di tipo orizzontale o diagonale. Si tratta di unità organizzative che realizzano servizi a supporto dell’operatività dell’azienda, senza però partecipare al flusso principale dei processi chiave, garantendo invece il regolare funzionamento e la “manutenzione” dell’organizzazione. Un organo di staff centrale è ad esempio la funzione Sistemi informativi, preposta a fornire supporto e assistenza tecnica all’hardware e al software interno all’azienda, a gestire le tecnologie informatiche utilizzate dalle diverse unità organizzative, a progettare applicativi specifici per le unità che ne avessero l’esigenza ecc. Altri esempi sono la gestione risorse umane, l’ufficio legale, la gestione degli edifici e degli impianti (Facility Management), la comunicazione istituzionale. Viceversa, la Manutenzione in un’azienda manifatturiera è un esempio di organo di staff posto tipicamente a livelli gerarchici inferiori, dedicato alla funzione produzione, con l’obiettivo di fornire servizi di manutenzione dei macchinari e degli impianti ai diversi reparti produttivi dell’azienda. Proprio per distinguere il ruolo diverso e la collocazione degli staff rispetto alla linea gerarchica essi vengono spesso rappresentati negli organigrammi con riquadri posti a lato rispetto alla linea gerarchica degli organi di linea (Figura 4.2) Spesso la distinzione tra organi di linea e di staff non è del tutto agevole, in quanto all’interno di una stessa unità organizzativa possono esserci funzioni (posizioni) di linea e funzioni (posizioni) di staff – questo è ad esempio il caso di un controller alle dipendenze di una business unit (l’attività di controllo è tipicamente di staff, all’interno però di un’unità organizzativa di linea). Alcune tendenze recenti spingono le aziende a esternalizzare parte delle attività svolte dagli staff o anche, in particolar modo per i grandi gruppi, a creare apposite società giuridicamente separate dedicate allo svolgimento e all’ottimizzazione delle attività (si parlerà più dif-

ORGANI DI LINE E ORGANI DI STAFF

staff line

line

Organo di staff centrale

line

line staff

Organo di staff dedicato a un’unità di line

80 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Contenuto e autonomia decisionale

fusamente della tendenza all’outsourcing dei processi di supporto nel capitolo 5). Ad esempio, UniCredit ha creato una struttura organizzativa autonoma, UBIS (UniCredit Business Integrated Solutions), dedicata all’erogazione di processi e servizi di supporto al business per tutte le società del gruppo a livello mondiale (vedi Caso 4.2). UBIS è a tutti gli effetti un’organizzazione a sé stante, quindi costituita da unità di linea e alcuni organi di staff (ad esempio la Gestione Risorse Umane o la Comunicazione integrata). Una seconda differenza importante tra unità organizzative, trasversale alla precedente, deriva dal contenuto e dall’autonomia decisionale che le caratterizzano. È possibile in particolare distinguere unità direttive (ad esempio un comitato esecutivo) e unità operative (ad esempio un reparto produttivo o un ufficio vendite). Le unità organizzative operative sono caratterizzate da una prevalenza di mansioni operative e sono preposte allo svolgimento effettivo dei processi di trasformazione dell’azienda. Ad esempio nelle aziende manifatturiere esse sono rappresentate dai reparti produttivi o in un’azienda di servizi dal front office e dal back office impegnati nella produzione ed erogazione dei servizi (ad esempio i corsi di studio in un’università o le agenzie in una banca). Le attività degli organi operativi sono spesso caratterizzate da livelli di standardizzazione abbastanza elevati. Le unità organizzative direttive sono invece gli organi preposti alla guida dell’intera organizzazione. Esse forniscono indirizzi, strategie, obiettivi e politiche generali di comportamento alle altre unità organizzative dell’azienda. In altre parole, le unità direttive esplicano la governance dell’impresa (Azzone e Bertelè, 2011). Per questo motivo ci si riferisce spesso a tali organi con il termine di vertice aziendale o vertice strategico. Spesso le unità direttive hanno dimensioni molto piccole, a volte costituite da una sola persona (ad esempio il proprietario dell’azienda, l’Amministratore delegato o il Direttore generale). In altri casi però tali unità sono di maggiori dimensioni e hanno carattere collegiale. Ne sono un esempio i comitati di direzione o i comitati esecutivi. In alcuni casi si possono costituire unità direttive di natura temporanea, ovvero con scopi di guida e indirizzo rispetto a obiettivi specifici da raggiungere in orizzonti di tempo determinati. È questo il caso ad esempio degli steering commitees, organi di guida e riferimento di importanti progetti di innovazione dell’azienda. Gli organi direttivi raggruppano mansioni manageriali di alto livello – il cosiddetto top management – sono generalmente caratterizzati da bassi livelli di standardizzazione, a seguito della complessità, diversità e indeterminatezza delle attività da eseguire, e usano come meccanismo di coordinamento principale il mutuo adattamento. Un’ultima importante differenza tra unità organizzative dipende dal loro livello di temporaneità o stabilità: esistono infatti unità organizzative permanenti, senza limitazioni di tempo (questo vale per la maggior parte delle unità organizzative rappresentate nell’organigramma dell’impresa), e organi temporanei, ovvero unità formate ri-

4. La struttura dell’organizzazione ) 81

spetto a obiettivi specifici e che perdureranno fino al compimento dell’obiettivo stesso, tipicamente dunque con una scadenza temporale predeterminata (ad esempio nel caso di un team di progetto).

4.4

Frequenza e incertezza delle transazioni

I criteri di raggruppamento Avendo definito le variabili chiave che descrivono la macrostruttura dell’organizzazione, occorre ora capire quali criteri di base possono essere utilizzati per raggruppare le attività svolte dall’impresa in unità organizzative. Come ricordato nel paragrafo precedente, un’unità organizzativa viene costituita quando le mansioni a essa attribuite sono fortemente interdipendenti tra loro e relativamente indipendenti dalle mansioni attribuite ad altre unità organizzative. Il principale effetto del raggruppamento consiste infatti nel definire un sistema di coordinamento comune. Nella progettazione organizzativa si pone infatti il problema di minimizzare i costi di coordinamento non solo tra individui, ma anche tra unità organizzative, e nel contempo favorire l’efficienza nello svolgimento delle attività necessarie per ottenere gli scopi dell’impresa. In altre parole, il disegno delle unità organizzative attraverso la scelta del criterio di raggruppamento più opportuno ripropone a livello macrostrutturale il problema della specializzazione e divisione del lavoro, già discusso nel capitolo 3 relativamente al singolo individuo e alla progettazione delle mansioni. In questo caso, però, l’oggetto della progettazione sono le unità organizzative e si parla più comunemente di differenziazione. Il problema della scelta dei criteri di raggruppamento nella progettazione organizzativa è stato anche concettualizzato con l’esigenza di minimizzare i costi di transazione (Williamson, 1975 e 1986), cioè i costi legati al trasferimento di beni o servizi attraverso interfacce separabili – le unità organizzative. La teoria dei costi di transazione verrà ripresa nel dettaglio più avanti (capitolo 14), in relazione agli scambi tra l’impresa e i fornitori o i clienti. Possiamo tuttavia anticipare qui che il controllo gerarchico che può essere esercitato da un manager su un’unità organizzativa consente di ridurre i costi di gestione degli scambi di materiali e informazioni (le transazioni) necessari tra attività fortemente interdipendenti. Tali costi di gestione sono infatti legati alla frequenza e al grado di incertezza che caratterizzano le transazioni stesse, oltre che al grado di specificità delle risorse dedicate alle transazioni. La scelta del criterio di raggruppamento dovrà dunque tenere in considerazione la natura e le caratteristiche delle transazioni che si vengono a creare all’interno dell’organizzazione, e dunque il tipo di interdipendenze esistenti tra i compiti e le mansioni associate alle posizioni organizzative. Nel capitolo 3 sono state definite quattro tipologie di interdipendenze: sequenziali, reciproche, legate alle risorse, spazio-temporali. L’esistenza di interdipendenze tra attività genera

82 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Squadre e turni

una maggiore frequenza, specificità e in alcuni casi anche una maggiore incertezza nelle transazioni tra due posizioni o unità organizzative, suggerendo dunque l’opportunità di governarle attraverso meccanismi gerarchici. Nella progettazione della macrostruttura ciascuna interdipendenza dovrà essere analizzata per verificare quale vantaggio può essere tratto dal gestirla all’interno di un’unica unità o quale costo di coordinamento (o costo di transazione) può derivare dal renderla trasversale alle unità create. In funzione del tipo di interdipendenza esistente fra attività, l’impresa potrà scegliere di privilegiare un criterio di raggruppamento rispetto a un altro. Ma quali sono i criteri possibili? Essi possono essere ricondotti a tre categorie: i criteri di raggruppamento numerico, i criteri di raggruppamento orientati agli input e i criteri di raggruppamento orientati agli output. Il criterio di raggruppamento numerico è molto semplice: le unità organizzative vengono create dividendo i lavoratori in gruppi di dimensione adeguata a essere gestiti e coordinati da un unico capo. L’ipotesi sottostante questo criterio consiste nella sostanziale omogeneità delle posizioni e intercambiabilità delle persone raggruppate nelle unità organizzative. Si tratta dunque di un criterio che viene utilizzato frequentemente nelle organizzazioni meccaniche (si veda capitolo 3) di grandi dimensioni, caratterizzate da elevata standardizzazione dei processi e, di conseguenza, da un numero elevato di posizioni omogenee. Questo criterio ha perso d’importanza con l’aumentare del livello di specializzazione del lavoro. In alcuni casi però questo meccanismo può essere utilizzato anche in contesti più complessi e dinamici, come strumento per limitare le dimensioni delle unità organizzative in base all’ampiezza di controllo più adeguata alla situazione. È questo il caso dello studio legale Bonelli Erede & Pappalardo (Caso 3.3) che nel momento della fusione ha creato quattro sub-dipartimenti di circa 23-24 persone ciascuno all’interno del dipartimento di Società e Finanza, il più grande in termini numerici, per creare unità facilmente gestibili da un partner di riferimento. Un altro caso particolare di applicazione del criterio numerico è la costituzione di turni di lavoro: le unità organizzative vengono create per garantire che in ciascun turno di lavoro, ovvero per ciascun orario in cui è programmata l’attività lavorativa, ci sia un determinato numero di persone che svolgano le mansioni attribuite all’unità organizzativa di livello superiore (il reparto, la linea di produzione, il punto vendita ecc.). Ad esempio, questo criterio viene utilizzato per definire i turni di guardia medica in un pronto soccorso. In questo caso il criterio numerico si associa a una divisione temporale delle attività lavorative. I criteri di raggruppamento orientati agli input portano ad accorpare le attività in base ai mezzi utilizzati per svolgerle, siano essi competenze, tecnologie o metodi di lavoro. Rientrano in questa tipologia due sottocriteri:

4. La struttura dell’organizzazione ) 83 Know-how e funzioni

• il raggruppamento in base alle conoscenze e capacità utilizzate per svolgere le mansioni. L’esempio tipico di questo raggruppamento è costituito dai dipartimenti universitari, organizzati per discipline di riferimento e per competenze possedute dai ricercatori e dai professori (ad esempio il dipartimento di Matematica o il dipartimento di Fisica in un’università scientifica), o i reparti di un ospedale, raggruppati in base al tipo di specializzazione medica (ad esempio Cardiologia, Ortopedia od Oftalmologia); • il raggruppamento in base alla funzione svolta o alla tecnica o processo di lavoro utilizzati. Esempi di funzioni svolte in un’azienda possono essere l’acquisto di beni e servizi, la trasformazione di materie prime e componenti in prodotti finiti, la vendita di prodotti o servizi, l’amministrazione ecc. Come vedremo nel seguito, l’applicazione più comune del criterio di raggruppamento basato sulle funzioni svolte è la creazione delle funzioni aziendali (produzione, marketing, amministrazione, ricerca e sviluppo ecc.). Viceversa i criteri che guidano il raggruppamento in base alla tecnica o al processo di lavoro dipendono dalle tecnologie chiave del settore; ad esempio le attività produttive possono essere raggruppate in base al tipo di lavorazioni svolte (tornitura, fresatura, saldatura ecc. in un’azienda meccanica o montaggio automatizzato e montaggio manuale dei componenti in un’azienda elettronica) e, di conseguenza, alle tipologie di macchinari e attrezzature necessarie per svolgerle.

Prodotti, clienti e mercati

I criteri di raggruppamento orientati agli output fanno riferimento ai prodotti o servizi generati o agli obiettivi e fini delle attività, che costituiscono dunque il fattore comune che motiva la creazione di un’unità organizzativa. I criteri orientati agli output sono principalmente di tre tipi: • il raggruppamento in base al prodotto. Ogni unità organizzativa è preposta a svolgere attività dedicate a ciascun prodotto o servizio dell’azienda. Ad esempio, una compagnia di assicurazioni ha generalmente un ramo Vita, dedicato alle polizze vita, e un ramo Danni, dedicato alle polizze di copertura dei danni. Similmente la maggior parte delle grandi aziende multiprodotto hanno business unit dedicate alle principali famiglie di prodotto, nelle quali vengono realizzate le diverse attività necessarie a progettare, realizzare e vendere ciascuna famiglia. Il criterio di raggruppamento in base al prodotto riguarda anche livelli gerarchici inferiori. Ad esempio, le unità organizzative funzionali possono essere suddivise in uffici o dipartimenti che seguono i diversi prodotti realizzati dall’azienda: è questo il caso di stabilimenti produttivi dedicati a prodotti specifici o uffici di marketing dedicati ai diversi servizi offerti dall’azienda; • il raggruppamento in base al cliente. Le unità organizzative possono raggruppare attività dedicate a tipologie di clienti specifiche. Ad esempio, molti produttori del settore informatico distinguono

84 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

tra consumatori finali, aziende private e pubblica amministrazione. Le banche tipicamente distinguono tra piccoli clienti (privati, piccole aziende, professionisti) e grandi clienti istituzionali (imprese medie e grandi). Un’altra applicazione di questo criterio di raggruppamento è quella frequentemente utilizzata dai produttori di beni di largo consumo che differenzia per canali distributivi, generalmente distinguendo clienti della grande distribuzione organizzata (GDO) dal commercio al dettaglio (i negozi indipendenti). Infine, molte aziende di servizio distinguono tra il canale diretto (filiale, agenzia o sportello) e canale telematico (Internet o call center). Il criterio di raggruppamento in base al cliente è utilizzato soprattutto per le attività di marketing e vendite, che possono avere esigenze e modalità di svolgimento differenziate e specifiche per ciascuna tipologia di canale. Tuttavia in alcuni casi anche le attività di progettazione o produzione dei beni o servizi possono richiedere modalità di svolgimento o attenzioni diverse a seconda della tipologia di cliente o del canale al quale ci si rivolge; • il raggruppamento su base geografica. In questo caso le unità organizzative raggruppano attività svolte in un’unica area geografica tra le diverse in cui l’azienda opera. Le filiali o business unit nazionali di una multinazionale o gli uffici regionali di vendita di un’azienda italiana dislocata su tutto il territorio sono solo due possibili esempi di questo tipo di raggruppamento.

Business unit e funzioni

Il problema della scelta del criterio di raggruppamento da utilizzare si pone a ciascun livello gerarchico dell’azienda. A ogni passo del raggruppamento delle posizioni in unità organizzative, e di unità organizzative in altre di livello superiore, può essere adottato un criterio differente. Ad esempio, le business unit di un’azienda sono generalmente articolate in un certo numero di funzioni, dedicate ciascuna alle attività necessarie per realizzare lo specifico prodotto o servire lo specifico mercato. Viceversa, le funzioni di un’azienda che opera su più mercati possono essere articolate in sottounità organizzative responsabili delle diverse aree geografiche o delle diverse tipologie di clienti a cui si rivolge. Ma quali sono le motivazioni che portano alla scelta di un criterio di raggruppamento rispetto a un altro? In primo luogo il raggruppamento in unità organizzative può rispondere a obiettivi di efficienza e di riduzione dei costi dell’azienda. In questo caso i driver fondamentali sono le economie di scala e le economie di specializzazione. Nel primo caso l’obiettivo è quello di cumulare il maggior volume possibile di attività in una stessa unità organizzativa, in modo da massimizzarne la scala e, di conseguenza, avere la possibilità di ottenere una riduzione dei costi. Questo criterio spinge ad esempio a concentrare tutte le lavorazioni di un certo tipo in un unico reparto per utilizzare tecnologie più efficienti ed eventualmente un maggior livello di automazione. Le attività di ricerca e sviluppo possono essere concentrate in un’unica sede per creare massa critica degli investimenti. Molte imprese globali

4. La struttura dell’organizzazione ) 85

Più funzioni per lo stesso output

hanno istituito uffici acquisti centralizzati per tutte le filiali nazionali al fine di aumentare il potere contrattuale d’acquisto, massimizzare l’efficienza e sfruttare le sinergie esistenti nell’acquisto di maggiori volumi di materie prime o componenti (alcuni esempi sono riportati nel capitolo 15). In modo analogo, la ricerca di economie di specializzazione spinge a raggruppare nelle stesse unità organizzative persone con competenze simili, in modo da favorire l’interazione e il confronto tra gli esperti e dunque l’accumulo, il trasferimento e l’accrescimento del know-how e delle competenze dei singoli individui dell’azienda. L’accentramento degli uffici di ricerca e sviluppo è un esempio di questo principio, in quanto la vicinanza fisica e la continua interazione tra ricercatori e progettisti è una fonte importante di sviluppo delle competenze aziendali. La creazione di dipartimenti in università o di reparti negli ospedali risponde analogamente a questo tipo di finalità. È evidente dunque che la ricerca di efficienza e specializzazione spinge all’utilizzo di criteri di raggruppamento orientati agli input. Viceversa, in altri casi l’obiettivo dominante nella progettazione delle unità organizzative è quello di massimizzare l’efficacia dell’output, gestendo al meglio le interdipendenze legate ai processi e ai flussi di lavoro. Tali interdipendenze sorgono in quanto la realizzazione di un determinato output richiede attività in sequenza o in forte interazione reciproca, il cui risultato complessivo dipende dal livello di integrazione e coordinamento di tali attività. Di conseguenza il raggruppamento delle attività in una stessa unità organizzativa può determinare significativi vantaggi. Ad esempio, le attività di progettazione, produzione e vendita di una specifica tipologia di macchina per il confezionamento richiedono sicuramente maggiore integrazione rispetto alle attività di produzione di macchine per il confezionamento di prodotti tra loro diversi (ad esempio alimentari o farmaceutici); le due tipologie di prodotto hanno infatti processi, problematiche tecniche e clienti diversi, mentre progettazione, produzione e vendita di una singola tipologia di macchina sono fortemente interdipendenti, anche a seguito dell’alto grado di personalizzazione che questi impianti hanno rispetto alle esigenze del cliente. Il criterio di raggruppamento suggerito per gestire al meglio queste interdipendenze è dunque quello orientato al prodotto. Ragionamenti analoghi possono essere fatti pensando alle interdipendenze create per servire un determinato mercato (raggruppamento orientato al cliente) o per operare in una determinata area geografica (raggruppamento su base geografica). In questi casi, oltre alle interdipendenze sequenziali o reciproche di attività necessarie a conseguire un determinato output, possono giocare un ruolo rilevante le interdipendenze spazio-temporali. È questo l’esempio del raggruppamento di attività tra loro relativamente diverse ma svolte in un preciso luogo fisico (raggruppamento su base geografica) o in presenza di un determinato cliente (raggruppamento per clientemercato). Dunque il fabbisogno di integrazione delle attività lungo i flussi di lavoro determina l’utilizzo di criteri di raggruppamento orientati agli output.

86 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

L’organizzazione sezionata

4.5

Coordinamento “macro” e “micro”

Il bilanciamento tra le esigenze di efficienza e di efficacia ai diversi livelli gerarchici dell’organizzazione e il conseguente utilizzo dei criteri di raggruppamento determinano la struttura organizzativa adottata. Le strutture organizzative reali sono riconducibili ad alcuni “tipi ideali” i cui tratti distintivi verranno illustrati nel paragrafo 4.6. È necessario però prima chiedersi come siano gestite le interdipendenze che necessariamente vengono spezzate dalla creazione delle unità organizzative. Raggruppare infatti significa anche “tagliare” l’organizzazione in parti. Occorre dunque individuare i meccanismi che possono essere utilizzati per ricreare il tessuto connettivo tagliato. A questo scopo nel paragrafo 4.5 verranno discussi i meccanismi di coordinamento utilizzati dalle imprese per gestire le interdipendenze tra attività svolte in unità organizzative diverse.

Il coordinamento tra unità organizzative La scelta di raggruppamento delle attività e delle mansioni in unità organizzative privilegia alcune interdipendenze tra attività rispetto ad altre. Queste dovranno dunque essere gestite con modalità alternative, per garantire che le attività siano coordinate e che i processi aziendali non abbiano intoppi o incoerenze. Si ripropone dunque il problema del coordinamento che, come nel caso della microstruttura, è la diretta conseguenza della divisione del lavoro. Anche nel caso della macrostruttura la progettazione dell’organizzazione prevede di mettere in atto opportuni meccanismi attraverso i quali le unità organizzative interagiscono tra loro, recuperandone il coordinamento, la coerenza o l’allineamento. Gli stessi meccanismi di coordinamento discussi nel capitolo 2 a livello generale (mutuo adattamento, supervisione e standardizzazione di processi, risultati e competenze) vengono adottati non solamente all’interno delle unità organizzative, per coordinare gli individui che vi operano, ma anche tra unità organizzative. Ad esempio, lo scambio informale di dati e informazioni sullo stato di avanzamento di un progetto tra il responsabile marketing e un progettista può essere visto come applicazione del mutuo adattamento tra le funzioni marketing e progettazione. In modo analogo, la definizione di obiettivi di performance specifici per ciascuna business unit non è altro che l’applicazione del meccanismo di standardizzazione degli obiettivi tra diverse unità organizzative dell’azienda. La stessa gerarchia che si viene a costituire con la progettazione della macrostruttura agisce coordinando le strutture di diretta responsabilità attraverso meccanismi di supervisione diretta. Ad esempio, un problema di coordinamento che riguarda un venditore e un progettista che interagiscono per supportare il cliente nella definizione delle specifiche del prodotto può essere risolto facendo risalire il problema fino al capo comune alle due posizioni, tipicamente il responsabile della business unit o addirittura il Direttore generale, che deciderà qual è la soluzione più opportuna. Questo processo richiede chiaramente tempi lunghi e rende meno efficiente l’uso delle risorse.

4. La struttura dell’organizzazione ) 87

Di seguito vengono descritte le principali soluzioni per il coordinamento fra unità organizzative, riconducendole ai meccanismi di coordinamento che ciascuna di esse incorpora.

Mutuo adattamento

Standardizzazione degli obiettivi

I ruoli di collegamento o il meccanismo del distacco. Si tratta di soluzioni volte a coordinare orizzontalmente due unità organizzative. Viene definito un ruolo specifico all’interno di un’unità organizzativa dedicato al coordinamento e all’integrazione con un’altra unità. I ruoli di collegamento nelle imprese sono assimilabili agli ufficiali di collegamento in campo militare, incaricati di tenere i rapporti tra eserciti alleati ma distinti. Ad esempio, all’interno della funzione produzione può essere individuata una persona che ha il ruolo di coordinarsi e integrarsi con la progettazione al fine di individuare le scelte progettuali più adatte rispetto ai vincoli di processo o tecnologia produttiva. In modo simile, è possibile individuare ruoli di collegamento negli staff, dedicati all’integrazione e al coordinamento con specifiche unità di line (ad esempio uno specialista di gestione del personale dedicato al coordinamento con l’area vendite per affrontare le problematiche di gestione dei venditori). Si parla in questo caso di “distacco” di una risorsa dello staff presso l’unità organizzativa coinvolta. Questa soluzione incarna principalmente il meccanismo del mutuo adattamento, in quanto la persona che ricopre il ruolo di collegamento deve coordinarsi, spesso con modalità informali, con le persone operanti nelle due unità organizzative coinvolte. In alcuni casi vengono inoltre assegnati obiettivi specifici che il ruolo di collegamento deve garantire: in questi casi il meccanismo utilizzato è quello della standardizzazione degli obiettivi. I product manager, project manager o account manager (anche detti manager integratori, Galbraith, 1973). Si tratta di posizioni organizzative non specificamente dedicate a due unità organizzative determinate, ma con un ruolo più ampio di integrazione di diverse unità organizzative e con responsabilità sul raggiungimento di obiettivi specifici. Queste posizioni non appartengono generalmente a nessuna delle unità organizzative che devono essere coordinate, e talvolta hanno invece alcune risorse a disposizione (quindi sono a capo di specifiche unità organizzative) dedicate all’attività di integrazione. I product manager, tipici delle aziende del largo consumo, hanno responsabilità sul coordinamento della progettazione, produzione e vendita di specifici prodotti; i project manager, assai diffusi nel settore dell’impiantistica, sono responsabili di progetti di sviluppo di prodotti o servizi o di progetti di innovazione; gli account manager, presenti ad esempio nel settore dei servizi professionali alle imprese, costituiscono l’interfaccia unica dell’azienda con il cliente e devono quindi coordinare le diverse unità organizzative coinvolte nei processi di erogazione del servizio. Questi manager integratori incarnano i meccanismi del mutuo adattamento e della standardizzazione degli obiettivi, in quanto si coordi-

88 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

nano prevalentemente attraverso modalità informali ma sono tipicamente responsabilizzati su obiettivi specifici. Il maggiore problema dei manager integratori consiste nella difficoltà che essi incontrano a seguito della mancanza di autorità formale sulle risorse che devono coordinare (in questo senso non rappresentano una forma di supervisione diretta), che deve essere compensata dalla capacità di negoziazione e leadership.

Gruppi temporanei e permanenti

I team interfunzionali. L’integrazione orizzontale tra unità organizzative può essere ottenuta anche attraverso la creazione di organi temporanei o permanenti dedicati alla soluzione di problemi specifici. Tali organi assumono molto spesso la forma di team interfunzionali, gruppi costituiti ad hoc da rappresentanti delle diverse unità organizzative che richiedono il coordinamento. In questo caso l’integrazione avviene grazie allo scambio di informazioni e la risoluzione congiunta di problemi attraverso il lavoro di gruppo o l’incontro formalizzato in riunioni di lavoro (quindi attraverso il mutuo adattamento). Un esempio di team interfunzionale temporaneo è un gruppo di lavoro dedicato alla riprogettazione dei processi aziendali in una banca a seguito del cambiamento della normativa che regola la concessione del credito. Un esempio di team permanente è invece rappresentato dalla riunione periodica dei direttori di corso in una business school per confrontarsi e decidere politiche comuni, sinergiche o allineate di comunicazione e promozione dei rispettivi programmi formativi. Questa soluzione incorpora in parte la standardizzazione degli obiettivi poiché generalmente i team sono responsabili del raggiungimento di obiettivi precisi. I sistemi di pianificazione e controllo. Si tratta di una soluzione di natura gestionale (e non strettamente organizzativa) al problema del coordinamento. I sistemi di pianificazione e controllo hanno l’obiettivo di definire gli output desiderati e le azioni auspicabili per ciascuna unità organizzativa, in modo gerarchico a partire dagli obiettivi e dai piani generali dell’impresa, e di verificarne l’effettiva realizzazione. Tali sistemi rappresentano dunque l’implementazione di meccanismi di standardizzazione degli obiettivi e dei processi a livello di unità organizzative. Esempi di sistemi di pianificazione e controllo sono il budget, i piani strategici, i piani di miglioramento ecc. Tali meccanismi consentono alle varie unità di operare in relativa autonomia, e nel contempo ai vertici di controllare l’operato e i risultati delle diverse parti dell’organizzazione anche senza supervisionare direttamente l’attività svolta. Per una trattazione più dettagliata degli strumenti e dei modi con cui le imprese implementano sistemi di pianificazione e controllo rimandiamo ad Azzone (2006). I sistemi informativi aziendali. Tale soluzione riguarda l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) ai fini dell’integrazione tra unità organizzative. I sistemi informativi aziendali hanno l’obiettivo di facilitare la raccolta, lo scambio e la circolazione

4. La struttura dell’organizzazione ) 89

Accesso orizzontale all’informazione

dell’informazione tra le posizioni e le unità organizzative dell’azienda e, dunque, sono uno strumento fondamentale di integrazione, che facilita e supporta tutti e cinque i meccanismi di coordinamento. Da un lato i sistemi informativi hanno avuto tradizionalmente l’obiettivo di migliorare lo scambio di informazioni lungo la gerarchia aziendale. I sistemi informativi di reporting, i cruscotti direzionali, i sistemi di controllo della qualità, gli strumenti di budgeting costituiscono alcuni esempi di sistemi informativi verticali, che supportano la supervisione diretta e la standardizzazione degli obiettivi. La diffusione più recente di sistemi informativi interfunzionali, che rendono disponibili le informazioni trasversalmente rispetto alla struttura organizzativa, ha invece consentito una migliore integrazione orizzontale, facilitando il mutuo adattamento tra unità organizzative ma anche supportando la standardizzazione delle competenze. Intranet aziendali, sistemi di knowledge management, sistemi ERP (Enterprise Resource Planning) sono tutti esempi di sistemi che rendono disponibili a tutta l’organizzazione informazioni e conoscenze generate a livello locale. Si tratterà più diffusamente il tema dell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a supporto dell’integrazione delle attività nel capitolo 6. La Figura 4.3 rappresenta il funzionamento delle varie soluzioni organizzative, gestionali e tecnologiche per il coordinamento della macrostruttura. Figura 4.3

IL COORDINAMENTO DELLA MACROSTRUTTURA Product manager

Ruolo di collegamento

Manager integratore

Team

Team interfunzionale

Pianificazione e controllo

Sistemi informativi

Obiettivi e risultati

Sistemi di pianificazione e controllo

Sistemi informativi aziendali

90 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Tabella 4.1

IL COORDINAMENTO TRA UNITÀ ORGANIZZATIVE Mutuo Supervisione adattamento diretta

Gerarchia

Standardizzazione processi

XX

Ruoli di collegamento

XX

Manager integratori

XX

Team interfunzionali

XX

Sistemi pianificazione e controllo Sistemi informativi aziendali

XX

Standardizzazione obiettivi

Standardizzazione competenze

X X X

XX XX

X

X

XX

XX

XX

X

X

X

Nota: XX = meccanismo di coordinamento principale; X = meccanismo di coordinamento secondario.

La Tabella 4.1 sintetizza invece i meccanismi di coordinamento messi in atto da ciascuna delle soluzioni sopra descritte. Per concludere, occorre sottolineare come sempre più spesso il problema dell’integrazione non riguardi solo le unità interne, ma anche quelle esterne facenti capo ad altre organizzazioni. Questa è la conseguenza dei processi sempre più estesi di outsourcing e dell’emergere di reti collaborative tra imprese(capitoli 14-17).

4.6

Tipi ideali e organizzazioni reali

4.6.1 Piccole organizzazioni

Le strutture organizzative Le scelte di progettazione organizzativa della macrostruttura non sono indipendenti l’una dall’altra ma, al contrario, sono fortemente interrelate tra loro. Gli insiemi distinti, ma internamente coerenti, delle scelte di ampiezza del controllo, di lunghezza della linea gerarchica, di criteri di raggruppamento e di meccanismi di collegamento utilizzati delineano alcune strutture organizzative tipiche, che meglio si adattano ad alcuni tipi di contesto, di strategia, di mercato in cui l’impresa opera. Si tratta in qualche modo di “tipi ideali” di organizzazione, che vengono poi messi in pratica nelle imprese reali in forme ibride e non sempre del tutto riconoscibili. Questi tipi ideali consentono di individuare le alternative di progettazione organizzativa da adattare opportunamente alla realtà specifica. Le Figure 4.4, 4.5, 4.6, 4.8 e 4.9 mostrano organigrammi esemplificativi delle diverse strutture organizzative presentate in questo paragrafo.

La struttura semplice La struttura organizzativa più elementare è la struttura semplice. La Bodin (capitolo 2), soprattutto nei primi anni della sua vita, è la tipica esemplificazione di questo primo tipo.

4. La struttura dell’organizzazione ) 91

Accentramento decisionale

Partnership professionali

Edmondo Bodin, l’imprenditore, assume su di sé tutti i compiti direzionali dell’azienda, e organizza e gestisce le principali attività, dalla produzione alla vendita, dalla scelta delle tecnologie alla gestione delle risorse umane – le lavoranti e i progettisti impiegati nell’azienda (Figura 2.1). La struttura organizzativa semplice è dunque poco articolata, composta da poche unità organizzative essenziali, coordinate prevalentemente attraverso la gerarchia. Tutte le decisioni sono accentrate nelle mani dell’imprenditore o proprietario e i collaboratori hanno prevalentemente ruoli esecutivi. Il livello di formalizzazione dell’organizzazione è molto basso: non esistono procedure, descrizioni formali di compiti e mansioni, spesso non esiste neanche una rappresentazione formale della struttura organizzativa (o quando esiste questa non rispecchia in realtà il vero funzionamento dell’azienda). Con il crescere delle dimensioni la struttura semplice si articola eventualmente in alcune unità organizzative in cui le attività sono raggruppate prevalentemente secondo criteri funzionali – in base alla funzione svolta o alla tecnologia utilizzata. Tornando al caso Bodin, la struttura che l’azienda ha assunto agli inizi degli anni Ottanta, quando aveva raggiunto un certo livello di complessità, prevedeva una funzione produzione, a sua volta suddivisa in reparti, una funzione tecnica per la progettazione dei prodotti e dei processi e un’unità organizzativa orientata alle vendite (Figura 2.1). Rimane tuttavia una struttura semplice poiché largamente incompleta, ovvero priva di alcune delle funzioni organizzative tipiche di un’azienda più strutturata, quali ad esempio la gestione delle risorse umane o l’amministrazione e controllo. Nelle strutture semplici spesso i compiti vengono raggruppati nelle unità organizzative in base alle competenze delle persone che ne sono a capo e non viceversa, come tipicamente accade nelle organizzazioni di maggiori dimensioni. Può accadere dunque che l’Ufficio Tecnico sia anche responsabile dei Sistemi Informativi, semplicemente perché la persona che gestisce la progettazione ha anche buone competenze di gestione dei sistemi informativi, o che la Gestione Risorse umane faccia capo alle Vendite, perché il responsabile commerciale ha un’esperienza pregressa nella selezione e gestione dei dipendenti. La struttura semplice sopra descritta è tipica di moltissime realtà imprenditoriali di piccole dimensioni. Esistono altre forme organizzative semplici con caratteristiche in parte differenti. In particolare una forma piuttosto diffusa è quella dei gruppi di pari (Williamson, 1975), che caratterizza organizzazioni professionali di piccole dimensioni, quali società di consulenza, studi tecnici o di architettura, studi legali (si faccia riferimento al modello boutique descritto nel Caso 3.3). Si tratta di forme organizzative caratterizzate da una discreta omogeneità dei compiti svolti, di tipo professionale, e con complessità mediamente elevata, in cui vi è una diffusa imprenditorialità tra i membri dell’organizzazione, che partecipano dunque alle scelte strategiche e ai risultati aziendali, attraverso meccanismi di partnership. Ciascun professionista svolge in modo relativamente autonomo il suo compito professionale pur condividen-

92 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

do spazi fisici, servizi (ad esempio segreteria o gestione dei sistemi informativi) o sfruttando lo stesso brand. In queste strutture i meccanismi di coordinamento più utilizzati sono il mutuo adattamento e la standardizzazione delle competenze, che si esplicano attraverso meccanismi quali comitati permanenti (l’assemblea dei soci) o team interfunzionali temporanei (il gruppo di progetto che lavora insieme su un nuovo progetto o una nuova operazione).

4.6.2

La struttura funzionale La struttura organizzativa funzionale è l’evoluzione più comune dell’organizzazione semplice a fronte della crescita dimensionale e della specializzazione del lavoro. In una struttura funzionale le unità organizzative al primo livello gerarchico – quelle immediatamente alle dipendenze del vertice aziendale – sono progettate raggruppando le attività in base allo svolgimento di una funzione comune. In un’azienda industriale, la struttura organizzativa funzionale più tipica prevede una funzione commerciale, una funzione produzione, divisa eventualmente per reparti, una funzione di ricerca e sviluppo, in alcuni casi una funzione logistica e alcune funzioni di staff quali l’Amministrazione e Finanza, i Sistemi Informativi, la Gestione Risorse umane, la Gestione Qualità (Figura 4.4). Anche nelle aziende di servizi le strutture organizzative funzionali prevedono una serie di unità organizzative dedicate alle attività di supporto, analoghe a quelle viste per le aziende manifatturiere, una funzione

Figura 4.4

ESEMPIO DI STRUTTURA FUNZIONALE (AZIENDA MANIFATTURIERA) Vertice aziendale

Direzione qualità

Direzione Gestione Risorse Umane

Direzione Commerciale

Direzione Produzione

Direzione Sistemi Informativi

Direzione Ricerca e sviluppo

Direzione Amministrazione e Finanza

Direzione Logistica

Marketing

Reparto 1

Prodotto A

Acquisti

Vendite

Reparto 2

Prodotto B

Magazzino

Manutenzione Vendite Italia Vendite estero

Spedizioni

4. La struttura dell’organizzazione ) 93

commerciale e di vendita, che comprende o a cui si affiancano unità organizzative dedicate al customer service (ovvero attività di supporto al cliente, di gestione delle richieste e dei reclami ecc.), una funzione di sviluppo di nuovi servizi o di nuovi business e, infine, unità organizzative funzionali dedicate alla produzione ed erogazione del servizio (spesso chiamate operations). Essendo i servizi di natura più eterogenea rispetto all’attività manifatturiera, ogni settore ha funzioni operative peculiari. Nel Caso 4.1 è descritta la struttura organizzativa dell’Ospedale Valduce.

CASO

4.1

La struttura funzionale dell’Ospedale Valduce L’Ente Ospedaliero Valduce è un ospedale religioso, retto dalla Congregazione delle Suore Infermiere dell’Addolorata, fondato a Como nel 1853. Dal 1974 è “ospedale classificato”, ovvero equiparato agli ospedali pubblici all’interno del Sistema Sanitario Nazionale. L’Ospedale segue dunque le indicazioni previste dai piani sanitari nazionali e regionali. È costituito da due presidi, uno per pazienti acuti (Ospedale Valduce a Como) e uno di riabilitazione (Villa Beretta a Costamasnaga), per un totale di 371 posti letto accreditati. L’organo superiore di amministrazione dell’Ospedale è il Consiglio amministrativo, composto da religiose della Congregazione stessa. Il Consiglio di Amministrazione si avvale, per le materie di rispettiva competenza, della collaborazione del Direttore amministrativo e del Direttore sanitario dell’Ospedale. A fianco del Consiglio amministrativo operano alcuni organismi autonomi previsti da normative interne ed esterne all’Ente, come il Comitato Etico, e un Organismo di Vigilanza. La gestione complessiva dell’Ospedale è invece affidata al Direttore generale, che svolge la propria attività sotto il controllo dell’Organo di Amministrazione della Congregazione ed è responsabile verso lo stesso del raggiungimento degli obiettivi prefissati. Al Direttore generale rispondono innanzitutto alcune funzioni di supporto, necessarie per la gestione dell’Ospedale. Queste includono: l’Ufficio Gestione Qualità, l’Ufficio Relazioni con il Pubblico, il Servizio di Prevenzione e Protezione, il Controllo di Gestione. Il Direttore generale è poi coadiuvato, per le rispettive competenze, dal Direttore Amministrativo e dal Direttore sanitario. In particolare il Direttore amministrativo collabora con il Direttore generale nella definizione delle politiche di governo economico dell’Ospedale, dirige i servizi amministrativi e svolge attività di coordinamento e supporto delle attività amministrative e gestionali dei responsabili delle strutture dell’Ospedale. Gestisce infine le relazioni con i fornitori e i consulenti. Le funzioni che rispondono al Direttore amministrativo sono organizzate secondo un principio funzionale e sono: il Risk Management, i Sistemi Informativi, il servizio economico-finanziario (responsabile della contabilità e della gestione finanziaria e fiscale), il servizio provveditorato ed economato (responsabile della gestione dei fornitori), il servizio di pianificazione e coordinamento dell’area tecnica (responsabile della gestione di attrezzature, impianti e infrastrutture), le Risorse Umane, la Segreteria e Protocollo, il servizio C.U.P. (Centro Unico Prenotazioni). Il Direttore sanitario è invece un medico che dirige i servizi sanitari e coadiuva il Direttore generale e il Consiglio amministrativo nel governo dell’Ospedale. Riportano al Direttore sanitario alcuni organi consultivi, tra cui il Collegio di Direzione (con il compito di pianificazione strategica delle attività sanitarie e organizzative), l’Ufficio Formazione, il Comitato Scientifico, e alcune unità di staff, tra cui l’Unità Operativa di Farmacia e il servizio infermieristico tecnico riabilitativo.

94 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE La struttura di erogazione dei servizi di cura (unità di line) risponde al Direttore sanitario ed è organizzata per materia e competenza, secondo un classico criterio funzionale. Le principali unità di line sono i Dipartimenti, che aggregano le attività in base all’affinità clinica e alla loro interdipendenza nell’erogazione dell’assistenza. I Dipartimenti dell’Ospedale Valduce (detti anche aree) sono: l’Area Chirurgica, l’Area Medica, il Dipartimento Materno infantile e il Dipartimento Servizi Diagnostici, l’Area Critica (pazienti critici) e il Dipartimento di Riabilitazione Polispecialistica. All’interno di ciascun Dipartimento operano le Unità operative, ovvero settori di attività corrispondenti ai reparti dotati di posti letto e ai servizi diagnostici e includono: Anestesia, Rianimazione e Terapia del Dolore, Cardiologia, Chirurgia Generale, Chirurgia Toracica, Gastroenterologia, Medicina Interna, Medicina Riabilitativa, Neurologia, Oculistica, Ostetricia e Ginecologia, Pediatria e Patologia Neonatale, Pronto Soccorso. La struttura organizzativa semplificata dell’Ospedale Valduce è rappresentata in Figura 4.5.

Figura 4.5

STRUTTURA ORGANIZZATIVA SEMPLIFICATA DELL’OSPEDALE VALDUCE Consiglio amministrativo Direzione generale Staff della Direzione generale Direzione amministrativa

Direzione sanitaria

Risk management

Staff Direzione sanitaria

Servizi informativi e informatici

Farmacia

Servizio economico finanziario

Servizio infermieristico

Servizio Provveditorato ed Economato

Dipartimenti

Pianificazione e Coordinazione area tecnica

Unità operative

Risorse umane Segreteria e Protocollo

Il caso dell’Ospedale Valduce ci mostra una struttura complessa e stratificata (sono infatti presenti diversi livelli gerarchici), dotata di numerose unità (sia di staff sia di line) progettate facendo ricorso prevalente al raggruppamento basato sugli input. Si tratta dunque di una classica struttura funzionale.

4. La struttura dell’organizzazione ) 95 Criteri diversi per livelli diversi

Massa critica e specializzazione

Le strutture funzionali si possono articolare in modi diversi nei livelli gerarchici inferiori al primo. In alcuni casi vengono utilizzati nuovamente criteri funzionali per individuare le unità organizzative che compongono le funzioni (ad esempio i reparti all’interno della funzione produzione o la divisione tra marketing e vendite della Direzione Commerciale). In altri casi, invece, al secondo livello gerarchico vengono utilizzati (anche) criteri orientati agli output, individuando ad esempio responsabilità geografiche o di segmento clienti nell’area commerciale. Ciò che connota una struttura organizzativa come funzionale è dunque la scelta del criterio di raggruppamento orientato agli input al primo livello gerarchico. Come già ricordato descrivendo i criteri di raggruppamento delle attività, la struttura funzionale ha i suoi maggiori vantaggi nell’efficienza dell’organizzazione delle attività: da un lato si massimizza la possibilità di raggiungere economie di scala all’interno di ciascuna funzione, concentrando tutte le attività e i volumi realizzati in un’unica unità organizzativa, dall’altro vengono ridotti i costi legati alla duplicazione delle risorse (Duncan, 1979). Ad esempio, realizzare tutti i prodotti in uno stesso stabilimento significa avere volumi di produzione più elevati e dunque sfruttare una scala di produzione più ampia, e non dover duplicare strutture e risorse a fronte della creazione di nuovi stabilimenti. Un secondo punto di forza delle strutture funzionali, più interessante in contesti complessi e in forte evoluzione, è la possibilità di raggiungere elevati livelli di specializzazione e sviluppo delle competenze specifiche delle funzioni. Ad esempio Eldor, una multinazionale italiana leader nella produzione di componenti elettronici avvolti, ha mantenuto nel tempo una struttura fortemente orientata alle funzioni, nonostante la crescente diversificazione di prodotto, di mercato e geografica che ha caratterizzato l’azienda. Eldor infatti operava inizialmente nella produzione di componenti elettronici per i televisori; successivamente ha rifocalizzato il suo business sul settore automotive. L’azienda si è inoltre espansa significativamente a livello globale, essendo oggi uno dei produttori leader nello specifico settore. La scelta dell’azienda di mantenere una struttura funzionale è stata guidata dalla volontà di preservare ed accrescere nel tempo le forti competenze tecnologiche presenti al suo interno, che costituiscono la principale fonte di creazione di valore e di differenziazione rispetto alla concorrenza. La scelta si è rivelata particolarmente corretta, in quanto ha garantito la flessibilità strategica necessaria per il riposizionamento nel settore automotive, il quale sarebbe stato probabilmente più difficile nel caso in cui l’azienda fosse stata fortemente divisionalizzata. La specializzazione delle competenze deriva dalla maggior frequenza con cui risorse dedicate a una singola funzione affrontano e risolvono determinati problemi, dalla maggior possibilità di scambio di tecniche, soluzioni, conoscenze, metodologie tra specialisti raggruppati nella stessa unità organizzativa che genera dunque fertilizzazione delle competenze (si pensi alla condivisione di soluzioni progettuali e dei risultati di scelte innovative che può avvenire in un ufficio tecni-

96 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Efficienze locali

Rischi di lentezza e rigidità

Correttivi

co che raggruppa tutti i progettisti di un’azienda), dalla possibilità di adottare attrezzature e strumenti di lavoro specializzati e quindi di maggiore efficacia. In generale, attraverso un’organizzazione di tipo funzionale vengono perseguiti obiettivi di ottimizzazione locale del funzionamento delle singole funzioni aziendali; la standardizzazione di questi obiettivi diventa dunque il meccanismo di coordinamento più utilizzato per le unità di primo livello. All’interno delle funzioni la supervisione è il meccanismo di coordinamento dominante. Il controllo gerarchico è favorito dalla relativa omogeneità delle attività e delle competenze delle risorse appartenenti all’unità organizzativa (ovvero dalla limitata ampiezza manageriale). Il range di competenze che un capo deve essere in grado di dominare è dunque limitato. I punti di debolezza della struttura funzionale derivano dalla mancanza di focus su specifici prodotti, clienti, mercati. Di conseguenza la velocità e l’efficacia di risposta a fronte di una domanda variegata di prodotti e servizi o di dinamiche ambientali turbolente sono basse. Le decisioni che riguardano uno specifico output, laddove non previste dalle procedure e dagli standard, devono essere coordinate dalla prima linea manageriale. Questo determina spesso tempi lunghi e limitata efficacia della risposta. Le strutture funzionali soffrono dunque di diseconomie legate alla mancanza di integrazione tra le diverse attività necessarie per ottenere gli output e soddisfare i clienti. Spesso, inoltre, al crescere della dimensione aziendale le strutture funzionali tendono a portare a un’elevata burocratizzazione e alla proliferazione dei livelli gerarchici intermedi, proprio per far fronte alle numerose eccezioni che devono essere gestite per coordinare le attività e, conseguentemente, i processi decisionali vengono ulteriormente rallentati. Tali strutture ben si adattano a realtà monoprodotto-monomercato (o caratterizzate da un numero limitato di prodotti, mercati o clienti), in cui i benefici della specializzazione, delle economie di scala e dello sviluppo delle competenze eccedano i costi del coordinamento e i rischi di rigidità. Similmente, le strutture organizzative funzionali si adattano a contesti relativamente stabili, in cui la complessità possa essere gestita efficacemente attraverso meccanismi di standardizzazione, e in dimensioni d’impresa non eccessivamente elevate, laddove l’utilizzo della gerarchia non determini strutture troppo pesanti. Infine, le organizzazioni funzionali sono progettate per rispondere a obiettivi di efficienza organizzativa e non direttamente per perseguire l’efficacia. Nel capitolo 6 verrà ripreso e sviluppato il tema del ruolo dei fattori contingenti nel determinare le strutture organizzative. La Tabella 4.2 sintetizza i punti sopra descritti. Proprio per superare i limiti delle strutture funzionali, senza però rinunciare ai loro vantaggi, molte organizzazioni scelgono di integrare la struttura funzionale “pura” con opportuni ruoli di coordinamento, che permettano di velocizzare i processi decisionali e di recuperare l’integrazione interfunzionale delle attività più critiche (paragrafo 4.5). Ovviamente l’introduzione di tali meccanismi permette di recupera-

4. La struttura dell’organizzazione ) 97

Tabella 4.2

STRUTTURE FUNZIONALI E STRUTTURE DIVISIONALI A CONFRONTO Struttura funzionale

Struttura divisionale

Vantaggi

• Facilita il raggiungimento di economie di scala • Consente lo sviluppo di conoscenze e capacità specialistiche

• Permette una elevata attenzione ai risultati del singolo business e dunque una maggiore efficacia e rapidità di risposta • Consente un buon livello di integrazione tra attività funzionali dedicate ad un business • Favorisce l’adattamento alle differenze nei diversi business

Svantaggi

• Può comportare scarso coordinamento tra le diverse funzioni • È lenta nel reagire ai cambiamenti esterni • Spesso induce rallentamento dei processi decisionali e burocratizzazione

• Riduce la possibilità di ottenere economie di scala • Comporta duplicazione di risorse • Limita lo sviluppo e la specializzazione delle competenze • Riduce l’integrazione e la coerenza tra business diversi

Contesti in cui è più adatta

• Dimensioni non elevate • Elevata omogeneità di prodotto-cliente-mercato • Ambienti relativamente stabili • Prevalenza di obiettivi di efficienza

• Imprese di grandi dimensioni operanti in business (prodotto-mercato-cliente) diversificati • Ambienti mediamente complessi e turbolenti • Prevalenza di obiettivi di efficacia e di soddisfazione dei clienti

re in efficacia, ma comporta costi organizzativi spesso non trascurabili. Come sempre, la scelta di quale sia la soluzione ottimale dipende dal miglior bilanciamento tra costi di esecuzione e costi di coordinamento (si veda paragrafo 2.5).

4.6.3

Autonomia elevata

La struttura divisionale La principale alternativa progettuale alla struttura funzionale è la struttura divisionale, ovvero una configurazione organizzativa in cui le unità di primo livello vengono costruite utilizzando criteri di raggruppamento orientati agli output (prodotto, cliente o mercato). Queste unità organizzative prendono il nome di divisioni o business unit, e costituiscono a tutti gli effetti delle piccole aziende nell’azienda, con la replicazione delle principali funzioni di linea. Le strutture divisionali (anche dette “Multidivisionali” o “forma M”; Chandler, 1963) nascono storicamente come risposta organizzativa a strategie di diversificazione del business. Tra le prime aziende ad adottare questa struttura figurano General Motors e Du Pont, che hanno adottato alla fine degli anni Venti tale configurazione per rispondere a problemi di coordinamento e controllo conseguenti all’operare in business e in mercati molto diversificati. In una struttura divisionale ciascuna business unit ha elevati livelli di autonomia sulle decisioni che concernono l’output che essa è preposta a realizzare e vendere. Di conseguenza, la standardizzazione degli output e dei risultati è il meccanismo più utilizzato al primo livello

98 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Ampiezza dei compiti

gerarchico. Nell’ambito della pianificazione strategica dell’impresa a ciascuna business unit vengono assegnati obiettivi strategici e di budget. Il ruolo dei responsabili di business unit è quello di organizzare e gestire le attività per garantire i risultati previsti. Rispetto ai manager delle funzioni questo compito è relativamente più complesso, perché le attività da coordinare e gestire hanno natura più variegata (l’ampiezza manageriale è elevata), per cui il manager avrà bisogno di competenze anche piuttosto diversificate per indirizzare le unità organizzative che operano sotto la sua supervisione. Le maggiori competenze richieste per coprire questi ruoli consentono d’altra parte un più facile accesso a posizioni di top management, che richiedono un analogo livello di eterogeneità, sebbene a livelli di complessità e responsabilità maggiori. Nelle strutture divisionali le unità di staff possono in parte essere comuni a più business unit, in parte essere invece dedicate a ciascuna di esse. Le strutture divisionali presentano significativi vantaggi in termini di capacità di adattamento a cambiamenti del contesto e delle richieste del cliente, oltre a una notevole rapidità di risposta dovuta alla maggior snellezza delle strutture che si confrontano e si devono integrare a fronte di un problema o un’eccezione alla norma. Ciò che si viene a perdere è invece la possibilità di ottenere economie derivanti dalla larga scala e dalla specializzazione delle risorse. È anche vero però che questo vantaggio è comunque difficile da ottenere in molte aziende diversificate, data la difficoltà a utilizzare tecnologie o competenze uniche in modo indifferenziato per tutte le divisioni. Infine, spesso nelle strutture divisionali si riscontra un minore livello di coordinamento e coerenza tra le scelte relative ai diversi business in cui l’impresa opera (Duncan, 1979). I vantaggi e gli svantaggi delle strutture divisionali sono sintetizzati in Tabella 4.2. Tre esempi tipici di strutture divisionali sono la struttura per prodotto, la struttura per mercato e la struttura per area geografica. La struttura per prodotto Il primo caso, che è caratteristico di imprese che operano in aree di business piuttosto disomogenee, prevede la costituzione di business unit separate per ogni prodotto (o famiglia di prodotti), servizio ecc. che abbia una certa consistenza in termini di volumi e che richieda una modalità di gestione ed esecuzione specifica delle diverse funzioni aziendali (la produzione, la vendita, l’erogazione, il marketing, la ricerca e sviluppo ecc.). Il raggruppamento delle diverse attività dedicate ai singoli prodotti in una business unit favorisce la coerenza e l’integrazione tra queste attività e dunque la maggiore efficacia nell’ottenere l’output. Le business unit hanno poi maggiore facilità di controllo dei risultati del singolo prodotto. D’altra parte però, oltre agli svantaggi comuni a tutte le strutture divisionali, nelle strutture divisionali per prodotto si possono riscontrare problemi di coordinamento e allineamento delle scelte strategiche e operative fatte su prodotti diversi.

4. La struttura dell’organizzazione ) 99

La struttura per mercato La struttura per mercato prevede la costituzione di business unit separate per ciascuno dei diversi mercati a cui l’azienda si rivolge. Ad esempio il Gruppo UniCredit ha specializzato la sua offerta creando tre business unit separate, orientate rispettivamente ai tre diversi segmenti di clienti a cui la banca si rivolge (Caso 4.2): il segmento retail, ovvero i privati e le famiglie con disponibilità finanziare non eccessivamente elevate, il segmento corporate, costituito dalle imprese, e il segmento private, ovvero la clientela privata proprietaria di patrimoni di alto valore. La struttura divisionale orientata ai mercati consente di ottenere una maggiore efficacia e rapidità di risposta alle richieste specifiche di diversi segmenti di clientela, pur non rinunciando alle economie di scala e quindi all’efficienza nelle attività operative e nelle unità organizzative di staff. Questo è possibile quando i volumi realizzati in ciascun segmento di mercato sono comunque elevati (si pensi alla dimensione dei segmenti di clientela di UniCredit, espressa dai margini di intermediazione raggiunti). Le strutture divisionali per mercato, o per cliente, stanno diventando negli ultimi anni molto diffuse, a seguito della sempre crescente necessità di servire il cliente in modo integrato. Ad esempio, Telecom Italia si è recentemente riorganizzata smantellando le business unit di prodotto (telefonia fissa, telefonia mobile, connessione internet ecc.) e creando invece business unit orientate ai diversi segmenti di clienti (clienti retail, clienti business, large accounts e pubblica amministrazione). L’elemento di debolezza specifico di tale struttura organizzativa consiste nella possibile riduzione del livello di coordinamento sui prodotti e servizi offerti ai clienti dalle diverse divisioni.

Mercati locali e subsidiaries

Risposte diversificate

La struttura per area geografica Un ultimo modello di divisionalizzazione è la struttura per area geografica, nella quale vengono create unità organizzative relativamente autonome per la gestione e il coordinamento delle attività nelle diverse regioni, Paesi o aree geografiche in cui l’impresa opera. Queste unità organizzative, spesso dette filiali o subsidiaries, includono tutte le funzioni necessarie a progettare, realizzare e commercializzare i prodotti nell’area di riferimento. Questa struttura è caratteristica delle imprese operanti in modo disperso sul territorio, specialmente delle imprese multinazionali. La scelta di creare business unit dedicate a specifiche aree geografiche nasce dalla necessità di rispondere in modo diversificato alle richieste, esigenze e condizioni specifiche di lavoro caratteristiche delle diverse regioni in cui l’impresa opera, o da necessità di vicinanza fisica ai mercati di sbocco. D’altra parte, privilegiando la capacità di risposta locale, queste aziende rischiano di perdere focus e coordinamento sui prodotti o su determinate tipologie di clienti. Inoltre, come le altre tipologie di strutture divisionali, le multinazionali organizzate su base geografica rischiano inefficienze, a seguito della rinuncia almeno parziale a per-

100 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Concentrazioni produttive

seguire economie di scala, e una minore specializzazione e profondità di conoscenze e competenze, a seguito della dispersione di risorse con simile background e “mestiere” in diverse aree geografiche. Non a caso in molte aziende multinazionali i laboratori di ricerca, dove il raggiungimento di una massa critica di risorse e i fenomeni di fertilizzazione delle conoscenze sono fondamentali, sono stati spesso accentrati in poche unità organizzative localizzate in alcune delle molte aree geografiche in cui l’azienda opera. In modo simile, molte aziende specializzano gli stabilimenti produttivi sparsi nei diversi Paesi su prodotti specifici in modo da massimizzare le economie di scala e di specializzazione pur conservando un’ampia distribuzione geografica. Ad esempio, Ferrero concentra la produzione di ciascuno dei suoi prodotti in pochi stabilimenti, uno per principale area geografica: la produzione di ovetti Kinder viene realizzata in un unico stabilimento in Argentina per tutto il Sudamerica e la produzione di Ferrero Rocher in uno stabilimento in Brasile. Nella realtà le multinazionali tendono quindi ad adottare strategie globali caratterizzate da diversi gradi di risposta locale e coordinamento globale, in funzione di fattori specifici di contesto, Paese, settore, strategia dell’impresa (Prahalad e Doz, 1987). Di conseguenza, i modelli organizzativi adottati sono differenti, in particolare per il peso delle divisioni di area o Paese nella struttura organizzativa. Le diverse scelte attuate dalle imprese sono schematizzabili in tre configurazioni organizzative (Bartlett e Ghoshal, 1989): • imprese multidomestiche, nelle quali le unità organizzative locali operano con elevato grado di autonomia e il ruolo di coordinamento centrale è limitato; le attività core sono concentrate nelle divisioni di area o di Paese, e anche la gran parte degli staff è dedicata a ciascuna divisione; • imprese transnazionali, nelle quali le business unit di Paese hanno un elevato grado di autonomia, ma vengono messi in atto meccanismi di collegamento orizzontali tra le diverse unità locali al fine di sfruttare, laddove possibile, economie di scala, e di mettere a fattore comune le conoscenze e le informazioni necessarie per coordinare i business nei diversi mercati. In alcuni casi la configurazione organizzativa scelta è la matrice (cfr. paragrafo 4.6.4), in altri casi queste strutture si configurano come reti di imprese locali coordinate da una struttura centrale; • imprese globali, caratterizzate da forti spinte al coordinamento centrale tramite le strutture degli headquarters; le divisioni regionali o di Paese presidiano localmente le attività operative, ma generalmente ciascuna funzione è anche coordinata tramite un riporto centrale. Al fine di massimizzare le economie di scala, le diverse attività dell’impresa (ad esempio i diversi business di prodotto) tendono a essere realizzati in un unico Paese. Le tre configurazioni presentate sopra non solo esemplificano modelli alternativi per le imprese, ma spesso rappresentano anche un percorso evolutivo nel loro processo di globalizzazione.

4. La struttura dell’organizzazione ) 101

Multinazionali più snelle

Una tendenza recente nei modelli organizzativi delle multinazionali è la perdita di peso delle posizioni manageriali a livello di area geografica o di regione, a favore di una maggiore autonomia del singolo Paese. In passato, la spinta alla divisionalizzazione geografica ha portato a creare lunghe catene gerarchiche con riporti per area, regione, paese, continente e così via. A seguito della crescente omogeneizzazione dei consumi globali ma, d’altra parte, della maggiore necessità di customizzazione dei prodotti e dei servizi per il singolo cliente, le aziende multinazionali tendono a diminuire i riporti per macroaree geografiche (ad esempio i continenti) e aumentare invece il potere decisionale dei singoli Paesi, che rispondono direttamente ai top manager centrali. Questo snellimento delle strutture è anche facilitato dal miglior coordinamento e controllo consentito dall’utilizzo pervasivo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Il caso UniCredit (Caso 4.2) esemplifica una struttura organizzativa divisionale nella quale convivono sia criteri di raggruppamento orientati al mercato (in questo caso i segmenti di mercato a cui il gruppo bancario si rivolge), sia alla geografia (ovvero i principali mercati geografici in cui la banca opera). Le due dimensioni vengono utilizzate per organizzare rispettivamente: 1. le attività di marketing e di sviluppo dei nuovi prodotti e servizi (criterio orientato ai segmenti di mercato); 2. le operations del gruppo (criterio geografico).

CASO

4.2

Il Gruppo UniCredit: una struttura orientata ai segmenti di mercato e alla geografia Il Gruppo UniCredit è uno dei primi gruppi finanziari europei per dimensione, efficienza e redditività. Il gruppo ha un forte radicamento locale in 22 Paesi grazie a una rete di circa 9.500 filiali, numerose banche e società che impiegano complessivamente 150.000 persone. In Europa UniCredit è uno dei gruppi bancari leader per dimensioni di business e vanta un posizionamento strategico unico, contando sulla posizione dominante in una delle aree più ricche d’Europa, rappresentata da Italia, Germania e Austria. Il gruppo è cresciuto enormemente negli ultimi anni grazie a importanti azioni di acquisizione e fusione, tra le quali ricordiamo la fusione con HVB, uno dei più importanti gruppi bancari tedeschi, avvenuta nel 2005, e la successiva fusione con Capitalia nel 2007. La centralità del cliente è da sempre uno dei valori fondamentali della corporate identity di UniCredit. Già in passato questo aveva indotto UniCredit ad adottare un modello organizzativo basato su divisioni di business, che fossero in grado di rispondere al meglio alle diversificate esigenze della clientela nei diversi segmenti di mercato in cui la banca opera. I segmenti di mercato individuati da UniCredit sono identificati in base alla dimensione e alla disponibilità finanziaria dei clienti. La clientela retail (Families & SME) è per lo più costituita dalle famiglie con disponibilità finanziaria inferiore ai 100.000 ? (segmento mass market), da clientela privata con disponibilità compresa tra 100.000 e 500.000 ? e dai micro-operatori economici (segmento small busi-

102 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE ness) con fatturato inferiore ai 3 milioni di euro. I principali driver che guidano tale segmento di clientela nella scelta della banca di riferimento sono essenzialmente la velocità di risposta, l’efficienza e la trasparenza del servizio e, infine, l’ampiezza della gamma offerta dall’intermediario, nonché la disponibilità di apertura di linee di credito per i micro-operatori. Il segmento private (Private Banking) include la clientela di fascia alta, con valori di patrimonio gestito maggiori di 500.000 ?. I soggetti appartenenti a tale segmento risultano essere particolarmente sensibili alla capacità della banca di “arricchire” il servizio offerto con consulenza a 360° sul risparmio gestito, asset management personalizzato, rendimenti derivanti dalle scelte di investimento in linea con il profilo del cliente. Infine, il segmento corporate (Corporate & Investment Banking) è identificato dalle attività di supporto al business delle grandi imprese e/o complessi industriali. Per tale segmento, il servizio da parte della banca è focalizzato verso il supporto alla pianificazione finanziaria dell’impresa, all’offerta di prodotti di copertura del rischio, alla finanza d’impresa. Di recente UniCredit ha ulteriormente rivisto la sua struttura organizzativa, con l’obiettivo di bilanciare la presenza internazionale con un approccio multi-locale. L’obiettivo è quello di essere riconosciuto come operatore domestico in ognuno dei mercati in cui è presente, prestando grande attenzione al valore del radicamento nelle comunità locali. La struttura organizzativa ha dunque assunto una forma ibrida (Figura 4.6). Da un lato le attività di marketing e di sviluppo di prodotti e servizi sono organizzate in divisioni di mercato, specializzate per segmento, in linea con l’approccio divisionale del passato. Dall’altro sono state create alcune divisioni geografiche. In particolare è stata creata la posizione di Country chairman al fine di garantire una migliore comprensione dei bisogni dei diversi mercati geografici. Il ruolo di Country chairman prevede sia il mantenimento di una prospettiva strategica sulle attività di business nel singolo paese, sia la gestione delle diverse realtà operanti nel paese stesso. Infine è stata creata una divisione Central-East Europe (CEE) che governa le attività operative dei 19 Paesi dell’area in cui UniCredit è presente. Infine, in ciascuna divisione geografica – in particolare nei mercati di maggiori dimensioni – le operations del gruppo sono nuovamente organizzate per segmento (si veda l’organizzazione del Gruppo in Italia, Figura 4.6).

Figura 4.6

STRUTTURA ORGANIZZATIVA SEMPLIFICATA DEL GRUPPO UNICREDIT Vertice aziendale (Presidente, CEO e Comitato di gestione) Staff

Divisione Asset Management

Divisione CIB

Divisione Family & SME

Chief Operating Officer

General manager

Divisione Private Banking

Country chairman Italy

Other Country chairmen

CEE division

Staff

Rete F & SME Italy

Rete Corporate Banking Italy

Rete Private Banking Italy

Rete Investment Banking Italy

UBIS

Other centralized support units

4. La struttura dell’organizzazione ) 103 Nello stesso tempo il Gruppo ha anche seguito un processo di centralizzazione di molte attività funzionali di supporto e di operations. Innanzitutto è stata recentemente creata la divisione UniCredit Business Integrated Solutions (UBIS), che ha integrato tutte le funzioni di supporto al gruppo a livello globale con l’obiettivo strategico di ottimizzare i costi, aumentare la flessibilità di erogazione dei servizi e ridurre i tempi di servizio al business. Il disegno organizzativo originario, che ha realizzato questo accentramento, ha anche avuto l’obiettivo di alleggerire il carico di lavoro operativo delle filiali commerciali, le quali hanno così potuto dedicarsi interamente alle attività più peculiari. UBIS è inoltre affiancata da alcune funzioni di staff centrali, ovvero l’area Legal & Compliance, la funzione di pianificazione, amministrazione e finanza, la gestione strategica delle risorse umane e l’area Public Affairs. Occorre notare che alcune funzioni di staff, ad esempio l’Organizzazione e le Risorse Umane, sono replicate in ciascuna divisione geografica.

Sostenibilità economica delle divisioni

La larga diffusione delle strutture divisionali nelle imprese di grande dimensione è dovuta a diversi fattori. Innanzitutto sia le economie di scala sia la specializzazione richiedono come presupposto la sostanziale omogeneità delle attività svolte. Aziende caratterizzate da volumi complessivi elevati, ma anche da un’ampia gamma di prodotti e servizi, non riescono generalmente a realizzare un’elevata scala produttiva, in quanto ciascun prodotto o servizio richiede tecnologie diverse. Anche lo sviluppo delle competenze e delle capacità è possibile solo a fronte di una certa omogeneità nelle attività svolte; questo vantaggio si perde quindi laddove prodotti diversi tra loro richiedano modalità specifiche per compiere le diverse funzioni aziendali (l’acquisto, la produzione, la vendita, il servizio al cliente ecc.). Dunque in imprese fortemente diversificate si otterrebbero limitati vantaggi di scala e specializzazione costituendo unità orientate alle funzioni. In secondo luogo, anche quando siano presenti questi vantaggi, la creazione di business unit è giustificata laddove la singola divisione riesca comunque a raggiungere, grazie ai volumi realizzati, una scala di produzione magari non ottimale ma comunque tale da consentire costi almeno allineati con la concorrenza. Infatti, la creazione di divisioni comporta la riduzione della scala di produzione per ciascuna delle unità organizzative e, di conseguenza, un aumento dei costi. La Figura 4.7 esemplifica queste considerazioni. Nel caso A, la differenza di costo generata dalla diminuzione dei volumi a seguito della divisionalizzazione dell’impresa (ΔCA) è molto significativa e renderebbe poco efficiente la separazione delle attività in unità organizzative diverse. Viceversa nel caso B, caratterizzato da volumi complessivi maggiori, l’aumento di costo generato dalla riduzione dei volumi (ΔCB) è tutto sommato limitato ed è probabile che possa essere più che compensato dai vantaggi di focalizzazione e di velocità di risposta al mercato. In questo caso la creazione di business unit è un’opzione effettivamente sostenibile per l’impresa. Dunque, per imprese che realizzano grandi volumi la perdita di efficienza dovuta alla creazione di business unit è generalmente piuttosto limitata rispetto ai vantaggi che la divisionalizzazione può portare.

104 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Figura 4.7

ECONOMIE DI SCALA E DIVISIONALIZZAZIONE

Costi

VA, DIV VA, FUNZ

4.6.4 Trade-off tra efficienza ed efficacia

CASO

VB, DIV

VB, FUNZ Volumi

La struttura ibrida La scelta della struttura organizzativa più adatta a una determinata realtà comporta la valutazione attenta del peso relativo di vantaggi e svantaggi, e in ultima analisi dell’importanza relativa degli obiettivi di efficacia ed efficienza per l’impresa. Spesso questi obiettivi pesano in maniera molto diversa per le diverse parti dell’organizzazione, e portano dunque a scegliere criteri di raggruppamento differenti anche allo stesso livello gerarchico. Consideriamo a questo proposito il caso Cobra (Caso 4.3).

4.3

Cobra Automotive Technologies: lo sviluppo di una struttura organizzativa ibrida L’evoluzione della struttura organizzativa Cobra Automotive Technologies, con sede a Varese, è uno dei maggiori operatori a livello internazionale nel settore delle soluzioni di sicurezza per il mercato automotive. Progetta e realizza sistemi elettronici ed eroga servizi di localizzazione per la gestione dei rischi correlati al possesso e all’utilizzo dei veicoli, quali ad esempio furti, rapine e/o incidenti nelle manovre a bassa velocità. Eroga servizi di recupero di veicoli rubati a livello pan-europeo per le maggiori case auto e moto internazionali. Fondata 40 anni fa da un imprenditore appassionato di tecnologia e cresciuto come tecnico in alcune aziende elettroniche leader di settore, la società si è sviluppata intorno a un’idea di prodotto: l’antifurto a sirena per auto. Da allora l’azienda si è evoluta, grazie al successo di mercato dovuto all’elevato livello tecnologico dei prodotti e alla capacità dell’azienda di innovare. La crescita e il successo di Cobra sono stati suggellati dall’esordio alla Borsa di Milano, nel segmento STAR, il 12 dicembre 2006. Anche a seguito della profonda crisi che ha caratterizzato l’intero settore dell’auto negli ulti-

4. La struttura dell’organizzazione ) 105 mi anni, Cobra sta subendo oggi un processo di ripensamento del business e della struttura. In particolare ha siglato all’inizio del 2012 un accordo per la vendita della divisione Electronic Systems. L’azienda ha inteso così concentrarsi sul business dei servizi telematici ad alto valore aggiunto per veicoli (servizi di localizzazione per il recupero di veicoli rubati e servizi di gestione delle flotte). Contemporaneamente Cobra ha dato il via a un importante piano di ristrutturazione aziendale volto alla riduzione dei costi e all’aumento dell’efficienza. In passato due momenti importanti nella crescita dell’azienda sono consistiti dapprima nel passaggio dall’originale focus sul segmento after market all’apertura verso il mercato original equipment e, successivamente, nell’affiancamento ai prodotti tradizionali dei nuovi servizi di localizzazione. Questi passaggi hanno richiesto una profonda riorganizzazione dell’azienda. Il settore after market (AM) è infatti costituito da distributori, ricambisti ed elettrauto che installano il prodotto su richiesta dell’utente finale dopo l’avvenuto acquisto dell’automobile. Il mercato del primo equipaggiamento denominato OE (original equipment) fa invece riferimento ai produttori di autoveicoli, che installano l’antifurto sulla vettura durante l’assemblaggio dell’auto. In questo caso si parla di OEM (original equipment manufacturing). In alcuni casi l’antifurto viene invece installato su richiesta del cliente dopo che la vettura è stata acquistata, quindi come optional proposto dalla casa automobilistica. Questo segmento, che ha un peso notevole, è denominato OES (original equipment supply). I due mercati AM e OE hanno caratteristiche molto diverse: nel segmento after market i prodotti vengono realizzati a catalogo e l’eccellenza tecnica è valutata soprattutto rispetto alla qualità di progetto, ovvero le specifiche tecniche e i parametri funzionali del prodotto. I fattori critici di successo sono la facilità e la rapidità d’installazione, l’innovazione delle soluzioni e l’affidabilità. I margini sono relativamente elevati soprattutto nella fascia alta di gamma in cui Cobra si posiziona. Il mercato del primo equipaggiamento ha invece una complessità differente: i produttori di auto generalmente richiedono un prodotto progettato e realizzato in base a specifiche precise e molto dettagliate. La qualità è considerata prevalentemente un order qualifier: l’azienda può diventare un fornitore qualificato per una casa automobilistica se possiede competenze tecnologiche avanzate, tecnologie e processi di produzione e progettazione adeguati, le certificazioni di qualità richieste, la capacità produttiva sufficiente ecc. I fornitori qualificati vengono poi messi generalmente in gara, emettendo una richiesta di offerta. Per preparare l’offerta l’azienda fornitrice deve effettuare un’analisi di fattibilità per poter valutare se possiede le competenze tecnologiche e la capacità produttiva necessarie per realizzare il prodotto secondo le specifiche contenute nella richiesta di offerta e per determinare i costi e i tempi necessari per la progettazione e il lancio in produzione del prodotto. Le commesse vengono attribuite sulla base del miglior rapporto fra costo, time to market e servizio offerto. Le vendite in questo settore dipendono dunque fortemente dalla capacità dell’azienda di interloquire con i tecnici delle case automobilistiche, dalla capacità di rientrare tra i fornitori qualificati e mantenere questa posizione, dalla velocità e completezza di preparazione delle offerte, oltre che ovviamente dal livello tecnico dell’azienda, prerequisito essenziale per tutti gli aspetti precedenti. L’entrata nel nuovo mercato ha richiesto dunque la creazione di business unit diverse per affrontare adeguatamente le due tipologie di clienti. Originariamente la struttura organizzativa di Cobra era semplice, orientata prevalentemente a criteri funzionali, con una funzione tecnica che raggruppava i diversi progettisti, a loro volta specializzati per tipologia di progettazione realizzata (progettazione hardware, progettazione software, progettazione meccanica ecc.), e i tecnici del laboratorio prove, dedicati alle verifiche e alle validazioni interne ed esterne dei prodotti; una funzione produzione, a cui facevano capo i diversi reparti di produzione e assemblaggio del prodotto, l’ufficio acquisti, il magazzino e la logistica; una funzione commerciale, divisa per aree geografiche (l’azienda operava principalmente in Italia, Francia, Germania, Regno Unito e Spagna), oltre alle tipiche funzioni di staff, ovvero gestione Risorse umane, Amministrazione e Finanza, Qualità, Comunicazione. Con l’entrata nel segmento OE sono stati ripensati i criteri di raggruppamento, organizzan-

106 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE do nelle business unit OE e AM i processi di marketing and sales specifici. Anche il business degli antifurto per moto, che subito dopo l’acquisizione di un’azienda leader nel settore era stato organizzato in una business unit dedicata, è stato poi rivisto in tutti i suoi processi, sia di progettazione che commerciali, con la conseguente integrazione nelle due business unit, OE e AM. Solo successivamente l’azienda ha deciso di creare un’unica unità organizzativa dedicata ai processi di marketing dei prodotti, indipendentemente dal mercato in cui vengono venduti. Analogamente, anche quando Cobra è entrata nel settore dei servizi per la sicurezza dei veicoli, agli inizi degli anni 2000, l’azienda ha dovuto affrontare un’importante sfida e un cambiamento organizzativo. In questo caso, alla divisione Electronic Systems, dedicata al prodotto tradizionale, è stata affiancata una nuova divisione, Location Based Services, dedicata al marketing e allo sviluppo dei nuovi servizi a valore aggiunto. Anche sul piano dello sviluppo territoriale la complessità è cresciuta nel tempo. Da un lato l’evoluzione dei mercati automotive in Cina e nel Sudest asiatico hanno portato Cobra a rafforzare la presenza in questi territori altamente competitivi facendo nascere un progetto specifico, mirato alla creazione, in Cina, di un’organizzazione speculare a quella europea. Dall’altro diverse acquisizioni hanno portato Cobra ad avere una presenza diretta nei mercati europei più attivi dal punto di vista del business della sicurezza. Una situazione che di fatto ha modificato i rapporti della casa madre con le organizzazioni di questi Paesi, con i quali c’era in precedenza un rapporto di partnership e ha creato le basi per il processo di globalizzazione dell’azienda. La struttura organizzativa che ne è risultata è rappresentata in Figura 4.8.

Figura 4.8

STRUTTURA ORGANIZZATIVA DI COBRA AUTOMOTIVE TECHNOLOGIES Vertice aziendale

Direzione Qualità Direzione Risorse umane Direzione Finanza, Amministrazione e Controllo

BU After market

BU Original equipment

Direzione Comunicazione

Marketing e Business Development Electronic Systems

Project managers Product managers

Marketing e Business Development Location Based Services

Direzione Operations

Direzione Tecnica

Produzione

Ricerca

Acquisti Sviluppo Logistica ICT

4. La struttura dell’organizzazione ) 107 Criteri di raggruppamento ibridi La struttura organizzativa di Cobra mostra come i criteri di raggruppamento utilizzati per disegnare le unità organizzative sono giustificati da fattori diversi in ciascuna delle tre aree aziendali più importanti. Per l’attività produttiva l’aspetto dominante nella scelta del criterio di raggruppamento è la possibilità di sfruttare le economie di scala derivanti dall’utilizzo di un processo di produzione comune e, in particolare, di tecnologie di produzione sofisticate, quali la tecnologia SMD (Surface Mounted Devices), ma che richiedono elevati volumi per giustificare l’ingente impiego di capitale. Nell’area tecnica, viceversa, risulta dominante la necessità di garantire competenze specializzate di progettazione sulle diverse tecnologie chiave dell’azienda, grazie al continuo confronto e scambio di conoscenze fra i tecnici raggruppati in un’unica unità organizzativa. Infine nell’area commerciale l’aspetto più rilevante è la diversità dei mercati serviti – in particolare le differenze tra il segmento original equipment e il segmento after market per il settore automotive – che hanno logiche di acquisto, problematiche di progettazione, sensibilità ai parametri tecnici e di offerta del prodotto completamente diversi, e che richiedono dunque unità organizzative specificamente dedicate per ottimizzare i risultati di ciascuna. Nel mercato dei servizi di localizzazione, la peculiarità del prodotto e del mercato è tale da rendere rilevante la focalizzazione sullo specifico settore. L’organizzazione che ne risulta è dunque una struttura ibrida, in cui allo stesso livello gerarchico coesistono criteri di raggruppamento funzionali (la Direzione Tecnica e la Direzione Operations) e divisionali, rispettivamente orientati al prodotto (BU Electronic Systems e Location Based Services) e al mercato (BU Original Equipment e BU After Market) e all’area geografica (BU Extra Europe).

Come ben esemplificato dal caso Cobra, la struttura organizzativa ibrida prevede l’utilizzo di diversi criteri di raggruppamento per definire le unità organizzative al primo livello gerarchico, con una compresenza di criteri di tipo funzionale e di tipo divisionale. Il raggruppamento funzionale è utilizzato tipicamente nelle aree dell’impresa più stabili, in cui le economie di scala e i vantaggi della specializzazione pesano maggiormente; i criteri divisionali prevalgono invece in quelle aree in cui la necessità di flessibilità e la capacità di personalizzazione e adattamento delle risposte al cliente sono più rilevanti. In questo modo la struttura ibrida tenta di conciliare i vantaggi di entrambe le strutture organizzative limitandone gli svantaggi. Possiamo infine osservare che la struttura ibrida è forse la forma organizzativa più diffusa, proprio perché si adatta più realisticamente alle esigenze contrastanti delle diverse parti dell’organizzazione.

4.6.5

La struttura a matrice Un’ultima configurazione organizzativa che può essere utilizzata dalle imprese è la struttura a matrice (Galbraith, 1971). Quando criteri funzionali e divisionali (o quando criteri divisionali diversi – per prodotto, per mercato o per cliente) hanno uguale peso nel determinare il raggruppamento delle attività, in alcuni casi si rinuncia ad

108 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Linee gerarchiche multiple

CASO

attribuire in maniera univoca le posizioni alle unità organizzative e si crea invece una pluralità di linee gerarchiche, una per ciascun criterio di raggruppamento ritenuto rilevante. In altri termini, per alcuni aspetti delle attività le risorse rispondono ad esempio al responsabile funzionale, mentre per altri aspetti rispondono al responsabile di area geografica, di prodotto-servizio o di mercato. L’immediata conseguenza è che in questa struttura viene meno il principio dell’unicità del comando, in quanto le risorse rispondono gerarchicamente a più di un capo. Questa struttura è tipicamente utilizzata da organizzazioni complesse, in cui vi è una compresenza di obiettivi e criticità diverse rispetto a più di una dimensione organizzativa. Il Caso 4.4 illustra la struttura a matrice di Barilla.

4.4

Barilla: dalle divisioni di prodotto alla matrice Barilla, nata a Parma nel 1877, da una bottega che produceva pane e pasta, è oggi tra i primi gruppi alimentari italiani, leader nel mercato della pasta nel mondo, dei sughi pronti in Europa continentale, dei prodotti da forno in Italia e dei pani croccanti nei Paesi scandinavi. Il Gruppo impiega oltre 14.000 persone e nel 2011 ha fatturato circa 4.000 milioni di euro. Barilla possiede 43 siti produttivi (13 in Italia e 30 all’estero), tra cui 9 mulini gestiti direttamente, che forniscono gran parte della materia prima occorrente per le proprie produzioni di pasta e di prodotti da forno. L’azienda esporta in oltre 100 Paesi. Ai numerosi marchi di prodotto si affianca il marchio Number1, società del Gruppo specializzata in servizi logistici, e quello di First per i servizi di vendita al dettaglio. In passato Barilla aveva adottato una struttura organizzativa incentrata su business unit di prodotto, date le peculiarità sia produttive che di mercato delle principali categorie di prodotto in cui l’azienda opera. In particolare venivano distinte le due business unit “Primo piatto” (o Meal Solutions) e “Prodotti da forno” (Bakery Products), autonome sia rispetto alle attività di marketing, vendite e sviluppo prodotti, sia per quanto riguarda le attività produttive e logistiche. Nel febbraio 2008 Barilla ha iniziato una riorganizzazione interna volta a definire un nuovo assetto organizzativo e operativo. In particolare, la nuova struttura prevede la suddivisione dell’azienda in tre pilastri, secondo una struttura a matrice: • le business unit, che sono responsabili di sviluppare strategicamente il portafoglio di brand e le categorie di prodotto, definendo così gli obiettivi di crescita e di profittabilità del business. Esempi sono le divisioni Meal Solutions e Bakery; • le market unit, che veicolano nei mercati delle diverse aree geografiche in cui Barilla opera le categorie di prodotto e assicurano lo sviluppo e la marginalità dei clienti e dei canali di vendita, definendo quindi obiettivi di crescita e di profittabilità dei mercati; • le process unit, che sono responsabili dei processi trasversali alle Business Unit e ai mercati. Un esempio è l’unità Supply Chain. La nuova struttura ha l’obiettivo di ottimizzare le prestazioni dell’azienda non solo rispetto alle singole categorie di prodotto, ma anche rispetto ai diversi mercati geografici e, contemporaneamente, a massimizzare l’efficienza, l’efficacia e la standardizzazione dei principali processi aziendali.

4. La struttura dell’organizzazione ) 109 La Figura 4.9 mostra la struttura organizzativa semplificata di Barilla.

Figura 4.9

LE DIMENSIONI DELLA MATRICE DI BARILLA CEO

Business Unit

Market Unit Northern and Central Americas

Market Unit Continental Europe

Market Unit Emerging Countries

Process Units

Meal Solutions

Italy

Greece and East Europe

Group Supply Chain

Bakery

Western Europe

Turkey and Middle East

Group Science, Technology, and Quality

Number 1 Logistic Group

Central Europe

Russia and CIS Countries

Group Finance and Administration

Northern Europe

Asia, Africa Australia, South America

Group Treasury and Fiscal Group Human Capital Group Information Technology Group Strategy and New Business Group Communications and External Relations

Molte società di consulenza direzionale o, più in generale, molte organizzazioni professionali di grandi dimensioni operano attraverso strutture a matrice. Spesso uno degli assi della matrice è proprio quello funzionale, in base al quale le risorse sono strutturate in unità che hanno l’obiettivo di garantire l’accumulo, lo sviluppo e lo scambio delle competenze specialistiche (ad esempio le diverse specializzazioni tecniche di un consulente o di un ricercatore). L’altra dimensione della matrice è spesso il progetto: su questo asse le risorse vengono (temporaneamente) dedicate alla realizzazione di un output specifico e l’obiettivo è dunque quello di massimizzare l’efficacia della sua realizzazione. I responsabili delle due unità organizzative hanno obiettivi e aspettative diversi nei confronti delle risorse: il responsabile funzionale ha l’obiettivo di far crescere le competenze e la specializzazione della sua area, e valuta l’operato di una sua risorsa che lavora su un progetto in termini di contributo che questo ultimo può dare all’accrescimento e allo sviluppo delle competenze della perso-

110 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

na e del resto della struttura; il responsabile di progetto ha l’obiettivo di ottimizzare i risultati del progetto in termini di tempi, qualità e costi e valuta la risorsa in base all’adeguatezza delle competenze apportate al progetto e in base al contributo che essa è in grado di dare al risultato complessivo. In altri termini, la struttura a matrice spinge più a fondo la logica introdotta dai manager integratori per recuperare l’integrazione interfunzionale nelle strutture funzionali. In alcuni casi invece è la dimensione di progetto a prevalere: le funzioni perdono il valore di dimensioni gerarchiche e diventano centri di competenza, ovvero “serbatoi” da cui attingere competenze specialistiche su settori o su practice specifiche. Viceversa la linea gerarchica è esclusivamente riferita alla dimensione di progetto. In questo caso la struttura assume i connotati della project-based organisation. Nella pratica aziendale il concetto di matrice si traduce spesso nella presenza di un “riporto gerarchico” e un “riporto funzionale” od “operativo”. Questa dizione sta a indicare come ciascuna persona debba far riferimento a più di un capo, ciascuno rispetto a specifici obiettivi, siano essi legati al business in cui opera, alla funzione svolta o al processo in cui è coinvolta. Generalmente l’indicazione di “riporto gerarchico” individua la dimensione della matrice che ha maggior peso e ha responsabilità diretta nella valutazione della persona e nello sviluppo del suo percorso di carriera. L’esempio IBM riportato nel Caso 4.5 illustra un’organizzazione a matrice su più assi, riflesso di una complessità interna ed esterna estremamente elevata.

CASO

4.5

IBM: una matrice complessa IBM è la prima società di Information Technology nel mondo. Fondata nel 1911 e affermatasi inizialmente come produttore di hardware, negli anni l’azienda si è espansa in modo considerevole, diventando leader anche nel mondo del software, nella fornitura di servizi e nella concessione di finanziamenti a supporto dell’acquisto dei suoi prodotti. Oggi, a 100 anni dalla nascita, IBM è presente in oltre 170 Paesi, impiega più di 400.000 dipendenti e continua ad essere un protagonista innovativo del settore. Nel 2011 IBM ha fatturato 107 miliardi di dollari. La mission della società è quella di essere leader riconosciuta nel campo dello sviluppo, dell’innovazione e della produzione di sistemi ICT avanzati. Tra i fattori di vantaggio competitivo che IBM può sfruttare ci sono sicuramente la grandissima scala, la copertura mondiale, l’ampia gamma di prodotti-servizi, l’esperienza nel settore e, a sintesi di tutto questo, un brand molto forte e affermato. Nel corso degli ultimi anni l’azienda ha deciso la cessione di alcuni rami di azienda poco profittevoli (come i PC e le stampanti) e ha sostenuto il processo di innovazione tramite continui investimenti in ricerca e sviluppo e acquisizioni di aziende leader nello sviluppo software. Oggi le linee strategiche per lo sviluppo e la continua crescita di mercato sono quattro: mercati emergenti, business analytics, cloud computing, e smarter planet (ovvero l’utilizzo esteso delle ICT a supporto della sostenibilità dell’ambiente e del pianeta nel suo complesso).

4. La struttura dell’organizzazione ) 111 Figura 4.10

STRUTTURA ORGANIZZATIVA SEMPLIFICATA DI IBM Vertice aziendale

Geografie

Business units

Settori

Nord America

Sales & Distribution

Pubblico

Europa

Global Technology Services

Comunicazione

Giappone Mercati in crescita

Globally Integrated Shared Services

Supply Chain integrata Risorse Umane

Servizi Finanziari Real Estate

Software Group Distribuzione System & Technology Group Global Business Services

Industriale

IT Finanza

Altri business Legal Comunicazione e marketing Vendite

Tradizionalmente IBM ha avuto una struttura organizzativa fortemente orientata alla dimensione geografica: le aree e i Paesi possedevano grande autonomia, soprattutto sugli aspetti commerciali e di marketing, oltre a disporre di funzioni di supporto locali gestite direttamente. A seguito di un periodo di profonda crisi, agli inizi degli anni Novanta, IBM ha ripensato in modo radicale la sua struttura, costituendo una matrice complessa su più dimensioni (la struttura semplificata è riportata in Figura 4.10). Una prima dimensione della matrice è quella delle business unit che comprende sia i canali di vendita (Sales and Distribution) sia le principali famiglie di prodotto/servizio dell’azienda che fanno capo ciascuna a un’unità organizzativa diversa (a tutti gli effetti un centro di profitto). Le principali aree di prodotto/servizio sono: Global Technology Services, Software Group, Systems & Technology Group, Global Business Services. Una seconda dimensione della matrice è quella di mercato (Sectors), i cui segmenti sono individuati in base ai settori di riferimento: Public, Communications, Financial, Distribution, Industrial, General Business. Infine la matrice conserva come terza dimensione quella geografica: le attività sono innanzitutto raggruppate per macroarea (Nord America, Europa, Giappone, Paesi emergenti); all’interno di ciascuna di queste vi è poi un responsabile per ogni principale Paese. A fianco delle aree di business, l’organizzazione di IBM prevede un’ulteriore dimensione che fa invece riferimento agli aspetti funzionali (Globally Integrated Shared Services). A livello corporate vi è infatti un responsabile per ciascuna area funzionale dell’impresa, ovvero Supply Chain, Human Resources, Real Estate, IT, Finance, Legal, Marketing, Sales Operations. In questo modo le risorse vengono gestite centralmente, garantendo una maggiore coerenza, una maggiore efficienza nell’allocazione a business e mercati diversi e maggiori economie di scala. Tutte queste diverse dimensioni dell’organizzazione si intrecciano e si compongono, andan-

112 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE do a definire un complesso sistema di riporti e di gerarchie all’interno dell’organizzazione. Ciascuna persona risponde in modo più o meno diretto a un responsabile di area, di prodotto, di funzione, anche se di volta in volta il peso di ciascuna delle dimensioni della matrice è più o meno elevato. La complessità della struttura organizzativa di IBM è spiegata da diversi fattori, riconducibili alla presenza di più output critici e alla complessità e incertezza che caratterizzano il settore. Da un lato l’azienda opera in business fortemente diversificati e su scala globale, con grandi dimensioni in moltissime delle aree geografiche in cui è presente. Di conseguenza vi è una significativa spinta alla divisionalizzazione di prodotto. D’altro canto l’azienda ha sempre riconosciuto il valore derivante dalla capacità di interpretare i bisogni diversificati dei Paesi e delle aree geografiche in cui opera, rispondendo dunque con capacità localizzate. Nonostante la struttura organizzativa possa sembrare complessa, IBM è cresciuta nel corso degli anni grazie a un continuo focus sulla semplificazione dei propri processi sia interni che di business, sempre con un approccio focalizzato al cliente favorendo quindi negli ultimi anni anche un processo di delega maggiore alle Country per essere certi di gestire e cogliere tutte le opportunità derivanti dai vari mercati di riferimento. Più di una volta l’azienda si è trovata di fronte al dilemma di una scissione in più società, collegate ai principali business. Tuttavia, la scelta è sempre stata quella di mantenere unita l’azienda, per non perdere la grande forza del brand, riconosciuto globalmente. La scelta di accentramento del controllo sui principali business e segmenti di mercato è dovuta innanzitutto alla necessità di garantire una maggiore coerenza nella definizione delle strategie e nel controllo della loro realizzazione. Questo è stato ritenuto fondamentale per perseguire la mission di leadership tecnologica dichiarata dall’azienda. In secondo luogo il modello organizzativo precedente creava forti frammentazioni tra le funzioni operative di sviluppo e produzione, organizzate per prodotto, e le funzioni di vendita, organizzate per area geografica. Costituendo una dimensione della matrice in cui i brand diventano centri di profitto, a tutti gli effetti responsabili di tutta la catena del valore relativa al singolo prodotto, queste spaccature vengono notevolmente limitate, pur conservando, attraverso le altre dimensioni della matrice – quella geografica e quella di settore – la vicinanza con il mercato e con i clienti.

Rischi di paralisi

Come è possibile intuire dai casi Barilla e IBM, le difficoltà nella gestione di una struttura a matrice sono elevate. Da un lato la duplicità del comando può rendere confusa e conflittuale la gestione delle risorse umane. La limitata collaborazione tra i “capi” di una stessa persona può portare alla paralisi dell’organizzazione, in quanto la persona non sa più che fare di fronte a indicazioni contrastanti. In secondo luogo i costi di coordinamento sono generalmente elevati: i manager delle diverse dimensioni della matrice spendono molto del loro tempo in riunioni o comitati di coordinamento. Infine la matrice comporta necessariamente una ridondanza e una duplicazione delle risorse manageriali, rendendo molto elevati i costi di struttura. Un’organizzazione di questo genere è dunque auspicabile unicamente in ambienti molto complessi e incerti, in cui vi sono molteplici tipologie di output critici da monitorare e in cui la scarsità di risorse spinge a condividerle in modo flessibile tra unità organizzative e obiettivi differenti. Proprio per questi motivi nelle organizzazioni reali, a fronte di numerosi tentativi di implementazione di queste strutture, spesso una delle dimensioni della matrice tende a prevalere – generalmente quella che è responsabile dei risultati di profitto – e le altre diventano

4. La struttura dell’organizzazione ) 113

dunque più simili a dimensioni presidiate da meccanismi di coordinamento e ruoli integratori piuttosto che vere e proprie linee gerarchiche. Per esprimere questo peso diverso delle dimensioni della matrice talvolta si distingue tra i) riporti gerarchici, facendo riferimento alla linea gerarchica principale e ii) riporti funzionali, riferendosi alle linee di coordinamento più “leggere”. Il caso Adecco riportato qui sotto (Caso 4.6) esemplifica questa situazione.

CASO

4.6

Adecco Italia Adecco Italia, parte del gruppo Adecco, è l’agenzia per il lavoro leader in Italia grazie a un network di oltre 400 uffici distribuiti su tutto il territorio nazionale e alla consulenza di 1.700 professionisti. Adecco offre un’ampia gamma di servizi di gestione delle risorse umane, dalla somministrazione di lavoro (a tempo determinato e indeterminato) alla ricerca e selezione del personale, dall’outsourcing alla ricollocazione professionale e, infine, alla formazione e alla consulenza di gestione delle risorse umane. La principale specializzazione di Adecco in Italia è sui profili produttivi (Industrial) che costituiscono più del 70% del fatturato. Una seconda specializzazione riguarda i profili impiegatizi (Office), a cui sono stati recentemente affiancati – dal punto di vista della gestione – i profili specializzati sul marketing e le vendite (Marketing & Sales) e sui settori legali e finanziari (Finance & Legal). Infine, un segmento su cui Adecco punta per lo sviluppo futuro è quello dei profili professionali, che comprendono ad esempio ruoli nei settori IT, progettazione e ingegneria, nel settore medico e scientifico, ecc. Queste diverse specializzazioni sono presidiate da business line di “prodotto” dedicate. Infatti sia la relazione e i processi di vendita e negoziazione con l’azienda cliente, sia la gestione dei contratti, sia infine la gestione dei candidati risultano piuttosto differenziate in base ai diversi profili. Questi aspetti possono essere gestiti più correttamente in una logica divisionale. Quindi, un primo insieme di unità organizzative che rispondono al Country Manager di Adecco Italia sono le BL Industrial, Office e IT, Engineering & Technical. Tali business line gestiscono le filiali di vendita sul territorio, anch’esse specializzate per profilo offerto. Nelle filiali sono inoltre presenti figure di gestione dei candidati, che hanno la responsabilità della raccolta dei curricula e della selezione dei candidati rispetto al profilo specifico e al territorio di riferimento, e figure di pianificazione e controllo. Un’altra business line che risponde direttamente al Country Manager è quella dedicata all’outsourcing, attraverso il brand Adecco Professional Solutions (APS). In questo caso si tratta dunque di una business line focalizzata su uno dei servizi offerti da Adecco, quindi secondo una logica trasversale rispetto alle business line focalizzate sui profili dei candidati. L’outsourcing ha infatti peculiarità importanti dal punto di vista commerciale, contrattuale e di erogazione, e richiede pertanto professionalità e strutture dedicate. La BL APS costituisce in qualche modo un back office di supporto alle filiali per lo sviluppo delle proposte commerciali, per l’erogazione e per la gestione del progetto una volta acquisito il cliente. Infine, al Country Manager riportano alcune unità organizzative funzionali, sia di line che di staff. Le unità di line sono: • la direzione Sales & Marketing, che definisce le strategie generali di vendita e marketing e fornisce le guidelines per lo sviluppo delle proposte commerciali;

114 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE • la direzione di Candidate Management, che definisce le metodologie, i processi e le competenze di gestione dei candidati; • la direzione Finance (che in realtà ha un riporto gerarchico diretto con l’omologa direzione a livello corporate) che supporta le attività di pianificazione e controllo delle filiali. Le unità di staff sono invece: • la direzione Human Resources; • la direzione Legal; • la direzione Public Affairs. Sebbene i riporti gerarchici della struttura siano ben definiti, la dimensione divisionale (ovvero le business line) e la dimensione funzionale (ovvero le unità di line) presentano importanti iterazioni, sostanziate in riporti organizzativi funzionali. Ad esempio, i Responsabili di selezione e servizio di ciascuna filiale riportano funzionalmente alla direzione Candidate Management, così come i direttori di filiale hanno un riporto funzionale con la direzione Sales & Marketing e i controller di filiale con la direzione Finance. In sintesi si può concludere che Adecco presenta una struttura organizzativa di tipo ibrido (a seguito della compresenza di criteri di raggruppamento funzionali e divisionali), che adotta però anche alcuni meccanismi delle strutture matriciali attraverso la presenza di riporti funzionali. La struttura organizzativa semplificata di Adecco Italia è presentata in Figura 4.11. Figura 4.11

STRUTTURA ORGANIZZATIVA SEMPLIFICATA DI ADECCO ITALIA Country Manager Adecco Italia Europe

Direzione Human Resources Direzione Legal

BL Industrial

BL Office

BL IT, Engineering & Technical

Direzione Public Affairs

BL APS

Direzione Candidate Management

Direzione Sales & Marketing

Direzione Finance

In questo capitolo abbiamo delineato le principali scelte di macrostruttura nella progettazione di un’organizzazione. L’efficacia dell’organizzazione dipende fortemente dalla coerenza interna di queste scelte. In particolare l’ampiezza del controllo e la lunghezza della catena gerarchica, i criteri di raggruppamento e i meccanismi di collegamento devono configurarsi coerentemente in una struttura organizzativa. Le strutture semplici, funzionali, divisionali, ibride e a matrice costituiscono i tipi più frequenti di configurazione. Inoltre, l’insieme di queste scelte deve essere anche coerente con le caratteristiche individuali dei membri dell’organizzazione e, dunque, con la progettazione della microstruttura. Al di là di indicazioni e principi generali riguardo ai criteri di scelta delle variabili progettuali, è poi necessario che l’organizzazione si adatti al contesto in cui opera. In questo senso essa è influenzata da variabili contingenti che sono l’oggetto del capitolo 6.

5

I processi aziendali

SOMMARIO

5.1 Dal chi/cosa al come dell’organizzazione

5.1 Introduzione j 5.2 La lettura per processi dell’organizzazione j 5.3 I processi aziendali j 5.4 Tipologie di processi aziendali j 5.5 Le prestazioni dei processi aziendali j 5.6 La gestione dei trade-off tra prestazioni j 5.7 L’azienda orientata ai processi j 5.8 Le leve organizzative: l’organizzazione per processi j 5.9 Le leve gestionali j 5.10 Conclusioni

Introduzione I precedenti capitoli sono stati dedicati alla descrizione delle principali variabili di progettazione delle organizzazioni. Nel loro complesso, la microstruttura e la macrostruttura di un’organizzazione ci aiutano a capire “chi fa che cosa” all’interno dell’impresa. Spesso però non sono sufficienti a farci capire “come” vengono svolte le attività. Esiste una dimensione organizzativa che consente di comprendere non solo quali attività vengono svolte e da chi, ma anche quali sono i legami di interdipendenza e i flussi logici tra le attività necessari per ottenere i prodotti e i servizi. Questa è la dimensione dei processi aziendali. La nozione di processo aziendale è intuitiva, legata all’idea che vi siano sequenze di attività e decisioni finalizzate e necessarie alla generazione di beni e servizi intermedi o finali. Possiamo dunque affermare che i processi esistono da sempre nelle imprese. Tuttavia solo recentemente, a partire dai primi anni Novanta, questa dimensione organizzativa ha assunto grande rilevanza nella gestione delle imprese (Zeleny, Cornet e Stoner, 1990), fino a diventare anche una moda manageriale, fortemente sostenuta dalle maggiori società di consulenza e descritta in numerosi testi divulgativi – tra i numerosi best seller sull’argomento, ricordiamo qui solo due pietre miliari, Hammer e Champy (1993) e Davenport (1993). La lettura per processi di un’organizzazione si pone in alternativa a una visione orientata alle risorse, in base alla quale le attività e i risultati delle imprese sono spiegati dalla qualità delle risorse chiave presenti in azienda (Prahalad e Hamel, 1990). Nella realtà le due visioni sono fortemente complementari e sono entrambe necessarie per interpretare il funzionamento e le prestazioni dell’organizzazione. La visione per processi nasce dalla necessità di limitare la frammen-

116 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Processi interfunzionali e interorganizzativi

5.2

tazione delle attività aziendali conseguente alla creazione delle strutture organizzative. Con la creazione di unità organizzative autonome inevitabilmente si prediligono obiettivi di ottimizzazione locale delle prestazioni. L’importanza dei processi è da ascrivere soprattutto alla loro capacità di evidenziare il legame tra le attività interfunzionali e interorganizzative e le performance aziendali, innanzitutto come soddisfazione del cliente finale e poi come impatto sui risultati economico-finanziari. Gli output e i risultati dei processi si traducono più o meno direttamente nei risultati aziendali: dunque controllare e governare i processi consente di ottimizzare le prestazioni in ottica globale. Sono quindi le strategie aziendali a guidare le imprese verso una maggiore attenzione a organizzare e gestire i processi. Questo capitolo ha l’obiettivo di fornire gli elementi di base necessari per individuare, valutare e gestire i processi aziendali. Dopo aver discusso la rilevanza della visione per processi nelle organizzazioni, verranno fornite le definizioni di base di processo aziendale e verranno descritti gli elementi che lo caratterizzano. Tra questi, gioca un ruolo fondamentale il concetto di prestazione. Si dedicherà poi ampio spazio a discutere i principi e le leve organizzative che possono essere utilizzati per migliorare l’integrazione e il coordinamento dei processi aziendali.

La lettura per processi dell’organizzazione Oggi la gran parte delle imprese nei settori più diversi ha iniziato a guardare ai processi aziendali come dimensione chiave dell’organizzazione. Non è sempre stato così. Negli anni Novanta del secolo scorso, quando si è cominciato a considerare i processi aziendali, l’enfasi era sul ridisegno e l’ottimizzazione di alcuni processi chiave. Ford Motor Company e IBM Credit, ad esempio (Hammer e Champy, 1993), mostrano esempi di focalizzazione selettiva su alcuni processi critici che furono completamente riprogettati. Più recentemente la gestione dei processi è diventata la modalità organizzativa dominante e ricorrente per tutti i processi dell’impresa e non è più l’intervento straordinario e focalizzato degli albori. Questo ha determinato lo sviluppo di complessi sistemi e strumenti di gestione (si vedano ad esempio Jeston e Nelis, 2008; Harmon, 2007). Ma è sempre ugualmente importante riconoscere e gestire i processi aziendali? L’esempio di Cobra Automotive Technologies riportato nel Caso 5.1 ci aiuta a capire quali spinte strategiche possono enfatizzare l’importanza dei processi aziendali.

5. I processi aziendali ) 117

CASO

5.1

Cobra Automotive Technologies: l’organizzazione per processi Nel Caso 4.3 abbiamo descritto l’evoluzione organizzativa di Cobra Automotive Technologies da una struttura semplice, con unità organizzative di tipo funzionale, a una struttura ibrida, in cui ad alcune funzioni chiave si affiancavano business unit per prodotto e per mercato. Questa struttura organizzativa ha permesso all’azienda di migliorare significativamente le prestazioni e di rispondere meglio alle diversificate esigenze dei mercati in cui operava. Tuttavia, il Direttore generale dell’azienda sapeva che si sarebbe potuto fare di meglio. Il mercato original equipment era promettente e avrebbe permesso all’azienda ampi margini di crescita, ma era molto più complesso del segmento after market in cui l’azienda tradizionalmente operava. I clienti, ovvero i grandi costruttori di automobili, sono più esigenti e le dimensioni di prestazione su cui competere sono numerose. Non è possibile limitarsi all’eccellenza delle tecnologie di prodotto; occorre offrire qualità elevata anche in produzione (conformità), tempi rapidi di sviluppo e consegne puntuali, costi concorrenziali, eccellente servizio al cliente. Nel contempo, l’azienda non poteva trascurare il segmento after market, in cui poteva continuare a realizzare elevati margini, e neppure il settore – allora emergente – del motorcycle. Vi erano poi alcuni obiettivi, non strettamente collegati ai bisogni dei clienti, ma considerati estremamente importanti dall’azienda: una politica di sviluppo sostenibile sia nel rispetto dell’ambiente sia nell’attenzione al benessere e alla soddisfazione dei lavoratori. Cobra si è dunque trovata ad avere obiettivi competitivi sfidanti, con risorse di qualità elevata ma che faticavano a collegare il proprio lavoro e i risultati delle proprie attività con i target di prestazioni definiti nel piano strategico. Il Direttore generale ha intravisto la soluzione a questi problemi nell’introduzione di un’organizzazione per processi. A questo scopo ha avviato nei primi mesi del 2003 un progetto di cambiamento – denominato Driving to process – volto a ridisegnare l’organizzazione secondo nuovi principi: • il riconoscimento dei processi aziendali come elementi centrali nella creazione di valore per il cliente; • la misurazione e il controllo delle prestazioni collegate con gli obiettivi strategici; • l’individuazione di process owner a cui attribuire la responsabilità dei processi chiave; • la diffusione di una cultura di processo tramite azioni di comunicazione e formazione a tutti i livelli aziendali; • l’ottimizzazione o ridisegno dei processi con performance inadeguate in ottica di miglioramento continuo. Il progetto ha coinvolto il team manageriale dell’azienda ed è stato portato avanti con una logica partecipativa: il disegno dei processi aziendali è emerso dal lavoro di team facilitati da consulenti esterni. In questo modo la nuova organizzazione non è stata sentita come estranea, ma è nata progressivamente dalle evidenze e dalle esigenze espresse dai manager stessi e dai loro più stretti collaboratori, che sono stati coinvolti per le analisi più di dettaglio dei processi. La formazione sui principi chiave della gestione per processi è stata una leva fondamentale per poter utilizzare questo approccio e per consolidare in azienda la nuova visione organizzativa. Il progetto ha previsto le seguenti fasi: • mappatura dei processi aziendali: è stata costruita una mappa complessiva dei processi, individuando, laddove necessario, varianti e sottoprocessi. Per individuare correttamente i processi sono stati definiti gli input, gli output, i clienti interni o esterni e le interdipendenze con altri processi; • individuazione delle key performance dei processi: per ogni processo sono state definite le

118 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE prestazioni chiave e il loro collegamento con gli obiettivi strategici dell’azienda, evidenziando in questo modo il contributo al valore di ciascun processo; • individuazione dei process owner: per ciascun processo è stato individuato un responsabile del monitoraggio delle prestazioni e del miglioramento continuo. I process owner sono stati scelti nella maggior parte dei casi tra i responsabili delle unità organizzative maggiormente coinvolte nel processo, ovvero tra i responsabili delle funzioni o delle business unit; • selezione dei processi chiave: i processi con maggior impatto sui fattori critici di successo dell’azienda sono stati evidenziati come processi chiave. La selezione è stata fatta incrociando le key performance aziendali, definite nel piano strategico, e le performance di processo, individuando gli impatti più forti e diretti;

I PROCESSI CHIAVE DI COBRA AUTOMOTIVE TECHNOLOGIES NEL 2003 Servizi e soluzioni

Investimenti Direttore AM

Fattibilità

Product manager

Vendite OE Direttore OE

Program manager

Supporto

Operations

Operazioni tecniche

Mercato

Figura 5.1

Prodotti e processi Progettazione e sviluppo Direttore tecnico

Gestione della domanda

Acquisti

Produzione

Direttore logistica

Direttore acquisti

Direttore produzione

Pianificazione strategica e controllo Controller Gestione della qualità Direttore qualità

• definizione di una modalità di monitoraggio e miglioramento continuo dei processi, attraverso momenti di review delle performance formalizzati e condivisi con tutto il team dei process owner e analisi delle potenzialità di miglioramento. Il progetto ha avuto alcune ricadute importanti. Innanzitutto la formalizzazione degli strumenti di gestione dei processi aziendali e l’istituzione di attività di monitoraggio e miglioramento continuo hanno determinato le condizioni per poter aggiornare la certificazione di qualità dell’azienda ai nuovi standard delle norme ISO 9000: 2000 (Vision 2000), e più in particolare secondo gli stringenti parametri richiesti dal settore dell’automotive nelle norme ISO TS 16949/2002. In secondo luogo la nuova organizzazione ha dato avvio a progetti di miglioramento di alcuni dei processi chiave. Ad esempio è stato avviato il progetto Redesigning design, che ha avuto l’obiettivo di innovare i processi di sviluppo prodotti (Feasibility, Product Development e Validation) e, nel contempo, ripensare la struttura organizzativa della Direzione tecnica.

5. I processi aziendali ) 119 I risultati del progetto sono stati molto positivi. Oltre ad aver favorito la diffusione della cultura di processo e di un nuovo modo di lavorare per il cliente interno ed esterno, e ad aver ridotto sensibilmente alcune barriere interfunzionali presenti in azienda, ha portato a significativi miglioramenti di prestazione su alcuni processi chiave (ad esempio sia la difettosità dei fornitori sia le non conformità di progetto rilevate nel processo di Validation sono diminuite sensibilmente).

Il caso Cobra è un esempio efficace di ripensamento dell’organizzazione secondo logiche di processo. Tra i fattori che hanno spinto il management di Cobra a questo cambiamento possiamo evidenziare i seguenti: I driver

Pressione sui tempi

Analisi del valore

Dalle competenze ai risultati attraverso i processi

• l’orientamento al cliente, che discende dal fatto di operare in mercati diversi, con fattori critici di successo diversificati. È emersa la necessità di personalizzare i prodotti e i servizi per i produttori di automobili, con aspettative elevate su più dimensioni di prestazione. La centralità del cliente, e l’importanza di soddisfarne le esigenze, è uno dei fattori fondamentali che spingono le aziende a individuare e a gestire i propri processi; • la time-based competition: per Cobra la pressione sui tempi è diventata stringente con l’ingresso nel settore original equipment, che è caratterizzato da cicli molto rapidi e tempi di risposta attesi dai clienti molto limitati; la forte pressione competitiva sui tempi spinge le aziende a ricercare modi sempre nuovi per garantire risposte rapide ai clienti e, di conseguenza, ridurre i propri tempi interni; • la ricerca congiunta di efficienza ed efficacia. Nel settore original equipment, Cobra ha dovuto coniugare eccellenti livelli di qualità e servizio con costi competitivi. Il compromesso tra l’efficienza e l’efficacia delle attività aziendali può essere migliorato eliminando tutte quelle attività che generano costi ma non aggiungono valore e focalizzando le risorse sulle attività a maggior valore aggiunto. L’analisi dei processi aziendali aiuta nel riconoscimento di ciò che aggiunge valore e ciò che non è strettamente necessario per i risultati; • la necessità di canalizzare le risorse e le competenze verso i risultati: attraverso una gestione appropriata dei processi chiave l’impresa estrae valore dalle “competenze sulla carta”. Gli stessi fattori competitivi che hanno spinto Cobra ad adottare un orientamento ai processi si ritrovano in numerosi altri casi. In realtà possono esistere altre spinte che portano le imprese a orientarsi ai processi. Ad esempio, come visto anche nel caso Cobra, la certificazione della Qualità richiede – per essere effettiva – di gestire le proprie attività con un forte orientamento ai processi. Similmente, la compliance a diverse normative (ad esempio la Legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli Enti) o l’ado-

120 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

zione di alcuni sistemi di gestione (ad esempio l’Enterprise Risk Management) portano le aziende a dover gestire i propri processi aziendali.

5.3

I processi aziendali È necessario ora fare un passo indietro per specificare meglio la definizione intuitiva di processo aziendale che abbiamo dato all’inizio del capitolo. Un processo aziendale può essere definito come un insieme organizzato di attività e di decisioni, finalizzato alla creazione di un output effettivamente richiesto da un cliente, e al quale questi attribuisce un “valore” ben definito.

Riconoscere i clienti

CASO

Tale valore percepito implica la valutazione dell’output in termini di prezzo di acquisizione, di qualità, di tempo e di flessibilità. Questa definizione evidenzia innanzitutto che, per individuare un processo aziendale, è fondamentale riconoscere un cliente, ovvero un soggetto che trae valore dall’output generato dal processo. Questi può essere un cliente esterno vero e proprio, ma anche un cliente interno, ovvero un’unità organizzativa dell’impresa stessa che utilizza l’output del processo in questione. Occorre inoltre sottolineare che cliente del processo può essere sia l’utilizzatore del prodotto o servizio generato dal processo, sia anche chi indirettamente trae beneficio da questo output o da output intermedi. Consideriamo a titolo esemplificativo il processo di gestione dei resi in una media azienda (Caso 5.2).

5.2

Biolchi: processo di gestione dei resi La Biolchi è una media impresa che produce piccoli elettrodomestici. I suoi clienti sono distributori, grossisti e operatori della grande distribuzione organizzata, che vendono poi i prodotti al consumatore finale. La soddisfazione del cliente è un aspetto critico per l’azienda. Uno dei processi che la influenzano è la gestione dei resi di prodotti non conformi. Esiste in azienda un Ufficio resi che si occupa di queste attività, seguendo una procedura aziendale descritta nel manuale della qualità. Il reso può essere spedito da parte del cliente oppure consegnato al trasportatore che effettua le consegne e che lo riporta in azienda, previa informazione dell’Ufficio commerciale della necessità di effettuare il ritiro. Il reso deve essere accompagnato da un modulo che contenga i dati del cliente, i riferimenti dell’ordine del prodotto consegnato e l’indicazione della motivazione della restituzione. I resi possono dunque arrivare direttamente all’Ufficio resi (nel caso di spedizione) o al Magazzino prodotti finiti (quando è il trasportatore a effettuare il ritiro). In quest’ultimo caso vengono trasferiti dal magazziniere all’Ufficio resi. Nell’Ufficio resi un addetto verifica la completezza dei documenti che accompagnano i prodotti ed eventualmente ne richiede il completamento tramite l’Ufficio commerciale. Lo

5. I processi aziendali ) 121 stesso addetto inserisce le informazioni nel sistema informativo, classificando ciascun reso in tre categorie: • non conformità formale (è stato consegnato un codice diverso da quello richiesto dal cliente); • danneggiamento (il prodotto ha subito un danneggiamento esterno – ammaccature, graffi ecc.); • malfunzionamento (il prodotto non funziona secondo le specifiche). Nei primi due casi vengono registrate le informazioni nel sistema di qualità dell’azienda e queste vengono comunicate all’ente responsabile della non conformità (imballaggio, magazzino o trasportatore). Nel terzo caso il prodotto viene ispezionato dal Controllo qualità, che verifica la causa del malfunzionamento, stabilisce se il prodotto è riparabile – nel qual caso il prodotto viene riparato dall’officina – e inserisce tutte le informazioni nel sistema qualità. In ogni caso l’Ufficio resi predispone la consegna al cliente di un prodotto in sostituzione del reso, emettendo un ordine di consegna che viene trasferito in magazzino ed evaso dall’Ufficio spedizioni. Il processo si conclude con la chiusura della pratica di reso, a seguito della registrazione di tutti i dati di qualità e dell’avvenuta consegna del prodotto al cliente.

Il caso Biolchi (Caso 5.2) ci illustra la presenza di clienti sia esterni (il distributore, il grossista o la GDO) sia interni, ad esempio l’unità incaricata dell’assicurazione della qualità. Questa unità è un cliente interno del processo poiché utilizza in input i dati generati dall’analisi dei resi al fine di avviare interventi di miglioramento sui processi aziendali che hanno generato le non conformità evidenziate. L’individuazione del cliente permette di definire in modo corretto l’output del processo e le caratteristiche che questo deve avere per soddisfare il cliente, ovvero le prestazioni del processo. Le prestazioni rappresentano la quantificazione del contributo dell’output alla creazione di valore per il cliente, e possono essere monitorate e rappresentate dagli indicatori di prestazione, più comunemente detti KPI (Key Performance Indicators), che verranno dettagliatamente descritti nel paragrafo 5.5. Nel caso della Biolchi (Caso 5.2), l’output del processo è duplice: per il cliente finale è il prodotto sostitutivo che gli viene consegnato, per il cliente interno sono le informazioni di qualità (le cause di malfunzionamento rilevate). Così come l’output permette di definire i confini a valle del processo, gli input consentono di definire i confini a monte e di individuare dunque chi sono i fornitori, interni o esterni all’azienda, che procurano quei fattori fisici o informativi necessari all’avvio del processo. Nei processi aziendali è poi possibile individuare alcuni dati in ingresso che non vengono trasformati dal processo stesso, ma sono piuttosto regole, procedure o informazioni utilizzate per svolgerne o controllarne le attività. Tali informazioni vengono dette controlli. Nel caso Biolchi un esempio di controllo del processo è costituito dalle regole che permettono di classificare i resi nelle diverse categorie di non conformità.

122 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE Interdipendenze forti e deboli

Gli otto elementi di un processo aziendale

5.4

Processi primari e di supporto

Per trasformare gli input in output, il processo si dispiega in una serie di fasi e di attività tra loro interdipendenti, che quindi necessitano organizzazione e coordinamento. Come discusso nel capitolo 3, le interdipendenze tra attività possono essere di natura diversa (sequenziali, reciproche, di spazio/tempo o legate alle risorse). Le fasi e le attività interne a un processo sono in molti casi legate tra loro da interdipendenze forti, generalmente di natura sequenziale o reciproca, mentre le stesse attività possono presentare interdipendenze più deboli, legate ad esempio alla condivisione della stessa risorsa o di luoghi o momenti di svolgimento con attività e fasi appartenenti ad altri processi. Ad esempio, nel caso Biolchi l’attività di ispezione dei resi è legata da interdipendenze sulle risorse con tutte le altre attività svolte dall’Ufficio qualità, che potrebbero avere priorità maggiore e di conseguenza portare all’allungamento dei tempi del processo di gestione dei resi. Le logiche di base utilizzate nel processo per coordinare le attività, prendere le decisioni e regolare l’avanzamento del processo sono dette metodi di gestione del processo. Il processo di gestione dei resi della Biolchi è ad esempio governato da una procedura descritta nel sistema di qualità. Le attività del processo sono svolte da risorse umane o tecnologiche (macchine, sistemi informatici, procedure automatiche) che utilizzano capacità specifiche per svolgere le attività e prendere le decisioni all’interno del processo. Il contributo delle risorse umane al processo è innanzitutto caratterizzato dal ruolo e dal potere decisionale che ciascun attore ha nello svolgere la parte assegnata; in secondo luogo dal tipo di competenze e abilità necessarie per ricoprire il ruolo. Tra le risorse tecnologiche, un ruolo particolarmente rilevante è giocato dall’Information & Communication Technology (ICT), che può supportare o automatizzare alcune attività o fasi del processo, sostituendosi del tutto o in parte alle risorse umane. In sintesi, gli elementi che caratterizzano un processo aziendale sono: input, output, prestazioni, controlli, risorse, fasi e attività, interdipendenze e metodi di gestione. Questi elementi sono rappresentati sinteticamente in Figura 5.2.

Tipologie di processi aziendali Quali sono i principali processi aziendali? È possibile individuare un elenco esaustivo di processi che fornisca un riferimento per una generica organizzazione? È difficile disporre di una mappa univoca, a causa delle peculiarità dei diversi settori e anche delle diverse imprese all’interno di uno stesso settore. I processi chiave differiscono da un’organizzazione all’altra: cambiano le logiche per raggruppare le attività in processi, e dunque cambiano i confini, le risorse e i metodi di gestione. Tuttavia qualche generalizzazione è possibile. Una prima indicazione aggregata viene dalla distinzione tra i processi primari e di supporto. I processi primari creano direttamente un valore riconosciuto dal clien-

5. I processi aziendali ) 123

Figura 5.2

GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DI UN PROCESSO AZIENDALE Controlli

Cliente Input

Output

Gestione

Risorse Interdipendenze sequenziali

Interdipendenze reciproche

Interdipendenze generiche

Fonte: adattato da Bartezzaghi, Spina e Verganti (1999).

te esterno e le loro performance impattano sul suo livello di soddisfazione. I processi di supporto sono invece necessari alla gestione di quelli primari, ma non creano di per sé un valore riconosciuto direttamente dal cliente esterno: il loro cliente è generalmente interno, sono fonte di costi e solo indirettamente di benefici. Tali processi possono a loro volta essere distinti tra processi di governo, i cui clienti sono gli stakeholder o i manager dell’impresa, e processi di supporto operativo, i cui clienti sono altre funzioni aziendali solitamente di livello gerarchico medio-basso. La Tabella 5.1 riporta la classificazione dei processi di Cobra Automotive Technologies (Caso 5.1). Esistono classificazioni settoriali o intersettoriali che permettono di individuare i processi aziendali tipici in uno specifico settore o macrosettore di attività.

Tabella 5.1

CLASSIFICAZIONE DEI PROCESSI DI COBRA AUTOMOTIVE TECHNOLOGIES (Caso 5.1)

Processi primari

Processi di supporto

Feasibility

Strategic Planning & Control

Product development

Human resources management

Validation

Quality management

Process engineering

ICT management

Manufacturing

Demand management

Sales OE

Procurement

124 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Tabella 5.2

PROCESS CLASSIFICATION FRAMEWORK

Mappa dei processi aziendali (aziende manifatturiere e di servizio) 1. Sviluppo visione e strategia 1.1 Definizione del business concept e della visione di lungo termine 1.2 Sviluppo della strategia di business 1.3 Gestione dei programmi strategici 2. Sviluppo prodotti e servizi 2.1 Sviluppo nuovi prodotti e servizi 3. Marketing e vendite dei prodotti e servizi 3.1 Sviluppo della strategia di marketing, di distribuzione e di canale 3.2 Sviluppo e gestione della strategia di vendite 3.3 Gestione della pubblicità, pricing e promozione 3.4 Gestione degli accordi con i partner di vendita 3.5 Gestione delle opportunità e dei flussi di vendita 3.6 Gestione degli ordini 4.

4.2 4.3 4.4 4.5

Produzione e consegna dei prodotti e servizi Pianificazione delle risorse necessarie (pianificazione della supply chain) Acquisizione dei materiali e dei servizi Produzione e consegna dei prodotti Erogazione del servizio al cliente Gestione della logistica e dei magazzini

5. 5.1 5.2 5.3 5.4 5.5

Gestione del servizio al cliente Sviluppo della strategia di servizio al cliente Gestione del servizio al cliente Installazione e assistenza post-vendita Misurazione della soddisfazione del cliente Gestione del personale di customer service

4.1

6. Sviluppo e gestione risorse umane 6.1 Elaborazione della strategia, delle policies e della pianificazione delle risorse umane 6.2 Reclutamento, selezione e assunzione dei dipendenti 6.3 Sviluppo e orientamento delle risorse 6.4 Gestione sistemi di valutazione e incentivazione 6.5 Riallocazione del personale 6.6 Gestione dell’informazione verso i dipendenti 7. Gestione dell’Information Technology 7.1 Gestione delle attività dell’Information Technology 7.2 Sviluppo e gestione delle relazioni IT con i clienti 7.3 Gestione della resilienza e del rischio 7.4 Gestione dell’informazione aziendale

Fonte: APQC, www.apqc.org.

7.5 7.6 7.7 7.8

Sviluppo e mantenimento delle soluzioni IT Deployment delle soluzioni IT Erogazione di servizi e supporto IT Gestione della conoscenza IT

8. 8.1 8.2 8.3 8.4 8.5 8.6 8.7 8.8 8.9

Gestione risorse finanziarie Pianificazione e contabilità interna Contabilità dei ricavi Contabilità esterna e reporting Gestione delle immobilizzazioni Gestione degli stipendi Gestione dei debiti e dei rimborsi spese Gestione tesoreria Gestione dei controlli interni Gestione tasse

9.

Acquisizione, costruzione e gestione delle proprietà immobiliari Progettazione e costruzione degli immobili Manutenzione degli uffici e delle strutture Dismissione di spazi e attrezzature Gestione dei rischi fisici Gestione del capitale fisico

9.1 9.2 9.3 9.4 9.5

10. Gestione dell’ambiente, salute e sicurezza 10.1 Valutazione dell’impatto ambientale, sulla salute e sicurezza 10.2 Definizione e gestione di programmi ambientali, per la salute e sicurezza 10.3 Formazione del personale 10.4 Monitoraggio dei programmi ambientali, per la salute e sicurezza 10.5 Assicurazione del rispetto delle regole 10.6 Gestione interventi di riparazione 11. 11.1 11.2 11.3 11.4 11.5

Gestione relazioni esterne Gestione relazioni con gli investitori Gestione relazioni con il governo Gestione relazioni con gli amministratori Gestione degli aspetti legali ed etici Gestione pubbliche relazioni

12. Gestione della conoscenza, del miglioramento e cambiamento 12.1 Sviluppo e gestione di una strategia di performance aziendali 12.2 Benchmarking delle prestazioni 12.3 Sviluppo di capacità di gestione della conoscenza aziendale 12.4 Gestione del cambiamento

5. I processi aziendali ) 125 Mappe e proposte diverse

Processi come scatole cinesi

Il Massachusset Institute of Technology (MIT) è impegnato da diversi anni in un progetto ambizioso, volto a costruire un “Handbook of Organizational Processes”, ovvero un’opera che classifichi e descriva a diversi livelli di dettaglio tutti i possibili processi aziendali nei settori più disparati (Malone, Crowston e Herman, 2003; http://ccs.mit.edu/ph). Le attività di un’impresa sono raccolte in cinque macroaree: Acquistare, Produrre, Vendere, Progettare e Gestire. A partire da queste, con scomposizioni e specificazioni successive vengono individuati i macroprocessi e processi di una qualsiasi azienda. Esistono anche altri modelli di classificazione dei processi aziendali, meno ambiziosi e meno dettagliati, ma spesso più fruibili e più facilmente riferibili a realtà specifiche. Ad esempio, l’American Productivity and Quality Centre (www.apqc.org) propone un modello di riferimento dei processi di una tipica azienda industriale o di servizi, a partire dall’osservazione di un numero elevato di organizzazioni, individuando dodici macroprocessi (si veda Tabella 5.2). Si stanno inoltre affermando classificazioni varie e standard di identificazione dei processi a livello settoriale. La stessa APQC propone modelli di riferimento, specifici per il settore dell’auto, dei prodotti di largo consumo, per le banche e altri ancora. In modo analogo, nel settore dei servizi di gestione delle Information Technologies si è affermato lo standard ITIL (IT Infrastructure Library), che descrive i processi e le best practices per la gestione dei servizi di gestione delle IT (www.itil-officialsite.com). A partire da queste mappature standard, ciascuna impresa dovrà individuare in maniera personalizzata l’elenco dei propri processi, in dipendenza delle peculiarità dei prodotti/servizi, del modello di business, delle modalità di funzionamento effettive che la caratterizzano. Come già evidente dalle mappature presentate, la descrizione dei processi aziendali può essere effettuata a successivi livelli di approfondimento, come schematizzato ed esemplificato in Figura 5.3. Innanzitutto è possibile individuare una scomposizione gerarchica dei processi. Il livello più aggregato che generalmente è utilizzato è il Macroprocesso, ovvero la macro area di attività dell’azienda. Queste aree coincidono spesso con le funzioni organizzative a più alto livello dell’azienda oppure con i prodotti o servizi offerti. Se prendiamo ad esempio una banca, alcuni macroprocessi sono la Gestione del conto corrente o la Gestione dei titoli. Il secondo livello è quello del Processo vero e proprio, ovvero dell’insieme delle attività finalizzate alla creazione dell’output, con obiettivi chiaramente individuabili. Il processo può essere ulteriormente scomposto in sottoprocessi. Ad esempio il processo di Gestione ordinaria del conto corrente può essere scomposto in sottoprocessi, tra i quali il Versamento e il Prelievo da conto corrente. Il terzo livello è quello della Fase, ovvero un insieme di attività tra loro fortemente interdipendenti, con input e output chiaramente definiti, anche in termini temporali e di sequenza, e con obiettivo comune. Ad esempio il Versamento in conto corrente può essere scomposto nelle fasi di Acquisizione ordine, Lavorazione

126 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Figura 5.3

SCOMPOSIZIONE GERARCHICA DEL MACROPROCESSO DI GESTIONE DEL CONTO CORRENTE IN UNA BANCA

Macroprocesso: Gestione conto corrente Processi Apertura CC

Gestione ordinaria

Controllo periodico

Chiusura CC

Sottoprocessi • Versamento CC • Prelievo CC • Contabilizzazione e riscontro al cliente • ...

Fasi • Acquisizione ordine • Lavorazione • Accredito

Attività • Acquisizione e controllo distinta • Ritiro denaro contante/assegni

Processi specifici e famiglie gerarchiche

e Accredito. Successivo livello è quello dell’Attività, ovvero unità elementari di un processo, costituite da un insieme di operazioni svolte (spesso) da una singola funzione aziendale o anche da una sola persona. Ad esempio, l’Acquisizione ordine può essere scomposta nelle attività di Acquisizione e controllo della distinta e di Ritiro del denaro contante. Ultimo livello di analisi è quello delle Operazioni, ovvero delle azioni e passi elementari, non ulteriormente scomponibili, che compongono le attività, svolte da una singola risorsa. Riprendendo l’esempio, questo significherebbe identificare le singole operazioni necessarie per controllare la distinta: controllare i dati dell’intestatario, l’importo inserito ecc. Un secondo tipo di analisi permette invece di specificare i processi nelle cosiddette varianti di processo, ovvero distinguere uno stesso processo in base al suo contenuto o alle modalità di esecuzione. Ad esempio, il processo di approvvigionamento in molte aziende viene distinto in base alla tipologia di materiale acquistato, distinguendo tra Approvvigionamento di materie prime, Approvvigionamento di servizi e Approvvigionamento di materiali indiretti (si veda a questo proposito il capitolo 15). Più varianti dello stesso processo possono condividere alcune fasi e attività, ma generalmente hanno differenze legate alla presenza di fasi aggiuntive o svolte in modo peculiare. È dunque importante evidenziare le varianti per poter analizzare con maggior dettaglio il funzionamento del processo, oltre che per valutarne la diversa rilevanza o criticità. La scomposizione e la specifica-

5. I processi aziendali ) 127

Figura 5.4

DIREZIONI DI DISAGGREGAZIONE DEI PROCESSI AZIENDALI Aggregazione

Generalizzazione

Processo

Specificazione

Scomposizione Fonte: tratto da Malone, Crowston e Herman (2003).

zione generalmente si alternano ai vari livelli dell’analisi di dettaglio di un processo, come suggerito dalla Figura 5.4.

5.5 Ottimi locali vs. ottimo globale

Efficienza, efficacia e risultati aziendali

Figura 5.5

Le prestazioni dei processi aziendali Le prestazioni (o performance) dei processi quantificano la capacità degli output di soddisfare le richieste e le esigenze del cliente e dunque il loro ruolo nel creare valore per l’azienda. Il monitoraggio e miglioramento delle performance è uno strumento di gestione fondamentale in un’azienda orientata ai processi. Occorre dunque definire le prestazioni tipiche di un processo. Lo schema di Figura 5.5 ci permette di individuare le principali categorie di prestazione e il loro legame con i risultati aziendali. Un processo è caratterizzato da prestazioni operative, che si possono ricondurre generalmente alle quattro dimensioni di costo, tempo, qualità e flessibilità. Queste prestazioni determinano nel loro complesso l’efficienza e l’efficacia del processo. Per efficienza (produttività) si intende la capacità del processo di ottimizzare il rapporto tra valore dell’output e impiego di risorse. Per efficacia si fa riferimento PROCESSI AZIENDALI E PRESTAZIONI Soddisfazione del cliente Efficacia Processo aziendale

Prestazioni operative attuali e future costi, tempi, qualità, flessibilità Efficienza

Ricavi Costi Risultati aziendali

128 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

invece alla capacità del processo di raggiungere gli obiettivi per cui è stato costituito, ovvero generare un output che soddisfi le esigenze del cliente (Daft, 2001). L’efficienza del processo concorre al raggiungimento dei risultati aziendali attraverso la riduzione dei costi complessivi, mentre l’efficacia determina superiori ricavi, grazie a una maggiore soddisfazione del cliente o al raggiungimento di un maggior numero di clienti. Ciò è immediatamente evidente per i processi primari, che hanno direttamente impatto sul cliente esterno, ma vale anche per i processi di supporto, la cui efficacia consente di generare output intermedi migliori e quindi un miglior supporto ai processi primari che li utilizzano. Le prestazioni operative di un processo possono generalmente essere distinte in due tipologie: le prestazioni esterne, in “ottica del cliente” esterno o interno che sia, e le prestazioni interne, in “ottica del process owner”. Le prime sono quelle che possono essere valutate direttamente dal cliente ma anche da eventuali altri stakeholder o interlocutori del processo. Ad esempio il costo complessivo, soprattutto per i processi di supporto, può non essere percepito direttamente dal cliente (ad esempio quando l’azienda non utilizza prezzi di trasferimento) tuttavia impatterà su altre strutture che dovranno sopportarne il costo. Le prestazioni interne sono invece caratteristiche di funzionamento del processo che ne misurano le modalità di gestione delle risorse, senza però essere percepite direttamente dal cliente. La misurazione delle prestazioni interne consente due vantaggi: da un lato una più tempestiva rilevazione di eventuali problemi, dall’altro un più facile collegamento con le leve di gestione che possono essere utilizzate per migliorarle. Ad esempio, il costo totale di un processo non indica in modo preciso quale aspetto del processo deve essere gestito meglio per aumentarne l’efficienza; viceversa, la misura della produttività delle risorse coinvolte nel processo o del numero di rilavorazioni per ottenere un output conforme possono indicare se la leva prioritaria di azione è sull’efficienza del personale o sulla qualità delle attività eseguite. Nei prossimi paragrafi verranno analizzate le prestazioni utilizzate per misurare i processi aziendali, rispetto alle quattro macrodimensioni di prestazione citate in precedenza.

5.5.1

Le prestazioni di costo La prestazione più sintetica di costo del processo è il costo dell’output, ovvero la somma dei costi delle attività del processo. In un processo produttivo il costo dell’output coincide con il costo del prodotto (o semilavorato) realizzato, in un processo di servizio consiste nel costo di erogazione. Anche se la definizione di costo dell’output risulta immediata dal punto di vista concettuale, il suo calcolo può rivelarsi tutt’altro che semplice, a causa del fatto che si utilizzano risorse condivise tra più processi, rendendo non immediata l’allocazione dei costi tra i diversi output. Le informazioni sull’uso delle ri-

5. I processi aziendali ) 129

Tecniche di “costing”

Costi di accesso e di utilizzo

sorse poi sono tipicamente disperse nelle diverse funzioni aziendali a cui queste risorse appartengono, rendendo ancora meno agevole la rilevazione. Per esempio, in un processo di distribuzione fisica il costo logistico totale dipende dal costo di trasporto, dai costi di mantenimento a scorta, dai costi delle infrastrutture fisiche (i magazzini) e dai costi amministrativi di evasione dell’ordine. Le informazioni di costo relative a queste voci sono generate e gestite da unità organizzative differenti. Queste risorse, poi, sono condivise almeno in parte con altri processi. Le tecniche tradizionali di allocazione dei costi (job costing, process costing, operations costing) affrontano con diversi livelli di precisione il problema dell’allocazione dei costi comuni ai prodotti/servizi (per maggiori dettagli si veda Azzone, 2006; Azzone e Bertelè, 2011). In molti casi la tecnica più adeguata per il calcolo dei costi dell’output è l’Activity Based Costing (ABC), che alloca innanzitutto i costi delle risorse alle attività che le utilizzano, attraverso l’individuazione di opportuni driver, e solo successivamente ribalta i costi delle attività sugli output generati (Johnson e Kaplan, 1987; per una descrizione dettagliata della tecnica si veda Azzone e Bertelè, 2011). L’ABC trova crescente applicazione nei servizi: nell’ambito di un vasto progetto di miglioramento dell’efficienza Citybank ha introdotto estesamente questa metodologia per stimare correttamente i costi e individuare le aree di inefficienza. Proprio a seguito della difficoltà di calcolo del costo complessivo dell’output, per molti processi di servizio che sono prevalentemente labour intensive il costo viene approssimato con la misura dei full time equivalent (FTE), ovvero il numero di persone equivalenti impiegate dal processo. Un’altra prestazione di costo del processo è il costo per il cliente, ovvero il costo sopportato dal cliente per l’ottenimento dell’output. La misura più semplice è il prezzo pagato dal cliente: nel caso di clienti esterni (e quindi processi primari) sarà un prezzo reale associato a una transazione; nel caso di clienti interni può essere il prezzo di trasferimento, ovvero il prezzo fittizio imputato a un’unità organizzativa per l’ottenimento di semilavorati, prodotti o servizi interni (Azzone, 2006). Al prezzo occorre però spesso aggiungere altre componenti, ad esempio il costo di accesso, ovvero il costo-opportunità del cliente per accedere all’output (ad esempio il costo-opportunità del tempo di attesa allo sportello di un Ufficio Postale per ottenere il servizio), e il costo d’uso, ovvero il costo che il cliente deve sostenere durante il ciclo di vita dell’output per il suo utilizzo (ad esempio i costi di gestione e chiusura di un conto corrente, in aggiunta al costo di apertura). In altri casi il costo per il cliente si sovrappone al cosiddetto total cost of ownership o costo totale di possesso, inclusivo anche dei costi finanziari di mantenimento a scorta (si veda il capitolo 15). Misure di costo interne al processo sono invece generalmente legate alla produttività delle risorse coinvolte nel processo (tipicamente valutate come rapporto tra volumi o valori di output generati dal processo e volumi o valori di risorse utilizzate).

130 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

5.5.2

Le prestazioni di qualità La qualità di un processo può essere valutata anzitutto attraverso la qualità dell’output, ovvero la sua capacità di soddisfare esigenze d’uso espresse o implicite del cliente del processo. Le dimensioni che tipicamente possono essere considerate per valutare la qualità dell’output sono (www.uni.it):

Qualità “sulla carta”

Qualità statistica

Qualità nel tempo

Parametri oggettivi e percezione

• la qualità teorica, o di progetto, ovvero l’insieme delle caratteristiche e dei parametri funzionali che l’output possiede “sulla carta”, ovvero in base a quanto è stato progettato e previsto nel disegno del processo e del suo output. La qualità di progetto può essere valutata attraverso i parametri funzionali descritti nelle specifiche di progetto nel caso di un prodotto fisico o tangibile, oppure attraverso le caratteristiche e i livelli di servizio dichiarati nelle carte dei servizi o nei service level agreement (SLA) nel caso di processi di servizio (si veda il box a pagina seguente); • la qualità di conformità, ovvero la rispondenza di ogni singola unità di output alle specifiche del processo. La misura tipica della qualità di conformità è la percentuale di output non conformi sul totale degli output erogati. Questa dimensione può essere ulteriormente scomposta in una misura di qualità interna al processo, non direttamente visibile al cliente perché corretta internamente (ad esempio la percentuale di scarti in un processo produttivo o la percentuale di errori nella compilazione di una pratica o un documento), e una misura esterna, percepita direttamente dal cliente (ad esempio il numero di reclami o di resi per prodotti non conformi, o il numero di reclami o penali pagate per servizi non rispondenti alle aspettative o agli SLA); • la disponibilità, ovvero la capacità dell’output di mantenere nel tempo le specifiche (affidabilità) e la facilità di ripristino (manutenibilità). Può essere rilevante misurare la percentuale di ore in cui un servizio offerto su Internet è funzionante (ad esempio la vendita di biglietti aerei on line), o la disponibilità di un prodotto (ad esempio il numero di anni di vita utile di un elettrodomestico). Concetti spesso associati alla qualità sono quelli di servizio e di assistenza, ovvero il risultato di attività svolte all’interfaccia tra fornitore e cliente, per soddisfare le esigenze del cliente stesso. Il concetto di servizio comprende sia l’assistenza in senso stretto (il supporto informativo pre- e post-vendita, l’installazione e l’uso del prodotto, la rapidità e le condizioni di sostituzione o riparazione), sia gli aspetti legati alla consegna (rapidità e puntualità, condizioni di resa ecc.), sia gli elementi accessori della transazione, quali per esempio le condizioni della garanzia. Torneremo diffusamente su questi concetti nel capitolo 13. Le dimensioni di qualità sopra descritte fanno riferimento a un’ottica di processo, poiché la qualità è misurata dal punto di vista di chi produce l’output. Tuttavia è fondamentale misurare anche la qualità percepita dal cliente che può essere influenzata, oltre che da valutazioni attuali e oggettive dell’output, anche da fattori impliciti o soggettivi, quali ad esempio le prestazioni passate del processo, le aspettative del cliente ri-

5. I processi aziendali ) 131

I service level agreement I service level agreement (SLA) sono contratti esplicitamente o implicitamente stipulati tra il fornitore di un servizio e l’utente volti a definire le condizioni di fornitura del servizio e il relativo prezzo (si vedano ad esempio Johnston e Clark, 2001; Van Looy, Gemmel e Van Diederdonck, 2003). Gli aspetti che vengono dettagliati in uno SLA sono: • le dimensioni di performance chiave del servizio, quali ad esempio il tempo di risposta, la disponibilità o l’accuratezza; • le metriche utilizzate per valutare le performance del servizio; • i target di prestazione concordati tra fornitore e cliente; • la responsabilità della misurazione delle performance, incluso il fatto che siano il cliente, il fornitore o entrambi a dover misurare i risultati ottenuti. L’utilizzo degli SLA nella fornitura dei servizi ha il grande vantaggio di pianificare in anticipo le aspettative plausibili sulla qualità del servizio, riducendo dunque i rischi sia per il cliente sia per il fornitore, oltre a consentire una maggiore trasparenza nel rapporto tra cliente e fornitore e, in ultima analisi, favorire una maggiore fedeltà del cliente. Ad esempio Aeroporti di Roma fornisce una Carta dei Servizi nella quale vengono specificate, per i principali servizi offerti in aeroporto, le condizioni di fornitura, le prestazioni chiave, i target e i risultati di performance ottenuti, le responsabilità su ciascuna dimensione di prestazione.

spetto alla qualità dell’output, l’immagine dell’azienda o dell’unità organizzativa che produce l’output ecc. Una delle misure più frequentemente utilizzate di qualità percepita, riferite al concetto esteso di qualità, che comprende anche il livello di servizio e assistenza, è la soddisfazione del cliente (customer satisfaction). La sua misura nasce dal confronto tra le aspettative del cliente sul prodotto-servizio e la percezione della qualità effettivamente fornita. Si tratta dunque di una misura complessa e multidimensionale, di carattere soggettivo, che può essere valutata solo tramite il coinvolgimento del cliente stesso. Le dimensioni che vengono utilizzate per misurare la customer satisfaction sono state sintetizzate in alcune categorie di riferimento. Il modello più conosciuto nell’ambito dei servizi è il Servqual Model (Parasuraman, Zeithaml e Berry, 1985), sintetizzato in Tabella 5.3. Tabella 5.3

LE DIMENSIONI DI CUSTOMER SATISFACTION

Affidabilità Capacità di risposta

Sicurezza Empatia Aspetti tangibili

Affidabilità e coerenza delle prestazioni del servizio Velocità e puntualità di erogazione del servizio Competenza delle risorse Cortesia, rispetto e comportamento amichevole Comunicazione: livello di informazione del cliente Credibilità e onestà Assenza di rischio, pericolo o dubbio Accesso e facilità di contatto Comprensione e conoscenza del cliente Caratteristiche fisiche del servizio

132 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

5.5.3

Rapidità vs. puntualità

Le componenti del lead time

Le prestazioni di tempo Le prestazioni di tempo sono spesso considerate cruciali per valutare un processo aziendale. Come discusso all’inizio di questo capitolo, la pressione competitiva sui tempi è uno dei principali driver nell’orientamento ai processi di un’impresa. La più importante misura di tempo di un processo dal punto di vista del cliente è il tempo di risposta, ovvero il tempo che intercorre tra il momento in cui il cliente richiede l’output del processo e il momento in cui la sua richiesta è stata soddisfatta. Il tempo di consegna di un ordine è un esempio di tempo di risposta per il processo di produzione di un’azienda manifatturiera che opera su commessa. Il tempo di consegna a domicilio dei pasti ordinati è il tempo di risposta per il processo di produzione ed erogazione del servizio di ristorazione “take away”. Associata al tempo di risposta vi è una seconda prestazione, in alcuni casi addirittura più importante della prima, che è la puntualità, ovvero il rispetto dei tempi di risposta pattuiti o dichiarati. Dal punto di vista interno, la prestazione di tempo più comunemente utilizzata è invece il lead time del processo (anche detto tempo di attraversamento o tempo di ciclo). Il lead time è il tempo che intercorre tra l’istante di avvio del processo, tipicamente quando sono disponibili gli input, e l’istante in cui l’output è stato completato. Il lead time di processi di innovazione è anche detto timeto-market, ed è il tempo che intercorre tra l’ideazione del prodotto o servizio e il momento del suo lancio sul mercato (da qui il suo nome). Per i processi svolti in logica pull, ovvero avviati solo su richiesta del cliente (si vedano anche i capitoli 16 e 17), il lead time del processo spesso coincide con il tempo di risposta (è questo il caso ad esempio del lead time di preparazione di un piatto “espresso” in un ristorante tradizionale, che a grandi linee coincide con il tempo di attesa del cliente prima che venga servito). Viceversa nei processi avviati in modo asincrono rispetto alla richiesta del cliente, le due dimensioni non sono tra loro legate. Ad esempio, il lead time di preparazione di un piatto in un fast food non ha nessuna relazione con il tempo di servizio del cliente, salvo nel caso in cui il prodotto richiesto non sia disponibile già pronto in quel momento. È importante osservare che il lead time non è unicamente composto dalla somma dei tempi necessari per svolgere le diverse attività del processo. Al contrario, lead time elevati spesso dipendono da fenomeni diversi dalla pura e semplice esecuzione. Bartezzaghi, Spina e Verganti (1994) hanno fornito una modellazione completa del lead time di un generico processo aziendale, attraverso l’identificazione delle seguenti componenti: • • • • • • •

attesa in coda alle risorse; tempi di attrezzaggio (preparazione delle risorse); tempo di esecuzione delle attività; tempi di completamento degli eventuali lotti; tempo di “problem solving”; attese nei “polmoni” (per disaccoppiare le attività); attese per gli appuntamenti (per sincronizzare le attività).

5. I processi aziendali ) 133

Vengono quindi identificati i principali fattori (driver) che influenzano le diverse componenti. È su questi fattori che occorre agire per ridurre o comunque tenere sotto controllo il lead time complessivo. Molti dei tempi sopra citati fanno riferimento ad attività del processo che non creano valore, ma sono rese necessarie dal modo in cui esso è stato progettato (o in alcuni casi non sono neanche necessarie ma semplicemente presenti a seguito di inefficienze e problemi di gestione e coordinamento). Può essere dunque utile misurare il rapporto tra il tempo delle attività a valore aggiunto (tipicamente il tempo necessario per attività esecutive) e il lead time totale del processo. Tale prestazione è anche detta efficienza del tempo di ciclo o throughput efficiency. Nel settore automobilistico, ad esempio, l’efficienza del tempo di ciclo dei processi produttivi si aggira mediamente intorno al 10%, ovvero solo il 10% del tempo complessivo è realmente occupato da attività a valore aggiunto. Questo dato non è molto diverso per altri processi e in altri settori, e sottolinea dunque l’importanza di azioni di miglioramento volte a eliminare le attività e i tempi che non aggiungono valore.

5.5.4

Costi e tempi di adattamento

Le prestazioni di flessibilità La flessibilità di un processo misura la sua capacità di rispondere a cambiamenti richiesti dal cliente con costi ridotti e tempi limitati (Slack, 1983; Azzone, 2006; Golden e Powell, 2000). I cambiamenti richiesti possono avere natura sia qualitativa (cambiamenti nelle caratteristiche dell’output richiesto) sia quantitativa (variazioni di quantità di output richiesto). I costi/tempi di adeguamento di un processo a variazioni della domanda possono in molti casi essere schematizzati con una curva a “S” (Figura 5.6). Per piccole variazioni nelle richieste dei clienti i tem-

Figura 5.6

LE DIMENSIONI DI FLESSIBILITÀ: TEMPI E COSTI DI ADATTAMENTO ALLE VARIAZIONI DI DOMANDA

Costo/Tempo adattamento Range di variabilità Flessibilità in grande

Flessibilità in piccolo Variazione quali/quantitativa dell’output

134 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Tabella 5.4

ESEMPI DI INDICATORI DI FLESSIBILITÀ

Flessibilità ai volumi In piccolo Range In grande

Grado di leva operativa (costi fissi/costi variabili) Percentuale di capacità insatura Scalabilità della capacità produttiva

Flessibilità ai prodotti In piccolo Range In grande

Costo di customizzazione del prodotto Ampiezza gamma Tempo necessario per la predisposizione di nuovi processi tecnologici e di nuove operazioni

Fonte: adattato da Azzone (2006).

pi/costi di adattamento sono limitati, in alcuni casi anche nulli: ad esempio per soddisfare volumi di poco superiori alla domanda media è sufficiente una maggiore saturazione degli addetti e delle macchine esistenti (quindi il costo e il tempo di adeguamento sono nulli) o l’utilizzo di qualche ora di straordinario. Queste misure, se già negoziate con i lavoratori e le parti sociali, richiedono un costo e un tempo di attuazione limitati. Oltre un certo range di variazione, tuttavia, vi è una discontinuità nei costi di adeguamento, in quanto si rendono necessarie nuove risorse, nuove competenze, nuove tecnologie (ad esempio è necessario assumere nuovi addetti o predisporre nuova capacità produttiva nel caso di variazioni della domanda superiori alla capacità disponibile). Il concetto aggregato di flessibilità rimane troppo generico e richiede di essere scomposto in tre aspetti, come suggerito dalla Figura 5.6: • la flessibilità in piccolo ovvero flessibilità a piccole variazioni della domanda; • la flessibilità in grande ovvero flessibilità a grandi variazioni della domanda; • e il range di variazione entro il quale i tempi/costi si mantengono relativamente limitati, ovvero oltre il quale è necessario passare dalla flessibilità in piccolo a quella in grande. Alcuni esempi di misure di flessibilità sono riportate in Tabella 5.4.

5.6

La gestione dei trade-off tra prestazioni Un processo è dunque caratterizzato da una pluralità di prestazioni. Non sempre un’azione volta al miglioramento di una dimensione consente di migliorare o anche solo lasciare invariati gli altri risultati. Anzi, più facilmente, al miglioramento di una performance corrisponde il peggioramento di qualche altra. Consideriamo a tal proposito l’esempio riportato nel Caso 5.3.

5. I processi aziendali ) 135

CASO

5.3

ATL: trade-off tra prestazioni ATL è un’azienda di trasporti pubblici locali che opera in Germania, in un bacino metropolitano di quasi un milione e mezzo di abitanti e con un flusso giornaliero di seicentomila pendolari. ATL fornisce servizi di trasporto con un sistema multimodale di autobus, tram e treni metropolitani. Uno dei processi chiave dell’azienda è la manutenzione, sia quella programmata sia quella “a guasto”. Entrambe vengono svolte da strutture di manutenzione dislocate nei diversi depositi cittadini, che operano con squadre di operai altamente specializzati sia sulle tipologie di mezzo sia sulle diverse parti del veicolo (motore, parti elettriche, sistemi frenanti ecc). In passato il processo di manutenzione di ATL aveva livelli di prestazione non soddisfacenti. Un’analisi di benchmarking effettuata nel 2000 aveva evidenziato un esubero di personale dedicato all’attività di manutenzione di circa il 20% rispetto ad altre aziende di trasporto locale con dimensioni simili. Nonostante ciò, il tasso di disponibilità dei mezzi (ovvero la percentuale di veicoli disponibili, perché non guasti o in manutenzione, sul totale) risultava piuttosto basso rispetto alla media del settore. ATL avviò dunque un progetto di miglioramento del processo di manutenzione che prevedeva il ripensamento del sistema di pianificazione delle attività grazie soprattutto a un maggior grado di automazione e di controllo del processo. In passato veniva definito un piano di lavoro giornaliero delle attività di manutenzione programmata per ogni squadra, mentre lo scheduling di dettaglio e l’allocazione delle attività urgenti conseguenti a guasti verificatisi sui veicoli in servizio venivano effettuati “a vista”, con uno scarso controllo dei carichi, dei tempi di esecuzione delle manutenzioni e con frequenti interruzioni dell’attività. Il nuovo sistema consente invece una visibilità continua delle attività svolte da ciascuna squadra e permette dunque di allocare le manutenzioni urgenti con criteri più razionali. Il risultato di questo progetto ha portato a ridurre i tempi e, nel contempo, a migliorare la qualità della manutenzione (a seguito delle minori interruzioni del lavoro). I tassi di disponibilità dei mezzi sono saliti e sono ora in linea con i valori delle migliori aziende. Il nuovo sistema ha anche prodotto una maggiore efficienza dell’attività di manutenzione, grazie al minor numero di interruzioni e alla migliore distribuzione dei carichi di lavoro. L’esubero di manodopera, benché ridotto, rimane tuttavia un problema. Ridurre ulteriormente il numero di persone dedicate alle attività di manutenzione significherebbe tornare a peggiorare i risultati in termini di tempi e qualità. D’altra parte la forte pressione sulla riduzione dei costi necessaria per avere risultati di bilancio positivi richiede all’azienda di aumentare l’efficienza del personale. ATL si trova davanti a un trade-off tra efficienza della manodopera e disponibilità dei mezzi.

Figura 5.7

I MIGLIORAMENTI DI PRESTAZIONE DI ATL Efficienza MdO ATL2

ATL1 ATL0 Trade-off1

Trade-off2

Tasso di disponibilità dei mezzi

136 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Dalla gestione al miglioramento dei trade-off

Figura 5.8

Il caso di ATL esemplifica un classico trade-off di prestazioni in un processo, tra efficienza, in questo caso della manodopera, ed efficacia, in questo caso misurata con il tasso di disponibilità dei mezzi. L’analisi delle prestazioni di un processo richiede dunque l’individuazione dei trade-off e la loro corretta gestione. Nel caso ATL, l’azienda ha operato un primo intervento, che in realtà ha permesso un miglioramento sia della produttività della manodopera, sia dei tempi e della qualità di manutenzione (passaggio da ATL0 ad ATL1 in Figura 5.7). Ciò è stato possibile perché ATL si trovava in una situazione subottimale, ovvero rispetto ad altre aziende del settore otteneva risultati peggiori con un maggiore impiego di risorse. È dunque possibile individuare, almeno dal punto di vista concettuale, una curva di trade-off, ovvero il luogo dei punti di ottimo ammissibili dalle tecnologie, conoscenze e modalità di gestione correnti (casi A, B e C in Figura 5.8). Un processo si può trovare in condizione di subottimalità (caso D in figura). Dunque nella gestione dei trade-off occorre innanzitutto verificare che il processo si posizioni sulla curva di trade-off e non al di sotto. In secondo luogo, occorre verificare che il processo si collochi in un punto della curva che sia coerente con le priorità e i fattori critici di successo dell’azienda. Sebbene A, B e C (Figura 5.8) siano tutti punti “ottimali”, ciascuno di questi è più o meno coerente con la strategia dell’azienda in cui il processo si colloca. Nel caso di ATL la forte pressione sui costi indica una priorità maggiore sugli aspetti di efficienza piuttosto che sull’efficacia: è dunque probabile che l’intervento di miglioramento attuato dall’azienda avrebbe dovuto essere indirizzato soprattutto a ridurre il numero di risorse, più che a migliorare i tassi di disponibilità dei mezzi. In contesti competitivi, dinamici e aperti all’innovazione, la gestione dei trade-off non è però sufficiente per ottenere risultati di eccellenza. Nuove tecnologie e riprogettazione organizzativa possono consentire di collocare il processo su curve di trade-off più “alte”, in posizioni teoricamente irraggiungibili con le tecnologie, conoscenze e modalità di gestione correnti (casi B’, B’’ e B’’’ in Figura 5.8). Un esempio di spostamento delle curve di trade-off a seguito dell’introDALLA GESTIONE DEI TRADE-OFF DI PRESTAZIONE AL MIGLIORAMENTO

Efficienza

Efficienza B' E

A

A

B''

B

B''' B

D C Efficacia

C Efficacia

5. I processi aziendali ) 137

duzione di nuove modalità di gestione è quello consentito dall’introduzione di tecniche di produzione just-in-time (si rimanda in proposito al Caso 6.1 e al capitolo 16), che migliorano il livello di servizio offerto al cliente, in termini di puntualità e rapidità di consegna, e nel contempo riducono i livelli di scorta e, di conseguenza, il costo, mentre aumenta l’efficienza del processo produttivo. Si tratta di una “rivoluzione” nel modo di affrontare il concetto di trade-off: la forma mentis del manager deve evolvere verso la ricerca continua degli spazi di miglioramento dei trade-off correnti, oltre la semplice consapevolezza che i trade-off esistono e vanno gestiti. Nel caso ATL il processo di manutenzione può essere portato su curve di trade-off più elevate, ad esempio ridefinendo il livello di specializzazione delle risorse e delle squadre, in modo da renderle più flessibili e fungibili rispetto ai diversi tipi di manutenzione necessari, o anche attraverso la riduzione di attività di manutenzione non necessarie e la semplificazione dell’attività di diagnosi grazie alle nuove tecnologie di telerilevamento dello stato di funzionalità dei mezzi. In Figura 5.7 ciò corrisponderebbe a un passaggio dal punto ATL1 al punto ATL2. Nel paragrafo 5.8 verranno discusse più nel dettaglio le logiche di miglioramento dei processi che possono portare a significativi miglioramenti dei trade-off nelle prestazioni.

5.7

Processi che “tagliano” le strutture

L’azienda orientata ai processi Riprendiamo in esame la gestione dei resi di Biolchi (Caso 5.2). È un processo relativamente semplice e di ampiezza limitata, gestito da un’unità organizzativa, l’Ufficio resi, dedicata a queste attività. Tuttavia, si tratta di un processo interfunzionale che attraversa numerose unità organizzative, sia interne che esterne all’azienda (Figura 5.9). Più in generale, possiamo osservare che i processi aziendali sono in larga misura trasversali alle strutture organizzative, indipendentemente dal fatto che la struttura sia funzionale o divisionale. I processi chiave individuati da Cobra (Caso 5.1) intersecano la struttura organizzativa. Alcuni processi sono trasversali alle diverse unità funzionali: ad esempio il processo di Feasibility coinvolge risorse di più funzioni, dalle business unit (in particolare la Business Unit OE) alla Direzione tecnica, al Controllo di gestione per l’analisi dei costi, al Program management per la verifica dei carichi di lavoro ecc. Altri processi sono trasversali alle diverse business unit, nonostante queste siano strutturalmente orientate agli output: ad esempio il processo di Strategic Planning and Controlling richiede la partecipazione delle diverse business unit per poter stendere il piano strategico annuale anche sulla base delle analisi di mercato e delle opportunità emerse nei diversi settori. Dunque i processi tagliano trasversalmente non solo le strutture funzionali, ma anche quelle divisionali. Proprio per questo la loro integrazione risulta limitata in strutture organizzative tradizionali, e l’ottimizzazione globale delle prestazioni e del tradeoff è difficile da perseguire.

138 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Figura 5.9

FLOW CHART FUNZIONALE DEL PROCESSO DI GESTIONE DEI RESI DI BIOLCHI

Gestione resi Ufficio resi

Magazzino

Trasportatore

Ufficio commerciale

Ufficio Spedizioni

Ufficio qualità

Richiesta ritiro reso da cliente

Ricevimento reso tramite spedizione

Ritiro reso presso cliente

Trasferimento resi a Ufficio Resi

Verifica completezza info

Info complete?

Richiesta completamento info

No



Classificazione resi

Predisposizione ordine consegne sostituzione

Non conformità formale o danneggiamento

No (malfunzionamento) Ispezione



Inserimento info qualità

Prodotto riparabile? Sì Riparazione

Comunicazione a ente responsabile

No Scarto prodotto

Inserimento info qualità

Chiusura pratica reso

Consegna prodotto a cliente

5. I processi aziendali ) 139

Obiettivi funzionali e divisionali

Prima di analizzare in maggior dettaglio quali leve si utilizzano per ottenere un orientamento ai processi è però importante comprendere meglio la differenza tra una gestione aziendale orientata alle strutture (siano esse funzionali o divisionali) e una gestione orientata ai processi. Mentre la prima si concentra sull’efficienza locale delle singole unità organizzative, la seconda è costantemente tesa all’efficienza e all’efficacia complessiva, al miglioramento dei trade-off e alla soddisfazione del cliente (Drucker, 1999), anche a scapito dell’ottimizzazione locale. La gestione per processi si sovrappone alla progettazione della struttura organizzativa, non la sostituisce. In molti casi infatti gli obiettivi di efficienza che hanno ispirato la progettazione della macrostruttura mantengono una forte rilevanza. Come abbiamo visto nel capitolo 4, gli obiettivi fondamentali che sono connaturati alle strutture funzionali sono l’efficienza nell’utilizzo delle risorse e, sempre più frequentemente, il presidio e lo sviluppo delle competenze specialistiche contenute nelle funzioni (le conoscenze di una determinata tecnologica, la capacità di lettura e analisi di un mercato ecc.). Nelle strutture divisionali gli obiettivi per così dire “naturali” sono tipicamente la risposta efficace e rapida a specifici cambiamenti del mercato e dei clienti, e il presidio dei singoli prodotti/servizi. Rispetto a questi obiettivi, i processi mirano a “colmare gli spazi bianchi nell’organigramma” (Rummler e Brache, 1990), reintegrare i flussi spezzati dalle barriere strutturali e in questo modo garantire i risultati per il cliente. È dunque necessario comprendere come avvenga questa sovrapposizione tra processi e strutture organizzative, ovvero come queste due dimensioni si debbano relazionare in un’impresa in cui entrambe abbiano rilevanza strategica. I compiti manageriali connessi con la dimensione processo sono orientati all’efficienza e all’efficacia nel soddisfare il cliente (cfr. Figura 5.5). Essi dunque riguardano: • il deployment degli obiettivi generali dell’impresa in obiettivi specifici e il monitoraggio delle prestazioni per ciascun processo chiave; • il (ri)disegno del processo e l’ottimizzazione dei flussi e delle interdipendenze tra le attività, al fine di garantire i target di prestazione definiti; • la definizione di politiche, procedure e standard per lo svolgimento e la gestione dei processi; • il miglioramento continuo delle modalità attuative e gestionali del processo. D’altro canto, gli obiettivi principali che la struttura si pone sono l’efficienza delle risorse inquadrate nelle diverse unità organizzative (funzioni o divisioni a seconda della configurazione organizzativa adottata dall’impresa) e il presidio delle competenze specifiche in esse contenute. I compiti manageriali associabili alla dimensione struttura sono dunque:

140 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

• la definizione del contributo fornito dalle unità organizzative ai processi in termini di risorse e competenze; • la valutazione delle risorse sulla base del contributo fornito ai processi; • la gestione dei percorsi di carriera delle risorse; • la gestione delle competenze funzionali o di mercato; • la gestione e miglioramento continuo delle metodologie e degli strumenti specialistici, soprattutto nel caso di strutture funzionali. Controllare il lavoro vs. gestire le persone

La gestione per processi

La contemporanea gestione dei processi e della struttura organizzativa richiede dunque una revisione e ridistribuzione dei compiti manageriali e delle responsabilità tra le due dimensioni. Hammer e Stanton (1999) sintetizzano questa idea nella divisione tra il controllo del lavoro (per la dimensione dei processi) e la gestione delle persone che svolgono il lavoro (per le strutture). Questa divisione di ruoli richiede una negoziazione tra i responsabili di ciascuna dimensione al fine di attribuire correttamente gli obiettivi alle risorse ed evitare di fornire indicazioni e direzioni discordanti, un po’ come avviene in una struttura a matrice (capitolo 4). Duke Power è un’utility basata in North Carolina (USA) e specializzata nell’erogazione di energia elettrica nella maggior parte degli stati della costa orientale. Al fine di chiarire gli obiettivi delle diverse parti dell’organizzazione, ha introdotto una “decision rights matrix” che incrocia le responsabilità dei process owner e dei vicepresidenti regionali che sono a capo delle strutture organizzative locali. La matrice definisce i ruoli dei manager e le decisioni su cui ciascuno è responsabile (Hammer e Stanton, 1999). Ritorniamo ora al problema di individuare le modalità attraverso le quali orientare la gestione di un’azienda ai processi. Come si può procedere? Già la presenza di ruoli di coordinamento e meccanismi di integrazione tra unità organizzative persegue in parte questo obiettivo. Ma questo spesso non basta, poiché gli obiettivi di integrazione attribuiti a questi ruoli sono spesso limitati e riguardano problematiche specifiche. È possibile invece individuare un insieme di interventi che vanno sotto il nome di gestione per processi (process management) volti a coordinare e integrare le attività lungo i flussi fisici e informativi necessari per l’ottenimento degli output. Già nei contributi seminali di Hammer e Champy (1993) e Davenport (1993) venivano delineate alcune “ricette” per ridisegnare e reintegrare i processi. Dietro ciascuna di queste proposte è possibile individuare alcuni principi generali, che sono stati ad esempio schematizzati, tra gli altri, da Bartezzaghi, Spina e Verganti (1999) e Bartezzaghi (2010). Le leve a disposizione, benché molto spesso integrate tra loro, possono essere distinte in base alla loro natura in: • leve organizzative, • leve gestionali, • leve tecnologiche.

5. I processi aziendali ) 141

Tabella 5.5

LEVE ORGANIZZATIVE, GESTIONALI E TECNOLOGICHE PER L’AZIENDA ORIENTATA AI PROCESSI

Leve organizzative • • • •

Introduzione dei process owner Job redesign Delega decisionale Riorganizzazione degli staff e delle attività di supporto • Lean organisation

Leve gestionali • Sviluppo di un sistema di gestione per processi • Attivazione di catene clienti-fornitori • Bilanciamento tra logiche pull e push nella gestione dei processi

Leve tecnologiche • Tecnologie di supporto ai meccanismi di coordinamento • Tecnologie di supporto al controllo • Tecnologie di supporto alla gestione della conoscenza

Fonte: adattato da Bartezzaghi, Spina e Verganti (1999).

La Tabella 5.5 riassume le principali leve per l’azienda orientata ai processi, articolandole in queste tre categorie. Occorre sottolineare come un requisito fondamentale per introdurre con successo questi principi consista in un cambiamento culturale significativo di tutta l’impresa e delle persone che la gestiscono e che vi operano. Si tratta infatti di spostare, in modo pervasivo, l’attenzione dei manager e delle risorse dalle strutture ai processi, e lavorare costantemente al fine di soddisfare il proprio cliente diretto e, attraverso questo, il cliente finale dell’azienda. Il passaggio da una logica tradizionale a una per processi è un cambiamento culturale spesso difficile che richiede più tempo rispetto ai cambiamenti formali dell’organizzazione sulla carta. Fra le diverse leve di gestione dei processi, il ruolo delle tecnologie appare senz’altro fondamentale. La nascita stessa del reengineering movement è da collegare alle opportunità offerte dalle ICT per migliorare i processi aziendali (Davenport, 1993). Come dato di fatto molti interventi di riprogettazione dei processi (Business Process Re-engineering, BPR) si configurano anzitutto come investimenti in nuovi sistemi informativi, che “obbligano” l’azienda a modificare i suoi processi interni e le modalità con cui essa interagisce con i suoi clienti e i suoi fornitori. È il caso ad esempio degli Enterprise Resource Planning (ERP), sistemi informativi modulari e integrati per la gestione dei processi aziendali. Gli aspetti chiave dei sistemi ERP sono l’unicità dell’informazione, grazie alla presenza di un database unico, la modularità e la prescrittività dei modelli di processo. La tecnologia ha anche un ruolo fondamentale nel supportare più in generale i sistemi di gestione per processi attraverso i cosiddetti Business Process Management Systems, ovvero tool di supporto alla modellizzazione dei processi, alla misura delle prestazioni, alla simulazione di nuove logiche di gestione e così via. Tuttavia, la tecnologia da sola non può risolvere i problemi organizzativi e gestionali. È un fattore abilitante ma non esclusivo. L’azienda orientata ai processi deve saper dosare tecnologia, organizzazione e gestione. In particolare, è stato osservato come i miglioramenti po-

142 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

tenziali delle ICT siano strettamente legati all’ampiezza di trasformazione del business effettuata in concomitanza (Venkatraman, 1991). Coerentemente con il taglio di questo libro, dedichiamo maggiore approfondimento alle leve organizzative (paragrafo 5.8) che portano a quella che nell’ambito della gestione per processi viene più propriamente definita l’organizzazione per processi. Le leve gestionali sono brevemente sintetizzate nel paragrafo 5.9. Il ruolo della tecnologia è invece ampiamente ripreso nel capitolo 6.

5.8

Le leve organizzative: l’organizzazione per processi Le leve organizzative della gestione per processi possono essere ricondotte a: • • • • •

5.8.1

Non solo multinazionali

introduzione dei process owner; job redesign; delega decisionale; riorganizzazione degli staff e delle attività di supporto; lean organisation.

Introduzione dei process owner Una leva fondamentale per presidiare il raggiungimento degli obiettivi di processo consiste nell’individuazione di un responsabile di processo, o process owner, una figura che si faccia carico del processo e ne presidi l’efficacia e l’efficienza. Egli diviene responsabile nei confronti del cliente – esterno o interno – dell’output e delle prestazioni realizzate. Il process owner opera trasversalmente alle unità organizzative coinvolte e incarna quelli che sono i compiti manageriali tipici della gestione dei processi (si veda paragrafo 5.7). Queste figure sono già state introdotte non solo dalle imprese multinazionali, ma anche da quelle di media dimensione, particolarmente innovative sotto il profilo organizzativo. Ad esempio, Snaidero ha cambiato l’organizzazione individuando gli owner dei principali processi di business, introducendo i gruppi di lavoro e le logiche di servizio tra clienti e fornitori interni (cfr. Tonchia, Tramontano e Turchini, 2003). In termini generali, i compiti tipici del process owner sono: • definire gli obiettivi del processo a partire dagli obiettivi di soddisfazione del cliente esterno, individuare le misure di prestazione e i target da raggiungere, misurare e controllare costantemente le prestazioni del processo; • “progettare” il processo per garantire i risultati auspicati, ovvero definire il flusso ottimale e le politiche migliori per la gestione delle interdipendenze tra le attività, disegnare procedure e standard, formare le risorse sulle modalità di lavoro del processo;

5. I processi aziendali ) 143

• coordinare e motivare le risorse e le unità organizzative che partecipano al processo rispetto agli obiettivi e ai target definiti; • promuovere il miglioramento continuo del processo.

Autorevolezza vs. autorità formale

Leadership e capacità di mediazione

Scegliere persone autorevoli

Tutti questi sono compiti non facili da mettere in atto per una figura che opera fuori dalle linee gerarchiche “ufficiali”. Infatti, il process owner tipicamente non è il capo, inteso come responsabile gerarchico delle risorse che si trova a coordinare: queste continuano a rispondere al loro capo di funzione o di divisione. Il process owner deve pertanto essere capace di mediare, convincere, incentivare i comportamenti coerenti con gli obiettivi del processo, senza avere il potere di imporli, se non sostituendo l’autorevolezza all’autorità formale. L’efficacia del process owner dipende dalla sua capacità di negoziare con i responsabili di struttura gli obiettivi che le risorse devono perseguire e i contributi che devono fornire al processo. In questo senso, la sua autorevolezza deve essere riconosciuta non solo da chi opera nel processo, ma anche dai manager che governano le funzioni e le divisioni aziendali. In altri casi il process owner ha un’autorità almeno parziale sulle risorse. Questo accade quando la dimensione dei processi prevale almeno temporaneamente rispetto a quella strutturale, ad esempio nell’ambito di un progetto (che è un processo). Si pensi ad esempio a una società di consulenza che assegna ai progetti presso il cliente le risorse di dipartimenti diversi o di filiali territoriali diverse (attività di staffing). Non appena un progetto termina, le risorse si rendono disponibili e vengono riallocate su nuovi progetti. Nonostante in queste situazioni il ruolo del process owner sia più forte, emergono in ogni caso difficoltà e problemi di gestione perché questo soggetto opera in corresponsabilità con i capi funzionali e le risorse sono soggette a una doppia linea gerarchica, situazione che porta ai problemi tipici delle strutture a matrice (capitolo 4). Il ruolo del process owner è dunque complicato e richiede capacità relazionali e di leadership. Esso viene generalmente attribuito a figure che ricoprono già altre posizioni in azienda e che già godono di autorevolezza e prestigio. In questo senso si distingue rispetto ai ruoli di collegamento o ai manager integratori, discussi nel capitolo 4. È importante analizzare come vengono generalmente scelti i process owner: nel caso Cobra (Caso 5.1), essi sono stati scelti tra i manager della prima linea gerarchica, responsabili di funzioni o di business unit, tipicamente nell’unità organizzativa più coinvolta e centrale rispetto al processo. In IBM i processi sono assegnati a un “business process executive”, scelto tra i manager di primo livello in azienda (Hammer e Stanton, 1999). Questa scelta, molto comune, ha alcuni vantaggi importanti: • la posizione gerarchica del process owner garantisce in parte prestigio e autorevolezza nei confronti sia delle risorse da coordinare, sia degli altri manager con cui deve negoziare gli obiettivi e i risultati da raggiungere;

144 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

• l’elevato profilo dei manager consente anche di dare rilevanza alla dimensione di processo rispetto alla gerarchia verticale dell’impresa, aspetto importante nel momento in cui occorre spingere le nuove logiche organizzative; • l’eventuale competenza tecnica che gli deriva dalla gestione della funzione o della business unit consente un miglior presidio delle attività del processo che è prevalentemente (ma non esclusivamente) incentrato sull’unità organizzativa da cui il process owner proviene. Il maggiore problema di questa scelta sta nella potenziale confusione che può derivare dal fatto che una stessa persona opera con due “cappelli” diversi, a volte come responsabile di processo, a volte come responsabile di unità organizzativa. Alcune alternative a questa soluzione sono le seguenti:

Figure “super partes”

Famiglie di processi e processi specifici

• individuazione di figure in posizioni più basse nella gerarchia dell’unità organizzativa più coinvolta nel processo: avranno minore autorevolezza e potere negoziale con i manager di struttura, ma presidieranno meglio gli obiettivi specifici di processo; • individuazione di figure nelle funzioni di staff, tipicamente nelle funzioni di Organizzazione, Risorse umane o Qualità, cui venga attribuita la responsabilità dei processi chiave. Osram ad esempio ha operato una scelta simile nel suo vasto progetto di organizzazione per processi. In questi casi i process owner avranno competenze “metodologiche” forti sulla gestione dei processi e un ruolo super partes, più adeguato alla risoluzione di eventuali conflitti, ma saranno sentiti come esterni e talvolta “intrusi” da chi opera nei processi; • in alcuni casi può essere addirittura il vertice aziendale a ricoprire il ruolo di owner. Ciò è possibile in aziende di piccola o media dimensione, e quando il presidio dei processi può essere “leggero” e sintetico. Ad esempio il Direttore generale, nel suo cruscotto direzionale (balanced scorecard), può avere alcuni indicatori sintetici per i processi chiave, oltre agli indicatori complessivi del funzionamento dell’azienda, e intervenire sono nel caso in cui i target non vengano raggiunti. I process owner possono dunque assumere ruoli con valenze, ampiezze e profondità diverse a seconda dei modelli organizzativi adottati e dei processi considerati. In sintesi possiamo riconoscere due profili: il process owner strategico che ha una responsabilità globale e continuativa sul processo in tutte le sue varianti e il process owner operativo, ovvero una figura che, più che presidiare strategicamente l’intero processo, è responsabile del buon fine del singolo attraversamento del processo. Gli è affidata una singola istanza di processo ed egli deve portarla a termine secondo i target di prestazione definiti per il processo nel suo complesso. Le differenze tra le due figure sono riassunte in Tabella 5.6.

5. I processi aziendali ) 145

Tabella 5.6

DIFFERENZE TRA PROCESS OWNER STRATEGICO E OPERATIVO

Process owner strategico

Process owner operativo

Responsabile di fronte al cliente e al vertice aziendale Responsabile di fronte al cliente e al process owner delle prestazioni medie del processo e dunque strategico delle prestazioni puntuali del singolo di tutti i singoli attraversamenti (istanze) attraversamento (istanza) Valuta le prestazioni e propone miglioramenti strutturali al processo

Valuta le prestazioni e propone azioni correttive per il singolo attraversamento

Ha competenze di progettazione e gestione dei flussi del processo

Ha competenze prevalentemente relazionali e di leadership (analisi, mediazione, motivazione)

Normalmente appartiene alla funzione maggiormente Normalmente appartiene alla funzione maggiormente coinvolta con ruoli manageriali elevati coinvolta con ruoli operativi

Per comprendere la differenza possiamo fare riferimento ad esempio al process owner strategico e a quello operativo di un processo di sviluppo prodotti. Il primo definisce gli obiettivi complessivi del processo – in termini di tempi di sviluppo, livello di innovatività, costi e produttività delle risorse coinvolte, qualità dei progetti ecc. –, disegna le principali fasi e attività del processo e le modalità di coordinamento e integrazione da utilizzare, definisce procedure, regole e norme, progetta metodologie specifiche di gestione dei progetti. Il process owner operativo sarà invece il responsabile del singolo progetto di sviluppo del prodotto (anche chiamato project manager), ovvero responsabile delle prestazioni di costo, tempo e qualità e responsabile dell’applicazione delle norme, procedure e politiche di gestione disegnate dal process owner strategico. Ad esempio, nel settore automobilistico il process owner strategico del processo di sviluppo sarà il capo dell’intera area tecnica, mentre il process owner operativo sarà tipicamente il capo-progetto per lo sviluppo di un singolo modello o piattaforma di prodotto. Il box seguente mostra alcuni esempi di applicazione dei process owner operativi in settori diversi.

I process owner operativi Il responsabile del procedimento Si tratta di una figura introdotta da qualche anno nella pubblica amministrazione (L. 7 agosto 1990, n. 241), che ha l’obiettivo di seguire la singola pratica amministrativa (o procedimento) affinché vada a buon fine. Il responsabile del procedimento si occupa in particolare di istruire la pratica, degli adempimenti previsti dal procedimento, di adottare il provvedimento finale e di gestire la comunicazione e i rapporti con il “cliente”. Ad esempio, nel caso di un accertamento fiscale, il contribuente ha visibilità fin dalla prima comunicazione del responsabile del procedimento che seguirà tutta la pratica, richiedendo i documenti necessa-

146 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE ri, coordinando lo scambio di informazioni tra i diversi uffici coinvolti e gestendo tutte le comunicazioni con il contribuente, incluso l’esito finale dell’accertamento. Il gestore di commessa Nei processi produttivi e logistici il process owner operativo assume spesso la forma del gestore di commessa, che si fa carico di seguire una singola commessa, di rispettare le date di consegna e di verificare la corrispondenza ai requisiti definiti dal cliente. Questa figura è ad esempio responsabile di presidiare le forniture o la produzione, l’assemblaggio, i collaudi, la consegna ed eventualmente l’installazione presso il cliente, fino alla chiusura della transazione con quest’ultimo. Il case manager Nei processi di servizio al cliente, per esempio nell’assistenza post-vendita in un’azienda industriale o in processi di erogazione nelle aziende di servizio, molte imprese utilizzano la figura del case manager, cioè un responsabile unico al quale il cliente si rivolge e che presidia per l’appunto il singolo “caso” e lo segue dall’inizio alla fine senza scaricarlo su qualcun altro, e costringere il cliente a rimbalzare tra mille responsabilità e competenze. Ovviamente egli deve avere capacità e competenze per risolvere i problemi che si presentano o, perlomeno, deve sapere chi può contribuire a risolverli.

Nei casi descritti il process owner operativo ha anche un ruolo esecutivo, fino ad assommare nella sua mansione molti dei compiti necessari per portare a termine il processo, escludendo prevalentemente quelle attività che richiedono competenze specialistiche. Si veda a questo proposito il Caso 5.4.

CASO

5.4

Di.Me.: i gestori di commessa La Di.Me è una piccola officina meccanica che produce sottoassiemi per le macchine automatiche di imballaggio. I suoi clienti sono principalmente due, una grande multinazionale operante nel settore del packaging e il costruttore di macchine per l’imballaggio leader in Italia. I prodotti realizzati per i due clienti sono molto diversi e richiedono competenze e tecnologie di assemblaggio diverse. Nonostante questo, essi sono assemblati nello stesso reparto. Per ogni nuovo modulo da produrre, l’Ufficio tecnico della Di.Me. riceveva i disegni dal cliente, progettava i cicli di lavorazione e assemblaggio per realizzare i moduli e preparava un preventivo. Sulla base di questo, l’Ufficio vendite negoziava e stipulava un ordine aperto con il cliente, in cui veniva specificata una quantità annua di moduli e le condizioni di fornitura. Successivamente, il cliente emetteva ordini di consegna mensilmente o anche settimanalmente. Tali ordini, in cui venivano specificate la quantità da consegnare in ciascun periodo e la data di consegna richiesta, erano raccolti dall’Ufficio vendite. A fronte di questi ordini di consegna, il responsabile della programmazione della produzione emetteva un ordine di produzione che veniva passato al caporeparto, il quale schedulava giornalmente il lavoro degli operai. Il responsabile della programmazione della produzione inoltrava anche la richiesta dei materiali all’Ufficio acquisti, che verificavano la disponibilità a magazzino, interpellando il magazziniere, ed eventualmente emetteva ordini di approvvigionamento per i mate-

5. I processi aziendali ) 147 riali mancanti. Qualche giorno prima della data di consegna prevista, il cliente contattava il venditore per avere informazioni sullo stato di avanzamento della commessa. Il venditore contattava l’ufficio programmazione della produzione, il quale richiedeva l’informazione al caporeparto. Se la produzione era in ritardo rispetto ai piani previsti, il programmatore della produzione contattava a sua volta il cliente per richiedere un posticipo dei termini di consegna. All’atto della consegna, i dati relativi all’ordine venivano passati all’amministrazione per l’emissione della fattura. Il processo di gestione dell’ordine appariva dunque altamente frammentato e le sue prestazioni erano insoddisfacenti: i ritardi delle consegne erano frequenti, il cliente non era informato sullo stato di avanzamento della commessa e anche i livelli di qualità non erano sempre allineati con le aspettative del cliente. Per ovviare a questi problemi, la Di.Me. ha recentemente introdotto la figura dei gestori di commessa. Scelte nell’ufficio programmazione della produzione, queste figure monitorano l’intero ciclo dell’ordine e ne sono responsabili di fronte al cliente. Il gestore di commessa, a fronte di un ordine di consegna, si preoccuperà di emettere gli ordini di produzione che verranno schedulati dal caporeparto. Anche la verifica della disponibilità dei materiali in magazzino e l’eventuale emissione degli ordini di approvvigionamento viene direttamente seguita dal gestore di commessa, grazie a un nuovo sistema informativo che rende disponibili le informazioni necessarie. Il gestore di commessa diviene anche il referente rispetto al cliente per le informazioni sullo stato di avanzamento della commessa e per la comunicazione di eventuali spostamenti delle date di consegna. Di nuovo, la visibilità sullo stato di avanzamento della commessa è resa possibile dalla migliore integrazione delle informazioni.

5.8.2

Ridurre la specializzazione orizzontale

Ridurre la specializzazione verticale

Riprogettazione delle mansioni (job redesign) I problemi di coordinamento e di integrazione dei processi aziendali derivano da scelte organizzative volte a dividere il lavoro, specializzando le attività svolte dalle singole persone o unità organizzative. L’ottimizzazione delle performance di un processo estremamente parcellizzato, in cui ogni singola attività od operazione è svolta da una persona o un ufficio diverso, risulterà assai più difficile rispetto al caso di un processo in cui poche persone svolgono la gran parte delle attività collegate tra loro. Una leva fondamentale per la gestione dei processi è dunque il ridisegno dei compiti e delle mansioni – job redesign – con l’obiettivo di ridurre il livello di specializzazione orizzontale affidando a singole posizioni intere fasi del processo, o anche tutto il suo insieme qualora questo non sia troppo complesso o non richieda competenze specialistiche diversificate (job enlargement, cfr. capitolo 3). Ad esempio, nel caso ATL le mansioni degli addetti alla manutenzione possono essere allargate in modo da comprendere parti più ampie dell’intero processo di manutenzione, limitando in questo modo i problemi di coordinamento e pianificazione legati alla necessità di far manutenere uno stesso mezzo da più squadre. La frammentazione può essere anche causata dal fatto che chi opera nel processo svolge compiti meramente esecutivi, mentre il controllo e le decisioni vengono prese da soggetti diversi. Questo fenomeno – che abbiamo chiamato di specializzazione verticale – comporta anch’esso

148 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Reintegrare il processo con i gruppi di lavoro

problemi di integrazione, lunghi tempi decisionali, prestazioni di processo non ottimali. Dunque il ridisegno dei compiti in ottica di processo richiede spesso anche di arricchire le mansioni, ovvero di attribuire responsabilità e mansioni gestionali a chi opera nei processi (job enrichment, cfr. capitolo 3). In riferimento ai processi produttivi, le tecniche di job enrichment portano, per esempio, a un ruolo operaio responsabilizzato non solo sull’esecuzione di un insieme più o meno ampio di compiti, ma anche sul controllo dei risultati – per esempio, della qualità, dei tempi e dei costi – sul monitoraggio delle tecnologie delle macchine e dei sistemi che utilizza, sulla loro manutenzione (almeno quella di piccola entità), sull’attrezzaggio delle macchine e sull’autonoma risoluzione dei piccoli problemi che possono presentarsi. La figura del gestore di commessa descritta nel Caso 5.4 esemplifica il ridisegno dei compiti in ottica di processo. Da una situazione in cui gli addetti alla programmazione della produzione svolgevano compiti limitati e “gettavano la palla oltre il muro”, senza preoccuparsi più dell’esito dell’ordine del cliente, si è passati a un’organizzazione in cui il singolo addetto, divenuto gestore della commessa, svolge porzioni molto più ampie del processo, controllando lo stato di avanzamento dell’ordine e prendendo decisioni con un buon grado di autonomia per risolvere intoppi o problemi che ostacolano il fluire del processo. In questo modo vengono risolti a monte i problemi di integrazione e ridotti quindi i fabbisogni di coordinamento dei processi. Simili cambiamenti richiedono interventi sulle competenze delle persone anzitutto per allargarle: il gestore di commessa dovrà non solo emettere ordini di produzione, ma anche programmare la disponibilità dei materiali e interfacciarsi con il cliente, gestendone le richieste e i solleciti, il che richiederà conoscenze in parte nuove. Inoltre la maggiore responsabilità e managerialità del ruolo richiederanno capacità di analisi, decisione e mediazione, che occorrerà sviluppare nell’addetto-esecutore dell’organizzazione tradizionale. In alcuni casi la reintegrazione delle attività di un processo non è possibile in un’unica posizione organizzativa. Quando le attività sono molte ed eterogenee, un singolo individuo difficilmente può padroneggiare tutte le competenze necessarie. In alternativa, la responsabilità di intere fasi del processo o del processo stesso può essere affidata a un gruppo di lavoro (si veda il capitolo 3, paragrafo 3.4.1), in cui le persone ricoprono posizioni specializzate ma in modo più flessibile – spesso all’interno del gruppo viene utilizzata la job rotation – e in stretto contatto con chi esegue l’attività a monte e a valle rispetto alla propria. In questo modo lo spettro di competenze dominate dal team è superiore a quello del singolo per quanto polivalente egli possa essere. Questo fatto è ben esemplificato dai gruppi di lavoro introdotti nello stabilimento Heineken (cfr. Caso 3.5b). Ogni gruppo, responsabile di una linea di produzione, assomma al suo interno l’insieme delle competenze necessarie per svolgere il processo produttivo, incluse attività di supporto quali manutenzioni ordinarie, cambi formato e controlli di qualità. Anche nel settore dei servizi queste pratiche si vanno diffondendo. Cigna Corporation, una grande compagnia di as-

5. I processi aziendali ) 149

sicurazioni statunitense, ha introdotto gruppi di lavoro autogestiti con forte orientamento al cliente, ampliando le conoscenze e le responsabilità degli agenti e introducendo sistemi di misura delle performance di processo. La logica del teamwork viene introdotta anche nei processi di innovazione: Texas Instruments, ad esempio, ha introdotto team interfunzionali per la progettazione di nuovi prodotti dotati di forte autonomia decisionale e indipendenti dalle principali funzioni. A queste rimane la responsabilità sullo sviluppo delle competenze e sulla formazione delle persone. Come risultato il time-tomarket è stato ridotto di circa il 50% (cfr. Hammer e Stanton, 1999). L’integrazione del processo è facilitata dalla vicinanza fisica o virtuale (grazie alle nuove tecnologie), dalla comune responsabilità sugli obiettivi di processo e da meccanismi di adattamento reciproco. Oltre ai vantaggi appena ricordati, job enlargement, job enrichment e teamwork consentono ambienti di lavoro più motivanti e stimolano il contributo personale dei singoli. Non ci dilunghiamo qui nel descrivere questi aspetti positivi e le loro ragioni (rimandiamo per questo al capitolo 3). È però importante sottolineare come una maggiore motivazione e un contributo più ampio delle risorse generino circoli virtuosi nella gestione dei processi, in quanto l’ottimizzazione dei flussi e delle pratiche gestionali, e il conseguente miglioramento delle performance, passa necessariamente dal coinvolgimento attivo degli attori del processo, che più facilmente trovano soluzioni ai problemi e alle inefficienze.

5.8.3

La lentezza della burocrazia

Delega decisionale In assenza di delega decisionale le persone o i gruppi, pur esperti e dotati di competenze allargate, non assumeranno alcuna iniziativa autonoma per risolvere rapidamente gli eventuali problemi che insorgono nella gestione operativa; al contrario, ricorreranno sempre ai superiori, compromettendo la rapidità, la regolarità operativa e la flessibilità dei processi. È il problema tipico delle organizzazioni burocratiche, nelle quali il management intermedio è continuamente occupato a risolvere problemi che potrebbero essere facilmente affrontati e risolti a livello operativo. La delega decisionale è dunque un’altra leva fondamentale per rendere rapidi ed efficaci i processi. Essa consiste nell’attribuire responsabilità e autonomia decisionale a chi opera nel processo, e in particolare ai process owner operativi. Consideriamo ad esempio il caso di una società di assicurazioni che ha riprogettato le mansioni attribuite agli agenti: da puri venditori di prodotti assicurativi, senza grande visibilità sui processi di assunzione dei rischi che sottostanno alla stesura di una polizza, essi sono stati trasformati in case manager, ovvero responsabili della stipula delle polizze, dal momento della raccolta di tutte le informazioni sul cliente e sul tipo di rischio da assicurare alla firma del contratto. Tuttavia gli agenti devono richiedere, per tutte le polizze non standard, l’autorizzazione da parte dell’assuntore del preventivo preparato; inoltre

150 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Formare le competenze prima di delegare

5.8.4

Clienti interni e cultura di servizio

hanno margini di negoziazione limitati sul valore stabilito del premio. Questa mancanza di autonomia decisionale rende il processo di sottoscrizione della polizza lento e non sempre adeguato a soddisfare le aspettative del cliente. Viceversa, se gli agenti avessero la possibilità di stendere in autonomia il preventivo della polizza – pur nel rispetto dei parametri e delle politiche di copertura del rischio della società – e la possibilità di negoziare il valore del premio direttamente con il cliente, il processo potrebbe essere più rapido ed efficace. La National Vulcan, una società inglese specializzata nell’ispezione e assicurazione di impianti termici, compressori e ascensori ha introdotto la figura del “professionista assicurativo” che diventa interfaccia unica con il cliente per tutte le transazioni (preventivi, stipula delle assicurazioni, richieste di informazioni, rinnovo polizze, altri servizi associati). Di fatto si tratta di case manager per i quali si è sviluppato tutto il corredo di interventi di supporto: formazione, job rotation, job enlargement e job enrichment, supporto di un nuovo sistema informativo e, naturalmente, maggiore delega decisionale (cfr. Oriani, 1997). Anche da questo esempio risulta chiaro che introdurre la delega decisionale non sempre è facile. Per dotare le risorse delle competenze opportune è dunque necessario il cosiddetto empowerment, ovvero un percorso di formazione e aumento di competenze parallelo al processo di delega decisionale su aspetti e porzioni dei processi sempre più ampi. Tutto ciò rende la delega non solo formale, ma anche sostanziale. La delega decisionale richiede anche di modificare i modelli di management: il capo diventa leader, fornisce indirizzi e politiche generali, motiva le risorse e incentiva al raggiungimento degli obiettivi, fornisce strumenti e metodologie di supporto e non usa più la sola leva del comando e controllo. Infine, la delega ha un limite rispetto al livello di rischio e di rilevanza delle decisioni che devono essere prese nei processi operativi. Ritornando al caso della società di assicurazione, è chiaro che anche in un’organizzazione completamente orientata ai principi di gestione per processi alcuni tipi di polizze, su situazioni estremamente rischiose o in casi molto complessi, dovranno essere necessariamente approvate e sottoscritte dagli assuntori, che sono figure esperte nell’analisi dei rischi. In modo analogo, alcuni processi particolarmente critici devono prevedere forme di controllo che limitano l’autonomia degli operatori (questo succede ad esempio nelle banche o in tutte quelle situazioni in cui la gestione dei rischi operativi ha un impatto rilevante sui risultati dell’impresa).

Riorganizzazione degli staff e delle attività di supporto Le attività di supporto sono quelle che, in una struttura organizzativa tradizionale, non orientata ai processi, hanno spesso prestazioni insoddisfacenti. Ciò avviene perché spesso manca “cultura di servizio” nei confronti del cliente interno. In generale le imprese nelle economie avanzate non possono permettersi di trascurare la soddisfazione del cliente esterno. Sono invece relativamente poche le organizzazio-

5. I processi aziendali ) 151

ni che riconoscono esplicitamente l’importanza di soddisfare il cliente interno attraverso processi di supporto efficienti ed efficaci. Collegata a questo aspetto vi è poi la difficoltà di riconoscere il valore per il cliente finale creato dai processi di supporto; questo è vero quanto più questi sono lontani dai processi primari. Ad esempio, laddove le attività di supporto vengono accentrate in unità di staff centrali, comuni a tutta l’organizzazione (si veda ad esempio il caso IBM o UniCredit nel capitolo 4), i processi di supporto rischiano il progressivo straniamento dai processi primari. Lontane dall’operatività del business e dalle esigenze del mercato, le unità di staff si organizzano secondo logiche proprie e spesso perdono di vista i clienti interni. I processi di supporto divengono lenti, costosi e poco efficaci, producendo così output che non sempre sono richiesti. Un’altra conseguenza della centralizzazione delle attività di supporto è la progressiva burocratizzazione, attraverso la definizione di procedure e la standardizzazione dei processi. Questo certamente risponde a esigenze di razionalizzazione, ma spesso si salda perversamente allo straniamento dei processi di supporto; la miscela è deleteria perché l’esistenza di procedure diviene l’alibi per la deresponsabilizzazione degli staff rispetto agli obiettivi reali dell’organizzazione che sono legati ai processi primari. La risoluzione di questi problemi richiede di portare la logica cliente-fornitore nelle attività di supporto. Per far ciò si possono utilizzare i tre approcci descritti nel seguito. Scorporare le attività di supporto critiche e riportarle nei processi primari Chi meglio del cliente sa di quale servizio o output intermedio ha bisogno? Perché allora non far svolgere l’attività di supporto direttamente da chi opera nei processi primari? Questa è la logica che sottostà alla riprogettazione delle mansioni volta ad affiancare attività primarie e attività di supporto. Come visto nel caso Heineken (Caso 3.5b), la riprogettazione dei compiti nelle unità produttive prevede spesso l’attribuzione di compiti di supporto, quali la manutenzione, gli attrezzaggi, i controlli di qualità, agli operatori di linea. In questo modo le due attività sono meglio integrate e l’output dell’attività di supporto è allineato con le aspettative del cliente. Aziende come General Electric, Fiat e Wortinghton hanno creato unità di produzione responsabili di parti del processo (output intermedi) e con la responsabilità delle attività sia primarie (produzione o assemblaggio) sia di supporto (controllo qualità, attrezzaggio, manutenzione ordinaria, programmazione ecc). Questi interventi si sono accompagnati a una decisa riduzione del numero di livelli gerarchici (cfr. il paragrafo sulla lean organization, più oltre nel capitolo). Un altro esempio, che verrà discusso approfonditamente nel capitolo 15, riguarda il processo di acquisto: in questo caso la gestione operativa delle consegne di materiali e componenti può essere direttamente affidata alle unità produttive, in modo da garantire la continuità, regolarità ed efficienza dei flussi produttivi – si veda l’esempio di Magneti Marelli Electronics (MMELC) nel Caso 15.1.

152 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE Il limite delle competenze

L’informazione “dentro” i processi

Da fornitori interni a fornitori veri

Questi interventi hanno tuttavia un limite legato alle competenze specialistiche necessarie per svolgere le attività di supporto, e che non sempre è conveniente o possibile trasferire a chi svolge le attività primarie. Di conseguenza, la manutenzione straordinaria in Heineken continua a essere eseguita da uno staff specializzato, che opera su chiamata dei team di lavoro; in modo simile, l’individuazione delle fonti di fornitura, la gestione del parco fornitori e la negoziazione degli accordi-quadro in MMSE vengono svolte da uno staff centralizzato. Un caso particolare di applicazione di questo principio riguarda il trasferimento della gestione ed elaborazione delle informazioni all’interno dei processi primari (Hammer e Champy, 1993). In alcuni casi si tratta di riportare sotto il controllo dei processi primari le attività che generano input informativi. La figura del gestore di commessa alla Di.Me. ne è un esempio (Caso 5.4). Alcune attività di supporto che generano input informativi per la programmazione della produzione, quale per esempio la verifica della disponibilità di materiali a magazzino, invece di essere svolte da unità di staff in modo asincrono vengono riportate sotto il controllo del process owner, il quale deve però avere accesso all’informazione in questione. In sintesi, riportare la gestione dell’informazione “vicino” o “dentro” i processi primari può ridimensionare o al limite anche eliminare le attività di supporto svolte da unità di staff. L’ outsourcing dei processi di supporto Esternalizzare i processi di supporto significa forzare la logica clientefornitore esterno, e in questo modo ottenere maggiore attenzione da parte del fornitore stesso alla qualità e al costo dell’output generato. Un fornitore esterno sa di essere un fornitore e agirà in quanto tale. Tanto più nel settore dei servizi alle imprese, dove esistono ormai numerosi operatori qualificati e in aspra concorrenza tra loro. I servizi logistici integrati, alcune attività amministrative, lo sviluppo dei sistemi informativi, le ricerche di mercato, il facility management e innumerevoli altre attività si prestano oggi a essere “acquisite” sul mercato, magari attraverso rapporti di partnership, caratterizzati da fiducia reciproca e orizzonte di cooperazione medio-lungo. L’outsourcing dei processi di supporto si accompagna spesso alle delocalizzazioni: British Airways, ad esempio, ha recentemente esteso l’insieme dei processi esternalizzati a una società indiana (offshoring), a cui erano stati affidati in passato i processi di amministrazione e finanza, e che ora si occupa anche di relazioni con i clienti, gestione delle tariffe e dei dati cliente, servizi standard di gestione del personale ecc. In modo simile altre multinazionali hanno scelto fornitori esterni in Irlanda per le attività amministrative o ancora in India per il call center. I temi della partnership e dell’outsourcing vengono ripresi nei capitoli 14 e 16 e pertanto non ci soffermiamo ora sui vantaggi, sui costi e sui rischi di queste scelte. Dal punto di vista dei processi, l’outsourcing si colloca all’estremo opposto rispetto all’opzione di reintegrare le attività di supporto all’interno di quelle primarie, poiché in questo caso esse

5. I processi aziendali ) 153

verranno ancora più separate e allontanate. Per seguire questa strada occorre dunque un’attenta valutazione di tutti i benefici, ma anche dei rischi a essa connessi. Il Caso 5.5 descrive un esempio di outsourcing in un’azienda ospedaliera. CASO

5.5

Un’azienda ospedaliera lombarda Si tratta di una grande struttura situata in Lombardia e che comprende tre presidi territoriali in comuni limitrofi di medie dimensioni. In totale, l’azienda dispone di oltre 300.000 mq coperti e ospita oltre 2300 posti letto. A partire dalla fine degli anni Novanta è iniziato un progressivo processo di outsourcing dei servizi di supporto. Una delle motivazioni che ha spinto i dirigenti a intraprendere questa strada è stata la necessità di poter gestire una struttura più leggera, più agile e concentrata sulla cura delle persone, che è poi il compito principale di questo tipo di realtà. In particolare, nel 2002 una vasta gamma di servizi è stata affidata a un unico fornitore tramite un contratto di global service: dal servizio tecnico di manutenzione alla gestione delle apparecchiature biomedicali, dall’archiviazione dei documenti alla movimentazione interna dei materiali. Questa politica di esternalizzazione ha comportato diversi vantaggi. È stata introdotta una logica cliente-fornitore sui processi in outsourcing, con accordi espliciti sulle prestazioni che il fornitore deve garantire e sui cui verrà valutato dall’Azienda ospedaliera. Ad esempio il processo di movimentazione interna viene valutato, tra gli altri parametri, sul tempo di consegna dei farmaci ai reparti, mentre il processo di manutenzione preventiva sulla frequenza degli interventi. Il rapporto tra cliente e fornitore è stato improntato a una stretta collaborazione al fine di limitare i problemi di integrazione responsabili di aver “allontanato” le attività di supporto da quelle primarie. Complessivamente, l’outsourcing dei processi di supporto ha portato a vantaggi in termini di costi e qualità dei servizi, e soprattutto ha consentito all’azienda di investire più risorse sulle proprie attività primarie. In termini occupazionali l’impatto è stato modesto, in quanto le persone che svolgevano precedentemente le attività di supporto all’interno dell’Azienda ospedaliera sono state in massima parte assunte dal nuovo fornitore.

Misurare le “transazioni interne”

Responsabilizzare gli staff su indicatori di servizio Una soluzione intermedia rispetto alle due sopra descritte consiste nel promuovere una logica di servizio negli staff di supporto, attraverso la misurazione di prestazioni e l’incentivazione su indicatori di interfaccia e di servizio al cliente. UniCredit, ad esempio, ha consolidato all’inizio del 2012 una scelta già intrapresa negli anni precedenti, creando una nuova società – UniCredit Business Integrated Solutions – volta a gestire le attività operative a supporto del funzionamento del gruppo, tra cui ad esempio la gestione dei servizi di Information e Communication Tecnology (ICT), le attività di Back Office e Middle Office, la gestione del patrimonio immobiliare e le attività di approvvigionamento (si veda il capitolo 4, Caso 4.2). La scelta innovativa è stata quella di organizzare le attività in funzione della tipologia di cliente interno piuttosto che sulla tipologia di servizio erogato. Al fine di garantire l’agilità, qualità e tempestività necessarie per supportare il business, ogni processo di UBIS dovrà essere monitorato

154 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

con un cruscotto di indicatori di efficienza ed efficacia , ovvero di servizio verso i clienti interni. Più in generale, l’introduzione di logiche di servizio nelle attività di supporto richiede di definire indicatori di interfaccia che servono a misurare la qualità, il livello di servizio e i tempi di risposta che i fornitori interni offrono ai clienti interni (le unità coinvolte nei processi primari). Parallelamente, i manager e gli operatori delle unità di staff possono essere responsabilizzati sull’ottenimento degli obiettivi di servizio o degli obiettivi globali dell’impresa rispetto ai clienti esterni attraverso opportuni sistemi di incentivo. Il fatto che UBIS sia una società autonoma, sebbene parte di un gruppo (UniCredit) in cui la fornitura di servizi è in qualche modo vincolata al mercato interno, implica che i servizi offerti vengano effettivamente pagati dai clienti interni. Questo di per sé costituisce un incentivo a offrire migliori performance.

5.8.5

Meno middle management

Lean organization L’introduzione dei cambiamenti organizzativi discussi nei paragrafi precedenti può portare a ripensare complessivamente anche la macrostruttura organizzativa, secondo il modello della lean organization. Un primo effetto importante sulla struttura organizzativa deriva dall’introduzione della delega decisionale, oltre che dal job redesign e dall’introduzione di team di lavoro. Personale maggiormente responsabilizzato sulle decisioni, mansioni più ampie e più ricche e gruppi di lavoro autonomi riducono la necessità di controllo e coordinamento da parte del management, che si trova prevalentemente a fornire indirizzi e risolvere i casi più complessi o le eccezioni più significative. Di conseguenza, il numero di persone che i manager sono in grado di coordinare è decisamente superiore in un’organizzazione orientata ai processi rispetto a un’organizzazione tradizionale. Cresce l’ampiezza del controllo (cfr. il capitolo 4) e si riducono dunque i manager necessari e anche i livelli gerarchici della struttura organizzativa. Questo fenomeno, anche detto delayering (letteralmente sottrazione di livelli), porta a disegnare strutture organizzative piatte, sviluppate prevalentemente lungo la dimensione orizzontale (Figura 5.10, si veda anche la Figura 4.1). Queste strutture hanno un ulteriore vantaggio: eliminando o comprimendo i livelli gerarchici intermedi avvicinano il vertice aziendale ai processi primari dell’azienda. Se da un lato, attraverso la delega, il management è sollevato dalla risoluzione di molti problemi operativi, dall’altro rimane più vicino ai processi, può meglio capirne le problematiche e svolgere la funzione di indirizzo, supporto e motivazione del personale. In questi anni alcune grandi corporation globali hanno messo in atto massicci processi di delayering organizzativo. Negli anni Ottanta e Novanta si erano dotate di strutture di management articolate. Le subsidiaries nazionali rispondevano a strutture di management intermedio tipicamente a livello di macro-region o di conti-

5. I processi aziendali ) 155

Figura 5.10 ESEMPIO DI ORGANIGRAMMA DI UN’ORGANIZZAZIONE SNELLA

Staff

Flussi informativi orizzontali

Meno staff

Meno costi di struttura

nente. Ad esempio IBM-SEMEA (South Europe Middle East and Africa), con base in Italia, raggruppava le attività della società attorno al bacino del Mediterraneo. Oggi diverse imprese globali hanno eliminato o ridimensionato le strutture intermedie di management. Le subsidiaries nazionali o le business unit locali rispondono direttamente agli headquarter, spesso oltre Atlantico. Un’altra conseguenza del job redesign e dell’empowerment del personale riguarda il fatto che i flussi informativi prevalenti sono orizzontali, volti al coordinamento diretto tra le risorse o le unità organizzative che operano nei processi, senza passare in molti casi dalla linea gerarchica. Questo è possibile soprattutto se le tecnologie e i sistemi informativi aziendali sono disegnati in modo coerente con le necessità di supporto dei processi. Anche la natura, oltre alla direzione, dei flussi informativi è generalmente diversa in un’organizzazione snella: i flussi sono più orientati al confronto e al supporto piuttosto che al comando e controllo, come già sottolineato in precedenza. Dunque, se nelle strutture tradizionali i flussi informativi sono quasi esclusivamente verticali e monodirezionali, nelle organizzazioni snelle buona parte del flusso di informazioni è orizzontale e bidirezionale. Un secondo effetto sulla struttura organizzativa è generato dalla riorganizzazione degli staff e delle attività di supporto. Se parte di queste attività è portata nelle unità organizzative che svolgono i processi primari, e parte viene esternalizzata, il peso degli staff si riduce notevolmente. L’effetto congiunto di un peso minore delle unità organizzative di supporto, di un numero minore di manager e di una riduzione dei livelli manageriali comporta una significativa riduzione delle risorse indirette dell’azienda, e un conseguente ridimensionamento dei cosiddetti costi di struttura (o costi indiretti). Da questo assottigliamento della struttura deriva il termine di organizzazione snella. Il modello della lean organization è stato ampiamente discusso in letteratura e in ambito manageriale (ricordiamo ad esempio i classici Ohno, 1988; Shingo, 1989; Womack, Jones e Roos, 1990; Womack e

156 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE Più efficienza ma meno efficacia

I rischi del “troppo snello”

5.9

Jones, 2003). Nato dall’estensione dei principi di fondo della lean production (ovvero la riduzione di tutti gli sprechi e le risorse in eccesso nei processi produttivi) all’intera organizzazione, esso è stato adottato da un numero crescente di imprese. Alcune sue applicazioni si sono però concentrate prevalentemente sugli aspetti strutturali del modello, ovvero la riduzione delle risorse manageriali e degli enti di staff, enfatizzando dunque gli obiettivi di efficienza e riduzione dei costi conseguenti al modello (cosiddetti interventi di downsizing). Tuttavia, la natura stessa del modello è stata travisata in queste applicazioni, perché i “tagli” di risorse spesso non sono stati preceduti dal ridisegno dei processi, dei ruoli e dei compiti, generando dunque organizzazioni certamente più snelle nei costi, ma anche con standard di servizio modesti e dunque poco efficaci. Al di là di queste applicazioni distorte del modello, l’organizzazione snella presenta diversi rischi nel momento in cui diventa “troppo snella”. Innanzitutto imprese troppo snelle rischiano di non avere risorse umane e staff sufficienti per sostenere il cambiamento e l’innovazione. Infatti, in una struttura assottigliata il management è assillato dalle necessità della conduzione quotidiana del business e il tempo per guardare avanti e progettare percorsi di innovazione e cambiamento inevitabilmente scarseggia. Solo “aggiungendo del grasso” all’organizzazione i processi di innovazione possono ripartire (Fujimoto e Takeishi, 1993). Infine, lo snellimento delle organizzazioni non opportunamente sostenuto da interventi di empowerment del personale e delega decisionale può portare al collasso della struttura: gli operatori non sono in grado di decidere in quanto non hanno la delega o gli strumenti e le competenze necessarie. La riduzione eccessiva del numero di manager porta a un ingolfamento delle decisioni e dunque al blocco operativo dei processi.

Le leve gestionali Gli interventi di natura gestionale fanno riferimento a pratiche manageriali che favoriscono o supportano l’integrazione dei processi. Investono i sistemi di pianificazione, programmazione e controllo delle attività e i sistemi di monitoraggio delle performance. Tra le leve più significative ricordiamo:

Mappatura dei processi

• lo sviluppo di un sistema di gestione dei processi: in modo analogo a quanto visto nel caso Cobra (Caso 5.1), un sistema di gestione per processi prevede innanzitutto la mappatura dei processi aziendali e l’introduzione di una cultura di processo all’interno dell’organizzazione. Inoltre, richiede di definire un adeguato sistema di misura e controllo delle prestazioni dei processi e allinearlo con il sistema di incentivi utilizzato dall’azienda. Occorre infine che la misura delle prestazioni favorisca il miglioramento continuo (maggiori approfondimenti su questo tema sono presenti nel paragrafo 5.10);

5. I processi aziendali ) 157 Servire i clienti esterni e interni

Bilanciare pull e push

• l’attivazione di catene clienti-fornitori: l’intero flusso del processo viene gestito e fatto avanzare attraverso logiche di domanda-risposta e di collaborazione tra clienti e fornitori, siano essi unità esterne all’azienda o interne a essa (“clienti interni”). Tutte le unità organizzative si trovano a lavorare per il proprio cliente e non tanto per il capo gerarchico. Questo meccanismo richiede flessibilità e rapidità di risposta, spesso ottenute attraverso una maggiore standardizzazione delle attività a monte, più lontane dal cliente, e una personalizzazione delle attività più a valle; • il bilanciamento tra l’utilizzo di logiche pull e push nella gestione dei processi. Secondo la logica pull il processo viene attivato solo a fronte di una richiesta effettiva dell’output da parte di un cliente. Secondo la logica push, invece, il processo viene attivato in anticipo rispetto alla domanda, prevedendo quelle che saranno le esigenze dei clienti. L’ottimizzazione delle prestazioni spesso richiede di trovare il corretto punto di snodo tra le attività svolte in logica push (a monte) e quelle svolte in logica pull (a valle). Su questo tema si veda il capitolo 17 (paragrafo 17.2.3). Per maggiori approfondimenti su queste tematiche si veda Bartezzaghi, Spina e Verganti, 1999; Bartezzaghi, 2010.

5.10

Dal reengineering al process management

Conclusioni In questo capitolo si è cercato di sottolineare quanto sia importante per molte imprese superare le tradizionali barriere funzionali all’interno dell’organizzazione e recuperare l’integrazione tra le attività che concorrono a realizzare i beni e i servizi e dunque valore per il cliente. A questo scopo la dimensione dei processi appare fondamentale. Certo i cambiamenti nella macrostruttura sono di aiuto, fino al caso (raro) delle strutture organizzative orizzontali. Più facilmente però, pur mantenendo le tradizionali strutture esistenti (funzionali o divisionali che siano) l’organizzazione per processi si basa su una serie di interventi, prevalentemente di tipo microstrutturale, che vanno a ridisegnare le mansioni, i ruoli e le responsabilità delle persone. Tutto questo è favorito o anche indotto dall’introduzione di opportune tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Mettere in atto questi cambiamenti è però difficile. Quali approcci dunque seguire? In molte imprese in realtà si opera già per processi anche se non in modo formalizzato; si tratta in questi casi di organizzare meglio attività e pratiche già esistenti. In altri casi, viceversa, sono necessari interventi più strutturati e incisivi, che possono riguardare la riprogettazione, a volte anche radicale, dei processi esistenti per introdurre le nuove logiche di gestione. Il Business Process Re-engineering fa riferimento proprio a questo tipo di innovazione radicale (cfr. Hammer e Champy, 1993; Davenport, 1993; Kettinger, Teng e Guha, 1997; Bartezzaghi, 2002). Il BPR è stato una delle parole d’ordine e delle “mo-

158 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Il ruolo del “Quality management”

de manageriali” degli anni Novanta. Molte grandi imprese vi hanno dedicato ingenti risorse, ad esempio Hoffman-LaRoche, Sun Microsystems, Motorola, General Electric, Citybank. Più recentemente è stata sottolineata l’importanza di inquadrare questi interventi di riprogettazione in una logica più generale, attraverso la costruzione di un vero e proprio sistema di gestione dei processi aziendali, il business process management (McGoveran, 2004; Harmon, 2007; Jeston e Nelis, 2008). Coerente con questa logica è la revisione delle norme di certificazione della qualità (Vision 2000; www.uni.it), che prevede l’introduzione di sistemi di gestione dei processi aziendali come elemento di base per l’assicurazione della qualità aziendale. Per concludere, un’ultima considerazione. Sempre più spesso il valore per il cliente finale è creato grazie all’integrazione delle attività non solo attraverso le funzioni interne all’azienda, ma anche attraverso i confini aziendali. Le logiche di organizzazione e gestione dei processi vanno perciò estese al di là della singola impresa, e applicate ai processi interaziendali svolti in collaborazione con clienti, fornitori e altri partner esterni (cfr. Champy, 2002). Alcune imprese, ad esempio Federal Express, Baxter Healthcare, Ford e Toyota, lo hanno già fatto. Sebbene i principi di fondo siano gli stessi discussi in questo capitolo, le applicazioni specifiche richiedono approfondimenti adeguati. Questi temi saranno trattati nel dettaglio nella parte terza e quarta del libro, rispettivamente per l’integrazione a valle, con i clienti, e quella a monte, con i fornitori.

6

L’organizzazione nel contesto I fattori contingenti

SOMMARIO

6.1

Biodiversità delle organizzazioni

CASO

6.1 Efficacia organizzativa e fattori di contesto j 6.2 I fattori ambientali: incertezza e complessità j 6.3 La tecnologia: processi industriali, tecnologie dei servizi e ICT j 6.4 Il contesto interno: i fattori strategici j 6.5 Il contesto interno: i fattori anagrafici

Efficacia organizzativa e fattori di contesto L’organizzazione universale, valida per qualunque situazione, non esiste. Già dalla metà del secolo scorso il pensiero organizzativo ha abbandonato l’idea di individuare soluzioni normative, sia a livello microstrutturale – specializzazione dei compiti, ruoli e mansioni – sia a quello macrostrutturale – unità organizzative, criteri di raggruppamento e strutture. La semplice osservazione empirica ha mostrato che organizzazioni molto diverse tra loro possono dimostrare la stessa efficacia organizzativa secondo il concetto gà illustrato nel paragrafo 2.6. D’altra parte scelte organizzative che si dimostrano efficaci in un certo contesto – in un settore, in un Paese, in un dato momento storico – falliscono o si dimostrano meno efficaci in altri. Il Caso 6.1 illustra un esempio piuttosto celebre: quello dei modelli organizzativi giapponesi nel settore automobilistico, che almeno per un lungo periodo di tempo sembravano funzionare solo in Giappone a causa di alcune caratteristiche peculiari di quel sistema-Paese.

6.1

L’industria giapponese dell’auto: la lean organization Nel XX secolo l’automobile è stata l’industria per antonomasia. Nel settore auto per primo si sono manifestati quasi tutti i grandi cambiamenti che poi hanno segnato il sistema economico nel suo complesso: dalla produzione di massa (fordismo) allo sviluppo del marketing, dall’automazione della fabbrica all’organizzazione snella. L’industria automobilistica giapponese nel secondo dopoguerra si è dimostrata molto aggressiva e competitiva sui mercati internazionali. Nel volgere di un quarto di secolo, tra il

160 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE 1960 e la seconda metà degli anni Ottanta, alcuni produttori, Toyota in primo luogo, sono passati da dimensioni modeste e ambito locale a posizioni di leadership globale, collocandosi stabilmente tra i primissimi costruttori al mondo con presenza in tutti i principali mercati. Questo successo non è stato determinato da una manifesta superiorità tecnologica. Anzi, in diversi casi i costruttori giapponesi hanno agito da followers tecnologici, bravi e rapidi nell’incorporare innovazioni generate da altri produttori. Le loro automobili si sono però rivelate più affidabili e meno costose rispetto a quelle dei concorrenti americani ed europei. E questo nonostante la produzione avvenisse in un Paese con un costo del lavoro tra i più elevati al mondo. Come è stato possibile tutto ciò? Alla base vi è stato un modello organizzativo originale: strutture snelle con un numero limitato di livelli gerarchici; job enlargement e job enrichement diffusi e dunque mansioni più ampie e motivanti; introduzione sistematica dei gruppi autonomi di lavoro; investimenti in formazione, sviluppo delle competenze e coinvolgimento degli operatori; parziale sovrapposizione dei ruoli manageriali e operativi, poiché agli operatori diretti viene data autonomia e vengono attribuite responsabilità precise sui risultati; tecniche innovative di organizzazione e gestione della produzione riconducibili all’approccio noto come produzione just-in-time. Il complesso di questi elementi ha caratterizzato la lean organization, che è stata identificata come la fonte principale del vantaggio competitivo dei produttori giapponesi in quegli anni. Negli anni Novanta i produttori americani ed europei hanno reagito alla minaccia giapponese cercando di imitare l’organizzazione dei giapponesi. Tuttavia l’operazione si è rivelata ardua. È risultato di gran lunga più difficile imitare l’organizzazione che non i prodotti e le tecnologie – cosa nella quale i giapponesi, e oggi i cinesi, erano assai abili anche rispettando i brevetti e le protezioni legali degli occidentali. Aziende come Ford, GM e anche Fiat hanno cercato di introdurre sistemi organizzativi di derivazione giapponese, ma hanno incontrato difficoltà e resistenze dovute a contesti socioeconomici molto diversi da quelli originali: il ruolo del sindacato, il livello di scolarizzazione della forza lavoro, le attitudini manageriali e la cultura aziendale sono apparsi fattori quasi insormontabili. Il divario di efficienza e qualità ha impiegato decenni a ridursi e comunque anche oggi non si è annullato: Toyota rimane il produttore di massa più efficiente, con la migliore qualità industriale e con una redditività senza eguali nel mondo dell’auto, se si escludono pochissimi produttori posizionati su fasce molto alte di prodotto come BMW. Gli stessi insediamenti dei produttori giapponesi in Occidente, realizzati per penetrare mercati protetti da dazi e quote di importazione, si sono rivelati meno efficienti degli originali. L’organizzazione Toyota, calata negli stabilimenti inglesi, americani e tedeschi (e dunque realizzati con manodopera locale e management almeno in parte locale), ha dovuto fare i conti con il contesto locale. In ultima analisi, il contesto socioeconomico si è dimostrato di fondamentale importanza nel determinare l’efficacia del modello organizzativo della lean production.

Nel settore automobilistico stanno oggi emergendo nuovi attori, cinesi e indiani, che adottano soluzioni organizzative lontanissime dai concetti della lean organization: i livelli di delega sono molto bassi, vi è un forte ricorso alla gerarchia e alla supervisione e dunque le strutture organizzative sono a molti livelli, il lavoro di gruppo è poco applicato, la separazione tra ruoli manageriali e mansioni operative è netta. Tutto ciò, in Paesi dove il costo del lavoro è enormemente più basso che in Occidente o in Giappone, consente di produrre a costi molto competitivi, anche se la produttività fisica (ore di lavoro per unità di prodotto finito) è scarsa e la qualità a volte (ma non sempre) inferiore. È la rivincita del fordismo, dell’organizzazione della produzio-

6. L’organizzazione nel contesto ) 161

Corsi e ricorsi storici

Il ruolo dell’ambiente

ne di massa che a partire dalla Ford degli anni Venti del Novecento si è affermata come paradigma dell’organizzazione industriale in molti settori. Paradossalmente il fordismo occidentale, ucciso dalla lean production orientale, rinasce in Oriente. Ancora una volta le caratteristiche dell’ambiente influenzano l’efficacia delle scelte organizzative. I bassi salari, il livello di scolarizzazione più modesto (almeno nella forza lavoro), il minor peso dei sistemi di protezione sociale e del sindacato e anche le minori aspettative di qualità della vita lavorativa sono elementi contingenti che rendono efficace un modello organizzativo e inefficace o insostenibile un altro. L’ambiente dunque influenza l’organizzazione. Ma ad avere peso non è solo il contesto socioeconomico. Hanno un’influenza notevole anche le caratteristiche dei settori e dei mercati, le dinamiche competitive così come le caratteristiche delle tecnologie. Inoltre, l’organizzazione non è indipendente dalla strategia d’impresa – ovvero la mission aziendale, i vantaggi competitivi ricercati, il livello di integrazione verticale e orizzontale e le strategie a livello corporate. Il legame è tuttavia reciproco poiché, se è vero che le strategie aziendali influenzano l’organizzazione, determinate strategie sono pienamente realizzabili solo in presenza di determinate condizioni organizzative a livello sia di competenze e capacità sia di strutture. Lo schema della Figura 6.1 illustra i complessi legami tra le variabili più propriamente organizzative e l’insieme dei fattori contingenti sin qui accennati (si vedano Delmestri, 1994, e Daft, 2001). L’organizzazione viene così influenzata da: • fattori ambientali, esterni all’impresa e in larga parte non controllabili, che fanno riferimento al contesto socioeconomico, settoriale e di mercato; • fattori tecnologici, in parte controllabili e in parte insiti negli sviluppi delle tecnologie industriali, informatiche e di comunicazione; • fattori strategici, che viceversa sono interni al perimetro dell’impresa e che rispetto alle variabili organizzative stanno in una relazione di mutua influenza; • fattori per così dire anagrafici – primo fra tutti la dimensione dell’organizzazione ma anche l’età e la posizione nel ciclo di vita – che sono il frutto della storia dell’impresa e delle decisioni strategiche prese nel passato.

Adattamento ed efficacia organizzativa

L’adattamento dell’organizzazione al complesso di fattori contingenti trova fondamento nel concetto di efficacia organizzativa, già introdotto nel paragrafo 2.6. Consideriamo due situazioni differenti: un’impresa cinese del settore tessile, giovane ma già grande dimensionalmente e che voglia essere competitiva sui prezzi, in virtù di costi di produzione molto bassi; una grande banca d’affari inglese con cent’anni di storia alle spalle che offre servizi professionali di alta gamma a prezzi elevati. Ci aspettiamo che le scelte organizzative – in termini di ruoli, mansioni, competenze, strutture e meccanismi di coordinamento, sistemi di incentivo – che si rivelano adatte ed ef-

162 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

AMBIENTE

TECNOLOGIE

Contesto socioeconomico • Culture nazionali e locali • Assetti istituzionali e normativi • Mercato del lavoro • ...

• Tecnologie industriali • Tecnologie dei servizi • Tecnologie di informazione e comunicazione (ICT)

Settore e mercati • Complessità e incertezza • Concentrazione, crescita e competizione • Mercati di sbocco • Mercati di fornitura • Mercati finanziari • ...

Fattori esterni

L’ORGANIZZAZIONE NEL CONTESTO: I FATTORI CONTINGENTI

ORGANIZZAZIONE • Capacità e competenze • Ruoli e mansioni • Strutture • Meccanismi di coordinamento • Cultura e valori • Processi

STRATEGIA

FATTORI ANAGRAFICI

• Mission • Vantaggi competitivi • Strategia corporate • Integrazione verticale e orizzontale

• Dimensione • Età • Posizione nel ciclo di vita

Fattori interni

Figura 6.1

ficaci nei due casi siano molto diverse. Se la banca d’affari adottasse il modello organizzativo che è efficace per l’impresa tessile cinese – elevata standardizzazione dei processi, mansioni ristrette, gerarchie rigide e supervisione diretta –, presumibilmente non avrebbe successo e perderebbe rapidamente le posizioni guadagnate. In sostanza, l’efficacia di un modello organizzativo – inteso come l’insieme delle scelte che riguardano le variabili organizzative – dipende dai fattori contingenti, ambientali, strategici e anagrafici. L’efficacia organizzativa e la sostenibilità dell’organizzazione (concetto anch’esso già introdotto nel paragrafo 2.6) dipendono dunque da scelte manageriali corrette, ovvero adatte al contesto. Il management, più o meno consapevolmente, deve operare tenendo conto dei vincoli imposti dal contesto, vincoli che possono modificarsi nel tempo. In questo senso la sostenibilità dell’organizzazione è riferita a un contesto che può cambiare con l’affermarsi di valori e aspettative diversi, con l’emergere di nuove consapevolezze ad esempio nel campo

6. L’organizzazione nel contesto ) 163

dell’ambiente, dell’energia, dei diritti umani ecc. Organizzazioni che sono state sostenibili in passato rischiano di non esserlo più in futuro. Attraverso la chiave di lettura offerta dallo schema della Figura 6.1 entriamo ora nel dettaglio dei fattori contingenti.

6.2 6.2.1

“Glocalizzazione”

Multiculturalità

I fattori ambientali: incertezza e complessità Il contesto socioeconomico La riflessione sulla trasferibilità del modello organizzativo della lean production al di fuori del Giappone ci ha consentito di illustrare il ruolo dei fattori sociali, culturali e istituzionali che nel complesso caratterizzano i sistemi nazionali. Questi aspetti sono particolarmente delicati per le imprese globali, che estendono su varie aree del pianeta la propria presenza organizzata (e che non si limitano a vendere i propri prodotti e servizi all’estero). Organizzazioni come Microsoft, IBM, Ford Motor Company, Siemens, 3M, Accenture, Nestlé, Shell, ma anche, per tornare a qualche esempio italiano, Italcementi, Pirelli o ENI, sono costantemente impegnate nel cercare di adattare l’organizzazione periferica (reti distributive, strutture commerciali, stabilimenti, centri di ricerca, filiali nazionali) al contesto locale, mantenendo però modelli organizzativi per quanto possibile unitari. Queste organizzazioni globali sono spesso impegnate anche in un’altra partita parallela: non solo operano in contesti nazionali diversissimi, ma arruolano professionisti e manager su base internazionale e devono dunque gestire la sfida della diversità e della multiculturalità. In realtà le variabili organizzative sono influenzate non solo dai fattori socioculturali, ma anche da altri elementi macro a livello di sistema-Paese. Ha un’importanza fondamentale anche il quadro normativo e in particolare il diritto societario, quello del lavoro e le normative ambientali possono essere molto diversi anche tra Paesi culturalmente simili. In Germania il modello organizzativo della cogestione, ovvero della forte partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, è sostenuto da norme sulle società che riservano formalmente ai rappresentanti dei lavoratori alcuni seggi nei consigli di amministrazione. Il diritto del lavoro in Italia ha avuto e ancora ha un impatto molto forte sulle caratteristiche organizzative delle imprese. Nel nostro Paese si sono progressivamente determinate condizioni di fatto piuttosto rigide con garanzie molto forti a protezione dei lavoratori dipendenti e garanzie piuttosto deboli per il vasto mondo del cosiddetto “lavoro atipico” o precario. Le conseguenze sono state molteplici, con effetti difficilmente controllabili. Anzitutto vi è stata una crescita enorme del numero di lavoratori formalmente autonomi, in realtà tutt’altro che tali e sostanzialmente legati a un unico datore di lavoro. Si è così determinato un mercato del lavoro doppio e anche “organizzazioni doppie”, formate cioè da dipendenti e collaboratori

164 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Alte garanzie bassi salari

Culture e valori nazionali

6.2.2

con trattamenti e protezioni assai diversificati, anche in presenza di ruoli e mansioni del tutto simili, con i negativi impatti motivazionali che è facile intuire. Un secondo effetto rilevante del quadro normativo italiano riguarda le dinamiche salariali. I costi lordi aziendali del lavoro dipendente sono stati a lungo così più elevati dei costi delle collaborazioni esterne (a parità di compensi netti percepiti dai dipendenti) da incentivare non solo la crescita dei lavori fintamente autonomi, ma anche da mantenere molto compressa la dinamica salariale del lavoro dipendente: in sostanza garanzie elevate a fronte di stipendi magri. Le normative hanno avuto effetti rilevanti anche sulle dimensioni delle organizzazioni. Poiché le imprese con più di 15 dipendenti hanno obblighi e vincoli maggiori nei confronti dei loro dipendenti, molte imprese sono rimaste piccole proprio per non superare tale barriera, fino ad arrivare all’assurdità di gruppi di dimensioni anche medie giuridicamente frammentati in decine di società operative ciascuna delle quali sotto il limite dei 15 dipendenti (con costi aggiuntivi indotti molto elevati). Le stesse condizioni del mercato del lavoro locale possono influenzare le organizzazioni. Ad esempio alcune aziende del settore alimentare, che hanno impianti produttivi in aree differenti con tecnologie e processi industriali sostanzialmente identici, sono costrette a modificare in parte l’organizzazione a causa delle condizioni locali del mercato del lavoro. Nelle aree a forte sviluppo ed elevato tasso di occupazione, per motivare adeguatamente la manodopera qualificata ad alta scolarizzazione e trattenerla in fabbrica è stato necessario allargare le mansioni rendendole più ricche (si tratta del job enlargement e job enrichement descritti nel capitolo 3). Sono stati introdotti i gruppi di lavoro autonomi e si è investito nella formazione degli addetti, con l’obiettivo di rendere il lavoro più motivante e ridurre il turnover. Negli impianti localizzati in aree depresse ad alto tasso di disoccupazione con abbondanza di manodopera poco qualificata, l’organizzazione è rimasta più tradizionale, con mansioni ristrette poco autonome e più formalizzate, assenza dei gruppi, strutture gerarchiche più rigide, maggiore standardizzazione dei processi di lavoro. E tutto questo è avvenuto a parità di prodotto, mercato e processo tecnologico. In sintesi è facile rendersi conto di come le variabili organizzative a livello sia micro sia macrostrutturale dipendono fortemente dal contesto socioeconomico e in particolare da tre tipi di fattori: le culture e i valori delle società nazionali e locali in cui operano le organizzazioni; il quadro istituzionale e normativo e, infine, le condizioni del mercato del lavoro locale.

Il settore e i mercati L’ambiente socioeconomico e istituzionale è per così dire l’atmosfera nella quale l’organizzazione respira e si muove. Vi sono però parti dell’ambiente, esterne sì ma più prossime all’impresa, più familiari

6. L’organizzazione nel contesto ) 165

all’organizzazione e con le quali questa si cimenta ogni giorno: clienti, fornitori, concorrenti. Più in particolare la struttura del settore, l’intensità della competizione, le caratteristiche dei mercati di sbocco e dei canali distributivi, la variabilità della domanda finale, i mercati di fornitura e quelli dei capitali sono tutti elementi che costituiscono l’“ambiente quotidiano”. Il Caso 6.2 propone spunti di riflessione in tal senso.

CASO

6.2

Mobiltekna e ABL Il settore e i “due mercati” Mobiltekna e ABL sono due aziende di piccole dimensioni che operano nel settore del mobile. Sono entrambe localizzate nello stesso distretto industriale marchigiano del legno-arredo. Le due aziende si rivolgono però a mercati diversi. Mobiltekna opera nel segmento dei mobili per ufficio, mentre ABL in quello degli arredi per la casa. I due prodotti hanno caratteristiche piuttosto diverse, anche se il processo produttivo è molto simile e vengono utilizzati gli stessi materiali. I prodotti per l’ufficio consistono in “linee” che comprendono i diversi componenti che possono essere necessari per arredare un ufficio: scrivanie, sedie, armadi, tavoli riunioni, scaffali, cassettiere, pareti divisorie ecc. Ciascun cliente seleziona di volta in volta una composizione diversa di questi elementi, scegliendo tra le misure e i colori disponibili a catalogo, e in alcuni casi richiedendo misure o colori diversi in base alle proprie esigenze (i cosiddetti “fuori misura”). I mobili per la casa sono invece caratterizzati da composizioni più semplici e più standard: una sala da pranzo è ad esempio costituita da 4/5 mobili diversi, quasi sempre acquistati nella composizione standard prevista a catalogo. Inoltre i clienti del settore Ufficio sono prevalentemente aziende che emettono ordini di dimensione medio-grande, mentre i clienti del settore Casa sono consumatori finali, che emettono ordini per pochi mobili per volta. Le due organizzazioni Le due aziende sono caratterizzate da strutture organizzative molto diverse. La Mobiltekna è costituita da tre funzioni principali: la produzione, l’ufficio vendite e la progettazione. La produzione si occupa della pianificazione dell’approvvigionamento di materiali e dell’emissione di ordini di lavorazione nei confronti di terzisti, della pianificazione della produzione interna e della gestione del magazzino. L’ufficio vendite si occupa delle vendite, della gestione degli ordini e della comunicazione aziendale. Infine, la progettazione ha il compito di studiare nuove linee di prodotto, stendere i preventivi per i clienti e seguire la produzione dei mobili “fuori misura”. All’interno di ciascuna funzione le mansioni non sono definite in modo preciso: i diversi addetti alle vendite svolgono attività di differente natura, dal contatto diretto con il cliente all’espletamento di attività di tipo amministrativo, fino alla raccolta delle firme dei trasportatori quando la merce è stata caricata per la consegna. Analogamente, alcune persone si occupano sia di realizzare i disegni dei nuovi prodotti, sia di seguire la programmazione degli ordini e delle consegne. Esiste un manuale della qualità in azienda, che non viene però seguito granché. I comportamenti organizzativi si discostano dalle procedure descritte. Ciascun attore all’interno dell’organizzazione ha una buona visibilità sul processo complessivo e spesso svolge molti dei compiti necessari per ottenere l’output. Le persone si parlano spesso e si incontrano negli uffici, che sono organizzati in open space. L’età

166 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE media del personale è di 34 anni. Ogni unità organizzativa ha obiettivi chiari, definiti dalla direzione, e condivisi. L’obiettivo ultimo di tutte le persone che operano in Mobiltekna è di portare l’azienda al successo, perseguendo una rapida crescita e un’espansione in mercati sempre nuovi. Nel complesso l’ambiente organizzativo alla Mobiltekna è giovane, dinamico e motivante. ABL è una realtà consolidata con un passato di successo. È organizzata in modo simile a Mobiltekna dal punto di vista della macrostruttura (unità organizzative). Tuttavia l’organizzazione a livello micro è piuttosto differente. Innanzitutto l’età media del personale è sensibilmente più elevata e sfiora i 50 anni. Ogni addetto all’interno dell’impresa ha un compito specifico, che consiste nella realizzazione di un’attività circoscritta. Ad esempio, nell’ufficio vendite lavorano una persona addetta al contatto con il cliente, una persona addetta alla fatturazione e alla preparazione dei diversi documenti necessari per la gestione dell’ordine, una persona responsabile del contenzioso con i clienti e dei rapporti con le assicurazioni. Analogamente, in produzione c’è un addetto alla programmazione, un addetto al magazzino, un addetto alla supervisione dei reparti, e così via. Esistono dei mansionari piuttosto dettagliati che descrivono le attività che ciascuna persona deve svolgere. Inoltre il manuale della qualità viene aggiornato continuamente e viene utilizzato come strumento di riferimento per la descrizione delle procedure aziendali, che riflettono fedelmente i comportamenti organizzativi. ABL ha subito negli ultimi anni la forte concorrenza di aziende estere e si è trovata pertanto nella necessità di ridurre il più possibile i costi del proprio prodotto. Nel complesso si tratta di un ambiente organizzativo tradizionale.

I casi Mobiltekna e ABL sono facilmente riconducibili alle metafore organica (Mobiltekna) e meccanica (ABL) introdotte nel capitolo 3. Perché due aziende simili, operanti nello stesso settore e con le stesse tecnologie di processo e per giunta all’interno dello stesso distretto industriale e, dunque, in presenza di fattori socioculturali e istituzionali omogenei, presentano marcate differenze organizzative? I mercati sono diversi, stabili e prevedibili quelli di ABL con prodotti standard e domanda livellata, incerti e variabili quelli della Mobiltekna con richieste continue di adattamento e di personalizzazione. Vi è dunque un livello di incertezza sostanzialmente diverso nei due casi che spiega la diversità delle due organizzazioni. In generale, l’incertezza e la complessità dell’ambiente nel quale si muove l’impresa sono i due fattori principali che influenzano le caratteristiche organizzative. Vediamo come.

6.2.3 Incertezza e adattamento

Incertezza e complessità L’incertezza dell’ambiente esterno è un fattore che condiziona l’organizzazione perché richiede adattamento e capacità di risposta rapida. Di conseguenza le organizzazioni adatte a sopravvivere e prosperare negli ambienti incerti e turbolenti sono quelle organiche con bassi livelli di formalizzazione, prevalenza di mansioni allargate e di tipo professionale, poca standardizzazione dei processi e maggiore standardizzazione delle competenze. Laddove l’ambiente competiti-

6. L’organizzazione nel contesto ) 167 Stabilità e standardizzazione Turbolenza in aumento?

Mercati, governi e norme ambientali

vo è più stabile le organizzazioni meccaniche sono più adatte perché sono più efficienti, basate come sono sulla standardizzazione dei processi, sulle norme e sulle procedure. Si potrebbe obiettare che in tutti i settori e in tutti i mercati la turbolenza e l’incertezza sono le condizioni normali e che anzi esse tendono indefinitamente ad aumentare. Non è esattamente così. O almeno i livelli di turbolenza sono molto variabili da settore a settore (e anche in segmenti diversi dello stesso settore, come illustrato dai casi Mobiltekna e ABL). Vediamo alcuni esempi. Il business delle polizze assicurative per auto o quello della distribuzione del gas naturale nelle abitazioni sono rimasti assolutamente stabili per decenni. Certamente negli ultimi anni sono stati investiti da alcuni cambiamenti importanti – rispettivamente le assicurazioni telefoniche e via Internet e una maggiore concorrenza nella distribuzione del gas – e, tuttavia, si tratta di settori assai più stabili e consolidati di quelli, ad esempio, dei videogiochi o dei microprocessori. Quello dei videogiochi, ad esempio, è un settore giovane, basato su tecnologie in continua evoluzione e per ciò stesso turbolento. Nel volgere di pochi anni aziende leader come Nintendo sono state aggredite prima da un gigante come Sony (Playstation), intenzionato a diversificare il suo business tradizionale dell’elettronica di consumo (TV, videoregistrazione e hi-fi) e poi da Microsoft stessa con il lancio di X-Box. Ma già nuovi competitor si affacciano sul mercato e, sfruttando la diffusione globale dei telefoni cellulari presso gli adolescenti, cercano sempre più di integrare in questi apparecchi software e hardware per i videogiochi. In generale l’incertezza fa riferimento al tasso di cambiamento dell’ambiente e alla difficoltà di prevederne l’evoluzione. Essa può dunque riguardare i prodotti, i mercati, le mosse dei concorrenti, l’apparire stesso di nuovi concorrenti (come illustrato dall’esempio dei videogiochi), i mercati di fornitura, i mercati finanziari e altri elementi ancora. Naturalmente anche il contesto socioeconomico discusso nel paragrafo 6.2.1, in quanto parte dell’ambiente, può essere analizzato in termini di incertezza. Ad esempio la stabilità del quadro normativo e il rischio geopolitico di alcuni mercati sono potenti fattori di incertezza ambientale per le imprese globali. Consideriamo altri tre brevi esempi di incertezza legati rispettivamente ai mercati di fornitura, alle normative ambientali e alle politiche governative: • è dal 1973, l’anno del primo shock petrolifero, che l’andamento dei prezzi dell’olio combustibile e del gas naturale costituisce una primaria fonte di incertezza per l’economie occidentali, con crisi ricorrenti alternate a periodi più o meno lunghi di stabilità. Tuttavia, non tutte le imprese ne sono influenzate allo stesso modo. I settori industriali e in particolare quelli “energivori” (chimica, carta, acciaio ecc.) sono certamente più esposti che non quelli di servizio (banche, assicurazioni, istruzione, sanità ecc.);

168 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

• le normative ambientali via via più stringenti hanno un impatto forte per alcuni produttori industriali e anche per i distributori. Si pensi alle norme che estendono la responsabilità dei produttori a tutto il ciclo di vita del prodotto e dunque obbligano, ad esempio, i costruttori di elettrodomestici a recuperare i prodotti dismessi, per smontarli, riciclare i componenti riutilizzabili e smaltire quelli non più utilizzabili secondo modalità ecologicamente compatibili. O anche le norme che impongono il recupero, il riuso o il corretto smaltimento degli imballi dei prodotti. Evidentemente l’industria del software non è molto influenzata da queste norme; • le politiche governative in materia di antitrust e norme sulla concorrenza hanno un impatto fondamentale in settori come l’energia, le telecomunicazioni, il gas, i trasporti e anche in alcuni settori di servizio come il bancario e l’assicurativo, mentre hanno scarso peso nei settori del turismo, dei servizi alla persona e in molti settori industriali tradizionali come il tessile-abbigliamento o l’alimentare. Incertezza e decisioni

L’incertezza dell’ambiente ha impatti organizzativi importanti. Essa fa riferimento alla difficoltà di procurarsi informazioni affidabili per poter decidere. In primo luogo l’impatto è dunque in termini di processi decisionali. Nella parte seconda di questo libro affronteremo con grande dettaglio la questione, dedicando ampio spazio ai processi decisionali in condizioni di elevato rischio e di incertezza (in particolare nei capitoli 9 e 11). Peraltro, abbiamo già osservato nel capitolo 2 che una delle tre grandi questioni che attraversano l’intero pensiero organizzativo è proprio quella decisionale, ovvero delle modalità secondo cui le organizzazioni arrivano a compiere le scelte tra le possibili alternative di comportamento in presenza di risorse comunque limitate e, appunto, di incertezza sull’ambiente.

La mole di informazioni

Vi è tuttavia un’altra caratteristica di sintesi dell’ambiente esterno che influenza l’organizzazione: la complessità. Essa fa riferimento alla varietà di elementi che il management è costretto a prendere in considerazione e, di conseguenza, alla numerosità delle informazioni che l’organizzazione deve processare. Ad esempio, il caso Panasonic illustrato nel capitolo 2 mostra una situazione di grande complessità dell’ambiente esterno: molti mercati diversi, centinaia di prodotti e di business differenti, tecnologie di processo eterogenee ecc. Una grande università come il Politecnico di Milano opera in un ambiente complesso: offre decine tra corsi di laurea, lauree specialistiche e dottorati, ciascuno dei quali integra competenze specialistiche estremamente diversificate, e opera nel campo della ricerca e del trasferimento tecnologico alle imprese su uno spettro vastissimo di tecnologie. Le organizzazioni monoprodotto o monobusiness operano in ambienti meno complessi. In molti casi si tratta di piccole imprese. Non bisogna però pensare che le imprese mag-

Complessità e dimensioni di impresa

6. L’organizzazione nel contesto ) 169

Tabella 6.1

ALCUNI FATTORI DI COMPLESSITÀ ESTERNA

Mercato di sbocco e distribuzione Numerosità dei clienti Numerosità ed eterogeneità dei mercati Dispersione geografica dei clienti e dei mercati Varietà dei canali distributivi Ampiezza e articolazione delle reti logistiche e distributive, numero e livelli dei magazzini Varietà e ampiezza degli accordi commerciali e distributivi e numerosità dei partner Prodotto/Servizio, Produzione e Tecnologia Ampiezza della gamma dei prodotti e dei servizi Varietà delle tecnologie di prodotto Numerosità dei componenti e dei materiali che compongono il prodotto Rete produttiva: numerosità e dislocazione dei siti produttivi, degli impianti o delle filiali, succursali, sportelli ecc. Varietà e ampiezza delle alleanze strategiche, degli accordi tecnologici, delle joint venture e dei consorzi Mercati di fornitura Numerosità e dispersione geografica dei fornitori Numerosità e varietà dei codici di acquisto Livello di outsourcing delle attività di supporto Altri fattori Varietà professionale e culturale del personale e della manodopera Varietà e articolazione delle normative del settore e dei mercati geografici Varietà e complessità dei contratti e delle transazioni Varietà e complessità delle operazioni finanziarie: finanziamenti, operazioni sul debito, coperture dei rischi, fusioni e acquisizioni, altre operazioni societarie ecc.

Complessità esterna e interna

giori si muovano necessariamente in un ambiente complesso. Talvolta la presenza di forti economie di scala fa sì che le imprese debbano essere necessariamente più grandi anche se operano in mercati relativamente semplici. Ad esempio le acciaierie e le cartiere sono imprese grandi che offrono poche tipologie di prodotti a un numero normalmente limitato di clienti e canali distributivi. Viceversa le grandi imprese dei settori del largo consumo hanno una gamma di prodotti molto ampia e operano in mercati diversi, con clienti e canali distributivi diversissimi e, dunque, in ambienti assai più complessi. Le fonti di complessità e gli ambiti in cui essa si manifesta sono molteplici. Senza pretesa di esaustività la Tabella 6.1 riassume i più comuni fattori di complessità esterna. In generale l’effetto della complessità esterna (ovvero dell’ambiente) è quello di indurre complessità interna. Al crescere della complessità esterna l’organizzazione diviene più complessa e articolata, con unità ad hoc per gestire le interfacce complesse con il mondo esterno. Il Caso 6.3 illustra un esempio in tal senso.

170 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

CASO

6.3

Complessità organizzativa nel settore delle società di ingegneria Le società di ingegneria che progettano e realizzano impianti industriali hanno visto crescere significativamente la complessità del loro ambiente. Seppur specializzate in alcuni settori (ad esempio chimico o alimentare), si sono trovate di fronte a una notevole complessità tecnologica, in quanto gli impianti industriali sono divenuti via via più sofisticati e integrati con sistemi di controlli automatici e sistemi informativi. Su un altro fronte gli aspetti contrattuali si sono complicati sia per effetto della globalizzazione del mercato e della necessità di operare con Paesi e ordinamenti giuridici differenti (dal Medio Oriente alla Cina, dal Sudamerica alla Russia), sia per lo sviluppo delle tecniche sofisticate di ingegneria finanziaria. La globalizzazione del mercato ha posto le imprese di fronte a mercati nuovi che da una parte richiedono approcci commerciali e di marketing diversi e dall’altra presentano quadri regolatori differenti. La complessità delle offerte e delle commesse che spesso si estendono su più anni ha posto a molte imprese il problema di un controllo accurato dei costi di commessa con previsioni a finire sempre aggiornate. Questi fattori di complessità esterna hanno avuto un notevole riflesso interno, con la creazione di numerose unità specializzate come illustrato dalla tabella sottostante. Complessità esterna (dell’ambiente)

Complessità interna (dell’organizzazione)



Complessità e varietà delle tecnologie

• Centri di ricerca specializzati sulle tecnologie chiave. • Ruoli organizzativi di interfaccia con i fornitori di tecnologie specialistiche



Contratti complessi

• Uffici legali



Variabilità geopolitica

• Ufficio studi



Complessità controllo costi

• Centri contabilità per singole commesse



Varietà competenze

• Ufficio selezione, reclutamento



Complessità regulation

• Gruppi di pressione (lobbying)



Finanziamenti complicati e pluralità di soggetti coinvolti

• Unità di project financing

Incertezza e microstruttura

Incertezza e complessità spesso si accompagnano, ma non sempre. La Figura 6.2 illustra i livelli di complessità e incertezza che tipicamente investono le imprese di settori differenti. Ovviamente all’interno di un settore imprese diverse possono essere posizionate in modo differente in relazione allo specifico business in cui operano. Incertezza e complessità producono effetti organizzativi diversi. Con un po’ di semplificazione possiamo dire che l’effetto dell’incertezza è molto visibile a livello microstrutturale, di meccanismi di coordinamento e di gestione per processi. Al crescere dell’incertezza le strutture divengono necessariamente organiche, adattabili e flessibili, con membri più autonomi e ben motivati, almeno in parte orientati ad assumersi personalmente una parte del rischio decisionale. La rapidità e la fluidità dei processi aziendali traggono beneficio dall’utilizzo esteso delle leve organizzative della gestione per processi e, in particolare, dalla process ownership, dalla delega decisionale, dalla rior-

6. L’organizzazione nel contesto ) 171

Figura 6.2

INCERTEZZA E COMPLESSITÀ NEI SETTORI INDUSTRIALI

Alta Assicurazioni

Banche

Aerospazio

Grande distribuzione Amministrazione Pubblica centrale

Telco

Informatica

Automotive Farmaceutico Elettrodomestico

Complessità

Alimentare multinazionale

Chimica

Oil & Gas

Acciaio

Servizi Professionali di alta gamma

Amministrazione Pubblica locale Alimentare di nicchia

Moda

Cemento Bassa

Giocattoli

Carta Bassa

Alta Incertezza

Complessità e macrostruttura

ganizzazione degli staff e delle attività di supporto (cfr. l’organizzazione per processi, paragrafo 5.8). Viceversa, nei processi aziendali per i quali l’incertezza non è particolarmente elevata l’uso di tecnologie informatiche a supporto della standardizzazione si è rivelato uno strumento molto efficace (si veda più oltre il paragrafo 6.3). Molti interventi di Business Process Re-engineering si applicano di fatto a contesti di incertezza medio-bassa, con l’obiettivo di semplificare, standardizzare e automatizzare i processi. La complessità del settore e del mercato ha un impatto prevalentemente macrostrutturale, poiché induce complessità organizzativa, strutture divisionali o addirittura a matrice e richiede sistemi di controllo e di coordinamento articolati e sofisticati. Si produce cioè un effetto di differenziazione simile a quello degli organismi viventi. Più il mercato è ampio e diversificato, geograficamente disperso e composto da nicchie e segmenti diversi, più proliferano le unità organizzative e con esse le necessità di coordinamento. Le unità (come gli organi) si moltiplicano e si differenziano specializzandosi nel gestire particolari funzioni e interfacce con l’ambiente esterno. In estrema sintesi possiamo concludere che al crescere dell’incertezza le organizzazioni devono spostarsi dal tipo meccanico a quello organico; al crescere della complessità esterna esse tendono a divenire complesse internamente. La Figura 6.3 sintetizza gli effetti organizzativi dell’incertezza e della complessità (in proposito si veda anche Daft, 2001). Naturalmente

172 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Figura 6.3

INCERTEZZA, COMPLESSITÀ E FORME ORGANIZZATIVE

Alta

Strutture meccaniche Standardizzazione e BPR Centralizzazione Molte unità Ruoli di integrazione Lean organization

Strutture organiche Molte unità Ruoli professionali Ruoli di integrazione Decentramento e pianificazione Process ownership Riorganizzazione staff

Strutture meccaniche Standardizzazione e BPR Centralizzazione Poche unità

Strutture organiche Poche unità Ruoli professionali Bassa formalizzazione Process ownership

Complessità

Bassa

Bassa

Incertezza

Alta

come molti modelli semplifica la realtà, talvolta distorcendola un poco. Ad esempio è certamente vero che il settore automobilistico (classificato con alta complessità e bassa incertezza) ha visto crescere l’incertezza negli ultimi anni, a causa dell’instabilità dei mercati. Molte aziende automobilistiche hanno così cercato di dotarsi di organizzazioni più agili e meno burocratiche attraverso la lean organization. Rimane tuttavia innegabile che, per fare due esempi, General Motors e Google fronteggiano livelli di incertezza molto diversi (la seconda molto maggiore della prima) con conseguenze organizzative significative.

6.3

La tecnologia: processi industriali, tecnologie dei servizi e ICT Il rapporto tra tecnologia e organizzazione è una delle grandi ed eterne questioni all’attenzione degli studiosi di organizzazione e management. Ogni volta che si determinano salti tecnologici rilevanti emergono nuovi modelli organizzativi e con essi nuovi problemi e prospettive. Pensiamo al formidabile connubio tra l’invenzione delle tecnologie della meccanizzazione, riassumibili nella catena di montaggio nell’industria automobilistica degli anni Venti del secolo scorso, e l’organizzazione scientifica del lavoro (il taylorismo di cui abbiamo accennato nel capitolo 2). Cinquant’anni dopo, l’automazione d’ufficio sconvolse letteralmente l’organizzazione aziendale negli uf-

6. L’organizzazione nel contesto ) 173

Determinismo tecnologico

6.3.1

Pezzi unici, lotti, grandi serie

fici riducendo il fabbisogno di alcune mansioni di supporto e ridisegnando i contenuti e i confini di altre. Successivamente l’ondata dell’automazione tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso ha cambiato drasticamente il contenuto del lavoro operaio e l’organizzazione di fabbrica. Ancora nella seconda metà degli anni Novanta sono apparsi i grandi sistemi informativi di tipo ERP (Enterprise Resource Planning) che hanno richiesto cambiamenti organizzativi rilevanti, nel senso di una maggiore standardizzazione dei processi. In tempi recenti, posta elettronica, Internet e applicazioni informatiche basate sulla Rete hanno cambiato nuovamente i connotati delle organizzazioni sia a livello micro sia macro: si pensi ad esempio a come le applicazioni basate su reti mobili hanno modificato processi e organizzazioni di vendita (si veda in proposito il capitolo 13); o a come i dispositivi di identificazione a radio frequenza RFID cambiano i processi logistici e la loro organizzazione. Sebbene su una scala storica i salti tecnologici richiedano cambiamenti organizzativi strutturali, bisogna rifuggire il rigido determinismo tecnologico, il quale presuppone che le tecnologie evolvano per conto loro e l’organizzazione poi segua. In realtà il legame tecnologia-organizzazione è più complesso e sfumato. Si tratta piuttosto di una coevoluzione, un processo secondo cui gli sviluppi tecnologici certamente inducono cambiamenti organizzativi, ma i fattori sociali e culturali che nel tempo cambiano le organizzazioni influenzano lo stesso sviluppo tecnologico, selezionando le tecnologie più adatte a certi “ambienti organizzativi”. Tornando su un piano operativo, come muoversi dunque nella babele tecnologica e come sintetizzare le implicazioni organizzative della tecnologia? Occorre innanzitutto operare una distinzione tra le tecnologie per la produzione di beni – che chiameremo tecnologie industriali –, le tecnologie per la realizzazione dei servizi e le tecnologie informatiche e di comunicazione (ICT, Information and Communication Technologies), trasversali a tutti i settori.

Le tecnologie industriali Un modello assai consolidato che serve a capire le mutue relazioni tra tecnologie industriali e organizzazione del lavoro è la nota “matrice prodotto-processo” (Figura 6.4) introdotta da Hayes e Wheelwright (1984). Originariamente pensata per capire il legame tra le caratteristiche dei prodotti industriali in termini di varietà e volumi di produzione e le caratteristiche dei processi produttivi dal punto di vista del layout e del tasso di automazione, la matrice si presta a molte considerazioni di natura strettamente organizzativa. Anzitutto si osserva che al crescere del volume produttivo diminuisce la varietà dei prodotti. Si passa da produzioni unitarie o uniche (si pensi alla produzione cantieristica navale o aeronautica) a produzioni in lotti medio-piccoli di prodotti identici o molto simili (ad esem-

174 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Figura 6.4

LA MATRICE PRODOTTO-PROCESSO Varietà

Costi

Prod. unitaria

Cantieri Reparti Linee non connesse

Linee connesse

Volume Lotti

Prod. di massa

Continua

Aerospazio, Navale

Organizzazioni organiche • Supervisione • Mutuo adattamento • Strutture semplici

Officina meccanica

Organizzazioni meccaniche • Mansioni ristrette • Std. processi • Teamwork

Flusso

Auto, Elettrodomestico

Organizzazioni meccaniche o organiche • Centralizzazione • Lavoro indiretto • Std. processi o std. capacità • Mansioni operative o professionali

Carta, Acciaio, Oil & gas, Chimica

Automazione Fonte: adattato da Hayes e Wheelwright (1984, p. 209).

Produzioni continue

pio le produzioni di macchine utensili e in generale i prodotti da officina); in questi casi il sistema produttivo è normalmente in grado di realizzare un numero molto ampio di prodotti diversi e dunque fornire una varietà ancora elevata. Con volumi più elevati la varietà diminuisce ulteriormente e abbiamo produzioni realizzate in grande serie (si pensi all’auto o all’elettrodomestico) con campagne prolungate e tempi e costi di attrezzaggio elevati. Infine, con volumi ancora più elevati la produzione diviene continua e la varietà degli output molto limitata. Pensiamo a una raffineria, a una filatura, a uno zuccherificio o a una cartiera: sono industrie di processo, ad alta intensità di capitale, i cui prodotti sono frequentemente di tipo integrale ovvero non numerabili in pezzi (come le auto e gli elettrodomestici), bensì misurabili in unità dimensionali di peso (ad esempio tonnellate di cemento), lunghezza (ad esempio metri lineari di carta, filato o tessuto) o capacità (litri o metri cubi). I volumi e la varietà del prodotto determinano il modo di organizzare il processo di trasformazione. Infatti la realizzazione di prodotti unici spesso richiede la predisposizione di un cantiere, una situazione organizzativa nella quale il prodotto viene realizzato in uno spazio fisico delimitato senza spostare il prodotto stesso, ma solo i materiali e le attrezzature che servono alla fabbricazione. Nella situazione di

6. L’organizzazione nel contesto ) 175

Bassi volumi, strutture funzionali

Alti volumi, strutture divisionali

Organizzazione di controllo

cantiere convivono risorse con specializzazioni differenti; la supervisione e il mutuo adattamento sono i meccanismi prevalenti. L’organizzazione per reparti è quella adatta alle produzioni estremamente variate e personalizzate realizzate in lotti piccoli o talvolta anche per esemplari unici per i quali è però possibile muovere il prodotto da un reparto a un altro. Nell’organizzazione per reparti è il prodotto a muoversi e viceversa le risorse sono raggruppate in aree secondo il tipico criterio funzionale illustrato nel capitolo 4. Il caso Bodin, illustrato nel capitolo 2, ci mostra un tipico esempio di organizzazione della produzione in reparti (il reparto orditura, quello di tessitura, il taglio e la piega ecc.). Uomini e macchine che svolgono attività simili sono raggruppati nello stesso spazio fisico e sotto un’unica responsabilità, quella del caporeparto. Il ciclo tecnologico del prodotto prevede l’attraversamento dei vari reparti secondo sequenze flessibili e variabili da prodotto a prodotto (o da lotto a lotto). I livelli di sofisticazione e di automazione delle tecnologie sono solitamente medio-bassi. Le tecnologie sono relativamente fungibili, ovvero utilizzabili per scopi e prodotti diversi. Gli stadi successivi fanno riferimento a processi tecnologici più complessi, più rigidi, più automatizzati e meno fungibili. Qui tipicamente troviamo l’organizzazione in linea, che è ispirata a un criterio divisionale. Infatti risorse umane eterogenee e con mansioni differenti sono raggruppate sulla base dell’omogeneità dell’output (ogni linea produce un insieme limitato di prodotti molto simili tra loro). La linea può eventualmente essere connessa, ovvero dotata di sistemi meccanici di movimentazione dei semilavorati (come nelle catene di montaggio). La maggiore automazione delle linee connesse le rende adatte a produzioni meno variate e a volumi elevati. Sotto il profilo organizzativo le linee presentano un livello di specializzazione orizzontale, e spesso anche verticale, elevato, con presenza di mansioni ristrette (si veda il capitolo 3). I meccanismi di coordinamento prevalenti sono quelli della standardizzazione dei processi e della supervisione diretta. La formalizzazione del comportamento è elevata e dunque il modello organizzativo risultante è tipicamente quello burocratico-meccanico. Proprio per rendere più motivante e flessibile l’ambiente di lavoro, nelle linee vengono sempre più introdotti i gruppi di lavoro e le tecniche di job enlargement. Infine abbiamo l’organizzazione a flusso adatta alle produzioni continue dell’industria di processo. In queste produzioni il livello di sofisticazione tecnologica e di automazione è ancora più spinto, il ciclo tecnologico è normalmente rigido e predeterminato. Talvolta è persino impossibile distinguere le fasi di trasformazione da quelle di movimentazione (si pensi a una raffineria o a un impianto chimico). Gran parte del controllo tecnico è incorporato nel processo e gli individui diventano essenzialmente dei controllori della tecnologia che intervengono per gestire le eccezioni o le emergenze. Si pensi al caso limite di una centrale nucleare per la produzione di energia. Gli addetti, ovviamente, non vengono mai in contatto con il processo e si limitano a

176 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Costi di opportunità

Costi di rigidità

6.3.2

controllarlo attraverso sistemi complessi di monitoraggio. La presenza di sofisticate tecnologie di controllo (sensori, sistemi di monitoraggio, informatica di controllo) che affiancano la tecnologia primaria di trasformazione è una caratteristica tipica di molte produzioni a flusso. Questo ha impatti organizzativi rilevanti. Nelle produzioni a flusso le mansioni sono spesso specializzate orizzontalmente, ma con maggiore qualificazione, professionalità e autonomia. In diversi casi si configurano vere e proprie mansioni professionali. Il meccanismo prevalente è la standardizzazione delle competenze, unita comunque a norme e procedure piuttosto vincolanti e imposte dalla tecnologia (standardizzazione dei processi). La matrice prodotto-processo è uno strumento utile per comprendere come le caratteristiche dei prodotti (volumi e varietà) e le tecnologie industriali del processo (sofisticazione della tecnologia e automazione) influenzino le caratteristiche organizzative delle unità produttive. Essa ci illustra la necessaria coerenza tra le due dimensioni (il prodotto da una parte e il processo tecnologico con le sue implicazioni organizzative dall’altra). Le combinazioni ottimali si dispongono sulla diagonale della matrice: sarebbe infatti inutilmente dispendioso cercare di realizzare produzioni ad alto volume con l’organizzazione per reparti o addirittura in un “cantiere”, rinunciando ai potenziali vantaggi della standardizzazione, dell’automazione e dell’organizzazione in linea. Nessuno produce frigoriferi in modo artigianale, uno alla volta. Per contro, produzioni in piccoli lotti o addirittura uniche non si prestano certo a essere realizzate in linea: questa organizzazione sarebbe troppo rigida e gli investimenti tecnologici non sarebbero giustificati da volumi troppo piccoli. È interessante notare che le strutture organizzative sono complessivamente di tipo organico per le produzioni unitarie e per reparti; diventano più burocratiche e meccaniche per le produzioni in linea; nelle produzioni a flusso le strutture possono essere sia di tipo meccanico, quando l’incertezza è limitata, sia di tipo organico, quando l’incertezza è maggiore e gli individui devono essere più autonomi e responsabilizzati. Nel primo caso prevalgono dunque le mansioni operative e la standardizzazione dei processi, nel secondo le mansioni professionali e le standardizzazione delle competenze.

Le tecnologie dei servizi Il mondo dei servizi si presenta come un aggregato vastissimo che, in molte economie avanzate, contribuisce per oltre il 70% del prodotto interno lordo. Una classificazione di base contempla quattro macrosettori di servizio: • servizi di distribuzione: commercio, distribuzione, trasporti e comunicazioni; • servizi alla produzione: bancari, finanziari, assicurativi, consulen-

6. L’organizzazione nel contesto ) 177

ze, servizi di ingegneria e progettazione, servizi contabili, servizi legali ecc.; • servizi sociali: istruzione, sanità, assistenza, no-profit, associazionismo non governativo ecc.; • servizi alla persona: turismo, ristorazione, sport & fitness, servizi domestici ecc. Grande varietà dei servizi

Analogie con l’industria

In questa congerie di attività economiche le forme organizzative sono naturalmente le più varie (si veda Van Looy, Gemmel e Van Dierdonck, 2003). Operando una certa semplificazione possiamo però distinguere due ambiti fondamentali: i servizi professionali e i servizi di massa. I servizi professionali sono fortemente personalizzati, hanno un’intensità di contatto con il cliente elevata (front office) e ogni progetto o servizio è un caso a sé. Nei servizi di massa invece la personalizzazione è modesta, e le attività di back office, quelle non a diretto contatto con il cliente, sono normalmente predominanti. Si noti che i servizi professionali e di massa sono presenti in tutti e quattro i macrosettori di servizio. Sono professionali alcuni servizi sanitari (sociali), ad esempio la psicoterapia, ma anche la consulenza per la direzione e i servizi legali alle imprese (produzione). Sono servizi di massa le linee aeree (distribuzione), larga parte delle attività bancarie e assicurative (produzione) e molti servizi turistici e di ristorazione (persona). Le considerazioni attorno alla matrice prodotto-processo del paragrafo precedente si riferiscono originariamente alle tecnologie per la produzione di beni tangibili. Con qualche adattamento possono essere però estese anche alla produzione di servizi. Nei servizi professionali le tecnologie di produzione sono generalmente “leggere” e hanno un ruolo e un impatto organizzativo normalmente modesti. I servizi di massa viceversa presentano volume elevato e alta standardizzazione – pensiamo ad esempio alla ristorazione fast-food, ai servizi di sportello bancario, alla grande distribuzione organizzata (retail), o alla diagnostica medica (si veda ad esempio il caso IDI del capitolo 3). Nei servizi di massa il ruolo della tecnologia è spesso rilevante. Ritroviamo forti analogie con quanto visto a proposito delle tecnologie di produzione manifatturiera. I servizi professionali sono idealmente posizionabili in alto a sinistra nella matrice prodotto-processo. Si tratta di ambienti organizzativi nei quali dominano le figure dei professionisti, il livello di formalizzazione del comportamento è basso e le strutture sono di carattere organico. Spesso il lavoro è strutturato attraverso team interfunzionali per integrare competenze specialistiche diversificate. Dal punto di vista macrostrutturale si tratta di strutture semplici o al più funzionali e solo raramente si ritrovano strutture divisionali. Per quanto attiene l’organizzazione per processi, la process ownership è una pratica normale, in quanto i professionisti sono spesso responsabili “in toto” davanti al cliente. I servizi di massa sono posizionabili nella parte centrale e in basso a destra della matrice. Sono caratterizzati da mansioni operative ristrette e talvolta allargate, ma solo raramente da veri e propri ruoli

178 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

ICT come tecnologie di produzione di servizi

Tabella 6.2

professionali. Si consideri l’organizzazione del lavoro in un fast-food: essa presenta analogie fortissime con la produzione industriale di massa basata sulla catena di montaggio, e dunque alta formalizzazione, standardizzazione dei processi, norme e procedure e strutture organizzative di tipo meccanico. Si potrebbe anche osservare che, oggi, con le trasformazioni industriali, i processi di delocalizzazione e il ridimensionamento della grande industria manifatturiera, le ultime grandi burocrazie meccaniche nel nostro Paese sono organizzazioni di servizio – ad esempio banche e assicurazioni – oltre che parti consistenti della pubblica amministrazione. Proprio per questo i servizi di massa sono un ambito privilegiato per i grandi processi di ristrutturazione basati sul Business Process Re-engineering (BPR) con l’obiettivo di standardizzare e automatizzare molte attività. Nei servizi di massa, la dimensione delle operazioni si presta talvolta alla divisionalizzazione della macrostruttura. Si pensi a un’azienda assicurativa tradizionalmente organizzata per rami di attività (vita, responsabilità civile, rischio industriale ecc.). Analogamente a quanto discusso per le produzioni industriali a flusso, in alcuni servizi di massa il ruolo della tecnologia diviene così centrale e la tecnologia stessa così sofisticata e vincolante che il lavoro degli addetti si riduce al controllo della macchina e alla gestione delle eccezioni. Si pensi ancora al caso della diagnostica per immagini sofisticata (TAC, RNM e altre tecnologie). Le mansioni tornano a essere di tipo professionale, ma in un ambiente ad alta intensità tecnologica, caratterizzato comunque da norme e procedure e da una forte standardizzazione dei processi, il cui controllo è incorporato nella tecnologia stessa. In sintesi e con qualche semplificazione possiamo riassumere nella Tabella 6.2 il legame tra tecnologie di produzione dei servizi e caratteristiche organizzative dei medesimi. È interessante notare che in molti settori di servizio le tecnologie rilevanti che consentono la produzione e l’erogazione del servizio,

TECNOLOGIA E ORGANIZZAZIONE NEI SERVIZI

Servizi professionali

Servizi di massa

Tecnologie leggere di impatto modesto

Tecnologie pesanti e automazione

Alta intensità di lavoro

Alta intensità di capitale

Prevalenza del front office

Prevalenza del back office

Alta varietà, personalizzazione e bassi volumi

Bassa varietà standardizzazione e alti volumi

Strutture organiche, mansioni professionali, mutuo adattamento, standardizzazione delle competenze

Strutture meccaniche, mansioni operative ristrette e ruoli manageriali di supervisione e coordinamento, formalizzazione, norme e procedure

Macrostrutture semplici o funzionali

Opportunità per macrostrutture divisionali

Process ownership e team interfunzionali

Opportunità di BPR e standardizzazione dei processi

6. L’organizzazione nel contesto ) 179

spesso in forme nuove e con modelli di business innovativi, sono proprio le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che in altri casi restano invece tecnologie di supporto. Ad esempio nel settore dell’e-commerce – pensiamo alla vendita di musica su Internet – le applicazioni sulla Rete si configurano esse stesse come tecnologie per la produzione del servizio. Al contrario, per le aziende del settore chimico i portali per l’acquisto di componenti e materie prime sono tecnologie di supporto ai processi aziendali, con scarse implicazioni sulle tecnologie industriali delle trasformazioni chimiche.

6.3.3

Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) Il ruolo delle ICT nel ridisegnare l’organizzazione e la strategia delle aziende è incommensurabile. Sono stati scritti fiumi di inchiostro su questo argomento che oscilla tra realtà e mito. Talvolta le previsioni sono state bruciate da una realtà in trasformazione ancora più rapida e imprevista. Si pensi ad esempio ai primissimi anni Novanta del secolo scorso, un’epoca nella quale Internet già esisteva da due decenni ma era stata riservata agli scopi della difesa e solo successivamente alle necessità del mondo universitario, restando perlopiù una curiosità usata dagli accademici per scambiarsi informazioni sulla ricerca. Solo cinque anni dopo la Rete stava cambiando il mondo, connettendo milioni di individui e organizzazioni nelle transazioni quotidiane. Un impatto enorme al di là di ogni previsione, anche considerando la battuta di arresto seguita al crollo azionario del 2001. Ma ci sono anche esempi di segno opposto, di previsioni miseramente fallite. Il box seguente ne illustra uno.

Il flop del telelavoro È dagli anni Settanta che si parla di telelavoro. Un insieme di tecnologie (in tempi recenti anche Internet) avrebbe dovuto consentire cambiamenti organizzativi straordinari: lavoratori e lavoratrici che avrebbero operato da casa propria semplicemente dotati di un PC e di una linea di trasmissione. All’orizzonte si prospettarono cambiamenti straordinari: drastica riduzione della mobilità urbana e conseguente beneficio per il traffico e l’inquinamento; la possibilità per le aziende di risparmiare sugli spazi di uffici e filiali; nuove opportunità di lavoro per persone costrette a casa da motivi personali o familiari e altri benefici ancora. Nulla di tutto questo. La diffusione del telelavoro è a oggi modestissima e limitata a esperienze pilota difficili da generalizzare, a meno che non si voglia considerare il fenomeno vastissimo del portarsi occasionalmente a casa del lavoro da fare più comodamente in poltrona con il proprio notebook, salvo poi mandare una mail ai propri colleghi. La drastica sottovalutazione dell’esperienza socializzante del lavoro, il rischio di isolamento fisico e culturale, oltre ad altre considerazioni di natura aziendale, relative ad esempio al controllo delle prestazioni, hanno fatto del telelavoro uno dei classici esempi di profezie avventate che, almeno fino a oggi, non si sono avverate, sebbene le tecnologie siano ampiamente disponibili.

180 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Queste brevi considerazioni ci indicano come le ICT in questa fase storica siano il motore di poderosi processi di trasformazione economica e sociale con impatti non sempre facili da prevedere. Nel piccolo spazio di questa sede, non si può affrontare in modo sistematico il legame tra ICT e organizzazione, ripercorrendo le principali teorie in materia. Ci si limita a riportare brevemente una sintesi di alcune rilevanti trasformazioni organizzative legate a tali tecnologie. Nel seguito questa sintesi è strutturata attorno a cinque variabili chiave: il coordinamento, la dimensione, il controllo, le unità ad hoc e la gestione della conoscenza.

Oltre l’unità di luogo e di tempo

Il coordinamento Le ICT hanno un impatto molto forte sul coordinamento. Rendono cioè rapida e meno costosa l’interazione dei membri dell’organizzazione tra loro e con i soggetti esterni (clienti e fornitori). Posta elettronica, intranet, extranet, videoconferenze, webcast, smartphone e relative applicazioni, social media e altre tecnologie ancora consentono mutuo adattamento e interazione diretta come mai in precedenza. L’organizzazione si configura come rete di relazioni intra e interaziendali, che facilita la condivisione delle informazioni e la circolazione della conoscenza, anche di quella tacita o non completamente codificata. A differenza del teatro classico, la rappresentazione della scena non richiede più l’unità di luogo (quella di tempo è ancora largamente necessaria anche se alcuni strumenti asincroni, ad esempio l’email e il voice recording, permettono un certo coordinamento, di solito debole, anche in tempi differenti). Le tecnologie consentono processi decisionali rapidi ed efficaci anche se geograficamente dispersi. Si può concludere che, da questo punto di vista, le ICT potenziano soprattutto le organizzazioni organiche, quelle per cui il mutuo adattamento è cruciale. Wikinomics (Tapscott e Williams, 2007) è il titolo evocativo di un libro di successo che prefigura un modello di sviluppo economico basato sulle collaborazioni peer-to-peer e destinato a sfidare, se non a soppiantare, la grande impresa integrata. È un mondo in cui milioni di persone interconnesse possono auto-organizzarsi, finalizzare le community e costituirsi come forza economica collettiva di dimensioni globali. Naturalmente nello sviluppo tumultuoso delle ICT vi sono anche lati oscuri: pensiamo ad esempio al fenomeno dell’intasamento della posta elettronica, che nei fatti impedisce a molti di coordinarsi con gli altri a causa del cosiddetto “information overflow”, o ancora ai problemi di privacy. La dimensione Un secondo impatto molto forte è sulla dimensione delle organizzazioni. La spinta è verso organizzazioni più agili e più piccole. Infatti le ICT, riducendo i costi di transazione e di coordinamento, consentono alle imprese di esternalizzare interi processi aziendali. In proposito si vedano il capitolo 14 sulle scelte strategiche di make or buy, e il capitolo 4 sulle strutture organizzative e i criteri di raggruppamento. L’outsourcing è, in molti casi, reso possibile dalle tecnologie del-

6. L’organizzazione nel contesto ) 181 Visibilità, tracciabilità e outsourcing

L’organizzazione si contrae

Controtendenze

l’informazione che consentono di avere visibilità istantanea sull’operato dei partner e dei fornitori. Il settore della logistica e dei trasporti ha beneficiato largamente delle ICT che oggi offrono alle aziende clienti la completa tracciabilità dei flussi logistici. I sistemi di telerilevamento e di teleallarme rendono più agevole e meno rischioso il ricorso a servizi esterni di manutenzione e di facility management e l’esternalizzazione degli stessi sistemi informativi, che sono i principali segmenti del variegato business dell’outsourcing. Le ICT favoriscono anche l’esternalizzazione dei processi di vendita e distribuzione, passando da reti interne a contratti di agenzia e di distribuzione. Dal punto di vista teorico le tecnologie riducono i costi di transazione – e in particolare quelli di ricerca e selezione dei partner, quelli di verifica e controllo e quelli di sostituzione – e pertanto creano le condizioni per il mercato. L’organizzazione “si ritira”, in qualche caso fino a divenire virtuale e, in compenso, si espande la rete di relazioni, sostenuta dalla Rete globale. Sebbene l’effetto prevalente delle ICT sia quello di snellire e dunque di rimpicciolire le organizzazioni esistenti, talvolta l’effetto è contrario. In particolare ciò si verifica quando le ICT si configurano di fatto come tecnologie di produzione di servizi di massa, più che come mezzo di coordinamento, a causa di rilevanti economie di scala. Nel settore dei fondi di investimento e in generale della raccolta del risparmio, l’infrastruttura tecnologica è imponente e ha costi fissi elevati, praticamente indipendenti dalla dimensione del fondo. Per contro i costi operativi unitari sono molto bassi, soprattutto con lo sviluppo dei canali di vendita su Internet, ai danni delle tradizionali reti di promotori finanziari. Per un fondo scambiato su Internet, gestire centomila sottoscrittori o cinque milioni non comporta costi operativi totali granché diversi. In compenso un fondo di grandi dimensioni consente di spalmare i costi dell’infrastruttura su un numero elevato di clienti con un ovvio abbattimento delle commissioni di intermediazione. È un tipico caso in cui le ICT gonfiano le dimensioni economiche, senza peraltro che cresca granché la dimensione organizzativa. Il controllo Lo sviluppo delle ICT consente un controllo molto più capillare e centralizzato dell’organizzazione. È l’altra faccia del coordinamento, non sempre piacevole o gradita. Da un lato la tecnologia consente agli individui di interagire meglio e dunque facilita il coordinamento per così dire orizzontale, la diffusione dell’informazione e della conoscenza e favorisce l’idea di un’organizzazione più partecipativa, motivante e relazionale. D’altra parte è innegabile che in molte organizzazioni le ICT sono usate per consentire un forte accentramento decisionale, per potenziare la gerarchia e la supervisione, per consentire ai capi di controllare meglio e di più e per allargare l’ampiezza del controllo e consentire il delayering organizzativo (riduzione dei livelli gerarchici). In questo caso i flussi informativi sono prevalentemente verticali e consentono al top management di controllare in tempo reale le attività, le prestazioni e gli individui. Groth (1999) ha coniato un termine

182 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Sindrome del grande fratello

ICT, da supporto ad asset strategico

efficace per descrivere questo tipo di contesto: joystick organisation. Alcune grandi multinazionali si sono storicamente sviluppate con larghi strati di management intermedio: tra l’headquarter, spesso collocato negli USA, e il mercato locale, la filiale, la fabbrica o il laboratorio di ricerca sono cresciute strutture di management intermedio molto articolate con riporti per mercato e linea di prodotto spesso su scala continentale, ad esempio mercato europeo o Far East (si veda in proposito il caso IBM riportato nel capitolo 4, Caso 4.5). Oggi molte aziende globali stanno mettendo in atto poderosi piani di snellimento e concentrazione, con l’eliminazione di interi strati di management intermedio, che viene in parte sostituito da sistemi informativi capaci di fornire al top management visibilità e controllo su tutta l’organizzazione. Le unità ad hoc Un’altra implicazione recente dello sviluppo tumultuoso delle ICT riguarda il ritorno in grande stile delle unità organizzative dedicate al presidio delle tecnologie stesse. Si tratta di un ritorno, in quanto già negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso le grandi aziende si erano dotate di dipartimenti e strutture per il governo delle ICT. Poi, negli anni Ottanta e Novanta, la spinta verso l’outsourcing e la percezione che le tecnologie informatiche stessero diventando commodity da “comprare” sul mercato hanno indotto lo smantellamento o il ridimensionamento delle unità organizzative dedicate al presidio delle tecnologie informatiche. Oggi, sotto una spinta tecnologica completamente rinnovata non solo in chiave organizzativa, ma soprattutto strategica, legata al business o a nuovi modi di fare business attraverso le ICT, molte aziende hanno rilanciato unità organizzative ad hoc, per governare e orientare a livello centrale lo sviluppo delle tecnologie e delle applicazioni. Viene così spesso istituita la posizione di Chief Information Officer (CIO), un manager il cui peso è in crescita nei processi decisionali strategici delle grandi imprese. Vodafone, Eni, Ferrero, Hewlett Packard sono solo alcuni esempi di aziende che hanno imboccato decisamente questa strada. La gestione della conoscenza Uno dei benefici essenziali delle ICT è quello di rendere possibile, o almeno più agevole, l’accumulo e il riutilizzo di conoscenza nelle organizzazioni. Si riconoscono fondamentalmente due approcci:

Codifica e archiviazione del know-how

• l’approccio people-to-system, basato sulla codifica e l’archiviazione. L’idea di fondo è quella di trasferire la conoscenza, codificandola dalle persone ai sistemi. L’informazione esplicita o resa opportunamente tale viene raccolta e, tramite le tecniche di data warehousing, enormi quantità di dati vengono strutturate e organizzate. Gli strumenti di data mining consentono poi alle persone di navigare nei sistemi, collegare le informazioni, interpretarle, attribuire nessi causali e correlazioni e altro ancora. L’infrastruttura di comunicazione è tipicamente costituita da Intranet ad accesso

6. L’organizzazione nel contesto ) 183

Condivisione di know-how tacito

Ambivalenza organizzativa delle ICT

controllato. Nel settore delle business law firm, i grandi studi internazionali di matrice anglosassone hanno predisposto database globali dei rapporti in essere con i clienti, delle loro partecipazioni azionarie e delle “storie legali” per scoprire in anticipo potenziali conflitti di interesse: non possono infatti correre il rischio che una filiale locale assista un cliente in un Paese, mentre un’altra filiale locale si trovi ad assistere un altro cliente che ha serie questioni legali pendenti con il primo. Le grandi società di consulenza aziendale come Ernst & Young e KPMG hanno sistemi per codificare e archiviare i progetti di consulenza nelle diverse aree di competenza (ad esempio sistemi ERP, controllo di gestione, progetti di supply chain management ecc.) in modo da poter recuperare le esperienze e semplificare i nuovi progetti sia nella fase di offerta, sia in quella di realizzazione. Molte società informatiche hanno predisposto librerie elettroniche di routine di programmazione e di codici per poterli poi riutilizzare semplificando e standardizzando i nuovi progetti; • l’approccio people-to-people, basato sull’interazione diretta e sul dialogo tra le persone. In questo caso la tecnologia serve a far emergere e condividere la conoscenza tacita, senza avere la pretesa di codificarla e di “estrarla” dalle persone. Le tecnologie sono prevalentemente orientate alla comunicazione multimediale e agli ambienti virtuali per scambiare informazioni. Questo approccio tende a favorire e strutturare le comunità di pratiche di cui abbiamo discusso nel capitolo 3 (si veda in proposito il Caso 3.4, relativo a Xerox). In questi casi la tecnologia serve anche per rintracciare le persone che detengono la conoscenza: si creano database non di conoscenza in sé, ma di persone che la detengono (quali progetti hanno svolto, che competenze hanno maturato, che esperienze hanno fatto ecc.). Alcune osservazioni conclusive sul rapporto tra ICT e organizzazione. Si tratta di un legame poliedrico e molto studiato, ma ambivalente e dicotomico e perciò difficile da cogliere con nettezza (si veda in proposito Zuboff, 1988). Ad esempio le ICT in generale favoriscono l’outsourcing e riducono le dimensioni delle organizzazioni, ma in alcuni casi presentano nuove economie di scala e dunque favoriscono aggregazioni e grandi dimensioni. Vengono incorporate dalle organizzazioni esistenti al fine di renderle più efficienti ed efficaci, ma talvolta le spiazzano, mostrando tutta la loro inadeguatezza e creando opportunità per nuove forme organizzative. O ancora agevolano l’interazione diretta tra le persone, il coordinamento e il mutuo adattamento, il che conferisce loro un’aura socialmente positiva. E, tuttavia, in altri casi rafforzano il controllo gerarchico e la supervisione, rendendo superflui interi strati di middle management. Si caricano così di valenze negative agitando anche gli spettri del controllo invasivo e della limitazione delle libertà degli individui. Addirittura sono talvolta dipinte come il nuovo strumento di sfruttamento nelle mani del capitalismo globale nei confronti della classe lavoratrice e dei

184 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Paesi in via di sviluppo. Anche su un piano aziendale le ICT possono avere impatti contrastanti. Da un lato possono realizzare l’integrazione dei processi, favorire la learning organisation, la creatività degli individui e le comunità di pratiche, tutti aspetti profondamente coerenti con i modelli organizzativi di tipo organico. D’altra parte le tecnologie a supporto della standardizzazione e dell’automazione spesso accompagnano e anzi rinforzano la burocrazia e i modelli organizzativi di tipo meccanico. È inoltre innegabile che il ricorso spinto ad approcci people-to-system tende a espropriare gli individui e i professionisti del loro know-how esclusivo, trasformandoli in operatori intercambiabili. Insomma, quasi sempre le ICT sono una realtà a due facce.

6.4

Il contesto interno: i fattori strategici Una visione razionale ed eccessivamente determinista guarda all’organizzazione aziendale come a uno strumento nelle mani del management per realizzare la strategia e raggiungere gli obiettivi istituzionali. In quest’ottica la strategia guida le scelte organizzative. Vi sono numerose evidenze a sostegno di questa tesi. Soprattutto a livello macrostrutturale l’impatto è in molti casi evidente. Quando la mission e la strategia aziendale cambiano, l’organizzazione deve modificarsi. Il Caso 6.4 illustra un esempio celebre: quello di Poste Italiane.

CASO

6.4

Poste Italiane Poste Italiane conta circa 151.000 dipendenti e 14.000 uffici postali dislocati su tutto il territorio nazionale. Le competenze maturate in ambito postale, logistico, finanziario e di business process outsourcing sono erogate attraverso un sistema di reti logistico/postali di addetti al recapito e agli sportelli, una rete commerciale e una rete telematica costituita da oltre 50.000 postazioni di lavoro tutte collegate fra loro. L’azienda è oggi uno dei maggiori operatori postali del continente con buone performance operative e finanziarie. Tuttavia, non è sempre stato così. In passato le Poste erano considerate uno degli apparati più inefficienti della Pubblica amministrazione, sempre sull’orlo di una crisi irreversibile con perdite astronomiche che lo Stato era costretto periodicamente a ripianare. Fu allora intrapreso un percorso coraggioso di razionalizzazione, di aumento dell’efficienza e del livello di servizio, e di espansione attraverso una vasta gamma di servizi. I capisaldi del piano strategico del periodo 1998-2002 (quello del cambiamento e del risanamento) furono da un lato l’imperativo di recuperare efficienza e di raggiungere gli standard di servizio dei migliori servizi postali europei e dall’altro quello di fare leva sull’ineguagliabile rete di sportelli sul territorio per offrire servizi non esclusivamente postali, ad esempio in campo finanziario. Gli impatti organizzativi e strutturali del piano strategico furono enormi. Anzitutto vi fu la creazione di vere e proprie divisioni di business dedicate ai singoli prodotti/servizi, qualcosa che fino ad allora era completamente estraneo alla cultura organizzativa delle Poste. Oggi, dopo ulteriori evoluzioni della macrostruttura, il gruppo è articolato in sei divisio-

6. L’organizzazione nel contesto ) 185 ni di business: Servizi Postali (pianificazione e gestione della catena logistica della corrispondenza e dei pacchi); Marketing dei Servizi Postali e Digitali (sviluppo dei nuovi servizi postali, digitali e filatelici); Marketing e Governo dei Servizi Logistici (sviluppo dei servizi di spedizioni nazionali e internazionali); BancoPosta (servizi bancari e finanziari); Mercato Privati (canale di accesso retail dei 14.000 sportelli); Grandi Imprese e Pubblica Amministrazione (presidio commerciale diretto dei grandi clienti). Già in quella fase il management era consapevole della rilevanza crescente di Internet e si rese conto che era necessario garantire da subito l’offerta di servizi online, tra cui l’accesso ai servizi postali e di BancoPosta. Fu così creata la società controllata Postecom Spa. Furono create strutture centrali di staff per garantire le attività trasversali di supporto per il funzionamento dell’azienda. Esse riguardavano le funzioni di comunicazione, legale, affari istituzionali e regolamentari, la gestione delle risorse umane, le ICT, la pianificazione strategica, l’amministrazione finanza e controllo e altri organi di staff ancora. L’azienda istituì anche un unico grande call center per migliorare decisamente la prossimità al mercato e il livello di servizio alla clientela. All’inizio del processo di cambiamento strategico le Poste furono trasformate in una Società per Azioni (febbraio 1998), con lo scopo di realizzarne l’indipendenza patrimoniale. Da allora non fu più necessario alcun intervento a copertura delle perdite da parte dello Stato. In quel periodo, il Piano di impresa prevedeva la cosiddetta “aziendalizzazione dei comportamenti”: responsabilizzazione sui risultati, lavoro di squadra, avanzamenti fondati sulla meritocrazia ecc. Fu richiesto un cambiamento culturale enorme, con il concorso dei lavoratori e delle loro rappresentanze sindacali, oltre a investimenti consistenti in formazione e riqualificazione del personale. Nelle parole dell’allora Amministratore delegato Corrado Passera: “Gli interventi più rappresentativi hanno riguardato le infrastrutture tecnologiche di base (abbiamo messo in rete oltre quarantamila postazioni di lavoro) e i sistemi informativi di gruppo; i sistemi di pianificazione e controllo di gestione (oltre ventimila centri di responsabilità); i sistemi di valutazione e sviluppo del personale ecc. La prima grande ‘rivoluzione’ ha riguardato la struttura organizzativa e gestionale. Il modello organizzativo precedente – di tipo funzionale, con un forte accentramento decisionale e la contemporanea presenza di molti livelli gerarchici e operativi – è stato sostituito da un nuovo modello basato sulle divisioni, per dare chiare responsabilità di business, autonomia operativa in un quadro di regole chiare e valide per tutti e per ridurre drasticamente le strutture intermedie tra azienda e clientela”. Il caso di Poste Italiane rimane uno dei maggiori esempi di cambiamento strategico-organizzativo radicale di una grande impresa italiana.

Il caso di Poste Italiane ci illustra proprio come, di fronte alla crisi profonda, un cambiamento strategico e una mission rinnovata (ora orientata al cliente ed estesa al di là del tradizionale servizio postale) richiedano cambiamenti organizzativi rilevanti. Emerge chiara la spinta alla divisionalizzazione già individuata da Chandler (1963) come effetto della diversificazione del business e della necessità di migliorare l’efficacia e il livello di servizio delle singole attività. La diversificazione porta con sé strutture multidivisionali (M-form, si veda in proposito il capitolo 4). Nel caso di Poste Italiane, una delle chiavi dell’innovazione organizzativa è stata la riprogettazione dei processi aziendali secondo le logiche viste nel capitolo 5. Come già evidenziato in quella sede a proposito del caso Cobra (Caso 5.1), la molla che fa scattare l’orientamento ai processi è spesso di tipo strategico e riconducibile a driver quali: la centralità del cliente, la time-based competition, il miglioramento del trade-off tra efficacia

186 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Strategie competitive

Organizzazioni progettate

Strategie ex post

ed efficienza e la necessità di canalizzare le risorse verso i risultati (orientamento al risultato). Si possono fare anche altre considerazioni sul come la strategia influenza l’organizzazione: ad esempio le strategie competitive di base di Porter (1980) hanno chiare implicazioni organizzative. La strategia di leadership di costo enfatizza la ricerca di efficienza, le economie di scala e il controllo dei costi: ne seguono strutture funzionali, organizzazioni meccaniche, alta formalizzazione, standardizzazione dei processi, supervisione diretta, forte accentramento dei processi decisionali. Le strategie di differenziazione basate sull’innovazione e il livello di servizio richiedono strutture organiche, organizzazioni flessibili, bassa formalizzazione, standardizzazione delle competenze e mutuo adattamento, orientamento all’apprendimento. Gli esempi Mobiltekna e ABL presentati nel Caso 6.2 si prestano a queste considerazioni. Le due aziende perseguono strategie competitive differenti. Mobiltekna cerca costantemente di differenziarsi dalla concorrenza attraverso la personalizzazione e il livello di servizio. La sua organizzazione è infatti riconducibile al tipo organico con tutte le implicazioni che abbiamo già discusso in precedenza. ABL persegue invece una strategia di efficienza e cerca di mantenere limitati i costi. La sua struttura è più riconducibile al tipo meccanico. Tuttavia proprio questo esempio ci consente uno spunto di riflessione più critico sul nesso strategia-struttura organizzativa. Qual è infatti la causa e quale l’effetto? L’idea che l’organizzazione segue la strategia può rivelarsi abbastanza fondata in casi come quello di Poste Italiane. È soprattutto quando la crisi sembra irreversibile e la sopravvivenza stessa dell’organizzazione è messa in discussione che una visione strategica nuova può dare una scossa all’organizzazione, imprimendo dall’alto la svolta. Si tratta di cambiamenti organizzativi violenti e spesso dolorosi accompagnati da profonde ristrutturazioni, fuoriuscite di personale e di dirigenti che risultano difficilmente “riconvertibili” al nuovo modello organizzativo. In altri casi però la strategia sembra più il frutto non sempre intenzionale di una determinata organizzazione. Alcuni hanno anche sostenuto che la strategia aziendale è spesso una rilettura a posteriori di un sentiero casuale e incrementale fatto di decisioni che una determinata organizzazione con le sue strutture, le sue competenze, le sue culture prende di fronte alle opportunità e alle minacce (si veda ad esempio Mintzberg, 1994). Torneremo su questi aspetti nel capitolo 7. Consideriamo ancora il caso Mobiltekna: nella storia recente dell’azienda non emerge un momento in cui lo statement strategico si evidenzia con chiarezza. Piuttosto un’organizzazione giovane, fatta da giovani, poco formalizzata e non verticistica, dove il lavoro di gruppo è la norma, si è ritrovata naturalmente a realizzare una strategia di differenziazione e di servizio. Si può dire che tale strategia era nel DNA organizzativo dell’azienda e che di progettazione organizzativa ve ne è stata poca. Consideriamo un altro caso che abbiamo già discusso più volte, quello delle organizzazioni professionali. Molte di esse sono di fatto con-

6. L’organizzazione nel contesto ) 187

Il benessere dell’organizzazione

6.5

I cambiamenti organizzativi della crescita

trollate o governate dai professionisti stessi. Molte società di consulenza e studi legali, ad esempio, sono partnership tra i professionisti, e lo sviluppo di carriera dei più giovani passa proprio per l’accesso alla partnership. Nelle organizzazioni professionali governate in tutto o in parte dai professionisti, spesso la strategia consiste nel mantenere o nel raggiungere il benessere e l’interesse dei membri dell’organizzazione. Alcune grandi burocrazie professionali, anche pubbliche (ad esempio le università), sono sostanzialmente governate dai professionisti (nel caso il corpo accademico attraverso i suoi organi elettivi). In molti casi questa focalizzazione interna sul benessere dell’organizzazione non è in contrasto con gli scopi costitutivi, siano essi il profitto – come nel caso dell’impresa privata – o altri obiettivi istituzionali, come nel caso delle pubbliche amministrazioni e delle società cooperative. In alcuni casi invece le organizzazioni sembrano anteporre gli interessi corporativi dei loro membri ai fini istituzionali, che vengono pertanto penalizzati. Le imprese o le istituzioni nelle quali la focalizzazione è essenzialmente interna sono un altro esempio di come l’organizzazione possa essere il motore della strategia che, in questi casi, si sviluppa a partire dai bisogni e dagli interessi dei membri stessi dell’organizzazione. Il nesso strategia-organizzazione è dunque certamente biunivoco: il contesto strategico interno e gli assetti organizzativi delle imprese si influenzano reciprocamente in modo profondo.

Il contesto interno: i fattori anagrafici Oltre che dall’ambiente esterno, dalla tecnologia e dalla strategia, l’organizzazione è influenzata anche da un complesso di fattori che possiamo definire anagrafici, in quanto fanno riferimento alla dimensione, all’età e al posizionamento nel ciclo di vita dell’azienda. Nel capitolo 2 abbiamo analizzato a fondo il legame tra organizzazione e crescita. Il caso Bodin, ad esempio, ci ha illustrato le trasformazioni organizzative di un’azienda che evolve nel tempo, cresce e invecchia fino all’estinzione. A questo punto della trattazione, abbiamo già svolto indirettamente molte considerazioni sul ruolo dei fattori anagrafici e in particolare della dimensione. Le spinte verso la crescita implicano cambiamenti organizzativi rilevanti. Le imprese piccole hanno strutture semplici, bassa formalizzazione, coordinamento informale, attenzione prevalente se non esclusiva al prodotto, alla tecnologia, all’idea imprenditoriale. Sono forme essenzialmente organiche, secondo la definizione che ne abbiamo dato nel capitolo 4, che privilegiano la flessibilità, il presidio delle nicchie, l’adattamento e la capacità di risposta al mercato. Le imprese grandi cercano di ottenere vantaggi di scala, sono dominate dalla specializzazione sia degli individui sia delle unità organizzative, si dotano di strutture funzionali e, quando crescono ancora e si diversificano, si dotano di strutture multidivisionali o addirittura a matrice. La crescita dimensionale porta con sé l’emergere della burocrazia come apparato di

188 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Le crisi di crescita

norme e procedure per l’esercizio dell’autorità formale. Nelle imprese di maggiori dimensioni il coordinamento e il controllo diventano più sofisticati, si giovano sempre più delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (si veda il paragrafo 6.3.3). Imprese piccole e grandi ricercano e perseguono vantaggi differenti attraverso modelli organizzativi inevitabilmente diversi. L’aspetto un po’ paradossale è che la piccola impresa di successo cerca spesso di diventare grande; anzi, il suo successo si misura nella capacità di crescere e dunque di andare incontro a cambiamenti strategici e organizzativi che la porteranno lontano dalle basi strategiche e organizzative del suo successo come piccola impresa. Il processo di crescita e trasformazione organizzativa non è quasi mai esente da rischi e da crisi anche serie. Un modello molto noto, quello di Greiner (1972), identifica cinque stadi della crescita, durante i quali le pratiche e gli assetti organizzativi rimangono abbastanza stabili. Il passaggio da uno stadio all’altro è sempre segnato da un periodo turbolento, una crisi nel senso etimologico del termine, ovvero da una trasfromazione profonda dell’organizzazione. Senza attraversamento della crisi è impossibile l’ingresso in un nuovo stadio stabile. Da ogni crisi emergono nuove pratiche che costituiscono una buona soluzione per i problemi che si sono manifestati con la crescita. Paradossalmente le “buone pratiche” per un certo stadio costituiscono spesso il seme di ulteriori crisi future, cioè di problemi che non potranno più essere gestiti con le pratiche organizzative emerse dalle

Figura 6.5

IL CICLO DI VITA DELLE ORGANIZZAZIONI

Dimensione Snellimento e rilancio

Maturità continuata Stadio di collaborazione

Crisi di rivitalizzazione

Stadio del coordinamento Stadio della delega Stadio della direzione

Crisi di burocrazia

Declino

Crisi di controllo

Crisi di autonomia Stadio della creatività

Crisi di leadership Età Fonte: adattato da Greiner (1972).

6. L’organizzazione nel contesto ) 189

Tra appartenenza e voglia di contare

crisi precedenmti: le soluzioni di oggi divengono spesso i problemi di domani. La prima fase del modello è lo stadio della creatività. Coincide con la fase imprenditoriale fondativa ed è caratterizzato dalla forte focalizzazione sul prodotto/servizio e sulle attività operative di produzione e vendita. In questa fase giovane ciò che governa le scelte dell’azienda è il feedback del mercato. Tutto l’impegno è orientato a decollare, sopravvivere e consolidarsi. L’organizzazione è semplice e poco strutturata, la comunicazione è informale, prevalentemente basata sul mutuo adattamento. Con la crescita dimensionale, questa concentrazione sugli aspetti operativi diventa essa stessa un problema e conduce alla prima crisi, detta crisi di leadership. È necessario che emerga una leadership manageriale, pena l’impossibilità di crescere ancora, la perdita di opportunità e l’insorgenza di problemi gestionali e organizzativi: può essere l’imprenditore stesso ad assumersi questo compito, oppure può favorire la crescita manageriale dei suoi più stretti collaboratori o, ancora, può chiamare dall’esterno manager di esperienza. Alcune piccole imprese hanno difficoltà ad affrontare questa prima trasformazione, la ritardano o non compiono per intero i passi necessari (si veda in proposito la storia della Bodin – Caso 2.3 – illustrata nel capitolo 2). Se l’impresa supera la crisi di leadership, essa entra in una nuova fase espansiva relativamente stabile in cui il management esprime una chiara direzione di marcia (stadio della direzione). Il management struttura l’organizzazione, ne plasma i valori e la cultura. Vengono introdotte procedure formalizzate e sistemi di controllo, ma i processi decisionali divengono piuttosto centralizzati. Durante questa fase i membri dell’organizzazione sviluppano spesso entusiasmo e senso di appartenenza. Si spendono per la crescita e l’affermazione dell’impresa. Apple alla fine degli anni Settanta, galvanizzata dai primi successi commerciali, o Google alla fine degli anni Novanta erano organizzazioni in questa fase del ciclo di vita. Questo stadio va incontro a crisi di autonomia. Le persone sono legate all’organizzazione e perciò desiderano avere voce in capitolo, poter contare di più, ma vedono che non partecipano alle decisioni importanti. Non necessariamente la leadership è messa in discussione, ma il bisogno di partecipazione e di autonomia, se non soddisfatto, crea disaffezione e dunque limita le possibilità di crescita. Superare la crisi di autonomia implica introdurre una gestione più decentrata. Siamo nello stadio della delega: la macrostruttura evolve verso forme divisionali che consentono appunto maggiore autonomia attraverso la creazione di responsabilità di prodotto, mercato, area geografica. L’azienda ora può crescere ancora sospinta dalla motivazione e dall’azione dei manager intermedi che sviluppano in autonomia la parte di attività sotto la propria responsabilità. I problemi ora possono venire dal top management che teme di perdere visibilità e controllo su un’organizzazione diversificata e frammentata. È la crisi di controllo che porta al rafforzamento dei sistemi

190 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE

Delega e burocrazia

Nuovi slanci

di reporting, ma anche a ruoli più formalizzati e a norme e procedure più stringenti. Si entra così in una nuova fase (stadio del coordinamento) in cui vengono sviluppate norme e procedure e formalizzati i ruoli per poter coordinare un’organizzazione ormai molto vasta e articolata. Questi cambiamenti sono necessari affinché un’organizzazione più decentrata funzioni. In altre parole, il bisogno di delega, già emerso in precedenza, ha ora come contropartita la formalizzazione e la burocratizzazione. L’enfasi si sposta sugli aspetti economico-finanziari, talvolta perdendo di vista il valore dei prodotti e dei servizi offerti, l’innovazione e le reali esigenze del mercato. Con l’eccesso di norme e procedure si va incontro prevedibilmente a una crisi di burocrazia. Questa si manifesta soprattutto in occasione di cambiamenti tecnologici e di mercato, di fronte ai quali un’organizzazione ormai troppo complessa ed elefantiaca appare incapace per raccogliere le sfide di un contesto che cambia. L’uscita dalla crisi implica un recupero dello spirito di squadra e di appartenenza che non azzera le norme, cosa impossibile viste ormai le dimensioni dell’organizzazione, viceversa impara a convivere con le norme dando slancio al lavoro di gruppo, creando sensi di appartenenza e microculture locali. Siamo ora nello stadio di collaborazione, caratterizzato da un ritorno almeno parziale verso forme organiche. Raramente però questa fase può durare a lungo senza andare incontro a una crisi di rivitalizzazione. L’organizzazione, ormai nel pieno della sua maturità, ha bisogno di nuovo slancio e nuove direzioni di sviluppo. Spesso la crisi di rivitalizzazione coincide con difficoltà economiche e di mercato. L’organizzazione è percepita anche dai suoi membri come inadeguata al contesto, lenta e ingessata, povera di idee innovative. La Fiat dei primi anni del Duemila era certamente in una crisi di rivitalizzazione. Gli esiti di questo tipo di congiuntura, che a differenza delle altre non è solo organizzativa ma anche strategica, possono essere diversi: dal declino più o meno rapido, allo snellimento e al rilancio recuperando non solo efficienza ma anche efficacia e flessibilità, caratteristiche queste tipiche degli stadi giovani del ciclo di vita. Se il contesto competitivo lo consente e la posizione dell’azienda è di indubbia forza, la crisi di rivitalizzazione può assumere connotati soft e dare luogo a una maturità continuata. Aziende come Telecom Italia ed Enel, o anche la stessa Fiat, vivono oggi probabilmente una fase simile del loro ciclo di vita. Il modello di Greiner, come tutti i modelli evolutivi, presenta dei limiti, principalmente dovuti al fatto che non tutti i processi di crescita seguono rigidamente le fasi sequenziali del modello. Ad esempio, la crisi di rivitalizzazione può intervenire senza alcuno stadio di collaborazione e addirittura di coordinamento. Se il contesto competitivo e l’ambiente evolvono molto rapidamente è possibile che la crisi finale si innesti direttamente su uno stadio di direzione. La crisi che investì e travolse Netscape nella battaglia ingaggiata con Microsoft nel segmento degli Internet browser si abbatté su un’organizzazione giovane e motivata, non ancora burocratizzata. Il modello, pur con tutti

6. L’organizzazione nel contesto ) 191

i limiti, mette però in evidenza come le caratteristiche anagrafiche – dimensione, età, stadio nel ciclo di vita – influenzino le variabili organizzative, sia micro che macrostrutturali. Peraltro è del tutto evidente che tali fattori interagiscono con gli altri (settore, mercato, tecnologia e strategia) nell’influenzare l’organizzazione. Il Caso 6.5 illustra la rapida evoluzione strategica e organizzativa di Amazon, alla luce del modello di Greiner.

CASO

6.5

Il caso Amazon Amazon ha cambiato per sempre il settore editoriale. Non solo ha inventato la vendita online di libri e ne è diventata l’azienda leader al mondo. Con Kindle è anche diventata il primo distributore di e-book. Nel frattempo si è anche diversificata in altre categorie mercelogiche, distribuendo una varietà enorme di prodotti e diventando il primo operatore al mondo nell’e-commerce. Nel 1994, il suo fondatore Jeffrey Bezos, con in tasca una laurea in ingegneria informatica, lavorava in una banca di investimenti di New York. Intravedeva un potenziale immenso nel fenomeno allora ancora di nicchia chiamato Internet, i cui accessi crescevano in quell’anno di oltre il 2000% rispetto all’anno precedente. Alla caccia di un’idea per cavalcare il fenomeno, Bezos si convinse che la vendita di libri era un’idea vincente soprattutto in un immenso Paese come gli Stati Uniti, dove la maggior parte dei lettori abita lontano da librerie ben fornite. Attraverso Internet, Bezos poteva offrire a chiunque e dovunque una varietà enorme di libri: questa era l’idea vincente. Si licenziò dalla banca e si trasferì sulla Costa occidentale, a Seattle, dove decise di impiantare la sua avventura imprenditoriale. Con 7 milioni di dollari di capitale preso a prestito, cominciò a operare in un garage, con pochi collaboratori. Bezos si concentrò subito sulla progettazione di un’interfaccia per la navigazione internet estremamente semplice e user friendly, ma anche informativamente ricca, che potesse dare al cliente quel senso di prossimità virtuale se non fisica necessario per competere con le librerie tradizionali. Il successo iniziale fu notevole e obbligò Bezos a trasferirsi in spazi idonei dopo poche settimane. Il clima organizzativo in questa fase era quello di un gruppo di pionieri entusiasti che si stavano lanciando in un’avventura epocale. Amazon era allora in pieno stadio di creatività. Bezos aveva delle doti non solo imprenditoriali ma anche manageriali, in parte acquisite attraverso la sua esperienza nella banca di investimento newyorkese. Grazie a ciò la crisi di leadership fu quasi innavertita e superata rapidamente. Sotto la guida di Bezos l’azienda potè evolvere nello stadio di direzione senza ostacoli alla crescita. L’elemento cruciale per Amazon era trattare una mole enorme di informazioni (gli ordini dei clienti), processarle e consegnare rapidamente i libri ai cliente. Se le consegne fossero state troppo lente tutta la sfida alla distribuzione tradizionale sarebbe stata compromessa. Perciò in questa fase Bezos diede una chiara direzione allo sforzo dell’azienda, tutto teso a costruire e rendere via via più efficiente la piattaforma informatica. Inoltre, organizzò rapidamente la sua azienda attraverso una struttura funzionale centrata su tre unità chiave: il dipartimento R&D, dove continuava a sostenere la ricerca avanzata e lo sviluppo software; il dipartimento IT per la gestione operativa delle informazioni e delle transazioni, che utilizzava le ap-

192 ) PARTE I – ORGANIZZAZIONE plicazioni sviluppate dall’ R&D; e il dipartimento di logistica e gestione dei materiali, che curava tutto il processo di distribuzione fisica. Già nel 1995 molti piccoli distributori indipendenti e librerie di prossimità non potevano reggere la competizione di Amazon, che contava su un’offerta sterminata e saltava uno o due livelli di intermediazione commerciale (grossisti, canali distributivi locali ecc.), proponendosi direttamente al lettore. Anche Barnes & Nobles, la più grande catena di librerie americane, era preoccupata. Nel 1996 Bezos impresse ad Amazon la svolta della globalizzazione: cominciò a muoversi prima nei paesi anglofoni (UK, Canada e Australia) e poi anche in altre aree (Germania, Cina e Giappone) per le quali furono necessari importanti adattamenti della piattaforma informatica. Ad un certo punto Bezos si rese conto che l’assistenza al cliente diventava sempre più critica. Occorreva gestire una grande quantità di eccezioni, di casi particolari e di richieste inusuali. Un maggiore livello di servizio era possibile solo attraverso una maggiore autonomia delle sedi locali, sia dei manager, ma anche degli addetti. Incoraggiò in particolare il mutuo adattamento e la possibilità di gestire procedure off-line pur di garantire un elevato livello di servizio. Anche in questa occasione Bezos seppe prevenire una crisi di autonomia concedendo delega e possibilità di mutuo adattamento interno (tra gli addetti) ed esterno (con il cliente). Amazon si ritrovò così nello stadio della delega. L’evoluzione di Amazon nei primi anni Duemila fu segnata dall’ulteriore espansione geografica e, soprattutto, dalla diversificazione. L’idea originaria fu applicata alla vendita di altre categorie merceologiche come cd e dvd, elettronica di consumo, giocattoli, articoli da giardinaggio, abbigliamento, addirittura automobili e parti di ricambio. Questa scelta da un lato permise ad Amazon di crescere ancora, attraverso attività anche più profittevoli della distribuzione dei libri. Dall’altro, però, annacquò un po’ l’immagine dell’azienda, molto caratterizzata come libreria online, per trasformarla in quella del più grande distributore (generico) online di una quantità incredibile di prodotti fisici diversi e di contenuti immateriali. Le principali conseguenze organizzative di questa strategia furono due: in primo luogo crebbe nel vertice l’esigenza di tenere sotto controllo un’organizzazione più vasta e diversificata; in secondo luogo venne un po’ meno quel clima di squadra e di affiatamento tipico dei primi stadi, complice anche la frammentazione delle attività. Tuttavia, grazie anche alla dimensione ancora contenuta dell’organico, Amazon fu in grado di sviluppare varie pratiche di coinvolgimento e valorizzazione dei suoi membri. L’azienda si è ritrovata nello stadio del coordinamento, avendo ancora una volta attraversato senza grossi scossoni una crisi (trasformazione), in questo caso la crisi di controllo. Non si sono visti i segni di un’eccessiva burocratizzazione e in questa fase la motivazione e il coinvolgimento dei dipendenti sono rimasti abbastanza elevati. Nella seconda metà degli anni Duemila, Amazon sviluppò ulteriormente la diversificazione, gettandosi nella vendita online di contenuti in formato elettronico, sviluppando applicazioni per il download di musica, video, news ecc. La vera svolta di questa fase venne però nel 2007 con il lancio di Kindle, il dispositivo di Amazon per la fruizione di contenuti, in primo luogo gli e-book. Nel frattempo i numeri di Amazon sono divenuti impressionanti: il fatturato nel 2011 è stato pari a 48 miliardi di dollari, raddoppiato rispetto ai 24 di soli due anni prima. Anche l’organico è esploso: a fine 2011 i dipendenti erano oltre 56.000, con un aumento del 67% rispetto all’anno precedente. La dimensione dell’azienda e la rapida evoluzione del contesto pongono ad Amazon nuove sfide e certamente implicheranno altre trasformazioni organizzative.

6. L’organizzazione nel contesto ) 193

In questo capitolo abbiamo cercato di rileggere l’organizzazione aziendale e le sue variabili chiave (microstruttura, macrostruttura e processi aziendali) alla luce del contesto in cui le organizzazioni reali sono immerse. Abbiamo distinto diverse tipologie di fattori contingenti – ambientali, tecnologici, strategici e anagrafici – consci del fatto che essi agiscono simultaneamente e si influenzano a vicenda secondo lo schema proposto all’inizio di questo capitolo (Figura 6.1). Le prospettive contingenti sono del tutto funzionali all’ottica manageriale presentata nel capitolo 1: è necessario capire i fattori di contesto per progettare al meglio le organizzazioni e prevederne l’evoluzione.

parte seconda

Processi decisionali Impresa

Organizzazione

Fornitori

Acquisti e supply chain

Marketing

Processi decisionali

Clienti

Complessità e limiti delle decisioni

7. Le decisioni nelle organizzazioni • Successo e consapevolezza delle decisioni • Decisioni multi-attore e multi-obiettivo • Coalizioni, conflitti e negoziazioni • La razionalità limitata • Incrementalismo, caos organizzato e sensemaking

Le decisioni in pratica

8. Il processo decisionale • Problem setting e problem solving • Gli approcci alle decisioni: thinking first, doing first e seeing first • Le tecniche di supporto • Il rischio e l’incertezza

L’incertezza strategica

• • • •

9. Le decisioni interattive Teoria dei giochi Alternative e Payoff Efficienza ed equilibrio Giochi monostadio e multistadio

L’incertezza ambientale 10. Il ruolo del tempo • Decisioni e cambiamenti ambientali • Timing delle decisioni: tempo disponibile e tempo necessario • Velocità, novità e complessità dei cambiamenti

La parte seconda affronta le modalità con le quali le imprese prendono decisioni, un tema strettamente legato alla progettazione organizzativa. Organizzare e decidere sono due attività centrali e complementari della funzione manageriale. Il capitolo 7 è dedicato a presentare i molteplici aspetti legati alle decisioni nelle organizzazioni, introducendo i problemi che vengono sviluppati nei capitoli successivi e discutendo le diverse prospettive di analisi e le scuole di pensiero sul decision making. Il concetto fondamentale che viene introdotto e che guida tutta la trattazione successiva è quello di razionalità limitata dei decisori. Nel capitolo 8 si analizzano più da vicino i processi decisionali, discutendo i vari approcci che si osservano nella pratica aziendale, da quelli più strutturati e analitici a quelli più intuitivi ed empirici. Vengono anche sintetizzate le principali tecniche di supporto disponibili. Viene infine analizzato il ruolo del rischio e dell’incertezza. I due ultimi capitoli approfondiscono l’incertezza che caratterizza le decisioni nelle organizzazioni. Nel capitolo 9 si affrontano le decisioni interattive i cui esiti dipendono da più soggetti indipendenti e spesso antagonisti; queste decisioni vengono inquadrate nell’ambito della Teoria dei giochi. Infine, nel capitolo 10 si analizzano gli effetti della turbolenza ambientale e il ruolo del fattore tempo; in particolare approfondiamo come la tempestività e l’urgenza delle decisioni si confrontano con l’inerzia dei sistemi organizzativi.

7

Le decisioni nelle organizzazioni Razionalità limitata e aspetti cognitivi

SOMMARIO

7.1

Percezione delle conseguenze

CASO

7.1 Successo e consapevolezza delle decisioni j 7.2 Programmazione, rischio e ruoli organizzativi j 7.3 La razionalità limitata j 7.4 Oltre la razionalità limitata: garbage can, incrementalismo e sensemaking

Successo e consapevolezza delle decisioni Tutte le organizzazioni sono caratterizzate da decisioni che ne determinano il successo o l’insuccesso. Talvolta la decisione appare a chi deve prenderla con vivida chiarezza e tinte anche drammatiche. I decisori percepiscono immediatamente la posta in gioco e il processo decisionale si dipana alla ricerca della soluzione migliore, tenendo conto di obiettivi divergenti e di gruppi di interesse o di pressione eterogenei. Altre volte invece la decisione non è avvertita come rilevante o critica. Non se ne colgono la portata e le conseguenze, che pure possono essere catastrofiche. In altri casi ancora le decisioni sono il frutto di processi per lo più lenti e confusi dal punto di vista organizzativo, nei quali gli obiettivi stessi non sono chiari, e gli esiti possono sembrare addirittura casuali o comunque imprevisti. Consideriamo alcuni esempi piuttosto celebri che sono stati ampiamente studiati sotto il profilo delle dinamiche decisionali e organizzative.

7.1

I missili sovietici a Cuba Il 14 ottobre 1962 la ricognizione aerea USA scoprì che a Cuba i sovietici stavano segretamente installando rampe missilistiche in grado di lanciare testate nucleari. L’equilibrio del terrore che segnava l’epoca della guerra fredda sarebbe stato profondamente alterato, poiché i sovietici avrebbero minacciato da vicino il territorio degli Stati Uniti. Il 22 ottobre il Presidente John F. Kennedy lanciò un durissimo monito ai sovietici, dichiarando intollerabile per la sicurezza degli Stati Uniti la presenza di missili a pochi minuti di volo dalle coste della Florida, e annunciando il blocco navale di Cuba. La marina americana avrebbe ispezionato tutte le navi dirette

198 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

all’isola e se necessario affondato quelle recanti a bordo materiale per le basi. Tredici giorni dopo il braccio di ferro si risolse, e i sovietici accettarono lo smantellamento delle basi in cambio dell’impegno americano di non invadere Cuba. Mai prima di allora il mondo era stato così vicino a un’escalation verso la guerra atomica. Tra il 14 e il 22 ottobre, il governo americano prese in considerazione almeno cinque alternative: ignorare il fatto, agire attraverso la diplomazia, invadere Cuba, lanciare un attacco aereo per distruggere le basi, predisporre il blocco navale. Gli obiettivi erano molteplici e contrastanti: salvaguardare la sicurezza degli Stati Uniti, evitare comunque la guerra totale, riaffermare il prestigio del governo americano che si sentiva ingannato dai russi proprio mentre questi tendevano ad accreditare in ogni sede una politica di distensione. Sebbene la decisione finale sul da farsi spettasse al Presidente, a quel processo convulso parteciparono diversi gruppi con interessi in parte differenti: lo staff del Presidente, i servizi segreti (CIA), la diplomazia, il Pentagono, la Marina.

Il riconoscimento di problemi e opportunità

CASO

Il caso dei missili a Cuba (Caso 7.1) è stato oggetto di studi approfonditi sulle dinamiche organizzative e presenta alcune caratteristiche tipiche: un problema, in questo caso drammatico, emerge con chiarezza e i decisori lo mettono a fuoco, cercano soluzioni di cui soppesano i pro e i contro, negoziano tra loro e tentano di convergere verso una soluzione. Le continue consultazioni che coinvolsero i massimi vertici del potere politico e militare degli Stati Uniti rappresentano, nonostante il carattere convulso e anche caotico, un tipico esempio di decisione organizzativa consapevole. Queste decisioni si basano su un processo di identificazione, analisi e risoluzione di un problema. In tale contesto, il concetto di problema non assume necessariamente un’accezione negativa, bensì può costituire tanto una minaccia quanto un’opportunità. Ad esempio, per un’impresa l’entrata di nuovi concorrenti nel proprio settore è una minaccia: essa cercherà di reagire, decidendo manovre come lo sviluppo di nuovi prodotti, la riduzione dei prezzi, nuovi accordi con i distributori ecc. Al contrario, lo sviluppo delle tecnologie informatiche rappresenta un’opportunità: l’impresa cercherà ad esempio di cogliere possibili benefici di efficienza e di sviluppare nuovi servizi per i propri clienti. Non tutte le situazioni sono riconducibili alla decisione organizzativa consapevole. Talvolta, gli attori – i manager e più in generale coloro che hanno il potere e il compito di decidere – non riescono nemmeno a riconoscere correttamente la situazione decisionale, come illustrato dal celebre esempio dell’incidente al Challenger (Caso 7.2).

7.2

L’esplosione del Challenger Alle 11 e 38 minuti del 28 gennaio 1986, la navetta Challenger esplose nel cielo freddo e limpido della Florida, 72 secondi dopo il lancio. La temperatura al suolo era di 2 gradi centigradi. I sette membri dell’equipaggio perirono istantaneamente. Non era il primo grave inci-

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 199 dente nella storia della NASA, l’agenzia spaziale americana, ma l’impatto emotivo sulla nazione e sul mondo intero fu enorme. Fu messa a dura prova la fiducia nella tecnologia e, soprattutto, nella superiorità tecnologica americana. La commissione di inchiesta predisposta dal governo federale chiarì che la causa tecnica del disastro fu la rottura delle guarnizioni di gomma tra il primo e il secondo stadio del propulsore. La fuoriuscita di gas di scarico del primo stadio investì in pieno il secondo stadio provocandone l’esplosione. Il freddo eccezionale della notte precedente il lancio aveva indurito e crepato le guarnizioni, che non avevano poi retto alle notevoli sollecitazioni termiche e meccaniche dei primi secondi di volo. Come è potuto accadere tutto ciò in un’organizzazione del livello della NASA? La ricostruzione dei mesi e dei giorni precedenti il lancio illustra alcuni aspetti sorprendenti dei processi decisionali (Vaughan, 1996). Nessuna violazione formale delle procedure fu compiuta. Piuttosto aveva fallito una macchina organizzativa di enorme complessità il cui compito era quello di valutare la miriade di rischi e di inconvenienti che inevitabilmente sorgono nell’impresa di lanciare un’astronave fatta di oltre un milione di componenti, con il coinvolgimento non solo di migliaia di ingegneri e scienziati della NASA, ma anche di centinaia di fornitori esterni. In realtà la decisione di lanciare fu presa sotto l’effetto combinato della pressione esterna e della macchina organizzativa interna. Nel Paese e nella classe politica vi era un clima di attesa per il lancio, che era già stato rimandato più volte per problemi vari. Vi era anche un’implicita pressione sull’efficienza e l’impatto economico delle missioni spaziali. Sebbene la sicurezza e l’affidabilità rimanessero gli obiettivi prioritari, essi non erano più i soli elementi da tenere in conto. Internamente, l’organizzazione aveva inevitabilmente metabolizzato una cultura del rischio, per il fatto puro e semplice che il lancio perfettamente sicuro non esiste. La questione era invece il grado di rischio e la sua accettabilità. È interessante notare che il freddo (peraltro assai raro in Florida) e il suo potenziale impatto sulle guarnizioni fu anche considerato tra i fattori di rischio, ma fra mille altri che preoccupavano ben di più, come ad esempio il paracadute del serbatoio principale di combustibile che aveva dato segni di malfunzionamento negli ultimi test prima del lancio. Il rischio legato alle guarnizioni fu valutato e giudicato accettabile anche attraverso un confronto con i tecnici dell’azienda che forniva il propulsore. Quando alle 7 della mattina del 28 gennaio fu dato il via libera definitivo al lancio, nessuno ebbe la sensazione che si stesse prendendo una decisione rischiosa per via del freddo. Nei ventiquattro lanci precedenti il freddo non era mai stato un problema particolare e, sebbene le previsioni meteorologiche di un freddo intenso fossero confermate, non vi era nemmeno evidenza che una temperatura così bassa effettivamente potesse causare un deterioramento fatale delle guarnizioni. Un deterioramento sì, ma non fatale. E il rischio fu giudicato accettabile.

Effetti imprevisti

Il fatto organizzativo saliente nella tragedia del Challenger è l’impatto catastrofico di una decisione giudicata marginale, annegata tra mille altre valutate come ben più critiche. Tutto ciò avvenne in un ambiente organizzativo complesso, con decine se non centinaia di decisori coinvolti, in presenza di fattori esterni e interni che sottilmente determinarono una cornice di influenze entro la quale il processo decisionale marciò in modo inconsapevole ma inesorabile verso la catastrofe. Il caso del Challenger è un tipico esempio di decisione organizzativa inconsapevole, o almeno solo in parte consapevole, nella quale gli esiti avvengono in un modo che è rintracciabile a posteriori ma è difficilmente prevedibile a priori. Di fatto, il responsabi-

200 ) PARTE II – PROCESSI

Decisioni cumulate

CASO

DECISIONALI

le del lancio non era pienamente consapevole, e difficilmente poteva esserlo, di tutti i fattori che erano stati presi in esame e che avevano portato a quella decisione. Tra le decisioni facilmente identificate a priori, e tutte centrate sul trovare “la soluzione migliore”, e quelle inconsapevoli esistono molte altre situazioni intermedie nelle quali l’esito finale dipende da un cumulo di decisioni e di azioni intermedie non tutte necessariamente consapevoli. Processi dei quali non sempre è facile rintracciare la razionalità in termini di congruenza tra mezzi e fini. Oggi si può dire che Nokia si è affermata come leader nel settore della telefonia mobile grazie alla decisione da parte del top management di focalizzarsi su questo settore e di cedere i business non correlati come pneumatici, carta, alluminio e produzione di energia nucleare. Polaroid scelse di focalizzarsi sul business delle fotografie istantanee ma, con l’avvento dell’era digitale, questa strategia portò l’impresa al fallimento. Dietro a questi esiti estremi (leadership globale e fallimento) non è, tuttavia, facile ricostruire un processo perfettamente lineare di identificazione di un problema e di analisi delle soluzioni possibili. Consideriamo il caso della Nokia più da vicino (Caso 7.3).

7.3

Nokia Nokia è un’azienda simbolo. È stata a lungo leader mondiale della telefonia mobile, avendo prima di tutti intravisto l’enorme potenziale della tecnologia cellulare. Nel 2007 l’azienda ha raggiunto un picco dimensionale con un fatturato di oltre 51 miliardi di euro. Tuttavia, la competizione globale nel settore è diventata molto dura e Nokia ha risentito da un lato dell’emergere di Apple con il suo I-Phone e dall’altro degli attacchi portati dai giganti asiatici come Samsung. Nel 2011 il gruppo si è fermato a un fatturato di 38,7 miliardi di euro, dovendo registrare una perdita operativa di 1,1 miliardi di euro. Sebbene ferita e nel mezzo di un cambiamento strategico e organizzativo i cui esiti sono ancora incerti, Nokia rimane un attore fondamentale del settore delle telecomunicazioni mobili. L’azienda si identifica così fortemente con il settore da coniare lo slogan “Life goes mobile” e da dichiarare ufficialmente sul suo sito: “Nokia’s mission is simple: connecting people”. La storia di Nokia nasce però molto tempo fa, lontano dall’alta tecnologia, nelle foreste del Grande Nord. Nel 1865 Frederik Idestam installò un mulino per la lavorazione della pasta di legno e la produzione della carta. Nel 1871 ribattezzò la sua impresa Nokia Ab. Per oltre cento anni Nokia sopravvisse e proliferò nel settore della carta e nella produzione di energia. Nel 1966 l’azienda si fuse con altre due imprese che operavano rispettivamente nel settore dei cavi e della gomma, dando luogo a una grande conglomerata diversificata che si affacciava allora sui mercati internazionali. A partire dagli anni Ottanta Nokia cominciò a cedere alcuni importanti business, ma non perché avesse già deciso di concentrarsi sulla telefonia mobile, che allora non esisteva ancora: uscì dal settore pneumatici perché, nonostante un’importante alleanza internazionale, non aveva le dimensioni sufficienti a competere in un mercato che si faceva globale; abbandonò anche il settore della carta perché il management temeva margini di profittabilità decrescenti per questo business; come conseguenza, uscì anche dal settore energetico che è fortemente connesso alla produzione di carta, un’attività industriale ad alto consumo di energia. In realtà, le centrali nucleari furono cedute anche sull’onda emotiva del

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 201 disastro di Chernobyl e dei movimenti di opinione contrari all’energia atomica. È innegabile che l’impresa poté investire nel business nascente della telefonia mobile grazie a quelle dismissioni. Il successo odierno dipende quindi anche da quelle decisioni ormai lontane; tuttavia, è difficile affermare che esse furono prese con questo obiettivo. Molte altre motivazioni giocarono un ruolo importante, e solo nella fase finale del processo, quando l’impresa si ritrovò con molte risorse finanziarie e il “problema” di come investirle, emerse con chiarezza l’opzione delle telecomunicazioni, tra l’altro accompagnata dall’ulteriore uscita dal settore dell’elettronica di consumo. Un altro aspetto interessante di questa storia è che nell’arco di circa un decennio, fra il 1983 e il 1992, il tempo necessario affinché l’intero processo si compisse, si avvicendarono diversi top manager con visioni divergenti sul futuro dei business. Uno dei CEO, ad esempio, era favorevole all’investimento nell’elettronica ma non voleva uscire dal business energetico; il suo successore, invece, accelerò l’uscita dal nucleare e preparò quella dall’elettronica, mentre il business delle telecomunicazioni cresceva.

Incongruenze e divergenze

7.2

Problemi nuovi e déjà vu

La strategia di Nokia di concentrarsi sulla telefonia mobile ha avuto un indubbio successo. Tuttavia, osservata a posteriori essa non ci appare come un unico processo decisionale lineare per risolvere un problema chiaramente identificato a priori. Piuttosto, si configura come una sequenza di decisioni prese da soggetti diversi, con motivazioni solo in parte riconducibili alla creazione della leadership nella telefonia mobile, che è il vero e più rilevante effetto a posteriori. In apertura di questo capitolo abbiamo esemplificato alcuni processi decisionali tipici delle organizzazioni. Volutamente abbiamo considerato casi di successo (crisi dei missili e Nokia) e di insuccesso (disastro del Challenger). Nel complesso essi ci mostrano che la situazione più intuitiva e razionale, secondo la quale il processo decisionale si attiva in risposta a un problema ben identificato (minaccia od opportunità che sia), è solo uno dei casi possibili e anche non molto frequente, almeno nei grandi processi strategici che determinano il successo e la sopravvivenza delle organizzazioni.

Programmazione, rischio e ruoli organizzativi Alcune volte i problemi sono prevedibili o addirittura ripetitivi, e l’organizzazione, che li ha già riconosciuti in precedenza, si concentra essenzialmente sulla risoluzione del problema (problem solving, vedi capitolo 8, paragrafo 8.1). In questi casi si ha a che fare con decisioni programmate. È il caso ad esempio della NASA alle prese con il lancio del Challenger, il venticinquesimo della sua storia. Altre volte le decisioni si presentano in modo del tutto inaspettato e richiamano ogni volta l’attenzione del management su una nuova analisi e impostazione del problema decisionale (problem setting, vedi capitolo 8, paragrafo 8.1), come nel caso dei missili a Cuba. Si tratta delle decisioni non programmate. Le decisioni programmate riguardano problemi ripetitivi e ben definiti, per i quali esistono metodologie di risoluzione e procedure con-

202 ) PARTE II – PROCESSI

Programmazione e complessità

Novità e incertezza

Tempestività

DECISIONALI

solidate. I criteri di scelta sono chiari e univoci e generalmente le informazioni necessarie sono disponibili. L’organizzazione si predispone in anticipo ad affrontare il problema e addirittura pianifica in anticipo i tempi e i modi della decisione. In questo senso ci si riferisce a decisioni programmate. Si pensi ad esempio alla programmazione della produzione su una linea di assemblaggio, alla manutenzione preventiva di un macchinario, alla valutazione di uno studente da parte di un docente tramite un esame orale. Le decisioni programmate non sono necessariamente semplici. Ad esempio, programmare la produzione di prodotti complessi formati da centinaia di componenti – allocando le lavorazioni ai reparti, ottimizzando la capacità produttiva e minimizzando i tempi di attraversamento – può richiedere calcoli molto complessi basati su algoritmi sofisticati, infattibili senza l’ausilio di potenti sistemi informativi. Analogamente, per una compagnia aerea programmare l’utilizzo della flotta – decidere le rotte, il numero di voli e gli orari, scegliere il tipo di aeromobile per ciascuna rotta, tenendo conto dei tempi di scalo e rifornimento e delle necessarie manutenzioni – implica una serie di decisioni programmabili ma assai complesse. American Airlines ha risparmiato decine di milioni di dollari grazie a sofisticati sistemi di previsione, simulazione e ottimizzazione a supporto di queste decisioni programmabili. Le decisioni non programmate, al contrario, vengono affrontate senza una preparazione specifica. Spesso sono del tutto nuove, i decisori non hanno a disposizione metodologie e procedure prestabilite e nemmeno esiste un’esperienza pregressa anche solo tacita. Generalmente le informazioni necessarie per la decisione non sono tutte disponibili o comunque sono difficilmente reperibili. È il caso del lancio di un nuovo prodotto sul mercato, della fusione con un’altra impresa o di un progetto di ricerca in cui occorre definire la metodologia più appropriata per raggiungere un determinato risultato. La stessa American Airlines, che pure gestisce in modo sofisticato le decisioni programmabili di carattere operativo, si è trovata a dover reagire all’attacco imprevisto delle compagnie “low cost”. La compagnia ha dovuto affrontare diverse decisioni assolutamente non programmate: ha dato corso a una vasta riorganizzazione, tenendo a terra alcuni aeromobili, riorganizzando il personale di terra, riducendo i posti di lavoro ed eliminando alcuni dei servizi offerti ai passeggeri. La difficoltà delle decisioni non programmate dipende più dalla novità e dalla mancanza di esperienza e conoscenza specifica che non dalla complessità, intesa come numero di variabili e informazioni da considerare. Naturalmente, decisioni completamente programmate e non programmate sono i due estremi di un continuum. Nella maggior parte dei casi si tratta di decisioni parzialmente programmate, in cui ad esempio gli obiettivi sono ben noti, ma le alternative vengono ricercate volta per volta. Un aspetto critico di tutte le decisioni, programmate e non, è la tempestività. Il ruolo del tempo nei processi decisionali è così fondamentale che vi dedicheremo l’intero capitolo 11. Quando la ricognizione

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 203

Decidere rapidamente

ICT e delega

Dalla programmazione all’automazione

aerea scoprì le rampe missilistiche a Cuba, le fotografie dimostrarono anche che l’installazione era a uno stadio avanzato. Entro breve tempo i missili sarebbero stati operativi. Lo spazio per una decisione, quale che fosse, era poco. In otto giorni, dal 14 al 22 ottobre 1962, l’Amministrazione americana arrivò a una decisione. Si trattò di un’accelerazione straordinaria rispetto ai normali tempi della politica e della diplomazia. Al confronto, i processi decisionali che in quegli anni avevano caratterizzato le mosse diplomatiche e le manovre militari delle due superpotenze sembrano al rallentatore. La crisi invece precipitò tutto e i decisori ne erano ben consci. Se gli americani avessero impiegato un tempo maggiore per decidere l’esito sarebbe stato inevitabilmente diverso. Il blocco navale, che fu la scelta effettivamente attuata, avrebbe perso ogni rilevanza e agli americani non sarebbero restate che le alternative di accettare la nuova situazione, esercitare pressioni diplomatiche o attaccare. Le organizzazioni si trovano spesso a dover prendere decisioni sotto la pressione del tempo. Per molte imprese la competizione globale e l’innovazione tecnologica sono fattori che richiedono un’accelerazione dei processi decisionali. Come abbiamo visto nel capitolo 6, negli ambienti turbolenti sopravvivono le organizzazioni di tipo organico che hanno meccanismi decisionali partecipati e diffusi ma anche più rapidi. Negli ultimi anni è stata posta molta enfasi proprio sulla velocità decisionale delle imprese (si veda Prewitt, 1998): meglio prendere tante decisioni, alcune delle quali sbagliate, piuttosto che ritardare le scelte cercando sempre la soluzione ottimale. Non decidere è in realtà la decisione di non fare alcunché, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Già nel capitolo 6 abbiamo mostrato come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) facilitino la condivisione delle informazioni tra i membri dell’organizzazione. Ciò naturalmente costituisce la premessa per prendere decisioni in modo sempre più veloce. Inoltre, la necessità di reagire prontamente al mutamento del contesto porta in genere le imprese a decentrare il processo decisionale tramite meccanismi di delega, eliminando così le burocratiche comunicazioni verticali lungo i diversi livelli gerarchici della struttura. Gli sviluppi estremi di questa logica portano ai cosiddetti sistemi di decisione automatizzati (Davenport e Harris, 2005), in cui l’intervento dell’uomo è ridotto al minimo, come è avvenuto nei sistemi di produzione automatizzati. In attesa dello sviluppo di sofisticati e futuristici sistemi di intelligenza artificiale, i casi di decisioni automatizzate o automatizzabili riguardano oggi le situazioni programmate in cui si affrontano problemi di routine. Siamo ad esempio nell’ambito della configurazione di prodotto, in cui un sistema decisionale automatizzato, in seguito ad alcuni input, è in grado di fornire al cliente il prodotto più velocemente di qualsiasi operatore umano. La Deep Green Financial è una società statunitense che opera nel settore dei prestiti finanziari. La sua strategia è stata quella di attrarre clienti promettendo un’estrema rapidità nell’erogazione dei mutui piuttosto che tassi più bassi di qualche deci-

204 ) PARTE II – PROCESSI

Rischi e ruoli

DECISIONALI

male di punto. L’azienda ha sviluppato un sistema decisionale su Internet che raccoglie automaticamente informazioni sul cliente, sul suo lavoro, sulla sua condizione economica e assicurativa e sullo scopo del prestito. In seguito al controllo di alcuni parametri su alcuni database centralizzati, il cliente riceve l’eventuale conferma del mutuo personalizzato sulle sue esigenze e i documenti elettronici da stampare e da portare firmati al notaio più vicino al fine di attivare immediatamente l’erogazione del prestito. Quando il cliente ha inserito i propri dati, l’autorizzazione avviene mediamente nell’incredibile tempo di due soli minuti. Giusto il tempo di cercare su Internet l’indirizzo del notaio! Altri esempi di sistemi di decisione automatizzati si ritrovano nell’ambito del monitoraggio delle attività operative e nell’attivazione di sistemi di sicurezza in caso di pericolo. Nell’estate del 2003, il sistema automatico di controllo della rete elettrica negli Stati Uniti è stato in grado di sospendere l’erogazione di energia in alcune aree sottoposte a sovraccarico di tensione e smistare la corrente in eccesso su altre linee. Soffermiamoci ora su un ulteriore aspetto delle decisioni: il rischio e l’incertezza. Nel mondo reale tutte le decisioni sono caratterizzate da rischio o incertezza. È difficile che le soluzioni identificate producano esiti completamente certi. Numerose variabili intervengono e il decisore non è in grado di tenerle tutte sotto controllo e di sapere in anticipo l’effetto che produrranno. Nel capitolo 6 è stato trattato l’impatto dell’incertezza sulla struttura organizzativa di un’impresa e sulla progettazione delle posizioni individuali. In modo analogo, il rischio e l’incertezza dell’ambiente che ci circonda influenzano fortemente le decisioni che devono essere prese. Le mosse dei concorrenti, lo sviluppo tecnologico, il quadro normativo e il contesto politico e socioeconomico sono in continua evoluzione. L’effetto delle decisioni può variare fortemente in funzione dell’andamento di queste variabili. Il tema del rischio e dell’incertezza verrà trattato in dettaglio nel capitolo 8. Per ora ci limiteremo a osservare che generalmente ai livelli operativi di un’organizzazione il rischio e l’incertezza sono relativamente ridotti, al contrario ai livelli manageriali più alti essi sono maggiori. Ciò dipende dalla natura delle decisioni che vengono prese: ai livelli operativi esse sono prevalentemente programmate, mentre agli alti livelli manageriali si presentano spesso decisioni non programmate. Con riferimento alle tipologie di mansioni identificate nel capitolo 3, la figura 7.1 illustra le decisioni tipicamente connesse con ruoli differenti. Le decisioni per le mansioni operative ristrette sono programmate e a basso rischio: un operaio di linea in una fabbrica di automobili o un addetto alle casse di un supermercato si trovano ad affrontare per lo più situazioni ripetitive e prevedibili caratterizzate da bassi livelli di rischio e incertezza. Le decisioni tipiche delle mansioni allargate possono anche essere non programmate: si pensi al concierge di un albergo di una catena internazionale, che nor-

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 205

Figura 7.1

RUOLI ORGANIZZATIVI E DECISIONI

Ruoli manageriali di alto livello

Rischio e incertezza Ruoli manageriali di livello medio-basso

Mansioni operative ristrette

Decisioni programmate

Ruoli professionali

Mansioni operative allargate

Decisioni non programmate

malmente svolge mansioni routinarie nella gestione dei clienti ma occasionalmente può trovarsi di fronte imprevisti come richieste particolari o problemi da risolvere. I ruoli professionali in genere affrontano decisioni con rischio variabile e non programmate; si pensi a un progettista della stessa impresa automobilistica in cui lavora l’operaio di linea e alle scelte che egli compie nello sviluppo di una nuova city car. Il middle management ha tipicamente a che fare con decisioni a medio rischio sia programmate sia non programmate. Ad esempio il responsabile dell’ufficio prenotazioni della catena di alberghi deve allocare le stanze con l’ausilio di sistemi computerizzati (decisione programmata), ma può anche trovarsi di fronte a richieste particolari come la prenotazione di un intero albergo per un convegno con la richiesta di servizi aggiuntivi di catering. Infine, le decisioni tipiche del top management sono non programmate e ad alto rischio o incertezza. L’Amministratore delegato dell’impresa che produce automobili, quello della catena di supermercati e il Direttore generale della catena di alberghi devono assumere decisioni sempre diverse e per di più influenzate da un contesto in continua evoluzione: dal lancio di una nuova city car alla ristrutturazione organizzativa dell’impresa, dal posizionamento dei nuovi punti vendita sul territorio, alla politica di prezzo nelle diverse località, alla definizione dei contratti di global service per la fornitura di servizi di manutenzione alle strutture alberghiere.

7.3

La razionalità limitata Il quadro delle decisioni aziendali fin qui delineato ci illustra situazioni in cui non sempre vi è piena consapevolezza degli obiettivi ed è difficile stimare con certezza gli effetti delle alternative. Viceversa, la

206 ) PARTE II – PROCESSI

Obiettivi poco chiari

Informazioni incomplete

Scarsità di tempo Fattori sociali

Solo alcune alternative

DECISIONALI

teoria economica classica assumeva che il decisore (homo oeconomicus) sia perfettamente razionale, ovvero sempre consapevole, pienamente informato e senza incertezze circa gli effetti delle alternative. Applicata alle imprese, la teoria classica implica che le decisioni aziendali siano razionali e dunque finalizzate direttamente o indirettamente alla massimizzazione dei profitti. Si sottolinea l’importanza di definire in modo esplicito gli obiettivi di ogni decisione cogliendone il legame strumentale con il profitto (o con un altro scopo istituzionale, ad esempio nel caso delle organizzazioni no profit). Si suppone poi che i decisori analizzino in modo sistematico gli elementi del problema e del contesto circostante, colgano tutti i nessi e le interazioni fra questi elementi e individuino tutte le possibili alternative, per selezionare quella che più contribuisce all’obiettivo. Alla base di questo approccio troviamo il concetto di ottimizzazione, secondo il quale ogni decisione viene presa col fine di ottenere il miglior risultato possibile. I casi e gli esempi che abbiamo fin qui analizzato illustrano chiaramente che la realtà è spesso lontanissima da questi assunti. I decisori hanno anche altri obiettivi e talvolta li antepongono al profitto o allo scopo precipuo dell’organizzazione. In altri casi gli obiettivi non sono nemmeno chiari o i decisori hanno obiettivi divergenti e dunque si ritrovano in contrasto tra loro. La difficoltà di definire una funzione obiettivo da ottimizzare è quindi una prima causa della scarsa applicabilità dell’approccio della razionalità perfetta. Quando poi il livello di incertezza è elevato e la quantità di informazioni a disposizione è limitata, risulta difficile analizzare in modo completo e sistematico il problema. Il grado di incertezza e la mancanza di informazioni, infatti, riducono la possibilità di generare un insieme esauriente di alternative e soprattutto di valutarle in modo oggettivo. Inoltre, come già accennato, la pressione del tempo e la necessità di decidere più velocemente rendono impraticabile un’analisi completa della situazione. Questo, infatti, rischierebbe di ritardare la decisione e di comprometterne l’esito. Infine, accade spesso che intervengano fattori personali e sociali che non sono propriamente razionali. Entrano in gioco, ad esempio, gli aspetti socioculturali, i valori etici, i comportamenti opportunistici da parte dei singoli, l’attitudine delle persone alla risoluzione dei problemi e la propensione o l’avversione al rischio. Tutti questi aspetti limitano l’applicazione dell’approccio perfettamente razionale che dovrebbe portare alla soluzione ideale. Queste considerazioni sembrano oggi abbastanza ovvie. Lo erano meno nell’immediato dopoguerra, quando alcuni studiosi della Carnegie-Mellon University si resero conto della distanza siderale tra il comportamento reale delle organizzazioni e il modello della razionalità perfetta applicato alle imprese, secondo il quale obiettivi chiari e informazioni complete confluivano nella mente del decisore supremo che riassumeva in sé la capacità e il potere di decidere per tutta l’organizzazione. Herbert Simon, premio Nobel per l’economia nel 1978, già nel 1947 nel celebre saggio Il comportamento amministrativo formulò il concetto della razionalità limitata: nel mondo reale e nelle

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 207

Essere soddisfatti

Ricerca sequenziale

“Scienze” manageriali

organizzazioni reali i decisori non hanno sempre chiari gli obiettivi, non dispongono di tutte le informazioni necessarie o non hanno abbastanza tempo e risorse per procurarsele, non sono in grado di vagliare tutte le alternative. La conseguenza principale è che il loro comportamento è tutt’altro che ottimizzante. I decisori non cercano l’ottimo, ma si accontentano di una soluzione soddisfacente. Un livello di soddisfazione adeguato, coerente con le aspettative, diventa il criterio ispiratore. La stessa ricerca del profitto si attesta su “profitti soddisfacenti”, non inferiori a quelli ottenibili con usi del capitale alternativi e immediatamente alla portata dell’impresa. Ne vediamo un classico esempio nelle comuni tecniche di valutazione degli investimenti (si veda ad esempio Azzone e Bertelè, 2011). Accettare un progetto purché il tasso interno di ritorno sia almeno pari al costo opportunità del capitale è perfettamente coerente con la razionalità limitata del decisore. Il criterio di soddisfazione, opposto a quello di ottimalità, induce una ricerca delle soluzioni di tipo sequenziale a partire dalle alternative note, familiari o comunque più intuitive. Se queste non sono soddisfacenti i decisori proseguono nell’esplorazione fintantoché non si imbattono in una soluzione finalmente soddisfacente oppure, sfiduciati dalla ricerca infruttuosa, ridefiniscono le proprie aspettative accontentandosi di risultati più modesti. Tutte queste sono conseguenze del concetto di razionalità limitata, la quale però non significa affatto irrazionalità. Le decisioni nelle organizzazioni non sono casuali e prive di logica. Piuttosto la loro razionalità viene limitata da fattori individuali e organizzativi. Inoltre, l’incompletezza delle informazioni e il criterio di soddisfazione sono, a ben vedere, estremamente razionali: il decisore rinuncia alla soluzione ottima (ammesso che questa esista), perché stima o sospetta che il costo marginale di acquisizione di nuove informazioni e di valutazione di nuove alternative non sia ripagato dal miglioramento dei risultati rispetto alla soluzione soddisfacente. Riconoscere che la razionalità dei decisori è limitata da fattori individuali e organizzativi non significa rinunciare all’analisi sistematica dei problemi, che, al contrario, dovrebbe far parte della forma mentis di ogni buon manager. Ritornando alle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, potrebbe sembrare che la razionalità perfetta e il comportamento ottimizzante siano applicabili prevalentemente alle decisioni programmate caratterizzate da un discreto livello di certezza, e quindi nella parte in basso a sinistra o al più centrale della Figura 7.1. Ci si riferisce a un approccio che è stato anche definito management science, ovvero un corpo di conoscenze strutturate di tipo logico-matematico per risolvere problemi complessi (ad esempio quelli di programmazione della produzione o dei voli di una compagnia aerea, descritti in precedenza). Al contrario, la razionalità limitata troverebbe applicazione in decisioni non programmate e incerte, e quindi nell’angolo in alto a destra della Figura 7.1. In generale, questa conclusione è corretta. Tuttavia, recenti studi (Bonabeau, 2003) dimostrano come proprio in contesti caratterizzati da unicità e incertezza l’intuito e l’i-

208 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

stinto di manager e imprenditori, se non supportati da analisi razionali e sistematiche, rischiano di portare al fallimento. È il caso di molte aziende che, sull’onda dell’entusiasmo e della bolla speculativa di Internet e del NASDAQ, si sono quotate e sono fallite dopo pochi mesi a causa dell’assenza di un modello di business solido e ben strutturato. O ancora, è stato il caso di America On Line quando l’Amministratore delegato decise di puntare tutto sulla vendita di spazi pubblicitari piuttosto che sulla sottoscrizione di abbonamenti da parte dei consumatori; la decisione produsse una perdita netta di quota di mercato. È quindi opportuno integrare le due prospettive, supportando l’intuito con metodologie, tecniche e strumenti di analisi, ricerca e valutazione delle alternative: dall’analisi degli scenari alla simulazione, dagli agenti autonomi alle tecniche di ottimizzazione.

7.3.1 Ambiguità e divergenza degli obiettivi

La dimensione politica delle decisioni: conflitti e coalizioni Negli anni successivi alla formulazione della teoria della razionalità limitata altri studiosi, Cyert e March (1963) in particolare, svilupparono ulteriormente gli assunti di Simon giungendo a identificare alcune caratteristiche importanti dei processi decisionali organizzati. Partendo dall’osservazione che l’ambiguità e la pluralità degli obiettivi, unita alla pluralità degli attori, genera inevitabilmente conflitti tra i decisori. Nella parte finale del capitolo 3 abbiamo già introdotto il tema dei conflitti, con riferimento alle caratteristiche degli individui e dei ruoli che ricoprono all’interno dell’organizzazione. Siamo ora in condizione di riprendere il tema interpretando i conflitti all’intersezione di tre fattori: gli individui, le strutture organizzative e le decisioni. Un processo decisionale si complica e si generano inevitabilmente conflitti organizzativi quando intervengono più decisori. Individui con ruoli e responsabilità precise e gli obiettivi aziendali che ne conseguono. Ma anche con i loro obiettivi personali, le loro culture, i loro valori. Un conflitto organizzativo può essere definito come un comportamento che si genera tra due o più interlocutori e/o gruppi di interlocutori che propongono e promuovono alternative in parziale o totale contrasto tra loro. L’ex Amministratore delegato di HewlettPackard Carly Fiorina e il suo staff entrarono in conflitto con diversi azionisti, clienti e manager i quali si opponevano con forza alla fusione con Compaq voluta dalla Fiorina. La fusione ha segnato l’inizio di contrasti interni molto duri che hanno poi portato alle dimissioni dell’Amministratore delegato. I conflitti organizzativi si manifestano spesso sotto forma di lotta tra coalizioni. Quando le preferenze e gli orientamenti dei decisori sono divergenti, questi sono indotti a cercare alleati. In modo più o meno visibile e trasparente si formano così le coalizioni. Nella maggior parte dei processi strategici si formano due sole coalizioni, sebbene in alcuni casi ne emergano anche altre. Il prevalere di una coalizione consente al processo di sbloccarsi e di procedere verso una soluzio-

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 209

Scomporre gli obiettivi e l’organizzazione

Figura 7.2

ne. Le coalizioni non sono necessariamente stabili. Problemi di volta in volta nuovi possono trovare coalizioni diverse. Inoltre, per la formazione di una colazione non è necessario che vi sia identità di obiettivi, è sufficiente che vi sia compatibilità. Nella crisi dei missili a Cuba (Caso 7.1) la Marina voleva avere una parte di rilievo (anche se poi le decisioni salienti furono concentrate nelle mani dello staff presidenziale e sottratte all’Ammiragliato), le “colombe” dello staff tra le quali il fratello del Presidente, Bob Kennedy e il senatore Mac Namara, volevano evitare di mettere i sovietici con le spalle al muro e concedere loro tempo. Gli obiettivi erano indubbiamente diversi, ma la coalizione funzionò e si guadagnò il favore del Presidente contro il partito dei “falchi” che volevano l’attacco aereo o addirittura l’invasione dell’isola. Cerchiamo ora di classificare le cause dei conflitti organizzativi che sono alla base della formazione di coalizioni. Una prima causa è la scomposizione degli obiettivi. Alcune decisioni prese al vertice dell’organizzazione segnano cambiamenti strategici che mettono in moto tutta l’organizzazione verso i nuovi obiettivi. Questo processo richiede una scomposizione della decisione generale in tante sotto-decisioni, ciascuna delle quali con obiettivi suoi propri, il cui raggiungimento dovrebbe essere funzionale al compimento della strategia complessiva. Le unità organizzative si vedono così assegnare compiti specifici, per i quali sorgono normalmente problemi esecutivi e si presentano alternative differenti. Non sempre i sotto-obiettivi si rivelano all’atto pratico compatibili. Consideriamo l’esempio riportato in Figura 7.2, in cui l’obiettivo dell’azienda definito dal vertice è aumentare la quota di mercato.

SCOMPOSIZIONE DI OBIETTIVI TRA UNITÀ ORGANIZZATIVE

Aumento quota di mercato

Obiettivo strategico Sotto-obiettivi

Dir. generale Migliorare l’immagine

Produrre di più Dir. produzione Investimenti in capacità produttiva

Ricorso alla subfornitura

Dir. marketing Modifiche al prodotto

Pubblicità per affermare la qualità del prodotto

Vincoli e interdipendenze

Vendere di più Dir. vendite Potenziamento della forza di vendita

Riduzioni dei prezzi

210 ) PARTE II – PROCESSI

Azioni in conflitto

Conflitti “genetici”

Culture in conflitto

DECISIONALI

Tale obiettivo può tradursi (essere scomposto) in sotto-obiettivi di secondo livello assegnati alle tre principali funzioni aziendali: il responsabile di produzione si porrà l’obiettivo di aumentare i volumi di produzione, il Direttore marketing di migliorare l’immagine dell’azienda e il Direttore delle vendite di aumentare i volumi di vendita. Apparentemente i tre sotto-obiettivi sono compatibili in quanto tutti e tre funzionali all’obiettivo generale: solo producendo di più e vendendo di più, grazie a un’immagine migliorata, si può sperare di aumentare la quota di mercato. Ogni unità organizzativa assumerà determinate decisioni col fine di perseguire i propri obiettivi. Il responsabile della produzione, ad esempio, potrebbe proporre un aumento di capacità produttiva investendo in un nuovo impianto, oppure potrebbe ricorrere ai fornitori per avere a disposizione capacità produttiva addizionale. Il Direttore marketing potrebbe richiedere alcune modifiche migliorative al prodotto e/o lanciare una campagna pubblicitaria per promuovere il marchio sul mercato. Infine, il Direttore vendite potrebbe decidere di potenziare la propria forza vendita assumendo nuove persone o ridurre i prezzi con l’obiettivo di aumentare i volumi di vendita. Apparentemente queste decisioni e le azioni conseguenti sono tutte coerenti tra loro. Tuttavia, alcune decisioni prese all’interno di un’unità organizzativa potrebbero essere in conflitto con quelle prese in altre unità organizzative. L’ampliamento della capacità produttiva e la scelta dei nuovi fornitori, ad esempio, potrebbero essere incompatibili con le modifiche di prodotto proposte dal marketing o quantomeno sarà necessario tenere conto delle conseguenze produttive delle modifiche ai prodotti. O ancora, la pubblicità per rilanciare l’immagine del prodotto potrebbe essere in contrasto con politiche di forte riduzione dei prezzi da parte della funzione vendite. Questo esempio, seppur schematico e semplicistico, riproduce però molte situazioni aziendali reali, in cui le decisioni a livello funzionale non sempre sono compatibili tra loro e introducono vincoli per le decisioni di altre unità organizzative. La seconda fonte di conflitti è la differenziazione. Le unità organizzative all’interno di un’impresa spesso differiscono per valori, attitudini e standard di comportamento, e queste diversità conducono a possibili conflitti. La mancanza di fiducia nell’organizzazione può accentuare queste differenze e aumentare il potenziale di conflitto tra le unità organizzative coinvolte. Si pensi ad esempio alla promozione internazionale dei corsi di laurea di un ateneo volta ad attrarre studenti provenienti da paesi stranieri. Nella maggior parte degli atenei che cercano di svilupparsi in campo internazionale vi sono almeno due strutture interne che sono coinvolte: il servizio promozione internazionale, con il compito di attrarre studenti stranieri ai corsi di laurea dell’ateneo, e il servizio segreteria studenti, con il compito di seguire il processo di iscrizione e di immatricolazione degli studenti. Il primo ha una vocazione promozionale e vorrebbe aumentare la flessibilità nelle pratiche amministrative per facilitare l’iscrizione de-

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 211

L’accesso alle risorse

Ridondanze e compensazioni

Indecisioni e blocchi

Bilanciare velocità e consenso

gli studenti. Il secondo, al contrario, dominato da una cultura di tipo amministrativo, è ligio nel richiedere una rigida documentazione standard alle ambasciate dei Paesi di provenienza degli studenti. È inevitabile che fra questi due approcci, culture e stili di comportamento si generino conflitti, sebbene l’obiettivo possa essere comune: aumentare il numero di studenti stranieri iscritti presso l’ateneo. La terza fonte di conflitti è l’interdipendenza dei compiti, ovvero la dipendenza di un’unità organizzativa da un’altra per risorse o informazioni (si veda in proposito il paragrafo 3.2.1). Generalmente, all’aumentare dell’interdipendenza tra due unità organizzative aumenta il conflitto: una di esse preme per avere una risposta veloce in quanto il lavoro non può procedere senza il contributo proveniente dall’altra. Infine, una causa frequente di conflitti è l’accesso a risorse limitate. Si genera in questo caso una competizione tra unità organizzative per l’accesso alle risorse, umane e finanziarie e talvolta anche tecnologiche. Per raggiungere i propri obiettivi, le unità organizzative tendono generalmente ad accaparrarsi risorse e questo le porta al conflitto. Nelle società di consulenza, ad esempio, si generano spesso conflitti tra i manager per l’allocazione delle persone ai loro progetti; ognuno vorrebbe avere i consulenti migliori o comunque disponibilità di ore/uomo sufficienti per terminare in tempo i progetti. La presenza di risorse ridondanti (slack) riduce i conflitti. L’eccedenza di risorse economiche, tecnologiche e organizzative rende i processi decisionali meno tesi e gli obiettivi, benché ambigui o contrastanti, almeno in parte compatibili. L’eccedenza di risorse consente di trovare compensazioni su altri piani e dunque, attraverso la negoziazione fra le parti, di pervenire a un accordo. È dunque evidente che spesso decidere all’interno di un’organizzazione richiede la risoluzione di conflitti. Risolvere un conflitto comporta la creazione di un accordo e un consenso tramite la negoziazione tra le parti coinvolte. Il compromesso raggiunto può essere bilanciato o può favorire maggiormente una o l’altra parte, ma in ogni caso deve venire accettato da entrambe. La negoziazione e la creazione di consenso richiedono tempo e potrebbero addirittura bloccare l’organizzazione in uno stato di indecisione. Se consideriamo, come già accennato e come verrà ripreso nel capitolo 10, l’importanza del tempo e della velocità decisionale, i tempi richiesti dalla risoluzione del conflitto risultano spesso inaccettabili. In particolare, in ogni decisione esiste un trade-off tra velocità e consenso. Ovvero, per prendere decisioni veloci spesso occorre imporle e limitare il consenso; al contrario, per creare un consenso molto ampio occorre tempo e la velocità decisionale viene necessariamente ridotta (vedi Figura 7.3). Intraprendere la prima strada implica ricorrere prevalentemente al potere, e dunque alla gerarchia (potere verticale) o al controllo esclusivo delle risorse e della capacità di negoziarne l’uso e l’accesso (potere orizzontale). Intraprendere la seconda significa ricorrere prevalentemente alla mediazione e dunque alla politica. Esistono persone in grado di mi-

212 ) PARTE II – PROCESSI

Figura 7.3

DECISIONALI

TRADE-OFF TRA VELOCITÀ E CONSENSO NELLE DECISIONI

Consenso

Politica

Leadership

Potere

Velocità

Crisi e potere

Inerzia e paura di cambiare

gliorare questo trade-off, ovvero in grado di spingere rapidamente l’organizzazione verso obiettivi relativamente condivisi e dunque creando e mantenendo consenso. È questo il concetto di leadership, un tema vastissimo che esula dagli scopi di questo libro. In questa sede, per leadership si intende la capacità di assumere decisioni coinvolgendo tutte le parti che hanno interessi in gioco e facendole sentire parte integrante dei successi e degli insuccessi conseguiti. La leadership implica la padronanza e l’impiego sistematico di capacità che permettono di guidare un gruppo verso obiettivi non conseguibili attraverso il semplice coordinamento gerarchico. In questo senso la leadership presuppone sia capacità politica sia potere, la cui natura non può essere però esclusivamente verticale, cioè gerarchica. Le organizzazioni nelle quali operano persone ai vari livelli che hanno sviluppato doti di leadership dimostrano una maggiore efficienza organizzativa poiché decidono in fretta mantenendo consenso. Per un approfondimento sul tema della leadership si rimanda a La Bella (2005). Naturalmente i tre approcci (potere, politica e leadership) non sempre sono esclusivi. In alcune circostanze, tipicamente di fronte alle crisi, la concentrazione del potere aiuta rapidamente a uscire dalle difficoltà rimandando a un secondo momento la creazione di consenso. In altri casi le ragioni della politica sono prevalenti e la leadership deve necessariamente lasciare il passo alla negoziazione tra le parti. Un ultimo ordine di considerazioni riguarda l’inerzia organizzativa e la resistenza al cambiamento. Le organizzazioni hanno la tendenza a minimizzare l’incertezza e a evitare la devianza dalle prassi consolidate. Solo costrette, e di fronte

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 213

all’evidenza che le norme e le procedure correnti non funzionano più, le organizzazioni si arrendono all’idea di trovare nuove soluzioni. Questa idea contrasta con la tendenza di molte imprese a innovare e cambiare. Si può affermare che molte imprese sono oggi imbevute di un’ideologia del cambiamento e dell’innovazione. La prospettiva della razionalità limitata ci ricorda che in molti casi questo è un comportamento più auspicato che reale, più nella testa e nel cuore dei leader carismatici e degli innovatori che nel ventre molle delle grandi organizzazioni. La norma è l’inerzia organizzativa e non la cultura dell’innovazione. Inoltre, la possibilità di esplorare nuove soluzioni dipende comunque dall’esistenza di slack: solo in presenza di ridondanze le organizzazioni possono permettersi di battere strade nuove. Coalizioni, ridondanze di risorse allocate e inerzie organizzative sono caratteristiche tipiche dei processi decisionali nei quali prevale la dimensione politica. Anzi, le decisioni politiche nel vero senso della parola, quelle che coinvolgono organi collegiali quali parlamenti, assemblee elettive, commissioni ecc., sono anche quelle per le quali più contano le coalizioni, le negoziazioni, le ambiguità e le compensazioni su altri tavoli rese possibili dagli slack.

7.3.2

Percezione, intuito ed esperienza Altri elementi di rilievo nella prospettiva della razionalità limitata riguardano le modalità con cui gli attori percepiscono i problemi decisionali. L’episodio legato alla campagna presidenziale del 1912 di Theodore Roosevelt (Caso 7.4) illustra un esempio in tal senso.

CASO

7.4

La campagna presidenziale di Theodore Roosevelt: la diversa percezione di un problema Theodore Roosevelt, alla fine della faticosa campagna elettorale per la rielezione alla presidenza degli Stati Uniti nel 1912, pianificò un ultimo viaggio a più tappe attraverso l’intero territorio nazionale. L’ufficio della campagna elettorale ebbe l’idea di distribuire a ogni tappa un libretto alla folla. Il libretto conteneva una “confessione di fede” del Presidente e riportava in copertina una sua fotografia. Ne furono stampate oltre 3 milioni di copie in preparazione del viaggio. Pochi giorni prima della partenza, qualcuno all’ufficio elettorale si accorse che in un angolo della fotografia in copertina compariva la scritta “Moffet Studios, Chicago”. L’utilizzo della fotografia senza l’autorizzazione dello studio fotografico proprietario dei diritti sarebbe costato un dollaro di penale per ogni copia, per un costo complessivo pari a oltre 3 milioni di dollari! Ormai era troppo tardi per scegliere un’altra foto e ristampare tutti i libretti; l’ufficio del Presidente era in fibrillazione. Contattare lo studio Moffet, spiegare la vicenda e richiedere l’autorizzazione all’utilizzo della fotografia in questione significava rischiare di dover pagare una cifra elevatissima in diritti di proprietà. Si poteva cercare di farla franca. Tuttavia,

214 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

con 3 milioni di copie in circolazione, la strategia non aveva grande probabilità di successo. Inoltre, l’immagine del Presidente ne avrebbe sofferto. Il rischio non era limitato ai 3 milioni di dollari di penale: si poteva compromettere l’intera campagna elettorale. Infine, non utilizzare affatto i libretti, ormai annunciati agli elettori, avrebbe avuto comunque un impatto negativo sull’esito della campagna. Il problema fu risolto da George Perkins, manager della campagna elettorale del Presidente. Egli inviò la seguente comunicazione agli studi Moffet: “Stiamo pianificando la distribuzione di milioni di copie di libretti con la fotografia di Roosevelt in copertina. Sarebbe un’ottima pubblicità per lo studio fotografico che ha realizzato la foto che utilizzeremo. Quanto ci offrite per utilizzare un vostro scatto? Prego rispondere immediatamente”. In breve tempo lo studio rispose: “Non lo abbiamo mai fatto prima, ma date le circostanze saremmo pronti a pagarvi 250 dollari”. Prontamente Perkins accettò senza negoziare sul prezzo. Roosevelt vinse le elezioni senza intoppi. Fonte: Sebenius (2001).

Ribaltare la prospettiva

Intuito ed esperienza

Una diversa percezione del problema può modificare radicalmente gli obiettivi di un attore decisionale e quindi la risoluzione adottata per un determinato problema. L’ufficio della campagna elettorale del Presidente guardava al problema nell’ottica di minimizzare i danni e i rischi di un errore commesso in precedenza. L’obiettivo divenne perciò quello di convincere Moffet a utilizzare la sua fotografia cercando di limitare l’esborso di denaro. Perkins percepì il problema in modo totalmente differente, mettendosi nei panni di Moffet e comprendendo il valore dell’opportunità per lo studio. L’obiettivo divenne perciò quello di chiedere lui stesso del denaro a Moffet in cambio della pubblicità che ne sarebbe derivata, sfruttando l’asimmetria informativa, ovvero il fatto che lo studio non sapeva che i libretti erano già stati stampati. Persone diverse, anche se poste nella stessa situazione, avvertono il problema in modo differente e si pongono obiettivi anche molto diversi tra loro. Paradossalmente, ciò che è percepito come minaccia da un attore potrebbe essere percepito come opportunità da un altro (è esattamente quello che successe a Perkins). La prospettiva della razionalità limitata fa quindi leva sull’intuito e sull’istinto degli attori decisionali. Queste qualità si formano nel tempo e trovano le loro radici nell’esperienza e nella conoscenza del settore. Quando i problemi sono particolarmente complessi e incerti, l’esperienza e il giudizio di un “esperto” sopperiscono alla mancanza di informazioni e velocizzano il processo decisionale, tanto nell’identificazione quanto nella soluzione del problema. Oltretutto, il tentativo di analizzare sistematicamente e oggettivamente tali problemi potrebbe comportare una semplificazione eccessiva, con la conseguenza di adottare soluzioni completamente errate. Fu ad esempio l’intuito di Fred Smith a credere fortemente nella creazione di un servizio di consegne rapide da cui nacque Federal Express, o ancora l’intuito di Henry Ford a intravedere il potenziale immenso dell’au-

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 215

Vedere le analogie

7.4

tomobile in un mondo dove la mobilità delle persone e delle merci era ancora fortemente limitata. Nel mondo della razionalità limitata, un ruolo rilevante spetta al concetto di analogia (Gavetti e Rivkin, 2005), ovvero prendere decisioni sulla base di ciò che è già accaduto in passato in altre situazioni simili o addirittura in altri settori. I manager, infatti, dovendo affrontare nuovi problemi o nuove opportunità, spesso analizzano situazioni analoghe in cui si sono trovati in passato o di cui hanno sentito parlare, imparano da queste e applicano le soluzioni adottate nella loro situazione specifica. Fu così che Taiichi Ohno sviluppò il ben noto sistema di produzione just-in-time basato sui kanban in Toyota negli anni Ottanta (vedi capitoli 6 e 16 per ulteriori dettagli). Per ironia della sorte, ebbe l’idea all’interno di un supermercato americano osservando le procedure di ripristino dei prodotti a scaffale. Proprio i produttori statunitensi di automobili subiranno pochi anni dopo le conseguenze di quella intuizione!

Oltre la razionalità limitata: garbage can, incrementalismo e sensemaking Fino a questo punto la trattazione si è inquadrata nella cornice teorica della razionalità limitata, così come introdotta nel paragrafo 7.3. Per quanto affascinante e capace di cogliere l’essenza di molte decisioni reali, il modello della razionalità limitata è stato sottoposto a diverse critiche. In questo paragrafo conclusivo cercheremo di dare una panoramica sintetica delle maggiori correnti di pensiero recenti attorno al tema cruciale dei processi decisionali nei contesti organizzati. Per un denso excursus delle teorie organizzative sui processi decisionali si rimanda a Bonazzi (1989).

7.4.1

I dati come alibi

Scarsità o ridondanza informativa? Una prima critica al modello della razionalità limitata ne contesta una delle ipotesi di base: non è vero che le organizzazioni decidono senza avere abbastanza informazioni. È vero piuttosto il contrario: le organizzazioni producono una gran quantità di informazione, ridondante e spesso inutile (si veda ad esempio Feldman e March, 1981). Internet e le ICT non fanno che amplificare la ridondanza informativa. Perché le imprese si comportano così? Perché ciò costituisce un alibi e un’assicurazione per i decisori. Un dirigente che prende una decisione che a posteriori si rivela sbagliata può difendersi davanti ai superiori o agli azionisti sostenendo di aver fatto tutto il possibile, di aver condotto ricerche accurate, di aver esplorato tutto quello che era possibile. Viceversa, se non è in grado di produrre carta e dati a supporto delle sue decisioni sarà accusato di scarsa professionalità e di negligenza. Se la decisione si rivela giusta nessuno gli chiederà quali informazioni abbia raccolto, ma se si rivela sbagliata l’informa-

216 ) PARTE II – PROCESSI

Opportunità nascoste

7.4.2 Decisioni incomprensibili

DECISIONALI

zione diventa un elemento indispensabile. Il paradosso è dunque: informazione come assicurazione, non informazione per decidere. Le grandi organizzazioni sono spesso intrise di questi comportamenti: producono quantità impressionanti di rapporti, dossier, e-mail ecc. in una cascata di cautele che ciascuno prende nei confronti di colleghi e superiori. Nell’eccesso di informazioni vi sono, tuttavia, anche elementi positivi. La ridondanza informativa è infatti uno slack, e come tale è funzionale e necessaria all’innovazione (si veda il paragrafo 7.3.1): nel mare magno dell’informazione apparentemente inutile ogni tanto emergono opportunità inusitate. Informazioni raccolte per altri scopi o senza nessun fine acquistano improvvisamente valore se poste in una nuova luce e sfruttate in modo originale. I dati relativi a migliaia di scontrini di acquisto in un supermercato erano informazioni sostanzialmente inutili, prima che qualcuno cominciasse a ragionare in termini di profilatura dei clienti e Customer Relationship Management (CRM) (si veda in proposito il capitolo 12, paragrafo 12.5.3 e Caso 12.8). Questo genere di critiche sottolinea certamente un fenomeno che sperimentiamo ormai quotidianamente, quello della ridondanza informativa, ma che ai tempi della formulazione della teoria della razionalità limitata era ancora marginale. Nonostante l’inoppugnabilità di questa tesi, gli elementi di fondo della teoria rimangono sostanzialmente intatti, anche perché la ridondanza informativa non coincide affatto con la qualità dell’informazione. Spesso le imprese hanno molte, troppe informazioni a disposizione ma non quelle giuste, funzionali alla specifica decisione. In altri casi le organizzazioni non sanno come utilizzare le informazioni oppure non hanno il tempo né le risorse per farlo.

Il modello del garbage can L’esame approfondito dei comportamenti aziendali, soprattutto nelle grandi organizzazioni, ha portato diversi studiosi a riconoscere il carattere semicasuale di molte decisioni. Negli anni Settanta del secolo scorso, alcuni studiosi (Cohen, March e Olsen, 1972) evidenziarono che il modello della razionalità limitata dei singoli attori non basta a spiegare come molte decisioni ci appaiono incomprensibili o frutto di disegni frammentari, con esiti talvolta non voluti e controproducenti. L’analisi di questi ricercatori parte dall’osservazione di tre caratteristiche tipiche dei processi decisionali nelle organizzazioni: • l’ambiguità intrinseca che caratterizza gli obiettivi e le preferenze dei decisori; • le tecnologie e i metodi non consolidati che implicano la difficoltà di stabilire con chiarezza relazioni di causa-effetto e inducono i decisori a muoversi a tentoni; • l’elevato turnover dei responsabili che porta frequentemente a processi decisionali nei quali si avvicendano decisori diversi con preferenze mutevoli.

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 217

Combinazioni fortuite

Soluzioni a caccia di problemi!

Turnover e impegni dei decisori

Questi elementi determinano ambienti organizzativi che vengono definiti anarchie organizzate. Con riferimento ai concetti introdotti nel capitolo 3 (paragrafo 3.2.5) queste organizzazioni si configurano come strutture organiche. Il modello decisionale sottostante l’anarchia organizzata è quello rappresentato dalla celebre metafora del cestino dei rifiuti (garbage can). La suggestione del cestino dei rifiuti è certamente provocatoria, ma non va intesa nel senso che la qualità delle decisioni prese sia assimilabile alla spazzatura. Immaginiamo invece una stanza con diverse scrivanie e nella quale operano tante persone. Nel mettere in ordine la propria scrivania esse gettano carte e rifiuti secondo un ordine, una logica e una frequenza che sono spesso dotate di una razionalità interna. Tuttavia, il contenuto di un cestino dei rifiuti in un generico istante dipende dalla sequenza casuale con cui persone diverse gettano via i loro rifiuti, dalle etichette sui cestini e dalla frequenza con la quale gli addetti alle pulizie svuotano i cestini. A causa di ciò è difficile rintracciare un ordine e una logica nel contenuto di un cestino. In modo simile si svolgono alcuni processi decisionali: più decisori si accavallano in modo poco prevedibile, compiono scelte locali anche dotate di una loro logica ma che si affastellano e si combinano producendo esiti imprevisti. Decisioni che a posteriori appaiono semicasuali derivano dall’incrocio fortuito di problemi e soluzioni non necessariamente coerenti tra loro. Più in dettaglio, March, Cohen e Olsen (1972) individuano quattro flussi indipendenti dal cui incrocio casuale scaturiscono le decisioni: • i problemi, che nascono da insoddisfazioni o preoccupazioni rispetto alle performance; • le potenziali soluzioni, che vengono avanzate dai membri dell’organizzazione. Normalmente le soluzioni pre-esistono e raramente vengono progettate ad hoc. In molte situazioni si assiste a un capovolgimento che vede soluzioni a caccia di problemi che ne giustifichino l’esistenza, invece che problemi in cerca di soluzioni efficaci. Un esempio tipico riguarda le applicazioni informatiche. Sistemi e procedure progettati per altri scopi vengono forzati su problemi emersi successivamente e per giustificarne a posteriori i costi; • i partecipanti, che nelle anarchie organizzate si succedono sulla scena con tempi e ritmi indipendenti dal processo decisionale. Si pensi al caso Nokia (Caso 7.3), nel quale il lungo processo decisionale che ha portato l’azienda alla leadership nella telefonia mobile ha visto succedersi sulla scena decisori diversi con obiettivi in parte differenti. In altri casi non è il turnover nelle posizioni la fonte di variabilità casuale, ma il fatto che i decisori sono impegnati in numerose scelte contemporaneamente e talvolta ne abbandonano una perché richiamati da qualcosa di più urgente; • le opportunità di scelta, ovvero le sedi istituzionali appositamente create per decidere. Situazioni come consigli di amministrazione, comitati e commissioni sono le occasioni nelle quali ci si aspetta di prendere decisioni, e spesso il destino di un problema è legato al

218 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

momento e alle circostanze in cui esso incontra un’opportunità di scelta formale.

Problemi endemici

7.4.3

Piccoli passi

Il modello del garbage can presuppone che problemi, soluzioni, partecipanti e opportunità di scelta siano flussi autonomi nell’ambiente organizzativo. Dal loro incrocio (o non incrocio) casuale scaturiscono le decisioni. Le conseguenze dell’anarchia organizzata e del modello del garbage can sono rilevanti. Ad esempio, non tutti i problemi trovano una soluzione: talvolta, le organizzazioni sono caratterizzate da problemi endemici che restano irrisolti. Inoltre, alcune soluzioni vengono forzate e applicate a problemi che ne richiederebbero di diverse. Infine, la stabilità del set di attori e il tempo e le energie investiti da costoro influenzano fortemente la coerenza e la qualità delle soluzioni. La potenza evocativa del modello del garbage can è molto forte. Il suo portato più significativo è quello che la razionalità (ancorché limitata) degli attori può tradursi in un’irrazionalità sistemica, a causa delle complessità della macchina organizzativa. Questo approccio lega dunque saldamente la teoria delle decisioni agli aspetti strettamente organizzativi. Tuttavia, anch’esso ha dei limiti. Anzitutto, rappresenta bene i processi decisionali nelle grandi organizzazioni dove gli attori sono tanti e i problemi pure. È qui che la somma delle razionalità individuali sfocia nell’irrazionalità sistemica. Nelle organizzazioni piccole, dove il potere decisionale è più concentrato e gli attori e i problemi meno numerosi, il modello perde di valore. Inoltre, anche nelle grandi organizzazioni i problemi veramente gravi che minacciano la sopravvivenza stessa dell’impresa vengono gestiti in modo più concentrato, meno caotico e casuale. In definitiva il modello del garbage can più che smentire la teoria della razionalità limitata ne precisa i contorni organizzativi, soprattutto per le grandi imprese e istituzioni.

L’incrementalismo Le implicazioni della teoria della razionalità limitata si concentrano sulla formazione di coalizioni di decisori e sulla necessità delle ridondanze (slack) per ridurre i conflitti e vincere le inerzie organizzative. Da questo punto di vista l’accento è stato posto principalmente sugli aspetti sociali e politici dei processi decisionali. L’approccio contingente, principalmente riconducibile agli studi di Mintzberg e dei suoi colleghi alla McGill University di Montreal (Mintzberg et al., 1976), ha invece cercato di mettere in luce la struttura latente dei processi decisionali strategici. L’idea di base è che le decisioni strategiche in realtà raramente iniziano con una chiara comprensione dei problemi e con un’analisi sistematica delle alternative, ancorché confinata dalla razionalità limitata degli attori. Piuttosto essi procedono per piccoli passi, con piccole decisioni parziali, che spesso si rivelano errate o insoddisfacenti e danno luogo a ripensamenti e nuove esplo-

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 219 Ricicli

Metastruttura decisionale

razioni (ricicli). In questo processo vengono individuate tre fasi generiche: identificazione, sviluppo e selezione. Nella fase di identificazione i decisori avvertono più o meno vagamente il problema e ne fanno una prima diagnosi. In quella di sviluppo cercano una soluzione tra quelle pre-esistenti (in questo vi è un sostanziale allineamento con i primi sviluppi della razionalità limitata): se tra queste non ve ne è nemmeno una soddisfacente, si passa a studiare una soluzione ad hoc (anche qui si riconosce che il criterio è quello di soddisfazione o di fit e non di ottimalità). Nella fase di selezione, infine, vengono scartate le alternative meno attraenti o difficilmente realizzabili e viene scelta una soluzione. Talvolta, tale scelta richiede un’approvazione esterna (autorizzazione). La fase di sviluppo, che è quella centrale, assorbe le maggiori energie. In questa fase è più probabile che venga esaminato un numero di soluzioni maggiore quando queste sono preconfezionate. Viceversa, le soluzioni ad hoc vengono esplorate una a una, e si passa a una nuova ricerca solo se quella esaminata è insoddisfacente. Pensiamo a un’analogia banale, ma che rende l’idea di come avvengono i processi reali. Trovandoci in una città poco familiare e dovendo (o meglio volendo) uscire a cena, cercheremo anzitutto soluzioni preconfezionate: chiederemo suggerimenti al concierge dell’albergo o ci baseremo su eventuali consigli ricevuti in precedenza da amici o conoscenti. Tipicamente valuteremo i due o tre consigli a disposizione in modo comparativo sulla base del tipo di cucina, del livello e dei costi dei ristoranti e della distanza dall’albergo. Solo se nessuna di queste soluzioni è soddisfacente o praticabile (ristoranti troppo costosi o troppo modesti, tipi di cucina sgraditi, locali troppo distanti o, ancora, posti esauriti) cercheremo una soluzione ad hoc, consultando una guida specializzata o cercando in Internet. Indirizzeremo quindi la nostra ricerca verso tipologie di servizi già compatibili con le nostre preferenze (soluzione ad hoc) e inoltre seguiremo un approccio sequenziale ispirato a un criterio di soddisfacimento e non di ottimalità: individuato un ristorante gradito telefoneremo per prenotare e se vi sarà posto il processo decisionale sarà arrivato a conclusione. Ben difficilmente faremo decine di telefonate per raccogliere informazioni più dettagliate sul menù e il servizio, tenendo in sospeso la decisione per confrontare le alternative generate ad hoc. I processi decisionali strategici, nella loro enorme eterogeneità, appaiono però frequentemente accomunati da una metastruttura formata da identificazione-sviluppo-selezione, e si caratterizzano per cicli iterati e incrementali di queste tre fasi. Il problema generale viene scomposto e affrontato a piccoli passi, ciascuno dei quali può subire arresti decisionali e ripensamenti. È dunque attraverso un processo incrementale fatto di aggiustamenti e apprendimenti in progress che le imprese decidono e agiscono. Se una soluzione è valutata insoddisfacente, la decisione torna al punto di partenza; in alcuni casi vengono addirittura modificati gli obiettivi. Ad esempio, la ricerca infruttuosa di un ristorante interessante può a un certo punto farci desistere e farci decidere di cenare in albergo o al fast food dietro l’an-

220 ) PARTE II – PROCESSI

Strategie ex post

7.4.4 Dare un senso alla realtà

Costruirsi scenari

Prima l’esperienza poi il pensiero

DECISIONALI

golo. In casi estremi l’organizzazione decide addirittura di lasciare il problema irrisolto. Gli sviluppi ulteriori di questo approccio hanno persino portato a mettere in discussione il concetto stesso di processo decisionale. Mintzberg stesso (1978) identifica la strategia come un flusso di azioni rintracciabile ex post più che come un flusso di decisioni impostate ex ante. Solo le organizzazioni burocratiche mantengono una forte separazione e una precedenza logica tra decisione (prima) e azione (poi): ne sono un esempio gli iter autorizzativi delle pubbliche amministrazioni. Le imprese e le organizzazioni organiche agiscono più che decidere o decidono mentre agiscono, talvolta addirittura dopo aver agito. Torneremo su questo punto nel capitolo 8.

Il sensemaking La critica forse più profonda e pregnante all’approccio della razionalità limitata è quella iniziata da Karl Weick e riassunta nel titolo evocativo della sua opera maggiore: Sensemaking in Organizations (1995). Le organizzazioni non si comportano in modo da risolvere razionalmente i problemi, sia pure con tutte le difficoltà e i limiti dovuti alla razionalità individuale e collettiva. Le organizzazioni sono astrazioni, non soggetti pensanti autonomi. Sono fatte di persone, e per le persone dare senso alla realtà è prioritario rispetto al prendere decisioni. Le persone cercano costantemente di interpretare il mondo circostante e di dare senso a ciò che sperimentano, identificando correlazioni e nessi causali, costruendo mappe cognitive. Questo processo è noto con il termine di sensemaking, letteralmente “fabbricazione di senso”, per sottolineare che esso va ben oltre l’interpretazione passiva della realtà e coinvolge attivamente le persone. Le organizzazioni, in quanto composte di individui, agiscono per dotare di sensi plausibili, plasmandoli, gli scenari in cui operano. Per gli individui l’attribuzione di senso è addirittura antecedente la motivazione, e come tale è una molla più potente: senza interpretazione e senso non ci sono nemmeno motivazione e impegno. Secondo Weick l’organizzazione stessa, intesa come atto dell’organizzare (organizing), equivale al sensemaking. Non c’è frattura tra i modi in cui i manager organizzano il lavoro dei collaboratori, i rapporti con i clienti, quelli con i fornitori ecc. e il modo in cui essi stessi interpretano e danno senso alla realtà circostante. L’esperienza e la cognizione dei singoli contribuiscono a dare senso plausibile agli ambienti organizzativi. È così che l’organizzazione costruisce con le proprie mani il proprio scenario. Il sensemaking è essenzialmente retrospettivo. A posteriori, o al massimo durante l’esperienza (azione), gli individui attribuiscono senso all’esperienza stessa. Viene sovvertita così la tradizionale sequenza del decision making “pensare-dire-fare”, ovvero percezione, analisi, razionalizzazione ed esplicitazione per passare infine all’azione meditata. Nella prospettiva del sensemaking vi è una relazione circolare “faredire-pensare e fare di nuovo”, ovvero esperienza e cognizione aiuta-

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 221

Profezie che si autoavverano

Memoria e identità

no a esplicitare un’interpretazione e a conferire un senso alla realtà circostante che a sua volta contribuisce a indirizzare l’azione. La costruzione di senso si basa sull’attivazione di ambienti. Attivare un ambiente significa selezionare e ordinare gli elementi oggettivi e le informazioni e tentare di dare loro un senso, strutturando correlazioni e nessi causali. L’attivazione può anche implicare circoli viziosi o virtuosi, ovvero circuiti di eventi concatenati che portano a filtrare alcuni effetti e ad amplificarne altri e che, nel lungo termine, modificano permanentemente l’ambiente originario. Un esempio tipico di attivazione è la profezia che si autoavvera, alla base della quale vi è una relazione circolare tra azione, percezione, attribuzione di significato. Una persona che pensa di non essere benvoluta spesso si comporta in modo distaccato e anche aggressivo. Gli ambienti sociali con i quali entra in contatto ricambieranno con atteggiamenti distaccati, ciò che rinforzerà la percezione iniziale, di fatto cristallizzando il sensemaking iniziale. Gli ambienti attivati vengono selezionati e archiviati nella memoria individuale e collettiva dell’organizzazione e costituiscono altrettanti sensi compiuti. La stessa tragedia del Challenger (Caso 7.2) è stata analizzata secondo una prospettiva di sensemaking. La NASA era un’organizzazione la cui missione era affrontare sfide tecnologiche ad alto rischio (e lo stesso nome Challenger era evocativo). La tesi sostenuta nell’approfondito studio della Vaughan (1996) è che la cultura aziendale era una costruzione sociale orientata a “normalizzare l’eccezione”: accettare cioè il rischio come fatto normale, stabilire regole e procedure per valutarlo e contenerlo, non necessariamente eliminarlo. L’ambiente attivato alla NASA prevedeva tutto ciò. Il disastro appare così in una luce diversa: l’effetto non di una colpevole violazione delle regole, bensì di una decisione semiconsapevole presa in totale conformità alle norme che esprimevano il senso di quell’ambiente. Gli ambienti attivati possono subire mutazioni anche drastiche. Sono quelli che Weick chiama cambiamenti ecologici a determinare una discontinuità nel processo di sensemaking. Quando i flussi di esperienza contraddicono clamorosamente i “sensi consolidati”, e per così dire archiviati, gli individui e le organizzazioni sono forzati a trovarne di nuovi. Tutta la dinamica organizzativa viene quindi riletta in termini di ricordo e cancellazione. Le organizzazioni, come gli individui, hanno bisogno di ricordare ma anche di dimenticare: ricordare per riconoscersi in ambienti dotati di sensi specifici e mantenere così un’identità; dimenticare, ovvero screditare e rimuovere sensi passati per sostituirli con sensi nuovi. L’identità è legata alla memoria, l’innovazione alla cancellazione. Un’impresa di beni di largo consumo che nel passato aveva sperimentato con successo approcci aggressivi di marketing si era costruita un senso preciso dell’ambiente e interpretava ogni comportamento del mercato e della distribuzione come risposta a manovre più o meno spregiudicate sui prezzi, la comunicazione e la promozione. Di fronte a una crisi imprevista nelle vendite, la reazione fu completamente conforme al senso dominante. Nelle parole del potente Direttore marketing du-

222 ) PARTE II – PROCESSI

Rimozione e innovazione

Una visione di sintesi

DECISIONALI

rante un comitato di direzione: “...è una storia che abbiamo già visto, ormai conosciamo con chi abbiamo a che fare [i distributori e i clienti finali, n.d.r.]. Lanciamo una promozione, troviamo qualche gadget da associare al prodotto. Parallelamente incentiviamo personalmente [eufemismo] i buyer dei grandi distributori e vedrete che tutto si aggiusta”. Non fu così, le preferenze dei consumatori stavano cambiando e prodotti sostitutivi stavano affermandosi. L’impresa era rimasta indietro nella ricerca e nell’innovazione. Superò la crisi a prezzo di una dura ristrutturazione e della sostituzione di larga parte del management, incluso il Direttore marketing. La ristrutturazione fu accompagnata da un nuovo sensemaking e dalla cancellazione e anche dal discredito del senso precedente: da una visione tutta centrata sulla capacità di marketing e di vendita (“con i venditori giusti e le campagne giuste possiamo vendere qualunque cosa”) a un senso diverso (“qualità e innovazione prima di tutto”). In questo capitolo introduttivo abbiamo analizzato le decisioni non in astratto, ma collegandole quanto più possibile alle dimensioni organizzative. In tal senso, rifacendoci a quanto introdotto nel capitolo 1, ci stiamo ancora muovendo nel campo delle scienze organizzative, in particolare focalizzandoci sulla questione decisionale, una delle tre correnti che attraversano tutta la storia della disciplina. Dei processi decisionali nelle organizzazioni abbiamo messo in luce diversi aspetti. Abbiamo anzitutto evidenziato come non tutte le decisioni nelle organizzazioni reali avvengano in modo perfettamente consapevole con una chiara corrispondenza tra mezzi e fini. Abbiamo poi distinto le decisioni programmate da quelle non programmate, osservando come alle prime si applichino meglio e con maggior successo le sofisticate tecniche quantitative di decisione e programmazione riconducibili al management science. Viceversa i fattori sociali, politici e cognitivi giocano un ruolo fondamentale nelle decisioni non programmate – categoria alla quale appartengono solitamente le decisioni strategiche che condizionano il successo delle imprese – e per le quali trovano scarsa applicazione le metodologie del management science. Tutta la trattazione che abbiamo svolto ruota attorno al concetto fondamentale di razionalità limitata, che farà da guida nello sviluppo dei capitoli successivi. Esso consiste nella difficoltà dei decisori di scegliere le alternative in assoluto migliori tra quelle teoricamente disponibili. Le cause della razionalità limitata sono da rintracciare, oltre che in fattori personali e sociali, nell’ambiguità degli obiettivi, nel rischio e nell’incertezza e nella scarsità di informazione che impedisce di valutare correttamente tutte le possibili soluzioni e talvolta di venirne perfino a conoscenza. Una conseguenza cruciale della razionalità limitata è il ricorso al criterio di soddisfacimento al posto di quello di ottimalità: i decisori analizzano le alternative in modo sequenziale e i processi decisionali si arrestano quando viene individuata una soluzione soddisfacente, non necessariamente la migliore. Un aspetto di grande rilievo nelle organizzazioni complesse è la gestione dei conflitti organizzativi attorno alle questioni strategiche. Es-

7. Le decisioni nelle organizzazioni ) 223

Sensemaking vs. decision making

Ambiguità e incertezza

si sono ineliminabili e, tuttavia, sono un elemento di inefficienza poiché rallentano le decisioni. In tempi nei quali gli scenari competitivi e i mercati cambiano con grande rapidità, la gestione del trade-off tra velocità decisionale e consenso è forse l’aspetto chiave per il successo di molte organizzazioni. Gli strumenti per farvi fronte sono il potere, la politica e la leadership, che per certi versi è un mix di potere e politica. Nell’ultima parte del capitolo abbiamo infine presentato le più recenti correnti di pensiero sui processi decisionali che si innestano sul concetto cardine della razionalità limitata. Da un lato il modello del cestino dei rifiuti (garbage can), che sottolinea la semicasualità dei processi decisionali e illustra come la razionalità limitata degli attori possa trasformarsi in irrazionalità sistemica. Dall’altro l’incrementalismo, che evidenzia come le organizzazioni tendano a frammentare i grandi processi decisionali in sequenze di decisioni più piccole spesso caratterizzate da arresti e nuovi tentativi. Questi contrbuti, più che smentire l’approccio della razionalità limitata, sostanzialmente lo ampliano e lo arricchiscono di nuovi elementi. Viceversa, l’importante filone del sensemaking costituisce implicitamente una critica più corrosiva alla teoria della razionalità limitata. Il sensemaking sostituisce il decision making in quanto assume che gli individui e le organizzazioni, attraverso processi cognitivi individuali e collettivi, conferiscano senso alla realtà e costruiscano scenari e cornici entro i quali agiscono di conseguenza, più che decidere. Le suggestioni del sensemaking sono potenti e la grande mole di esempi e di evidenze empiriche sviluppata dai suoi fautori fornisce riscontri reali. A nostro avviso rimane tuttavia vero che entro ambienti dotati di senso, e dunque entro cornici sociali e culturali più ampie, molte decisioni delle organizzazioni reali sono ben riconducibili alle dinamiche previste dalla teoria della razionalità limitata. La Figura 7.4 sintetizza tutto il percorso che abbiamo seguito in questo capitolo introduttivo, e posiziona i molteplici e poliedrici contributi rispetto a due assi fondamentali di analisi delle decisioni: • il livello di ambiguità del problema e la divergenza tra i decisori sugli obiettivi e le priorità; • l’incertezza sulle variabili, sui metodi di analisi e sulle soluzioni del problema. Quando non vi è ambiguità di obiettivi né incertezza sulle soluzioni, i decisori tendono ad assumere un comportamento riconducibile alla razionalità perfetta: perseguono obiettivi definiti, cercano e trovano la soluzione ottima nell’insieme di quelle fattibili. È qui che hanno la massima utilità gli approcci analitici e quantitativi riconducibili al management science. Purtroppo, la maggior parte delle decisioni strategiche per le imprese e le organizzazioni, in genere, non ha queste caratteristiche. Al crescere di ambiguità e incertezza vengono progressivamente meno le ipotesi della razionalità perfetta. Emerge allora il mondo della razionalità limitata. In questo ambito, se l’ambiguità è elevata e l’or-

224 ) PARTE II – PROCESSI

Figura 7.4

DECISIONALI

AMBIGUITÀ E INCERTEZZA DEL DECISION MAKING

Ambiguità del problema e divergenza sugli obiettivi

Sen

sem

akin

g

Decisioni a garbage can

ing

ak em

ns

Se

im

àl

lit

na

zio

Ra ta

ita

Mgmt Science

Incrementalismo

à lit na ta zio fet Ra per Incertezza sulle variabili, le soluzioni e i metodi di analisi

ganizzazione complessa, è facile che si ritrovino modelli decisionali a garbage can, nei quali le razionalità limitate di molti attori si combinano in una certa irrazionalità sistemica e casualità delle decisioni stesse. Se invece il problema non è eccessivamente ambiguo, ma vi è molta incertezza sulle soluzioni e sui metodi di analisi, allora è facile che la razionalità limitata si traduca in processi decisionali incrementali, fatti di tentativi, arresti e ripensamenti. Al mondo variegato delle decisioni a razionalità limitata fa da cornice il sensemaking. Per certi versi esso si oppone e ridimensiona la portata del decision making o, almeno, subordina quest’ultimo alla più generale costruzione di senso da parte degli individui all’interno delle organizzazioni. Sulla scorta di questa panoramica generale possiamo ora affrontare il capitolo 8, nel quale analizzeremo in chiave manageriale gli approcci e le tecniche per le decisioni aziendali.

8

Il processo decisionale Le fasi, gli approcci, il rischio e l’incertezza

SOMMARIO

8.1 Processi, non eventi

CASO

8.1 La decisione come processo: problem setting e problem solving j 8.2 Il problem setting j 8.3 Il problem solving j 8.4 Tre approcci alle decisioni: thinking first, doing first e seeing first j 8.5 Decisioni in condizioni non deterministiche

La decisione come processo: problem setting e problem solving In questo capitolo, sposando l’approccio della razionalità limitata (illustrato nel capitolo 7), approfondiamo gli aspetti manageriali dei processi decisionali. Gestire quotidianamente un’organizzazione significa di fatto essere in grado di prendere decisioni consapevoli in merito a molteplici aspetti a tutti i livelli: dalle scelte di marketing a quelle di fornitura, dalle soluzioni tecnologiche a quelle organizzative, dalla formulazione dei budget alla pianificazione delle attività operative. Queste decisioni di gestione possono essere innescate dalla percezione di problemi, siano essi minacce dalle quali difendersi od opportunità da cogliere. Vi sono però anche decisioni che nascono per effetto delle procedure e dei meccanismi di standardizzazione tipici della burocrazia (si vedano in proposito i capitoli 3 e 4). Esse fanno parte della normale “routine” organizzativa di un’impresa e sono connaturate a certi ruoli. Il Caso 8.1 illustra un esempio di questo genere.

8.1

Polonnaruwa Airlines Verso la fine del 2003, A.Y. , Direttore marketing di Polonnaruwa Airlines, una piccola linea aerea che opera in Sri Lanka, doveva preparare il piano di marketing per l’anno successivo. Si trattava di definire quali tratte aeree offrire, quali tariffe applicare e come pubblicizzare i servizi proposti dall’azienda. Riguardo a quest’ultimo aspetto, ogni anno il Presidente della società attribuiva un budget che A.Y. poteva spendere in promozione; per il 2004 il budget previsto era di circa un milione di dollari. L’obiettivo che il Direttore marketing si era posta era quello di massimizzare i ricavi derivanti dal numero di clienti

226 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

che avrebbero utilizzato Polonnaruwa Airlines per volare in Sri Lanka. A.Y. ipotizzò un costo medio di un biglietto aereo per un turista straniero pari a circa 1.000 dollari. Bisognava decidere su quali media apparire, quale messaggio pubblicitario trasferire, in quali Paesi lanciare la campagna pubblicitaria e a quale target di clientela rivolgersi. Diversi erano gli aspetti che potevano condizionare il successo della campagna pubblicitaria: innanzitutto la “ricettività” dei clienti, che dipende molto dalla congiuntura economica mondiale; in secondo luogo la capacità dei media utilizzati di raggiungere un numero elevato di clienti potenziali, che può ad esempio essere misurata tramite la tiratura dei giornali o gli indici di ascolto della televisione o della radio; infine l’aggressività delle campagne pubblicitarie effettuate dai concorrenti. Dopo un’attenta analisi, A.Y. individuò tre possibili alternative: • la prima consisteva in una campagna pubblicitaria sulle principali testate di turismo negli Stati Uniti, in Germania, Regno Unito e Italia, i Paesi da cui provengono principalmente i turisti stranieri. Questa alternativa aveva un costo di 880.000 dollari e un ritorno abbastanza certo, in quanto le tirature dei giornali selezionati erano note e abbastanza stabili; A.Y. poté così calcolare in modo preciso il tasso di ritorno atteso. Ci si aspettavano 10.000 clienti/anno, con una deviazione standard stimata di 3.000 clienti/anno; • la seconda alternativa consisteva invece nel realizzare sul sito Internet della compagnia un servizio per fornire ai clienti la disponibilità degli orari e delle tariffe e la possibilità di prenotazione on line. Il costo di questa alternativa era più alto, pari a un milione di dollari, necessari per la progettazione e manutenzione del sito e dei sistemi informativi aziendali atti a supportare i servizi offerti. Anche il ritorno atteso da questa alternativa era più elevato, pari a 18.000 clienti/anno, ma l’incertezza era altrettanto elevata, in quanto non si conoscevano ancora in modo preciso il numero degli accessi al sito e il tasso medio di successo. Dunque la deviazione standard stimata era pari a 15.000 clienti/anno; • Come terza alternativa A.Y. individuò la possibilità di rivolgersi prevalentemente al pubblico dei viaggi organizzati, utilizzando come canali di comunicazione fiere specializzate, testate specialistiche di settore e convention dei principali operatori. Il valore atteso era di 8.000 clienti/anno, con una variabilità abbastanza elevata, pari a 5.000 clienti/anno, legata alla scarsa conoscenza dei canali di comunicazione. Il costo di questa alternativa era di soli 660.000 dollari. Nel corso della sua valutazione A.Y. venne incidentalmente a conoscenza del fatto che un grande vettore internazionale stava cercando un partner locale. Nella sua mente prese così forma una quarta alternativa che sembrava assai attraente (valore atteso di 25.000 clienti/anno e deviazione standard stimata di 10.000 clienti/anno). Occorreva cercare un’intesa per associare la propria immagine a una compagnia aerea internazionale e veicolare i messaggi pubblicitari. A.Y. non aveva un’idea precisa della fattibilità tecnica e strategica di questa opzione. Da un sondaggio informale si convinse però che il costo di questa alternativa non sarebbe stato inferiore ai 2,5 milioni di dollari, ben oltre il budget a disposizione. Eccitata dalla nuova possibilità, ma spaventata dai costi, A.Y. non sapeva bene come procedere.

8. Il processo decisionale ) 227

Il Direttore marketing di Polonnaruwa Airlines doveva affrontare un problema che rientrava nelle sue mansioni, connaturato cioè al proprio ruolo. La sua decisione non era semplicemente l’esito di un algoritmo di ottimizzazione, bensì racchiudeva tutte le attività necessarie a ottenere il risultato. Possiamo perciò dire che le decisioni consapevoli possono essere considerate come processi che partono dall’identificazione del problema e terminano con l’attuazione della soluzione selezionata. In particolare, il processo decisionale è generalmente costituito da due fasi fondamentali: l’identificazione del problema e la sua soluzione. La prima fase viene anche definita problem setting, e include la percezione del problema, la definizione degli obiettivi e l’analisi dei fattori rilevanti per la scelta. Nel caso illustrato, ad esempio, il problem setting iniziò con il mandato da parte del Presidente di definire la campagna promozionale per l’anno successivo. A fronte di questo incarico, A.Y. focalizzò l’obiettivo principale della sua decisione: massimizzare i ricavi derivanti dai clienti che avrebbero volato con Polonnaruwa Airlines nel 2004. Era necessario analizzare i fattori rilevanti che potevano avere impatto sui risultati della campagna promozionale: dalla ricettività dei clienti alle previsioni sulla congiuntura economica, dalla capacità dei media di raggiungere i potenziali clienti all’aggressività delle campagne pubblicitarie effettuate dai concorrenti. La seconda fase viene anche definita problem solving, e include attività quali l’identificazione delle alternative, la valutazione della loro capacità di raggiungere in tutto o in parte gli obiettivi, la scelta e l’attuazione della decisione e il controllo dei risultati ottenuti. A.Y., ad esempio, valutò attentamente tre alternative; a un certo punto, in modo non completamente intenzionale, intravide una quarta opzione che tuttavia era in contrasto con un vincolo di budget. Con le valutazioni in suo possesso avrebbe dovuto quindi effettuare la scelta, metterla in atto e verificare i risultati in corso d’opera. Naturalmente nelle decisioni reali il confine tra problem setting e problem solving non è così netto. Talvolta i decisori mentre analizzano un problema già prefigurano delle soluzioni e le valutano, salvo poi ritornare ad analizzare nuovamente la realtà se non sono soddisfatti. Questa è la situazione della razionalità limitata (si veda il paragrafo 7.3). La letteratura manageriale si è a lungo concentrata sul problem solving e, in particolare, sulle tecniche di ottimizzazione e risoluzione di problemi complessi con molte variabili in gioco, rappresentabili in forma analitica attraverso sistemi di equazioni. Negli ultimi decenni tuttavia si sono verificati due cambiamenti. Una parte dell’attenzione si è spostata sul problem setting e in particolare sulla capacità di identificare e impostare i problemi. Infatti, per quanto sofisticati possano essere i metodi di ottimizzazione, senza una base di partenza costituita da obiettivi ben definiti e informazioni corrette sullo stato delle variabili che influenzano i risultati essi si limitano a fornire soluzioni inapplicabili o non coerenti con il contesto complessivo. Consideriamo, ad esempio, il processo di previsione della domanda nei

228 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

mercati di largo consumo (si veda in proposito il capitolo 17): algoritmi di previsione sofisticati basati sulle serie storiche forniscono risultati inattendibili se alimentati da dati non corretti o se non considerano informazioni rilevanti, come ad esempio il lancio imminente di una promozione. Inoltre, nell’ambito del problem solving, l’attenzione si è spostata dalla ricerca di soluzioni eventualmente difficili da trovare, ma che sono poi giudicate ottimali da tutti gli attori coinvolti, alla creazione del consenso e alla negoziazione fra attori che non sempre hanno obiettivi coincidenti. Il caso dei missili a Cuba che abbiamo illustrato nel capitolo 7 (Caso 7.1, p. 197) è indicativo: l’aspetto saliente del problem solving non fu tanto la ricerca di soluzioni ottimali, poiché le possibili alternative non erano molte ed emersero facilmente. Piuttosto, la soluzione del blocco navale prevalse al termine di un processo di negoziazione interna, di creazione di consenso e di formazione di una coalizione maggioritaria attorno a un’alternativa che non era certo ottimale per tutti gli attori: in particolare non lo era per i “falchi” del Pentagono. Approfondiamo ora le due fasi rispettivamente di problem setting e problem solving nell’ottica della razionalità limitata.

8.2

Il problem setting Ogni decisione presuppone la volontà di raggiungere uno o più obiettivi, per quanto questi possano essere ambigui. Nel caso Polonnaruwa Airlines (Caso 8.1), ad esempio, l’obiettivo che A.Y. si poneva era la massimizzazione del fatturato. Al fine di studiare i processi decisionali nelle imprese è quindi importante capire innanzitutto come sono identificati gli obiettivi e quale impatto essi hanno sugli attori decisionali. Nella prospettiva della razionalità limitata e in un contesto organizzativo gli obiettivi sono stabiliti da un insieme di soggetti (proprietari e/o manager) che operano e decidono in nome e per conto dell’organizzazione (Cyert e March, 1963). In questi termini, soltanto gli individui, e non le organizzazioni in senso lato, possono avere degli obiettivi. La mission di un’impresa, ad esempio, riguarda la strategia complessiva cui l’organizzazione nella sua interezza dovrà fare riferimento, ma viene definita dall’imprenditore o da un gruppo di individui che esprimono il governo dell’impresa per conto degli azionisti e siedono nel consiglio di amministrazione o in organismi simili.

8.2.1

Definizione degli obiettivi Un aspetto ricorrente di molti processi decisionali consiste nella compresenza di più obiettivi, spesso in contrasto tra loro (trade-off) e rispetto ai quali i diversi attori manifestano priorità differenti. È una questione che abbiamo già affrontato nel capitolo 5, quando abbiamo introdotto le prestazioni dei processi aziendali e i trade-off.

8. Il processo decisionale ) 229

Nel caso dei missili a Cuba (Caso 7.1, p. 197) gli americani volevano certamente evitare la guerra totale, ma anche garantire la propria sicurezza e riaffermare il proprio prestigio, obiettivi in parte contrastanti almeno in relazione ad alcune alternative. Ad esempio, ignorare le installazioni come volevano alcuni membri del governo avrebbe certamente evitato la guerra ma inficiato la sicurezza e il prestigio, così come invadere l’isola (soluzione caldeggiata dal Pentagono) avrebbe riaffermato la forza e la sicurezza, ma a rischio di un’escalation verso la guerra. In molti casi dunque la presenza di più obiettivi è dovuta all’interazione di più attori decisionali, ognuno dei quali con interessi e scopi propri, in parte divergenti e anche contrastanti con quelli degli altri. In altri casi invece l’esistenza stessa di rischio e incertezza costituisce una situazione multiobiettivo con trade-off, nella quale i decisori vogliono normalmente massimizzare il risultato ma anche minimizzare il rischio associato a quest’ultimo. Solitamente accade che le alternative con il migliore risultato atteso siano anche quelle più rischiose, ovvero quelle per le quali maggiore è la dispersione probabilistica dei risultati possibili attorno al valore atteso o per le quali maggiore è la probabilità che il risultato effettivo sia assai peggiore del valore sperato. Nel caso Polonnaruwa Airlines (Caso 8.1) l’alternativa con il ritorno atteso più elevato (18.000 clienti/anno) era anche quella con il maggiore rischio (deviazione standard pari a ben 15.000 clienti/anno). Anche in questo caso è evidente il trade-off tra rendimento e rischio, peraltro ben presente in moltissime altre situazioni. Ad esempio, gli investimenti sui mercati finanziari presentano sempre trade-off simili: gli investimenti azionari hanno mediamente ritorni più elevati di quelli obbligazionari, ma ovviamente sono più rischiosi. Tra gli investimenti obbligazionari (bond), le emissioni statali di Paesi ritenuti stabili e sicuri offrono rendimenti più bassi, ma sono normalmente più sicure delle emissioni da parte di Paesi ritenuti rischiosi, che per finanziarsi devono corrispondere interessi più elevati. Anche il fattore tempo determina indirettamente situazioni multiobiettivo con trade-off. È possibile infatti che alcune alternative diano risultati migliori nel breve termine mentre altre, inizialmente meno attraenti, diano risultati migliori nel medio e lungo termine. In questi casi la propensione del decisore è fondamentale: normalmente saper aspettare vuol dire ottenere risultati migliori e, talvolta, correre qualche rischio in più. Anche le condizioni al contorno della decisione possono avere influenza: un’impresa con una situazione finanziaria precaria sarà più orientata al breve termine, mentre in condizioni floride le decisioni potrebbero essere più orientate al lungo termine. In relazione alla definizione degli obiettivi e alla comprensione dei trade-off non va dimenticato il ruolo cruciale della percezione già discusso nel capitolo 7: attori decisionali diversi possono percepire il problema in modo completamente diverso e dunque definire obiettivi e priorità differenti.

230 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Nel capitolo 5 è stato trattato il tema degli indicatori di prestazione. Gli indicatori utilizzati per misurare i risultati di un determinato processo influenzano fortemente gli obiettivi e le decisioni che vengono prese. Consideriamo il caso del responsabile della logistica di un’impresa che produce elettrodomestici venduti nei negozi specializzati e nelle catene della distribuzione organizzata. Il suo compito è quello di gestire gli ordini dei distributori e pianificare le scorte a magazzino, con l’obiettivo di massimizzare il livello di servizio offerto in termini di disponibilità della merce. La politica commerciale dell’azienda richiede che ai distributori vengano inviati solo ordini completi. Osserviamo gli effetti di due indicatori di prestazione alternativi per misurare il raggiungimento dell’obiettivo del livello di servizio, rispettivamente: • numero di ordini ricevuti/numero di ordini evasi; • quantità di merce ordinata/quantità di merce consegnata. Il responsabile della logistica si comporterà in modo diverso a seconda di quale indicatore venga utilizzato. Nel primo caso, infatti, egli darà priorità agli ordini di piccole dimensioni, in quanto, a parità di scorta, aumenta la probabilità di soddisfarne altri. Nel secondo caso, al contrario, egli darà priorità agli ordini di grandi dimensioni, in grado di contribuire maggiormente al miglioramento dell’indicatore di quantità. Indicatori diversi dello stesso obiettivo possono indurre comportamenti diversi e addirittura opposti.

8.2.2

Limiti e violazioni

Vincoli esterni

I vincoli In ogni processo decisionale esistono vincoli di varia fonte e natura (tecnologici, finanziari, normativi, organizzativi ecc.). I vincoli sono limiti posti alla libertà di decisione e di azione: i decisori sono liberi nelle scelte, purché si mantengano nello spazio decisionale definito dai vincoli. In questa accezione, il concetto di vincolo è assimilabile a quello di obiettivo. Per il decisore si tratta di mantenere i parametri entro determinati limiti. Per l’automobilista coscienzioso o semplicemente desideroso di evitare una multa, il limite di velocità è un vincolo che, di fatto, si trasforma nell’obiettivo di mantenere la velocità al di sotto di quel determinato limite durante la guida. Tuttavia lo stesso automobilista, in determinate circostanze, può decidere di violare il vincolo, ad esempio se è in ritardo o per il puro piacere della velocità. In questo caso il vincolo-obiettivo “rispetto dei limiti di velocità” viene posto in secondo piano rispetto agli obiettivi “arrivare puntuale” o “divertirsi alla guida”. Le fonti di vincoli in un processo decisionale possono essere diverse. La situazione più comune è la presenza di fonti esterne che derivano dall’ambiente competitivo. Il tempo di consegna può essere un vincolo imposto da clienti con elevato potere contrattuale o dagli standard di mercato di fatto dettati dalla concorrenza. O ancora, il costo della

8. Il processo decisionale ) 231

Vincoli interni

Vincoli dal passato

Vincoli presunti

8.2.3

manodopera può essere vincolato dagli accordi sindacali. Anche le normative ambientali costituiscono sempre più vincoli cogenti. Un’altra comune fonte di vincoli sono le decisioni di livello superiore. Ad esempio A.Y., Direttore marketing di Polonnaruwa Airlines (Caso 8.1), doveva decidere come impostare la campagna di comunicazione ma non poteva spendere più di 1 milione di dollari. Questo vincolo, che tra l’altro le impediva in prima battuta di perseguire la quarta alternativa (l’alleanza con un grande vettore internazionale) le era imposto dal Presidente della società. Infine, una fonte di vincoli che spesso viene sottovalutata è costituita dalle decisioni pregresse. Le imprese spesso prendono decisioni vincolate da altre attuate in precedenza, senza le quali vi sarebbero più alternative a disposizione. Lo stesso ufficio elettorale di Roosevelt fu vincolato nelle sue decisioni proprio dall’aver già stampato gli oltre 3 milioni di libretti (Caso 7.4, p. 213). Quando Ford decise di entrare nel settore delle auto per una clientela di lusso, si presentò il problema della scelta tra una linea di produzione esclusivamente dedicata e una linea FMS (Flexible Manufacturing System). La prima alternativa era sicuramente più efficiente nella produzione dei modelli di lusso, ma era rigida e non poteva essere riutilizzata per altre produzioni; la seconda, al contrario, era meno efficiente, ma adattabile ad altri modelli. Ford optò per una linea dedicata e altamente efficiente. Il principale concorrente era Cadillac, riconosciuta da tempo come leader nel settore lusso. A causa dell’immagine di auto con prezzi accessibili che Ford si era costruita negli anni precedenti, la linea lusso si rivelò un disastro commerciale fin dal primo lancio sul mercato. La decisione se procedere o meno con la produzione delle auto di lusso era ora vincolata dalla linea produttiva installata, che risultava estremamente rigida e non poteva essere adattata ad altri modelli più consoni all’immagine dell’impresa. È essenziale rendersi conto delle implicazioni future delle decisioni correnti. Un ultimo aspetto rilevante nel riconoscimento dei vincoli è la loro rigidità. Non tutti i vincoli, infatti, sono irremovibili, anzi in molte occasioni gli attori decisionali si limitano autonomamente nelle loro decisioni perché percepiscono vincoli presunti che in realtà potrebbero essere rimossi. Consideriamo ancora il vincolo di budget imposto ad A.Y. (Caso 8.1): la possibilità di ricorrere alla quarta alternativa, che molto probabilmente si sarebbe dimostrata la migliore, era formalmente preclusa. Tuttavia, A.Y. avrebbe forse potuto convincere il Presidente del valore dell’alleanza internazionale e indurlo a rimuovere il vincolo, aumentando il budget allocato per la promozione. Ovviamente, la fattibilità della proposta avrebbe dovuto essere valutata dal Presidente dal punto di vista complessivo della compagnia aerea.

La costruzione dei modelli L’attività fondamentale nell’ambito del problem setting è sicuramente la costruzione del modello decisionale.

232 ) PARTE II – PROCESSI

Modelli della realtà

Le variabili rilevanti

Forma canonica

DECISIONALI

Un modello può essere definito come una “rappresentazione selettiva della realtà”. Non è possibile né utile, infatti, rappresentare in dettaglio tutto ciò che ci circonda. È necessario operare una selezione di quei fattori che sono determinanti per le decisioni in un particolare contesto. Ogni modello, in quanto rappresentazione semplificata della realtà, trascura alcuni elementi e si concentra su altri. Naturalmente sono possibili molti modelli della stessa realtà. In principio nessuno è in assoluto superiore. Inoltre, i modelli dipendono dagli obiettivi e dai vincoli. Un mappamondo, una carta topografica e una carta politica sono tre modelli della stessa realtà, la superficie terrestre. Ciascuno si concentra su elementi diversi e ne trascura altri. Nessuno è superiore in assoluto, piuttosto a seconda degli obiettivi un modello è più adatto di un altro. Per cogliere gli effetti dell’illuminazione del sole su diverse aree del pianeta un mappamondo è ovviamente un modello superiore a qualsiasi carta, mentre è del tutto inadatto per trovare un sentiero in montagna. Nelle decisioni manageriali è dunque essenziale definire i confini del problema, individuando le sole variabili rilevanti, senza pretese di universalità e di completezza assoluta. Nella pianificazione della produzione di un’azienda manifatturiera, ad esempio, saranno importanti variabili quali i vincoli di capacità produttiva, i tempi e i costi di attrezzaggio, la domanda di mercato e il livello delle scorte; difficilmente il responsabile di produzione prenderà in considerazione altre variabili quali ad esempio il livello di indebitamento dell’azienda o i tassi della Banca Centrale Europea, pur rilevanti per altre decisioni aziendali. Inoltre, se l’obiettivo è quello di programmare la produzione degli stabilimenti, il fatto che i prodotti siano distribuiti attraverso canali differenti non è rilevante. Viceversa se la programmazione riguardasse anche la logistica e le spedizioni, i diversi canali distribuitivi diverrebbero un elemento importante. Lo scopo di un modello decisionale è quello di identificare i fattori rilevanti per la decisione e i nessi causali che vi sono tra essi. Per questo le variabili devono essere classificate alternativamente come decisionali (D), ambientali (A), dette anche esogene, ed endogene (E). Le variabili decisionali sono quelle controllabili dai decisori, sono le leve a disposizione dei manager. Il tipo di promozione da lanciare, nel caso Polonnaruwa Airlines (Caso 8.1), è una decisione nelle mani di A.Y. Le variabili esogene o ambientali sono invece fattori non controllabili dal decisore, ma che influenzano il processo decisionale. Nel caso già citato, la ricettività dei clienti, la congiuntura economica e le possibili azioni dei concorrenti sono tutti esempi di variabili ambientali su cui A.Y. non poteva intervenire e che, tuttavia, influenzavano i risultati della decisione. Infine, le variabili endogene sono i risultati, ovvero gli effetti e le conseguenze, delle decisioni e delle variabili ambientali. Nella costruzione di un modello decisionale gli obiettivi che si vogliono perseguire divengono variabili endogene. Pertanto, la forma canonica di un modello decisionale è la seguente: E = f (D, A)

(1)

8. Il processo decisionale ) 233

nella quale le variabili endogene sono funzione delle decisioni e delle variabili ambientali. Tale formulazione sottintende che spesso alcuni modelli si presentano in forma chiusa e mediante una o più equazioni matematiche. Numerosi modelli applicati nell’ambito dell’ingegneria, della fisica, della finanza e di molte altre discipline possono essere ricondotti a espressioni matematiche che descrivono la relazione tra diverse variabili. Ogni studente di ingegneria è a conoscenza, ad esempio, dell’equazione di stato dei gas perfetti secondo la quale: P·V=n·R·T

Effetti intermedi

Il ruolo del tempo

(2)

dove P è la pressione, V è il volume, n è il numero di moli, R è la costante dei gas, T è la temperatura. L’equazione (2) è un modello, in quanto ci permette di valutare l’effetto (ad esempio sulla pressione del gas) di un’azione sulle altre variabili (ad esempio la temperatura). Nei modelli decisionali complessi la relazione (1) è vettoriale. Gli effetti sono più di uno e dunque E è un vettore e non uno scalare; basti pensare alle già citate situazioni decisionali nelle quali più obiettivi sono in trade-off tra loro (cfr. paragrafo 8.2.1). Anche le leve decisionali in mano ai manager sono spesso più di una, e le alternative, più che decisioni singole, sono combinazioni lineari di queste ultime. Infine, anche le variabili ambientali rilevanti sono spesso più di una. Pertanto anche D e A sono spesso vettori e non scalari. Nei processi reali accade di frequente che le leve decisionali non abbiano effetti diretti e immediati sulle variabili endogene. Piuttosto le decisioni sortiscono effetti intermedi che a loro volta contribuiscono agli effetti finali. Gli effetti intermedi vengono definiti variabili endogene strumentali (E9), proprio perché permettono o sono necessari al conseguimento dell’obiettivo finale. A.Y. aveva l’obiettivo di massimizzare il fatturato e a tale scopo si poneva quello strumentale di aumentare il numero di clienti. Si noti che l’obiettivo finale avrebbe potuto anche essere influenzato in altro modo, ad esempio agendo sui prezzi dei biglietti. In alcuni casi le decisioni manageriali producono anche risultati non voluti. Nel linguaggio dei modelli decisionali si tratta di variabili endogene collaterali, più semplicemente note come effetti collaterali. Ad esempio, la produzione industriale spesso comporta l’emissione di “gas serra”. Chiaramente l’obiettivo delle decisioni aziendali non è quello di inquinare l’atmosfera, ma questo è l’effetto collaterale inevitabile, entro certi limiti prestabiliti (vincoli), se si vuole continuare a produrre e soddisfare la domanda. Un altro aspetto di rilievo nella modellizzazione riguarda il ruolo del tempo. L’argomento è di estremo rilievo e vi dedicheremo appositamente il capitolo 10. Tuttavia sin d’ora è utile sottolineare che in molte decisioni reali le variabili in gioco e la stessa legge f che le lega non sono indipendenti dal tempo. Tenendo conto del ruolo delle variabili strumentali e della dipendenza dal tempo, la forma più generale della (1) diviene dunque la seguente: Et = ft (E 9t , Dt , At)

(3)

234 ) PARTE II – PROCESSI Traguardi

Previsioni

8.2.4

Relazioni di causa-effetto

DECISIONALI

Per quanto riguarda le variabili endogene (E) l’aspetto critico è la definizione degli indicatori, un argomento già discusso nel paragrafo 8.2.1. L’uso di modelli analitici nei processi decisionali implica che sia definito il traguardo (target) per l’indicatore, e il tempo entro il quale si pensa di raggiungere tale traguardo a seguito delle decisioni prese. Ad esempio, un programma di risanamento di un’azienda in crisi potrà avere l’obiettivo del pareggio di bilancio entro due esercizi. L’aspetto critico circa le variabili ambientali riguarda invece la loro stima o la previsione del loro valore futuro. Nel caso Polonnaruwa Airlines (Caso 8.1), per capire l’effetto delle alternative promozionali, A.Y. doveva prevedere l’andamento della congiuntura internazionale e la penetrazione di determinati media. Infine, per le variabili decisionali è importante riconoscere il dominio, ovvero l’ampiezza di manovra concessa ai decisori. Ancora nel Caso 8.1, le decisioni di A.Y. erano limitate dal budget assegnato. Il modello della realtà risente fortemente della prospettiva dell’attore decisionale. Attori diversi, anche se inseriti all’interno dello stesso contesto, potrebbero formulare modelli di supporto alle decisioni anche differenti tra loro. È questa un’altra fonte potenziale di conflitto organizzativo che è parzialmente riconducibile al concetto di differenziazione (si veda il paragrafo 7.3.1). Quello che era un vincolo per A.Y. (il budget promozionale), ad esempio, rappresentava una variabile decisionale per il Presidente della Polonnaruwa Airlines. Costi e tempi richiesti dalla modellizzazione sono un ulteriore aspetto da considerare. È inutile, infatti, investire risorse in modelli eccessivamente complessi se i benefici che ne derivano in termini di supporto alle decisioni non sono altrettanto rilevanti. Torneremo su questo punto illustrando alcune tecniche di supporto alla modellizzazione.

Tecniche di modellizzazione: le mappe causali Come abbiamo anticipato, un modello è una descrizione più o meno dettagliata delle relazioni che intercorrono tra le variabili ambientali e decisionali da un lato e gli effetti (variabili endogene) dall’altro. In molti processi decisionali, però, non è possibile o necessario arrivare a una formulazione analitica completa delle relazioni tra le variabili, esplicitandole secondo le equazioni (1) o (3). Soprattutto, la rappresentazione analitica può essere a volte molto complessa e richiedere molto tempo. Spesso è sufficiente conoscere le relazioni di causalità tra le diverse variabili, rinunciando a cercare una rappresentazione formale di questa relazione. Un esempio di tale approccio è rappresentato dalle mappe causali. Le mappe causali descrivono le relazioni di causa-effetto tra le variabili di un modello in modo semplice e sintetico. Una mappa causale consiste in un grafo i cui nodi sono le variabili rilevanti e gli archi rappresentano i nessi causali. Gli archi sono orientati e contrassegnati alternativamente come positivi o negativi. Gli archi positivi rappre-

8. Il processo decisionale ) 235

Figura 8.1

MAPPA CAUSALE DEL PROCESSO DI DETERMINAZIONE DEL PROFITTO LEGATO ALLE POLITICHE DI MARKETING Domanda del mercato

Sforzo di marketing concorrenti

Quota di mercato + Sforzo di marketing azienda



+

+

Vendite +

+

Ricavi +

– +

+

+

+

Prezzo

Profitto Costi di marketing



+ Costi

Distribuzione Costi + + variabili – Variabile decisionale

Pubblicità e promozione Prodotto

Costi di produzione

+

+

Variabile esogena Variabile endogena

Modelli qualitativi

sentano situazioni in cui al crescere della variabile-causa cresce anche la variabile-effetto e, viceversa, al diminuire della variabile-causa diminuisce la variabile-effetto. Gli archi negativi rappresentano situazioni in cui al crescere della variabile-causa diminuisce la variabile-effetto e, viceversa, al diminuire della variabile-causa cresce la variabileeffetto. Le mappe causali rappresentano in modo qualitativo la legge f delle equazioni (1) e (3), laddove la quantificazione formale della f sia impossibile o troppo onerosa. Un esempio relativo all’analisi delle azioni di marketing sul profitto d’impresa è riportato in Figura 8.1 (si rimanda alla parte terza per gli approfondimenti su questo tema). La mappa causale descritta mette in relazione gli obiettivi (in questo caso l’impatto delle azioni di marketing sui profitti) con le variabili decisionali e ambientali, tramite un intricato insieme di legami. Il profitto è definibile come differenza tra i ricavi e i costi legati a tali iniziative. Il legame con il profitto è “positivo” per quanto riguarda i ricavi, in quanto, a parità di altri fattori, all’aumentare dei ricavi i profitti aumentano; è viceversa negativo per quanto riguarda i costi. In questo caso il legame è anche rappresentabile in forma analitica: Profitto = Ricavi – Costi Concentrandoci sui ricavi, essi dipendono dalle vendite dei prodotti oggetto dell’azione di marketing e dal prezzo che l’impresa decide di adottare, secondo:

236 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Ricavi = Prezzo × Vendite Il prezzo è una variabile decisionale in quanto può essere fissato liberamente dall’impresa; ovviamente tale scelta dipenderà da altre variabili, ma nulla vieta in linea di principio di assegnare un prezzo qualsiasi. Le vendite dipendono poi dalla domanda complessiva del mercato e dalla quota del mercato che l’impresa detiene rispetto ai concorrenti: Vendite = Domanda del mercato × Quota di mercato La quota di mercato dell’impresa dipenderà dallo sforzo di marketing profuso rispetto a quello dei concorrenti. Tale relazione diventa più difficile da rappresentare in forma analitica e, come vedremo nel capitolo 12, è possibile adottare modelli approssimati per rappresentarla. Lo sforzo di marketing dell’impresa è in realtà il risultato di singoli sforzi in quattro aree, rispettivamente: pubblicità e promozioni; miglioramenti al prodotto; azioni sui canali distributivi; manovre sui prezzi (questi legami diventeranno più chiari nel capitolo 13, dove sarà affrontato in dettaglio il modello del marketing mix). Naturalmente queste azioni implicano costi in parte legati direttamente alle attività di marketing (ad esempio il costo di acquisto degli spazi pubblicitari) e in parte legati alla produzione dei beni e dei servizi (ad esempio i costi delle modifiche di prodotto, i costi delle varianti e degli optional ecc.). I costi di marketing dipendono direttamente dallo sforzo di marketing profuso. I costi di produzione dipendono dalla quantità di beni prodotti, dai costi variabili di produzione e dai costi fissi (qui trascurati in quanto assunti non rilevanti rispetto al problema decisionale, non essendo influenzati dalle variabili decisionali considerate). Assumendo che la quantità venduta coincida con la quantità prodotta, i costi di produzione dipendono direttamente dalla quantità di prodotti realizzati e venduti. I costi variabili dipendono anch’essi dalla quantità prodotta a fronte di eventuali economie di scala e dagli investimenti fatti in miglioramenti di prodotto, che possono rendere più costosi i prodotti stessi. In questo modo siamo riusciti a rappresentare il legame che intercorre tra le variabili decisionali (prezzo, promozione e pubblicità, prodotto, distribuzione), le variabili ambientali (lo sforzo di marketing dei concorrenti e la domanda di mercato) e le variabili endogene (il profitto). Come già anticipato, in un modello decisionale è spesso opportuno modellizzare le variabili endogene strumentali (E9), ovvero gli effetti indiretti che determinano i risultati finali. In questa mappa causale, ad esempio, i ricavi, i costi totali, i costi di produzione e quelli di marketing sono tutte variabili endogene strumentali. Le mappe causali sono particolarmente efficaci per illustrare le variabili rilevanti del problema decisionale affrontato e per illustrarne le mutue relazioni. Il grado di dettaglio e la complessità dei legami descritti dipendono ovviamente dal taglio con cui la modellizzazione viene effettuata. Nell’esempio, si potrebbe obiettare che la domanda

8. Il processo decisionale ) 237

I modelli dipendono dagli obiettivi

8.2.5

di mercato dipende anche dallo sforzo di marketing profuso dalle imprese che “catturano” clienti in precedenza non interessati al prodotto. Come tale la domanda aggregata non sarebbe una variabile ambientale, bensì una variabile strumentale. L’aver trascurato tale influenza può essere una svista, oppure una scelta consapevole, se si ritiene che gli sforzi di marketing spostino le quote relative ma non possano aumentare la domanda aggregata. Nel settore dei beni di largo consumo le imprese investono risorse enormi in pubblicità e promozioni con l’idea, verosimile, che la domanda aggregata di lungo termine sia stabile e gli investimenti servano a sottrarre clienti alla concorrenza. Tuttavia, non è sempre così. Quando anni fa diversi produttori di birra si aggregarono e finanziarono una massiccia campagna promozionale sul generico “prodotto birra”, esaltandone le virtù con lo slogan “Birra, ... e sai cosa bevi!”, lo fecero sulla base di assunzioni diverse, ipotizzando appunto che fosse possibile stimolare i consumi aggregati, rinunciando, almeno in quel frangente, a cercare di sottrarsi i clienti l’un l’altro. Il modello decisionale sottostante era dunque certamente diverso da quello proposto in Figura 8.1. Un modello è quindi sempre selettivo e come tale rappresenta in modo parziale la realtà, focalizzandosi sulle variabili ritenute maggiormente rilevanti per il problema affrontato e secondo la percezione e gli obiettivi dei decisori.

Tecniche di previsione Come visto nei paragrafi precedenti, spesso è necessario formulare una previsione delle variabili ambientali di un problema decisionale. Nell’esempio prima illustrato e schematizzato in Figura 8.1, per prendere una decisione soddisfacente l’impresa dovrà formulare una previsione sulla domanda futura di mercato e sui comportamenti che i concorrenti potranno adottare. Esistono numerose tecniche per formulare una previsione; possiamo tuttavia ricondurle a due principali categorie definite in base al tipo di dati utilizzati: tecniche quantitative e tecniche qualitative (Makridakis, Wheelwright e Hyndman, 1998). Le tecniche quantitative richiedono l’utilizzo di dati storici relativamente alla variabile oggetto della previsione o ad altre variabili a questa collegate. Esse sono utilizzabili solo quando:

Serie storiche

• sono a disposizione informazioni sufficienti riguardo all’andamento passato di tali variabili; • tali informazioni sono rappresentabili in formato numerico; • è ragionevole assumere che i fenomeni del passato si mantengano anche nel futuro. All’interno di questa categoria possiamo poi distinguere due ulteriori gruppi di tecniche. Le tecniche esplicative formulano una previsione assumendo che la variabile da prevedere abbia un legame con alcune

238 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

variabili note e più facilmente misurabili. Sono quindi metodi che cercano di rappresentare il legame di causa-effetto, o almeno di correlazione, tra più variabili, anche attraverso la comprensione della realtà in esame. Questi modelli ipotizzano quindi che il valore assunto in un certo periodo della variabile y che si vuole prevedere possa essere valutato mediante una funzione di alcune variabili esplicative xi: yt = f(x1, x2, ..., xn) Ad esempio, per formulare una previsione sul Prodotto Interno Lordo (PIL) di un Paese, si cerca di valutare il legame che intercorre tra esso e le variabili che possono influenzarlo, come, ad esempio, le politiche fiscali, le politiche monetarie, le importazioni, le esportazioni, i consumi ecc. Quindi: PIL = f (politiche fiscali, politiche monetarie, importazioni, esportazioni...) Fattori di regolarità

All’interno di questa categoria troviamo tipicamente tecniche di regressione lineare, non lineare, multipla e dinamica. Vi sono poi le tecniche estrapolative, le quali, a differenza delle precedenti, considerano il sistema di cause che influenzano la variabile da prevedere come una scatola nera, troppo complessa e di difficile, se non impossibile, comprensione. Pertanto, si cercano nella storia passata della variabile fattori di regolarità e, in base a questi, si formula una previsione sull’andamento futuro. Il valore assunto quindi da una variabile y a un certo istante può essere valutato mediante una funzione dei valori assunti da tale variabile in istanti di tempo precedenti: yt = f(yt –1, yt –2, ...) Ad esempio, per formulare una previsione del PIL per l’anno prossimo, questi approcci analizzano i valori passati del PIL al fine di identificarne elementi di regolarità, quali l’esistenza di un trend o di ciclicità. Quindi: PIL = f(PILt –1, PILt –2, ...) Tra questi approcci ricordiamo i seguenti metodi: lo smorzamento esponenziale, le medie mobili e le tecniche ARIMA. Per i dettagli su queste tecniche si rimanda a testi specialistici quali Makridakis, Wheelwright e Hyndman (1998). A differenza delle precedenti, le tecniche qualitative sono invece adottate quando non sono presenti informazioni quantitative in misura sufficiente o si ritiene che lo studio della storia passata non fornisca spunti utili per il futuro. Questi approcci si basano prevalentemente sull’opinione e l’esperienza di persone ritenute competenti o influenti nel valutare o determinare le variabili oggetto di previsione (Armstrong, 2001). Tale categoria può essere poi ulteriormente distinta in due gruppi di tecniche.

8. Il processo decisionale ) 239

Giudizi polarizzati

Le tecniche basate su giudizi individuali prevedono la raccolta sistematica di opinioni e giudizi e la loro aggregazione per formulare una previsione. Le indagini di mercato possono essere annoverate tra queste tecniche: esse, infatti, si basano sulla raccolta di opinioni relativamente alla propensione all’acquisto di un prodotto da parte di potenziali acquirenti. Aggregando e filtrando opportunamente le informazioni può così essere formulata una stima della domanda potenziale. Accanto alle indagini di mercato possiamo citare, in questa categoria, anche i pareri e le opinioni di singoli esperti. Le tecniche basate sulle interazioni, invece, considerano il fatto che la semplice media dei giudizi individuali può portare a valutazioni distorte. Immaginiamo ad esempio di aver chiesto a 100 esperti di formulare una previsione in merito a quando una certa tecnologia si affermerà sul mercato. Se 50 esperti hanno stimato che tale evento si verificherà tra 5 anni e altri 50 esperti hanno stimato tale intervallo in 10 anni, una possibile previsione basata sui giudizi potrebbe essere 7,5 anni, media delle valutazioni del gruppo di esperti utilizzato. Tale stima, però, non è in accordo con nessuno degli esperti e non è assolutamente certo che sia più accurata di quella formulata dai singoli. Le tecniche basate sulle interazioni operano al fine di consentire agli esperti di poter interagire e confrontarsi fra loro in modo da raggiungere un “accordo” sulla previsione. Se l’accordo non si raggiunge si è comunque in grado di comprendere meglio le cause delle differenti previsioni e dunque il fenomeno in sé. Si pensi al caso del riscaldamento globale: tra gli esperti vi è una certa convergenza, sebbene una minoranza anche autorevole non sia convinta che la causa siano le azioni dell’uomo e preveda una dinamica ciclica e reversibile del riscaldamento (e raffreddamento). In ogni caso le divergenze inducono nuove analisi e dunque una più ampia comprensione di un fenomeno molto complesso. Fra le tecniche basate sulle interazioni si possono citare il role playing (nel quale diversi attori sono invitati a simulare ruoli differenti rappresentando interessi e punti di vista particolari), i focus group (nei quali i moderatori, esperti anch’essi del tema, gestiscono domande e risposte in un gruppo target, normalmente di 6-10 individui, per rilevare le tendenze dominanti e le opinioni emergenti) e il Delphi. A titolo esemplificativo, il box seguente illustra in maggiore dettaglio la tecnica del Delphi.

Il metodo Delphi Il Delphi è un metodo sviluppato negli anni Cinquanta dalla Rand Corporation per prevedere la strategia di armamento sovietica. Esso è basato sulla valutazione di un problema da parte di singoli esperti e sulla successiva interazione di gruppo. L’obiettivo è ottenere una previsione del futuro tramite un processo di graduale convergenza. Il metodo consiste nel redigere un questionario volto all’indagine di un particolare problema e di sottoporlo alla compila-

240 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

zione da parte di un gruppo di esperti selezionati in base alle competenze di merito (ad esempio, per la previsione dello sviluppo di una specifica tecnologia potrebbero essere coinvolti imprenditori e manager le cui imprese già utilizzano tale tecnologia, ricercatori universitari, opinion leader ecc.). Una volta raccolti i questionari compilati, un Centro Coordinatore si occupa di aggregare le valutazioni e di fornire agli esperti partecipanti un rapporto sui risultati raccolti, riportando tutte le indicazioni emerse, anche quelle ritenute più anomale. Il feedback è anonimo e l’identità degli esperti rimane nascosta agli esperti stessi, al fine di stimolare la comunicazione anche delle idee ritenute più anticonformiste. Successivamente, è chiesto ai partecipanti di compilare nuovamente il questionario e di fornire opportune giustificazioni se le loro valutazioni sono in contrasto con l’opinione espressa dalla valutazione aggregata. Questo procedimento è iterato fintantoché le valutazioni del gruppo non convergono. La Figura 8.2 sintetizza il processo descritto.

Figura 8.2

IL PROCESSO DEL METODO DELPHI Questionario di esplorazione delle possibilità

Raccolta, analisi e definizione delle possibili alternative

Questionario strutturato di richiesta previsioni Richiesta motivazioni di opinioni “anomale” Raccolta, analisi e feedback dei risultati

Sintesi finale dei risultati

Grazie a questo procedimento iterativo e anonimo è possibile garantire un’interazione tra gli esperti senza creare influenze psicologiche tra i partecipanti (ad esempio, alcuni partecipanti potrebbero concordare con l’opinione di un esperto solo perché ritenuto più competente, carismatico o potente) e permettendo di tenere in considerazione anche le idee proposte dalle minoranze.

8.3

Il problem solving Una volta analizzato e impostato il problema decisionale in termini di obiettivi e vincoli, dopo aver modellizzato tutte le variabili rilevanti (problem setting), il decisore è in grado di formulare la propria decisione. Questo significa generare alcune alternative perseguibili, valu-

8. Il processo decisionale ) 241

tarle e selezionare la migliore, ovvero, in base alla razionalità limitata, la più soddisfacente. Si passerà poi all’implementazione della decisione e al controllo dei risultati. Nei due paragrafi seguenti sono descritte alcune tecniche di generazione delle alternative e di valutazione e scelta.

8.3.1

Creatività e pensiero laterale

Associazioni casuali di idee

Tecniche di generazione delle alternative Le tecniche per la generazione delle alternative hanno l’obiettivo di aiutare i decisori a identificare il numero più ampio possibile di alternative. Le alternative sono una combinazione coerente di variabili decisionali per il raggiungimento degli obiettivi, tenendo conto dei vincoli. Ad A.Y. (Caso 8.1) si presentavano tre alternative: una campagna pubblicitaria effettuata sulle principali testate di turismo, la realizzazione di servizi specifici sul proprio sito Internet e infine fiere specializzate, testate specialistiche di settore e convention dei principali operatori. Gli effetti di ogni alternativa vengono poi valutati e misurati in funzione degli obiettivi e dei vincoli che ci si pone, nel caso di A.Y. la massimizzazione del fatturato con un budget di spesa di 1 milione di dollari. Gli effetti (variabili endogene, strumentali e collaterali) associati a ogni alternativa (variabile decisionale) dipendono dal modello della realtà sviluppato e dalla previsione sull’evoluzione del contesto (variabili ambientali). A causa della razionalità limitata spesso le alternative di un problema decisionale non sono completamente conosciute, soprattutto quando un decisore affronta un problema nuovo. Questi strumenti sono quindi volti a stimolare la creatività, o, come spesso è chiamato, il lateral thinking. Tale termine distingue tra il pensiero verticale, tipico dei processi logici e strutturati, e il pensiero “laterale”, tipico dei processi creativi. Le tecniche creative hanno l’obiettivo di abbandonare soluzioni tradizionali e di identificarne nuove, cercando di limitare l’impatto degli schemi mentali dei decisori. Il pioniere in questo campo, Edward De Bono, ha proposto diversi metodi. La logica di tutti questi approcci è che se si affronta un problema in modo razionale si ottengono risultati logicamente corretti ma che, proprio per questo, sono già implicitamente compresi nella formulazione del problema stesso. Quando si richiede invece una soluzione veramente diversa e innovativa il problema deve essere stravolto, devono essere negate le sicurezze e i dati acquisiti e, addirittura, occorre affidarsi ad associazioni di idee del tutto casuali. Uno degli approcci più noti è quello del brainstorming, termine che ha incontrato una certa fortuna ed è ormai entrato nel linguaggio comune. Il brainstorming (letteralmente “tempesta cerebrale”) è una tecnica di creatività di gruppo che mira a far emergere soluzioni innovative di un problema. Consiste nel descrivere dettagliatamente un dato un problema a un gruppo di persone e nel chiedere a ciascuno di proporre liberamente soluzioni di ogni tipo, anche del tutto inedite, anticonvenzionali o apparente-

242 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

mente strampalate o impraticabili. È essenziale che venga garantita e anzi incoraggiata la massima libertà di espressione e che nessuna proposta venga censurata e anzitempo scartata. La revisione critica e la selezione delle proposte interverranno solo in un secondo tempo, terminata la seduta di brainstorming. Un altro approccio, più strutturato, è quello dell’analisi morfologica. Questa tecnica, ideata dall’astrofisico Fritz Zwicky per la ricerca di nuovi mezzi di propulsione a reazione, è molto utile anche in campo manageriale. Essa si basa sullo svolgimento di cinque passi fondamentali: 1. definizione del problema: innanzitutto occorre definire l’oggetto dell’analisi. Ad esempio, ipotizziamo di voler lanciare sul mercato un nuovo modello di orologio; 2. definizione dei parametri: occorre identificare le componenti elementari del problema che ne costituiscono la soluzione. Ad esempio, nel caso dell’orologio tali parametri saranno le parti costituenti l’orologio e necessarie per il suo funzionamento, quindi il sistema di carica, il sistema di immagazzinamento dell’energia, il sistema di movimento, il display ecc.; 3. lista delle variazioni: per ciascuno dei parametri occorre quindi identificare quali sono le diverse risposte al problema dato a partire da soluzioni già esistenti e mappare tali variazioni su una matrice. Ad esempio, nel caso dell’orologio potremmo considerare i modelli tradizionali analogici, i modelli digitali “alla giapponese”, gli orologi solari ecc.; potremmo così costruire una matrice come quella illustrata in Tabella 8.1; 4. realizzazione di differenti combinazioni: sono enumerate tutte le possibili combinazioni dei diversi valori che possono assumere i vari parametri. Nel nostro caso, ad esempio, avremmo combinazioni date da tutte le possibili permutazioni di elementi. Molte di queste risulteranno non logiche o irrealizzabili; 5. valutazione e miglioramento delle alternative: tra tutte le combinazioni precedenti occorre valutare quelle fattibili e identificare possibili miglioramenti a soluzioni non complete. Ad esempio, combinando un sistema di carica a movimento con un sistema di immagazzinamento a batteria, un sistema di movimento al quarzo e un display analogico troviamo un possibile nuovo prodotto. Tabella 8.1

LA MATRICE DELLA LISTA DELLE VARIAZIONI DEI PARAMETRI

Parametri Alternative Sistema di carica Sistema di immagazzinamento dell’energia Sistema di movimento Display ….

Modello analogico

Modello digitale

Orologio solare

Movimento Molla Meccanico Analogico

Elettrico Batteria Quarzo Digitale

Luce Nessuno Quarzo Digitale

...

8. Il processo decisionale ) 243

È stato provato che applicando l’analisi morfologica alle informazioni in loro possesso gli inglesi avrebbero potuto prevedere con largo anticipo lo sviluppo delle terribili V1 e V2 con le quali i tedeschi devastarono Londra e altre città dell’Inghilterra meridionale durante la Seconda guerra mondiale. Si trattava di analizzare le liste di variazioni delle principali componenti: sistema di propulsione, tipo di carburante, sistema di guida, sistema di volo, tipo di esplosivo, tipo di innesco ecc. Nel 1940 tutti gli elementi costitutivi erano già sviluppati anche se separatamente e per scopi diversi. La loro combinazione produsse effetti micidiali.

8.3.2 Trasformare obiettivi in vincoli

Tecniche di valutazione e scelta La fase di valutazione è spesso complessa a causa delle difficoltà nel definire gli impatti delle possibili scelte. Spesso, infatti, siamo di fronte a problemi multi-obiettivo, in cui vi sono trade-off tra obiettivi antitetici. Normalmente si cerca di semplificare il problema riconducendolo a una situazione mono-obiettivo. Ciò può essere fatto in due modi: vincolando gli obiettivi oppure utilizzando metodi a punteggio. Nel primo caso, si definiscono i “livelli soddisfacenti” di alcune delle prestazioni in esame, di fatto trasformando tutti gli obiettivi eccetto uno in vincoli, garantendo almeno il raggiungimento di una soglia soddisfacente e cercando di ottimizzare l’obiettivo residuo. Questo approccio è tipico delle tecniche di programmazione matematica. Questi metodi prevedono di affrontare problemi decisionali espressi secondo la formulazione seguente: maxf(x) g i(x) < 0, i = 1, 2, ... n Il problema è quindi enunciato mediante la massimizzazione di una funzione analitica (la funzione obiettivo f(x)) e garantendo il rispetto di alcuni vincoli (gi(x)). Esistono varie tecniche per risolvere questo problema in base alle caratteristiche dei vincoli e delle funzioni obiettivo. Ad esempio, se obiettivi e vincoli sono funzioni lineari (problema di programmazione lineare), può essere utilizzato l’algoritmo del simplesso: una procedura iterativa che consente di identificare la soluzione ottimale di un problema in un numero finito di iterazioni (si veda in proposito Vercellis, 1997). Frequentemente, però, risulta difficile dare una forma analitica e lineare al modello e riuscire a legare in modo strutturato le variabili decisionali del problema agli effetti delle alternative. In alcuni casi è preferibile affrontare problemi multi-obiettivo mediante l’utilizzo di sistemi a punteggio. Tali sistemi prevedono che i decisori definiscano: • i criteri di valutazione in base ai quali le alternative devono essere valutate;

244 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

• il peso relativo di ogni criterio, per considerare la differente importanza degli obiettivi che si vogliono raggiungere; • e, da ultimi, i punteggi che ogni alternativa riceve sulla base di scale predefinite. Si calcola infine un punteggio pesato che tiene conto della diversa importanza attribuita a ciascun criterio e della valutazione della specifica alternativa. Il punteggio pesato dell’alternativa a è quindi calcolato come: Punteggio pesato a = o Peso i ? Valutazione ai i

dove Pesoi è il peso attribuito al criterio i e Valutazione ai è il punteggio attribuito all’alternativa a per il criterio i. La selezione della casa editrice con cui è stato pubblicato questo libro è un esempio di questo tipo di approccio. All’inizio del 2005, assieme ai colleghi che hanno collaborato alla prima edizione di quest’opera, mi sono trovato di fronte al problema di scegliere la casa editrice. Sulla base di valutazioni preliminari avevamo ristretto la scelta a due alternative: Etas e Ignota, nome di fantasia per ovvie ragioni di riservatezza. Per alcuni versi Etas appariva nettamente superiore a Ignota, per altri inferiore, e per altri ancora non vi era unanimità di giudizio o le due alternative sembravano equivalenti. Adottammo dunque un metodo a punteggio. Non senza un certo dibattito, mettemmo a punti i criteri di valutazione. Risultarono rilevanti i seguenti sette criteri: • il prezzo di copertina al quale le due case avevano stimato di poter vendere la pubblicazione ricavandone un margine adeguato; volevamo infatti un prezzo il più contenuto possibile per favorire l’acquisto rendendo il volume più accessibile agli studenti; • il numero massimo di pagine concesso dall’editore, poiché volevamo avere uno spazio adeguato a trattare tutti gli argomenti che abbiamo poi sviluppato; • il prestigio del marchio della casa editrice (brand), consci del fatto che nella diffusione e nell’apprezzamento di un’opera la casa editrice ha un peso determinante; • la qualità della grafica e del layout, poiché volevamo un testo attraente e un po’ mosso che avesse più l’aspetto dei textbook tipici delle business school anglosassoni che non la veste paludata e indigesta tipica dei testi di giurisprudenza; • la qualità della copertina e della rilegatura che, al pari della grafica e del marchio dell’editore, contribuisce all’immagine complessiva dell’opera; • una possibile continuità con un altro libro (Azzone e Bertelè, 2011), il testo del corso di Economia e organizzazione aziendale del corso di Laurea di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano; • infine, pur nella perfetta consapevolezza che scrivere un libro di testo per studenti non è il modo più rapido per arricchirsi, l’entità dei diritti riconosciuti agli autori dall’editore.

8. Il processo decisionale ) 245

Questi sette criteri non erano considerati equamente importanti. Dovemmo perciò attribuire un peso a ciascun criterio che tenesse conto delle nostre preferenze. Naturalmente non avevamo esattamente le stesse idee. Per alcuni di noi era più importante la qualità della grafica, per altri quella della copertina. Alcuni privilegiavano il prezzo basso mentre altri volevano più spazio per trattare a fondo tutti gli argomenti. Decidemmo perciò di esprimere ciascuno una propria struttura di preferenze attraverso l’attribuzione di pesi percentuali ai sette criteri. La Tabella 8.2 illustra queste preferenze. Ogni cella riporta il peso attribuito ai diversi criteri da ogni decisore. Ciascuno di noi formulò poi una valutazione mediante un punteggio (qui espresso con un valore numerico da 1 a 5, dove 1 indica una valutazione scarsa e 5 una valutazione ottima), come illustrato nella Tabella 8.3. A questo punto fu possibile definire per ogni autore un punTabella 8.2

PESI ATTRIBUITI DAI DECISORI AI CRITERI DI VALUTAZIONE

Prezzo di vendita N. di pagine Brand Layout e grafica Copertina Continuità Diritti Totale

Tabella 8.3

Dec_1

Dec_2

17% 12,5% 12,5% 21% 21% 8% 8% 100%

20,5% 13% 8% 20,5% 17% 17% 4% 100%

Dec_3 29% 12% 12% 24% 5,5% 12% 5,5% 100%

Dec_4

Dec_5

Dec_6

18% 5% 18% 23% 18% 9% 9% 100%

15% 15% 15% 12% 15% 20% 8% 100%

21% 12% 17% 17% 12% 4% 17% 100%

LA VALUTAZIONE DELLE CASE EDITRICI ALTERNATIVE

Etas Prezzo di vendita N. di pagine Brand Layout e grafica Copertina Continuità Diritti Punteggio pesato Ignota Prezzo di vendita N. di pagine Brand Layout e grafica Copertina Continuità Diritti Punteggio pesato

Dec_1

Dec_2

Dec_3

Dec_4

Dec_5

Dec_6

5 4 4 2 5 5 3 3,96

5 5 4 2 3 5 3 3,88

5 5 3 2 4 5 3 3,88

4 4 3 2 4 5 4 3,45

5 5 3 2 4 5 2 3,96

5 4 4 3 5 5 2 3,88

Dec_1

Dec_2

Dec_3

Dec_4

Dec_5

Dec_6

2 2 5 5 4 2 4 3,58

2 4 5 5 3 3 4 3,54

1 4 5 5 3 3 4 3,29

2 2 5 5 5 4 5 4,23

3 3 5 5 4 2 5 3,65

1 3 3 5 4 2 4 3,17

246 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

teggio pesato che tenesse conto delle preferenze individuali e del peso relativo che ciascuno di noi attribuiva a ogni criterio. Si può osservare che solo un decisore (il numero 4) preferì Ignota, a causa principalmente dell’alto peso attribuito ai fattori “layout” e “brand” e alle valutazioni differenziali attribuite alle due alternative su questi stessi fattori. Gli altri decisori avevano una sostanziale preferenza per Etas, che risultò l’editore selezionato.

8.4

Tre approcci alle decisioni: thinking first, doing first e seeing first Nella prospettiva della razionalità limitata la decisione manageriale è un processo organizzativo, ovvero una sequenza di analisi, interpretazioni, valutazioni, intuizioni e azioni che portano i manager a selezionare un’alternativa in modo più o meno strutturato e consapevole e a realizzarla. È in quest’ottica che abbiamo analizzato le fasi tipiche di problem setting e problem solving. In questo quadro si riscontra una grande varietà di situazioni decisionali nelle organizzazioni. Con qualche semplificazione è possibile ricondurre tale varietà a tre approcci (Mintzberg, 1990):

Pensare prima di agire

Andare per tentativi

Avere la “visione”

• un primo approccio, analitico e modellistico, secondo il quale i decisori dedicano tempo ed energie al problem setting non meno che al problem solving; il problema viene analizzato, si cerca di rappresentarlo in termini di cause ed effetti o conseguenze, si studiano le possibili alternative e, pur in condizioni di razionalità limitata, si seleziona la migliore alternativa tra quelle prese in considerazione; proprio richiamando questo processo mentale e analitico che precede l’azione, tale approccio viene definito thinking first, pensare prima di agire; • un secondo approccio rappresenta quelle situazioni nelle quali si passa subito all’azione, si sperimenta una soluzione, ed eventualmente si riprova con altre alternative; è l’approccio doing first, nel quale tutta l’enfasi è posta sul problem solving, ricercando per tentativi la soluzione che all’atto pratico funziona; • infine, vi è un approccio secondo il quale il decisore vede fin dall’inizio “la soluzione” (e non una generica soluzione) e la persegue con tenacia; anche qui l’enfasi è principalmente sul problem solving, ma, in effetti, più che di un processo decisionale si tratta di rendere possibile e realizzare l’unica soluzione identificata a priori; in questi casi si ha a che fare con l’approccio seeing first. Nei prossimi paragrafi analizziamo in dettaglio questi tre approcci.

8. Il processo decisionale ) 247

8.4.1 Le fasi del processo

L’approccio thinking first Thinking first è il modo tradizionale in cui viene concepito un processo decisionale. Come ci suggerisce il termine, questo approccio implica un’analisi approfondita del problema, già definita problem setting, alla quale segue il problem solving. Quando i decisori seguono questo approccio è possibile poi riconoscere in modo più dettagliato le fasi del processo. In particolare, il problem setting si articola nelle fasi di intelligence e design, e il problem solving si articola a sua volta nelle fasi di choice, implementation e review (Figura 8.3). Intelligence Nella fase di intelligence viene inizialmente percepito il problema, la possibile minaccia o l’emergere di una nuova opportunità. Questo, di fatto, innesca il processo decisionale. Abbiamo già discusso nel capitolo precedente come persone diverse o unità organizzative differenti possano percepire lo stesso fenomeno in modo anche opposto (si veda ad esempio il caso della campagna presidenziale di Theodore Roosevelt, Caso 7.4, p. 213). L’innesco presuppone la definizione degli obiettivi da parte dell’attore decisionale e l’identificazione dei possibili vincoli. Ad esempio, nel caso Polonnaruwa Airlines (Caso 8.1), il Direttore marketing A.Y. identificava il proprio obiettivo nella massimizzazione del fatturato e aveva un vincolo nel budget di spesa promozionale. Come per la percezione, anche i temi della definizione degli obiettivi e dei vincoli sono già stati illustrati ampiamente; tuttavia è utile qui ricordare che spesso sono proprio obiettivi e vincoli differenti a generare conflitti tra gli attori all’interno dell’organizzazione.

Solo alcune alternative

Design Una volta chiariti obiettivi e vincoli, si procede con la fase centrale del modello thinking first, ovvero quella di design, e in particolare con l’identificazione del sistema. Identificare il sistema di riferimento significa costruire un modello della realtà sulla base del quale verranno prese le decisioni (cfr. paragrafo 8.2.3). L’identificazione del sistema di riferimento è propedeutica alla generazione delle alternative e alla loro valutazione. Come già osservato precedentemente, il paradigma della razionalità limitata e i successivi sviluppi ci insegnano che molti fattori limitano una generazione dettagliata ed esaustiva di tutte le alternative possibili, come sarebbe invece proprio di un contesto di razionalità perfetta: dalla diversa percezione degli attori, o semplicemente dai mutati stati d’animo di un attore in momenti differenti, alle diverse competenze messe in gioco; dall’impossibilità di reperire informazioni complete alla sovrabbondanza delle stesse, che limita la capacità di analisi. Per tutti questi motivi si procede solitamente a una generazione sequenziale di alternative, fino a quando non vengono individuate quelle che soddisfano gli obiettivi preposti; è così che si perseguono criteri di soddisfacimento piuttosto che di ottimalità (cfr. paragrafo 7.3). La generazione e la valutazione delle alternative possono innescare dei ri-

248 ) PARTE II – PROCESSI

Figura 8.3

DECISIONALI

IL PROCESSO DECISIONALE THINKING FIRST

Problem setting (consapevole)

Intelligence • Percezione • Obiettivi/Vincoli

Design • Identificazione • Generazione • Valutazione

Review • Misura • Confronto

Choice

Implementatio • Programmazione • Realizzazione Problem Solving

cicli, a causa ad esempio dell’impossibilità di individuare alternative che soddisfino gli obiettivi o i vincoli, o dell’individuazione di eventuali errori nel modello. Sarà allora necessario ridefinire obiettivi e vincoli, oppure correggere il modello.

Mancanza di alternative dominanti Stati d’animo

Choice Una volta terminata la fase di design con la valutazione delle alternative, si procede con la scelta vera e propria (choice). La decisione, come già evidenziato nel capitolo precedente, è frutto di una serie di fattori che interagiscono tra loro. Essa può avvenire in modo lineare e razionale, seguendo con coerenza il processo descritto: viene selezionata l’alternativa i cui effetti soddisfano, meglio di altre, obiettivi e vincoli del processo decisionale. Tuttavia, è difficile selezionare in modo oggettivo la soluzione migliore. Quando vi sono più obiettivi (in trade-off tra loro) accade spesso che non vi sia un’alternativa nettamente dominante. La decisione sarà allora influenzata dalla struttura delle preferenze del decisore, ma, talvolta, anche dal suo stato d’animo. In uno stato ottimistico o addirittura euforico, ad esempio, si sottovalutano i rischi e non si attribuisce peso adeguato ai criteri di valutazione oggettivi. Al contrario, in uno stato pessimistico o addirittura depresso, si cade frequentemente in una situazione di stallo e di indecisione e tutte le alternative appaiono indifferenti. Ancora più spesso, come abbiamo potuto vedere

8. Il processo decisionale ) 249

nel capitolo 7, la decisione è l’esito di dinamiche organizzative assai complesse. Si fa riferimento alla gestione dei conflitti organizzativi, al potere, alla politica e alla leadership o, ancora, all’irrazionalità sistemica e al sensemaking.

Decisori ed esecutori

Implementation Definite le decisioni si passa poi alla fase realizzativa (implementation). Questo significa innanzitutto programmazione delle azioni, ovvero definizione delle attività, dei tempi, dei modi, dei ruoli e delle responsabilità delle persone coinvolte. Successivamente si procede con la realizzazione delle azioni secondo il programma stabilito. Laddove, come spesso accade, esistano più persone coinvolte nell’esecuzione e l’esecutore o gli esecutori siano diversi dai decisori, è necessario un coordinamento su due livelli. Da un lato occorre integrare la fase di decisione con quella di esecuzione affinché la realizzazione sia in linea con quanto deciso; dall’altro occorre coordinare i diversi esecutori tra loro affinché portino a termine l’attività in modo efficiente ed efficace. Si rimanda a questo proposito all’ampia tematica del coordinamento già trattata nei capitoli 2 e 4. Review Infine, in seguito all’implementazione, il processo decisionale thinking first si conclude con la fase di review, ovvero controllo dei risultati. Questo implica innanzitutto la misura degli effetti ottenuti tramite gli indicatori già definiti nella fase di intelligence. Tali effetti sono poi confrontati con gli obiettivi e i vincoli preposti tramite l’analisi degli scostamenti. Alla radice degli scostamenti possono esservi cause svariate:

Cause degli scostamenti

• anzitutto, ripercorrendo a ritroso le fasi della decisione, potrebbero verificarsi errori di misura; • in secondo luogo, l’implementazione potrebbe non essere stata coerente con quanto deciso, tanto nella programmazione quanto nella realizzazione, a seguito ad esempio di errori di coordinamento; la previsione dell’evoluzione delle variabili esogene potrebbe essere sbagliata: consideriamo ad esempio un’azienda alimentare che decide di produrre un determinato quantitativo di prodotti sulla base della previsione della domanda (variabile esogena) col fine di massimizzare il livello di servizio. Se la domanda di mercato eccede la previsione, i volumi prodotti non sono sufficienti a garantire il livello di servizio desiderato e si verificano delle mancate vendite; • il modello della realtà potrebbe essere incompleto o addirittura sbagliato; è evidente che una decisione basata su una modellizzazione non corretta molto probabilmente non porta ai risultati desiderati; • infine, la definizione di obiettivi e vincoli potrebbe essere inadeguata; se ci poniamo obiettivi irraggiungibili, per quanto valide siano le nostre decisioni, non sarà possibile ottenere i risultati desiderati.

250 ) PARTE II – PROCESSI Ricicli

CASO

DECISIONALI

Dall’analisi degli scostamenti possono emergere quindi eventuali azioni correttive, nuovi problemi od opportunità che innescano nuovamente il processo decisionale (cfr. Figura 8.3). Ciò può significare ad esempio la modifica di alcune decisioni o la ridefinizione di obiettivi, vincoli e confini del problema. In questi termini, il processo decisionale è visto come un sistema di controllo in cui le decisioni prese vengono implementate e, dall’analisi di eventuali scostamenti, si procede con ulteriori decisioni al fine di correggere possibili errori e raggiungere così gli obiettivi desiderati. L’esempio di Gillette (Caso 8.2) presenta un caso di processo decisionale di tipo thinking first nel quale sono state valutate accuratamente diverse alternative con diversi ricicli, prima di lanciare un nuovo prodotto sul mercato.

8.2

Gillette: i ricicli di un processo decisionale Nel 1988 Gillette si pose l’obiettivo di sviluppare un nuovo prodotto per aumentare le vendite e la quota nel mercato maturo della rasatura. Fu subito chiaro che l’obiettivo sarebbe stato raggiungibile solo attraverso un prodotto realmente innovativo. Pertanto la progettazione si orientò verso la ricerca di un rasoio completamente nuovo, in particolare sulla forma e sul numero delle lame tali da consentire un taglio più preciso e confortevole. Emersero così diverse alternative progettuali. Inizialmente furono studiate variazioni di soluzioni già esistenti. I risultati e le valutazioni preliminari non furono in linea con le attese. Si passò allora al cambiamento radicale del profilo e dello spessore della lama. A causa di ciò fu necessario utilizzare materiali più resistenti, inizialmente non previsti. I test di prova del prodotto così realizzato mostrarono però che le lame prodotte con i nuovi materiali sarebbero durate molto più a lungo di quelle precedenti. Ciò avrebbe causato una diminuzione delle vendite di ricambi, anziché un aumento come auspicato. Questo nuovo problema, del tutto inatteso, fu analizzato (e modellizzato) in una nuova prospettiva: non più semplicemente una lama (troppo) resistente, ma una lama resistente che il cliente avrebbe dovuto cambiare con una certa frequenza. La soluzione fornita dai progettisti fu quella di inserire una banda colorata che, sbiadendo nel tempo, avrebbe indicato all’utilizzatore la necessità di cambiare lama. Dopo ben dieci anni, nel 1998, Gillette ha lanciato con grande successo sul mercato il nuovo rasoio, con il nome di Mach3. Fonte: adattato da Daft (2001).

8.4.2

L’approccio doing first Molte decisioni e azioni manageriali si discostano parecchio dall’approccio thinking first. Si ispirano piuttosto a un approccio incrementale e per tentativi, denominato doing first, nel quale gli attori decisionali non possono o non vogliono analizzare il problema in modo dettagliato e passano di fatto all’implementazione di un’alternativa senza averla prima confrontata con altre opzioni. I fondamenti teorici di questo ti-

8. Il processo decisionale ) 251

Passare subito all’azione

Reversibilità

Tentativi ed errori

Esperienza cumulata

po di decisioni risalgono al pensiero di Mintzberg prima e di Weick poi (Mintzberg, 1990; Weick, 1995) i cui tratti salienti sono già stati esposti nel capitolo 7. I fattori che spingono verso un approccio doing first sono svariati: dalla mancanza di tempo, che induce i decisori a passare subito all’azione, alla difficoltà di modellizzare realtà troppo complesse. Talvolta i decisori non hanno sufficienti attitudini e capacità modellistiche, altre volte sono animati da un sano spirito empirico che li spinge a sperimentare prima in concreto le soluzioni ai problemi. Il requisito fondamentale per l’applicabilità e il successo dell’approccio doing first è una certa reversibilità delle decisioni. Occorre infatti che le conseguenze di una decisione errata siano correggibili o che l’eventuale impatto negativo sia circoscritto e che si ripresentino altre circostanze simili nelle quali mettere a frutto l’esperienza. L’approccio doing first si articola in tre fasi principali: azione, selezione e memoria (Figura 8.4). Il processo nasce dall’azione, in chiave di sperimentazione. L’attore o gli attori decisionali agiscono seguendo un’alternativa, senza investire tempo e risorse in analisi e valutazioni che rischiano di allungare eccessivamente il processo complessivo. Abbiamo già illustrato come in ambienti turbolenti saper prendere decisioni velocemente sia più importante del saper selezionare la decisione ottimale. Successivamente vengono valutati i risultati dell’azione per effettuare una selezione, ovvero per confermare o meno l’alternativa perseguita. Il criterio è quello del trial and error (tentativi e errori), secondo il quale il decisore prova ad attuare una serie di opzioni fino a quando non scopre qual è la migliore o, perlomeno, quella soddisfacente. Talvolta non è facile capire quale sia la decisione ottimale fino a quando non la si applica e non se ne misurano i risultati. Infine, la memoria individuale e organizzativa viene accresciuta dall’esperienza accumulata. È in questa fase che avviene l’apprendimento dai tentativi effettuati e dagli errori commessi. Il decisore ripercor-

Figura 8.4

IL PROCESSO DECISIONALE DOING FIRST

Azione

Problem solving

Selezione Memoria

252 ) PARTE II – PROCESSI

Conoscenze tacite

CASO

DECISIONALI

re i problemi affrontati, le sperimentazioni e i risultati ottenuti al fine di apprendere e consolidare la conoscenza che risulterà utile e sarà ulteriormente sviluppata nelle decisioni future. Le conoscenze sviluppate nei processi doing first hanno spesso carattere tacito (si vedano i paragrafi 3.2 e 3.3) e vengono accumulate attraverso meccanismi di learning by doing, ovvero di apprendimento diretto sul campo. Questo approccio alle decisioni si ritrova nei contesti più vari. Esso è, ad esempio, tipico delle realtà artigianali e delle micro-imprese, dove viceversa sono assenti o marginali i processi strutturati di tipo thinking first. Tuttavia, anche organizzazioni più complesse e di maggiori dimensioni ricorrono spesso ad approcci doing first, come mostra il caso Circuit City e CarMax (Caso 8.3).

8.3

Circuit City e CarMax: decisioni e apprendimento in un nuovo settore Fondata nel 1949 con il nome di Wards Company, Circuit City (CC) è stato uno dei maggiori distributori di elettronica di consumo degli Stati Uniti. A partire dagli anni Settanta iniziò un’espansione su tutto il territorio nazionale che portò CC ad avere quasi 600 punti vendita. Verso la metà degli anni Ottanta CC realizzò i primi superstore di elettronica. Questi spazi distributivi di grandi dimensioni incontrarono subito il favore dei consumatori, i quali potevano trovare una gamma amplissima di prodotti referenziati, prezzi contenuti grazie alle economie di scala e un personale altamente qualificato in grado di supportare i clienti durante l’intero processo di vendita e post-vendita. L’azienda proseguì la sua espansione per tutti gli anni Novanta, ma all’inizio del nuovo millennio nuovi e agguerriti distributori, primo fra tutti Best Buy, causarono seri problemi. CC fece alcune scelte strategiche errate, tra cui la decisione di dismettere la distribuzione di elettrodomestici e concentrarsi solo sull’elettronica. Perse così l’opportunità di cavalcare il boom edilizio della metà degli anni Duemila che generò un’enorme domanda di elettrodomestici. Quando esplose la grande crisi del 20082009 era già in difficoltà e ne fu rapidamente travolta. Oppressa dai debiti e senza trovare un compratore Circuit City dichiarò fallimento il 16 gennaio 2009. Il suo marchio è stato rilevato da un distributore online. Tuttavia, molti anni prima, quando era ancora in ottima salute e in piena espansione, CC cominciò a esplorare alcune possibilità di diversificazione. Nel 1993 annunciò l’apertura di una catena di punti vendita di auto usate che battezzò CarMax. Il management era convinto che all’epoca il settore delle auto usate non rispondesse alle reali esigenze dei consumatori. Il mercato era in mano a una miriade di piccoli venditori dall’offerta limitata e dalla professionalità discutibile. Inoltre, la frammentazione dell’offerta e le ridotte dimensioni dei rivenditori non permettevano ai clienti un’ampia gamma di opportunità. CC pensò di “trapiantare” il suo modello organizzativo e di business nel settore delle auto usate, facendo valere l’esperienza consolidata nel settore dell’elettronica di consumo. Immaginò una grande catena di auto usate diffusa su tutto il territorio nazionale, con una vasta scelta di autoveicoli, prezzi competitivi e una forza vendita qualificata. L’applicazione del modello di CC al settore delle auto usate richiese inevitabilmente diversi aggiustamenti, man mano che CarMax accumulava esperienza. Un primo aspetto riguardò gli approvvigionamenti. CarMax si poneva di fatto come intermediario: acquistava auto usate dai singoli consumatori per poi rivenderle. In breve tempo, il

8. Il processo decisionale ) 253 management si rese conto di non poter offrire la gamma desiderata di prodotti senza incrementare notevolmente la capacità di acquisto di auto usate. Fu così che venne presa la decisione di vendere anche auto nuove con forti incentivi alla permuta dell’usato, col fine ultimo di aumentare la gamma di prodotti attraendo consumatori che volevano cambiare auto. Il core business rimase in ogni caso la vendita di auto usate. Un errore iniziale fu la scelta degli spazi. L’idea, mutuata da CC, di offrire una gamma molto ampia, portò CarMax a sviluppare punti vendita con superfici enormi, capaci di contenere oltre 500 veicoli, molto più vasti dei già grandi superstore di CC, proprio perché gli ingombri delle auto sono ben maggiori di quelli dei prodotti di elettronica. I costi di questa soluzione erano insostenibili e ci si rese conto che occorreva adattare il modello. Fu sviluppato un sistema informativo contenente i dati di tutte le auto disponibili in tutti i punti vendita del Paese, ben prima che Internet rendesse ovvia una soluzione di questo tipo. In questo modo i clienti potevano recarsi in qualunque punto vendita CarMax, anche di piccole dimensioni, e scegliere la propria auto tra migliaia e passarla poi a ritirare dopo qualche giorno. Il modello di successo di Circuit City, le successive sperimentazioni e i continui adattamenti permisero a CarMax di affermarsi tra i leader nel settore delle auto usate. Nonostante CarMax fosse nata “per analogia” da Circuit City, tra le due aziende non vi erano grandi sinergie di business. Pertanto, nel 2002 fu deciso di separarle, per consentire loro di svilupparsi in autonomia. Oggi CarMax è un gigante. Attarverso la sua rete di 110 superstore nel 2011 ha venduto 408.000 auto usate alla clientela privata e altre 316.000 auto nelle aste all’ingrosso, realizzando un fatturato complessivo di oltre 10 mld di dollari. CarMax è nella classifica di Fortune delle 500 maggiori aziende americane, mentre Circuit City non esiste più. La sua idea di business, però, è viva e vegeta.

8.4.3 Realizzare una “vision”

L’approccio seeing first Vi è un’ultima tipologia di processi decisionali. A un esame anche sommario essi appaiono ispirati da un’idea, da un’illuminazione o meglio ancora da una visione. Si tratta di decisioni riconducibili all’approccio seeing first. Quando Alexander Fleming vide la muffa uccidere i batteri in alcuni dei suoi esperimenti, intuì che il suo gruppo di ricerca avrebbe potuto trasformare quella osservazione fortuita nella scoperta del secolo: la penicillina. Tutte le sue azioni successive e i suoi esperimenti furono guidati da quella intuizione. Imprenditori e manager si ritrovano talvolta in situazioni decisionali simili: hanno un’idea o un’illuminazione che, se realizzata, permetterebbe di risolvere un problema, di affrontare una minaccia o di sfruttare un’opportunità. I processi di tipo seeing first sono assolutamente tipici dello stato nascente dell’impresa e sono dunque connaturati al ruolo imprenditoriale. Tuttavia, si ritrovano anche in organizzazioni mature, quando appunto emergono minacce od opportunità nuove. La caratteristica fondamentale dell’approccio seeing first è che viene presa in considerazione una sola alternativa e tutto l’impegno del decisore è posto sull’implementazione, ivi inclusa la creazione di consenso e la negoziazione con gli altri attori per rendere possibile la soluzione identificata. Anche nel seeing first, come già nel doing first, l’enfasi è soprattutto sul problem solving, anche se in questo caso il pro-

254 ) PARTE II – PROCESSI

Figura 8.5

DECISIONALI

IL PROCESSO DECISIONALE SEEING FIRST

Problem setting (semi-consapevole)

Preparazione Incubazione

Verifica

Illuminazione

Problem solving

Variazioni marginali

Le menti preparate

L’idea prende forma

cesso di aggiustamento della soluzione è marginale. In effetti, a meno di insuccessi conclamati, la soluzione non è messa in discussione e scartata in favore di altre, bensì solo migliorata nei dettagli. Si tratta appunto di un approccio visionario e talvolta anche ideologico. Le fasi principali del processo seeing first sono quattro (Figura 8.5): preparazione, incubazione, illuminazione e verifica. Il presupposto di base è che le buone idee fioriscono nelle menti preparate. È quindi importante la fase di preparazione, in cui l’attore decisionale, a prescindere dai problemi specifici, accumula la conoscenza e l’esperienza necessarie ad affrontare il proprio lavoro. Tale preparazione può durare parecchi anni e dovrebbe accompagnare un professionista lungo la sua intera carriera. Nel momento in cui emerge il problema o l’opportunità, inizia la fase di incubazione. Il decisore viene in contatto con una situazione che lo stimola anche inconsciamente. Stimoli esterni ed esperienza accumulata durante la fase di preparazione si combinano. Il fatto che il decisore affronti razionalmente il problema (razionalità perfetta o limitata) non esclude la possibilità che il suo inconscio continui in parallelo a elaborare il problema e magari individui una soluzione di gran lunga migliore di quelle note fino a quel momento. L’elaborazione inconscia può avvenire nei momenti e nelle circostanze più insolite, anche nel sonno o addirittura durante una partita di tennis (vedi lateral thinking nel paragrafo 8.3.1). Improvvisamente compare l’illuminazione, ovvero la soluzione al problema o l’idea per cogliere un’opportunità. L’inconscio suggerisce così alla mente razionale l’alternativa da perseguire. Durante l’incubazione l’idea può nascere grazie a uno stimolo esterno, a un’osservazione o ancora a un’analogia con situazioni apparentemente molto differenti da quella esaminata. Abbiamo osservato nel capitolo 7 come Taiichi Ohno ebbe l’idea

8. Il processo decisionale ) 255

Imprenditori, artisti e scienziati

CASO

della produzione industriale just-in-time, poi applicata da Toyota, facendo la spesa in un supermercato. Infine, si procede con la verifica di fattibilità dell’idea. Il processo assume un taglio più razionale, in cui si analizzano le difficoltà realizzative, come superarle e come convincere e motivare gli attori coinvolti. Spesso questo significa elaborare un piano di azione, pianificare attività, ruoli e responsabilità ed eventualmente cercare i finanziamenti necessari. La chiusura del ciclo comporta un accumulo di esperienza, tanto nei casi di successo quanto in quelli di insuccesso. Il contesto tipico è quello imprenditoriale, in cui il decisore ha una visione e gestisce, organizza e motiva la sua organizzazione per perseguire la sua idea. Anche gli artisti e molti scienziati lavorano seguendo di fatto le loro idee e le loro intuizioni. Questo è il motivo per cui spesso si trovano processi seeing first nell’area ricerca e sviluppo e nella progettazione di nuovi prodotti. Il caso Intel (Caso 8.4) mostra un esempio di un’intuizione di successo.

8.4

Intel: la visione di un’opportunità Intel aveva sempre fornito i suoi processori ai produttori di computer di marca, da Dell a Hewlett-Packard. Durante tutti gli anni Novanta l’azienda si era sempre rifiutata di fornire i produttori di computer a basso costo. La decisione non era dettata dall’incapacità di produrre microprocessori più economici, bensì dalla volontà di mantenere un brand legato all’alta qualità. Erano infatti molti anni che Intel investiva nell’aumento di efficienza dei processi produttivi e nella riduzione dei costi dei propri prodotti. Nel corso del 1997 l’Amministratore delegato dell’azienda, Andy Grove, fu colpito dall’esperienza di alcuni piccoli produttori di tondini di acciaio che rifornivano il segmento basso di mercato negli anni Settanta. Grandi produttori della portata di U.S. Steel non si preoccuparono e cedettero quella piccola parte di mercato. Nel giro di qualche anno queste piccole aziende iniziarono a crescere intaccando anche parte del segmento alto e diventarono ben presto una minaccia per i grandi produttori. Per analogia Andy Grove ebbe allora l’intuizione di non lasciare scoperto il settore dei computer a basso costo. Le competenze progettuali sviluppate nel corso degli anni e i processi produttivi sempre più efficienti permisero in breve tempo di sviluppare un nuovo microprocessore con il marchio Celeron. Intel fu molto aggressiva nel commercializzare fin da subito il nuovo prodotto e conquistò gran parte del mercato dei computer a basso costo. Anni dopo, alla luce della continua diminuzione dei prezzi dei computer, si può dire che la visione di Andy Grove fu sicuramente di successo. È grazie alla capacità di mantenersi innovativi ma molto competitivi sui costi che Intel mantiene la leadership in un settore nel quale la concorrenza di prezzo è diventata feroce. Peraltro l’azienda è riuscita a mantenere e a rinforzare in altri modi il proprio brand, imponendo addirittura a tutti i produttori di computer l’ormai celebre marchio esterno “intel inside”. Fonte: Gavetti e Rivkin (2005).

256 ) PARTE II – PROCESSI

Manager artigiani e imprenditori

Ancora sensemaking

8.5

DECISIONALI

I tre approcci che abbiamo esaminato – thinking first, doing first e seeing first – spesso coesistono all’interno delle imprese. Tuttavia è innegabile che essi si adattano a contesti e situazioni differenti. Con una certa semplificazione si può affermare che l’approccio thinking first è quello tipico di un contesto e di una cultura manageriale, che spesso si ritrova nelle imprese medio-grandi e nelle pubbliche amministrazioni; l’approccio doing first è quello tipico delle micro-imprese e connaturato a una cultura di tipo artigianale; infine l’approccio seeing first è tipico della figura dell’imprenditore e delle imprese in fase di start-up. Tuttavia, si tratta di stili e approcci decisionali non solo spesso compresenti, ma la cui ibridazione non può che giovare alle imprese. Ad esempio, iniezioni di thinking first non possono che aiutare il processo di “managerializzazione” delle piccole imprese che è un requisito indispensabile per favorire e governare la crescita. D’altro canto, le grandi organizzazioni burocratiche beneficiano certamente di “imprenditori”, ovvero di persone con idee e intuizioni anche dirompenti che possono però essere sviluppate nonostante le procedure e le culture consolidate. Due ultime considerazioni ci consentono di collegare gli approcci alle decisioni esaminati in questo capitolo alle teorie esposte nel capitolo 7. Tutti e tre gli approcci contengono gli elementi della razionalità limitata che abbiamo visto essere il cardine delle decisioni negli ambienti organizzativi: incompletezza informativa, incapacità o rinuncia a esaminare tutte le opzioni, rischio e incertezza. Inoltre tutti e tre trovano spazio nella cornice del sensemaking che abbiamo visto essere il più significativo sviluppo teorico recente. In particolare, sia i processi di learning by doing tipici dell’approccio doing first, sia i processi seeing first, con le lunghe fasi di preparazione e di incubazione, costituiscono quell’attivazione di ambienti e quella costruzione di senso entro la quale le azioni dei decisori si collocano nella prospettiva appunto del sensemaking.

Decisioni in condizioni non deterministiche Fino a ora abbiamo analizzato diversi approcci e tecniche decisionali nella prospettiva della razionalità limitata. Abbiamo sostanzialmente assunto che, qualora si decida di investire tempo e risorse per raccogliere informazioni, modellizzare il problema decisionale, identificare e valutare le possibili alternative, si sia in grado alla fine di prendere decisioni corrette (attraverso processi riconducibili all’approccio thinking first). A questo punto è necessario discutere un ulteriore aspetto appena accennato nel capitolo 7: nella realtà normalmente non si verificano condizioni cosiddette deterministiche. Questo significa che, nonostante gli sforzi di analisi e modellizzazione, non è sempre possibile valutare con certezza le conseguenze delle varie alternative decisionali, in genere perché non è possibile conoscere con certezza il valore futuro delle variabili esogene o ambientali. Il Caso 8.5 ci mostra un esempio recente di problema decisionale in condizioni non deterministiche.

8. Il processo decisionale ) 257

CASO

8.5

Torino 2006 – XX Giochi Olimpici Invernali I XX Giochi Olimpici Invernali si svolsero a Torino dal 10 al 26 febbraio 2006. Circa 2.500 atleti provenienti da tutto il mondo si affontarono in 15 discipline. Le competizioni ebbero luogo in 7 località diverse, per un totale di 84 eventi in cui furono assegnate medaglie. Oltre ai concorrenti e ai loro staff, confluirono in Piemonte i media internazionali (quasi 10.000 persone) e gli spettatori (930.000 biglietti venduti) da tutto il mondo. I lavori di preparazione delle infrastrutture incominciarono parecchi anni prima, coordinati dal Comitato organizzativo (TOROC) e dall’Agenzia Torino 2006 che ne curò i lavori di costruzione. L’organizzazione dei Giochi Olimpici è un’attività molto complessa, considerate le dimensioni dell’evento, ma a prima vista si potrebbe pensare che i regolamenti internazionali, l’esperienza delle edizioni precedenti e la pianificazione con largo anticipo (l’assegnazione avvenne nel 1999) permettano di gestire tutta l’operazione con pochi rischi. Tuttavia, ogni edizione porta con sé un numero elevato di incognite. Nonostante la pianificazione accurata, tutti i lavori di predisposizione delle 65 opere (impianti sportivi, infrastrutture viarie e villaggi olimpici) erano fortemente esposti a imprevisti di ogni tipo, dai problemi tecnici alla necessità di finanziamenti superiori alle stime (l’investimento complessivo fu pari a 2.066 milioni di euro). Inoltre, le previsioni di affluenza di pubblico erano, come in altre edizioni, affette da elevata incertezza: il prezzo dei biglietti, la chiusura delle valli all’accesso automobilistico, le misure di sicurezza potevano limitare l’attrazione di un evento altrimenti di forte interesse (fortunatamente il budget di vendita fu raggiunto già al sesto giorno di gare). Proprio l’impossibilità di prevedere in modo certo l’affluenza di pubblico rendeva fortemente incerta anche la pianificazione dei trasporti: avendo impedito l’accesso in automobile alle valli nelle quali si svolgevano alcune competizioni, fu necessario predisporre un servizio sostitutivo via treno e bus che richiese un corretto dimensionamento. Ma vi fu un ulteriore fattore di incertezza: la preparazione e la gestione dei Giochi richiese la mobilitazione di un’organizzazione complessa e in continua evoluzione: il numero di addetti arrivò a un massimo di 2.500 persone durante i Giochi, ai quali si affiancarono circa 18.000 volontari provenienti da 64 Paesi diversi. Innumerevoli imprevisti potevano derivare dall’organizzazione stessa che non si poteva basare su routine consolidate. Inoltre, un evento mediatico di rilevanza mondiale è sempre fortemente esposto anche a imprevisti di carattere sociopolitico. In passato purtroppo i Giochi Olimpici furono oggetto addirittura di attacchi terroristici. Anche senza giungere a gravi episodi di violenza, altri problemi potevano manifestarsi. Durante i Mondiali di sci alpino di Bormio 2005, appena un anno prima delle Olimpiadi di Torino, lo sciopero di pochi operatori televisivi RAI rese impossibile la trasmissione in mondovisione, costringendo gli organizzatori a rimandare la gara, stravolgendo un programma definito molto tempo prima e alterando la stessa programmazione delle emittenti televisive. Questo ricordo era ben vivo negli organizzatori di TOROC. Infine, è bene precisare che, mentre le infrastrutture furono realizzate con fondi pubblici, il finanziamento del TOROC (1.138 milioni di euro) fu completamente privato: le fonti furono le sponsorizzazioni (39%), i diritti televisivi (40%), gli introiti dalla vendita di biglietti (69,4 milioni di euro), dal merchandising (11 milioni di euro) e dal licensing. I risultati economici al termine dei Giochi mostrarono un disavanzo tutto sommato modesto, pari a circa 31 milioni di euro, inferiore alle stime iniziali. La città di Torino e molte località della regione si trovarono però in eredità molte opere infrastrutturali e risistemazioni degli spazi pubblici. Alla luce di tutti i fattori di rischio sopra ricordati, si può comprendere quindi la preoccupazione degli organizzatori quando, nell’imminenza dei Giochi, alcuni comuni italiani minacciarono di opporsi al passaggio della fiaccola olimpica sponsorizzata e i movimenti “no TAV” dichiararono l’intenzione di disturbare seriamente il regolare svolgimento delle competizioni (che per fortuna invece si svolsero senza intoppi). Fonte: www.torino2006.org.

258 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Il caso Torino 2006 ci ha fornito un esempio di come la realtà possa essere esposta a innumerevoli fattori imprevedibili che comportano l’impossibilità di decidere in condizioni deterministiche. Nel seguito tratteremo quindi i principali approcci al processo decisionale in condizioni di rischio, che costituiscono una costante delle decisioni nelle imprese.

8.5.1

Le tipologie di rischio Nell’accezione comune il rischio è associato alla generica impossibilità di prevedere in modo esatto avvenimenti futuri, tuttavia è interessante analizzare quali siano le diverse tipologie di rischio a cui un’impresa è esposta. Una prima necessaria distinzione è quella fra rischi puri e rischi speculativi o d’impresa (si veda ad esempio Fishburn, 1984):

Esiti negativi

Benefici variabili

• i rischi puri consistono nella possibilità di subire un danno, una perdita, di qualsiasi natura: alle persone, ai beni, alle risorse finanziarie, all’immagine ecc. I rischi puri quindi coincidono con il senso comune del termine “rischio”, ovvero la possibilità di un evento esterno non controllabile che, qualora si manifesti, abbia conseguenze negative; • i rischi speculativi o d’impresa sono i fattori di incertezza connaturati all’attività economica e si distinguono dai precedenti in quanto le conseguenze degli eventi possono essere sia negative sia positive. I rischi d’impresa infatti possono far conseguire perdite o guadagni, a seconda dell’andamento di variabili non controllabili quali la domanda, la concorrenza, il contesto politico/sociale, il quadro normativo ecc. È bene sottolineare che si tratta, anche in questo caso come nel precedente, di rischi di varia natura. Spesso si associa il termine speculativo all’ambito puramente finanziario, indipendentemente dal fatto che gli investitori siano imprese o persone. In realtà, i rischi finanziari sono solo una delle varie tipologie di rischio speculativo a cui è esposta un’impresa (Erzegovesi, 1999). Illustrando la distinzione fra rischi puri e rischi speculativi, abbiamo già implicitamente introdotto un’altra possibile classificazione basata, invece, sulla natura del rischio. A questo proposito distinguiamo le seguenti fonti di rischio. Impianti: gli impianti, i macchinari e le attrezzature, così come tutti gli strumenti utilizzati, possono essere fonte di rischio sia in termini di pericolo per l’incolumità delle persone sia, semplicemente, in caso di guasti che interrompono la capacità produttiva e compromettono il livello di servizio. I rischi di impianto sono generalmente puri. Persone: gli individui, per quanto istruiti e addestrati, sono una fonte di incertezza, in quanto il loro comportamento non è completa-

8. Il processo decisionale ) 259

mente prevedibile. Esempi di rischi legati alle persone includono gli errori umani, le performance scadenti dovute a demotivazione e scarso impegno, ma anche prestazioni superiori alle attese e capacità di gestione di imprevisti ed emergenze. Organizzazione: la stessa organizzazione, intesa come sistema organizzato, può causare eventi imprevisti sia in quanto il suo comportamento non è completamente prevedibile, sia perché proprio le gerarchie e le procedure organizzative possono inaspettatamente diventare causa di comportamenti indesiderati. Questo è particolarmente vero in sistemi complessi, nei quali è difficile prevedere tutti i possibili effetti dell’interazione delle varie procedure organizzative. Alcuni esempi tristemente famosi di disastri le cui cause sono anche di natura organizzativa sono l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, l’esplosione dello shuttle Challenger e la collisione fra un aereo di linea e un aereo privato all’aeroporto di Linate (Catino, 2002). Innovazione: l’innovazione è spesso il fattore di successo di un’impresa, ma è sicuramente anche un fattore di rischio (speculativo) in quanto i risultati delle attività innovative sono per definizione non prevedibili e possono portare benefici così come costituire delle perdite. Si pensi ad esempio all’Olivetti, storica azienda italiana che era leader nella produzione di macchine da scrivere e calcolatrici meccaniche, ambito nel quale ha introdotto numerose innovazioni. Negli anni Ottanta l’azienda si riconvertì prontamente alle tecnologie elettroniche e alla rivoluzione informatica. Per un certo periodo dimostrò anche una notevole vitalità e capacità innovativa. I suoi computer della serie M, ad esempio, incontrarono un indubbio successo. L’azienda però non seppe cavalcare a lungo l’impetuosa innovazione del settore informatico che pure aveva contribuito a sviluppare. Anche a causa di scelte strategiche sbagliate e operazioni finanziarie estranee al settore dell’informatica, alla fine degli anni Novanta fu costretta a uscire dal settore cedendo gli impianti e le attività. Mercato: questa categoria racchiude le variabili legate alla domanda dei prodotti e dei servizi dell’impresa in termini di quantità, composizione, tempificazione ecc. Rientrano in questo ambito anche i comportamenti dei concorrenti che, con l’introduzione di nuovi prodotti e le azioni promozionali, possono influenzare la domanda. Ad esempio Zara, il marchio spagnolo dell’abbigliamento che dall’inizio degli anni Duemila ha registrato la più forte crescita a livello mondiale nel settore, non potendo prevedere con precisione quali saranno i gusti e i trend della moda ha rivoluzionato l’intero processo di sviluppo, approvvigionamento e produzione così da essere in grado di lanciare nuovi prodotti ogni tre settimane (Ferdows, Lewis e Machuca, 2004). Supply chain: i risultati di un’impresa dipendono fortemente da quelli di tutte le altre aziende a monte e a valle della stessa filiera. L’incapacità di un fornitore di consegnare nei tempi previsti, così co-

260 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

me un’interruzione dell’operatività di un distributore, hanno impatti altrettanto gravi sul livello di servizio di un problema produttivo all’interno dell’impresa. Discuteremo più avanti, nella parte quarta del libro, i temi relativi alle relazioni di fornitura e più in generale alla gestione delle reti dei soggetti coinvolti nella trasformazione di materie prime in prodotti finiti per i clienti finali. Tuttavia, è importante qui sottolineare che anche questo ambito non è certo soltanto una fonte di rischi puri ma anche di potenziali benefici e dunque di rischi speculativi: ad esempio, il ricorso a un nuovo fornitore presenta incognite in quanto non se ne conosce l’affidabilità, ma al contempo può permettere di ottenere risparmi di costo, maggiore qualità, rapidità e flessibilità. Contesto politico/sociale: l’attività delle imprese è ovviamente molto influenzata, in modo sia positivo sia negativo, da quanto avviene nel mondo. Nel capitolo 6 abbiamo ampiamente trattato questo tema, in questa sede ricordiamo soltanto come il contesto sociopolitico sia spesso poco prevedibile e possa avere effetti più o meno favorevoli per le imprese. Si pensi, ad esempio, alle conseguenze economiche della guerra in Iraq: da un lato la crescita del prezzo del petrolio (guidata anche da manovre speculative e dal concomitante incremento dei consumi da parte della Cina) ha determinato un forte aumento dei costi per moltissime aziende, ma dall’altro l’impulso agli acquisiti di materiale bellico prima e i contratti per la ricostruzione poi sono stati fattore positivo per molte altre. Ambiente naturale: ogni organizzazione è esposta agli eventi naturali, che a volte possono avere conseguenze gravi e imprevedibili. Allagamenti, trombe d’aria, terremoti, frane ecc. sono ulteriori fonti di rischio, generalmente puro. La capacità di prevenire il rischio laddove è possibile, di mitigarne gli effetti e di aumentare la capacità di reazione, nel caso in cui si trasformi in realtà, possono fare la differenza in termini di sopravvivenza di un’impresa. Intel, ad esempio, ha impianti produttivi in zone sismiche (California) costruiti con le più avanzate tecniche di protezione; tuttavia, dopo una scossa di terremoto, un edificio richiede di essere verificato da tecnici specializzati prima di essere dichiarato nuovamente agibile. Il personale delle strutture pubbliche si occupa, ovviamente, prima di tutto di ospedali e scuole. Intel ha dunque addestrato e certificato alcuni dipendenti affinché siano in grado di autorizzare l’agibilità immediatamente dopo un terremoto e far riprendere la produzione. Questi addetti, una volta soddisfatte le necessità aziendali, si rendono disponibili per la comunità. Questa classificazione non ha l’intento di essere esaustiva e, soprattutto, non è certamente l’unica. Ne sono state proposte molte altre che rispondono a scopi diversi. In questa sede intendiamo solo illustrare quanto ampi, diversificati e pervasivi siano i rischi nelle decisioni, in particolare in quelle d’impresa (si veda in proposito March,

8. Il processo decisionale ) 261

Risk management

8.5.2

Conoscere gli scenari possibili

1994). Un tema specialistico che non viene qui approfondito è l’insieme di metodi volti alla valutazione, prevenzione e, soprattutto, gestione del rischio, i quali vengono in genere raccolti sotto il termine di risk management; a tal proposito si rimanda a letture specialistiche (si veda ad esempio Misani, 1994).

Il rischio e l’incertezza I processi decisionali d’impresa non avvengono dunque in condizioni deterministiche. Occorre però dettagliare che cosa significhi agire in condizioni, appunto, non deterministiche. La situazione opposta al determinismo (e alla razionalità perfetta) è l’ignoranza, ovvero la condizione di chi deve prendere decisioni non avendo alcuna conoscenza su che cosa accadrà in futuro. In questa situazione è ovviamente impossibile decidere in modo razionale, in quanto non si è in grado di associare, nemmeno in modo approssimato, conseguenze precise alle proprie azioni; quindi non è possibile neppure valutare quale alternativa porti a effetti migliori. Ignoranza significa non solo impossibilità di sapere con certezza quali valori assumeranno le variabili ambientali, ma anche mancanza di conoscenza su quali siano i valori possibili. In questa condizione non si è in grado nemmeno di identificare i potenziali scenari futuri o i range entro i quali si possono muovere i valori delle variabili esogene. Ignoranza è, ad esempio, la condizione di un’impresa che voglia valutare l’ingresso in un nuovo settore nel quale non ha mai operato in precedenza e di cui non conosce le caratteristiche dei prodotti, delle tecnologie, del mercato, dei concorrenti, della legislazione ecc. Ovviamente gran parte di queste conoscenze sono reperibili con uno sforzo di raccolta di informazioni, analisi e studio. Tuttavia, come detto in precedenza, nessuna raccolta di dati, nessuna analisi di mercato o analogo sforzo può portare alla certezza. Gia da tempo (si veda Knight, 1921) si è consolidata la fondamentale distinzione tra stato di rischio e stato di incertezza. Essa fa riferimento alla diversa conoscenza che si può avere del contesto in cui avviene il processo decisionale. Rischio e incertezza, che fino a qui abbiamo utilizzato sostanzialmente come sinonimi, come d’altronde spesso avviene anche nell’uso comune, hanno in realtà un significato profondamente diverso. L’incertezza costituisce un primo livello di conoscenza che riguarda i possibili scenari o eventi esterni che si possono realizzare, oppure il range di variazione dei valori delle variabili esogene. Il processo decisionale avviene quindi sapendo quali possibili situazioni (stati di natura) si possono manifestare nell’ambiente, ma nell’incapacità di associare a ciascuna di esse una probabilità di accadimento. Questo significa che si è in grado di collegare a ogni possibile alternativa decisionale un effetto per ciascuno scenario ambientale che si potrebbe verificare senza essere tuttavia nelle condizioni di determinare se uno scenario sia più o meno probabile di un altro.

262 ) PARTE II – PROCESSI Valutare le probabilità

DECISIONALI

In condizioni di rischio, invece, il decisore non solo conosce i possibili scenari, ma è anche in grado di associare a ciascuno di essi una probabilità di accadimento. Questo significa che per ogni alternativa decisionale disponibile il decisore è in grado di stimare il suo effetto atteso come combinazione degli effetti che si otterrebbero in ciascuno scenario, ognuno con la propria probabilità. Inoltre, il decisore è anche in grado di valutare la variabilità (rischio) associata a ciascun effetto atteso, attraverso misure quali ad esempio la deviazione standard di tale valore (approfondiremo questi concetti nel prossimo paragrafo). In questa situazione, quindi, il decisore si trova sì in condizioni non deterministiche, ma è in grado di utilizzare algoritmi e criteri decisionali che forniscono indicazioni importanti sull’entità del rischio a cui si è esposti e permettono quindi di decidere in modo consapevole. L’attribuzione di una probabilità ai valori delle variabili esogene può avvenire in diversi modi, a seconda della conoscenza che si ha dell’ambiente: • quando si conoscono le caratteristiche intrinseche del processo di generazione dei valori, si possono determinare a priori le effettive probabilità di accadimento. È questo il caso, ad esempio, di un dado a sei facce (non truccato), che ha uguale probabilità di fermarsi su ciascuna di esse, quindi ciascuno dei 6 valori ha probabilità di accadimento pari a 1/6; • spesso non si conosce il modo in cui vengono determinati i valori delle variabili ambientali, ma si dispone di una storia di osservazioni passate, con la frequenza di accadimento di ciascun valore. In questo caso, è possibile stimare le probabilità sulla base delle frequenze osservate. È il caso ad esempio delle chiamate a un call center: dopo aver osservato la frequenza di arrivo per un certo tempo, è possibile stimare la probabilità del numero di chiamate future; • infine, in alcuni casi non si dispone né di una misura né di una stima della probabilità basata su dati oggettivi, ma si effettua una stima di tipo qualitativo, basata in genere sull’esperienza, sulle convinzioni personali, sull’istinto. Si tratta di stime soggettive della probabilità, legate al concetto di “fiducia” o “credenza”, che quindi possono variare fortemente da un decisore a un altro. Sebbene queste stime possano apparire poco affidabili, un decisore che ne sia convinto si trova comunque in una condizione di rischio e non di incertezza, in quanto dal suo punto di vista è in grado di associare ad ogni possibile evento una probabilità (per quanto “probabilmente” distorta).

Incertezza e razionalità

Risulta chiaro a questo punto che prendere decisioni in condizioni di rischio o di incertezza comporta differenze significative. La Figura 8.6 illustra il continuum che esiste tra ignoranza e perfetta conoscenza passando attraverso incertezza e rischio. Si noti che mentre la razio-

8. Il processo decisionale ) 263

Figura 8.6

IL CONTINUUM TRA IGNORANZA, INCERTEZZA E RISCHIO

Razionalità perfetta

Razionalità limitata

Ignoranza

Incertezza

• Nulla

• Domini delle variabili • Scenari

Rischio • Domini delle variabili • Scenari • Probabilità di accadimento

Condizioni deterministiche • Completa conoscenza dello scenario che si verifica

Conoscenza delle variabili ambientali

nalità perfetta si basa sulla conoscenza completa delle variabili ambientali e, al massimo, include il rischio calcolabile, la razionalità limitata ha a che fare con il rischio, l’incertezza e, talvolta, anche con l’ignoranza. Nel prosieguo del capitolo vedremo quali sono i criteri decisionali fondamentali disponibili nelle due diverse situazioni di rischio e incertezza.

8.5.3

Decisioni in condizioni di rischio Consideriamo dapprima la condizione di rischio, nella quale quindi sono noti sia i possibili scenari (valori delle variabili ambientali) sia le rispettive probabilità di accadimento. Il Caso 8.6 ci mostra un esempio di decisione in queste condizioni.

CASO

8.6

Bubble La Bubble (nome camuffato di una multinazionale del settore delle bevande analcoliche) sta introducendo una nuova confezione: la lattina metallica a forma di bottiglietta. Questo contenitore è identico nella forma alla bottiglia di vetro tradizionale, ma è realizzato in alluminio attraverso un processo di deformazione meccanica. L’impianto di realizzazione dei contenitori viene sviluppato e prodotto da un fornitore specializzato, che ha proposto a Bubble due alternative possibili. La prima (D1) consiste in una macchina che realizza i contenitori per estrusione, partendo da una “pastiglia” di metallo. I contenitori ottenuti in questo modo risultano di spessore superiore a una lattina tradizionale e di conseguenza il costo unitario è più alto, in quanto si utilizza una maggiore quantità di materia prima. Questa macchina, in grado di

264 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

produrre 400 bottiglie al minuto, costa 5 milioni di euro. La seconda alternativa (D2) consiste invece in una macchina che realizza i contenitori per trafilatura, permettendo di raggiungere lo stesso spessore di una lattina tradizionale, con un costo unitario del contenitore inferiore rispetto al caso precedente. Questa macchina è in grado di realizzare 1500 bottiglie al minuto e costa però 10 milioni di euro. La direzione marketing di Bubble intende utilizzare il nuovo contenitore per entrare in un settore di mercato ancora inesplorato, quello costituito dalle discoteche e dai locali notturni. Infatti il contenitore verrà riempito con le bibite per circa 3/4, permettendo quindi di aggiungere alcolici per ottenere un cocktail. I volumi di produzione di questi contenitori dipendono quindi fortemente dal successo che Bubble incontrerà in un mercato per lei nuovo, con un formato innovativo. La direzione marketing ha identificato tre possibili scenari di mercato: S1, S2 e S3. Nel caso S1 il prodotto ha successo e ottiene significative quote di mercato, potenziando notevolmente le vendite di Bubble. Questo scenario viene ritenuto realistico, tanto che a esso è associata una probabilità di accadimento del 30%. Nel caso S2 il prodotto viene accolto positivamente dai clienti, ma la penetrazione è lenta e ostacolata dai concorrenti, che oltre a sfruttare le rendite di posizione imitano rapidamente le idee di Bubble, una strategia già osservata in passato in occasione di altre innovazioni. Questo scenario è ritenuto il più probabile e a esso viene associata una probabilità del 50%. Nel caso S3 il prodotto non ha successo e non riesce a diffondersi nel nuovo mercato. Questo scenario è ritenuto il meno probabile, con una probabilità del 20%. La direzione generale ha elaborato i dati forniti dalle varie funzioni e calcolato il Net Present Value (NPV – Valore Attuale Netto) su un orizzonte di tre anni delle due alternative decisionali (D1 e D2) in ciascuno dei tre scenari (S1, S2, S3). I dati sono riportati in Tabella 8.4.

Tabella 8.4

D1 D2

NET PRESENT VALUE (IN MILIONI DI EURO) S1

S2

S3

35 50

15 20

–5 –10

Il caso Bubble mostra, seppur in forma semplificata, un tipico problema decisionale per un’impresa: si tratta di una valutazione di investimento in condizioni di rischio. In questa sede non si vuole tanto approfondire le tecniche specifiche di valutazione di investimento, per le quali si rimanda ad Azzone e Bertelè (2011), quanto considerare il caso generale di decisioni in condizioni non deterministiche. Il valore atteso Il criterio decisionale più semplice e intuitivo in condizioni di rischio è il valore atteso (E), detto anche valore atteso monetario, definito come media dei risultati, o payoff (V i,j), corrispondenti a un’alternativa decisionale (Di) nei vari scenari (Sj), pesati in base alla probabilità di accadimento (Pj): n

Ei = ^ PjVi,j

con i = 1, …, m

j=1

con n = numero di scenari e m = numero di alternative.

8. Il processo decisionale ) 265

In base a questo criterio la decisione ottimale D* è quella che determina il massimo valore atteso (E*): E* = m a x Ei i = 1, ... m

Di conseguenza i valori attesi delle alternative decisionali del caso Bubble sono i seguenti: E1 = 30% . 35 + 50% . 15 + 20% . – 5 = 17 E = 30% . 50 + 50% . 20 + 20% . – 10 = 23 2

L’alternativa che massimizza il valore atteso è quindi la seconda (D2), che corrisponde all’acquisto della macchina più costosa ma che permette di ridurre i costi unitari di produzione ed è più adatta ad alti volumi produttivi in quanto più veloce. È bene notare che in questo caso l’obiettivo è di massimizzare il valore atteso, ma se, ad esempio, la misura del risultato fosse un costo l’obiettivo diventerebbe ovviamente quello di minimizzarne il valore atteso.

Decisioni una tantum e ripetute

La misura del rischio Utilizzando il solo valore atteso, tuttavia, non abbiamo considerato un aspetto fondamentale: trovandoci in condizioni di rischio, la massimizzazione del valore atteso ci permette sì di scegliere l’alternativa che statisticamente darà i ritorni maggiori, ma non esclude la possibilità che questa alternativa si riveli svantaggiosa. In realtà, il valore atteso è una misura effettivamente significativa e sufficiente quanto più la decisione è ripetuta. Ad esempio, riferendoci al caso Bubble, scegliendo l’alternativa D2, nel caso si verifichi lo scenario S3 si otterrebbe il risultato peggiore possibile. Se la decisione viene iterata molte volte, le poche volte (20%) in cui si verifica lo scenario S3 saranno più che compensate dalle volte in cui si verificano gli scenari S1 e S2, ben più favorevoli. Naturalmente in una decisione una tantum, com’è certamente nel caso Bubble, è possibile che si verifichi lo scenario sfavorevole, nel quale l’alternativa D1 consentirebbe di limitare i danni. Scegliere, dunque, sulla base del solo valore atteso non offre alcuna garanzia. Più in generale, quando ci si trova in condizioni di rischio non ci si dovrebbe accontentare di conoscere il valore atteso di ogni alternativa decisionale, ma si dovrebbe misurare anche il rischio associato a ciascuna di esse. Misurare il rischio significa valutare la variabilità dei possibili risultati in termini di dispersione rispetto al valore atteso. In altre parole, significa valutare quanto tali risultati si possono discostare dal valore medio. Questo concetto corrisponde a quello di varianza (σ2) e di deviazione standard (σ); in particolare, d’ora in avanti utilizzeremo la deviazione standard come misura del rischio associato a ciascuna alternativa, in quanto viene espressa nella stessa unità di misura del valore atteso (si veda il box a p. 266 per altre misure di rischio): σi =

n

^

j51

Pj (Vi, j – Ei )2

i = 1, ..., m

266 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Calcolando la deviazione standard delle alternative decisionali del caso Bubble otteniamo: σ1 = 14 σ2 = 21

Trade off rischio/ ritorno

Atteggiamenti sul rischio

Che significato ha questo indicatore? Esso ci mostra che l’alternativa D2, a cui come visto sopra corrisponde il valore atteso superiore, è però anche quella con una maggiore variabilità dei guadagni possibili. In altre parole, è anche l’alternativa più rischiosa perché può portare a ritorni elevati così come a perdite considerevoli. Riprendendo la classificazione vista nei paragrafi precedenti, ci troviamo in presenza di un tipico rischio speculativo d’impresa: dobbiamo scegliere fra un’alternativa con un valore atteso inferiore, ma anche un rischio inferiore, e un’alternativa con valore atteso e rischio superiori. Il rischio, in questo caso, non è sinonimo di perdita quanto semmai di maggiore variabilità dei risultati possibili. Si tratta dunque di rischio speculativo e non di rischio puro. Sulla base di queste considerazioni concludere quale delle due alternative sia preferibile per Bubble non è così immediato: non esiste un criterio automatico che indichi la soluzione preferibile. Questo perché stiamo implicitamente associando un valore negativo al rischio, in quanto normalmente si ritiene che un decisore razionale sia avverso al rischio. L’avversione al rischio caratterizza un decisore che, avendo a disposizione due alternative di pari valore atteso, sceglie quella con il rischio speculativo minore. Se così non fosse, se il decisore fosse cioè propenso al rischio, nel caso Bubble non si avrebbero più dubbi: la soluzione D2 sarebbe dominante, in quanto presenta sia valore atteso sia rischio superiore all’altra. Un decisore propenso al rischio, infatti, fra due alternative a pari valore atteso sceglie quella con rischio speculativo superiore: è l’atteggiamento tipico del giocatore d’azzardo. Infine, un decisore potrebbe semplicemente essere indifferente al rischio: in questo caso l’obiettivo rimane unicamente la massimizzazione del valore atteso, perché il rischio non viene considerato. Un decisore di questo tipo, infatti, considera fra loro equivalenti due alternative con lo stesso valore atteso ma rischio diverso. Avendo definito il rischio speculativo in termini di dispersione dei risultati possibili attorno al valore atteso, vi sono diversi indicatori che servono allo scopo. Il box seguente illustra i principali.

La misura del rischio La notazione nelle formule è analoga a quella usata fin qui nel capitolo: i è l’indice dell’alternativa, j è l’indice dello scenario, m è il numero di alternative, n il numero di scenari. Indicatori assoluti Si tratta di indicatori che misurano la dispersione in termini assoluti, nella stessa unità di misura dei valori considerati:

8. Il processo decisionale ) 267 Mean Absolute Deviation (MAD)

O n

MADi =

Z Vi, j – Ei Z . Pj

i = 1, ..., m

j=1

Il MAD è la media degli scarti in valore assoluto; in questo modo gli scarti (a parità di probabilità di accadimento) hanno peso linearmente proporzionale alla loro entità. Deviazione Standard (σ)

σi =

n

^ Pj (Vi, j – Ei )2

i = 1, ..., m

j=1

La deviazione standard (detta anche scarto quadratico medio) è la radice della somma dei quadrati degli scarti, quindi il peso degli scostamenti cresce con la loro entità in modo più che proporzionale. Indicatori relativi Al contrario dei precedenti, gli indicatori relativi sono espressi in termini percentuali, riferiti al valore atteso. In questo modo permettono di confrontare due distribuzioni con valore atteso significativamente diverso. Mean Absolute Percentage Error (MAPE)

O n

MAPEi =

j=1

Z Vi, j – Ei Z . P Ei

j

i = 1, ..., m

Il MAPE è la versione relativa del MAD, in quanto è la media degli scarti assoluti percentuali; quindi gli scarti (a parità di probabilità di accadimento) hanno peso linearmente proporzionale alla loro entità, come nel caso del MAD. Coefficiente di variazione (CV)

s CVi 5 }}i Ei

i = 1, ..., m

Il coefficiente di variazione è semplicemente il rapporto fra la deviazione standard e il valore atteso. Ovviamente, con questo indicatore il peso degli scostamenti cresce con la loro entità in modo più che proporzionale, come nel caso della deviazione standard. Questi indicatori possono essere utilizzati anche per misurare l’affidabilità delle previsioni passate, considerando gli scarti fra i valori previsti e quelli effettivi. Tali misure possono essere poi utilizzate come stima dell’affidabilità futura delle previsioni, dunque del rischio. In condizioni di incertezza, è possibile utilizzare questi indicatori assumendo sostanzialmente l’equiprobabilità degli eventi, attribuendo quindi a ciascuno scenario una probabilità di accadimento P = 1/n, con n pari al numero di scenari. Tuttavia, come discuteremo più avanti, questa assunzione può risultare errata e fuorviante, e non deve essere data per scontata.

268 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Trade-off fra valore atteso e rischio Assumiamo dunque che la condizione normale del decisore manageriale sia quella di avversione al rischio. Se si applica questa condizione al caso di Bubble, ci si trova di fronte a una situazione già discussa in precedenza (cfr paragrafo 8.2.1): un problema decisionale con due obiettivi in trade-off tra loro. Infatti, si vuole massimizzare il valore atteso e minimizzare il rischio, ma le alternative a disposizione non permettono di ottenere soluzioni che ottimizzino entrambe le prestazioni. Tuttavia, non è detto che le decisioni in condizioni di rischio presentino sempre questo trade-off. Talvolta alcune alternative permettono contemporaneamente di massimizzare il valore atteso e minimizzare il rischio associato. Ma è una situazione piuttosto infrequente. Un decisore avverso al rischio si trova sempre di fronte a un problema multi-obiettivo, che nella maggior parte dei casi è affetto da trade-off. Come illustrato precedentemente, per gestire il trade-off in questi casi possiamo procedere in diversi modi, riconducibili ai seguenti approcci: trasformare n – 1 obiettivi in vincoli e costruire una funzione di utilità che, componendo le diverse prestazioni, riporti il problema a un unico obiettivo. In pratica il problema può essere ricondotto ai seguenti casi: • Max (E) con σ < σ*: è possibile fissare arbitrariamente una soglia massima di rischio accettabile, scartare le alternative che non soddisfano questo requisito e, fra le rimanenti, scegliere quella che porta al valore atteso massimo; • Min (σ) con E > E*: è il duale del caso precedente. Si fissa una soglia minima di ritorno atteso, si scartano le alternative che si posizionano al di sotto e tra quelle residue si sceglie quella con il minor rischio; • Max (E) con P(V < Vmin) < Pmin: una terza possibilità è fissare un vincolo sulla probabilità cumulata che il ritorno sia inferiore a una soglia predeterminata. Si tratta di una modalità simile alla prima, nella quale però il rischio è valutato in termini di probabilità di ottenere risultati particolarmente bassi (si veda la Figura 8.7); • Max (U) con U = E – λσ: si riconduce il problema a un unico obiettivo definendo una funzione di utilità che compone il valore atteso e il rischio. Il parametro λ rappresenta l’atteggiamento del decisore nei confronti del rischio: λ . 0 avverso, λ = 0 indifferente, λ , 0 propenso. Di fatto questo modo di procedere è equivalente all’utilizzo di un metodo a punteggio, nel quale λ rappresenta il peso relativo del rischio, considerato che il peso del valore atteso è posto pari a 1. Variabili continue

A questo punto è necessaria un’ulteriore precisazione: nel caso Bubble, per semplicità, abbiamo considerato tre scenari discreti, ovvero tre soli valori possibili delle variabili ambientali, a cui corrispondono probabilità puntuali. Nella realtà, molte variabili ambientali non sono discrete, ma continue, quindi possono assumere infiniti valori ai quali può essere associata una distribuzione di probabilità. Ad esempio, la domanda per un’azienda può essere rappresentata con una

8. Il processo decisionale ) 269

Figura 8.7

CONFRONTO FRA LE PROBABILITÀ ASSOCIATE A DUE ALTERNATIVE D1

Pcum

D2

Pmin

V

Vmin

distribuzione, definita da una media (valore atteso), e una varianza, che misura l’affidabilità delle previsioni. Quanto detto fin qui rimane valido: si tratta comunque di un problema multi-obiettivo che richiede di essere trattato con uno degli approcci descritti sopra. La perdita di opportunità Un approccio alternativo alla scelta si basa sul concetto di perdita di opportunità (detta anche rincrescimento o rammarico), che consiste nella valutazione del mancato guadagno conseguente, per ciascuno scenario, ad aver fatto una scelta non ottimale. È possibile quindi costruire, partendo dalla tabella dei payoff, una tabella delle perdite di opportunità (PO), il cui valore è così definito: POi, j = m a x Vi, j – Vi, j

con i = 1, …, m; j = 1, …, n

i = 1, ..., m

Nel caso Bubble si ottengono i valori riportati nella Tabella 8.5.

Tabella 8.5

PERDITE DI OPPORTUNITÀ NEL CASO BUBBLE (IN MILIONI DI EURO) S1

S2

S3

D1

15

5

0

D2

0

0

5

270 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

È possibile calcolare il valore atteso della perdita di opportunità (VAPO), in modo analogo a quanto fatto precedentemente:

O n

VAPOi =

Pj . POi,j

con i = 1, ... m

j =1

Decisioni competitive

Nel caso Bubble si ottengono i seguenti valori: VAPO1 = 7 VAPO2 = 1 Il criterio decisionale consiste nella scelta dell’alternativa a cui corrisponde la perdita di opportunità minima: VAPO* = m i n VAPOi i = 1, ...m

Questo criterio, infatti, punta a minimizzare lo scostamento dai migliori risultati possibili attraverso i vari scenari. Quindi nel caso Bubble l’alternativa indicata da questo criterio è la D2, analogamente a quanto accadeva con la massimizzazione del valore atteso. Infatti è possibile dimostrare che i due criteri, sebbene apparentemente diversi nell’approccio, forniscono per definizione le stesse indicazioni (si veda ad esempio Vercellis, 1997). Il concetto di perdita di opportunità è utile soprattutto quando la decisione è di tipo competitivo: quando cioè conta il risultato non in assoluto ma in relazione a quello degli altri, ad esempio i concorrenti.

8.5.4

Decisioni in condizioni di incertezza Ipotizziamo ora che nel caso Bubble discusso in precedenza non fossero note le probabilità di accadimento dei tre scenari possibili. Il management non si troverebbe più in condizioni di rischio, ma in condizioni di incertezza: sarebbe consapevole di trovarsi in una situazione non deterministica, sarebbe in grado di identificare i possibili valori delle variabili ambientali (gli scenari), ma non di associarvi una distribuzione di probabilità. Questa situazione è in realtà molto frequente nella pratica. Spesso infatti non sono disponibili distribuzioni di probabilità stimate in modo sistematico (ad esempio attraverso analisi di mercato, sondaggi, proiezioni di dati storici ecc.). D’altra parte stime sulla base dell’intuito o delle convinzioni dei decisori non sono ritenute sufficientemente affidabili. In questo caso, il problema decisionale è analogo a quanto visto per le condizioni di rischio: l’obiettivo rimane duplice, ovvero massimizzare i ritorni e minimizzare il rischio, o meglio l’incertezza. Tuttavia, l’assenza di probabilità impedisce di utilizzare i concetti di valore atteso e varianza, sui quali si fondano i criteri decisionali fin qui discussi. È necessario quindi identificare nuovi criteri decisionali che per-

8. Il processo decisionale ) 271

mettano in qualche modo di affrontare il problema. Di seguito presentiamo i più comuni. Criterio di equiprobabilità Il primo criterio, detto anche criterio di Pascal, consiste nell’assegnare a ciascuno scenario la stessa probabilità, riportandosi fittiziamente in condizioni di rischio e permettendo così di applicare i criteri di massimizzazione del valore atteso e minimizzazione del rischio visti in precedenza. Nel caso Bubble l’applicazione di questo criterio porterebbe ad assegnare a ciascuno dei tre scenari una probabilità del 33,3%, con i seguenti valori attesi e deviazioni standard: E1 = 15 σ1 = 16,3 E2 = 20 σ2 = 24,5

Assunzioni errate

Come si può vedere, i valori attesi e le deviazioni standard cambiano, pur continuando a mostrare l’alternativa D2 come quella più redditizia, ma anche più rischiosa. È interessante notare che per entrambe le alternative i valori attesi diminuiscono e il rischio aumenta, il che dimostra la criticità di una stima delle probabilità corretta, affinché le indicazioni fornite dai criteri decisionali siano realmente affidabili. Proprio per questo motivo, ha senso applicare il criterio di equiprobabilità in condizioni di incertezza soltanto se si hanno fondate ragioni per ritenere valida l’assunzione di base, il che significa che in realtà non si è in condizioni di incertezza ma di rischio. Altrimenti questo criterio può essere fuorviante: non si conosce un parametro (la distribuzione di probabilità), ma ci si comporta come se questo fosse noto (assunzione di equiprobabilità). La presunzione, anche inconsapevole, di conoscere qualcosa che in realtà non è noto può essere più pericolosa della pura e semplice ignoranza. Criterio MaxiMax Abbandonando l’idea di associare una probabilità agli scenari, veniamo ora ai veri e propri criteri decisionali in condizioni di incertezza. Il primo che presentiamo consiste nella scelta dell’alternativa decisionale che permette di conseguire il risultato migliore in assoluto, rispetto a tutti gli scenari possibili. Il procedimento consiste nell’identificare, per ciascuna alternativa, il massimo ritorno possibile, quindi scegliere quella (Dmax) che presenta il valore più alto (Vmax): Vmax = m a x

i = 1, ..., m

Ottimismo

[max V ] j = 1, ..., n

i, j

Nel caso Bubble, l’applicazione di questo criterio porterebbe a scegliere l’alternativa D2, poiché è quella che permette di ottenere un NPV massimo di 50, superiore al valore massimo ottenibile con l’alternativa D1 (35). Si tratta quindi di un criterio ottimistico: si fonda sulla speranza che si realizzi lo scenario più favorevole e quindi porta

272 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

a scegliere l’alternativa che dà il ritorno maggiore. Si tratta chiaramente di un criterio pericoloso: date le condizioni di incertezza, non vi è alcuna garanzia che si realizzi tale scenario. Questo criterio in realtà trascura l’incertezza e non si preoccupa di che cosa potrebbe succedere se si verificasse uno scenario sfavorevole, infatti l’alternativa scelta è quella con le perdite superiori nello scenario S3. Criterio MaxiMin Il criterio antitetico al MaxiMax è quello denominato MaxiMin. Si tratta di un criterio pessimistico, che considera cioè i risultati nel caso si verifichi lo scenario peggiore. Con questo criterio (detto anche criterio di Wald) si sceglie l’alternativa che, nel caso peggiore, fornisce un risultato migliore delle altre. Per fare questo, si associa a ogni alternativa il suo risultato peggiore, quindi si sceglie quella (D*) a cui corrisponde il valore massimo (V*): V* = m a x

m i n Vi, j i = 1, ..., m j = 1, ..., n

[

]

Nel caso Bubble, questo criterio porterebbe a scegliere l’alternativa D1, poiché il suo risultato peggiore (–5) è superiore a quello dell’alternativa D2 (–10). In questo modo l’incertezza viene considerata attraverso il cosiddetto principio di prudenza: esistendo una possibilità, sebbene non quantificabile, di ottenere un risultato negativo si cerca di cautelarsi da tale evenienza. È ovvio che questo criterio, essendo opposto al precedente, ne trascura i pregi: non considera infatti i potenziali guadagni massimi di ciascuna alternativa decisionale. Criterio del realismo Questo criterio, detto anche criterio di Hurwicz, cerca di combinare le caratteristiche dei due precedenti. A tale scopo, a ogni alternativa decisionale è associata una combinazione del suo risultato migliore e di quello peggiore, ottenuta attraverso un “coefficiente di ottimismo” · variabile tra 0 e 1, che costituisce il peso dello scenario più favorevole. Si sceglie l’alternativa (D*) a cui corrisponde la combinazione di valore massimo (R*):

3

4

R* = m a x a m a x Vi,j + (1 – a) m i n Vi,j i = 1, ..., m

j = 1, ..., n

j = 1, ..., n

0#a#1

Nel caso Bubble, ipotizzando ad esempio un valore del coefficiente di ottimismo pari a 0,3, si otterrebbero i seguenti valori: R1 = 0,3 . 35 + 0,7 . (–5) = 7 R2 = 0,3 . 50 + 0,7 . (–10) = 8 Tra ottimismo e pessimismo...

Quindi il criterio del realismo porterebbe a scegliere l’alternativa D2, nonostante si sia dato peso maggiore allo scenario peggiore (0,7). Possiamo notare che questo criterio, combinando i due precedenti,

8. Il processo decisionale ) 273

riesce in effetti a fornire indicazioni basate su entrambi gli eventi, migliore e peggiore, confrontandone l’entità. Nel nostro esempio, infatti, la scelta per l’alternativa con una fascia di oscillazione più ampia (da 50 a –10) è motivata dal fatto che lo scarto fra i risultati migliori (35 e 50) è più ampio rispetto a quello fra i risultati peggiori (–5 e –10). È bene tuttavia segnalare anche il limite di questo criterio: l’arbitrarietà del coefficiente di ottimismo, che rappresenta l’atteggiamento di fondo del decisore e può influenzare significativamente le indicazioni fornite. Infine, è importante sottolineare come tale coefficiente non sia una probabilità e non debba essere confuso con essa, sebbene la formulazione analitica del criterio possa trarre in inganno. Siamo di nuovo ritornati al labile confine fra probabilità stimata in modo oggettivo e probabilità ottenuta sulla base di convinzioni personali (affette da ottimismo o pessimismo), che come tali devono essere considerate.

Rammarico

Criterio MiniMax Analogamente a quanto visto per le condizioni di rischio, anche in condizioni di incertezza rimane valido il concetto di perdita di opportunità. In questo caso, tuttavia, non è possibile parlare di valore atteso della perdita di opportunità, quindi si utilizza il criterio del MiniMax rincrescimento (o rammarico, Schmeidler, 1969). A ogni alternativa decisionale si associa il massimo valore della perdita di opportunità, quindi si sceglie quella che presenta il valore minimo: PO* = m i n

[m a x PO ]

i = 1, ..., m j = 1, ..., n

i,j

La logica alla base di questo criterio è quindi di tipo pessimistico o prudente: si sceglie l’alternativa che, in caso di scenario sfavorevole, permette di minimizzare le perdite relative. Nel caso Bubble rimane valida la tabella delle perdite di opportunità viste in precedenza e di conseguenza l’alternativa scelta sarebbe la D2, a cui corrisponde una perdita di opportunità massima (5) inferiore a quella della D1 (15). In quest’ultimo paragrafo abbiamo approfondito il tema delle decisioni in condizioni non deterministiche, definendone le varie tipologie e presentando i principali criteri decisionali in condizioni sia di rischio sia di incertezza. Per una trattazione approfondita di questo argomento rimandiamo a testi specialistici, ad esempio Harrison (1975), Moore (1972) e Newman (1971). In questo capitolo abbiamo esplorato in dettaglio le due macro-fasi che, a grandi linee, ritroviamo in qualunque processo decisionale: problem solving e problem setting. A supporto di queste fasi abbiamo affrontato alcune delle tecniche esistenti (modellizzazione, previsione, generazione di alternative e valutazione). Sulla base di questi concetti abbiamo poi sviluppato i principali approcci alle decisioni

274 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

(thinking first, doing first e seeing first) così come vengono messi in pratica nelle imprese. Infine abbiamo introdotto il rischio e l’incertezza nelle decisioni e i criteri per gestirli. Come già accennato nel capitolo 7, maggiore è la posta in gioco (crescita, profitto, successo competitivo, sopravvivenza dell’azienda), più le decisioni manageriali sono di livello elevato e maggiori sono il rischio e l’incertezza. Nei prossimi capitoli tratteremo quindi due tipologie di incertezza particolarmente importanti per le decisioni. Nel capitolo 9 affronteremo il tema della cosiddetta incertezza strategica, dovuta cioè all’interazione con altri decisori, ben identificati, il cui comportamento non è però prevedibile a priori in modo deterministico, ma che influenza significativamente anche i nostri risultati. Nel capitolo 10 invece approfondiremo il tema della turbolenza ambientale, ovvero l’incertezza legata all’evoluzione del contesto esterno che può influenzare i risultati delle decisioni manageriali.

9

Le decisioni interattive La Teoria dei giochi

SOMMARIO

9.1

Le decisioni degli altri

CASO

9.1 L’incertezza ambientale e l’incertezza strategica j 9.2 Introduzione alla Teoria dei giochi j 9.3 Le alternative dominanti j 9.4 L’efficienza di Pareto j 9.5 L’equilibrio di Nash j 9.6 Il Dilemma del prigioniero j 9.7 La pluralità degli obiettivi j 9.8 Decidere per primi o per ultimi? Il valore dell’informazione e della comunicazione j 9.9 Conclusioni

L’incertezza ambientale e l’incertezza strategica Come abbiamo discusso nei capitoli precedenti, i problemi decisionali possono diventare complessi a causa dell’incertezza del contesto ambientale, in particolare per quelle imprese che operano in settori globali e ad alto tasso di innovazione. Una particolare categoria di variabili ambientali è costituita dalle decisioni di altri attori sia interni all’organizzazione (ad esempio altri ruoli o funzioni aziendali diversi da quelli primariamente coinvolti nella decisione), sia esterni (ad esempio i clienti, i fornitori, i concorrenti, i legislatori ecc.); frequentemente occorre prendere decisioni sapendo che l’effetto della nostra scelta è influenzato da quelle di altri decisori. Questo capitolo affronta gli aspetti connessi con queste specifiche situazioni decisionali. Il fatto che le variabili ambientali del nostro problema siano in realtà decisioni di altri attori potrebbe, in prima analisi, apparire una sottigliezza: non conoscendo con certezza che cosa farà la controparte saremmo ancora in presenza di incertezza e quindi potremmo semplicemente rifarci a quanto visto nel capitolo 8. Tuttavia, questa particolare circostanza presenta significative peculiarità. Consideriamo il Caso 9.1a che riporta una particolare situazione decisionale, relativa a Ryanair, nota compagnia aerea low cost.

9.1a

Caso Ryanair: la crescita Nell’aprile del 1986 Ryanair, una piccola compagnia aerea irlandese creata dai fratelli Cathal e Declan Ryan, annunciò l’inizio della propria copertura sulla rotta Dublino-Londra. Nel primo suo anno di vita, l’impresa aveva gestito la sola rotta tra Waterford e Gatwick mediante un piccolo aereo da 14 posti. Ora si apprestava a lanciare una sfida di grandi dimensioni. La

276 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

rotta infatti era già coperta da altre grandi imprese tra cui Aer Lingus e British Airways che fornivano biglietti a un prezzo di circa 300 ?, mentre Ryanair voleva proporre un biglietto a circa 140 ?. La scelta di entrare su questa rotta (di fatto un nuovo mercato per Ryanair) richiedeva di doversi scontrare con le imprese già esistenti. I fratelli Ryan erano consci del fatto che gli altri operatori avrebbero potuto avviare uno scontro sui prezzi dei biglietti per scoraggiare l’ingresso del concorrente oppure avrebbero potuto ignorare Ryanair e procedere come se nulla fosse accaduto. La loro decisione avrebbe avuto risultati molto differenti a seconda del comportamento degli altri attori.

Tabella 9.1

I PAYOFF DI RYANAIR NEI DIVERSI SCENARI DI MERCATO Concorrenti

Ryanair

Misura della soddisfazione

Il caso di Ryanair esemplifica una tipologia di problemi decisionali che frequentemente ci si trova ad affrontare. Le alternative fondamentali per Ryanair alla fine degli anni Ottanta sono di entrare nel mercato o di non entrare. I concorrenti (qui assunti come un soggetto unico per semplicità) possono scegliere di opporsi all’ingresso tramite una significativa riduzione del prezzo dei propri biglietti, oppure di non alterare la propria offerta commerciale e dunque di non opporsi. Il problema decisionale affrontato dai fratelli Ryan può essere schematizzato, in analogia con quanto visto nei capitoli precedenti, considerando che Ryanair ha due alternative (Entrare o Non entrare) e che lo scenario può presentare concorrenti che si oppongono al suo ingresso oppure no. Poiché l’obiettivo di Ryanair era quello di incrementare i propri profitti e rappresentando il problema in funzione dei profitti differenziali rispetto alla condizione di partenza (quella di un piccolo operatore locale), la situazione decisionale può essere modellizzata mediante i payoff riportati nella Tabella 9.1. Il payoff esprime una valutazione quantitativa della soddisfazione del decisore per ciascun esito possibile del processo decisionale, incrociando le scelte del decisore con quelle della controparte. Il payoff può essere una misura diretta delle grandezze associate alla soddisfazione del decisore – ad esempio, un valore monetario che esprime il profitto, il margine o il valore presente netto – oppure una misura indiretta, ad esempio, un punteggio associato alla soddisfazione del de-

Non opporsi

Opporsi

Non entrare

0

0

Entrare

2

–4

9. Le decisioni interattive ) 277

cisore che consente comunque di ordinare i possibili esiti. Nel caso Ryanair, l’interpretazione dei payoff può essere la seguente. Se Ryanair decidesse di non entrare, l’impresa continuerebbe ad avere i profitti attuali, quindi non vi sarebbe nessun profitto differenziale, indipendentemente dall’azione dei concorrenti. Se invece decidesse di entrare, il comportamento dei concorrenti sarebbe rilevante, in quanto, a fronte di una non opposizione all’ingresso, Ryanair potrebbe fare profitti grazie ai clienti che sono interessati al prezzo contenuto dei suoi servizi; se invece i concorrenti decidessero di opporsi, questo causerebbe a Ryanair una perdita molto forte, poiché i prezzi dei biglietti sarebbero molto simili e pochi clienti passerebbero alla nuova compagnia. Ipotizzando il problema come affetto da incertezza ambientale, Ryanair potrebbe affrontarlo utilizzando criteri come quelli visti nel capitolo 8: se ad esempio avesse un’attitudine ottimista e dunque adottasse il criterio del MaxiMax deciderebbe di entrare (evidentemente sperando nella non reazione dei concorrenti), viceversa se fosse prudente e pessimista e dunque adottasse il MaxiMin, deciderebbe di non entrare (si veda il paragrafo 8.5). Mettiamoci ora nei panni dei concorrenti; in questa situazione, essi potrebbero modellizzare il problema considerando come variabile decisionale se opporsi o meno e come fattore esogeno l’ingresso o meno di Ryanair. La Tabella 9.2 sintetizza la situazione “vista” dai concorrenti. Qualora Ryanair non entrasse, i concorrenti potrebbero decidere di mantenere lo status-quo (quindi non opponendosi), mantenendo sostanzialmente inalterati i propri profitti. Al contrario, potrebbero invece scegliere di opporsi riducendo il prezzo così da cautelarsi da futuri ingressi di altri attori. In questo caso vedrebbero un drastico calo dei propri profitti, solo parzialmente compensato da un aumento delle vendite. Nel caso in cui, invece, Ryanair decidesse di entrare, la scelta di non opporsi da parte dei concorrenti comporterebbe una riduzione dei loro profitti, in quanto alcuni clienti preferirebbero spostarsi su linee a costo più contenuto. Tuttavia, Ryanair non sarebbe in grado, almeno nel breve termine, di sottrarre ai concorrenti tutti i clienti o quaI PAYOFF DEI CONCORRENTI A SECONDA DEL COMPORTAMENTO DI RYANAIR Concorrenti

Ryanair

Tabella 9.2

Non opporsi

Opporsi

Non entrare

0

–2

Entrare

–1

–3

278 ) PARTE II – PROCESSI

Analisi degli obiettivi

La tabella dei payoff

si; nel breve termine i profitti dei concorrenti si ridurrebbero ma non in modo drammatico, anche a fronte del prezzo elevato dei biglietti. La riduzione sarebbe comunque meno rilevante che non quella derivante da una strategia di opposizione preventiva. Se, infine, i concorrenti decidessero di opporsi all’effettivo ingresso di Ryanair, i loro profitti sarebbero drasticamente ridotti, sia per la riduzione del prezzo sia per il calo, comunque in parte inevitabile, della quota di mercato. Se i profitti dei concorrenti fossero quelli illustrati nella Tabella 9.2, osserviamo che per i concorrenti non opporsi è sempre alternativa preferibile indipendentemente dal comportamento di Ryanair. In altri termini, se Ryanair valutasse il probabile comportamento dei concorrenti nel modo in cui lo abbiamo appena valutato noi, arriverebbe alla conclusione che essi non hanno alcuna convenienza, almeno per come sono qui modellizzati i payoff, a opporsi al suo ingresso. La decisione di Ryanair non è più in condizioni d’incertezza e il comportamento dei concorrenti è ora prevedibile, sempre che le stime dei payoff siano corrette. In funzione della propria struttura decisionale, Ryanair può subito identificare l’alternativa migliore che, in questo caso, è quella di entrare nel mercato. L’esempio di Ryanair illustra come l’analisi degli obiettivi e delle possibili alternative a disposizione delle controparti possa essere particolarmente utile per identificare quale decisione intraprendere. I problemi decisionali come quello appena esemplificato si differenziano da quelli affrontati nel capitolo precedente principalmente per la natura dell’incertezza loro associata. Qui siamo in presenza di un’incertezza strategica. Essa riguarda la scelta che opererà una specifica controparte, e deve essere trattata in modo differente rispetto all’incertezza riguardante eventi esogeni, relativi al mondo circostante nel suo complesso. La situazione appena descritta può essere sintetizzata unendo il punto di vista della compagnia low cost (Tabella 9.1) con quello dei concorrenti (Tabella 9.2). La Tabella 9.3 mostra, per ogni possibile combinazione di decisioni dei due attori, i risultati per Ryanair (valore a sinistra all’interno di ogni cella) e per i concorrenti (valore a destra all’interno di ogni cella). Tale rappresentazione è definita tabella dei payoff e riporta, per Tabella 9.3

LA TABELLA DEI PAYOFF NEL CASO RYANAIR Concorrenti

Ryanair

Alternative dominanti

DECISIONALI

Non opporsi

Opporsi

Non entrare

0;0

0;–2

Entrare

2;–1

–4;–3

9. Le decisioni interattive ) 279

Le mosse altrui

9.2

ogni possibile soluzione, i payoff ottenuti dai due attori. In particolare, la convenzione adottata prevede che in ogni cella della tabella il primo valore si riferisca all’attore riportato sulle righe, mentre il secondo valore sia riferito all’attore riportato sulle colonne. La tabella dei payoff non è altro che la rappresentazione matriciale degli effetti delle alternative considerate per entrambi gli attori. Problemi decisionali come questi sono comunemente affrontati mediante la cosiddetta Teoria dei giochi; il riferimento è al fatto che alcuni esempi di immediata comprensione si riferiscono a veri giochi competitivi (come la dama, gli scacchi o altri ancora) nei quali le decisioni degli attori sono interpretabili come “mosse”. In realtà, la Teoria serve a interpretare un gran numero di situazioni reali (dalla politica, all’economia, alla gestione d’impresa) che poco hanno a che fare con lo svago di un gioco. Il termine Teoria dei giochi deriva dal lavoro di von Neumann e Morgenstern, The Theory of Games and Economic Behavior, pubblicato nel 1944, nel quale sono affrontati per la prima volta in modo strutturato i problemi decisionali multi-attore. Numerosi contributi si possono ritrovare in precedenza, anche se meno formalizzati, risalendo fino a Sun-Tzu con l’Arte della Guerra, scritto più di 2.500 anni fa. È tuttavia John Forbes Nash che, con la propria tesi di dottorato pubblicata nel 1950, riesce a dare una spinta fortissima alla teoria applicata nel campo dell’economia e delle scienze sociali, tanto da vincere nel 1994 il premio Nobel per l’economia insieme a Reinhard Selten e John C. Harsanyi.

Introduzione alla Teoria dei giochi La Teoria dei giochi può essere definita come la teoria dei comportamenti strategici in cui ogni attore, nel prendere le proprie decisioni, deve tenere conto di quali azioni decideranno di intraprendere gli altri attori che partecipano all’interazione. In altri termini, gli effetti delle decisioni di un attore dipendono dalle decisioni di altri attori; quindi, secondo le notazioni introdotte nel capitolo 8, per ogni attore i, il modello considerato è: – Ei = f(Di , D , A) – dove Ei sono gli esiti (o effetti) del problema considerato, D rappresenta il vettore delle decisioni di tutti gli attori coinvolti dal processo decisionale meno il decisore i, Di è la decisione dell’attore i e A è l’ambiente. Per poter affrontare un problema decisionale mediante la Teoria dei giochi è quindi necessario che siano presenti alcune condizioni.

Due soli decisori

1. L’insieme dei giocatori. Frequentemente si assume la presenza di due soli giocatori (attori decisionali) principalmente per semplificare la descrizione e applicazione delle teorie, ma anche perché generalizzare tali concetti al caso multi-attore non è particolarmente complesso dal punto di vista concettuale. In questa sede assumeremo sempre di avere due soli attori che interagiscono.

280 ) PARTE II – PROCESSI Due alternative

Effetti noti

DECISIONALI

2. L’insieme di alternative per ogni attore. Ogni attore ha un insieme finito e conosciuto di alternative tra cui è chiamato a scegliere. Nella maggior parte dei giochi che saranno trattati, le alternative saranno sempre due per ogni attore, tuttavia l’estensione a più alternative, ancora, non presenta particolari complessità concettuali. 3. La funzione degli effetti. Per ogni attore, la funzione traduce le diverse combinazioni di alternative in un risultato. Ogni giocatore conosce almeno la propria funzione: – Ei = f(Di , D , A).

Preferenze ordinate

Attori razionali

4. L’ordinamento di preferenze. È necessario fare assunzioni sulle preferenze che ogni giocatore detiene rispetto alle possibili soluzioni del gioco. Un aspetto chiave della Teoria dei giochi è che la razionalità di ogni giocatore sia tale da permettergli di attribuire un valore ben preciso alle diverse soluzioni. In questi termini non solo ogni giocatore è in grado di valutare i risultati di una combinazione di scelte, ma è anche in grado di definire quale soluzione preferisce. 5. L’insieme di informazioni. Ogni giocatore possiede informazioni sia sul problema decisionale affrontato sia sulle caratteristiche dell’ambiente. In questa sede saranno trascurati gli effetti dell’ambiente sul problema decisionale. Ogni giocatore, in base ai cinque elementi appena esposti, prende la decisione che mira a massimizzare i propri obiettivi. Da questa breve descrizione ci accorgiamo che tale logica è frequentemente adottata in numerose occasioni, anche per risolvere problemi di natura non economica o gestionale. Senza accorgercene, infatti, ogni giorno ci troviamo di fronte a problemi di questo tipo. Ad esempio, quando dobbiamo programmare la nostra partenza per le vacanze, teniamo in considerazione il fatto che anche altri 30 milioni di italiani stanno affrontando lo stesso problema. “Riuscirò a evitare il traffico partendo ad esempio alle 4 della mattina (la ‘partenza intelligente’) o mi troverò in tangenziale con altre migliaia di ‘decisori intelligenti’?” L’assunzione qui operata è che gli attori siano in grado di dire che cosa preferiscono. In particolare consideriamo che ogni attore sia caratterizzato da una funzione di utilità ui(x), secondo la quale se una soluzione a è preferibile ad una soluzione b, allora ui(a) . ui(b). Ogni attore è così in grado di dare una priorità alle possibili soluzioni di un gioco in termini di preferenza. Assumiamo poi che ogni attore conosca la propria funzione di utilità e che scelga sempre in base a essa. La Teoria dei giochi (almeno nelle sue formulazioni classiche) assume quindi che tutti i giocatori siano perfettamente razionali, ma anche che tale razionalità sia conoscenza comune, in altre parole tutti i giocatori sanno che tutti sono razionali, tutti sanno che tutti sanno che tutti sono razionali, e via dicendo. Questa considerazione è importante in quanto giustifica il ricorso alla Teoria dei giochi per prendere decisioni. Come visto nel caso Ryanair, infatti, considerare che cosa potrebbero fare i concorrenti in base alla loro utilità è ragionevole solo

9. Le decisioni interattive ) 281

Razionalità limitata

Soluzione del gioco

Ambiti applicativi disparati

9.3

se ne conosciamo (o possiamo almeno stimare) la loro funzione di utilità e se possiamo assumere che essi decidano in modo razionale, quindi massimizzando la propria utilità. In sostanza, se un attore può modellizzare il processo decisionale della controparte potrà determinare come questa sceglierà e quindi comportarsi di conseguenza. L’assunzione è solitamente alla base di molti studi in questo ambito e lo sarà sempre in questa sede. Tuttavia non è sempre valida in situazioni reali, in quanto, come già anticipato nei capitoli precedenti, spesso la scelta è presa in condizioni di razionalità limitata. D’ora in poi considereremo che tutti gli attori conoscano la matrice dei payoff in tutte le sue parti. La tabella dei payoff è quindi lo strumento per la descrizione sintetica delle funzioni di utilità degli attori considerati. L’obiettivo è ora, mettendoci nei panni di uno o più dei decisori, capire quale azione ogni attore sarà portato a compiere. Nel caso Ryanair, che cosa dovrebbe fare ora l’impresa, che cosa ci aspettiamo quindi che accadrà tra Ryanair e i suoi concorrenti? In altri termini, ci stiamo chiedendo quale sia l’esito del processo decisionale degli attori, ovvero ciò che frequentemente è indicato come la “soluzione di un gioco”. Per “soluzione di un gioco” intendiamo l’esito dell’interazione tra i due attori definito dalla combinazione delle alternative che i singoli attori decidono di intraprendere. La Teoria dei giochi è stata applicata in numerose situazioni decisionali. Il successo dei lavori di von Neumann, Morgenstern e Nash è dovuto anche all’amplissima applicazione in ambiti disparati come la gestione dei contratti, l’analisi degli equilibri di mercato, le politiche antitrust, le relazioni di fornitura, le dinamiche concorrenziali, ecc. Per comprendere come sfruttare appieno tale modellizzazione e per poter prevedere il comportamento degli attori di un processo decisionale è però necessario introdurre alcuni concetti e definizioni: le alternative dominanti, l’efficienza di Pareto e l’equilibrio di Nash.

Le alternative dominanti Riprendiamo in considerazione la situazione decisionale del caso Ryanair, descritta dalla Tabella 9.3. Abbiamo già osservato che la scelta dei concorrenti sarà sicuramente di Non opporsi all’ingresso di Ryanair in quanto i payoff a essa associati sono maggiori di quelli dell’alternativa di Opporsi, qualunque sia la decisione della controparte. Si dice perciò che Non opporsi è una alternativa dominante, mentre Opporsi risulta una alternativa dominata. In termini formali, detta ui (Di , Dj) la funzione di utilità dell’attore i, in corrispondenza della scelta Di dell’attore i e quella Dj dell’attore j, una alternativa è detta D·i dominante se: – ui (Di , Dj) ⭓ ui (Di , Dj) ᭙ Di ⫽ / D·i ᭙ Dj

282 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

e se vi è almeno un Dj per cui la relazione vale con segno di stretta maggioranza. In altre parole, possiamo affermare che: un’alternativa si dice dominante se procura al giocatore che la sceglie un payoff maggiore di ogni altra sua alternativa, qualunque sia la mossa scelta dall’avversario.

Il Caso 9.2 esemplifica una situazione reale di tale condizione.

CASO

9.2

Il caso Martelli La Martelli è la divisione italiana di una impresa multinazionale specializzata nel settore delle pompe industriali. L’impresa gestisce le proprie attività attraverso numerosi impianti produttivi in cui sono effettuate tutte le lavorazioni meccaniche necessarie per realizzare i numerosi modelli di pompe gestiti dall’impresa, a partire dai prodotti grezzi lavorati in fonderia. A fronte della complessità tecnica dei prodotti e delle specificità richieste dai diversi clienti, la struttura produttiva vede un elevato ricorso alla manodopera. Per tale ragione in numerose decisioni aziendali è sempre stato necessario coinvolgere le associazioni sindacali cui aderiscono i dipendenti. Dalla metà degli anni Novanta, l’impresa ha visto una costante riduzione della propria profittabilità, dovuta da una parte al forte calo dei volumi produttivi in seguito ai minori investimenti dei propri clienti, e dall’altra a una riduzione dei margini sui prodotti, a fronte della maggiore competizione da parte di altri concorrenti locali. Per tale ragione, l’impresa sta valutando la possibilità di chiudere uno dei 10 stabilimenti presenti in Italia, caratterizzato da essere quello meno automatizzato e dove risulta da sempre più complesso aumentare la produttività. Tale decisione implicherebbe l’impossibilità di reintegrare i dipendenti operanti nello stabilimento, con il conseguente licenziamento di circa 500 persone. Il management dell’impresa è propenso alla chiusura dell’impianto, tuttavia vi sono alcune remore che rallentano la decisione. L’impresa è conscia del fatto che gli effetti della decisione di chiudere lo stabilimento dipendono molto dal comportamento dei sindacati, che potrebbero influenzare agitazioni e proteste anche negli altri stabilimenti con pesanti conseguenze per la Martelli. L’impresa sta quindi considerando la possibilità di negoziare con il sindacato per trovare una soluzione di comune accordo. Dopo numerose discussioni tra i vertici aziendali e i rappresentanti dei sindacati, si è identificata la seguente possibilità: la Martelli si impegna a non chiudere lo stabilimento per almeno 5 anni, in cambio dell’impegno da parte del sindacato a non opporsi a una riduzione graduale del personale anche negli altri stabilimenti, ad appoggiare un incremento dei turni di lavoro e a moderare le rivendicazioni salariali. La Martelli valuta soddisfacente il potenziale accordo poiché consentirebbe di far fronte, almeno per qualche anno, alla difficile condizione di mercato. Tuttavia, non è completamente sicura che la scelta collaborativa sia la soluzione migliore. Anche se il sindacato accettasse l’accordo, potrebbe comunque decidere di non cooperare attivamente con la Martelli, ad esempio rinunciando a controllare le fazioni sindacali estremiste. Questo scenario è ritenuto possibile dalla Martelli, in quanto il sindacato, oltre a voler operare a vantaggio del personale dell’impresa, ha anche l’obiettivo di affermare la propria forza. Una condizione simile

9. Le decisioni interattive ) 283 riguarda però anche il sindacato, in quanto la Martelli, dopo aver facilmente incamerato i benefici della riduzione pacifica del personale, potrebbe comunque chiudere l’impianto, accampando nuove difficoltà e dichiarando l’impossibilità di far fronte agli accordi presi.

Nel caso Martelli (Caso 9.2), se entrambi gli attori decidessero di Non collaborare, l’azienda chiuderebbe l’impianto e il Sindacato promuoverebbe azioni ritorsive negli altri stabilimenti con impatti negativi per entrambi; l’azienda avrebbe problemi nella gestione degli altri stabilimenti, il Sindacato vedrebbe il licenziamento di molti suoi iscritti. Se invece entrambi decidessero di Collaborare, il Sindacato potrebbe dimostrare il proprio peso e la propria importanza, oltre che ridurre l’impatto sui propri iscritti, mentre la Martelli riuscirebbe in ogni caso a migliorare la produttività dell’impianto e potrebbe avvantaggiarsi di relazioni industriali più favorevoli negli altri stabilimenti. Questa soluzione sarebbe quindi preferibile per entrambi gli attori. Tuttavia, se a fronte della Collaborazione da parte di uno dei due, l’altro decidesse di Non collaborare (cioè di accettare l’accordo ma di non rispettarlo successivamente), questo genererebbe un payoff molto elevato per chi adotta un comportamento opportunista e molto basso per chi subisce il comportamento non collaborativo. Infatti, se a Non collaborare fosse il Sindacato, oltre a dimostrare il proprio peso sociale, potrebbe anche dimostrare ai gruppi sindacali più radicali di essere in grado di imporre le proprie decisioni, ottenendo quindi dei benefici in termini di visibilità. Allo stesso modo, se fosse la Martelli a Non collaborare, potrebbe approfittare dei vantaggi forniti dall’accordo liberandosi a ogni modo di un impianto in perdita. Coerentemente con tali osservazioni la situazione può essere modellizzata tramite la Tabella 9.4, dove le preferenze degli attori sono espresse con punteggi crescenti verso soluzioni preferibili.

LA TABELLA DEI PAYOFF NEL CASO MARTELLI Sindacato Collaborare

Non collaborare

Collaborare

3;3

–1; 4

Non collaborare

4;–1

0;0

Martelli

Tabella 9.4

284 ) PARTE II – PROCESSI

Alternativa dominante, gioco risolto!

9.4

DECISIONALI

Da questa tabella dei payoff possiamo subito osservare che Non collaborare risulta essere un’alternativa dominante per la Martelli, mentre Collaborare risulta essere un’alternativa dominata. La Martelli sceglierà quindi sempre di Non collaborare, come d’altro canto farà il Sindacato, in quanto il rischio connesso al comportamento opportunista della controparte è troppo elevato e disincentiva l’adozione di un comportamento in cui si rispetti l’accordo stipulato. È proprio la razionalità dei decisori che li sospinge sempre verso l’alternativa dominante, la quale talvolta può produrre risultati visibilmente insoddisfacenti per entrambi. Se quindi entrambi i giocatori hanno a disposizione un’alternativa dominante, la soluzione del gioco è semplice e immediata, e sarà data dalla combinazione delle due alternative dominanti. In realtà è sufficiente che un solo attore abbia un’alternativa dominante. Infatti, se l’attore i ha un’alternativa dominante, la sceglierà sicuramente; essendo la tabella dei payoff conosciuta ed essendo i decisori razionali, la controparte j sarà perfettamente in grado di prevedere il comportamento di i. Quindi, j confronterà i payoff ottenibili data la scelta della controparte e sceglierà l’alternativa che gli consente di ottenere il payoff maggiore. In questo modo la soluzione è univocamente determinata.

L’efficienza di Pareto Qualche anno fa il tema della Teoria dei giochi e la figura di John Nash sono tornati alla ribalta, anche negli ambiti non accademici e scientifici, grazie a una pellicola hollywoodiana dal titolo A Beautiful Mind. Il box seguente riassume una scena del film nel quale Russell Crowe interpreta il giovane Nash.

John Nash e gli amici al bar John Nash e quattro amici stanno discutendo come corteggiare 5 ragazze appena entrate nel bar. In particolare tra queste 5 ragazze, 4 sono identificate dai giovani come non particolarmente attraenti, mentre spicca la quinta, particolarmente avvenente. Gli amici di Nash, invocando i principi economici della competizione come mezzo per raggiungere la massima efficienza, stanno per correre a invitare la ragazza avvenente a ballare, segnalando la loro strenua intenzione di competere per raggiungere l’obiettivo. Nash interrompe il loro vociare esuberante osservando che la competizione non porta sempre alla soluzione migliore.

Per comprendere la situazione appena descritta consideriamo il gioco in una versione più semplice, ipotizzando che vi siano solo due attori decisionali e solo due ragazze, una avvenente e una meno attraente.

9. Le decisioni interattive ) 285

Tabella 9.5

LA TABELLA DEI PAYOFF NEL CASO DEI RAGAZZI AL BAR

Ragazzo 1

Ragazzo 2 Avvenente

Meno avvenente

Avvenente

0;0

u(a);u(b)

Meno avvenente

u(b);u(a)

0;0

I due ragazzi sanno che se entrambi corteggiano la stessa ragazza finiranno per mettersi i bastoni fra le ruote e, avendo in linea teorica le stesse probabilità di successo, nessuno dei due riuscirà a invitare la ragazza avvenente a ballare. Oltretutto, in questa situazione, la ragazza meno carina non accetterà mai di uscire con uno dei due, in quanto non vuole essere un ripiego e anche perché, ipotizzando che uscire con una ragazza sia preferibile che non uscire affatto, i due giovani si metteranno nuovamente i bastoni fra le ruote. La situazione descritta in precedenza può essere rappresentata mediante la Tabella 9.5. Le alternative dei due ragazzi sono di invitare la ragazza avvenente oppure quella meno avvenente. Qualora i due ragazzi dovessero decidere di invitare la stessa ragazza, nessuno dei due l’avrebbe vinta, mentre se decidessero di accordarsi per “dividersi” le ragazze, otterrebbero ovviamente payoff positivi. Possiamo quindi assumere che u(a) . u(b) . 0, ritenendo che ballare con la ragazza meno attraente sia comunque preferibile che restare senza dama. Ovviamente la soluzione migliore sarebbe che ogni ragazzo corteggiasse una ragazza diversa. Tale condizione non porta alla soluzione migliore in assoluto per ogni attore, in quanto uno dei due sarebbe costretto a ballare con la ragazza meno attraente, ma sarebbe una soluzione “collettivamente” efficiente. È questo il concetto di ottimo paretiano o efficienza nel senso di Pareto (dal nome del noto economista che mise a fuoco questi aspetti).

Un insieme di alternative (e quindi una soluzione) s è detto ottimo paretiano se non esiste un’altra combinazione s' tale per cui: ui (s') $ ui (s) per ogni i e valga almeno una disuguaglianza stretta.

286 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Figura 9.1

LE SOLUZIONI PARETO-EFFICIENTI DEL CASO RYANAIR Utilità concorrenti

(0;0)

– Eff.

• • (0;–2)

Utilità Ryanair

(2;–1) – Eff.

• (–4;–3)



In altri termini, una soluzione è ottima secondo Pareto se rispetto a essa non è possibile trovare un’altra soluzione che migliori il payoff a entrambi gli attori e quindi se l’unico modo per aumentare il payoff di un attore è diminuire quello dell’altro. Ad esempio, nel gioco della Tabella 9.5 le soluzioni asimmetriche (Avvenente-Meno avvenente o Meno avvenente-Avvenente) sono le sole soluzioni pareto-efficienti. Riprendiamo il caso della Ryanair (riportato in Tabella 9.3); applicando la definizione di soluzione pareto-efficiente osserviamo che Entrare-Opporsi (–4;–3)è sicuramente non efficiente, in quanto una qualunque delle altre tre soluzioni sarebbe migliorativa per entrambi gli attori. Possiamo inoltre osservare che Non entrare-Opporsi (0;–2) non è efficiente poichè esiste almeno una soluzione, la Entrare-Non opporsi (2,–1), che sarebbe migliorativa per entrambi gli attori. La soluzione Non entrare-Non opporsi (status quo, 0;0) è invece efficiente perchè non ne esistono altre che non siano peggiorative per almeno uno degli attori. Per lo stesso motivo, anche la soluzione Entrare-Non opporsi (2;–1) è efficiente. Un modo alternativo per visualizzare e comprendere le soluzioni Pareto-efficienti è il seguente. Riportiamo i payoff dei due attori per le quattro soluzioni possibili in un piano cartesiano, i cui assi siano rispettivamente l’utilità (payoff) di Ryanair e quella dei concorrenti (Figura 9.1). Una soluzione pareto-efficiente è caratterizzata da non contenere nel semipiano alto-destro alcuna altra soluzione del gioco. Come mostra la Figura 9.1, le soluzioni (0;0) e (2;–1) sono le uniche soluzioni efficienti, visto che (0;–2) e (–4;–3) contengono almeno una soluzione all’interno del loro semipiano alto-destro. In questo caso quindi la scelta di Entrare per Ryaniar e quella di Non opporsi da parte dei Concorrenti (prima identificata come “soluzione del gioco”) è una soluzione efficiente nel senso di Pareto.

9. Le decisioni interattive ) 287

Questo risultato permette di comprendere meglio il legame tra “soluzione del gioco” (che tra poco chiameremo soluzione di equilibrio) e soluzione efficiente. La soluzione effettiva di un gioco è data dal comportamento razionale che ogni individuo adotta, è il risultato della “razionalità individuale” di ogni attore. La “soluzione efficiente” è invece la soluzione collettivamente razionale, che migliora il risultato all’insieme degli attori e sarebbe preferibile in un’ottica di sistema. Come risulterà più chiaro nel seguito, non sempre l’ottimo paretiano, collettivamente razionale, lo è anche individualmente o, in altri termini, la razionalità individuale (che identifica le scelte degli attori e quindi la soluzione del gioco) non implica la razionalità collettiva.

9.5

L’equilibrio di Nash Riprendiamo l’esempio in Tabella 9.3. Possiamo osservare che le soluzioni possibili godono di differenti proprietà. Facilmente notiamo che Non entrare-Non opporsi non può essere una soluzione del gioco; infatti, in tale situazione, e assumendo data la scelta dei Concorrenti, Ryanair avrebbe convenienza a cambiare la propria scelta in quanto entrando otterrebbe un payoff maggiore (2 al posto di 0). La stessa situazione si ha per Entrare-Opporsi, dove i Concorrenti vorrebbero cambiare la propria scelta, poiché, fissata la scelta di ingresso di Ryanair, rinunciando a Opporsi subirebbero un danno minore (da –3 a –1). Anche per Ryanair, fissata la decisione dei Concorrenti di Opporsi, decidere di Non entrare sarebbe più saggio (da –4 a 0). Infine, anche la soluzione Non entrare-Opporsi non è stabile, poiché i Concorrenti, fissata la scelta di Ryanair di Non entrare, hanno interesse a modificare la loro decisione, rinunciando a Opporsi (passando da –2 a 0). Questa situazione però non si presenta nella quarta soluzione, Entrare-Non opporsi, nella quale nessuno dei due attori ha incentivo a cambiare la propria decisione, fissata la scelta dell’altro. Per entrambi infatti questo comporterebbe un peggioramento del payoff (da 2 a 0 per Ryanair e da –1 a –3 per i Concorrrenti). Da queste considerazioni si evince che la soluzione Entrare-Non opporsi (2;–1) è l'unica dotata di una certa stabilità intrinseca, nel senso che nessuno dei due attori trovandosi in questa soluzione ha incentivo a uscirne. Il concetto appena introdotto traduce la definizione di soluzione di equilibrio di Nash (o brevemente equilibrio di Nash). ˆ ,D ˆ Una soluzione s(D i j) è detta di equilibrio di Nash se: ˆ ,D ˆ ) . s(D , D ˆ ), ;D e se data Dˆ , s(D j

i

j

i

j

i

ˆ , s(D ˆ ,D ˆ ˆ data D i i j) . s(Di , Dj), ;Dj . In altri termini: Una soluzione è di equilibrio se, data questa soluzione, nessun attore preso singolarmente ha convenienza a cambiare la propria decisione.

288 ) PARTE II – PROCESSI

Benefici alternati

Razionalità individuale vs. razionalità collettiva

9.6

DECISIONALI

Gli equilibri di Nash sono quindi “punti di accumulazione” verso cui il gioco tende a convergere e quindi rappresentano possibili soluzioni del gioco. La nozione di equilibrio di Nash è utile quindi per individuare l’insieme, o gli insiemi, di alternative che formano configurazioni stabili del gioco e verso cui gli altri attori tendono a portarsi. Vi sono giochi senza equilibri. Si può tuttavia dimostrare che esiste sempre una soluzione di equilibrio se vi è la possibilità di adottare strategie miste, ovvero se gli attori possono non solo decidere di adottare un’alternativa oppure l’altra, ma di adottarle entrambe combinandole fra loro. Frequentemente le strategie miste sono collaborative e si basano sul fatto che gli attori si accordano per condividere i benefici in modo alternato. Il “gioco delle coppie” illustrato al paragrafo 9.8 è un esempio nel quale le parti possono utilmente accordarsi per una strategia mista. Tale situazione non è qui considerata, in quanto di particolare complessità1. Esiste una relazione tra soluzioni di equilibrio e soluzioni efficienti? Nel caso Ryanair, abbiamo identificato che la soluzione Entrare-Non opporsi è un equilibrio efficiente. Tuttavia, nel caso Martelli la soluzione Non collaborare-Non collaborare è l’unica soluzione di equilibrio, ma visibilmente è anche l’unica a non essere efficiente. Questi due esempi mostrano come efficienza ed equilibrio possano non coincidere (e spesso non coincidono nella realtà). Ciò è dovuto al fatto che una soluzione di equilibrio è il frutto delle razionalità individuale degli attori, mentre l’efficienza è legata alla razionalità collettiva. Come già osservato a proposito del caso Martelli, la razionalità individuale spesso spinge gli attori lontano dalla razionalità collettiva: queste due razionalità non sono sempre direttamente collegate. Questa situazione è particolarmente comune ed è universalmente nota come Dilemma del prigioniero.

Il Dilemma del prigioniero Il Dilemma del prigioniero è una delle situazioni decisionali classiche e più conosciute della Teoria dei giochi. Il problema è stato formulato nel 1950 da Dresher e Flood, tuttavia il nome con cui è conosciuto è dovuto a Tucker (1950). Consideriamo la seguente situazione decisionale. Due criminali sono stati colti in flagrante mentre tentavano di scippare un’anziana signora. Il commissario che li ha arrestati sospetta che i due aggressori siano anche coinvolti in un’estorsione, reato molto grave e punito con dieci anni di carcere; purtroppo le sue prove sono solo indiziarie e solamente una confessione potrebbe permettere di ottenere un verdetto di colpevolezza. Il commissario ha separato i due malviventi in stanze diverse e, prendendoli singolarmente, formula loro la seguente offerta.

1 Una trattazione estesa di questa tipologia di problemi decisionali può essere trovata in Colombo F., Introduzione alla Teoria dei Giochi, Carocci, Roma 2003.

9. Le decisioni interattive ) 289

Tabella 9.6

LA TABELLA DEI PAYOFF NEL DILEMMA DEL PRIGIONIERO (PAYOFF ESPRESSI IN NUMERO DI ANNI DI CARCERE)

Malvivente 1

Malvivente 2 Non confessare

Confessare

Non confessare

2;2

12;1

Confessare

1;12

11;11

Per il reato di scippo sarai sicuramente giudicato colpevole e sarai condannato a 2 anni di carcere. Io ritengo che il tuo compare sia colpevole anche di quest’altro grave reato, quindi ti propongo il seguente patto: se confessi il reato del tuo compare farò in modo che la pena per il reato di scippo ti sia ridotta di 1 anno.

I due malviventi affrontano un problema decisionale in cui devono scegliere tra due alternative: Confessare il reato del compagno o Non confessare. La tabella dei payoff è riportata in Tabella 9.6, dove essi sono espressi in termini di anni di carcere. Chiaramente in questa situazione l’utilità degli attori è inversamente proporzionale al numero di anni di carcere, quindi gli attori, che supponiamo razionali, cercheranno di minimizzare il payoff (e non di massimizzarlo come negli altri casi). In base alla tabella dei payoff osserviamo che se entrambi decidono di Non confessare (quindi se collaborano tra di loro) ottengono solo 2 anni di pena, in quanto vengono incriminati solo per lo scippo; se invece decidono di Confessare, entrambi vengono incarcerati per 11 anni (10 per il reato grave di cui il compare ha parlato e 1 perché, avendo tradito il compagno, hanno diritto alla riduzione della pena sul reato meno grave). Nelle altre situazioni abbiamo il caso in cui uno dei due tradisce il compagno, ma non viene tradito, perciò uno gode della riduzione della pena, mentre l’altro ottiene il massimo della pena possibile. Che cosa dovrebbero fare i due malviventi? Per semplicità riscriviamo la tabella dei payoff in termini di utilità, considerando che per entrambi gli attori sia preferibile dover scontare un minor numero di anni di carcere (Tabella 9.7) e riportandoci alla situazione canonica in cui l’obiettivo è massimizzare il payoff. Analizzando le alternative dominanti, osserviamo che Confessare è dominante per entrambi gli attori, in quanto essi ottengono sempre un numero di anni di carcere minore indipendentemente da quello che fa il compare. Per tale motivo i due soggetti, se si comportano in modo

290 ) PARTE II – PROCESSI

Tabella 9.7

DECISIONALI

EFFICIENZA ED EQUILIBRIO NEL DILEMMA DEL PRIGIONIERO (PAYOFF ESPRESSI IN TERMINI DI UTILITÀ) Malvivente 2 Non confessare

Eff.

Malvivente 1

Eff.

Accordi e collusioni

Non confessare

1;4

3;3 Eff.

Confessare

Confessare

Eq.

4;1

2;2

razionale, sceglieranno di Confessare finendo per dover scontare 11 anni di carcere a testa. Se ora osserviamo quali sono le soluzioni pareto-efficienti del gioco, possiamo notare che lo sono tutte tranne la soluzione appena identificata, che è invece una soluzione di equilibrio. Siamo in presenza quindi di un gioco finemente costruito dal commissario, in cui facendo leva sul comportamento razionale si ottiene esattamente che i malviventi adottino il comportamento meno efficiente per se stessi (ma più efficiente per la polizia). Non c’è quindi scappatoia per i due malviventi, così come nelle guerre di prezzo tra imprese? Istintivamente saremmo portati a pensare che in realtà se i due attori potessero accordarsi preferirebbero cooperare. Occorrerebbe però trovare il modo di mettersi d’accordo su quale decisione prendere anche se è necessario tenere presente la possibilità di comportamento opportunista da parte della controparte, che di fatto renderebbe l’accordo non conveniente. Per entrambi gli attori converrebbe spostarsi verso una qualunque delle altre soluzioni in quanto sono tutte pareto-efficienti. Tuttavia, la soluzione verso cui gli attori puntano è raggiunta tramite la loro razionalità individuale e nessuno ha convenienza a spostarsi da tale decisione. Si potrebbe osservare che se i due attori si mettessero tacitamente d’accordo potrebbero raggiungere una soluzione efficiente, tuttavia tale soluzione non è stabile perché entrambi avrebbero convenienza a cambiare alternativa. La soluzione non cooperativa, quindi, non dipende dalla scarsa fiducia che i due attori hanno dell’altro, ma è conseguenza diretta della loro razionalità. In questa situazione la fiducia da parte di un attore non è razionalmente credibile, poiché vi sarebbe sempre l’interesse ad adottare un comportamento opportunistico, qualora uno dei due tentasse di cooperare. Il risultato appena mostrato è però controintuitivo se pensiamo che in numerose occasioni le imprese effettivamente cooperano, anche se la decisione sembra configurarsi come un Dilemma del prigioniero.

9. Le decisioni interattive ) 291

Questo comportamento non è da imputare tanto alla scarsa razionalità dei decisori, quanto a fattori (o attori) esterni che possono influenzare la struttura del gioco, modificando la convenienza delle alternative per i singoli decisori. Si dimostra che, sotto alcune opportune ipotesi, è possibile arrivare a una soluzione di cooperazione, in particolare se valgono le ipotesi del cosiddetto Teorema popolare (dall’inglese Folk’s theorem2). Giochi ripetuti

Sanzioni

Contratti

Giudici

1. Innanzitutto il gioco deve poter essere ripetuto. Se non esiste questa possibilità, conviene sempre adottare un comportamento opportunistico. Ammettendo la possibilità di iterare più volte il gioco, gli attori cominceranno a valutare che il payoff di loro interesse non è quello relativo alle singole interazioni (coppia di mosse, una per ciascuna parte), ma che devono prendere in considerazione l’insieme dei payoff dato dalle transazioni ripetute, ben sapendo che se adottano condotte opportunistiche la cooperazione sarà immediatamente sospesa dalla controparte. I decisori sono quindi portati a vedere il gioco non come una decisione unica, ma come l’integrale di una serie di interazioni ripetute in cui il payoff considerato al fine della decisione è dato dall’insieme di tutti i payoff ottenuti dalle diverse giocate. 2. Deve essere possibile sanzionare i comportamenti opportunistici. Chi “fa il furbo” deve poter essere in qualche modo punito. Innanzitutto, sanzioni possono essere attribuite direttamente ai comportamenti opportunistici: in tale condizione diventano particolarmente importanti gli accordi contrattuali tra le parti proprio per disincentivare comportamenti indesiderati. Se, ad esempio, è possibile stilare un contratto per sanzionare la situazione di comportamento opportunista, questo riduce il payoff degli attori disincentivando tale comportamento. È quindi importante la possibilità di poter applicare effettivamente ed efficacemente la sanzione prevista, oltre a essere in grado, in fase di stesura del contratto, di identificare tutte le possibili situazioni di opportunismo, quindi di poter stilare contratti che tutelino la controparte in tutte le possibili situazioni. Giocano quindi un ruolo chiave i “giudici” che vigilano, sopra le parti, sul corretto svolgimento dei giochi e che rendono credibile la minaccia di sanzioni. Si pensi, ad esempio, al ruolo delle istituzioni preposte alla vigilanza sul corretto funzionamento dei mercati finanziari (la Banca Centrale, la Consob, l’Autorità Antitrust ecc.). Un altro tipo di sanzione consiste nell’esclusione dal gioco a opera della comunità dei giocatori. Ad esempio, se è possibile segnalare a tutti i potenziali giocatori che un soggetto ha adottato un comportamento opportunista, in futuro nessuno in una situazione simile sarà portato a fidarsi, escludendolo, di

2 Il nome deriva dal fatto che questo teorema era ritenuto valido ancora prima che ne fosse data una prova formale. Esistono numerosi Folk theorem a seconda delle condizioni in cui è posto il problema decisionale. Per approfondimenti a riguardo ci riferiamo a Drew Fudenberg e Jean Tirole, Game Theory, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1991.

292 ) PARTE II – PROCESSI Reputazione ed esclusione dal gioco

CASO

DECISIONALI

fatto, dal poter partecipare a giochi cooperativi. Nei mercati finanziari la “reputazione” di giocatori non opportunisti è un elemento importante per poter operare e prendere parte a transazioni dove la fiducia della controparte è essenziale. Su questo principio si fonda ad esempio il meccanismo di garanzia delle transazioni alla base del funzionamento di eBay, descritto nel Caso 9.3.

9.3

eBay e la garanzia delle transazioni eBay è un portale Internet nato nel 1995 con l’obiettivo di favorire l’incontro tra domanda e offerta da parte di consumatori relativamente a beni di differente natura. Tramite la piattaforma di eBay, utenti in tutto il mondo possono vendere e acquistare beni che variano dai capi di abbigliamento ai fumetti, dalle bottiglie di vino alle automobili. Il sistema fornisce differenti strumenti a supporto dell'incontro tra domanda e offerta, passando dai semplici annunci fino alla possibilità di creare dei veri e propri negozi elettronici. Uno strumento molto adottato è quello delle aste elettroniche, mediante le quali un utente (dopo essersi registrato) può mettere in vendita un bene per il quale si tiene un’asta cui ogni utente registrato può partecipare. Una volta che l’asta ha termine, il compratore che si è aggiudicato l’asta e il venditore provvedono alla transazione e all’alienazione del bene. In questo sistema gioca un ruolo chiave l’affidabilità delle transazioni, non soltanto dal punto di vista finanziario quanto in merito alla garanzia per chi vende di ricevere effettivamente i soldi per il bene messo all’asta e per chi compra di vedersi effettivamente consegnato il bene per cui ha effettuato il pagamento. Gioca apparentemente un ruolo importante la fiducia verso la controparte che, però, non può essere creata prima di effettuare una transazione; oltretutto, risulta difficile stilare contratti che tutelino le controparti da tutti i possibili comportamenti opportunistici in merito ai prodotti scambiati e, soprattutto, eBay non si prende carico di presidiare e garantire tali aspetti a fronte del costo elevato che avrebbe gestire milioni di transazioni all’anno soprattutto rispetto al ridotto valore delle stesse. In questi termini, eBay non funge da giudice unico, bensì prevede che ogni utente, dopo un acquisto o una vendita, possa rendere pubblica un’opinione sulla transazione e sulla controparte. È in particolare possibile fornire una semplice valutazione puntuale (Positivo, Neutro o Negativo) e corredarla di una breve descrizione testuale. In questo modo ogni utente può visualizzare prima di partecipare ad un’asta il “punteggio” del venditore e può anche prendere visione dei rating di ogni singolo utente che ha avuto transazioni con tale soggetto per verificare che si tratti effettivamente di una valutazione reale. Questo meccanismo comporta che utenti non affidabili a cui sono attribuite valutazioni negative sono gradualmente “eliminati” dalle transazioni: pochi si fidano di soggetti che hanno avuto poche transazioni e con esiti negativi nel passato. Per tale ragione chi si comporta in modo opportunistico (non paga un bene acquistato, vende un prodotto non funzionante o non conforme a quanto pubblicato sull’asta ecc.) è sanzionato: non gli viene permesso, di fatto, di “giocare” ulteriormente in tale mercato.

Il valore del futuro

3. Il futuro deve avere valore per entrambi gli attori. La ripetizione del gioco deve essere “interessante” per tutte e due le parti, quindi il payoff ottenuto con un unico comportamento opportunista

9. Le decisioni interattive ) 293

deve essere minore rispetto alla somma dei payoff attualizzati dati dalle continue interazioni. Nel caso della Martelli, ad esempio, il payoff per chi si comporta in modo opportunistico è 4 (si veda la Tabella 9.4). Se ipotizziamo di iterare il gioco (in base alla prima ipotesi) e di sanzionare – ad esempio escludendolo da iterazioni future – il soggetto opportunista, il decisore confronta una situazione opportunistica in cui oggi riceve 4 e poi nulla più, con una in cui a ogni interazione ottiene 3. Il valore di quest’ultima situazione dovrà ovviamente tenere conto di un’eventuale attualizzazione dei payoff, in quanto le diverse interazioni si terranno in momenti differenti. Detto k il tasso di attualizzazione dei payoff, il comportamento cooperativo risulta quindi preferibile fintantoché: 3

4,3+

(1+

3 (1 + k)2

+ ...

Questa condizione è verificata in presenza di tassi di attualizzazione contenuti, ovvero quando ogni attore attribuisce un valore rilevante ai payoff futuri. Sotto queste ipotesi il Dilemma del prigioniero può portare a una soluzione cooperativa. Si presti attenzione al fatto che tale condizione non è in contrasto con il principio di razionalità dei decisori, in quanto ciò che cambia è proprio la matrice dei payoff su cui i decisori ragionano. Ad esempio, nel caso della Martelli, ipotizzando che il gioco sia ripetuto n volte e trascurando per semplicità l’attualizzazione, i giocatori analizzerebbero la decisione secondo la tabella dei payoff esposta in Tabella 9.8. In diverse situazioni, tuttavia, le ipotesi del Folk theorem non sono verificate, come esemplificato nel Caso 9.4.

Tabella 9.8

LA TABELLA DEI PAYOFF DEL GIOCO ITERATO NEL CASO MARTELLI Sindacato Collaborare

Non collaborare

Collaborare

3n;3n

–1; 4

Non collaborare

4;–1

0;0

Martelli

Ipotesi non sempre verificate

+

k)1

294 ) PARTE II – PROCESSI

CASO

DECISIONALI

9.4

Dell e HP: le guerre di prezzo nel mercato dei personal computer Nel settembre del 2001 Hewlett-Packard acquisì Compaq per circa 25 miliardi di dollari in azioni HP. Durante la discussione tra i manager delle due imprese in merito alla fusione, si era stimata la possibilità di risparmiare circa 2,5 miliardi di dollari di costi all’anno grazie alla fusione. Tale riduzione, confrontata con le vendite aggregate delle due imprese, pari a circa 87 miliardi di dollari, rappresentava un aumento di profittabilità di circa il 3%. Questa attenzione all’aumento della produttività aveva una causa ben precisa: Dell Computer. Negli ultimi anni Dell aveva creato un vantaggio competitivo fortissimo grazie alla sua elevata efficienza. Nel febbraio del 2001, Dell aveva lanciato una aggressiva campagna con l’esplicito obiettivo di diventare leader nel settore dei personal computer. La campagna era iniziata con una riduzione dei prezzi fino a un livello del 10% inferiore a quelli dei concorrenti. Tale riduzione, volta ad acquisire velocemente quote di mercato, insieme alla leadership di costo di cui Dell disponeva, rappresentava anche un segnale per i concorrenti: se altri avessero provato a ridurre il prezzo si sarebbero trovati a combattere una guerra molto dura da vincere. Nell’aprile del 2001 Dell divenne il maggiore produttore di PC al mondo, superando le quote di Compaq. In maggio sia HP sia Compaq risposero a Dell riducendo i propri prezzi.

La situazione decisionale descritta è riconducibile al Dilemma del prigioniero; infatti, per Dell abbassare il prezzo è strategia dominante, a fronte dell’elevato impatto sulla quota di mercato, come lo è anche per HP-Compaq. Quindi entrambi gli attori adotteranno politiche di prezzo aggressive a discapito dell’avversario, quando sarebbe plausibilmente più efficiente adottare un comportamento non aggressivo, accordandosi anche implicitamente per non tagliare i prezzi. Situazioni simili sono frequenti in numerosi settori: si pensi ad esempio alla guerra di prezzo tra Ford e General Motors nel mercato degli Sport Utility Vehicle (SUV). In questa situazione non è detto però che valga il Folk theorem, in quanto il comportamento opportunista può consentire di buttare fuori dal mercato il concorrente, azzerando il valore atteso delle future interazioni (che non ci saranno) e rendendo economicamente interessante il comportamento opportunista. Ovviamente il Dilemma del prigioniero è influenzato anche dalla presenza di altri fattori esterni che possono modificare la soluzione del gioco, ad esempio alterando i pay-off delle alternative o rendendo alcune soluzioni non più percorribili. Il Caso 9.5 illustra un caso in proposito. CASO

9.5

Il settore del tabacco: politiche governative e comportamenti collusivi negli USA Negli Stati Uniti, fino a metà degli anni Sessanta le società produttrici di tabacco investivano enormi quantità di denaro in pubblicità televisive per i propri prodotti. Verso la metà di quel

9. Le decisioni interattive ) 295 decennio, il Ministero della salute pubblica cominciò a segnalare il fumo come potenziale causa di danni alla salute; questo fece temere alle società produttrici di tabacco azioni legali con richieste di risarcimento danni. Nel 1970 le imprese arrivarono a un accordo collettivo con il governo federale: si impegnarono a eliminare le campagne promozionali in televisione e a indicare sui pacchetti di sigarette un avviso sui rischi per la salute, in cambio dell’immunità dalle procedure federali. Dopo tale accordo gli investimenti in pubblicità diminuirono di circa 63 milioni di dollari, mentre i profitti aumentarono di 91 milioni di dollari.

Anche la situazione affrontata dalle imprese del tabacco prima dell’accordo del 1970 può essere ricondotta a un Dilemma del prigioniero. Gli attori possono scegliere se fare pubblicità o meno ottenendo sicuramente payoff maggiori in caso di strategie non simmetriche e payoff bassi in presenza di contemporanee politiche di investimento pubblicitario. Questa circostanza è comune anche ad altri settori, come ad esempio quello dei detersivi, in cui nessuno dei produttori ha convenienza a diminuire l’investimento in campagne pubblicitarie, poiché la propria quota di mercato ne soffrirebbe a vantaggio della concorrenza. Unilateralmente, la situazione illustrata nel Caso 9.5 può essere schematizzata come in Tabella 9.9, dove si confrontano le strategie di due concorrenti. Possiamo osservare che fare pubblicità è alternativa dominante. Tuttavia, dopo l’accordo con il governo federale, pubblicizzare è diventata una strategia non più perseguibile. L’unica alternativa percorribile (non pubblicizzare) è quella collettivamente preferibile. Tutto ciò ha portato a una crescita significativa dei profitti per le imprese, poiché la diminuzione dei consumi, peraltro modesta, è stata più che compensata dal taglio degli investimenti pubblicitari. LA TABELLA DEI PAYOFF NEL CASO DELLE IMPRESE PRODUTTRICI DI TABACCO (PAYOFF ESPRESSI IN TERMINI DI UTILITÀ) Compagnia 2 Non Pubblicizzare pubblicizzare

Compagnia 1

Tabella 9.9

Non pubblicizzare

3;3

1;4

Pubblicizzare

4;1

2;2

296 ) PARTE II – PROCESSI L’opportunismo interrompe il gioco

Fattori condizionanti

DECISIONALI

Riprendendo la Tabella 9.8, osserviamo che le condizioni del Folk’s theorem rendono Non collaborare un’alternativa non più dominante. Quale diviene allora la soluzione del gioco? Ora il gioco considerato presenta due soluzioni di equilibrio (Collaborare-Collaborare e Non collaborare-Non collaborare); di queste solo una è efficiente (Collaborare-Collaborare). A priori tuttavia non possiamo dire quale delle due sarà la soluzione del gioco. Infatti il Folk theorem rende la soluzione collaborativa possibile ma non unica né tantomeno necessaria; affinché tale soluzione possa effettivamente realizzarsi (con beneficio per entrambi gli attori essendo anche soluzione efficiente) è necessario che il cambiamento sia congiunto e coordinato. I temi fin qui affrontati costituiscono un utile insieme di strumenti per analizzare situazioni decisionali abbastanza semplici. Sono però frequenti situazioni di maggiore complessità, in cui diversi fattori di contesto giocano un ruolo importante nel determinare la soluzione effettiva di un gioco. Non è possibile qui prendere in esame tutti questi elementi. L’attenzione è rivolta ai due più importanti: • il fatto che i decisori hanno frequentemente molteplici obiettivi che intendono raggiungere (e non uno solo) (si vedano in proposito i capitoli 7 e 8); • il fattore tempo, con riferimento al momento in cui un attore opera la propria scelta. In alcuni casi il vantaggio fondamentale è quello di poter osservare la mossa della controparte e quindi decidere per ultimi. In altri, al contrario, è avvantaggiato chi decide per primo.

9.7

Secondi fini

La pluralità degli obiettivi Consideriamo la seguente situazione decisionale. Un padre si rivolge ai suoi due figli, singolarmente e separatamente, proponendo loro il seguente accordo: egli si impegna a dare a ciascun figlio 1 euro se questi acconsente che il fratello riceva 3 euro. Ipotizzando che entrambi i figli abbiano come solo obiettivo la massimizzazione del proprio guadagno, la matrice dei payoff è quella riportata in Tabella 9.10. Dalla tabella dei payoff si osserva che Accettare (A) è alternativa dominante per entrambi e quindi A-A è la soluzione di equilibrio del gioco oltre a essere l’unica soluzione efficiente. Applicando quanto visto finora a questo gioco, i due fratelli dovrebbero cooperare a fronte della proposta del padre. Chiunque abbia fratelli o sorelle sa che non sempre le cose vanno così e uno o entrambi i fratelli rifiutano l’accordo. Si pensi ad esempio alle liti per questioni ereditarie. Perché la soluzione apparentemente efficiente, e anche di equilibrio, non viene raggiunta? La ragione è semplice: non sempre l’obiettivo dei decisori è quello che sembra a prima vista, o quantomeno non è l’unico. La struttura degli obiettivi è talvolta più articolata e, ad esempio, non considera solo il guadagno individuale, ma è il frutto

9. Le decisioni interattive ) 297

Tabella 9.10 TABELLA DEI PAYOFF DEL GIOCO TRA I DUE FIGLI (PAYOFF ESPRESSO IN TERMINI DI PROFITTO OTTENUTO) Figlio 2 Non accettare

Accettare

4e;4e

1e;3e

Non accettare

3e;1e

0e;0e

Figlio 1

Accettare

Teoria dell’equità

di spinte motivazionali che sono riconducibili alla Teoria dell’equità (si veda in proposito il capitolo 3). Il decisore può così essere sensibile non solo al guadagno assoluto che può realizzare, ma anche a quello differenziale rispetto alla controparte. “Non è giusto che mio fratello abbia più di me” è il pensiero frequente di chi crede di aver meritato o di avere diritti in eguale misura. Una variante di questa situazione si presenta quando un attore pensa di avere meritato più della controparte e dunque di avere diritto a un payoff migliore e percepisce come iniquo un trattamento paritario. La situazione è così connaturata nell’animo umano da essere oggetto di una celebre parabola evangelica: Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto ho dato a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi. Mt. 20, 8-14

Torniamo al gioco del padre con due figli. È possibile, anzi probabile, che sulla base delle considerazioni appena fatte ogni figlio miri non solo a massimizzare il proprio profitto, ma anche a evitare che ci siano differenze negative rispetto a quanto riceve il fratello, o, addirittura, che ci siano differenze positive. In altri termini, i due figli scelgono considerando anche la realizzazione relativa della propria scelta, ovvero i payoff differenziali rispet-

298 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Tabella 9.11 TABELLA DEI PAYOFF DEL GIOCO TRA I DUE FIGLI (PAYOFF ESPRESSO IN TERMINI DI PROFITTO DIFFERENZIALE RISPETTO AL FRATELLO) Figlio 2 Non accettare

Accettare

0e;0e

–2e;2e

Non accettare

2e;–2e

0e;0e

Figlio 1

Accettare

Tabella 9.12 TABELLA DEI PAYOFF DEL GIOCO TRA I DUE FIGLI (PAYOFF COMBINATO: PROFITTO OTTENUTO + PROFITTO DIFFERENZIALE) Figlio 2 Accettare

Non accettare

Accettare

4e;4e

–1e;5e

Non accettare

5e;–1e

0e;0e

Figlio 1

Avidità e invidia

to alla controparte per ciascun esito possibile del gioco, riportati in Tabella 9.11. Se entrambi Accettano o Non accettano la proposta paterna, i payoff differenziali sono nulli in quanto entrambi incassano la stessa somma. Viceversa nelle soluzioni asimmetriche, in cui uno Accetta e l’altro no, i payoff differenziali sono positivi (+2) per chi Non accetta e negativi (–2) per chi Accetta (Tabella 9.12). Ipotizziamo ora che i due fratelli siano mossi in realtà da entrambi gli obiettivi e in ugual misura: sono cioè parimenti sensibili ai payoff assoluti e a quelli differenziali (utilizzando termini un po’ forti potremmo dire che sono tanto avidi quanto invidiosi). Il payoff totale sarà dato dalla somma dei due valori e pertanto la matrice che realmente rappresenta gli obiettivi dei decisori non è né la 9.10 né la 9.11, bensì quella ottenuta sommando i valori delle due e rappresentata nella Tabella 9.12.

9. Le decisioni interattive ) 299

Si può facilmente riconoscere in questo gioco il Dilemma del prigioniero: Non accettare è soluzione dominante per entrambi gli attori e porta all’unica soluzione di equilibrio che è anche l’unica soluzione non efficiente del gioco. Ecco perché i due fratelli possono Non accettare la proposta paterna e trovarsi intrappolati nella soluzione di equilibrio, ma inefficiente, del Dilemma del prigioniero. È sufficiente che oltre che avidi siano anche invidiosi! Non a caso questa struttura di gioco prende il nome di Gioco del dispetto, proprio perché l’obiettivo naturalmente competitivo porta i due attori a comportarsi al fine di “fare un dispetto” all’altro. Per quanto l’esempio sia semplicistico e sembri valido solo in presenza di decisori “stupidi”, secondo la celebre tipologia di Cipolla3, in realtà è possibile identificare numerosi esempi di processi decisionali di questo tipo, come esemplificato nel Caso 9.1b. CASO

9.1b

Caso Ryanair: cosa è successo in realtà Riprendiamo il caso Ryanair (Caso 9.1a). Apparentemente sembra che l’unica scelta razionale per i Concorrenti fosse di non opporsi, tuttavia, quello che accadde in realtà fu ben diverso da quanto previsto. Ancor prima che Ryanair potesse cominciare il proprio servizio, nel maggio 1986 i Concorrenti ridussero il prezzo a meno di 130 ?, inferiore ai 140 ? proposti da Ryanair. Non appena Ryanair modificò il prezzo a 130 ? i Concorrenti ridussero nuovamente il loro. All’inizio del 1989 era possibile trovare biglietti per 100 ?. Questa guerra di prezzi fu drammatica per Ryanair la quale, benché stesse osservando un aumento costante del numero di voli e di passeggeri, vide risultati economici in forte perdita per gli anni a seguire. La situazione reale sembra essere molto differente da quella modellizzata. Infatti, nella prima modellizzazione si è operata un’assunzione semplicistica ritenendo che i Concorrenti decidessero soltanto in base al profitto ottenuto. Infatti la struttura degli obiettivi è molto più complessa e comprende obiettivi di lungo termine oltre che di natura diversa, in particolare i Concorrenti hanno il chiaro obiettivo di “strangolare” Ryanair per evitare non solo il suo ingresso nel settore, ma anche per disincentivare altre imprese dal seguirne le orme in futuro.

Questo esempio mostra come la soluzione di un gioco dipenda da come sono definiti i payoff e quindi gli obiettivi del processo decisionale. In molti giochi i decisori sembrano comportarsi in modo stupido (secondo Cipolla). In realtà, hanno obiettivi più complessi o anche del tutto diversi da quelli ipotizzati a prima vista. Nel cercare di prevedere l’esito di un gioco è dunque particolarmente importante valutare correttamente gli obiettivi della controparte, considerandoli tutti, anche quelli nascosti, nella funzione di utilità.

3 Carlo Cipolla, nel suo saggio “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, contenuto nel libro Allegro ma non troppo, definisce una persona stupida come “una persona che causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo un danno”. Cfr. Cipolla 1988.

300 ) PARTE II – PROCESSI

Obiettivo primario e secondario

Decidere per primi o per ultimi? Il valore dell’informazione e della comunicazione Consideriamo ora il seguente gioco. Due ragazzi giovani stanno correndo in macchina ad alta velocità lungo la stessa strada, ma in senso opposto. A un certo punto, i due ragazzi si incrociano in prossimità di uno stretto ponte lungo il quale può passare solo una delle due automobili. Nessuno dei due vuole lasciare il passo all’altro, ma entrambi sanno che se nessuno dei due dovesse dare strada, questo porterebbe a un grave incidente con probabili esiti fatali. In questa situazione i due ragazzi perseguono implicitamente due obiettivi: da una parte vi è l’obiettivo primario della sopravvivenza, dall’altra l’obiettivo secondario è passare per primo senza cedere il passo, dimostrando la propria superiorità. La situazione appena descritta è solitamente indicata come il Gioco del pollo. Ogni attore ha due alternative: Sterzare oppure Non sterzare. Se uno andasse diritto e l’altro Sterzasse, il primo manterrebbe la sua reputazione di “duro”, mentre il secondo farebbe la “figura del pollo”. Se entrambi Sterzassero, riuscirebbero comunque a sopravvivere e nessuno dei due farebbe la figura del pollo, anche se dovrebbero rinunciare a dimostrare la propria superiorità. Se entrambi però decidono di mantenere la direzione, da una parte non sarebbero in grado di primeggiare sull’avversario, ma soprattutto metterebbero potenzialmente fine alle loro vite. Possiamo quindi rappresentare il gioco con la tabella dei payoff riportata in Tabella 9.13, dove i singoli valori si riferiscono all’ordine di preferenza dato dagli attori alle diverse soluzioni. Naturalmente il valore dei payoff potrebbe cambiare al variare della considerazione per la propria vita e della propensione al “bullismo” dei due attori. Tuttavia la struttura del gioco non cambierebbe: possiamo osservare che per entrambi gli attori non esistono alternative dominanti, vi sono tre soluzioni efficienti (tutte tranne la situazione

Tabella 9.13 TABELLA DEI PAYOFF DEL GIOCO TRA I DUE RAGAZZI (PAYOFF ESPRESSO IN TERMINI DI UTILITÀ) Ragazzo 2

Ragazzo 1

9.8

DECISIONALI

Sterzare

Non sterzare

Sterzare

3;3

2;4

Non sterzare

4;2

0;0

9. Le decisioni interattive ) 301

Tabella 9.14 TABELLA DEI PAYOFF DEL GIOCO TRA I DUE RAGAZZI (PAYOFF ESPRESSO IN TERMINI DI UTILITÀ) Ragazza Cinema

Teatro

Cinema

4;3

2;2

Teatro

1;1

3;4

Ragazzo

Osservabilità delle mosse

in cui i due si scontrano) e vi sono due soluzioni di equilibrio, relative alle situazioni in cui solo uno dei due attori cede. Osserviamo che nella risoluzione del Gioco del pollo un elemento chiave è la possibilità di osservare il comportamento della controparte e, in particolare, la sua decisione. Non a caso, se uno dei due ragazzi decide a un certo punto di Sterzare, solo in quel momento la sua scelta viene osservata dalla controparte che può reagire di conseguenza. In particolare il secondo ragazzo, vedendo che il suo avversario cede strada, decide sicuramente di mantenere la direzione, in quanto, data la scelta della controparte, ciò porta alla soluzione per lui preferibile. Tuttavia, fintantoché nessuno decide di Sterzare non è possibile per entrambi capire se la controparte ha deciso di Non sterzare o se non ha ancora preso la sua decisione. Il Gioco del pollo mostra quindi l’importanza di poter osservare tempestivamente le mosse altrui. Il fatto che una mossa altrui sia osservabile per tempo o meno può influenzare significativamente i comportamenti del decisore e dunque determinare una particolare soluzione del gioco. Chi riesce ad attendere il più possibile nel prendere una decisione è colui che può ottenere i maggiori vantaggi, in quanto può decidere in presenza di maggiori informazioni, nel nostro caso vedendo la scelta dell’avversario. Non sempre decidere per ultimi è un vantaggio (potendo osservare la mossa della controparte). Talvolta il vantaggio è decidere per primi! Un gioco diverso ci consente di comprendere il vantaggio di decidere per primi e il valore della comunicazione: il Gioco delle coppie. Consideriamo la seguente situazione: due fidanzati devono decidere come trascorrere la serata. Lui preferirebbe andare al cinema, mentre lei preferirebbe andare a teatro. Entrambi però pongono come priorità quella di stare assieme e, ovviamente, entrambi desidererebbero poter andare nel luogo preferito. In base a tali obiettivi la tabella dei payoff può essere sintetizzata come in Tabella 9.14.

302 ) PARTE II – PROCESSI Il vantaggio della prima mossa

Il valore della segnalazione

DECISIONALI

I payoff indicati rappresentano il fatto che se decidono di andare al cinema conseguono il primo obiettivo e il ragazzo riesce a fare ciò che preferisce, quindi sicuramente ha un payoff molto elevato, mentre la ragazza ha un payoff leggermente inferiore a causa dello svago meno preferito. Situazione simmetrica si ha se entrambi decidono di andare a teatro, mentre se decidono di separarsi i payoff conseguiti sono ovviamente inferiori, visto il fatto di doversi separare, soprattutto se paradossalmente il ragazzo decide di andare a teatro e la ragazza al cinema. Il gioco presenta due soluzioni di equilibrio (CinemaCinema e Teatro-Teatro) in cui i due attori stanno assieme. Tali soluzioni sono anche le sole efficienti. La struttura del Gioco delle coppie è simile a quella del Gioco del pollo, in quanto anche qui il fatto di segnalare la propria scelta influenza in modo decisivo la definizione della soluzione del gioco; tuttavia, a differenza del precedente gioco, in questa situazione il primo a scegliere è avvantaggiato. Infatti, se il ragazzo dovesse comunicare che la propria decisione è di andare al Cinema, la ragazza preferirebbe andare anche lei al Cinema per stare con il compagno. Una situazione analoga si verifica nel caso in cui sia la ragazza a fare la prima mossa. Il Gioco delle coppie illustra non solo l’importanza della prima mossa (vantaggio del first mover) ma anche il valore della segnalazione. Ipotizziamo, ad esempio, che i due fidanzati, volendo venire incontro al partner o magari temendo una sua reazione negativa, decidano una strategia di “accomodamento” senza comunicarla in modo esplicito: il ragazzo si dirige verso il teatro e la ragazza verso il cinema. L’esito sarebbe il peggiore possibile e nessuno raggiungerebbe gli obiettivi (payoff 1,1). Il Gioco delle coppie si presta anche alla realizzazione delle cosiddette strategie miste (paragrafo 9.5) illustrate in precedenza. Se la situazione si presenta con frequenza, i due fidanzati possono accordarsi per andare alternativamente al cinema e a teatro, massimizzando comunque l’integrale dei loro payoff. I due esempi di giochi appena illustrati mostrano come in alcuni casi possa essere complesso comprendere a priori quale attore otterrà il migliore risultato da un gioco. In particolare il Gioco del pollo evidenzia come la vittoria di un attore sull’altro è possibile solo se c’è la possibilità di comunicare efficacemente alla controparte la propria decisione. Stante il fatto che, nel Gioco del pollo, non è possibile identificare a priori un unico equilibrio (e dunque la soluzione del gioco), ciascun attore può mettere in campo strategie volte a forzare una soluzione a lui favorevole (e sfavorevole alla controparte). Vi sono quattro strategie tipo che possono essere adottate per risolvere il Gioco del Pollo a proprio favore o, comunque, per sbloccarlo. 1. Essere inflessibili. Nel Gioco del pollo la flessibilità è un punto di debolezza, infatti chi si adatta al comportamento della controparte perde il gioco. Un modo per forzare la controparte a spostarsi verso la soluzione per noi preferita è far comprendere che non esiste per noi modo di cambiare alternativa. Nel Gioco del pollo, per

9. Le decisioni interattive ) 303

come lo abbiamo descritto, possiamo immaginare che uno dei due conducenti blocchi i comandi dell’automobile e che renda quindi irreversibile (e nota) la propria scelta. La controparte percepisce che l’esito potenzialmente nefasto del gioco ora è interamente nelle sue mani, costringendola di fatto a decidere dovendo scontare la scelta dell’avversario. La credibilità diventa un punto molto importante. Essere conosciuti per agire con fermezza in situazioni di stallo può convincere altri a prendere seriamente una posizione dichiarata come inamovibile. 2. Fare leva sull’effetto annuncio. Abbiamo già indicato l’importanza in questi tipi di giochi della comunicazione della decisione. In alcuni casi l’annuncio di una decisione può generare degli effetti ancora prima che tale decisione sia messa in atto con i suoi effetti espressi nei payoff. Ad esempio, l’annuncio di agitazioni sindacali nel settore dei trasporti può produrre effetti devastanti sui clienti anche senza che poi l’astensione si verifichi realmente (e infatti è un comportamento che le norme sul diritto di sciopero cercano di prevenire). Anche nei mercati finanziari l’effetto-annuncio è fondamentale. L’annuncio (ufficiale o meno) che la Banca Centrale aumenterà o ridurrà il costo del denaro produce effetti immediati nel comportamento degli operatori e spesso, quando i provvedimenti delle autorità entrano in vigore, i mercati ne hanno già scontato l’effetto. In altri casi l’annuncio, prima ancora che sia seguito dall’azione, produce una dura reazione della controparte, come illustrato nel Caso 9.6. CASO

9.6

Le scorie nucleari a Scanzano Jonico Il 13 novembre 2003 il Governo annunciò di aver varato il decreto per la realizzazione di un deposito unico di scorie nucleari. Il decreto conteneva già l’indicazione del sito prescelto: Scanzano Jonico, in Basilicata. Nei giorni successivi montò la protesta della comunità locale amplificata dai media nazionali. Cortei, manifestazioni e serrate dei commercianti culminarono nel blocco della statale jonica, dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e della linea ferroviaria. L’amministrazione locale si schierò dalla parte dei manifestanti contro il Governo centrale. Nella seconda settimana, interi reparti delle forze dell’ordine in assetto antisommossa furono impiegati per garantire il ripristino della circolazione stradale e ferroviaria. Gli scontri furono evitati anche se la tensione continuò a crescere. Il 27 novembre 2003, sotto l’onda della pressione mediatica, dell’opposizione parlamentare e del rischio di spaccatura della stessa maggioranza, il Governo approvò emendamenti al decreto che cancellavano ogni riferimento a Scanzano Jonico come sito adatto alla costruzione del deposito.

3. Aumentare la posta in gioco. Un’altra strategia è quella di alzare la posta, a volte definita come la “politica del rischio calcolato”. Uno degli attori aumenta il rischio legato al gioco, portando entrambi più sulla “soglia del precipizio” e costringendo la controparte a desistere. Il Caso 9.7 illustra un esempio di questa situazione.

304 ) PARTE II – PROCESSI

CASO

DECISIONALI

9.7

Caso PSE&G: sulla soglia di un precipizio energetico Public Service Electric and Gas Company (PSE&G) è il principale fornitore di energia elettrica e gas dello stato del New Jersey. All’inizio del 2008, avanzò l’intenzione di espandere significativamente le linee di trasmissione di energia elettrica, con l’idea di finanziare almeno in parte il progetto attraverso aumenti delle bollette e imposte a carico dei contribuenti. Il progetto richiedeva il nullaosta dell’autorità competente, il New Jersey Board of Public Utilities, in particolare per la quota di finanziamento a carico dei contribuenti. Diversi osservatori e le associazioni dei consumatori avevano fin da subito evidenziato alcuni dubbi sulla reale necessità del progetto stesso. L’opinione pubblica prevalente si orientò subito negativamente, ritenendo non necessario l’investimento e non volendo sobbarcarsi l’onere finanziario relativo. Alla fine del 2008 la situazione era di completo stallo in quello che di fatto appariva come un Gioco del pollo: la parte che avesse ceduto avrebbe perso del denaro (nel caso di PSE&G gli investimenti sarebbero stati portati avanti senza i finanziamenti pubblici, nel caso del pubblico si sarebbero avute maggiori imposte e bollette più care). Senza uno sblocco della situazione PSE&G non era in grado di pianificare il futuro e nemmeno di portare avanti altri progetti collaterali di miglioramento della rete. A partire da gennaio 2009, la compagnia cominciò a diffondere notizie attraverso i media circa la possibilità che si verificassero blackout come quelli accaduti in California nel 20004. Lo scopo era quello di far percepire una minaccia aumentando il rischio connesso all’inazione, in particolare ai mancati investimenti di ampliamento della rete. PSE&G correva un rischio forte, poiché ammettere implicitamente di non essere in grado di gestire al meglio il proprio sistema non è mai una buona pubblicità. Normalmente un operatore elettrico fa il contrario e si sforza di tranquillizzare il pubblico sul fatto che ha le competenze e i mezzi per garantire il servizio. La strategia di PSE&G, tuttavia, comunicò il messaggio che senza il via libera agli investimenti, non avrebbe avuto la possibilità di controllare il problema, e quindi tutti (aziende e contribuenti) avrebbero potuto avvicinarsi all’orlo di un “precipizio energetico”. L’11 febbraio 20105, sotto la pressione dell’opinione pubblica che ora temeva seriamente i blackout, il New Jersey Board of Public Utilities concesse a PSE&G il nullaosta a iniziare il progetto di ampliamento della rete.

4. Evitare il gioco. In alcuni casi è possibile evitare il Gioco del Pollo semplicemente cercando di alterare in modo creativo il contesto della decisione. Ad esempio, quando le responsabilità sono condivise tra più attori si genera spesso un blocco decisionale riconducibile al Gioco del pollo: nessuno agisce, sobbarcandosi l’onere relativo, sperando che il problema sia preso in carico da qualcun altro. Si consideri l’esempio molto comune di un centro di servizi nel quale operano più addetti e dotato di una linea esterna sulla quale

4 Per un esempio è possibile consultare l’annuncio del 14 gennaio 2009 intitolato: “Caution: blackouts ahead” al seguente link: http://www.pseg.com/info/media/advertorial/pdf/2009/caution_ blackout_ahead.pdf 5 Rassegna stampa di comunicazione dell’approvazione del progetto http://www.pseg.com/family/ pseandg/powerline/pdf/srapprovalrelease.pdf

9. Le decisioni interattive ) 305

confluiscono le chiamate. Può essere il caso di un centro medico, di un centro di manutenzione, o anche di un ufficio della pubblica amministrazione. Specialmente nei momenti di picco del lavoro, gli addetti spesso sono riluttanti a rispondere a una telefonata. Non sanno a priori il motivo della chiamata: potrebbe essere una semplice richiesta di informazioni o un “caso difficile”, oneroso da gestire. Il comportamento tipico è quello di resistere a lungo mentre il telefono squilla, confidando nel fatto che qualcun altro risponderà. Il che si traduce spesso in “chiamate perse” con conseguente abbassamento del livello di servizio (clienti scontenti) e perdita di opportunità per tutti. La struttura della decisione è tipicamente quella di un Gioco del pollo. Chi cede per primo lo fa a beneficio di tutti (alto livello di servizio, nuova opportunità), pur pagandone un piccolo prezzo personale. Se nessuno cede, c’è un danno per tutti e sicuramente per il cliente dall’altra parte del filo. Un modo per evitare il blocco decisionale è ad esempio quello di introdurre una regola temporale: ogni operatore è responsabilizzato e deve rispondere in una determinata fascia oraria, magari a rotazione per distribuire equamente le fasce più onerose. In questo modo, alterando la situazione, si smonta il Gioco del Pollo. Giochi sequenziali e simultanei

Giochi iterati

Le considerazioni che abbiamo fatto in questo paragrafo di fatto si riferiscono a una particolare categoria di decisioni, quella dei giochi sequenziali, nei quali un attore può scegliere dopo aver osservato la mossa dell’altro. In particolare i giochi possono essere distinti in base al fatto che siano simultanei o meno e in base al fatto che possano o meno essere iterati. Un gioco è definito simultaneo se gli attori sono chiamati a dichiarare la propria scelta contemporaneamente senza avere alcuna indicazione relativamente alla scelta della controparte. Il Dilemma del prigioniero è un esempio di gioco simultaneo, in quanto i due malviventi sono costretti a prendere la loro decisione contemporaneamente o comunque senza poter conoscere in anticipo la scelta della controparte. Viceversa un gioco è definito sequenziale se l’interazione tra gli attori avviene in modo non simultaneo, ma come reazione da parte di un attore alla scelta della controparte. In una partita a scacchi il Bianco muove per primo e questo gli procura un certo vantaggio. Infatti all’inizio il Nero reagisce alle mosse del Bianco che, con l’apertura scelta, determina di fatto lo sviluppo iniziale della partita. Tuttavia, poiché il gioco prevede in media molte mosse, il vantaggio del Bianco può progressivamente svanire. A mano a mano che la partita procede, il Nero ha la possibilità di generare mosse impreviste che possono anche ribaltare la situazione, costringendo ora il Bianco a reagire alle mosse del Nero. In fondo, il fascino degli scacchi è tutto in questa possibilità! Il gioco delle coppie e del pollo sono sicuramente esempi di questo tipo di giochi. I giochi possono anche essere distinti in base alla possibilità di iterare le mosse nel tempo. La Tabella 9.15 riporta le possibili combinazioni di gioco esemplificando le diverse situazioni viste.

306 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Tabella 9.15 CLASSIFICAZIONE DI ALCUNI GIOCHI

Non iterato Iterato

Simultaneo

Sequenziale

Dilemma del prigioniero (caso base) Dilemma del prigioniero iterato

Gioco del pollo Gioco delle coppie

Il fatto che un gioco sia iterato o meno ha rilevanti implicazioni: come già visto, ad esempio, è una delle condizioni necessarie per poter applicare, dove il caso, il Folk theorem. Oltretutto, la possibilità di iterare il gioco consente di adottare strategie miste, in cui gli attori a ogni iterazione possono mutare la propria scelta generando una soluzione che dipende dalle diverse iterazioni. Ad esempio nel football americano il risultato di una partita è la somma dei risultati di diverse azioni in cui ogni volta le due squadre si affrontano decidendo di volta in volta un particolare schema di gioco in attacco e in difesa. La vittoria di una squadra o dell’altra dipende dal risultato di queste “giocate” secondo schemi decisi a ogni iterazione. Il fatto che un gioco sia simultaneo o sequenziale ha effetti importanti su come viene determinata la soluzione del gioco. Come esemplificato nel gioco del pollo e delle coppie, la possibilità di scegliere per primi fa sì che la controparte scelga conoscendo la decisione dell’avversario. In queste condizioni scegliere per primi può portare a un vantaggio (come nel caso del Gioco delle coppie) o a uno svantaggio (come accade nel Gioco del pollo). Ad esempio, nel caso della crisi dei missili sull’isola di Cuba (Caso 7.1), la soluzione che adottò il Governo Americano per uscire dalla crisi fu quella di imporre un blocco navale all’isola. Tale scelta costrinse l’Unione Sovietica a decidere se richiamare le navi dirette a Cuba o insistere innalzando la tensione, sapendo a quel punto che gli americani avevano deciso di reagire (la mossa americana era fatta).

9.9

Giochi simultanei e sequenziali

Conclusioni In questo capitolo abbiamo illustrato la modellizzazione e la risoluzione di problemi decisionali in cui giocano un ruolo chiave le azioni (e le reazioni) di altri attori. Questa tipologia di problemi decisionali è rappresentabile tramite la costruzione della Teoria dei giochi. Essa ci indica quando e come un gioco trova soluzione, ovvero sotto quali condizioni la razionalità individuale degli attori consente di determinare a priori quale sarà l’esito (la soluzione) del gioco per effetto della combinazione delle decisioni dei singoli. Abbiamo anche osservato come la soluzione di un particolare problema decisionale sia, però, fortemente influenzata da altri elementi. Tra questi ne abbiamo analizzati due, in particolare: la presenza di più obiettivi e il ruolo del tempo, che ci ha portato a distinguere i giochi sequen-

9. Le decisioni interattive ) 307

Figura 9.2

SCHEMA DI ANALISI DI UN GIOCO PER IDENTIFICARNE LE SOLUZIONI

Ricerca di alternative dominanti (AD)

Entrambi gli attori hanno una AD



La soluzione del gioco è data dall’incrocio delle AD. La soluzione è un equilibrio alla Nash



Tale attore sceglie AD, mentre la controparte sceglie l’alternativa che massimizza la propria utilità data l’AD dell’avversario. La soluzione del gioco è un equilibrio di Nash

NO

Un attore ha una AD

NO Ricerca delle soluzioni di equilibrio mediante definizione

Ci sono soluzioni di equilibrio

NO

La soluzione è unica



La soluzione trovata è la soluzione del gioco

NO

Occorre adottare criteri decisionali quali MaxiMax, MaxiMin ecc.

Identificare gli obiettivi



A priori non possiamo dire quale soluzione si affermerà. È possibile adottare criteri quali MaxiMax, MaxiMin ecc.

ziali da quelli simultanei. L’insieme delle considerazioni svolte ci consente di identificare, almeno per grandi linee, il processo attraverso il quale un gioco trova soluzione. Questo processo è schematizzato in Figura 9.2. Il punto di partenza è la corretta identificazione degli obiettivi degli attori, e dunque la stima dei payoff associati. Il Gioco del dispetto ci ha insegnato proprio questo: non sempre gli obiettivi sono quelli che sembrano e dunque il comportamento apparentemente irrazionale

308 ) PARTE II – PROCESSI

Verso gli equilibri

DECISIONALI

degli attori si spiega con payoff e soluzioni di equilibrio diverse da quelle inizialmente ipotizzate. Una volta determinata correttamente la struttura del gioco, siamo in grado di concludere che se almeno un attore ha un’alternativa dominante egli la sceglierà comunque e il gioco sarà risolto, in quanto l’altro attore o ha anch’egli un’alternativa dominante oppure sceglierà comunque alla luce della decisione dell’avversario per massimizzare il proprio payoff. Si badi che in questo caso non è necessario che la mossa della controparte sia osservabile. Se i payoff sono identificati correttamente la razionalità individuale spingerà il gioco verso la soluzione di equilibrio. La soluzione potrebbe anche non essere efficiente (come nel Dilemma del prigioniero) ma sarà comunque stabile. Per ottenere soluzioni efficienti sarà necessario poter iterare il gioco e concordare condotte collusive.

Tabella 9.16 TABELLA DI SINTESI DEI GIOCHI DI QUESTO CAPITOLO Gioco

Soluzioni efficienti

Soluzioni di equilibrio

Alternative dominanti

Note

3

1 ed è l’unica non efficiente

1 per entrambi gli attori

Obiettivo: Max profitto

1

1 coincidente con la soluzione efficiente

1 per entrambi gli attori

La soluzione efficiente talvolta non si realizza (obiettivi diversi)

Obiettivo: Max differenza di profitto

4

1

1 per entrambi gli attori

Gli attori guardano solo al “dispetto”

Obiettivo: Max profitto e Max differenza di profitto

3

1, unica soluzione 1 per entrambi non efficiente gli attori

Il gioco è un Dilemma del prigioniero

Gioco del pollo

3

2 entrambe efficienti

Nessuna

Non è possibile prevedere l’esito senza ipotizzare i criteri decisionali adottati Vantaggio dall’osservazione della mossa altrui

Gioco delle coppie

2

2 entrambe efficienti

Nessuna

Vantaggio del first mover Valore della comunicazione

Dilemma del prigioniero

Gioco del dispetto

9. Le decisioni interattive ) 309

Incertezza e criteri di decisione

Se invece non esistono alternative dominanti, ma esiste comunque una soluzione di equilibrio, il gioco converge verso questa soluzione. Se esistono più soluzioni di equilibrio oppure nessuna, è impossibile determinare quale sarà la soluzione del gioco senza fare ipotesi sui criteri di scelta dei decisori o senza essere in grado di osservare la decisione altrui. I decisori, infatti, in assenza di una spinta univoca, dettata dalla razionalità individuale, cercheranno di sapere che cosa farà la controparte temporeggiando. Se ciò non è possibile dovranno necessariamente ipotizzare il comportamento della controparte assumendo che questa agisca ottimisticamente, scegliendo l’alternativa che in assoluto può massimizzare il payoff (criterio MaxiMax), oppure pessimisticamente, scegliendo l’alternativa che massimizza il payoff minimo ottenibile (criterio MaxiMin o Minimo Rincrescimento). In pratica, in assenza di equilibri o con equilibri multipli, il problema torna a essere una decisione in condizioni di incertezza (si veda il capitolo 8), dove quest’ultima concerne il modo in cui la controparte sceglierà. I diversi giochi descritti nel capitolo possono essere un’utile guida nell’analizzare situazioni decisionali concrete. Per riconoscere in una situazione reale uno dei giochi affrontati è necessario analizzarne la struttura in termini di soluzioni efficienti, soluzioni di equilibrio e condizioni esterne per la definizione della soluzione. La Tabella 9.16 sintetizza le caratteristiche dei giochi esemplificati in questo capitolo.

10 Il ruolo del tempo Decisioni e turbolenza ambientale

SOMMARIO

10.1

I tempi del processo

10.1 Il tempo nei processi decisionali j 10.2 Gli stadi della conoscenza: il modello di Ansoff j 10.3 La turbolenza ambientale

Il tempo nei processi decisionali Nel capitolo precedente abbiamo analizzato l’impatto della presenza di più attori sulle decisioni. Abbiamo così avuto modo di osservare come gli effetti di una decisione dipendano anche dal momento nel quale la decisione è presa. Talvolta la possibilità di scegliere per primi può influenzare in modo rilevante l’esito del gioco. In altri casi vi è invece un vantaggio nell’aspettare per poter osservare il comportamento della controparte. Abbiamo infatti accennato all’esistenza di una categoria particolare di giochi definiti sequenziali, nei quali il momento in cui ogni attore comunica la propria scelta è determinante per l’esito del gioco. In questi termini, il tempo, qui inteso come momento (timing) in cui si affronta un problema decisionale, riveste un ruolo importante nelle decisioni manageriali proprio per questa influenza diretta sui risultati. Il presente capitolo ha quindi l’obiettivo di comprendere il ruolo del tempo nei processi decisionali. Prendiamo in considerazione un generico processo decisionale, in cui un decisore, a fronte di un particolare problema, deve identificare quale decisione prendere per raggiungere i propri obiettivi. Tale processo può essere rappresentato mediante uno schema a blocchi come in Figura 10.1, con particolare attenzione ai tempi associati ai diversi componenti del processo. Il decisore impiega un certo tempo di decisione (TD) per arrivare a selezionare un’alternativa. Con riferimento a un classico processo di tipo thinking first (si veda il capitolo 8) l’intervallo di tempo TD dipende da quanto occorre al decisore per definire gli obiettivi dello specifico problema, definire il modello della realtà, generare e valutare le possibili alternative e scegliere la migliore. Una volta presa, la decisione viene implementata. Questa fase ha bisogno di un tempo di implementazione (TI) che è necessario per dar corso all’alternativa selezionata. Rientrano in questo intervallo i tempi impiegati per ac-

10. Il ruolo del tempo ) 311

Figura 10.1 IL MODELLO RETROAZIONATO DI UN PROCESSO DECISIONALE A(t) Obiettivi e vincoli

TA TD TI

Decisore

TE

Realtà E'(t)

TR

D(t)

E(t)

TM Misura

Inerzie e transitori

Ritardi di misura

Effetti concentrati e duraturi

quisire i capitali, per operare gli investimenti, per sviluppare le competenze e per attuare i piani. In generale la realtà sulla quale si interviene non si modifica istantaneamente. Piuttosto si manifestano inerzie e transitori. In sostanza occorre attendere un certo tempo di adattamento della realtà (TR), necessario affinché la decisione presa e implementata modifichi la realtà sopra la quale agisce. Ad esempio, un nuovo sistema informativo per il controllo di gestione, una volta sviluppato, testato e introdotto, richiede tempo affinché i responsabili delle varie unità organizzative imparino a usarlo, ad alimentarlo correttamente con i dati necessari e a sfruttarne le potenzialità. È anche probabile che, per un certo periodo di tempo, il nuovo sistema coesista con quello ormai obsoleto. È possibile che venga usato solo da alcune unità organizzative ma non ancora da tutte, o che alcune funzionalità e calcoli economici vengano ancora fatti alla vecchia maniera ecc. Di conseguenza, passerà certamente del tempo prima che il management possa misurare compiutamente gli effetti della decisione di introdurre il nuovo sistema di controllo. Vi è poi un tempo di misura (TM) dovuto al fatto che l’osservazione degli effetti non sempre è istantanea. Occorre cioè del tempo, in funzione sia delle caratteristiche del problema sia del sistema di controllo e di misurazione adottato. Ad esempio, un intervento di razionalizzazione degli acquisti di materiali diretti ha degli effetti che un’impresa può rilevare solo con molti mesi di ritardo se, ad esempio, i tempi di consegna dei fornitori sono contrattualmente lunghi e se l’impresa utilizza come strumento di misura le sole analisi dei dati annuali di bilancio. Un ulteriore importante parametro riguarda l’orizzonte degli effetti (TE). Alcune decisioni producono effetti di breve termine o addirittura concentrati in un istante di tempo, ad esempio le decisioni di programmazione della produzione o le decisioni spot su opportunità da cogliere (si pensi ai contratti future e in generale alle opzioni). Altre decisioni invece producono effetti duraturi, spesso intenzionalmente duraturi. È il caso delle decisioni di investimento – ad esempio nello sviluppo di nuovi prodotti e servizi, nella costruzione di impianti, nell’adozione di sistemi informativi e tecnologie innovative – per le quali ci si aspettano be-

312 ) PARTE II – PROCESSI

La dinamica dell’ambiente

CASO

DECISIONALI

nefici distribuiti su un arco di tempo più o meno lungo. È importante notare che l’orizzonte temporale degli effetti va considerato in una prospettiva soggettiva: non è necessariamente l’intervallo di tempo massimo nel quale gli effetti sono teoricamente osservabili, ma piuttosto l’orizzonte entro il quale il decisore considera gli effetti irreversibili e la decisione non modificabile. Vi è infine un ultimo parametro di fondamentale importanza che è rappresentato dall’orizzonte delle variabili ambientali (TA), ovvero dall’intervallo di tempo entro il quale il decisore è in grado di prevedere l’andamento delle variabili ambientali. Anche questo parametro contiene elementi di soggettività in quanto risente della capacità previsionale dei decisori. Il modello proposto in Figura 10.1 è retroazionato, poiché se gli effetti misurati sono insoddisfacenti, ovvero esistono scostamenti rispetto agli obiettivi, i decisori possono ritornare sulla decisione presa (si veda in proposito anche il capitolo 8). Il caso Plus (Caso 10.1) ci consente di evidenziare i diversi tempi decisionali contenuti nel modello retroazionato di Figura 10.1.

10.1

Plus Il problema delle previsioni Plus è la società responsabile della gestione delle parti di ricambio di un noto produttore di elettrodomestici. Essa gestisce diverse migliaia di codici che vengono in parte acquistati attraverso fornitori esterni e in parte forniti dagli impianti produttivi della casa madre. Negli ultimi anni Plus ha sperimentato un progressivo e consistente aumento delle scorte di componenti, principalmente a causa di un aumento della variabilità della domanda. Per risolvere il problema delle scorte eccessive l’impresa decise di rinnovare il proprio sistema di previsione della domanda. Innanzitutto, analizzò in modo più strutturato la variabilità della domanda per poter scegliere l’approccio previsionale più adatto. Solo allora, tuttavia, si accorse di non avere disponibili le serie complete della domanda passata, se non per l’ultimo mese. Diede dunque avvio a una raccolta sistematica dei dati di domanda, per costruire un database per le analisi successive. Dopo quattro mesi, Plus, ritenendo di avere a disposizione dati sufficienti, cominciò ad analizzarli e a ricercare possibili algoritmi previsionali. Trascorso un ulteriore mese, l’impresa concentrò la propria attenzione su due diversi algoritmi, sviluppati appositamente per il settore delle parti di ricambio e che, in base alle simulazioni condotte sulle serie storiche raccolte, avevano dimostrato buone prestazioni. In particolare, il primo algoritmo si dimostrò molto semplice da adottare e facilmente implementabile nella realtà aziendale; il secondo, per quanto più complesso, presentava però prestazioni previsionali migliori. Plus impiegò circa due mesi per decidere, perché la direzione prima di scegliere definitivamente un’alternativa volle comprensibilmente coinvolgere i futuri utenti del sistema, per valutarne l’applicabilità, e il responsabile dei sistemi informativi, per verificarne il costo di implementazione. La realizzazione di un nuovo sistema previsionale Alla fine la direzione scelse la seconda alternativa, quella più complessa. Iniziò allora l’implementazione del sistema. Fu necessario innanzitutto costruire il database per la raccolta dei dati di domanda, il software per l’elaborazione dell’algoritmo e l’interfaccia mediante la

10. Il ruolo del tempo ) 313 quale il sistema avrebbe interagito con gli utenti. Questo insieme di attività richiese quattro mesi a fronte di numerose revisioni dell’interfaccia utente. Dopo quasi un anno dall’inizio del progetto, l’impresa fu finalmente pronta per il lancio del nuovo sistema. Era previsto a regime l’utilizzo da parte di dieci buyer, responsabili della formulazione delle previsioni e dell’esecuzione degli ordini di acquisto ai fornitori. Per sicurezza l’impresa decise un’introduzione progressiva: per circa un mese il nuovo sistema fu adottato in parallelo rispetto alle precedenti procedure, in modo da testarne il funzionamento. La verifica delle prestazioni del nuovo modello richiese però altri cinque mesi, anche perché i tempi di approvvigionamento dei fornitori sono piuttosto lunghi, pari a circa dieci settimane. Per tale ragione l’effetto dei primi ordini effettuati mediante il nuovo algoritmo poteva essere verificato solo a consegne effettuate, quindi dopo dieci settimane dall’ordine. Oltretutto, per avere una visione più chiara e solida, Plus decise di valutare le prestazioni del sistema su un orizzonte di tempo di almeno due mesi, al fine di evitare che misure puntuali potessero essere influenzate da particolari variazioni della domanda. Dopo quasi un anno e mezzo dalla percezione iniziale, l’impresa ha finalmente risolto il problema delle previsioni.

Cambiamenti effimeri o permanenti

Nel caso Plus, l’impresa ha impiegato tempo per prendere una decisione (circa sette mesi per effettuare una scelta), per implementarla (cinque mesi), per attendere la reazione del sistema (dieci settimane, pari al tempo di approvvigionamento), per misurare gli effetti della scelta intrapresa (due mesi). Solo dopo un anno e mezzo Plus è stata in grado di valutare la validità della propria scelta. L’esistenza di un certo intervallo di tempo prima di poter finalmente osservare gli effetti costituisce un aspetto problematico di innumerevoli situazioni. Spesso infatti il ritardo tra decisione e osservazione degli effetti implica la necessità di formulare previsioni sull’ambiente esterno o dover definire le nostre aspettative su specifiche variabili ambientali. Nel caso di Plus, l’impresa aveva valutato che l’aumento della variabilità della domanda fosse un cambiamento strutturale e non passeggero, al quale era necessario rispondere operando un cambiamento interno. Dover formulare previsioni sul futuro introduce ovviamente rischio o addirittura incertezza (si veda in propositoil capitolo 8). Oltretutto, l’esistenza di un tempo necessario per realizzare la decisione comporta che una soluzione ritenuta ottima o soddisfacente possa non esserlo quando è implementata, a fronte di un cambiamento imprevisto del contesto esterno. Nel caso Plus che cosa sarebbe successo se, ad esempio, la variabilità della domanda fosse cambiata nuovamente dopo che era stato scelto l’algoritmo? Sulla base dello schema della Figura 10.1 comprendiamo che il tempo necessario perché una decisione generi degli effetti è pari a: T = TD + TI + TR

(1)

La somma di queste tre componenti temporali rappresenta il tempo di reazione del sistema. Più esso è elevato, maggiore è l’inerzia complessiva del sistema. È possibile determinare le condizioni minime di efficacia temporale di

314 ) PARTE II – PROCESSI Condizione di tempestività

DECISIONALI

un processo decisionale? Oltre al tempo di reazione del sistema occorre stimare anche il tempo di misura degli effetti TM per considerare che, una volta presa, una decisione ritenuta soddisfacente non viene modificata fintantoché non se ne sono valutati gli effetti. Inoltre, è necessario tener conto anche dell’orizzonte minimo degli effetti TE che i decisori vogliono o devono valutare. La condizione minima perché il processo decisionale sia tempestivo è dunque: TD + TI + TR + TE + TM # TA

(2)

In sostanza, il processo decisionale è sotto controllo fintantoché i decisori sono in grado di arrivare alla valutazione degli effetti di una decisione, tenendo conto che questi potrebbero anche protrarsi nel tempo, prima che l’evoluzione del contesto sfugga alla loro comprensione ed esca dall’orizzonte ragionevole delle loro previsioni. Il rispetto di queste condizioni permette di utilizzare un modello decisionale che sia coerente con il contesto esterno. Se quindi il tempo necessario per realizzare una decisione è inferiore all’orizzonte entro cui il contesto esterno permane stabile o prevedibile, l’anticipo con il quale la decisione è presa è sufficiente rispetto all’evoluzione delle variabili ambientali e quindi si ha la possibilità di agire in modo tempestivo. Se viceversa, il tempo che abbiamo a disposizione fosse pari a T'A, inferiore al precedente TA e tale per cui: TD + TI + TR + TE + TM $ T'A

Velocizzare le decisioni

Feedback inutili

(3)

il decisore non sarebbe in grado di attuare la decisione migliore poiché gli effetti sarebbero valutati ed eventualmente corretti in un momento nel quale lo scenario sarebbe completamente diverso, sconosciuto e dagli impatti imprevedibili sulle variabili endogene (effetti). In presenza di una decisione ripetitiva che viene affrontata più volte e con una certa frequenza, trovarsi nella condizione sintetizzata dall’espressione (3) impone cambiamenti nel modo di gestire il processo decisionale. È necessario, innanzitutto, sviluppare sistemi decisionali più veloci, ad esempio mediante l’introduzione di procedure standard o di modelli organizzativi più efficaci. Occorre cercare di implementare le scelte rapidamente, tramite opportuni metodi di gestione sviluppati in base alle esperienze passate (si veda in proposito il capitolo7). Si possono infine utilizzare sistemi tempestivi di misura delle prestazioni. Il fatto che una decisione sia ripetitiva permette di utilizzare l’esperienza pregressa per rendere più rapida la decisione, l’implementazione e anche la misura. Le circostanze sono più difficili quando, viceversa, ci si trova di fronte a una decisione non ripetitiva che si presenta raramente, al limite una sola volta. In questo caso la situazione sintetizzata dalla (3) non può essere gestita sfruttando le esperienze maturate in precedenza, né utilizzando procedure predefinite per ridurre i tempi di decisione, implementazione e adattamento della realtà, e ridare così efficacia al processo. Oltretutto la misura degli effetti, pur necessaria, non può servire ad alimentare feedback. La retroazione sugli obiettivi il-

10. Il ruolo del tempo ) 315

Innovazioni già vecchie

Innovazioni premature

10.2 CASO

lustrata nello schema di Figura 10.1 diviene impossibile e si è costretti a decidere una sola volta senza poter cambiare la scelta, o potendolo fare solo a costi molto elevati. In questa situazione, il rapporto che intercorre tra il tempo che l’ambiente esterno “concede” ai decisori per agire e il tempo necessario per realizzare una decisione è particolarmente complesso. Se il tempo necessario alla decisione eccede il tempo concesso dall’ambiente, il rischio è quello di trovarsi spiazzati e in ritardo rispetto all’evoluzione del contesto. Ad esempio, alcune imprese impiegano troppo tempo a sviluppare l’innovazione tecnologica e a portarla sul mercato. Nel frattempo, le preferenze dei clienti e gli standard offerti dai concorrenti evolvono, e quando finalmente l’impresa arriva sul mercato il prodotto è “già vecchio” o non allineato agli standard di mercato. Quando negli anni Ottanta il gruppo Fiat decise di rinnovare la fortunata Lancia Delta, che tanto successo aveva avuto negli anni precedenti, impiegò talmente tanto tempo a sviluppare il nuovo prodotto che, quando finalmente questo fu lanciato, diverse soluzioni tecnologiche erano già superate o non compatibili con lo standard esistente e l’evoluzione del mercato (ad esempio, la vettura non era stata inizialmente concepita per utilizzare la tecnologia degli airbag che stava allora affermandosi). La seconda serie della Lancia Delta riscosse scarso successo commerciale e la leadership nel segmento fu persa per sempre a favore della VW Golf. Tuttavia, anche la situazione opposta, sebbene meno frequente, non è esente da rischi e problemi. Se il tempo necessario a realizzare le decisioni è molto inferiore al tempo concesso dall’evoluzione dell’ambiente e la decisione viene presa con largo anticipo esistono rischi connessi alla scarsità delle informazioni e all’incertezza. Ad esempio, prodotti lanciati con largo anticipo rischiano di incontrare un mercato impreparato, che non ha ancora consolidato le proprie preferenze. Il timing delle decisioni è dunque essenziale: si deve “decidere quando decidere”. Il modello di Ansoff illustrato nel paragrafo 10.2 offre alcune indicazioni in questo senso.

Gli stadi della conoscenza: il modello di Ansoff

10.2

Koni: il cambiamento nel settore delle vernici La Koni è un’azienda che opera da anni nel settore delle vernici. L’impresa si è sempre posizionata come leader tecnologico nella progettazione, sviluppo e produzione di macchine per il cosiddetto “postponement” della vernice. Si tratta di macchinari che vengono posizionati nei punti vendita (es. colorifici e centri per il “fai da te”) e contengono un circuito di dispensazione che attinge da canestri contenenti coloranti liquidi (a base d’acqua o solvente). Al momento dell’acquisto, il cliente richiede il colore specifico desiderato che viene ottenuto grazie alla miscelazione di opportune dosi dei diversi coloranti direttamente nel barattolo contenente la vernice bianca o incolore di partenza (chiamata base). Alcuni anni fa, Koni in-

316 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

travvide un’innovazione tecnologica che avrebbe potuto incrementare notevolmente il fatturato dell’impresa. Si trattava della possibilità di realizzare delle macchine in grado di miscelare direttamente i pigmenti in polvere all’interno dei barattoli contenenti le basi. Lo sviluppo di questa nuova tecnologia avrebbe permesso ai produttori di vernici di acquistare direttamente i pigmenti in polvere dalle aziende chimiche, risparmiando notevolmente rispetto all’acquisto di coloranti liquidi. Se l’azienda fosse riuscita a sviluppare la nuova macchina, avrebbe avuto l’opportunità di aumentare significativamente i volumi di vendita. Koni aveva tutte le competenze interne per poter sviluppare la nuova tecnologia a polvere. Tuttavia, ciò avrebbe richiesto almeno tre anni di lavoro prima di poter lanciare la nuova macchina sul mercato e quindi iniziare a intravvedere i primi ritorni; oltretutto la Koni aveva stimato un costo di sviluppo molto elevato. Il management dell’impresa, nonostante riconoscesse le potenzialità della tecnologia, si mostrava perplesso riguardo al suo sviluppo. La tecnologia tradizionale era ben affermata e l’investimento nel nuovo sistema avrebbe avuto l’effetto di cannibalizzare una parte del business che allora mostrava maggiore marginalità. La situazione in azienda rimase congelata per qualche anno. Improvvisamente, il principale concorrente di Koni mostrò in anteprima ad una fiera internazionale di settore la sua nuova macchina di miscelazione di vernici. Sviluppata in collaborazione con un grande produttore di pigmenti, la macchina del concorrente sfruttava proprio la tecnologia di dispensazione dei pigmenti in polvere tanto discussa all’interno della Koni qualche anno prima. Il management di Koni si rese conto che era arrivato il momento di decidere definitivamente se investire o meno nella nuova tecnologia; il rischio era quello di giungere sul mercato troppo tardi e quindi perdere definitivamente fatturato e quote di mercato.

Cambiamenti concentrati

Il Caso 10.2 presenta una situazione emblematica. Di fronte a un problema di investimento la Koni è inizialmente riluttante a prendere una decisione: trova interessante la nuova tecnologia, ma non vede la necessità di investire in quanto non appare ancora urgente un cambiamento nella tecnologia alla base dei suoi prodotti. Oltretutto l’investimento comporta dei rischi che non appare giustificato correre, stanti le condizioni di mercato in quel momento. Successivamente l’impresa si accorge che è giunto il momento di decidere, a fronte del presentarsi sul mercato di un prodotto concorrente: il cambiamento prima ritenuto lontano nel tempo e incerto nei suoi effetti si sta presentando più chiaramente. Dal caso emerge anche come il momento in cui prendiamo una decisione possa significativamente influenzare gli effetti stessi della decisione. Decidere subito appare come un azzardo inutile e potenzialmente controproducente. In seguito lo stesso problema prende una connotazione completamente diversa, in quanto il cambiamento in atto nel mercato è ora effettivamente realizzato: la nuova tecnologia è divenuta una realtà. Il modello di Ansoff (1979) ci consente di rappresentare situazioni come queste. Esso descrive le dinamiche dei tempi necessari per attuare una decisione e di quelli a disposizione per farlo prima che intervenga un cambiamento radicale nel contesto. Il modello si adatta alle decisioni non ripetitive necessarie per fronteggiare cambiamenti ambientali concentrati nel tempo. È importante identificarne l’ambito di applicazione, che riguarda appunto transizioni discrete da uno stato stabile dell’ambiente a un altro stato stabile. Non si adatta invece a cambia-

10. Il ruolo del tempo ) 317

menti lenti ma continui, nei quali è difficile identificare con chiarezza un “prima” e un “dopo”. Salti tecnologici, cambiamenti normativi, improvvise aperture dei mercati sono i tipici esempi di cambiamenti ambientali concentrati nel tempo ai quali si applica il modello. Ansoff osserva che le informazioni utili per una particolare decisione non sono sempre ugualmente disponibili nel tempo. Viceversa, i decisori passano attraverso progressivi stadi di conoscenza circa le caratteristiche del cambiamento in esame. Inizialmente la conoscenza di un certo problema decisionale è molto scarsa: non è ben chiaro il problema stesso, non sono chiare le variabili rilevanti, non si conoscono le possibili alternative. In tale condizione di incertezza prendere la decisione “giusta” è difficile se non impossibile. Tuttavia, gradualmente, le informazioni rilevanti cominciano a essere disponibili, il problema diventa più chiaro e si comincia a identificare il modello con cui analizzare la specifica realtà. Il Caso 10.3 illustra un esempio di come, con il passare del tempo, un particolare contesto possa diventare più facilmente interpretabile. CASO

10.3

L’evoluzione del settore dell’elettronica All’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso, si cominciava già a percepire che quello dell’elettronica sarebbe stato un settore caratterizzato da grandi sviluppi: benché nessuno avesse chiaro che cosa sarebbe successo, molti erano convinti che questo fosse il settore in cui convenisse investire. Già durante la Seconda guerra mondiale il campo dei semiconduttori si rivelò assai promettente. Tuttavia, fu solo nel 1946 che, con l’invenzione del transistor, divenne chiaro l’immenso potenziale di cambiamento del settore. Lo sviluppo della tecnologia connessa ai transistor favorì la nascita delle prime imprese industriali operanti in questo business e altre iniziarono a reagire a tale sviluppo. A questo stadio, l’impatto in termini di profitti non era ancora completamente chiaro, tuttavia qualche investitore lungimirante (e fortunato) decise di lanciarsi comunque nel nuovo settore per cercare di sfruttare il vantaggio di essere tra i primi. Non appena le tecnologie di produzione furono rese disponibili, gli impatti economici furono evidenti: fu allora che il transistor entrò definitivamente nella storia della tecnologia e dell’industria schiudendo mercati completamente nuovi e modificando profondamente quelli esistenti. Fonte: Ansoff (1979).

Conoscenza progressiva

Come illustra l’esempio del Caso 10.3, il cambiamento in atto è caratterizzato nel tempo da un grado differente di conoscenza sul cambiamento stesso. In un primo momento si percepisce un fermento, ma non sono chiari il senso e la direzione del cambiamento. Successivamente si riesce a identificare la causa principale del cambiamento – il transistor –, ma la dimensione industriale ed economica del fenomeno non è evidente. Da ultimo, iniziano a svilupparsi le prime esperienze imprenditoriali e commerciali e gli effetti del cambiamento diventano chiari.

318 ) PARTE II – PROCESSI

I motori del cambiamento

Approcci thinking first

L’avanguardia

DECISIONALI

Ansoff riconduce l’accumulo di conoscenza relativa al cambiamento a un processo di sette stadi progressivi, caratterizzati da una quantità di informazione crescente. La Tabella 10.1 illustra i sette stadi della conoscenza. Inizialmente (1° stadio – Senso generale di turbolenza) si percepisce l’esistenza di una discontinuità, si rileva che un settore è in fermento, ma non è chiaro né come si presenterà il cambiamento né quali azioni possano essere intraprese per reagire a esso. Ad esempio, già da anni si percepisce un senso di turbolenza nel settore delle biotecnologie: emergono scoperte scientifiche che potrebbero avere impatti dirompenti sul piano socioeconomico (si pensi alle tecnologie di clonazione, di fecondazione artificiale, di manipolazione genetica ecc.). Tuttavia, nei primi anni Duemila non è ancora chiaro in quali direzioni andranno tali cambiamenti e con quali conseguenze per i mercati, gli investimenti e la produzione. Con il passare del tempo divengono più chiare le fonti dei cambiamenti (2° stadio – Identificazione della fonte). Esse possono essere di diversi tipi: nuovi concorrenti che entrano nel mercato (si pensi, ad esempio, all’attenzione data negli ultimi anni ai produttori orientali), cambiamenti normativi (come la liberalizzazione dei settori delle telecomunicazioni e dell’energia in Europa e in Italia), oppure cambiamenti sociali (come, ad esempio, la presenza crescente di comunità islamiche all’interno delle società occidentali). È però solo nello stadio successivo (3° stadio – Identificazione dell’impatto) che si comprendono l’entità del cambiamento e le modalità e i tempi con cui si presenteranno i suoi effetti. Successivamente (4° stadio – Determinazione della risposta) si identificano le possibili risposte che potrebbero essere formulate per chiarire quali risorse mettere in campo e quali azioni potrebbero essere intraprese. Ad esempio, qualche anno fa le maggiori compagnie di bandiera europee si trovarono di fronte al fenomeno dirompente delle compagnie low cost. Una volta identificati gli impatti (fortemente negativi sui loro profitti) dovettero formulare delle risposte al cambiamento strategico in atto nel settore: tagliare drasticamente i prezzi oppure concentrarsi su una clientela “business”, abbandonare alcune rotte, offrire servizi addizionali, fare accordi diversi con gli scali aeroportuali. Ricollegandosi ai processi decisionali di tipo thinking first, illustrati nel capitolo 8, questo stadio della conoscenza coincide con la fase di design, ovvero di modellizzazione del sistema e di generazione delle alternative. Gli effetti delle diverse alternative divengono più chiari nello stadio successivo (5° stadio – Valutazione degli effetti), in cui i decisori hanno abbastanza informazioni per stimare le conseguenze delle diverse alternative e anche le possibili reazioni degli altri attori (concorrenti, clienti, fornitori ecc.). Le ultime due fasi della conoscenza sono cruciali: il cambiamento annunciato da molti segni e ormai atteso dai soggetti interessati comincia a tradursi in realtà. Ansoff distingue opportunamente due stadi. Il primo (6° stadio – Primo impatto) è quello in cui gli effetti cominciano a diventare misurabili, anche se limitatamente a una parte

10. Il ruolo del tempo ) 319

Tabella 10.1 IL MODELLO DI ANSOFF: GLI STADI DELLA CONOSCENZA E IL CONTENUTO DELL’INFORMAZIONE Stadio della conoscenza 1 2 3 4 5 6 7 Senso generale Identificazione Identificazione Determinazione Valutazione Primo Pieno di turbolenza della fonte dell’impatto della risposta degli effetti impatto impatto Convincimento dell’imminenza della discontinuità

Contenuto dell’informazione

Chi o che cosa sta per cambiare: concorrenti, tecnologia, mercato, fornitori, cambiamenti socioeconomici o politici Stima, ancora soggetta a incertezza, delle caratteristiche, natura, gravità e tempi delle conseguenze Quali azioni, quali programmi, quali risorse, per rispondere alla nuova situazione. Entro quanto tempo Risultati prodotti dalla risposta. Quali reazioni degli altri attori Gli effetti del cambiamento e delle risposte sono limitati o circoscritti a una parte della realtà ma visibili Gli effetti del cambiamento e delle risposte sono diffusi e pervasivi, percepibili da chiunque. Il contesto è ormai cambiato

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Fonte: adattato da Ansoff (1979).

della realtà. Solo alcune parti del sistema sono inizialmente investite, solo alcuni pionieri operano già in un contesto diverso. Si pensi alla minaccia portata dai produttori cinesi all’industria manifatturiera europea. Inizialmente il cambiamento sembrava limitato ai settori più esposti e a tecnologia medio-bassa, anzitutto il tessile-abbigliamento.

320 ) PARTE II – PROCESSI

Il vecchio mondo non c’è più

Informazioni disponibili

DECISIONALI

Per i sistemi economici continentali si trattava di un primo impatto limitato nell’estensione. Ben presto però il cambiamento investì anche settori diversi, dall’auto all’elettronica, alle macchine utensili. Consideriamo un altro caso, quello dei televisori a schermo piatto basati su tecnologia LCD. In un primo momento solo alcuni produttori di fascia alta hanno cominciato a commercializzare i nuovi prodotti a prezzi molto elevati. La gran parte del mercato non è stata inizialmente intaccata e i volumi degli apparecchi tradizionali a tubo catodico non sono diminuiti. Si era appunto nella fase del primo impatto. In un tempo abbastanza breve, tuttavia, i prezzi sono diminuiti e la domanda per i nuovi prodotti è cresciuta notevolmente, mentre calava quella per i prodotti tradizionali. Successivamente, alcune grandi imprese, prima fra tutte Sony, hanno annunciato la sospensione della produzione di apparecchi tradizionali. Il settore è entrato nell’ultima fase del cambiamento (7° stadio – Pieno impatto). In questo stadio la transizione si completa, gli effetti sono diffusi e completamente misurabili. Il vecchio contesto non c’è più. Si opera ormai in un “mondo nuovo”. I televisori a tubo catodico non sono più in commercio. Ansoff osserva che tutti i cambiamenti strategici e tecnologici sono caratterizzati dall’evoluzione attraverso i sette stadi della conoscenza appena esposti e che, al passaggio da uno stadio al successivo, il tempo a disposizione per attuare una decisione e il tempo che effettivamente impieghiamo per prenderla variano. In particolare, il modello proposto da Ansoff considera il tempo disponibile prima del pieno impatto e il tempo necessario per effettuare il cambiamento. Il tempo disponibile prima del pieno impatto (Td) è quello che un decisore ha a disposizione per poter reagire e adattarsi al cambiamento prima che questo si manifesti in modo completo. Questo tempo diminuisce a mano a mano che gli stadi della conoscenza progrediscono. Tanto più le informazioni disponibili sono limitate, tanto più il pieno impatto è lontano. La funzione del tempo disponibile è pertanto decrescente e si azzera nel settimo stadio, quello appunto del pieno impatto. Si può quindi rappresentare la relazione tra tempo disponibile e stadi della conoscenza attraverso una curva come quella illustrata in Figura 10.2. Consideriamo ora il tempo necessario per reagire al cambiamento (Tn), ovvero il tempo di cui il decisore, o meglio l’organizzazione nella sua interezza, ha bisogno per potersi adattare al cambiamento nell’ambiente, predisponendo le modifiche interne e le risposte opportune. Ansoff distingue propriamente due componenti: • il tempo necessario per lo sviluppo delle competenze (Ts) è quello che occorre per costruire ex novo o acquisire dall’esterno le conoscenze e le capacità per rispondere al cambiamento. Si pensi ancora al caso del mercato elettronico e alle competenze tecniche che occorre presidiare per poter entrare in questo settore. Questa componente è anch’essa decrescente con il progredire degli stadi della conoscenza. Infatti, all’avvicinarsi del pieno impatto le informazioni diventano più abbondanti e accessibili e l’impresa può procede-

10. Il ruolo del tempo ) 321

Figura 10.2 IL TEMPO DISPONIBILE PRIMA DEL PIENO IMPATTO IN FUNZIONE DEGLI STADI DELLA CONOSCENZA (CFR. TABELLA 10.1) Tempo

Td

Comprare il know-how

Inerzia e dimensione

1

2

3

4

5

6

7

Turbolenza

Fonte

Stima impatto

Risposta

Effetti

Primo impatto

Pieno impatto

Stadi della conoscenza

re più facilmente anche acquisendo le competenze dall’esterno, ad esempio assumendo tecnici e manager che hanno già maturato un’esperienza. Viceversa, negli stadi iniziali della conoscenza la costruzione del know-how è più lenta e difficoltosa, spesso costellata di errori e scelte sbagliate che debbono essere abbandonate. Si noti peraltro che, anche nella fase di pieno impatto, il tempo necessario alla costruzione delle conoscenze, pur ridotto, non è mai nullo. Anche quando si trapiantano competenze già formate “comprandole” sul mercato, occorre un certo tempo per adattarle all’organizzazione, ai prodotti e alle strategie dell’impresa; • il tempo necessario per l’implementazione del cambiamento (Ti) è quello che occorre per realizzare i cambiamenti tecnologici e organizzativi interni e per rendere operante la risposta che si è selezionata. Maggiore è la complessità e la dimensione del sistema colpito dal cambiamento, maggiore è l’inerzia e dunque il tempo di adattamento della realtà (si veda il paragrafo 10.1) In generale questa componente è indipendente dalle informazioni disponibili e dunque è una costante rispetto agli stadi della conoscenza. Il tempo necessario per reagire al cambiamento (Tn) è dunque la somma dei due tempi precedenti: Tn = Ts + Ti che, in base alle considerazioni appena esposte, ha un andamento come quello rappresentato in Figura 10.3.

322 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Figura 10.3 IL TEMPO NECESSARIO PER REAGIRE AL CAMBIAMENTO Tempo

Tn

Ts Ti

Minori rischi

1

2

3

4

5

6

7

Turbolenza

Fonte

Stima impatto

Risposta

Effetti

Primo impatto

Pieno impatto

Stadi della conoscenza

Combiniamo ora sullo stesso grafico il tempo disponibile prima del pieno impatto e il tempo necessario per reagire al cambiamento (Figura 10.4). Ipotizziamo di trovarci in uno dei primi stadi della conoscenza (ad esempio lo stadio 2° – Identificazione della fonte). Il tempo necessario (Tn) è inferiore al tempo disponibile (Td), quindi il processo è ancora sotto l’ampio controllo del decisore. C’è ancora tutto il tempo di prendersela con comodo e oltretutto di rischiare meno

Figura 10.4 IL TEMPO DISPONIBILE PRIMA DEL PIENO IMPATTO E IL TEMPO NECESSARIO PER REAGIRE AL CAMBIAMENTO Tempo

Td

Tn L

1

2

3

4

5

6

7

Turbolenza

Fonte

Stima impatto

Risposta

Effetti

Primo impatto

Pieno impatto

Stadi della conoscenza

10. Il ruolo del tempo ) 323

Scelte tardive

Momento al più tardi

Il timing corretto

aspettando di avere a disposizione informazioni più ricche e attendibili. Ma fino a quando? Se attendiamo il pieno impatto (stadio 7°), che è la condizione di massima informazione e di minimo rischio, la situazione è ribaltata: il tempo necessario è maggiore del tempo disponibile, oramai prossimo a zero. In questa condizione le informazioni a disposizione sono complete, quindi possiamo facilmente prendere la scelta migliore, tuttavia ormai tardiva. Che cosa succede se prendiamo una decisione tardiva anche se corretta? Naturalmente le conseguenze possono essere variabili. Come minimo si rinuncia al vantaggio competitivo di arrivare prima degli altri. È noto, ad esempio, che nei cambiamenti tecnologici radicali i first mover sono avvantaggiati e spesso riescono a costruire posizioni di leadership difficilmente scalfibili in seguito. Tuttavia, gli impatti possono essere anche ben più gravi. In settori e mercati molto competitivi, arrivare dopo il pieno impatto implica essere spiazzati, andare incontro al declino e rischiare anche l’estinzione. Fiat è stata gravemente danneggiata dal non aver reagito per tempo a due successivi cambiamenti importanti nei gusti e nelle preferenze dei consumatori di fascia medio-alta: verso la fine degli anni Ottanta, pur avendo a disposizione alcuni buoni modelli del segmento superiore (Thema e Alfa 164), non reagì prontamente al crescente interesse dei clienti per le grandi station wagon, con un’elevata capacità di carico per la famiglia e il tempo libero e tuttavia dotate di tutti i comfort e lo stile delle grandi berline. Di fatto il mercato fu occupato quasi interamente dai produttori tedeschi (VW-Audi, Mercedes, BMW) e da Volvo. Quindici anni più tardi si è ripresentata una situazione analoga. Solo nel 2006 l’azienda arriva finalmente sul mercato con un SUV (Sport Utility Vehicle) la Sedici, peraltro sviluppata assieme a un produttore giapponese, di dimensioni e prestazioni non paragonabili a quelle dei principali concorrenti. Gli altri costruttori, gli europei, i giapponesi e persino i coreani, hanno intercettato per tempo il cambiamento nei gusti dei consumatori e già da anni hanno sviluppato un’offerta ampia e diversificata. Solo grazie alla fusione con Chrysler e all’acquisizione del marchio “Jeep”, Fiat ha potuto recuperare posizioni in un segmento che è consistente e profittevole. Torniamo al grafico della Figura 10.4. È evidente che il punto L nel quale le due curve si incontrano segna lo stadio della conoscenza nel quale, al più tardi, occorre decidere per arrivare almeno puntuali al pieno impatto. Decidere prima del punto L significa cercare di arrivare per primi con tutti i vantaggi del first mover e tutti i rischi delle decisioni basate su informazioni ancora parziali. Decidere dopo significa minimizzare i rischi legati alla scarsità delle informazioni, ma arrivare in ritardo rispetto al momento di pieno impatto con tutti i rischi e i danni che ne conseguono. Il modello di Ansoff ci offre dunque una cornice concettuale entro la quale collocare il problema del timing corretto delle decisioni. Esso contiene e illustra il trade-off tra i rischi legati alla scarsità informativa e quelli legati ai ritardi e agli spiazzamenti rispetto alle dinamiche ambientali. Il modello è di particolare interesse anche a fron-

324 ) PARTE II – PROCESSI Cambiamenti di ogni specie

10.3

DECISIONALI

te della sua generalità: da un lato si adatta a cambiamenti molto diversi purché riconducibili a discontinuità più o meno annunciate; dall’altro il “quando decidere” non è identificato in termini di tempo, bensì in termini livello della conoscenza applicabile alle situazioni più diverse, e dal quale discende l’anticipo con cui occorre decidere nel caso specifico. Ansoff osserva infine che possiamo trovarci di fronte a cambiamenti differenti che richiedono di agire a stadi della conoscenza differenti. In alcuni casi la discontinuità è contenuta e l’entità del cambiamento modesta. In altri casi i mutamenti sono strutturali e alterano profondamente lo scenario. La turbolenza ambientale è perciò un fattore critico.

La turbolenza ambientale Le variabili ambientali relative ai mercati, alle tecnologie, alle normative e ai contesti socioeconomici, insomma tutti quei fattori contingenti che influenzano le organizzazioni e che abbiamo discusso nel capitolo 6, sono in continuo cambiamento. Tuttavia, variabili ambientali diverse hanno dinamiche differenti. I cambiamenti possono essere più o meno frequenti e di entità più o meno rilevante e con impatti variabili. Ad esempio, nel settore della telefonia cellulare i cambiamenti sono stati numerosi e frequenti, sia a fronte della disponibilità di nuove tecnologie di prodotto sia a fronte dei nuovi servizi offerti, dei cambiamenti nel quadro normativo (si pensi ad esempio all’impatto della number portability), dei mutevoli gusti e preferenze dei clienti ecc. Diversamente, il settore edilizio è caratterizzato da cambiamenti meno repentini, e senza vere e proprie discontinuità tecnologiche. Solitamente ci si riferisce a questo generale concetto di mutamento dell’ambiente esterno con il termine di turbolenza ambientale, caratterizzando con ciò tutte quelle condizioni in cui si presenta una qualche forma di dinamismo dell’ambiente. Il concetto di turbolenza ambientale è volutamente astratto ed è stato inizialmente introdotto negli anni Sessanta da Emery e Trist (1965) e ripreso da diversi autori, tra cui anche Ansoff, sotto diverse accezioni. Calantone, Garcia e Dröge (2003) definiscono come turbolento un contesto in cui i cambiamenti di mercato e/o tecnologici sono frequenti e non prevedibili. Ansoff (1979) qualifica la turbolenza ambientale di un settore attraverso tre elementi caratterizzanti: velocità, novità e complessità del cambiamento.

10.3.1

Velocità del cambiamento La velocità di cambiamento dell’ambiente è inversamente proporzionale all’intervallo di tempo all’interno del quale le variabili ambientali rilevanti di un modello decisionale rimangono stabili o affette da piccole variazioni che non alterano gli effetti delle decisioni. Un au-

10. Il ruolo del tempo ) 325

Figura 10.5 IL TEMPO DISPONIBILE PRIMA DEL PIENO IMPATTO AL VARIARE DELLA VELOCITÀ DEL CAMBIAMENTO Tempo disponibile prima del pieno impatto

Cambiamento riconoscibile e prevedibile

V1 V2 V3

Velocità

+ Sorpresa

Effettosorpresa

1

2

3

4

5

6

7

Turbolenza

Fonte

Stima impatto

Risposta

Effetti

Primo impatto

Pieno impatto

Stadi della conoscenza

mento della velocità del cambiamento, e quindi una riduzione di questo intervallo, implica tempi di risposta più contenuti. La velocità del cambiamento influisce quindi sul tempo disponibile prima del pieno impatto. Al crescere della velocità la curva si modifica come illustrato in Figura 10.5. È opinione corrente che le dinamiche tecnologiche e competitive divengano sempre più rapide. Si sostiene il progressivo aumento della velocità con cui i cambiamenti si manifestano. I futuristi del primo Novecento avevano l’idea di un’accelerazione vorticosa del progresso tecnologico. Il fatto che le loro sensazioni maturassero già un secolo fa getta qualche ombra sull’idea stessa di accelerazione indefinita dei cambiamenti. Ad esempio, non è certo che il settore automobilistico sia oggi caratterizzato da cambiamenti tecnologici più rapidi e significativi che non venti o trent’anni fa. Esistono tuttavia anche segni di accelerazione: è indiscutibile che si siano registrate forti contrazioni dei tempi tra lo sviluppo di una tecnologia e il suo impatto commerciale. La tecnologia fotografica, inventata nella prima metà del secolo XVIII, ha cominciato ad avere le prime applicazioni commerciali solo intorno al 1840, più di un secolo dopo. La televisione, inventata intorno al 1930, è diventata un’applicazione commerciale solo dieci anni dopo. Il transistor, inventato nel 1946, ha avuto applicazioni commerciali in meno di cinque anni. All’aumentare della velocità passiamo da cambiamenti riconoscibili e prevedibili, in cui il tempo a disposizione rimane elevato fino agli ultimi stadi della conoscenza, a vere e proprie “sorprese”, che lasciano poco tempo per reagire, anche quando le informazioni sono ancora assai limitate. Le due linee tratteggiate in Figura 10.5 descrivono due casi estremi tra i quali, però, troviamo rap-

326 ) PARTE II – PROCESSI

Risposte rapide

Misure tempestive

10.3.2

Fattori di novità

DECISIONALI

presentati scenari caratterizzati da velocità del cambiamento differenti. Confrontando ad esempio le curve indicate come V1, V2 e V3, associate a contesti con turbolenza crescente (la velocità cresce passando dal contesto 1 al contesto 3) possiamo osservare che, a parità di stadio della conoscenza, il tempo disponibile è minore passando da V1 a V3. Un aumento della velocità impone l’adozione di strumenti di governo delle decisioni più sofisticati, che consentono un tempo complessivo di risposta del sistema più breve. Con riferimento allo schema iniziale di Figura 10.1 è possibile agire sul tempo di sviluppo del processo decisionale (TD) rendendo più rapido il processo di modellizzazione, di generazione e di valutazione delle alternative e di scelta. Ad esempio, la definizione di procedure standard o la progettazione opportuna della struttura organizzativa possono contribuire a tale scopo, in quanto consentono a un decisore di identificare velocemente la migliore risposta a un particolare evento. È possibile agire anche sul tempo di implementazione (TI). Con riferimento ai concetti esposti nei capitoli 3 e 4, le strutture organizzative di tipo organico sono quelle più adatte a ridurre i tempi connessi alle decisioni e alle realizzazioni. È poi possibile agire sul tempo necessario per misurare gli effetti (TM) adottando opportuni sistemi di controllo. Negli ambienti turbolenti si tende a privilegiare la tempestività dei sistemi di controllo rispetto alla completezza e al dettaglio delle informazioni: in sostanza poche informazioni mirate, ma molto tempestive (si veda in proposito Azzone, 2006). Più complesso è invece agire sul tempo di adattamento della realtà (TR) che solitamente dipende dalla natura stessa della decisione e su cui il decisore non ha particolari leve di controllo.

Novità del cambiamento Il grado di novità di un cambiamento è la seconda dimensione della turbolenza ambientale. Può essere ricondotto alla stabilità del modello decisionale e dunque alla legge f, che descrive la relazione tra variabili endogene, ambientali e decisionali (si veda in proposito il capitolo 8). In presenza di novità variano anche le leggi che permettono di prevedere l’andamento nel tempo delle variabili ambientali; si pensi ai continui cambiamenti di comportamento dei consumatori che rendono inefficaci le previsioni basate sulle serie storiche (anche a questo proposito si rimanda al capitolo 8). Il grado di novità è connesso anche all’insieme di variabili ambientali che occorre considerare all’interno del modello; la globalizzazione è un esempio di come sia necessario ampliare il numero di fattori da considerare in un modello di business a fronte di un ampliamento dei confini geografici della competizione. Variano poi i vincoli, ne nascono di nuovi e ne cadono altri; si pensi, ad esempio, alle normative ambientali che divengono più stringenti e a quelle doganali che, viceversa, decadono progressivamente. Da ultimo può cambiare anche l’insieme di variabili decisionali che occorre introdurre per far fronte ai cambiamenti esterni. Infatti, se diventano rilevanti nuove variabili esogene sarà ne-

10. Il ruolo del tempo ) 327

cessario introdurre nuove strategie o nuove leve per far fronte ai cambiamenti appena avvenuti. L’aumento della novità del cambiamento implica la rapida obsolescenza dei modelli decisionali e ne richiede, dunque, l’aggiornamento. Tanto più è elevato il grado di novità, tanto più è necessario utilizzare tecniche non basate sul passato (si veda il capitolo 8), poiché il legame con quanto già accaduto è sempre più labile. Un esempio degli effetti di un aumento della novità è illustrato nel Caso 10.4.

CASO

10.4

Deutsche Kleber AG: il caso del cromo esavalente Già negli anni Novanta i grandi produttori di cemento erano a conoscenza dei rischi del contatto diretto con la pelle del cromo esavalente (cromo VI), una sostanza allora presente in tutti i tipi di cementi. Vi era anche la consapevolezza che presto o tardi sarebbero entrate in vigore normative restrittive in tal senso. Anche le tecniche per ridurre o eliminare il cromo VI erano note. Deutsche Kleber AG, come altri operatori, aveva una consapevolezza abbastanza chiara di questo stato di cose. Allo scopo l’azienda aveva acquistato un brevetto nel 1995 relativo ad alcune tecniche di abbattimento del cromo VI, tale brevetto prevedeva l’additivazione del solfato ferroso. Inoltre, alcuni rappresentanti di Deutsche Kleber parteciparono alla Commissione che avrebbe elaborato la Direttiva europea per anticiparne i contenuti. All’inizio del 2003 fu indetta una riunione dei responsabili tecnici di tutto il gruppo per presentare le problematiche connesse alla neutralizzazione del cromo esavalente. Il capo della Direzione tecnica inviò a tutti i Direttori tecnici una nota sulle possibili problematiche derivanti dall’uso degli agenti riduttori e invitò tutte le filiali interessate a fornire una serie di dati per valutare la migliore soluzione e i quantitativi di agente riduttore necessari. Non tutti risposero. In Germania emerse il dubbio se il cromo VI andasse ridotto solo nel cemento in sacchi (che viene maneggiato direttamente dagli operai) o anche in quello sfuso (che viene colato da betoniera). Nel luglio 2003 la UE fissò il termine ultimo per la riduzione del cromo esavalente al 17 gennaio 2005. Nel corso del 2003 Deutsche Kleber eseguì alcuni test e prove di additivazione (in particolare nella fase di cottura), che però diedero risultati incerti: l’additivo preso in considerazione era appunto il solfato ferroso. Nel frattempo si consolidò l’idea che si sarebbe dovuto additivare il solo cemento in sacco. All’inizio del 2004, in una riunione informale del gruppo di lavoro, venne nominato un project manager per coordinare i diversi progetti in corso. Si programmarono prove sul cemento in sacco e furono organizzati incontri con i fornitori di componenti per l’adeguamento degli impianti, così come di agenti riducenti. L’idea era quella di rivolgersi a un fornitore unico e di provata esperienza per i componenti necessari. Nel corso del 2004 fu deciso di verificare anche l’efficacia del solfato stannoso come agente riducente che, sulla carta, non presentava problemi di sovradosaggio, di durabilità e trasporto. Tuttavia, l’utilizzo di questo additivo risultò complessivamente troppo costoso. Nell’agosto 2004 Deutsche Kleber anticipò via fax l’ordine al fornitore per tutti i componenti necessari ad adeguare gli impianti del cemento in sacco. In settembre si definirono le specifiche degli impianti per il solfato ferroso (da ordinare con urgenza e da avviare ai primi di gennaio). Si fecero però anche nuove prove con solfato stannoso (esito positivo). A dicembre 2004 cominciarono i lavori che secondo i programmi avrebbero dovuto portare entro

328 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

giugno all’uso del solfato ferroso in tutte le cementerie programmate, comunque oltre il termine del 17 gennaio fissato per legge. Emersero però ancora gravi problemi tecnici ed effetti collaterali legati all’impiego industriale del solfato ferroso. L’additivazione in fase di macinazione produceva spesso colorazioni indesiderate, mentre quella in fase di cottura diminuiva il potere di riduzione del cromo VI. L’azienda corse ai ripari rilanciando il solfato stannoso. Il 17 gennaio 2005 solo alcuni impianti furono in grado di iniziare l’additivazione di solfato stannoso. Viste le difficoltà di avanzamento dei lavori a febbraio 2005 un dirigente venne incaricato di coordinare le attività di montaggio e completamento degli impianti rimanenti. L’adeguamento fu completato solamente verso la fine del 2005, causando a Deutsche Kleber un notevole danno di immagine e il pagamento di penali ingenti.

Passato fuorviante

10.3.3

Effetti collaterali

L’esempio precedente ci illustra il caso reale di un’impresa che tradizionalmente operava in un contesto stabile, caratterizzato da innovazioni incrementali e cambiamenti a dinamica lenta. La vicenda del cromo esavalente si presentò come una discontinuità: un cambiamento abbastanza rapido ma soprattutto con un grado di novità molto maggiore. Deutsche Kleber, come altri produttori, aveva poca familiarità con le tecnologie di additivazione e i processi di riduzione chimica. Sottovalutò la novità del cambiamento e, pur avendo visibilità sulla dinamica del pieno impatto (la data fissata dalla normativa UE), commise errori, perse tempo e in definitiva fu spiazzata dal cambiamento. La novità del cambiamento implica la necessità di adottare metodi non più basati sulla storia passata. Il passato potrebbe essere un riferimento non solo non più valido, ma addirittura fuorviante. Questo è il motivo per cui, in settori attraversati da cambiamenti radicali caratterizzati da elevata novità, le imprese che sopravvivono spesso non sono quelle più consolidate e che operano da più tempo. È così, ad esempio, quando le innovazioni tecnologiche sono introdotte dalle aziende neonate o più giovani. L’avvento dei personal computer come sistemi di dattiloscrittura non ha portato al successo le imprese che tradizionalmente producevano macchine da scrivere (tra le tante Remington e Olivetti) ma quelle che erano completamente fuori dal settore, come ad esempio IBM.

Complessità del cambiamento La terza dimensione della turbolenza è la complessità di un cambiamento, ovvero il numero di variabili e di relazioni interessate dal cambiamento stesso. All’aumentare delle variabili e delle loro interrelazioni diviene più difficile prevedere l’evoluzione dello scenario (si veda in proposito il capitolo 8 e le tecniche di analisi morfologica). Diviene di conseguenza difficile prevedere i risultati delle decisioni e anche l’insorgere di effetti collaterali. Aumenta la necessità di coordinare le azioni di decisori differenti, che possono avere ef-

10. Il ruolo del tempo ) 329

Massa critica

CASO

fetti congiunti su più sotto-sistemi. Inoltre, l’aumento della complessità comporta un aumento del numero di vincoli con conseguente riduzione dello spazio delle soluzioni ammissibili. Questo fatto, se da un lato può rendere il processo decisionale più semplice, in quanto riduce il numero di opzioni possibili, dall’altro implica talvolta la ricerca di nuove alternative mai pensate in precedenza. Il modello di Ryanair (si veda il capitolo 9), che genera ricavi non principalmente tramite la vendita dei biglietti aerei ma soprattutto attraverso la valorizzazione di scali secondari, è un esempio di soluzione alternativa nata per gestire uno scenario a complessità crescente come quello del mercato dei trasporti aerei. Infine, occorre considerare che l’aumento della complessità richiede un ampliamento delle competenze necessarie e comporta, quindi, un aumento della massa critica necessaria per avere una qualche probabilità successo. Ad esempio, la complessità dei sistemi tecnologici per la ricerca nella fisica delle particelle è così elevata che la massa critica di queste attività divenne molto grande già qualche decennio fa. Senza grandi aggregazioni su scala continentale i sistemi nazionali non avevano alcuna probabilità di successo nella ricerca avanzata. È per questo che è nata una struttura come il CERN di Ginevra, ed è per questo che oggi, a fronte di una complessità ancora superiore, assistiamo ad aggregazioni ancora più forti con progetti di cooperazione e investimenti congiunti tra Europa e Giappone ed Europa e Stati Uniti. La complessità del cambiamento e le sue conseguenze sono evidenziate nel Caso 10.5.

10.5

Tadini Posa Cavi: scenari incerti e più complessi Tadini Posa Cavi (TPC), nome camuffato di una media impresa italiana, gestisce numerose attività connesse alla posa di cavi per le telecomunicazioni e il trasporto di energia. Fino agli ultimi anni del secolo scorso TPC operava in condizioni di turbolenza ambientale modesta. Il settore delle telecomunicazioni era caratterizzato da un monopolio di Stato da parte di Telecom Italia (già SIP), la quale, con alcuni fornitori tra cui TPC, concordava contratti di lungo termine relativamente all’entità dei lavori appaltati. Per tale ragione Telecom Italia era per TPC un cliente non solo molto importante ma anche assai prevedibile: una volta acquisito il contratto, TPC aveva una quota praticamente certa di fatturato per tutta la durata dell’accordo. L’incertezza di mercato era indubbiamente molto limitata. Quasi l’80% del fatturato di TPC era generato dal cliente Telecom Italia, che concordava con i fornitori contratti triennali. L’impresa era caratterizzata da un’organizzazione centrata attorno alla funzione di produzione. L’aspetto più complesso era infatti la gestione delle commesse e dei lavori. La gestione commerciale era svolta quasi completamente dall’imprenditore, il quale, a fronte del ridotto numero di clienti e della loro importanza, negoziava personalmente i contratti. Anche la gestione finanziaria e i rapporti con le banche venivano tenuti direttamente dall’imprenditore, forte delle garanzie derivanti dai contratti con il grande gestore telefonico. Nonostante le dimensioni ormai ragguardevoli, la struttura organizzativa e i processi decisionali erano estremamente accentrati.

330 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

Con la fine del millennio, però, anche il settore delle telecomunicazioni fu liberalizzato: accanto al monopolista di Stato cominciarono a sorgere nuovi operatori concorrenti. Questo fatto impose a Telecom stessa la revisione della propria strategia di fornitura. In breve tempo TPC si trovò di fronte a uno scenario completamente nuovo e a un mercato molto più instabile. Telecom Italia cominciò a ridurre gli investimenti, anche a fronte dell’ormai amplissima copertura delle reti. Per contro, cominciarono a profilarsi nuovi clienti con esigenze in parte differenti. Tuttavia, l’attenzione al controllo dei costi rese ancora più forte la contrazione delle spese di acquisto. Alcuni concorrenti di TPC cominciarono a investire maggiormente in attività di marketing, nello sviluppo di nuovi servizi e nella diversificazione delle proprie attività. Molte imprese passarono attraverso ristrutturazioni pesanti e profondi processi di cambiamento organizzativo. Alcune si spostarono dal settore tradizionale ad attività nuove e maggiormente profittevoli. TPC decise di continuare a investire nel settore tradizionale (la posa dei cavi): il management era convinto che il mercato si sarebbe ripreso, che l’impresa aveva funzionato bene così e che così avrebbe dovuto continuare a operare. L’imprenditore pensava che i tempi duri sarebbero finiti e, come già in passato, tutto sarebbe tornato come prima. TPC fu però costretta a cercare nuovi clienti, perché i volumi di attività con i clienti tradizionali, Telecom in primo luogo, erano notevolmente diminuiti. Ciononostante il fatturato, che negli anni Novanta era cresciuto a un tasso medio del 10% annuo, negli anni Duemila mostrò una preoccupante inversione di tendenza con flessioni annuali ripetute di diversi punti percentuali.

L’esempio di Tadini Posa Cavi illustra il caso di un’impresa consolidata che ha dovuto affrontare cambiamenti imprevisti caratterizzati da un alto grado sia di novità sia di complessità. Infatti, le “regole del gioco” valide prima della fine del millennio (contratti di lungo periodo, monopsonio di Telecom, forte prevedibilità del contesto, prodotti e servizi consolidati, concentrazione sulla capacità operativa ecc.) sono state completamente stravolte (frammentazione del mercato, contratti spot, minore prevedibilità della domanda ecc.). Inoltre la variabili da tenere sotto controllo sono diventate molto più numerose (nuovi clienti, nuovi concorrenti, nuove competenze da integrare e gestire). In sintesi il cambiamento che ha investito TPC è stato radicale e sistemico, non limitato ad alcune variabili, bensì esteso a quasi tutti gli aspetti del business. Affetta da una certa miopia strategica, l’impresa non ha percepito per tempo la portata del cambiamento o, almeno, ha sottovalutato il tempo necessario per sviluppare le nuove competenze e per implementare progetti e assetti organizzativi idonei al nuovo scenario. L’effetto congiunto della novità e della complessità ambientale è quello di portare a un aumento del tempo necessario per reagire al cambiamento, come illustrato in Figura 10.6. Infatti, a parità di stadio della conoscenza, la maggiore novità comporta un tempo superiore per acquisire competenze nuove non presidiate dall’organizzazione; la maggiore complessità richiede un tempo superiore per poter decidere e per poter agire su un insieme più ampio di variabili di controllo. In sostanza, è questo fenomeno che ha spiazzato TPC. Confrontando le curve NC1, NC2 e NC3, associate a contesti con turbolenza crescente (novità e complessità aumentano passando dal contesto 1 al contesto 3), osserviamo che a parità di stadio della conoscenza è

10. Il ruolo del tempo ) 331

Figura 10.6 IL TEMPO NECESSARIO PER REAGIRE AL CAMBIAMENTO IN FUNZIONE DELLA SUA NOVITÀ E COMPLESSITÀ Tempo necessario

+

NC3

Novità Complessità

NC2

NC1

Decisioni anticipate

Stadi della conoscenza

1

2

3

4

5

6

7

Turbolenza

Fonte

Stima impatto

Risposta

Effetti

Primo impatto

Pieno impatto

necessario un tempo maggiore al crescere della novità e della complessità. L’effetto complessivo di una generale turbolenza ambientale (maggiore velocità, maggiore novità e maggiore complessità del cambiamento), è dunque rappresentato in Figura 10.7, dove gli effetti separati sul tempo disponibile (Figura 10.5) e sul tempo necessario (Figura 10.6) vengono sovrapposti. Osserviamo che, al variare della turbolenza ambientale, il punto critico L, entro cui occorre prendere una decisione per anticipare il camFigura 10.7 L’EFFETTO DELLA TURBOLENZA AMBIENTALE SUI PROCESSI DECISIONALI Tempo

L3 V1 V2

NC3

L2

V3

NC2

L1

NC1

1

2

3

4

5

6

7

Turbolenza

Fonte

Stima impatto

Risposta

Effetti

Primo impatto

Pieno impatto

Stadi della conoscenza

332 ) PARTE II – PROCESSI

Minori informazioni

Maggiori rischi

Segnali deboli

Gli stili di management

DECISIONALI

biamento, si sposta indietro, ovvero il punto “al più tardi” arretra negli stadi della conoscenza. Consideriamo, nel nostro esempio, un contesto “1” caratterizzato da turbolenza contenuta e definito dalle curve V1 e NC1; il punto limite entro il quale decidere in tale scenario (L1) si trova molto vicino al pieno impatto: abbiamo dunque a che fare con un cambiamento per il quale possiamo rimandare la decisione a un momento nel quale le informazioni disponibili saranno abbondanti e precise. Lo scenario “2”, caratterizzato invece da turbolenza maggiore, vede tale punto (L2) arretrare in corrispondenza di una minore conoscenza del cambiamento; tale situazione è ancora più marcata per lo scenario “3” (L3) dove ci troviamo a dover decidere in uno stadio “giovanissimo” della conoscenza, nella quasi totale assenza di informazioni sul cambiamento in atto. Osserviamo quindi che al crescere della turbolenza ambientale le imprese sono costrette a dover decidere avendo minore conoscenza del cambiamento e quindi in condizioni di maggiore rischio, o addirittura incertezza secondo la definizione vista nel capitolo 8. Tutto ciò ha una serie di importanti conseguenze: innanzitutto, diventa più complesso prendere decisioni e occorre sviluppare sistemi decisionali più robusti. Divengono più importanti i sistemi di previsione e di rilevazione dei segnali deboli provenienti dal mercato e dal settore. È poi critico riuscire a valutare gli effetti di un cambiamento con profondo anticipo rispetto al pieno impatto per poter prendere una decisione in presenza di poche informazioni. Da ultimo, anche lo stile di management con il quale si muove il decisore è influenzato dal livello della turbolenza. Come sintetizzato dalla Figura 10.8, fintantoché il punto limite si trova intorno al 6° e 7° stadio della conoscenza, la gestione può avvenire tramite controllo e reazione al cambiamento. In tale scenario possiamo attendere almeno il primo impatto prima di intervenire e quindi possiamo “permetterci” di reagire ai cambiamenti in corso identificando l’alternativa migliore. È quindi importante garantire un monitoraggio attento dell’ambiente, facilitato anche dal fatto che la novità è limitata, il che consente di adottare sistemi standardizzati di misura e di reporting. In tale contesto lo stile di management tende a essere reattivo, ovvero basato su un principio di reazione al cambiamento già osservato. Nel momento in cui il punto limite si trova invece tra il 5° e il 6° stadio, l’utilizzo di dati storici comincia a diventare inadeguato, a fronte sia della velocità, che li rende rapidamente obsoleti, sia della novità, che comporta l’ingresso nei modelli decisionali di variabili mai considerate prima, e per le quali non sono disponibili informazioni passate. Occorre definire una risposta prima di qualsiasi impatto del cambiamento, ed è quindi necessario affinare le proprie capacità previsionali per rilevare informazioni sull’ambiente. È inoltre necessario adottare sistemi di pianificazione di lungo termine, basati non più su eventi passati, bensì proprio sulle previsioni formulate; lo stile di management diventa quindi anticipativo. Se il punto limite è fra il 3° e il 5° stadio, l’attenzione alle capacità previsionali dell’impresa diventa ancora maggiore, anche se è più

10. Il ruolo del tempo ) 333

Figura 10.8 L’EFFETTO DELLA TURBOLENZA AMBIENTALE SULLO STILE DI MANAGEMENT Tempo

L3 V1 V2

NC3

L2

V3

NC2 L1

NC1 Stadi della conoscenza

1

2

3

4

5

6

7

Turbolenza

Fonte

Stima impatto

Risposta

Effetti

Primo impatto

Pieno impatto

Reattivo Stile di management

Anticipativo Esplorativo Creativo

difficile formulare previsioni affidabili. A fronte della difficoltà nell’utilizzare informazioni meno complete, è necessario basare la propria pianificazione su una strategia, quindi non affidandosi solo alle stime sul futuro, ma definendo un opportuno approccio per la gestione dell’incertezza del contesto e per garantire la possibilità di risposte rapide e flessibili. Diventa quindi fondamentale esplorare l’ambiente esterno per gestire l’elevata novità. Lo stile di management di questi cambiamenti deve dunque essere esplorativo. Da ultimo, quando il punto limite è in prossimità del 1° e 2° stadio, diventa fondamentale catturare i segnali deboli che annunciano il mutamento; al limite, vista la difficoltà a raccogliere informazioni strutturate che consentano di prevedere il cambiamento, i decisori cercano, quando possibile, di cavalcarlo e indirizzarlo piuttosto che subirlo. Lo stile di management si fa così creativo. In questo capitolo abbiamo affrontato il ruolo del tempo nei processi decisionali. Abbiamo visto, da un lato, come l’elemento critico stia nel rapporto tra i tempi decisionali e l’inerzia del sistema sul quale si agisce e, dall’altro, la prevedibilità degli scenari futuri che condizioneranno gli effetti delle decisioni. Il modello di Ansoff ci offre una potente cornice concettuale per identificare il timing opportuno delle decisioni nei casi in cui il cambiamento è concentrato nel

334 ) PARTE II – PROCESSI

DECISIONALI

tempo: i salti tecnologici, i cambiamenti normativi e altre discontinuità del contesto, che portano rapidamente da uno “scenario vecchio” a uno “scenario nuovo”. Infine, attraverso l’identificazione dei fattori che influenzano il tempo disponibile prima del pieno impatto e del tempo necessario per reagire al cambiamento, il modello di Ansoff ci consente di capire gli effetti della turbolenza ambientale nelle sue principali dimensioni: velocità, novità e complessità dei cambiamenti. Con questo capitolo si chiude la parte seconda del volume, dedicata ai processi decisionali nei contesti organizzati.

parte terza

Marketing Impresa

Organizzazione

Fornitori

Acquisti e supply chain

Marketing

Processi decisionali

Clienti

336 ) PARTE III – MARKETING

Che cos’è il marketing

Capire il mercato

11. Il marketing nella strategia d’impresa • Marketing management: stimolare e orientare la domanda • Il brand • Marketing e innovazione: il ciclo di vita del prodotto/servizio • Tendenze: Marketing 2.0; glocalization; servitization corporate social responsability • Organizzazione e decisioni di marketing

12. L’analisi delle opportunità e la scelta dei mercati • Mercati industriali e di consumo • Mercati potenziali, serviti e potenziati • Quota di mercato e previsione della domanda • La segmentazione

13. La strategia di marketing • Il posizionamento dell’offerta • Il marketing mix Prezzo elasticità, fissazione e discriminazione Proporsi ai clienti Prodotto tangibile e ampliato

Distribuzione canali e intermediari Comunicazione di prodotto e istituzionale

La struttura di questo libro prevede che i concetti di organizzazione e di decision making siano applicati ed esemplificati in relazione alla catena del valore nella quale l’impresa opera. In particolare, in questa parte terza vengono approfondite le decisioni e l’organizzazione di marketing che riguardano i rapporti con i mercati di sbocco e i clienti. Il capitolo 11 inquadra il ruolo del marketing management nel più ampio contesto della strategia di impresa; si discutono i rapporti tra marketing e innovazione tecnologica e l’impatto di alcuni macro trend (economia digitale, globalizzazione, responsabilità sociale, privacy ecc.). Vengono quindi introdotti l’organizzazione e le decisioni di marketing. Nel capitolo 12 vengono trattate le decisioni di marketing più strettamente legate alla strategia competitiva: l’analisi delle opportunità, la segmentazione del mercato, la scelta dei segmenti nei quali operare. Nel capitolo 13, a partire dal posizionamento dell’offerta, vengono approfondite le leve decisionali del marketing operativo, riconducibili alla definizione dei contenuti dell’offerta di prodotti e servizi, alla determinazione dei prezzi, alle scelte distributive e alle strategie di comunicazione.

11 Il marketing management Processi, organizzazione e tendenze

SOMMARIO

11.1

11.1 Introduzione j 11.2 Marketing e innovazione tecnologica j 11.3 Marketing e società j 11.4 Il ciclo di vita della tecnologia e del prodotto j 11.5 L’organizzazione di marketing j 11.6 Le decisioni di marketing

Introduzione Il marketing viene tradizionalmente considerato come l’insieme di decisioni e di azioni che un’impresa intraprende per: • creare i prodotti e i servizi, dando loro forma, contenuto e funzioni; • stimolare la conoscenza di prodotti e servizi e gestirne la domanda da parte dei clienti, siano essi consumatori finali, altre imprese, distributori, o pubbliche amministrazioni; • distribuire i prodotti ai clienti e/o rendere agevole la fruizione dei servizi.

Domanda stimolabile

Le promozioni

L’idea fondamentale del marketing management è che la domanda di beni e servizi possa essere stimolata e opportunamente canalizzata. Utilizzando i concetti tipici dei processi decisionali che abbiamo introdotto nella parte seconda del libro (si veda ad esempio il capitolo 8), si può affermare che, nella prospettiva del marketing, la domanda non è una variabile puramente ambientale (esogena) che l’impresa deve semplicemente cercare di prevedere in quantità e composizione, ma diviene invece una variabile endogena dei modelli decisionali. Il livello e la composizione della domanda effettiva sono dunque l’effetto combinato delle azioni di marketing e di molte variabili ambientali, come ad esempio il reddito disponibile dei potenziali clienti, la propensione intrinseca all’acquisto, il fabbisogno effettivo ecc. Bastano pochi semplici esempi a convincere di questo fatto. Le campagne promozionali, le offerte, gli sconti, i gadget e altri strumenti ancora vengono utilizzati continuamente dai produttori e dai distributori dei beni di largo consumo. Il risultato di queste azioni è quello di “pompare” la domanda di beni nel breve termine, anche se spesso l’effetto è passeggero e anzi si registrano contraccolpi e assestamenti nei periodi successivi. Tipicamente, nel settore dei cosmeti-

338 ) PARTE III – MARKETING

Far conoscere prodotti e servizi

11.1.1

ci da banco e dei prodotti per l’igiene personale, promozioni efficaci sui punti vendita della grande distribuzione possono moltiplicare le vendite nei periodi di promozione anche di tre o cinque volte. Pubblicità televisiva, televendite e telepromozioni sono altri strumenti che vengono utilizzati per sostenere o anche per sviluppare dal nulla la domanda di determinati prodotti. Nei servizi le offerte speciali e i “pacchetti”, ovvero le offerte integrate di più servizi complementari, possono stimolare fortemente la domanda: nel settore turistico, ad esempio, la disponibilità di pacchetti di viaggio “all inclusive” e delle offerte “last minute” consente di risvegliare e attrarre una domanda altrimenti inespressa. In altri casi è l’opera sistematica di costruzione di un marchio (brand) o la capacità di sviluppare una “moda” che scatena la corsa all’acquisto e al consumo. La stessa Rete e gli strumenti di Internet marketing consentono di raggiungere un mercato potenzialmente molto più ampio, di ridurre i costi di accesso all’informazione e i costi di transazione, di fatto ampliando significativamente la domanda: si pensi a un fenomeno come eBay (Caso 9.3), che ha sviluppato un enorme mercato globale di beni anche rari favorendo l’incontro tra una domanda e un’offerta che altrimenti avrebbero avuto scarsa probabilità di venire in contatto. Anche nei settori industriali le azioni di marketing possono sviluppare la domanda o spostare quote di mercato a favore di questa o quell’impresa. Si pensi alla presenza nelle fiere di settore e nelle esposizioni, strumenti antichi che, tuttavia, non hanno perso valore nell’era della comunicazione digitale: nei molti settori e nicchie delle macchine e degli impianti industriali, dell’automazione e dell’informatica industriale, la presenza nelle fiere è un momento essenziale per far conoscere i propri prodotti, per incontrare nuovi potenziali clienti e sviluppare rapporti d’affari, soprattutto nei mercati geograficamente remoti nei quali è altrimenti difficile penetrare.

Bisogni e domanda In che modo le azioni di marketing influenzano la domanda? Qualunque domanda di beni o servizi espressa da un soggetto economico – persona fisica od organizzazione – origina da un bisogno. In generale i bisogni possono essere soddisfatti in tre modi:

Soddisfare bisogni

• autoproduzione: pensiamo all’orto nel giardino di casa che dà frutta e verdura o ad alcune grandi imprese industriali che producono autonomamente energia elettrica per i propri consumi e addirittura riversano l’eccedenza sulla rete nazionale; • baratto, o scambio in natura, ovvero la cessione di beni e servizi dei quali si è in possesso e non si ha bisogno in cambio di altri beni e servizi di cui si ha un bisogno maggiore ma disponibilità insufficiente o nulla; • acquisto di beni e servizi in cambio di denaro, ovvero le transazioni finanziarie.

11. Il marketing management ) 339

Dai bisogni ai desideri

Promesse di benefici

È evidente che nelle moderne economie le forme più frequenti di soddisfazione dei bisogni sono gli acquisti regolati da transazioni finanziarie. In realtà nei settori industriali vi sono numerosi casi di autoproduzione. Inoltre, soprattutto nelle transazioni internazionali, permangono varie forme di baratto (barter). La domanda espressa o latente di un potenziale cliente è dunque il frutto di un bisogno che non può essere soddisfatto mediante autoproduzione, ma che richiede una transazione, sia essa un acquisto o un baratto. Soffermiamoci un istante sul concetto di bisogno. Il bisogno è una necessità più o meno impellente da soddisfare. Per gli individui e dunque per i mercati di consumo finale la scala dei bisogni di Maslow (1954) – bisogni fisiologici, di sicurezza, di appartenenza, di stima e di autorealizzazione – costituisce un riferimento descrittivo sempre valido (si veda il paragrafo 3.3.2). Per le imprese e le organizzazioni in genere (mercati industriali), il bisogno è relativo ai beni e servizi necessari alla propria attività primaria: un’impresa industriale ha bisogno di materie prime e macchinari, un ospedale di attrezzature e medicine ecc. Nei mercati di consumo finale la domanda è il risultato di un processo attraverso il quale un bisogno evolve più o meno consciamente in un desiderio, che può eventualmente trasformarsi in una domanda. Il desiderio è l’orientamento del cliente verso un prodotto o un servizio specifico quale mezzo per soddisfare un bisogno. Accade dunque che lo stesso bisogno possa canalizzarsi verso desideri differenti. Il bisogno di cibo di un giovane americano del MidWest si trasforma facilmente nel desiderio di un hamburger, pollo fritto e patatine accompagnati da una coca o una birra. È improbabile che lo stesso bisogno di cibo di un napoletano di mezza età si trasformi nello stesso desiderio. Ci aspettiamo più facilmente che desideri un piatto di spaghetti pomodoro e basilico con un bicchiere di vino. È in questa sequenza bisogno-desiderio-domanda che inter viene il marketing. In particolare, il compito specifico del marketing è quello di indirizzare il bisogno verso il desiderio di un determinato prodotto o servizio e di renderne possibile la domanda esplicita. È importante riconoscere che attraverso il marketing le imprese non creano bisogni, fatto di cui talvolta sono erroneamente accusate. Esse piuttosto cercano di influenzare i desideri delle persone, sfruttando fattori sociali e agendo su bisogni preesistenti. De Beers, Rolex e Porsche non creano bisogni: sfruttano l’esigenza di status sociale e riconoscibilità – che non hanno certo inventato loro – e cercano di indirizzarla verso i diamanti, gli orologi e le auto sportive. Nei mercati industriali, invece, il legame bisogno-domanda è molto più immediato e non passa per la formazione di desideri influenzabili dai condizionamenti socioculturali e dalle azioni di marketing. Il fabbisogno dei clienti è strumentale alla loro produzione e il marketing dei fornitori ha il compito di canalizzare i fabbisogni verso i prodotti e i servizi che meglio li soddisfano. Per intercettare i desideri e la domanda, le imprese offrono prodotti e servizi che promettono di procurare al cliente benefici specifici di ca-

340 ) PARTE III – MARKETING

Funzioni ed emozioni

CASO

rattere sia funzionale sia psicologico-emotivo. Nei mercati industriali i benefici sono quasi esclusivamente di natura funzionale, come ad esempio nell’acquisto dei componenti industriali necessari per il montaggio di macchinari e impianti. Nei mercati dei consumatori le situazioni sono più variegate. In alcuni casi i benefici funzionali sono largamente prevalenti, come nell’acquisto di una lavatrice dalla quale ci si aspettano performance varie di lavaggio, economicità, affidabilità ecc. In altri casi essi coesistono con quelli emotivi, come nell’acquisto di un’auto o di un orologio. Tuttavia è evidente che per ottenere i benefici funzionali della mobilità e della velocità vi sono auto molto meno costose di una Porsche e per poter leggere l’ora al polso in modo affidabile vi sono alternative infinitamente meno costose di un Rolex. Vi sono, infine, casi limite nei quali l’aspetto funzionale è praticamente assente e i benefici sono di natura esclusivamente psicologico-emotiva. Il Caso 11.1 ne illustra brevemente uno.

11.1

De Beers De Beers è il maggior produttore al mondo di diamanti. Fondata nel 1888, l’azienda ha sempre avuto una posizione di leadership assoluta nel settore diamantifero. Nei primi anni del XX secolo controllava addirittura il 90% della produzione mondiale. Nel corso di oltre cento anni la competizione è però divenuta sempre più intensa, erodendo progressivamente la posizione di De Beers, che rimane tuttavia ancora oggi di gran lunga il maggior produttore. Storicamente l’impresa ha sempre avuto un approccio molto legato all’estrazione e alla produzione, di fatto rifornendo di diamanti grezzi un gran numero di utilizzatori sia per il mercato industriale sia per quello di consumo finale. Per contrastare l’erosione della posizione competitiva e vedendo, sebbene con un po’ di ritardo, il forte sviluppo del settore del lusso, verso la fine degli anni Novanta De Beers cambiò decisamente strategia: da un approccio supply-driven, appunto orientato all’estrazione, lavorazione e fornitura, a un approccio marketing-driven guidato dai desideri dei clienti, in questo caso principalmente delle clienti. La strategia prevede un maggior livello di integrazione a valle nella filiera, controllando maggiormente la produzione e la distribuzione di gioielli e non più limitandosi a rifornire di diamanti grezzi gli altri produttori di gioielleria. Questo nuovo orientamento è ben rappresentato dallo slogan utilizzato da De Beers per connotare la propria attività: from mine to finger. Ma l’aspetto più interessante è il messaggio che ora accompagna ovunque De Beers, non solo nella pubblicità ma addirittura nello stesso logo dell’azienda: a diamond is forever, tradotto in tutte le lingue e utilizzato in tutte le campagne nei diversi Paesi. Fonte: www.debeersgroup.com.

A diamond is forever. Un messaggio banale in quanto richiama l’ovvia eternità fisico-chimica della pietra dura per eccellenza, ma allo stesso tempo potente perché contiene molte sfumature e ammicca a molti

11. Il marketing management ) 341

aspetti differenti. Suggerisce ad esempio che il costo elevato di acquisto è giustificato dal fatto che non vi sarà alcun consumo, obsolescenza o deperibilità a minarne il valore. Si presta anche al fatto che quando viene donato può rappresentare un impegno o un sentimento duraturo. Tuttavia, il messaggio non spiega, né potrebbe farlo, i benefici funzionali che sono ovviamente nulli. D’altra parte non ha necessità di spiegare quelli psicologico-emotivi, che rispondono a bisogni antichissimi che non devono essere spiegati a nessuna donna (magari a qualche uomo). Da molti punti di vista è dunque un capolavoro di ambiguità che canalizza verso il “prodotto diamante” bisogni anche diversi e spesso compresenti: da quello di status sociale e riconoscibilità a quello di sentirsi ammirate, notate e desiderate; dal bisogno di sentirsi oggetto di sentimenti forti e duraturi nel caso lo si riceva in dono, a quello di sentirsi rassicurati sull’investimento quando lo si acquista.

11.1.2

Offerta, valore e marca

Benefici, costi e valore

L’offerta di un’impresa è costituita dall’insieme dei benefici funzionali, dei benefici psicologico-emotivi e dei costi di acquisizione, non solo quelli monetari ma anche lo sforzo, la fatica o il tempo per procurarsi il bene o servizio. Il valore di un’offerta per un cliente è costituito dal rapporto tra la somma dei benefici e la somma dei costi di acquisizione. Naturalmente il valore di un’offerta deve essere comunicato ai potenziali clienti. Gli sforzi di comunicazione delle imprese sono pertanto volti a mettere in luce i benefici funzionali ed emotivi ed eventualmente a sottolineare quanto siano contenuti i costi di acquisizione. Qui interviene un altro concetto chiave del marketing che è quello della marca (brand). Un brand è una proposta di valore a opera di una fonte nota (si veda in proposito Kotler, 2003, capitolo 1). Il brand comunica in sé automaticamente un valore o, quantomeno, un valore approssimato. Imprese con marche deboli e sconosciute devono fare sforzi di comunicazione molto elevati proprio per spiegare ai potenziali clienti il valore dell’offerta. Imprese con marche forti e conosciute ne hanno bisogno in misura molto inferiore. Il brand già comunica per loro. Basta la stella a tre punte anche prima del nome “Mercedes” a comunicare un’offerta con benefici e costi di un certo tipo e a generare associazioni di idee nella testa dei consumatori: lusso, comfort, imponenza, qualità e robustezza. Un grande cartellone pubblicitario con il celebre “accento” (swoosh) già comunica al consumatore il mondo di sensazioni legate allo sport e alle elevate performance sportive anche senza che appaia il nome Nike. Il potere della marca sta proprio nell’evocare sensazioni e nello stimolare associazioni di idee. Per comprendere appieno che cos’è il marketing management vi sono due questioni preliminari alle quali occorre dare risposta:

Marchi che comunicano

• in che cosa si sostanzia l’orientamento al marketing e come questo si differenzia da altre strategie o filosofie di gestione aziendale;

342 ) PARTE III – MARKETING

• quali sono le diverse situazioni o, meglio, gli stati di domanda, di fronte ai quali il marketing può trovarsi e, di conseguenza quale varietà di obiettivi e di strategie possono derivarne per la funzione.

11.1.3

Dai bisogni alle opportunità di business

Politiche aggressive

Innamorarsi del prodotto

Produrre al massimo

L’orientamento al marketing Il marketing management ha l’obiettivo e la capacità di modificare almeno in parte la domanda attraverso azioni e strumenti differenti e in alcuni casi di crearla ex novo. Nel capitolo 13 esamineremo in dettaglio tali strumenti e i loro ambiti di applicazione. In una visione più ampia, il marketing ha l’obiettivo di individuare i bisogni attuali e potenziali del mercato al fine di trasformarli in opportunità di business, il che implica interpretare e gestire la domanda e non semplicemente stimolarla al solo scopo di vendere. In questo senso il puro e semplice orientamento alla vendita è molto più limitato dell’orientamento al marketing. L’orientamento alla vendita parte dal presupposto che i clienti acquistano poco o non acquistano se non sono adeguatamente stimolati. Diventano allora cruciali le tecniche di vendita, una forza vendita aggressiva, le politiche promozionali e gli sconti. L’orientamento alla vendita assume che un uso sistematico di questi strumenti consenta di vendere più o meno qualunque cosa. L’orientamento al marketing si centra invece sulla soddisfazione del cliente, sull’esatta comprensione dei suoi bisogni, sul far emergere domande latenti o sul soddisfare in modo pieno domande già manifeste, il tutto ovviamente conseguendo ricavi e profitti soddisfacenti per l’impresa. In questo senso l’orientamento al marketing si distingue significativamente anche da altri approcci, ad esempio dall’orientamento al prodotto. Molte aziende e molti imprenditori si innamorano del loro prodotto e perdono di vista le esigenze del cliente o le evoluzioni del settore. Polaroid è rimasta prigioniera di un prodotto e di una grande tecnologia, che le hanno assicurato il successo per decenni ma le hanno impedito di cogliere per tempo i cambiamenti nel mercato. È un atteggiamento tipico delle imprese che sono nate e cresciute con un prodotto specifico, spesso con contenuti tecnologici elevati. In altri casi si tratta di imprese dominate da una cultura tecnico-ingegneristica ossessionata dal raggiungimento della perfezione tecnica che può risultare ridondante rispetto alle reali esigenze dei clienti. Pajero di Mitsubishi Motors (si veda oltre il Caso 11.5) è stato probabilmente il miglior fuoristrada nella sua categoria, sotto il profilo tecnico. Tuttavia l’azienda ha ottenuto un successo inferiore alle aspettative e ai risultati di altri concorrenti tecnologicamente meno avanzati proprio per un orientamento fortissimo della casa-madre al prodotto piuttosto che alle esigenze del cliente, che sono spesso più primitive di quanto non pensino gli ingegneri giapponesi. Altre aziende sono invece caratterizzate da un orientamento alla produzione. L’enfasi è sulla capacità operativa di produrre e distribuire prodotti e servizi in grande quantità. È un approccio tipico dei mercati, dei settori e dei Paesi in via di sviluppo, e in particolare funziona quando esiste una domanda potenziale molto grande ed eccedente la capacità produtti-

11. Il marketing management ) 343

va aggregata. Queste condizioni si ritrovano oggi in Paesi come la Cina e l’India, nei quali la domanda potenziale in alcuni settori è enorme: l’importante è produrre tanto e subito perché il mercato è affamato. Purtroppo, nelle economie avanzate queste condizioni si verificano ormai raramente e solo temporaneamente, ed è per questo che un orientamento alla produzione, pur adatto in alcuni casi, può essere molto pericoloso in altri. Sono lì a testimoniare i pericoli di questo orientamento le auto nuove invendute ferme sui piazzali, i magazzini pieni di capi di abbigliamento che si cerca di svendere in saldo e molti altri casi simili. L’orientamento al marketing si distingue dunque da altri approcci di management. È particolarmente adatto ai settori maturi ma anche a quelli emergenti. Il caso Adecco (Caso 11.2) è un esempio interessante di creazione di una domanda dal nulla proprio grazie a un forte orientamento al marketing.

CASO

11.2

Adecco: start-up e creazione di un nuovo mercato In Italia il lavoro temporaneo è stato introdotto con la legge 196 del 1997, meglio nota con il nome di “pacchetto Treu”. Il governo rilasciò le prime autorizzazioni a operare nel nuovo mercato nel dicembre 1997 sulla base di requisiti stringenti richiesti dalla nuova normativa. Tra i primi operatori autorizzati vi erano Adecco e Manpower, le due maggiori multinazionali del settore. Adecco, la cui struttura organizzativa in Italia è già stata presentata nel Caso 4.6, è un colosso multinazionale leader nel settore del lavoro temporaneo, che ogni giorno avvia al lavoro oltre 700.000 persone in tutto il mondo. Opera in oltre 60 Paesi con circa 5.500 filiali e 33.000 dipendenti. L’azienda è nata nel 1996 dalla fusione tra la svizzera Adia e la francese Ecco. Dopo un lungo e tormentato iter parlamentare, nel 1997 il quadro normativo si andava finalmente definendo. Preparandosi all’entrata in vigore della legge, Adecco si pose con anticipo il problema di creare una domanda reale di flessibilità del lavoro da parte delle imprese, fino ad allora assente, o meglio latente, e parzialmente soddisfatta in altri modi. L’azienda, forte di una lunga esperienza nell’avvio di nuovi mercati, mise subito all’opera un gruppo di lavoro formato da giovani fortemente motivati con l’obiettivo di sviluppare quello che l’azienda chiama lo stadio di “evangelizzazione”, ovvero la spiegazione ai potenziali clienti – imprese industriali e commerciali di ogni settore – di tutti i vantaggi e le possibilità del lavoro temporaneo. La fase di “evangelizzazione” L’informazione sulla legge e sulle opportunità di utilizzo si avvalse anche di un opuscolo – messo a punto da Adecco in collaborazione con lo studio legale dell’ex ministro del Lavoro Gino Giugni – dal titolo evocativo: Tutte le risposte sul lavoro temporaneo. I nuovi strumenti di flessibilità erano infatti sconosciuti o talvolta fraintesi soprattutto dalle piccole e medie imprese, spesso diffidenti. La fase di “evangelizzazione” durò due anni e si basò essenzialmente su visite in aziende, incontri e convegni con gli imprenditori, i manager e i responsabili delle risorse umane. Le caratteristiche principali che Adecco diede a questa fase furono due: la prevalenza del contenuto giuridico, con il contributo e la presenza agli incontri di esperti legali di prestigio, e la presenza di testimonial, ovvero di imprenditori e manager che avevano utilizzato per pri-

344 ) PARTE III – MARKETING mi il lavoro temporaneo. Si rivelò importante far capire bene alle imprese i vantaggi del lavoro temporaneo rispetto alle altre forme di flessibilità come l’utilizzo degli straordinari, gli accordi locali sulla flessibilità di orario, i contratti a termine ecc. Venne sottolineato e testimoniato come il lavoro temporaneo soddisfi bisogni in parte diversi da quelli suggeriti dal termine “temporaneo”: la necessità di avere a disposizione in tempi brevissimi forza-lavoro anche con specializzazioni particolari, saltando i costi e i tempi della selezione e riducendo i costi di gestione. Si sottolineavano giustamente anche i vantaggi per i lavoratori: un mercato efficiente di lavoro temporaneo consentiva infatti di allocare in modo più soddisfacente e continuativo i lavoratori, e molte esperienze si concludevano con una stabilizzazione del rapporto e un passaggio a vere e proprie assunzioni a tempo indeterminato. Il successo di questa fase fu notevole, gli incontri erano sempre affollati. Adecco mise in campo uno sforzo enorme per soddisfare in tempi brevi la curiosità e l’interesse che montavano: organizzò a ritmo incalzante incontri in tutto il Paese. I risultati non mancarono. L’azienda riuscì a partire prima dei suoi concorrenti soprattutto conquistando alcuni grandi clienti multinazionali. La vendita proattiva Accanto all’“evangelizzazione” venne avviata anche la fase di vendita proattiva. Oggi l’azienda conta circa 400 filiali sul territorio, ma al momento dell’autorizzazione ne aveva a disposizione solo 6. La strategia commerciale fu subito aggressiva e si basò sulle cosiddette “vendite proattive”, di fatto visite “porta a porta” per spiegare e convincere i direttori del personale a provare gli strumenti innovativi. La strategia si dimostrò vincente grazie allo sforzo capillare sul territorio, alla competenza del personale messo in campo da Adecco e alle consulenze legali che consentirono di ritagliare soluzioni giuridiche ad hoc per esigenze particolari. Lo strumento della visita si rivelò fondamentale proprio perché il marketing delle risorse umane è delicato e richiede contatto diretto e creazione di fiducia. A causa di ciò le strategie affidate ad altri strumenti come la posta elettronica, l’invio di brochure istituzionali e il contatto telefonico furono subito scartate o utilizzate in modo marginale. Per conquistare un nuovo cliente nel 1998 erano necessari in media 7 incontri, tra visite ed eventi, mentre con il crescere della consapevolezza oggi ad Adecco ne bastano solo 3.

11.1.4

Soddisfazione del cliente

Livellare la domanda

Gli stati della domanda e il ruolo del marketing Nell’interpretare e stimolare la domanda, sia essa di beni o di servizi, ci si trova davanti a situazioni e a stati della domanda molto diversi. Una prima situazione è quella in cui si ha domanda stabile e il marketing deve sostenerla, evitando che si riduca nel tempo. In questi casi è importante monitorare il livello di soddisfazione dei clienti, gli eventuali cambiamenti nei gusti e nelle preferenze, le mosse dei concorrenti che potrebbero sottrarre quote di mercato. È la situazione tipica di molti prodotti di largo consumo. Una variante della domanda stabile è la domanda irregolare, ovvero una domanda che, pur mostrando una sostanziale stabilità nel lungo termine, presenta però forti oscillazioni nel breve termine dovute ad esempio a stagionalità o a picchi improvvisi (si veda in proposito il capitolo 17). In questi casi il marketing cerca di livellare la domanda attraverso incentivi, sconti e promozioni che la aumentino nei periodi magri. Ad esempio il set-

11. Il marketing management ) 345

Ridurre la domanda

Bisogni nascosti

11.2

tore dell’abbigliamento e molti comparti del turismo sono strutturalmente affetti da domanda irregolare. La situazione di domanda in declino pone il marketing di fronte al dilemma se tentare di rivitalizzare il prodotto o il servizio con innovazioni e modifiche o se lasciarli al loro destino e concentrarsi sullo sviluppo di nuove offerte. Lo stato di domanda eccessiva può sembrare raro, forse anche desiderabile, e tale da non porre particolari problemi di marketing. In realtà non è così. Infatti, se per i prodotti e i servizi offerti dalle imprese si può forse dire che la domanda non è mai eccessiva e che il problema è semmai quello di potenziare la capacità produttiva, per altri tipi di offerta non è sempre così. Si pensi al marketing territoriale per promuovere città o regioni: Venezia, ad esempio, sopporta un volume di turisti eccessivo che ne compromette la vivibilità e il patrimonio artistico inestimabile. In questi casi il compito del marketing è quello paradossale di fare demarketing: cercare cioè di ridurre la domanda in modo temporaneo o definitivo. L’obiettivo non è quello di azzerare la domanda, ma solo di contenerla ed eventualmente indirizzarla verso le fasce più redditizie e a maggior valore. Il demarketing si applica anche ai casi di domanda nociva, come ad esempio quella di alcol, fumo, droghe, sostanze dopanti ecc. In questo caso il demarketing non si propone di contenere la domanda ma di scoraggiarla e possibilmente azzerarla. Lo stato di domanda latente o addirittura assente è molto interessante ed è forse la sfida più stimolante per i marketing manager, come abbiamo visto nel caso Adecco (Caso 11.2). Lo start-up di un nuovo mercato è complesso e affascinante: si tratta di creare una domanda individuando bisogni nascosti, dei quali i clienti hanno consapevolezza parziale o addirittura nessuna reale percezione. Il cliente non sa che potrebbe esserci qualcosa che fa al caso suo e dunque non manifesta alcun desiderio. Ad esempio, prima di sapere dell’esistenza di una macchina chiamata fax nessun impiegato o manager di azienda aveva la più pallida idea che il bisogno di trasferire rapidamente documenti e informazioni scritte potesse essere soddisfatto in un modo differente dai tradizionali servizi postali o espressi. In questi casi occorre progettare tutto: il prodotto-servizio, il sistema di offerta e quello di distribuzione. Si deve creare una marca e affermarla o eventualmente decidere di sfruttarne una già esistente. In queste situazioni la rapidità (il cosiddetto time-to-market) è spesso un fattore determinante per consolidare la leadership. La posizione di Adecco è oggi difficilmente scalfibile a opera dei concorrenti, proprio per la velocità d’ingresso che fece di Adecco il first mover del settore.

Marketing e innovazione tecnologica L’innovazione tecnologica è il fattore determinante del successo competitivo in molti settori industriali. È sempre stato così, ma oggi lo è ancora di più. Nel contesto della globalizzazione e della liberalizzazio-

346 ) PARTE III – MARKETING

ne dei mercati, per la maggior parte delle imprese occidentali è difficile sostenere altri vantaggi competitivi, ad esempio quelli di costo del lavoro, oppure rifugiarsi in nicchie protette dalla concorrenza. L’introduzione di nuovi prodotti e servizi consente dunque alle imprese di proteggere i margini e sostenere la propria crescita (si veda ad esempio Verganti, 2004). Che ruolo ha il marketing nei processi di innovazione così fondamentali per lo sviluppo delle imprese e dunque dell’economia e della società nel complesso? Per rispondere occorre accennare alle dinamiche di base dell’innovazione tecnologica. In estrema sintesi e rimandando a testi specialistici per approfondimenti (ad esempio Schilling, 2005; Verganti et al., 2004), possiamo identificare tre elementi essenziali: le fonti dell’innovazione a disposizione dell’impresa; i conflitti di standard e i disegni dominanti; il timing dell’innovazione. Un ulteriore concetto-chiave è costituito dal ciclo di vita delle tecnologie e dei prodotti, che per la sua centralità nelle strategie di marketing discuteremo separatamente (paragrafo 11.4).

11.2.1 Gli utilizzatori

Le fonti dell’innovazione Comunemente si crede che l’innovazione dei prodotti e dei servizi di un’impresa sia generata principalmente dalle attività interne di ricerca e sviluppo. Si tratta di una visione parziale, in quanto in molti casi sono altri gli attori che generano l’innovazione e che consentono all’impresa di rinnovare la propria offerta. Le fonti dell’innovazione sono quindi molteplici (si veda ad esempio Von Hippel, 1988): anzitutto gli utilizzatori e dunque i clienti o i potenziali clienti. Innovazioni come lo snowboard o il Laser, la piccola e popolarissima imbarcazione a vela, sono state pensate e sviluppate dagli appassionati sportivi e successivamente fatte proprie e realizzate in grande serie dalle aziende produttrici. Anche nei mercati industriali gli utilizzatori sono spesso una fonte preziosa dell’innovazione. Nel settore delle macchine e degli impianti industriali, ad esempio, è molto comune che il cliente industriale introduca innovazioni alle macchine o fornisca comunque idee e spunti al costruttore per innovare. È infatti il cliente quello che, forte dell’esperienza quotidiana, meglio conosce le condizioni di utilizzo delle macchine e degli impianti, i problemi ricorrenti e i margini di miglioramento. Nel suo piccolo anche Bodin rappresenta un esempio interessante di innovazione da parte di un utilizzatore. “...Nel 1977, notando che le sue macchine di taglio e piega si inceppavano spesso, [Edmondo Bodin] ne modificò una, più per hobby forse, invertendo la sequenza di alcune operazioni. Spedì i disegni al fornitore americano che incorporò in modo stabile la modifica e in segno di gratitudine gli regalò una macchina nuova” (Caso 2.3). In generale ci si riferisce alle innovazioni generate o comunque fortemente ispirate e guidate dagli utilizzatori con il termine di demand pull, per distinguerle da quelle cosiddette technology push, cioè fortemente spinte dalla disponibilità di nuove tecnologie.

11. Il marketing management ) 347

Naturalmente le fonti esterne dell’innovazione non si limitano agli utilizzatori: i fornitori, i centri di ricerca e le università, i partner tecnologici produttori di beni complementari, talvolta anche i concorrenti. Non è questa la sede per approfondire tali aspetti. Qui interessa solo sottolineare che, poiché molte innovazioni sono guidate se non addirittura generate dall’utilizzatore, la funzione marketing ha un ruolo centrale nello stimolare i clienti, nel raccoglierne e canalizzarne le proposte o gli spunti e, più in generale, nel sondare continuamente il mercato a caccia di segnali di innovazione da parte di utilizzatori, anche non clienti.

11.2.2

Vantaggi della diffusione

Tecnologie complementari

I conflitti di standard e il disegno dominante In alcuni settori il successo competitivo delle imprese dipende fortemente dalla possibilità di affermare uno standard o un disegno dominante del prodotto. In altri casi invece convivono standard e disegni diversi. I settori ad alta tecnologia come le telecomunicazioni e l’informatica sono spesso caratterizzati da standard dominanti, si pensi ad esempio a Windows di Microsoft e agli standard GPRS, 3G e 4G per le comunicazioni mobili. Il motivo principale per cui si affermano gli standard è che per le tecnologie complesse i rendimenti sono crescenti con la diffusione e l’utilizzo: quanti più utilizzatori usano lo stesso standard tanto più ognuno di essi ne trae beneficio. Talvolta, lo standard e il disegno dominante si affermano se e quando sfruttano tecnologie complementari. Hardware e software nell’informatica sono quasi sempre sviluppati da imprese diverse. Eppure i destini dei produttori di hardware e quelli dei produttori di software sono spesso legati a doppio filo. Alleandosi con IBM, Microsoft riuscì a imporre uno standard di sistema operativo (MS-Dos) che soppiantò il CP/M sviluppato da Digital Research, il primo sistema operativo inventato negli anni Settanta, in grado di far comunicare tra loro le periferiche di un personal computer. Verso la metà degli anni Ottanta, Apple cominciò a commercializzare personal computer dotati di un sistema operativo efficiente e riscosse un elevato successo. IBM, intravedendo allora l’enorme potenziale di mercato, capì l’importanza di creare rapidamente un disegno dominante e attraverso l’alleanza con Microsoft vi riuscì. In alcuni casi la battaglia per gli standard e il disegno dominante è influenzata da scelte strategiche e di marketing. Sony è un colosso che ha imposto molti standard e disegni dominanti in mercati differenti. Nel settore della videoregistrazione perse però clamorosamente una battaglia. Sebbene avesse introdotto per prima il prodotto sul mercato e sebbene il suo standard (Betamax) fosse superiore al VHS della concorrente Panasonic (allora Matsushita) – si veda anche il capitolo 2 (Caso 2.1) – nel volgere di pochi anni VHS diventò lo standard dominante. Sony non capì subito il potenziale della tecnologia – pensò si limitasse alla videoregistrazione amatoriale – e inoltre non licenziò la tecnologia ad altri produttori, confidando di riuscire a imporsi come monopolista in un mercato di nicchia. Pana-

348 ) PARTE III – MARKETING

Convivenza di standard diversi

11.2.3 Vantaggi della prima mossa

Recuperi e sorpassi

sonic invece capì che il mercato veramente ricco poteva essere quello legato all’home video e alla registrazione dei programmi TV. Concluse accordi di licenza con altri produttori con l’obiettivo di diffondere lo standard e si accordò con i distributori e le major del settore cinematografico. Quando Sony reagì e cercò di recuperare era ormai tardi: troppi consumatori avevano già acquistato VHS, e soprattutto i clienti potenziali erano sempre più attratti dalla disponibilità di videocassette in questo formato. Sony alla fine si arrese, abbandonò Betamax e cominciò a produrre con lo standard VHS. In definitiva, non vinse lo standard tecnologicamente superiore ma quello che per primo corse incontro al mercato potenziale e fu in grado di soddisfare bisogni latenti: in ultima analisi una questione di marketing. Nel capitolo 13 (Caso 13.2) discuteremo un ulteriore esempio di un disegno dominante che si è recentemente affermato: quello di iPod e iTunes di Apple, che integrano prodotto (il lettore portatile) e servizio (il download di brani musicali) in un’unica piattaforma che di fatto costituisce il disegno dominante del settore. Occorre infine ribadire che non sempre i conflitti tra standard si concludono con la vittoria di un unico formato e di un disegno dominante. Nel settore delle consolle per videogiochi, dove pure la competizione è stata intensissima, hanno convissuto standard e piattaforme diverse: da Playstation di Sony, la piattaforma più diffusa, a Wii di Nintendo a X-Box di Microsoft ad altre ancora, ciascuna delle quali con milioni di affezionati estimatori e un’abbondante offerta di software.

Il timing dell’innovazione Abbiamo già avuto occasione di sottolineare più volte che la scelta del tempo di ingresso nel mercato è un fattore cruciale per il successo. Nel capitolo 10 abbiamo discusso, attraverso il modello di Ansoff, la cornice concettuale entro la quale collocare il timing dei processi decisionali. In quella sede abbiamo anche sottolineato che i vantaggi del first mover (primo entrante) e talvolta quelli degli early follower (inseguitori precoci) sono spesso incolmabili. A suo tempo Polaroid entrò per prima nel settore delle macchine fotografiche istantanee e Kodak non riuscì più a recuperare. Analogamente si comportò Intel nei confronti di AMD nell’introduzione di generazioni sempre nuove di microprocessori. Pilkington precedette Corning nell’introduzione del vetro “float” (tecnologia di processo che oggi rappresenta circa il 90% di tutta la produzione mondiale di vetro) e riuscì sempre a mantenere la leadership. Amazon, Coca-Cola, Xerox sono altri esempi di pionieri che hanno ottenuto un successo difficilmente scalfibile da parte di nuovi entranti. Non solo il first mover può sfruttare i vantaggi di un monopolio temporaneo di mercato, e i conseguenti maggiori margini e profitti: nello stesso tempo l’anticipatore può affermare più facilmente il proprio brand, ha una maggiore facilità di fidelizzazione dei propri clienti, si guadagna un posizionamento nel mercato come innovato-

11. Il marketing management ) 349

Dimensione e diversificazione

Prodotti “sovraperformanti”

re e può proteggere l’innovazione con un brevetto. Infine, nel medio termine può ottenere vantaggi di costo a seguito del raggiungimento di economie di scala e di economie di esperienza prima dei suoi concorrenti. È anche vero però che vi sono numerosi controesempi, alcuni dei quali già citati: Digital Research introdusse prima di Microsoft i sistemi operativi per PC ma, come tutti sanno, fu la seconda a prevalere; Sony introdusse per prima la tecnologia di videoregistrazione ma, a causa di una serie di errori, fu Panasonic (Matsushita) a conquistare rapidamente la leadership; Magnavox introdusse le consolle per videogiochi, ma prima Atari, poi Nintendo e Sony e da ultima anche Microsoft stessa sono diventati i leader (Schilling, 2005). È però innegabile che il vantaggio del first mover è consistente, e solo errori strategici, la sconfitta sugli standard o fattori esterni particolari possono eroderlo. Tuttavia vi sono casi nei quali l’entrata anticipata in un nuovo mercato comporta rischi e costi molto rilevanti. L’impresa molto spesso si trova a dover creare una domanda che non esiste ancora o è latente, e deve quindi investire parecchio. Inoltre l’introduzione anticipata dei prodotti può implicare un minor livello di qualità e affidabilità o di aggiornamento delle tecnologie rispetto a prodotti che verranno introdotti successivamente. Il mercato dei computer palmari o Personal Digital Assistant (PDA) ha visto uno sviluppo molto lento, soprattutto se confrontato con altre recenti tecnologie elettroniche. Nonostante buoni palmari fossero già presenti sul mercato dalla metà degli anni Novanta, la domanda stentò a decollare, anche per l’immaturità di alcune tecnologie abilitanti come il software di riconoscimento della scrittura e le scarse performance dei modem per la trasmissione dati. Il mercato poi era ancora immaturo: molti clienti erano incerti sulla reale utilità del prodotto. Tutte le rosee previsioni di rapida crescita furono smentite. Come conseguenza di ciò molti early mover incontrarono difficoltà notevoli. Alcuni di essi poterono sopravvivere perché grandi abbastanza e soprattutto diversificati a sufficienza, come Compaq e HP (allora non ancora fuse) o Palm. Decisiva fu anche la strategia attendista di Microsoft. Quando finalmente il gigante annunciò il suo ingresso, verso la metà degli anni Novanta, quello fu il segnale che forse il mercato era maturo o che comunque il leader avrebbe stimolato opportunamente la domanda. Ormai però molti early mover (aziende come Go, Eo e Momenta) erano già in fallimento, incapaci di reggere più di un quinquennio di investimenti con scarsi ritorni. Anche in presenza di innovazioni technology push fortemente spinte sul mercato dai produttori, il ruolo del marketing è centrale. Occorre infatti valutare attentamente i bisogni e la domanda potenziale evitando di spingere troppo presto nuovi prodotti sul mercato quando questo non è ancora maturo. E ciò è vero anche nei mercati B2B (si veda il capitolo 12, paragrafo 12.3.2). Un’altra situazione è quella del lancio frequente di nuovi prodotti, per così dire “sovradimensionati”. Per fronteggiare la concorrenza e la conseguente riduzione dei prezzi e dei margini, i leader tecnolo-

350 ) PARTE III – MARKETING

Erosione dei profitti

gici talvolta introducono nuovi prodotti con performance che appaiono quasi eccessive rispetto alle esigenze correnti dei consumatori. È dubbio ad esempio che la rincorsa a chip sempre più potenti sia realmente funzionale alle necessità del cliente medio di personal computer. Un ultimo aspetto cruciale relativo al timing riguarda i rischi di cannibalizzazione. Talvolta i leader di mercato o le aziende comunque già operanti ritardano l’introduzione di nuovi prodotti per non compromettere i profitti ancora lauti che realizzano con prodotti ormai maturi. È una strategia comprensibile e spesso giustificata; è però rischiosa e può rivelarsi anche fatale. Alla fine degli anni Ottanta, Nintendo era leader nel settore delle consolle per videogiochi con tecnologia a 8 bit. Ritardò l’introduzione della tecnologia a 16 bit per non erodere i profitti. Sega, il maggior competitor di allora, ne approfittò immediatamente guadagnando notevoli posizioni.

11.3

Marketing e società

11.3.1

Il marketing strategico

Obiettivi di marketing

Quote di mercato e tassi di crescita

Gli elementi che abbiamo introdotto e la stessa descrizione di che cos’è l’orientamento al marketing lasciano intendere che il marketing management è un insieme di attività e di funzioni molto vicine e in parte sovrapposte alla strategia di impresa. Talvolta ci si riferisce a quest’area di sovrapposizione con il termine di marketing strategico. Secondo il pensiero un po’ provocatorio del CEO di un’importante catena distributiva specializzata, leader nel settore dell’elettronica, il marketing, inteso come struttura organizzativa e insieme di risorse dedicate, nella sua azienda semplicemente non esiste. L’attività di marketing è così strategica e cruciale che di fatto egli stesso la svolge in prima persona, con il supporto di pochi collaboratori. Naturalmente non è sempre così. In molte aziende il marketing è una funzione dotata di risorse consistenti con competenze specialistiche avanzate. La strategia di impresa normalmente definisce di volta in volta obiettivi di profittabilità, di crescita, di sviluppo, di diversificazione o talvolta di consolidamento e mantenimento delle posizioni. Gli obiettivi di marketing discendono da quelli strategici secondo una logica di tipo strumentale. Sono infatti funzionali al raggiungimento degli obiettivi strategici più generali. Tipici obiettivi di marketing sono il raggiungimento o il mantenimento di una determinata quota di mercato (si veda in proposito paragrafo 12.4.2) o il conseguimento di certi livelli di fatturato. In altri casi si mira a mantenere un certo tasso di crescita delle vendite, o ancora a canalizzare la domanda verso prodotti e servizi di recente introduzione o verso i segmenti più redditizi. In altri casi ancora il successo del marketing si misura nella capacità di lanciare sul mercato nuovi prodotti e servizi.

11. Il marketing management ) 351

Opportunità e minacce

11.3.2

In questo scenario, il primo compito del marketing è infatti quello di analizzare il contesto di mercato nel quale l’impresa opera o si propone di operare, al fine di individuare opportunità da cogliere per ottenere nuovi vantaggi competitivi o minacce che devono essere prese in considerazione per non perdere quelli attuali. Le opportunità di mercato fanno riferimento a nuove possibilità per l’impresa di incrementare i propri profitti, attraverso ad esempio l’ampliamento del mercato a cui si rivolge, l’aumento della quota nei mercati attuali, la vendita dei prodotti o servizi a prezzi maggiori e così via. D’altro canto, le minacce determinano potenziali rischi per l’impresa, a seguito di tendenze ambientali sfavorevoli o comportamenti avversi di attori operanti nello stesso microambiente. Opportunità non colte perché non identificate per tempo si possono trasformare in minacce per il futuro. Minacce non percepite si trasformano in gravi rischi di sopravvivenza per le imprese. Complessivamente le opportunità e le minacce di mercato determinano l’attrattività attuale e futura di un business (per approfondimenti su questi concetti di strategia di impresa si rimanda ad Azzone e Bertelè, 2011). Questa analisi si colloca nell’ambito del più ampio processo di definizione della strategia di business dell’impresa, che parte dall’analisi dell’ambiente interno ed esterno al fine di evidenziare i punti di forza (Strengths) e di debolezza (Weaknesses) conseguenti alle caratteristiche e alle capacità attuali dell’impresa, nonché le opportunità di mercato (Opportunities) e le minacce (Threats). La valutazione complessiva di questi fattori (a cui si fa spesso riferimento con il termine SWOT analysis) porta a definire gli obiettivi specifici del business, ovvero a individuare quali punti di forza dell’impresa utilizzare o quali punti di debolezza cercare di mitigare per poter sfruttare le opportunità presenti sul mercato (si veda oltre il paragrafo 11.6, dedicato ai processi decisionali di marketing).

Le tendenze emergenti Il mondo del business è continuamente attraversato da cambiamenti e macro-fenomeni sociali, economici e tecnologici che modificano gli orientamenti delle imprese e pongono nuove sfide. La funzione di marketing è tra quelle più colpite, come è naturale che sia, trattandosi dell’interfaccia dell’impresa con il mercato. Senza pretesa di esaustività in questo ultimo paragrafo riassumiamo alcune macro-tendenze e cerchiamo di delinearne l’impatto sulle attività di marketing.

Digitalizzazione e connettività

Economia e società digitali Internet è ormai uno strumento quotidiano per milioni di consumatori, di imprese e di organizzazioni in tutto il mondo. Informazioni e transazioni in formato digitale sono continuamente accessibili. Digitalizzazione e connettività procedono rapidamente. Si sostiene non a torto che le nuove povertà e le nuove esclusioni del XXI secolo saranno collegate al digital divide, termine che fa riferimento alle disu-

352 ) PARTE III – MARKETING

Gruppi sociali guida

Passaparola online

Social media

guaglianze nell’accesso e nell’utilizzo delle tecnologie della cosiddetta “società dell’informazione”. Divari e disuguaglianze digitali implicano la difficoltà da parte di alcune categorie sociali o di interi Paesi di usufruire di tecnologie che utilizzano una codifica dei dati di tipo digitale rispetto a un altro tipo di codifica precedente, quella analogica (si veda ad esempio www.digital-divide.it). Tuttavia, per un numero crescente di persone l’esperienza di vita quotidiana è “always on”: durante il lavoro alla scrivania, ma anche attraverso i computer portatili, gli smartphone o i tablet, in auto e nel tempo libero si ha accesso continuo alle informazioni e alla Rete, si possono effettuare transazioni, si può fruire di contenuti multimediali, si può accedere alle community. Nei Paesi avanzati le nuove generazioni mostrano una capacità e una confidenza sorprendente con le nuove tecnologie. Secondo Kenichi Omahe, guru giapponese di management, il gruppo sociale di riferimento per capire le reazioni avanzate dei consumatori alle nuove tecnologie e per interpretare i bisogni di frontiera è costituito dalle teenager metropolitane delle grandi capitali del mondo: Tokio, New York e Londra. Usano smartphone e tablet e navigano, più dei loro coetanei maschi, con una dimestichezza superiore a quella di qualunque altro gruppo sociale, e inoltre determinano o sviluppano le tendenze di molti mercati di consumo, dall’abbigliamento, all’alimentare, all’entertainment. Le grandi corporation dell’elettronica come Sony si focalizzano anche su questi target per sviluppare nuovi prodotti e servizi. La Rete sta anche profondamente cambiando i processi di acquisto dei consumatori. Un numero crescente di potenziali acquirenti si informa in rete, cerca l’opinione di chi ha già provato il prodotto, attraverso i blog e i siti specializzati. Pensiamo al settore del turismo e dei viaggi. Milioni di vacanzieri, mentre cercano offerte e opportunità online per “costruirsi” il viaggio o la vacanza, raccolgono opinioni di altri turisti che hanno già sperimentato alberghi, ristoranti, villaggi turistici ecc. Nella popolazione evoluta e connessa dei Paesi avanzati è difficile trovare qualcuno che non visiti siti come Tripadvisor o altri simili, prima di prenotare un albergo. Anche molti acquisti di beni di consumo durevole (elettrodomestici, automobili ecc.) vengono sempre più influenzati dalle opinioni di altri consumatori che hanno già provato il prodotto o il servizio. È il rilancio, sulle ali della tecnologia, di un fenomeno antichissimo, quello del passaparola, che era stato messo un po’ in secondo piano negli anni della comunicazione di massa unidirezionale, quella ad esempio delle campagne pubblicitarie televisive. Certi consumi sembrano più influenzati dai blog e dalle community che non dalla comunicazione tradizionale. Si è stimato che già nel 2012 in Italia oltre 15 milioni di consumatori (ben il 40% dei circa 35 milioni di internauti) si fidavano delle informazioni trovate su blog e forum (Noci, Lamberti, 2012). Una percentuale ormai del tutto simile a quella di coloro che si fanno guidare dai media tradizionali. Si veda in proposito l’apposito box nel paragrafo 12.3.3, a p. 395. Anche i social media, Facebook e Twitter in primo luogo, sono un fe-

11. Il marketing management ) 353

dot.com e “Click & Mortar”

Multicanalità

Vendite dirette e nuovi intermediari

nomeno che è esploso su scala planetaria e ha portato con sé, tra le altre cose, profonde implicazioni di marketing. I milioni di frequentatori dei social media condividono infatti anche commenti positivi e negativi sui prodotti, i servizi e le esperienze che hanno avuto come consumatori, influenzandosi a vicenda. Molte ricerche mostrano, tra l’altro, come nella generale crisi di fiducia verso le istituzioni e in parte anche verso le imprese, le community di “amici”, o comunque di persone che condividono interessi e orientamenti, costituiscono un riferimento solido che gode di fiducia crescente. Connettività e digitalizzazione offrono opportunità di marketing straordinarie nei mercati di consumo (B2C) a patto che si configurino come opportunità per il cliente e non come invasioni degli spazi e dei tempi privati (si veda anche la sezione sulla privacy più oltre in questo paragrafo). L’e-commerce e il m-commerce (mobile-commerce) nei mercati di consumo sono stati più lenti nella crescita di quanto non si pensasse ottimisticamente negli anni dell’euforia e della bolla Internet. In termini di marketing siamo dunque agli albori di un’epoca nella quale i mercati elettronici non vengono più visti in alternativa e competizione rispetto ai canali tradizionali. In effetti, molte dot.com, società nate alla fine degli anni Novanta con l’idea di vendere solo on line (pure click) in concorrenza con gli operatori tradizionali, sono finite miseramente. Al contrario, alcuni incumbent tradizionali, aziende solide e ben radicate nei propri mercati, hanno progressivamente incorporato servizi informativi e transazionali on line, sviluppando un approccio di multicanalità. Il settore bancario ne è un esempio: oggi tutte le banche offrono efficienti piattaforme elettroniche, grazie alle quali i clienti possono accedere rapidamente alla maggior parte dei servizi. Mediaworld, catena leader in Italia nella distribuzione dell’elettronica di consumo, sviluppa di fatto un approccio di multicanalità, in omaggio al credo del CEO secondo cui l’importante è raggiungere sempre il cliente e rendergli l’offerta disponibile nei tempi, nei modi e nei luoghi che egli preferisce: un grande magazzino reale o un magazzino virtuale non fanno alcuna differenza. Anche nei mercati B2B i cambiamenti in atto sono epocali. Anzi a oggi i volumi di informazioni e le transazioni on line nei mercati B2B sono maggiori di quelli dei mercati B2C. Sempre più imprese acquistano beni e servizi attraverso le piattaforme elettroniche. Cercano nuovi fornitori, scaricano informazioni tecniche, negoziano, fanno aste di acquisto, effettuano transazioni su portali dedicati (si veda in proposito il paragrafo 15.8 sull’e-procurement). L’economia digitale cambia anche il ruolo degli intermediari commerciali. Molti rivenditori e distributori tradizionali temono di perdere quote di mercato e di vedere seriamente minacciato il loro business. La tecnologia rende spesso possibile la disintermediazione, ovvero il contatto diretto tra fornitore e cliente che interagiscono ed effettuano transazioni senza intermediari (si veda anche il capitolo 12). Si pensi alla celebre esperienza di Dell, il noto produttore di PC acquistabili solo tramite Internet e configurati ad hoc dal cliente stesso.

354 ) PARTE III – MARKETING

Economie di scala globali

Competizione e collaborazione

Si potrebbe pensare che l’economia digitale evolva dunque verso canali di marketing brevi e diretti. In realtà non è così, e spesso l’economia digitale porta con sé fenomeni di reintermediazione. In molti settori sono nati nuovi intermediari elettronici che forniscono informazioni e servizi via Internet ad aziende e consumatori. Operatori come Expedia e Travelocity sono intermediari globali del settore delle prenotazioni aeree e alberghiere che hanno spazzato via buona parte del business delle tradizionali agenzie di viaggio. Per i clienti è più comodo rivolgersi a questi nuovi soggetti, che offrono una gamma amplissima di informazioni e di opzioni, che non interagire direttamente con le compagnie aeree e gli hotel. L’economia digitale e la Rete offrono opportunità per nuove economie di scala globali che giustificano la reintermediazione. Anche il settore finanziario offre opportunità simili: intermediari elettronici che veicolano i prodotti finanziari più vari (fondi, azioni, bond, ETF, prodotti assicurativi ecc.), rendendo disponibile al cliente una gamma amplissima, con costi di intermediazione inferiori a quelli dei tradizionali canali distributivi come le reti di promotori e gli sportelli bancari. I sistemi di Customer Relationship Management sono stati sviluppati con l’obiettivo di aiutare le aziende nella fidelizzazione dei clienti. Emergono nuove opportunità grazie alla digitalizzazione, ai sistemi di archiviazione, alla possibilità di analizzare grandi quantità di dati sulle transazioni e alle tecnologie di comunicazione che facilitano il contatto, intervenendo dove il cliente ha necessità specifiche ma prevedibili attraverso l’analisi dei dati. Queste possibilità sono enormemente amplificate dall’accesso sempre più diffuso alla Rete da parte di un maggior numero di persone e in una varietà crescente di situazioni (non solo con il tradizionale PC alla scrivania, ma attraverso i terminali portatili, i telefoni cellulari, in auto, nelle aree wireless ecc.). Marketing Reloaded (Boaretto, Noci e Pini, 2007) è il titolo evocativo di un testo che affronta in modo esteso l’incredibile potenziale di marketing delle nuove tecnologie delle Rete. In termini di comunicazione (si veda anche il paragrafo 13.5), l’economia digitale ha schiuso nuove opportunità di marketing alle imprese. Il sito istituzionale delle organizzazioni diventa il primo biglietto da visita, il modo con cui ci si presenta ai clienti. Usabilità, navigabilità e un sistema di back office che aiuti il cliente a trovare aiuto e soluzione diventano elementi essenziali. Sempre più clienti cercano informazioni e contatti sulla Rete, ed è dunque cruciale essere presenti nei maggiori motori di ricerca e nei portali specializzati e predisporre un adeguato sistema di link. La Rete stessa, poi, diviene lo strumento per le strategie di comunicazione mirata ai segmenti target. Come abbiamo visto, sulla Rete si formano comunità di interessi, blog, chat e social network dove il passaparola elettronico costituisce un formidabile elemento di marketing e dove migliaia e anche milioni di persone hanno l’opportunità di partecipare individualmente al processo di creazione di prodotti, servizi ed esperienze. Tapscott e Williams (2007) hanno coniato un termine – wikinomics – per designare questa rivoluzione basata sull’interazione spontanea

11. Il marketing management ) 355

tra pari (peer production). Come esemplificano gli autori, nel mondo globalizzato della wikinomics, al tempo stesso ipercompetitivo e collaborativo, è possibile che gli appassionati partecipino al design di una nuova automobile, che i clienti di una multinazionale delle bevande si uniscano virtualmente alla divisione ricerca e sviluppo per modificare gusti e formati dei prodotti preferiti, che la comunità globale dei pazienti di una certa patologia interagisca con la comunità degli scienziati nella ricerca e nello sviluppo dei protocolli di cura.

Think global act local

Legittimazione sociale

Impatti occupazionali

Glocalization In molti settori il processo di globalizzazione tende di fatto a creare un “consumatore globale” caratterizzato da mode, gusti e preferenze che travalicano le barriere linguistiche e culturali. Ad esempio, nel settore della moda e del fashion i marchi globali – da Prada a Gucci, da Hermès a Louis Vuitton – attraggono clienti da Tokio a Mosca, da Roma a New York. Tuttavia, in molti casi i mercati locali presentano comunque specificità molto forti. Nel settore automobilistico, ad esempio, il mercato americano è caratterizzato da una forte domanda di veicoli e motorizzazioni – i pickup con motori a benzina con cilindrata superiore a 3.000 cc – che non hanno praticamente mercato in Europa. Viceversa le city car europee con propulsore a gasolio non incontrano i gusti e le esigenze del consumatore americano. Questo si verifica anche nei mercati industriali. Basti pensare alle differenze nel settore dei materiali per l’edilizia in Europa meridionale, in quella centro-settentrionale, dove l’attenzione all’isolamento termico è maggiore, e negli USA dove buona parte dell’edilizia residenziale è prefabbricata. Le differenze nei mercati locali implicano il fatto che le aziende, per quanto globali e in grado di sfruttare sinergie ampie e transnazionali, devono poi sviluppare una parte della strategia di marketing localmente. Think global and act local è un motto che ben rappresenta questa situazione. È stato anche utilizzato il neologismo glocalization per indicare la necessità di operare sui due piani. Naturalmente le implicazioni organizzative sono significative poiché la struttura organizzativa di marketing (si veda il paragrafo 11.5) deve comunque accompagnarsi a quelle periferiche nei vari mercati. Responsabilità sociale e sostenibilità Oggi più che mai il mondo aziendale, e in particolare quello delle grandi aziende multinazionali, è percorso da istanze di legittimazione sociale. Le imprese, elementi portanti dei sistemi economici, non sono, né sono mai state, socialmente neutre: danno lavoro e occupazione ma sono talvolta costrette a licenziare o spostare produzioni e attività in altre regioni. Nell’autunno del 2011 l’azienda di componentistica di telecomunicazioni Nokia Siemens Networks, di proprietà della finlandese Nokia e dalla tedesca Siemens, ha annunciato un piano di ristrutturazione che prevede la soppressione di 17.000 posti di lavoro nel mondo entro la fine del 2013, con l’obiettivo di realizzare economie annuali di 1 miliardo di euro rispetto al 2011. Il comunicato è stato accompagnato

356 ) PARTE III – MARKETING

Sicurezza e diritti dei lavoratori

CASO

dalla dichiarazione del CEO Rajeev Suri di voler mettere in opera queste misure in modo giusto e responsabile, garantendo tutto il sostegno possibile ai lavoratori. Questo è solo uno dei numerosi esempi recenti e passati che hanno visto il significativo ridimensionamento di organico da parte di aziende leader e grandi multinazionali. Al di là delle conseguenze sull’occupazione, l’attività di impresa ha impatti su numerosi altri aspetti della società. Nel dicembre 2007 in un’acciaieria torinese di proprietà del gruppo tedesco Thyssen-Krupp un gravissimo incidente sul lavoro ha causato la morte di sette operai, sollevando molti interrogativi sul rispetto delle norme di sicurezza in un impianto ridimensionato e in via di smantellamento. In modo simile, numerose aziende hanno messo a rischio la propria reputazione e credibilità a livello internazionale prendendo alla leggera la legislazione sul lavoro o addirittura cavalcando la limitata o assente vigilanza nei paesi a basso costo del lavoro in cui hanno delocalizzato le produzioni. Uno fra tutti, l’esempio della multinazionale americana Nike (Caso 11.3) mostra varie sfaccettature di questo problema.

11.3

Nike: la mancata tutela dei lavoratori nei paesi a basso costo della manodopera Nel 2000 l’immagine della Nike – multinazionale americana leader nella produzione di abbigliamento sportivo, oltre che il più importante sponsor di avvenimenti sportivi nel mondo – subì un duro colpo a seguito delle accuse di sfruttamento di manodopera infantile in Cambogia, supportate da un’inchiesta condotta da una tv americana che mostrava filmati di fabbriche in cui lavoravano eserciti di bambine. Per Nike si trattava di una macchia indelebile e ben presto molti consumatori “politically correct” intrapresero azioni di boicottaggio. La multinazionale americana fu costretta a cancellare tutti i contratti con i suoi fornitori cambogiani. La fuoriuscita di Nike fu però una sciagura per l'industria tessile e dell’abbigliamento della Cambogia, che frutta un miliardo di dollari di ricavi e dà lavoro a 180.000 operai. La soluzione al problema è stata trovata dai sindacati Usa, che hanno insediato a Phnom Penh un rappresentante permanente che premesse sul governo e sugli industriali cambogiani per migliorare il rispetto dei diritti umani, delle tutele e delle condizioni di lavoro, in modo che le grandi aziende americane come Nike e Gap si sentissero sicure nell’affidare commesse ai fornitori locali. Al fine di ripulire l’immagine da questa macchia e riconquistare i consumatori più intransigenti, Nike ha varato – tra le prime multinazionali globali – un codice etico e ha pubblicato un rapporto di responsabilità sociale insieme con il proprio bilancio annuo, impegnandosi a garantire la massima trasparenza sulle condizioni di lavoro in vigore presso i propri subfornitori, concentrati nei paesi asiatici. Questo tuttavia non ha impedito che scoppiassero nuovi scandali. In particolare, nel 2008, 20.000 operai hanno paralizzato uno dei più grossi stabilimenti della Nike in quello che è stato considerato il più grande sciopero nella storia del Vietnam. I lavoratori della fabbrica di Ching Luh, nella provincia meridionale di Long An, sono scesi in piazza per ottenere aumenti salariali. La loro paga non raggiungeva i 40 euro mensili: meno del prezzo medio di un solo paio di scarpe sportive in un ipermercato occidentale.

11. Il marketing management ) 357 Corruzione

Finanza e corporate governance

Disastri ambientali

Il ruolo sociale delle imprese riguarda poi il loro rapporto con la pubblica amministrazione e in particolare il problema endemico della corruzione. Accanto ai molti esempi di aziende che rifiutano di pagare tangenti e rinunciano a pratiche di business non etiche, vi sono purtroppo molti casi di aziende anche di grande prestigio e notorietà che hanno accettato di corrompere funzionari pubblici per ottenere appalti e licenze. Una recente inchiesta del New York Times ha indicato che la filiale messicana di Wal-Mart, il colosso della grande distribuzione, sarebbe sospettata di aver corrotto i funzionari messicani per accelerare l’ottenimento dei permessi di costruzione per l’apertura di nuovi negozi. Infine, la sostenibilità sociale delle imprese riguarda anche l’impatto di pratiche finanziarie o di corporate governance non trasparenti o addirittura illegali. I crack finanziari che hanno coinvolto dapprima Enron – fallita in modo del tutto inaspettato nel 2001– e successivamente molte altre aziende, tra le quali i casi più noti in Italia di Cirio e Parmalat, hanno comportato impatti sociali profondamente negativi, sia nei confronti degli azionisti – soprattutto i piccoli investitori – sia nei confronti dei dipendenti delle società stesse, oltre a innescare crisi in interi settori dell’economia. Le imprese, poi, consumano risorse naturali e inquinano l’ambiente e, tuttavia, non sempre si comportano in modo da limitare al massimo gli impatti negativi e non sempre operano per ricostruire l’integrità dell’ambiente. Il 3 dicembre 1984 si verificò il più grave disastro della storia industriale: nel cuore della città di Bhopal, nello Stato indiano del Madhya Pradesh, da un impianto chimico della Union Carbide, multinazionale americana produttrice di pesticidi, fuoriscirono accidentalmente 40 tonnellate di isocianato di metile (MIC). Il rilascio di sostanze altamente tossiche uccise subito più di 3.000 persone, avvelenandone da 150.000 a 600.000; almeno 15.000 morirono successivamente per le conseguenze dell’intossicazione (Fonte: Wikipedia). Alcune fonti affermano che il disastro provocò un numero ancora maggiore di morti e feriti. A oltre vent’anni di distanza la bonifica e il pieno recupero ambientale sono ancora molto lontani. Dow Chemical, che ha rilevato le attività di Union Carbide, ha però sempre declinato responsabilità specifiche nell’accaduto e non ha dato corso a vasti progetti di recupero sostanziale dell’area. Nell’aprile del 2010 si è consumata la peggiore catastrofe ambientale della storia americana, con un impatto che ha superato di oltre dieci volte per entità quello della petroliera Exxon Valdez nel 1989. Si tratta dello sversamento massivo di petrolio nelle acque del Golfo del Messico in seguito a un incidente della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon di British Petroleum, durato più di 100 giorni. L’incidente è stato innescato da un’esplosione sulla piattaforma e il conseguente violentissimo incendio, in cui 11 persone sono morte, mentre 17 sono rimaste ferite. Due giorni dopo la piattaforma Deepwater Horizon si è rovesciata, affondando e depositandosi sul fondale. Le valvole di sicurezza presenti all’imboccatura del pozzo sul fondale marino non hanno funzionato correttamente e il petro-

358 ) PARTE III – MARKETING

Imprese sotto i riflettori

lio greggio, spinto dalla pressione del giacimento petrolifero, ha iniziato a uscire senza controllo. Numerosi sono stati i tentativi da parte di BP per arginare e poi fermare la fuoriuscita di petrolio, molti dei quali non sono andati a buon fine. Solo il 15 luglio 2010 la BP dichiarava di essere riuscita a tappare la perdita del greggio, pur non essendo ancora sicura di quanto tempo avrebbe potuto resistere quest’ultima soluzione. Il 19 settembre 2010 venne terminata la cementificazione definitiva del pozzo. Il disastro avrà nel breve e medio periodo gravi effetti sulla salute della popolazione locale, oltre a portare un danno ingente alla flora e alla fauna, con il rischio di estinzione di alcune specie. Di fronte a una tale catastrofe il comportamento di BP non è stato del tutto trasparente, a partire dai comunicati riguardanti la soluzione del problema, fino al contributo dell’azienda al risanamento dell’ambiente. Ad esempio, un video ha denunciato che alcune spiagge inquinate dal petrolio non sono state ripulite come promesso dalla BP, bensì sono state ricoperte con sabbia pulita, al fine di nascondere l'inquinamento (Fonte: Wikipedia). A fronte di questi comportamenti poco edificanti, numerose altre imprese hanno deciso di mettere in atto iniziative volte ad accreditare l’immagine di attori economici socialmente responsabili, dall’apertura di asili nido presso i propri uffici e le proprie fabbriche per i figli dei dipendenti, al supporto finanziario per la realizzazione di opere di sostegno al terzo mondo, all’incentivo ai propri dipendenti a dedicare ore di lavoro al volontariato o ad attività pro bono. Non sono attività di generica beneficenza: si inquadrano entro precise strategie – che vanno sotto il nome di Corporate Social Responsibility (CSR) – volte ad accreditare l’immagine delle aziende che, pur non trascurando la loro vocazione al profitto, desiderano essere percepite come attori socialmente positivi. Rispetto dell’ambiente, diritti dei lavoratori, pratiche di corporate governance trasparenti e che tutelino gli azionisti di minoranza, pratiche commerciali e di approvvigionamento eque sono sempre più sotto l’attenzione dell’opinione pubblica, dei media e anche delle autorità di controllo. Questo crescente interesse verso i temi della responsabilità sociale delle imprese è oggi sintetizzato dal concetto di sostenibilità, già anticipato nel capitolo 2. Aziende come Unilever, BMW, General Electric, Marks & Spencer, Ikea, Patagonia, Barilla, Illy – per citare solo i casi più noti – stanno sviluppando programmi strategici spesso molto sfidanti per migliorare complessivamente la sostenibilità del proprio business sulle diverse dimensioni che costituiscono i tre pilastri fondamentali di People, Planet e Profit. Secondo un’indagine realizzata qualche tempo fa da Eurisko, uno dei maggiori istituti italiani nell’ambito delle ricerche sociali, “le nuove esigenze che emergono nei consumatori sono il prodotto di una evoluzione culturale di lungo periodo che porta a valorizzare le componenti sociali della qualità del vivere, a percepire la crescente rilevanza assunta dalle imprese nella determinazione degli equilibri (ma sareb-

11. Il marketing management ) 359

be più corretto dire degli ‘squilibri’) ambientali e sociali del pianeta e il contemporaneo indebolimento della regolazione istituzionale della vita economica nei contesti sovranazionali. Tutto questo si accompagna a una crescente sfiducia nei manager che si trovano a capo delle grandi imprese, in particolare delle multinazionali. È una tendenza che si intreccia anche con la diminuzione del prestigio sociale della figura dell’imprenditore” (Fonte: www.eurisko.it). Il marketing deve ovviamente tener conto di queste evoluzioni. Le implicazioni per la funzione marketing sono di tre diversi ordini. Innanzitutto deve tenersi lontana da pratiche operative che di per sé non sono etiche e socialmente responsabili, come la pubblicità ingannevole, gli accordi commerciali iniqui, le discriminazioni di prezzo illecite o altri comportamenti simili. In secondo luogo il marketing deve comunicare nei modi e nelle forme corrette l’impegno dell’azienda verso la sostenibilità e la responsabilità sociale, evitando in particolare strategie aggressive e “overselling” che possono rivelarsi controproducenti. Il Caso 11.4 si riferisce alla multinazionale farmaceutica Merck e fornisce un interessante esempio in tal senso. Infine nello sviluppo della strategia di marketing è bene tener conto che oggi per molti prodotti o brand la sostenibilità è diventata un elemento fondamentale di qualità e differenziazione, come verrà più ampiamente discusso nel capitolo 13.

CASO

11.4

Merck Nel 2004 il colosso farmaceutico americano Merck profuse un grande sforzo di comunicazione per far sapere che un suo farmaco già chiacchierato, il Vioxx, aveva ottenuto dalle autorità competenti ampliamenti della licenza con nuovi possibili campi di applicazione e dunque con nuovi vantaggi per milioni di pazienti. Pochi mesi dopo, i dubbi sugli effetti collaterali di tipo cardiovascolare, precedentemente minimizzati dall’azienda, furono confermati da uno studio indipendente. Alla fine di settembre del 2004 Merck fu costretta ad annunciare il ritiro volontario del farmaco dalla distribuzione prima che lo facessero le autorità federali. Il giorno dopo a Wall Street il titolo bruciò 27 miliardi di dollari di capitalizzazione. Nel successivo mese di ottobre 2004 il titolo perse in borsa quasi il 40% del suo valore. I mercati finanziari punirono severamente quello che fu ritenuto un comportamento socialmente irresponsabile.

Privacy Un tema di grande attualità con un forte impatto sul marketing è la sempre maggiore attenzione alla tutela della riservatezza dei dati personali, oggi garantita anche dalla legge (italiana, comunitaria e internazionale) e da un’apposita authority (www.garanteprivacy.it). Paradossalmente, è stata proprio la maggiore capacità di raccoglie-

360 ) PARTE III – MARKETING

Marketing invasivo

re e gestire informazioni, conseguenza dell’evoluzione delle tecnologie informatiche e della diffusione di Internet, che ha reso questo tema più urgente. La disponibilità di informazioni e strumenti ha permesso la nascita di sistemi di marketing diretto e personalizzato, che vengono a volte percepiti come invasivi della sfera personale. Le persone sono sempre più sensibili alla diffusione e all’uso delle informazioni che le riguardano, tanto che ricevere offerte pubblicitarie personalizzate per posta, telefono, e-mail ecc. viene visto come un disturbo, soprattutto quando questo avviene con un’intensità elevata e senza preventivo consenso. La legge italiana infatti vieta oggi l’utilizzo di dati personali per attività di marketing, a meno che l’interessato non abbia esplicitamente dato la propria autorizzazione: le aziende che hanno costruito il proprio modello di business sulla vendita diretta (ad esempio per corrispondenza) si trovano ora a dover rivedere le proprie strategie di comunicazione. Al tempo stesso però esistono ampi spazi di abuso della privacy degli individui, come testimoniano i bombardamenti di e-mail spazzatura (spam), che hanno ormai sostituito tonnellate di pubblicità postale, per lo più indesiderata. Finché i dati in questione sono il nome, il recapito, il numero di telefono o l’indirizzo e-mail il problema si limita generalmente al fastidio. Spesso sono in gioco dati sensibili quali informazioni sulla salute, sulle abitudini e le preferenze, sulla disponibilità economica ecc. In questo caso la necessità di tutela della privacy è ancora più pressante, ma rimane il fatto che per offrire prodotti e servizi su misura è necessario disporre di dati personali, anche nell’interesse del cliente (si pensi ad esempio ai servizi medici e finanziari). Il marketing deve quindi attrezzarsi per gestire in modo sicuro e affidabile anche i dati sensibili, rispettando quanto prescritto dalla legge e richiesto dai clienti, guadagnandone la fiducia e utilizzando tali informazioni per formulare offerte mirate. Si tratta nuovamente di un tema di responsabilità sociale, con implicazioni non solo etiche: un uso opportunistico di queste informazioni (ancorché legale) nel lungo termine può ritorcersi contro l’azienda stessa. Come si vede, per il marketing le implicazioni del fenomeno “privacy” sono numerose. Seth Godin, guru americano e già Vicepresidente di Yahoo!, ha coniato un termine esplicativo: permission marketing, ovvero un marketing e una comunicazione che si rivolgono solo a coloro che veramente lo desiderano e sono positivamente disposti. Si tratta di lasciar decidere al consumatore se vuole accettare volontariamente il dialogo. Con queste strategie si raggiungono meno consumatori, ma con un tasso di successo enormemente più alto. Infatti, il tentativo di catturare l’attenzione delle persone con una comunicazione invasiva – quello che Godin definisce come interruption marketing – ha superato il livello di guardia e viene rigettato da molti in forme varie, che vanno dallo zapping televisivo per evitare la pubblicità alla minaccia di azioni legali per violazioni alle norme sulla privacy.

11. Il marketing management ) 361

Servizi associati ai prodotti

Vantaggi sostenibili

11.4

Servitization Un altro fenomeno che pervade ormai tutti i settori, sia nei mercati di consumo (B2C) sia in quelli industriali (B2B), è l’aumento della rilevanza della componente di servizio associata ai prodotti, anche a quelli tradizionalmente considerati come prodotti fisici puri. È il caso, ad esempio, delle automobili: oggi i concessionari non vendono più soltanto veicoli, ma anche servizi di finanziamento, garanzia, assistenza. Fenomeni simili avvengono in settori industriali: i fornitori di hardware e software offrono ai loro clienti servizi di installazione, personalizzazione, formazione, manutenzione, aggiornamento ecc. Le motivazioni di fondo vanno ricercate nella volontà di soddisfare in modo sempre più completo i bisogni dei clienti, offrendo loro una proposta di valore maggiore, al fine di vincere la concorrenza, soprattutto quando l’alternativa sarebbe una battaglia sui prezzi. Per molti prodotti, infatti, l’eccesso di offerta porta all’erosione dei margini per i produttori e rende insostenibile la concorrenza dei Paesi a basso costo del lavoro, quali la Cina e l’India. Al contrario, arricchendo l’offerta con servizi che spesso richiedono l’erogazione “in loco” i produttori occidentali riescono talvolta a difendere i propri margini e a ritagliarsi spazi di sopravvivenza, magari diventando rivenditori a valore aggiunto di beni prodotti altrove (si veda il paragrafo 13.2 e in particolare il Caso 13.3). Questo fenomeno si sta in alcuni casi spingendo nella direzione estrema di trasformare del tutto i produttori di beni in fornitori di servizi (servitization). È il caso ad esempio delle fotocopiatrici: sempre più spesso i clienti non comprano più le macchine e le relative parti di consumo (toner, graffette ecc.) ma un servizio di fotocopiatura. Il fornitore rimane proprietario della macchina installata presso il cliente e garantisce un adeguato approvvigionamento dei materiali, nonché il servizio di assistenza, per un numero di copie predefinito contrattualmente. In questo modo il fornitore offre al cliente la possibilità di liberarsi di un investimento fisso e soprattutto della preoccupazione di gestire e mantenere una macchina, ottenendo comunque quanto necessario (le fotocopie), sostenendo un costo variabile (si veda anche il capitolo 14 sul tema dell’outsourcing). Simili cambiamenti implicano chiaramente azioni di marketing strategico che permettano il riposizionamento del fornitore grazie a un’attenta analisi dei bisogni del cliente. Nel capitolo 13 approfondiremo questo tema. Senza la pretesa di avere esaurito i trend di fondo che stanno cambiando il ruolo del marketing, abbiamo però tratteggiato alcuni macro-fenomeni – economia digitale, glocalization, responsabilità sociale, rispetto della privacy e servitization – che sempre più costituiscono il contesto e la cornice strategica entro la quale le imprese devono progettare e gestire i rapporti con il mercato.

Il ciclo di vita della tecnologia e del prodotto Molte delle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti sullo standard dominante, sul timing dell’innovazione e sulla strategia di

362 ) PARTE III – MARKETING

Sostituzioni tecnologiche

Cicli di prodotto e cicli tecnologici

Le fasi del ciclo

marketing in realtà hanno a che fare con due concetti fondamentali: quello di ciclo di vita della tecnologia e quello, ancor più centrale in una prospettiva di marketing, di ciclo di vita del prodotto. Le tecnologie, i prodotti e dunque anche i mercati nascono, si sviluppano, arrivano alla maturità e, prima o poi, declinano e si estinguono. Nella fase iniziale del ciclo di vita di una tecnologia solitamente diverse imprese si affacciano al mercato con prodotti, formati e standard differenziati (Anderson e Tushman, 1990). Le imprese cercano di penetrare il mercato potenziale diffondendo il proprio prodotto, e si sforzano di migliorarne le prestazioni tecniche e l’usabilità da parte del cliente. Con il passare del tempo la competizione per affermare un disegno dominante lascia il posto alla competizione basata sui singoli prodotti e marchi, sulla riduzione dei costi di produzione e sull’offerta di servizi complementari. Quando le prestazioni dei prodotti non possono più essere migliorate a causa dei limiti naturali delle tecnologie ed eventuali nuovi bisogni non possono più essere soddisfatti, allora si prepara il terreno per la sostituzione tecnologica, ovvero per l’avvio di un nuovo ciclo di sviluppo di una tecnologia innovativa che può sostituire la precedente. Talvolta la tecnologia “vecchia” e quella nuova convivono a lungo. Sebbene il lancio in Italia della tecnologia GSM per la telefonia mobile sia del 1995, solo il 31 dicembre 2005 è stato definitivamente interrotto il servizio basato sulla precedente tecnologia E-TACS. Naturalmente i cicli di vita delle tecnologie possono essere di durata molto variabile. Proseguendo nell’esempio delle telecomunicazioni mobili, l’E-TACS, lanciato nel 1990, ha avuto un ciclo di cinque-sei anni, mentre il GSM dura già da più di un decennio e la completa sostituzione con i nuovi standard non sembra imminente. All’interno dei cicli tecnologici si sviluppano solitamente i cicli di vita dei prodotti. In alcuni casi i due cicli coincidono: BMW sviluppò una tecnologia di protezione del motociclista che ha reso superfluo l’uso del casco; nel 2000 l’azienda lanciò sul mercato la C1, la prima (e unica) motocicletta con cinture di sicurezza e senza obbligo di casco. Il prodotto non ha incontrato grande successo, e nel 2002 BMW ne ha sospeso la produzione e la vendita, senza sviluppare alcuna nuova offerta basata sulla tecnologia della cellula di protezione. Il ciclo di vita della tecnologia e quello del prodotto furono di fatto coincidenti. Nella maggior parte dei casi questo non si verifica. Al contrario, si susseguono numerose generazioni di prodotti basati sulla stessa tecnologia, ciascuna con miglioramenti incrementali di prestazioni rispetto alla precedente. Ad esempio, dal 1995 in poi sono state lanciate sul mercato numerose generazioni di telefoni cellulari con prestazioni crescenti, tutti basati sulla tecnologia GSM. In questo arco di tempo la riduzione del peso e delle dimensioni, l’avvento dei display a colori, lo sviluppo dei servizi di trasmissione dati (GPRS) e altri miglioramenti ancora hanno di fatto reso rapidamente obsoleti singoli prodotti lanciati dalle aziende. Anche i modelli di maggior successo, come il Nokia 8310, il Siemens S55 e il primo modello di Blackberry, hanno avuto un ciclo di vita di non più di tre anni. La diffusione e le vendite di una tecnologia e di uno specifico prodot-

11. Il marketing management ) 363

to/servizio seguono dunque un andamento qualitativo dalla caratteristica forma a campana, come quello rappresentato in Figura 11.1. In un ciclo standard di vita si individuano quattro fasi: l’introduzione, la crescita, la maturità e il declino. L’introduzione

La fase di introduzione è quella in cui le imprese hanno lanciato il prodotto sul mercato, ma la conoscenza da parte dei clienti è ancora scarsa. Le vendite crescono lentamente. I clienti sono pionieri. Nei mercati B2B si tratta di imprese innovative che prima di altre vogliono o hanno bisogno di sperimentare le innovazioni. Nei mercati B2C si tratta di clienti che hanno una predisposizione, talvolta una mania, per le tecnologie e i prodotti innovativi e sono spesso disposti a pagare prezzi elevati per avere il prodotto per primi. Per questi consumatori avere un prodotto nuovo e ancora sconosciuto è uno status. Se il nuovo prodotto incorpora una tecnologia anch’essa nuova e non ancora sperimentata è probabile che più aziende lancino prodotti differenti con standard e design diversi. È dunque nella fase di introduzione dei prodotti che le imprese si danno battaglia per affermare il proprio standard, come abbiamo visto nei casi Sony e Panasonic (si veda in proposito il paragrafo 11.2.2). Se invece il prodotto adotta tecnologie già affermate, gli sforzi di marketing dell’impresa saranno volti a far apprezzare i miglioramenti delle prestazioni rispetto alla precedente generazione. L’obiettivo del marketing in questa fase è principalmente quello di far conoscere il nuovo prodotto al mercato e spingere i potenziali clienti alla prova o al primo acquisto.

Vendite e profitti

Figura 11.1 IL CICLO DI VITA DEL PRODOTTO

Vendite

Profitti

Tempo Introduzione

Crescita

Maturità

Declino

364 ) PARTE III – MARKETING

Come si nota dal grafico (Figura 11.1), nella fase di introduzione il tasso di crescita è ridotto e la competizione è di solito caratterizzata da un limitato numero di concorrenti. I profitti nella fase di introduzione sono bassi o addirittura negativi a causa dei volumi modesti e dunque dell’impossibilità di sfruttare le economie di scala. Inoltre gli investimenti per migliorare il prodotto e gli sforzi di marketing non sono adeguatamente coperti dalle vendite che sono appunto modeste. La decisione strategica fondamentale per l’impresa in questa fase è la scelta del momento più opportuno per introdurre il prodotto nel mercato. Come già discusso nel paragrafo 11.2.3, entrare presto nel mercato con un nuovo prodotto può comportare notevoli vantaggi, ma altrettanti rischi: l’impresa deve valutare correttamente questo trade-off. La crescita

Nella fase di crescita le vendite aumentano rapidamente e presentano tassi di crescita elevati. Il prodotto è ormai conosciuto almeno da una parte significativa del mercato: i clienti che lo acquistano non sono più pionieri. Nei mercati di consumo si tratta di innovatori, psicologicamente sensibili alle novità e ai cambiamenti. Tra gli innovatori si trovano spesso gli opinion leader, consumatori che, per autorevolezza, stato sociale, capacità di influenzare attivamente o passivamente gli altri, determinano comportamenti imitativi nei diversi gruppi sociali. In questa fase i profitti crescono e le imprese iniziano a recuperare gli investimenti di sviluppo. Nei settori nei quali il prodotto/servizio viene riacquistato più volte (largo consumo, consumo semidurevole, beni a rapida usura ecc.) è in questa fase che solitamente iniziano i riacquisti dei pionieri, mentre per molti clienti si tratta ancora della prima esperienza con il nuovo prodotto. Con l’estensione del mercato e l’affermazione del prodotto aumenta anche il numero dei concorrenti e il livello di competizione nel settore.

La maturità

La fase di crescita si stempera nella maturità. È proprio la riduzione del tasso di crescita a segnare l’ingresso in questa fase. La maturità nel ciclo di vita si caratterizza per la stabilizzazione delle vendite a seguito della saturazione del mercato. La maggior parte dei potenziali clienti è stata ormai raggiunta dalla comunicazione. Per i beni di consumo durevole e i beni di investimento le vendite diventano principalmente di sostituzione. Per i beni di largo consumo si hanno prevalentemente riacquisti. In questo stadio ai pionieri e agli innovatori si aggiunge finalmente la maggioranza conservatrice. È la moltitudine dei clienti che arriva all’acquisto solo quando la tecnologia è assestata, il prodotto/servizio è diffuso e i rischi percepiti sono ormai bassi. Nella fase di maturità gli standard sono ormai definiti. In molti settori questa fase porta con sé l’uscita di scena di alcune imprese inizialmente attive. L’intensità della concorrenza nel settore aumenta e il numero di prodotti offerti al mercato da aziende concorrenti è tipicamente elevato. Spesso il settore si concentra anche tramite fusio-

Vendite di sostituzione

Gamma, servizi e brand

11. Il marketing management ) 365

ni e acquisizioni e si assiste a una crescita dimensionale delle imprese. Nella fase di maturità le imprese competono cercando di sottrarsi quote in mercati ormai stabilizzati, attraverso il livello di servizio, l’ampliamento dell’offerta e della gamma, lo sviluppo del brand. Talvolta mettono in atto strategie collusive: si spartiscono le quote, rinunciano a farsi concorrenza, non innescano guerre di prezzo e mantengono margini elevati. Nella fase di maturità i profitti sono normalmente sostanziosi, anche se possono essere erosi dalle ingenti spese di marketing e comunicazione che le imprese sostengono nella battaglia per la leadership. L’aspetto critico in questa fase è la capacità di ritardare il declino delle vendite o, laddove possibile, di rivitalizzare il mercato introducendo innovazioni e strategie di penetrazione che consentano di avviare nuovi cicli di crescita. Il declino

La fase di maturità può durare anche a lungo, ma presto o tardi lascia il posto a quella del declino. Quest’ultima può essere breve o durare a lungo. In ogni caso è individuata a partire dal momento in cui il tasso di crescita delle vendite diviene negativo. Le motivazioni che portano al declino del prodotto sono diverse, e tra esse ricordiamo l’innovazione tecnologica che rende obsoleti i prodotti basati su tecnologie vecchie, il cambiamento nei gusti e nelle preferenze dei consumatori, la fine di una moda o di una tendenza di consumo. Nella fase di declino i clienti tipo sono i cosiddetti ritardatari, insensibili o addirittura avversi all’innovazione. Le vendite diminuiscono e con esse i profitti. Alcune imprese cominciano a uscire dal mercato. Altre preparano la sostituzione con tecnologie e prodotti nuovi. In alcuni settori, ad esempio l’automobile o l’elettronica di consumo, la gestione del declino di un prodotto e la contemporanea introduzione della nuova generazione (phase-out e phase-in) è un processo delicato che richiede il coinvolgimento e il coordinamento delle funzioni di marketing, progettazione e produzione (si veda ad esempio Mitsubishi nel Caso 11.5). Alcuni prodotti, i cosiddetti business classic (si veda in proposito Sanderson e Uzumeri, 1997), riescono a sfuggire all’inesorabile declino delle vendite. Si pensi ad esempio alla Coca-Cola o al mito del “maggiolino” Volkswagen, o ancora ad alcuni modelli di lampade, quali Tolomeo e Tizio di Artemide, che hanno cicli di vita di intere decadi che non accennano a declinare. Tuttavia, la maggior parte degli altri prodotti non riesce ad affermare un concept, un’immagine e un brand di prodotto che perduri così a lungo nel tempo, ed è dunque destinata ad affrontare la fase di declino. Il modello del ciclo di vita del prodotto è uno schema mentale di grande utilità per molte decisioni manageriali, di marketing e non. È flessibile e si applica a categorie differenti: un singolo prodotto dell’impresa, una famiglia dei suoi prodotti, un marchio, un’intera generazione di prodotti del settore e dunque di imprese diverse e in competizione. Al limite sconfina, come già detto, nel ciclo di vita del-

366 ) PARTE III – MARKETING

Cicli anomali

le tecnologie. Ad esempio, la sequenza introduzione-crescita-maturità-declino può essere analizzata con riferimento al fortunato modello Nokia di qualche anno fa (il Nokia 8310), alla famiglia dei telefoni Nokia della serie 8000, ai telefoni GSM di fascia alta per utenza individuale non business, e infine all’intera tecnologia GSM. Il ciclo di vita illustrato nella Figura 11.1 costituisce un riferimento standard, ma non tutte le situazioni sono ad esso riconducibili. La Figura 11.2 illustra alcuni cicli anomali. Vi sono prodotti con ciclo fallimentare o abortivo, che non incontrano un successo consistente o comunque tale da ripagare gli investimenti di sviluppo. Ad esempio, il BMW C1 è un caso di ciclo fallimentare che non ha incontrato un successo adeguato. Questi prodotti vengono dunque abbandonati ben prima di raggiungere la maturità. Una variante meno estrema è il ciclo deludente, che si assesta su volumi medio-bassi, molto infe-

Vendite

Vendite

Figura 11.2 CICLI DI VITA DEL PRODOTTO NON STANDARD

Tempo

Ciclo ridimensionato

Tempo

Ciclo deludente

Tempo

Ciclo rivitalizzato

Tempo

Vendite

Vendite

Vendite

Ciclo fallimentare

Ciclo abbreviato

Tempo

11. Il marketing management ) 367

Nuove applicazioni

Mode che ritornano

Le frequenze di acquisto

riori alle attese eppure sostenibili almeno nel medio termine. Segway Human Transporter, l’innovativo monopattino basato su tecnologie giroscopiche, fu lanciato nel 2001. Avrebbe dovuto rivoluzionare la mobilità urbana, ma non è mai veramente decollato e, seppure ancora in commercio, non ha certo raggiunto gli iniziali obiettivi di vendita. Un’ulteriore variante del ciclo fallimentare è il ciclo ridimensionato, un andamento che dopo una forte crescita, seguita da un crollo di interesse, si assesta però su una nicchia e su volumi residuali sostenibili. Alcuni piccoli elettrodomestici, come le lavapavimenti a vapore o le macchine per fare la pasta in casa hanno mostrato questo andamento. Un altro andamento anomalo e tuttavia relativamente frequente è il ciclo rivitalizzato. Si tratta di prodotti e tecnologie che per motivi vari, dopo una fase di iniziale declino o stagnazione, trovano nuovo slancio e incontrano ulteriore successo. I cicli rivitalizzati accomunano situazioni anche molto differenti. Molte innovazioni tecnologiche nel settore informatico, ad esempio, mostrano un “boom” seguito da una fase di crisi e un successivo rilancio quando il mercato è più maturo e si sviluppano innovazioni complementari che consentono una maggiore diffusione. Alcuni prodotti industriali intermedi hanno cicli rivitalizzati legati alla scoperta di nuovi campi di applicazione. Ad esempio il Gore-Tex, sviluppato originariamente come membrana biomedicale, ha trovato successivamente una nuova spinta commerciale come tessuto tecnico impermeabile ma traspirante. Nei settori di consumo i cicli rivitalizzati sono legati al ritorno di mode e alla capacità delle imprese di rilanciare stili e design ormai superati. In questi casi il marketing gioca un ruolo fondamentale nella rivitalizzazione del ciclo di vita (si veda l’esempio Mitsubishi nel Caso 11.5). Infine, il ciclo abbreviato è caratterizzato dal fatto che la fase di maturità è molto breve o addirittura assente e la crescita tumultuosa si trasforma altrettanto rapidamente in un crollo delle vendite. Questo fenomeno non è necessariamente sinonimo di fallimento e si riscontra in situazioni e settori disparati. Ad esempio il settore dei computer portatili è caratterizzato da cicli di vita molto brevi: un modello raramente rimane in commercio per più di sei mesi. L’andamento delle vendite in questa finestra è tipicamente in rapida ascesa nei primi mesi e in declino verticale nelle ultime settimane, senza avere il tempo di assestarsi su volumi stabili. Si tratta di un fenomeno spinto dagli stessi produttori, che lanciano sul mercato modelli sempre nuovi per sostenere una domanda di sostituzione in un mercato saturo. Anche nel settore dell’abbigliamento molti prodotti hanno cicli di vita abbreviati legati all’andamento della moda; in particolare la fase di introduzione è accelerata e quelle di maturità e declino quasi inesistenti. Al contrario i capi di abbigliamento classici hanno un ciclo di vita molto più lungo e, in diversi casi, è difficile identificare la fase di declino. Un’ulteriore caratteristica che permette di differenziare le curve del ciclo di vita del prodotto è la frequenza di acquisto da parte di un singolo cliente. È possibile infatti distinguere prodotti ad acquisto una

368 ) PARTE III – MARKETING

Figura 11.3 CURVE DEL CICLO DI VITA PER TRE DIVERSE TIPOLOGIE DI ACQUISTI vendite

vendite

vendite

tempo Acquisto “una tantum”

tempo Acquisto “saltuario”

Prodotto nuovo

tempo Prodotto consolidato

Acquisto “frequente”

tantum (beni di investimento a elevato costo o beni di uso corrente soggetti a mode), ad acquisto saltuario (prevalentemente beni di consumo durevoli o beni industriali soggetti a usura e obsolescenza) e ad acquisto frequente (beni di largo consumo, materiali e componenti per la produzione industriale). Le curve del ciclo di vita per le tre tipologie di prodotto sono riportate in Figura 11.3. Nel caso di acquisto una tantum le vendite del prodotto crescono fino a un picco, oltre il quale inizia la fase di declino della domanda, legata alla saturazione del mercato potenziale. Nel caso di acquisto saltuario, alle vendite di primo acquisto (ovvero le vendite a clienti che acquistano per la prima volta il prodotto, che sono le stesse che caratterizzano un acquisto una tantum), si aggiungono le vendite di sostituzione, volte cioè a sostituire i beni acquistati in passato e diventati obsoleti. Le vendite di sostituzione permettono di avere una fase di maturità del prodotto più prolungata nel tempo. Infine, per i prodotti ad acquisto frequente, alle vendite di primo acquisto si aggiungono e poi sostituiscono le vendite di riacquisto, che sono tanto più elevate quanto maggiore è la soddisfazione dei clienti rispetto al prodotto acquistato. Nel capitolo 13 analizzeremo le strategie di marketing e l’uso delle leve del marketing mix nei diversi stadi del ciclo di vita del prodotto.

11.5

L’organizzazione di marketing

11.5.1

L’evoluzione della funzione Nella seconda parte del XX secolo il marketing si è progressivamente affermato come ambito funzionale autonomo e dotato di grande rilievo organizzativo. Di conseguenza, con lo sviluppo del marketing come disciplina e corpo di conoscenze manageriali, le attività e i ruoli organizzativi di marketing si sono progressivamente strutturati in unità organizzative autonome. Il punto di partenza è quello in cui il marketing coincide anche dal punto di vista strutturale con le vendite. L’orienta-

11. Il marketing management ) 369

Marketing e vendite

Cultura di marketing diffusa

11.5.2

mento prevalente è appunto alla vendita e non al cliente, al servizio e al marketing nel senso più pieno. Le attività di marketing – intese come l’analisi delle opportunità e delle minacce, le ricerche di mercato, i piani di comunicazione – o sono inesistenti, o sono totalmente gestite in outsourcing e affidate a società esterne specializzate, oppure sono annegate all’interno delle vendite e dunque poste sotto la responsabilità della direzione commerciale. È quello che possiamo definire lo stadio della funzione assente o nascosta. Normalmente quando le imprese diventano più consapevoli del marketing strategico, della necessità di analizzare in modo sistematico le opportunità e le minacce di mercato, dell’esigenza di investire in immagine, comunicazione e brand, tendono a dare maggiore dignità alla funzione, identificando unità integrate di marketing e vendite. È lo stadio della funzione integrata. Talvolta, questo stadio costituisce poco più che un cambiamento nominale rispetto alla situazione precedente: il Direttore commerciale viene semplicemente ribattezzato Direttore marketing. È solo quando si sviluppano effettive competenze specialistiche e le strategie di marketing e comunicazione si fanno più sofisticate e aggressive che l’impresa tende a separare organizzativamente il marketing dalle vendite. Si crea così una funzione di marketing spesso centralizzata e che riporta direttamente al top management o, addirittura, che è presidiata direttamente dal CEO. Dal punto di vista strutturale sono possibili soluzioni differenti, che vengono discusse nel paragrafo successivo. In ogni caso si tratta dello stadio della funzione autonoma. L’ulteriore evoluzione organizzativa del marketing porta al riconoscimento del fatto che, sebbene esistano elementi fortemente specialistici e professionalità molto precise di marketing, in realtà l’orientamento al marketing coinvolge tutta l’impresa e tutte le funzioni aziendali (funzione diffusa). Emerge un forte orientamento al teamworking interfunzionale. Ci si rende conto che tutte le risorse in azienda devono farsi carico di interpretare e soddisfare i bisogni del cliente. Serve il contributo e la partecipazione anche delle funzioni tecniche (la progettazione e la produzione) e talvolta della funzione acquisti e di quella finanziaria. A loro volta le unità organizzative di marketing vengono coinvolte in altri processi, ad esempio in quelli di innovazione di prodotto (si veda il paragrafo 11.2). La fase della funzione diffusa non implica lo smantellamento delle unità specialistiche di marketing. Tuttavia, di solito si accompagna a un loro ridimensionamento quantitativo: poche risorse qualificate molto vicine al cuore decisionale dell’impresa, ampio ricorso a operatori specializzati esterni per gli aspetti operativi, orientamento al marketing di tutta l’organizzazione (si veda ad esempio Hill e Rifkin, 1999).

Le strutture organizzative e i ruoli di marketing La prima e più semplice struttura organizzativa è, come per la maggior parte delle attività aziendali, quella funzionale (si veda in proposito il capitolo 4). In questo caso vi è un’unica unità, coordinata da un Direttore marketing, che è composta da specialisti che presidiano at-

370 ) PARTE III – MARKETING

Prodotti e clienti

Struttura a matrice

tività diverse (ad esempio addetti ai rapporti con i media, responsabili della pubblicità e delle campagne promozionali, responsabili delle ricerche di mercato, responsabili dei rapporti con i distributori, tecnici del pricing ecc.). Tuttavia, l’organizzazione funzionale pura non è molto frequente. Molte attività di marketing si prestano facilmente ad essere organizzate in modo divisionale. Le basi tipiche del raggruppamento divisionale sono quelle geografiche, di prodotto e di cliente (si veda il capitolo 4). I singoli mercati geografici presentano spesso peculiarità diversissime. Pensiamo al settore dell’auto: i mercati europei, americani e asiatici sono così diversi e richiedono approcci e strategie di marketing così specifici che inevitabilmente ogni grande costruttore si dota di strutture di marketing separate e dedicate ai principali bacini geografici. Il secondo tipo ricorrente di struttura divisionale è quella per prodotto. Unità specializzate sono dedicate allo sviluppo del mercato, al rafforzamento del marchio, ai piani di comunicazione e alla gestione di tutte le attività di marketing di un singolo prodotto o famiglia di prodotti. Spesso queste attività vengono affidate a un’unica figura, il product manager. Come già introdotto nel capitolo 4 (paragrafo 4.5), si tratta di un ruolo integratore molto utilizzato che funge da collegamento tra unità organizzative diverse, avendo responsabilità sul coordinamento della progettazione, produzione e vendita di specifici prodotti o famiglie di prodotti. Nei settori industriali i product manager sono principalmente concentrati sugli aspetti tecnico-commerciali, sulla corretta informazione al cliente e sul supporto tecnico. Nei settori di largo consumo i product manager sono normalmente più concentrati sulla pubblicità e la promozione delle vendite. In questi settori si ritrovano talvolta due varianti dell’organizzazione per prodotto. La prima è quella per marca, nella quale ogni responsabile di marca (brand manager) coordina un team di sviluppo dei prodotti commercializzati con un certo marchio. Alcune grandi multinazionali infatti, da Kraft a Procter&Gamble, hanno decine di marchi diversi. La seconda variante è l’organizzazione per categoria, nella quale ogni responsabile (category manager) coordina un team di sviluppo di un’intera categoria di prodotti correlati, ad esempio i prodotti per l’igiene personale comprendenti saponi, deodoranti, shampoo ecc. Infine, la terza base tipica di raggruppamento divisionale è quella per cliente. Nei mercati industriali, ad esempio, le strutture di marketing possono essere dedicate ai piccoli e grandi clienti. I piccoli clienti richiedono offerte, prodotti e servizi adatti alla loro dimensione. Alcuni grandi clienti (key account) sono così rilevanti da meritarsi manager dedicati (account manager). Nel settore informatico le strutture di marketing e vendite sono spesso raggruppate per tipologia di cliente/mercato: i clienti industriali, le banche, la pubblica amministrazione ecc. Nei mercati di consumo il raggruppamento per cliente può riguardare i distributori e i canali di vendita. Frequentemente si ritrovano figure manageriali dedicate alla gestione di un canale distributivo (ad esempio la GDO). Nelle grandi imprese multinazionali spesso la funzione di marketing è organizzata a matrice, combinando ad esempio la dimensione geografica (i mercati nazionali o continentali) con quella di prodotto. Per ci-

11. Il marketing management ) 371

Strutture ibride

11.6

tare un caso, 3M ha responsabili nazionali di marketing/vendite per le diverse linee di prodotto. Queste figure riportano sia alla direzione marketing/vendite nazionale (la quale ha responsabilità su tutte le linee di prodotto commercializzate localmente), sia alla funzione marketing europea della propria linea di prodotto, che coordina le strategie di marketing nei diversi Paesi. Anche nei servizi si ritrovano strutture simili. Ad esempio Adecco (Casi 4.6 e 11.2) ha una struttura di marketing locale nei diversi Paesi, che risponde sia alla direzione generale di ciascun Paese, sia alla direzione marketing corporate. Un’ultima considerazione sulle strutture organizzative riguarda il fatto che le attività di marketing sono tra quelle che più facilmente danno luogo a strutture ibride. Infatti, mentre spesso nelle attività di progettazione e di produzione le economie di scala hanno un forte peso e dunque il criterio di raggruppamento è di tipo funzionale, nelle attività di marketing le economie di scala sono spesso trascurabili o riguardano solo alcuni aspetti (ad esempio l’investimento pubblicitario aggregato). Prevalgono viceversa le esigenze di adattamento ai mercati locali o a specifici gruppi di clienti. Ciò spesso si traduce in strutture ibride, nelle quali marketing e vendite sono divisionali, ad esempio su base geografica, e produzione e progettazione sono aggregate in strutture funzionali. Molte multinazionali operano con strutture di questo tipo: subsidiary nazionali per il marketing, le vendite, il supporto tecnico e la distribuzione e, viceversa, progettazione e produzione centralizzate e funzionali. Il caso Cobra Automotive Technologies (Caso 4.3) illustra proprio un esempio simile.

Le decisioni di marketing Per concludere questo capitolo introduttivo sul marketing management occorre approfondire le caratteristiche dei processi decisionali di marketing collocandole nel più ampio quadro di riferimento delle decisioni nei contesti organizzati, oggetto della seconda parte del libro. La struttura del processo e il grado di decentramento delle decisioni sono i due aspetti cruciali che discutiamo nel seguito.

11.6.1

Analisi di mercato

Il processo decisionale In generale il processo decisionale di marketing (Figura 11.4) si articola su diversi livelli e può coinvolgere diverse funzioni aziendali. Il modello di riferimento è quello dei processi di tipo thinking first che abbiamo introdotto nel capitolo 8. Il punto di partenza è pertanto quello dell’analisi del problema, che in questo caso si traduce nell’analisi delle opportunità e delle minacce. Queste indagini devono essere normalmente condotte in due ambiti, il primo più vasto – il cosiddetto macroambiente – che riguarda il contesto socioeconomico, e il secondo più limitato – il microambiente – che riguarda il mercato e la concorrenza diretta. Segue poi una fase di ricerca e selezione dei mercati obiettivo che implica la stima della domanda potenziale,

372 ) PARTE III – MARKETING

Figura 11.4 IL PROCESSO DECISIONALE DI MARKETING Analisi opportunità di mercato

• Contesto socioeconomico • Concorrenza e clienti

Ricerca e selezione mercati obiettivo

• Misura e previsione della domanda • Segmentazione • Targeting

Sviluppo strategia di marketing

• Posizionamento • Sforzo (entità delle risorse) • Leve (marketing mix)

Programmazione operativa

• Ripartizione sforzo tra segmenti

Livello corporate Livello divisionale o di business unit

Livello funzionale

Realizzazione e controllo

Mercati ampi e diversificati

la segmentazione del mercato e la scelta del segmento o dei segmenti sui quali l’azienda andrà ad operare (targeting). La segmentazione è un concetto particolarmente importante del marketing (al quale dedicheremo ampio spazio nel capitolo 12, paragrafo 12.5). Molti mercati sono infatti troppo ampi e diversificati per essere raggiunti con un unico tipo di offerta. Il mercato dell’auto, ad esempio, contiene al suo interno clienti diversissimi con esigenze e disponibilità di spesa molto variegate, accomunati solo vagamente dal fatto di desiderare una scatola semovente a quattro ruote. Ciò si verifica anche nei servizi: nel settore delle linee aeree, ad esempio, il segmento low cost e quello business hanno esigenze e disponibilità di spesa molto diversificate. Il marketing deve tener conto delle differenze nelle esigenze dei clienti e decidere quali clienti cercare di raggiungere e con quale tipo di offerta. Il capitolo 12 sarà interamente dedicato ad approfondire le prime due fasi del processo: l’analisi delle opportunità e la selezione dei mercati. La fase successiva consiste nello sviluppo di una strategia di marketing (capitolo 13). Occorre innanzitutto posizionare l’offerta nei diversi segmenti rispetto alla concorrenza. Successivamente si tratta di definire le scelte operative che permettono di ottenere il posizionamento desiderato. Occorre poi allocare le risorse e definire lo sforzo complessivo che si è in grado di fare, e soprattutto occorre decidere l’insieme di azioni, normalmente noto con il termine di marketing mix, che compongono la strategia. Le leve del marketing mix possono essere ricondotte a quattro categorie (si veda McCarthy, 1996):

11. Il marketing management ) 373 Il marketing mix

• il prodotto o il servizio, ovvero le caratteristiche funzionali ed estetiche, il brand, le varianti, i modelli e la gamma e poi ancora i servizi accessori, le garanzie e altre caratteristiche dell’offerta; • il prezzo e tutte le decisioni che lo riguardano, dalle logiche di fissazione (pricing) a quelle di modifica, ad esempio gli sconti; • la distribuzione, ovvero i canali che l’impresa intende utilizzare per raggiungere il cliente (la vendita diretta, la distribuzione organizzata, il dettaglio, gli intermediari commerciali, il canale Internet ecc.), ma anche la localizzazione geografica e il tipo di punti vendita e altri aspetti ancora; • la comunicazione, ovvero l’insieme delle attività con le quali si crea e si mantiene una relazione con il proprio mercato: pubblicità, promozioni, relazioni pubbliche, direct marketing ecc.

Livelli organizzativi

Il marketing mix, detto anche modello delle 4P dalle iniziali in inglese di Product, Price, Place, Promotion (McCarthy, 1996), costituisce il cuore e il momento decisionale di una strategia di marketing. Il capitolo 13 sarà interamente dedicato all’approfondimento del marketing mix. Per meglio comprendere la portata e l’ampiezza delle leve del marketing mix consideriamo l’esempio Mitsubishi Motors del Caso 11.5.

CASO

11.5

Mitsubishi Motors La società Mitsubishi Motors Corporation (MMC) è il ramo automobilistico del gruppo giapponese Mitsubishi, uno dei principali keiretsu del paese, che include colossi quali Bank of Tokio Mitsubishi, Mitsubishi Heavy Industries e Mitsubishi Electric. MMC sviluppa, produce e vende in tutto il mondo una gamma molto ampia di automobili e veicoli commerciali, ma nel nostro paese è nota soprattutto per i fuoristrada Pajero. In Europa MMC è presente con una propria società, Mitsubishi Motors Europe B.V. (MME), con sede in Olanda, dove è anche proprietaria dello stabilimento Nedcar, nel quale si producono Colt e Smart ForFour, e dal 2008 una parte di Outlander (assemblaggio). In Italia le automobili Mitsubishi sono distribuite in esclusiva da M.M. Automobili Italia (MMAI), una società commerciale del gruppo privato Koelliker (che importa anche il marchio Ssangyong). La distribuzione MMAI, come le altre case automobilistiche, utilizza un modello di distribuzione indiretta: le automobili vengono vendute al pubblico attraverso una rete di 103 concessionari presenti su tutto il territorio italiano. L’azienda inoltre ha venduto per parecchi anni anche direttamente attraverso alcuni flagship store di proprietà a Milano, Roma, Torino e Padova, ma poi ha deciso di concentrare il business nella sola distribuzione vendendo le ex filiali a imprenditori privati. I concessionari sono società autonome, in parte partner storici dell’azienda, che a volte vendono anche altri marchi del gruppo Koelliker, e in parte nuovi operatori recentemente inseriti nella rete ufficiale Mitsubishi e storicamente conosciuti sul territorio per altri marchi. Le liberalizzazioni del mercato dell’automobile in Europa, soprattutto la cosiddetta “Direttiva Monti”, hanno imposto una ridefinizione di tutti i contratti di concessione. In par-

374 ) PARTE III – MARKETING ticolare, nel caso della cosiddetta distribuzione selettiva, non sono permesse restrizioni alla vendita di altri marchi né è possibile imporre vincoli territoriali; vengono soltanto definiti degli obiettivi commerciali e alcuni standard minimi di servizio. La rete dei concessionari segue il cliente anche dopo la vendita, attraverso il servizio di assistenza. Per supportare questa attività, MMAI ha predisposto una rete di distribuzione dei ricambi originali, basata su un magazzino centrale a Milano. Inoltre, MMAI gestisce il rimborso degli interventi effettuati in garanzia e la formazione tecnica del personale delle officine. Esiste inoltre un reparto dedicato alle vendite alle aziende (fleet sales) e agli enti pubblici, che costituiscono un canale di vendita particolare, attraverso il quale vengono venduti lotti anche consistenti di veicoli, a volte con richieste particolari di personalizzazione. Il portafoglio prodotti MMC ha una gamma di veicoli molto articolata, ma in ciascun paese ne viene commercializzato soltanto un sottoinsieme più o meno ampio. La scelta del portafoglio prodotti comporta chiaramente il posizionamento e la percezione del marchio da parte di ciascun mercato. Infatti in Italia Mitsubishi si è fatta conoscere attraverso i fuoristrada, inserendosi in una nicchia allora ristretta e poco presidiata dalla concorrenza, oltre che più remunerativa dato il valore unitario superiore di questi veicoli. In particolare il Pajero è stato subito riconosciuto come un prodotto di alto livello tecnico (Mitsubishi ha vinto 12 volte i rally Dakar), ma che contemporaneamente offre caratteristiche di comfort e guidabilità su strada di tutto rispetto. Con la recente diffusione dei SUV (Sport Utility Vehicle), queste caratteristiche vengono date per scontate e prevalgono sulle prestazioni fuoristradistiche, ma all’inizio degli anni Ottanta questi veicoli erano ancora molto spartani (il più famoso era probabilmente il Land Rover). Tale scelta ha fatto sì che nel nostro paese il marchio venisse collegato a un prodotto di nicchia di alta qualità, con un prezzo abbastanza elevato, e di conseguenza si associasse al brand una connotazione di alta gamma. Al contrario, in Germania è sempre stata offerta una gamma più ampia, comprendente veicoli di massa e alla portata di un mercato molto più vasto: di conseguenza, in questo paese il marchio viene percepito come generalista e di livello non particolarmente elevato. Negli ultimi dieci anni l’aumento della competizione nel settore automotive, che ha portato tutti i produttori a offrire gamme complete e a invadere anche le nicchie, unita all’esplosione del fenomeno SUV, ha fortemente minato la posizione di Mitsubishi in Italia. Infatti quasi tutti i marchi oggi offrono veicoli voluminosi con caratteristiche da fuoristrada (quattro ruote motrici, notevole altezza da terra ecc.), sebbene mai spinte quanto i veicoli che vengono utilizzati realmente offroad, e allo stesso tempo hanno buone prestazioni stradali unite a comfort e abitabilità, che sono in realtà i benefici immediatamente percepiti dal consumatore. Questo fenomeno ha inevitabilmente attaccato la nicchia in cui operava Mitsubishi nel nostro paese, e MMAI ha reagito in diversi modi. Anzitutto allargando la gamma dei fuoristrada: il Pajero in versione sia passo lungo sia passo corto, il Pajero Sport e il Pajero Pinin (in collaborazione con Pininfarina); il pick-up L200 (in diverse configurazioni di cabina), il SUV Outlander e più recentemente il crossover ASX che va incontro alle esigenze di un vasto target di clientela. Quindi il portafoglio prodotti è stato esteso ad altri segmenti sempre con posizionamento medio-alto, in particolare le automobili sportive (Eclipse, GT3000 e oggi Lancer Evolution) e le monovolume (Space Wagon, Space Runner, Space Gear e Grandis). Infine, più recentemente, Mitsubishi è entrata anche nei segmenti di massa con modelli come Space Star (monovolume compatto) e Colt (segmento B, 3 e 5 porte), appositamente sviluppati per il mercato europeo e prodotti in Olanda. Negli ultimi anni Mitsubishi si è fatta strada anche nella nicchia delle auto elettriche con la I-Miev, frutto di quarant’anni di ricerca e sviluppo tecnologico della casa madre. La composizione del portafoglio prodotti in ciascun paese è chiaramente la prima e fondamentale scelta che determina il posizionamento in tale mercato: non si tratta in realtà di una decisione presa autonomamente dalla casa madre, piuttosto è il frutto di una negoziazione

11. Il marketing management ) 375 in cui l’importatore ha un ruolo fondamentale nel guidare la scelta, in base alle caratteristiche del mercato. La determinazione del prezzo Una volta definito il portafoglio prodotti, il passo successivo consiste nel decidere il prezzo a cui vendere ciascun modello. In realtà ogni modello è in genere disponibile in più versioni – che differiscono per motorizzazione, allestimenti, estetica e accessori di serie – alle quali è sempre possibile aggiungere una serie di optional. Anche il prezzo non viene in realtà imposto dalla casa madre ma concordato con l’importatore, sulla base di varie considerazioni. Anzitutto, ovviamente, il costruttore considera i propri costi, che costituiscono un limite inferiore al prezzo. Quindi viene stabilito il margine percentuale sul prezzo di vendita che verrà riconosciuto all’importatore, il quale di conseguenza non può imporre ai concessionari e ai clienti finali un prezzo senza che questo sia direttamente legato a quanto corrisposto al produttore. Contemporaneamente vengono effettuati studi approfonditi sulla concorrenza, in modo da confrontare il prezzo di ciascuna versione con quelle analoghe, a parità quindi di tutte le caratteristiche sopra citate. In una prospettiva commerciale, l’obiettivo del distributore è maggiormente focalizzato sui volumi di vendita, pertanto egli cerca di negoziare con la casa madre il prezzo più basso possibile. In questo modo viene definito un prezzo di listino, che costituisce il prezzo base di ciascuna versione (standard retail price). Esso è tuttavia soggetto a modifiche, mirate a sostenere le vendite nel corso del ciclo di vita del prodotto: è il caso degli sconti, delle offerte nelle quali alcuni optional vengono inclusi nel prezzo, dei finanziamenti a tasso agevolato ecc. Tali politiche commerciali sono elaborate dal distributore e i relativi costi vengono condivisi con il concessionario. Un fenomeno particolare molto diffuso nel settore è costituito dai cosiddetti “km zero”, veicoli cioè già immatricolati e quindi formalmente “usati” (e come tali venduti), ma che in realtà sono nuovi. La ragione di questa politica risiede nel fatto che, a differenza di quanto avviene in altri settori, le immatricolazioni di automobili vengono rilevate dal Ministero dei trasporti e la quota di mercato di ogni casa viene pubblicata mensilmente, creando un incentivo a immatricolare anche veicoli non ancora venduti. La promozione Poiché lo scopo primario di MMAI è la vendita, tutte le attività mirate a supportare tale obiettivo ricoprono un ruolo fondamentale e sono delegate alla funzione marketing. In realtà questa funzione svolge un’ampia gamma di attività, fra le quali una delle più importanti è sicuramente la comunicazione. MMAI privilegia il canale della carta stampata, che offre un rapporto prezzo/copertura compatibile con il budget disponibile. Bisogna considerare infatti che, operando prevalentemente in una nicchia, non si dispone della massa critica che permette di avere le risorse per usufruire in modo massiccio del canale televisivo. Questo non vuol dire che non vengano occasionalmente utilizzati spot mirati, ad esempio per il lancio di un nuovo modello, ma in genere si preferisce lo strumento della cosiddetta “telepromozione”, ovvero la presentazione del prodotto da parte del conduttore all’interno di format popolari quali “Striscia la notizia” o “L’eredità”, che a fronte di un’audience importante offrono un discreto spazio, visibile a un pubblico adatto in particolare ai prodotti di fascia più bassa introdotti negli ultimi anni. Per gli stessi motivi è molto utilizzato anche il canale radiofonico e negli ultimi anni il canale Internet, sempre più importante per la visibilità che offre e i costi ancora contenuti. Recentemente si è fatto ampio ricorso alle esposizioni dei prodotti nei centri commerciali e negli outlet, dove si concentrano grandi masse di potenziale clientela che oltre a ricevere informazioni possono così effettuare test drive senza doversi recare in concessionaria. È importante sottolineare che l’attività di comunicazione è comunque mirata alla vendita, più che alla promozione del marchio. Tuttavia le modalità di comunicazione hanno un ruolo importante nel garantire la coerenza fra il messaggio veico-

376 ) PARTE III – MARKETING lato, il prodotto e il posizionamento del brand. In particolare si è passati da una situazione precedente in cui ogni filiale nazionale era completamente autonoma nella propria strategia di comunicazione, a un deciso sforzo di coordinamento e omogeneizzazione a livello europeo. Nei primi anni Duemila, infatti, è stata creata una direzione marketing europea, che ha cercato di controllare l’operato dei vari paesi e di fornire strumenti e supporto. In particolare si è cercato di sfruttare economie di scala, ad esempio nella produzione di contenuti costosi quali spot televisivi, anche se questo non è possibile per l’acquisto di spazi pubblicitari, visto il carattere sostanzialmente locale di questo mercato. La direzione europea è poi stata chiusa nel 2010 per ridurre i costi di struttura e quindi il rapporto commerciale tra le filiali nazionali e la casa madre è tornato ad essere gestito direttamente con il Giappone. Oltre alla comunicazione pubblicitaria tradizionale esistono altre forme, quali la presenza alle fiere di settore, in particolare il Motor Show di Bologna, e le sponsorizzazioni mirate di eventi che coinvolgono un target coerente con il brand Mitsubishi, quali ad esempio i concorsi ippici della Federazione Italiana Sport Equestri o il format di viaggio Donnavventura, che utilizza il pick up L200 e il crossover ASX. Vi sono poi le attività mirate alla fidelizzazione del cliente, come ad esempio un club di marca, ovvero un’associazione di proprietari di fuoristrada Mitsubishi che organizza raduni in collaborazione con enti specializzati nella guida in fuoristrada, al fine di aumentare il valore percepito dai clienti. Un caso diverso è invece quello delle competizioni internazionali, in particolare il rally Dakar, che sono gestite direttamente dalla casa madre ma che hanno chiaramente una ricaduta di immagine positiva in tutti i mercati. Mitsubishi partecipa con successo anche al campionato mondiale rally su strada con la Lancer Evolution, modello sportivo disponibile anche per il pubblico. La gestione del ciclo di vita Come tutte le case automobilistiche, Mitsubishi è particolarmente attenta alla gestione del ciclo di vita dei suoi prodotti, il quale ha subito negli ultimi decenni un costante accorciamento, a causa dell’inasprimento della competizione e dell’accelerazione dell’innovazione, tanto che oggi la vita media di un modello va dai 5 ai 7 anni. È importante specificare che questa è la durata di un progetto di prodotto che poi si articola in numerose versioni e varianti, fino al momento in cui esce di produzione per essere sostituito con un altro, che potrebbe anche portare lo stesso nome (è il caso ad esempio del Pajero, nome che a partire dal 1982 ha accompagnato 4 generazioni di prodotti diversi succedutesi fino a oggi; l’ultima è arrivata sul mercato a gennaio 2007). Considerando il ciclo di vita del singolo prodotto, sia il produttore sia il distributore dedicano grande attenzione a gestire le varie fasi, sia adottando le leve di marketing più adeguate alle esigenze del momento sia cercando di prolungare e pilotare il ciclo di vita stesso. Al momento del lancio di un nuovo modello, Mitsubishi generalmente presenta il prodotto alla stampa e al mercato, sia nei saloni internazionali, sia attraverso eventi dedicati ai giornalisti nazionali. In genere un nuovo modello viene reso disponibile con un numero limitato di motorizzazioni e versioni (ad esempio 3 o 5 porte, passo lungo o corto, sportiva, cabrio ecc.) e l’introduzione delle ulteriori versioni viene scaglionata nel tempo. Questo fenomeno permette di presentare al mercato alcune novità anche nei mesi e negli anni successivi al lancio, attirando nuovamente l’attenzione sull’intera gamma. Anche la comunicazione viene utilizzata in modo coerente, privilegiando inizialmente la stampa specializzata di settore per far conoscere il nuovo prodotto a potenziali clienti particolarmente sensibili alle novità, che spesso diventano opinion leader. A livello distributivo, il nuovo prodotto viene reso disponibile all’intera rete di concessionari, ma in caso di limitata disponibilità si privilegiano inizialmente i rivenditori dei grandi centri urbani, generalmente più propensi alle novità. In termini di prezzo, in questa fase il distributore e il produttore concordano i listini, che costituiranno il riferimento lungo tutto il ciclo di vita. Negli anni successivi al lancio vengono effettuati diversi tipi di modifiche al prodotto: normalmente verso metà della vita attesa si effettua un restyling, ovvero un intervento consi-

11. Il marketing management ) 377 stente che coinvolge sia l’estetica sia le caratteristiche tecniche del prodotto, pur non comportando una riprogettazione radicale. Spesso fra il lancio e il restyling si effettua un face lift, ovvero un intervento contenuto che coinvolge comunque l’estetica, in particolare la carrozzeria e/o i paraurti. Inoltre ogni anno si offre un model year diverso, ovvero una nuova combinazione di fattori estetici quali i colori o le stoffe, che non richiedono quindi modifiche industriali al prodotto ma hanno comunque un effetto di rinnovamento della gamma e di rilancio. Per quanto riguarda gli accessori disponibili, il distributore sceglie all’interno dell’ampia gamma proposta dal produttore quali offrire al pubblico, utilizzando anche questa leva per modificare la gamma ogni anno. In particolare la dotazione di serie è lo strumento che il distributore usa per sostenere le vendite in momenti di difficoltà, offrendo un corredo più ricco, ma senza ridurre il prezzo di listino per non comunicare una perdita di valore a coloro che hanno acquistato il prodotto in passato. Questo può avvenire anche sotto forma di edizioni limitate, ovvero configurazioni particolari di prodotto offerte a un prezzo diverso dal listino per un tempo limitato. Accanto agli interventi sul prodotto e sul prezzo, in questa fase è fondamentale il contributo della comunicazione, che cerca di mantenere l’attenzione del mercato sul prodotto e di farlo conoscere a tutti i potenziali clienti. Quando infine il prodotto si avvicina al termine del proprio ciclo di vita, viene dapprima ridotta la gamma offerta e si limitano gli investimenti in comunicazione, quindi viene gestita l’uscita del prodotto dal mercato (run out), cercando di sostenere le ultime vendite offrendo ricche dotazioni di accessori incluse nel prezzo e a volte anche sconti diretti, operazioni che per essere efficaci spesso richiedono un’adeguata comunicazione. Un aspetto delicato in questa fase è la customer retention: alla fine del ciclo di vita si punta anche a fidelizzare i clienti affinché in futuro comprino altri modelli Mitsubishi.

Come in ogni modello decisionale, le ultime due fasi del processo riguardano la programmazione operativa, la realizzazione e il controllo. Per questi aspetti più operativi e di dettaglio, che esulano dai nostri scopi, si rimanda a testi specialistici, come ad esempio Kotler (2003) e Goetsch (1993). È importante notare che nelle imprese di maggiori dimensioni, più strutturate e con organizzazione divisionale o addirittura a matrice (si veda in proposito il capitolo 4), l’analisi delle opportunità è tipicamente svolta a livello centrale (corporate), la ricerca e selezione dei mercati e lo sviluppo di una strategia di marketing sono tipicamente di pertinenza delle singole divisioni o delle business unit, anche se il livello corporate talvolta si spinge fino a determinare alcuni elementi del marketing mix, mentre la realizzazione e il controllo, inteso come la raccolta di informazioni e il reporting, sono spesso a livello funzionale e in parte anche esternalizzati. Il processo decisionale di marketing si dipana dunque attraverso vari livelli organizzativi. A proposito degli aspetti organizzativi della funzione di marketing rimandiamo al paragrafo 11.5.

11.6.2

Il grado di decentramento delle decisioni Chiudiamo il cerchio del nostro ragionamento sulle decisioni di marketing ritornando ad alcune considerazioni organizzative che

378 ) PARTE III – MARKETING

Marketing di prodotto

Trade-off e negoziazioni

Marketing istituzionale

fanno riferimento a chi, in azienda, prende tali decisioni (quali funzioni aziendali, quali ruoli, quali livelli organizzativi) La struttura del processo decisionale di marketing illustrata (Figura 11.4) già fornisce un riferimento di massima. Nelle grandi organizzazioni, spesso globali, il marketing strategico e in particolare l’analisi delle opportunità di mercato e la scelta dei mercati obiettivo sono di competenza degli staff centrali di marketing e spesso direttamente dell’alta direzione o del CEO. Le decisioni di marketing mix e la programmazione operativa sono progressivamente delegate alle unità periferiche dedicate ai singoli prodotti o mercati. Tuttavia, possono esservi notevoli differenze anche in relazione alle diverse leve. Il caso Mitsubishi (Caso 11.5) contiene molti spunti in tal senso. Anzitutto mostra che in una realtà multinazionale complessa le decisioni di marketing raramente sono concentrate dal punto di vista organizzativo, e dunque le responsabilità manageriali sono distribuite (si veda anche il paragrafo 11.5). La conseguenza è che la strategia di marketing è un processo decisionale multi-attore (si vedano in proposito i capitoli 7 e 8), che richiede negoziazione interna e capacità di gestire i trade-off. Ad esempio le strategie di prezzo sono decise localmente, a livello di distributore nazionale, tenendo tuttavia conto di determinati obiettivi di margine negoziati con la casa madre. Anche le decisioni sul prodotto sono organizzativamente distribuite: ovviamente la progettazione e le caratteristiche tecniche dei prodotti sono concentrate in Giappone, ma i distributori nazionali decidono in sostanziale autonomia quali prodotti dell’intera gamma Mitsubishi importare e distribuire localmente. La comunicazione è di fatto gestita localmente, anche se in passato è stato sviluppato un approccio più centralizzato almeno su base europea per standardizzare e rinforzare la corporate identity del marchio. Negli ultimi anni in molte altre aziende si è verificato uno spostamento di enfasi dalla comunicazione orientata al prodotto a quella istituzionale, orientata all’impresa nel suo complesso (si veda il paragrafo 13.5). La conseguenza di ciò è stato un certo accentramento delle decisioni di marketing e in particolare delle strategie di comunicazione e di rafforzamento della brand identity. Il caso Mitsubishi (Caso 11.5) ci ha offerto una panoramica introduttiva sull’insieme delle decisioni di marketing mix. Il capitolo 13 è interamente dedicato allo sviluppo dettagliato di tali decisioni con altri casi di approfondimento. In questo capitolo introduttivo abbiamo discusso il contesto e gli obiettivi del marketing management, illustrando alcuni concetti fondanti e preliminari come come quelli di offerta, brand e ciclo di vita. Abbiamo posto il marketing in relazione ai processi di innovazione, alla strategia d’impresa e ai trend emergenti. Infine lo abbiamo analizzato in chiave organizzativa e decisionale, coerentemente con l’impostazione di questo libro e in particolare con i contenuti delle due prime parti. Nei prossimi capitoli entreremo nel merito delle strategie di marketing con riferimento al processo decisionale che abbiamo introdotto nell’ultimo paragrafo (11.6, Figura 11.4).

12 L’analisi di mercato Previsione della domanda e segmentazione

SOMMARIO

12.1

Fattori esterni

Domanda e segmenti

12.1 Introduzione j 12.2 L’analisi del contesto socioeconomico j 12.3 L’analisi dell’ambiente di mercato: la concorrenza e i clienti j 12.4 La misura e previsione della domanda j 12.5 La segmentazione del mercato

Introduzione Nel capitolo precedente abbiamo introdotto la struttura generale del processo decisionale di marketing (cfr. Figura 11.4). Si tratta ora di approfondire le fasi principali di questo processo, iniziando naturalmente dalla fase di analisi delle opportunità e delle minacce presenti nell’ambiente esterno. Questa analisi consiste nel valutare l’insieme dei protagonisti e delle forze esterne che possono determinare o influenzare il successo delle azioni strategiche e di marketing dell’impresa. In particolare essa può essere condotta a due livelli. L’analisi del contesto socioeconomico, talvolta detta analisi del macroambiente, fa riferimento all’insieme delle forze economiche, demografiche, sociali, culturali, politiche, normative e tecnologiche che caratterizzano il contesto in cui l’impresa opera. Viceversa, l’analisi dell’ambiente di mercato (microambiente) consiste nel monitorare gli attori che possono influire sui risultati economici dell’impresa, quindi tipicamente i clienti, i concorrenti, i fornitori e i canali di vendita. In particolare, l’analisi della concorrenza consente di individuare le imprese che servono lo stesso mercato e le loro strategie, e di prevedere le possibili reazioni di fronte all’ingresso o alle azioni di marketing pianificate. Lo studio del mercato è finalizzato a individuare gli strumenti e i canali migliori per soddisfare i bisogni e i desideri dei clienti attuali e potenziali. A questa prima fase di analisi segue la selezione dei mercati sui quali si decide di operare. Le opportunità di mercato che emergono dall’analisi esterna devono essere valutate in maggior dettaglio, da un lato attraverso la stima della domanda attuale e futura, dall’altro attraverso l’individuazione dei segmenti di mercato, ovvero di gruppi di clienti caratterizzati da preferenze e comportamenti relativamente omogenei. L’attrattività di ciascun segmento porta alla selezione dei mercati obiettivo a cui l’impresa vuole rivolgersi.

380 ) PARTE III – MARKETING

Il Caso 12.1a esemplifica il percorso sopra descritto, riportando i risultati dell’analisi di mercato condotta nell’ambito dello sviluppo di un business plan per il lancio e la commercializzazione di una nuova linea di cosmetici per l’uomo.

CASO

12.1a

Factor’NDI (A): l’analisi del mercato dei prodotti per la cura e il benessere dell’uomo Factor’NDI nacque alcuni anni fa da una business idea legata allo sviluppo e commercializzazione di una linea di prodotti per la cura e il benessere dell’uomo. Il gruppo di imprenditori intravedeva in questo segmento un’interessante opportunità di mercato, in quanto il settore del personal care registrava elevati tassi di crescita. Inoltre, il comparto dei prodotti dedicati all’uomo era ancora largamente inesplorato ed evidenziava un notevole potenziale di espansione. Lo sviluppo della business idea e la definizione di un business plan per lo start up dell’azienda ha richiesto di condurre analisi strategiche e di marketing per capire le opportunità di mercato, valutare le minacce, comprendere i punti di forza e di debolezza legati alle caratteristiche della nuova azienda. I risultati di tale analisi sono sintetizzati di seguito. L’analisi del mercato Annualmente l’associazione di categoria delle aziende cosmetiche in Italia (Unipro – www.unipro.org) pubblica un rapporto che sintetizza l’andamento dei consumi nel settore e delinea le principali tendenze di mercato. I dati utilizzati per sviluppare il business plan di Factor’NDI si riferiscono al rapporto Unipro del 2003. In quel periodo – come anche oggi – il settore era caratterizzato da un trend significativo di crescita, nonostante qualche rallentamento nell’ultimo periodo. In particolare, la crescita media annuale dal 1996 al 2002 è stata del 6,3%. Complessivamente il fatturato globale del settore cosmetico in Italia è stato nel 2003 pari a 7 miliardi di euro. I canali principali per la vendita dei prodotti cosmetici al consumatore finale erano la grande distribuzione organizzata (53%), la farmacia (11%) e la profumeria (28%). Quest’ultimo canale stava però perdendo rilevanza a favore dei primi due. I prodotti che avevano peso maggiore in questo mercato erano quelli per capelli e cuoio capelluto, per il viso e per il corpo, che complessivamente costituivano quasi la metà del mercato. Unipro aveva individuato anche un gruppo di prodotti denominati “Linea maschile”, costituito principalmente da saponi, schiume e gel da barba, dopobarba e creme per trattamento. Il mercato della Linea maschile valeva 277 milioni di euro e costituiva il 4% del mercato totale. Il tasso di crescita annuo era superiore rispetto alla media del mercato, pari al 10,7% . Non sono però inclusi in questo segmento tutti i consumi maschili di prodotti cosmetici e per il corpo classificati in categorie diverse (ad esempio prodotti per il viso o per i capelli). I prodotti per uomo possono essere infatti distinti in tre tipologie: • prodotti specificamente dedicati all’uomo (Linea maschile di Unipro); • prodotti per i quali sono state concepite linee maschili, spesso come extension line di linee femminili; • prodotti indistinti, per i quali non esistono linee maschili ma vengono ugualmente consumati dall’uomo.

12. L’analisi di mercato ) 381

Figura 12.1 LA COMPOSIZIONE DELLA DOMANDA NEL MERCATO DEI PRODOTTI DI PERSONAL CARE PER L'UOMO (2003)

Profumeria alcolica 16,2%

Confezioni regalo 1,4% Prodotti per capelli e cuoio capelluto 19,0%

Prodotti linea maschile 13,8%

Prodotti per il viso 6,6%

Prodotti per il corpo 12,2%

Prodotti igiene bocca 12,4% Prodotti igiene corpo 15,8%

La Figura 12.1 riporta la composizione dei consumi di prodotti cosmetici da parte dell’uomo secondo le stime fatte da Unipro nel 2003, da cui si desume l’importanza dei segmenti di prodotti per capelli, prodotti per l’igiene del corpo e della profumeria alcolica. In base a questa ipotesi di composizione dei consumi, il mercato dei cosmetici per l’uomo in Italia è stato stimato approssimativamente in 2 miliardi di euro. A fronte dei dati quantitativi relativi al mercato e ai trend di crescita del settore, è stato poi utile considerare alcuni aspetti del macroambiente riguardanti i comportamenti e gli stili di vita dei consumatori, che hanno permesso di fare ipotesi più dettagliate sul potenziale di mercato per la Factor’NDI. In particolare sono risultati rilevanti alcuni trend delineati dal Future concept lab (Morace, 2004; www.futureconceptlab.com): • l’identità di genere: il senso e la direzione dell’identità e dei codici di genere non sono più semplici e scontati ma assumono una molteplicità e una complessità crescenti; • gli scenari (trend di comportamento delle persone) sottolineano come il corpo sia diventato il vero e proprio centro dell’espressione personale, il veicolo attraverso il quale dichiarare e rivendicare la propria identità; • fra le tendenze emergenti, l’aesthetic science sottolinea in particolar modo l’importanza crescente nei prodotti cosmetici del fattore medico e scientifico ma anche del packaging, della comunicazione e delle strategie di marketing. Dai dati e dalle ricerche analizzate è emersa l’esistenza di un mercato potenziale ampio e con buone prospettive di crescita per prodotti di igiene e bellezza per l’uomo. Tali opportunità derivavano non tanto dallo sfruttamento della nicchia di prodotti specificamente di interesse maschile allora esistenti, quanto piuttosto dalla creazione di nuove linee di prodotti dedicate all’uomo, che soddisfino alcuni bisogni e preferenze peculiari e consentano il riconoscimento di una forte identità specifica. Un brand dedicato a questo segmento di mercato poteva presentare dunque buoni punti di forza grazie all’immagine di maggiore specializzazione e competenza sul target che ne deriverebbe. Inoltre un’immagine di qualità e di scientificità dei prodotti avrebbe portato buoni vantaggi, in forza della crescente attenzione dei consumatori verso questi aspetti.

382 ) PARTE III – MARKETING L’analisi della concorrenza L’analisi della concorrenza nel mercato del personal care ha evidenziato un settore molto frammentato, con circa 800 aziende, delle quali le prime dieci pesano circa per il 40%. Tuttavia, il 25% del fatturato era realizzato da quattro gruppi (L’Oréal, Pierre Fabre, Johnson & Johnson e Procter & Gamble). Il tasso di innovazione era parimenti elevato, con più di 900 lanci di nuovi prodotti ogni anno. Rispetto a questo quadro, erano poche le aziende operanti specificamente nel segmento maschile (il player principale è Vichy). Tutte le altre imprese del comparto cosmetico erano viceversa potenziali entranti nel settore. I prodotti sostitutivi principali erano le offerte femminili o unisex per la cura della persona, oltre a prodotti più di nicchia come quelli del comparto omeopatico o dell’erboristeria. Fonte: adattato da Bazan et al. (2005).

Il caso Factor’NDI (Caso 12.1a) ha illustrato sinteticamente i risultati dell’analisi del contesto socioeconomico e dell’ambiente di mercato per valutare l’ingresso in un nuovo settore. In questo capitolo vengono descritte in modo approfondito le variabili rilevanti e i metodi più comunemente utilizzati per effettuare l’analisi delle opportunità e la selezione dei mercati obiettivo: le prime due fasi del processo decisionale di marketing. In dettaglio si affronteranno gli strumenti per valutare la domanda, segmentare il mercato e definire il target dell’impresa.

12.2

Mode e trend

Megatrend

L’analisi del contesto socioeconomico Le opportunità e le minacce che le imprese si trovano ad affrontare derivano innanzitutto dall’ambiente nel quale sono immerse. È dunque fondamentale, nell’impostare una strategia di marketing, individuare le principali caratteristiche del contesto – o macroambiente – in cui si opera o si desidera operare e monitorare le principali direzioni di evoluzione. Ciò consente di valutare quali opportunità di crescita, sviluppo o differenziazione esistano e quali minacce per i prodotti e servizi attuali siano più rilevanti. Il macroambiente è dunque importante per determinare quali prodotti e servizi offrire, a quali mercati, con quali strategie di marketing. L’evoluzione del contesto socioeconomico può essere caratterizzata da mode, trend e megatrend. Mentre le mode sono transitorie, poco prevedibili e con scarso impatto sociale, i trend riguardano importanti cambiamenti del macroambiente che hanno carattere più persistente e profondo sulla cultura, la società, l’economia e l’ambiente demografico dei Paesi. Si pensi ad esempio alla diffusione dei telefoni cellulari e di Internet: si tratta di strumenti che, lungi dall’essere mode passeggere, hanno cambiato radicalmente il modo di comunicare e di accedere all’informazione. I megatrend sono poi le direzioni epocali di cambiamento: il futurologo John Naisbitt ha individuato come mega-

12. L’analisi di mercato ) 383

trend del XXI secolo la crescita dell’economia nei Paesi orientali, l’era delle biotecnologie, gli stili di vita globali e il nazionalismo culturale. Nell’analizzare il macroambiente occorre distinguere i diversi aspetti che lo caratterizzano; essi possono giocare un ruolo più o meno rilevante a seconda del mercato a cui l’impresa si rivolge. I principali aspetti del macroambiente sono elencati nel seguito. Essi si sovrappongono in parte ai fattori contingenti che abbiamo analizzato nel capitolo 6 e che in generale influenzano l’organizzazione e la strategia di impresa. Tuttavia vengono qui riletti in chiave di marketing con riferimento alle opportunità e alle minacce per il business. L’ambiente demografico: fa riferimento alle caratteristiche e ai cambiamenti che riguardano gli aspetti demografici del contesto in cui opera l’azienda. Tra le variabili importanti a questo proposito ricordiamo la dimensione della popolazione, la sua composizione in termini di età, sesso, etnie, livello di istruzione, la sua distribuzione geografica e le tendenze agli spostamenti. Ad esempio, per un’impresa operante nel mercato italiano è importante considerare che la popolazione ha un tasso di crescita molto basso, con un’età media di circa 43 anni, che vi è stato e vi sarà in futuro un forte incremento di popolazione di nazionalità diverse, in particolare provenienti dall’Africa, dal Sud America e dall’Est Europa, che vi è recentemente una tendenza a spostarsi dai grandi centri urbani troppo congestionati (città come Milano, Roma o Napoli) alle periferie e alle città di dimensioni minori. L’ambiente economico: questa dimensione include diversi aspetti che influenzano i comportamenti dei consumatori e delle imprese. Da un lato, la disponibilità di reddito e la propensione alla spesa della popolazione dell’area economica in cui l’impresa opera condizionano fortemente i comportamenti dei consumatori. Dall’altro, l’offerta di marketing, in termini di prodotto, prezzo, comunicazione e distribuzione deve essere adattata al livello di reddito disponibile nei mercati di riferimento. Ugualmente la propensione al risparmio o, viceversa, alla spesa e all’indebitamento, caratteristici non solo dei Paesi e delle fasce di popolazione ma anche dei momenti storici, influenza fortemente le scelte di marketing. Ad esempio, il tasso di indebitamento delle famiglie in Europa e, soprattutto, negli Stati Uniti determina da un lato l’importanza di soluzioni di finanziamento come servizio accessorio ai prodotti, dall’altro, per le banche e le società finanziarie, la grande espansione del settore del credito al consumo. Le condizioni generali dell’economia, il costo dei fattori produttivi, le relazioni industriali o i rapporti economici tra Paesi sono tra i fattori macroeconomici più importanti nel condizionare i comportamenti delle imprese e hanno rilevanza fondamentale nel determinare le strategie di marketing nei settori industriali. L’ambiente socioculturale: la società e la cultura hanno un’influenza rilevante sui comportamenti delle persone, sui loro bisogni e sulla loro relazione con chi offre prodotti e servizi atti a soddisfarli. Un primo elemento rilevante dell’ambiente socioculturale riguarda lo stile di vi-

384 ) PARTE III – MARKETING

ta, spesso connesso all’atteggiamento delle persone nei confronti di se stessi, della natura, della società, delle istituzioni, delle religioni (si veda ad esempio il caso Factor’NDI – Caso 12.1a). Un secondo aspetto rilevante riguarda i valori di fondo della società, che ne condizionano fortemente l’etica e i comportamenti. Sebbene una popolazione possa essere caratterizzata da una cultura dominante, è possibile spesso individuare sottoculture, ovvero culture specifiche di sottogruppi della popolazione complessiva. Ad esempio il gruppo dei teenager ha atteggiamenti, linguaggi, modelli di riferimento e valori che almeno in parte sono specifici e determinano comportamenti peculiari. L’ambiente naturale: questo aspetto del macroambiente riguarda le problematiche legate all’impatto ambientale delle attività economiche. Come visto nel capitolo precedente, la sostenibilità ambientale dei prodotti e dei loro processi produttivi sta diventando un criterio molto rilevante nella scelta dei consumatori. Allo stesso tempo sono numerose la azioni sul piano normativo e legislativo condotte da governi nazionali e organismi sovranazionali. Gli aspetti ambientali costituiscono una potenziale minaccia rispetto ai prodotti e servizi realizzati dalle aziende e alle modalità di distribuzione degli stessi. D’altro canto, possono anche generare notevoli opportunità in termini di differenziazione, di sfruttamento di nuovi mercati e di modalità di comunicazione. L’ambiente tecnologico: le direzioni e la velocità di sviluppo delle tecnologie costituiscono un elemento fondamentale per comprendere le opportunità di mercato attuali e future. Le tecnologie non solo condizionano le modalità con cui vengono realizzati i prodotti e i relativi livelli di efficienza ed efficacia (tecnologie di processo), ma sono anche una componente fondamentale dei prodotti e sempre più frequentemente anche dei servizi, condizionano i canali di vendita e distribuzione e creano opportunità sempre nuove di comunicazione e promozione dei prodotti. L’enorme sviluppo dell’Internet marketing di questi ultimi anni (si vedano i capitoli 11 e 13) è solo uno dei possibili esempi. L’analisi di marketing non può dunque prescindere dal considerare le opportunità (ma anche le minacce) che derivano dal tasso di innovazione tecnologica e dai megatrend di sviluppo delle tecnologie (si veda anche Boaretto, Noci e Pini, 2007). L’ambiente politico e istituzionale: l’influenza sul marketing dell’ambiente politico e istituzionale si sostanzia in leggi, organi di governo e gruppi di pressione che limitano o vincolano i comportamenti delle imprese rispetto alle modalità di concorrenza, alla relazione con i consumatori e con la società in genere. Uno tra i tanti esempi possibili di vincoli imposti dalle leggi, già visto nel capitolo 11 (paragrafo 11.3.2), riguarda la normativa sulla privacy introdotta negli anni passati in Italia. Le possibilità di utilizzare le tradizionali tecniche di direct marketing (ovvero la comunicazione diretta dei prodotti o delle promozioni al cliente tramite posta, telefono o e-mail) sono oggi fortemente limitate rispetto al passato.

12. L’analisi di mercato ) 385

12.3

L’analisi dell’ambiente di mercato: la concorrenza e i clienti

12.3.1

La concorrenza

Riconoscere i concorrenti

Intensità della competizione

Analizzare l’ambiente di mercato (microambiente) significa valutare i comportamenti e le scelte dei diversi attori che possono condizionare l’attrattività del mercato. Il modello delle cinque forze competitive di Porter (1980) si basa sull’assunto di fondo che l’attrattività di un mercato dipenda dal livello di competizione presente: più intensa è la competizione minore è l’attrattività, poiché minori saranno i margini che si possono spuntare. Le variabili che possono determinare il livello di competizione sono: i comportamenti dei concorrenti attuali, la minaccia di prodotti sostitutivi, la minaccia di potenziali entranti, il potere contrattuale dei fornitori e quello dei clienti. Ci soffermiamo un istante sui primi tre elementi, cioè gli attori che maggiormente possono determinare con i loro comportamenti un livello concorrenziale elevato. L’analisi del mercato non può prescindere dal riconoscimento di quali sono i concorrenti e quali sono i loro comportamenti. L’identificazione dei concorrenti non è sempre facile, poiché i mercati sono definiti in modo non sempre netto e distinguibile. Se infatti è evidente che il principale concorrente di Coca Cola è Pepsi Cola, per una piccola officina meccanica che opera in un distretto industriale è sicuramente molto più difficile definire in modo preciso chi sono i suoi diretti concorrenti potenziali. L’analisi della concorrenza è rivolta a osservare il livello di rivalità interna al settore. Alcuni parametri rilevanti per determinare l’intensità della concorrenza sono: il livello di concentrazione del settore, la presenza di barriere all’ingresso o all’uscita, il tasso di crescita, la presenza o meno di fattori di differenziazione, l’utilizzo di manovre o battaglie sui prezzi. La concorrenza deve anche essere analizzata per comprendere le strategie e le scelte di posizionamento nel mercato dei diversi attori, al fine di poter progettare la strategia di marketing e il posizionamento che l’impresa dovrà assumere. Il problema nell’individuazione dei competitor è soprattutto legato al riconoscimento di quelle aziende che non offrono lo stesso prodotto, ma beni e servizi che sono in qualche misura sostitutivi in quanto soddisfano lo stesso tipo di bisogno. Ad esempio, i tablet (come l’iPad) sono sempre più considerati prodotti sostitutivi dei computer portatili. Infine, l’analisi della concorrenza deve prendere in considerazione anche gli attori che potrebbero avere interesse a entrare nel mercato, anche se attualmente non ancora presenti. Molte aziende cosiddette brick and mortar (aziende tradizionali già operanti prima dell’avvento di Internet) hanno subito attacchi da parte di concorrenti neonati che offrivano gli stessi prodotti e servizi tramite il canale Internet: ad esempio, Barnes & Nobles, catena leader di librerie americane, è stata completamente spiazzata dall’ingresso di Amazon (si veda il Caso 6.5).

386 ) PARTE III – MARKETING

12.3.2

Quattro mercati

Comportamento di acquisto

12.3.3

Mercati di massa e frammentati

L’analisi del mercato Il mercato è costituito dall’insieme dei clienti attuali o potenziali di un determinato prodotto o servizio. Le caratteristiche del mercato differiscono molto a seconda del tipo di clienti che lo compongono. Le principali categorie di mercati sono quattro: il mercato dei consumatori, quello delle imprese, quello degli intermediari (rivenditori) e quello delle pubbliche amministrazioni. Ciascuno di questi mercati presenta caratteristiche proprie con implicazioni differenti per le attività di marketing. In generale le tecniche e gli approcci per i mercati dei consumatori vengono identificati con il termine di marketing B2C (business-to-consumer), per significare la relazione tra l’impresa fornitrice di beni e servizi (business) e il consumatore (consumer). Viceversa, le tecniche e gli approcci adatti per gli altri tipi di mercati, e in particolare per quello industriale e quello dei rivenditori, vengono identificati con il termine di marketing B2B (business-tobusiness), ovvero da impresa a impresa. Indipendentemente dal mercato a cui si rivolge, l’impresa, per individuare e quindi soddisfare i bisogni dei proprio clienti, deve anzitutto studiarne i comportamenti e comprendere quali fattori possano influenzarli o determinarli. Il comportamento di un cliente è caratterizzato dal tipo di bene o servizio acquistato, dalle motivazioni che spingono il cliente ad acquistare, dalle attività e procedure seguite nell’acquisto, dai tempi e dalle circostanze in cui il cliente acquista e utilizza il prodotto. Nei prossimi paragrafi verranno analizzate le caratteristiche delle principali tipologie di mercato a cui si rivolgono le imprese.

Il mercato dei consumatori finali Il mercato dei consumatori finali è costituito dagli individui, dalle famiglie o dai gruppi di consumatori che acquistano beni o servizi per proprio uso o beneficio personale. I produttori di alimentari, abbigliamento, elettrodomestici, servizi bancari, assicurazioni o viaggi organizzati sono solo alcuni esempi di imprese che si rivolgono al mercato dei consumatori finali. L’ampiezza e varietà di questo mercato suggerisce che occorre un’analisi più approfondita delle tipologie di prodotti e servizi offerti, che spesso si distinguono per durabilità, tangibilità, modalità e frequenza di acquisto. In particolare, i servizi si caratterizzano rispetto ai prodotti per la loro intangibilità, deperibilità ed eterogeneità (il tema verrà ripreso e approfondito nel capitolo 13). Prima di analizzare in dettaglio le motivazioni e i processi di acquisto del mercato dei consumatori, delineiamo qui alcune caratteristiche rilevanti. Anzitutto, si tratta spesso di mercati molto frammentati, composti cioè da migliaia, e talvolta da milioni, di clienti potenziali. È tipicamente nei mercati di consumo che si ritrovano spesso le condizioni dei mass market. Una prima immediata conseguenza è

12. L’analisi di mercato ) 387

Potere dei consumatori

Ruolo dei marchi

Reti distributive

Stimoli esterni

che frequentemente il singolo cliente è poco importante e spesso anche poco visibile per l’impresa, e che il potere contrattuale è sbilanciato a favore di quest’ultima. Tuttavia la crescente saturazione dei mercati di consumo ha dato ai clienti più forza. Le associazioni dei consumatori sono cresciute e sono divenute agguerrite. La diffusione della valutazione dei prodotti e servizi da parte dei clienti attraverso strumenti quali i blog, i forum, i portali di rating (ad esempio Tripadvisor nel mondo dei viaggi e del turismo) influenza profondamente il comportamneto dei consumatori (si veda il box a p. 395). Il sistema dei media e della comunicazione è diventato più recettivo nei confronti della voce del consumatore. In alcuni paesi, ad esempio negli USA, anche gli aspetti giuridici e la possibilità di class action (dal 2008 introdotta anche in Italia) – ovvero di azioni legali collettive dei consumatori contro le imprese – hanno rinforzato il potere della domanda. Di fronte a queste tendenze le imprese che operano nei mercati di consumo si fanno più attente, cercano di gestire la soddisfazione (o l’insoddisfazione) di ogni singolo cliente, sviluppano pratiche gestionali, sistemi e tecnologie di gestione della relazione (CRM, Customer Relationship Management). Una seconda conseguenza dei mercati di massa è la crescente importanza dei brand. Più che negli altri mercati, in quello di consumo la costruzione e il mantenimento di marchi forti è essenziale per il successo competitivo. Infine, una fondamentale caratteristica dei mercati di consumo è la presenza di intermediari commerciali che si interpongono fra produttori e consumatori. I beni di largo consumo e quelli di consumo durevole sono in massima parte venduti al pubblico attraverso le reti commerciali e distributive al dettaglio (grande distribuzione, dettaglio indipendente ecc.). Entreremo nello specifico su questo punto più oltre, a proposito del mercato dei rivenditori. Le motivazioni di acquisto Quali fattori motivano il consumatore all’acquisto di prodotti e servizi? Come sono determinate le priorità tra gli obiettivi di acquisto? Nella teoria microeconomica classica il comportamento del consumatore è semplice: la domanda del mercato cresce al diminuire dei prezzi medi del settore. La sensibilità della domanda al prezzo (elasticità della domanda, si veda anche il capitolo 13) varia da settore a settore e in alcuni casi può addirittura essere negativa (per alcuni beni di lusso, ad esempio, al crescere del prezzo del bene aumenta anche la domanda). Secondo questo modello dunque il principale driver degli acquisti del consumatore è il livello dei prezzi dei prodotti offerti. Tale rappresentazione, anche se coglie l’essenza di alcuni mercati, è tuttavia limitata e non descrive appieno la varietà dei comportamenti che caratterizzano i diversi mercati e la complessità delle motivazioni che spingono i clienti ad acquistare. Infatti i bisogni e le motivazioni che inducono i consumatori all’acquisto non sono sempre di carattere funzionale: abbiamo già sottolineato come i bisogni psicologicoemotivi giochino talvolta un ruolo fondamentale. Di conseguenza le

388 ) PARTE III – MARKETING

Figura 12.2 IL MODELLO STIMOLO-RISPOSTA Stimoli esterni

Consumatore

Azioni di marketing Fattori ambientali

Caratteristiche personali Processo di acquisto

Risposte Prodotto e marca Canale Quantità

Fonte: adattato da Kotler (2003).

Risposte variegate

motivazioni non sempre sono razionali e meditate; l’effetto moda, l’acquisto d’impulso e i condizionamenti della comunicazione possono giocare un ruolo rilevante. Un modello che tiene conto di questa maggiore complessità è quello dello stimolo-risposta (Figura 12.2). Secondo questo modello il consumatore, nelle sue scelte e decisioni di acquisto, è influenzato da un insieme di stimoli esterni, che possono essere di natura ambientale (tipicamente fattori culturali, economici, politici o tecnologici) o legati alle azioni di marketing delle imprese. Tuttavia, la risposta a questi stimoli è diversa da consumatore a consumatore. I fattori rilevanti per spiegare come ciascun consumatore risponde agli stimoli sono le sue caratteristiche personali e il processo decisionale di acquisto. Ad esempio un cantante o un atleta che indossa un capo di abbigliamento può essere un forte stimolo all’acquisto per i suoi fan, ma allo stesso tempo non ha alcun effetto o addirittura costituisce un disincentivo per altre persone. In modo simile l’esposizione di un articolo nella vetrina di un negozio costituisce uno stimolo efficace per alcuni, mentre non ha lo stesso effetto su chi è più incline a decisioni meditate “a tavolino”. Uno dei fattori principali che determinano i bisogni percepiti dai consumatori è la cultura. La cultura di una persona fa riferimento all’insieme di conoscenze, valori, modalità percettive e preferenze che la caratterizzano. Anche la classe sociale di appartenenza e le caratteristiche della famiglia e dei gruppi di riferimento (amici, colleghi, associazioni sportive ecc.) del consumatore giocano un ruolo rilevante nell’indirizzarne i comportamenti, modificandone bisogni, priorità e criteri di scelta. Vi è poi un insieme di caratteristiche personali che può notevolmente influenzare i modelli di comportamento: l’età del consumatore, il posizionamento nel ciclo di vita della famiglia (single, coppia giovane, coppia con figli piccoli, coppia con figli grandi ecc.), l’occupazione, la situazione economica e lo stile di vita. Spesso le caratteristiche sopra citate vengono analizzate congiuntamente per individuare tipologie di consumatori caratterizzati da comportamenti di acquisto simili. Il Caso 12.2 riporta, ad esempio, la classificazione degli “Stili di vita”, proposta da Eurisko per descrivere il comportamento dei consumatori finali italiani sulla base di 47 variabili caratterizzanti il comportamento sociale e di consumo.

12. L’analisi di mercato ) 389

CASO

12.2

Gli Stili di vita di Sinottica, Eurisko Eurisko è uno dei più importanti istituti italiani di ricerca sociale. Fondato nel 1972, è entrato a far parte, dal dicembre 2003, del network internazionale GfK NOP. Eurisko realizza ricerche sia multiclient, su argomenti di rilevanza comune a uno o più settori, sia ad hoc per singoli clienti. Nel primo gruppo rientra Sinottica, un sistema integrato di informazioni sull’evoluzione socioculturale e sul comportamento degli italiani, basato su ricerche psicografiche condotte annualmente a partire dal 1975. Uno dei prodotti più conosciuti di Sinottica sono gli Stili di vita, ovvero una classificazione della popolazione italiana adulta in base ai comportamenti sociali e di consumo. Ciascuno Stile di vita è caratterizzato in base ai caratteri sociodemografici, i valori individuali e sociali, le attività sociali, il tempo libero e gli interessi culturali, l’utenza dei mezzi di comunicazione, il modello di consumo, la dinamica verso altri segmenti. La segmentazione è emersa dall’analisi dei comportamenti di un campione della popolazione in base a 47 variabili. Ogni anno Eurisko fornisce dati aggiornati sulla distribuzione della popolazione italiana nei diversi segmenti. La Tabella 12.1 illustra gli stili di vita secondo Eurisko.

Tabella 12.1 IL PROFILO DEGLI STILI DI VITA DI SINOTTICA Protagonisti Élite ristretta, medio-giovane e adulta. Segmento misto per genere, socialmente protagonista, dal punto di vista sia professionale sia culturale. Cultura, professione, ma anche divertimento e piacere sono gli asset che tengono in equilibrio. Élite Femminile Gruppo femminile centrale, di eccellente profilo, che tende all’assunzione di un doppio ruolo (casa/fuori casa) con, però, maggior propensione a privilegiare la realizzazione personale. Élite Maschile Gruppo maschile, giovane e adulto, di alto profilo. È attivo e fortemente impegnato: molto nella realizzazione professionale, ma anche nella crescita culturale e nella partecipazione sociale. Pre-Élite Progettuale Zona periferica dell’élite. Il target è prevalentemente maschile, giovane o giovanile, di buon profilo. Le ambizioni, le risorse, le aspirazioni, gli stili e le scelte sono “tarate” sull’élite, pur non appartenendovi appieno (alcuni vi accederanno, altri rimarranno in “periferia”). Ragazzi Evolutivi Gruppo giovane o giovanile nei comportamenti, misto per genere. Medio livello sociale, profilo ancora poco netto, in evoluzione. Hanno alcuni valori/aspirazioni forti di impegno e partecipazione che però mantengo-

no in equilibrio con un certo disimpegno sul piano pratico. Donne Doppio Ruolo Gruppo femminile, medio-giovane, di buon profilo. Presenta chiaramente due logiche/aspirazioni di investimento, idealmente paritetiche come importanza: famiglia e lavoro. Frizzanti Gruppo femminile moderno, giovanile, esplorativo e dall’orientamento decisamente outdoor. Tende a un livello di vita evoluto, in cui il piacere e il divertimento si fondono spesso con un buon livello di consumi culturali. Buon livello socioeconomico e di istruzione. Solide Gruppo femminile che rappresenta appieno una sana e forte medietà sociale. È un gruppo molto attivo e indaffarato, tiene in particolar modo alla famiglia, che è la principale ragione di vita e di cui si cura da tutti i punti di vista. Anche se spesso le Solide lavorano, l’impegno lavorativo è strumentale all’obiettivo famiglia; in questo rappresentano in un certo senso l’evoluzione moderna delle casalinghe. Resistenti Gruppo femminile adulto centrale, con scarse risorse complessive e ruoli sociali tradizionali. Sperimentano una certa difficoltà nella gestione quotidiana della vita e della famiglia. Quest’ultima, abbastanza grande e impegnativa, è però il centro del loro interesse, a cui si dedicano al 100% e da cui traggono forza e motivazione per andare avanti.

390 ) PARTE III – MARKETING Sognanti Gruppo femminile giovane, di medio-basso/ basso profilo. Piuttosto disimpegnate, sognano o aspirano a cose semplici o “classiche”: il romanticismo, il “divo”, il divertimento, la bellezza..., ma poi vogliono una famiglia e una sicurezza di base. Signore Aperte Gruppo femminile di età matura, con buona dotazione reddituale (più che culturale). La maggior parte vive da sola o in coppie senza figli conviventi. Manifestano tratti di curiosità e di apertura alle opportunità sul piano culturale. Il tutto però con una certa sobrietà ed equilibrio, sia nella vita sia nel consumo. Pacate Gruppo femminile anziano, di medio-basso livello. L’orientamento generale è ispirato da grande moderazione, pacatezza e regolarità di vita. I riferimenti sono gli ambiti della realtà domestica e della spiritualità, dove riescono a ottenere le loro soddisfazioni e il loro senso. Insoddisfatte Gruppo femminile caratterizzato da una situazione di disagio e di difficoltà. Si tratta di donne tardo-adulte, di medio/basso livello, spesso con famiglie; la maggior parte non lavora. Signore Equilibrato Gruppo maschile, tardo-adulto o anziano, di medio/buon profilo. È a suo modo moderno, mentalmente vivace, aperto alle novità e ge-

neralmente soddisfatto della vita che conduce. Il tutto con grande dignità ed equilibrio, dosando curiosità, relax e un sano godere della casa e del tempo libero. Anziano da Osteria Gruppo maschile, tardo-adulto o anziano, di basso profilo. Gli interessi e le attività sociali e culturali sono quasi nulli, l’interesse per il mondo che si muove ed evolve è scarso e l’orientamento è decisamente ripiegato sui propri, pochi, interessi: amici, famiglia, bar... Maschio Pre-Culturale Gruppo maschile di medio-basso/basso profilo socioculturale. È l’archetipo maschile classico, per cultura, ruoli e comportamenti, senza slanci evoluti ma con pochi, semplici asset: qui conta il posto fisso, la sicurezza di base... e lo sport. Lavoro e Svago Gruppo prevalentemente maschile, di mediobasso/basso profilo sociale. Qui è fortemente presente la cultura del fare ma non quella del pensare in modo evoluto. Il gruppo non presenta ambizioni forti e cultura, per cui non ha grande successo sul piano dell’avere. Agisce nella vita in modo “basico”, con un “onesto” livello di partecipazione e obiettivi semplici. Lavoratore d’Assalto Target maschile di buon profilo, più sul piano del reddito e dello status che su quello culturale. La frase “tutto per il successo” (misurato soprattutto con il denaro) li descrive bene.

Fonte: www.eurisko.it.

Percezione, selezione e apprendimento

Un ultimo elemento utile per spiegare il comportamento del consumatore è costituito dai fattori psicologici, ovvero la motivazione, la percezione, l’apprendimento e l’insieme di opinioni e atteggiamenti. La teoria della motivazione spiega come gli individui reagiscano alla presenza del bisogno cercando di soddisfarlo nel momento in cui la sua intensità diventa elevata. L’analisi dei fattori motivazionali è dunque fondamentale per comprendere i comportamenti di acquisto degli individui. Le teorie di Maslow (1954) e Herzberg (1966), già illustrate nel capitolo 3, possono aiutare a individuare i fattori motivazionali più importanti per ciascuna categoria di consumatori. In particolare i fattori igienici (Herzberg, 1966) non spingono i consumatori all’acquisto ma possono ridurre la fedeltà del cliente nel momento in cui dovessero venire meno. Anche la percezione che l’individuo ha di un determinato prodotto o di una determinata modalità di offerta o promozione può influenzare il suo comportamento. La percezione consiste nel processo di selezione, organizzazione e interpretazione degli stimoli e delle informazio-

12. L’analisi di mercato ) 391

ni da parte di un individuo. Un aspetto molto importante di questo fenomeno è l’attenzione selettiva, che porta gli individui a selezionare solo una parte limitata degli innumerevoli stimoli a cui sono sottoposti. Questo vale in particolar modo per le offerte commerciali e le promozioni, che oggi bersagliano in grande quantità e in modo continuo il consumatore. Capire quali meccanismi influenzano l’attenzione selettiva permette dunque di individuare le modalità più efficaci per far giungere le informazioni desiderate ai clienti. I comportamenti degli individui sono poi influenzati dall’apprendimento sulla base dei risultati ottenuti a seguito di comportamenti passati. L’esperienza che l’individuo fa direttamente di un prodotto o servizio ne determinerà in buona misura il comportamento di acquisto futuro. L’esperienza fatta su un prodotto può poi essere trasferita per associazione ad altri prodotti, generando opinioni e atteggiamenti nei confronti di prodotti nuovi. È questo il fenomeno che tipicamente viene sfruttato dalle aziende nel momento in cui sviluppano un brand. Ad esempio, un consumatore che ha avuto esperienza di un telefono cellulare Nokia rimanendone soddisfatto per l’affidabilità e la semplicità d’uso, assocerà al marchio queste stesse impressioni positive e trasferirà la stessa valutazione su un nuovo modello di telefono della casa, pur non avendone avuto esperienza diretta.

Ruoli molteplici

Il processo di acquisto Il processo di acquisto di un bene o di un servizio è a tutti gli effetti un processo decisionale (si vedano i capitoli 7 e 8), nel quale la decisione riguarda se acquistare o meno un determinato prodotto, o quale prodotto acquistare tra diversi disponibili. Questo processo è caratterizzato anzitutto da una pluralità di attori che interagiscono nel determinare la scelta. Generalmente si distinguono i ruoli dell’iniziatore (chi per primo pensa o suggerisce l’acquisto), dell’influenzatore (chi porta consigli e informazioni rilevanti per la scelta), del decisore, dell’acquirente (colui che esegue materialmente la transazione) e dell’utilizzatore. Sebbene nel mercato dei consumatori finali questi diversi ruoli vengano spesso ricoperti dalla stessa persona, in realtà, soprattutto quando gli acquisti riguardano la famiglia o un gruppo, è importante capire chi ricopre quale ruolo, in modo da indirizzare correttamente i messaggi e la comunicazione. Esempi tipici di questo fenomeno sono i giocattoli: in questo caso i bambini sono spesso iniziatori, influenzatori e utilizzatori, mentre i genitori sono decisori e acquirenti. Il fatto che le pubblicità di questi prodotti vengano fatte prevalentemente all’interno di trasmissioni per bambini suggerisce chiaramente quale dei due attori sia più importante convincere. Un altro esempio sono le automobili: storicamente sono state considerate un prodotto maschile e il marketing si è sempre rivolto agli uomini. Quando le case automobilistiche hanno incominciato a prendere in considerazione il fatto che un numero crescente di donne guidano quanto gli uomini e hanno una forte influenza sulle scelte di acquisto di mariti o compagni, le strategie di marketing sono

392 ) PARTE III – MARKETING

Figura 12.3 IL PROCESSO DI ACQUISTO PER IL CONSUMATORE FINALE Percezione del bisogno

Ricerche attive e passive

Ricerca di informazioni

Valutazione alternative

Decisione di acquisto

Comportamento post-acquisto

cambiate significativamente, fino a concepire auto prevalentemente orientate al mercato femminile, come ad esempio la Lancia Ypsilon. Un secondo elemento del processo di acquisto che occorre valutare è la sequenza di fasi che lo caratterizzano. La Figura 12.3 propone una possibile schematizzazione. L’acquisto prende avvio con la percezione di un bisogno, un problema o un desiderio. L’emergere del bisogno è fortemente influenzato da un lato dai fattori del macroambiente che circonda il consumatore, oltre che dagli stimoli interni che lo caratterizzano (come discusso nel paragrafo precedente). Consideriamo l’acquisto di un’automobile: in molti casi nasce dalla percezione di un bisogno legato alla sostituzione di un’auto già posseduta ma obsoleta o non più funzionante, o dalla necessità di una nuova auto per un altro membro della famiglia (ad esempio un figlio diventato maggiorenne). La seconda fase del processo di acquisto consiste nella ricerca, attiva o passiva, delle informazioni. La ricerca passiva riguarda generalmente i momenti iniziali in cui si forma la consapevolezza della volontà da parte del consumatore di rispondere al bisogno percepito. In altri casi la ricerca passiva riguarda prodotti caratterizzati da un basso coinvolgimento del consumatore, rispetto ai quali egli non ha interesse a raccogliere spontaneamente informazioni. La ricerca passiva consiste nell’intensificazione dell’attenzione nei confronti dei messaggi e delle comunicazioni che riguardano il prodotto. La ricerca attiva riguarda informazioni oggettive, giudizi, consigli e opinioni sui diversi prodotti che possono soddisfare il bisogno percepito. Le fonti di informazione sono dunque molto diverse, e vanno dalle strutture commerciali che vendono i prodotti, alle fonti di informazione pubblica, fino a fonti personali, legate a parenti, amici, conoscenti, o all’osservazione diretta o prova dei prodotti. Ritornando al nostro esempio dell’auto, la ricerca passiva può consistere in una maggiore sensibilità alle pubblicità delle case automobilistiche e in una maggiore attenzione ai veicoli che si osservano per strada. La ricerca attiva invece può essere fatta raccogliendo le informazioni tecniche sui prodotti dai concessionari o sulle riviste o i siti specialistici di settore, richiedendo opinioni e giudizi ad amici o conoscenti che possiedono le auto di nostro interesse, provando direttamente quella di un amico o presso un concessionario. Internet è oggi diventata una fonte importantissima per la raccolta attiva delle informazioni, sia direttamente attraverso il sito del produttore, sia attraverso gli innumerevoli siti dedicati alla raccolta di opinioni dei consumatori o al confronto di prodotti di aziende diverse, chat o forum dove i consumatori discutono le proprie opinioni su prodotti o servizi. Altroconsumo, un’associazione orientata all’informazione e

12. L’analisi di mercato ) 393

alla tutela dei consumatori, mette a disposizione un portale che raccoglie giudizi, informazioni e valutazioni di prodotti alternativi (www.altroconsumo.it). La valutazione delle alternative consiste nel processo più o meno razionale ed esplicito che consente di confrontare i benefici attesi dai prodotti tra i quali l’acquirente dovrà scegliere. Nella valutazione delle alternative è innanzitutto rilevante comprendere quali siano i criteri utilizzati per il confronto. Nella scelta di un’auto, ad esempio, i criteri potrebbero essere l’affidabilità, le prestazioni di guida, la comodità, l’estetica, il prezzo. D’altro canto è anche importante comprendere come si formino i giudizi su ciascun criterio da parte del consumatore, ovvero che ruolo giocano le informazioni raccolte rispetto al processo cognitivo che porta alla formazione di opinioni su una determinata marca di prodotto. Raramente queste valutazioni vengono rese oggettive e sintetizzate attraverso, ad esempio, metodi a punteggio o tecniche simili (si veda il capitolo 8, paragrafo 8.3.2). Più comunemente, l’insieme dei giudizi determina le preferenze soggettive del consumatore nei confronti delle diverse alternative disponibili. La decisione di acquisto non discende automaticamente dalla valutazione delle alternative. Possono infatti intervenire fattori esterni, quali l’opinione sfavorevole di influenzatori vicini al consumatore o situazioni non previste che possono portare all’annullamento o alla posticipazione nel tempo dell’acquisto. La decisione di acquisto riguarda non solo il prodotto da acquistare, ma anche la marca, il punto o canale di vendita, la quantità, il momento dell’acquisto, la modalità di pagamento. Nella scelta dell’auto il consumatore non si limiterà alla marca e al modello, dovrà poi scegliere il concessionario da cui acquistarla e la forma di pagamento (ad esempio in contanti o attraverso qualche soluzione di finanziamento). Soddisfazione e insoddisfazione

Il comportamento post-acquisto è conseguente al livello di soddisfazione del consumatore rispetto al prodotto o al servizio acquistato. I comportamenti che ne derivano possono limitarsi alla maggiore o minore propensione al riacquisto o al consiglio di acquisto ad altri potenziali acquirenti. Nei casi di potente insoddisfazione i comportamenti possono essere più attivi, con azioni dirette, anche di natura legale, contro il fornitore per ottenere soddisfazione o risarcimento, o ancora per rendere pubblico il suo comportamento. Diverse trasmissioni televisive di successo, oltre che molte rubriche di giornali, sono incentrate attorno all’idea di dare pubblicità e risalto all’insoddisfazione dei consumatori nei confronti delle aziende. Come già ricordato nel capitolo 7, i processi decisionali sono spesso caratterizzati da razionalità limitata e non seguono necessariamente tutte le fasi che idealmente sono necessarie per prendere una decisione. Così pure nei processi di acquisto e in particolare in quelli dei

394 ) PARTE III – MARKETING

Consumatori evoluti

consumatori. Il processo di acquisto che abbiamo usato come esempio riguarda un bene di valore medio-alto (l’automobile), caratterizzato da differenze significative tra le diverse marche e i differenti modelli, con la presenza di criteri relativamente oggettivi che possono essere utilizzati per selezionare il prodotto migliore rispetto agli obiettivi del consumatore. Assael (1987) ha definito questa situazione comportamento di acquisto complesso, caratterizzato dall’elevato coinvolgimento e dalla consapevolezza delle caratteristiche dei prodotti da parte dell’acquirente. Questo non significa che le motivazioni e i bisogni siano esclusivamente di carattere funzionale. L’acquisto dell’auto è un esempio in cui status, moda o puro piacere estetico sono spesso motivazioni potenti. È tuttavia innegabile che l’acquisto dei beni durevoli mostra talvolta forti analogie con l’acquisto di beni industriali, in cui la razionalità del processo, pur limitata, è comunque più evidente. I consumatori “evoluti” e consapevoli, esperti del prodotto che stanno acquistando, mostreranno di conseguenza comportamenti meno impulsivi e saranno meno influenzabili rispetto al generico consumatore finale. È questo il caso, ad esempio, di una buona parte del mercato dei personal computer. Diverso sarà invece il comportamento per beni ad acquisto ripetuto e frequente, per prodotti di basso valore o che rivestono una scarsa importanza rispetto ai bisogni del consumatore. In questi casi – definiti da Assael (1987) comportamento di acquisto abituale – le fasi di ricerca delle informazioni e di valutazione delle alternative giocano un peso limitato se non irrilevante, e la decisione di acquisto è fortemente influenzata dall’opinione formata a seguito del consumo del prodotto, dalla disponibilità immediata o dalla presenza di promozioni, sconti o comunicazione efficace. È infine importante sottolineare come l’avvento e la sempre più ampia diffusione di Internet e dei social media abbia modificato significativamente i processi di acquisto dei consumatori finali, non solo per quanto riguarda gli acquisti effettuati online (e-commerce), ma anche per gli acquisti effettuati nei canali tradizionali della distribuzione. In questo ultimo caso, infatti, alcune – o la gran parte – delle fasi del processo d’acquisto possono comunque essere svolte almeno in parte online. Una recente ricerca condotta dal Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano (Noci e Lamberti, 2012) ha messo in luce il ruolo dei social media nei processi di acquisto. I principali risultati sono riportati nel box alla pagina seguente. Le differenze nei comportamenti di acquisto tra i consumatori sono dunque rilevanti per comprendere il marketing mix più opportuno per i propri prodotti (le differenze verranno riprese e dettagliate nel capitolo 13). Le aziende possono analizzare i processi di acquisto della propria clientela target anzitutto osservando il comportamento dei consumatori durante e dopo l’acquisto. Risulta invece più difficile osservare il consumatore nelle fasi che precedono l’acquisto. Come si vedrà nel seguito, la definizione della strategia di posizionamento e di marketing dei prodotti di Factor’NDI ha richiesto di analizzare i

12. L’analisi di mercato ) 395

L’influenza di Internet sui processi di acquisto L’indagine del Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano, condotta in collaborazione con Mimesi – società del gruppo Reed Business Information – nei primi mesi del 2012, ha avuto l’obiettivo di analizzare il ruolo dei diversi canali informativi nei processi decisionali di acquisto dei consumatori italiani. Sono stati intervistati circa 1.200 individui, rappresentativi della popolazione di Italiani che usa abitualmente Internet, ovvero circa 35 milioni di persone. Oltre il 70% di questa popolazione ha dichiarato di dedicare una forte attenzione alla raccolta di informazioni riguardo ai prodotti che intende acquistare, inclusi i giudizi di altri clienti che già hanno utilizzato il prodotto. Una percentuale inferiore, comunque piuttosto elevata (intorno al 60%) ha anche evidenziato l’abitudine di comunicare esperienze sia positive che – in misura minore – negative rispetto all’utilizzo di un prodotto ad altri potenziali clienti. L’indagine poi si è focalizzata su alcune categorie specifiche di prodotto, e in particolare i prodotti alimentari per bambini, gli alimenti salutistici, i servizi bancari e gli apparati mobile. Per queste categorie di prodotto è stato indagato l’uso di diversi canali media per la ricerca di diverse tipologie di informazione. I risultati possono essere così sintetizzati: • l’utilizzo dei diversi canali media è molto variabile in funzione della tipologia di prodotto, con valori maggiori di utilizzo di nuovi media (blog, forum, communities, social media) per prodotti alimentari per bambini e, in misura minore, per apparati mobile. Il peso dei media tradizionali (stampa, affissione, televisione e radio) è comunque ancora piuttosto significativo, con un po’ meno del 30% dei rispondenti che li utilizzano comunemente per ricercare ulteriori informazioni o per conoscere un nuovo prodotto. I diversi media non devono dunque essere considerati alternativi, ma piuttosto complementari; • i nuovi media hanno un ruolo più importante nella ricerca di ulteriori informazioni rispetto al ruolo che hanno nel portare a conoscenza del cliente nuovi prodotti; • tra il 15 e il 20% delle persone (in base alla tipologia di prodotto) hanno cambiato idea su un prodotto da acquistare sulla base delle informazioni raccolte sui nuovi media, rispetto a valori tra il 10 e il 15% nel caso di informazioni provenienti da canali tradizionali; • la fiducia rispetto alle informazioni riportate dai diversi media è maggiore per blog, communities e forum, o per i siti aziendali, rispetto ai social media, ma anche ai media tradizionali. In Tabella 12.2 sono sintetizzati i principali risultati della ricerca.

Tabella 12.2 L’INFLUENZA DI INTERNET SUI PROCESSI DI ACQUISTO

8

Milioni di italiani che modificano le proprie decisioni di acquisto sulla base delle informazioni reperite sui social media

15 12 10 11

Milioni di italiani che si fidano di quanto trovano su blog e forum rispetto a prodotti e servizi

6

Milioni di italiani che scoprono spesso l’esistenza di nuovi prodotti tramite i social network

Milioni di italiani che si fidano dei social network nei processi di acquisto Milioni di italiani che danno seguito online alle pubblicità sui media di massa Milioni di italiani che scoprono spesso l’esistenza di nuovi prodotti o nuove offerte grazie alla rete

396 ) PARTE III – MARKETING

comportamenti di diverse tipologie di clienti rispetto alle motivazioni di acquisto, alle funzioni del prodotto richieste, ai canali utilizzati, ai criteri di scelta adottati (Caso 12.1b).

12.3.4

Meno clienti

Grandi e piccoli clienti

Concentrazione geografica

Il mercato industriale Nel mercato industriale le imprese vendono i propri beni e servizi ad altre imprese che li utilizzano a loro volta per produrre altri beni e servizi. Sotto il profilo descrittivo, nei mercati industriali vengono scambiati cinque tipi di oggetti: materie prime, componenti, servizi, beni di investimento e prodotti finiti. Il mercato industriale presenta caratteri molto diversi da quello dei consumatori. I primi macroscopici elementi di diversità riguardano il numero di clienti e la loro dimensione. Le imprese di un settore che acquistano un bene o un servizio da un’altra azienda sono in genere un numero limitato e si distinguono tra loro per dimensione. Mentre i clienti di pasta alimentare in Italia sono milioni di famiglie, ciascuna delle quali acquista una quantità infinitesima e indistinta di prodotto rispetto alla domanda aggregata, i clienti di fibre tessili sono solo qualche migliaio di aziende di tessitura e confezione. Tra queste ve ne sono di maggiori e di minori, e la domanda individuale di ciascuna di esse può essere molto diversa. Pertanto nel mercato industriale è sempre necessario distinguere i clienti grandi da quelli piccoli in base ai loro fabbisogni quantitativi. Prendiamo un caso illuminante perché consente un confronto diretto: il settore degli pneumatici. I produttori di pneumatici hanno a che fare con due mercati nei quali vendono sostanzialmente gli stessi prodotti: il cosiddetto “primo equipaggiamento” – che è un mercato industriale costituito dai produttori di automobili, di motocicli e di veicoli industriali – e il “ricambio” – che è un mercato di consumo intermediato dai rivenditori (gommisti, garage, officine). Nel primo equipaggiamento i clienti in Europa sono qualche decina, nel ricambio gli automobilisti sono milioni e, anche volendo considerare come clienti diretti i rivenditori, si tratta di decine di migliaia di officine. Il mercato industriale presenta talvolta una forte concentrazione geografica. È il fenomeno dei distretti industriali: le imprese di un certo settore tendono talvolta a concentrarsi in un’area geografica circoscritta. Dalla Silicon Valley, dove storicamente si è concentrata una buona parte dell’industria dei semiconduttori, al distretto ceramico di Sassuolo in Emilia che nei periodi migliori è arrivato a produrre il 40% del fabbisogno mondiale. I mercati industriali spesso esprimono una domanda anelastica al prezzo (capitolo 13, paragrafo 13.3.1). Nel breve termine le imprese tendono ad assorbire gli aumenti di prezzo da parte dei fornitori ed eventualmente a trasferirli sui prodotti e servizi finali. Un esempio tipico è quello del petrolio e di altre materie prime come i metalli: il fabbisogno di greggio o di acciaio da parte delle imprese non cala all’aumentare del prezzo. Questo perché il fabbisogno delle imprese è

12. L’analisi di mercato ) 397

Tecniche di finanziamento

Domanda irregolare

una domanda derivata da quella dei mercati di consumo. Solo se la domanda finale cala per effetto di una sensibilità al prezzo dei consumatori, allora, con un certo ritardo, calerà anche il fabbisogno di beni e servizi intermedi. Occorre inoltre segnalare che le imprese, di fronte ad aumenti dei prezzi di acquisizione degli input, cercano e talvolta riescono a modificare il mix di fattori produttivi e a diminuire o anche ad azzerare determinati fabbisogni. A seguito del primo shock petrolifero degli anni Settanta molte imprese misero in atto programmi di risparmio energetico che nel medio termine fecero scendere il fabbisogno aggregato. Anche oggi l’elevato costo del petrolio è uno dei maggiori incentivi per mettere in atto programmi di riduzione dei consumi e risparmio energetico. All’aumentare dei costi dell’acciaio, alcuni produttori di elettrodomestici riprogettarono i loro prodotti realizzandone alcune parti con plastiche ad alta resistenza, meno costose. Nei mercati industriali il ruolo degli intermediari è più circoscritto. In alcuni casi esistono strutture di intermediazione, in altri il rapporto tra cliente e fornitore è diretto. Ad esempio, la vendita e la distribuzione di prodotti biomedicali e di attrezzature agli ospedali e agli studi medici raramente sono effettuate direttamente dai produttori, quanto piuttosto sono operate da distributori e rappresentanti. Viceversa, nel settore auto la fornitura di parti meccaniche, di pneumatici e di componenti elettrici ed elettronici non è normalmente intermediata e il fornitore di parti interagisce direttamente con il cliente. Un’altra peculiarità dei mercati industriali è il fatto che le transazioni sono spesso accompagnate da finanziamenti: dalle più semplici operazioni di garanzia da parte del sistema bancario a complicate tecniche di ingegneria finanziaria, dalle operazioni di copertura dei rischi finanziari alle tecniche di project financing. Nei settori maturi che producono beni destinati al consumo finale la domanda è normalmente abbastanza stabile. Viceversa nei settori industriali le fluttuazioni della domanda sono spesso molto più marcate, e la domanda nel complesso assume un andamento piuttosto irregolare. Si manifesta il fenomeno noto come effetto bullwhip (letteralmente “coda di toro”), che consiste in un’amplificazione della variabilità della domanda lungo la filiera a mano a mano che ci si allontana dal mercato finale e si risale la catena di fornitura. I mercati a monte presentano dunque una domanda molto più irregolare di quelli a valle. Nel capitolo 17 (paragrafo 17.3.1) si tornerà ampiamente su questo tema. In sintesi, possiamo osservare che il mercato industriale si differenzia da quello dei consumatori finali per una maggiore complessità, legata a diversi fattori, attinenti sia alle caratteristiche dei beni acquistati sia all’organizzazione e al processo di acquisto. A fronte di questa maggiore complessità, il mercato industriale è però caratterizzato da un maggiore livello di oggettività e razionalità negli obiettivi, nei processi e nei criteri di scelta. Queste caratteristiche ne semplificano in parte l’analisi.

398 ) PARTE III – MARKETING

Gli obiettivi di acquisto I fattori che determinano gli acquisti in un mercato industriale hanno natura diversa rispetto a quelli dominanti nel mercato del consumatore finale. Sebbene infatti le caratteristiche individuali dei manager che influenzano o prendono le decisioni di acquisto in azienda abbiano una certa rilevanza, il ruolo maggiore nelle scelte di acquisto è giocato dai fattori organizzativi. In particolar modo, le scelte di acquisto sono determinate dalla strategia di approvvigionamento dell’azienda, dalle politiche e procedure utilizzate per l’acquisto, dalla struttura organizzativa della funzione acquisti, dalle tecnologie e dai sistemi di acquisto utilizzati. Il capitolo 15 è dedicato a descrivere nel dettaglio l’organizzazione, il processo e gli strumenti di acquisto delle imprese, che sono quindi importanti non solo per chi in azienda ha il compito di comprare beni e servizi, ma anche per chi vende sul mercato industriale. Il processo di acquisto Il processo di acquisto nel mercato industriale è caratterizzato sostanzialmente dalle stesse fasi descritte nel paragrafo 12.3.3, anche se alcune di esse presentano modalità e caratteristiche specifiche. La descrizione di dettaglio del processo di acquisto industriale è dunque rinviata al capitolo 15 (paragrafo 15.2). Alcune caratteristiche del processo di acquisto dei mercati B2B lo distinguono fortemente rispetto al processo di acquisto nel mercato dei consumatori. In particolare: Differenze rispetto ai mercati di consumo

• una maggiore complessità e variabilità del processo in base al tipo di beni acquistati; • la dispersione tra più attori e la maggiore complessità dei ruoli di acquisto, con la presenza di una vera e propria organizzazione di acquisto; • la maggiore formalizzazione del processo e l’utilizzo di strumenti tipici quali le gare o le offerte, gli ordini di acquisto ecc.; • la maggiore attenzione ai servizi connessi alla transazione, ad esempio la disponibilità di informazioni, la flessibilità rispetto ai termini di pagamento e alle modalità di consegna, i servizi postvendita; • la maggiore frequenza di transazioni protratte nel tempo, ad esempio attraverso la stipulazione di contratti quadro (si veda paragrafo 15.2.3); • il maggiore potere contrattuale del cliente per effetto dei volumi acquistati, normalmente molto superiori; • il maggior peso della negoziazione e il maggior utilizzo di politiche di sconto. Sulla base di queste caratteristiche e delle considerazioni fatte nei paragrafi precedenti, è possibile concludere che gli elementi più importanti da valutare nell’analisi del comportamento di acquisto dei clienti industriali risultano essere:

12. L’analisi di mercato ) 399

• i fattori economici che possono influenzare gli acquisti delle imprese e i volumi di domanda per i beni e servizi offerti; • le strategie e le politiche di approvvigionamento attuate dalle aziende potenziali clienti; • la struttura organizzativa e le funzioni coinvolte nel processo di acquisto e dunque i ruoli, gli obiettivi e le competenze in gioco; • le procedure e gli strumenti utilizzati per l’acquisto; • i criteri e le modalità di valutazione dei fornitori (vendor assessment e vendor rating). Un esempio della complessità degli acquisti industriali è dato dal settore delle macchine per dispensare i coloranti per vernice. Come si vedrà in dettaglio nel capitolo 17 (Caso 17.7), queste macchine dosano opportune miscele di colori base nei barattoli di vernice bianca per ottenere la tinta desiderata. Le macchine sono collocate nei punti vendita, tipicamente colorifici e negozi “fai da te”. Gli utilizzatori finali sono dunque gli addetti di questi negozi. In tale settore la scelta della macchina viene fatta dal produttore di vernici, in quanto il prodotto è altamente specifico rispetto alla composizione e alle caratteristiche della vernice. A volte lo stesso produttore acquista i dispensatori e li rivende ai negozi; in altri casi, viceversa, i punti vendita acquistano direttamente la macchina, sulla base però delle indicazioni fornite dal produttore. In entrambi i casi il decisore appartiene a un’azienda diversa rispetto all’acquirente e utilizzatore. Le azioni di marketing da parte dei produttori di dispensatori si concentrano dunque correttamente sulle aziende di vernici.

12.3.5

Volumi e varietà

Il mercato degli intermediari Il mercato dei rivenditori è costituito dagli intermediari commerciali, ovvero soggetti economici che acquistano prodotti per rivenderli, senza ulteriori trasformazioni, ad altri soggetti. Non sempre, infatti, l’incontro tra domanda e offerta è immediato e diretto. Questo è vero sia nei mercati dei consumatori sia in quelli industriali. Ad esempio sarebbe oneroso o impraticabile per il consumatore acquistare direttamente dai produttori tutti i generi di largo consumo. Anche per un’azienda sanitaria locale sarebbe oneroso o difficile acquistare direttamente prodotti di nicchia come la strumentazione chirurgica specialistica, le protesi o il materiale da sala operatoria, che sono prodotti da imprese specializzate magari localizzate negli USA o in Giappone. Per un’azienda industriale di piccole dimensioni l’acquisto diretto di prodotti chimici specialistici dalle multinazionali della chimica può risultare complesso, e dunque l’incontro tra domanda e offerta sarà agevolato da intermediari, trading company in questo caso, che acquistano e rivendono su mercati globali prodotti intermedi. Gli intermediari sono utili non solo ai clienti, ma anche ai produttori. Consideriamo quelli che producono beni di largo consumo: ge-

400 ) PARTE III – MARKETING

Utilità di luogo e di tempo

neralmente queste aziende sono specializzate in una o poche tipologie di prodotti (ad esempio la pasta alimentare e i prodotti da forno, oppure i prodotti per l’igiene dentale ecc.), che realizzano in grandi quantità e preferiscono vendere in grandi lotti. Avrebbero dunque difficoltà a servire una domanda estremamente frammentata come quella dei mercati di consumo. Gli intermediari creano dunque un’utilità di luogo, di tempo, di quantità e di assortimento per i clienti. Rendono disponibili i prodotti e i servizi in modo diffuso e capillare sul territorio, rendono accessibile l’offerta in tempi rapidi, consentono l’acquisto di piccole quantità e permettono di comprare un assortimento ampio di prodotti anche di produttori diversi, tutti reperibili nello stesso punto vendita (è il concetto di one-stop shopping). Da un punto di vista economico l’esistenza di intermediari è giustificata quando il valore dell’utilità creata per il cliente (e per il fornitore) giustifica il margine, detto anche ricarico, dell’intermediario. Gli intermediari in genere svolgono fondamentalmente una o più delle seguenti funzioni:

Attività degli intermediari

• vendita, che consiste nella transazione commerciale attraverso la quale il cliente diventa proprietario del bene (o usufruisce del servizio) in cambio di un corrispettivo in denaro. Questa funzione comporta numerose attività: la raccolta di informazioni sui clienti, l’attività promozionale, la negoziazione con il cliente, il trasferimento della proprietà, la gestione del flusso di denaro e la gestione del rischio; • distribuzione fisica, che consiste nel trasporto, immagazzinamento ed esposizione dei prodotti affinché giungano dal produttore al cliente, nelle quantità e nell’assortimento richiesti; • servizio, che consiste nell’insieme di attività di supporto alla vendita quali ad esempio la consulenza al cliente nella fase di scelta, l’installazione, la manutenzione ecc.

Canali di marketing

L’insieme dei soggetti che svolgono queste funzioni di base costituisce il cosiddetto canale di marketing. Nel capitolo 13 (paragrafo 13.4.1) entreremo nel dettaglio dei diversi canali di marketing e delle strategie di distribuzione. I mercati degli intermediari sono a tutti gli effetti mercati B2B. Rivenditori, concessionari, distributori, catene di grande distribuzione organizzata, trading company e altri soggetti ancora sono accomunati da logiche di acquisto professionale e da processi decisionali tipici delle organizzazioni e dunque simili a quelli dei mercati industriali. Si tratta però in molti casi di operatori economici più vicini ai mercati di consumo. In particolare, le motivazioni all’acquisto dei beni e servizi che verranno rivenduti sono influenzate dalle motivazioni che spingono il consumatore finale. In sostanza, il mondo della distribuzione al dettaglio di beni e servizi di consumo funge da “cinghia di trasmissione” tra il mercato finale e la produzione.

12. L’analisi di mercato ) 401

Figura 12.4 STRATEGIE PULL E PUSH

Cliente

Produttore

Distributore

Domanda

• Consumatore • Cliente industriale

Strategia pull

Produttore

Distributore

Offerta e azioni di marketing

Cliente • Consumatore • Cliente industriale

Strategia push Azioni di marketing del produttore Risposte attese

Tirare la domanda...

...e spingere l’offerta

Il fatto che in un mercato esistano degli intermediari schiude una questione cruciale per il produttore: le azioni di marketing possono essere orientate al consumatore finale (o comunque al cliente del prodotto) oppure al distributore. Nel primo caso si mette in atto una strategia pull. Si cerca cioè di stimolare la domanda finale, confidando nel fatto che il cliente cerchi il prodotto o il servizio presso i distributori. La domanda viene dunque “tirata” dallo stadio a valle, il consumatore finale. Ad esempio, quando Barilla o Ferrero investono in pubblicità televisiva e in generale in azioni per mantenere e rafforzare il loro brand stanno di fatto attuando una strategia pull volta a far sì che i consumatori cerchino i loro prodotti nei negozi e nei supermercati. In questi casi il comportamento di acquisto del rivenditore è per molti aspetti trainato da quello del consumatore finale. Le strategie push invece consistono in un insieme ampio ed eterogeneo di azioni volte a stimolare e incentivare i rivenditori. In tal modo il produttore si aspetta che i rivenditori privilegino i suoi prodotti e, per così dire, li “spingano” verso i consumatori. Quando le stesse Barilla e Ferrero, ad esempio, prendono accordi con le grandi catene delle GDO per le campagne promozionali o per ottenere maggiori spazi di visibilità ed esposizione per i loro prodotti, stanno di fatto realizzando una strategia push. In questi casi il comportamento di acquisto del rivenditore è più simile a quello di un operatore industriale. La Figura 12.4 illustra le strategie pull e push. Naturalmente queste strategie non sono affatto esclusive, come mostrano gli esempi dei produttori alimentari. Anche nei mercati industriali le aziende usano spesso strategie miste di tipo push-pull, come evidenziato dall’esempio di Allison nel Caso 12.3a.

402 ) PARTE III – MARKETING

CASO

12.3a

Allison Transmission: strategia push-pull L’azienda, il prodotto e il mercato europeo Allison Transmission, fondata nel 1915 a Indianapolis ed entrata a far parte nel 1929 di General Motors, è stata acquisita nel 2008 dai fondi di private equity Carlyle e Onex. Allison produce e commercializza esclusivamente cambi di velocità automatici per veicoli industriali e commerciali oltre le sei tonnellate, segmento nel quale è leader mondiale. Il cambio automatico si applica principalmente a utilizzi molto gravosi come raccolta rifiuti, distribuzione urbana, autobus urbani e non, veicoli antincendio e aeroportuali, veicoli cava cantiere e veicoli non stradali. L’Europa rappresenta solo il 10% delle vendite, mentre il mercato USA rimane di gran lunga il più ampio. La differenza è dovuta al fatto che, mentre negli USA il cambio automatico è lo standard (e il cambio manuale un’opzione a richiesta), in Europa la situazione è ribaltata. A causa di ciò le strategie di marketing in Europa si basano solo parzialmente sull’esperienza americana, in particolare per l’attività di impulso-attrazione della domanda (push-pull) che ha dovuto essere profondamente adattata al contesto locale. La strategia mista push-pull Allison utilizza un approccio misto. La strategia push consiste principalmente in un complesso di azioni nei confronti dei produttori di veicoli (come ad esempio Iveco) per ottenere la delibera, l’approvazione e la messa a catalogo del cambio automatico per ogni nuovo veicolo o motore identificato precedentemente come target per lo sviluppo di nuovi mercati. In realtà è importante agire in modo push anche su altri attori secondari, ma spesso critici, come i costruttori di equipaggiamento (body builder) che possono intervenire direttamente nel caso delle gare di appalto del settore pubblico (public tender). Ad esempio, alle gare per i veicoli per la raccolta dei rifiuti spesso partecipano solo i body builder, i quali a loro volta acquistano la motrice dai produttori. Questi ultimi forniscono all’utilizzatore la flotta con l’attrezzatura dei body builder. La strategia push si indirizza dunque a una molteplicità di soggetti: il costruttore nella figura della sua struttura commerciale centrale, la rete dei concessionari e i body builder. Per assicurarsi che i concessionari e i body builder forniscano informazioni corrette e aggiornate (su prezzi, vantaggi e disponibilità) Allison investe in formazione e sensibilizzazione (training & awareness) di questi soggetti con l’accordo dell’ente centrale del costruttore stesso. D’altra parte è però necessario stimolare la domanda attraverso azioni dirette sul cliente finale (strategia pull). Allison visita direttamente gli utilizzatori finali e favorisce il contatto con altri clienti già utilizzatori del cambio automatico. Cerca di raccogliere informazioni anche dalla rete dei concessionari del produttore sulle necessità e i giudizi degli utilizzatori. Organizza eventi e giornate di prova dei veicoli su circuiti chiusi. Infine, l’azienda ha anche sviluppato uno strumento software di analisi e simulazione dei vantaggi, denominato Life Cycle Value (LCV), che ha permesso nel corso degli ultimi anni di aumentare sensibilmente la penetrazione in particolare in Italia. Trattandosi di un mercato industriale, i due elementi critici sono il costo marginale dell’opzione e i costi di esercizio nel ciclo di vita utile del mezzo. Allison corre addirittura il rischio di vedersi esclusa da alcuni bandi di gara, o comunque di perdere l’appalto, poiché il veicolo con l’opzione del cambio automatico costa di più (circa 10.000 euro). L’impresa ha dunque tutto l’interesse nel dimostrare al cliente che a fronte di un maggiore investimento iniziale vi saranno costi di esercizio e di manutenzione più bassi (ad esempio minore consumo dei freni e della frizione, maggiore produttività del lavoro ecc.). LCV consente di inserire molti parametri di input relativi alle condizioni d’uso dei veicoli e restituisce il Net Present Value e il payback period dell’opzione cambio automatico. È così in grado di dimostrare al cliente che spesso l’investimento nell’opzione si ripaga in due o tre anni a fronte di una vita utile del mezzo di quindici anni o più.

12. L’analisi di mercato ) 403

12.3.6

Trasparenza

Procedure formalizzate

Enfasi sul prezzo

Il mercato delle pubbliche amministrazioni Le pubbliche amministrazioni acquistano un vasto insieme di beni e servizi per l’erogazione dei propri servizi ai cittadini e alle imprese. Si pensi all’enorme volume di acquisti e transazioni che gravita attorno alla sanità pubblica. Comuni, regioni, amministrazioni locali, ministeri, forze armate ecc. sono responsabili di una larga parte della domanda aggregata delle economie avanzate. Si tratta di mercati ampi ed eterogenei, solo in parte assimilabili ai mercati B2B. Da un lato infatti i processi di acquisto sono quelli tipici delle organizzazioni e non quelli degli individui, dall’altro però i requisiti di trasparenza e il livello di formalizzazione richiesto è in generale molto superiore. In tutto il mondo e da sempre gli acquisti della PA sono un ambito delicato dove talvolta si annidano comportamenti illeciti o addirittura illegali sia da parte dei fornitori sia da parte dell’amministrazione. Le imprese sono naturalmente spinte dalla concorrenza verso comportamenti di acquisto efficienti ed efficaci. Per le pubbliche amministrazioni la spinta della concorrenza è solitamente bassa o anche assente. L’efficienza e l’efficacia degli acquisti non sono dunque spinte per così dire connaturate. La trasparenza dei processi e la formalizzazione sono allora il meccanismo e la garanzia di comportamenti di acquisto nell’interesse generale del cittadino e della collettività. Le conseguenze di tutto ciò sono sinteticamente riassumibili nei seguenti punti: • processi di acquisto formalizzati e con bandi di gara pubblici, aste al ribasso e altri meccanismi volti a dare pubblicità, trasparenza e la più ampia possibilità di partecipazione ai fornitori interessati; • enfasi forte quando non esclusiva sul prezzo, e dunque necessità di pensare offerte sempre e comunque competitive sui costi; • enfasi sulla determinazione dei capitolati ovvero delle specifiche tecniche dei beni e dei servizi che si vogliono acquistare per evitare che l’accento sul prezzo influenzi negativamente la qualità stessa delle forniture. Oggi in Italia molte amministrazioni pubbliche utilizzano in larga misura strumenti di e-procurement sviluppati da Consip (www.consip.it), seguendo le indicazioni fornite dal programma per la razionalizzazione degli acquisti nella P.A., avviato nel 2000. Questa tendenza è comune a molti altri paesi avanzati. Vi sono alcuni mercati che tecnicamente non sono riconducibili alle pubbliche amministrazioni ma che mostrano molte similitudini con queste ultime. Sono i mercati delle organizzazioni no profit come le università, le scuole e gli ospedali privati, le associazioni umanitarie, le fondazioni private ecc. Si tratta di organizzazioni non statali o pubbliche, ma che erogano servizi di pubblica utilità. Nei processi di acquisto queste istituzioni tendono a comportarsi come le pubbliche amministrazioni anche senza esserlo. In particolare, utilizzano ampiamente le gare al ribasso e pongono forte attenzione al prezzo proprio perché hanno risorse economiche limitate. In generale hanno però minori obblighi di trasparenza e formalizzazione delle procedu-

404 ) PARTE III – MARKETING

re di acquisto rispetto alle PA, anche se spesso devono rendere conto delle scelte che fanno ai loro stakeholder. Ad esempio le associazioni di assistenza volontaria per il trasporto di pazienti e feriti (le varie Croci) devono documentare ai sostenitori e ai donatori come spendono i finanziamenti ricevuti.

12.4

La misura e previsione della domanda L’analisi interna ed esterna all’impresa consente di individuare le opportunità di mercato. Per decidere quali di queste sfruttare e come impostare la strategia di marketing per entrare nel mercato selezionato, l’impresa deve valutarne la dimensione. La stima della domanda tuttavia non è funzionale solo all’ingresso in mercati nuovi, ma deve essere periodicamente elaborata anche per valutare se e come rimanere all’interno di mercati nei quali già si opera. La misura della domanda di mercato attuale e la previsione della domanda futura sono due aspetti fondamentali di queste valutazioni.

12.4.1

La domanda di mercato Per comprendere cosa si intende per domanda di mercato, ci rifacciamo alla definizione formale proposta da Kotler: La domanda di mercato di un prodotto è il volume totale che verrebbe acquistato da un determinato segmento di consumatori in una specifica area geografica in un determinato intervallo di tempo dato un certo ambiente di marketing e un certo livello dell’attività di marketing (Kotler, 2003, p. 177).

Domanda vs. vendite

Livelli di aggregazione

CASO

Questa definizione sottolinea anzitutto il fatto che la domanda non coincide con le vendite di mercato, ma fa riferimento a una potenzialità di acquisto del cliente e non a un acquisto effettivo. In diversi casi sono le aziende stesse che non riescono a soddisfare completamente la domanda di mercato per problemi di capacità produttiva, di tempi o ritardi di consegna e così via. In secondo luogo la domanda di mercato può essere misurata a diversi livelli di dettaglio e deve essere sempre riferita a uno specifico prodotto o gruppo di prodotti, a un segmento di riferimento (in termini geografici e/o di tipologia di clienti) e a un orizzonte di tempo preciso. Il Caso 12.4 esemplifica i possibili livelli di aggregazione della domanda di mercato dei prodotti alimentari da forno.

12.4

La domanda di prodotti alimentari da forno La domanda di mercato per i prodotti da forno può essere espressa a diversi livelli di dettaglio. Le dimensioni di aggregazione della domanda possono riguardare il prodotto, il gruppo di clienti, il canale e l’orizzonte temporale. Di seguito sono riportati ed esemplificati i diversi livelli di aggregazione possibili.

12. L’analisi di mercato ) 405 Prodotto • singolo codice • famiglia di codici • linea di prodotti • intero comparto • intero settore

Esempi (spaghetti n. 5, confezione da 500 g) (pasta lunga) (pasta) (pasta, biscotti e merendine) (prodotti alimentari da forno)

Gruppo di clienti tipologie/area geografica • tipologia cliente • regione • Paese • area economica

Esempi

Canale distributivo singolo punto vendita tipologia punto vendita canale intero mercato

• • • •

Orizzonte temporale

• breve periodo • medio periodo • lungo periodo

(consumatori finali) (Lombardia) (Italia) (Sud Europa) Esempi (ipermercati) (GDO) (vendita al dettaglio) Esempi (settimanale) (mensile) (annuale)

Per misurare la domanda occorre definire a quale nozione di mercato ci si riferisce. Il mercato, nella sua accezione più generale, fa infatti riferimento all’insieme degli acquirenti attuali e potenziali di un determinato prodotto o servizio. È possibile, tuttavia, individuare diverse tipologie di mercati (Figura 12.5): Quale mercato?

• mercato potenziale: è l’insieme di tutti i soggetti che dimostrano interesse nei confronti dell’offerta di mercato relativa al prodotto;

Figura 12.5 QUALE MERCATO MISURARE Mercato potenziale Mercato disponibile Mercato servito

Mercato penetrato

406 ) PARTE III – MARKETING

• mercato disponibile: è la parte del mercato potenziale che, oltre ad avere interesse, ha anche il reddito necessario e l’accesso all’offerta di prodotto. Alcune barriere, quali la carenza di strutture distributive o l’impossibilità fisica o materiale di accedere al prodotto, limitano la disponibilità di parte del mercato potenziale. In alcuni casi vi possono essere requisiti di carattere normativo necessari per l’utilizzo del bene o servizio. Ad esempio per guidare un’auto o un motociclo occorre la patente, per acquistare e detenere armi da fuoco in Italia occorre una licenza. In casi simili ci si riferisce al mercato disponibile qualificato; • mercato servito: è costituito dai segmenti del mercato disponibile ai quali l’offerta di marketing si rivolge; rispetto al mercato disponibile il mercato servito è circoscritto dalle scelte di marketing dell’azienda, in termini di segmentazione, focalizzazione sul mercato target e posizionamento; • mercato penetrato: è, infine, la parte del mercato servito che acquista effettivamente il prodotto. Il Caso 12.5 esemplifica l’individuazione dei diversi mercati nel settore della telefonia mobile.

CASO

12.5

Vodafone: la domanda di mercato in un segmento B2B Vodafone Italia è la filiale italiana dell’operatore internazionale di telefonia Vodafone, e il secondo operatore del nostro Paese. Quando decise di offrire carte SIM anche al mercato delle piccole imprese italiane (prima di allora non esistevano contratti aziendali multipli per questo tipo di clienti), Vodafone cercò di quantificare l’entità del mercato di telefonia mobile per comunicazioni voce in tecnologia GSM per le piccole aziende. Da fonte ISTAT, censimento delle imprese italiane 2001, il totale degli addetti impiegati nelle piccole imprese italiane, ossia quelle che hanno fra gli 1 e i 9 addetti, risultò di circa 7,4 milioni di persone. Grazie a una ricerca di mercato estensiva commissionata a un operatore specializzato, è stato possibile calcolare il mercato potenziale, disponibile e servito. Il mercato potenziale è stato quantificato in 3,7 milioni di persone. Esso è rappresentato da tutti gli addetti con reali esigenze di mobilità legate al ruolo in azienda, ad esempio rappresentanti di commercio, tecnici di manutenzione, venditori e installatori. Il mercato disponibile è costituito da tutti gli addetti di aziende che hanno deciso, per motivi essenzialmente di natura fiscale, di intestare l’abbonamento di telefonia mobile alla partita IVA e non ai singoli codici fiscali delle persone fisiche, ed è di 2,4 milioni di individui. Il mercato effettivamente servito da Vodafone è di circa 1,6 milioni di addetti, coloro che operano in imprese con almeno 2 linee (SIM card) di telefonia mobile intestate alla partita IVA aziendale. Si vede qui la precisa scelta di marketing di Vodafone, che identifica il segmento di riferimento per la telefonia B2B sulla base di contratti che riguardino un minimo di 2 carte SIM. Il mercato penetrato, infine, è stimato circa del 40% del totale, pari a oltre 600.000 carte SIM aziendali di Vodafone nel segmento considerato.

12. L’analisi di mercato ) 407

Figura 12.6 DOMANDA DI MERCATO E SFORZI DI MARKETING Domanda

potenziale

prosperità

previsione recessione minimo

Azione prevista

Efficacia del marketing

Stima del mercato potenziale

Azione complessiva di marketing

Come già più volte sottolineato, la domanda di mercato non è completamente esogena, cioè indipendente dalle azioni intraprese dalle aziende che operano nel settore. Infatti, a fronte di un livello minimo di vendite che verrebbero realizzate anche in assenza di azioni di marketing (minimo di mercato), la domanda di mercato cresce al crescere degli investimenti delle imprese del settore. L’andamento è tipicamente quello di una curva a “S”. In molti casi infatti la sensibilità della domanda alle azioni di marketing decresce con l’aumentare degli investimenti complessivi, fino a raggiungere un livello di saturazione che corrisponde al raggiungimento dell’intero mercato potenziale (Figura 12.6). La domanda attuale di mercato è determinata dalle azioni di marketing attuate dalle aziende del settore. Il rapporto tra il livello attuale della domanda e il livello potenziale è detto indice di penetrazione del mercato, ed è un indicatore importante per comprendere l’efficacia di ulteriori azioni di marketing. Un altro parametro importante per definire la funzione di domanda del mercato è l’ambiente economico che caratterizza quest’ultimo: in una situazione di recessione, il minimo di mercato e la sensibilità agli sforzi di marketing sono generalmente più limitati rispetto a una condizione di prosperità. Una volta individuato il contesto di riferimento e il livello di aggregazione desiderato nella stima della domanda di mercato, occorre pervenire a indicazioni quantitative sulla sua dimensione. Per far questo spesso è conveniente partire dal mercato potenziale. Nei mercati di consumo il mercato potenziale è spesso stimato a partire dal calcolo della dimensione dei gruppi di clienti che, per le loro caratteristiche sociali, economiche e demografiche, possono avere interesse nel prodotto considerato. Il Caso 12.5 ha illustrato il calcolo del mercato potenziale a partire dalla definizione di un gruppo di clienti potenzialmente interessati al prodotto e descritti in base a variabili demografi-

408 ) PARTE III – MARKETING

che. La conoscenza di dati aggregati forniti dai censimenti sociodemografici consente di stimare la dimensione di questi gruppi e dunque la dimensione del mercato, che è spesso tradotta in termini di numero di prodotti acquistati o di valore complessivo (ad esempio, come riportato nel Caso 12.1a, il mercato potenziale per i prodotti di personal care per l’uomo è stimato all’incirca 2 miliardi di euro all’anno). Nel mercato B2B la stima del mercato potenziale richiede di individuare la tipologia di imprese potenzialmente interessate al prodotto o servizio, sulla base del settore merceologico di riferimento (ad esempio per l’Italia può essere utilizzata la classificazione delle attività economiche ATECO predisposta da ISTAT – www.istat.it – o le classificazioni NACE o ISIC per l’Europa – ec.europa.eu e unstats. un.org). Occorre quindi rilevare il numero di imprese appartenenti a ciascuna tipologia e valutare il volume di acquisti dello specifico prodotto o servizio in relazione ad esempio al volume di attività (fatturato) dei clienti. Più oltre, nel paragrafo 12.5, il Caso 12.3b, che descrive la segmentazione del mercato per Allison Transmissions, esemplifica anche le possibili fonti e rielaborazioni di dati necessarie per calcolare la domanda e il potenziale di mercato per un’azienda che opera nel mercato industriale.

12.4.2

Posizione relativa

La quota di mercato La stima della domanda di mercato è utile all’impresa per valutare la dimensione del mercato di riferimento e dunque la sua attrattività. L’impresa è però interessata a stimare anche la propria domanda, ovvero la quota del mercato complessivo che l’impresa ottiene a fronte dello sforzo di marketing attuato. La quota di mercato è generalmente calcolata tramite il rapporto tra le vendite dell’impresa e le vendite complessive del settore: qi =

Qi Q

=

Qi

ΣiQ i

(1)

dove: qi = quota di mercato dell’impresa i-esima; Qi = vendite dell’impresa i-esima (espresse a valore o in volumi); Q = vendite complessive del mercato (espresse a valore o in volumi). Come già ricordato in precedenza, questo rapporto fa riferimento alle vendite effettive ed è dunque un’approssimazione del rapporto tra la domanda per l’impresa e la domanda di mercato. Da quanto visto nel paragrafo precedente, le vendite in un mercato sono una funzione dello sforzo complessivo di marketing effettuato dalle imprese. Analogamente, le vendite dell’impresa (e quindi la sua quota di mercato) dipendono dallo sforzo di marketing che l’impresa decide di

12. L’analisi di mercato ) 409

Efficacia degli sforzi

attuare, in relazione allo sforzo di marketing medio del settore. Tanto maggiore è l’investimento in promozione, comunicazione, qualità del prodotto, distribuzione e quanto minore è il prezzo a cui il prodotto è venduto rispetto alla concorrenza, tanto maggiore sarà la quota di mercato dell’impresa. Occorre tuttavia puntualizzare due aspetti. Da un lato non tutte le imprese sono ugualmente efficaci nelle loro azioni di marketing. Di conseguenza per calcolare la quota di mercato occorre utilizzare opportuni coefficienti di correzione per confrontare gli sforzi di marketing dell’impresa e dei concorrenti. In secondo luogo il legame tra lo sforzo di marketing e la domanda non è lineare, come visto in Figura 12.6, perché è soggetto a rendimenti decrescenti. Si pensi ad esempio al mercato della telefonia mobile: per l’ex monopolista TIM i forti investimenti in comunicazione sono serviti soprattutto a difendere la propria quota di mercato, più che per aumentarla, mentre i nuovi operatori hanno ottenuto inizialmente forti ritorni, in termini di domanda, dai propri investimenti di marketing, ritorni che ora, in una fase di maggiore maturità e assestamento del mercato, sono invece simili a quelli dell’incumbent. In sintesi, la relazione tra la quota di mercato dell’impresa e lo sforzo di marketing è rappresentabile nella seguente formula: qi =

(ai · Mi)eM i

oi(ai · Mi)e

(2)

Mi

Rendimenti decrescenti

dove: qi = quota di mercato azienda i; ai = efficacia dello sforzo di marketing dell’azienda i; può assumere valori inferiori o superiori a 1 a seconda che l’azienda i sia meno o più efficace rispetto alla media di mercato; Mi = sforzo di marketing dell’azienda i; eM = elasticità della quota di mercato rispetto allo sforzo di marketing i per l’azienda i, che rende conto dei rendimenti marginali decrescenti dello sforzo stesso. L’elasticità della quota è ottenuta dalla relazione: Dq }}i qi eMi = –––––– DMi }} Mi

(3)

La stessa formula può essere calcolata con maggior dettaglio scomponendo lo sforzo di marketing nelle sue leve (marketing mix), ovvero la qualità del prodotto, il prezzo, la distribuzione e la comunicazione. In questo caso il prezzo ha un’elasticità negativa e ha un’efficacia pari a 1 per tutte le imprese, essendo una leva che agisce direttamente sulla domanda (si veda anche il paragrafo 13.3.4). Questa

410 ) PARTE III – MARKETING

considerazione vale anche per la qualità del prodotto, che deve ovviamente essere misurata attraverso un indice comune a tutte le aziende, e pertanto la (2) può essere dettagliata nella (4):

Ri eRi ? Pi –ePi ? (ai ? Ai)eAi ? (di ? Di)eDi qi = ––––––––––––––––––––––––––––––––– ^[Ri eRi ? Pi –ePi ? (ai ? Ai)eAi ? (di ? Di)eDi]

(4)

i

con: Ri = indice di qualità del prodotto; Pi = prezzo; Ai = costi di pubblicità/promozione; Di = costi di distribuzione; ai = efficacia pubblicità/promozione; di = efficacia distribuzione; eR,P,A,D = elasticità della quota rispettivamente al prodotto, al prezzo, alla promozione e alla distribuzione.

Le componenti della quota

Più che una valenza pratica e computazionale, le formule (2), (3) e (4) sopra riportate sono importanti per comprendere la relazione tra gli investimenti nelle diverse azioni di marketing e il ritorno che ci si può attendere in termini di quota. Non è corretto viceversa utilizzarle per calcolare la quota di mercato, che viene invece stimata ex post attraverso il rapporto tra le vendite, e dunque utilizzando la formula (1). La quota di mercato di un’impresa può essere analizzata anche in base alle tre componenti operative – l’introduzione, la copertura e la selettività – che spiegano la composizione dei volumi di vendita. La relazione tra la quota e le componenti operative è la seguente: q=I·C·S

(5)

con: q = quota di mercato; I = introduzione; C = copertura; S = selettività. “Peso” presso i clienti

L’introduzione di un’impresa indica quale parte degli acquisti totali dei suoi clienti è costituita da prodotti da lei venduti. Essa rappresenta il peso medio relativo dell’impresa come fornitore dei suoi clienti. Un’introduzione elevata indica che i clienti dell’azienda acquistano prevalentemente i suoi prodotti, soddisfacendo in tal modo una buona parte dei loro fabbisogni, mentre un’introduzione limitata indica che l’acquisto dei prodotti dell’azienda copre solo una parte limitata dei fabbisogni dei suoi clienti, i quali si rivolgono principalmente ad

12. L’analisi di mercato ) 411

altri fornitori. È possibile calcolare l’introduzione attraverso la seguente formula: Ii =

Qi

oj Aij

(6)

dove: Q i = vendite dell’impresa i; Aij = acquisti del cliente j dall’impresa i;

ojAij = acquisti totali dei clienti dell’impresa i. Numero di clienti

La copertura indica la presenza sul mercato di un’impresa, in termini di numero di clienti serviti. Una bassa copertura indica che l’impresa serve un numero limitato dei clienti complessivamente presenti nel mercato; viceversa, una copertura elevata denota una presenza pervasiva e capillare dell’azienda nel mercato. La copertura di un’impresa i è data dalla seguente formula: Ci =

Ni NTOT

(7)

dove: Ni = numero clienti dell’impresa i; NTOT = numero totale di clienti presenti sul mercato. Rilevanza dei clienti

Infine, la selettività indica la dimensione media degli acquisti dei clienti dell’azienda. Una selettività superiore a 1 indica che l’azienda serve clienti mediamente più grandi rispetto alla media del mercato, mentre una selettività inferiore a 1 indica una dimensione degli acquisti inferiore alla media del mercato. La selettività di un’azienda i è data da: – A Si = –i = A

Sj Aij Ni

SiQ i

(8)

NTOT dove: – Ai = acquisto medio dei clienti dell’azienda i; – A = acquisto medio dei clienti presenti sul mercato.

Orientare gli sforzi

Il box seguente mostra un esempio semplificato di calcolo delle componenti operative della quota di mercato. L’analisi delle componenti operative della quota di mercato permette di individuare meglio le leve di marketing più utili per incrementare la quota. In particolare, per aumentare l’introduzione occorre generalmente aumentare la qualità relativa dei propri prodotti, investire in co-

412 ) PARTE III – MARKETING

Le componenti operative della quota di mercato L’azienda Rossi produce e vende tappi per bottiglie di plastica in concorrenza con le aziende Bianchi e Verdi. Il mercato italiano è costituito da cinque clienti (Cliente 1, Cliente 2, Cliente 3, Cliente 4, Cliente 5). Il mercato annuo è costituito da 100 milioni di pezzi, ripartiti tra i diversi clienti e i diversi produttori come indicato nella tabella seguente (valori in milioni di pezzi). Cliente 1

Cliente 2

Rossi Bianchi Verdi

20 10 20

10 20

Totale

50

30

Cliente 3

Cliente 4

7,5

2,5

2,5 10

Cliente 5

Totale

2,5

5

30 20 50

5

5

100

L’azienda Rossi è interessata a calcolare le componenti operative della propria quota di mercato: introduzione = vendite di Rossi/acquisti totali dei clienti serviti da Rossi = 30/(50 + 10 + 5) = = 46% copertura = n. clienti serviti da Rossi/n. totale clienti = 3/5 = 60% selettività = acquisti medi clienti di Rossi/acquisti medi di tutti i clienti = = [(50 + 10 + 5)/3] / (100/5) = 1,08 quota = vendite di Rossi/totale acquisti del mercato = 30/100 = 30% = = prodotto delle tre componenti operative

municazione e/o ridurre i prezzi. La copertura è prevalentemente determinata dalle scelte di distribuzione, di segmentazione e di comunicazione dell’azienda. Infine la selettività è legata all’utilizzo di leve adatte ad attrarre i clienti più grandi, tipicamente gli sconti di quantità, la qualità di conformità, ma anche leve esterne al marketing come la capacità produttiva e la possibilità di operare su larga scala.

12.4.3

Cicli di vita e tipi di acquisti

I modelli di previsione della domanda L’attrattività di un mercato non è determinata unicamente dalla dimensione attuale, ma anche – o soprattutto – da quella futura. Gli analisti di marketing dovranno dunque stimare quale evoluzione seguirà la domanda nel tempo e quali valori avrà in futuro la domanda di mercato. Durante la “bolla di Internet”, nei primissimi anni Duemila, le fortune borsistiche di aziende nate dal nulla erano legate a previsioni di domanda esagerate circa il numero di potenziali clienti e i livelli di domanda attesi. Al ridimensionamento di queste stime seguì inevitabilmente il crollo dei corsi azionari. Il modello di riferimento per valutare l’andamento della domanda nel tempo è la curva del ciclo di vita del prodotto, descritta nel capitolo 11. La previsione

12. L’analisi di mercato ) 413

della domanda futura dipenderà dunque dall’individuazione dello stato attuale del prodotto nel suo ciclo di vita e dalla valutazione dell’andamento della curva (si veda il paragrafo 11.4), distinguendo in particolare i beni ad acquisto una tantum, i beni ad acquisto saltuario e i beni ad acquisto frequente. La stima delle vendite di primo acquisto, di sostituzione e di riacquisto richiedono infatti metodologie e tecniche generalmente differenti. Una volta definito l’andamento qualitativo della curva del ciclo di vita del prodotto, occorre stimare il valore effettivo della domanda nei diversi periodi. È necessario innanzitutto sottolineare che la previsione della domanda futura per molte imprese è effettuata a partire da previsioni aggregate o di settore fornite da società o enti specializzati. Spesso queste informazioni vengono elaborate internamente, in funzione delle scelte di marketing e di altre variabili contingenti dell’impresa, per prevedere la domanda e la quota della singola impresa. In ogni caso, per prevedere la domanda è possibile seguire quattro diverse strade: Come prevedere la domanda

1. analizzare i comportamenti passati dei clienti ed estrapolare da questi i possibili comportamenti futuri; 2. raccogliere informazioni e previsioni da parte della forza vendita o di esperti; 3. indagare direttamente presso i clienti le intenzioni di acquisto e di comportamento futuro; 4. testare il mercato attraverso la prova del prodotto per analizzare la risposta degli acquirenti. Queste metodologie hanno vantaggi, limiti e possibilità di applicazioni diverse. Nel primo caso la domanda futura è desunta dall’andamento della domanda passata, attraverso l’utilizzo di metodi di previsione quantitativi quali ad esempio l’analisi delle serie storiche (si veda ad esempio il capitolo 8). Questo presuppone la disponibilità di dati passati e implica l’ipotesi che l’andamento del passato spieghi con sufficiente precisione quello futuro. Non è sempre così. La domanda di cemento in Italia nel 1992 era ai massimi storici, mentre nel 1993 è crollata improvvisamente a causa degli scandali legati a Tangentopoli che hanno paralizzato il settore delle costruzioni: nessun algoritmo basato su serie storiche avrebbe potuto prevedere questo cambiamento. Le serie storiche sono ovviamente inapplicabili alla domanda di nuovi prodotti. In alcuni casi si usa prevedere l’acquisto di nuovi prodotti ipotizzando andamenti simili a prodotti venduti nel passato. Il Caso 12.6 descrive ed esemplifica una tecnica di previsione della domanda, il cosiddetto modello epidemiologico, adatto a prevedere la domanda di primo acquisto di un prodotto a partire da parametri stimati tramite test di mercato o analisi di prodotti simili venduti nel passato. Il modello si chiama così perché assume che l’acquisto di un nuovo prodotto possa avvenire almeno in parte per imitazione, e dunque con una dinamica simile a quella del contagio nella diffusione delle epidemie.

414 ) PARTE III – MARKETING

CASO

12.6

Beverage: il modello epidemiologico per la stima di primo acquisto Il modello di diffusione epidemiologica dei prodotti La domanda di primo acquisto di un prodotto può essere prevista attraverso un modello di diffusione epidemiologica dei prodotti. L’ipotesi sottostante il modello è che l’adozione di un prodotto da parte di un consumatore dipenda da due fenomeni: l’imitazione e l’adozione spontanea. L’imitazione consiste nel fatto che il consumatore acquista il prodotto a seguito dell’influenza esercitata dagli altri consumatori che lo hanno già acquistato. Il fenomeno dell’imitazione è tanto più grande quanto maggiore è la dimensione del gruppo di chi ha già acquistato. Questa parte del modello è quella denominata “epidemiologica”, proprio perché la diffusione del prodotto procede in modo del tutto analogo a un’epidemia (al crescere dei contagiati aumenta la probabilità di contagio). L’adozione spontanea consiste nella progressiva adozione del prodotto da parte di consumatori ipotizzati indipendenti e non influenzati dagli altri clienti del mercato. Vi è infatti un tasso di conversione spontanea al nuovo prodotto che è strutturale in qualsiasi mercato. La somma di queste due componenti fornisce l’incremento marginale di domanda di mercato, secondo la seguente formula: q(t) =

Q(t) – – = r · – · [Q – Q(t)] + p [Q – Q(t)] dt Q

dQ

dove: q(t) = numero di compratori all’istante t; Q(t) = numero di compratori cumulati fino all’istante t; – Q = massimo numero di compratori che si stima acquisteranno il prodotto; – Q – Q(t)= mercato residuo all’istante t; r = coefficiente imitativo o “di contagio”; p = coefficiente di propensione spontanea all’acquisto. Come si desume dalla formula, sia il coefficiente imitativo sia il coefficiente di propensione spontanea all’acquisto vengono applicati al mercato potenziale residuo per individuare il numero di nuovi acquirenti del prodotto. Nella componente epidemiologica del modello il coefficiente imitativo è applicato dapprima al rapporto tra mercato penetrato e mercato potenziale, poi al mercato potenziale residuo, proprio per tradurre la maggior forza di “contagio” derivante da una maggiore penetrazione del prodotto nel mercato. Un esempio di applicazione del modello per la stima delle vendite di primo acquisto di un nuovo prodotto è riportato di seguito. La stima delle vendite di primo acquisto di “Beverage” Beverage opera da molti anni nel settore delle bevande analcoliche, offrendo una gamma piuttosto ampia di bibite gassate, prevalentemente nel mercato italiano. L’azienda ha deciso di entrare dieci anni fa nel settore allora emergente delle bevande “new age”, analcoliche non gassate, con capacità di dissetare in modo “nuovo e divertente”. Si tratta di bevande al gusto di tè, di frutta (con basso contenuto), bevande energetiche o vitaminiche. Il pubblico a cui tali bevande sono rivolte è giovane, dinamico e sportivo; il consumo avviene prevalentemente fuori casa, all’aria aperta, in occasione di attività sportive, di incontri con amici, di concerti ed eventi. Si è stimato che il mercato servito sia costituito in Italia da 9 milioni di persone.

12. L’analisi di mercato ) 415 Al fine di prevedere il possibile comportamento del mercato nei confronti del nuovo prodotto, Beverage ha condotto un test su un campione rappresentativo del mercato servito costituito da 2.000 persone. Le vendite di primo acquisto del prodotto (espresse in numero di clienti) sono state rispettivamente 50 nella prima settimana di introduzione e 55 nella seconda. Sulla base di questi valori è stato possibile calcolare i parametri del modello epidemiologico. Si noti che la formula del modello epidemiologico considera le vendite q(t) in un istante di tempo infinitesimo. Nella pratica, viene utilizzata la formula approssimata, in cui q(t) rappresenta il valore delle vendite in un periodo di tempo t finito, pari, in questo caso, a una settimana. Il coefficiente di propensione spontanea all’acquisto viene desunto dalla percentuale di acquirenti nella prima settimana, pari al 2,5% (cioè 50/2000). Nella prima settimana, infatti, la componente epidemiologica si considera trascurabile. Il coefficiente di imitazione si desume invece dalla percentuale di acquirenti nella seconda settimana secondo i seguenti calcoli: 50 55 = r ? }} [2000 – 50] + p[2000 – 50] 2000

da cui, con p = 2,5% si ricava: r = 12,82% Applicando i parametri calcolati all’intero mercato servito dall’impresa (9 milioni di persone), si ottengono le seguenti previsioni di acquisto del prodotto nel primo mese di vendita effettiva (e non di test): q(1) = 225.000 clienti; q(2) = 247.500 clienti; q(3) = 270.582 clienti; q(4) = 293.821 clienti. A titolo esemplificativo, il valore q(2) è ottenuto con il seguente calcolo: q(2) = 0,1282 (225.000/9.000.000) (9.000.000 – 225.000) + 0,025 (9.000.000 – 225.000)

Pareri di esperti

Una seconda metodologia per la stima della domanda consiste nell’utilizzo di pareri della forza vendita e/o di esperti. In questo caso le previsioni vengono effettuate sulla base delle stime di soggetti che hanno per diversi motivi il polso del mercato. Per prodotti in fase di maturità si ipotizza che i singoli venditori conoscano bene il mercato in cui operano e possano stimare l’andamento futuro della domanda nella propria area di riferimento. Per prodotti in fase di introduzione diventano invece più rilevanti le opinioni di esperti, che, sulla base di previsioni economiche, analisi di scenari futuri e conoscenza del comportamento degli acquirenti rispetto a prodotti in qualche modo assimilabili, esprimono pareri sul livello della domanda futura.

416 ) PARTE III – MARKETING

Gli esperti possono essere di volta in volta fornitori, distributori, consulenti di marketing, associazioni di categoria o esperti di settore. Le indagini sulle intenzioni di acquisto e i test di mercato coinvolgono campioni di clienti attuali o potenziali per verificarne i comportamenti. Essendo metodi più onerosi, vengono generalmente utilizzati per prodotti nuovi, rispetto ai quali è impossibile analizzare i comportamenti passati ed è più incerta la previsione degli esperti. In ogni caso, le ricerche di mercato sono uno strumento fondamentale per le aziende, soprattutto nel settore di beni di largo consumo, che investono cifre significative in questa direzione. Ad esempio, Procter & Gamble, multinazionale leader nel settore dei beni di largo consumo, investe più di 400 milioni di dollari all’anno nella comprensione dei comportamenti dei consumatori, conducendo più di 20.000 ricerche di mercato che coinvolgono oltre 5 milioni di consumatori in circa 100 diversi paesi nel mondo. Le indagini sulle intenzioni di acquisto per i principali mercati di consumo e mercati industriali vengono generalmente condotte da società specializzate (ad esempio Eurisko – Caso 12.2 – o Nielsen – Caso 12.7) e sono volte a identificare i principali cambiamenti nei comportamenti di acquisto dei clienti.

Intenzioni di acquisto

CASO

12.7

Nielsen Nielsen è l’azienda leader mondiale nelle informazioni di marketing e nella rilevazione di dati sui consumi e sull’utilizzo dei media. Fondata nel 1923 negli Stati Uniti, è oggi presente in più di 100 paesi nel mondo con più di 32.000 dipendenti. Tra i principali business di Nielsen vi è quello della misurazione e delle analisi delle dinamiche del mercato dei consumatori, delle loro attitudini e comportamenti. Questo business era storicamente condotto dalla controllata, ACNielsen, ora parte integrante della società. Nell’ambito di questo business, l’azienda offre un’ampia gamma di servizi standard e personalizzati volti ad aiutare i clienti a comprendere meglio i propri mercati, sia dal punto di vista della domanda (dimensione del mercato, quote dei vari competitor, prezzi del settore, comportamenti dei consumatori), sia dal punto di vista della concorrenza (azioni di marketing e posizionamento). Tradizionalmente concentrata sui mercati di largo consumo, Nielsen si è poi estesa anche ad altri mercati, in particolare ad alcuni beni durevoli che usano i canali della grande distribuzione (ad esempio gli elettrodomestici), al settore farmaceutico e ad alcune categorie di servizi. La principale categoria di servizi di Nielsen è il Tracking di panel, volto a monitorare con continuità campioni permanenti di individui e punti vendita al fine di evidenziare i cambiamenti in atto in un dato mercato dal punto di vista dei volumi di vendita, dei luoghi di acquisto e delle motivazioni di acquisto. Le due principali categorie di Tracking di panel sono il monitoraggio dei punti vendita (retail measurement services e store audit) e l’analisi degli acquirenti (consumer panel services). Nel primo caso il Panel è costituito da punti vendita selezionati con criteri di rappresentatività del mercato di riferimento (ad esempio quello italiano) e il Tracking consiste nella rilevazione dei flussi di prodotti verso il consumatore finale, per individuare le performance dei vari competitor, le quote di mercato, il presidio e la copertura dei canali distributivi, il posizionamento di prezzo e l’efficacia delle promozioni. I

12. L’analisi di mercato ) 417 dati vengono ottenuti tramite la lettura dei codici a barre o le rilevazioni tradizionali alla cassa dei punti vendita selezionati. Gli store audit permettono di comprendere più nel dettaglio le vendite e le scelte di marketing mix rispetto alla concorrenza su ciascun punto vendita (le analisi sono circoscritte agli ipermercati e supermercati delle principali catene italiane della grande distribuzione). L’analisi degli acquirenti (detta anche Homescan) è condotta su un campione di famiglie rappresentative della popolazione – in Italia sono state selezionate 6.000 famiglie – e ha l’obiettivo di delineare le caratteristiche e i comportamenti dei consumatori, individuandone le caratteristiche sociodemografiche, i comportamenti di acquisto (punti vendita utilizzati, dimensioni e composizione degli acquisti, marchi preferiti ecc.) e la sensibilità alle leve del marketing mix (fedeltà di marca, sensibilità al prezzo, alle promozioni, alla comunicazione pubblicitaria ecc.). I dati per i servizi di Homescan vengono rilevati attraverso mini computer, forniti da Nielsen alle famiglie selezionate, dotati di lettore ottico e di un software avanzato per registrare quotidianamente gli acquisti effettuati in qualunque tipologia di punto di vendita. Oltre al Tracking di panel, Nielsen offre ai suoi clienti anche: • analisi speciali, ovvero rielaborazioni dei dati standard su richiesta del cliente per approfondire specifici aspetti del marketing mix o del comportamento del consumatore; • servizi di approfondimento di micromarketing e merchandising, ovvero analisi delle dinamiche dei singoli punti vendita o delle singole categorie merceologiche; • analisi di scenario (economic environment) per i principali mercati di largo consumo (in home page del sito vengono ad esempio riportati comunicati relativi ai principali trend emersi nei mercati monitorati); • ricerche di mercato ad hoc sui panel di punti vendita e di consumatori; • servizi globali, che consentono, grazie all’integrazione dei dati raccolti in tutti i Paesi in cui Nielsen opera, di delineare le opportunità di internazionalizzazione per le aziende clienti. Fonte: www.nielsen.com.

Le associazioni

I test di mercato

Per i mercati industriali gli attori più importanti sono invece le associazioni di categoria nei comparti più vari, da quelle nazionali come Confindustria e Confcommercio a quelle di settore affiliate. Talvolta anche le associazioni territoriali offrono alle imprese aderenti servizi di previsione della domanda. Consideriamo ad esempio il settore dei servizi di lavoro temporaneo, già illustrato nel capitolo 11 (Caso 11.2). Le previsioni della domanda del mercato globale sono fornite da CIETT (International Confederation of Temporary Work Businesses, www.ciett.org); le previsioni per l’Italia sono predisposte dall’associazione degli operatori del settore, la Assolavoro (www.assolavoro.eu). I test di mercato hanno infine l’obiettivo di valutare, soprattutto per un nuovo prodotto, i comportamenti del cliente in termini di primo acquisto, riacquisto o sostituzione e frequenza di acquisto. Nel caso dei beni e servizi industriali, i test di mercato sono anche volti a mettere a punto il prodotto rispetto all’usabilità e all’affidabilità. Ad esempio, Microsoft mette spesso sul mercato i suoi prodotti nella fase cosiddetta di beta test, al fine di raccogliere i feedback sui principali difetti di funzionamento e di usabilità del software. Un caso interessante riguar-

418 ) PARTE III – MARKETING

da il settore dell’imballaggio di prodotti alimentari e bevande, nel quale molte aziende realizzano impianti di prova per consentire ai (potenziali) clienti di sperimentare nuove tecnologie di imballaggio per i propri prodotti, in modo da poterne valutare direttamente l’efficacia delle tecnologie rispetto alle specificità dei singoli prodotti. Lo stesso impianto è poi uno strumento fondamentale per testare i prototipi e mettere a punto la tecnologia e il processo di imballaggio. Questa scelta, oltre a favorire la maggiore qualità degli impianti, consente anche di far conoscere le nuove tecnologie e i nuovi process ai potenziali clienti, superandone l’eventuale ritrosia e ottenendo un feedback importante sull’intenzione di acquisto.

12.5

La segmentazione del mercato Un’impresa generalmente non può rivolgersi in modo indifferenziato a tutto il mercato disponibile. Più comunemente, l’impresa individua diversi segmenti di mercato e si rivolge ad alcuni di essi, ovvero i mercati obiettivo o target market, per i quali definisce azioni di marketing specifiche in base alle esigenze e alle caratteristiche dei clienti. Così, ad esempio, nell’ampio mercato dell’auto, Fiat e Ferrari hanno scelto due mercati obiettivo completamente diversi. Fiat stessa si rivolge in realtà a diversi segmenti di mercato, ai quali propone prodotti diversi, pricing diversi, strategie di comunicazione e promozione diverse. La Bravo è rivolta a un segmento di mercato diverso rispetto alla 500. Già nel capitolo 11 (paragrafo 11.6) abbiamo dunque introdotto la segmentazione, uno dei concetti centrali del marketing management, che viene ora sviluppato come elemento fondamentale della selezione dei mercati obiettivo. Per poter perseguire una strategia di marketing mirata, le aziende devono dapprima individuare i gruppi di clienti che presentano bisogni e preferenze omogenee, ovvero segmentare il mercato, in secondo luogo devono selezionare uno o più segmenti nei quali operare, ovvero definire il mercato obiettivo (targeting). Solo a questo punto è possibile determinare la strategia di marketing da perseguire a partire dalle caratteristiche del proprio prodotto o servizio rispetto all’offerta di mercato, ovvero il posizionamento di mercato. Questo processo è esemplificato dalla seconda parte del caso Factor’ NDI riportato nel Caso 12.1b.

CASO

12.1b

Factor’NDI (B): la segmentazione del mercato dei prodotti per la cura e il benessere dell’uomo La segmentazione del mercato Il punto di partenza per l’individuazione dei segmenti di mercato per i prodotti di Factor’NDI (si veda preliminarmente il Caso 12.1a) è stata la classificazione proposta da Eurisko nella mappa del Settore cosmetico maschile, una derivazione settoriale della mappa degli Stili di vita di Sinottica (Caso 12.2). In secondo luogo, è stata condotta dal gruppo imprenditoriale

12. L’analisi di mercato ) 419 una ricerca di mercato per individuare i comportamenti di consumo rispetto ai prodotti cosmetici maschili e le caratteristiche sociodemografiche a essi associabili. L’accoppiamento dei profili emersi dall’indagine di mercato con la mappatura di Sinottica ha quindi permesso di individuare la dimensione potenziale del mercato obiettivo e di avere un profilo dettagliato dei comportamenti dei consumatori in ciascun segmento. Gli Stili cosmetici maschili proposti da Sinottica si basano su due principali assi di segmentazione su variabili socioculturali: la vitalità e il dinamismo da un lato e l’attenzione e la cura di sé dall’altro. Ne sono emersi complessivamente sei profili: • Scapigliati (12,8% della popolazione maschile): sportivi e dinamici, si disinteressano della cosmesi, anche se non manca una certa attenzione all’aspetto esteriore; • Imitatori (16%): attenzione elevata al proprio aspetto; prevale un atteggiamento di emulazione rispetto a modelli superiori; • Narcisi (18,6%): fra tutti lo stile più edonista, elegante e raffinato, sia nella cura della persona sia in quella dell’abbigliamento; • Distaccati (15,5%): non hanno molta cura per l’aspetto, ma solo igiene accurata. Consumo limitato ai prodotti per l’igiene ordinaria; • Decorosi (12,7%): persone curate e ordinate, che tengono al proprio aspetto mantenendosi in forma. Poco inclini alla cosmesi intensa e vistosa; • Trascurati (24,4%): aspetto modesto e trascurato, la cura della persona è limitata all’igiene essenziale. L’indagine di mercato ha riguardato variabili legate al comportamento dei consumatori. Sono stati infatti indagati: l’uso e la frequenza di prodotti per la cura della persona e di prodotti specifici maschili, le tipologie di prodotti acquistati, i comportamenti, le motivazioni e i canali di acquisto. L’analisi dei dati ha delineato il comportamento dei diversi segmenti rispetto ai prodotti target di Factor’NDI. È emerso anzitutto che i segmenti che consumano maggiormente prodotti per la cura di sé sono i Decorosi, i Narcisi e gli Imitatori. Molto limitati invece l’uso e la frequenza da parte degli Scapigliati (Figura 12.7). Gli stessi tre segmenti mostrano anche un maggior utilizzo di prodotti specificamente maschili. Da questa prima analisi è emerso il mercato che Factor’NDI potrà servire, ovvero i tre segmenti dei Narcisi, Decorosi e Imitatori. Tra questi, le preferenze e i comportamenti di acquisto possono essere così delineati: • Narcisi: utilizzano in misura elevata prodotti per capelli e per l’igiene, fanno un uso superiore alla media di prodotti per il corpo e per la depilazione, sono allineati alla media sugli altri prodotti; acquistano più frequentemente della media in farmacia, in profumeria e soprattutto nei centri benessere, mentre utilizzano in misura relativamente minore il canale della grande distribuzione; le motivazioni di acquisto sono prevalentemente legate alla marca, al consiglio degli esperti e al prezzo; il passaparola gioca un ruolo più importante che negli altri segmenti; • Decorosi: utilizzano i prodotti per la cura di sé in misura minore rispetto agli altri segmenti, in particolar modo i prodotti per il viso e per il corpo, mentre sono allineati con la media per i prodotti per l’igiene; acquistano prevalentemente tramite la GDO e tutti gli altri canali hanno un peso decisamente inferiore; scelgono i prodotti principalmente in base alla pubblicità, alla marca e ai consigli degli esperti, il prezzo gioca un ruolo minore; • Imitatori: utilizzano soprattutto prodotti per il viso, per l’igiene e per i capelli; acquistano i prodotti in diversi canali, in modo allineato con la media del mercato; le motivazioni di acquisto sono prevalentemente legate alla marca e al consiglio degli esperti; il packaging del prodotto ha un ruolo relativamente più importante rispetto agli altri segmenti.

420 ) PARTE III – MARKETING Questa analisi ha evidenziato i Narcisi come il segmento a più alto potenziale per l’offerta di prodotti cosmetici per l’uomo, rispetto al quale si è dunque deciso di orientare l’offerta di marketing di Factor’NDI. Le scelte di marketing effettuate possono essere sintetizzate nei seguenti punti: • prodotti per capelli, igiene personale, creme viso e creme corpo; • importanza della creazione di un brand che comunichi il concetto di benessere e salute, la specificità rispetto al target di mercato e un’immagine di scientificità del prodotto; • packaging con un forte richiamo al brand; • vendita esclusiva in farmacia e nei centri benessere; • promozione effettuata prevalentemente sul brand per comunicarne i valori chiave; • predilezione per contatti diretti e mirati con il consumatore; • prezzo di fascia medio-elevata.

Figura 12.7 I COSMETICI MASCHILI: COMPORTAMENTI D’USO DEI POTENZIALI CLIENTI FREQUENZA vs % UTENTI 90% Decorosi

85%

Imitatori

80%

Trascurati

75% 70%

Distaccati

Narcisi

65% 60% 55%

Scapigliati

50% 2,0

2,2

2,4

2,6

2,8

3,0

3,2

3,4

(volte/settimana)

Nota: l’area dei cerchi è proporzionale al peso demografico dei segmenti. Fonte: tratto da Bazan et al. (2005).

Preferenze agglomerate omogenee e diffuse

Un segmento di mercato è definibile come un sottogruppo di clienti del mercato potenziale caratterizzati da profili di domanda e da preferenze relativamente omogenee rispetto alle componenti dell’offerta commerciale. Affinché in un mercato possano individuarsi dei segmenti è necessario che esistano comportamenti o preferenze agglomerate intorno ad alcuni fulcri (Figura 12.8a). In questo caso si è in presenza di segmenti naturali di mercato. Ad esempio, nel mercato dei personal computer vi sono due macrosegmenti naturali, costituiti da coloro che lo utilizzano sempre nello stesso luogo e quindi necessitano di un computer fisso, e coloro che hanno bisogno di spostarsi e quindi necessitano di un portatile. Negli anni il segmento dei portatili è cresciuto costantemente, sia per l’evoluzione delle preferenze dei consumatori, sia per effetto delle azioni di marketing delle imprese co-

12. L’analisi di mercato ) 421

Figura 12.8 DISTRIBUZIONE DELLE PREFERENZE DEI CLIENTI Attributo 2

Attributo 2

Attributo 1

a) Preferenze AGGLOMERATE (segmenti naturali)

Attributo 2

Attributo 1

b) Preferenze OMOGENEE

Attributo 1

c) Preferenze DIFFUSE

(non ci sono segmenti naturali)

me l’aumento delle prestazioni dei portatili e la riduzione dei differenziali di prezzo tra i due segmenti. Esistono tuttavia mercati nei quali i comportamenti e le preferenze sono sostanzialmente omogenee per tutti i clienti, focalizzate su alcune caratteristiche del prodotto (Figura 12.8b): in questo caso non esistono segmenti naturali e le offerte di marketing delle aziende risulteranno sostanzialmente indifferenziate. È il caso delle cosiddette commodity, prodotti appunto indifferenziati che soddisfano esigenze comuni a tutti i clienti. Naturalmente le commodity si ritrovano sia nei mercati di consumo – ne sono esempi prodotti come il sale da cucina e lo zucchero – sia nei mercati industriali – si pensi al cemento, al tondino di ferro, ai cavi elettrici standard ecc. Anche nei mercati delle commodity si assiste a una tendenza alla diversificazione e alla specializzazione spinta da parte delle imprese che cercano di individuare spazi e nicchie di differenziazione. Altri mercati sono invece caratterizzati da comportamenti disomogenei ma diffusi (Figura 12.8c). Questa situazione, opposta alla precedente, genera anch’essa difficoltà di segmentazione, in quanto richiederebbe di individuare un segmento per ogni cliente. Sempre più mercati presentano queste caratteristiche, a seguito della crescente richiesta di personalizzazione dell’offerta commerciale da parte dei clienti non solo industriali ma anche finali. Si è dunque affermato di recente un nuovo modo di proporsi sul mercato da parte delle aziende, detto marketing “one to one”, ovvero marketing orientato a ogni singolo cliente. Si descriveranno le caratteristiche peculiari di questo approccio nel paragrafo 12.5.3. Non tutti i possibili raggruppamenti dei clienti costituiscono di per sé un segmento di mercato. Perché siano tali sono necessarie alcune caratteristiche (si veda in proposito Giacomazzi, 2002): Caratteristiche dei segmenti

• la misurabilità: deve essere possibile misurare la dimensione e il potere di acquisto del gruppo di clienti; • l’accessibilità: deve essere realmente possibile raggiungere il gruppo di clienti con opportune azioni di marketing; • la differenziabilità: il segmento deve essere internamente omoge-

422 ) PARTE III – MARKETING

neo rispetto a una o più caratteristiche (che costituiscono le basi della segmentazione) ed eterogeneo rispetto ad altri segmenti; • l’importanza: il gruppo di clienti deve avere una dimensione e un potenziale di acquisto tali da giustificare un’azione di marketing mirata; • la durata: il gruppo di clienti deve presentare caratteristiche e preferenze ragionevolmente stabili nel tempo, ancora una volta tali da giustificare azioni a esso mirate. Variabili di segmentazione

Per individuare i segmenti è necessario dunque selezionare alcune variabili di segmentazione, ovvero delle caratteristiche dei clienti che si correlano significativamente con le differenze nelle preferenze e nella risposta all’offerta di marketing e che, nel contempo, consentano di identificare segmenti con le caratteristiche sopra ricordate. Le variabili che possono essere utilizzate nei mercati B2C e B2B sono differenti in quanto diverso è il comportamento di acquisto del cliente. Nei prossimi paragrafi verranno analizzate le variabili tipiche per i due mercati di riferimento. L’approdo del processo di segmentazione consiste nella costruzione di una matrice prodotti-mercati, che individua per ciascun segmento (o mercato) la o le classi di prodotto (definite sulla base delle funzioni d’uso) che rispondono alle esigenze specifiche del segmento. Ad esempio nel settore della formazione manageriale generalista il MIP, la business school del Politecnico di Milano, ha segmentato il mercato in funzione di due variabili: la prima è l’esperienza lavorativa, che determina il contenuto e le modalità didattiche dei corsi, dando luogo a due tipologie abbastanza diverse, i Master of Business Administration (MBA) e gli Executive MBA; la seconda è la localizzazione geografica. I partecipanti dell’area milanese hanno la possibilità di seguire corsi

Figura 12.9 SEGMENTAZIONE NEL SETTORE DELLA FORMAZIONE MANAGERIALE

Oltre i 6 anni, tipicamente 7-10

Executive MBA Evening

Executive MBA Part-time verticale

Evening MBA

MBA Week-end

MBA Full-time

Area milanese

Al di fuori dell’area milanese

Al di fuori dell’Italia

Esperienza di lavoro 3-5 anni

Localizzazione

12. L’analisi di mercato ) 423

serali (formato Evening). Coloro che risiedono al di fuori dell’area metropolitana hanno la possibilità di seguire corsi in formato Part-time verticale (weekend con un paio di settimane intensive all’anno) nel caso di partecipanti che non possono abbandonare il lavoro, oppure nel classico formato Full-time, soprattutto per i più giovani, che si distaccano più facilmente per seguire un master. La Figura 12.9 illustra questa segmentazione. Naturalmente, come ogni segmentazione, non coglie in modo esaustivo tutta la varietà di scelte del mercato. Ad esempio, nulla vieta che persone con esperienza pur dell’area milanese decidano per motivi di organizzazione personale di frequentare il prodotto Executive MBA Part-time verticale pensato prioritariamente per coloro che vengono da fuori. Infine gli studenti stranieri generalmente optano per il formato Full-time, in quanto scelgono di risiedere per un periodo in Italia e dedicarsi a tempo pieno allo studio. Questa segmentazione non prevede per ora un prodotto specifico per studenti executive stranieri (quadrante in alto a destra) che possono tuttavia scegliere l’Executive MBA Part-time verticale (se conoscono l’italiano e si sobbarcano costi di viaggio addizionali).

12.5.1

La segmentazione nel mercato B2C Nei mercati dei consumatori finali possono essere utilizzate due principali tipologie di segmentazione:

Demografia e stili di vita

Preferenze e comportamenti di acquisto

Combinazione di variabili di segmentazione

1. la segmentazione sulle caratteristiche dei consumatori, distinta in: • segmentazione descrittiva, che differenzia i potenziali consumatori in base a caratteristiche geografiche e demografiche; • la segmentazione socioculturale, che si basa su variabili connesse allo status sociale, lo stile di vita, gli interessi e le opinioni dei consumatori; 2. la segmentazione basata sulle risposte dei consumatori all’offerta commerciale, che comprende: • la segmentazione basata sui vantaggi ricercati nel prodotto o nel servizio; • la segmentazione comportamentale, determinata dai diversi comportamenti di acquisto, in relazione alle occasioni e alle situazioni di acquisto e d’uso, l’intensità d’uso, lo stadio di consapevolezza, la fedeltà di marca e l’atteggiamento verso il prodotto. La Tabella 12.3 riporta alcuni esempi di variabili di segmentazione che rientrano nelle categorie sopra descritte. Il primo tipo di segmentazione presuppone che le caratteristiche sociodemografiche dei consumatori spieghino le differenti risposte che essi hanno nei confronti dell’offerta di marketing. Questa segmentazione è chiaramente più efficiente, poiché i segmenti così creati hanno generalmente una maggiore misurabilità e accessibilità. Tuttavia la garanzia di omogeneità interna dei segmenti è minore: i membri di un segmento demografico di popolazione (ad esempio i

424 ) PARTE III – MARKETING

Tabella 12.3 LE VARIABILI DI SEGMENTAZIONE DEI MERCATI B2C Segmentazione sulle caratteristiche dei consumatori Variabili descrittive: • età o generazione • sesso • ciclo di vita della famiglia • reddito • occupazione • istruzione • religione • nazionalità • area geografica • dimensione del centro abitato • densità di popolazione • clima • aree urbane vs. rurali

Segmentazione sui comportamenti dei consumatori Vantaggi ricercati: • sensibilità al prezzo • gusti e preferenze • rapporto qualità-prezzo Variabili comportamentali: • occasioni d’uso • situazioni d’uso • intensità d’uso • fedeltà alla marca • stato di consapevolezza • atteggiamento verso il prodotto • propensione all’innovazione

Variabili socioculturali: • classe sociale • stili di vita • personalità • valori • interessi Fonte: adattato da Kotler (2003).

Sovrapposizione prodottisegmenti

giovani fra i 20 e i 34 anni) possono avere preferenze molto diverse rispetto al consumo di bevande analcoliche. Per questo motivo le variabili sociodemografiche sono spesso utilizzate in modo combinato per evidenziare segmenti omogenei, come esemplificato nel caso Factor’NDI (Caso 12.1b). Viceversa, la segmentazione sulle preferenze e sui comportamenti fornisce una maggiore garanzia di omogeneità dei segmenti e una descrizione più accurata della risposta dei consumatori alle diverse leve di marketing, ma risulta più difficile da attuare e da misurare. Come esemplificato nel caso Factor’NDI, la segmentazione sociodemografica è stata affiancata da un’analisi delle preferenze e dei comportamenti rispetto ai cosmetici maschili per trovare una corrispondenza tra le due macrodimensioni di segmentazione. Per rispondere ai problemi di individuabilità e descrivibilità dei segmenti rispetto alle variabili comportamentali, in molti mercati maturi, in cui le tipologie di prodotti o servizi sono abbastanza consolidate, i segmenti di mercato vengono fatti coincidere con le classi di prodotti, secondo l’assunto in base al quale una certa tipologia di prodotto risponde a un determinato set di preferenze dei clienti. L’esempio più classico è quello del mercato dell’auto, diviso tradizionalmente in 6 segmenti (Tabella 12.4), ciascuno dei quali raggruppa prodotti con caratteristiche simili in termini di fascia di prezzo, dimensioni, forma, funzionalità e tipo di utilizzo.

12. L’analisi di mercato ) 425

Tabella 12.4 SEGMENTI DI PRODOTTO NEL MERCATO DELL’AUTO Segmento

Modelli più venduti per segmento

A

Fiat “Panda”, Fiat “500”, Smart “Fortwo”, Toyota “Aygo”, Chevrolet “Spark”

17,6%

Fiat “Punto”, Lancia “Ypsilon”, Ford “Fiesta”, Citroen “C3”, Volkswagen “Polo”

37,8%

C

Volkswagen “Golf”, Alfa Romeo “Giulietta”, Ford “Focus”, Nissan “Qashqai”, Opel “Astra”

26,6%

D

Volkswagen “Tiguan”, Fiat “Freemont”, Volkswagen “Passat”, Audi “A4”, BMW “Serie 3”

15,3%

BMW “Serie 5”, Audi “A6”, Mercedes “Classe E”, Mercedes “Classe M”, Land Rover “Range Sport”

2,5%

Porsche “911”, Porsche “Panamera”, Audi “A8”, BMW “Serie 7”, Ferrari “458 Italia”

0,2%

B

E F

% Mercato Italia primo trimestre 2012

Fonte: Ministero dei Trasporti.

Ad esempio, le citycar sono veicoli economici, di piccola dimensione, cilindrata e potenza, tipicamente berline a tre porte, con prestazioni di guida e optional essenziali e prevalentemente pensate per la circolazione urbana. Sebbene dunque la segmentazione venga fatta sul prodotto, essa fa riferimento a diversi bisogni e preferenze espressi dai clienti. L’esempio mostra però come questo tipo di segmentazione non colga appieno i bisogni dei clienti, in quanto lo stesso tipo di preferenze può portare ad acquistare auto di segmenti diversi (ad esempio un’auto multispazio può essere presa in considerazione in alternativa a una station wagon), mentre le auto di uno stesso segmento (ad esempio il segmento D) possono corrispondere a strutture di preferenza molto diverse (si pensi a una Fiat “Freemont” rispetto a una Audi “A4”).

12.5.2

La segmentazione nel mercato B2B Le metodologie che possono essere utilizzate per segmentare i mercati industriali non sono molto diverse da quelle viste per il mercato dei consumatori. Anche le imprese possono infatti essere distinte o su basi geografiche o demografiche, o sulla base delle preferenze o dei comportamenti. Tuttavia all’interno di ciascuna tipologia le variabili rilevanti sono differenti. È possibile in particolare evidenziare quattro categorie di variabili per il mercato industriale (si veda ad esempio Bonoma e Shapiro, 1983): • le caratteristiche demografiche, che includono il settore di appartenenza, la localizzazione geografica, la dimensione d’impresa, la tipologia d’impresa, la struttura proprietaria;

426 ) PARTE III – MARKETING

• le variabili operative, che fanno riferimento alle tecnologie di trasformazione utilizzate dall’acquirente (tipologia, status di utilizzatore o non utilizzatore, scala produttiva ecc.); • gli approcci all’acquisto, ovvero l’organizzazione della funzione acquisti e le caratteristiche del processo di acquisto (politiche generali di acquisto, criteri di acquisto, natura delle relazioni con i clienti ecc.); • i fattori contingenti realtivi alla tipologia di acquisto, in particolare le applicazioni o la destinazione del prodotto nel processo produttivo del cliente, l’utilizzo finale dei prodotti, le dimensioni medie dell’ordine. Il Caso 12.3b illustra le variabili di segmentazione utilizzate da Allison Transmission, impresa leader nelle trasmissioni automatiche per veicoli industriali (si veda anche il Caso 12.3a). Nel caso viene illustrata la stima dimensionale dei segmenti attuali e potenziali dell’azienda.

CASO

12.3b

Allison Transmission: la segmentazione del mercato e la misurazione della domanda Allison Transmission (già introdotta nel Caso 12.3a) produce e commercializza cambi di velocità automatici per veicoli industriali e commerciali. I clienti di Allison sono i principali costruttori di veicoli industriali, quali Iveco, Renault e Mercedes. I diversi utilizzi del veicolo (raccolta rifiuti, autobus urbani ecc.) comportano differenze tecniche e in alcuni casi costruttive del cambio automatico. Di conseguenza, la principale variabile di segmentazione del mercato per Allison sono le cosiddette mission dei veicoli, cioè il tipo di utilizzo. Un secondo livello di segmentazione fa invece riferimento al modello di veicolo per ogni casa costruttrice, poiché il cambio automatico deve essere adattato e omologato in maniera specifica. A oggi i segmenti di mercato coperti da Allison sono principalmente quelli dei veicoli per la raccolta dei rifiuti e dei veicoli antincendio. All’interno di questi, Allison ha sviluppato versioni specifiche (release) solo per alcuni costruttori e per alcuni modelli. L’azienda ha però già approntato release per nuove tipologie di veicolo, sia in termini di mission che in termini di modelli, al fine di penetrare nuovi segmenti. Per poter misurare la domanda e la quota di mercato in ciascun segmento, Allison non può semplicemente calcolare il numero di veicoli immatricolati da ciascun costruttore per ciascun modello, in quanto, come detto, il tipo di utilizzo è discriminante per comprendere l’entità della domanda potenziale. L’azienda utilizza dunque dati elaborati in ciascun paese da enti statistici privati o associazioni di costruttori, che rendono disponibili informazioni sulle immatricolazioni non solo per telaio (chassis) ma anche per mission del veicolo. Ad esempio, in Italia i dati utilizzati sono acquistati da ANFIA, in Spagna da ASCATRAVI, in Francia da AAA. La Tabella 12.5 riporta un esempio di calcolo del mercato potenziale, del mercato servito e del mercato penetrato da Allison in Francia per i principali segmenti. In grassetto sono evidenziati i principali segmenti coperti da Allison nel 2010 e in corsivo i segmenti nei quali Allison ha interesse a penetrare.

12. L’analisi di mercato ) 427

Tabella 12.5 DOMANDA NEI SEGMENTI ATTUALI E TARGET DI ALLISON TRANSMISSION IN FRANCIA Mercato Mercato potenziale servito Immatricolazioni Immatricolazioni 2010 2010 modelli coperti Veicoli per distribuzione urbana Veicoli cava cantiere Veicoli per trasporto del freddo

Veicoli scarrabili Veicoli per raccolta rifiuti

Betoniere Veicoli antincendio Veicoli di servizio per municipalità (spurghi, spazzatrici ecc.)

Mercato Mercato penetrato penetrato % Vendite Allison 2010

2462 2220 1867 1621 1177 359 579

1772 1112 1493 583 1045 65 316

15 2 292 0 712 0 86

0,8% 0,1% 19,5%

230

158

27

17%

68% 28%

Fonte: Ministero dei Trasporti.

Il mercato potenziale “teorico” è costituito dall’insieme dei veicoli immatricolati. Rispetto a questo, però, il mercato potenziale “reale” è costituito dai veicoli immatricolati dedicati a utilizzi gravosi, riconosciuti in base al tipo di carrozzeria montata. Il mercato servito è costituito dal totale dei veicoli immatricolati che montano carrozzerie speciali e che rientrano tra i modelli per i quali Allison ha sviluppato e omologato prodotti specifici. Il mercato penetrato è costituito dalle vendite totali di Allison. Queste analisi sono molto importanti per delineare le strategie di sviluppo dell’azienda, in quanto mostrano l’esistenza di segmenti potenziali di dimensioni interessanti non serviti a causa della mancanza di cambi automatici a essi dedicati. Si individuano i costruttori con i quali è più importante stabilire accordi per lo sviluppo di nuove release in base alla loro maggiore quota di mercato nei segmenti target. Ad esempio le analisi condotte in Francia hanno evidenziato l’importanza di sviluppare nuovi prodotti per alcuni modelli di Renault, che nel segmento della distribuzione urbana ha una quota di mercato del 39%, rispetto ad esempio a produttori come Scania, per i quali esistono già release omologate, ma che ha invece una quota di mercato nel segmento pari solo al 2%.

Come già nel mercato B2C, anche per il mercato industriale i segmenti derivano dall’uso simultaneo di più variabili di segmentazione. Occorre dunque utilizzare metodi specifici che permettano di capire di volta in volta la rilevanza dei diversi parametri e il livello di dettaglio da utilizzare nell’analisi. Il metodo più semplice consiste nell’utilizzare alcune variabili di macrosegmentazione, tipicamente legate alle caratteristiche più evidenti e misurabili (ad esempio le variabili demografiche). Successivamente possono essere effettuate microsegmentazioni per evidenziare segmenti specifici nei macrosegmenti di interesse dell’impresa (Wind e Cardozo, 1974, Bonoma e Shapiro, 1983). Il caso Allison (Caso 12.3b) rappresenta un esempio di questo approccio progressivo alla segmentazione.

428 ) PARTE III – MARKETING

12.5.3 Frammentazione dei mercati

Ipersegmentazione

Informazioni e analisi

CASO

Il marketing one-to-one Come già ricordato in precedenza, un numero crescente di mercati è caratterizzato dall’elevata frammentazione delle preferenze e dei comportamenti dei clienti, anche a seguito della crescente maturità e delle esigenze più specifiche rispetto alle caratteristiche dei prodotti e dei servizi richiesti. D’altro canto, per accrescere o anche solo mantenere la quota di mercato in mercati saturi con un’eccedenza di offerta rispetto alla domanda, è fondamentale per l’impresa soddisfare al meglio le richieste dei clienti, proponendo prodotti e servizi estremamente personalizzati. Di conseguenza, una delle tendenze più recenti nel marketing è quella di portare agli estremi il concetto di segmentazione. Si arriva così alla segmentazione totale del mercato, secondo la quale ogni segmento è costituito da un singolo cliente, caratterizzato da bisogni e comportamenti diversi, a cui l’azienda risponde in modo personalizzato. È il concetto di marketing one-toone, o relationship marketing (si veda ad esempio Peppers e Rogers, 1993; www.1to1.com). Infatti, nell’attuare questa politica è fondamentale sviluppare strette relazioni con i clienti, al fine di progettare offerte personalizzate per ciascuno di essi e, d’altro canto, per raccogliere quelle informazioni sui loro comportamenti e sulle loro preferenze che sono necessarie all’impresa per progettare tali azioni. Perciò le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e in particolar modo i sistemi di CRM (Customer Relationship Management), i database di marketing e le metodologie di data mining, svolgono un ruolo fondamentale per rendere possibile una raccolta dettagliata e un’analisi a grana molto fine dei dati relativi ai clienti. Si tratta di metodi che, scavando in profondità nei dati raccolti, identificano correlazioni e tendenze emergenti e significative. Si creano così modelli esplicativi della domanda e dei comportamenti di acquisto. Torneremo su questi argomenti nel capitolo 13. Un esempio emblematico di applicazione di una strategia di marketing one-to-one è quello di Tesco (Caso 12.8).

12.8

Tesco: marketing one-to-one nel settore retail Tesco è uno dei più grandi distributori (retailer) al mondo, il primo nel Regno Unito. L’azienda persegue una strategia di crescita basata sulla creazione di valore e sulla fidelizzazione dei clienti. Tesco sottolinea come il successo di questa strategia dipenda dalle persone, sia clienti sia dipendenti. La mission dell’azienda è espressa in due valori fondamentali: No-one tries harder for customers (ovvero “nessuno cerca di far qualcosa per i clienti con più impegno di noi”) e Treat people how we like to be treated (“trattiamo le persone come ci piacerebbe essere trattati”). Tesco ha avviato nel 1993 un programma di fedeltà istituendo la “Clubcard”, che offre al cliente la possibilità di accumulare punti da tradurre in sconti o premi, oltre a numerose promozioni e offerte per l’acquisto dei prodotti. Oggi questi strumenti sono largamente im-

12. L’analisi di mercato ) 429 piegati dalla distribuzione, ma vent’anni fa Tesco fu tra i pionieri nella sperimentazione. Le informazioni raccolte attraverso la carta fedeltà costituiscono un immenso valore per Tesco, che può in questo modo individuare le abitudini di acquisto di ogni singolo cliente. Il programma fedeltà, che ha già raggiunto più di 15 milioni di persone solo in Inghilterra, ha consentito di effettuare una segmentazione molto fine dei clienti dell’azienda, sulla base delle abitudini e degli stili di vita condotti. La volontà dell’azienda di perseguire un approccio personalizzato ai clienti, in linea con la missione dichiarata, è dimostrata ad esempio dalla spedizione ogni quadrimestre di una newsletter personalizzata ai clienti. Questa spedizione viene fatta in 4 milioni di versioni diverse, definite sulla base della microsegmentazione effettuata a partire dai dati raccolti attraverso la Clubcard. Si tratta di qualcosa di molto diverso dall’invio di una newsletter standard con offerte generiche. Il successo di questa e altre iniziative personalizzate nei confronti dei clienti ha portato l’azienda ad avere un incremento annuo di fatturato di 100 milioni di sterline. Un approccio completamente diverso è seguito ad esempio dai maggiori retailer italiani, che inviano comunicazioni frequenti e spesso anche corpose ai propri clienti delle carte fedeltà (inclusi cataloghi, elenchi di offerte speciali, buoni sconto ecc.) ma del tutto indifferenziate rispetto alle tipologie di consumatori. Fonte: www.tescocorporate.com.

12.5.4

Targeting: l’individuazione del mercato obiettivo Una volta identificati i segmenti del mercato, le imprese devono affrontare due decisioni: 1. a quali segmenti rivolgersi; 2. quale strategia attuare per differenziare i diversi segmenti di mercato selezionati.

Il perimetro della competizione

L’impresa può alternativamente rivolgersi a un unico segmento di mercato, ad alcuni segmenti o al mercato complessivo. La scelta di quanti e quali segmenti coprire dipende da molti fattori, tra i quali l’attrattività di ciascuno di essi, i punti di forza e di debolezza che l’azienda ha nell’operare nei diversi segmenti, le dimensioni dell’impresa, gli obiettivi che si pone, lo stadio nel ciclo di vita dei prodotti che offre. Occorre poi sottolineare come la scelta del mercato obiettivo definisca il sistema competitivo a cui l’azienda dovrà fare riferimento: l’insieme dei competitor dell’azienda è infatti individuato sulla base dell’offerta di prodotti allo stesso segmento di mercato. Il vantaggio della concentrazione su uno o pochi segmenti di mercato generalmente consiste nella maggiore capacità di comprensione e di personalizzazione dell’offerta commerciale rispetto alle specifiche esigenze del segmento. Il vantaggio derivante da una copertura maggiore del mercato è invece la maggior ampiezza di mercato potenziale, a scapito però del livello di introduzione che l’azienda riuscirà a ottenere a seguito della minore focalizzazione.

430 ) PARTE III – MARKETING Trade off tra efficienza ed efficacia

Quando un’impresa si rivolge a un unico segmento, la sua strategia di marketing è detta marketing concentrato, proprio perché le scelte di prezzo, prodotto, distribuzione e promozione sono focalizzate sulle specifiche preferenze del segmento target. Viceversa quando un’impresa decide di rivolgersi a più segmenti ha l’opzione di seguire un marketing differenziato, ovvero di attuare politiche di marketing diverse e mirate a ciascun segmento, oppure adottare un marketing indifferenziato, offrendo a tutti i segmenti lo stesso prodotto, allo stesso prezzo, attraverso gli stessi canali e con le stesse strategie di comunicazione. La prima strategia produce costi più elevati, non solo di marketing ma anche di prodotto, in relazione alle necessità di differenziazione (che genera ad esempio costi maggiori di modifica, di produzione e delle scorte). La strategia di marketing indifferenziato, viceversa, è caratterizzata da tassi di penetrazione più limitati nei segmenti a cui si rivolge l’azienda, e per questo si associa generalmente a un numero elevato di segmenti target. In conclusione, questo capitolo ci ha permesso di approfondire le fasi iniziali e strategiche del processo decisionale di marketing, dal momento in cui si analizza il contesto esterno per valutare le opportunità di mercato, fino alla selezione dei mercati obiettivo. Come abbiamo illustrato, il passaggio chiave di questo processo è la segmentazione. Il passo successivo consiste nella definizione della strategia più adatta per servire il mercato selezionato, innanzitutto definendo il posizionamento del prodotto o servizio rispetto alla concorrenza e, successivamente, stabilendo quali scelte di prodotto, prezzo, distribuzione e comunicazione attuare per perseguire la strategia di mercato individuata. La descrizione di queste scelte è l’oggetto del prossimo capitolo.

13 La strategia di marketing Posizionamento e marketing mix

SOMMARIO

Marketing mix e quote di mercato

13.1

13.1 Il posizionamento dell’offerta j 13.2 La definizione del prodotto/servizio j 13.3 La determinazione del prezzo j 13.4 Le scelte di distribuzione j 13.5 La comunicazione d’impresa

Nel capitolo 11 abbiamo introdotto il processo decisionale di marketing e nel capitolo 12 ne abbiamo analizzato le fasi iniziali, dall’analisi delle opportunità alla scelta dei mercati obiettivo fino alla segmentazione e al targeting. Lo sviluppo della strategia di marketing richiede a questo punto di posizionare il prodotto o servizio rispetto alla concorrenza definendone le caratteristiche differenziali. Definito lo sforzo di marketing complessivo, ovvero dell’investimento che l’impresa vuole fare, occorre scendere nel dettaglio delle diverse leve di marketing. Come visto nel paragrafo 12.4.2, lo sforzo di marketing di un’impresa rispetto a quello dei concorrenti ne determina la quota di mercato. Nello stabilire quanto investire nelle azioni di marketing l’impresa dovrà dunque fare riferimento agli obiettivi di mantenimento, crescita o disinvestimento che vuole perseguire in ciascun segmento di mercato. Sarà poi necessario declinare lo sforzo di marketing rispetto alle diverse leve del marketing mix, ovvero i prodotti/servizi offerti, i prezzi, la distribuzione e la comunicazione. La relazione tra quota di mercato e investimenti nelle diverse leve discusse nel paragrafo 12.4 indirizza le scelte dell’impresa riguardo ai livelli di investimento in ciascuna area. In altri termini, la strategia di marketing mix è guidata dalla percezione del rapporto costi/benefici di ciascuna azione di marketing. I paragrafi di questo capitolo sono dedicati a descrivere anzitutto il posizionamento dell’offerta (paragrafo 13.1) e successivamente le scelte tipiche che caratterizzano le quattro leve del marketing mix: il prodotto, il prezzo, la distribuzione e la comunicazione (paragrafi 13.2, 13.3, 13.4 e 13.5).

Il posizionamento dell’offerta Il posizionamento dell’offerta (sia essa un prodotto o un servizio) in un determinato segmento di mercato consiste nella definizione delle

432 ) PARTE III – MARKETING

Valore percepito

Brand forti e premi di prezzo

Immagine del brand

caratteristiche specifiche del prodotto e dell’offerta di marketing che permettono all’impresa di differenziarsi dai concorrenti nella percezione dell’acquirente. La differenziazione dei prodotti deriva da scelte diverse effettuate dalle imprese sulla base delle dimensioni ritenute rilevanti dal cliente per valutare il prodotto o il servizio. Le basi della differenziazione sono numerose, ma essenzialmente riducibili alla dimensione del costo e dell’attrattività del prodotto per il cliente (si veda ad esempio Azzone e Bertelè, 2011). Per definire il posizionamento le aziende dovranno dunque stabilire quali tipi di attributi o di vantaggi per il cliente presenterà il prodotto proposto, in relazione all’offerta dei concorrenti. Gli attributi e i vantaggi stabiliscono il valore percepito dal cliente nell’utilizzo del prodotto, che viene confrontato con il livello di prezzo richiesto. Spesso il posizionamento viene riassunto in una proposizione sintetica, anche detta proposizione di valore (value proposition). Ad esempio, nel settore delle imbarcazioni di lusso i parametri che generalmente vengono utilizzati per differenziare il posizionamento dei prodotti sono il prestigio, l’usabilità, la sportività e la comodità. Questi parametri acquistano valori e pesi diversi nei vari segmenti di mercato: il mercato italiano ha preferenze diverse rispetto al mercato straniero; il peso dei diversi attributi varia in base all’esperienza nautica dell’acquirente. Le dimensioni di valore offerte dal prodotto vengono poi rapportate al prezzo. Marchi come Ferretti Yachts, Riva o Apreamare, il cui valore percepito da parte del cliente è più elevato rispetto ad altri concorrenti, godono di un premium price, ovvero della possibilità di farsi riconoscere dai clienti un premio di prezzo, e dunque prezzi superiori alla media del segmento. In tutti i settori e in tutti i segmenti i brand forti cercano di sfruttare premi di prezzo. Vi riescono ad esempio Mercedes Benz in quasi tutti i segmenti del settore automobilistico, Bang & Olufsen nei sistemi audio e video, Sony nel segmento degli apparecchi TV, Apple nei riproduttori di musica digitale, Lacoste nelle polo, Artemide nelle lampade per la casa e l’ufficio. Graficamente il posizionamento è rappresentabile attraverso mappe delle percezioni, che sintetizzano, a coppie, gli attributi rilevanti per il posizionamento stesso. Ad esempio, la Figura 13.1 mostra il posizionamento di diversi marchi di borse e accessori in pelle in base alla fascia di prezzo e all’immagine del prodotto (prodotto glamour vs. classico vs. casual). La mappa percettiva mostra chiaramente i gruppi di marchi con posizionamento simile (ad esempio Tosca Blu, Coccinelle, Furla e Biasia), che sono dunque concorrenti diretti. È importante sottolineare come la percezione di valore del prodotto, e dunque il suo posizionamento, non sia unicamente legata ad aspetti oggettivi di differenza rispetto alle offerte dei concorrenti, ma sia in buona parte determinata anche dall’immagine che l’impresa trasmette del suo prodotto. Ries e Trout (1981) sostengono che il posizionamento riguarda la “collocazione del prodotto nella mente del

13. La strategia di marketing ) 433

Figura 13.1 MAPPA DI POSIZIONAMENTO DEI MARCHI NEL MERCATO DELLE BORSE E ACCESSORI IN PELLE

Prodotti glamour Furla Coccinelle Tosca Blu Biasia

Nannini Cromia Brics Max & Co Liu Jo

Miù Miù Balenciaga Marni Moschino

Tod’s Valextra Krizia Gherardini Max Mara Alviero Martini

Fascia di prezzo bassa

Borbonese Mont Blanc Serapian

Prodotti classici Rossella Carrara The Bridge Kathy Van Zeeland Janet & Janet Pennyblack Carpisa Segue Benetton

Hermès YSL Chanel Dior Louis Vuitton Prada Gucci Fendi Ferrè Dolce&Gabbana Céline Bottega Veneta

Kipling

Fascia di prezzo alta

Piquadro Fedon Nava

Mandarina Duck Camomilla Peuterey

Prodotti casual

potenziale consumatore”, e che questa collocazione è largamente determinata dal modo con cui il prodotto o il marchio è comunicato. Tutte le leve del marketing mix devono essere configurate di conseguenza, per poter trasmettere al meglio l’immagine del posizionamento che è stato scelto. Agli inizi degli anni Ottanta, nel mercato dei personal computer, IBM si posizionava come massima autorità nel settore, e quindi vi era una difficoltà di posizionamento di prodotti alternativi sulla sola base di parametri oggettivi di valore. Il successo di Apple Macintosh fu in larga parte dovuto alla scelta di posizionamento e alla strategia attuata per comunicarlo. Il prodotto si collocò nella mente dei consumatori come personal computer di alta qualità, design innovativo e facile da utilizzare, una posizione non coperta da nessuno dei concorrenti di allora. Al successo di Macintosh contribuì in modo determinante la strategia di Apple volta a “deposizionare” IBM come leader tecnologico indiscusso del settore dei PC, in particolare presso alcuni segmenti target, come l’editoria e la pubblicità. In questi settori i clienti sostituirono presto IBM con Apple come riferimento tecnologico di avanguardia.

434 ) PARTE III – MARKETING

Come mostra questo esempio, un posizionamento consolidato del prodotto richiede molto sforzo e molto tempo per essere modificato. È dunque fondamentale scegliere e comunicare il corretto posizionamento del prodotto fin dalla sua prima introduzione nel mercato. Il Caso 13.1 illustra un esempio di posizionamento errato e successivo riposizionamento di successo. Il monitoraggio nel tempo del posizionamento del prodotto percepito dal cliente è fondamentale per poter indirizzare meglio o correggere le azioni di marketing.

CASO

13.1

Autobianchi Y10: posizionamento errato e riposizionamento L’Autobianchi, marchio storico dell’auto italiana, completamente assorbito già nel 1968 dal gruppo Fiat, lanciò ufficialmente la Y10 al Salone di Ginevra del 1985. L’auto aveva l’impegnativo compito di sostituire l’A112, che da quindici anni dominava le scene del mercato automobilistico con numerosi successi sportivi e di vendita. L’attenzione e l’interesse dimostrati dal pubblico al Salone di Ginevra non trovarono tuttavia riscontro nelle vendite. La Y10 aveva una linea e dei contenuti innovativi per i tempi. Le vendite furono però frenate da un posizionamento errato, troppo elevato e con prezzi giudicati troppo alti. I clienti disposti a spendere di più, pur di avere un’utilitaria elegante e ben accessoriata, erano ancora pochi. La Lancia/Autobianchi corse ai ripari e, nel gennaio del 1986, presentò la nuova gamma accompagnandola con una campagna mirata anche al pubblico femminile. La versione d’ingresso aveva ora una dotazione di serie più scarna e meno tecnologica, ma un’immagine di esclusività e di eleganza particolarmente centrate sul target femminile. A queste caratteristiche corrispose un prezzo più basso di circa un milione di vecchie lire, una riduzione molto consistente. Il successo non tardò a venire e per oltre un decennio la Y10 fu una delle auto più vendute nel mercato italiano. Uscì definitivamente dai listini nell’ottobre del 1996, sostituita dalla Lancia Y. Con essa scomparve anche il marchio Autobianchi, che per 30 anni era stato sinonimo di utilitarie eleganti. Auto che, assieme all’inglese Mini, modificarono il modo di concepire le vetture da città: non più lente e spartane, ma eleganti, confortevoli e comunque in grado di districarsi nel traffico cittadino e offrire prestazioni, comfort e sicurezza anche nei tragitti extraurbani. La Y10 in particolare riuscì, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, a conquistare un vasto pubblico fino ad arrivare ai volti noti dello spettacolo (molti ricorderanno ancora lo slogan pubblicitario: “piace alla gente che piace”). Fonte: www.omniauto.it.

Passiamo ora a esaminare le quattro leve del marketing mix. Per ciascuna di esse vengono discusse le diverse strategie adottate nelle varie fasi del ciclo di vita del prodotto: introduzione, crescita, maturità e declino. Il ciclo di vita, già introdotto nel capitolo 11 (paragrafo 11.4), rappresenta il modello di riferimento per analizzare la varietà

13. La strategia di marketing ) 435

di situazioni strategiche e di mercato con le quali le imprese hanno a che fare. Pertanto, con l’evolvere del ciclo di vita, le strategie di marketing cambiano e in particolare le quattro leve fondamentali del marketing mix devono essere modulate diversamente.

13.2

La definizione del prodotto/servizio Il primo problema nel definire e posizionare rispetto alla concorrenza l’offerta commerciale è quello di stabilire che cosa si vende, ovvero le caratteristiche del prodotto, servizio o prodotto/servizio che l’azienda offre ai propri clienti potenziali. Il prodotto/servizio è elemento centrale nella strategia di marketing, in quanto è attorno e in coerenza con esso che si sviluppano le altre leve del marketing mix, dal prezzo, alla comunicazione, alla scelta dei canali distributivi. Ma cosa si intende esattamente per prodotto? Come già visto in precedenza, il termine “prodotto” può in realtà essere utilizzato con accezioni molto diverse, a seconda di quale sia l’oggetto dell’azione di marketing. Vediamo dunque quali sono i possibili oggetti del marketing.

13.2.1

Gli oggetti del marketing Beni fisici. Il primo naturale oggetto dell’azione di marketing sono i beni fisici che un’impresa manifatturiera o commerciale vende ai suoi clienti. Automobili, elettrodomestici, spazzolini da denti, surgelati e mille altri beni di consumo che ciascuno acquista più o meno frequentemente, ma anche materie prime, componenti, macchinari, interi impianti che le imprese e le pubbliche amministrazioni acquistano per le loro esigenze produttive e di funzionamento. Servizi. Oltre il 70% del prodotto interno lordo dei Paesi avanzati è realizzato attraverso i servizi. Servizi di comunicazione, trasporto e distribuzione. Servizi bancari, finanziari e assicurativi. Servizi alla produzione, come la consulenza, i servizi legali, la manutenzione ecc. Servizi sociali come l’educazione, la sanità e la previdenza sociale. Servizi alla persona come il turismo, l’industria dello spettacolo e del tempo libero in generale, lo sport e i servizi domestici. Sempre più spesso le imprese che vendono beni fisici arricchiscono la loro offerta di servizi complementari, come già anticipato nel paragrafo 11.3.2. Esperienze. Proprio combinando efficacemente servizi di base e beni differenti, alcune imprese di fatto offrono ai propri clienti “esperienze” che suscitano emozioni e si fissano nella memoria. I parchi di divertimento a tema, un weekend a Eurodisney, una vacanza in un agriturismo o la visita a un museo della scienza interattivo si possono più facilmente definire esperienze che non singoli servizi. Il marketing

436 ) PARTE III – MARKETING

delle esperienze e delle emozioni richiede un linguaggio e una comunicazione particolari. Eventi. Torino 2006 (si veda il Caso 8.5), come ogni altra edizione dei giochi olimpici, ha richiesto un marketing accurato e globale. Gli eventi, siano essi concerti, manifestazioni fieristiche, congressi, forum o eventi sportivi, richiedono comunicazione, promozione e vendita, insomma intense attività di marketing. Luoghi e aree geografiche. Le comunità locali, le municipalità, i distretti industriali, le regioni e perfino intere nazioni cercano sempre più di proporsi come luoghi adatti e attrattivi per i clienti più diversi, siano essi persone e famiglie come turisti o investitori, oppure imprese. È il cosiddetto marketing territoriale. Il Trentino-Alto Adige e le province autonome di Trento e di Bolzano da anni sostengono con successo ingenti sforzi di comunicazione per sviluppare il turismo invernale e non. L’Irlanda è un esempio celebre di un Paese che nel giro di vent’anni si è sollevato da una condizione di arretratezza grazie anche a uno sforzo di marketing territoriale che è stato capace di attrarre insediamenti produttivi, centri di ricerca e headquarter di aziende multinazionali. La Costa del Sol e più recentemente la Croazia hanno attratto ingenti investimenti immobiliari dall’estero grazie a un marketing territoriale efficace. Persone. Nella società moderna i fenomeni del divismo e del culto dei personaggi sono in continua crescita e con essi le necessità di marketing e comunicazione dei personaggi stessi. I campi in cui questi fenomeni si manifestano non si limitano più allo sport e allo spettacolo, ma riguardano anche la politica e il mondo del business. Non sono più solo Madonna e David Beckham ad avere formidabili macchine organizzative per la comunicazione, le relazioni pubbliche, le consulenze di immagine ecc. Anche Tony Blair, Bill Clinton o Silvio Berlusconi, Jack Welch o George Soros curano intensamente il marketing di se stessi. Organizzazioni. Le organizzazioni cercano spesso di migliorare la propria immagine, talvolta anche senza l’obiettivo diretto di vendere prodotti o servizi. Già negli anni Novanta ENI investiva considerevolmente in iniziative di comunicazione volte ad accreditare un’immagine di azienda rispettosa dell’ambiente, pur operando in un business, quello degli idrocarburi, non proprio ecologico. I memorabili murales di Folon che hanno tappezzato Milano per anni miravano a questo e non certo ad aumentare le vendite di gas di un’azienda che operava in regime di quasi monopolio. Recentemente alcune università del nostro Paese, come già in uso all’estero, hanno iniziato a utilizzare tecniche e strumenti di marketing per migliorare la propria immagine, cercando di attrarre gli studenti migliori e i finanziamenti alla ricerca. Il WWF, Amnesty International e l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro sono organizzazioni che usano tecniche di marketing sofisticate per far conoscere ciò che fanno e raccogliere fondi per la loro causa. Il marketing

13. La strategia di marketing ) 437

delle organizzazioni può dunque riguardare imprese, organismi e istituzioni no profit. Idee. Molte azioni di marketing sono rivolte a promuovere idee, a lanciare messaggi o appelli. Ne sono un esempio le campagne televisive della Presidenza del Consiglio dei Ministri per sensibilizzare il pubblico giovane contro i danni delle droghe, dell’alcol o della guida in stato di ebbrezza. O anche le campagne a opera di ministeri e agenzie governative varie contro gli abusi e le violenze sulle donne e i minori o quelle in favore di diete con pochi grassi.

Offerta e sistema prodotto

Funzioni primarie

Qualità, estetica, packaging e brand

Occorre notare che sempre di più il confine tra le diverse categorie sopra descritte è sfumato e poco riconoscibile. Facendo riferimento principalmente alle prime due categorie, che sono più comunemente oggetto dell’azione di marketing, il mondo del design usa frequentemente il termine sistema prodotto per individuare una varietà di elementi che comprende prodotti fisici, servizi, significati, valori, immagini i quali, nel loro insieme, costituiscono l’offerta commerciale (si veda ad esempio Maldonado, 1991; Zurlo et al., 2002). Per comprendere come le strategie di marketing agiscono nel determinare il prodotto occorre analizzarne le componenti. Un prodotto è innanzitutto rivolto a soddisfare un determinato bisogno o desiderio, espresso, o molto spesso inespresso e implicito, di un cliente. Il cuore della definizione del prodotto consiste dunque nell’individuare il vantaggio essenziale che si vuole offrire al cliente, ovvero il bisogno o il desiderio da soddisfare. Il vantaggio essenziale prende forma nel prodotto essenziale, ovvero l’elemento centrale dell’offerta commerciale dell’azienda. Ad esempio, nel caso di un orologio da polso il vantaggio essenziale è legato alla funzione di segnare l’ora, nel caso di una penna a sfera alla capacità di scrittura. Al vantaggio essenziale vengono poi associati un insieme di elementi attraverso i quali il prodotto arriva a soddisfare effettivamente le aspettative del cliente, aggiungendo ulteriori elementi di convenienza, utilità o differenziazione: a questo insieme di elementi si dà il nome di prodotto tangibile. Si tratta in realtà sia di elementi materiali (ad esempio il packaging del prodotto), sia di elementi immateriali (la qualità del prodotto o la sua immagine). Generalmente sono quattro le tipologie di elementi che si affiancano al prodotto essenziale per comporre il prodotto tangibile: la qualità, ovvero l’insieme delle caratteristiche funzionali che permettono al prodotto di soddisfare le esigenze dei clienti; l’estetica, ovvero la componente di forma esteriore che assume il prodotto; il packaging, ovvero la confezione e gli imballaggi che contengono il prodotto; e, infine, il marchio associato al prodotto (Figura 13.2). Questi elementi possono di volta in volta giocare ruoli più o meno importanti nel soddisfare le esigenze dei clienti. Ad esempio, nel mercato industriale gli elementi di qualità e in alcuni casi il packaging giocano normalmente un ruolo più importante rispetto al marchio e all’estetica del prodotto che sono invece dominanti nei mercati dei consumatori.

438 ) PARTE III – MARKETING

Figura 13.2 I DIVERSI LIVELLI DI INDIVIDUAZIONE DI UN PRODOTTO Prodotto ampliato

Installazione Servizi post-vendita Packaging Condizioni di pagamento

Prodotto tangibile

Marca

Vantaggio essenziale Qualità Estetica

Tempi di consegna

Garanzia Prodotto essenziale

Consegna, after-sale e garanzia

CASO

Una dimensione della qualità – che è oggi sempre più importante in molti settori – è la personalizzazione del prodotto. Sempre più frequentemente i prodotti sono poi affiancati da servizi accessori che consentono di soddisfare un bisogno più complesso dei clienti, normalmente facendo riferimento alla sfera del contesto d’uso, ovvero il contesto e la situazione all’interno dei quali il prodotto viene utilizzato. Gli elementi che estendono il prodotto tangibile, che costituiscono il cosiddetto prodotto ampliato, sono i tempi e le modalità di consegna, i servizi di installazione, i servizi post-vendita, le condizioni di pagamento o le offerte di finanziamento, le condizioni di garanzia. Si tratta di un insieme di elementi che, benché non strettamente legati al prodotto, ne favoriscono l’acquisto e l’utilizzo. In realtà la sfera del prodotto ampliato si sta estendendo sempre più, fino a comprendere una serie di servizi ausiliari che integrano e modificano le funzionalità, i benefici e il concetto stesso di prodotto offerto. Il Caso 13.2 descrive l’esempio di iPod e iTunes di Apple, il sistema costituito dal lettore e dal servizio di distribuzione di musica digitale. Il caso mette in evidenza l’insieme degli elementi tangibili e intangibili che hanno permesso al sistema prodotto di essere protagonista di uno dei più grandi successi commerciali degli ultimi anni.

13.2

iPod e iTunes: un “sistema prodotto” integrato La rivoluzione digitale che ha trasformato negli ultimi anni la storia e il mercato della musica portatile è dominata da Apple con la sua famiglia di prodotti iPod e i servizi connessi offerti da iTunes.

13. La strategia di marketing ) 439 Nel 2001 Apple aggredisce il mercato dei lettori di musica portatili lanciando il primo iPod, lettore basato su una memoria hard disk in grado di supportare file in formato MP3 e AAC, standard adottato dall’impresa e protetto dal Digital Rights Management FairPlay. Inizialmente, il lettore si interfacciava solo con sistemi operativi Macintosh, ma a partire dal 2002 l’iPod diventa compatibile anche con Windows. Continuando a sviluppare nuove generazioni di lettori, nel 2004 viene introdotto l’iPod mini, versione più piccola ma sempre dotata di hard disk, e l’iPod photo, dotato di schermo a colori che permette di visualizzare immagini. Nel 2005 viene lanciato l’iPod video, che permette di visualizzare filmati. Nel gennaio 2005 Apple lancia l’iPod Shuffle, il suo primo lettore basato su memoria flash e privo di schermo, e nel settembre dello stesso anno l’iPod Nano, con maggiore capacità di memorizzazione, schermo a colori, minori dimensioni e peso minimo. Nel 2006 gli iPod Shuffle e Nano subiscono un redesign con potenziamento incrementale delle prestazioni. Nel 2007 viene lanciato il nuovo iPod Nano che offre anche la possibilità di visualizzare filmati e utilizzare videogames, oltre a riprodurre musica, così come la nuova versione dell’iPod classic. Sempre nel 2007 viene introdotto l’iPod Touch, con ampio touch-screen (come l’iPhone, il primo telefono Apple, lanciato lo stesso anno), che rivoluziona il sistema di interfaccia e permette non solo di riprodurre musica, foto e filmati, ma anche di navigare su Internet via WiFi e scaricare direttamente musica dalla rete. Successivamente il touch screen viene anche utilizzato nell’iPod Nano (2010). Una chiave essenziale del successo di iPod è da ricercarsi nel software di gestione delle librerie musicali denominato iTunes. Rispetto ad altri software simili, iTunes è di semplice utilizzo, continuamente aggiornato e progettato con evidente attenzione alle necessità di chi deve gestire un numero elevato di titoli in libreria. Il sistema viene fortemente ampliato e arricchito nel 2003, quando Apple crea iTunes Music Store: un servizio on line accessibile tramite il software iTunes, che vende musica in formato protetto a un prezzo modico, su un sito semplice da usare e dotato di un catalogo di più di 2 milioni di brani. Le musiche scaricate possono essere memorizzate sia sul computer sia sul lettore, ma hanno un formato protetto, che può essere letto solo da iPod. In questo modo il lettore e il servizio diventano intimamente collegati. Nel 2008 è stato lanciato anche il noleggio on line di film. La vendita on line diventa a tutti gli effetti parte integrante dell’offerta di Apple, che comprende il prodotto fisico (iPod), il prodotto virtuale (il software di gestione iTunes) e il servizio di delivery (iTunes Music Store) e si caratterizza quindi come un complesso sistema integrato di prodotto e servizio. Proviamo a leggere questo sistema prodotto in relazione ai vantaggi e alle funzionalità offerte. Il vantaggio essenziale è la possibilità di ascoltare la propria musica preferita in qualsiasi momento e in qualsiasi posto. Questo vantaggio è reso possibile dal prodotto tangibile, il lettore, che presenta funzionalità avanzate, caratterizzate dalla dimensione della memoria (e quindi il numero di brani, foto o video memorizzabili), dalla durata della batteria (e quindi il numero di ore di autonomia), ma anche dalla facilità di navigazione, ricerca e selezione dei brani o delle immagini/video, attraverso la tradizionale ghiera cliccabile o lo schermo touch. La forma e l’aspetto estetico di iPod non sono poi elementi di poca importanza. Apple è da sempre nota per la sua attenzione al design dei prodotti, e iPod non smentisce questa tradizione. La scelta dei colori, della forma, dell’ergonomia, del logo stesso sono il frutto di un design avanzato. Ma la possibilità di ascoltare la propria musica preferita non dipende tanto dal lettore, bensì dal servizio offerto da iTunes, ovvero la possibilità da un lato di convertire i CD in file digitali AAC, dall’altro di acquistare e scaricare sul lettore tutte le canzoni o i brani desiderati. Per garantire questa possibilità è anche necessario sviluppare un adeguato supporto, ovvero un formato e un software di protezione e codifica che permette di trasferire e utilizzare i file in modo esclusivo. Dunque la componente centrale dell’offerta è costituita da un complesso sistema prodotto-servizio (Figura 13.3). iPod (e in seguito iTunes) diventano ben presto un brand di grande successo, noto in tutto il mondo, anche grazie alle strategie di comunicazione utilizzate.

440 ) PARTE III – MARKETING

Figura 13.3 IL SISTEMA PRODOTTO-SERVIZIO ITUNES DI APPLE

Distribuzione iTunes

Supporto + DRM FairPlay

Lettore APPLE

Un brand è tale anche grazie ai simboli che usa e alla sua riconoscibilità. Apple è stata la prima a introdurre gli auricolari bianchi che sono diventati un segno distintivo. La comunicazione del prodotto, impostata sulla rappresentazione di silhouette nere su sfondo colorato, è stata studiata per mettere in risalto il bianco del prodotto e degli auricolari. iPod e iTunes diventano uno status symbol: grazie a una campagna commerciale mirata, Apple è riuscita a creare il senso di appartenenza a una comunità di giovani alla moda e attenti al design. La concessione in licenza del brand e le partnership con altri marchi di successo hanno poi permesso di estendere ulteriormente il sistema prodotto, che può essere complementato con più di 1.000 accessori, identificati dal logo Made for iPod (ad esempio le casse audio di Bose e di Altec Lansing e le custodie firmate Chanel, Christian Dior, Fendi e Gucci). Fonte: Manganaro e Moraldo (2004-2005); www.apple.com; www.wikipedia.org.

Abbiamo visto nel capitolo 11 che uno dei cambiamenti più significativi che riguardano il marketing è la crescente attenzione delle imprese ai temi della sostenibilità. È quindi importante comprendere dove si collochi la sostenibilità rispetto alle tre sfere di prodotto descritte sopra (prodotto essenziale, tangibile e ampliato). Essendo il concetto di sostenibilità piuttosto ampio e articolato, è anche diverso il ruolo che questa può avere nel qualificare il prodotto. In alcuni casi, è il prodotto essenziale a incarnare i valori della sostenibilità. Un pannello fotovoltaico, un veicolo elettrico o un sapone igienizzante di costo estremamente limitato, concepito per essere diffuso nelle popolazioni del terzo mondo (è il caso del sapone Lifebuoy di Unilever), sono tutti esempi di prodotti essenziali che nascono incorporando i valori stessi della sostenibilità, sia essa intesa nella dimensione ambientale o in quella sociale. In altri casi invece la sostenibilità diventa un elemento qualificate in un prodotto tangibile, legato alla dimensione della qualità – intesa in senso ampio, del packaging o del valore del brand. Ad esempio un prodotto realizzato con un processo produttivo più “pulito” o con materie prime ottenute da fonti più “sostenibili”, o un prodotto che uti-

13. La strategia di marketing ) 441

Differenziazione dei servizi

lizza packaging contenenti meno materie prime (ad esempio un barattolo di marmellata con meno vetro) o più facilmente riciclabili o più sostenibili (ad esempio un packaging realizzato con cartone riciclato) assume connotati di maggiore qualità per il cliente rispetto a prodotti tradizionali. Allo stesso tempo, un’azienda che sviluppa programmi orientati al benessere e alla qualità di vita dei propri lavoratori, che dedica parte delle proprie risorse per sostenere iniziative filantropiche, che si impegna in modo significativo per la riduzione del proprio impatto ambientale costruisce il valore del proprio brand intorno alla sostenibilità e, grazie a questo, lo rende più attrattivo per una parte del mercato potenziale. Unilever ha seguito specificamente questa strategia, nel momento in cui è passata da un insieme di brand di prodotto piuttosto noti (da Algida, Lipton o Coccolino), ma difficilmente riconducibili dal cliente medio al marchio Unilever, a una strategia di brand aziendale, associando al lancio di quest’ultimo un ambizioso progetto di sostenibilità, denominato Unilever Sustainable Leaving Plan. Infine, la sostenibilità può diventare una componente aggiuntiva che caratterizza il prodotto allargato. Il fatto che il prodotto venga ritirato dal produttore al termine della vita utile, o che il produttore consigli al cliente le modalità corrette per lo smaltimento, o il migliore utilizzo per ridurre i consumi energetici sono solo alcuni esempi di servizi ausiliari che aumentano il valore del prodotto attraverso la leva della sostenibilità. In modo analogo a quanto visto per i prodotti, anche i servizi possono essere individuati a livelli diversi di aggregazione. Generalmente si distingue un servizio essenziale, o core, un insieme di servizi (e prodotti) di facilitazione, e un insieme di servizi ausiliari (Grönroos, 1994). Il servizio essenziale di una compagnia aerea è il trasporto, che ha però bisogno di un servizio di prenotazione e di check in per poter essere erogato. Oltre a questo, una compagnia aerea può offrire tutta una serie di servizi ausiliari quali le sale di attesa, i rinfreschi o i pasti a bordo, i giornali o i magazine offerti ai viaggiatori, i vantaggi e i premi per i frequent flyers e così via. Questi elementi costituiscono le principali dimensioni di differenziazione per le aziende. L’esempio ci suggerisce come le strategie di definizione del servizio in un settore possono essere molto diverse; ad esempio una compagnia come Virgin Atlantic offre, accanto a un servizio principale di buona qualità, anche numerosi servizi ausiliari, quali sale di aspetto con la possibilità di farsi una doccia, servizi di massaggio, trattamenti di bellezza, sale musica, servizio bar, sedili completamente reclinabili sugli aeromobili, un’ampia offerta di prodotti per lo shopping in volo, un programma fedeltà con premi e vantaggi per gli associati e così via. Viceversa compagnie low cost come Ryanair o EasyJet offrono quasi esclusivamente il servizio essenziale e i servizi di facilitazione strettamente necessari (ad esempio il check in non prevede l’assegnazione del posto), limitando al minimo i servizi aggiuntivi. Queste due compagnie si rivolgono a segmenti di mercato molto diversi da quelli di Virgin Atlantic.

442 ) PARTE III – MARKETING

A causa dell’immaterialità dei servizi, occorre spesso definire con chiarezza il “contenuto di servizio” in fase di offerta o di contrattazione. I cosiddetti service level agreement (SLA), introdotti nel capitolo 5, sono molto usati nei servizi industriali. Si tratta di accordi che dettagliano i contenuti del servizio, i tempi massimi di consegna o di erogazione, le garanzie di intervento e di supporto. Questi strumenti aiutano il fornitore a comunicare un’offerta di valore ai potenziali clienti. Come già ricordato nel capitolo 11 (paragrafo 11.3.2), in molti settori la differenza tra prodotto e servizio sta diventando sempre più sottile e difficile da individuare. I beni fisici che costituiscono il prodotto tangibile tendono spesso a passare in secondo piano, fino a uscire dall’offerta commerciale, che si concentra invece sui servizi, i quali ampliano il prodotto e sono volti a rispondere direttamente all’esigenza del cliente senza che questo diventi proprietario dell’oggetto fisico che gli consente di ottenere tale vantaggio. Si tratta del cosiddetto fenomeno della servitization già accennato nel capitolo 11, ovvero la trasformazione di molti settori di prodotto in settori di servizio. Due esempi ci aiutano a comprendere il fenomeno (Caso 13.3).

CASO

13.3

Esempi di servitization Rolls-Royce: il servizio “Power By The Hour” Rolls-Royce produce sistemi di propulsione e turbine a gas per quattro settori: aeronautica civile e militare, motori marini ed energia. A oggi l’azienda ha installato 61.000 turbine a gas nel mondo e ha un parco clienti molto ampio in più di 120 Paesi. L’ampia base di motori installati ha richiesto all’azienda di porre al centro del business la fornitura di un articolato portafoglio di servizi. La strategia dell’azienda è quella di massimizzare il fatturato delle attività di servizio, che è cresciuto negli ultimi anni più del 60%. La dichiarazione di posizionamento di Rolls-Royce è di essere Trusted to deliver excellence, ovvero di conquistare la fiducia dei clienti per i livelli di eccellenza offerti. L’azienda vuole estendere la sua eccellente reputazione nei prodotti world-class alla fornitura di soluzioni di servizio per i propri clienti. Uno degli strumenti più importanti che ha sviluppato per perseguire questa mission è un programma di manutenzione completo, denominato “Power By The Hour”. La potenza di questo concetto è tale da aver spinto l’azienda a registrare il marchio. Il programma Power By The Hour, disponibile per molte tipologie di motori Rolls-Royce, fornisce al cliente un servizio di manutenzione con un costo fisso per un periodo di tempo esteso. In altre parole, l’azienda assicura all’operatore la funzionalità del motore per un certo numero di ore di funzionamento, senza dover incorrere in costi imprevisti e in attività di manutenzione non programmate. Fonte: www.rolls-royce.com.

ALD Automotive: il servizio di noleggio a lungo termine ALD Automotive è una multinazionale del gruppo Société Générale, leader nel settore del noleggio a lungo termine e della gestione di flotte auto aziendali. È presente in 37 paesi europei ed extraeuropei, con più di 4.100 dipendenti dedicati alla gestione di oltre 900.000 veicoli. In

13. La strategia di marketing ) 443 Italia opera dal 1981 e oggi, con 450 dipendenti, gestisce il parco auto di oltre 17.000 clienti con 97.000 utilizzatori. ALD Automotive acquista e gestisce il parco auto dei propri clienti, occupandosi dei costi e delle pratiche relative all’immatricolazione, alla messa su strada, all’assicurazione, alla tassa di proprietà, alla manutenzione, ai sinistri, alle auto in sostituzione, alla rivendita dell’usato e al relativo passaggio di proprietà. I clienti possono scegliere anche l’opzione Fuel Card, che permette di includere nel noleggio il costo previsto per i rifornimenti di carburante. In sintesi, il noleggio a lungo termine soddisfa il bisogno di trasporto sostituendo la proprietà dei veicoli con la fornitura di un servizio completo di gestione della flotta. La ricchezza del servizio offerto, affiancata dai vantaggi finanziari legati all’esborso graduale delle rate di affitto rispetto a quello richiesto in caso di acquisto, stanno rendendo attrattiva questa offerta anche per il consumatore finale. ALD si sta dunque orientando anche a questo nuovo mercato con un’offerta pensata su misura per i liberi professionisti. Fonte: www.aldautomotive.it.

13.2.2 Competizione e valore dell’offerta

Opportunità di differenziazione

Gli elementi di differenziazione dei prodotti e dei servizi L’offerta di marketing, costituita dalla commistione di beni tangibili e servizi descritta nel paragrafo precedente, è volta a soddisfare il cliente fornendogli un valore (paragrafo 11.2). Il valore è misurabile in relazione alla qualità e al servizio fornito – che generano benefici funzionali ed emotivi – rapportati al costo sostenuto. Le aziende ricercano vantaggi competitivi trovando sempre nuovi modi per differenziare la propria offerta da quella dei concorrenti, ovvero scegliendo una combinazione di elementi che supera in termini di valore quella delle altre imprese. Non tutti i settori forniscono le stesse opportunità di differenziazione. In alcuni casi, ad esempio le cosiddette commodity, i prodotti sono altamente omogenei, per cui la differenziazione non può essere giocata sul prodotto tangibile ma deve essere portata su piani diversi. Negli altri casi un primo importante elemento di differenziazione riguarda proprio il prodotto tangibile o i servizi di facilitazione, e in particolare le loro caratteristiche e prestazioni di qualità. Le caratteristiche di un prodotto o di un servizio fanno riferimento alle funzionalità aggiuntive che esso offre rispetto al prodotto base: un dentifricio che promette anche un’azione sbiancante offre ad esempio una funzionalità aggiuntiva a quella base, caratteristica degli altri dentifrici. Analogamente, un pannello di segnalazione dello stato del traffico su un’autostrada offre un servizio aggiuntivo rispetto a quello base, che è il collegamento stradale rapido tra due luoghi. La scelta di come differenziare i prodotti deve partire dalla considerazione del modello di valore del cliente, ovvero dalla comprensione di quelli che sono gli attributi del prodotto o del servizio che generano una maggiore percezione di valore. Le aziende devono compiere analisi accurate al fine di verificare che le funzionalità aggiuntive creino un valore per il cliente superiore al

444 ) PARTE III – MARKETING

Qualità tangibile vs. qualità percepita

Dipendenti soddisfatti, clienti meglio serviti

Mistery client

costo necessario per ottenerle. Le tecniche di analisi del valore hanno proprio questo obiettivo (si veda in proposito Sato e Kaufman, 2004). Le prestazioni di qualità dei prodotti ne misurano la capacità di soddisfare le esigenze espresse o implicite del cliente. Come già ricordato nel capitolo 5, la qualità è una prestazione multidimensionale, che può fare riferimento al progetto del prodotto, al livello di conformità, all’affidabilità, alla manutenibilità o al servizio e all’assistenza connessi al prodotto (si passa in questo caso alla sfera del prodotto allargato). La qualità effettiva di un prodotto/servizio può in alcuni casi scostarsi anche in modo significativo rispetto alla qualità percepita, ovvero alla qualità attribuita in modo soggettivo dal cliente in base alla sua esperienza del prodotto. Questa differenza risulta particolarmente significativa per i servizi, per i quali gli elementi di soggettività di valutazione sono spesso più numerosi rispetto al caso dei prodotti, caratterizzati da maggiore tangibilità e stabilità. I modelli di misurazione della customer satisfaction, quali ad esempio il Servqual descritto nel capitolo 5, evidenziano quali sono i fattori che influiscono sulla percezione della qualità di un servizio da parte del cliente. Livelli elevati di soddisfazione del cliente richiedono un atteggiamento positivo da parte dei dipendenti delle imprese di servizio. Numerosi studi empirici hanno infatti dimostrato una forte correlazione tra la soddisfazione dei dipendenti e il livello di servizio offerto dall’impresa (si veda ad esempio Heskett, Sasser e Schlesinger, 1997). In questo senso, soprattutto per le aziende di servizi, le persone possono diventare un elemento fondamentale di differenziazione, e le politiche di gestione del personale diventano centrali rispetto all’ottenimento della qualità. Ad esempio, al fine di perseguire la soddisfazione del cliente, MediaWorld, catena leader nella distribuzione di elettronica di consumo, ha attuato un insieme di politiche volte a sviluppare un personale di vendita con elevate competenze tecniche ed eccellenti doti di relazione con il cliente. Dopo l’assunzione, i venditori partecipano a numerose attività di formazione sulle tecniche di vendita, sul comportamento organizzativo e sulla conoscenza specifica dei prodotti. L’azienda ha anche definito un insieme di regole volto a disciplinare e dare indicazioni al personale al fine di ottenere un’assistenza e un atteggiamento verso il cliente omogenei in tutti i punti vendita. La valutazione della qualità del servizio offerto viene effettuata attraverso un apposito indicatore che misura la capacità di convertire i visitatori in clienti. Inoltre l’impresa utilizza la tecnica dei mistery client – ovvero consulenti esperti nella valutazione della customer satisfaction che si presentano nei punti vendita senza svelare la loro identità, bensì nelle vesti di clienti ordinari per sperimentare e valutare il livello di servizio offerto. Nel contempo viene misurata anche la soddisfazione dei dipendenti, nella consapevolezza che un dipendente soddisfatto può più facilmente creare clienti soddisfatti. Anche l’estetica – o stile – del prodotto può costituire un importante

13. La strategia di marketing ) 445 Estetica e stile

Forma, significato e design

13.2.3

Le promesse del brand

elemento di differenziazione. Lo stile fa riferimento alla forma esterna o agli elementi estetici del prodotto o del servizio. In questo secondo caso si fa riferimento prevalentemente agli elementi tangibili del servizio, quali l’ambiente in cui viene erogato – la sala di un ristorante o gli uffici di uno studio legale –, o i beni tangibili che si accompagnano al servizio – ad esempio la tessera magnetica che funziona da bancomat o carta di credito per un servizio di pagamento. Per gli abiti di Armani, i computer di Apple, le lampade di Artemide, l’arredamento dei bar concept di illycaffè (si veda il Caso 13.4) o l’insieme di attrazioni, giochi e spazi di Eurodisney la componente estetica gioca sicuramente un ruolo importante nella differenziazione. Spesso una componente importante dell’estetica o dello stile del prodotto è la confezione. Si pensi ad esempio al ruolo della confezione per i prodotti cosmetici e di profumeria, o all’importanza della celeberrima forma della bottiglia di Coca-Cola per l’affermazione dell’immagine di questo prodotto. I concetti di stile ed estetica sono in qualche modo inclusi e superati dal concetto di design, ovvero dall’insieme delle funzionalità, delle caratteristiche di forma e dei significati del prodotto che permettono di soddisfare le esigenze del cliente. I prodotti e servizi ricordati sopra per la loro valenza estetica sono in realtà prodotti di design, ovvero sistemi prodotto che soddisfano bisogni del mercato attraverso prestazioni funzionali e significati ottenuti grazie alle caratteristiche tecniche e ai linguaggi utilizzati. Proprio per questa importanza dei linguaggi, simboli e messaggi che arricchiscono il valore del prodotto/servizio per il cliente, il design non è limitato al solo binomio function and form che si ritrova nella letteratura anglosassone (ad esempio Dumas e Mintzberg, 1989), ma si estende alla sfera dei significati, all’identità del prodotto, allo status e ai valori ad esso associati.

Il brand Il brand, o marca, è uno degli strumenti più potenti a disposizione di un marketing manager per differenziare un prodotto, per renderlo riconoscibile in mezzo a molti altri apparentemente simili. Una commodity come una banana è semplicemente un prodotto. Nel momento in cui viene applicato un “bollino blu” il prodotto viene associato al brand Chiquita, e in questo modo si differenzia rispetto agli altri grazie all’associazione di un’immagine di qualità, freschezza e anche “integrità estetica” che la marca si porta dietro. Un brand è dunque una promessa di fornire all’acquirente un determinato insieme di attributi, di benefici e di servizi in modo continuativo e coerente. Un brand è definito come “un nome, un termine, un design, un simbolo, o un qualsiasi altro elemento che ha lo scopo di identificare i beni o i servizi di un venditore per differenziarli da quelli dei concorrenti” (American Marketing Association, www.marketingpower.com). Procter & Gamble fu la prima azienda a riconoscere il potere e l’importanza dei brand e a introdurre il brand management come elemen-

446 ) PARTE III – MARKETING

I brand più noti

to centrale del marketing. Il brand estende la protezione legale che già è permessa dai brevetti e dai trademark a tutto ciò che ha importanza per il consumatore: la qualità, la prestazione, il valore e la costanza nel tempo di questi elementi. Con una differenza fondamentale: che i brand possono essere utilizzati in modo esclusivo da un produttore per un periodo di tempo indefinito. Quali sono oggi i brand più conosciuti al mondo? Ogni anno Interbrand stila una classifica delle 100 marche di maggior valore al mondo, stimando il valore creato dal brand, ovvero degli utili che il brand è in grado di generare per il futuro (www.interbrand.com). Le prime 10 per il 2011 sono: Coca-Cola, IBM, Microsoft, Google, General Electric, McDonald’s, Intel, Apple, Disney e HP. I brand italiani fra i primi 100 in classifica sono Gucci, Armani e Ferrari. Il valore economico di un brand come quello di Coca-Cola è valutato da Interbrand pari a 72 miliardi di dollari. È interessante notare che a partire dal 2012 Interbrand, in collaborazione con Deloitte Touche Tohmatsu, ha iniziato a stilare una classifica anche per i brand “verdi”, sulla base del valore non solo economico ma di sostenibilità. Al top della classifica vi sono Toyota, Johnson & Johnson, Honda, Volkswagen e HP. I brand forti comunicano sempre valori precisi. Volvo ha costruito negli anni un’immagine inestricabilmente legata alla sicurezza passiva e attiva della guida. IKEA è un brand immediatamente associato al fai da te, all’economicità, ai materiali naturali, al design scandinavo. Il marchio Nutella evoca in tutto il mondo la soddisfazione della golosità in un contesto domestico, familiare, di relax e di allegria ma assume anche, quando necessario, valenze consolatorie per i momenti di tristezza. Questo fenomeno è presente anche nei mercati industriali. Caterpillar, leader mondiale nel settore delle macchine per il movimento-terra, ha costruito un’immagine di marca così forte che la parola è diventata sinonimo di bulldozer potente, affidabile e indistruttibile, e addirittura il termine viene utilizzato in senso metaforico. Nel settore dei trasporti espressi DHL e Federal Express sono marchi che evocano immediatamente celerità, precisione e puntualità nella consegna. “Mandare un DHL” è una locuzione utilizzata per indicare l’invio rapido di documenti. Addirittura negli Stati Uniti è entrato nel linguaggio comune il neologismo to fedex. Infine, la marca e la sua forza non sono necessariamente collegate a prodotti e servizi di lusso o di fascia superiore. McDonald’s, uno dei marchi più noti e forti al mondo, è associato a un’esperienza e un cibo certamente economici. Analogamente IKEA è un marchio anch’esso molto forte, eppure associato a prezzi economici. Tutte le imprese lottano continuamente, o dovrebbero farlo, per costruire e mantenere un’immagine forte della marca. Come si forma il valore di una marca? Da che cosa discende il differenziale positivo che la marca determina sui clienti, portandoli a preferire quel prodotto? L’esempio di illycaffè, descritto nel Caso 13.4, ci permette di comprendere il complesso intreccio di elementi che costituiscono un brand di successo.

13. La strategia di marketing ) 447

CASO

13.4

illy: la cultura del caffè Fondata nel 1933 da Francesco Illy a Trieste, illycaffè produce e vende in tutto il mondo un’unica miscela di caffè composta da nove varietà di pura Arabica per la preparazione di caffè espresso. Con un fatturato che nel 2010 ha superato i 300 milioni di euro e una struttura distributiva che copre 140 Paesi nel mondo, illycaffè è una delle aziende leader nel campo della produzione e commercializzazione di caffè per espresso. Considerato per decenni una commodity sostanzialmente indifferenziata, il caffè ha mostrato negli ultimi anni la tendenza ad assumere caratteristiche di prodotto differenziabile. Uno studio sulla distribuzione inglese evidenzia come il più grande retailer del Paese venda 96 tipi diversi di caffè. Per i caffè tostati la differenza di prezzo tra le diverse tipologie arriva fino a 12 volte. La possibilità di differenziazione risiede innanzitutto nelle caratteristiche organolettiche del prodotto e nel conseguente gusto e aroma della bevanda. Tali caratteristiche dipendono da una serie di fattori legati sia al tipo di materie prime utilizzate (varietà di piante, caratteristiche climatiche del luogo di coltivazione ecc.), sia ai processi usati per ottenere la miscela, alle modalità di raccolta e trattamento dei chicchi, al trasporto, alla tostatura e così via. Il caffè però sta anche diventando sempre più un “prodotto di posizionamento”, ovvero un prodotto a cui è associata una determinata immagine, una determinata categoria di consumatori che lo utilizzano, un determinato contesto sociale a cui si riferisce. Di conseguenza, notevoli investimenti sono stati effettuati nel settore per promuovere lo sviluppo di brand di successo a cui venga riconosciuto un differenziale e, di conseguenza, un premio di prezzo. illycaffè ha seguito questo percorso, costruendo un brand forte incentrato sui valori della qualità e della cultura, costruiti attraverso l’arte e la scienza. La strategia di illycaffè è ben definita dalla sua mission: Grazie al nostro entusiasmo, al nostro lavoro in team e ai nostri valori, vogliamo deliziare tutti coloro che, nel mondo, amano la qualità della vita, attraverso il migliore caffè che la natura possa offrire, esaltato dalle migliori tecnologie nonché dall’emozione e dal coinvolgimento intellettuale che nascono dalla ricerca del bello in tutto quello che facciamo. I pilastri per il raggiungimento di questa mission sono prevalentemente due: • da un lato, l’attenzione e la tensione continua verso l’eccellenza qualitativa del prodotto; • dall’altro, l’associazione del brand a tutto ciò che è arte e cultura. Per ottenere l’eccellenza qualitativa, illycaffè dedica attenzione a ogni fase della produzione, dalla selezione dei chicchi di caffè fino alla ricerca della forma più appropriata della tazzina per gustare l’aroma, dai processi industriali alla definizione di un ambiente appropriato di consumo, il “bar ideale”. Fin dalle origini l’azienda si caratterizza per la sua capacità innovativa e la sua leadership tecnologica. Nel 1935 Francesco Illy inventa la prima macchina per caffè automatica che sostituisce l’aria compressa al vapore: la illetta, progenitrice delle attuali macchine per caffè espresso. Concepisce inoltre un sistema di conservazione della miscela attraverso l’introduzione di gas inerte all’interno del barattolo: la pressurizzazione. Ancora oggi illy è una società fortemente orientata all’innovazione. Oltre alla funzione Ricerca & Sviluppo Tecnologico dispone di quattro laboratori di ricerca: AromaLab, dedicato a studiare i singoli aromi che un caffè può possedere e a determinare la varietà di piante che esprimono gli aromi più positivi; SensoryLab, dedicato agli studi sulla fisiologia del gusto e dell’olfatto e all’analisi sensoriale degli alimenti; TechLab, dove gli studi di AromaLab e SensoryLab trovano applicazione in tecnologie e soluzioni nuove, che migliorano continuamente il blend per l’espresso e i processi di produzione; BioLab, dedicato allo studio dei diversi aspetti della biologia del caffè, dalle caratteristiche della pianta alla sua interazione con il cli-

448 ) PARTE III – MARKETING ma e l’ambiente. La ricerca di illy si avvale inoltre di una vasta rete di collaborazioni esterne costituita da università, istituti di ricerca di rilevanza internazionale e imprese di elevato livello tecnologico. Per rinforzare la sua immagine di azienda orientata all’innovazione, illycaffè ha patrocinato, in collaborazione con la Third World Academy of Sciences (TWAS) e altre istituzioni, il “TriesteSciencePrize”, poi rinominato “Ernesto Illy Trieste Science Price”, un riconoscimento volto a premiare emeriti scienziati provenienti dai Paesi in via di sviluppo. Nel tentativo di estendere la qualità e la soddisfazione del cliente al di là del semilavorato, la miscela di caffè, fino al prodotto finito, ovvero il caffè consumato al bar o in casa, illycaffè lancia nel 1992 un progetto per lo sviluppo di una forma esclusiva di tazzina che potesse esaltare gli aromi della miscela illy. Progettata “nuda” da Matteo Thun, è diventata poi la base per le famose illy collection, tazzine interpretate e dipinte da artisti giovani o già affermati, con fantasia e con il desiderio di trasferire personali suggestioni visive. Nel 2006 il progetto di “Arte accessibile” viene esteso a un altro elemento iconico, il barattolo in metallo da 250 grammi. In linea con lo stesso principio, illy sviluppa il design degli illy bar concept (arredamento, allestimenti, accessori ecc.) per migliorare l’ambiente in cui si gusta il caffè illy. A partire da questo avvicinamento con l’arte, la cultura e il design, illycaffè disegna negli anni una strategia coerente di associazione del proprio brand con eventi e iniziative artistiche e culturali, sviluppando una comunicazione istituzionale molto mirata (nel paragrafo 13.5 si descriverà il ruolo di questa leva nell’ambito del marketing mix). Tra le innumerevoli attività di collaborazione e sponsorizzazione ricordiamo solo alcuni esempi: • illycaffè costituisce una partnership con Danese, uno dei marchi storici del design italiano, con l’obiettivo di sviluppare accessori per il consumo del caffè con particolare riferimento al contesto dell’ufficio. Da questa collaborazione sono nati i progetti di due vassoi firmati da Enzo Mari, il vassoio Riflesso per l’area direzionale e il vassoio Paletta per il trasporto e il servizio di caffè con accessori monouso. Dalla stessa attenzione al design nasce anche la macchina per il caffè da ufficio TTower; • illycaffè ha da sempre utilizzato la comunicazione integrata come fondamentale leva strategica. I suoi messaggi pubblicitari comunicano fortemente i valori dell’azienda e il legame con l’arte e la cultura. Significativa è la campagna stampa del 2005, realizzata con le foto in bianco e nero di Sebastião Salgado, tratte dal progetto “In Principio”, che raffigurano la vita dei coltivatori di caffè e dei lavoratori delle piantagioni di diversi Paesi (Brasile, India, Etiopia). La campagna è ispirata ai valori dello sviluppo sostenibile che per illy rappresenta un principio fondamentale e il mezzo attraverso il quale ha scelto di mantenere il proprio primato qualitativo. Per le campagne televisive illy ha spesso scelto interpreti e registi di eccellenza, da Eduardo De Filippo a Francis Ford Coppola; • il progetto In Principio è anche l’occasione per realizzare un ciclo di mostre fotografiche in diverse città d’Italia, per promuovere gli stessi valori e principi, e associarli alla cultura del bello e dell’arte. illycaffè promuove e sostiene numerose altre manifestazioni artistiche, quali ad esempio la Biennale di Venezia e il Festivaletteratura; • l’azienda ha costituito un houseorgan, illywords, che ha l’obiettivo di fornire punti di vista e testimonianze di artisti, designer e personaggi noti su alcuni temi di rilievo. Il magazine viene distribuito durante le più importanti occasioni della cultura, del design e dell’arte a cui illy partecipa in tutto il mondo e nei bookshop di alcuni dei maggiori musei del mondo, oltre che in tutti i bar illy; • illy ha aperto a New York, a Milano, a Trieste, a Berlino e a Istanbul le Gallerie illy, luoghi dedicati ad accogliere sistemi di eventi (incontri, performance, corsi e degustazioni a cura dell’Università del Caffè), offrendo l’opportunità unica di un incontro con la passione per l’arte, la bellezza, la cultura e il gusto. A questo sistema di eventi partecipano personaggi del mondo dell’arte, della scienza, della letteratura, del design e dell’enogastronomia;

13. La strategia di marketing ) 449 • a cavallo tra arte e sostenibilità illy crea nel 2007 illy sustainArt, una rete per sostenere e rendere visibili artisti, curatori internazionali e professionisti del mondo dell’arte con attenzione particolare ai paesi in via di sviluppo e ai paesi produttori di caffè; • dal 2002 illy è partner del Festivaletteratura di Mantova (e dei festival gemelli di Berlino e Hay-on-Wye nel Galles), e dal 2003 della Biennale di Venezia. Fonte: www.illy.com; Dell’Era e Marchesi (2005).

Osservando i fattori che hanno portato al successo il brand illycaffè, si possono riconoscere diversi livelli di significato associati alla marca: • gli attributi tipici del prodotto che possiede quel brand, ovvero la qualità e l’aroma del caffè illy; • i benefici o vantaggi funzionali o psicologico-emotivi che derivano dall’utilizzo del prodotto, ovvero il piacere del buon caffè e il valore sociale e relazionale della pausa caffè; • i valori del produttore, dalla ricerca dell’eccellenza qualitativa, all’etica e alla sostenibilità del business; • la cultura associata al prodotto e al brand, in questo caso dalla cultura del caffè all’amore per la cultura e l’arte in generale; • la personalità comunicata dal brand; • infine, le caratteristiche dell’utente che utilizzerà il prodotto. Tutti questi elementi vengono associati dai consumatori ai prodotti in modo più o meno consapevole, attraverso le loro sensazioni e percezioni rispetto all’esperienza del prodotto e all’insieme di messaggi e immagini associate al prodotto e al brand. L’abilità del marketing consiste nell’indirizzare e nello stimolare questi processi di creazione di percezioni intorno al marchio nel modo desiderato, scegliendo le azioni di marketing più corrette a tal fine. L’immagine del brand che si forma nella mente del consumatore può fare riferimento a uno dei diversi livelli sopra ricordati. I marchi di maggior successo sono quelli associati a valori e cultura, piuttosto che ad attributi o benefici specifici, in quanto i primi possiedono caratteristiche di maggiore unicità e minor imitabilità. Alcuni esperti del settore sostengono anche che l’era dei brand si stia in qualche modo esaurendo (Roberts, 2004; Gobé, 2001), a causa dell’esposizione troppo elevata dei consumatori a un’innumerevole quantità di marchi, e a seguito della crescente consapevolezza e razionalità con la quale i consumatori acquistano i prodotti. Il vero successo per le imprese deriva dunque dalla capacità di costruire dei lovemark (Roberts, 2004), ovvero marchi fortemente basati sul livello emozionale, che generano nei consumatori sensazioni e reazioni al di là della razionalità, simili a quelle che si provano in una relazione amorosa. Alcuni esempi tratti direttamente dalle affermazioni dei consumatori, chiamati a individuare quelli che per loro costituiscono lovemark

450 ) PARTE III – MARKETING

Suscitare emozioni

In contatto con gli “entusiasti”

Non solo comunicazione ma esperienza

(facendo riferimento ad aziende o prodotti), sono: IKEA, iPod, Apple, Barbie, Twinings, Absolut Vodka, Technics, Bulgari, Birkenstock, Snaidero, Google, Pampers, Concorde, Pirelli, United Colors of Benetton, Enel, Armani (Roberts, 2004; www.lovemarks.com). Come si afferma un brand? La creazione del marchio dei prodotti avviene prima di tutto attraverso scelte coerenti sulla qualità e le caratteristiche del prodotto esteso. In secondo luogo, occorre definire una strategia di comunicazione e di contatto con il cliente coerente con le caratteristiche, i benefici e i valori che si vogliono associare a esso (si riprenderà più nel dettaglio il ruolo della comunicazione aziendale per affermare i brand). Per suscitare emozioni, i messaggi e le comunicazioni dovrebbero operare il più possibile su tre componenti: il mistero (icone, miti, storie...), la sensorialità (profumi, gusti, suoni...) e l’intimità di relazione con il cliente. Esempi di strumenti frequentemente utilizzati per promuovere o supportare i brand sono: le relazioni pubbliche, le sponsorizzazioni, il marketing di eventi, l’utilizzo di testimonial, il sostegno di cause sociali, la realizzazione di strutture o opere pubbliche. Nel caso illycaffè (Caso 13.4) ritroviamo tutti questi elementi. Nel paragrafo 13.5 torneremo in dettaglio sul mix della comunicazione. Gioca dunque un ruolo fondamentale la costruzione di una cultura aziendale che condivida la passione per il marchio a tutti i livelli e che permetta ai consumatori di venire in contatto con persone “entusiaste” del brand a ogni livello. Elementi importanti per creare identità di marca sono anche il nome, i colori, gli slogan e i simboli associati al brand. Ad esempio, Adecco, con la sua scelta di sponsorizzare nel 1999 la Pallacanestro Olimpia Milano, successivamente Armani Jeans Milano, in quel momento una delle squadre di maggior successo e innovatività di gioco nel panorama italiano, non solo ha voluto sottolineare l’associazione del marchio con lo sport e i valori che esso richiama (dinamismo, flessibilità, impegno, responsabilità, lavoro di squadra), ma ha anche colto l’occasione per rafforzare la sua identità di marca grazie ai colori rosso e bianco che accomunano il brand Adecco e la squadra di Milano. In alcuni casi le aziende hanno scelto di costruire l’identità di marca prima ancora di far uscire il prodotto sul mercato. Alcuni esempi sono quelli dell’operatore telefonico Blu e del service provider Supereva. In entrambi i casi le affissioni e le campagne pubblicitarie su televisione e stampa sono comparse prima del lancio dei servizi sul mercato, senza nessun riferimento al contenuto dell’offerta dell’azienda, con l’obiettivo di creare aspettativa e mistero rispetto a un brand che sarebbe stato poi associato a un servizio. È però importante sottolineare che i brand non possono essere costruiti unicamente con la pubblicità e la comunicazione. La modalità più importante di costruzione dei brand, e in particolare dei lovemark, è l’esperienza della marca fatta dal consumatore. I club e le associazioni di consumatori “appassionati” del prodotto diventano poi un veicolo fondamentale per diffondere la notorietà e la passione per la marca ad altri consumatori, come nel caso dell’owners group

13. La strategia di marketing ) 451

Prodotti senza marchio

Marchi altrui

13.2.4

Linee di prodotto e gamma

delle motociclette Harley Davidson (www.hog.com) o del club di appassionati del Lego (www.lugnet.com). Non tutte le aziende decidono di associare ai propri prodotti una marca. Da un lato infatti molte catene della grande distribuzione affiancano ai prodotti di marca anche linee di prodotti di base, dagli alimentari ai detersivi ai prodotti per l’igiene personale, sprovvisti di marca e venduti a prezzi più bassi. In altri casi la decisione riguarda l’utilizzo di marche sviluppate da altri soggetti, quali ad esempio i distributori o altri produttori che concedono il marchio in licenza. Nel primo caso il produttore può decidere di vendere prodotti che utilizzeranno il marchio del distributore. Nel caso di prodotti di largo consumo si parla di private label, ovvero le marche delle catene di distribuzione – ad esempio i prodotti marchiati Esselunga o GS ecc. Il distributore ha il vantaggio di poter vendere prodotti a un prezzo minore, differenziarsi dalla concorrenza grazie ai prodotti che portano il suo nome o sfruttare la maggiore notorietà del suo marchio. L’utilizzo di marchi su licenza consente al produttore di sfruttare gli investimenti in pubblicità e comunicazione effettuati da altre aziende per vendere il prodotto. D’altro canto, per il proprietario del marchio questo è un modo per aumentare i profitti con basso rischio tramite lo sfruttamento dei diritti di licenza. Generalmente la concessione di licenze riguarda prodotti non core per il proprietario del brand, su cui il licenziatario possiede competenze produttive maggiori. L’esempio della Compagnia delle pelli riportato nel paragrafo 13.1 riguarda proprio l’utilizzo di marchi del settore della moda per vendere prodotti di un’azienda specializzata negli accessori in pelle. Anche l’esempio degli accessori marchiati iPod riportato nel Caso 13.2 illustra questa situazione.

Il product mix Quando si parla di prodotto nell’ambito della strategia di marketing generalmente non ci si riferisce al singolo articolo, o codice, venduto, quanto piuttosto a un insieme di codici diversi con diverse caratteristiche in comune. Generalmente si usa il termine famiglia di prodotti per indicare tutti quei prodotti che soddisfano un bisogno di un certo tipo. All’interno della famiglia di prodotti si possono individuare classi di prodotto, ovvero prodotti che hanno funzionalità simili o correlate. Infine, gli articoli appartenenti a una stessa linea di prodotto non solo hanno funzionalità simili o correlate, ma hanno anche un posizionamento comune rispetto alla concorrenza. Le decisioni di prodotto all’interno dell’offerta di marketing riguardano dunque non solo il singolo prodotto ma anche l’insieme dei prodotti venduti dall’azienda, ovvero l’assortimento dei prodotti, determinato dall’ampiezza e dalla profondità di gamma. L’ampiezza di gamma fa riferimento al numero di linee di prodotto vendute dall’azienda.

452 ) PARTE III – MARKETING

Rapporto tra marchi e linee di prodotto

La profondità di gamma fa riferimento invece al numero di articoli diversi per formato, dimensione, formulazione, variante, che costituiscono una linea di prodotto. L’esempio di Mitsubishi Motors riportato nel Caso 11.5 ha messo in evidenza l’importanza della definizione dell’ampiezza di gamma e il suo impatto sul posizionamento del brand nel mercato. Questo caso mostra anche quanto sia importante analizzare con attenzione le caratteristiche del mercato e i bisogni dei clienti per stabilire quali prodotti vendere e in quali mercati. Dunque le decisioni di ampiezza e profondità di gamma vengono spesso prese dal produttore in collaborazione con i rivenditori o gli intermediari, che hanno maggiore conoscenza dei mercati specifici. Le scelte di gamma possono avere maggiore o minore coerenza, a seconda che le diverse linee di prodotto siano più o meno strettamente legate dal punto di vista delle funzionalità, dei bisogni soddisfatti o del processo produttivo necessario per realizzarle. Molto spesso la creazione di una nuova linea di prodotto mira a penetrare nuovi segmenti di mercato. Ad esempio GAP gestisce diversi marchi di abbigliamento (Old Navy, GAP e Banana Republic) che coprono diversi segmenti di mercato e, in particolare, diversi segmenti di prezzo. La scelta di ampliare il numero di linee di prodotto deve essere valutata con attenzione, da un lato per non rischiare la cannibalizzazione tra queste, dall’altro per non creare effetti negativi sull’immagine e il marchio. Ad esempio, diversi anni fa Black & Decker ha riscontrato problemi nella vendita dei suoi utensili nel segmento dei professionisti, a seguito dell’immagine di prodotti per il bricolage che si associava al marchio dell’azienda. Nonostante l’elevata qualità dei prodotti, i professionisti preferivano non acquistare utensili Black & Decker. L’utilizzo di un solo marchio per le diverse linee di prodotti si era dunque rivelato fallimentare. La penetrazione del segmento professionale da parte dell’azienda è stata possibile solo a seguito dello sviluppo di un nuovo brand, DeWalt, dedicato alla linea di prodotti per professionisti. Il nuovo marchio abbandonava anche il tradizionale colore verde degli utensili Black & Decker e utilizzava invece il giallo, simbolo di sicurezza nel cantiere. La gestione delle singole linee di prodotto è spesso affidata a product manager, che hanno la responsabilità sia di definire le strategie di sviluppo della profondità della linea, sia di monitorare i risultati economici e il posizionamento rispetto alla concorrenza dei diversi articoli per definire l’assortimento dei prodotti da offrire (si rimanda in proposito al paragrafo 11.5 sull’organizzazione di marketing). Le linee di prodotto vengono sviluppate generalmente a partire da una piattaforma di base, alla quale vengono aggiunti moduli e opzioni creando varianti che si adattino alle diversificate esigenze dei clienti. L’estensione della linea di prodotto, oltre a essere funzionale rispetto alla penetrazione di più ampie fette di mercato, può anche avere l’obiettivo di sfruttare il successo di un prodotto con un brand affermato. Ad esempio questo è successo per Apple che, sull’onda del successo dell’iPod, ha lanciato nel 2005 due varianti del prodotto, l’iPod

13. La strategia di marketing ) 453

Shuffle (basato su memoria flash) e l’iPod Nano, che in soli 17 giorni dal lancio sul mercato ha raggiunto un milione di unità vendute (Caso 13.2). Il rischio che si corre con questa strategia è quello di snaturare l’immagine del prodotto associato al brand e quindi diminuirne il valore.

13.2.5

Prima prodotti essenziali...

...poi assortimento gamma e servizi

Le strategie di prodotto nel ciclo di vita L’utilizzo della leva prodotto da parte delle aziende varia in modo considerevole lungo il ciclo di vita. Nella fase di introduzione, per poter concentrare le proprie risorse e le proprie energie sul nuovo prodotto, l’azienda avrà convenienza a offrire un prodotto base, in poche varianti e versioni diverse (si veda ad esempio il caso Mitsubishi – Caso 11.5 – nel capitolo 11). In molti casi l’offerta si concentra prevalentemente sul prodotto tangibile o sul servizio essenziale, proprio perché nuovo, limitando il numero di servizi aggiuntivi. L’attenzione alla qualità e alle caratteristiche del prodotto e del servizio connesso dovrà essere elevata al fine di comunicare fin da subito una buona immagine al cliente e facilitare la fidelizzazione e la diffusione del prodotto grazie al word of mouth di clienti soddisfatti (si veda anche il paragrafo 13.5 sulla comunicazione). L’affermazione del brand avviene molto spesso in questa fase, o in alcuni casi ancora prima che il prodotto venga lanciato sul mercato. Nello stadio di crescita l’attenzione dell’impresa deve essere rivolta a perfezionare e ampliare l’offerta commerciale. Innanzitutto essa dovrà agire sulle caratteristiche del prodotto, al fine di migliorarle laddove necessario o di creare elementi di differenziazione. L’attenzione si sposta dunque dal prodotto tangibile al prodotto allargato, e dal servizio essenziale ai servizi di facilitazione e, soprattutto, ausiliari. Anche la profondità di assortimento aumenta, in quanto l’impresa sviluppa nuove varianti e versioni del prodotto per cogliere le esigenze di una clientela più variegata. La capacità dell’impresa di sviluppare un’offerta commerciale che anticipi i bisogni e i desideri dei clienti è una delle chiavi di successo in questo stadio del ciclo di vita. Come abbiamo visto, uno degli obiettivi dello stadio di maturità è quello di conquistare quote di mercato convertendo i clienti della concorrenza all’acquisto del proprio prodotto. Di conseguenza, la varietà e la gamma di prodotti aumentano considerevolmente, così come cresce il numero di prodotti e servizi ausiliari offerti a fianco del prodotto e servizio principale. Nei mercati maturi è tipico il fenomeno della proliferazione della gamma, con l’esplosione del numero di varianti e versioni di prodotti, della personalizzazione spinta, dell’ipersegmentazione e della rilevanza del marketing one-to-one. Il caso Tesco (Caso 12.8) è emblematico in questo senso. Infine, nello stadio di declino, l’impresa tenderà a eliminare i prodotti o le varianti più deboli, con minor domanda, per concentrare gli sforzi sui prodotti della gamma centrali e con livelli di profitto più elevati.

454 ) PARTE III – MARKETING

13.3 Elemento visibile e confrontabile

Prezzo e posizionamento

La determinazione del prezzo La definizione del prezzo è una delle decisioni di marketing più delicate. Questo non solo perché esso influenza direttamente ed esplicitamente i ricavi e la redditività del business, ma anche perché è l’elemento più direttamente visibile, confrontabile e oggettivo dell’intero marketing mix. Le decisioni di prezzo influenzano dunque in modo significativo il livello della domanda e, di conseguenza, anche il livello dei costi unitari. Infine, come già ricordato, il prezzo è spesso considerato un elemento rappresentativo dell’immagine e del livello di qualità del prodotto, e influenza dunque il posizionamento percepito rispetto ai concorrenti. Per tutti questi motivi le decisioni di prezzo devono essere prese in modo accurato e coerente con la strategia di marketing e il posizionamento scelto in ogni segmento di mercato. È opportuno sottolineare fin da subito che molte imprese tendono a sottovalutare il potenziale strategico delle scelte di pricing, limitandosi a definire i propri prezzi sulla base di quelli medi di mercato o in risposta a manovre di prezzo dei concorrenti, senza una valutazione adeguata degli effetti di queste scelte sui risultati aziendali. In questo paragrafo si cerca anzitutto di delineare il percorso logico seguito dalle imprese nella determinazione dei prezzi dei prodotti, per poi analizzarne i principali metodi di fissazione e descrivere infine le possibili scelte di differenziazione (modifiche di prezzo) e le manovre competitive di prezzo alle quali le imprese talvolta ricorrono.

13.3.1

Prezzo, domanda, ricavi e profitto

Elasticità della domanda al prezzo

Prima di introdurre il processo di determinazione del prezzo, occorre ricordare brevemente quali relazioni legano il prezzo alla domanda di mercato, ai ricavi e ai profitti generati dall’impresa. La relazione tra il prezzo e il livello della domanda è detta funzione o curva della domanda. Generalmente queste due variabili sono inversamente proporzionali, ovvero al crescere del prezzo diminuiscono le unità di prodotto richieste dal mercato. L’intensità dell’effetto di una variazione di prezzo sulla domanda è misurata dal coefficiente di elasticità, che è definito tramite la seguente formula: DQ }} Q h = – ––––– DP }} P

(1)

con: h = coefficiente di elasticità che, per i beni normali, può assumere valori superiori a 1 (nel qual caso si parla di domanda elastica) o valori compresi tra 0 e 1 (nel caso di domanda anelastica); Q = domanda di mercato; P = prezzo.

13. La strategia di marketing ) 455

Figura 13.4 ESEMPI DI CURVE DELLA DOMANDA Prezzo

Prezzo

60 50

90

100

Domanda

(a) Domanda anelastica

100

200

Dom

(b) Domanda elastica

La Figura 13.4 mostra due esempi di curva della domanda nel caso di domanda anelastica (a) ed elastica (b). In alcuni casi, ad esempio per i beni di lusso, l’elasticità della domanda può assumere valori negativi, ovvero un aumento di prezzo porta ad aumenti del volume richiesto, per l’immagine di prestigio o esclusività che ne consegue. L’elasticità della domanda di un prodotto è influenzata da molti fattori. Generalmente essa è contenuta quando: • non esistono o vi sono pochi prodotti sostitutivi1; • il prodotto o servizio ha carattere di unicità o è scarsamente confrontabile con altri prodotti; • il rapporto qualità/prezzo del prodotto è valutato conveniente dal cliente, o il prezzo è percepito dal cliente come un maggior valore del prodotto; • l’entità della spesa per l’acquisto del singolo prodotto è limitata in assoluto o rispetto alla spesa complessiva effettuata dall’acquirente (ad esempio, nel caso del mercato industriale, la domanda è anelastica qualora il prodotto/servizio acquistato abbia un peso limitato sul valore complessivo degli acquisti); • vi è una limitata disponibilità da parte del cliente a cambiare abitudini d’acquisto o vi sono costi elevati di switching del fornitore. Impatto di Internet

In generale è possibile osservare che l’elasticità della domanda al prezzo è aumentata per molti beni a seguito dell’avvento di Internet a supporto delle transazioni commerciali, come conseguenza delle maggiori opportunità di confronto dei beni e delle maggiori informazioni disponibili per i clienti grazie alla nuova tecnologia. Si pensi ad esempio alla forte diffusione dei search agent, strumenti di supporto alla conoscenza e al confronto dei prezzi dei prodotti e servizi offerti su Internet, quali Kelkoo (www.kelkoo.com).

1 Si ricorda che i prodotti sostitutivi si individuano valutando l’elasticità incrociata, ovvero il rapporto tra la variazione percentuale della domanda del prodotto A rispetto alla variazione percentuale del prezzo del prodotto B. I prodotti sono considerati sostitutivi se l’elasticità incrociata è maggiore di 0, sono considerati invece complementari se l’elasticità incrociata è minore di 0.

456 ) PARTE III – MARKETING

Figura 13.5 RICAVI, PROFITTI E QUOTA IN FUNZIONE DEL PREZZO Ricavi

Profitto

Quota

Prezzo unitario

Considerando l’elasticità della domanda è possibile osservare la relazione che lega i ricavi totali con il prezzo unitario. La relazione è esprimibile come segue: R = P · Q(P)

(2)

con Q(P) funzione decrescente. I ricavi seguono dunque una curva simile a quella mostrata in Figura 13.5, con un andamento crescente per lievi incrementi di prezzo e un valore massimo oltre al quale l’aumento di prezzo non compensa più la conseguente diminuzione della domanda. Analogamente, anche i profitti seguono un andamento a “U” rovesciata rispetto ai prezzi (Figura 13.5). Il profitto è legato ai prezzi tramite la seguente relazione: U = P · Q(P) – Cv(Q) · Q – Cf(Q)

(3)

con: U = profitti; Cv = costi variabili, funzione della domanda in conseguenza delle economie di scala ed esperienza; Cf = costi fissi, funzione della domanda in conseguenza delle economie di scala ed esperienza. Massimizzare i profitti non i volumi

Esiste dunque un prezzo che permette di massimizzare i profitti dell’impresa, variabile da prodotto a prodotto. La relazione tra prezzi e profitti è spesso sottovalutata dalle imprese, che tendono a dare maggior peso ai volumi di vendita e alla quota di mercato rispetto al profitto. Di conseguenza, molte imprese sono propense a ridurre i prezzi per aumentare le vendite (o per limitare la perdita di quote di mercato), sottovalutando l’effetto di questa politica sui profitti (Simon, 2005). Appare invece evidente dall’esempio

13. La strategia di marketing ) 457

Tabella 13.1 VARIAZIONI DI PROFITTO CONSEGUENTI A VARIAZIONI NEI PREZZI E NEI VOLUMI DI VENDITA PER UN UTENSILE ELETTRICO (VALORI IN EURO)

Situazione iniziale ΔP = +10% ΔV = +10% ΔP = – 5% ΔV = – 5%

Prezzo

Costo unitario

Costo fisso

Volume

Ricavi

Profitti

100 110 100 95 100

60 60 60 60 60

30 M 30 M 30 M 30 M 30 M

1M 1M 1,1 M 1M 0,95 M

100 M 110 M 110 M 95 M 95 M

10 M 20 M 14 M 5M 8M

Variazione profitti %

+ 100% + 40% – 50% – 20%

Fonte: adattato da Dolan e Simon (1996).

riportato in Tabella 13.1 come il driver principale del profitto, ovvero la dimensione che ha l’effetto leva maggiore sugli utili dell’impresa, sia il prezzo più che i volumi di vendita. Un modo efficace per rendere evidente la relazione tra queste variabili è quello di considerare quale incremento di volume è necessario ottenere per compensare la riduzione di profitti conseguente a un prezzo più basso. Nel caso dell’esempio in Tabella 13.1, la riduzione del 20% del prezzo richiederebbe un aumento nelle vendite di 1 milione di unità, ovvero del 100% delle vendite attuali. Da queste considerazioni discende il monito “Manage for profit, not for share” dichiarato da Hermann Simon (Simon, Bilstein e Luby, 2006), uno dei maggiori esperti di pricing a livello mondiale. Nel definire gli obiettivi per il marketing, e in particolare per le strategie di pricing, le imprese devono cioè tenere in conto i profitti di lungo periodo, e perseguire obiettivi diversi solo se funzionali a questo.

13.3.2

Il processo di determinazione del prezzo

Prodotti nuovi e mercati nuovi

Il prezzo deve essere definito per la prima volta quando un prodotto o servizio nuovo è immesso sul mercato, o quando un prodotto esistente viene venduto in un nuovo mercato. I passi che vengono seguiti sono generalmente quattro: • la definizione della politica e degli obiettivi di prezzo; • la scelta del criterio di determinazione del prezzo; • la definizione delle modifiche di prezzo, ovvero dei prezzi da applicare alle diverse varianti del prodotto, nei diversi canali e per diversi clienti o segmenti di mercato; • l’approntamento di manovre di prezzo (aumenti o riduzioni di prezzo), eventualmente in risposta a manovre dei concorrenti. Alcuni di questi passi vengono poi ripercorsi più volte durante il ciclo di vita del prodotto, al fine di modificare o adattare i prezzi ai cambiamenti del mercato, della competizione o degli obiettivi dell’impresa.

458 ) PARTE III – MARKETING

Le decisioni di prezzo sono influenzate da driver importanti, alcuni dei quali esogeni all’impresa (si veda anche il capitolo 12) e altri invece derivanti da decisioni strategiche di marketing prese in precedenza. Tra i principali fattori esogeni ricordiamo: Fattori esogeni

• la congiuntura economica e lo stato generale dell’economia, che influenzano il livello generale dei prezzi di mercato e possono modificare l’elasticità della domanda; • la presenza di leggi o norme che regolano la fissazione dei prezzi nel settore o nel mercato considerato; • il comportamento dei concorrenti, e in particolar modo del leader di prezzo, che determinano da un lato il prezzo di riferimento (anche detto prezzo di mercato) e, dall’altro, l’intensità della competizione e le eventuali guerre di prezzo; • l’elasticità della domanda che, come ricordato nel paragrafo precedente, determina la relazione tra il prezzo e la domanda di mercato e dunque i ricavi e i profitti ottenibili per diversi livelli di prezzo. Tra i fattori, almeno in parte, endogeni all’impresa i principali sono:

Fattori endogeni

• lo stadio nel ciclo di vita dei prodotti, che determina obiettivi diversi per il marketing e influenza lo stato della competizione e del mercato; • la struttura dei costi dell’impresa, che determina da un lato il livello minimo di prezzo accettabile e, dall’altro, la sensibilità dei profitti a cambiamenti nei livelli di prezzo; • la scelta di posizionamento dell’impresa e del prodotto rispetto ai concorrenti e la conseguente necessità di posizionarsi in una determinata fascia di prezzo; • le decisioni prese sulle altre leve del marketing mix, rispetto alle quali le scelte di prezzo devono essere coerenti, sia in relazione ai maggiori o minori costi che il prodotto deve sopportare, sia in relazione al maggiore o minore valore percepito dal cliente in conseguenza delle azioni di marketing. Lo schema logico delle decisioni di prezzo è riportato in Figura 13.6.

Figura 13.6 IL PROCESSO DI DEFINIZIONE DEL PREZZO Congiuntura economica

Politica e obiettivi di prezzo

Ciclo di vita del prodotto

Leggi e norme



Criteri di determinazione del prezzo

Struttura dei costi

Elasticità della domanda

Concorrenza



Modifiche di prezzo e discriminazione

Posizionamento



Manovre competitive di prezzo

Marketing mix

13. La strategia di marketing ) 459

13.3.3

La politica e gli obiettivi di prezzo La politica di prezzo è l’insieme dei principi e dei criteri stabiliti dall’impresa per determinare a livello operativo i prezzi dei prodotti e dei servizi offerti. Nel definire la politica di prezzo, un’azienda stabilisce il livello generale dei prezzi per i suoi prodotti, ovvero il posizionamento rispetto alla concorrenza in una fascia di prezzo ben precisa. Nello stesso tempo, l’impresa deve anche stabilire quali criteri utilizzare per modificare i prezzi lungo il ciclo di vita del prodotto e in relazione a fattori esogeni o endogeni. La politica di prezzo deve essere collegata agli obiettivi generali che l’impresa vuole perseguire. Vi è innanzitutto una relazione tra il pricing e la strategia competitiva di base del business: un leader di costo praticherà prezzi decisamente inferiori rispetto a un leader di differenziazione. In secondo luogo le scelte di prezzo possono essere guidate da obiettivi diversi, riconducibili a quattro categorie:

Battaglie per le quote

Breve e lungo termine

Non perdere le risorse chiave

Prezzi d’immagine

• obiettivi di mercato, ovvero legati alla massimizzazione dei volumi, della quota di mercato o dei tassi di crescita. In questo caso le strategie di prezzo sono orientate a stabilire prezzi inferiori rispetto alla media di mercato, in modo da sfruttare l’elasticità della domanda e conseguire volumi maggiori. Spesso questi obiettivi sono associati alle prime fasi del ciclo di vita del prodotto, nelle quali le imprese devono cercare di accaparrarsi subito quote di mercato che sarebbero più difficili da conquistare nella fase di maturità (si veda il paragrafo 13.3.7); • obiettivi di profitto, ovvero legati alla massimizzazione dei margini di contribuzione e dei profitti nel breve o nel lungo periodo. Sebbene in alcuni casi la massimizzazione delle vendite e della quota di mercato porti alla massimizzazione dei profitti, nel breve termine questo non è sempre vero. Di conseguenza le strategie di massimizzazione dei profitti non passano necessariamente per la definizione di prezzi medio-bassi, ma, piuttosto, attraverso l’individuazione del “prezzo ottimo” rispetto all’elasticità della domanda e alla struttura di costo dell’impresa (si veda la Figura 13.5). Spesso la determinazione del prezzo ottimo viene effettuata rispetto al profitto corrente, a seguito della maggiore difficoltà di stima delle curve future di domanda e della struttura futura dei costi, ed è dunque una valutazione di breve periodo; • obiettivi di sopravvivenza, legati alla necessità di mantenere l’attività nonostante sia in perdita, se non altro per un recupero parziale dei costi fissi. Questo caso può riguardare ad esempio periodi di crisi di mercato considerati transitori, che devono essere superati dall’impresa senza perdere le risorse critiche. Obiettivi di sopravvivenza portano a definire livelli di prezzo decisamente inferiori rispetto alla media del mercato; • obiettivi di immagine o di scrematura del mercato, legati alla volontà di associare un’immagine di elevata qualità o prestigio al

460 ) PARTE III – MARKETING

prodotto/servizio offerto, oppure alla volontà di estrarre il massimo profitto dai diversi segmenti di mercato, facendo pagare prezzi elevati alle fasce di clienti che sono meno sensibili al prezzo. In questo caso la definizione del prezzo è superiore rispetto alla media del mercato.

Posizionamento e fasce di prezzo

La definizione della politica di prezzo deve inoltre essere allineata con la scelta di posizionamento fatta nello sviluppo della strategia di marketing. L’individuazione dei segmenti in cui l’impresa vuole operare e l’insieme di valori che essa vuole offrire ai suoi clienti in ciascun segmento determinano in buona parte la scelta della “fascia di prezzo” in cui il prodotto deve essere collocato. In numerosi settori industriali e di consumo finale esistono fasce di prezzo nelle quali i diversi concorrenti si collocano. Ritornando all’esempio del mercato delle borse e accessori in pelle (paragrafo 13.1) si possono individuare chiaramente tre diverse fasce di prezzo (alta, media e bassa). Generalmente il criterio di fondo per selezionare la fascia di prezzo in cui collocarsi deriva dall’analisi del rapporto qualità/prezzo che l’azienda vuole offrire. La Figura 13.7 riporta sulla diagonale le strategie di prezzo che mantengono inalterato il rapporto tra la qualità (percepita e non necessariamente effettiva) e il prezzo: la strategia del buon mercato, per prodotti di bassa qualità offerti a prezzi bassi, la strategia del premium price per prodotti di qualità elevata per i quali i clienti sono disposti a sostenere un prezzo più alto – un premio di prezzo, per l’appunto – e la strategia del valore medio, in posizione intermedia tra le altre due. Tuttavia, come è possibile notare dalla figura, le imprese possono adottare anche strategie che si discostano dalla diagonale, offrendo prodotti di elevata qualità a prezzi inferiori alla media, oppure prodotti di scarsa qualità a prezzi elevati. Queste strategie possono derivare da obiettivi specifici che l’impresa vuole perseguire, e generalFigura 13.7 STRATEGIE DI PREZZO-QUALITÀ Prezzo

Qualità prodotto

Basso

Medio

Alto

Alta

Liquidazione

Penetrazione

Premium price

Media

Prezzo conveniente

Valore medio

Sviluppo del margine

Bassa

Buon mercato

Convenienza apparente

Speculazione

Fonte: adattato da Kotler (2003).

13. La strategia di marketing ) 461

Strategie aggressive

13.3.4

Prezzi minimi, massimi e della concorrenza

mente hanno successo solo in alcuni segmenti e in alcune nicchie di mercato. Un’ulteriore eccezione nelle strategie di prezzo, non contemplata dalla matrice, è quella praticata da aziende che operano con prezzi aggressivi, sistematicamente inferiori alla concorrenza, pur offrendo prodotti e servizi di qualità medio-elevata, anche se spesso concentrata sul vantaggio essenziale. Questa strategia, anche detta di value pricing, è esemplificata dalle linee aeree low cost (ad esempio Southwest Airlines in America o Ryanair in Europa), da aziende come IKEA nel settore dei mobili o come Wal-Mart o MediaWorld nel settore della grande distribuzione. Strategie di pricing particolarmente aggressive sono possibili solo attraverso la riorganizzazione e il ripensamento complessivo delle attività dell’impresa, dallo sviluppo dei prodotti-servizi, alle operations, alle scelte dei canali distributivi e così via.

Criteri di fissazione dei prezzi Una volta stabilita la politica di pricing, le imprese possono utilizzare diversi criteri per la fissazione del prezzo dei beni. Il prezzo di un bene si può collocare in un range delimitato in basso dal prezzo minimo, che consente l’ottenimento del profitto, e in alto da un prezzo massimo oltre il quale, in base alla curva della domanda, non esistono clienti disposti ad acquistare il prodotto. Il prezzo minimo è spesso determinato in corrispondenza del costo variabile del prodotto nel caso di produzioni già attivate, e del costo totale unitario nel caso di nuovi prodotti. Il prezzo della concorrenza costituisce un punto di riferimento centrale per la scelta di prezzo, mentre le caratteristiche di unicità del prodotto e il maggior valore offerto ai clienti rispetto alla concorrenza determinano il prezzo massimo (Figura 13.8). I prezzi della concorrenza possono però influenzare la definizione del prezzo massimo, in quanto anche a fronte di un valore percepito da parte del cliente più alto rispetto ai prodotti della concorrenza, il prezzo fissato non si può scostare più di tanto da quello di mercato. Nell’ambito di questo range, l’impresa può decidere di fissare un prezzo in coerenza con la politica e gli obiettivi stabiliti.

Figura 13.8 DETERMINAZIONE DEL PREZZO MINIMO E MASSIMO Prezzo basso: nessun profitto

Prezzo minimo

Costo prodotto

Prezzo concorrenza e prodotti sostitutivi

Prezzo massimo

Premio di prezzo: elementi di unicità

Prezzo alto: non esiste domanda

462 ) PARTE III – MARKETING

Un primo metodo per la fissazione del prezzo parte proprio dalla considerazione del costo del prodotto (metodo del markup, o costplus pricing). Il metodo prevede di fissare il prezzo sulla base del costo totale unitario, a cui viene aggiunto un ricarico, o markup, adeguato per raggiungere gli obiettivi desiderati. La formula che esprime questo metodo di fissazione dei prezzi è:

1

2

C P = Cv + }}f ? (1 + ricarico%) Q

(4)

Il ricarico percentuale è calcolato come margine di contribuzione rispetto al costo del prodotto: ricarico% = Ricarichi progressivi

margine costo

In alcuni casi, vista la difficoltà di ripartizione dei costi fissi(Cf ), soprattutto di natura non industriale, tra i diversi prodotti, il markup è applicato sul costo pieno industriale anziché sul costo pieno aziendale (per la definizione di questi concetti si faccia riferimento ad Azzone e Bertelè, 2011) e i margini obiettivo vengono fissati più alti per compensare i costi non inclusi nel calcolo. L’applicazione del metodo del markup lungo la filiera degli intermediari commerciali determina il progressivo aumento di prezzo del prodotto passando dal produttore al consumatore finale, fino a ottenere dei ricarichi anche molto elevati sul costo originale. Questo caso è esemplificato in Tabella 13.2. Questo metodo di fissazione del prezzo ha il vantaggio di garantire margini adeguati ai diversi attori della filiera, oltre a calcolare il prezzo in modo molto semplice. Tuttavia esso presenta notevoli limiti, poiché non tiene affatto conto né del prezzo di mercato, né del valore del prodotto percepito dal cliente. Nei settori in cui questo metodo è diffuso, i prezzi dei diversi concorrenti rimangono abbastanza allineati e la percezione del cliente in qualche modo si adatta. Ne

Tabella 13.2 ESEMPIO DI CALCOLO DEL PREZZO CON IL METODO DEL MARKUP Costo/prezzo Costo unitario produttore Margine Prezzo al grossista Margine Prezzo al dettagliante Margine Prezzo al consumatore finale Margine totale

16 e 4e 20 e 10 e 30 e 18 e 48 e 32 e

Markup %

25% 50% 60% 200%

13. La strategia di marketing ) 463

Analisi di break-even

consegue però che la leva del prezzo rimane in questo caso poco strategica per l’impresa. Un altro metodo di fissazione dei prezzi che parte dai costi e dal livello di profitti desiderato è il metodo del punto di pareggio (o break even). Per la descrizione completa dell’analisi di break even e delle ipotesi sottostanti rimandiamo ad Azzone e Bertelè, 2011. Ricordiamo qui sinteticamente che il punto di break even è definito come il minimo volume operativo necessario perché un’impresa riesca a pareggiare i costi e ricavi. Uguagliando costi e ricavi si ottiene quindi un volume di break even pari a: Cf Qbe = } } P – Cv

(5)

Qualora si volesse calcolare il volume operativo minimo per ottenere un determinato livello di profitto X, la formula si modifica come segue: C +X Qbe = }f } P – Cv

Quanto paga il cliente?

(6)

Nella determinazione del prezzo, l’analisi di break even può essere utilizzata per stabilire il prezzo minimo da applicare per ottenere il pareggio o per conseguire un determinato profitto, dati i volumi di vendita; oppure può essere utilizzato per verificare l’effetto sui profitti di strategie di pricing alternative in relazione ai volumi attesi dal mercato. Questo metodo, oltre a non tenere conto di riferimenti esterni per la fissazione del prezzo, trascura anche l’elasticità della domanda al prezzo e la variabilità dei costi in funzione dei volumi. Si tratta dunque di uno strumento di analisi utile ma non sufficiente, se usato da solo, per una corretta fissazione del prezzo. La necessità di superare i limiti dei due modelli sopra descritti porta a un metodo di fissazione del prezzo basato sul valore percepito dal cliente. Questo metodo parte dall’analisi del prezzo che il cliente è disposto a pagare in relazione al valore che percepisce di ottenere dal prodotto. Non vi è dunque una relazione tra il prezzo stabilito e la struttura di costo del prodotto. Il metodo del valore percepito spiega in parte le forti differenze di prezzo esistenti tra i diversi prodotti in determinati settori. Ad esempio il prezzo della bevanda energetica Red Bull è quattro volte superiore a quello della Coca-Cola nel settore delle bevande analcoliche, il costo dei gelati Häagen-Dazs è tre volte superiore a quello di un gelato di una private label, e così via in molti settori, non solo di largo consumo ma anche industriali. Ad esempio, le turbine eoliche di Enercon, leader tecnologico del settore, hanno prezzi mediamente superiori del 20% rispetto alla concorrenza a seguito

464 ) PARTE III – MARKETING

del maggior valore percepito dai clienti per l’affidabilità e il livello tecnologico dei prodotti. La stima del valore percepito avviene generalmente per differenza rispetto ad altri prodotti simili presenti sul mercato; tale stima può riguardare direttamente il valore percepito o alcune caratteristiche del prodotto che ne determinano il valore stesso. In quest’ultimo caso i prodotti vengono valutati dai clienti rispetto ad alcuni attributi, ritenuti rilevanti, ciascuno dei quali ha un peso diverso nel determinare il valore del prodotto. Il valore percepito del singolo prodotto è dato dalla media pesata del valore riconosciuto dal mercato ai singoli attributi dello stesso prodotto: Vi

^pj aij j

(7)

dove: Vi= valore percepito del prodotto i; pj = peso dell’attributo j; aij = valore del prodotto i secondo l’attributo j. I driver del valore percepito

Prezzi differenziati

I fattori che possono essere presi in considerazione per valutare il valore percepito fanno riferimento alla sfera economica (ad esempio il costo del bene o le condizioni commerciali), alla sfera funzionale (parametri di funzionalità tipici di ogni prodotto o servizio), all’immagine di marca o alla reputazione del fornitore o, infine, ai possibili benefici personali, quali lo status o la soddisfazione derivante dall’acquisto del bene. Nel mercato industriale il concetto di valore percepito è spesso associato al valore generato dal bene per il produttore che lo acquista nell’arco della sua vita utile, che comprende i benefici tangibili e intangibili nel processo produttivo e nel funzionamento dell’impresa. L’esempio di Allison Transmission riportato nei Casi 12.3a e 12.3b ha illustrato come un fornitore possa aiutare il cliente a stimare il valore generato dal prodotto offerto (in questo caso il cambio automatico, per differenza rispetto al cambio manuale) attraverso un software (Life Cycle Value) che calcola il net present value e il paybak period dell’investimento che il cliente deve effettuare. È importante sottolineare come il valore percepito di un prodotto sia generalmente diverso nei differenti segmenti di mercato a cui l’impresa si rivolge. In particolare vi sono alcuni segmenti più sensibili al prezzo, altri ai fattori funzionali, altri infine all’immagine o ai benefici personali. Queste differenze consentono di utilizzare strategie di discriminazione dei prezzi, ovvero di applicare prezzi diversi, “customizzati” rispetto al valore percepito dal cliente. Il prezzo del prodotto i dovrà poi essere calcolato proporzionalmente al suo valore, confrontandolo con altri prodotti presenti sul mercato. Una modalità di calcolo del prezzo del prodotto basata sul metodo del valore è discussa nel Caso 13.5, che riporta un esempio di analisi del valore percepito condotta per stabilire il prezzo di una nuova stam-

13. La strategia di marketing ) 465

pante laser. Questa analisi è condotta tramite una tecnica statistica, l’analisi congiunta (conjoint analisys), che restituisce valori di utilità che il cliente associa ai diversi attributi del prodotto. La stessa tecnica viene anche utilizzata in fase di sviluppo dei nuovi prodotti per stabilire quali attributi il prodotto dovrà avere per soddisfare le aspettative del cliente (Green e Srinivasan, 1990; Wittnick, Vriens e Buhrenne, 1994).

CASO

13.5

Analisi congiunta per la determinazione del valore percepito di una stampante laser Un noto produttore di stampanti deve stabilire il prezzo per un nuovo modello di stampante laser. Gli attributi di valore considerati rilevanti per questo tipo di prodotto sono: • la funzionalità, valutata ad esempio attraverso la risoluzione, la velocità di stampa, la dimensione del cassetto per la carta; • l’affidabilità; • l’immagine di marca; • il prezzo; • il costo d’uso. Tra questi attributi, il produttore ne ha selezionati quattro, ritenuti chiave: • • • •

il prezzo; la risoluzione; la velocità di stampa; la dimensione del cassetto per la carta.

Per ciascuno di questi attributi sono stati definiti parametri significativi in un range vicino ai valori che caratterizzano il nuovo prodotto. Quindi, ad esempio, per il prezzo sono stati ipotizzati valori pari a 150, 200, 250, 300, 350 euro, mentre per la risoluzione valori pari a 300, 600 e 1200 dpi (Figura 13.9). L’analisi congiunta è stata condotta sottoponendo a un panel

Figura 13.9 RISULTATI DELL’ANALISI CONGIUNTA PER LA NUOVA STAMPANTE Risoluzione

Prezzo Valore 40 30

39

Velocità

34 28 20

20

17

19 11

11

8

10 0

Dimensione cassetto

10

5 0 1,5 2 2,5 3 3,5 × 100 euro

0 300

600 1200 dpi

0 10 15 20 25 pagine minuto

0 50

150 fogli

250

466 ) PARTE III – MARKETING di potenziali clienti le possibili coppie di prodotti che presentano attributi alternativi (ad esempio una stampante che costa 200 euro, con 600 dpi di risoluzione, che stampa 15 pagine per minuto e ha un cassetto di 50 fogli, rispetto a una stampante che costa 300 euro, ha una risoluzione di 1200 dpi, una velocità di 20 pagine per minuto e un cassetto di 150 fogli). Il potenziale cliente deve di volta in volta scegliere la combinazione preferita. Sulla base dei dati raccolti, opportune analisi statistiche (Orme, 2005) forniscono l’importanza relativa di ciascun attributo per ciascun individuo, da cui possono essere derivati valori medi per i diversi segmenti di mercato serviti. In secondo luogo l’analisi permette di calcolare il valore di ciascun attributo su una scala di utilità; per ciascun attributo il valore più basso è posto uguale a 0 (Figura 13.9). Il confronto tra i valori attribuiti ai diversi parametri permette di capire quanto i clienti sono disposti a spendere per acquistare prodotti con maggiori funzionalità. Ad esempio i clienti sono disposti a spendere circa 100 euro in più per passare da una risoluzione di 300 dpi a una risoluzione di 600 dpi, a parità di altri attributi: la differenza di valore sulla risoluzione è infatti pari a 20 punti, che coincidono con la differenza di valore corrispondente a differenze di prezzo di circa 100 euro. Similmente, è possibile dire che una stampante con 600 dpi di risoluzione, una velocità di 20 pagine per minuto e un cassetto per 150 fogli (valore totale pari a 39) può costare quanto una stampante con una risoluzione di 1200 dpi ma una velocità di 15 pagine per minuto e un cassetto per 50 fogli. Fonte: adattato da Simon (2005).

Prima i prezzi, poi i costi

Probabilità di vendita

Il metodo del valore percepito è quello che meglio incarna la logica di orientamento al cliente e di adattamento dell’offerta di marketing alle specifiche esigenze dei clienti. Per questo appare più corretto rispetto ai metodi precedentemente descritti. Tuttavia l’applicazione di questo criterio potrebbe portare a definire prezzi non adeguati rispetto alla struttura dei costi del prodotto. Per questo motivo le imprese che decidono di adottare il criterio del valore tendono a ribaltare la sequenza tradizionale tra l’analisi dei costi e la definizione del prezzo. In altre parole, dapprima fissano il livello del prezzo corrispondente al valore percepito del prodotto, e successivamente adattano la progettazione, la produzione e la distribuzione del prodotto per ottenere un livello dei costi compatibile con il prezzo fissato. La tecnica utilizzata in questo caso è il cosiddetto target costing (Azzone, 2006), ed è ampiamente sfruttata nel mercato industriale. Come già evidenziato nel paragrafo precedente, le aziende che operano con strategie di value pricing hanno disegnato le proprie attività operative e i propri prodotti e servizi al fine di garantire livelli di prezzo molto bassi pur in presenza di profitti adeguati. Nel mercato industriale e della pubblica amministrazione l’acquisizione dei beni da parte del cliente avviene spesso attraverso il meccanismo della gara, sia in forma esplicita, sia in forma implicita di confronto tra le diverse offerte ricevute da fornitori concorrenti (per approfondimenti si rimanda al capitolo 15). In questo caso il problema

13. La strategia di marketing ) 467

Tabella 13.3 ESEMPIO DI CALCOLO DEL PREZZO CON IL METODO DELLA MASSIMIZZAZIONE DEL PROFITTO ATTESO Costo

Prezzo

Profitto

Probabilità vincita

Profitto atteso

9400 9400 9400 9400

9500 10.000 10.500 11.000

100 600 1100 1600

0,81 0,36 0,09 0,01

81 216 99 16

dell’impresa è quello di definire un prezzo da indicare nell’offerta che permetta da un lato di massimizzare la probabilità di acquisizione dell’ordine o di aggiudicarsi l’appalto, dall’altro di massimizzare i profitti. Per la fissazione del prezzo in questi contesti sono stati sviluppati numerosi modelli matematici, spesso di natura probabilistica. La modellizzazione prevede che il prezzo ottimale sia quello che permette di massimizzare il profitto atteso, calcolabile secondo la seguente formula: E(P ) = F(P ) ? U(P )

(8)

con: E(P) = profitto atteso, in funzione del prezzo P ; F(P) = probabilità di vincere la gara al prezzo P ; U(P) = profitto realizzato con un livello di prezzo P. Un esempio di applicazione di tale metodo è riportato in Tabella 13.3. Il calcolo del profitto atteso consente di stabilire il prezzo ottimale, pari a 10.000 euro.

13.3.5

Le modifiche di prezzo: product bundling, sconti, promozioni e discriminazione di prezzo

Discriminazioni

La determinazione del prezzo da parte dell’azienda generalmente non fa riferimento a un singolo prodotto e a una singola condizione di mercato, ma prevede una struttura e un’articolazione che rispecchiano le differenze della domanda nel tempo e tra diverse tipologie di clienti e di condizioni di vendita. Il prezzo è dunque caratterizzato da un insieme di varianti e differenziazioni, anche dette modifiche di prezzo, che discriminano la domanda in base a diverse dimensioni. Innanzitutto i prezzi devono essere definiti in relazione alla combinazione di prodotti o servizi che vengono acquistati contemporaneamente (o product bundling). Questo caso si presenta quando un prodotto prevede accessori e optional (ad esempio per le automobili o per macchine utensili prodotte a catalogo), oppure quando un pro-

Pricing a pacchetto

468 ) PARTE III – MARKETING

Luoghi e canali

Valore percepito

Mercati drogati dagli sconti

dotto o servizio fa parte di un set di beni complementari (ad esempio rasoi e lamette, stampanti e cartucce, telefono e abbonamento telefonico e così via). La fissazione del prezzo è volta a massimizzare il profitto complessivo del product bundling, mentre la massimizzazione del profitto sul singolo elemento (prodotto o servizio) passa in secondo piano. Così, ad esempio, gli accessori o i prodotti complementari hanno generalmente prezzi più elevati in rapporto al costo o al valore fornito rispetto al prodotto di base (l’esempio più classico è quello delle cartucce per stampanti). Viceversa, l’acquisto di un pacchetto di optional predefinito avviene a un prezzo inferiore rispetto alla somma dei prezzi degli stessi optional presi singolarmente. In secondo luogo i prezzi possono essere modulati in relazione al luogo geografico o al canale distributivo presso il quale il prodotto viene acquistato. È noto ad esempio il cosiddetto “indice Big Mac”, introdotto dal giornale economico The Economist, che confronta il prezzo del panino Big Mac di Mac Donald’s nelle diverse città e aree geografiche per indicare il potere d’acquisto e la condizione dell’economia dei diversi Paesi. Analogamente, il prezzo di una lattina di Coca-Cola può variare anche più del 100% a seconda dei canali di vendita (con i prezzi più bassi nei punti vendita della grande distribuzione e i prezzi più alti nei distributori automatici e nei chioschi di aeroporti e stazioni). La differenza di prezzo su base geografica o di canale di vendita rispecchia differenze di costo legate ad esempio ai costi di trasporto, ai tassi di cambio, ai margini e ai ricarichi degli intermediari commerciali ecc. Oltre a questo, tali differenze, in base al criterio del valore, dovrebbero anche rappresentare differenze nelle caratteristiche e nel valore percepito dei diversi mercati. L’esempio di Mitsubishi Motors riportato nel Caso 11.4 ha mostrato come il brand sia percepito in modo abbastanza diverso in Italia (prodotti di nicchia di fascia alta) e in Germania (ampia gamma di prodotti di fascia non particolarmente elevata) a seguito delle scelte di gamma effettuate nei due mercati. Nei Paesi del Sud Est asiatico i vini italiani sono percepiti di minor valore rispetto ai vini francesi, ma anche rispetto ai vini australiani e cileni. Dunque i prezzi in questi Paesi sono mediamente inferiori rispetto ai prezzi in Paesi europei o in Nord America, dove il valore relativo dei vini italiani è considerato superiore. Le modifiche di prezzo possono poi riguardare il momento d’acquisto o il comportamento d’acquisto del consumatore. La pratica degli sconti e delle promozioni consiste in una modifica dei prezzi di listino per ricompensare i clienti che acquistano in determinati periodi o secondo determinate modalità. La Tabella 13.4 riassume le principali tipologie di sconti che le imprese sono solite effettuare. Come già ricordato nei paragrafi 11.3 e 12.3, le politiche di sconto e promozione sono particolarmente importanti nel mercato B2B, soprattutto per quanto riguarda gli sconti quantità e gli sconti finanziari. Occorre sottolineare che politiche di sconto ripetute nel tempo “drogano” il mercato, spingendo i clienti a pratiche di negoziazione eccessive e determinando aspettative di prezzi costantemente più bassi

13. La strategia di marketing ) 469

Tabella 13.4 ESEMPI DI SCONTI E PROMOZIONI Sconti quantità

Riduzione dei prezzi a fronte dell’acquisto di maggiori quantità di prodotto

Sconti di cassa

Riduzione dei prezzi a fronte di un pagamento per cassa o con tempi inferiori rispetto ai termini di pagamento previsti dal contratto

Sconti commerciali o funzionali Riduzione dei prezzi garantiti agli intermediari commerciali a seguito dei servizi forniti e delle funzioni svolte Sconti stagionali

Riduzione dei prezzi a fronte dell’acquisto in periodi di tempo specifici, ad esempio fuori stagione (saldi)

Prezzi promozionali

Riduzione dei prezzi volta a stimolare l’acquisto in determinati periodi o situazioni (ad esempio prodotti civetta venduti a prezzi molto bassi per attirare più clienti in un punto vendita; prezzi per occasioni speciali, quali la “fiera del bianco” per la biancheria per la casa ecc.)

Altre forme promozionali

Servizi aggiuntivi offerti insieme al prodotto o servizio principale per stimolarne l’acquisto (ad esempio finanziamenti a basso interesse o interesse zero; termini di pagamento più ampi ecc.)

Segmentazione e discriminazione di prezzo

di quelli di listino. Un esempio emblematico è quello del settore degli pneumatici per auto, da sempre caratterizzato da prezzi di listino superiori del 45-50% rispetto ai prezzi medi effettivamente pagati dai clienti. Se originariamente questa pratica era spiegata dalla volontà di lasciare maggiori margini di manovra e spazi imprenditoriali ai rivenditori, essa si è trasformata con il tempo in una pratica mal vista dal consumatore in quanto poco trasparente e non conforme alle norme di tutela nei suoi confronti. Proprio per rimediare a questa situazione, nel gennaio 2006 Pirelli ha annunciato una riduzione del suo listino prezzi del 37%. Questo chiaramente non si è tradotto in una riduzione effettiva dei prezzi medi pagati, ma piuttosto in una riduzione significativa degli sconti medi applicati e in una maggiore omogeneità dei prezzi pagati dai diversi clienti. Infine, differenze nei prezzi possono essere applicate a seguito di diverse caratteristiche del consumatore e della domanda. Questo tipicamente avviene quando l’impresa si rivolge a più segmenti di mercato o gruppi di clienti, che presentano aspettative e percezioni di valore differenziati. Il razionale che sottostà alla discriminazione o customizzazione del prezzo è quello di cercare di estrarre il massimo profitto possibile dal mercato, sulla base del fatto che clienti diversi, in condizioni diverse, sono disposti ad accettare prezzi differenti. Facendo riferimento alla Figura 13.10, è possibile osservare che, se l’azienda chiedesse un unico prezzo per tutti i clienti e tutte le situazioni d’acquisto, il profitto che ne deriverebbe (X) sarebbe pari all’area del rettangolo compreso tra la linea orizzontale corrispondente al volume di vendite al prezzo fissato e le linee verticali corrispondenti rispettivamente al prezzo e al costo del prodotto. Questo profitto è

470 ) PARTE III – MARKETING

Figura 13.10 PROFITTO CONSEGUENTE A STRATEGIE DI DISCRIMINAZIONE DI PREZZO Domanda

Domanda

QL QM

QH X C

Y PM

(a) Pricing unico

Discriminazione continua

Prezzo

C

Z PL

PH

Prezzo

(b) Pricing discriminato in due categorie

inferiore rispetto al profitto potenziale che si otterrebbe fissando un prezzo diverso per ogni cliente in base alla sua sensibilità al prezzo, che coincide pertanto con l’intero triangolo compreso tra la curva della domanda, l’asse delle ascisse e la linea verticale corrispondente al costo. Se fosse possibile stabilire due prezzi diversi applicabili a due categorie di clienti o situazioni d’acquisto differenti e distinte (ad esempio biglietti di prima e seconda classe su un treno o la prenotazione anticipata di un pacchetto turistico), il profitto verrebbe incrementato (Y + Z, che è maggiore di X). I prezzi PL e PH fissati per i due segmenti sarebbero rispettivamente inferiori e superiori al prezzo PM fissato nel caso di pricing unico. Questo consente di ridurre le aree sottese dalla curva della domanda non sfruttate dall’impresa. Ipoteticamente questa procedura può essere ripetuta creando un numero elevato di differenziazioni di prezzo e quindi massimizzando il profitto estratto dal mercato. Le strategie di pricing delle linee aeree low cost si avvicinano molto a questa idea. I posti vengono infatti venduti con prezzi differenziati in base alla disponibilità residua e al tempo mancante alla data di partenza. In questo modo ciascun cliente paga teoricamente un prezzo diverso in relazione alla sua utilità specifica rispetto al viaggio che deve effettuare. Giovani che vogliono sfruttare tariffe basse di volo e non hanno specifiche esigenze di date o di flessibilità nella modifica del viaggio, saranno disposti ad acquistare solo a prezzi molto bassi; persone che viaggiano per lavoro e hanno date fissate, scarso preavviso e necessità di flessibilità sul cambiamento degli orari, saranno disposte a pagare i prezzi più elevati che vengono applicati in queste condizioni.

13. La strategia di marketing ) 471

13.3.6 Adattare i prezzi al contesto

Comunicare bene le variazioni

Reazioni dei concorrenti

Guerre di prezzo

Le manovre competitive di prezzo Le manovre di prezzo riguardano le scelte di adattamento del prezzo dei prodotti nel tempo. Le principali motivazioni che portano a manovre di prezzo sono le modifiche nella struttura dei costi dell’azienda, il cambiamento nella strategia competitiva, l’evolvere del ciclo di vita del prodotto, le manovre di prezzo effettuate dai concorrenti, i cambiamenti nel contesto macroeconomico di riferimento. Le manovre di prezzo possono riguardare sia riduzioni sia aumenti di prezzo. Se ad esempio i prezzi dei beni di largo consumo tendono a crescere nel tempo a causa dell’inflazione, con l’evolvere del ciclo di vita dei prodotti in molti settori industriali si assiste a riduzioni significative di prezzo, sia a seguito dell’ottenimento di economie di scala e di esperienza, sia in relazione alla perdita di valore percepito. Il settore dell’elettronica di consumo (smartphone, tablet, computer ecc.) è emblematico in questo senso. Un elemento rilevante da sottolineare riguardo alle manovre di prezzo è la necessità di chiarezza da parte dell’impresa nel giustificare la manovra effettuata. Una riduzione di prezzo può essere percepita da parte del cliente come una riduzione del valore del bene; viceversa un aumento di prezzo può essere considerato non giustificato dai livelli di inflazione o dalle modifiche apportate ai prodotti. Analogamente, è importante che l’impresa non effettui manovre di prezzo troppo frequentemente, per non dare l’impressione di instabilità e aleatorietà nella fissazione dei prezzi. In secondo luogo, occorre considerare che le manovre di prezzo spesso determinano reazioni da parte dei concorrenti che potrebbero annullare gli effetti desiderati nel momento in cui si sono pianificate. Se ad esempio un produttore riducesse i prezzi per aumentare il livello della domanda in un periodo di eccesso di capacità produttiva, e i concorrenti facessero altrettanto, l’impresa non otterrebbe lo sperato aumento di volumi e vedrebbe invece erosi i suoi profitti a seguito dei prezzi minori. Le guerre di prezzo che si scatenano a seguito di continui adattamenti dei prezzi in risposta a manovre di prezzo dei concorrenti erodono fortemente i profitti medi del settore e possono essere sostenute unicamente da imprese che hanno livelli di costo significativamente inferiori rispetto alla concorrenza. Tra il 2002 e il 2004 il settore dei videogiochi ha visto una guerra di prezzo totale iniziata da Microsoft con un taglio del prezzo di XBox in Europa da 479 a 299 euro, rilanciata da Nintendo che, dieci giorni dopo il debutto europeo di GameCube, ribassò il prezzo da 249 a 199 euro. La spirale delle riduzioni ha coinvolto anche il leader Sony, e i prezzi delle console si sono attestati successivamente su valori decisamente più bassi, con una riduzione consistente dei margini. In generale, la risposta al taglio dei prezzi da parte dei concorrenti dovrebbe essere soprattutto giocata sul terreno del valore del prodotto, specialmente quando l’impresa opera in un settore con prodotti differenziati.

472 ) PARTE III – MARKETING

13.3.7

Penetrazione o scrematura?

Segmentazione e discriminazione

13.4

Le strategie di pricing nel ciclo di vita Come anticipato nel paragrafo precedente, la determinazione del prezzo deve adattarsi allo stadio nel ciclo di vita del prodotto. Le strategie di prezzo, nella fase di introduzione, possono essere di due tipi. In alcuni casi le aziende decidono di offrire il prodotto a prezzi bassi per favorire la penetrazione del mercato e per stimolare i clienti alla prova. Tuttavia questa strategia può avere effetti negativi sull’immagine del prodotto, oltre ad avere chiari svantaggi rispetto ai profitti dell’impresa nel breve periodo. La strategia alternativa è quella di scrematura, ovvero la scelta di offrire il prodotto a prezzi medio-elevati al fine di conquistare la fascia alta del mercato. In questa fase le politiche di modifica e di differenziazione del prezzo non vengono applicate, vista la concentrazione su pochi clienti o segmenti e la limitata gamma di prodotto. Nella fase di crescita le strategie di prezzo sono dettate dalle scelte fatte in fase di introduzione. Se l’azienda ha scelto una strategia di penetrazione, in fase di crescita i prezzi vengono lievemente incrementati per riallinearli al valore percepito del prodotto o ai margini e profitti desiderati. Viceversa, nel caso di strategie iniziali di scrematura del mercato l’azienda tenderà, in fase di crescita, ad abbassare il prezzo per conquistare fasce di mercato più basse. L’azienda dovrà definire modifiche di prezzo sia in relazione all’aumentata profondità della gamma di prodotto, sia in relazione ai nuovi segmenti e ai nuovi canali distributivi penetrati. Nella fase di maturità i prezzi dei prodotti in genere vengono abbassati e, in particolare, si fa più frequentemente ricorso a sconti e promozioni per aumentare i volumi venduti. In generale, l’importanza del prezzo di mercato è maggiore in questa fase a seguito dell’elevato numero di concorrenti e prodotti sostitutivi. La discriminazione di prezzo aumenta ulteriormente a seguito della maggiore segmentazione del mercato e dell’offerta. Infine, nella fase di declino il prezzo verrà tipicamente abbassato per favorire volumi di vendita più elevati e per cercare di attirare parte dei clienti della concorrenza. È in questa fase che più frequentemente si scatenano guerre di prezzo tra concorrenti, accelerando di fatto l’uscita dal mercato dei competitor più deboli e di minori dimensioni (e quindi con costi più alti).

Le scelte di distribuzione Una delle decisioni fondamentali di marketing consiste nella scelta delle modalità per raggiungere i clienti con i propri prodotti e servizi. Le aziende, infatti, spesso non sono in grado di vendere direttamente ai clienti finali, ma devono ricorrere a intermediari. Nel capitolo 12 abbiamo già brevemente accennato alle caratteristiche del mercato degli intermediari. Qui riprendiamo il tema partendo da quelli che abbiamo definito canali di marketing, ovvero l’insieme dei

13. La strategia di marketing ) 473

soggetti che svolgono le funzioni essenziali dell’intermediazione: la vendita, la distribuzione fisica e il servizio.

13.4.1

Coerenza interna

Concentrazione e potere della distribuzione

Il canale di marketing Un canale di marketing è definito da Kotler (2003) come un “gruppo di organizzazioni interdipendenti coinvolto nel processo atto a rendere disponibile al consumo un prodotto o un servizio”. La scelta, progettazione e gestione dei canali è una delle componenti principali della definizione della strategia di marketing. Ma le decisioni relative alla distribuzione non sono indipendenti dalle altre leve di marketing: le caratteristiche del prodotto, il suo prezzo e le attività di promozione devono essere coerenti con la scelta del canale. Ad esempio, in una boutique di alta moda si troveranno prodotti di alta qualità, di griffe famose con un prezzo elevato, mentre in un hard discount si vendono beni di largo consumo di qualità standard con marchi spesso sconosciuti e al prezzo più basso possibile. In molti settori, soprattutto in quello dei prodotti di largo consumo, si è osservata una graduale concentrazione delle aziende di distribuzione, che ha dato origine alla Distribuzione Organizzata (gruppi di imprese indipendenti) e alla Grande Distribuzione (grandi catene). L’affermazione di soggetti forti che detengono un potere fondamentale, l’accesso ai clienti, ha spostato il potere contrattuale dai produttori ai distributori. Questi ultimi in alcuni casi sono divenuti addirittura concorrenti dei produttori con le cosiddette private label, ovvero prodotti a marchio proprio, a volte realizzati in autonomia, a volte dagli stessi produttori di marca costretti a servire la distribuzione. Le scelte di distribuzione giocano un ruolo chiave non solo nei mercati di consumo, ma anche in quelli industriali: spesso infatti i produttori non sono in grado di raggiungere da soli tutti i potenziali clienti, soprattutto se si tratta di aziende di dimensioni limitate che si vogliono rivolgere a un mercato ampio, magari internazionale. Diversamente dai mercati consumer, però, nel B2B i prodotti hanno generalmente un grado di personalizzazione superiore, l’interazione fra venditore, intermediario e acquirente è normalmente più intensa e il cliente finale dispone di persone e strutture specializzate per effettuare gli acquisti (si veda il capitolo 15). È importante sottolineare che anche nei settori dei servizi la distribuzione gioca un ruolo chiave per il successo dell’impresa: una banca o una compagnia di assicurazioni devono raggiungere il numero maggiore possibile di clienti avvalendosi dei mezzi più idonei allo scopo (filiali, agenti, telefono, Internet ecc.), così come una catena di ristoranti deve scegliere opportunamente la dislocazione dei suoi esercizi. Il fattore che accomuna i mercati di consumo e industriali, di prodotti e di servizi, è la compresenza lungo il canale di molteplici flussi in diverse direzioni, come mostrato in Figura 13.11: flussi fisici di prodotti e servizi, il flusso del titolo di proprietà dei beni e il flusso dell’attività promozionale dal produttore al cliente; flussi informativi di

474 ) PARTE III – MARKETING

Figura 13.11 I FLUSSI ATTIVI IN UN CANALE DI MARKETING Prodotti, proprietà, promozioni, informazioni

Produttore

Intermediari

Clienti

Ordini, pagamenti, informazioni

Flussi fisici informativi e finanziari

ordini e flussi finanziari di pagamento dal cliente al produttore; infine flussi di informazioni bidirezionali (ad esempio lo stato dei trasporti, delle consegne, delle spedizioni ecc.). Per quanto riguarda i flussi fisici di prodotti, le scelte di distribuzione coinvolgono aspetti prettamente logistici: il numero e l’ubicazione dei magazzini, i mezzi di trasporto, gli imballaggi ecc. Anche i flussi informativi relativi agli ordini hanno una rilevanza anzitutto operativa, in quanto guidano le attività di riapprovvigionamento. Queste decisioni hanno delle conseguenze dal punto di vista del marketing. Ad esempio la scelta di avere elevate scorte presso i punti vendita oppure di utilizzare mezzi di trasporto rapidi aumenta il livello di servizio al cliente. Tuttavia, una volta progettata la rete distributiva, la gestione degli aspetti logistici è normalmente demandata ad apposite funzioni aziendali. Nel capitolo 17, dove introdurremo il concetto di supply chain management, approfondiremo la gestione dei canali distributivi, soprattutto in termini logistici. In particolare metteremo in evidenza come questo aspetto sia legato anche alla gestione del parco fornitori a monte dell’impresa e non possa, quindi, venire considerato separatamente. I vari flussi che attraversano il canale possono essere gestiti da diverse tipologie di intermediari, riconducibili fondamentalmente alle seguenti forme: • rivenditori: si tratta di aziende commerciali che acquistano i prodotti (assumendone quindi la proprietà) al fine di rivenderli. Rientrano in questa categoria, ad esempio, i grossisti e i dettaglianti; • agenti: si tratta di veri e propri intermediari commerciali, quali ad esempio mediatori, rappresentanti e agenti di vendita, che contattano i clienti e negoziano la vendita in nome e per conto dei produttori, senza entrare in possesso del bene e ottenendone in cambio una commissione; • ausiliari: sono tutti quei soggetti che contribuiscono all’attività di distribuzione fornendo servizi di supporto, pur non entrando in possesso del bene né tantomeno partecipando alla transazione. Rientrano in questa categoria le imprese di trasporto e immagazzinamento (operatori logistici), le banche e le assicurazioni, le agenzie di pubblicità ecc.

13. La strategia di marketing ) 475

Tipologie particolari di intermediari sono gli OEM e i VAR, descritti nel Caso 13.6.

CASO

13.6

Gli OEM e i VAR Gli Original Equipment Manufacturer (OEM) sono aziende che acquistano beni per includerli nei loro prodotti, che vengono infine venduti al cliente finale; gli OEM possono operare sia nei mercati industriali sia in quelli di consumo. Si tratta di una via di mezzo fra un cliente industriale e un rivenditore, in quanto nel prodotto finale sono di solito riconoscibili i componenti acquistati. Oggigiorno sempre più spesso i produttori di componenti cercano di rendersi visibili ai clienti finali, mettendo in evidenza il proprio marchio – ad esempio Intel (chip) nei computer, Brembo (freni) nelle auto, Shimano (cambi) nelle biciclette ecc. –, tanto che in alcuni casi è diventato più importante per il cliente il brand del componentista rispetto a quello dell’assemblatore (è emblematico il caso dei computer). In questo modo gli OEM diventano un canale di marketing per i produttori e quindi rientrano nella strategia di distribuzione. I Value Added Reseller (VAR) sono rivenditori che forniscono, oltre al prodotto, servizi a valore aggiunto (da cui il nome). Questo termine è molto diffuso nel campo dell’informatica: i sistemi informativi professionali (hardware e software) infatti richiedono attività di installazione e configurazione; inoltre spesso è necessario sviluppare applicazioni ad hoc per il cliente che si basano sulla piattaforma del produttore. Queste attività sono al di fuori delle competenze di molte aziende, soprattutto di piccole e medie dimensioni, mentre i produttori spesso non dispongono di una rete di propri installatori, quindi i VAR agiscono da intermediari che uniscono alla rivendita del prodotto il proprio servizio.

Il Caso 13.7 ci mostra invece un esempio di un grande rivenditore: si tratta di Carrefour, uno dei leader mondiali nel settore della grande distribuzione alimentare.

CASO

13.7

Carrefour Carrefour, primo distributore europeo e secondo nel mondo, opera in 32 paesi con un fatturato globale di oltre 112 miliardi di euro, 9.500 punti vendita e oltre 471.000 collaboratori. Proponendo al consumatore format differenti, che vanno dall’hard discount all’ipermercato, dal negozio di prossimità all’ingrosso, il gruppo presenta una forte concentrazione in Europa (Francia, Belgio, Svizzera, Romania, Repubblica Ceca, Spagna, Grecia, Italia, Polonia, Portogallo, Turchia), America Latina (Brasile, Colombia, Argentina) e Asia (in particolare Cina, Indonesia e Taiwan). La Figura 13.12 illustra la ripartizione del fatturato per area geografica e per tipologia di punto vendita, rivelando il significativo impatto della divisione ipermercati sui risultati operativi dell’azienda accanto al rilievo assunto dal mercato francese.

476 ) PARTE III – MARKETING

Figura 13.12 RIPARTIZIONE DEL FATTURATO PER AREA GEOGRAFICA E PER TIPOLOGIA DI FORMAT 18,6%

9% Francia Europa (esclusa Francia) America Latina 43,2%

29,2%

Asia

11,5% 6,1% Ipermercati Supermercati 23,3% Hard Discount 59,1%

Altri

In Italia Carrefour è il secondo distributore a livello nazionale, impiega 23.000 persone e fattura quasi 7 miliardi di euro. Carrefour opera attraverso una rete di 1.319 punti vendita che comprende quattro differenti tipologie di format, tra loro complementari, per rispondere alle diverse esigenze di acquisto dei consumatori. Negozi di prossimità o superette: punto vendita self service con 200-400 m2 di superficie di vendita, monopiano, con un assortimento relativamente ristretto (circa 1.500 referenze), esclusivamente di tipo grocery; rappresenta il punto vendita vicino a casa dove si effettuano piccoli acquisti generalmente con frequenza quotidiana. Supermercati: esercizio di vendita al dettaglio nel campo alimentare, organizzato prevalentemente a libero servizio e con pagamento all’uscita, con una superficie di vendita compresa tra i 1.000 e 2.000 m2, vasto assortimento di prodotti di largo consumo; è il luogo dove viene effettuata la spesa settimanale. Ipermercati: esercizio al dettaglio di superficie tra i 5.000 e i 25.000 m2, offre una vasta gamma di prodotti alimentari e non alimentari a un prezzo molto competitivo. Situato generalmente in località periferiche o all’interno di specifici poli commerciali, viene visitato dal cliente mensilmente o bimensilmente e presenta una clientela meno fedele rispetto ai negozi di prossimità o ai supermercati. Il tema della competizione sul prezzo e dell’organizzazione di forti iniziative promozionali spot è pertanto molto sentito. Cash & Carry: grossista rivolto a una clientela di commercianti e clienti professionali, con ampie superfici di vendita per prodotti food e non food. Ciascun modello sviluppa la propria formula di vendita in piena coerenza con la specifica politica commerciale, cogliendo al tempo stesso opportunità di scambio e sviluppo di conoscenze, sinergie e risorse con gli altri format dell’azienda. Ai differenti formati corrispondono le diverse insegne del gruppo: Carrefour per gli ipermercati, GS per i supermercati e gli iperstore, DìperDì per i negozi di prossimità e DocksMarket e GrossIper per il canale Cash & Carry. La rete di vendita in Italia risulta composta come in Tabella 13.5.

13. La strategia di marketing ) 477

Tabella 13.5 COMPOSIZIONE DELLA RETE DI VENDITA DI CARREFOUR Tipologia di format

Numero di punti vendita

Ipermercati Carrefour Supermercati Carrefour Market Supermecati di prossimità Carrefour Express

61 433 812

Cash & Carry DocksMarket e GrossIper

13

Fonte: www.carrefour.com; www.carrefouritalia.it.

Molteplici tipologie di punti vendita

Il caso Carrefour mette in evidenza diversi aspetti dei canali di marketing: anzitutto la dimensione dell’azienda conferma quanto anticipato in precedenza, ovvero che i distributori oggi possono facilmente avere un potere contrattuale superiore a quello dei produttori. In secondo luogo appare evidente la molteplicità di tipologie di punti vendita gestite da un unico soggetto. Questo fenomeno è riconducibile alla volontà di raggiungere quanti più clienti possibile, risultato che non sarebbe ottenibile altrimenti. Infine, Carrefour è un buon esempio di come in realtà esistano diversi tipi di rivenditori, e in particolare di come sia necessario distinguere fra grossisti e dettaglianti: i primi vendono ad altri operatori commerciali (ad esempio piccoli negozi indipendenti) e a clienti professionali (ad esempio nel settore della ristorazione), mentre i secondi si rivolgono direttamente ai consumatori finali (per un approfondimento si veda Newman e Cullen, 2002). Questa distinzione è riconducibile alla lunghezza del canale di marketing, una scelta progettuale di base del canale stesso.

13.4.2

La lunghezza del canale Come abbiamo visto, Carrefour funge, in alcuni casi, da unico intermediario fra il produttore e il consumatore, mentre in altri casi è presente anche un secondo operatore. Questa caratteristica importante viene definita come lunghezza del canale, e corrisponde al numero di livelli del canale: a seconda del numero di intermediari presenti fra produttore e cliente finale, si possono realizzare le configurazioni illustrate in Figura 13.13: • il canale diretto corrisponde alla situazione in cui non vi è nessun intermediario fra produttore e cliente finale. È il caso delle aziende che vendono attraverso negozi di loro proprietà, quali ad esempio IKEA nel settore dell’arredamento e Zara in quello dell’abbigliamento. Rientrano in questa categoria anche tutti i produttori che vendono direttamente on line: Dell ad esempio (si veda il capitolo 16) – leader mondiale nel settore dei personal computer – vende esclusivamente al cliente finale (privato o industriale) via

478 ) PARTE III – MARKETING

Figura 13.13 LIVELLI DEL CANALE DI MARKETING Canale diretto Produttore

Canale breve Produttore

Canale lungo Produttore

Grossista Rivenditore Dettagliante

Cliente finale

Internet e via telefono. Nei mercati industriali l’assenza di intermediari è più frequente, in quanto per acquisti di grande valore ci si rivolge in genere direttamente al produttore. Questa configurazione è molto diffusa anche nel mondo dei servizi, che per le loro caratteristiche risultano difficilmente “rivendibili”: le banche, ad esempio, operano attraverso filiali di proprietà, così come uno studio di professionisti (avvocati, commercialisti, consulenti ecc.) serve direttamente i propri clienti. • Il canale breve è costituito da un unico intermediario fra produttore e cliente finale: è questa ad esempio la configurazione dei supermercati e degli ipermercati della grande distribuzione organizzata (come Carrefour, Coop, Esselunga ecc.). Questa configurazione è molto diffusa sia nei mercati di consumo (ad esempio nei settori dell’arredamento, dell’abbigliamento, degli elettrodomestici) sia in quelli industriali (si veda il Caso 13.8). Anche nel settore dei servizi è possibile ritrovare questa tipologia di canale: si pensi agli agenti delle compagnie di assicurazione, oppure ai ristoranti McDonald’s, che utilizzano la formula del franchising (si veda il box a p. 482). • Il canale lungo, infine, è caratterizzato dalla presenza di due o più intermediari, tipicamente un grossista e un dettagliante. Questa configurazione permette ai piccoli esercizi commerciali indipendenti di rifornirsi di merce, nonostante le dimensioni non consentano loro di rivolgersi direttamente ai produttori. Questa tipologia di canale era la più diffusa nei settori di largo consumo quando non esisteva la grande distribuzione, mentre ora è in crisi, sebbene nel nostro Paese sia ancora abbastanza frequente. Il canale lungo è ancora molto diffuso nel commercio internazionale: le aziende che non dispongono di proprie filiali commerciali all’estero si avvalgono di rappresentanti o importatori, che fungono da anello di collegamento fra i produttori e i rivenditori (è il caso ad esempio di Mitsubishi Motors, si veda il Caso 11.5).

13. La strategia di marketing ) 479 Strategie pull e push

Esigenze di assortimento

Carichi completi

CASO

Vi è uno stretto legame fra la lunghezza del canale e la scelta di una strategia di marketing pull o push (capitolo 11): se si utilizza un canale diretto il problema non sussiste, mentre man mano che aumenta la lunghezza diventa molto rilevante. Quali sono i driver che guidano la scelta della lunghezza del canale? Da un lato la presenza di intermediari comporta inevitabilmente un aumento dei costi e quindi del prezzo finale; inoltre, allontanando il produttore dal cliente si rischia di perdere contatto con il mercato e reagire lentamente ai cambiamenti. Proprio per questi motivi i già citati Zara e Dell hanno scelto un canale diretto: Zara collega direttamente i punti vendita con la progettazione e la produzione, in modo da poter lanciare nuovi prodotti ogni tre settimane (Ferdows, Lewis e Machuca, 2004), seguendo i trend di mercato come nessun altro nel suo settore (normalmente nell’abbigliamento si lanciano due collezioni all’anno). Dell assembla i computer soltanto dopo aver ricevuto l’ordine dal cliente e offre i prezzi più bassi del mercato, mantenendo margini di profittabilità superiori alla concorrenza. Tuttavia vi sono importanti ragioni che spingono all’introduzione di livelli intermedi: molti produttori non hanno le risorse per distribuire direttamente i propri prodotti in modo capillare. Inoltre spesso, come già visto nel caso dei prodotti di largo consumo, i clienti richiedono un assortimento che il singolo produttore non è in grado di offrire. Anche il trasporto gioca un ruolo chiave: i prodotti di basso valore vengono trasportati in modo conveniente soltanto in grandi quantità; infatti aziende come Carrefour ricevono nei propri centri distributivi carichi completi (si veda il paragrafo 17.3.1) dai singoli produttori e spediscono ai punti vendita carichi completi contenenti il mix di prodotti richiesto. Tutto questo fa sì che in alcuni casi i canali diretti siano praticamente inutilizzabili, ma si può osservare un trend verso l’accorciamento dei canali in tutti quei casi in cui questo è possibile: ad esempio la grande distribuzione sta gradualmente sostituendo il canale lungo costituito da grossisti e dettaglianti. Anche nei mercati industriali non è sempre possibile utilizzare canali diretti; in particolare quando ci si rivolge a piccoli operatori che non possono essere raggiunti in modo conveniente dai produttori. Il caso RS Components (Caso 13.8) è un buon esempio di distribuzione industriale.

13.8

RS Components RS Components è un distributore internazionale che si rivolge al mercato professionale. Nata a Londra nel 1937 con il nome di Radiospares (ricambi per radio), oggi RS fa parte del gruppo Electrocomponents, che opera direttamente in 32 paesi, e tramite distributori in altri 37, con 5.800 dipendenti e un fatturato di 1.182 milioni di sterline. L’azienda è diventata il leader mondiale nella distribuzione di prodotti elettrici, elettronici, meccanici, elettromeccanici, strumentazione, informatica, sicurezza, trasmissione dati ed editoria tecnica. Sin dalla

480 ) PARTE III – MARKETING fondazione ha fatto del livello di servizio al cliente il suo punto di forza: già allora mirava a consegnare le parti di ricambio entro 24 ore. Oggi l’azienda offre un catalogo (disponibile in formato cartaceo, su cd-rom e online) costantemente aggiornato con più di 550.000 prodotti dei migliori costruttori mondiali, selezionati da appositi team di specialisti e pronti per essere immediatamente spediti. I clienti si possono rivolgere a RS in diversi modi: online, via telefono, via fax. In particolare l’azienda vanta una quota di fatturato online pari al 54%. I prodotti vengono poi spediti con corriere espresso oppure possono essere ritirati direttamente presso i punti vendita. Inoltre RS mette a disposizione dei propri clienti un’assistenza tecnica via telefono, fax o e-mail. Gli utenti registrati hanno accesso a più di 60.000 schede tecniche on line. Infine, RS fornisce un servizio di assistenza post-vendita che comprende la restituzione dei prodotti e la taratura e riparazione degli strumenti di misura. Fonte: www.rscomponents.it; www.electrocomponents.com.

In sintesi possiamo dire che la scelta di un canale diretto è preferibile quando vi è un numero limitato di clienti che acquistano grandi quantità di beni di alto valore unitario, in genere altamente personalizzati o scelti all’interno di una vasta gamma di possibilità; chiaramente il produttore deve disporre delle risorse necessarie per avere una propria struttura di vendita. Al contrario, i canali indiretti sono preferibili in presenza di molti clienti che comprano piccole quantità di prodotti di basso valore unitario, in genere altamente standardizzati e prodotti in una gamma relativamente ristretta; la presenza di intermediari riduce la necessità di risorse distributive da parte del venditore. Tuttavia la definizione della lunghezza del canale di marketing è soltanto la prima di una serie di decisioni. È dunque necessario discutere quali sono le logiche che guidano la definizione della strategia di distribuzione.

13.4.3

La strategia di distribuzione La definizione della strategia di distribuzione ha come obiettivo quello di ottimizzare il trade-off tra il livello di servizio offerto ai clienti e i costi che devono essere sostenuti per garantire tale prestazione. Qualora il produttore non sia in grado di garantire il livello di servizio a costi convenienti, cercherà uno o più intermediari che rispondano alle sue esigenze. Kotler (2003) scompone il servizio offerto dalla distribuzione in 5 aspetti: 1. quantità: il quantitativo minimo acquistabile da un cliente dipende dalle sue preferenze, ad esempio il singolo consumatore richiede quantitativi decisamente inferiori rispetto alla clientela professionale; 2. tempo di attesa: i clienti in genere preferiscono ricevere immediatamente i prodotti acquistati, ma in alcuni casi accettano di attendere, come avviene per l’acquisto di un’automobile, ma anche per un computer Dell;

13. La strategia di marketing ) 481 Vicinanza al cliente

Assortimento e gamma

Valore aggiunto

3. ubicazione: la capillarità della distribuzione dipende sia dalla disponibilità del cliente a spostarsi sia dalla possibilità di moltiplicare i punti vendita. Per questo motivo Carrefour utilizza diverse tipologie di negozi, per andare incontro a diverse categorie di clienti. Il modello di business di IKEA non permette questa soluzione e i clienti sono disposti ad affrontare anche discrete distanze. Le vendite on line cercano di aggirare il problema permettendo di scegliere direttamente da casa e consegnando al cliente tramite corriere espresso. Chiaramente il posizionamento di un punto vendita è una decisione critica, motivo per cui si effettuano in genere studi approfonditi sulla distribuzione geografica dei potenziali clienti e della concorrenza (il cosiddetto geomarketing); 4. varietà: i clienti in genere preferiscono un ampio assortimento di prodotti, in modo da trovare tutto ciò che cercano in un unico luogo. Inoltre preferiscono una gamma più ampia, in modo da poter scegliere fra più alternative. Tuttavia una maggiore varietà richiede in genere maggiori spazi, quindi difficilmente può abbinarsi a un’elevata capillarità (si veda il caso Carrefour); inoltre oggi si assiste in alcuni casi a un’eccessiva varietà di offerta che disorienta i clienti; 5. servizi aggiuntivi: il cliente può richiedere molti servizi di supporto alla vendita, dalla consulenza al credito, dalla consegna e installazione alla riparazione, dal ritiro dell’usato allo smaltimento degli imballaggi, fino alla ristorazione presso i punti vendita. Chiaramente questi servizi aumentano l’importanza e il valore aggiunto del canale, ma allo stesso tempo ne aumentano i costi. Oggi si assiste all’arricchimento dei servizi offerti dai canali distributivi, al fine di soddisfare al meglio le richieste dei clienti. Contemporaneamente sono nate forme di distribuzione che puntano a minimizzare il livello di servizio per offrire in cambio prezzi molto bassi (si pensi ad esempio agli hard discount, agli outlet e agli spacci aziendali), andando così incontro alle esigenze della clientela più sensibile al prezzo. La formulazione della strategia di distribuzione, una volta identificato il canale appropriato, richiede la scelta del numero di intermediari da utilizzare. Le aziende dispongono fondamentalmente di tre alternative: la distribuzione esclusiva, la distribuzione selettiva e la distribuzione intensiva: • la distribuzione esclusiva si realizza scegliendo di vendere i propri prodotti attraverso un numero ristretto di intermediari, al fine di mantenere uno stretto controllo sul canale. Spesso questa forma comporta esclusività anche da parte dell’intermediario, che si impegna a non vendere prodotti della concorrenza. È il caso ad esempio di Benetton, che da sempre utilizza negozi monomarca, la maggior parte dei quali in franchising (si veda il box seguente);

482 ) PARTE III – MARKETING

Le tipologie di dettaglianti Catene di negozi: gruppo di punti vendita di un unico proprietario, caratterizzati dalla vendita degli stessi prodotti con modalità simili, sfruttando economie di scala negli acquisti e azioni promozionali congiunte. Esempi di questo tipo sono Esselunga, La Rinascente, MediaWorld. Unioni volontarie: gruppo di dettaglianti indipendenti che si uniscono sotto un’insegna comune promossa da un grossista per ottenere sinergie negli acquisti e nella promozione. Alcuni esempi sono A&O, Despar e Interdis. Gruppi d’acquisto: associazioni fra soli dettaglianti indipendenti al fine di aumentare il potere di acquisto e condividere gli investimenti promozionali. Esempi di questa tipologia sono Crai, Sisa e Conad. Cooperative di consumo: imprese di vendita al dettaglio di proprietà di un gruppo di consumatori. In Italia l’unione delle numerose Coop locali (più di 200) costituisce il più grande operatore della grande distribuzione organizzata. Centrali d’acquisto: associazioni fra più catene, unioni volontarie, gruppi di acquisto e cooperative di consumo per aumentare ulteriormente il potere d’acquisto. La più grande nel nostro Paese è Italia Distribuzione, che riunisce Coop e Conad. Affiliazioni commerciali (franchising): punti vendita di proprietà di piccoli imprenditori (franchisee) che stipulano un contratto con un franchiser (produttore, grossista, azienda di servizi) per vendere in esclusiva i suoi prodotti/servizi, utilizzandone il marchio, il format e il supporto promozionale. Questa forma molto diffusa è utilizzata ad esempio da Benetton, McDonald’s e Mail Boxes Etc. Conglomerati commerciali: gruppo di imprese che riunisce rivenditori di prodotti diversi. Ad esempio il gruppo Metro AG opera nel settore del cash & carry all’ingrosso con i marchi Metro e Makro, nel food retailing con i marchi Real e Extra, nel non food con i marchi Media Markt (MediaWorld in Italia), Saturn e Praktiker (fai da te), nei department store (grandi magazzini) con Galeria Kaufhof. Fonte: Kotler (2003); Altreconomia, www.altreconomia.it.

• la distribuzione selettiva comporta l’utilizzo di più tipologie di intermediari, ma effettuando comunque una scelta fra tutte quelle disponibili. È il caso, ad esempio, di marchi di abbigliamento e accessori di fascia medio-alta, quali ad esempio Prada e Gucci, che vengono venduti sia attraverso negozi monomarca, sia in boutique multimarca selezionate, ma non in punti vendita di fascia mediobassa; • la distribuzione intensiva, infine, punta a vendere i prodotti attraverso tutti i canali possibili, al fine di raggiungere il maggior nu-

13. La strategia di marketing ) 483

mero di clienti nel modo più capillare. È il caso, ad esempio, delle caramelle e degli snack, che si trovano nei bar, nei supermercati, nelle stazioni di servizio, nei distributori automatici ecc. Multicanalità e e-commerce

Multicanalità nei servizi

Appare ora chiaro che, se si adotta una distribuzione selettiva o intensiva, non si può più parlare di canale di marketing al singolare. Le imprese utilizzano simultaneamente più canali. Si tratta di una pratica molto diffusa, che va sotto il nome di multicanalità (si veda anche Boaretto, Noci e Pini, 2007) I vantaggi di questa scelta sono evidentemente riconducibili alla possibilità di raggiungere un maggior numero di clienti, con caratteristiche preferenziali e comportamenti di acquisto differenti. Ad esempio, i prodotti di largo consumo vengono venduti sia attraverso i canali rivolti ai consumatori finali sia sul mercato degli operatori professionali. Nel caso Carrefour abbiamo visto che una sola azienda di distribuzione dispone di canali diversi (le quattro tipologie di punti vendita): non sono solo i produttori, quindi, che utilizzano più canali simultaneamente, ma anche i rivenditori. Altri esempi di multicanalità sono le vendite on line di aziende che agiscono anche attraverso i punti vendita tradizionali: gli stessi libri oggi possono essere acquistati sia nelle librerie sia su siti quali Amazon, Internetbookshop o Bol; alcuni retailer come MediaWorld ed Esselunga utilizzano sia i negozi sia il canale elettronico. Lo stesso accade per alcuni servizi: oggi praticamente tutte le banche e le assicurazioni offrono servizi via Internet, in precedenza alcune avevano attivato il canale telefonico. La multicanalità presenta però anche potenziali rischi: prima di tutto l’attivazione di canali aggiuntivi comporta costi, che sono giustificati soltanto se effettivamente permettono di raggiungere nuovi clienti. Se invece il nuovo canale attira soltanto clienti già serviti con quelli tradizionali, a fronte di costi aggiuntivi non si hanno maggiori ricavi. Inoltre in questo caso si ottiene un ulteriore effetto negativo, in quanto gli operatori che si vedono ridurre il numero di clienti si sentono minacciati e traditi dal produttore, compromettendo un rapporto commerciale consolidato. Un caso emblematico è proprio quello del mondo dei servizi, dove i canali on line vengono utilizzati anche per ridurre i costi, in quanto riducono il fabbisogno di personale (a fronte però di ingenti investimenti, della spersonalizzazione del rapporto con il cliente e della conseguente minor fidelizzazione). Il mondo dei trasporti ha vissuto una vera rivoluzione: oggi i biglietti di treni e aerei possono essere acquistati on line, senza bisogno di recarsi presso agenzie o biglietterie. Contemporaneamente la crisi del trasporto aereo ha indotto le compagnie a ridurre i margini riconosciuti alle agenzie di viaggio, con il risultato che chi acquista un biglietto aereo presso un’agenzia (anche on line) deve pagare una commissione, mentre questo non avviene se si acquista direttamente dal sito della compagnia. Per ovviare ai rischi connessi alla multicanalità, e per sfruttarne appieno le opportunità, in genere le imprese ricorrono a diverse forme di differenziazione dell’offerta per ciascun canale, cercando di co-

484 ) PARTE III – MARKETING

Discriminazioni di prezzo nei canali

gliere le diversità fra i clienti raggiunti con ciascuno di essi. Di fatto si tratta di segmentazioni del mercato basate sul canale. Una prima modalità è la vendita di prodotti diversi: ad esempio nel campo dell’abbigliamento di marca si offre in genere la cosiddetta “prima linea”, ovvero i prodotti più costosi e ricercati, soltanto nelle boutique monomarca di proprietà del produttore; nei punti vendita multimarca si posiziona la seconda linea, meno costosa ma comunque nuova e di buona qualità; negli outlet si posizionano gli invenduti della stagione precedente, gli eventuali capi difettati e, in qualche caso, apposite linee più economiche. Una seconda modalità di differenziazione dei canali, che spesso si accompagna alla prima, è l’utilizzo di marchi diversi: è il caso ad esempio di D&G di Dolce & Gabbana, Just Cavalli di Cavalli, Krizia Jeans di Krizia. Abbiamo visto che gli stessi rivenditori utilizzano marchi diversi per i propri canali: ad esempio Carrefour ha diverse insegne per i propri punti vendita; lo stesso avviene per i negozi MediaWorld e Saturn. Infine i canali vengono diversificati anche per quanto riguarda il prezzo dei prodotti. È frequente trovare lo stesso prodotto in vendita a prezzi diversi a seconda del canale. Le imprese spesso operano una vera e propria discriminazione di prezzo in base al canale (si veda il paragrafo 13.3). Abbiamo più volte accennato come uno dei possibili canali a disposizione delle aziende sia la vendita su Internet, che ha portato significativi cambiamenti nelle scelte di distribuzione delle imprese. Gli aspetti generali dell’Internet marketing sono già stati anticipati nel paragrafo 11.3. Il box seguente approfondisce le implicazioni operative per la distribuzione.

L’impatto di Internet sulla distribuzione La nascita delle vendite on line alla fine degli anni Novanta ha suscitato inizialmente entusiasmi e preoccupazioni, in quanto i produttori hanno intravisto la possibilità di vendere direttamente ai clienti finali rendendosi indipendenti dai distributori. Chiaramente questa opportunità, vista come una minaccia dagli intermediari, risulta particolarmente interessante in quanto permette l’aumento dei margini per il produttore, il contatto diretto con il cliente, l’eliminazione di ritardi e inefficienze distributive ecc. Si è parlato infatti di disintermediazione, ovvero di eliminazione degli intermediari. Aziende come Dell hanno fatto di questa scelta il proprio punto di forza, e anche nel nostro paese esistono esempi analoghi: l’Olio Carli, ad esempio, non si trova nei supermercati, ma è venduto soltanto on line e consegnato a domicilio. È bene precisare che in realtà la vendita diretta, anche nei mercati di consumo, esisteva già prima di Internet: ad esempio la vendita attraverso cataloghi postali era molto diffusa negli Stati Uniti (nel nostro Paese Postalmarket non ha avuto analogo successo), la stessa Dell nei primi anni vendeva via telefono. Tuttavia la vendita diretta (e dunque anche quella on line) comporta problemi addizionali rispetto ai canali tradizionali. Anzitutto è necessaria una rete logistica capillare che permetta le consegne a domicilio, per la quale ci si avvale di solito di operatori specializzati. In genere i costi unitari di trasporto e consegna sono ben superiori rispetto ai trasporti in grandi volu-

13. La strategia di marketing ) 485 mi tipici dei canali tradizionali. Per limitare i costi per il cliente finale, una soluzione intermedia è l’utilizzo di punti di ritiro: la merce ordinata on line viene consegnata presso alcuni negozi dove il cliente si reca personalmente a ritirarla (come nel caso RS Components). Un’ulteriore complicazione è data dai sistemi di pagamento: chi vende on line deve garantire al cliente e a se stesso transazioni sicure, che generalmente avvengono tramite carta di credito o bonifico bancario. Infine, l’infrastruttura informatica stessa deve essere all’altezza delle esigenze del cliente, ad esempio fornendo servizi di ricerca, personalizzazione, consulenza, oltre che di acquisto. Tutto questo ha fatto sì che nascessero operatori specializzati nelle vendite on line, quindi nuovi intermediari che permettono ai produttori di affacciarsi su Internet con bassi investimenti iniziali, ma ritornando di nuovo a un canale indiretto. Il già citato Amazon (Caso 6.5) è ormai famoso, ma ve ne sono molti, anche nel nostro Paese: CHL, ad esempio, è stato il primo distributore on line italiano di informatica. Chiaramente i distributori tradizionali non sono rimasti a guardare: MediaWorld oggi vende anche on line, lo stesso fanno Esselunga e Coop. Quindi Internet, in realtà, piuttosto che eliminare gli intermediari ne ha fatti nascere di nuovi: basti pensare che esistono anche aziende che permettono di confrontare on line le offerte dei rivenditori per trovare quella più conveniente o chi ha il prodotto immediatamente disponibile (ad esempio Kelkoo). Un caso particolare è quello dei viaggi aerei: da un lato le compagnie si sono attrezzate per la vendita diretta on line, dall’altro sono nate vere e proprie agenzie di viaggi su Internet. Questo è evidentemente un caso di multicanalità con forti rischi di conflittualità fra i canali. Un caso interessante è quello di Vent Priveè, azienda francese specialista da più di 20 anni nel settore del destoccaggio delle migliori marche internazionali nell’universo della moda, della decorazione e arredamento della casa. Da alcuni anni vente-privee.com crea le vendite-evento su internet. Le vendite, limitate nel tempo (dai 2 ai 4 giorni), sono organizzate in stretta collaborazione con più di 750 marche a livello europeo ed in tutti i settori: pret-à-porter, accessori moda, articoli per la casa, giochi, articoli sportivi, high-tech, gastronomia etc. Una partnership privilegiata con le marche permette di proporre prezzi fortemente scontati rispetto a quelli di mercato.

13.4.4 Prima distribuzione selettiva...

...poi distribuzione intensiva

Le strategie di distribuzione nel ciclo di vita Anche la strategia di distribuzione deve adattarsi alle diverse fasi del ciclo di vita del prodotto; in particolare nella fase di introduzione è guidata dall’obiettivo di concentrarsi su pochi canali e massimizzarne l’efficacia, piuttosto che seguire una distribuzione intensiva su molti fronti diversi. Quando il prodotto entra in fase di crescita, la distribuzione si rivolge anche a nuovi segmenti di mercato con l’apertura di nuovi canali, in modo da raggiungere il numero più alto possibile di clienti. Analogamente, nella fase di crescita la rete di vendita dell’impresa deve essere potenziata ed estesa. In fase di maturità la distribuzione ha l’obiettivo di raggiungere il maggior numero di clienti e segmenti possibili e, di conseguenza, si diversifica e amplia ulteriormente. A seguito dei maggiori volumi e della notorietà del brand alcune aziende scelgono in questa fase di

486 ) PARTE III – MARKETING

disintermediare il canale e vendere il prodotto attraverso punti vendita di proprietà. Infine, nella fase di declino, la strategia di distribuzione tornerà a essere selettiva e verranno mantenuti i canali distributivi più redditizi e apportatori di maggiori volumi.

13.5

La comunicazione d’impresa

13.5.1

Gli obiettivi della comunicazione d’impresa

Creare relazioni con il mercato e gli stakeholder

Scopi variegati e strumenti diversi

Strategia corporate

Una delle leve fondamentali del marketing mix è quella della comunicazione, intesa come l’insieme di attività attraverso le quali l’azienda crea una relazione con il proprio mercato. La comunicazione del prodotto finalizzata alla vendita è dunque un elemento che va inserito in un quadro più ampio, quello della comunicazione d’impresa, intendendo con questo termine l’insieme delle attività che ogni azienda (o ente pubblico) mette in campo per rivolgersi ai propri interlocutori. Una precisazione va fatta anche in questo senso. Gli interlocutori dell’azienda, e quindi i destinatari dell’attività di comunicazione, non sono solo i clienti (consumatori finali o altre imprese), ma anche gli azionisti, i fornitori, i dipendenti, i giornalisti e i giovani che un giorno potranno entrare in relazione con l’azienda come clienti, fornitori, dipendenti o collaboratori (si veda in proposito Falabrino, 2005). Il mercato di riferimento di ogni impresa è composto da tutti questi target di pubblico, diversi tra loro, e con i quali bisogna comunicare in maniera differente, perché si avranno di volta in volta obiettivi istituzionali o commerciali. Proprio per questo la comunicazione di impresa si avvale di strumenti diversi: la pubblicità, le pubbliche relazioni, le promozioni, le sponsorizzazioni, il direct marketing, il digital marketing. Attraverso questi strumenti l’azienda è in grado di portare avanti le proprie strategie di conoscenza, di comunicazione al consumatore, di difesa della propria quota di mercato e di relazione con gli influenzatori (giornalisti, comunità finanziaria, azionisti e dipendenti). Questa abbondanza di referenti e di strumenti comporta necessariamente l’identificazione di una strategia corporate, ovvero di una strategia di base comune che faccia da filo conduttore tra le diverse strategie di business e di prodotto. È forse questa la parte più complessa dell’attività di comunicazione, ma è quella di maggior rilevanza. Un’azienda rischia di perdere credibilità, o comunque di vedere diminuire la forza del messaggio trasmesso, se non comunica in maniera uniforme e chiara ai diversi target di riferimento. Questo errore è stato commesso da molte imprese nel 2000, con l’esplosione dei siti Internet e delle attività di e-commerce. Il sito Internet altro non è che un nuovo canale di comunicazione, certo guidato da logiche diverse e con il grande vantaggio/svantaggio dell’interattività, ma è pur sempre un canale di comunicazione. L’errore è stato quello di considerare il sito uno strumento avulso dalle altre azioni in atto, creando spesso online un’immagine distante anni luce da quella che l’azienda andava costruendo da tempo con le campagne di advertising, di direct marketing e con le attività di

13. La strategia di marketing ) 487

Legami duraturi

13.5.2

Comunicazione emozionale

pubbliche relazioni. Allo stesso modo strategie di vendita sul canale Internet diverse da quelle commerciali adottate sui canali tradizionali hanno in molti casi screditato le aziende agli occhi dei propri clienti. Lo stesso fenomeno si è verificato in tempi più recenti con l’esplosione dei social network (Linkedin, Facebook, MySpace ecc.), strumenti di comunicazione facile e veloce, con i quali la reputazione di un’azienda, costruita nel corso di anni, rischia di crollare in pochi minuti. Abbiamo già visto quali sono le leve principali che concorrono al successo di un prodotto o di un servizio. La comunicazione è senz’altro una di queste. Gli obiettivi delle attività di comunicazione sono molteplici e si raggiungono con i diversi strumenti che analizzeremo più avanti. Ma l’obiettivo principale deve restare quello di costruire un’immagine dell’azienda coerente con i prodotti proposti, con il suo ruolo sul mercato e che tenga conto della concorrenza. Ciò non significa che la comunicazione, in particolare quella pubblicitaria, non debba contenere in sé elementi in grado di stupire o di emozionare. Tutt’altro. Significa però che le attività di comunicazione devono saper costruire un legame forte e duraturo, creando la fidelizzazione del proprio mercato di riferimento.

La fidelizzazione del mercato di riferimento Obiettivo primario della comunicazione è quello di fidelizzare i clienti e anche gli altri interlocutori con cui l’impresa si confronta ogni giorno, guadagnando piccoli vantaggi rispetto alla concorrenza. Se questa attività è nata essenzialmente per comunicare un brand o un prodotto, oggi assolve sempre più alla necessità di far conoscere un servizio, un vantaggio, di costruire il valore dell’azienda che può costituire la differenza rispetto alla proposta dei propri concorrenti. Non a caso le tecnologie di cui molte aziende oggi si avvalgono, per definire campagne di marketing e attività di comunicazione, puntano sull’analisi puntuale del database in loro possesso, eventualmente integrato con dati di fonte esterna, e sulle attività di Customer Relationship Management (CRM). Analizzare e comprendere i comportamenti dei propri clienti, le loro esigenze e i loro cambiamenti per costruire con loro una relazione duratura nel tempo è oggi il vero obiettivo della comunicazione. Il mercato è vittima di una sovrabbondanza di offerta, e per emergere è più necessario di un tempo farsi notare per il servizio offerto e per il legame che si riesce a costruire. Abbiamo già visto che il successo di una marca dipende in gran parte dal legame emozionale che riesce a stabilire con il consumatore, in cui il rapporto emotivo con il prodotto può diventare fondamentale. Sono in molti ad affermarlo. Ad esempio Kevin Roberts, CEO worldwide del network pubblicitario Saatchi & Saatchi, nel suo libro Lovemarks sottolinea proprio il concetto di “amore” nei confronti della marca (si veda anche il paragrafo 13.2.3). È chiaro che questo legame si crea in gran parte attraverso le attività di comunicazione messe in campo dalle imprese. I grandi successi, come quello di Nike del Caso 13.9, lo dimostrano chiaramente.

488 ) PARTE III – MARKETING

CASO

13.9

Nike: i valori positivi dello sport Il caso di Nike (già trattato a proposito del tema della sostenibilità, Caso 11.3) è davvero emblematico. L’azienda ha deciso di utilizzare una strategia di marca (trasferendola nella propria comunicazione) che non punta sulla vendita di prodotti, ma sulla creazione di un valore, quello dello sport. Anche i testimonial non vengono proposti come rappresentanti di una determinata squadra, ma come personaggi appartenenti al mondo dello sport e, come tali, garanti dei suoi valori positivi: la purezza, la perseveranza e la trascendenza. La rivoluzione (base del successo del brand e dell’azienda) è che Nike non ha più solo clienti, ma si rivolge a un mondo di tifosi. Ne è la prova una campagna pubblicitaria che già qualche anno fa rimandava al sito web dell’azienda, e che mirava proprio all’identificazione delle persone con una serie di modi di essere: l’aggressivo, lo sportivo a oltranza, il pigro e via discorrendo. La relazione tra l’azienda e la personalità della marca, in termini di veicolo per soddisfare un desiderio, è oggi uno dei punti cardine sui quali si può giocare il successo di un’impresa. Se l’obiettivo viene raggiunto diventano meno importanti anche le considerazioni legate al prezzo o all’effettiva rispondenza del prodotto a un bisogno reale. Quello che si vende non è solo un prodotto, è un mondo, uno stile di vita, un carattere distintivo. Il legame emozionale creato da Nike e la forte attività di awareness costruita nel tempo fanno sì che oggi l’azienda possa comunicare solo attraverso un segno grafico (il celebre swoosh) e uno slogan, Just do It, senza doversi servire del proprio nome: lo swoosh da solo evoca il marchio e il suo mondo di valori.

Consumatori ondivaghi

È questa una strada che le aziende perseguono ormai da tempo e che consente, se ben articolata, di raggiungere buoni risultati, ma che deve forzatamente tenere conto del cambiamento del consumatore, oggi più ondivago rispetto al passato. Facciamo un semplice esempio: è possibile che la stessa persona acquisti un’auto di lusso, tecnologicamente all’avanguardia, e utilizzi un modello di cellulare di qualche anno fa, oppure che effettui scelte di abbigliamento che comprendono capi a basso prezzo ma all’ultima moda e capi di fascia alta. Una stessa persona può compiere scelte estremamente diverse, che ne rendono particolarmente difficile l’inserimento in uno specifico target, ad esempio uno di quelli identificati nel Caso 12.2. Molti esperti di comunicazione sostengono che i target non esistono più, esistono invece delle persone che si fanno guidare dalle emozioni, dalle percezioni sensoriali (si pensi all’inconscio rapporto con uno specifico punto vendita o all’acquisto d’impulso) e che amano cambiare. Per queste persone è necessario sviluppare strategie di comunicazione che agiscano in maniera trasversale, componendo un puzzle degli elementi disponibili per individuare la strada da percorrere. Muoversi in questo panorama, prevedere i mutamenti dei consumatori, analizzare i comportamenti delle persone e proporre prodotti e servizi adeguati diventa pertanto molto complesso. Utilizzare strumenti di data mining (si veda il paragrafo 12.5.3) per analizzare il cliente e i suoi comportamenti consente di mirare meglio le attività di comunicazione e di supporto alle vendite.

13. La strategia di marketing ) 489

13.5.3 Promuovere l’organizzazione

CASO

La comunicazione istituzionale e di prodotto Abbiamo chiarito all’inizio del capitolo che la comunicazione d’impresa si deve rivolgere a diversi interlocutori e pertanto deve assolvere al compito di promuovere sia i prodotti (o servizi), sia l’organizzazione e l’immagine che essa vuole trasmettere al proprio pubblico. La comunicazione istituzionale può essere utile a un’impresa in molte fasi del ciclo di vita, non solo in quella di lancio di un brand e di un prodotto. Coca-Cola, brand che gode in tutto il mondo di un’awareness altissima, continua a investire in campagne istituzionali. Pensiamo agli spot pubblicitari in occasione del Natale. Il prodotto è già noto ai più. Tutti ne conosciamo caratteristiche e posizionamento, ma l’azienda continua a ricordarci il suo brand, la sua notorietà. È anche il caso di molte catene della distribuzione, tra i più attivi utenti di comunicazione negli ultimi anni, che puntano fortemente a un’attività volta a costruire identità di insegna e a creare fidelizzazione. Nel mondo bancario e assicurativo la comunicazione istituzionale è la base fondamentale per creare una relazione forte con il proprio target, che ha spesso necessità di essere rassicurato e di avere delle garanzie. Pensiamo alla campagna televisiva 2005 ideata dall’istituto di credito San Paolo: protagonista fuori campo il noto trio televisivo della Gialappa’s Band, che intervista con irriverenza dipendenti del gruppo bancario, sottolineando il valore delle singole persone per costruire la forza dell’istituto di credito. In questo caso la comunicazione istituzionale riprende con forza il tema dell’importanza della relazione personale, facendola diventare il centro della propria strategia di dialogo con il mercato di riferimento. O ancora alle campagne realizzate dal Gruppo Mediolanum, in cui il patron Ennio Doris, in prima persona, diventa testimonial della sua stessa creatura, garantendo in prima persona attenzione, sicurezza, dedizione al cliente. Questa tendenza alle comunicazione rassicurante diventa ancora più marcata nei momenti di crisi e di difficoltà per i consumatori. Esselunga (Caso 13.10) è un celebre esempio di comunicazione istituzionale di successo.

13.10

Esselunga: grande creatività per la comunicazione istituzionale Un caso interessante di comunicazione istituzionale è quello ormai celebre di Esselunga. Negli anni Novanta la catena distributiva ha dato vita a una campagna pubblicitaria, basata prevalentemente sulle affissioni, che giocava sull’utilizzo dei prodotti in un contesto diverso. Un valido uso della fotografia e una forte vena creativa hanno permesso di far sembrare un porro uno scienziato pazzo. In questo caso la campagna non riguardava un prodotto specifico, ma la catena Esselunga e il suo brand, fonte di garanzia per il consumatore, indipendentemente dal prodotto e dal marchio acquistato. Quella campagna ebbe un tale successo che, soggetta a successive modifiche, è stata per anni ed è ancora, la base della strategia di comunicazione di Esselunga, diventando anche l’origine di una serie di prodotti (quaderni, blocchi, calendari) venduti nei punti vendita e riproducenti gli stessi soggetti della campagna.

490 ) PARTE III – MARKETING Lancio e posizionamento

CASO

La comunicazione di prodotto è incentrata invece sul lancio, il posizionamento, il rafforzamento di uno specifico prodotto sul mercato. Innumerevoli sono gli esempi in questa direzione. In alcuni casi, però, la comunicazione di prodotto può essere il trampolino di lancio per comunicare un nuovo posizionamento dell’azienda, un mutamento di strategia, la voglia di rivolgersi a un target diverso, prima mai coinvolto. Il caso Stock (Caso 13.11) illustra un esempio interessante di comunicazione di prodotto.

13.11

Stock: comunicazione di prodotto mirata Fondata nel 1884 da Lionello Stock, l’azienda omonima ha vissuto negli ultimi anni un considerevole cambiamento. Nata come distilleria e diventata ben presto una delle principali realtà nella produzione e distribuzione nel mondo di brandy, grappe e altri superalcolici, l’azienda nel corso del Novecento si è espansa in tutta l’Europa dell’Est e anche in America (Stati Uniti e Brasile). All’inizio degli anni Ottanta prese il via un cambiamento degli stili di vita in atto tutt’ora, che portò al drastico calo dei consumi di bevande alcoliche. Per contrastare il mutamento di mercato bisognava ideare nuovi prodotti da affiancare ai classici Brandy Stock 84 e Grappa Julia, puntando sul marketing, su un’analisi attenta dei desideri dei consumatori e su una comunicazione dinamica. Nel 1996 l’azienda venne venduta al gruppo tedesco Eckes, che mise in atto diverse azioni tra cui il lancio di nuovi prodotti come la Vodka Keglevich Frutta, oggi proposta sul mercato in tanti sapori diversi, e il liquore di limoni Limoncé. Questi prodotti si sono rapidamente imposti sul mercato e hanno contribuito al rilancio del marchio Stock in tutti i settori di mercato, dai bar alla grande distribuzione, rivolgendosi a un target giovane. Oltre ai canali pubblicitari classici (televisione, stampa, radio, affissioni) Stock, e specialmente la linea Keglevich, utilizza le promozioni con azioni mirate al target di riferimento che si incontra nelle discoteche.

13.5.4

Strumenti di massa vs. strumenti mirati

Gli strumenti della comunicazione Il primo passo che un’impresa deve compiere è quello di definire con chiarezza la strategia di comunicazione che desidera impostare, a valle delle decisioni prese dalla direzione generale, dal marketing e dalle vendite. In generale le imprese puntano al tempo stesso sull’attività di comunicazione istituzionale e di prodotto, cercando di dosare al meglio le attività e gli strumenti da utilizzare. Una volta definito il budget da destinare complessivamente alle attività di comunicazione, si decide come utilizzarlo, vagliando anche le proposte del mercato. Si privilegerà la pubblicità classica, e quella televisiva in particolare, qualora si voglia comunicare al grande pubblico o si propongano prodotti di largo consumo. A questa potranno essere affiancate azioni di sales promotion o eventi di grande impatto (concerti, eventi sportivi o altro). Nel caso di una comunicazione più mirata, rivolta a nicchie di pubblico e in particolare nel settore B2B,

13. La strategia di marketing ) 491

Coinvolgimento dei fornitori

Agenzie specializzate

la scelta andrà verso strumenti più diretti, come il direct marketing, il web marketing o le relazioni pubbliche. L’azienda valuterà inoltre come muoversi nei confronti del canale (rivenditori, agenti, concessionari, partner) tramite azioni di tipo push, e del cliente finale, tramite azioni pull. Va detto che i migliori risultati vengono sempre da un mix opportuno degli strumenti, piuttosto che da strategie focalizzate su uno solo di essi. Molto spesso sono le limitazioni di budget a frenare la creatività. Più raramente vi sono grandi budget di comunicazione a disposizione senza avere chiare idee su come spenderli. Nel processo decisionale vengono in genere coinvolti anche i fornitori dell’azienda: dalle agenzie ai centri media, dagli editori agli organizzatori di eventi o di iniziative speciali. La pubblicità La maggior parte degli investimenti in comunicazione si concentra sulla pubblicità classica (advertising) che coinvolge a sua volta i diversi mezzi disponibili: da quelli più tradizionali, (TV, stampa, affissione, radio, cinema) a quelli di nuova generazione (Internet, TV digitale, telefonia mobile). La scelta dei mezzi consente anche di diversificare le campagne sia in base al pubblico che si vuole colpire (teen ager piuttosto che massaie), sia in base al prodotto che si intende promuovere, sia in base al budget disponibile. Per approfondire il tema della pubblicità si veda anche Bassat e Livraghi (2005). A occuparsi delle campagne pubblicitarie delle aziende sono in genere le agenzie specializzate, coadiuvate dalle case di produzione per la realizzazione degli spot e dai centri media per la pianificazione della campagna sui diversi organi di informazione. Alcune grandi aziende, come Ferrero, preferiscono invece studiare e pianificare le campagne al proprio interno. La strategia pubblicitaria di un’azienda deve sempre tenere conto del pubblico di riferimento (il target), del contesto concorrenziale e del posizionamento di marca. Una volta stabilita la strategia di comunicazione, è fondamentale la scelta creativa, “il come” della pubblicità. In questo campo la capacità di emozionare e di evocare può diventare quasi più importante del prodotto/servizio proposto. Pensiamo alla campagna ideata da Fiat qualche anno fa. Al centro dello spot nessuna auto, solo un vicino di casa che diceva “Buonaseraa”; un claim diventato un tormentone in poco tempo. O ancora pensiamo a uno spot vincitore di tanti premi, quello per Peugeot 206 in cui si vede un giovane indiano trasformare la tipica auto diffusa in India (il taxi bianco) nella macchina dei propri sogni (la Peugeot 206 appunto) a suon di urti contro il muro e martellate. La pubblicità, ancora oggi, deve evocare un sogno, un’emozione, deve far sorridere e divertire. L’advertising classico è per sua natura un mezzo di comunicazione mass-market, rivolto al consumatore finale e basato su grandi numeri: colpire il maggior numero di clienti nei canonici trenta secondi di uno spot o con una pagina pubblicitaria su un giornale di larga diffusione. In aggiunta a questo l’ampia diffusione delle testate specializzate, e oggi delle TV tematiche, sta offrendo anche all’advertising la possibilità di comunicare a target mirati.

492 ) PARTE III – MARKETING I grandi investitori

Azioni e reazioni

Nuove tecnologie

Saturazione e privacy

Consumatori e canali

Come ben sappiamo, la pubblicità è anche questione di numeri. L’area dell’advertising ha registrato nel suo complesso nel 2012 (periodo gennaio-aprile; Fonte: Nielsen Media Research) un investimento netto di 2,7 miliardi di euro, con un calo dell’8,2% sullo stesso periodo dell’anno precedente. La parte del leone la fa sempre la TV, che pesa per 1,5 miliardi di euro, pur registrando un calo dell’8,6%. Di segno positivo sono invece i soli investimenti su Internet, che fanno registrare un +10,2%, con un investimento netto di 212 milioni di euro. Dal direct marketing al web marketing Potremmo probabilmente dire che il marketing diretto è una delle più antiche forme di comunicazione usate dall’uomo, che vanta una storia ben più lunga di quella dell’advertising puro e di altre forme ideate nel tempo per creare un legame tra azienda e cliente. La forza di questa tecnica di comunicazione risiede nel suo essere a due direzioni: da una parte c’è un’azienda che comunica, dall’altra c’è un cliente che reagisce, che interagisce e che dà una risposta (talvolta immediata) a un messaggio ricevuto. Si tratta di un meccanismo “push and pull”, in cui l’azione determina una reazione. Questo non accade con altre tecniche di comunicazione, dall’advertising alle promozioni, che si basano sul trasferimento di un messaggio da un emittente a un ricevente senza che vi sia una reazione immediata. Il marketing diretto raggiunge un pubblico selezionato e potenzialmente interessato al messaggio proposto, e può inviare messaggi ricchi di contenuto e personalizzati, finalizzati a costruire una relazione duratura nel tempo. Grazie alla diffusione delle nuove tecnologie il direct marketing, tradizionalmente legato alla posta tradizionale e al telefono (telemarketing), utilizza oggi svariati strumenti. In particolare l’utilizzo della posta elettronica (e-mail marketing) consente di consegnare il messaggio praticamente in tempo reale a costi più contenuti rispetto ai mezzi tradizionali, con una maggiore interattività e con la possibilità di creare mailing list correttamente profilate. Come anticipato nel capitolo 11 (paragrafo 11.3.2), il direct marketing deve oggi fare i conti con le norme sulla privacy e con una certa saturazione del mercato: i consumatori bombardati e inseguiti dalla pubblicità non sono sempre ben disposti e, come già ricordato, si fanno strada approcci basati sul cosiddetto permission marketing, che avviene solo con il consenso esplicito del cliente (si veda il paragrafo 11.3.2). Il web permette oggi di creare azioni di forte interattività con il pubblico, non solo attraverso comunicazioni via e-mail. Le promozioni Creare un vantaggio economico, attraverso la vendita di un numero maggiore di prodotti o la costruzione della fedeltà alla marca: questo è l’obiettivo primario che si pongono le attività promozionali, attività che sono cresciute in maniera esponenziale negli ultimi anni. Le promozioni possono coinvolgere sia il consumatore finale (in un’ottica pull) che il canale (in un’ottica push). Sono dunque pensate per il mercato B2C e per il mercato dei rivenditori, mentre trovano meno

13. La strategia di marketing ) 493

Effetti collaterali

Creare consapevolezza e consenso

spazio nei mercati industriali. Nelle promozioni al consumatore le tecniche più note sono le classiche iniziative di taglio-prezzo o di offerte convenienti (come il 3 × 2), oppure gli abbinamenti di prodotti (uno shampo offerto con un bagnoschiuma, un pacco di pasta con un sugo pronto) a prezzo scontato, o ancora i concorsi a premi o le raccolte punti (oggi spesso gestite con le carte fedeltà e anche via web). Perché l’attività promozionale abbia successo è fondamentale individuare con precisione il target di riferimento, affinché accanto ai risultati immediati nella finestra di promozione si costruisca uno “zoccolo duro” di clienti che faranno crescere i profitti anche nel periodo successivo. In questo senso, sono emblematiche le operazioni messe in campo da molte compagnie petrolifere, con cataloghi a premi e carte fedeltà spesso legate anche ad altre campagne promozionali. Le promozioni al canale si rivelano uno degli strumenti più importanti, insieme alle relazioni pubbliche, per realizzare una strategia push, mirata a creare una relazione, trasferire informazioni e incentivare la vendita. Pensiamo alle attività costruite dalle aziende di elettronica di consumo per incentivare il proprio canale di vendita (proposta di viaggi e vacanze premio, incentivi sulle vendite, persino premi a catalogo), oppure dai tour operator nei confronti delle agenzie di viaggi. In questo caso l’obiettivo delle promozioni è quello di far aumentare la presenza o la vendita dei propri prodotti o servizi all’interno dei singoli punti vendita. Naturalmente gli effetti delle promozioni sulla supply chain non sono sempre benefici, in quanto determinano forti oscillazioni della domanda difficili da gestire (si veda ad esempio l’effetto bullwhip illustrato nel paragrafo 17.3.1). Le relazioni pubbliche Nell’ambito delle relazioni pubbliche si inseriscono tutte le attività di comunicazione volte a creare e a mantenere relazioni efficienti con i vari pubblici di riferimento dell’azienda. Il mercato delle relazioni pubbliche, nonostante gli anni di crisi, ha registrato un segno positivo anche nel 2012, con una crescita delle digital PR e dei social media di oltre il 20% (Fonte: Assorel). Obiettivo di chi si occupa di relazioni pubbliche (all’interno di un’azienda, in un’agenzia o come libero professionista) è quello di far conoscere l’attività dell’azienda, creare consenso, gestire e mantenere i rapporti con i diversi interlocutori (azionisti, giornalisti, fornitori ecc.). Il tutto avendo come principio guida l’immagine dell’azienda o di un marchio presso il mercato esterno. Questo comporta uno stretto legame delle relazioni pubbliche con le altre aree della comunicazione, un percorso comune volto a creare un’immagine che va comunicata (e talvolta difesa) verso l’esterno. Il ruolo delle relazioni pubbliche è infatti quello di far conoscere le iniziative dell’azienda, le novità, i nuovi prodotti, contribuendo a costruire un’immagine positiva. Oltre a questo le relazioni pubbliche offrono la possibilità alle altre attività di comunicazione di essere note al grande pubblico. Pensiamo a una campagna promozionale, a una sponsorizzazione sportiva o culturale. Il volano dell’iniziativa viene dato dalle rela-

494 ) PARTE III – MARKETING

Il ruolo dell’ufficio stampa

Eventi, convegni e fiere

CASO

zioni pubbliche, che rendono noto ai media (e attraverso questi al grande pubblico) in quale direzione l’azienda sta lavorando. Gran parte dell’attività riguarda proprio la gestione dell’ufficio stampa (che può essere interna o esterna all’azienda), ovvero la gestione della relazione con giornali e giornalisti, l’organizzazione di interviste, la proposta di tematiche specifiche da sviluppare e approfondire. La capacità di comunicare in maniera corretta con “la stampa” consente di creare un flusso di informazioni biunivoco, stimolate da chi gestisce l’attività di PR, spesso su richiesta e indicazione della stampa. In quest’area si inseriscono anche attività di organizzazione di eventi, convegni e fiere. In particolare nel caso di comunicazione B2B dobbiamo rilevare l’importanza che queste iniziative rivestono. Chi deve comunicare a un pubblico business privilegia strumenti diretti, nei quali si riesce ad avere un contatto one-to-one, o anche one-to-many, con un pubblico specifico e interessato. In crescita è l’organizzazione di eventi “monoazienda”, ovvero gestiti interamente dall’azienda e volti a presentare i propri prodotti e a diffondere conoscenza in merito al business. Si tratta di attività costose che possono però creare un forte legame con il pubblico di riferimento e che non sono soggette alle dispersione che spesso riguarda gli strumenti di comunicazione mass-market. Per comunicare al pubblico business si utilizzano anche gli house organ, vere e proprie riviste aziendali, oggi sempre più spesso veicolate via Internet sotto forma di newsletter. Nell’ambito delle relazioni con la stampa vengono privilegiate quelle con le testate e gli organi di informazione specializzati, in genere distribuiti (in abbonamento o in edicola) a target specifici. In questo caso l’azienda ha la possibilità di veicolare campagne mirate, inserti o supplementi dedicati e di creare una relazione con le redazioni volta a trasmettere al meglio i propri contenuti editoriali. Avis (Caso 13.12) è un esempio interessante di strategia di comunicazione integrata, fortemente basata sulle relazioni pubbliche.

13.12

Avis Comunale Milano AVIS (Associazione Volontari Italiani del Sangue) di Milano si costituisce nel 1927 per opera di diciassette volontari che rispondono all’appello di un giovane medico, Vittorio Fomentano. L’associazione nasce per contrastare l’unica forma possibile di trasfusione di sangue allora praticata: quella a pagamento prestata da donatori di sangue e, ovviamente, a esclusivo beneficio delle classi più abbienti. I principi fondamentali dell’associazione, che ancora oggi ne ritmano la vita, si riassumono in: gratuità, periodicità, anonimato e sicurezza del dono del sangue. Negli ultimi anni Avis Milano ha scelto di affidarsi all’agenzia Borsani Comunicazione per elaborare una strategia di pubbliche relazioni volta ad ampliare la conoscenza delle attività realizzate dall’organizzazione. È stato creato un percorso a due vie, volto a comunicare con le persone e con le aziende, raggiungendo pubblici diversi ma comunque utili alla diffusione del messaggio di Avis Milano. Obiettivo dell’organizzazione è infatti quello di far aumentare la co-

13. La strategia di marketing ) 495 noscenza dell’importanza della donazione di sangue. La strategia adottata ha privilegiato gli accordi siglati con aziende come Computer Associates e Carrefour e con gruppi di influenzatori (i consoli, i rettori universitari, i tassisti). Ogni iniziativa è poi stata comunicata alla stampa generalista e di settore, creando un’importante cassa di risonanza. L’accordo con Amref (African Medical & Research Foundation) – un’altra onlus – e con il suo testimonial, l’attore Giobbe Covatta, ha inoltre creato una campagna di relazioni pubbliche molto forte, basata sul concetto del “volontariato che crea volontariato” e molto seguita dalla stampa. Fonte: Borsani Comunicazione.

Digital PR e web reputation La diffusione di blog, community e social network è già stata introdotta nel paragrafo 11.3.2 a proposito delle tendenze emergenti del marketing. L’attenzione di persone e aziende nei confronti della “blogosfera” e dei social media ha reso necessario un importante adeguamento delle strategie di comunicazione, che non possono ormai prescindere da questi media. La comunicazione su tutti gli strumenti proposti dal web, social network inclusi, deve essere gestita, organizzata e valutata così come ci si è abituati a fare con gli altri media. Le attività di digital PR includono quindi la gestione dei post sui forum e le community, la gestione delle pagine Facebook, le attività di buzz marketing, In pratica tutte quelle informazioni che viaggiano in rete su un’azienda, un’istituzione, così come ad esempio su un ristorante o su una località turistica, devono diventare oggetto di attenzione da parte di chi gestisce queste organizzazioni. La reputazione di un brand sul web può infatti crollare rapidamente, a causa di qualche commento negativo o di attività non governate. Il ruolo delle digital PR è quello di gestire senza invadere, lasciando ai social network e alla rete quell’immediatezza e freschezza che li caratterizzano, senza la quale questi media non avrebbero avuto il successo che oggi hanno. Sempre più l’attività di relazioni pubbliche non può prescindere dalla gestione delle relazioni digitali, dal governo e dal controllo della reputazione di brand e aziende sui canali digitali e dalla diffusione di informazioni con uno stile adeguato ai digital media. Twitter ne è una prova. Un solo messaggio di 140 caratteri che venga rilanciato in modo virale può decreterare il successo di un brand, oppure distruggerlo. Non solo una valutazione empirica, ma numeri, come dimostra la già citata indagine della School of Management del Politecnico di Milano e di Mimesi, società di press e web monitoring del gruppo Reed Business Information (si veda in proposito il box a p. 395 (paragrafo 12.3.3). Quei risultati evidenziano la forza inarrestabile dei social media con numeri impressionanti. Milioni di italiani modificano le proprie scelte di acquisto a seguito di informazioni recuperate tra i diversi social media e si fidano pienamente di quanto leggono su prodotti e servizi nei blog e nei forum. Il lato positivo, per le aziende, è che il nuovo consumatore ha una spiccata propensione a condividere anche le informazioni positive (soddisfazione o addirittura entusiasmo per il prodotto o servizio) e non solo quelle negative. I nuovi

496 ) PARTE III – MARKETING

media digitali si stanno stabilmente affiancando ai media tradizionali come fonti di informazione nei processi di acquisto, al punto che lo scenario che si prospetta è quello in cui li supereranno presto come autorevole canale informativo nelle decisioni di acquisto, in grado di influenzare le scelte in maniera rilevante.

Rapida promozione del brand

Beni di largo consumo

Comunicare le novità

Le sponsorizzazioni In principio fu la radio. Le prime forme di sponsorizzazione di cui si ha notizia riguardano infatti l’abbinamento di alcune grandi aziende italiane a note trasmissioni radiofoniche. Oggi lo “sponsor” è ovunque, persino sulle maglie delle squadre di calcio dell’oratorio. La sponsorizzazione è una forma di comunicazione in grande espansione, che permette a un’azienda di abbinare il proprio marchio a quello di uno sportivo, di una squadra, di un’iniziativa culturale, di un evento o di una campagna sociale, ottenendo un duplice risultato. Il primo è l’esposizione del marchio in ogni occasione che vedrà al centro l’oggetto della sponsorizzazione; il secondo è una riconoscibilità, una sorta di identificazione dei brand coinvolti. Nello sport non sono rari i casi in cui il nome dello sponsor diventa il nome della squadra (pensiamo alla Armani Jeans nel basket). I vantaggi principali di questa forma di comunicazione sono la rapida promozione del brand, la comunicazione dei valori aziendali e la diffusione del brand attraverso la ripresa televivisa. Il marchio automobilistico Mazda, per esempio, si è fatto conoscere rapidamente in Italia attraverso la sponsorizzazione della squadra di calcio della Roma e di un certo numero di palazzetti dello sport (denominati Mazda Palace) dislocati in alcune delle principali città italiane. Il packaging Da non trascurare la comunicazione possibile attraverso il packaging (la confezione) del prodotto (si veda il paragrafo 13.1). Esistono da tempo agenzie specializzate nello studio della confezione di un prodotto, in particolare per i beni di largo consumo, spesso soggetti a un acquisto d’impulso. Un buon packaging è molto più che una semplice comunicazione sulle funzionalità e i benefici di un prodotto; il brand packaging deve infatti saper esprimere i valori intrinseci di un marchio specifico ai potenziali clienti. Valori che una volta stabiliti alla nascita di un nuovo brand non dovrebbero mai essere cambiati. Questo tuttavia non pregiudica l’evoluzione; al contrario, con l’evolvere del mercato e dei consumatori, un prodotto che si presenta sempre uguale può presto stancare ed essere considerato vecchio e obsoleto e, in quanto tale, essere incapace di generare l’interesse e le vendite necessarie per giustificare la sua presenza sullo scaffale. È fondamentale avere un packaging che sia attinente e diversificante in modo da stimolare, ma anche semplificare, la decisione d’acquisto. Si pensi alle infinite variazioni sul packaging base realizzate da CocaCola che, pur mantenendo una forte riconoscibilità, periodicamente modifica il design di bottiglie e lattine, ad esempio in occasione del Natale o di eventi come le Olimpiadi. Il packaging come leva di comunicazione può rivelarsi molto utile qualora ci sia una forte pressione competitiva da parte della concor-

13. La strategia di marketing ) 497

renza e diventi necessario farsi notare; nel caso di rilancio o riposizionamento del prodotto sul mercato e nel caso di riformulazione del prodotto, il nuovo design del packaging serve ad attirare il cliente per comunicargli la novità.

13.5.5

Far conoscere il prodotto

Sostenere il brand

Le strategie di comunicazione nel ciclo di vita Nella fase di introduzione la comunicazione ha un ruolo molto importante e l’obiettivo è prevalentemente quello di far conoscere il nuovo prodotto al cliente – in particolare ai clienti con maggiore propensione all’innovazione – e di affermare il brand e il posizionamento scelto per il prodotto. Il mix di comunicazione è generalmente spostato sulla pubblicità e la promozione. Nello stadio della crescita gli investimenti in comunicazione sono generalmente elevati. Le strategie sono volte a sottolineare le caratteristiche del prodotto e indurre i clienti all’acquisto. Vi è un uso intenso della pubblicità, delle pubbliche relazioni e talora anche del direct marketing, mentre le promozioni sono normalmente premature. Nella fase di maturità le strategie di comunicazione sono volte prevalentemente a sottolineare il valore del prodotto, a sostenere la notorietà del brand e a stimolare la fidelizzazione del cliente. In fase di maturità cresce la rilevanza delle promozioni nell’ambito del communication mix al fine di favorire la conversione di marca. Gli investimenti in comunicazione in fase di declino sono mediamente ridotti ed eventualmente volti a sottolineare nuove funzionalità o servizi offerti o a proporre impieghi alternativi per il prodotto. Le promozioni sono spesso utilizzate in modo massiccio verso il termine della vita del prodotto per favorire l’esaurimento delle scorte. Un aspetto molto importante da gestire in fase di declino è il valore del brand. Se infatti il brand non è collegato al singolo prodotto ma all’azienda nel suo complesso, bisogna porre molta attenzione a limitare gli effetti negativi sul valore della marca che possono derivare dall’immagine di un prodotto obsoleto, in declino, venduto a prezzi bassi. In questi casi l’azienda può avere convenienza a uscire rapidamente dal mercato, ritirando il prodotto e sostituendolo al più presto con un prodotto innovativo che sfrutti il valore del brand creato grazie al successo del prodotto precedente. Alcune aziende scelgono di effettuare questa uscita in modo selettivo, disinvestendo dai mercati più sensibili al valore del brand e sfruttando il prodotto maturo nei mercati in forte crescita, ad esempio nei Paesi di recente industrializzazione. Questo capitolo, che conclude la parte terza, ci ha portato più vicini al mondo del marketing operativo, illustrando le variabili decisionali tipiche del marketing mix, ovvero la configurazione dell’offerta di prodotti e servizi, la determinazione del prezzo, la distribuzione e gestione dei canali e la comunicazione d’impresa. Complessivamente prese, queste scelte costituiscono la strategia di marketing di un’azienda, ovvero la fase realizzativa del processo decisionale di marketing introdotto nel capitolo 11. Abbiamo sottolineato come le decisioni di pro-

498 ) PARTE III – MARKETING

Tabella 13.6 LE STRATEGIE DI MARKETING NEL CICLO DI VITA DEL PRODOTTO Leve del marketing mix

Introduzione

Ciclo di vita del prodotto Crescita Maturità

Obiettivi

Diffusione

Penetrazione

Mantenimento dei clienti e delle quote

Sostenere la strategia di uscita

Tipologia di clienti

Pionieri

Innovatori

Maggioranza conservatrice

Ritardatari

Prodotto

Prodotto base

Estensioni del prodotto/servizio

Estensione assortimento

Eliminare i prodotti deboli

Prezzo

Alto (scrematura) o basso (penetrazione)

Allineamento con valore percepito (scrematura), in crescita (penetrazione)

Allineamento con prezzo di mercato o con margini desiderati

Riduzione

Distribuzione

Selettiva

Intensiva

Intensiva

Selettiva su punti vendita più redditizi

Comunicazione Pubblicità

Conoscenza del prodotto tra gli adottatori iniziali Affermazione del brand

Caratteristiche del prodotto, conoscenza e interesse nel mercato di massa

Differenze e vantaggi della marca

Nuove funzionalità e nuovi usi Ridurre l’investimento

Ridurre per massimizzare i profitti

Aumentare per incoraggiare la conversione di marca

Ridurre a un livello minimo

Promozione vendite Spingere alla prova del prodotto

Declino

Fonte: adattato da Kotler (2003).

Allineamento delle decisioni di marketing

dotto/servizio, prezzo, distribuzione e promozione, sebbene costituiscano ambiti decisionali in qualche modo autonomi, debbano essere raccordate e allineate al posizionamento dell’azienda in ognuno dei segmenti target selezionati. Abbiamo poi delineato il modo in cui queste scelte generalmente variano lungo il ciclo di vita del prodotto. Una visione di sintesi delle scelte relative alle leve del marketing mix lungo il ciclo di vita del prodotto è fornita in Tabella 13.6. L’analisi dei risultati delle strategie di marketing richiede, infine, l’uso di opportuni indicatori di prestazione e l’attivazione di un sistema di rilevazione e analisi delle informazioni. È la naturale chiusura di un processo decisionale assolutamente critico e strategico per ogni impresa che operi in un mercato aperto e competitivo. Processo che dovrebbe essere quanto più possibile razionale e strutturato e dunque riconducibile a quello che nel capitolo 8 (paragrafo 8.4) abbiamo chiamato approccio thinking first.

parte quarta

Acquisti e supply chain Impresa

Organizzazione

Fornitori

Acquisti e supply chain

Marketing

Processi decisionali

Clienti

14. Le scelte strategiche di make-or-buy • Outsourcing ed effetto leva • Integrazione verticale, mercati competitivi e collaborativi • Costi di transazione e specificità degli asset • Core competence, controllo dei costi ed efficienza degli investimenti

La strategia

La gestione

• • • • • • • •

15. Gli acquisti Acquisti diretti, indiretti e di servizi Il processo: Strategic Purchaising, Sourcing e Supply L’organizzazione di acquisto Il portafoglio di acquisto Global sourcing e local sourcing Total cost of ownership e vendor rating Negoziazione e contratti E-procurement

La relazione a due 16. La gestione della partnership • Sviluppo del trust e meccanismi di protezione • La collaborazione tecnologica (co-design) • La collaborazione operativa

La funzione interna

La filiera e la rete 17. Supply Chain Management • Trade-off tra livello di servizio ed efficienza • Supply chain efficienti, reattive, agili e risk hedging • La condivisione delle informazioni

In quest’ultima parte i concetti di organizzazione e decision making sono applicati alla gestione dei rapporti con i mercati di approvvigionamento. Gli acquisti, le relazioni con i fornitori e la gestione della supply chain sono ambiti strategici per la competitività delle imprese. Il capitolo 14 introduce il tema delle decisioni strategiche di make-or-buy, che portano le imprese a decidere quali componenti, parti e servizi realizzare al proprio interno e quali invece acquistare sul mercato; nel capitolo si discutono la crescente rilevanza dei processi di acquisto, i criteri e i fattori che determinano il ricorso al cosiddetto outsourcing. Nel capitolo 15 si approfondiscono i temi gestionali degli acquisti, analizzandone i processi, le strutture organizzative e gli strumenti, quali la gestione del portafoglio, la valutazione e la selezione dei fornitori, la negoziazione, i contratti e l’e-procurement. Il capitolo 16 concentra l’attenzione sulla gestione dei rapporti collaborativi con i fornitori (partnership), definendone le condizioni di applicazione e i meccanismi di gestione; vengono in particolare analizzate le collaborazioni tecnologiche per lo sviluppo dei nuovi prodotti e servizi e quelle operative legate alla pianificazione delle forniture e alla gestione dei flussi logistici. Infine, nel capitolo 17, si introduce il concetto di supply chain management, ovvero l’estensione delle strategie e delle pratiche gestionali per il governo dei flussi di beni e servizi a tutta la catena del valore, dai fornitori di materie prime fino ai mercati finali di consumo.

14 Le scelte strategiche di make-or-buy La tendenza verso l’outsourcing

SOMMARIO

14.1

Integrazione verticale e competitività

Economie di scala

CASO

14.1 L’evoluzione dei rapporti cliente-fornitore j 14.2 Mercato competitivo, mercato collaborativo e integrazione verticale j 14.3 Le condizioni per il mercato: complessità, specificità e incertezza j 14.4 I driver strategici j 14.5 Le reti di fornitura

L’evoluzione dei rapporti cliente-fornitore Quali attività svolgere direttamente al proprio interno e quali affidare a imprese esterne è da sempre una delle decisioni cruciali che un’impresa si trova ad affrontare. Si tratta di una scelta importante, in quanto contribuisce a definire in misura sostanziale il modello d’impresa e può influenzare la competitività e le prestazioni complessive. A lungo le aziende hanno optato per una gestione interna, e possibilmente integrata, di tutte le attività collegate al business. Questo è il concetto di integrazione verticale: l’impresa presidia tutte le attività necessarie alla realizzazione e alla vendita dei propri prodotti, dall’approvvigionamento delle materie prime alla distribuzione dei prodotti finiti. L’esempio dello stabilimento Ford River Rouge (Caso 14.1) illustra chiaramente questa scelta. Generalmente il modello di impresa fortemente integrata verticalmente si rivela di successo in contesti competitivi stabili, caratterizzati da domanda di mercato poco variabile e tale da saturare in modo continuativo la capacità produttiva disponibile. Tipicamente solo le grandi economie di scala, applicabili a produzioni di massa e di basso costo, giustificano gli investimenti elevati, in macchinari e impianti, che caratterizzano questa configurazione di impresa.

14.1

Ford: dall’integrazione verticale all’outsourcing Le origini Alla domanda “Chi ha inventato l’automobile?” molti rispondono “Henry Ford”. Una convinzione errata, ma che rende un doveroso omaggio all’uomo entrato nella storia per aver

502 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

reso l’automobile un lusso riservato a molti. “Costruirò un’auto che avrà un costo così basso da essere accessibile a tutti”: cento anni fa, il 16 giugno del 1903, a Detroit – nei locali di una vecchia fabbrica di vagoni ferroviari riconvertita per l’occasione – nasce Ford Motor Company, con un capitale iniziale di 28.000 dollari, corrispondendenti a neppure 300.000 euro odierni. La prima automobile prodotta fu il Modello A, un due cilindri in grado di raggiungere i 35 km/h: “L’auto migliore mai realizzata, così semplice che anche un ragazzino di 15 anni avrebbe potuto guidarla”. Tra il 1903 e il 1908, con il suo staff d’ingegneri e tecnici, Henry Ford mise a punto una serie di modelli, sempre più perfezionati, chiamati con le lettere dell’alfabeto, fino alla S. La piccola azienda continuò a crescere e il 1° ottobre 1908 il sogno di Henry Ford si realizzò. Era nato il mitico Modello T, soprannominato successivamente “Lizzie” da milioni di americani. Un’automobile semplice nel funzionamento e brillante nelle prestazioni, che in 20 anni ha venduto oltre 15 milioni di unità. Dalla linea di assemblaggio allo stabilimento Ford River Rouge Il successo di Ford è stato fin dall’inizio legato al basso costo dei suoi veicoli, ottenuto grazie alla razionalizzazione e alla standardizzazione del lavoro e alla sempre maggiore automazione dei processi produttivi; nel 1913 Henry Ford inaugurò la prima linea di assemblaggio completa. Nel 1917 iniziò la costruzione del famoso stabilimento di River Rouge, che divenne completamente operativo nella seconda metà degli anni Venti e rimase il più grande del mondo per oltre 10 anni. Tutte le attività erano sotto il controllo di Ford Motor Company, dall’estrazione dei minerali da miniere di proprietà all’assemblaggio del prodotto finito. Ferro, carbone e altri minerali erano trasportati lungo il fiume su cui giaceva lo stabilimento tramite 2 navi che si alternavano continuamente. Dalla banchina sul fiume, le materie prime erano poi stoccate presso magazzini da cui venivano progressivamente prelevate per essere trasportate alle fonderie. L’acciaio e gli altri materiali fusi erano quindi trasferiti alle rispettive fabbriche per la produzione dei motori, dei componenti meccanici e della carrozzeria. Tutto questo avveniva in impianti di stampaggio e lavorazioni meccaniche dedicati. Analogamente venivano prodotti il vetro per i parabrezza e i finestrini e la gomma per gli pneumatici. Tutti i pezzi così realizzati venivano infine trasportati alle linee di assemblaggio per il montaggio del prodotto finito, che era poi distribuito grazie alla rete ferroviaria del Paese. Tutte le attività di trasporto interne allo stabilimento avvenivano tramite una rete ferroviaria proprietaria e oltre 20 locomotori diesel. Lo stabilimento era talmente vasto che comprendeva 93 strutture, oltre 140 km di rete ferroviaria interna, 45 km di nastri trasportatori, 53.000 macchinari e più di 100.000 operai. I macchinari e gli utensili necessari al processo produttivo erano prodotti in una fabbrica dello stabilimento appositamente progettata. L’assorbimento di energia richiesto era talmente elevato, stimato pari a quello di una città di un milione di persone, che Ford dovette costruire un impianto di generazione totalmente dedicato. L’estrema efficienza dello stabilimento consentiva di produrre 10.500 “Lizzie” al giorno, le quali venivano vendute sul mercato finale a un prezzo di appena 260 dollari, l’equivalente di 3.000 euro odierni. Il sogno era diventato realtà. Da Ford River Rouge a oggi Dagli anni Quaranta in poi, vengono sviluppati nuovi modelli di successo popolarissimi negli Stati Uniti, come la Ford del ’49, la Thunderbird del ’55, la Mustang lanciata nel ’64 e prodotta ancora oggi in successive generazioni e la celebre Fairlane. Successivamente si procede al potenziamento delle attività europee con l’ampliamento degli stabilimenti tedeschi, l’acquisizione della Ghia e l’inaugurazione del grande impianto spagnolo per la produzione

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 503 della Fiesta a partire dal 1976: uno dei maggiori successi Ford di tutti i tempi, con quasi 11 milioni di esemplari prodotti finora. Sempre più, l’azienda si rende conto che il presidio dell’intera filiera di attività produttive diventa troppo costoso e l’automobile incorpora tecnologie sempre più complesse che richiedono competenze specifiche. Inoltre, la competizione tra produttori di automobili diventa sempre più feroce sia sui prezzi sia sulla qualità. Progressivamente Ford inizia così ad affidarsi a fornitori terzi che sempre più contribuiscono a creare valore aggiunto per il prodotto finale. Le relazioni con i numerosi fornitori, i canali di distribuzione e i clienti sono oggi gestiti tramite una piattaforma informatica. Questo sistema permette a tutti gli attori interessati e abilitati di scambiarsi informazioni tecniche sui veicoli, dati di domanda, piani di produzione e livelli di giacenza a magazzino. Ormai il core business si è spostato definitivamente dalla produzione di veicoli alla progettazione degli stessi e alla gestione delle relazioni con i fornitori e soprattutto con i clienti finali. A cent’anni dalla nascita, Ford Motor Company fattura oltre 136 miliardi di dollari ed è il quinto costruttore automobilistico al mondo con quasi 6 milioni di auto vendute nel 2011, circa 300 milioni di auto costruite con il proprio marchio e 164.000 persone attualmente impiegate nel mondo nei 200 Paesi in cui opera.

Trend che spingono verso l’outsourcing

Nel corso degli anni, il modello dell’integrazione verticale totale si è rivelato non sempre adatto ad affrontare i cambiamenti del contesto competitivo. Innanzitutto, l’instabilità dei mercati, e il conseguente aumento della variabilità della domanda tanto nel breve quanto nel lungo periodo, non permettono più di pianificare investimenti in capacità produttiva che si ripaghino con una saturazione garantita nel lungo termine. Tale instabilità è causata in gran parte dalla naturale variabilità della domanda in mercati sempre più grandi ma anche più eterogenei e imprevedibili. Un’altra fonte di instabilità è il comportamento stesso delle imprese, che in un contesto più competitivo battagliano continuamente per sottrarsi reciprocamente quote di mercato, tagliando i prezzi, ampliando l’offerta, offrendo servizi addizionali, effettuando promozioni ecc. Per queste ragioni oggi poche aziende sono in grado di sostenere investimenti paragonabili a quelli di Ford negli anni Venti, venendo di fatto a mancare la prospettiva di un adeguato livello di saturazione, e quindi di efficienza, per un orizzonte di tempo sufficientemente lungo. In secondo luogo, la riduzione del ciclo di vita dei prodotti non lascia alle imprese il tempo di ripagare investimenti particolarmente elevati. Se il Modello T, realizzato da Ford, è stato venduto con successo per oltre vent’anni, occorre considerare che oggi il ciclo medio di vita di un’automobile varia fra i tre e i cinque anni; lo stesso Henry Ford avrebbe avuto le sue perplessità a investire in uno stabilimento colossale come quello di River Rouge avendo di fronte un orizzonte temporale tanto breve! Decisamente avverso al modello di impresa verticalmente integrata è anche l’aumento della varietà e della gamma dei prodotti offerti sul merca-

504 ) PARTE IV – ACQUISTI

Disintegrazione e delocalizzazione

Complessità tecnologica

Difficoltà di presidio

Ricerca di flessibilità

E SUPPLY CHAIN

to. L’esplosione delle tipologie di prodotti, delle varianti, delle opzioni e delle personalizzazioni che vengono offerte al mercato è conseguenza diretta dell’instabilità nei fabbisogni dei clienti, portati a chiedere sempre di più, e della forte competizione tra le imprese, che cercano di soddisfare fabbisogni reali e se possibile di crearne di nuovi. Se pensiamo che per molto tempo, prima dell’avvento delle tecnologie flessibili di produzione (FMS – Flexible Manufacturing Systems), sono stati realizzati impianti dedicati a singole tipologie di prodotto, è facile capire come la necessità competitiva di offrire un’ampia gamma di prodotti non può essere perseguita investendo in un proliferare di stabilimenti monoprodotto totalmente integrati, costosi e destinati a un inevitabile sottoutilizzo. A questo proposito, è celebre la frase di Henry Ford: “Dategli qualunque cosa, purché sia un’auto Modello T e nera”. Difficilmente uno stabilimento fortemente integrato è in grado di far fronte alla necessaria versatilità produttiva. Infine, un ultimo aspetto che, soprattutto in tempi recenti, ha contribuito a mettere definitivamente in crisi il modello di azienda integrata è la crescente ricerca di fattori produttivi a basso costo. Il contenimento dei costi di manodopera innanzitutto, ma anche di risorse energetiche e materie prime, è oggi un obiettivo chiave per imprese che vogliano mantenersi competitive sul mercato. Per questo gran parte delle imprese occidentali si è trovata costretta a rivolgere l’attenzione a Paesi con basso costo della manodopera (LLCC – Low Labour Cost Countries), delocalizzandovi attività di produzione e/o rivolgendosi a fornitori in grado di offrire prezzi molto contenuti. Inoltre, la saturazione e contrazione dei tradizionali mercati europei e nordamericani, e la contestuale esplosione dei mercati asiatici e sudamericani, ha richiesto uno spostamento degli asset produttivi per avvicinarsi ai mercati di sbocco. Dovrebbe a questo punto essere evidente perché, dinanzi a tali cambiamenti di contesto competitivo, il modello di elevata integrazione verticale si dimostra troppo rigido e non in grado di rispondere alle esigenze del mercato. Le aziende hanno oggi un sempre maggiore bisogno di flessibilità, in termini di volumi produttivi, varianti di prodotto e tecnologie. Di fatto, le richieste specifiche da parte dei clienti portano le imprese a utilizzare un numero sempre più elevato di tecnologie differenti per la realizzazione della propria gamma di offerta. Inoltre, l’evoluzione tecnologica e l’ibridazione di tecnologie diverse fanno sì che i prodotti finiti divengano più complessi e integrino un numero maggiore di tecnologie diverse. Di qui la necessità di presidiare un numero maggiore di competenze eterogenee. Se pensiamo ancora al caso del settore automotive, negli anni Venti le competenze critiche da presidiare riguardavano prevalentemente la meccanica e la siderurgia. Oggi un’automobile incorpora tecnologie siderurgiche, meccaniche, delle leghe non ferrose, dei materiali plastici e polimerici, delle fibre di carbonio; e inoltre, tecnologie elettroniche, delle telecomunicazioni e della sicurezza: dall’ABS al navigatore satellitare, dall’airbag al climatizzatore bizona, dalle propulsioni ibride a quelle completamente elettriche. Per questo le aziende ricercano oggi soprattutto flessibilità, e affidano volentieri ai fornitori il compito di svolgere alcune attività specifi-

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 505

Focalizzazione

CASO

che. Nasce così il fenomeno denominato deverticalizzazione (con riferimento alla riduzione del livello di integrazione verticale), terziarizzazione (con riferimento alla cessione a terzi di quote di attività precedentemente svolte internamente) o outsourcing (con riferimento all’approvvigionamento dall’“esterno”). In parallelo, la ricerca di costi di produzione sempre più bassi e di nuovi mercati di sbocco ha innescato il fenomeno già citato della delocalizzazione in Paesi in cui il costo delle risorse produttive risulta essere minore e la domanda in crescita. Da un punto di vista strategico, questo significa focalizzare gli investimenti sulle proprie core competence, o competenze chiave, e far leva sui fornitori esterni per ottenere una maggior flessibilità e per accedere a competenze specifiche che sarebbe troppo costoso sviluppare internamente (si veda in proposito Prahalad e Hamel, 1990; Azzone e Bertelè, 2011). Vengono definite competenze chiave quelle alle quali il cliente finale attribuisce un valore rilevante e differenziale rispetto alla concorrenza; le competenze chiave sono spesso trasversali a più famiglie di prodotti o a più business differenti, e sono difficilmente imitabili dai concorrenti. Il caso Polaroid (Caso 14.2) illustra un esempio fallimentare di concentrazione sulle core competence.

14.2

La Polaroid degli anni Novanta: la focalizzazione sulle core competence Polaroid, nata negli anni Trenta, è stata per molto tempo leader nella progettazione, produzione e commercializzazione di prodotti per lo sviluppo di immagini istantanee. Fino agli anni Novanta l’azienda ha perseguito una strategia di integrazione verticale, producendo al proprio interno praticamente tutto ciò che veniva venduto. All’inizio degli anni Novanta, il management si rese conto che non era più sostenibile mantenere la produzione di tutti i componenti. Assunse dunque una decisione coraggiosa: tutta la produzione di macchine fotografiche fu affidata ad alcuni produttori asiatici che erano in grado di realizzare prodotti di elevata qualità a costi inferiori. Tuttavia, l’azienda decise di continuare a produrre internamente i due componenti che considerava essere chiave e a cui i clienti continuavano a riconoscere un elevato valore aggiunto: le lenti e i film a sviluppo istantaneo. Polaroid, infatti, è sempre stata conosciuta in tutto il mondo per la qualità della polarizzazione delle sue lenti e per la realizzazione di fotografie istantanee. Sono molto poche le aziende al mondo in grado di realizzare film a sviluppo istantaneo di fotografie ad alta qualità. Questa scelta rispecchia la volontà di focalizzarsi sulla propria core competence (l’acquisizione di immagine) e di terziarizzare le altre attività al fine di ricercare flessibilità e costi minori. Tale strategia di focalizzazione risultò vincente fino alla fine degli anni Novanta, momento in cui il mondo della fotografia analogica attraversa una forte crisi dovuta all’avvento dell’era digitale. A causa dell’incapacità di adattarsi al nuovo ambiente, Polaroid dichiarò bancarotta nel 2001 e il marchio fu ceduto. Nello stesso contesto vi furono però anche casi di successo: aziende come Fuji, Canon, Nikon, marchi simbolo della fotografia tradizionale, riuscirono a sopravvivere grazie a una rapida e tempestiva rifocalizzazione sulla nuova tecnologia digitale.

506 ) PARTE IV – ACQUISTI

Reti di imprese

Il peso degli acquisti

E SUPPLY CHAIN

Il fallimento di Polaroid e la sopravvivenza di Fuji, Canon e Nikon dimostrano come la focalizzazione sulle core competence di per sé non sia sufficiente. Talvolta è necessario riuscire a modificare la propria strategia e ridefinire le proprie core competence al fine di adeguarsi ai cambiamenti ambientali. Conseguenza immediata della deverticalizzazione è il progressivo aumento del numero dei rapporti di fornitura e la crescente rilevanza delle relazioni con la rete di fornitori, che contribuiscono in modo sempre più decisivo alle prestazioni e al successo dell’azienda in questione (Figura 14.1). L’incidenza dei costi di acquisto da fornitori terzi sul fatturato di un’impresa è un indicatore del grado di deverticalizzazione di una determinata impresa o di un determinato settore. La Tabella 14.1 evidenzia il peso degli acquisti di materiali diretti sul fatturato di un campione di imprese industriali statunitensi; l’incidenza è generalmente piuttosto elevata (tra il 40% e il 65%), e tuttavia molto variabile tra i diversi settori e all’interno dello stesso settore in funzione del grado di verticalizzazione delle imprese analizzate e della loro posizione nella filiera. Nella tendenza generale verso l’outsourcing, notiamo dunque forti differenze tra i settori e anche tra le imprese dello stesso settore, a conferma del fatto che le scelte di make-or-buy trovano risposte diverse da caso a caso. La forte spinta all’outsourcing è stata forse il principale fattore che ha permesso la ripresa di IBM, che, all’inizio degli anni Novanta, si dibatteva in una crisi profonda con perdite cumulate di oltre 15 miliardi di dollari in cinque anni. Il colosso americano si è trasformato da produttore di computer a fornitore di soluzioni. All’inizio degli anni Novanta il rapporto fra costi di acquisto e fatturato era pari al 20%, ed è salito

Figura 14.1 EVOLUZIONE VERSO L’OUTSOURCING • • • •

Instabilità dei mercati Riduzione cicli di vita Aumento di varietà e gamma Competizione sul basso costo

• Deverticalizzazione e outsourcing • Delocalizzazione • Concentrazione sulle core competence

• Ricerca di flessibilità (volume, mix, prodotti, tecnologie) • Difficoltà di presidio di tutte le tecnologie/competenze • Ricerca di vantaggi di costo e di nuovi mercati

• Crescita della rilevanza dei rapporti di fornitura • Crescita delle reti di imprese • Contributo della rete alla creazione di vantaggi competitivi

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 507

Tabella 14.1 PESO PERCENTUALE DEI COSTI DI ACQUISTO SUL FATTURATO Settore

Acquisti/Fatturato

Aerospace/Defense Chemical DOE/NNSA* Contractors Engineering/Construction Financial Services

47,00 % 53,42 % 46,42 % 52,78 % 21,57 %

Industrial Manufacturing Metals & Mining Petroleum Pharmaceuticals Semiconductor Utilities Other Industries Media

55,04 % 44,24 % 43,43 % 55,74 % 55,35 % 38,95 % 47,97 % 46,82 %

* Department of Energy, National Nuclear Security Administration (dicembre 2011). Fonte: www.capsresearch.org

al 60% alla fine di quel decennio. Tra il 1995 e il 1998 l’azienda ha realizzato un profitto pari a circa 17 miliardi di dollari. Crescita dell’outsourcing

Impatto sulla redditività

Diamo uno sguardo al contesto italiano. La Tabella 14.2 mostra i dati aggregati di conto economico delle circa 2.000 principali imprese italiane nell’arco di un quindicennio; si nota un netto trend di crescita degli acquisti di beni (acquisti) e degli acquisti di servizi (servizi), che passano dal 73,7% del fatturato (52,9 + 20,8) del 1996 fino all’84,4% (60,1 + 24,3) del 2010. Anche nel nostro Paese dunque la tendenza all’outsourcing è stata fortissima e ha ormai raggiunto livelli estremi. Quando nei prodotti e nei servizi venduti dall’impresa il valore apportato dai fornitori supera l’80% resta ben poco spazio per ulteriori processi di outsourcing. In queste condizioni può divenire difficile costruire e mantenere un vantaggio competitivo. Un ulteriore fenomeno che spiega la forte attenzione alle pratiche di outsourcing è rappresentato dall’effetto leva che gli acquisti possono avere sulla redditività di un’impresa. La Figura 14.2 illustra con un semplice esempio come lo stesso aumento della redditività di un’azienda (ROI dal 10% al 14%) possa essere ottenuto, a parità di condizioni, tramite un aumento del 15% nelle vendite o una riduzione del 5% nei costi di acquisto. La riduzione dei costi di acquisto impatta in primo luogo sul margine operativo (EBIT), e in secondo luogo sul valore delle scorte contabilizzato nello stato patrimoniale. Questo permette da un lato di aumentare il ritorno sulle vendite (ROS) e dall’altro di incrementare lievemente il tasso di rotazione del capitale (TRC).

–53,64 –21,03

–0,19 2,04

–52,89

–20,77 3,07

31,27

–18,12

13,15

–6,49

–1,03 5,63

- Costi capitalizzati.........................................................

- Acquisti..........................................................................

- Servizi............................................................................

- Ricavi diversi da operativi..........................................

Valore aggiunto.................................................

- Costo del lavoro..........................................................

Margine operativo lordo....................................

- Ammortamenti tecnici ordinari................................

- Ammortamenti immobilizzazioni immateriali.......

Margine operativo netto.....................................

Fonte: rielaborazione dati Mediobanca (www.mediobanca.it).

5,77

–1,07

–6,43

13,27

–17,11

30,38

2,68

1,86

0,52

100,00

- Variazione delle rimanenze........................................

100,00

336,0

1997

- Fatturato netto............................................................

DATI IN PERCENTUALE SUL FATTURATO NETTO

314,0

1996

7,14

–1,16

–6,23

14,53

–16,47

31,01

3,41

–22,38

–52,46

2,15

0,28

100,00

345,3

1998

6,88

–1,24

–5,94

14,06

–15,77

29,83

3,39

–22,89

–53,39

2,109

0,63

100,00

358,8

1999

6,32

–1,29

–6,10

13,72

–13,63

27,35

3,39

–22,70

–58,04

3,46

1,24

100,00

422,4

2000

6,50

–1,39

–5,86

13,74

–13,31

27,06

3,39

–24,53

–54,92

2,69

0,43

100,00

437,1

2001

5,85

–1,70

–5,65

13,17

–13,43

26,60

3,54

–25,40

–53,95

2,23

0,17

100,00

435,7

2002

DATI AGGREGATI DI 2020 GRANDI E MEDIE SOCIETÀ ITALIANE

FATTURATO NETTO (MILIARDI DI EURO)

Tabella 14.2

6,12

–1,92

–5,85

13,89

–13,14

27,03

3,41

–25,64

–52,88

2,10

0,05

100,00

450,5

2003

7,56

–1,89

–4,76

14,21

–12,36

26,57

3,77

–25,52

–54,05

1,97

0,40

100,00

486,6

2004

7,21

–1,49

–4,28

12,98

–11,84

24,82

3,81

–24,35

–57,15

1,90

0,62

100,00

522,5

2005

6,91

–1,46

–3,78

12,15

–11,09

23,23

3,52

–23,37

–59,34

1,77

0,65

100,00

575,3

2006

7,35

–1,33

–3,63

12,31

–10,82

23,13

3,77

–23,17

–60,09

1,93

0,70

100,00

602,3

2007

6,00

–1,30

–3,43

10,72

–10,37

21,09

4,20

–22,91

–62,41

1,89

0,31

100,00

638,5

2008

5,73

–1,49

–4,07

11,30

–12,08

23,37

4,29

–25,39

–56,71

2,37

–1,19

100,00

537,9

2009

6,24

–1,27

–3,63

11,14

–11,36

22,49

4,25

–24,28

–60,07

2,00

0,58

100,00

586,4

2010

508 ) PARTE IV – ACQUISTI E SUPPLY CHAIN

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 509

Figura 14.2 ESEMPIO DI IMPATTO DEGLI ACQUISTI SUL BILANCIO DI UN’IMPRESA Situazione di partenza

Riduzione del 5% negli acquisti CE semplificato

CE semplificato Fatturato

5.000

Fatturato

Acquisti

3.500

Altri costi

1.100

EBIT

400

SP semplificato

Aumento del 15% nelle vendite CE semplificato

5.000

Fatturato

Acquisti

3.325

Acquisti

4.025

Altri costi

1.100

Altri costi

1.183

EBIT

575

SP semplificato

EBIT

5.750

543

SP semplificato

Scorte

500

Scorte

475

Scorte

500

Altre attività correnti

600

Altre attività correnti

600

Altre attività correnti

600

Attività fisse

2.900

Attività fisse

2.900

Attività fisse

2.900

Capitale investito

4.000

Capitale investito

3.975

Capitale investito

4.000

ROS

8,0%

ROS

12,0%

ROS

9,0%

TRC

1,25

TRC

1,26

TRC

1,44

ROI

10,0%

ROI

14,0%

ROI

14,0%

Acquisti vs. vendite

Nell’esempio di Figura 14.2 è stata ipotizzata un’incidenza degli acquisti sul fatturato pari al 70% e la struttura dei costi è ripartita 50% in costi fissi e 50% in costi variabili. Si ipotizza inoltre di mantenere invariati i prezzi di vendita, il che implica che un aumento di fatturato richiede un aumento dei volumi di produzione e acquisto. L’esempio che abbiamo discusso illustra come gli acquisti possiedano intrinsecamente una leva sulla redditività che le vendite raramente hanno. Basta infatti una riduzione del 5% negli acquisti per avere un aumento del 40% del ROI (leva di 8 volte). Occorre invece un aumento del 15% nelle vendite per avere lo stesso aumento del ROI (leva inferiore a 3). Ovviamente le due strategie (riduzione dei costi di acquisto e aumento delle vendite) non sono esclusive e se realizzate entrambe possono moltiplicare i benefici. Tuttavia è innegabile che nei settori maturi a basso tasso di crescita risulta più semplice percorrere la strada della riduzione dei costi di acquisto, tramite interventi di razionalizzazione degli acquisti e miglioramenti nella selezione, gestione e valutazione dei fornitori, piuttosto che porsi obiettivi di fatturato decisamente irrealistici. Viceversa, nei mercati con tassi di crescita ancora molto elevati, ovvero nelle fasi iniziali dei cicli di vita (Introduzione e Sviluppo, si veda in proposito il capitolo 11, paragrafo 11.4), la crescita delle vendite è spesso a due cifre – anche perché altrimenti si perde quota di mercato e non si regge la competizione. In questi contesti

510 ) PARTE IV – ACQUISTI

Effetto leva e costi variabili

14.2

Tre opzioni

14.2.1 Ottica di breve termine

E SUPPLY CHAIN

gli obiettivi di aumento della redditività attraverso aumenti consistenti delle vendite sono non solo realistici ma doverosamente prioritari, anche se la leva delle vendite non è particolarmente elevata. Le imprese concentrano i loro sforzi sulla capacità di marketing e di vendita e considerano gli acquisti una mera funzione di supporto. Quando il mercato entra nella fase di maturità e le vendite si stabilizzano, l'attenzione dovrebbe spostarsi sugli acquisti e sul loro effettoleva come fonte primaria di redditività. È evidente come l’effetto leva degli acquisti aumenti all’aumentare dell’incidenza percentuale degli acquisti e della quota parte di costi variabili; ipotizzando per estremo che i costi siano interamente variabili (costi fissi nulli), l’aumento del fatturato inciderebbe infatti esclusivamente sul tasso di rotazione del capitale e non sul ROS, annullando la leva delle vendite (per avere un aumento percentuale qualunque del ROI occorrerebbe lo stesso aumento percentuale delle vendite). Dall’insieme di queste considerazioni emerge un’implicazione di fondo: quanto più elevato è il ricorso all’outsourcing e quanto più la struttura di costo è sbilanciata verso i costi variabili tanto più forte è la leva degli acquisti e tanto più debole è la leva delle vendite.

Mercato competitivo, mercato collaborativo e integrazione verticale Già da tempo il dilemma strategico di make-or-buy si è complicato e arricchito di una “terza via”: fra mercato puro e integrazione verticale esistono forme intermedie di cooperazione tra aziende, fatto già individuato e studiato a partire dagli anni Settanta del secolo scorso (si veda ad esempio Williamson, 1979; Malone, Yates e Benjamin, 1989). In sintesi vi sono dunque tre modalità tramite le quali un’azienda può procurarsi ciò di cui ha bisogno: ricorrere al mercato mettendo continuamente in competizione diversi fornitori (mercato competitivo); instaurare rapporti cooperativi con un numero limitato di fornitori-partner (mercato collaborativo) e integrarsi verticalmente, ovvero investire in tecnologie, impianti, capitale umano e strutture organizzative destinati alla produzione dei componenti, delle parti o dei servizi di cui si ha bisogno per realizzare i propri prodotti e servizi finali.

Il mercato competitivo Una relazione di mercato competitivo, anche definita come mercato puro o tradizionale, implica generalmente transazioni spot in un’ottica di breve periodo. I fornitori sono selezionati prevalentemente sulla base di prestazioni a breve-medio termine, sia in termini di costo sia di qualità. Si generano in questo modo mercati intermedi nei quali molti fornitori interagiscono con molti clienti al fine di tenere viva la minaccia di sostituzione e di minimizzare il rischio attraverso la diver-

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 511

Accesso all’innovazione

Economia di scala

Fornitori specializzati

Bassi costi di transazione

sificazione delle fonti (e degli sbocchi). Le parti dedicano pochi sforzi e poco tempo alle singole relazioni, dunque gli investimenti relazionali specifici (investimenti dedicati esclusivamente a una relazione, che perdono se la relazione cessa e non hanno valore in altri contesti) sono bassi o addirittura nulli e quindi i costi di switching sono ridotti. È semplice e poco oneroso sospendere la relazione con un fornitore per attivare un nuovo rapporto con un altro. La possibilità di ricorrere a questo tipo di mercato permette all’azienda di perseguire una propria flessibilità in termini di volumi di produzione, prodotti e tecnologie. Si può accedere in questo modo a nuove tecnologie emergenti affidandosi ai fornitori che le hanno sviluppate, senza compromettere investimenti passati, in tecnologie ormai mature o addirittura obsolete, che devono ancora essere ammortizzati. Ciò garantisce un continuo ed elevato livello di innovazione nei beni e nei servizi offerti al mercato. In questi casi, ricorrere all’outsourcing comporta costi notevolmente minori e spesso prestazioni maggiori rispetto all’integrazione verticale. Il primo aspetto è legato alla possibilità da parte del fornitore di perseguire economie di scala, e quindi maggiore efficienza, grazie al consolidamento di volumi produttivi che non sempre una singola azienda cliente riesce a raggiungere. Il secondo riguarda l’accesso a economie di specializzazione del fornitore, il quale basa le sue competenze distintive proprio su quelle attività che gli vengono affidate, e quindi sarà in grado di fornire prestazioni tendenzialmente migliori rispetto all’alternativa dell’insourcing. In estrema sintesi, laddove i costi di transazione (ovvero tutti i costi che un’organizzazione deve sostenere per negoziare e interagire con un soggetto terzo, ad esempio un fornitore) risultano essere bassi, l’alternativa dell’outsourcing consente a un’azienda di focalizzarsi sulle proprie core competence, terziarizzando le altre attività ad attori che dispongono di competenze specifiche e garantiscono prestazioni migliori a costi minori. Un esempio è fornito dai cosiddetti Original Equipment Manufacturer (OEM), ovvero produttori a marchio proprio, nei settori dell’elettronica o delle telecomunicazioni. Aziende come IBM, Hewlett-Packard, Nokia, Cisco e Alcatel Lucent hanno deciso di focalizzarsi sulla progettazione di nuovi prodotti e sulla relazione con i clienti, esternalizzando progressivamente la produzione dei componenti standard ai cosiddetti contract manufacturer (CM). In molti casi gli OEM hanno ceduto ai CM i loro impianti produttivi. Il mercato dei componenti elettronici standard per CM come Foxconn, Flextronics, Sanmina-SCI, Jabil Circuit e Celestica è così aumentato del 25% ogni anno a partire dalla fine degli anni Novanta. In questo modo, gli OEM non devono più affrontare elevati investimenti in stabilimenti produttivi e possono al tempo stesso accedere alle innovazioni di prodotto, e soprattutto di processo produttivo, progressivamente introdotte dai loro fornitori. Inoltre, questo permette loro di sfruttare le economie di specializzazione e i bassi costi ottenuti dai CM, i quali perseguono economie di scala grazie al consolidamento dei volumi produttivi di più clienti.

512 ) PARTE IV – ACQUISTI Scarsa differenziazione

Difficoltà di controllo

Perdita di competenze

E SUPPLY CHAIN

Chiaramente non è tutto oro quello che luccica. Ricorrere a relazioni spot di mercato comporta indubbiamente una minore possibilità di differenziazione. In una relazione di breve termine è difficile che il fornitore sia disposto a investire per creare una soluzione ad hoc per il proprio cliente. Ciò significa che l’azienda dovrà “accontentarsi” di ciò che già esiste sul mercato, anche se probabilmente si tratterà della stessa soluzione adottata da altri concorrenti. Questo è il motivo per cui gli OEM, come viene discusso in seguito, cercano relazioni più collaborative per la realizzazione di componenti più complessi. Legata alla minore possibilità di differenziazione è la mancanza di controllo sulle attività svolte dal fornitore. Il cliente può non essere in grado di monitorare e regolare la qualità, l’affidabilità e la continuità delle prestazioni del proprio fornitore in quanto non soggette alla sua diretta supervisione. Un ulteriore rischio è quello di selezionare il fornitore o i fornitori sbagliati. Le loro capacità possono essere inizialmente sopravvalutate, il processo di produzione si può rivelare obsoleto o con capacità troppo limitata. Nel tempo in cui il cliente si rende conto dell’errore e cerca di reagire cambiando fornitore, i concorrenti possono avvantaggiarsi e guadagnare quote di mercato. Infine, una critica rilevante che viene mossa all’outsourcing è legata alla perdita di competenze. Il fatto di terziarizzare gran parte delle attività comporta il rischio di perdere progressivamente competenze produttive e tecnologiche che invece possono rivelarsi strategiche per affrontare eventuali cambiamenti di contesto. Questo aspetto risulta aggravato dalla possibilità che alcuni fornitori crescano al punto da diventare essi stessi concorrenti dell’azienda vendendo direttamente sul mercato i loro beni o servizi. È ciò che è successo, ad esempio, negli anni Ottanta, quando gran parte delle aziende americane hanno terziarizzato la produzione di apparecchi radio e televisori ad aziende giapponesi per sfruttare i minori costi di produzione; ebbene, proprio queste ultime sono oggi tra i leader mondiali nel settore, avendo di fatto spazzato via i produttori americani dell’epoca. Un simile processo sta avvenendo proprio in questi anni in altri Paesi asiatici, e vi è il rischio che alcuni OEM vengano spiazzati dai CM, loro attuali fornitori. Di fatto molti CM cinesi e indiani oggi investono in ricerca e sviluppo più dei loro clienti occidentali e giapponesi. Un altro esempio dei rischi associati all’outsourcing è fornito dal caso Apple. All’inizio degli anni Novanta, seguendo la tendenza di settore, Apple Computer terziarizzò progressivamente la produzione dei componenti dei suoi prodotti. Verso la metà del decennio, la nuova linea di Macintosh lanciati sul mercato ebbe un successo considerevole, generando un aumento di domanda superiore a quello previsto. I fornitori coinvolti, specialmente un produttore di modem e di alcuni chip personalizzati per la nuova linea di prodotti, non furono in grado di soddisfare tutte le richieste. Nel tempo impiegato da Apple per reagire e individuare altri potenziali fornitori, la maggior parte dei consumatori decise di acquistare un personal computer con sistema operativo Microsoft Windows 95. Questo significò per Apple

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 513

Computer una perdita di quota di mercato. Oggi l’azienda gode di un ampio e crescente successo. Ma in passato ha commesso vari errori strategici che l’hanno portata sull’orlo dell’estinzione.

14.2.2

Controllo della tecnologia

Sviluppo delle competenze

Rigidità

L’integrazione verticale L’integrazione verticale è scelta diametralmente opposta al mercato competitivo. Essa implica l’internalizzazione delle competenze e delle tecnologie necessarie tramite lo sviluppo interno o tramite la fusione o l’acquisizione di aziende detentrici di tali competenze. È evidente che una decisione di questo tipo ha un orizzonte di lungo termine e risulta difficilmente reversibile nel breve periodo. La realizzazione interna di determinati beni e servizi comporta in primo luogo la possibilità di controllo sulle attività e sulle prestazioni ottenute. Tale controllo riguarda anche la riservatezza su competenze e tecnologie proprietarie, riducendo così il rischio che altre imprese si impadroniscano del know-how sviluppato, fenomeno questo denominato spill-over. Il controllo esclusivo sulle attività e sulle competenze coinvolte consente all’azienda un maggior livello di personalizzazione e differenziazione dei prodotti e servizi realizzati. L’impresa ha libertà di azione sulle soluzioni da sviluppare senza dover ricorrere a ciò che già esiste sul mercato, e quindi ha la possibilità di differenziare i propri beni e servizi rispetto a quelli della concorrenza. Infine, nel caso in cui i volumi realizzati siano sufficientemente elevati e i diversi prodotti condividano risorse comuni, un’azienda integrata verticalmente ha la possibilità di sfruttare economie di scala e di scopo al proprio interno, ottenendo costi di produzione minori rispetto a quelli ottenibili tramite l’alternativa dell’outsourcing. Questi ultimi, infatti, includono anche il margine del fornitore. Italcementi, tra i leader mondiali nella produzione e commercializzazione di cemento, fornisce un esempio di impresa verticalmente integrata (Caso 3.2). Fin dalle sue origini, ha sempre gestito internamente l’intero processo produttivo, dall’estrazione dei minerali dalle cave prevalentemente di proprietà fino, in molti casi, alla realizzazione del calcestruzzo pronto da essere gettato per la costruzione di opere ed edifici. Gli elevati volumi di produzione consentono all’azienda di perseguire economie di scala e giustificano ingenti investimenti in ricerca e sviluppo per il miglioramento continuo dei processi produttivi e l’innovazione e la differenziazione dei propri prodotti. Recentemente, è stato lanciato sul mercato il “TX Active”, un cemento bianco costituito da particelle di titanio che sono in grado di innescare un processo di fotocatalisi al contatto con la luce del sole. Tale processo permette da un lato di mantenere il cemento del suo colore originario, e dall’altro di assorbire alcuni agenti inquinanti dell’atmosfera quali ossidi di carbonio e ossidi di azoto. D’altro canto, l’integrazione verticale comporta alcuni svantaggi già emersi nel corso di questo capitolo. Innanzitutto, la rigidità del sistema produttivo, dell’organico o dell’infrastruttura

514 ) PARTE IV – ACQUISTI

Investimenti elevati

Rischio di defocalizzazione

14.2.3 Collaborazioni e accordi

Ottica di medio-lungo termine

Fiducia e condivisione

E SUPPLY CHAIN

organizzativa rischiano di rendere l’azienda incapace di reagire ai cambiamenti del contesto, in termini di volumi produttivi, nuovi prodotti, nuove tecnologie e nuovi servizi. È più facile inseguire le richieste del mercato cambiando il parco fornitori piuttosto che riconvertendo un’azienda totalmente integrata. Inoltre, sviluppare internamente competenze e tecnologie o acquisire società che siano in grado di fornirle spesso richiede investimenti ingenti. A fronte di un orizzonte temporale di breve termine o di volumi di domanda insufficienti, sostenere sforzi così elevati rischierebbe di diventare un suicidio finanziario. Infine, la pretesa di svolgere tutto internamente può comportare una defocalizzazione delle competenze. Presidiare un numero troppo elevato di attività spesso porta un’azienda a non riuscire a ottenere vantaggi competitivi in nessuna di queste a causa dell’eccessiva dispersione degli sforzi. La crescente instabilità del mercato e la ricerca di flessibilità, l’aumento delle competenze richieste e quindi gli investimenti che ne conseguono: sono tutti aspetti che hanno portato Ford Motor Company e tutti gli altri produttori di automobili a ricorrere all’outsourcing di molte attività e competenze. Ognuno ha cercato di focalizzarsi sulle proprie competenze specifiche ricercando vantaggi competitivi rispetto alla concorrenza: dal design della carrozzeria alla sicurezza, dal comfort degli interni alle prestazioni del motore.

Il mercato collaborativo In una posizione intermedia tra il mercato competitivo e l’integrazione verticale è situato il mercato collaborativo, che dà origine a rapporti di partnership. In questi casi il processo di outsourcing si traduce in una relazione tra cliente e fornitore caratterizzata da forte collaborazione (si veda il capitolo 16 per un approfondimento sulla partnership). Si creano accordi strategici improntati al medio-lungo periodo e spesso caratterizzati da contratti quadro (si veda il capitolo 15). L’attenzione del management alla qualità della relazione è forte; ciò favorisce la fiducia reciproca, la collaborazione e la frequente interazione tra più unità organizzative delle due imprese coinvolte. In questo modo, ad esempio, i reparti produttivi e le funzioni di ricerca e sviluppo collaborano rispettivamente alla pianificazione della produzione e allo sviluppo di nuovi prodotti. Uno dei vantaggi che spesso viene enfatizzato a proposito dei mercati collaborativi è la condivisione di rischi e benefici tra cliente e fornitore. Il Caso 14.3 illustra come Procter & Gamble e 3M siano riuscite a investire congiuntamente in un nuovo impianto per la produzione di nastri adesivi per pannolini. Le due imprese hanno messo in comune i rischi tecnologici e finanziari legati alla nuova iniziativa. La possibilità di condividere i rischi di un investimento e gli eventuali benefici derivanti da esso si basa sul concetto di gioco a somma positiva (si vedano il capitolo 15 e il capitolo 9 sulle decisioni interattive); tanto il

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 515

cliente quanto il fornitore si aspettano di ottenere dalla collaborazione dei vantaggi superiori rispetto alla situazione di un semplice mercato competitivo.

CASO

14.3

P&G-3M: la creazione di un mercato intermedio Fin dal 1950, il brand Pampers di Procter & Gamble è leader mondiale nella produzione e vendita di pannolini per bambini. Prima dell’avvento dei Pampers, i pannolini erano di stoffa, in modo da poter essere lavati e riutilizzati dopo l’uso. La grande innovazione fu un prodotto “usa e getta” poco costoso. Nel corso degli anni, l’azienda ha introdotto una serie di ulteriori innovazioni: dall’aumento della capacità assorbente interna all’impermeabilità e al comfort. Negli anni Settanta, Procter & Gamble concepì un nuovo prodotto con adesivi richiudibili: l’opportunità di riposizionare l’adesivo dopo la prima chiusura sarebbe stato un beneficio funzionale di grande rilevanza per la mamma, specialmente al momento del cambio. Per poter realizzare l’innovazione serviva tuttavia una tecnologia in grado di produrre dei nastri adesivi che potessero essere riutilizzati più volte. Sebbene nessuno realizzasse ancora un prodotto simile, esistevano tuttavia le condizioni favorevoli per la creazione di un mercato intermedio: si trattava di un componente piuttosto semplice, che avrebbe realizzato elevati volumi e che sarebbe diventato standard una volta sviluppato. Fu così che P&G cercò possibili partner prima di procedere con lo sviluppo interno. 3M si convinse dell’opportunità prima di altri e investì al fine di riversare le proprie competenze nel componente richiesto dai nuovi Pampers. Le due aziende erano talmente convinte del successo che avrebbe avuto il prodotto sul mercato che decisero di investire in un impianto dedicato alla realizzazione dei nuovi nastri adesivi in prossimità dello stabilimento di produzione dei Pampers in modo da facilitare i flussi produttivi e logistici e anche lo scambio di know-how (allora non c’erano Internet, la posta elettronica e le videoconferenze!). Oggi i nastri adesivi richiudibili sono di fatto uno standard di mercato e sono stati applicati successivamente anche ad altri prodotti: è stato sviluppato un mercato intermedio che non esisteva prima della manifestazione del fabbisogno.

Progetti di miglioramento

Riduzione del parco fornitori

In un ambiente collaborativo, inoltre, il cliente potrebbe giovarsi di prestazioni migliori offerte dal proprio fornitore. Accordi di lungo periodo e progetti congiunti di miglioramento consentono a quest’ultimo di adeguare i propri prodotti o servizi alle richieste del cliente, migliorando così, ad esempio, i livelli di qualità, i tempi di consegna e i costi e di conseguenza i prezzi definiti volta per volta sul contratto. Tutto questo avviene con un maggior controllo da parte del cliente rispetto alla situazione di una relazione spot di tipo competitivo. Il fatto di poter ricorrere a fornitori più collaborativi, e quindi potenzialmente più affidabili, consente di razionalizzare e ridurre il parco fornitori complessivo. Un numero ridotto di fornitori è più semplice da gestire e comporta costi minori per la funzione acquisti (si veda il capitolo 15).

516 ) PARTE IV – ACQUISTI

Alti costi di uscita

Comportamenti opportunisti

E SUPPLY CHAIN

Dal punto di vista del fornitore, consolidare una relazione con un cliente significa avere accesso a un mercato sicuro nel medio-lungo periodo: il cliente, infatti, se non incorre in problemi particolari non avrà incentivi a cambiare fornitore. Inoltre, la possibilità di conoscere eventuali piani di sviluppo del proprio cliente permette di effettuare investimenti con minore incertezza sul futuro. 3M difficilmente avrebbe investito in un nuovo impianto per un prodotto innovativo senza sapere quali sarebbero stati i piani di sviluppo da parte di Procter & Gamble. Tuttavia, rispetto ai rapporti tradizionali di mercato competitivo, la gestione dei rapporti collaborativi richiede maggiori sforzi in termini di persone, risorse e competenze coinvolte. Questo implica elevati costi di sostituzione (switching). La sostituzione di un fornitore con il quale si sono instaurati rapporti di collaborazione e si sono attuati investimenti specifici non è immediata, e difficilmente un nuovo fornitore sarà in grado di garantire fin da subito i livelli di prestazione richiesti. Per questi motivi, è buona norma limitare il numero di rapporti di partnership e valutare attentamente quali sono le categorie di acquisto e i fornitori strategici nei quali investire (cfr. capitolo 15). Un ulteriore aspetto potenzialmente negativo dei rapporti di collaborazione è il cosiddetto rischio di spill-over. Dal momento che spesso cliente e fornitore condividono competenze chiave e strategiche, una volta terminata la relazione, o anche all’interno di essa, esiste la possibilità che una delle due imprese renda le informazioni acquisite dal partner disponibili per i suoi potenziali concorrenti. Nella maggior parte dei casi lo spill-over è consapevole e motivato da nuove opportunità di business. A volte può anche essere inconsapevole. In ogni caso la controparte ovviamente ne risulterà danneggiata e non apprezzerà. Nel caso in cui un fornitore di sistemi frenanti nel settore dell’automotive progetti i propri prodotti congiuntamente a due suoi clienti tra loro concorrenti, non è difficile che alcune informazioni possano filtrare da una e dall’altra parte. In generale, non è interesse del fornitore che questo accada. La sua reputazione ne sarebbe danneggiata, minando così alla base la fiducia che dovrebbe contraddistinguere i rapporti di collaborazione. Inoltre, i contratti stipulati in accordi di lungo periodo prevedono clausole specifiche al fine di evitare fenomeni di questo tipo. Tuttavia, un rischio di spill-over, benché minimo, rimane in ogni tipo di collaborazione. Entro certi limiti questo fenomeno potrebbe anche essere positivo, ad esempio quando un fornitore può sviluppare un’innovazione in un settore industriale e poi renderla disponibile in altri, senza creare quindi danno al proprio cliente e favorendo l’innovazione. Infine, proprio perché i rapporti di partnership richiedono tempo e risorse per essere creati e perché implicano condivisione di informazioni e competenze, la selezione del fornitore sbagliato può rivelarsi letale; ci si accorgerebbe di aver investito inutilmente in una relazione destinata a fallire, con la prospettiva di dover ricominciare tutto da capo con un nuovo fornitore.

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 517

14.3

Le condizioni per il mercato: complessità, specificità e incertezza La scelta di una delle tre modalità descritte tramite cui procurarsi i beni o i servizi necessari (ovvero mercato competitivo, mercato collaborativo o integrazione verticale) dipende da una serie di fattori. In particolare, occorre valutare innanzitutto l’esistenza delle condizioni per un mercato di acquisto e successivamente alcuni driver strategici che incentivino una o l’altra modalità di approvvigionamento. Il caso Tessuti & Filati Sintetici descrive una tipica decisione di outsourcing (Caso 14.4).

CASO

14.4

Tessuti & Filati Sintetici: una scelta di outsourcing Il gruppo Tessuti & Filati Sintetici è un’importante realtà italiana che opera da lungo tempo, con una presenza produttiva e commerciale globale. Una caratteristica distintiva di questa realtà è l’integrazione verticale a monte: all’interno del gruppo infatti vengono prodotti anche molti semilavorati e componenti chimici necessari per la produzione di filati e tessuti. Nel corso del 2005 la crescita della domanda di filati e tessuti a base di poliammide (nylon, la principale fibra sintetica utilizzata) provocò la mancanza di capacità produttiva interna per far fronte alla richiesta di questa fibra. In particolare, un sito produttivo in Sud America risultò particolarmente critico. Fino a quel momento l’impianto era stato rifornito direttamente dall’Italia, data la scarsità di adeguati fornitori esterni locali. Quando la produzione italiana di nylon non fu più in grado di far fronte alla crescita della domanda dal Sud America, si pose allora un problema critico che richiedeva una soluzione rapida: era necessario investire per ampliare la capacità produttiva interna oppure era preferibile cercare un fornitore esterno, anche lontano? La funzione acquisti fu incaricata direttamente dal Vice Presidente e CEO di risolvere il problema. La poliammide è una fibra nota da molto tempo, molto diffusa e di semplice definizione attraverso la sua formula chimica. Tuttavia, il gruppo Tessuti & Filati Sintetici necessitava di livelli qualitativi molto elevati, ottenibili attraverso un processo produttivo particolarmente accurato. Inoltre, il processo industriale, progettato specificamente per la realizzazione di questa fibra, non è utilizzabile per altri prodotti; quindi un eventuale investimento in nuova capacità produttiva sarebbe stato esclusivamente dedicato a questo prodotto. Il management fece anche un’ulteriore considerazione: sebbene negli ultimi anni la domanda fosse cresciuta sensibilmente, non era possibile prevedere con sufficiente affidabilità gli sviluppi futuri. La funzione acquisti effettuò un’analisi strategica di questa decisione, evidenziando alcuni aspetti fondamentali: per prima cosa si valutò che le competenze necessarie per realizzare la fibra erano disponibili presso alcuni fornitori e non erano un fattore distintivo della Tessuti & Filati Sintetici, quindi l’acquisto dall’esterno non avrebbe comportato una perdita di vantaggi competitivi. Inoltre dal punto di vista dei costi furono identificati alcuni fornitori specializzati, sia in Europa sia in Asia, che avrebbero garantito la qualità richiesta a un costo leggermente inferiore a quello interno. Infine, rinunciando a espandere la capacità produttiva interna, le ingenti risorse finanziarie necessarie sarebbero state utilizzate per altri investimenti. La funzione acquisti quindi propose di decidere per l’acquisto dall’esterno della fibra, solu-

518 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

zione che avrebbe inoltre consentito di risolvere il problema in tempi rapidi. Vista la crescita della domanda anche in Europa, si decise di acquistare gran parte del fabbisogno sudamericano dai fornitori, in modo da liberare una quota di capacità produttiva interna per servire mercati più redditizi. Si individuarono così alcuni fornitori che presentavano i requisiti richiesti, alcuni in Europa, fra cui un paio con i quali erano già attivi rapporti di fornitura, e altri in Asia. Data l’elevata domanda in tutto il mercato, soltanto un fornitore partner europeo fu disponibile ad avviare da subito una fornitura, mentre i fornitori asiatici, che pure avrebbero richiesto prezzi più bassi, si dimostrarono inaffidabili sia dal punto di vista qualitativo sia per quanto riguardava la puntualità delle consegne. Si decise quindi di affidarsi, almeno per il momento, soltanto al partner europeo avviando una collaborazione che permettesse a entrambe le parti di avere una struttura di costi e ricavi compatibile con le proprie esigenze.

Mercati esistenti e mercati potenziali

Costi di transazione

Quando un’impresa deve valutare se terziarizzare una determinata attività, in primo luogo si deve chiedere se esistono le condizioni per un mercato intermedio, sia esso competitivo o collaborativo; ovvero la reale possibilità di riuscire a trovare uno o più fornitori interessati e in grado di realizzare l’attività in questione. Nel momento in cui Ford, BMW o Mercedes ricorrono all’outsourcing per la produzione di componenti meccanici quali, ad esempio, le scatole per lo sterzo, possono scegliere tra un numero abbastanza elevato di fonderie e officine meccaniche in grado di assumersi l’incarico. Tale mercato intermedio potrebbe anche essere potenziale; è possibile che non esistano aziende che già realizzano propriamente le attività oggetto di analisi, ma che, correttamente incentivate, alcune di esse possano sviluppare le competenze e le capacità per realizzarle. Si schiuderebbe così un mercato rimasto fino ad allora latente. Il Caso 14.3 illustra una situazione di questo tipo. Generalmente, in tali condizioni, come è avvenuto per 3M, il potenziale fornitore è incentivato nell’investimento dalla possibilità di creare una partnership col proprio cliente, e quindi esistono le condizioni per un mercato collaborativo più che competitivo. La teoria dei costi di transazione, originariamente studiata da Coase negli anni Trenta (Coase, 1937) e successivamente sviluppata da Williamson alla fine degli anni Settanta (Williamson, 1979), ci aiuta a capire se esistono o meno le condizioni per un mercato intermedio. I costi di transazione sono definiti come tutti quei costi che sono associati alla transazione di beni o servizi da parte del potenziale fornitore in cambio di un corrispettivo economico da parte del potenziale cliente, e quindi alla gestione di una relazione nel suo complesso. Tali costi includono la ricerca e la selezione di potenziali fornitori, la comunicazione delle specifiche del bene o del servizio ricercato, la negoziazione dei termini contrattuali con i diversi fornitori, l’aggiudicazione del fornitore o dei fornitori, la stesura del contratto, il controllo della fornitura e del rispetto dei termini contrattuali e la gestione di eventuali contenziosi. La teoria dei costi di transazione ci ha già aiutato a inquadrare il problema della formazione delle unità organizzative (cfr. paragrafo

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 519

Figura 14.3 I FATTORI CHE INFLUENZANO L’ESISTENZA DI MERCATI INTERMEDI Complessità descrittiva Bassa

Alta Specificità

Bassa

Alta Incertezza

Bassa

Alta

Mercato competitivo

Internalizzare o scambiare sul mercato?

Fattori che determinano i costi di transazione

Margini di ambiguità

Mercato collaborativo

Integrazione verticale

4.4). In questa sede ci aiuta a comprendere la formazione o meno dei mercati intermedi: la progettazione della macrostruttura e le scelte strategiche di make-or-buy sono infatti accomunate dal fatto che se i costi di transazione sono troppo elevati l’aggregazione (formazione di grandi unità organizzative che includono attività e processi diversi o integrazione verticale) diviene più conveniente dello scambio (mercato). A parità di costo di realizzazione o di acquisto, ogni azienda, nel procurarsi le attività necessarie per il proprio business, tende a scegliere le modalità di fornitura che minimizzano i costi di transazione. Laddove i costi di transazione sono bassi, esistono le condizioni per l’adozione di un mercato competitivo; nel caso in cui i costi di transazione siano elevati, ma comunque sostenibili da parte dei soggetti coinvolti, esistono le condizioni per l’adozione, o eventualmente per la creazione, di un mercato collaborativo. Di conseguenza, in questi due casi, l’azienda potrà rivolgersi ad altre imprese per l’acquisizione del bene o del servizio in questione. Al contrario, se i costi di transazione risultano essere troppo alti, non si creano le condizioni per un mercato intermedio e diventa necessario integrarsi verticalmente e sviluppare l’attività al proprio interno (Figura 14.3). L’entità dei costi di transazione dipende da tre fattori relativi al bene o al servizio ricercato: la complessità descrittiva, la specificità e l’incertezza (si veda in proposito Ellram e Billington, 2001). La complessità descrittiva indica quanto è difficile per il cliente comunicare al potenziale fornitore tutte le specifiche del bene o del servizio richiesto. Può essere misurata ad esempio dal numero di parametri che occorre specificare per identificare in modo inequivocabile il fabbisogno. Tanto più è ambiguo e poco definito il fabbisogno, tanto più è difficile redigere un contratto completo che sia in grado di determinare con precisione l’oggetto della transazione. Per questo motivo, può nascere il rischio che il fornitore sfrutti in modo opportunistico alcune lacune

520 ) PARTE IV – ACQUISTI

Investimenti del fornitore

Appropriazione del know-how

E SUPPLY CHAIN

contrattuali. Può accadere, ad esempio, che utilizzi materiali di bassa qualità o manodopera poco qualificata laddove non debitamente specificato dall’accordo. Nel caso Filati & Tessuti Sintetici (Caso 14.4) la fibra in questione è caratterizzata da una complessità descrittiva modesta in quanto la formula chimica è semplice e nota da tempo. La complessità descrittiva non deve essere confusa con la complessità interna o tecnologica, che è invece legata al numero di parti che compongono un determinato componente o alla varietà e sofisticazione delle tecnologie che sono necessarie per realizzarlo. La complessità descrittiva di un personal computer, ad esempio, sebbene internamente l’oggetto sia piuttosto complesso, è relativamente bassa in quanto è sufficiente specificare alcuni parametri di base (ad esempio la dimensione della memoria, il disco fisso, il processore, il tipo di schermo) per identificare con precisione il tipo di prodotto desiderato. Al contrario, se pensiamo alla realizzazione dell’impianto elettrico di una nave da parte di un cantiere navale, la fornitura ha un’elevata complessità descrittiva, in quanto richiede la progettazione e la definizione dettagliata di moltissime interfacce con tutti gli apparati elettrici. All’aumentare della complessità descrittiva aumentano quindi i costi di ricerca, negoziazione, selezione e definizione dei termini contrattuali; oltre un certo livello vengono a mancare per il cliente gli incentivi alla ricerca di un fornitore. Veniamo al secondo fattore. La specificità misura l’entità degli investimenti addizionali che il potenziale fornitore dovrebbe sostenere per fornire al cliente l’attività in questione. Questi esborsi addizionali prendono il nome di investimenti relazionali specifici, poiché non sono facilmente riconvertibili per altri scopi o per altri clienti e quindi perdono il loro valore se la relazione viene meno. Non si tratta solamente di investimenti materiali come macchinari o impianti specializzati, tecnologie specifiche e capacità produttive dedicate, ma anche di investimenti in termini di competenze e risorse umane utilizzate. Un particolare componente meccanico, ad esempio, che deve essere progettato ad hoc da un progettista, e magari richiede lo sviluppo di uno stampo dedicato, presenta un’elevata specificità. Al contrario, l’acquisto di un bene a catalogo (ad esempio la cartuccia del toner per le stampanti, la minuteria metallica, componenti elettrici come condensatori e resistenze) è assolutamente standard e non richiede investimenti specifici da parte del fornitore. All’aumentare della specificità aumentano gli sforzi richiesti al fornitore, sforzi che devono essere adeguatamente ripagati normalmente in un arco di tempo sufficientemente lungo; aumenta anche la possibilità di comportamenti opportunistici da parte del cliente, il quale potrebbe appropriarsi del know-how sviluppato e sfruttarlo al di fuori della relazione, magari per sostituire il fornitore con un concorrente a costi inferiori. Tutto ciò diminuisce gli incentivi per un eventuale fornitore e quindi riduce notevolmente le possibilità di sviluppo di un mercato. Nel caso Tessuti & Filati Sintetici (Caso 14.4) la specificità può considerarsi medio-alta, in quanto verrebbero richiesti al fornitore investimenti dedicati per il livello qualitativo richiesto.

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 521 Mercati incerti, tecnologie non assestate

CASO

Infine, il terzo fattore, l’incertezza, definisce l’impossibilità di prevedere che cosa accadrà alla relazione in futuro, ad esempio dal punto di vista tecnologico o dei volumi produttivi (si vedano in proposito i capitoli 7 e 8). Se si vuole progettare e lanciare sul mercato una nuova tecnologia o un nuovo prodotto completamente differenti da ciò che era offerto in passato, i fornitori coinvolti si troveranno di fronte a una situazione dagli esiti incerti. Al contrario, se si tratta di una nuova versione di un prodotto già esistente sul mercato e di cui si vogliono modificare parzialmente alcuni componenti, il grado di incertezza risulta essere inferiore. L’incertezza riguarda quindi tanto nuovi processi produttivi o nuove tecnologie, quanto gli sviluppi e le preferenze del mercato finale. Il mercato in cui opera la Tessuti & Filati Sintetici è difficile da prevedere, e tale incertezza si riverbera sulle relazioni di fornitura e in particolare sui volumi che verranno richiesti ai fornitori. Il grado di incertezza affrontato da Procter & Gamble e 3M (Caso 14.3) riguardo alla nuova tecnologia e al nuovo prodotto era sicuramente elevato. La stessa cosa avviene ad esempio nel settore alimentare, dove i raccolti, e quindi la disponibilità di materie prime, variano notevolmente da stagione a stagione (si veda il Caso 14.5). In casi come questi, l’elevata incertezza limita gli incentivi alla creazione di un mercato competitivo, in quanto sia il cliente sia il fornitore sono alla ricerca di relazioni stabili, o addirittura di integrazione verticale, al fine di mantenere un elevato controllo sulle attività.

14.5

Welch’s: l’incertezza del raccolto Welch’s nacque nel 1869, quando un dentista pastorizzò con successo del succo di uva Concord per produrre un vino non fermentato a uso di alcuni preti presso la sua chiesa in New Jersey. Oggi, con un fatturato di oltre 640 milioni di dollari, Welch’s è uno dei maggiori produttori al mondo di prodotti costituiti da frutta: marmellate, gelatine e succhi. Tra i suoi diretti concorrenti troviamo Minute Maid (Coca-Cola), Tropicana (Pepsi) e Gatorade. Uno dei prodotti di punta dell’azienda è da sempre il succo d’uva, venduto in tutto il mondo sia fresco sia surgelato. Per la produzione di questo succo, l’azienda si avvale ormai da molti anni di tre fornitori principali di concentrato d’uva bianca. Si tratta di un acquisto rilevante, sia perché è fondamentale per la qualità del prodotto finale, sia perché costituisce circa il 15% dei costi di produzione. Ogni anno, nel mese di maggio, vengono rinegoziate le condizioni contrattuali definendo in modo congiunto le quantità e il prezzo di acquisto di riferimento. In questo settore, il problema principale è la stabilità della capacità produttiva del fornitore: la quantità e la qualità del raccolto (composizione chimica e proprietà organolettiche) dipendono fortemente dalle condizioni meteorologiche della stagione estiva. Di conseguenza, in fase di definizione del contratto, esiste una forte incertezza legata alla quantità e alla qualità dell’uva prodotta. È proprio per questo motivo che tanto il cliente quanto il fornitore hanno tutto l’interesse a stabilire un’alleanza duratura basata su mutua fiducia e collaborazione al fine di risolvere insieme eventuali problemi contingenti. In questo modo, ad esempio, si adoperano per individuare fonti alternative nell’eventualità di un raccolto scarso o per aumentare la produzione e la vendita nell’eventualità di un raccolto abbondante.

522 ) PARTE IV – ACQUISTI

Crescita dei mercati collaborativi

Investimenti meno specifici

Più visibilità, più controllo

14.4

E SUPPLY CHAIN

In estrema sintesi, dunque, all’aumentare di complessità, specificità e incertezza aumentano i costi di transazione associati, in quanto diventano più difficili le attività di ricerca, negoziazione e selezione di un fornitore. Di conseguenza, è più probabile che esistano mercati competitivi laddove questi tre fattori sono bassi, e mercati collaborativi laddove risultano essere elevati ma comunque sostenibili da parte dei soggetti coinvolti. Al contrario, se tali fattori sono troppo alti, si dovrà ricorrere necessariamente all’integrazione verticale (insourcing piuttosto che outsourcing) in quanto le parti (o anche solo una di esse) rinunceranno a entrare in una relazione di mercato. Valutando la situazione complessiva del caso Tessuti & Filati Sintetici (Caso 14.4), il valore medio-elevato dei tre fattori fa presagire la possibilità di un mercato collaborativo. Nel corso degli ultimi anni, la continua evoluzione delle tecnologie informatiche, da un lato, e dei processi produttivi, dall’altro, ha di fatto allargato il campo di applicazione dei mercati collaborativi. L’adozione di protocolli Internet e standard di comunicazione, di reti di condivisione dell’informazione e di software per la progettazione di prodotti e componenti (ad esempio CAD – Computer Aided Design) ha ridotto le difficoltà di definizione e comunicazione delle specifiche di prodotti e componenti. Inoltre, lo sviluppo di sistemi di produzione flessibili (FMS – Flexible Manufacturing Systems), e di cicli di lavoro automatizzati e software per l’industrializzazione di prodotto (CAM – Computer Aided Manufacturing) ha ridotto la necessità di investimenti specifici pur mantenendo una forte differenziazione dei prodotti e dei componenti. Infine, anche lo sviluppo di sistemi di raccolta e condivisione delle informazioni, sia per quanto riguarda i mercati di sbocco sia per quelli di fornitura, ha aumentato la capacità delle aziende di gestire situazioni ad elevata incertezza pur all’interno di relazioni di fornitura. Laddove in passato mancavano gli incentivi per un mercato competitivo, e quindi le imprese ricorrevano alla collaborazione, oggi lo sviluppo tecnologico permette di raggiungere lo stesso livello di coordinamento, di personalizzazione e di prestazioni anche all’interno di relazioni spot di breve periodo. In modo simile, è oggi possibile perseguire elevati livelli di collaborazione e di controllo delle attività, grazie ad esempio a strumenti evoluti di condivisione dell’informazione, senza necessariamente ricorrere all’integrazione verticale. In sostanza si è prodotto uno spostamento complessivo verso l’outsourcing, fatto testimoniato dall’incidenza crescente dei costi di acquisto sul fatturato (si veda ad esempio la Tabella 14.2): dall’integrazione verticale alla collaborazione e dalla collaborazione al mercato competitivo.

I driver strategici Il fatto che esistano le condizioni per il mercato intermedio, sia esso competitivo o collaborativo, non significa che le imprese debbano obbligatoriamente ricorrervi. Ciascuna impresa deve valutare da un

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 523

Figura 14.4 DRIVER DI SCELTA PER L’OUTSOURCING Gestione delle competenze Competenze chiave Competenze specialistiche

Gestione dei costi Riduzione dei costi Variabilizzazione dei costi

Gestione del capitale Riduzione degli investimenti Diversificazione

Indicatori finanziari

Insourcing Outsourcing

punto di vista strategico se, per una determinata attività, le convenga ricorrere all’outsourcing o all’integrazione verticale (si veda in proposito Quinn e Hilmer, 1994; Welch e Nayak, 1992). Dalle considerazioni emerse nel paragrafo precedente è facile individuare quali siano i driver strategici della scelta (Figura 14.4).

14.4.1 Controllo delle competenze

Gestione delle competenze Il primo driver di scelta è quello delle competenze. Ogni azienda deve individuare quali sono le sue competenze chiave, quelle sulle quali costruire un differenziale competitivo e che quindi non conviene terziarizzare (vedi Caso 14.2). Nel settore automobilistico, Ferrari ha sempre considerato cruciali e direttamente associate al brand le competenze motoristiche, che infatti sono state strettamente presidiate. GM invece non sempre ha considerato essenziali tali competenze nella propria strategia, e infatti in diverse circostanze ha mon-

524 ) PARTE IV – ACQUISTI

I vantaggi della specializzazione

14.4.2

E SUPPLY CHAIN

tato sulle proprie vetture motori prodotti da altri (anche da Fiat per quanto riguarda i propulsori turbodiesel). Anche competenze che apparentemente non sembrano essere core potrebbero diventarlo generando opportunità per nuovi business. È il caso di Bravo Solution, provider di servizi elettronici di acquisto nato nel 2000 all’interno del Gruppo Italcementi. L’esperienza dell’azienda sugli acquisti elettronici, sebbene non core all’interno del settore del cemento, ha permesso di creare un nuovo business di successo. Oggi Bravo Solution offre consulenza e servizi elettronici di acquisto a numerose aziende in diversi settori in tutto il mondo, dalle costruzioni al manifatturiero, dall’alimentare alla pubblica amministrazione. Il ricorso all’outsourcing può essere invece dettato dalla ricerca di competenze specialistiche, che possono anche essere rilevanti ai fini del successo, ma che sono già presenti sul mercato. La possibilità di acquisirle da un fornitore garantisce generalmente costi minori e prestazioni maggiori. Questo accade soprattutto nel caso di tecnologie ormai mature, sia all’interno sia all’esterno del settore di riferimento. I diversi produttori di personal computer, ad esempio, si guardano bene dallo sviluppare il microprocessore internamente, sebbene sia un componente chiave per i loro prodotti. Aziende come Intel, AMD, Motorola e poche altre possiedono competenze specialistiche e massa critica tali da garantire livelli elevati di innovazione e da scoraggiare qualunque ingresso nel settore.

Gestione dei costi Ogni impresa deve monitorare attentamente la struttura dei costi nel medio-lungo termine. La scelta dell’outsourcing permette in generale una riduzione dei costi. Questo può avvenire perché, come già anticipato, si sfrutta l’efficienza perseguita dai fornitori grazie a economie di scala o di specializzazione. O ancora perché l’outsourcing si accompagna alla delocalizzazione di alcune attività e quindi può comportare l’accesso a risorse produttive a costi minori. L’attenzione all’efficienza può essere legata tanto a fattori strategici di sviluppo nel caso di aziende in salute, quanto al tentativo di minimizzare le perdite di profitto in momenti bui, tagliando alcune attività critiche (vedi Caso 14.6).

CASO

14.6

NS&I: la riduzione dei costi tramite l’outsourcing La National Savings and Investment (NS&I) è un’agenzia del governo inglese che ha il compito di offrire ai cittadini prodotti finanziari di risparmio e/o investimento. Verso la metà degli anni Novanta, la NS&I contava circa 4.200 dipendenti e vendeva i suoi prodotti tramite due canali: gli uffici postali e una rete propria di venditori. La maggior parte dei processi non erano automatizzati o si basavano su sistemi informativi obsoleti. Inoltre l’interazione tra le due reti commerciali era poco efficiente e spesso provocava errori di ogni genere. L’esito di tutto

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 525 questo era un servizio scadente nei confronti dei clienti, i quali dovevano recarsi in punti vendita diversi per gestire prodotti diversi, subivano tempi di attesa interminabili e spesso trovavano errori nei loro conti. Per uscire da questa situazione di crisi e perseguire una maggiore efficienza, la NS&I decise di dare in outsourcing tutta l’attività di distribuzione a un’azienda dotata di un sistema informativo efficiente e in grado di integrare completamente l’offerta. L’agenzia si concentrò solamente sullo sviluppo e sulla gestione di prodotti finanziari e sulla gestione di un call center in grado di supportare i clienti a distanza. Tutto ciò ha permesso, già verso la fine degli anni Novanta, di ridurre notevolmente il personale, diminuire i costi e fornire un servizio migliore ai propri clienti. Fonte: Linder (2004).

Riduzione dei costi fissi

La terziarizzazione di alcune attività consente inoltre di perseguire la variabilizzazione dei costi, garantendo così quella flessibilità che è ostacolata dall’integrazione verticale. Il ricorso a una rete di fornitori permette all’azienda di sostenere solamente quei costi legati ai volumi realizzati. Al contrario, l’investimento in risorse porta con sé una serie di vincoli e costi fissi che sono indipendenti dai volumi. Questo tema diventa rilevante nel momento in cui ci si trova in mercati caratterizzati da alta variabilità e quindi elevato rischio sui volumi produttivi. Nel mercato dei semiconduttori, ad esempio, l’innovazione continua dei prodotti e la domanda piuttosto variabile, come già anticipato, rendono più conveniente per aziende come Apple, HewlettPackard e IBM terziarizzare la produzione di componenti elettronici, non solo per ridurre i costi in assoluto, ma anche per renderli variabili e diminuire quindi il rischio. La Figura 14.5 sintetizza gli impatti

Figura 14.5 OUTSOURCING,VARIABILIZZAZIONE DEI COSTI E BREAK-EVEN POINT (BEP) Ricavi, Costi

Ricavi

Costi totali (2) Costi totali (1)

Costi fissi (1)

Outsourcing

Costi fissi (2)

Volume BEP (2)

BEP (1)

Capacità produttiva

526 ) PARTE IV – ACQUISTI

Break-even inferiore

Riduzione del rischio

14.4.3 Redditività del capitale

Gestione del portafoglio

CASO

E SUPPLY CHAIN

dell’outsourcing sulla gestione dei costi, attraverso un normale modello di break-even. Anzitutto la terziarizzazione produce la riduzione dei costi fissi e l’aumento dei costi variabili. Dal punto di vista grafico la retta dei costi aumenta la pendenza (la sua derivata rappresenta il costo variabile unitario) e diminuisce l’ordinata all’origine (entità dei costi fissi). In generale il punto di pareggio (break-even point) si abbassa rendendo sostenibile il business anche in presenza di una domanda più bassa e di una minore saturazione della capacità produttiva. Inoltre, la differenza di inclinazione tra la retta dei ricavi e quella dei costi totali si riduce (a causa della maggiore pendenza di quest’ultima). Ciò implica che anche quando i volumi si attestano al di sotto del punto di pareggio le perdite rimangono contenute rispetto alla situazione di maggiore integrazione verticale. Naturalmente, vi è anche il rovescio della medaglia: se i volumi aumentano la configurazione più integrata garantisce maggiori ritorni. Dall’insieme di queste considerazioni l’outsourcing emerge come una strategia di gestione del rischio: al crescere dell’incertezza sui volumi si abbassa il punto di pareggio e si riducono le potenziali perdite.

Gestione del capitale Infine, l’impresa valuta l’opzione dell’outsourcing per ottimizzare l’impiego del proprio capitale. La dismissione di attività e il ricorso al mercato di fornitura permette la riduzione degli investimenti necessari per svolgere una determinata attività. In alcuni casi, questo consente l’abbattimento di barriere all’entrata per avviare un nuovo business. Microsoft, ad esempio, dovette ricorrere all’outsourcing per entrare nel business dei videogiochi e sviluppare l’X-box. Al fine di abbattere gli elevati investimenti necessari per l’avvio dell’attività, l’azienda si è avvalsa delle competenze e della strumentazione messe a disposizione da Flextronics (vedi Caso 17.6). Fatto forse ancora più importante, la riduzione degli investimenti dedicati a una specifica attività consente di drenare risorse finanziarie utili per la diversificazione strategica verso altri business, in modo da ridurre il rischio complessivo attraverso una strategia di portafoglio connesso all’impresa. 7-eleven, ad esempio, ha sfruttato il capitale liberato tramite la terziarizzazione di alcune attività per diversificare la propria offerta ai clienti (Caso 14.7).

14.7

7-eleven: scelte di outsourcing e diversificazione 7-eleven è una catena americana (parte di un gruppo giapponese) di piccoli minimarket abbinati a stazioni di servizio. Fino alla fine degli anni Ottanta l’azienda era stata fortemente integrata verticalmente. Possedeva una propria rete distributiva, produceva direttamente la benzina e il gasolio venduti nelle proprie stazioni di servizio, produceva la maggior parte dei

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 527 propri prodotti (gelati, caramelle e snack), gestiva addirittura proprie fattorie di bestiame per la produzione di latte. All’inizio degli anni Novanta l’azienda vide calare continuamente la propria quota di mercato negli Stati Uniti a favore delle piccole stazioni di servizio che iniziavano ad aprire i loro punti vendita. Fu allora che Jim Keyes, Amministratore delegato, decise di ristrutturare la divisione americana cercando di adottare il modello keiretsu (basato su una rete complessa di fornitori) implementato con successo dalla business unit giapponese col fine di rilanciare il proprio brand. Keyes si rese conto che le core competence dell’azienda non erano nella produzione diretta dei propri prodotti, bensì risiedevano nel merchandising, nelle politiche di prezzo, nella gestione degli ordini e dei materiali, e nella capacità di analisi dei dati di domanda. Vennero così terziarizzate gran parte delle attività. La distribuzione di benzina e gasolio fu affidata a Citgo, con controllo sui prezzi e sulle promozioni da parte di 7-eleven. La produzione di snack fu ceduta a Frito-Lay, mantenendo un forte controllo sulla gestione degli ordini e dell’assortimento presso i punti vendita. Da allora i dolciumi sono prodotti da Hershey, la quale ha anche sviluppato una nuova famiglia di prodotti venduti in esclusiva nei punti vendita 7-eleven per i primi mesi: cannucce elicoidali commestibili. Coca-Cola ha addirittura sviluppato una nuova bevanda al gusto dei dolciumi Hershey. Tutte le attività logistiche furono affidate a CDC (Combined Distribution Centers), distributore specializzato per prodotti freschi e surgelati. Le risorse liberate da queste cessioni sono state così allocate allo sviluppo di nuovi business da parte di 7-eleven. L’azienda ha iniziato a sfruttare la presenza capillare sul territorio offrendo ai propri clienti anche servizi di bancomat, sportelli bancari e uffici postali. È nato in questo modo il concetto di one-stop-shopping, ovvero la possibilità per un cliente di espletare una serie di attività in un centro multi-purpose senza doversi recare in luoghi differenti: dal rifornimento di carburante all’acquisto di snack e dolciumi, dal prelievo di contanti alla spedizione di una raccomandata. La nuova organizzazione ha permesso alla catena di minimarket di aumentare le vendite a un tasso del 6-7% all’anno (il doppio del settore), di incrementare notevolmente la rotazione delle scorte e di ridurre i costi fissi legati al personale. Fonte: Gottfredson, Puryear e Phillips (2005).

Impatto positivo sul ROI

Oltre alla riduzione del rischio grazie alla diversificazione, la minore esigenza di investimenti riduce le attività immobilizzate migliorando così gli indicatori finanziari tramite i quali il mercato valuta la redditività e la liquidità delle società, soprattutto quelle quotate. Basti pensare al tasso di rotazione del capitale (fatturato/attivo di stato patrimoniale): ridurre gli investimenti significa aumentare tale indicatore con un conseguente impatto positivo sul ROI. Fin dagli anni Novanta, il ricorso all’outsourcing permise a Dell Computer di ottenere gli indicatori finanziari migliori del settore: a metà degli anni Novanta l’azienda realizzava 3 miliardi di dollari di fatturato con soli 60 milioni di dollari di attività immobilizzate. Tanto la diversificazione del portafoglio di business quanto la bontà degli indicatori finanziari sono fondamentali per essere valutati positivamente dai mercati dei capitali e dunque poter accedere a nuovi finanziamenti forniti da investitori istituzionali, istituti di credito e intermediari finanziari. Occorre, tuttavia, prestare attenzione alle decisioni di outsourcing guidate da driver di solo capitale. Infatti l’assun-

528 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

to di base è che a seguito dell’outsourcing i fatturati e soprattutto i margini restino invariati a fronte di un capitale investito inferiore. Purtroppo non è sempre così. Talvolta i fatturati si conservano ma i margini si riducono, perché fornitori via via più rilevanti e tecnologicamente autonomi guadagnano potere contrattuale e si appropriano di una fetta consistente dei margini della filiera. Al cliente resta sì un capitale investito più contenuto ma anche una profittabilità unitaria decisamente più bassa. Rileggendo il caso Tessuti & Filati Sintetici (Caso 14.4) alla luce dei driver strategici descritti, risulta evidente che la fibra in questione non costituiva una competenza distintiva e difficilmente reperibile sul mercato. Inoltre, il ricorso all’outsourcing avrebbe permesso di ottenere costi variabili e leggermente inferiori a quelli della soluzione integrata e di limitare il capitale investito. Di conseguenza, considerando anche i costi di transazione analizzati in precedenza, l’opzione ideale per l’impresa risultò essere il ricorso a un mercato collaborativo affidandosi al partner europeo selezionato. Dalle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, possiamo sintetizzare le scelte strategiche di make-or-buy tramite lo schema rappresentato in Figura 14.6. Queste scelte sono influenzate anzitutto dall’effettiva disponibilità di mercati industriali intermedi, che dipende dalla complessità descrittiva, dalla specificità e dall’incertezza associate alle potenziali transazioni. Tali fattori determinano infatti il livello atteso dei costi di transazione e dunque gli incentivi delle parti a interagire o meno.

Figura 14.6 SCHEMA RIASSUNTIVO PER LE SCELTE DI MAKE-OR-BUY Decisioni aziendali

Mercati industriali

Mercati inesistenti

Complessità Specificità

Mercati collaborativi

Incertezza

Basse

Mercati competitivi

Gestione dei costi

Alte

Driver di scelta per l’impresa

Efficienza del capitale investito

Caratteristiche dei mercati

Presidio delle competenze

Condizioni per il mercato

Scelta di make-or-buy

Insourcing

Insourcing Partnership

Insourcing Partnership Relazione di mercato

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 529

Condizioni di mercato e scelte strategiche

14.5 Frammentazione dei settori

Reti verticali e orizzontali

Naturalmente la disponibilità di mercati intermedi non implica che ogni singola impresa vi ricorra. Qui subentrano considerazioni soggettive, riconducibili ai driver strategici che spingono verso l’outsourcing o l’insourcing dell’attività considerata. Nel caso in cui non vi siano le condizioni per mercati intermedi la scelta è obbligata: l’impresa si integrerà verticalmente a monte dell’azienda (insourcing). Laddove invece sussistono le condizioni per l’esistenza o la creazione di un mercato collaborativo, l’impresa valuterà la convenienza di affidarsi effettivamente a un rapporto di partnership (scelta più frequente ed evidenziata in grassetto nella Figura 14.6) o all’integrazione verticale, sulla base di considerazioni soggettive relative alla gestione delle competenze, dei costi e del capitale (driver strategici). Infine, nel caso in cui sia effettivamente disponibile un mercato competitivo, l’impresa ha a disposizione tutte e tre le opzioni strategiche. La scelta fra mercato tradizionale di tipo competitivo, rapporto di partnership e integrazione verticale sarà ancora dettata da valutazioni circa i driver strategici, sebbene la scelta più frequente sia quella della relazione tradizionale di mercato (evidenziata in grassetto nella Figura 14.6).

Le reti di fornitura Il crescente ricorso all’outsourcing negli ultimi anni ha portato molte imprese a creare reti di fornitura sempre più complesse e articolate. I rapporti esistenti all’interno di una rete di fornitura possono essere classificati in base al tipo di processo dato in outsourcing e alla posizione del fornitore in relazione alla filiera di riferimento (si veda ad esempio Miles e Snow 1992; Harland, 1996). Rifacendoci alla classificazione fornita da Porter (1985), possiamo distinguere processi primari e processi di supporto (si veda il capitolo 5). Una relazione di fornitura di un processo primario coinvolge attività che forniscono valore aggiunto per il cliente finale; al contrario, la fornitura di un processo di supporto riguarda attività che non impattano direttamente sul valore percepito dal cliente, ma che sono necessarie per il buon funzionamento dell’impresa. La produzione del microprocessore di un computer da parte di Intel per un’azienda come Dell Computer, ad esempio, è sicuramente un processo primario che porta alla realizzazione di un componente chiave del prodotto finito e al quale il cliente presta attenzione; basti pensare al logo “intel inside” che appare su tutti i PC dotati di microprocessore Intel. Se consideriamo invece, sempre per Dell Computer, l’outsourcing delle attività di manutenzione degli impianti o dei servizi legali per le operazioni societarie di acquisizione e cessione, stiamo considerando processi di supporto che sono importanti per l’azienda ma che non impattano direttamente sul prodotto Dell e sul cliente finale. Se consideriamo la posizione delle aziende coinvolte, possiamo distinguere tra rapporti verticali di filiera e accordi orizzontali. Un rapporto verticale di filiera è la relazione che si instaura tra un cliente e un fornitore che svolgono attività poste in sequenza all’interno del loro settore;

530 ) PARTE IV – ACQUISTI

Consorzi e joint venture

L’impresa virtuale

Piramidi e keiretsu

E SUPPLY CHAIN

l’acquisto di calcestruzzo da parte di un’impresa di costruzioni che lo utilizza per la realizzazione di un edificio è un tipico esempio di rapporto verticale di filiera. Al contrario, gli accordi orizzontali prevedono una relazione tra due imprese che operano nello stesso stadio della filiera (e che spesso sono in competizione) o addirittura appartengono a filiere differenti. Nel primo caso le aziende cercano di creare massa critica al fine di essere più efficienti o di ridurre il rischio di un investimento. Ne è un esempio la progettazione congiunta della piattaforma della monovolume da parte del Gruppo Fiat e del Gruppo PSA all’inizio degli anni Novanta; si trattava di due aziende concorrenti all’interno del settore che hanno fatto massa critica per la realizzazione di un nuovo prodotto, il quale è stato successivamente differenziato nell’estetica e negli allestimenti. Nel secondo caso si tratta prevalentemente di competenze complementari che vengono integrate per la realizzazione di un prodotto o di un servizio; frequentemente si arriva addirittura alla definizione di consorzi o joint venture. Ad esempio, i produttori di hardware e software (beni complementari) frequentemente si alleano tra loro per presentarsi ai clienti con soluzioni integrate. La linea di ragionamento e i casi illustrati in questo capitolo ci mostrano come i fornitori siano diventati sempre più rilevanti nel contribuire ai vantaggi competitivi dei clienti; di conseguenza, la gestione delle reti di fornitura è diventata un fattore critico per la competitività delle imprese. Sono stati introdotti diversi termini per rappresentare un mondo di imprese “agili e leggere” inserite in una densa rete di rapporti di fornitura con altre imprese. Alcuni esempi sono l’impresa manifatturiera estesa (extended manufacturing enterprise) con enfasi sulle attività produttive distribuite tra più imprese, l’impresa virtuale (virtual enterprise) con enfasi sulla condivisione di competenze complementari da parte di più aziende all’interno di rapporti dinamici, o ancora keiretsu, termine giapponese che indica reti di fornitura piramidali nelle quali i grandi clienti controllano parte del capitale dei fornitori, ciò che rafforza le relazioni di partnership. Quando la complessità di una rete di fornitura aumenta, diventa necessario organizzarla in modo strutturato; è così che nascono le reti gerarchiche a livelli. I fornitori sono organizzati su più livelli: il primo livello di fornitura è costituito da imprese in grado di consegnare un sottosistema completo del prodotto o addirittura un prodotto già finito al proprio cliente. Questi fornitori si avvalgono poi di fornitori di secondo livello, che contribuiscono alla realizzazione di alcune parti del sottosistema o del prodotto finito. A loro volta, i fornitori di secondo livello si possono avvalere di fornitori di componenti o attività base, e così via. Si viene quindi a formare una rete gerarchica a livelli in cui i fornitori di primo livello assumono piena responsabilità su un sottosistema del prodotto o addirittura sul prodotto finito e sulle interazioni fra tutte le aziende coinvolte per la sua realizzazione. Ad esempio, nel settore automobilistico, sistemisti come SMI o TRW svolgono proprio il compito di realizzare, tra gli altri, sistemi sterzanti o frenanti completi per i produttori di automobili, avvalendosi delle loro reti di fornitura per i componenti base (meccanici, elettrici, idraulici, elettronici ecc.).

14. Le scelte strategiche di make-or-buy ) 531

Apprendimento e scambio di know-how

Esistono altre realtà in cui le relazioni di fornitura non sono così verticali e diadiche come nelle reti gerarchiche a livelli, ma si creano rapporti orizzontali tra più fornitori. È il caso delle reti di apprendimento o learning network. In queste reti l’enfasi è sulla condivisione di competenze ed esperienze anche tra imprese che operano a diversi livelli della filiera, col fine di accrescere continuamente la conoscenza dell’intera rete. Un approccio di questo tipo è adatto a gestire processi e prodotti con un alto contenuto tecnologico e innovativo. Toyota fu tra le prime aziende a instaurare una rete di apprendimento tra i propri fornitori a partire dalla metà degli anni Sessanta. All’interno di questa rete le aziende vengono incentivate a condividere le proprie competenze e le soluzioni di eventuali problemi emersi in produzione. Questo avviene, ad esempio, tramite forum periodici in cui vengono coinvolti i principali fornitori che possono contribuire all’accrescimento della conoscenza dell’intera rete. È un altro aspetto di quella tendenza globale verso la collaborazione che è stata chiamata wikinomics (Tapscott e Williams, 2007) e che abbiamo già commentato nel capitolo 11. Nella maggior parte dei casi si instaurano tanto reti gerarchiche a livelli, quanto reti di apprendimento. L’aspetto chiave che emerge è comunque la possibilità di creare rapporti di collaborazione con i propri fornitori chiave, al fine di migliorare le prestazioni complessive della rete. La collaborazione tra cliente e fornitore e l’interazione tra più fornitori sono i temi che verranno trattati nei capitoli 16 e 17. In questo capitolo abbiamo introdotto le scelte strategiche di makeor-buy che portano le imprese a decidere quali componenti, sistemi e tecnologie produrre internamente e quali invece acquistare dai fornitori. Queste scelte sono state contestualizzate alla luce della crescente importanza economica e strategica dei processi di approvvigionamento. Abbiamo messo in luce come fra i due estremi dell’integrazione verticale (make) e del mercato competitivo (buy) tradizionalmente considerati dalla teoria economica si inserisca una “terza opzione”, che abbiamo definito mercato collaborativo: si tratta pur sempre di strategie di acquisto (e quindi di non integrazione), tuttavia basate su rapporti fiduciari di lungo periodo e investimenti delle parti nella relazione. Abbiamo quindi illustrato come la teoria dei costi di transazione, attraverso i concetti di complessità descrittiva, specificità e incertezza, spieghi le condizioni per la formazione di un mercato intermedio di fornitura (competitivo o collaborativo). In una prospettiva manageriale abbiamo poi introdotto i driver strategici (competenze, costi e capitale) che guidano le aziende nelle specifiche decisioni di make-or-buy. Infine, abbiamo introdotto il tema delle reti di fornitura, conseguenza dell’elevato livello di outsourcing che caratterizza il panorama di molti settori economici, e che pone l’attenzione sulla rilevanza dei rapporti di filiera per contribuire alla competitività delle imprese. Diventa allora necessario gestire in modo strategico i rapporti di fornitura, compito che spetta alle funzioni acquisti delle aziende. Il prossimo capitolo approfondisce quindi il tema della gestione e dell’organizzazione dei processi di acquisto.

15 Gli acquisti Processi e strumenti

SOMMARIO

Il contesto strategico

CASO

15.1 Le tipologie di acquisti: diretti, indiretti e servizi j 15.2 Il processo di acquisto: strategic purchasing, sourcing e supply j 15.3 L’organizzazione degli acquisti j 15.4 La gestione del portafoglio acquisti j 15.5 La selezione dei fornitori: offerte, gare e aste j 15.6 La negoziazione: obiettivi e strategie j 15.7 I contratti j 15.8 E-procurement j 15.9 L’innovazione negli acquisti

Il dilemma di make-or-buy, le tendenze verso l’outsourcing e l’emergere dei mercati collaborativi sono i fenomeni che abbiamo discusso nel capitolo 14. Essi costituiscono la cornice strategica entro la quale si collocano le attività di approvvigionamento che sono l’oggetto di questo capitolo: i processi, l’organizzazione e il complesso di strumenti gestionali per selezionare, negoziare, valutare i fornitori ed effettuare le transazioni. Per comprendere la complessità e l’interdipendenza di questi aspetti, introduciamo l’argomento analizzando il caso Magneti Marelli Electronics (Caso 15.1).

15.1

Magneti Marelli Electronics L’azienda, il mercato e i prodotti Magneti Marelli s.p.a. business line Electronics (MMELC) progetta e produce sistemi elettronici per automobili, veicoli commerciali e motociclette. La divisione di Magneti Marelli (gruppo FIAT), nasce dall’unione delle attività nei settori dell’elettronica per automobili e della strumentazione di bordo, con i marchi storici Jaeger, Veglia e Borletti. MMELC ha sede centrale a Corbetta (MI) e impiega 2.400 persone; il fatturato complessivo nel 2011 è stato di 722 milioni di euro. I clienti principali dell’impresa sono PSA, FIAT, Renault, VW Group e Chrysler. MMELC ha stabilimenti produttivi in Italia, Francia, Slovacchia, Brasile, Cina, Messico e India, con i quali serve i propri clienti in tutto il mondo. MMELC opera principalmente in tre aree di business: • quadri di bordo: display e strumentazione; • abitacolo (o body electronics): sistemi per la climatizzazione, attuatori per porte e tettucci, computer di bordo ecc.;

15. Gli acquisti ) 533 • telematica: sistemi di comunicazione a supporto della guida (ad esempio navigatori), applicazioni di informazione e intrattenimento (infotainment) e di sicurezza. Per realizzare i suoi prodotti, MMELC deve approvvigionarsi di un’ampia varietà di materiali, componenti, servizi e attrezzature, il cui valore ammonta a più del 60% del fatturato. Il processo di acquisto di conseguenza è uno dei processi chiave per l’azienda, in quanto influenza le prestazioni complessive. I processi di acquisto La funzione denominata Quality & Suppliers Management è l’unità organizzativa preposta a tutte le attività di approvvigionamento e gestione della qualità, che richiedono molteplici attività, alcune svolte autonomamente dalla funzione e altre effettuate in collaborazione con colleghi afferenti ad altre unità. La funzione ricopre un ruolo molto ampio, che integra gli acquisti con la progettazione, la logistica e la qualità. Nel momento in cui si avvia lo sviluppo di un nuovo prodotto, la funzione acquisti viene coinvolta dapprima per fornire informazioni su tecnologie e prodotti disponibili sul mercato. Durante la fase di progettazione viene quindi valutata la convenienza di produrre in casa i materiali e i componenti necessari oppure di ricorrere alla fornitura. Se è ritenuto vantaggioso rivolgersi all’esterno, la funzione acquisti si occupa di identificare i fornitori adatti (scouting tecnologico). La scelta fra i potenziali fornitori è effettuata sulla base di molteplici criteri: prezzo richiesto, certificazioni possedute, capacità di soddisfare le specifiche e generare innovazione, visite ispettive effettuate presso il fornitore, prestazioni passate di qualità e servizio (per fornitori già operanti con MMELC), solidità finanziaria e disponibilità di risorse a garanzia della sostenibilità degli sviluppi, livello di conoscenza o capacità di adattamento al settore automotive, presenza produttiva e capacità di approvvigionamento in Paesi low cost. La funzione acquisti gestisce i rapporti con i fornitori, in particolare dedica maggiore attenzione ai fornitori più importanti per valore degli acquisti, durata del rapporto e rilevanza strategica. In questi casi gli acquisti hanno un ruolo fondamentale di coordinamento e indirizzo dei rapporti fra le varie funzioni di MMELC interessate (sviluppo prodotti, produzione, qualità, logistica) e le corrispondenti funzioni del fornitore. La funzione acquisti provvede inoltre a definire con il fornitore le condizioni contrattuali. Le contrattazioni vengono in genere gestite a livello centrale per tutte le sedi di MMELC; in seguito ogni stabilimento gestisce i propri ordini nei termini concordati. In generale, anche se ogni materiale acquistato deve provenire da fornitori omologati, vengono effettuati controlli in ingresso, a eccezione dei materiali/componenti soggetti ad accettazione diretta (free pass), per i quali il livello qualitativo dei prodotti e del processo produttivo del fornitore è stato valutato a priori. Mensilmente viene resa disponibile a tutti gli interessati una valutazione complessiva dei fornitori mediante il rapporto di vendor rating. Se la qualità delle forniture non è quella attesa, vengono adottati diversi provvedimenti che vanno dall’addebito dei costi al fornitore alla retrocessione nella classifica dei fornitori, alla richiesta di azioni correttive, fino alla sospensione dell’acquisto o delle future assegnazioni. La funzione acquisti La funzione Quality & Suppliers Management di MMELC dipende direttamente dall’Amministratore delegato e ha come scopo primario il reperimento delle migliori tecnologie disponibili sul mercato e la gestione delle attività di acquisizione di materiali, componenti, attrezzature produttive e servizi, in conformità alle esigenze della produzione e con lo scopo di ottimizzare i costi totali (prezzo, qualità, servizio, innovazione) e la loro evoluzione nel tempo. Le 120 persone della funzione acquisti sono dislocate soltanto in parte nella sede centrale,

534 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Figura 15.1 ORGANIGRAMMA DELLA FUNZIONE QUALITY AND SUPPLIERS MANAGEMENT Direttori di stabilimento

Quality and suppliers management

Material management Negoziazioni globali

Sourcing

Abitacolo

Microchip

LED Quadri di bordo

Qualità fornitori

Laboratorio omologazione componenti

Qualità fornitori di stabilimento

Circuiti

Dislpay

Telematica Plastica e MP

Display

in quanto il maggior numero di persone risiede nei vari stabilimenti. La struttura organizzativa è riportata in Figura 15.1. Come si può vedere, la funzione acquisti è abbastanza articolata: dalla direzione dipendono i responsabili degli acquisti di ciascun Paese/stabilimento produttivo (material manager), l’unità centrale di sourcing che si occupa della selezione dei fornitori per i nuovi prodotti, l’unità centrale di negoziazione, la qualità forniture, la qualità di ricerca e sviluppo, i responsabili della qualità di ciascuno stabilimento, i responsabili della qualità di ciascun mercato. Ciascuna unità è poi ulteriormente articolata in sotto-unità. Dal responsabile acquisti di ciascun Paese/stabilimento dipendono i buyer, suddivisi per classe merceologica, che si occupano delle fasi operative dell’acquisto di componenti, materiali e servizi necessari a MMELC. È possibile identificare due tipologie di acquisitori: buyer globali e buyer locali. I buyer globali fanno parte dell’unità di negoziazione globale e seguono a livello worldwide una o più classi merceologiche, definiscono le strategie di acquisto e mantengono i contatti con i fornitori più importanti nelle negoziazioni annuali. I buyer globali sono organizzati sulla base dei materiali acquistati in classi merceologiche: memorie; LED; microprocessori e semiconduttori; display, CD, DVD e HD; GPS e GSM; circuiti stampati, plastica, meccanica, motori passo-passo, connettori e materie prime. I buyer locali, inseriti nella singola unità produttiva, si occupano dell’acquisto ricorrente di prodotti qualificati per il loro stabilimento. I buyer globali coordinano team di buyer locali e di ingegneri della Qualità forniture per gestire i rapporti con i fornitori e l’attuazione delle strategie di acquisto. L’unità di sourcing è responsabile per i nuovi prodotti: grazie a una visione complessiva di tutti i materiali coinvolti in un prodotto, si occupa di seguire lo sviluppo dal lancio del progetto fino all’avviamento in produzione, affiancando il marketing e la ricerca e sviluppo. Il sourcing, mantenendo un rapporto strettissimo con il team dei buyer globali, è organizzato per aree di business: quadri di bordo, abitacolo e telematica. La Qualità forniture ha il compito di garantire la qualità dei componenti e dei materiali acqui-

15. Gli acquisti ) 535 stati; è presente in tutti gli stabilimenti produttivi e coordina il laboratorio di omologazione dei nuovi componenti. La Qualità di Ricerca e sviluppo si occupa della validazione dei nuovi prodotti e opera presso i centri di sviluppo. La Qualità di fabbrica opera presso gli stabilimenti ed è responsabile della conformità dei prodotti di MMELC. Infine la Qualità cliente, articolata in base ai principali mercati, si interfaccia con le case automobilistiche. Sia i Material Manager, sia le unità della Qualità di stabilimento dipendono anche dai direttori dei singoli stabilimenti. Il material management L’organizzazione degli acquisti presso lo stabilimento italiano di Corbetta (MI) è stata recentemente modificata, con la creazione del ruolo del material manager, come si può vedere in Figura 15.2. Il responsabile del material management di Corbetta dipende sia dal Direttore di stabilimento sia dal Direttore degli acquisti. A lui riportano tre differenti aree: approvvigionamenti; programmazione; logistica e magazzini. Nell’area approvvigionamenti operano i buyer locali, organizzati per categoria merceologica; l’area programmazione, organizzata per area di business, redige il programma ordini, con il compito di tradurre i fabbisogni del cliente in programmi di approvvigionamento, gestisce i solleciti dei clienti e assegna le priorità ai magazzini spedizioni. L’area logistica coordina i magazzini per i prodotti in ingresso e in uscita. In precedenza queste attività erano svolte da un’altra funzione aziendale, con conseguenti problemi di coordinamento con gli acquisti: ad esempio una dilazione delle consegne poteva essere comunicata in ritardo ai buyer incaricati della fornitura, oppure un problema con un fornitore rischiava di non essere noto a chi gestiva la programmazione, i magazzini e le spedizioni. La nuova struttura, ampliando le responsabilità della funzione acquisti, ha permesso una migliore gestione di tutti gli aspetti che riguardano le forniture.

Figura 15.2 ORGANIGRAMMA DEL MATERIAL MANAGEMENT DELLO STABILIMENTO DI CORBETTA Direzione acquisti

Direzione stabilimento

Material manager di stabilimento

Approvvigionamenti

Programmazione

Materie prime Quadri Meccanica Abitacolo Elettronica Telematica Servizi e mezzi

Logistica e gestione stock

Magazzino

Logistica

536 ) PARTE IV – ACQUISTI

15.1

Gli acquisti nell’industria

Gli acquisti nei servizi

E SUPPLY CHAIN

Le tipologie di acquisti: diretti, indiretti e servizi Il caso Magneti Marelli Electronics (MMELC, Caso 15.1) ci mostra prima di tutto come le tipologie di beni (prodotti e servizi) acquistati da un’impresa siano molto variegate. Una prima, fondamentale distinzione è quella fra acquisti diretti e acquisti indiretti. Si definiscono acquisti diretti tutte le materie prime, i semilavorati e i componenti che confluiscono nei prodotti dell’azienda acquirente. Rientrano in questa definizione anche le attività di produzione demandate ad aziende esterne: si tratta di acquisti di servizi, non di beni materiali, ma sempre di acquisti diretti perché concorrono all’ottenimento dei prodotti finiti. Nel caso MMELC sono acquisti diretti tutti i materiali e i componenti elettronici, meccanici e plastici che vengono lavorati e assemblati per ottenere i cruscotti, le strumentazioni e gli altri prodotti dell’azienda, così come le attività di lavorazione delegate a fornitori. MMELC è un’azienda che produce beni materiali, ma che cosa cambia se consideriamo un’azienda che fornisce servizi? In realtà, rispetto alle problematiche di approvvigionamento possiamo riconoscere tre tipologie di aziende di servizio: • le imprese commerciali, che acquistano e rivendono prodotti finiti: per queste aziende gli acquisti diretti di beni materiali sono quindi un’attività fondamentale; • le imprese di servizi product-based, le quali forniscono un servizio che comprende però una parte rilevante di prodotti fisici: ad esempio tutti i servizi di ristorazione, in cui l’acquisto di cibi e bevande (materiali diretti) ha evidentemente un ruolo chiave al fine di soddisfare il cliente; • i cosiddetti servizi puri, che non includono alcuna componente materiale; ad esempio la consulenza strategica, i servizi legali, le assicurazioni, le banche: non fornendo al cliente alcun oggetto fisico, non è possibile parlare di acquisti diretti di beni materiali. Tuttavia anche in questo caso vi sono spesso acquisti diretti di servizi, quando è necessario ricorrere a terzi per erogare la prestazione richiesta: ad esempio una società di consulenza che si avvale dei servizi di uno specialista esterno per soddisfare le esigenze di un cliente. Gli acquisti indiretti invece riguardano tutti i beni e servizi che non vengono incorporati nei prodotti/servizi dell’impresa, ma risultano comunque necessari per garantirne l’operatività: ad esempio i materiali di imballaggio, i servizi di trasporto, i servizi di manutenzione e i relativi materiali di consumo, la cancelleria, i sistemi informativi, i viaggi, i servizi di ristorazione ecc. Queste tipologie di acquisti sono comuni sia nei settori manifatturieri sia in quelli di servizio, poiché qualsiasi azienda per operare necessita di un’ampia varietà di prodotti e servizi di supporto. In particolare, vengono chiamati materiali ausiliari tutti quei beni di consumo che sono necessari all’attività produttiva ma non vengono incorporati nei prodotti finiti, quali ad esempio i lubrificanti, gli abrasivi ecc. L’acronimo inglese MRO

15. Gli acquisti ) 537

Acquisti e catena del valore

Acquisti primari e di supporto

(Maintenance, Repair and Operating Materials) viene usato per indicare tutti gli acquisti indiretti di beni di consumo necessari al funzionamento dell’azienda: dalla cancelleria alle lampadine, ai materiali di manutenzione, alle parti di ricambio. Una categoria particolare di acquisti indiretti, spesso considerata separatamente, è quella dei beni di investimento, che per loro natura non vengono contabilizzati come costi di acquisto, ma iscritti a bilancio fra le immobilizzazioni, in quanto vengono acquistati non per essere consumati o rivenduti, ma utilizzati lungo un arco temporale pluriennale. Anche in questo caso si può trattare di beni fisici, quali impianti di produzione, fabbricati, automezzi, arredamento ecc., come di beni immateriali, quali brevetti, licenze, progetti, campagne pubblicitarie ecc. Le varie tipologie di acquisti non differiscono soltanto per la natura dei prodotti e dei servizi trattati, ma anche per altri aspetti quali la varietà, il numero di fornitori, i tassi di rotazione e le logiche di programmazione. Al fine di chiarire questi aspetti, è utile richiamare il modello della catena del valore (value chain) di Porter (1985), che distingue le attività svolte da un’azienda fra attività primarie e attività di supporto (si rimanda ad Azzone e Bertelè, 2011, per una trattazione approfondita dell’argomento). Le attività primarie, quelle cioè che concorrono direttamente alla produzione dei prodotti e servizi la cui vendita genera valore per il cliente, richiedono l’acquisto di tutto ciò che verrà in essi incorporato. Gli acquisti per le attività primarie, quindi, sono sostanzialmente acquisti diretti. Le attività di supporto, invece, sono tutte le altre funzioni esercitate all’interno dell’azienda, al fine di permettere lo svolgimento delle attività primarie. Vengono incluse in questa categoria, quindi, la gestione delle risorse umane, l’amministrazione, la gestione della tecnologia e tutte le attività infrastrutturali in genere. Gli acquisti per le attività di supporto sono di conseguenza acquisti indiretti di vario tipo, dagli MRO ai beni di investimento. Questa distinzione fra macrotipologie di acquisti ci permette di identificare alcune loro caratteristiche fondamentali, valide in linea di massima, sebbene sia sempre possibile identificare eccezioni e casi particolari. Le principali differenze fra acquisti per le attività primarie e le attività di supporto sono sintetizzate in Tabella 15.1.

Tabella 15.1 PRINCIPALI DIFFERENZE FRA ACQUISTI PER ATTIVITÀ PRIMARIE E DI SUPPORTO Caratteristiche

Acquisti per attività primarie

Acquisti per attività di supporto

Assortimento prodotti

Generalmente limitato

Molto ampio

Numero di fornitori

Limitato, in riduzione

Molto ampio

Tasso di rotazione

Elevato

Ridotto

Logiche di programmazione

Pianificazione della produzione

Previsioni ad hoc e progetti specifici

Fonte: adattato da Van Weele (2004).

538 ) PARTE IV – ACQUISTI Differenze nei processi aziendali

15.2

E SUPPLY CHAIN

Come primo aspetto consideriamo la varietà di prodotti e servizi acquistati: le attività primarie, per quanto complessi e articolati siano i prodotti/servizi dell’azienda, necessitano comunque di una gamma di acquisti ristretta, limitata ai componenti e materiali effettivamente incorporati. Al contrario, le attività di supporto richiedono spesso una gamma di prodotti e servizi molto più ampia, che spazia, come abbiamo anticipato, ben al di là dei materiali diretti. L’eterogeneità degli acquisti si riflette anche in un maggior numero di fornitori: generalmente gli acquisti diretti sono effettuati presso un numero inferiore di fonti rispetto agli indiretti. Questo in quanto da un lato gli acquisti diretti hanno un livello di omogeneità superiore, che permette l’accorpamento della domanda presso un minor numero di fornitori, e dall’altro hanno volumi tali da giustificare sforzi di razionalizzazione delle fonti al fine di ottenere benefici significativi. Un’ulteriore caratteristica che distingue gli acquisti per le attività primarie da quelli per le attività di supporto è il tasso medio di rotazione: la rilevanza degli acquisti diretti in termini di valore e volumi fa sì che su di essi si concentrino gli sforzi per ridurre le giacenze e aumentare il tasso di rotazione, al fine di ridurre il capitale circolante. Al contrario, gli acquisti legati alle attività di supporto vedono in genere tassi di rotazione più bassi, dovuti sia ai minori volumi e valori unitari, sia alla minore variabilità, che ne riduce il rischio di obsolescenza. Un’ultima considerazione riguarda le logiche di programmazione: gli acquisti diretti, venendo utilizzati nel processo logistico-produttivo, sono strettamente dipendenti dalle attività di previsione della domanda e pianificazione della produzione, che determinano i fabbisogni di approvvigionamento (si veda ad esempio Chase et al., 2004). Gli acquisti indiretti, non avendo un legame immediato con le attività produttive, utilizzano logiche di programmazione autonome. In genere gli approvvigionamenti di materiali indiretti di consumo sono effettuati sulla base di previsioni ad hoc, legate al consumo storico; gli acquisti di beni di investimento, invece, hanno una logica propria, legata alle decisioni di lungo termine e ai progetti aziendali.

Il processo di acquisto: strategic purchasing, sourcing e supply Il caso Magneti Marelli Electronics (Caso 15.1) ci ha mostrato la complessa articolazione delle attività legate all’acquisizione dei beni e servizi necessari al funzionamento dell’azienda. In effetti si tratta di processi aziendali complessi e interfunzionali (vedi capitolo 5). Possiamo notare subito che alcune di queste attività hanno una rilevanza strategica, quali ad esempio la decisione di produrre internamente un componente o di rivolgersi a un fornitore, oppure la scelta di instaurare con un fornitore un rapporto duraturo di partnership invece di una relazione competitiva di breve termine. Queste attività, per

15. Gli acquisti ) 539

Strategic purchasing

Sourcing

Supply

Valutazione

Figura 15.3 PROCESSI DI ACQUISTO

Contratto/emissione dell’ordine

Processi strategici e processi operativi

Tre sottoprocessi

15.2.1

loro natura, sono svolte con una frequenza ridotta, in quanto le decisioni prese hanno poi validità protratta nel tempo: se si sceglie di rivolgersi a un fornitore per l’acquisto di un componente che in precedenza veniva prodotto internamente, tale scelta non viene più messa in discussione almeno per il tempo necessario a valutarne le conseguenze. Altre attività, invece, hanno natura più operativa e ripetitiva: si pensi ad esempio all’emissione di ordini, alla ricezione delle merci, al controllo della conformità delle forniture, al pagamento delle fatture ecc. Queste attività, quindi, avvengono a valle delle scelte strategiche, con una frequenza nettamente superiore. Si può allora rappresentare il processo di acquisto come l’insieme di tre sottoprocessi (Figura 15.3): lo strategic purchasing, il sourcing e il supply. Si è scelto di utilizzare termini anglosassoni perché questi sono ormai entrati nell’uso comune nella pratica aziendale. Analizziamo ora in dettaglio ciascun sottoprocesso identificandone le principali attività.

Strategic purchasing Lo strategic purchasing, come suggerisce il nome, è l’insieme di attività di approvvigionamento con forte valenza strategica e costituisce il trait d’union con la strategia aziendale nel suo complesso. In questa fase vengono effettuate le principali scelte strategiche relative agli approvvigionamenti. Anzitutto, com’è ovvio, lo strategic purchasing prende le mosse dalle scelte di make-or-buy analizzate nel capitolo 14. La strategia di approvvigionamento si concentra su quei prodotti e servizi (categorie merceologiche) che si è deciso di non realizzare internamente (insourcing), bensì di acquistare sul mercato (outsourcing). In particolare lo strategic purchasing si articola in quattro attività illustrate nella Figura 15.4: la definizione della rete e delle relazioni; il marketing di acquisto; la gestione dei fornitori; la valutazione strategica. Analizziamo in maggior dettaglio ciascuna di queste attività.

540 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Figura 15.4 ATTIVITÀ DI STRATEGIC PURCHAISING

Scelte strategiche di make-or buy

Fornitori in concorrenza

Fornitore unico

Definizione della rete e delle relazioni

Marketing di acquisto

Gestione fornitori

Valutazione strategica

La definizione delle rete e delle relazioni Come abbiamo già visto nel capitolo 14, sono possibili diverse forme di rapporto con i fornitori. In una prospettiva manageriale, l’azienda che compra (cliente) deve anzitutto decidere per ciascuna categoria di acquisto la struttura delle propria rete di fornitura. Essenzialmente si tratta di decidere quanti fornitori attivare per ciascuna categoria di acquisto e, conseguentemente, quale tipo di rapporto instaurare con ciascun fornitore. Semplificando, si riconoscono quattro approcci: il multiple sourcing, il single sourcing, il dual sourcing e il parallel sourcing. Con il multiple sourcing il cliente ricorre continuamente al mercato competitivo instaurando relazioni spot di breve termine con i propri fornitori al fine di non essere eccessivamente legato a un singolo fornitore. Si tratta di non incorrere nel rischio di subire comportamenti opportunistici. Nella rete si trovano fornitori, prevalentemente selezionati sulla base del prezzo, che realizzano componenti o attività simili per uno o più prodotti dell’azienda cliente. Rapporti di questo tipo sono adatti per l’acquisto di beni o servizi standard che si trovano senza difficoltà sul mercato (commodity). Inoltre, un approccio di multiple sourcing è orientato a facilitare l’accesso all’innovazione grazie alla possibilità di affidarsi volta per volta a un fornitore differente, quello più innovativo. L’altra faccia della medaglia è la difficoltà di ottenere un alto livello di personalizzazione (i costi di transazione sarebbero troppo elevati per una relazione di questo tipo). In generale le strategie di multiple sourcing limitano anche le possibilità di perseguire economie di scala, in quanto il fabbisogno di un determinato componente viene frequentemente frazionato su più fornitori. Un approccio diametralmente opposto è quello denominato single sourcing. In questo caso il cliente si affida a un unico fornitore per l’approvvigionamento di un determinato bene o servizio. Si tratta talvolta di una scelta obbligata, quando il fornitore è proprietario di una tecnologia esclusiva, oppure opera in un mercato molto concentrato o è addirittura monopolista nel settore (si pensi al mercato dell’energia in Italia fino a qualche anno fa). La scelta può essere obbligata anche quando, pur in assenza di posizioni di monopolio o di tecnologie proprietarie, il cliente chiede al fornitore di investire in ricerca, tecnologie e impianti dedicati (si veda ad esempio il caso P&G-3M, Caso 14.3) e il fornitore pretende in cambio l’esclusiva. Altre volte non si

15. Gli acquisti ) 541

Cliente “in ostaggio”

Strategie intermedie

tratta di una scelta obbligata. Il cliente desidera instaurare una relazione esclusiva di partnership con il proprio fornitore per sfruttarne appieno i vantaggi: personalizzazione, flessibilità, maggiori volumi scambiati e dunque economie di scala e vantaggi di costo, possibilità di far leva sulle competenze specialistiche del fornitore in modo esclusivo rispetto ai concorrenti ecc. (cfr. capitoli 14 e 16). Relazioni di questo tipo sono generalmente di medio-lungo termine, ed è proprio questo che rende perseguibili economie di scala e attività di collaborazione tra cliente e fornitore; tuttavia, esiste un forte pericolo di monopolio laterale per il cliente, che rischia di trovarsi in “ostaggio” del proprio fornitore. Alla fine degli anni Novanta, ad esempio, Electrolux dovette subire un aumento di prezzo del 30% non concordato e ingiustificato da parte di un fornitore di un particolare tipo di schede elettroniche per il controllo di una famiglia di elettrodomestici. Da allora l’azienda ha modificato la propria strategia di fornitura, sostanzialmente abolendo le politiche di single sourcing. Tra i due estremi – multiple e single sourcing – esistono poi approcci intermedi. Il dual sourcing è una variante del single sourcing. Il cliente mantiene un fornitore principale per la maggior parte del fabbisogno di un bene o di un servizio e uno di riserva o di back-up per la parte rimanente. In questo modo l’azienda crea una certa tensione competitiva nell’ambito di rapporti comunque stabili e di medio-lungo termine con i fornitori principali e riesce a tutelarsi sia da eventuali comportamenti opportunistici da parte di questi ultimi, sia da problemi imprevisti che colpiscano il fornitore principale. Il parallel sourcing, invece, è costituito da una serie di relazioni esclusive di single sourcing, ciascuna delle quali è dedicata a soddisfare il fabbisogno di un componente per una determinata famiglia di prodotti finiti. Il cliente rinuncia all’aggregazione del fabbisogno attraverso famiglie diverse e coltiva relazioni di single sourcing all’interno di ciascuna famiglia di prodotti. In questo modo, il cliente mantiene diversi fornitori che realizzano lo stesso bene o servizio; la differenza rispetto al multiple sourcing è che ogni fornitore è dedicato a una famiglia specifica di prodotti finiti. Per creare una rete di questo tipo è necessario disporre di una gamma sufficientemente ampia di prodotti finiti, in cui le diverse famiglie di prodotti condividono componenti o attività simili; inoltre è necessario che i fabbisogni delle diverse famiglie siano sufficienti ad attivare un fornitore dedicato. Questi requisiti rendono il parallel sourcing di difficile applicazione in alcuni settori, tipicamente quando la gamma è troppo ristretta o i fabbisogni per famiglia troppo esigui. In altri casi, ad esempio nel settore automobilistico, sussistono invece le condizioni di applicabilità, e la pratica è largamente diffusa (è stata introdotta proprio dalla grande industria automobilistica giapponese). Il parallel sourcing si configura come un approccio manageriale innovativo volto a migliorare il trade-off tra efficacia e rischio nei rapporti di fornitura (sulla gestione e il miglioramento dei trade-off si vedano i capitoli 5 e 7). Il parallel sourcing, infatti, riunisce i vantaggi del multiple e del single sourcing. Il cliente ha la possibilità di costruire relazioni di lungo termine

542 ) PARTE IV – ACQUISTI

Competizione potenziale

CASO

E SUPPLY CHAIN

ed eventualmente di collaborazione. Al tempo stesso egli mantiene la possibilità di sostituire facilmente un fornitore con altri che hanno le stesse competenze e che già lavorano con il cliente stesso e conoscono i suoi modi di operare, riducendo in tal modo i rischi del monopolio laterale. Il parallel sourcing ha anche il vantaggio di mantenere viva una certa competizione, almeno potenziale, tra i fornitori: ciascuno di essi sa che se non si comporta in modo opportunistico e mantiene livelli qualitativi e standard di servizio adeguati potrà beneficiare di un rapporto a medio-lungo termine (ad esempio fino a quando il modello per il quale fornisce i componenti rimarrà in produzione); tuttavia sa anche che, in caso di problemi o condotte opportunistiche, potrà essere sostituito facilmente perché i costi di switching del cliente sono modesti. Il Caso 15.2 illustra un esempio di parallel sourcing.

15.2

Mercedes: un esempio di parallel sourcing Mercedes Benz (Gruppo Daimler) è tra le più importanti case automobilistiche a livello mondiale. All’inizio degli anni 2000, l’azienda si avvaleva di due fornitori per la produzione delle scatole per lo sterzo in modalità parallel sourcing. In particolare, un fornitore italiano produceva le scatole sterzo per le serie A e C, mentre un fornitore tedesco realizzava quelle per le serie E ed S (top di gamma). I due fornitori utilizzavano processi simili per la produzione dei pezzi meccanici: la materia prima (lega di alluminio) veniva fusa in appositi forni e poi colata negli appositi stampi delle presse. Ogni stampo serviva per produrre esclusivamente un modello di scatola per sterzo. Nell’estate del 2002 un’incredibile ondata di maltempo si abbatté sull’Europa centrale causando alluvioni ed esondazioni. Lo stabilmento del fornitore tedesco fu sommerso da tre metri di acqua e la produzione restò bloccata per più di tre mesi. La struttura della rete di fornitura permise a Mercedes di reagire prontamente. In meno di una settimana, l’azienda organizzò trasporti eccezionali per portare gli stampi utilizzati dal fornitore tedesco in Italia. Il fornitore italiano organizzò turni straordinari notturni e festivi per far fronte all’improvviso aumento della produzione. Le linee di assemblaggio Mercedes restarono ferme in attesa di componenti solo pochi giorni. Il costo complessivo dell’operazione fu contenuto, in quanto il fornitore italiano lavorava già da tempo per Mercedes, ne conosceva le esigenze e gli standard di lavoro, e fu in grado di avviare in breve tempo la produzione per i nuovi componenti. La struttura di parallel sourcing aveva funzionato perfettamente, ma non per lo scopo originario (quello di prevenire il rischio di comportamenti opportunistici dei fornitori), bensì per gestire un evento catastrofico del tutto inatteso. Una volta ripristinato l’impianto del fornitore tedesco, al fine di ridurre ulteriormente i costi di switching tra le due imprese, Mercedes decise di riallocare le famiglie di prodotto. In particolare, al fornitore tedesco fu affidata la produzione di componenti per le classi C ed E, mentre al fornitore italiano quelle delle classi A ed S. Questa politica ha permesso a entrambi i fornitori di acquisire competenze tanto per i componenti di alta gamma quanto per quelli di gamma inferiore. In questo modo, risulta oggi ancora più semplice trasferire la produzione da un fornitore all’altro e viceversa.

15. Gli acquisti ) 543

Certificazioni

Tipologia di relazione

Il marketing di acquisto L’attività di marketing di acquisto (o market intelligence) consiste nell’esplorazione del mercato di fornitura, al fine di mantenersi aggiornati sullo stato dell’arte della tecnologia, di conoscere l’offerta di aziende che non sono attuali fornitori, ma potrebbero diventarlo in futuro, e di scoprire soluzioni alternative a quelle utilizzate attualmente. Questa attività include anche il monitoraggio della concorrenza, per scoprire che cosa compra e da chi, al fine di cercare di carpire informazioni utili. In questo caso, un’attività del processo di acquisto ha uno stretto legame con lo sviluppo di nuovi prodotti: il caso MMELC (Caso 15.1) ci ha mostrato che uno dei contributi fondamentali dato dalla funzione acquisti ai colleghi progettisti è proprio la segnalazione di opportunità e alternative disponibili sul mercato di fornitura. Questa attività può essere condotta in molti modi: ad esempio partecipando a fiere di settore, navigando in Internet, consultando riviste specializzate, ma anche semplicemente incontrando informalmente professionisti di altre aziende. I fornitori potenziali vengono quindi valutati sulla base di una varietà di parametri, che vanno dalla capacità di offrire esattamente quanto richiesto (in termini di prestazioni tecniche, conformità, puntualità, costi ecc.) all’affidabilità e alla solidità dell’azienda, fino alle competenze innovative e alla possibilità di instaurare rapporti di partnership. Sulla base di queste valutazioni, si scartano i potenziali fornitori che non soddisfano i requisiti e si procede alla qualifica dei restanti. Il marketing di acquisto include infatti anche la qualifica dei fornitori, che consiste in un approfondimento di analisi tramite visite ispettive e valutazione di campioni di prodotti. Se l’esito di queste attività è positivo, si può dunque autorizzare l’avvio di un rapporto commerciale. Spesso questa operazione comporta una vera e propria certificazione dell’idoneità del fornitore, effettuata dal cliente stesso o da enti appositi. Ciò avviene in particolare in quei settori dove esistono vincoli legislativi stringenti, dovuti a esigenze di sicurezza, quali ad esempio il settore aeronautico e automobilistico. MMELC, ad esempio, operando nel settore automotive, deve sottostare alla legislazione internazionale in materia di sicurezza che prevede la certificazione di tutti gli attori della filiera produttiva. La gestione dei fornitori La gestione fornitori consiste prima di tutto nella scelta strategica di quale rapporto instaurare con ciascun fornitore, in particolare se e come instaurare un rapporto di partnership, ovvero un rapporto di mercato collaborativo, come visto nel capitolo precedente. I rapporti di partnership richiedono un’attenzione particolare e la loro costruzione richiede tempo ed energie manageriali. Le modalità di gestione dei rapporti di partnership saranno oggetto di approfondimento nel prossimo capitolo. In questa fase un’altra tipica decisione è quella di accorpare gli acquisti di più codici presso uno stesso fornitore per ridurre il numero complessivo di relazioni da gestire. A tal fine è necessario inoltre decidere se delegare a un fornitore la gestione di un insieme com-

544 ) PARTE IV – ACQUISTI Trasferimenti di risorse

Valutazione multidimensionale del potenziale

15.2.2 Dalla strategia all’operatività

Fabbisogni dei “clienti interni”

E SUPPLY CHAIN

plesso di componenti e dei relativi subfornitori, il cosiddetto bundled outsourcing. Infine, rientra in questa attività anche la decisione di fornire supporto ai fornitori in termini di trasferimento di competenze, attrezzature, risorse di vario tipo, al fine di migliorarne le prestazioni di fornitura (attività di sviluppo fornitori o supplier development). La valutazione strategica La valutazione strategica dei fornitori, infine, consiste nel periodico controllo del comportamento di ciascuno di essi e dei risultati della relazione instaurata. Come in fase di qualifica è stata fatta una valutazione multidimensionale della potenzialità di un fornitore, così nel corso del rapporto è necessario iterare questa valutazione, al fine di verificarne la correttezza e individuare tempestivamente eventuali criticità. Si tratta del cosiddetto vendor rating, come vedremo diffusamente più avanti nel capitolo. Il risultato di questa attività può essere semplicemente una conferma dei buoni risultati della relazione, oppure la segnalazione di un problema che deve essere tempestivamente comunicato al fornitore. Il caso MMELC (Caso 15.1) ci ha mostrato come l’insorgere di problemi possa dar luogo a svariate reazioni, a seconda della loro gravità: si passa dall’addebito al fornitore dei costi indotti da un suo errore alla definizione di azioni di supporto al fornitore affinché tali problemi non si ripetano, fino alla decisione di modificare il rapporto di fornitura o addirittura sospenderlo per sostituirlo con un altro.

Sourcing Il secondo sottoprocesso di acquisto è il collegamento fra le decisioni strategiche e l’operatività quotidiana. Ogniqualvolta qualcuno all’interno dell’azienda (persona o unità organizzativa) ha la necessità di comprare qualcosa (beni diretti, indiretti o di investimento), emette una richiesta di acquisto (in gergo RdA) alla funzione acquisti. Tale richiesta attiva il processo di acquisto, e in particolare la fase di sourcing, che consiste sostanzialmente nella scelta di uno specifico fornitore, fra quelli qualificati, per soddisfare il fabbisogno di acquisto. In questa fase inoltre vengono negoziate le condizioni di fornitura, definendo tutti gli aspetti relativi a tempi, costi e qualità. In particolare, questa fase si articola nelle seguenti attività (Figura 15.5): definizione specifiche, talvolta nuove attività di marketing di acquisto, richiesta di offerta, negoziazione e selezione. La definizione delle specifiche consiste nella traduzione del fabbisogno di acquisto espresso dal cosiddetto “cliente interno” in specifiche il più possibile dettagliate che riguardano le caratteristiche tecniche dell’oggetto di acquisto, le quantità, i tempi e i modi di consegna ecc. Questa attività è chiaramente fondamentale per garantire il buon esito dell’acquisto, in quanto a fronte di specifiche incomplete, ambigue o addirittura errate gli acquisti procureranno prodotti e servizi che non rispondono esattamente al fabbisogno aziendale. È an-

15. Gli acquisti ) 545

Figura 15.5 ATTIVITÀ DI SOURCING

Definizione specifiche

Marketing di acquisto

Richiesta offerta

Negoziazione e selezione

Contratto

Fornitori attivi vs. fornitori nuovi

che un’attività che richiede un’interazione tra la funzione acquisti e le altre funzioni aziendali, motivo per il quale anche chi si occupa di acquisti deve possedere competenze tecniche sufficienti a interagire sia con i clienti interni sia con i fornitori. Si tratta a volte di una delicata negoziazione interna: i clienti interni potrebbero fornire specifiche così stringenti e dettagliate da imporre sostanzialmente un fornitore già noto, limitando fortemente le possibilità di ricerca e negoziazione da parte degli acquisti. Una volta definite le specifiche, si cercano tra i fornitori qualificati dall’azienda quelli in grado di soddisfarle. Ovviamente questo presuppone che il fabbisogno di acquisto non sia completamente nuovo e quindi l’azienda abbia già qualificato dei fornitori, potenziali o effettivi, in grado di soddisfare i requisiti. In caso contrario, quando cioè nessuno dei fornitori qualificati è in grado di fornire quanto richiesto, è necessario attivare le operazioni di scouting e qualifica di un nuovo fornitore, operando quindi nuove attività tipiche del marketing di acquisto. Come abbiamo visto nel caso MMELC (Caso 15.1), quando lo sviluppo di un nuovo prodotto richiede l’approvvigionamento di componenti che possono essere forniti da aziende già qualificate e delle quali vi è una buona conoscenza grazie a rapporti di fornitura già attivi, si preferisce affidarsi nuovamente a loro. In tal modo si sostengono minori oneri, in quanto non è necessario effettuare lo scouting e la qualifica di altri fornitori. Anche il rischio è più contenuto, in quanto la conoscenza pregressa del fornitore riduce gli errori di valutazione. Tuttavia questo non deve portare a sospendere del tutto le attività di scouting, onde evitare di fossilizzarsi su rapporti consolidati che potrebbero precludere l’accesso a fornitori migliori, più innovativi o più competitivi. In alcuni casi la definizione delle specifiche non può essere precisa e dettagliata, in quanto il cliente non detiene sufficiente conoscenza del prodotto o servizio richiesto. Si formulano allora specifiche funzionali, definendo cioè le esigenze del cliente e demandando al fornitore lo sviluppo di una proposta dettagliata, in quanto è quest’ultimo a detenere la conoscenza maggiore della tecnologia e del prodotto/servizio. Una volta individuati i possibili fornitori, viene emessa una richiesta di offerta (in gergo RdO), che consiste nel comunicare le specifiche preventivamente definite, in modo che sia possibile formulare un’offerta di fornitura. Tale offerta deve includere le caratteristiche tecniche che il fornitore è in grado erogare, le quantità, i tempi e i modi di consegna che si impegna a rispettare, e soprattutto il prezzo richiesto. Una volta raccolte le offerte dei potenziali fornitori, si passa alla nego-

546 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

ziazione e selezione: vi sono diverse modalità per mettere i fornitori in concorrenza fra loro o cercare di ottenere condizioni migliori da parte di uno di essi. Più avanti nel capitolo approfondiremo anche questo tema. Una volta identificato il fornitore migliore secondo i molteplici criteri utilizzati (prezzo, qualità, tempi e modi di consegna), questo viene scelto e si redige un contratto di fornitura che contiene tutti i dettagli relativi sia alle specifiche, sia al prezzo, alle condizioni di consegna, alle modalità di pagamento, così come le penali in caso di inadempienza ecc. La stipula del contratto costituisce l’atto finale del processo di sourcing e permette il passaggio al processo di supply.

15.2.3 Gli ordini ai fornitori

Acquisti singoli e ripetuti

Accordi flessibili

Supply Dopo aver selezionato il fornitore e stipulato il contratto, si passa finalmente all’acquisto vero e proprio. L’innesco di questo sottoprocesso è dato dall’emissione dell’ordine verso il fornitore. Come abbiamo visto nel caso MMELC (Caso 15.1), per alcuni acquisti, ad esempio beni di investimento, oppure beni indiretti che vengono acquistati una sola volta o comunque sporadicamente, è necessario effettuare sia la fase di sourcing sia la fase di supply. Si tratta in questo caso di contratti chiusi, validi cioè per un unico acquisto. Per acquisti ripetitivi invece (diretti e indiretti), generalmente il sourcing viene effettuato all’inizio e rimane valido per orizzonti di tempo medio – lunghi (anche uno o più anni), a meno di problemi imprevisti. L’attività di supply, invece, viene iterata ogni volta che è necessario riapprovvigionarsi del bene in questione. Contratti di questo tipo sono chiamati contratti aperti o contratti quadro. In genere essi definiscono le specifiche tecniche e il prezzo, lasciando margini di libertà sui volumi e sui tempi di acquisto; spesso viene definito un volume complessivo che il cliente si impegna ad acquistare su un arco di tempo abbastanza lungo (tipicamente l’anno), con la libertà di distribuire gli acquisti nel tempo secondo le proprie necessità. Oppure si definisce un range entro il quale il cliente può muoversi, al di sotto o al di sopra del quale il fornitore non è più tenuto a garantire le stesse condizioni di fornitura. Anche questo tema verrà trattato in dettaglio nel paragrafo 15.7. Si nota che, come il sourcing ha in genere frequenza maggiore rispetto allo strategic purchasing, così il supply viene ripetuto ancora più spesso. Le attività che compongono questa fase sono rappresentate in Figura 15.6: expediting, ricezione e controllo, pagamento, valutazione operativa.

Figura 15.6 ATTIVITÀ DI SUPPLY

Expediting

Emissione dell’ordine

Ricezione e controllo

Pagamento

Valutazione operativa

15. Gli acquisti ) 547

Stato di avanzamento

Affidabilità del fornitore e delega

Il sottoprocesso di supply è quindi innescato dall’emissione dell’ordine di acquisto, che consiste nella definizione precisa delle quantità e dei tempi di consegna richiesti al fornitore. L’ordine di acquisto è il documento ufficiale che impegna il cliente a comprare quanto richiesto al fornitore, che quindi avvia le attività di fornitura (produzione nel caso di produzione su ordine, spedizione nel caso di produzione a scorta). In caso di contratti di acquisto per ordini singoli, in genere contratto e ordine coincidono; in caso invece di unico contratto per acquisti ripetuti (contratto aperto), l’emissione dell’ordine avviene ogni volta che si desidera attivare la fornitura nell’ambito di tale contratto. In alcune aziende, nell’ambito di rapporti di fornitura consolidati e di contratti aperti, le RdA per acquisti ripetitivi vengono trasformate automaticamente dal sistema informativo aziendale in ordini di acquisto, eliminando lavoro manuale a basso valore aggiunto. La funzione acquisti, una volta emesso l’ordine, procede all’expediting. Questa attività consiste nel richiedere al fornitore lo stato di avanzamento della fornitura e la conferma della data di consegna promessa. Nel caso in cui il fornitore ritardi, oppure si manifesti l’esigenza di anticipare la consegna per far fronte a un fabbisogno urgente imprevisto, si procede a sollecitare il fornitore e a definire la nuova data di consegna. La ricezione e controllo consiste prima di tutto nelle operazioni di scarico merce dai veicoli, registrazione di quanto consegnato e trasporto in magazzino oppure direttamente nel luogo di utilizzo (sulle linee di produzione per i materiali diretti in caso di consegne just-intime). Normalmente la merce consegnata viene controllata, almeno a campione, per assicurarsi che risponda completamente alle specifiche concordate, onde evitare successivi problemi in fase di utilizzo. Inoltre vengono registrati sia il momento in cui avviene la consegna sia la merce effettivamente consegnata, permettendo di valutare sia la puntualità sia la completezza della fornitura. Un problema ricorrente, infatti, è la non perfetta corrispondenza fra quanto ordinato e quanto consegnato, in termini di quantità dei singoli codici, che può essere dovuta ai più svariati motivi. Il caso MMELC (Caso 15.1) ci ha mostrato però una tendenza molto diffusa: delegare il controllo qualità direttamente al fornitore, previa verifica della sua affidabilità. In effetti il riscontro di un problema di qualità presso il cliente comporta sicuramente costi aggiuntivi per il fornitore che deve porvi rimedio, ma anche un costo di controllo, a cui si aggiungono ritardi e complicazioni, per il cliente stesso. Se il fornitore è in grado di garantire il rispetto dei parametri qualitativi, eliminando le operazioni di controllo si ottiene un risparmio di tempi e costi: è il cosiddetto free pass. Il prerequisito è ovviamente la dimostrazione, da parte del fornitore, di erogare con certezza la qualità richiesta, in quanto altrimenti si creano problemi ben maggiori rispetto al costo di un’operazione di controllo. Basti pensare, infatti, a che cosa succede se in linea di montaggio ci si accorge che un componente è difettoso; oppure, peggio, se si consegna al cliente finale un prodotto finito che contiene parti difettose. L’attività di ricezione e controllo, sebbene costituisca una fase del processo di acquisto, non sempre è effettuata direttamente dalla funzione

548 ) PARTE IV – ACQUISTI

Amministrazione e logistica

15.3

Tre aspetti dell’organizzazione degli acquisti

E SUPPLY CHAIN

acquisti: il caso MMELC ci ha mostrato come nello stabilimento di Corbetta, originariamente, queste attività fossero svolte dalla funzione logistica di stabilimento. Ora invece, con l’introduzione del material management, sono state ricondotte sotto la funzione acquisti, pur con una simultanea dipendenza anche dal Direttore di stabilimento. Una volta consegnato quanto richiesto, il fornitore emette la relativa fattura al cliente il quale, dopo aver controllato la corrispondenza fra l’ordine, la consegna e la fattura, attiva la procedura di pagamento, nei tempi e modi concordati nel contratto. Questa attività vede anche il coinvolgimento della parte amministrativa dell’azienda, che effettua operativamente il trasferimento di denaro corrispondente. Infine, la funzione acquisti raccoglie tutti i dati relativi alla fornitura, per aggiornare la valutazione operativa del fornitore. In particolare si registra il rispetto dei tempi e modi di consegna pattuiti e si raccolgono le informazioni sulla qualità di quanto consegnato, in modo da contribuire alla costruzione del vendor rating di cui abbiamo parlato per la valutazione strategica. Risulta evidente a questo punto che il processo di supply è costituito da attività di natura eterogenea; in particolare l’expediting, il pagamento e la valutazione operativa sono attività di natura amministrativa (supply amministrativo) e richiedono il contatto con il fornitore, mentre la ricezione e controllo è un’attività di natura logistica (supply logistico) e non comporta interazione diretta con il fornitore. Concludendo questa panoramica sui processi di acquisto, intesi nella loro accezione più ampia, possiamo notare come le attività svolte siano molto variegate e di conseguenza richiedano numerose persone e molteplici competenze per essere espletate. Diventa necessario, quindi, capire in quali modi possa essere organizzata la funzione acquisti di un’azienda, al fine di massimizzarne l’efficacia e l’efficienza.

L’organizzazione degli acquisti La questione principale che ci si trova ad affrontare nell’organizzazione della funzione acquisti è, come per ogni problema organizzativo, quella della divisione del lavoro e del coordinamento: chi fa che cosa e come interagisce con gli altri (si veda il capitolo 2). In particolare, in questa sede intendiamo la divisione del lavoro con due accezioni complementari. La prima riguarda la decisione su quali sono le attività di competenza della funzione acquisti e quali invece sono demandate ad altre funzioni aziendali (ad esempio la logistica, la produzione o lo sviluppo nuovi prodotti). Ci riferiamo in questo caso al raggio di azione della funzione acquisti, ricordando che il processo di acquisto non è mai gestito interamente dalla funzione in completa autonomia, ma alcune attività, in particolare quelle più strategiche (strategic purchasing), vengono sempre svolte in collaborazione con altre funzioni aziendali. Il secondo aspetto fa riferimento alla struttura della funzione acquisti e alla creazione delle sottounità organizzative. Si tratta di decidere quali criteri di raggruppamento utilizzare all’interno della funzione acquisti (si veda in proposito il capitolo 4).

15. Gli acquisti ) 549

Le imprese con più sedi operative, e in particolare le multinazionali, oltre alle due questioni appena introdotte ne devono gestire una terza: il livello di centralizzazione degli acquisti. Con questo termine si intende la scelta fra gestire gli acquisti delle varie sedi locali direttamente dalla sede centrale (centralizzazione), oppure delegare tale gestione alle periferia (localizzazione). Vediamo ora queste tre decisioni in dettaglio.

15.3.1

Evoluzione storica

Raggio di azione La prima decisione fondamentale consiste nel determinare quali e quante delle varie attività dei processi di approvvigionamento viste in precedenza sono responsabilità diretta della funzione acquisti. È bene notare che il contributo potenziale dato dalla funzione acquisti ai risultati aziendali è strettamente legato alle attività svolte. In particolare, è tanto maggiore quanto più è coinvolta nelle attività strategiche, in quanto le attività operative, seppur indispensabili, spesso non lasciano sufficienti margini per apportare benefici significativi. Possiamo osservare a questo proposito un’evoluzione storica del ruolo della funzione acquisti, coerentemente con la progressiva crescita della rilevanza degli approvvigionamenti conseguente alla deverticalizzazione delle aziende (capitolo 14). Aumentando l’impatto degli acquisti sui costi e sulle prestazioni aziendali, infatti, sono andate aumentando conseguentemente sia l’ampiezza dei compiti assegnati alla funzione acquisti sia la rilevanza della funzione all’interno dell’azienda. Si possono schematizzare quattro stadi di sviluppo (Tabella 15.2) che, pur non venendo necessariamente percorsi da tutte le aziende negli

Tabella 15.2 EVOLUZIONE DELLA FUNZIONE ACQUISTI Posizione nell’organigramma

Attività svolte

Ruolo del buyer

Valutazione

Contesto di applicazione

1. Azienda imprenditoriale

Non esiste

Tutto centralizzato dalla proprietà

Occasionale esecuzione di procedure

Nessun criterio formalizzato

Bassa rilevanza degli acquisti

2. Acquisti frammentati

Piccoli uffici acquisti nelle diverse unità organizzative

Supply

Esecuzione di procedure

Prezzo, qualità, servizio

Bassa rilevanza degli acquisti

3. Ufficio Acquisti

Secondo livello Supply, o inferiore a volte sourcing

Gestore del fornitore

Costi globali

Rilevanza operativa

4. Direzione Acquisti

Primo livello

Process owner

Valutazione strategica

Rilevanza strategica

Strategic purchasing, sourcing (supply)

550 ) PARTE IV – ACQUISTI

Ruolo tradizionale

Rilevanza crescente

Selezione dei fornitori

Costi globali

Ruolo strategico

E SUPPLY CHAIN

stessi tempi e nella stessa sequenza, rappresentano con sufficiente generalità l’evoluzione della funzione acquisti nel tempo. Il primo stadio è quello dell’azienda imprenditoriale, in cui tutte le decisioni di acquisto sono accentrate nella proprietà e non esiste un’unità organizzativa dedicata a questa attività. Esiste al più la mansione del buyer, un impiegato che si occupa di emettere gli ordini e sollecitare le consegne. Non esistono criteri di valutazione formalizzati, in quanto gli acquisti sono considerati un’attività marginale. Il secondo stadio è quello degli acquisti frammentati, è tipico delle realtà in cui gli acquisti non hanno particolare rilevanza e sono considerati come un’attività puramente operativa di supporto alle attività aziendali, senza alcun ruolo strategico. In questo caso l’attività caratterizzante è il supply di tipo amministrativo (ovvero l’esecuzione di procedure di ordine e ricezione), mentre le altre fasi del processo di acquisto sono effettuate da altre funzioni aziendali. Tipicamente le decisioni più strategiche sono effettuate dalla direzione generale o da funzioni quali lo sviluppo prodotti e la produzione. Di conseguenza gli acquisti possono anche non esistere in quanto unità organizzativa autonoma: spesso le procedure di acquisto sono svolte all’interno delle diverse unità organizzative. In questo contesto il buyer (intendendo con questo termine un generico addetto della funzione acquisti) è soprattutto un esecutore di procedure, e i fornitori vengono valutati prevalentemente in base al prezzo, alla qualità e al livello di servizio. Lo stadio successivo è la creazione di un ufficio acquisti vero e proprio che centralizzi le procedure di acquisto. Con questo termine si fa riferimento all’ampliamento delle responsabilità, includendo anche il sourcing oltre al supply, e alla conseguente assunzione di maggiore importanza, che si riflette in un posizionamento più in alto nell’organigramma aziendale, rispondendo di solito al direttore delle operations o della produzione nelle aziende manifatturiere, al direttore finanziario nelle aziende di servizio. Parallelamente all’allargamento dei compiti evolve anche la figura del buyer, che deve assumere un ruolo attivo di ricerca e selezione dei fornitori. La valutazione avviene quindi su molteplici prestazioni. È effettuata sui costi globali, considerando quindi non solo le prestazioni di fornitura, ma anche i costi di mantenimento a scorta e gli eventuali costi indotti sulle attività aziendali, quali ad esempio ritardi o extracosti dovuti a mancanze del fornitore. È il concetto di Total Cost of Ownership (TCO), che esprime l’insieme dei costi connessi alla fornitura, dall’acquisto fino alla cessione o allo smaltimento. Riprenderemo questo concetto più avanti nel capitolo. Infine, lo stadio più evoluto, quando la funzione acquisti assume un ruolo veramente strategico e viene direttamente coinvolta nelle decisioni aziendali di maggior portata, è quello della direzione acquisti vera e propria. Questo ruolo richiede una stretta relazione fra gli acquisti e le altre primarie direzioni aziendali, proprio alla luce della loro interdipendenza strategica. Ovviamente la funzione in questo caso ha un ruolo fondamentale all’interno dell’azienda e occupa il primo livello nella gerarchia, occupandosi direttamente di tutte le fa-

15. Gli acquisti ) 551

si del processo di acquisto. Il ruolo del buyer diventa quindi quello di vero e proprio process owner (vedi capitolo 5, paragrafi 5.7 e 5.8.1), in quanto non deve più solo gestire una relazione tradizionale, ma anche rapporti di partnership, che richiedono il coinvolgimento di molte funzioni aziendali, e necessitano dell’esistenza di un’interfaccia sia verso l’esterno sia verso l’interno dell’azienda. La valutazione del fornitore è una vera e propria valutazione strategica, che include sia i costi globali, sia le caratteristiche dell’azienda fornitrice quali la solidità finanziaria, le capacità tecnologiche e gestionali, il contributo innovativo e la sostenibilità ambientale e sociale. Il caso MMELC (Caso 15.1) è un buon esempio di funzione acquisti che si occupa di tutte le fasi del processo di acquisto, dalle decisioni strategiche alla gestione dei materiali in ingresso. Sul raggio di azione e il ciclo evolutivo della funzione acquisti si vedano anche Zanoni (1984) e Dobler, Burt e Lee (1990).

15.3.2

Organizzazione orientata agli input

Organizzazione orientata agli output

Criteri di raggruppamento La seconda decisione fondamentale riguardante l’organizzazione degli acquisti consiste, come anticipato, nella scelta di un criterio in base al quale raggruppare le varie posizioni in sottounità organizzative. Come visto nel capitolo 4, le due logiche fondamentali che possono essere adottate a questo scopo sono rispettivamente quella degli input (logica funzionale) e quella degli output (logica divisionale). Declinando tali logiche nel contesto degli acquisti, gli input corrispondono alle categorie merceologiche. Ad esempio, nel caso MMELC, le attività di supply sono suddivise in base all’oggetto di acquisto: materie prime, meccanica, elettronica, servizi e mezzi di lavoro. Questo significa che i buyer sono specializzati nell’acquisto di una sola categoria merceologica per il fabbisogno complessivo dell’azienda. In particolare, i materiali di una categoria vengono acquistati da un unico buyer (o, quando le dimensioni lo richiedono, da un’unità funzionale di buyer dedicati) indipendentemente dal prodotto finito nel quale verranno incorporati. L’obiettivo perseguito è quello dell’efficienza e dell’aumento del potere contrattuale nei confronti dei fornitori. Un caso estremo di organizzazione orientata agli input è quello del key account buying, in cui viene dedicato un buyer a un singolo fornitore molto importante (si veda in proposito Killen e Kamauff, 1992). Gli output, al contrario, corrispondono ai prodotti finiti o servizi erogati dall’azienda cliente, come visto nel capitolo 4. Nel caso MMELC (Caso 15.1) le attività di sourcing sono organizzate per famiglie di prodotti finiti: quadri di bordo, abitacolo e telematica. Questa logica è opposta alla precedente, in quanto le unità organizzative sono dedicate a singole famiglie di prodotti finiti, occupandosi di tutte le categorie merceologiche necessarie, perseguendo un obiettivo di efficacia e orientamento al cliente finale. Un esempio di organizzazione orientata prevalentemente agli output è Whirlpool Europe (Caso 15.3). Se questa logica è portata all’estremo, è possibile avere

552 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

persone dedicate agli acquisti per un singolo cliente molto importante: si pensi ad aziende che lavorano per pochi, grandi clienti, per i quali realizzano prodotti specifici, oppure alle aziende che lavorano su grandi commesse, quali ad esempio i progetti infrastrutturali (project buying).

CASO

15.3

Whirlpool Europe: una struttura di acquisto ibrida Whirlpool Corporation è una multinazionale americana, leader mondiale nel settore degli elettrodomestici bianchi, con un fatturato di circa 19 miliardi di dollari nel 2011, suddiviso tra nove diversi brand. Whirlpool Europe è la subsidiary dell’area EMEA (Europe, Middle East and Africa), che ha sede a Comerio (VA), in quello che fu il quartier generale della Ignis, storico marchio del settore. Dal 2009 la casa madre ha dato avvio ad un processo di trasformazione della struttura di acquisto allo scopo di massimizzare l’efficienza e la capacità di coordinamento. Pur rimanendo sostanzialmente autonoma, anche la funzione acquisti di Whirlpool Europe si è adeguata alle linee guida della funzione a livello corporate (denominata Global Strategic Sourcing – GSS). Come mostrato in Figura 15.7, la funzione è organizzata secondo una logica fortemente orientata agli output. Esiste infatti una linea (denominata Product Management) che raggruppa i responsabili degli acquisti di beni e servizi diretti sulla base delle quattro famiglie di prodotti realizzati: lavabiancheria, frigoriferi, cottura e lavastoviglie. Per ciascuna linea di prodotto vi sono buyer dedicati alle diverse categorie merceologiche. Questa organizzazione è riconducibile alla scelta di realizzare un’unica tipologia di prodotto in ciascun stabilimento ed è coerente con la sostanziale eterogeneità dei prodotti. Le materie prime e le tecnologie elementari comuni ai diversi prodotti sono invece sotto la responsabilità del Commodity Management. Vi è inoltre un unico responsabile per l’acquisto di tutti i beni e servizi indiretti. Infine, esistono alcune importanti funzioni in staff al responsabile GSS EMEA dedicate alla qualità e lo sviluppo dei fornitori, all’ottimizzazione dei processi di acquisto, alla gestione delle risorse umane e alla finanza e controllo.

Figura 15.7 ORGANIZZAZIONE DEGLI ACQUISTI DI WHIRLPOOL EUROPE GSS EMEA Vice President Procurement Supplier Quality & Development

Human Resources

Sourcing Excellence

Finance

Product Management Laundry Product Management Refrigerators Product Management Cooking Product Management Dishwashers & Cleaning

Commodity Management Resin & Strategic components Product Management Basic Technology

Indirect Procurement

15. Gli acquisti ) 553

Tabella 15.3 DRIVER DI SCELTA FRA INPUT E OUTPUT Input categoria merceologica

Output prodotto finito

Grandi volumi e/o alta incidenza sul valore del prodotto finito

Volumi e/o costo di acquisto meno importanti

Necessità di competenza specifica sui materiali

Necessità di competenza specifica sul prodotto finito e sul ruolo dei materiali nel prodotto finito

Necessità di massimizzare il potere contrattuale con i fornitori

Potere contrattuale con i fornitori indipendente dal volume o volumi comunque sufficienti

Forte necessità di collaborare con i fornitori

Forte necessità di coordinarsi con le altre funzioni aziendali

Materiali soggetti a frequente innovazione tecnologica

Requisiti specifici per ogni prodotto finito

In Tabella 15.3 sono sintetizzati i principali driver di scelta che portano un’azienda a organizzare la propria funzione acquisti in base alla categoria merceologica o al prodotto finito. In realtà molte aziende danno alla propria funzione acquisti una struttura ibrida, ovvero adottano in parte il criterio degli input e in parte il criterio degli output, a seconda della necessità, cercando di bilanciarne pregi e difetti. Come abbiamo visto, MMELC adotta gli input per il supply, laddove vuole perseguire l’efficienza, e gli output per il sourcing, al fine di massimizzarne l’efficacia. Anche Whirlpool adotta una forma ibrida, con una prevalenza dell’orientamento agli output per quanto riguarda i materiali diretti, mentre gli acquisti indiretti e le materie prime sono orientati agli input. Un altro modo di combinare le logiche degli input e degli output è quello adottato da Luxottica, come mostrato nel Caso 15.4. Si tratta di adottare una struttura a matrice, che di conseguenza ha i pregi e i difetti tipici di queste soluzioni, come visto nel capitolo 4. CASO

15.4

Luxottica: una struttura di acquisto a matrice Luxottica Group è leader nel settore degli occhiali di fascia alta, di lusso e sportivi, con circa 7.100 negozi operanti sia nel segmento “occhiali da vista” che in quello “occhiali da sole”. Luxottica è un’azienda globale presente in Nord America, Asia-Pacifico, Cina, Sudafrica, America Latina ed Europa e un portafoglio marchi forte e ben bilanciato. Tra i marchi propri figurano Ray-Ban, il marchio di occhiali da sole più conosciuto al mondo, Oakley, Vogue, Persol, Oliver Peoples, Arnette e REVO, mentre i marchi in licenza includono Bulgari, Burberry, Chanel, Coach, Dolce & Gabbana, Donna Karan, Polo Ralph Lauren, Prada, Tiffany e Versace. Oltre a un network wholesale globale che tocca 130 paesi, il Gruppo gestisce nei mercati principali alcune catene leader nel retail tra le quali LensCrafters, Pearle Vision e ILORI in Nord America, OPSM e Laubman & Pank in Asia-Pacifico, LensCrafters in Cina, GMO in America Latina e Sunglass Hut in tutto il mondo. I prodotti del Gruppo sono progettati e realizzati in sei impianti produttivi in Italia, in due, interamente controllati, nella Repubblica Popolare Cinese, in uno in Brasile e in uno negli Stati Uniti, dedicato alla produzione di occhiali sportivi. Nel 2011, Luxottica Group ha registrato vendite nette pari a 6,2 miliardi di euro.

554 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

La gestione di tutti gli acquisti relativi alle operations, che includono i materiali diretti quali materie prime, componenti, lenti da sole e da vista, lavorazioni, packaging e prodotti finiti, oltre ai servizi logistici, di manutenzione e agli investimenti di produzione, è demandata alla funzione “Group Operations Purchasing” che risponde al Chief Operations Officer, che a sua volta risponde al Chief Executive Officer. La funzione impiega più di 100 persone dislocate nelle varie sedi del gruppo e organizzate in forma di matrice (Figura 15.8), in cui una dimensione è rappresentata dalle categorie di acquisti prima elencate (per ciascuna di queste vi è un commodity manager che è responsabile delle strategie e del coordinamento di tutti gli acquisti di tale categoria a livello mondo) e l’altra dimensione è rappresentata dai vari paesi in cui l’azienda è presente con i propri stabilimenti produttivi (dove vi è un country manager che coordina gli acquisti di tutte le categorie necessarie localmente). I singoli buyer quindi sono dislocati nelle varie sedi e si occupano di una specifica categoria, rispondendo ai rispettivi manager. Le persone basate a Dongguan in Cina oltre a supportare i bisogni delle fabbriche locali facilitano le attività di “Asian Sourcing” svolte dall’International Purchasing Office. Vi sono poi alcuni ruoli di staff al direttore acquisti che si occupano di attività trasversali quali Administration & Back Office (attività di supporto e sviluppo progetti interni), Controlling & Analytics (controllo di gestione e reportistica) e Advanced Purchasing & New Project Introduction (che collabora con la Ricerca e Sviluppo nella ricerca e introduzione di nuovi prodotti, materiali e tecnologie da parte dei fornitori).

Figura 15.8 ORGANIZZAZIONE DEGLI ACQUISTI DI LUXOTTICA Group Operations Purchasing Director Administration & Back Office

Controlling & Analytics

Advanced Purchasing & New Project Introduction Sun Lenses

RX Lenses

Packaging

Raw Materials & Components

Finished Products

CapEx & Maintenance

Logistics

ITALY LUXOTTICA USA OAKLEY

100+ people

USA LOM BRASIL TECNOL CHINA TRISTAR / IPO

Imprese multinazionali

Un altro caso di struttura orientata agli output, che si può trovare in aziende che operano in più sedi geograficamente disperse, consiste nella replicazione delle attività di acquisto per ogni sede o Paese in cui si opera. È un concetto analogo alle divisioni geografiche viste nel capitolo 4 ed è appunto una delle dimensioni della matrice secondo cui sono organizzati gli acquisti di Luxottica. Tuttavia le imprese multi-sito o multinazionali possono scegliere fra un’ampia gamma di soluzioni organizzative per gestire gli acquisti, soprattutto in termini di livello di centralizzazione, come vedremo nel prossimo paragrafo.

15. Gli acquisti ) 555

15.3.3

Glocalization degli acquisti

Driver della centralizzazione

Livello di centralizzazione Le imprese multinazionali o comunque localizzate su più sedi operative hanno l’ulteriore problema del livello di centralizzazione degli acquisti. I casi MMELC, Whirlpool Europe e Luxottica, appunto tre multinazionali, hanno illustrato anche questo aspetto dell’organizzazione degli acquisti. Semplificando, le alternative sono due: centralizzare gli acquisti attraverso un’unica struttura che soddisfa i fabbisogni di tutte le sedi, oppure decentralizzarli, duplicando in sostanza le strutture di acquisto? Chiaramente il problema è tanto più forte quando un’azienda opera in più Paesi, magari addirittura in più continenti, come in effetti avviene nei tre casi appena citati. In realtà non è corretto parlare di centralizzazione in modo generico, in quanto alcune fasi del processo di acquisto si prestano a essere centralizzate, in particolare lo strategic purchasing e il sourcing (che qui chiameremo per brevità decisioni strategiche), perché permettono di definire strategie comuni per l’intera azienda e di negoziare con i fornitori da una posizione più vantaggiosa. Il supply (decisioni operative), invece, per le sue caratteristiche operative, è difficile da centralizzare e non sarebbe nemmeno conveniente provarci, in quanto la gestione dei flussi fisici e amministrativi per le singole unità locali risponde necessariamente a esigenze specifiche e richiede la presenza sul campo. Il concetto di centralizzazione, quindi, fa riferimento alle sole decisioni strategiche. Il caso MMELC è un buon esempio di come si possano gestire in modo centralizzato le decisioni strategiche e delegare a ogni stabilimento le decisioni operative. Possiamo individuare alcune variabili rilevanti che guidano nelle scelte fra centralizzazione e localizzazione delle decisioni strategiche: • l’esistenza di comunanze fra gli acquisti delle varie sedi spinge verso la centralizzazione, per aggregare i volumi di acquisto al fine di ottenere una riduzione dei prezzi. Questa dipende anche dai risparmi potenziali ottenibili tramite l’aumento dei volumi; • la rilevanza degli acquisti, in termini di incidenza sui costi totali e sulle prestazioni dell’azienda, spinge verso la centralizzazione per avere un migliore controllo; • l’importanza del potere contrattuale, dovuta ad esempio alla concentrazione del mercato di fornitura, spinge verso la centralizzazione; • la necessità di competenze specialistiche spinge alla centralizzazione per favorire la specializzazione dei buyer; • l’esigenza di integrare fortemente le attività delle sedi locali con quelle dei fornitori, ad esempio perché si adotta un sistema di coordinamento di tipo just-in-time, spinge verso il decentramento; • la localizzazione è necessaria tanto più le sedi sono geograficamente disperse, in quanto la distanza, il fuso orario e la lingua rendono più difficile il coordinamento; • il mercato di fornitura influenza la scelta a seconda delle sue caratteristiche: in particolare se è locale (ogni sede si approvvigiona da

556 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

fornitori locali, che quindi non sono comuni ad altre sedi) è preferibile una struttura decentralizzata; se è globale e concentrato, formato cioè da pochi grandi operatori (la base di fornitura è comune a tutte o molte sedi, anche in Paesi o addirittura continenti diversi), è preferibile una struttura centralizzata (acquisti locali e globali verranno approfonditi più avanti nel capitolo); • l’esistenza di vincoli sulla base di fornitura, che possono essere di natura politico-legislativa (ad esempio obbligo di acquistare da fornitori locali oppure obbligo di acquistare presso i Paesi clienti), di mercato (il cliente impone la scelta dei fornitori), logistici (alti costi di trasporto), può influenzare le scelte di centralizzazione. Il Caso 15.5 ci mostra un esempio di forte centralizzazione degli acquisti da parte di una grande realtà multinazionale, il gruppo Techint/Tenaris, che ha scelto di creare una società di servizio, Exiros, a cui delegare la gestione degli approvvigionamenti per le varie società. Non si tratta di outsourcing dei processi di acquisto, in quanto la società rimane completamente interna al gruppo, ma del tentativo di centralizzare e coordinare il più possibile gli acquisti per ottenere economie di scala e maggior potere contrattuale con i fornitori.

CASO

15.5

Exiros: strutture di acquisto centrali e locali Exiros è una società di servizio creata nel 2000 dal gruppo italo-argentino Techint per gestire gli acquisti di Tenaris, la divisione specializzata in prodotti in acciaio, in particolare tubi e laminati. Exiros, tramite le sue sedi in Argentina, Canada, Stati Uniti, Romania, Cina, Indonesia, Giappone, Colombia, Italia, Brasile, Messico e Uruguay, fornisce servizi sia alle aziende del gruppo sia ad altre aziende. Nel 2012 Exiros impiega 450 persone nel mondo e gestisce acquisti per un valore di 7 miliardi di dollari all’anno presso 10.000 fornitori. Exiros agisce come agente di acquisto per i propri clienti: costoro inviano le proprie richieste in base ai fabbisogni pianificati, Exiros seleziona i fornitori, negozia le condizioni, redige i contratti ed effettua gli acquisti. I clienti quindi emettono i propri ordini nell’ambito dei contratti definiti da Exiros. In particolare, Exiros acquista materiali diretti, indiretti, servizi e capital equipments che vengono classificati in: • materiali strategici, che includono materie prime e materiali per la produzione di acciaio (ad esempio refrattari ed elettrodi); • MRO, che includono materiali di laminazione, parti di ricambio e materiali di manutenzione, indiretti di fabbrica (ad esempio vernici e lubrificanti), forniture per ufficio; • servizi, che includono ad esempio i trasporti; • capital equipments/investimenti. L’organizzazione dell’azienda (Figura 15.9) prevede sia un’unità centrale sia delle unità periferiche. L’unità centrale, situata in Argentina, è divisa in tre aree, MRO globali, materiali strategici globali e capital equipments; all’interno di ciascuna area vi sono dei category manager

15. Gli acquisti ) 557 specializzati in categorie merceologiche. Il compito di questa unità è di definire le linee guida, standardizzare i materiali da acquistare, sviluppare il catalogo di acquisto, effettuare il sourcing, negoziare e redigere i contratti globali con i fornitori. Vi sono poi le unità locali (coordinate dai regional managers) articolate in MRO locali, materiali strategici locali, trasporti e servizi. Queste unità effettuano le operazioni di sourcing e supply, misurando le prestazioni dei fornitori. La creazione di Exiros ha permesso al gruppo Tenaris di ottenere significativi risparmi sui costi di acquisto, migliorare il servizio reso alle aziende del gruppo, definire in modo più chiaro le relazioni con i fornitori, standardizzare e rendere trasparenti le procedure e i processi.

Figura 15.9 ORGANIZZAZIONE DEGLI ACQUISTI DI EXIROS

Human Resources

Support

Global Operations

CEO

Staff

Local Operations

Administration

Operations

Content, Quality & Logistics

Global MRO

Planning

Raw Mats

Global Investments

Regional Manager (1) IT Electric and Electronic Components

Local MRO Leader

SERVICE & TRANSP.

CATEGORY MANAGER

Local MRO Cat.

Local Scrap

CATEGORY MANAGER

CATEGORY MANAGER

International Metallics Markets

Local MRO Cat.

CATEGORY MANAGER

FeAlloys & Metals

CATEGORY MANAGER

Local MRO Cat.

CATEGORY MANAGER

Coal, Coke & Iron Ore

Fluid Dynamic Components

CATEGORY MANAGER

Local MRO Cat.

CATEGORY MANAGER

Refractories & Electrodes

Production Tools

CATEGORY MANAGER

Local MRO Cat.

Onsite RM

Mechanical Components and Others Lubricants, Chemicals and Paintings

(1) Regional Manager areas: Argentina & Brazil, Mexico & Colombia,Venezuela, Europe & Asia, North America

Abbiamo fin qui discusso che cosa compra un’impresa (le tipologie di acquisto), quali attività vengono svolte al fine di realizzare un acquisto (i processi di acquisto) e in che modo ci si organizza per eseguire tali attività (l’organizzazione degli acquisti). Non rimane ora che presentare i vari strumenti gestionali che vengono utilizzati dalla funzione acquisti per svolgere il proprio compito. In particolare discuteremo dapprima la gestione del portafoglio acquisti in base alle caratteristiche dei prodotti e servizi acquisiti. Illustreremo quindi le tecniche di valutazione dei fornitori (vendor rating). Discuteremo poi brevemente le principali tecniche di selezione e di negoziazione, nonché le possibili alternative contrattuali. Infine presenteremo alcuni strumenti sviluppati recentemente sfruttando le potenzialità dell’ICT.

558 ) PARTE IV – ACQUISTI

15.4 Per ogni acquisto una strategia su misura

15.4.1

Fattori strategici

E SUPPLY CHAIN

La gestione del portafoglio acquisti Abbiamo visto in precedenza che un’azienda acquista un’ampia varietà di prodotti e servizi, che questo può avvenire in un contesto di mercato competitivo o collaborativo e che, in caso di acquisti multipli, per ciascuno di questi si può scegliere se rivolgersi a uno, due o più fornitori. La gestione del portafoglio acquisti consiste quindi nella definizione di opportune strategie di approvvigionamento per ciascuna categoria di beni/servizi acquistati. Presenteremo ora uno strumento di gestione del portafoglio molto diffuso, la matrice di Kraljic; quindi discuteremo le scelte di sourcing locale e globale; infine descriveremo le modalità di valutazione dei fornitori (vendor rating). Entrambi questi due ultimi aspetti (sourcing locale/globale e vendor rating) sono fortemente dipendenti dalle tipologie di acquisto e vengono pertanto presentati come aspetti della gestione del portafoglio.

La matrice di Kraljic In un celebre articolo apparso sull’Harvard Business Review nel 1983 (“Purchasing Must Become Supply Management”), Peter Kraljic ha proposto una classificazione degli acquisti sulla quale basare le decisioni strategiche di approvvigionamento. Si tratta di un modello semplice ed efficace, che ha dimostrato la sua utilità in innumerevoli contesti aziendali e ancora oggi mantiene la sua validità. Secondo l’autore gli oggetti acquistati si possono classificare secondo due dimensioni principali: l’importanza strategica e la difficoltà del mercato di fornitura. L’importanza strategica di un bene acquistato misura il suo contributo alle prestazioni competitive dell’azienda, distinguendo fra acquisti strategici e acquisti che, sebbene siano necessari, non forniscono vantaggi competitivi. L’importanza strategica dipende da alcuni fattori: prima di tutto l’incidenza di costo del bene sui costi totali; tanto maggiore è l’incidenza, tanto maggiore è l’influenza del singolo acquisto sui margini aziendali e quindi la possibilità di ottenere vantaggi competitivi tramite risparmi sul costo di acquisto. Un secondo fattore è il contributo alla qualità del prodotto finito: tanto più un acquisto influenza le performance del prodotto, concorre all’affidabilità e offre garanzie di requisiti minimi, tanto maggiore è la sua importanza strategica. Si pensi ad esempio alla scatola dello sterzo o alla scatola del cambio di un’automobile: si tratta di componenti generalmente non visibili all’utente finale, ma indispensabili al corretto funzionamento del veicolo e alla tutela dell’incolumità dei passeggeri. Inoltre sono componenti cosiddetti life-long, che non dovrebbero cioè venire mai sostituiti; essi non forniscono un vantaggio competitivo, ma hanno comunque un impatto rilevante sulla qualità del prodotto finito e ricoprono quindi un’elevata importanza strategica. Un terzo fattore consiste nel contributo ai differenziali competitivi: se un componente acquistato permette di distinguersi dai concorrenti e aumentare il valo-

15. Gli acquisti ) 559

Fattori di mercato

Quattro categorie di acquisti

re attribuito dai clienti, la sua importanza strategica è elevata. Naturalmente le basi della differenziazione possono essere molteplici: l’estetica, la funzionalità, l’ergonomia, la performance tecnica ecc. Continuando nell’esempio dell’automobile, altri componenti, ad esempio il propulsore, oltre a fornire un apporto alla qualità nel senso suesposto, contribuiscono esplicitamente al valore percepito dal cliente finale e possono costituire un fattore differenziale rispetto ai concorrenti; altri componenti, ad esempio i gruppi ottici anteriori e posteriori, contribuiscono fortemente all’estetica del prodotto finito; anche in questo caso l’importanza strategica è elevata. La seconda dimensione di classificazione, la difficoltà del mercato di fornitura, considera invece l’esistenza o meno di ostacoli all’approvvigionamento di un bene sul mercato. Questa dimensione è chiaramente legata alle variabili discusse nel capitolo precedente: specificità, complessità descrittiva e incertezza. Abbiamo già visto infatti che per alcuni componenti non esiste un mercato competitivo, ma l’unica alternativa all’integrazione verticale è il mercato collaborativo. Tuttavia, anche per quei beni per i quali esiste un mercato competitivo, possono esistere delle difficoltà di approvvigionamento. Un primo fattore rilevante è la concentrazione del mercato di fornitura: se esistono pochi fornitori, questi avranno un elevato potere contrattuale, che permetterà loro di influenzare i prezzi e i termini contrattuali. Si pensi ad esempio ai produttori di microprocessori per personal computer: Intel domina un mercato in cui operano pochi altri player, fra i quali i più noti sono AMD e Motorola; i produttori di computer si trovano a fronteggiare fornitori con un enorme potere contrattuale, che rendono difficile l’acquisto. Un secondo fattore rilevante sono i costi logistici: alcuni beni voluminosi e pesanti diventano antieconomici se vengono trasportati troppo lontano, restringendo quindi fortemente il numero di fornitori effettivamente disponibili. È il caso del cemento, i cui costi di trasporto su terra sono tali da rendere non conveniente l’acquisto oltre un raggio di 100-150 chilometri dalla cementeria. Tuttavia anche per i beni facilmente trasportabili la catena logistica può rendere incerta e rischiosa la fornitura: beni che provengono da lontano possono essere soggetti a forte variabilità dei tempi di trasporto dovuta a ritardi, scioperi, rallentamenti alle dogane, traffico ecc. Anche questa imprevedibilità contribuisce ad aumentare i costi logistici e quindi a rendere difficile l’acquisto. Infine un terzo fattore rilevante è la capacità produttiva complessiva dei fornitori: se il mercato di fornitura opera mediamente a elevati livelli di saturazione della capacità produttiva, da un lato il potere contrattuale dei fornitori aumenta, in quanto non hanno problemi di domanda, dall’altro aumenta anche il rischio di ritardi nelle consegne in caso di picchi di domanda o imprevisti produttivi. L’intersezione delle due dimensioni – importanza strategica dell’acquisto e difficoltà del mercato di fornitura – dà origine a una matrice di portafoglio con quattro quadranti (Figura 15.10), ciascuno dei quali rappresenta una categoria di beni di acquisto che necessita di una specifica strategia di approvvigionamento.

560 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Difficoltà del mercato

Figura 15.10 MATRICE DI PORTAFOGLIO ACQUISTI

Colli di bottiglia • Partnership o integrazione verticale • Sole sourcing forzoso

Strategici • Partnership • Rapporti consolidati • Single sourcing o dual sourcing

Non critici • Mercato competitivo • Transazioni spot • Multiple sourcing

Leva • Partnership • Uso del potere contrattuale • Parallel sourcing/dual sourcing

Importanza strategica Fonte: adattata da Kraljic (1983).

Discutiamo ora ciascun quadrante. Fornitori in competizione

Potere contrattuale

• Acquisti non critici: si tratta di beni a bassa importanza strategica e a bassa difficoltà di mercato, che quindi possono essere approvvigionati efficacemente sul mercato competitivo. Ricadono in questa categoria ad esempio le commodity, i componenti standard, le forniture per ufficio. Le caratteristiche di questi beni fanno sì che l’obiettivo degli acquisti sia di minimizzare il prezzo, sfruttando il potere contrattuale e mettendo in concorrenza fra loro i fornitori. Per questo motivo si adottano di solito logiche di multiple sourcing e si effettuano transazioni spot. • Acquisti leva: con questo termine si indicano i beni a elevata importanza strategica e bassa difficoltà di mercato; il nome è dovuto alla possibilità per l’impresa di sfruttare il proprio potere contrattuale per ottenere vantaggi significativi (effetto leva). Esempi di beni di questo tipo sono le macchine utensili e i veicoli industriali, che pur avendo un elevato valore unitario sono offerti da molti fornitori con capacità produttiva insatura. L’importanza strategica di questi beni fa sì che l’obiettivo degli acquisti sia da un lato di garantire la qualità e la stabilità della fornitura, dall’altro di cercare di contenerne i costi. Per questo motivo si utilizzano relazioni di partnership, nell’ambito delle quali però si sfrutta il proprio potere contrattuale, adottando ad esempio forme di parallel sourcing

15. Gli acquisti ) 561

Situazioni scomode

Spazi per la partnership

o dual sourcing per mantenere la pressione competitiva tra i fornitori pur nell’ambito di relazioni di lungo periodo. • Colli di bottiglia: i beni a bassa importanza strategica ed elevata difficoltà di mercato costituiscono i colli di bottiglia degli approvvigionamenti, in quanto i fornitori hanno elevato potere contrattuale e vi è il rischio di rimanere bloccati per ritardi o difetti nelle consegne. Un esempio sono i già citati microprocessori, ma lo stesso vale ad esempio per le materie prime scarse o in regime di monopolio/oligopolio. La prima indicazione strategica per questi componenti è quella di capire se sono effettivamente indispensabili oppure se è possibile sostituirli con altri meno critici o, infine, se non è possibile ricorrere all’integrazione verticale (insourcing) al fine di sottrarsi a una situazione di dipendenza dai fornitori. Spesso tuttavia questo non è possibile (come nel caso dei microprocessori, che sono indispensabili in un computer e troppo onerosi da produrre in proprio), quindi è necessario gestire la fornitura in modo appropriato. In questi casi il potere contrattuale è a favore dei fornitori, quindi non è possibile metterli in concorrenza fra loro per ridurre i prezzi; al contrario, è necessario accettare di pagare prezzi elevati pur di garantirsi la continuità della fornitura. Si ricorre quindi, quando possibile, a forme di partnership mirate a questo obiettivo, spesso in contesti di single sourcing obbligato (sole sourcing). A volte tuttavia un fornitore monopolista non è disponibile a instaurare forme di partnership in quanto vuole sfruttare al massimo il proprio potere contrattuale. L'unica alternativa in questi casi è quella di ridurre la dipendenza dai monopolisti stimolando attivamente la crescita di nuovi fornitori. • Acquisti strategici: si tratta di beni ad alta importanza strategica e alta difficoltà di mercato, i cui fornitori quindi hanno elevato potere contrattuale. Si pensi ad esempio ai componenti critici di un’automobile, quali il motore, il sistema frenante e sterzante, l’elettronica ecc. che hanno alta incidenza sui costi e influenzano fortemente le caratteristiche del prodotto finito, e inoltre vengono forniti da un unico sistemista in quanto sono generalmente progettati su misura. La concentrazione del mercato di fornitura è quindi spesso connessa alla rilevanza strategica ed è imprescindibile. Di conseguenza il prezzo di acquisto seppur elevato non è la variabile più rilevante, in quanto l’obiettivo è la massimizzazione delle prestazioni complessive della fornitura sul lungo periodo, in termini di tempi, costi, qualità, innovazione e differenziazione. In questo contesto fioriscono i rapporti di partnership di lungo termine, adottando appunto soluzioni di single sourcing o di dual sourcing per ridurre il rischio. Generalmente tutte e due le parti hanno interesse allo sviluppo di tali rapporti che portano benefici per entrambi.

562 ) PARTE IV – ACQUISTI

15.4.2

Driver del global sourcing

E SUPPLY CHAIN

Local sourcing e global sourcing Nei paragrafi precedenti abbiamo più volte accennato a un tema molto rilevante: la decisione riguardante l’ambito geografico a cui rivolgersi per effettuare i propri acquisti. Dai Fenici a Marco Polo, la storia della civiltà è legata all’internazionalizzazione del commercio: spingersi in Paesi lontani per procurarsi beni particolari indisponibili localmente. I mercanti europei hanno acquistato per secoli spezie e tessuti nelle Indie e in Cina e materie prime e metalli preziosi nelle Americhe. Oggi siamo in presenza di fenomeni che facilitano e incoraggiano l’utilizzo di fornitori lontani dal luogo dove opera il cliente, avendo come ambito l’intero pianeta: è il fenomeno del global sourcing, che è determinato da alcuni driver, come mostrato in Figura 15.11. Anzitutto lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto permette di movimenFigura 15.11 OPPORTUNITÀ E VINCOLI CHE SPINGONO VERSO IL GLOBAL E IL LOCAL SOURCING

Sviluppo infrastrutture logistiche Accordi internazionali Minor costo del lavoro Fornitori world class Aumento competizione Costi logistici Rapidità e affidabilità Collaborazione stretta Risorse esclusive Obblighi contrattuali Norme protezionistiche

Local sourcing

Global sourcing

15. Gli acquisti ) 563

Perché acquistare localmente

tare grandi quantità di merci su lunghe distanze a costi ragionevoli via mare, oppure trasportare rapidamente merci da una parte all’altra del pianeta per via aerea, anche se gli elevati costi di questa soluzione ne limitano fortemente l’utilizzo. Inoltre, gli accordi commerciali internazionali, la riduzione delle barriere doganali e le semplificazioni burocratiche in generale hanno favorito questo trend. Lo sviluppo di attività manifatturiere a basso costo – ad esempio in Europa orientale e in Asia – ha creato forti convenienze a utilizzare fornitori operanti in queste aree. Una motivazione diversa può essere invece la ricerca dei cosiddetti fornitori world class, cioè i migliori al mondo nel loro settore in termini di qualità e innovazione. In altri casi l’utilizzo di fornitori globali può essere motivato dal desiderio di mettere sotto pressione i fornitori locali, creando maggior competizione. La scelta di fornitori globali può essere addirittura obbligata a causa del controllo esclusivo delle risorse, che possono essere sia naturali (materie prime), sia tecnologiche: basti pensare ai già citati microprocessori per personal computer, al software proprietario, ai componenti coperti da brevetti. Infine, se si vogliono vendere prodotti in alcuni Paesi, si è talvolta obbligati ad acquistare una certa percentuale del valore del prodotto nello stesso Paese. È ad esempio il caso tipico del settore aerospaziale: poiché i clienti sono spesso i governi (o società pubbliche), questi richiedono che almeno parte del prodotto sia realizzato nel loro paese. È ormai consuetudine infatti per i consorzi Boeing e Airbus distribuire la produzione dei componenti degli aerei in numerosi paesi. Contemporaneamente, tuttavia, gli acquisti da fornitori locali (local sourcing), fornitori cioè che producono nello stesso Paese o addirittura in prossimità dei siti operativi del cliente, rimangono di fondamentale importanza per svariati motivi (Figura 15.11). Anzitutto moltissimi prodotti di basso valore unitario ed elevato volume e peso comportano ancora costi logistici tali da non giustificare l’approvvigionamento globale. È il caso già citato del cemento, ma anche dei semilavorati siderurgici e di altre commodity pesanti, ingombranti e di valore specifico (rapporto valore/peso o valore/volume) piuttosto basso. Tuttavia oggi questi limiti possono essere estesi: il cemento può essere convenientemente trasportato lontano via nave; le automobili vengono portate via mare in Europa e Stati Uniti dal Giappone e dalla Corea del Sud; gli elettrodomestici voluminosi (frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie) vengono trasportati dall’Est Europa in Francia, Spagna, Italia e Inghilterra via terra (strada e ferrovia); perfino i prodotti alimentari deperibili vengono trasportati in tutta Europa su strada in veicoli refrigerati. Ma altri fattori possono ancora favorire scelte di approvvigionamento locale: la necessità di consegne rapide e affidabili, che diventano un ingrediente indispensabile in sistemi produttivi just-in-time e in contesti ad alta turbolenza, oppure la volontà di instaurare rapporti di stretta collaborazione con i fornitori, come vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo. Infine, analogamente a quanto visto per il global sourcing, un’azienda può

564 ) PARTE IV – ACQUISTI

Fornitori che seguono i clienti

15.4.3 Valutazione iniziale e periodica

Valutazione del potenziale

E SUPPLY CHAIN

essere obbligata a scegliere fornitori locali per imposizione del cliente, oppure a causa di limiti legislativi alle importazioni (protezionismo), com’è stato per anni nel settore tessile e in parte avviene ancora oggi. È importante sottolineare che il local sourcing può essere realizzato sia rivolgendosi a fornitori autoctoni, originari cioè dell’area in cui opera il cliente, oppure rivolgendosi a fornitori globali che operano attraverso strutture dislocate in varie parti del mondo. È il caso ad esempio dei produttori automobilistici statunitensi ed europei che hanno aperto stabilimenti di assemblaggio in Sud America prima e in Cina poi, dove inizialmente non esisteva una base di fornitura adeguata, motivo per cui hanno chiesto ai loro fornitori di aprire stabilimenti produttivi in loco, al fine di realizzare un local sourcing con fornitori consolidati. Al contrario, quando un’azienda apre un impianto produttivo in un nuovo continente ma continua ad approvvigionarsi presso i propri fornitori consolidati operanti nel Paese d’origine, attua nei fatti una scelta di global sourcing.

La valutazione dei fornitori: il vendor rating La gestione del portafoglio richiede la selezione di uno o più fornitori adatti per ciascun oggetto d’acquisto. Questa scelta comporta una valutazione dei fornitori attuali e potenziali (vendor rating), per essere in grado di distinguere quelli adatti alle proprie esigenze. Tale valutazione, ovviamente, non avviene soltanto in fase di scelta iniziale, ma viene periodicamente aggiornata al fine di verificare la rispondenza dei fornitori alle aspettative e confermare o meno la scelta di affidarsi a loro. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, questa valutazione ha due anime che giocano ruoli diversi nel processo di acquisto: da un lato vi è una valutazione strategica, inserita nel processo di strategic purchasing, che considera una pluralità di parametri orientati al lungo periodo; dall’altro vi è una valutazione operativa, inserita nel processo di supply, che periodicamente rileva le prestazioni di consegna (puntualità, qualità, completezza ecc.) del fornitore e contribuisce ad arricchire la base di dati che alimenta la valutazione strategica. Chiaramente la valutazione di un fornitore con cui si lavora da tempo è più semplice rispetto a quella di un potenziale nuovo fornitore. In questo secondo caso le informazioni disponibili sono più limitate e non basate sull’esperienza diretta. Tuttavia, è ovvio che se si vuole aggiornare il proprio parco fornitori bisogna valutare nuove aziende. Si cercano quindi modalità per raccogliere le informazioni necessarie. Ad esempio si possono effettuare visite presso i siti produttivi del fornitore, per interloquire con i tecnici e osservare direttamente le attrezzature, l’organizzazione e i modi di lavorare. Si possono raccogliere referenze presso imprese già clienti del fornitore. Si possono richiedere forniture campione per valutare la capacità di realizzare quanto richiesto. Evidentemente queste attività comportano costi su-

15. Gli acquisti ) 565

Tre livelli di analisi

Misure oggettive

Impatto complessivo della fornitura

periori rispetto alla raccolta di informazioni interne, quali sono quelle ottenute tramite la valutazione operativa. Ma su quali parametri vengono valutati i fornitori? Premesso che ogni singola azienda definisce in dettaglio i propri elementi di valutazione, è generalmente possibile identificare tre livelli di analisi: la valutazione operativa, la valutazione complessiva delle prestazioni, la valutazione strategica (Figura 15.12). La valutazione operativa considera le prestazioni di consegna del fornitore, in termini sia di caratteristiche proprie dell’oggetto, quali il prezzo e la conformità alle specifiche, sia di quelle legate all’evasione dell’ordine, quali il tempo di consegna, la puntualità, la completezza. Si tratta delle prestazioni più intuitive e sicuramente più semplici e oggettive da rilevare: il prezzo viene registrato comunque per le attività amministrative; la qualità viene controllata al momento della ricezione, oppure in fase di utilizzo o, ancora, a fronte di reclami da parte dei clienti finali; i tempi di consegna vengono registrati e confrontati con quelli concordati preventivamente. L’attività di vendor rating consiste in questo caso soprattutto nella raccolta sistematica di queste informazioni e nella predisposizione di report periodici che analizzano il comportamento di ciascun fornitore nel tempo. La valutazione complessiva delle prestazioni consiste in un allargamento della prospettiva, includendo non solo l’oggetto della fornitura, ma anche i suoi effetti sul cliente. Il già citato Total Cost of Ownership indica i costi globali indotti da una fornitura. Ad esempio, i ritardi di consegna possono comportare rallentamenti nella produzione o la necessità di mantenere più scorte; una qualità scadente richiede tempi e costi di rilavorazione o perdite di immagine ecc. Inoltre beni destinati a essere utilizzati in modo prolungato nel tempo, quali ad esempio beni di investimento, richiedono in genere attività di manutenzione, aggiornamento, riparazione. La valutazione preventiva dei

Figura 15.12 LIVELLI DI ANALISI DEL VENDOR RATING

Valutazione operativa: prezzo, qualità, tempi di consegna, affidabilità

Valutazione complessiva delle prestazioni: total cost of ownership, miglioramento

Valutazione strategica: tecnologica, finanziaria, manageriale, ambientale e sociale

Fonte: tratto da De Maio e Maggiore (1992).

Aumento della soggettività dell’analisi

566 ) PARTE IV – ACQUISTI

Dalla fornitura alla relazione

Decisioni interfunzionali

E SUPPLY CHAIN

costi futuri, che a volte possono essere anche molto superiori al costo iniziale di acquisto, permette di confrontare in modo più corretto fornitori alternativi. La valutazione complessiva delle prestazioni assume dunque una prospettiva di medio-lungo termine, di conseguenza considera anche la capacità del fornitore di mantenere e migliorare le proprie prestazioni nel tempo. In particolare l’apprendimento accumulato attraverso la relazione di fornitura può permettere di migliorare gradualmente la qualità di conformità, ridurre i lotti di fornitura, aumentare la flessibilità di mix e di volume, ridurre i tempi di consegna e aumentare la puntualità. Rispetto alla valutazione operativa, i parametri di questo secondo livello di analisi sono meno oggettivi, in quanto molti riguardano prestazioni future o potenziali, o comunque prestazioni indotte non sempre oggettive (ad esempio l’immagine). Dove si colloca questa valutazione nei processi di acquisto visti in precedenza? Si tratta di un’attività a cavallo fra la valutazione operativa e quella strategica, in quanto in parte utilizza dati raccolti a livello operativo nel processo di supply, e in parte richiede analisi tipiche del processo di strategic purchasing. La valutazione strategica, infine, consiste in un ulteriore ampliamento della prospettiva di analisi, in quanto include considerazioni sulla solidità della relazione di fornitura nel lungo periodo e sul modo in cui potrà contribuire all’ottenimento di vantaggi competitivi. In particolare viene considerata la potenzialità tecnologica del fornitore, in termini di capacità di introdurre innovazioni, in modo da costituire una fonte di vantaggi per il cliente. Inoltre viene considerata la solidità finanziaria del fornitore, in termini sia di risorse attuali sia di capacità di reperirne di nuove, al fine di valutare la sostenibilità nel lungo periodo della relazione. Vengono considerate anche le capacità organizzativo-manageriali del fornitore, in termini di gestione della complessità, adattamento a cambiamenti nel contesto e comprensione delle strategie della concorrenza. Infine, si considera anche la sostenibilità ambientale e sociale del fornitore, valutando aspetti quali il rispetto delle normative rilevanti, la presenza di certificazioni specifiche e l’adozione di programmi di miglioramento. Questi aspetti hanno importanza crescente e sono già stati introdotti nel paragrafo 11.3.2. Il caso Nike (Caso 11.3) illustra chiaramente l’impatto negativo di fornitori non sostenibili. Certo l’instaurazione di rapporti duraturi per la fornitura di componenti strategici richiede di valutare preventivamente tutte queste caratteristiche, in quanto il valore della posta in gioco non permette di compiere errori di selezione. Rispetto ai livelli precedenti, tuttavia, la valutazione strategica è sicuramente quella meno oggettiva, in quanto si basa su informazioni varie e poco strutturate, e soprattutto è orientata al lungo periodo. Se la valutazione operativa è un’attività essenzialmente presidiata dalla funzione acquisti (spesso in collaborazione con la qualità e la logistica quali fonti di informazioni rilevanti), la valutazione globale delle prestazioni e ancor più la valutazione strategica dei fornitori sono processi organizzativi che inevitabilmente coinvolgono diversi attori.

15. Gli acquisti ) 567

Conflitti organizzativi

“Check-up” delle relazioni

La produzione, la progettazione, il marketing e, per accordi di fornitura importanti, anche la direzione generale divengono stakeholder del processo. La valutazione dei fornitori, come tutti i processi aziendali critici e multiattore, è dunque sede di visioni differenti e di conflitti potenziali (si veda in proposito il capitolo 7). Ad esempio, la funzione produzione darà presumibilmente un peso elevato ai fattori logistici (rapidità, puntualità e flessibilità di consegna), mentre l’area tecnico-progettuale tenderà a privilegiare le qualità di progetto, l’innovatività dei componenti e le competenze progettuali del fornitore. Un sistema strutturato e condiviso di vendor rating diventa così il punto di arrivo di un processo negoziale interno che è spesso l’occasione per le diverse funzioni di far emergere punti di vista differenti e di confrontarsi. In questo processo la funzione acquisti ha o dovrebbe avere il ruolo di coordinamento e di process owner. Le ultime considerazioni riguardano il fatto che i sistemi di rating non dovrebbero limitarsi a “dare la pagella” ai fornitori. In realtà essi sono anche l’occasione per fare un check-up dello stato di salute dei rapporti di fornitura ed evidenziare le criticità che, talvolta, dipendono anche dal cliente (si veda il capitolo 16, Caso 16.1 – Textile Machines). A questo proposito un modello efficace per lo sviluppo dei sistemi di vendor rating è quello proposto da Olsen ed Ellram (1997), che identificano due dimensioni fondamentali: • l’attrattività del fornitore, che riassume i tre parametri precedentemente illustrati, ovvero la valutazione operativa, la valutazione delle performance globali e la valutazione strategica; • la forza della relazione, che sintetizza lo stato corrente della relazione di fornitura in termini di livello di cooperazione, frequenza e intensità di contatto, distanza geografica, culturale, tecnologica ecc.

Fornitori giusti e relazioni buone

Programmi di sviluppo dei fornitori

Non sempre le due dimensioni vanno di pari passo. Talvolta, le imprese non hanno costruito relazioni forti con fornitori che pure, in teoria, sono molto attrattivi. In questi casi si tratta di costruire o rilanciare la relazione, individuando i punti di miglioramento che spesso sono anche in “casa propria”, nelle procedure e nell’organizzazione degli acquisti, della logistica e dello sviluppo dei nuovi prodotti. In altri casi, invece, le relazioni forti sono quelle con fornitori poco attrattivi. Questo avviene principalmente per il consolidamento di rapporti di lunga data con fornitori magari locali e dunque fisicamente e culturalmente prossimi, ma che col tempo hanno perduto capacità innovativa. In questi casi, il cliente è di fronte alla scelta tra sostituzione immediata e azioni energiche che inducano il fornitore a migliorarsi. Quando i gap dei fornitori riguardano gli aspetti organizzativi e gestionali, mentre quelli tecnologici sono soddisfacenti, i clienti (soprattutto le grandi aziende) possono decidere di aiutare la crescita attraverso programmi di sviluppo dei fornitori. La Figura 15.13 illustra un esempio di applicazione di questo modello di valutazione nel caso della divisione “freddo” (frigoriferi e congelatori) di un produttore di elettrodomestici. Il parco fornitori di materiali diretti è composto da

568 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Figura 15.13 ANALISI DEL PARCO FORNITORI: IL CASO DI UN PRODUTTORE DI ELETTRODOMESTICI 4,5

Forza della relazione

4,0

3,5

Strategici Leva Colli di bottiglia Non critici

3,0

I simboli più grandi rappresentano il benchmark

2,5

2,0 2,6

2,8

3,0

3,2

3,4

3,6

3,8

4,0

4,2

4,4

Attrattività del fornitore

circa un centinaio di imprese. Nella figura sono riportate le valutazioni di una ventina di essi distinguendo, sulla base della matrice di Kraljic, il tipo di materiale che ciascuno fornisce (non critici, leva, colli di bottiglia e strategici). Le valutazioni sono effettuate utilizzando scale di punteggio da 1 (valutazione minima) a 5 (valutazione massima). Per ciascuna tipologia viene anche evidenziato il profilo ideale (benchmark) con il quale confrontarsi (simboli grandi nel grafico di Figura 15.13). In questo caso, ma si tratta di una situazione frequente, i fornitori di componenti strategici sono spesso lontani dal benchmark (attrattività e forza della relazione insufficienti), mentre i fornitori di componenti non critici sono spesso in linea o addirittura oltre il benchmark (attrattività e forza maggiori del necessario).

15.5

Le request for...

La selezione dei fornitori: offerte, gare e aste Le imprese dispongono di varie tecniche per selezionare il fornitore da cui approvvigionarsi, ciascuna delle quali presenta pregi e difetti diversi, il che rende alcune di esse più adatte ad alcuni tipi di acquisti e meno ad altri. Le famiglie di tecniche sono tre: le offerte, le gare e le aste. Le offerte sono la modalità più diffusa per effettuare la selezione di un fornitore. Il cliente richiede ai potenziali fornitori un’offerta, completa di prezzo, di caratteristiche (le specifiche) dell’oggetto for-

15. Gli acquisti ) 569

Informazioni

Proposte

Quotazioni e preventivi

Ricerca di possibili fornitori

Offerte in busta chiusa

nito, di condizioni di consegna e pagamento, di eventuali garanzie e clausole accessorie, di servizi aggiuntivi, ad esempio di manutenzione e ripristino ecc. Una volta raccolte le offerte da più fornitori, il cliente può già essere in grado di effettuare una scelta, oppure può decidere di escludere alcune aziende, richiedere ulteriori informazioni a quelle rimaste ed effettuare una negoziazione, al fine di ottenere le condizioni migliori possibili. Nel gergo degli acquisti si parla spesso di RFx, acronimo che racchiude i termini request for information (RFI), request for proposal (RFP), request for quotation (FRQ). Le RFI consistono in richieste generali di informazioni a un fornitore, in genere nuovo per il cliente, e sono usate sia nell’attività di scouting, sia come passo preliminare del processo di sourcing. Le informazioni richieste possono riguardare la gamma di prodotti offerti dall’azienda, le certificazioni possedute, il numero di dipendenti e il fatturato, eventuali referenze ecc. Le RFP sono richieste di offerte complete: il cliente chiede al fornitore di proporre in quale modo è in grado di soddisfare al meglio le sue esigenze. Questo strumento è particolarmente utilizzato quando non si è in grado di fornire specifiche completamente definite, ma si chiede un contributo al fornitore stesso, in quanto detentore di maggiore conoscenza per quanto riguarda il prodotto/servizio acquistato. Si pensi ad esempio a quando un’azienda necessita di acquistare un bene di investimento, quale ad esempio un macchinario di produzione: il cliente conosce le proprie necessità in termini di operazioni da svolgere, velocità, tolleranze, dimensioni, ma non ha competenze specifiche riguardanti la progettazione del macchinario. Saranno allora i fornitori a dover proporre la soluzione migliore per soddisfare le esigenze del cliente. Le RFQ, infine, sono le richieste di quotazione di una fornitura completamente specificata nel dettaglio da parte del cliente. In pratica consistono nella richiesta di un preventivo, al fine di poter confrontare i prezzi e le condizioni praticate da diversi fornitori. Oggi sempre più spesso le RFx possono essere informatizzate e incluse in pacchetti e piattaforme volti a supportare le attività di sourcing sfruttando le tecnologie elettroniche (e-sourcing). Discuteremo questi aspetti nella parte finale di questo capitolo. Le gare sono modalità più articolate per mettere a confronto le offerte di vari fornitori. Il primo passo consiste in genere nel richiedere a un elevato numero di potenziali fornitori di esprimere la propria volontà a partecipare alla gara, formulando un’offerta preliminare che contiene sia informazioni generali sull’azienda sia le caratteristiche del proprio prodotto o servizio. Fra tutte le offerte ricevute, il cliente seleziona quelle che soddisfano alcuni requisiti minimi e definisce quindi un numero ristretto di aziende ammesse alla gara vera e propria (la cosiddetta short list). A questo punto vengono definite dal cliente le specifiche precise e definitive richieste, nonché i parametri che verranno utilizzati nella valutazione, e i fornitori ammessi sono

570 ) PARTE IV – ACQUISTI

Gli acquisti nella pubblica amministrazione

Concorrenza sul prezzo tramite asta

Specifiche chiare

E SUPPLY CHAIN

tenuti a presentare un’offerta dettagliata e definitiva in busta chiusa entro una certa data. Allo scadere del termine, il cliente apre le offerte ricevute e seleziona quella migliore. Questa modalità, per la sua articolazione e onerosità, viene in genere utilizzata per acquisti rilevanti dal punto di vista del valore e dell’impatto strategico, quali ad esempio beni di investimento o contratti di fornitura di lungo periodo di componenti chiave. Anche la fornitura di servizi di carattere continuativo spesso viene selezionata attraverso gare: ad esempio gli appalti per servizi di manutenzione, di facility management, di gestione delle flotte di autoveicoli, di logistica e magazzinaggio ecc. La gara è uno strumento che cerca di mettere in competizione il maggior numero possibile di fornitori, garantendo al contempo il raggiungimento di un insieme ampio e articolato di requisiti. Le gare infatti rivestono particolare importanza per gli acquisti effettuati dagli enti pubblici: sopra una soglia minima di valore, le pubbliche amministrazioni sono obbligate per legge ad acquistare esclusivamente attraverso gare pubbliche in busta chiusa, mentre è vietata la trattativa privata, al fine di garantire a tutti gli interessati l’accesso alla gara e tutelare la trasparenza. Anche le gare oggi possono avvenire utilizzando il supporto di strumenti elettronici (e-tender), quali ad esempio appositi RFx; in particolare possono essere utilizzati proprio dalla pubblica amministrazione, gestendo la protocollazione e la marcatura temporale delle offerte ricevute, l’apertura delle “buste” di offerta e la firma digitale dei documenti. Le aste infine sono uno strumento di selezione che porta al massimo livello la competizione tra i fornitori, permettendo rilanci successivi delle offerte, a differenza delle gare che in genere si basano su un’offerta unica. In ambito di acquisti si utilizzano le cosiddette aste inverse (reverse auction), nelle quali cioè i potenziali fornitori sono in concorrenza fra loro e rilanciano le proprie offerte al ribasso, richiedendo un prezzo sempre inferiore (nelle aste dirette sono i potenziali clienti che rilanciano al rialzo per aggiudicarsi l’acquisto di un bene). In genere anche per le aste si effettua una preselezione dei fornitori, in modo da ammettere soltanto coloro che soddisfano i requisiti posti dal cliente. Nelle aste più comuni i fornitori competono sul prezzo, a fronte di specifiche predefinite su tutti gli altri parametri, come qualità, tempi di consegna ecc. Quando viene avviata l’asta, i fornitori effettuano i rilanci a partire da un prezzo che costituisce la base d’asta. Allo scadere del tempo, se nessuno effettua più rilanci, l’asta viene vinta da chi ha richiesto il prezzo inferiore. Oggi molte aste vengono condotte per via elettronica (Electronic reverse auction), attraverso apposite piattaforme che permettono la partecipazione di fornitori da tutto il mondo a costi molto contenuti. Si può dire che proprio lo sviluppo di aste elettroniche abbia dato nuovo slancio a una tecnica che in realtà esiste da secoli, ma che oggi ha scoperto nuovi ambiti di applicazione. Affinché un’asta non abbia effetti indesiderati, quali ad esempio la vittoria da parte di un fornitore che non garantisce i requisiti, la fase di definizione del capitolato di

15. Gli acquisti ) 571 Acquisti di commodity

15.6

Interessi diversi ma compatibili

Posizioni rigide

Situazioni “win-lose”

acquisto e di ammissione dei fornitori è molto critica. Si può dire che le aste spostano tutta la complessità della selezione dei fornitori all’inizio del processo, nella definizione delle specifiche, semplificando poi molto la fase di negoziazione, che viene sostituita dalla competizione fra i contendenti. Le aste sono particolarmente utili per gli acquisti di beni semplici, standardizzati, le cosiddette commodity, appunto perché in questi casi la stesura del capitolato e la preselezione dei fornitori è più semplice. Nel caso di beni complessi, che richiedono forte interazione fra cliente e fornitore, per i quali non è possibile controllare a priori la rispondenza ai requisiti, le aste non sempre si rivelano essere lo strumento più appropriato. È però oggi possibile utilizzare le cosiddette aste multiparametriche, in cui cioè la valutazione considera non solo il prezzo, ma varie altre caratteristiche della fornitura (specifiche tecniche, servizi aggiuntivi, livelli di servizio garantiti ecc.), che vengono combinati insieme con un sistema di pesi e punteggi. In questo modo è possibile gestire tramite asta anche acquisti complessi e non standardizzati.

La negoziazione: obiettivi e strategie Come accennato in precedenza, la selezione di un fornitore, e più in generale un qualsiasi acquisto, comporta sempre una negoziazione fra le parti coinvolte, che desiderano ottenere le condizioni a loro più convenienti. Normalmente vi sono quindi interessi parzialmente contrastanti e la negoziazione è volta a cercare una soluzione di compromesso accettata da entrambe le parti. La negoziazione quindi consiste in una trattativa fra cliente e fornitore al fine di definire tutti i dettagli di una transazione, allo scopo di raggiungere un accordo che ne permetta l’effettiva esecuzione. Sebbene le parti tendano ovviamente a massimizzare i propri benefici, hanno in genere un mutuo interesse affinché la negoziazione vada a buon fine; in altre parole, il cliente ha interesse a vendere e il cliente ad acquistare, quindi cercheranno di difendere i propri interessi, ma contemporaneamente di concludere l’accordo. Per questo motivo è in genere necessario che ciascuna parte sia disposta a effettuare concessioni all’altra per arrivare a un compromesso, affinché la negoziazione abbia successo. Se una delle due parti non è disposta a cedere su nessun aspetto, probabilmente non ha realmente interesse a raggiungere un accordo, a meno che non si trovi in una posizione di tale superiorità da poter dettare le condizioni alla controparte. Quando una delle parti non è disposta a negoziare, in genere conviene rinunciare piuttosto che accettare un accordo troppo svantaggioso. Normalmente la negoziazione viene considerata come un’attività conflittuale, tipica di una relazione di mercato competitivo (capitolo 14), poiché le parti coinvolte mirano a massimizzare i propri benefici. Si parla in questo caso di negoziazione competitiva (win-lose), in quanto un guadagno per una delle parti comporta una perdita per

572 ) PARTE IV – ACQUISTI

Situazioni “win-win”

Situazioni “lose-lose”

E SUPPLY CHAIN

l’altra. La Teoria dei giochi (capitolo 9) definisce questo caso come gioco a somma nulla, in cui cioè, a fronte di un payoff positivo per un attore, l’altro ne consegue uno di uguale valore e segno contrario, e viceversa. Tipicamente, in questo caso le parti assumono posizioni rigide, ed effettuano concessioni soltanto al fine di giungere a un accordo, ma nella consapevolezza che in tal modo riducono i propri benefici. In queste negoziazioni generalmente si sfrutta al massimo il proprio potere contrattuale: chi si trova in posizione di vantaggio cerca di massimizzare il proprio guadagno. A questo scopo, inoltre, si sfrutta la concorrenza tra fornitori (o clienti), in modo da appropriarsi della maggior parte dei vantaggi. Tuttavia, anche le relazioni collaborative (mercato collaborativo) comportano una fase di negoziazione, il cui obiettivo però non è lo spostamento di benefici da una parte all’altra, ma la creazione di vantaggi per entrambi. Questo può avvenire ad esempio quando cliente e fornitore hanno diverse priorità e si accordano su come massimizzare i benefici per entrambi. Ad esempio, in un rapporto di partnership, cliente e fornitore possono sviluppare insieme un nuovo processo produttivo che riduce i costi e spartirsi i benefici conseguenti. Si ha in questo caso una negoziazione collaborativa (win-win), in quanto entrambe le parti ottengono benefici. La Teoria dei giochi definisce queste situazioni come giochi a somma positiva, in quanto entrambi gli attori possono conseguire simultaneamente payoff positivi. Una negoziazione di questo tipo richiede flessibilità nelle posizioni delle parti, al fine di identificare le modalità più convenienti per creare valore per entrambe. A tale scopo risulta fondamentale comprendere quali sono le necessità e gli obiettivi della controparte e condividere informazioni. Si pensi ad esempio ai costi: in una negoziazione competitiva un fornitore non rivela i propri costi reali, per non far capire al cliente i propri margini; in una negoziazione collaborativa è proprio tramite la condivisione di queste informazioni che è possibile identificare congiuntamente soluzioni che, riducendo i costi, permettono di ottenere benefici per entrambe le parti. Le principali differenze tra negoziazione competitiva e collaborativa sono mostrate in Tabella 15.4. Purtroppo in taluni casi si determina una terza situazione, che si verifica quando le parti si irrigidiscono su posizioni conflittuali: sono le

Tabella 15.4 CONFRONTO FRA NEGOZIAZIONE COMPETITIVA E COLLABORATIVA Negoziazione competitiva Posizioni rigide

Negoziazione collaborativa Posizioni flessibili

Spartizione della “torta” (valore fisso)

Allargamento della “torta” (creazione di plusvalore)

Sfruttamento del potere contrattuale

Comprensione di bisogni e obiettivi della controparte

Confronto con la concorrenza

Condivisione di informazioni

Fonte: adattato da Monczka, Trent e Handfield (2004).

15. Gli acquisti ) 573

Determinanti della posizione negoziale

cosiddette negoziazioni lose-lose, nelle quali entrambe le parti ottengono risultati svantaggiosi. Le cause possono essere le più svariate: dalla mancata identificazione dei potenziali benefici all’irrigidimento di principio, alle situazioni riconducibili al “Dilemma del prigioniero” (descritto nel capitolo 9 ) in cui il timore di comportamenti opportunistici della controparte produce esiti negativi per tutti. Si tratta evidentemente di negoziazioni fallite, in quanto l’obiettivo di qualsiasi trattativa è di ottenere dei benefici, almeno per una delle parti. Il tema della collaborazione sarà ripreso nel capitolo 16. In questo paragrafo ci concentriamo sulla negoziazione competitiva. In particolare, analizziamo i principali fattori che determinano la posizione negoziale delle parti coinvolte e il loro potere contrattuale: • obiettivi: la chiara identificazione degli obiettivi propri e della controparte, dei risultati minimi che devono essere ottenuti e delle massime concessioni possibili migliora la propria posizione negoziale; • autorità: non sempre i negoziatori hanno completa autonomia decisionale rispetto all’organizzazione che rappresentano; maggiore è la loro autorità, maggiore in genere è il potere contrattuale; • competizione: il cliente è avvantaggiato se più fornitori sono in concorrenza fra loro; il fornitore è avvantaggiato se più clienti competono per lo stesso acquisto; • “scripta manent”: la presenza di documenti, listini e condizioni scritte e note in precedenza fornisce un supporto al negoziatore; • fiducia: l’esistenza di un rapporto di fiducia consolidato da positive trattative precedenti crea condizioni favorevoli e riduce le differenze fra le parti; • conoscenza: maggiore è la conoscenza del prodotto, del mercato, delle alternative ecc., maggiore è il potere negoziale; • tempo: l’urgenza di concludere una trattativa riduce il potere contrattuale; • denaro: chi paga ha di solito l’iniziativa nella negoziazione; • competenze negoziali: chi ha maggiore esperienza, capacità e preparazione aumenta il proprio potere. BATNA (Best Alternative To a Negotiated Agreement): avere preventivamente identificato un’alternativa all’accordo con la controparte (ad esempio un altro fornitore) permette non solo di definire il proprio “spazio negoziale”, ma anche di rafforzare la propria posizione.

Riconoscere la situazione negoziale

L’insieme di questi fattori determina le posizioni delle controparti, ed è importante riconoscere la situazione prima di intraprendere la negoziazione, al fine di prepararla al meglio e di contenere l’eventuale svantaggio. La negoziazione è una componente fondamentale del lavoro di un buyer, così come di un venditore, e spesso le persone che ricoprono questi ruoli ricevono una formazione specifica al riguardo. Anche le attitudini personali e l’esperienza giocano un ruolo fondamentale, in quanto in genere la negoziazione richiede un’interazione diretta fra persone. Spesso le negoziazioni non vengono

574 ) PARTE IV – ACQUISTI

Negoziatori competenti

E SUPPLY CHAIN

condotte da singoli individui, ma da team di più persone, al fine di raccogliere tutte le competenze necessarie; è necessario quindi sviluppare anche la capacità di negoziare in gruppo, sfruttando le potenzialità di questo approccio. Inoltre, in un contesto sempre più internazionalizzato è necessario negoziare con persone di altre lingue e culture, spesso distanti e sconosciute. Risulta evidente quindi come la negoziazione non sia un’attività semplice e non possa essere affidata all’improvvisazione, al contrario richieda adeguata formazione e preparazione, al fine di raggiungere gli obiettivi per cui viene intrapresa. Il box seguente mostra alcune delle più note tattiche di negoziazione.

Le tattiche di negoziazione Prendere o lasciare: una parte dichiara di non essere disposta a effettuare alcuna concessione, quindi o la trattativa si chiude nei termini richiesti oppure si rinuncia a un accordo. Più che di una tattica di negoziazione, si tratta di un’imposizione da parte di chi detiene maggior potere. Può essere utilizzata per ridurre le aspettative della controparte, ma se la minaccia non è credibile non ha effetto. Bogey: il buyer si mostra amichevole verso il fornitore e giudica positivamente la sua offerta, tuttavia fa capire che è necessario qualche aggiustamento per concludere l’accordo. In questo modo si crea un clima positivo e si mantengono spazi di negoziazione. Chinese crunch: il buyer dichiara concluso l’accordo, se si risolve un ultimo “dettaglio”. In questo modo si cerca di ottenere un’ultima concessione dal fornitore, che ormai è convinto di aver chiuso la trattativa. Auction: il cliente richiede al fornitore di spiegare perché dovrebbe sceglierlo. Applicando la stessa tattica agli altri candidati si ottengono facilmente molte informazioni sulla concorrenza. Poliziotto cattivo-poliziotto buono: si presta alle negoziazioni in coppia; il primo buyer si mostra molto rigido e rifiuta le condizioni proposte dal fornitore. Quando quest’ultimo ha ormai ridotto le proprie aspettative si mostra scoraggiato o minaccia di abbandonare la trattativa, il secondo buyer, con un atteggiamento amichevole, riprende la trattativa. Fonte: tratto da Van Weele (2004).

15.7

I contratti L’esito dell’attività di negoziazione è l’accordo fra cliente e fornitore su tutti gli aspetti della transazione: prezzo e modalità di pagamento, tempi e modalità di consegna, qualità ecc. Tutto questo viene solitamente formalizzato in un contratto che ha valore legale, al fine di ga-

15. Gli acquisti ) 575

Aspetti giuridici e gestionali

Tipologie di “pricing”

rantire le parti in caso di mancato rispetto dei termini concordati. Quindi la redazione di un contratto, attività solitamente associata alla professione legale, è in realtà molto frequente anche per chi lavora nella funzione acquisti (e vendite) di un’azienda. Una trattazione approfondita dell’argomento esula dagli scopi di questo libro anche perché richiede una prospettiva più strettamente giuridica. Ci limiteremo quindi a presentare le principali categorie di contratti a disposizione in una prospettiva gestionale. La prima fondamentale dimensione di classificazione dei contratti consiste nella determinazione del prezzo: i contratti a prezzo fisso, infatti, sono caratterizzati da un prezzo concordato a priori fra le parti che non può variare nel tempo che intercorre fra la stipula e il pagamento, a meno di inadempienze da parte del fornitore. In questo caso, evidentemente, il fornitore si assume tutti i rischi connessi alla fluttuazione del prezzo delle materie prime, alla necessità di maggiori risorse rispetto a quanto previsto ecc. L’alternativa opposta consiste nei contratti cost-plus, nei quali il prezzo è determinato in base ai costi effettivamente sostenuti dal fornitore, incrementati di un margine fisso o percentuale (markup del fornitore; si veda in proposito il paragrafo 13.3.4). In questo secondo caso i rischi vengono scaricati sul cliente, che riconosce al fornitore tutti i costi, anche quelli eventualmente dovuti a inefficienze. Tuttavia per acquisti soggetti a forte incertezza, quali ad esempio grandi progetti, è difficile che il fornitore accetti di accollarsi tutti i rischi, soprattutto se non è possibile determinare a priori le specifiche dettagliate. Prezzo fisso e cost-plus costituiscono chiaramente due estremi opposti, fra i quali si possono formulare numerose alternative intermedie: • prezzo fisso con aggiustamento: il prezzo si può modificare (al rialzo o al ribasso) a seguito della fluttuazione nei costi delle materie prime o del lavoro, in base a formule concordate preventivamente e legate a indicatori esterni. Questa soluzione si adotta in particolare quando le date di consegna sono lontane nel tempo o le materie prime sono esposte a forti oscillazioni (ad esempio il petrolio); • prezzo fisso con ricalcolo: quando è difficile determinare a priori i costi, è possibile concordare un prezzo iniziale che rimane valido fino a quando non si raggiunge un determinato livello di produzione, quindi ricalcolare il prezzo in base ai costi effettivamente sostenuti. Il nuovo prezzo può essere applicato retroattivamente a quanto già prodotto o soltanto alle consegne successive; • prezzo fisso con incentivi: questo tipo di contratto consiste nel concedere al fornitore un premio di prezzo nel caso che garantisca prestazioni di qualità, tempestività, flessibilità particolarmente elevate, superiori a quelle minime concordate. Oppure, nel caso di contratti aperti, possono essere previsti sconti al raggiungimento di determinate soglie di acquisto da parte del cliente; • cost-plus con incentivi: il prezzo è determinato in base ai costi sostenuti dal fornitore, ed eventuali risparmi rispetto ai costi stimati

576 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

vengono suddivisi fra cliente e fornitore in modo concordato, incrementando il margine di quest’ultimo; • tempo e materiali: questa formula, tipica dei contratti di manutenzione, consiste nel riconoscere al fornitore i costi dei materiali utilizzati e delle ore effettivamente lavorate, in base a un costo orario incrementato di costi indiretti e margine. Per evitare abusi, viene di solito fissato un prezzo massimo. Contratti long-term

Penali Rinnovi e uscite

La seconda dimensione fondamentale di classificazione dei contratti è l’orizzonte temporale: i contratti relativi a transazioni spot, che avvengono in un unico momento, sono diversi dai contratti relativi a transazioni ripetute nel tempo, in particolare quando l’orizzonte di riferimento è il medio-lungo termine (uno o più anni). Un contratto di durata prolungata richiede attenzioni addizionali, in quanto vincola le parti non solo per un tempo maggiore, ma in genere anche per volumi e valori superiori. In particolare risulta delicata la determinazione del prezzo iniziale: nonostante sia in genere possibile apportare modifiche al prezzo nel corso della durata del contratto, queste faranno sempre riferimento al prezzo iniziale, quindi un’errata valutazione avrà effetto per tutta la durata del contratto. Analogamente è importante valutare con cura i meccanismi di aggiustamento del prezzo, che possono essere legati ad esempio alla variazione del costo delle materie prime: la scelta di un indice esterno appropriato e di corretti meccanismi di modifica può evitare oscillazioni eccessive del prezzo. Inoltre, l’orizzonte di lungo termine si associa in genere a obiettivi di miglioramento delle prestazioni del fornitore: il contratto può includere l’aspettativa che il fornitore acquisisca esperienza e riduca progressivamente i propri costi (per un approfondimento sul tema delle economie di apprendimento si veda Azzone e Bertelè, 2011). È il caso di molti contratti dei settori dell’automotive e dell’aeronautica, in cui ogni anno i fornitori si vedono ridurre il prezzo pagato dal cliente di alcuni punti percentuali: se allo stesso tempo non riescono a ridurre i costi proporzionalmente, il loro margine viene eroso. Parallelamente i contratti prevedono penali per eventuali inadempienze, che possono servire come risarcimento dei danni, ma soprattutto dovrebbero fungere da deterrente. Infine i contratti di lungo termine prevedono di solito clausole di rinnovo e di uscita: a intervalli predeterminati, viene valutato il comportamento del fornitore in base ai parametri concordati; se la valutazione è positiva il contratto viene prolungato. Il cliente ha di solito anche la possibilità di rescindere il contratto prima del termine se il fornitore non rispetta le condizioni concordate, tuttavia prima di giungere a questa soluzione vengono in genere dati segnali che inducono il fornitore a mettere in atto azioni correttive. Se nonostante queste iniziative le prestazioni non migliorano, il contratto può venire sciolto anticipatamente. Come già detto nel paragrafo 15.2.3, i contratti di acquisto possono essere chiusi o aperti. Un contratto chiuso contiene la definizione precisa delle quantità di beni o servizi oggetto della transazione, dei

15. Gli acquisti ) 577

Accordi quadro e ordini ripetuti

Aggregazioni

Altri elementi contrattuali

tempi e modi di consegna, nonché delle modalità di determinazione del prezzo. Un contratto aperto, invece, lascia dei margini di variabilità per alcuni aspetti: ad esempio è possibile determinare quantità obiettivo che il cliente può modificare, per eccesso o per difetto, all’interno di un range prefissato, mantenendo valide le restanti condizioni contrattuali. Oppure è possibile determinare un quantitativo complessivo che può essere richiesto nell’arco di un inter vallo predeterminato (tipicamente un anno), ma lasciando la possibilità di spostare gli ordini da un mese a un altro, con un preavviso concordato. Spesso si fa riferimento ai contratti quadro, in quanto si definiscono le cornici contrattuali entro le quali vengono emessi ordini ripetitivi alle stesse condizioni. Si tratta di contratti di medio-lungo termine, poiché non avrebbe senso parlare di contratti aperti per ordini spot. Queste tipologie di contratto sono molto usate nei mercati collaborativi (capitolo 14) e nell’ambito di realzioni di partnership (capitolo 16). I contratti quadro inseriscono in accordi di lungo termine componenti di flessibilità che permettono di far fronte alle fluttuazioni del mercato. I contratti di erogazione costituiscono un’altra tipologia simile: il cliente preleva dal fornitore secondo le proprie necessità e paga alle condizioni concordate soltanto quanto ha effettivamente consumato, in modo simile all’energia elettrica e al gas per le abitazioni domestiche. Questo è il caso ad esempio del cemento: i clienti importanti prelevano quanto necessario dalle cementerie, con preavviso ridotto, e pagano a consuntivo. Un’ultima categoria di contratti sono i cosiddetti accordi di acquisto, che riuniscono in un unico contratto oggetti diversi, al fine di semplificarne la gestione e aggregare i volumi. Un esempio tipico sono le forniture per ufficio, che vengono spesso acquistate da un unico fornitore tramite contratti che includono vari prodotti. Tali accordi spesso sono validi per acquisti ripetuti, anche effettuati da soggetti diversi. Le grandi aziende ad esempio negoziano contratti che permettono a tutte le divisioni, sedi e subsidiaries di acquistare alle medesime condizioni secondo le proprie necessità. Infine, è necessario ricordare che qualsiasi contratto, oltre al prezzo, alle quantità, ai tempi di consegna, specifica anche altre informazioni importanti: • termini di pagamento: viene specificato quando e in che modo avverrà il pagamento. Il cliente può pagare dopo aver ricevuto tutto ciò che ha ordinato, magari con alcuni mesi di ritardo (come avviene ad esempio nella grande distribuzione), oppure anticipare una parte dell’importo, in genere in presenza di garanzie bancarie. In caso di acquisto di beni di investimento, che spesso richiedono lunghi tempi di produzione, il pagamento viene suddiviso in più stadi, trattenendo l’ultima tranche finché il fornitore non ha terminato il lavoro e il cliente non ne ha verificato il funzionamento e la rispondenza alle specifiche; • garanzie: il contratto specifica anche l’orizzonte temporale entro il quale il fornitore si assume la responsabilità del corretto funzio-

578 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

namento, accollandosi eventuali costi di riparazione. Inoltre, in caso di beni che richiedono manutenzione, i produttori devono garantire la disponibilità di parti di ricambio per tutta la vita utile dei prodotti. È il caso, ad esempio, di automobili ed elettrodomestici, per i quali bisogna rendere disponibili i ricambi ben oltre l’uscita di produzione; • termini di consegna: il contratto specifica chi deve sostenere le spese di trasporto, sdoganamento e assicurazione delle merci nel passaggio dal fornitore al cliente. Queste modalità sono codificate a livello internazionale dai cosiddetti Incoterms (International Commerce Terms); • trasferimento di proprietà: il contratto specifica anche i tempi e i modi del trasferimento della proprietà dei beni, così come della proprietà intellettuale dei beni immateriali. È bene specificare che non sempre il trasferimento di proprietà coincide con la consegna dei beni fisici: in alcuni casi il fornitore consegna la merce ai clienti, che ne diventano proprietari soltanto nel momento in cui effettivamente la utilizzano. Un’ultima nota sui contratti: essi sono anche strumenti di gestione del rischio e in particolare della componente operativa legata alla variabilità e all’incertezza della domanda di mercato. Questo aspetto è profondamente collegato alle logiche di gestione della supply chain e pertanto verrà trattato nel capitolo 17.

15.8 La gestione degli acquisti ricorrenti

Database interni ed esterni

E-procurement Una volta definito un contratto quadro, spesso le imprese ricorrono all’automazione del processo di supply tramite lo sviluppo di cataloghi elettronici di acquisto. È il caso di iniziative che vengono denominate e-procurement o e-supply. I prodotti inclusi nei contratti quadro con i relativi fornitori vengono aggregati in un unico database, a partire dal quale viene generato un vero e proprio catalogo on line di prodotti e fornitori. Tale catalogo prevede informazioni quali, tipicamente, la descrizione di ogni singolo item di acquisto, il fornitore, il prezzo concordato, la presenza di eventuali lotti minimi di acquisto e le modalità di consegna. In questo modo, ciascun manager che ne abbia bisogno, in qualunque unità organizzativa e purché abilitato, può accedere direttamente all’offerta del catalogo ed emettere autonomamente un ordine di acquisto secondo le condizioni contrattuali. Gli ordini provenienti dalle diverse unità organizzative vengono così aggregati e inviati automaticamente ai relativi fornitori. Ovviamente, ogni utente ha un proprio profilo di accesso al sistema ed è autorizzato all’emissione di ordini in funzione del suo grado di responsabilità e della sua autonomia di spesa. Le informazioni che alimentano il catalogo possono risiedere tutte all’interno di un unico database aziendale oppure possono provenire da più fonti gestite anche da

15. Gli acquisti ) 579

Tabella 15.5 BENEFICI DELL’E-PROCUREMENT Riduzione di tempi e costi nel processo di emissione dell’ordine Più attenzione da parte della funzione acquisti ad attività strategiche Riduzione del livello di giacenza materiali Riduzione dell’effetto maverick buying Aggregazione e consolidamento degli acquisti Tracciabilità dello stato di avanzamento dell’ordine Monitoraggio della spesa Monitoraggio delle prestazioni dei fornitori Razionalizzazione del parco fornitori

Cataloghi elettronici e processi automatizzati

Maverick buying

Aggregazione

Tracciabilità

altri soggetti (ad esempio fornitori o aziende partner). Questa modalità di integrazione dell’informazione da più database viene denominata punch-out. I vantaggi di un’iniziativa di e-procurement sono evidenziati in Tabella 15.5. Un primo vantaggio evidente è l’automazione del processo di supply, con conseguente risparmio di tempi e costi. Associato al catalogo elettronico esiste normalmente un workflow automatizzato che velocizza tutte le attività necessarie all’autorizzazione e all’emissione dell’ordine (ciclo passivo dell’ordine). In questo modo si evitano onerosi e inutili passaggi di carte e documenti da una scrivania all’altra e dalle diverse unità organizzative alla funzione acquisti. Il tempo così risparmiato può essere dedicato ad attività a maggior valore aggiunto, dalla selezione dei fornitori alla gestione di rapporti di partnership (si veda il capitolo 16). Inoltre, la riduzione del ciclo passivo dell’ordine e la gestione più ordinata dell’intero processo comportano spesso una riduzione del livello di magazzino dei beni acquistati. Un altro vantaggio riscontrato in aziende che hanno adottato cataloghi elettronici è la riduzione del cosiddetto maverick buying, ovvero l’acquisto di prodotti o servizi al di fuori dei contratti quadro stipulati con i fornitori selezionati dalla funzione acquisti. Questo avviene generalmente per accelerare il processo di supply laddove l’iter burocratico è piuttosto oneroso o semplicemente perché non tutti sanno dell’esistenza di determinati contratti quadro. Acquistare al di fuori dei cataloghi standard, sebbene procuri talvolta vantaggi immediati di rapidità e flessibilità, in realtà comporta extracosti organizzativi dovuti alla frammentazione delle consegne e dei pagamenti e alla gestione di un numero troppo elevato di fornitori. Un altro beneficio derivante dalla riduzione del maverick buying è la possibilità di aggregare e consolidare maggiormente la domanda di prodotti o servizi nei confronti dei fornitori e aumentare di conseguenza il proprio potere contrattuale in fase di definizione del contratto. L’e-procurement consente, laddove prevista e abilitata, la possibilità da parte degli utenti e della funzione acquisti di ricevere informazio-

580 ) PARTE IV – ACQUISTI

Razionalizzazioni

La “manutenzione” dei cataloghi

Acquisti standard

E SUPPLY CHAIN

ni sullo stato di avanzamento dell’ordine (order tracking) e sulla storia delle fasi precedenti (order tracing). La disponibilità di dati elettronici uniformi in tempo reale consente inoltre un’accurata analisi della spesa effettuata e delle prestazioni dei singoli fornitori, in termini ad esempio di tempi di consegna, di disponibilità della merce e di conformità del consegnato all’ordinato. Infine, un beneficio indotto dall’implementazione di un catalogo elettronico è la razionalizzazione del parco fornitori. Lo sviluppo stesso di un catalogo elettronico richiede la definizione di contratti quadro, per i quali è necessario ridurre il numero di fornitori e selezionare i più competitivi. In questo modo risulta anche più semplice ed efficiente la gestione delle relazioni. Al fine di ottenere questi vantaggi è necessario tuttavia un investimento, soprattutto in termini organizzativi. L’implementazione di un catalogo elettronico e del relativo workflow automatizzato richiede una riprogettazione complessiva del processo di supply che spesso impatta su diverse figure organizzative e sul loro ruolo all’interno dell’organizzazione. Inoltre, perché si ottengano i risultati attesi, è necessario dedicare tempo e risorse allo sviluppo vero e proprio del catalogo e al continuo aggiornamento dei contenuti, il cosiddetto content management. Considerando quanto detto fin qui, è piuttosto evidente che i cataloghi elettronici sono per lo più applicabili e portano maggiori benefici per acquisti ad alta frequenza laddove l’obiettivo è ridurre il costo del processo di supply. Per alcune categorie di acquisto, il costo organizzativo del processo di emissione dell’ordine può addirittura essere maggiore del prezzo vero e proprio di acquisto. Laddove quindi il costo del processo è elevato rispetto al prezzo di acquisto e tale processo viene ripetuto frequentemente, si ottengono i maggiori risparmi. Un’ultima considerazione riguarda la complessità dei beni o servizi inseriti a catalogo; questi devono essere abbastanza standard o quantomeno facilmente descrivibili, in quanto l’utente deve essere in grado di selezionare autonomamente ciò di cui ha bisogno. Nel caso in cui questo non avvenisse verrebbero meno tutti i vantaggi fin qui descritti. Casi tipici di beni o servizi inseriti in un catalogo elettronico sono i cosiddetti MRO (Maintenance, Repair and Operating materials), ovvero pezzi di ricambio, manutenzione o materiali di consumo, materiali di cancelleria, computer, stampanti, accessori informatici, biglietti ferroviari e aerei ecc. Nel Caso 15.6 viene descritto l’esempio di Eni Servizi, una società del gruppo ENI che fornisce servizi di supporto agli acquisti, realizzando cataloghi elettronici, aste e negoziazioni on line per le società del gruppo.

15. Gli acquisti ) 581

CASO

15.6

Eni Servizi e-Business (B2B): gli acquisti online Eni Servizi e-Business (B2B) è il ramo d’azienda di Eni Spa che, a partire dal 2007, fornisce servizi di supporto legati all’e-business a tutte le società del gruppo, assumendo un ruolo in precedenza ricoperto da Eniservizi (già Sieco, società che gestisce la fornitura di servizi integrati agli edifici, alle persone e al business). Tra le mansioni di competenza dell’unità Servizi e-Business rientra il supporto alle attività di acquisto, attraverso servizi di e-sourcing, cioè di automazione delle attività di selezione e negoziazione con i fornitori, e di e-procurement, tramite la realizzazione di cataloghi elettronici. L’unità opera attraverso due modalità principali: la fornitura di tecnologie web-based per l’automazione dei processi e la consulenza specialistica. Le tecnologie messe a disposizione delle società del gruppo consistono in piattaforme per la gestione online di aste e gare di acquisto, la realizzazione di cataloghi elettronici, lo scambio di documenti (ad esempio a supporto di RFx e per la trasmissione degli ordini), l’automazione delle attività di fatturazione e l’integrazione della supply chain (si veda il capitolo 17). Per quanto riguarda la consulenza, i Servizi e-Business operano come facilitatori della condivisione delle esperienze del gruppo e aiutano i clienti nell’individuazione delle tipologie di beni e servizi idonei a essere negoziati tramite aste. Infine, supportano la definizione della struttura dei cataloghi e la redazione degli accordi quadro con i fornitori. Al 31 dicembre 2011 i Servizi e-Business hanno fornito servizi on line a 20.000 utenti (di cui il 50% esterni), che hanno partecipato a più di 3.000 gare e aste e 260.000 processi elettronici per un valore di circa 13 miliardi di euro, usufruendo di un catalogo di circa 3.000.000 di codici di acquisto. Dalla creazione, nel 2001, il ramo Servizi e-Business ha gestito 45 miliardi di euro e 1.400.000 processi elettronici. Fonte: www.eni.it

15.9

L’innovazione negli acquisti Proprio a causa dell’accresciuta rilevanza strategica, gli acquisti negli ultimi anni sono stati oggetto di molti interventi per migliorarne l’efficienza e l’efficacia. A conclusione di questo capitolo sulla gestione dei processi di approvvigionamento, proponiamo dunque una sintesi dei programmi innovativi che hanno avuto per oggetto il mondo degli acquisti. In molti casi si tratta di un utilizzo più rigoroso e sistematico dei concetti e degli strumenti che abbiamo già visto nei paragrafi precedenti. Il tentativo qui è quello di sintetizzare la grande varietà di azioni di miglioramento che con qualche semplificazione è riconducibile alle sei categorie brevemente illustrate nel seguito. Ridisegno del processo e dell’organizzazione di acquisto (Process Re-engineering) Una prima area di intervento è il processo di acquisto complessivo (strategic purchasing, sourcing e supply), inteso come sequenza di attività e di decisioni che a partire dagli input (i fabbisogni) arriva a determinare gli output (i beni e servizi acquistati e resi disponibili per l’attività caratteristica dell’impresa). Spesso le aziende non gesti-

582 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

scono in modo razionale ed efficiente queste attività; diviene allora utile mappare lo status quo, identificare possibili aree di miglioramento ed eventualmente ridefinire alcune procedure, i ruoli coinvolti e le rispettive responsabilità (si veda in proposito anche la gestione per processi illustrata nel capitolo 5). Le stesse tecniche di eprocurement descritte nel paragrafo 15.8 in termini organizzativi sono interpretabili come strumenti di re-engineering del processo di acquisto. Il re-engineering degli acquisti spesso implica anche cambiamenti organizzativi, tipicamente aumentando il livello di centralizzazione (paragrafo 15.3.3) delle attività di strategic purchasing e ridefinendo i criteri di raggruppamento (paragrafo 15.3.2). Revisione delle specifiche (Product Re-engineering) Nel caso di acquisti particolarmente complessi, e soprattutto per quelle categorie classificate come “colli di bottiglia” (si veda il paragrafo 15.4.1), potrebbe essere utile ridefinire le specifiche al fine di rendere l’acquisto più semplice e conveniente. Non sempre infatti la progettazione dei prodotti tiene conto delle possibili criticità nei mercati di acquisto. Occorre anzitutto operare una revisione critica dei fabbisogni. Possono verificarsi infatti casi in cui le specifiche sono eccessivamente complesse a causa di una non corretta analisi dei reali fabbisogni dell’impresa. Questo potrebbe quindi comportare una sostituzione di alcuni componenti e/o una standardizzazione dei materiali tra le diverse linee di prodotto esistenti. La revisione delle specifiche potrebbe partire da un’analisi di valore del prodotto e dalla valutazione del suo costo totale lungo il ciclo di vita (e quindi di tutti i componenti coinvolti). Allargamento della base di fornitori Una leva comunemente utilizzata è l’allargamento della base dei fornitori. L’obiettivo è quello di ampliare l’estensione geografica del mercato di fornitura (si veda anche il global sourcing, paragrafo 15.4.2). Le motivazioni per l’allargamento della base dei fornitori possono essere le più diverse: ricerca di vantaggi di costo, sfruttamento delle variazioni dei tassi di cambio ecc. Tale politica si applica molto bene a categorie merceologiche “non critiche” e concretizza di fatto una strategia di multiple sourcing. Consolidamento dei volumi Talvolta le imprese si rendono conto di avere troppi fornitori. Al fine di aumentare il proprio potere contrattuale e razionalizzare la base di fornitura appare utile e anzi necessario consolidare i volumi di acquisto, grazie anche alla standardizzazione dei fabbisogni e alla revisione delle specifiche di cui sopra. In sostanza si tratta di concentrare il fabbisogno su un minor numero di fornitori e ridurre quindi la strategia di multiple sourcing. L’aumento del potere contrattuale contribuisce evidentemente al miglioramento delle condizioni di fornitura e la riduzione del parco fornitori consente di aumentare l’efficienza complessiva nella gestione del processo di acquisto (gestire meno fornitori comporta minori oneri di gestione). Il consolidamento dei volumi può essere perseguito anche tramite la

15. Gli acquisti ) 583

costituzione di gruppi di acquisto con altre aziende che presentano fabbisogni analoghi. La strategia del consolidamento dei volumi è per certi versi contrapposta a quella dell’allargamento della base geografica. Tuttavia le imprese talvolta le perseguono congiuntamente: mentre eliminano piccoli fornitori secondari spesso locali, vanno a cercarne di nuovi e più convenienti (spesso in Oriente) e su questi consolidano grandi volumi con strategie di single sourcing o dual sourcing (si veda il paragrafo 15.2.1). Alleanze e contratti quadro Lo sviluppo dei rapporti di partnership passa frequentemente attraverso l’utlizzo di alleanze e di contratti di lungo termine con i fornitori chiave. Al tema della partnership cliente-fornitore è dedicato tutto il capitolo 16. In questa sede è quindi sufficiente evidenziare il fatto che tramite opportuni accordi di collaborazione e di condivisione di rischi e benefici è possibile rendere più efficiente l’interazione tra cliente e fornitore e intervenire sui processi in modo da ridurre i costi di beni e servizi e migliorarne la qualità. I contratti quadro, già illustrati nel paragrafo 15.2.3, sono uno strumento operativo fondamentale a supporto delle relazioni collaborative. Chiaramente queste strategie si adattano più agli acquisti strategici e ai colli di bottiglia che non ai non critici e a quelli leva (si veda paragrafo 15.4.1). Benchmarking e negoziazione Naturalmente la capacità di negoziare e spuntare le migliori condizioni è da sempre una prerogativa del mestiere del buyer (si veda in proposito il paragrafo 15.6). Tuttavia, non sempre le aziende hanno la capacità di condurre sistematicamente azioni di benchmarking su scala globale alla costante ricerca delle migliori condizioni di fornitura. Recentemente diverse imprese multinazionali hanno avviato programmi di miglioramento, volti a rendere continuo e sistematico il benchmarking globale e a condividere (tra funzioni, divisioni e società operative diverse) le informazioni ricavate in appositi database. In questo capitolo abbiamo analizzato le attività di acquisto di beni e servizi. La rilevanza di queste attività è cresciuta nel tempo a seguito dei fenomeni di outsourcing e di terziarizzazione delle attività non-core. Gli acquisti si configurano dunque come processi aziendali strategici che condizionano direttamente le competitività delle imprese. Abbiamo analizzato le principali tipologie di acquisti – diretti e indiretti –, le attività in cui si articola il processo di acquisto – strategic purchasing, sourcing e supply – e l’organizzazione della funzione acquisti. Nella seconda parte del capitolo abbiamo approfondito gli strumenti gestionali principali, dalla gestione del portafoglio acquisti alle tecniche di selezione e negoziazione, dalle principali tipologie di contratti alle tecnologie di supporto (e-procurement). Infine, abbiamo sintetizzato i principali interventi di miglioramento per aumentare l’efficienza e l’efficacia dei processi e dell’organizzazione di acquisto. Nel prossimo capitolo approfondiremo il tema dello sviluppo e della gestione delle relazioni collaborative (rapporti di partnership).

16 La gestione della partnership

SOMMARIO 16.1 La partnership: modalità di gestione e meccanismi di protezione j 16.2 La collaborazione tecnologica j 16.3 La collaborazione operativa j 16.4 Verso la partnership completa

16.1

La partnership: modalità di gestione e meccanismi di protezione Nel capitolo 14 è stato introdotto il concetto di mercato collaborativo, inteso come forma intermedia fra il mercato competitivo e l’integrazione verticale. È in questo ambito che si realizzano le cosiddette partnership fra cliente e fornitore. Il caso Textile Machines (Caso 16.1) illustra la storia di una relazione collaborativa e ci consente alcune riflessioni di carattere generale.

CASO

16.1

Textile Machines Benché fosse luglio inoltrato, T.V., responsabile degli acquisti della Textile Machines, un’azienda produttrice di macchine tessili, non riusciva a pensare serenamente alle proprie ferie: erano mesi che Elettrica, un fornitore di quadri di controllo per orditoi, non era all’altezza delle aspettative dell’azienda cliente, consegnando in ritardo componenti di qualità scadente. La partnership Textile Machines-Elettrica T.V. ricordava che il Direttore generale della Textile Machines, M.B., aveva raccomandato di gestire con particolare cura quella che egli chiamava “partnership” con Elettrica, dimostrando un interesse del tutto particolare per quella relazione di fornitura che influiva sulla qualità di prodotto degli orditoi di Textile Machines e, quindi, sulla quota di mercato dell’azienda. Infatti T.V. sapeva bene che i quadri di Elettrica avevano un impatto significativo sull’affidabilità degli orditoi in cui venivano inseriti e che il loro costo era rilevante, in quanto costituiva circa il 10% di quello del prodotto finito. Inoltre, l’affidabilità e il prezzo degli orditoi erano proprio le leve con cui Textile Machines cercava di ottenere ordini sul mercato finale. Il prezzo e l’affidabilità erano variabili cruciali, in quanto i clienti di Textile Machines erano industrie tessili interessate a orditoi affidabili (in un impianto di tessitura c’è tipicamente un or-

16. La gestione della partnership ) 585 ditoio ogni 20-30 telai) e possibilmente non troppo costosi (gli orditoi sono macchine complesse che costano tra i 250.000 e i 450.000 dollari/unità). Offrire orditoi a basso prezzo era una strategia vincente soprattutto nei mercati in rapida crescita dell’Estremo Oriente, ma rimaneva una leva competitiva importante anche nei mercati occidentali. Elettrica era un’impresa di dimensioni simili a Textile Machines che produceva quadri elettrici per impianti industriali di vario tipo. I clienti di Elettrica erano imprese differenti: alcuni comperavano grandi quantità ed erano responsabili di una quota significativa del fatturato di Elettrica, mentre altri richiedevano sporadicamente apparecchiature elettriche di valore modesto. Textile Machines era un cliente importante per Elettrica, in quanto responsabile del 10% circa del suo fatturato, ma almeno altri due clienti erano altrettanto importanti per valore e complessità delle transazioni. La relazione tra Textile Machines ed Elettrica era iniziata circa un anno e mezzo prima; in quel periodo Textile Machines stava sviluppando una nuova linea di orditoi e aveva deciso di coinvolgere un fornitore per la progettazione dei quadri di controllo. Textile Machines non possedeva le competenze necessarie allo scopo e non era nemmeno intenzionata ad acquisirle; l’impresa stava infatti perseguendo una politica di deverticalizzazione che l’aveva portata a concentrarsi su poche selezionate competenze chiave e a esternalizzare tutte le attività che non erano a esse collegate. L’incidenza degli acquisti sul costo del prodotto era pari a circa il 65%. Non era possibile acquistare i quadri di controllo a catalogo da un fornitore che li aveva progettati autonomamente, in quanto si trattava di componenti complessi non standard, e caratterizzati dalla presenza di legami significativi con il resto del prodotto. La scelta dell’impresa da coinvolgere nelle attività di progettazione era quindi ricaduta su Elettrica, fornitore dotato di buone capacità tecnico-progettuali oltre che produttive, e situato nello stesso distretto industriale di Textile Machines. In cambio dello sforzo profuso nella progettazione di quadri personalizzati per gli orditoi di Textile Machines, quest’ultima si era impegnata ad acquistare un quantitativo minimo ogni anno per almeno due anni. L’anno successivo le due imprese avevano sentito l’esigenza di condividere i propri piani di produzione; a questo scopo era stata messa a punto una procedura di pianificazione comune su un orizzonte temporale pari a quattro mesi, di cui i primi due andavano considerati congelati (ovvero Textile Machines non poteva variare gli ordini emessi). La condivisione dei piani produttivi risultava utile in quanto i quadri sono componenti non standard che contribuiscono significativamente alla personalizzazione dell’orditoio in cui vengono inseriti, di conseguenza non possono essere prodotti e poi messi in magazzino, ma è necessario pianificare la loro produzione sulla base del piano di produzione degli orditoi stessi. La collaborazione operativa con Elettrica aveva permesso a Textile Machines di aumentare la flessibilità e di migliorare la capacità di affrontare ordini imprevisti. La crisi della relazione Dopo un avvio tanto brillante, la relazione tra Textile Machines ed Elettrica aveva cominciato a dare qualche problema e le prestazioni del fornitore si erano rivelate al di sotto delle aspettative del cliente. In particolare, la qualità di conformità non era più eccellente e i ritardi di consegna erano a mano a mano aumentati. Inoltre, il prezzo dei quadri era cresciuto sensibilmente negli ultimi sei mesi, deludendo le aspettative di Textile Machines. Il Direttore generale comunicò allora al responsabile degli acquisti che intendeva decidere personalmente in merito alla fornitura dei quadri. Egli decise di raccogliere maggiori informazioni su cui riflettere. Poiché la flessibilità era una leva competitiva importante per Textile Machines, M.B. decise di parlare subito con R.F., responsabile della pianificazione della produzione. I due conclusero che il processo produttivo di Elettrica risultava effettivamente critico per la flessibilità di Textile Machines, sia per la personalizzazione del prodotto, sia per la flessibilità di consegna. Poiché i quadri specifici inseriti in un orditoio contribuivano alla sua personalizzazione, era chiaro che la possibilità di Textile Machines di consegnare al cliente un orditoio particolare dipendeva anche dalla capacita di Elettrica di produrre in tempo i quadri di controllo richiesti. Per quanto riguarda la flessibilità di consegna, il responsabile della produzione spiegò al Direttore gene-

586 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

rale che le prestazioni produttive di Elettrica erano importanti soprattutto per far fronte con successo a ordini imprevisti. In definitiva, dall’incontro con R.F. emerse che le prestazioni produttive di Elettrica influenzavano pesantemente la capacità di Textile Machines di soddisfare le aspettative dei clienti circa la consegna del macchinario finito. M.B. decise allora di parlare anche con il responsabile dell’ufficio tecnico (S.D.), che si occupava della progettazione dei prodotti di Textile Machines e che aveva lavorato con i tecnici di Elettrica. Il capo dell’ufficio tecnico ricordava una buona collaborazione con i progettisti del fornitore, agevolata dalla vicinanza fisica tra le due imprese che aveva favorito contatti frequenti e scambi di informazioni. La progettazione congiunta aveva permesso alle imprese coinvolte di convergere rapidamente verso specifiche tecniche stabili; in particolare il processo di definizione delle specifiche dei quadri aveva richiesto una forte interazione tra i tecnici delle due imprese, in quanto era stato necessario completare la competenza sistemica dell’orditoio presidiata dagli ingegneri di Textile Machines con la conoscenza specifica dei quadri di controllo detenuta dai progettisti del fornitore. S.D. ricordava che la collaborazione nelle attività di progettazione si era conclusa dopo circa un anno dall’inizio. In seguito l’orditoio era stato parzialmente riprogettato per ridurre i costi di produzione, ma questa volta Elettrica non era stata coinvolta attivamente e le erano semplicemente state comunicate le nuove specifiche dei quadri di controllo. C’era poi stata un’ulteriore riprogettazione dell’orditoio necessaria per adeguarsi alle nuove leggi in materia di sicurezza; questa seconda riprogettazione aveva portato a una radicale ridefinizione delle caratteristiche dei quadri di controllo, tuttavia nemmeno questa volta il fornitore era stato preventivamente coinvolto. M.B. non capiva come mai una buona collaborazione nelle attività di progettazione come quella avvenuta inizialmente con Elettrica non avesse dato luogo a un continuo coinvolgimento del fornitore nella modifica e nella ridefinizione delle specifiche di progetto dell’orditoio. A questo proposito S.D. aveva osservato che coinvolgere attori esterni nello sviluppo di nuovi prodotti era piuttosto oneroso per entrambe le imprese coinvolte e che era quindi preferibile rinunciare a questa pratica quando si desiderava semplicemente apportare delle modifiche a un prodotto esistente. A riprova del fatto che questa scelta era stata ottimale, S.D. riferì di non aver ricevuto alcuna lamentela “tecnica” da parte del fornitore. Verso il rilancio della partnership M.B. aveva le idee sempre più confuse: gli sembrava che, a parte qualche questione marginale, la sua impresa avesse seguito alla lettera le best practices in materia di strategie di acquisto. Eppure qualcosa non aveva funzionato e il risultato di tanto impegno profuso nella relazione era stato chiaramente insoddisfacente. Egli rimaneva comunque restio a cambiare fornitore, in quanto la relazione con Elettrica aveva raggiunto un certo grado di sviluppo prima di entrare in crisi e forse sarebbe stato meno costoso cercare di rinvigorire la partnership esistente piuttosto che spendere risorse per stabilirne una nuova con un altro fornitore. Prima di prendere una decisione, comunque, M.B. voleva sentire anche l’opinione del fornitore e a questo scopo telefonò a C.G.S., Direttore generale di Elettrica. Dalla conversazione emerse che il fornitore era consapevole che le proprie prestazioni erano al momento piuttosto scadenti, ma questo problema era una diretta conseguenza di due eventi precisi: la riprogettazione del prodotto eseguita da Textile Machines aveva fatto lievitare i costi di produzione e aveva costretto Elettrica ad acquistare alcuni componenti elettronici critici per il quadro di controllo da un fornitore molto costoso; Elettrica recentemente aveva vinto una grande commessa dalle Ferrovie dello Stato e questo ordine aveva sovraccaricato il suo sistema produttivo. C.G.S. si dimostrò molto cordiale ed espresse il proprio sincero interesse per una rivitalizzazione della relazione con Textile Machines. Fonte: Spina e Zotteri (2000).

16. La gestione della partnership ) 587

Condivisione di rischi e benefici

16.1.1

Coinvolgimento interfunzionale

Il caso Textile Machines ci mostra un esempio di relazione di partnership, evidenziandone i pregi e difetti. Soprattutto ci permette di discutere le modalità di attuazione di una relazione di fornitura di tipo collaborativo. Notiamo subito che la partnership fra Textile Machines ed Elettrica risponde alle caratteristiche introdotte nel capitolo 14: si è trattato di un’iniziativa che ha coinvolto varie funzioni all’interno delle due aziende (acquisti, ufficio tecnico, produzione) ed è stata voluta direttamente dalla direzione generale. Inoltre le due aziende hanno condiviso i rischi e i benefici del nuovo prodotto progettandolo insieme, in particolare il cliente ha garantito al fornitore un livello minimo di ordini per gli anni successivi, confermando l’orientamento al mediolungo periodo della relazione. È stato sviluppato congiuntamente un quadro di controllo rispondente alle esigenze del cliente, in termini di qualità e di costo; inizialmente il fornitore sembrava affidabile. Tuttavia col passare del tempo le prestazioni si sono deteriorate, mostrando anche i rischi a cui ci si espone scegliendo una relazione di partnership: la mancanza di pressione competitiva e la garanzia di una domanda sicura nel medio-lungo termine possono far sì che le prestazioni del fornitore si deteriorino; inoltre cambiare un fornitore unico può rivelarsi problematico o troppo oneroso. Vedremo dapprima quali sono le modalità organizzative e gestionali per instaurare una partnership, quindi discuteremo i meccanismi a disposizione delle aziende al fine di proteggersi dai rischi connessi a questo tipo di relazione. In seguito approfondiremo le diverse tipologie di partnership e i relativi strumenti gestionali.

Gestione della partnership Le relazioni di partnership con i fornitori richiedono, come già accennato, il coinvolgimento intenso di diverse funzioni aziendali. Si tratta di una caratteristica fondamentale che distingue nettamente il mercato collaborativo dal mercato competitivo, dove solitamente le funzioni commerciali (acquisti per il cliente e vendite per il fornitore) hanno un ruolo predominante se non esclusivo. La Figura 16.1 rappresenta la differenza di interfaccia fra le due tipologie di rapporto: in un mercato competitivo vi è un contatto fra le aziende essenzialmente limitato all’interazione diretta tra compratore (buyer) e venditore (seller) mentre altri ruoli e funzioni delle due aziende non vengono in contatto (modello “papillon”); in una partnership invece l’interfaccia organizzativa della relazione è molto più estesa e coinvolge tutte le funzioni interessate: gli acquisti, la progettazione, il marketing, la produzione, la programmazione sul lato cliente e le vendite, la progettazione, la produzione, la distribuzione fisica/logistica sul lato fornitore (modello “diamante”). A questo punto potrebbe sorgere qualche dubbio riguardo al ruolo delle funzioni commerciali in una partnership: quale compito hanno? Sono ancora necessarie? Abbiamo visto nel capitolo precedente

588 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Figura 16.1 INTERFACCIA FRA CLIENTE E FORNITORE: MODELLI PAPILLON E DIAMANTE Partnership

Mercato

Sviluppo prodotti

Sviluppo prodotti

Produzione

Produzione Vendite

Sviluppo prodotti

Sviluppo prodotti

Produzione Produzione

Acquisti Vendite

Logistica

Logistica

Fornitore

Cliente

Logistica

Fornitore

Acquisti Logistica

Cliente

Fonte: adattato da Cooper et al. (1997).

Nuovo ruolo del buyer

Coerenza organizzativa

che la funzione acquisti, in un rapporto di mercato competitivo, deve cercare di massimizzare i benefici che la concorrenza può portare all’azienda, attraverso la selezione dei fornitori e la negoziazione. In un rapporto di partnership, invece, una gestione esclusivamente negoziale e conflittuale del fornitore è insufficiente o addirittura controproducente, in quanto i presupposti sono quelli della collaborazione e non più della competizione. Nel caso Textile Machines il disagio del responsabile degli acquisti è anche legato a non sapere come gestire un rapporto di fornitura che dovrebbe essere radicalmente diverso da tutti quelli che ha affrontato in precedenza. Non si tratta tanto di incapacità personale, ma della necessità di comprendere che, al mutare dei rapporti con il fornitore, deve mutare anche il ruolo del buyer. Infatti, la partnership richiede una serie di attività addizionali da parte della funzione acquisti: dalla selezione e valutazione strategica in ottica di lungo periodo alla gestione del rapporto collaborativo, allo sviluppo delle competenze dei fornitori, fino al coordinamento delle complesse interazioni fra le varie funzioni coinvolte. Infatti, l’allargamento dell’interfaccia fra le aziende crea anche difficoltà gestionali: il buyer si deve trasformare e diventare il process owner (capitolo 5) delle relazioni con i fornitori. Il ruolo degli acquisti, quindi, non solo non diventa marginale, ma assume al contrario una nuova rilevanza. È importante che, dal punto di vista organizzativo, vi sia coerenza: non si possono instaurare partnership con i fornitori senza aver modificato il ruolo dei buyer. Questo avviene da un lato con la ridefinizione dei compiti e la formazione delle persone, ma

16. La gestione della partnership ) 589

Definire le “regole del gioco”

16.1.2

anche con la modifica dei sistemi di valutazione e incentivo: finché i buyer vengono valutati soltanto sulla capacità di risparmiare sui costi di acquisto, difficilmente assumeranno un’ottica di collaborazione con i fornitori invece di una competitiva. Tuttavia, è importante chiarire che, anche nell’ambito di rapporti di partnership, non scompaiono né l’attenzione ai costi né gli spazi per la negoziazione anche dura. Le negoziazioni collaborative (si veda il capitolo 15) mirano a massimizzare i benefici di entrambe le parti creando un valore aggiunto che viene spartito fra cliente e fornitore (logica win-win). È molto importante definire a priori come spartire i benefici. Anche in un contesto di collaborazione vi sarà dunque una fase di negoziazione: questo è uno dei ruoli fondamentali degli acquisti nel momento in cui si avvia una partnership. Affinché questa abbia successo, è essenziale definire chiaramente e fin da subito le “regole del gioco”, le proporzioni con le quali verrà spartita la “torta” dei benefici: il potere contrattuale conta eccome, anche in una relazione di partnership. In questo senso la spartizione può anche essere asimmetrica in ragione del potere contrattuale relativo. L’aspetto importante è che le parti ne ricavino una sensazione di equità e correttezza (fairness) commisurata alle forze in campo. Una volta concordati questi aspetti, le parti hanno tutto l’interesse a sforzarsi di “ingrandire la torta”, ovvero massimizzare il valore aggiunto della collaborazione, al fine di massimizzare i propri benefici.

Meccanismi di protezione In quale modo Textile Machines avrebbe potuto cautelarsi dai rischi a cui si è esposta? Quali sono in generale gli strumenti a disposizione di un’azienda, cliente o fornitore che sia, per instaurare una partnership tutelandosi da rischi eccessivi? Vediamo ora i principali:

Tutele bilaterali

Ottica del miglioramento

• contratti quadro: si tratta, come visto nel capitolo 15, di contratti di medio-lungo termine, che sanciscono una relazione di fornitura duratura, garantendo al fornitore la possibilità di recuperare gli investimenti dedicati effettuati. Al tempo stesso questi contratti dovrebbero tutelare anche il cliente, garantendo la capacità produttiva del fornitore necessaria a far fronte alla domanda. Questo aspetto non è stato curato da Textile Machines (Caso 16.1), che in effetti ha sofferto ritardi di consegna a causa della saturazione della capacità produttiva di Elettrica, che aveva assunto una nuova grande commessa, senza curarsi di avere capacità produttiva sufficiente; • monitoraggio delle prestazioni: attraverso un controllo costante e tempestivo di tutte le prestazioni rilevanti, come visto nel capitolo 14, il cliente può accorgersi per tempo di problemi quali difettosità e ritardi, evitando di rendersene conto solo dopo molti mesi, come è avvenuto nel caso Textile Machines. Tuttavia è bene sottolineare che il monitoraggio, in una relazione di partnership, deve essere realmente volto al miglioramento e non al sanzionamento: i

590 ) PARTE IV – ACQUISTI









16.1.3

Tecnologia e innovazione

E SUPPLY CHAIN

risultati, buoni o scadenti che siano, devono essere tempestivamente comunicati al fornitore, in modo da costituire una fonte di apprendimento. Inoltre deve essere chiaro a entrambe le parti quali prestazioni vengono rilevate e come, in modo da allineare gli sforzi del fornitore con gli obiettivi del cliente; investimenti relazionali: se uno dei partner effettua investimenti specifici per la relazione, privi cioè di valore al di fuori di essa, quali ad esempio la progettazione di un componente su misura o la realizzazione di uno stampo, si espone a un rischio, ma fornisce alla controparte una forte garanzia di impegno. Gli investimenti relazionali dedicati (effettuati cioè da entrambe le parti) costituiscono un forte supporto alla collaborazione; condivisione di conoscenza: lo scambio di know-how fra i partner costituisce una particolare forma di investimento dedicato. Ad esempio, le attività di supporto e sviluppo del fornitore da parte del cliente sono una garanzia di impegno nel medio-lungo termine, altrimenti il costo di tali attività andrebbe perso. A ben vedere lo scambio di know-how è il vero elemento che distingue la partnership dai normali rapporti di mercato, nei quali lo scambio è limitato ai prodotti/servizi, al denaro e alle informazioni necessarie alla transazione; trasparenza e riconoscimento dei costi: è una delle leve più critiche ma anche più efficaci, in quanto se il fornitore rivela la propria struttura di costo, il cliente è tutelato rispetto alla richiesta di prezzi troppo elevati; contemporaneamente il fornitore può ottenere il riconoscimento dei propri costi, compresi quelli dovuti a investimenti dedicati; reputazione: può giocare un ruolo rilevante in una prospettiva di medio-lungo termine. Un partner che si comporti in modo opportunistico può ottenere vantaggi nel breve termine, ma incontrare successivamente forti difficoltà a trovare nuovamente qualcuno disposto a collaborare con lui. Nel caso Textile Machines, l’azienda temeva che sostituendo bruscamente Elettrica, pur in assenza di gravi responsabilità di quest’ultima, gli altri fornitori del distretto avrebbero maturato nei suoi confronti una percezione di inaffidabilità.

Tipologie di partnership Il caso Textile Machines ci ha mostrato che un rapporto di collaborazione fra cliente e fornitore può riguardare due ambiti fondamentalmente distinti (De Maio e Maggiore, 1992): il primo è il cosiddetto “sviluppo dei nuovi prodotti”, nel caso specifico la progettazione di un nuovo modello di orditoio e del relativo sistema di controllo, che ha visto il coinvolgimento del fornitore. Definiamo questo tipo di partnership una collaborazione tecnologica, in quanto le due aziende hanno instaurato un rapporto di stretta interazione riguardante attività di sviluppo che richiedono il contributo delle conoscenze tecnologiche di entrambi gli attori. Chiaramente si tratta di processi discontinui; la progettazione di un nuovo prodotto è un’attività saltuaria,

16. La gestione della partnership ) 591

Logistica e produzione

sebbene oggigiorno l’accorciamento dei cicli di vita e l’ampliamento della gamma ne abbiano aumentato la frequenza. Succede anzi talvolta che più progetti vengano portati avanti simultaneamente. Il paragrafo 16.2 è dedicato ad approfondire questo tema. Nel caso Textile Machines (Caso 16.1) il secondo ambito di collaborazione ha riguardato invece l’effettiva realizzazione dei prodotti, in particolare la produzione dei sistemi di controllo da parte di Elettrica e la loro installazione sugli orditoi del cliente. Chiaramente si tratta di un processo ripetitivo, regolato dal flusso di ordini (o dalle previsioni di vendita) per gli orditoi, che si riflettono in altrettante richieste di sistemi di controllo al fornitore. Questa attività comporta l’approvvigionamento di materie prime e componenti, la produzione vera e propria del sistema di controllo, il trasporto, l’assemblaggio nel prodotto finito. Si tratta dell’intero ciclo logistico-produttivo, che in realtà non include solo attività di trasformazione e trasporto, ma anche attività di scambio informativo (ad esempio la trasmissione degli ordini e delle fatture), decisionali (ad esempio la pianificazione delle attività) e transazioni finanziarie (i pagamenti). Una partnership in questo ambito viene definita collaborazione operativa, in quanto comporta la realizzazione coordinata e congiunta di attività, appunto, operative, legate al ciclo logistico-produttivo. Questo tema verrà approfondito nel paragrafo 16.3. Infine, nel paragrafo 16.4, discuteremo la collaborazione contemporanea in entrambi gli ambiti, volta a instaurare quella che chiameremo partnership completa.

16.2

La collaborazione tecnologica

16.2.1

Obiettivi e requisiti

Subfornitura e catalogo

La collaborazione tecnologica, spesso indicata anche con il termine inglese codesign (progettazione congiunta), consiste appunto nella collaborazione fra cliente e fornitore nelle attività di progettazione e ingegnerizzazione di nuovi prodotti. Come mostrato in Figura 16.2, il codesign si colloca in una posizione intermedia fra altre due forme di sviluppo dell’innovazione: l’“acquisto a catalogo” e la “subfornitura”. Nell’acquisto a catalogo è il fornitore che

Figura 16.2 IL CODESIGN Il fornitore progetta

Acquisto a catalogo

Il cliente progetta

Codesign

Subfornitura

592 ) PARTE IV – ACQUISTI

Tempi, costi e qualità

Know-how complementare

Fiducia

E SUPPLY CHAIN

progetta, anzi ha già progettato in precedenza e in autonomia un bene o un servizio standard che il cliente acquista attingendo appunto a un catalogo, al quale ovviamente possono attingere anche altri clienti e in particolare i concorrenti. Il cliente non interviene nella fase di progettazione. Almeno per quanto riguarda l’attività progettuale, si tratta di un rapporto di mercato puro. Con il termine “subfornitura” si intende invece la delega a un fornitore della realizzazione di un bene completamente progettato dal cliente. Il fornitore produce su specifica del cliente ma non progetta. Talvolta il cliente non solo progetta il prodotto che poi acquisterà dal fornitore, ma progetta anche il ciclo tecnologico e il processo industriale che verrà eseguito dal fornitore; in qualche caso acquista anche le materie prime e le rende disponibili al fornitore per la trasformazione (è il cosiddetto conto-lavoro). Il codesign si distingue quindi da entrambe queste forme perché prevede la partecipazione di entrambe le parti al processo di progettazione. Ma perché cliente e fornitore possono avere interessere a svolgere congiuntamente la progettazione di un nuovo prodotto? Gli obiettivi che vengono perseguiti con il codesign consistono fondamentalmente nella riduzione dei tempi e dei costi di sviluppo e nel miglioramento della qualità e dell’innovatività dei prodotti. Infatti il codesign permette di sfruttare le risorse e le competenze progettuali di due (o più) aziende invece di una sola. Inoltre l’interazione fra chi dovrà produrre il componente e chi lo dovrà incorporare nel prodotto finito permette di ottimizzare il progetto in modo da renderlo meno costoso e più rispondente alle esigenze del cliente finale. Il codesign è una forma di collaborazione è abbastanza diffusa anche per effetto dei fenomeni discussi nel capitolo 14: da un lato la varietà di tecnologie incorporate nei prodotti e la focalizzazione delle aziende su poche competenze chiave riducono lo spazio per la progettazione interna dei componenti; dall’altro lato, la sempre maggiore richiesta di personalizzazioni limita la possibilità di acquisto a catalogo. Tuttavia, per realizzare il codesign è necessario che vengano soddisfatti alcuni prerequisiti: prima di tutto cliente e fornitore devono possedere entrambi adeguate competenze progettuali ed essere in grado di interagire fra loro. Gestire progetti di codesign non è semplice, in quanto richiede che i tecnici e i progettisti di aziende diverse, abituati a lavorare ciascuno con le proprie modalità, accettino e imparino a lavorare insieme. Inoltre, affinché il codesign apporti realmente benefici, le competenze e il know-how delle aziende dovrebbero essere complementari, permettendo quindi di ottenere risultati che non sarebbero possibili con una progettazione autonoma. Infine, è fondamentale che tra le parti vi sia un livello di fiducia reciproca tale da rendere tutto questo possibile. Infatti la collaborazione nello sviluppo di nuovi prodotti comporta la condivisione di conoscenze preziose con la controparte, conoscenze che spesso costituiscono il vantaggio competitivo di un’azienda. Si possono adottare tutte le precauzioni del caso per proteggere tale conoscenza, si pensi ad esempio agli accordi di confidenzialità, ai brevetti ecc. Tuttavia tali strumenti di protezione non sempre danno garanzie certe, quindi, in assenza di un rapporto di fiducia fra le azien-

16. La gestione della partnership ) 593

de, difficilmente sarà possibile collaborare in modo efficace nella fase di progettazione. Con il termine fiducia, nell’ambito dei rapporti fra aziende, non si intende tanto una generica dichiarazione di buone intenzioni, quanto il clima di collaborazione che si crea per effetto di positive esperienze pregresse di collaborazione, la conoscenza fra le persone coinvolte, la presenza di forti incentivi economici e strategici alla collaborazione e/o la presenza di disincentivi a comportarsi in modo opportunistico (si veda a questo proposito il capitolo 9).

16.2.2

Tipologie di codesign Il caso Whitegoods (Caso 16.2) ci mostra come in realtà esistano diversi modi di realizzare la collaborazione tecnologica, dando luogo a diverse forme di codesign.

CASO

16.2

Whitegoods La Whitegoods è una multinazionale leader nel settore degli elettrodomestici bianchi (lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, forni e piani cottura). La consociata italiana è responsabile della progettazione dei frigoriferi per tutta l’Europa e svolge questa attività a stretto contatto con i fornitori, a cui poi verrà demandata la produzione di molti componenti, mentre l’assemblaggio finale avviene negli stabilimenti Whitegoods. Negli ultimi anni l’azienda, impegnata nel rinnovo della sua gamma di prodotti, ha sviluppato diversi progetti di codesign. Nel seguito vengono analizzati quattro recenti esperienze, che riguardano progetti di sviluppo, componenti e fornitori differenti. Caso a. Il portalampada Il progetto riguarda lo sviluppo di un portalampada innovativo in occasione del lancio di un nuovo frigorifero “free-standing”. Il portalampada è parte di un sistema complesso costituito dalla lampada, dall’interruttore, dal termostato e da collegamenti elettrici. Si tratta di un componente non molto costoso (circa 1% del costo totale), ma con un rilevante impatto sull’affidabilità del prodotto finale. Infatti, molti collegamenti elettrici sono co-stampati nella plastica e possono essere fonte di problemi in caso di surriscaldamento; inoltre il portalampada ha delle interferenze funzionali e geometriche complesse con il sistema di cui fa parte. Di conseguenza è necessaria una forte integrazione fra lo sviluppo di tutti i componenti del sistema. In passato il cliente e il fornitore scelto hanno sviluppato insieme una nuova famiglia di portalampada che sfrutta i benefici della tecnologia di co-stampaggio. Quindi la nuova progettazione si basa sui risultati ottenuti in precedenza dal punto di vista sia tecnologico sia relazionale: da un lato questa volta sono necessari soltanto miglioramenti e personalizzazioni incrementali, nell’ambito di un sistema già definito, dall’altro la collaborazione fra cliente e fornitore beneficia della fiducia costruita in passato. Infatti il fornitore ha sviluppato sia il componente sia il relativo processo produttivo interagendo con il cliente in modo molto limitato, in quanto la maggior parte delle specifiche erano già state definite in precedenza. La relazione ha avuto successo sia dal punto di vista delle prestazioni, in quanto il componente è stato migliorato e ha contribuito a migliorare il prodotto finale, sia dal punto di vista relazionale, in quanto i due partner hanno ulteriormente rafforzato la fiducia reciproca.

594 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Caso b. La cerniera dello sportello In questo caso il fornitore è stato incaricato di sviluppare una nuova cerniera (cardine) per lo sportello esterno di un congelatore ad accesso verticale destinato all’utenza professionale dei pubblici esercizi. Il fornitore inizialmente selezionato aveva in passato già fornito cardini ad altre business unit di Whitegoods, ma mai per i frigoriferi, che solitamente utilizzavano cardini standard prodotti dal leader di mercato. Questa volta invece il cliente cercava una cerniera completamente nuova, in grado di consentire l’apertura del pozzetto con un movimento basculante tale da non interferire con la parete alla quale il congelatore poteva trovarsi accostato. I responsabili del marketing erano convinti che i clienti avrebbero apprezzato l’innovazione soprattutto perché negli spazi angusti di molti bar poter accostare completamente il congelatore a una parete può essere necessario. Cliente e fornitore hanno firmato un contratto di lungo termine e concordato di progettare congiuntamente il nuovo cardine. Purtroppo sono emersi numerosi problemi inaspettati: sono stati necessari numerosi ricicli perché il fornitore ha proposto alcune soluzioni inadatte allo sportello del congelatore, poiché il cliente aveva dato per scontate alcune specifiche che invece non erano note al partner. Alla fine le parti sono riuscite a convergere su un progetto, ma il fornitore non è riuscito a garantire l’affidabilità promessa, in quanto non aveva mai sviluppato cerniere simili a geometria molto complessa e in grado contemporaneamente di garantire robustezza e affidabilità. Il progetto originario è stato un fallimento, per varie ragioni: le specifiche sono cambiate in corso d’opera, il fornitore non è stato in grado di garantire quanto richiesto e il lancio del prodotto è stato ritardato. La relazione fra le parti ne ha sofferto, in quanto il cliente ha interrotto del tutto il rapporto con il fornitore, ricorrendo a un’azienda operante nel settore delle cerniere per il settore automobilistico, ripartendo in pratica da zero e in parte rinunciando agli obiettivi iniziali. Caso c. L’imballaggio In questo caso il fornitore deve fornire l’imballaggio di un congelatore, che ha un impatto relativo sul costo totale (3%), ma influenza significativamente i costi logistici legati alla movimentazione e al trasporto, oltre che alla sicurezza. In passato, infatti, imballi inadatti hanno provocato danni ai prodotti, comportando scarti e danni di immagine. Al fine di limitare tali problemi, l’ufficio tecnico ha deciso di sviluppare un nuovo imballaggio, con complesse interazioni geometriche con il prodotto, al fine di proteggerlo al meglio. L’imballaggio è stato progettato dal cliente, ma si è deciso di sviluppare il processo produttivo con i fornitori, che detengono maggiori competenze al riguardo. Lo stabilimento di produzione dei congelatori è situato in Italia centrale, quindi si è scelto un fornitore locale per ridurre i costi di trasporto degli imballi. Purtroppo questo fornitore ha competenze limitate, quindi il cliente è stato costretto a coinvolgerne un altro più esperto situato in Nord Italia e già utilizzato per prodotti di altro tipo, allo scopo di progettare il processo produttivo e in seguito trasferirlo al primo fornitore. Sfortunatamente, l’imballaggio e il relativo processo produttivo progettati da Whitegoods e dal fornitore esperto, sebbene coerenti fra loro, si sono rivelati inadatti ai macchinari e alle competenze della manodopera del nuovo fornitore. Di conseguenza è stato necessario riprogettarli entrambi per renderli adatti agli impianti che avrebbero dovuto utilizzarli, con un maggiore coinvolgimento del nuovo fornitore. È bene notare che il fallimento di questo codesing è in gran parte dovuto al coinvolgimento di ben quattro soggetti (ufficio tecnico e funzione produzione del cliente, fornitore nuovo e fornitore esperto), che ha reso l’interazione troppo complessa e inefficiente. Dopo parecchie vicissitudini il progetto è finalmente approdato a un risultato, ma con tempi e costi di gran lunga superiori alle attese. Le relazioni tra le aziende coinvolte sono rimaste sostanzialmente positive. Caso d. Lo sportello del “freezer” In questo caso il fornitore realizza lo sportello del congelatore interno di un nuovo frigorifero “free standing”; si tratta di un componente dal costo limitato (circa 2-3% del totale), ma con

16. La gestione della partnership ) 595 un impatto rilevante sulle prestazioni tecniche del prodotto finale, in termini di isolamento e quindi di consumi, temperatura e formazione indesiderata di ghiaccio. Inoltre il disegno dello sportello non è indipendente da quello del frigorifero, in quanto vi sono numerose interazioni geometriche. In questo caso il fornitore mette a disposizione del cliente le competenze relative a un nuovo processo produttivo. Si tratta della co-iniezione, ovvero della produzione congiunta della porta e della guarnizione, che vengono realizzate con un unico processo tecnologico invece che assemblate a partire da due componenti realizzati separatamente. La co-iniezione consente riduzioni di costo (poiché elimina l’assemblaggio) e miglioramenti della conformità (poiché previene le imprecisioni di assemblaggio che causano la non perfetta tenuta della porta). Una volta chiariti i vincoli della nuova tecnologia, il cliente ha progettato il nuovo componente, con il supporto dei tecnici del fornitore per verificare la fattibilità del prodotto. Il fornitore è stato coinvolto sin dalle fasi iniziali attraverso la formazione di un team interaziendale di lavoro. La relazione ha avuto successo per entrambe le parti coinvolte, in quanto il cliente ha sviluppato un nuovo componente più economico e affidabile, entro i tempi previsti, contribuendo alla progettazione di un buon prodotto finito; il fornitore ha ottenuto un contratto di lungo termine, la fiducia reciproca è cresciuta e si è imparato a lavorare insieme, ponendo le basi per nuove collaborazioni in futuro. Fonte: Spina, Verganti e Zotteri (2002).

Nuove funzionalità

Il caso Whitegoods ha mostrato quattro esempi che aiutano a costruire una tassonomia delle possibili forme di codesign. Non in tutti i casi i risultati ottenuti sono stati all’altezza delle aspettative, anzi per due di essi si può parlare evidentemente di insuccesso. Traendo spunto dal caso possiamo osservare che una prima, fondamentale distinzione fra le varie forme di codesign consiste nell’oggetto stesso della collaborazione: nei casi del portalampada e della cerniera, la progettazione congiunta riguardava il componente stesso e aveva per obiettivo il miglioramento delle sue prestazioni o funzionalità e, per questa via, del prodotto finito. Nei casi dell’imballaggio e della porta freezer si trattava in realtà di progettare il processo produttivo, e non il componente vero e proprio. Ciò che differenzia i primi due esempi dagli altri è quindi il know-how scambiato fra cliente e fornitore. Nel primo caso si parla di codesign di tipo function, in quanto cliente e fornitore collaborano per progettare ex novo un componente, del quale vengono ridefinite le prestazioni, le funzionalità, il contenuto tecnologico ecc. L’innovatività del componente è rilevante in quanto si trasferisce nel prodotto finito in cui verrà incorporato, diventandone un fattore di differenziazione riconoscibile dal cliente finale. La progettazione di un nuovo componente comporta anche la sua ingegnerizzazione, cioè la progettazione del processo produttivo atto a realizzarlo; si tratta di un’attività altrettanto importante per garantire il successo del codesign, anche se l’enfasi rimane sull’innovatività del componente. Si hanno spesso notizie di collaborazioni tecnologiche fra aziende rinomate che puntano a

596 ) PARTE IV – ACQUISTI

Miglioramenti del processo

Riduzioni di costo

Decisioni autonome

E SUPPLY CHAIN

sviluppare insieme soluzioni innovative all’avanguardia. Si pensi ad esempio alla Ferrari e alla Brembo, azienda specializzata nella progettazione e produzione di freni ad alte prestazioni: dalla collaborazione fra queste due imprese nascono i freni per le monoposto di Formula 1 e i modelli commerciali della casa di Maranello. Nei casi dell’imballaggio e dello sportello (Caso 16.2), invece, la collaborazione fra cliente e fornitore non è volta a progettare un componente innovativo, quanto piuttosto a ridurre il costo di produzione di un componente già esistente o progettato autonomamente da una delle due aziende. In qualche caso è necessario modificare il componente stesso, senza che ciò ne migliori le funzionalità, ma soltanto al fine di ridurre il costo di produzione per il cliente e/o il fornitore. Parliamo quindi di un codesign di tipo process, in quanto l’oggetto della progettazione congiunta è il solo processo produttivo, che deve essere migliorato per ridurre i costi di realizzazione del prodotto finale. In questo caso quindi non si persegue l’ottenimento di vantaggi di differenziazione, quanto piuttosto di costo, tramite l’utilizzo di tecnologie più economiche, grazie al miglioramento della qualità di conformità che riduce i costi di controllo, gli scarti e le rilavorazioni, attraverso la semplificazione del processo di assemblaggio al fine di ridurre il contenuto di lavoro ecc. È un caso frequente, ad esempio, nell’industria aeronautica: gli aerei hanno un ciclo di vita molto lungo (anche 30 anni) e ultimamente i produttori sono soggetti a forti pressioni per la riduzione dei costi. Per ottenere questo risultato è necessario riprogettare i processi produttivi di molti componenti, soprattutto per sfruttare l’evoluzione delle tecnologie che ha avuto luogo da quando i velivoli sono stati progettati originariamente. Spesso non c’è interesse né possibilità di sviluppare nuovi modelli, anzi si vogliono sfruttare al meglio gli investimenti fatti in passato. Tuttavia è necessario riuscire a realizzare i modelli attuali a un costo inferiore e questo richiede coordinamento e collaborazione fra le molte aziende che partecipano al progetto e alla produzione di un velivolo. Il caso Whitegoods ci mostra inoltre una seconda dimensione di classificazione, trasversale alla prima: le modalità di interazione tra cliente e fornitore, in particolare l’organizzazione del processo decisionale. Se consideriamo i casi del portalampada e dell’imballaggio, possiamo osservare come il rapporto fra il cliente e il fornitore sia consistito sostanzialmente in una suddivisione di compiti, con incontri a intervalli prestabiliti (milestones) nei quali venivano stabiliti gli obiettivi, valutato il lavoro e prese le decisioni, mentre nel tempo restante ogni azienda rimaneva sostanzialmente autonoma. In questo caso il processo decisionale si definisce separato, in quanto vi è una netta separazione dei ruoli: il cliente definisce gli obiettivi della collaborazione, il fornitore specifica eventuali vincoli e propone le alternative progettuali, il cliente infine valuta le alternative. Se gli obiettivi sono raggiunti il processo passa alla fase successiva, altrimenti si itera il ciclo, rivalutando gli obiettivi e i vincoli e generando nuove alternative. Il rapporto che ne consegue è indicato con il termine delivery, e fa riferimento al fatto che il fornitore sostanzialmente consegna al

16. La gestione della partnership ) 597

Decisioni condivise

Quattro tipi di codesign

cliente un progetto, nell’ambito di obiettivi concordati e di incontri periodici, ma conservando un ampio margine di autonomia e indipendenza nel lavoro. L’interazione fra cliente e fornitore comporta sempre tempi e costi di realizzazione, quindi operando in questo modo si limita l’onere della collaborazione allo stretto necessario, cercando di ottimizzare il rapporto costi/benefici. Nei casi della cerniera e dello sportello del freezer, invece, cliente e fornitore lavorano congiuntamente lungo tutto il processo di codesign, senza una netta divisione dei compiti, interagendo in modo frequente e flessibile attraverso team di progetto interaziendali. In questo caso il processo decisionale è condiviso e il rapporto è definito di joint development. Tutte le fasi del processo decisionale infatti sono svolte congiuntamente (definizione obiettivi, identificazione vincoli, generazione alternative e scelta) e l’attività di sviluppo è effettivamente svolta da entrambi i partner contemporaneamente, tramite frequenti contatti, gruppi di lavoro misti ecc. Questo tipo di rapporto è più oneroso del precedente in termini di tempi e costi dovuti all’interazione, ma permette di ottenere i risultati desiderati laddove un rapporto di tipo delivery non riuscirebbe, evitando così i costi di un fallimento del progetto. Incrociando le due dimensioni di classificazione si ottengono quindi quattro possibili combinazioni, ognuna esemplificata dai quattro componenti visti nel caso Whitegoods. Discutiamo ora le caratteristiche e le condizioni di applicabilità di ciascuna (Figura 16.3):

Figura 16.3 TIPOLOGIE DI CODESIGN E CONTESTO DI APPLICAZIONE

Componente + processo tecnologico

know-how scambiato

Processo tecnologico

Function delivery

Joint function development

Fornitore world class leader tecnologico

Cliente e fornitore leader e innovatori, innovazioni radicali

a. portalampada

b. cerniera

Process delivery

Joint process development

Fornitore affidabile, innovazione incrementale

Fornitore da far crescere o innovazioni radicali

c. imballaggio

d. sportello

Separato

Condiviso

Processo decisionale Fonte: tratto da Spina, Verganti e Zotteri (2002).

598 ) PARTE IV – ACQUISTI Innovazioni a “scatola chiusa”

Fornitori leader

Innovazioni incrementali

Innovazioni radicali di processo

Sviluppo organizzativo del fornitore

E SUPPLY CHAIN

• function delivery: è il caso del portalampada, in cui viene progettato un componente nuovo, utilizzando un processo decisionale separato. L’esempio considerato ha avuto successo e ci mostra come un codesign di questo tipo possa essere utilizzato quando esiste un fornitore con competenze avanzate, del tutto in grado di progettare il componente richiesto in modo sostanzialmente autonomo, coordinandosi con il cliente a intervalli prestabiliti. Nel caso del portalampada, inoltre, si trattava di un’innovazione incrementale, non radicale, e il rapporto fra cliente e fornitore era già sviluppato e rodato. È bene chiarire che si tratta comunque di codesign, in quanto il fornitore progetta un componente specifico per il cliente (non standard), sulla base di precisi requisiti, e il cliente mantiene l’ultima parola sull’approvazione di quanto proposto dal fornitore. Non si tratta quindi né di acquisto a catalogo né di subfornitura. Questa tipologia di codesign si osserva anche quando fornitori importanti, leader tecnologici nel proprio campo, sviluppano innovazioni radicali e consentono al cliente una certa personalizzazione del componente, impedendogli nel contempo di intromettersi troppo. È il caso ad esempio dei microchip, che vengono realizzati da multinazionali (come NEC, Motorola, AMD e Intel) grandi e con un forte potere contrattuale, che instaurano rapporti di collaborazione con i clienti, senza tuttavia permettere loro di interferire più dello stretto necessario; • process delivery: è il caso dell’imballaggio, in cui il componente vero e proprio è stato progettato autonomamente dal cliente, mentre il processo produttivo è stato sviluppato insieme con il fornitore. Il processo decisionale è stato separato, in quanto il fornitore ha lavorato con ampia autonomia, il tutto complicato dalla presenza di ben quattro attori. L’esempio mostra un caso di evidente insuccesso, che ci aiuta a capire i limiti di applicazione di questa forma di codesign. La relazione descritta è fallita per vari motivi, in particolare la presenza di troppi attori, le limitate capacità del fornitore selezionato e la sostanziale novità del componente e del relativo processo produttivo. Questo tipo di relazione invece risulta adatto a innovazioni incrementali affidate a fornitori di comprovata competenza e affidabilità, ai quali è quindi possibile delegare intere fasi del processo di ingegnerizzazione senza incorrere in rischi eccessivi; • joint process development: è il caso dello sportello, per il quale è stato sviluppato un nuovo processo produttivo con un processo decisionale condiviso fra cliente e fornitore, che hanno interagito strettamente lungo tutte le fasi del codesign. Questa modalità di interazione è adatta all’introduzione di innovazioni radicali nel processo produttivo: anche se cliente e fornitore hanno forti competenze nei rispettivi ambiti, l’importanza e la novità del progetto richiedono una stretta interazione. Questa tipologia di rapporto può essere adottata anche con un altro scopo, quello di aiutare fornitori nuovi e/o inesperti affinché sviluppino le competenze necessarie a svolgere quanto loro richiesto. I programmi di sviluppo dei fornitori contemplano frequentemente trasferimento di know-how manageriale e organizzativo. È quello che sarebbe stato

16. La gestione della partnership ) 599

Innovazioni radicali di prodotto

16.2.3

Coinvolgimento precoce

Attività in parallelo

appropriato nel caso dell’imballaggio: il nuovo fornitore doveva essere subito coinvolto nello sviluppo del processo produttivo e sostenuto affinché raggiungesse i risultati richiesti; • joint function development: si tratta della forma più onerosa di collaborazione, in quanto consiste nello sviluppo di un componente innovativo tramite un processo decisionale condiviso. D’altro canto, tuttavia, questa è la forma di codesign che permette di raggiungere i risultati più importanti, in termini di ottenimento di vantaggi di differenziazione tramite innovazioni radicali che incorporano le competenze di cliente e fornitore. Nel caso Whitegoods viene gestito in questo modo il cardine, che risulta un progetto fallimentare da tutti i punti di vista. Questo esempio illustra prima di tutto i margini di rischio insiti in questo tipo di codesign e la necessità di identificare un componente, degli obiettivi e dei partner idonei prima di avviare una collaborazione del genere. Normalmente è necessario che sia cliente sia fornitore siano leader tecnologici nei rispettivi ambiti e si impegnino entrambi nel raggiungimento di innovazioni radicali chiaramente identificate.

Tecniche e strumenti Come abbiamo visto, il codesign comporta un’interazione fra cliente e fornitore maggiore rispetto a un acquisto a catalogo o a una subfornitura. Inoltre tale interazione, oltre a essere più intensa, deve anche avvenire in uno stadio più anticipato del processo di sviluppo di nuovi prodotti. In particolare, è necessario che il cliente coinvolga il fornitore ben prima di aver completato la progettazione del prodotto in cui il componente dovrà integrarsi, in modo da anticipare eventuali vincoli o interferenze. Si parla in questo caso di early supplier involvement (coinvolgimento anticipato del fornitore). Lo scopo di questo approccio in realtà è duplice: da un lato attivando subito il fornitore si cerca di ridurre il tempo complessivo di sviluppo del prodotto finito (time to market), dall’altro si vogliono sfruttare al meglio le competenze del partner per massimizzare l’innovatività e la qualità del nuovo prodotto. In questo modo le diverse fasi del processo di sviluppo vengono svolte in parziale sovrapposizione (Figura 16.4): la progettazione dei componenti avviene prima di aver congelato l’architettura complessiva del prodotto, così come l’ingegnerizzazione avviene prima di aver congelato i singoli componenti (simultaneous engineering). Questo comporta l’avvio di una fase prima di aver definito nel dettaglio le specifiche: i fornitori ricevono requisiti funzionali di massima e spesso viene loro richiesto di contribuire a definire le caratteristiche di dettaglio dei componenti di loro competenza. Ma come viene realizzata in pratica tale modalità di collaborazione? Vi sono diversi strumenti a disposizione delle aziende per favorire l’interazione fra cliente e fornitore in fase progettuale: • teamworking: vengono creati gruppi di lavoro misti, composti da progettisti di entrambe le aziende coinvolte. Spesso questi team

600 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Figura 16.4 SOVRAPPOSIZIONE DELLE FASI DELLO SVILUPPO NUOVI PRODOTTI Progettazione dell’architettura

Progettazione dei componenti

Progettazione del processo produttivo

sono interfunzionali, in quanto possono includere designer di prodotto, ingegneri di processo e tecnici di produzione, al fine di garantire la massima integrazione fra i componenti e il prodotto finito e fra prodotto e processo produttivo; • colocation: affinché un team interaziendale possa operare al meglio, spesso le persone che lo compongono devono lavorare fianco a fianco, nello stesso luogo. Per questo motivo si decide di trasferire temporaneamente alcuni tecnici di un’azienda presso il partner: si tratta dei cosiddetti guest engineers; • strumenti informatici: l’utilizzo ormai pervasivo di strumenti informatici nelle attività di progettazione, dall’ormai storico CAD/CAM (Computer Aided Design/Manufacturing) agli strumenti di prototipazione rapida e virtuale, al più recente PLM (Product Lifecycle Management) (si veda anche il Caso 11.3), ha permesso di gestire tutte le fasi dello sviluppo dei prodotti su base digitale, riducendone i tempi e i costi, nonché aumentandone le potenzialità. Oltre ai benefici forniti alla singola azienda, questi strumenti permettono anche una migliore interazione a distanza con i partner. Rappresentazioni digitali a due e tre dimensioni, ad esempio, possono essere scambiate in tempo reale, permettendo ai progettisti di interagire on line. Sebbene questa modalità di lavoro sia ormai divenuta uno standard, la presenza di molteplici formati crea a volte problemi inattesi di incompatibilità e perdita di informazioni; • interazione a distanza: per ridurre i tempi e i costi delle riunioni, spesso vengono utilizzati strumenti di comunicazione, a partire da quelli più semplici come il telefono e l’e-mail fino a quelli più sofisticati come teleconferenze, videoconferenze, webmeeting ecc. che permettono di interagire in tempo reale anche con persone situate molto lontano. I vantaggi di questa modalità sono evidenti, tuttavia è bene sottolinearne anche i limiti: per quanto sofisticate, queste tecnologie non permettono ancora di raggiungere il livello di interazione che si instaura in presenza. In particolare questi strumenti non permettono di sviluppare dinamiche realmente informali (si pensi ad esempio all’effetto “coffee machine” citato nel capitolo 2).

16. La gestione della partnership ) 601

16.3

La collaborazione operativa

16.3.1

Obiettivi e requisiti

Efficienza e coordinamento

Impatto sulle performance

Veniamo ora al secondo ambito fondamentale di collaborazione fra cliente e fornitore: il processo logistico-produttivo. In particolare, la collaborazione operativa consiste nel coordinamento fra cliente e fornitore nell’ambito delle attività di previsione della domanda, determinazione dei fabbisogni, emissione dell’ordine, produzione, spedizione, consegna, ricezione, controllo qualità, fatturazione e pagamento. Nell’ambito di una relazione di mercato puro (competitivo), questo ciclo di operazioni viene effettuato tra due imprese che potrebbero interagire per la prima e ultima volta, di conseguenza vi è un limitato interesse ad adottare tecniche e strumenti volti a migliorarne l’efficienza e l’efficacia. Al contrario, nell’ambito di una relazione continuativa il ciclo di queste operazioni si ripete numerose volte ed emergono sia la necessità sia la possibilità di effettuarle nel modo più coordinato ed economico possibile. L’adozione di qualsiasi forma di coordinamento è di per sé già un passaggio da un rapporto conflittuale, di mercato puro, a uno con caratteristiche collaborative. Il caso Textile Machines ci ha mostrato come le due aziende, dopo aver progettato congiuntamente il sistema di controllo per il nuovo orditoio, abbiano sentito la necessità di coordinarsi in fase di produzione, attraverso la condivisione dei piani di produzione del cliente, che determinavano il fabbisogno di componenti. Non è indispensabile, tuttavia, che vi sia o vi sia stata collaborazione tecnologica per passare a quella operativa: molte aziende, pur continuando a progettare prodotti, componenti e processi produttivi separatamente, adottano forme avanzate di coordinamento del ciclo logistico-produttivo. Ad esempio nel settore alimentare i grandi produttori di marca (Nestlé, Danone, Unilever ecc.) collaborano intensamente sul piano operativo con i grandi distributori (ad esempio WalMart e KMart negli Stati Uniti; Tesco e Sainsbury’s nel Regno Unito; Carrefour e Metro nell’Europa continentale; Coop ed Esselunga nel nostro Paese). Tuttavia il processo di sviluppo di nuovi prodotti delle aziende alimentari di solito non coinvolge i distributori, in quanto i produttori si presentano sul mercato finale con il proprio brand, indipendentemente da chi ne effettua la vendita. Vale la pena aggiungere che anche in questo contesto esistono delle eccezioni: da tempo ormai il potere contrattuale dei distributori è diventato molto elevato, tanto da arrivare a presentare prodotti a marchi proprio (i cosiddetti private labels), che a volte sono realizzati dagli stessi produttori sopra citati, che collaborano quindi con i clienti anche in fase di sviluppo. Lo stesso avviene addirittura con prodotti di marca, che vengono realizzati in versioni personalizzate per una specifica catena di distribuzione. Ma perché clienti e fornitori instaurano rapporti di collaborazione operativa? Quali obiettivi perseguono? In sintesi possiamo dire che si punta a migliorare tutte le prestazioni, appunto, operative: i costi (efficienza), i tempi (velocità e affidabilità), la qualità e la flessibilità (Tabella 16.1).

602 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Tabella 16.1 OBIETTIVI DELLA COLLABORAZIONE OPERATIVA Efficienza

Si punta a ridurre i costi eliminando attività burocratiche, migliorando il coordinamento fra cliente e fornitore al fine di evitare sprechi, semplificando i processi e cercando di porre entrambi nelle condizioni di poter operare al meglio.

Velocità

Il coordinamento e la collaborazione permettono di ottimizzare i tempi e quindi ridurre il lead time di produzione e consegna del fornitore, e di conseguenza anche del cliente verso il mercato.

Flessibilità

La collaborazione operativa mira anche ad aumentare la capacità di variare il mix di produzione e le date di consegna, in modo da seguire al meglio le richieste del mercato finale. Non si punta quindi soltanto a una rapidità di esecuzione in un contesto rigido, ma a ottenere flessibilità in modo da far fronte a una domanda altamente variabile.

Qualità

La collaborazione operativa ha tra i suoi obiettivi anche l’aumento della conformità, attraverso lo scambio di conoscenze e informazioni, al fine di ridurre i tempi e i costi legati al controllo, alla restituzione dei prodotti, alle rilavorazioni e alla caduta di immagine.

Livello di servizio La collaborazione mira infine a migliorare la puntualità e la completezza delle consegne, ovvero il livello di servizio offerto dal fornitore, che si riflette nella possibilità per il cliente di operare senza imprevisti e quindi servire al meglio i clienti finali.

Categorie di acquisti

Competenze e motivazione

Fiducia e scambio informativo

Affinché cliente e fornitore siano realmente interessati e in grado di instaurare una collaborazione operativa, devono essere soddisfatti alcuni requisiti. Prima di tutto, come già accennato, ha senso parlare di collaborazione quando si tratta di un rapporto prolungato nel tempo, non certo di una transazione spot. Inoltre, come nel caso della collaborazione tecnologica, ogni forma di relazione ha un costo di realizzazione, quindi non è giustificata per tutti i rapporti di fornitura. In particolare è utile ricorrere a questa modalità per quei componenti che nel capitolo 15 sono stati definiti “colli di bottiglia”, quei componenti cioè il cui approvvigionamento risulta critico e dei quali non si può fare a meno. Lo stesso vale per i componenti strategici, in quanto caratterizzati anch’essi da una certa difficoltà del mercato di fornitura; in questo caso l’elevata rilevanza strategica spesso fa sì che l’integrazione operativa si affianchi al codesign. Più in generale, è opportuno investire laddove i ritorni potenziali sono elevati, quindi nelle forniture particolarmente inefficienti o con quei fornitori che rappresentano una porzione significativa degli acquisti. Inoltre non è possibile realizzare una collaborazione operativa con qualsiasi fornitore, ma è necessario identificare quelli che hanno le competenze, le risorse tecnologiche, manageriali ed economiche, la motivazione e l’interesse a impegnarsi in questo senso. A questo scopo è utile, come visto nel capitolo precedente, utilizzare accuratamente il vendor rating, nonché considerare la possibilità di ridurre il parco fornitori, in modo da sfruttare gli investimenti effettuati nella collaborazione con un fornitore per approvvigionare un numero più ampio di componenti. Infine, risulta anche in questo caso critica la fiducia, in quanto la collaborazione operativa comporta comunque uno scambio di informazioni e conoscenze, nonché l’instaurazione di un legame di medio-lungo termine; tutto questo è possibile soltanto se esiste un livello sufficiente di trust nella controparte.

16. La gestione della partnership ) 603

16.3.2

Il primo livello: la visibilità

Comunicazioni bidirezionali automatizzate

I costi della visibilità

Livelli di collaborazione operativa Nel caso Textile Machines abbiamo visto una forma di collaborazione operativa piuttosto semplice: la condivisione dei piani di produzione. Si tratta di un mero scambio di informazioni, senza alcun cambiamento nelle modalità operative delle due aziende. In questo modo esse sono in grado di pianificare meglio le proprie attività grazie alla maggiore disponibilità di dati. La comunicazione dei piani di produzione è solo un esempio di condivisione di informazioni al fine di ottenere visibilità sul partner, che può essere considerata il primo livello della collaborazione operativa (Cagliano, Caniato e Spina, 2003). Come ci mostra l’esempio di Rhiag (Caso 16.3), la condivisione dei piani di produzione è solo una delle molteplici forme che questo tipo di collaborazione può assumere: cliente e fornitore possono scambiarsi informazioni sulle previsioni di domanda, sulle attività promozionali, sugli ordini ricevuti, sullo stato delle consegne, sulle giacenze di materiali, componenti e prodotti a scorta ecc. La logica comune è sempre quella di fornire al partner tutte le informazioni che possono metterlo in grado di pianificare le proprie attività nel modo più efficiente ed efficace possibile, garantendo da un lato la soddisfazione della domanda, ma dall’altro ottimizzando i lotti di produzione e spedizione, le scorte e la capacità produttiva. Un ulteriore ambito di condivisione delle informazioni riguarda le prestazioni del fornitore, come visto a proposito del vendor rating nel capitolo 14: il feedback tempestivo permette di tenere sotto controllo tutti i parametri rilevanti e di intervenire rapidamente in caso di scostamenti. Anche la comunicazione in senso inverso, cioè dal fornitore al cliente, permette a quest’ultimo di conoscere subito eventuali problemi insorti presso il fornitore e di cercare di cautelarsi. Inoltre è bene ricordare che il ciclo logistico-produttivo comporta anche attività di tipo amministrativo, quali l’emissione dell’ordine, la trasmissione di documenti di accompagnamento, la fatturazione, il pagamento: tutte queste attività comportano uno scambio di informazioni che deve comunque avvenire, ma che può essere reso più veloce, completo ed efficiente tramite l’adozione di strumenti informatici di comunicazione e l’integrazione fra i sistemi informativi dei partner. Non si tratta in questo caso di condividere informazioni che potrebbero non venire comunicate, ma di migliorare lo scambio informativo al fine di ridurne i costi ed evitare ostacoli per l’intero ciclo logistico-produttivo. Sebbene concettualmente semplice, la visibilità non è a costo nullo: condividere informazioni articolate richiede un’infrastruttura di comunicazione e soprattutto la definizione di standard condivisi. Tutto questo è oggi possibile a costi inferiori rispetto al passato, ma non trascurabili. Discuteremo le principali modalità nel paragrafo successivo.

604 ) PARTE IV – ACQUISTI

CASO

E SUPPLY CHAIN

16.3

Rhiag Fondata nel 1962, Rhiag è il principale distributore italiano di componenti per auto, veicoli industriali e trattori, con un fatturato in continua crescita che nel 2011 si è assestato intorno ai 500 milioni di euro. La società, che ha sede a Milano ma fa parte di un gruppo internazionale che opera anche in Svizzera e nell’Est Europa, può contare su un’offerta di oltre 80 linee di prodotto, con quasi 90 mila riferimenti, che vanno dai ricambi meccanici a quelli elettrici ed elettronici; dai climatizzatori ai lubrificanti; dagli elementi di carrozzeria a quelli del telaio; nonché a tutte quelle parti che vengono definite di “rettifica motore” (come pistoni, canne, fasce e bronzine); ai sistemi termici (radiatori, riscaldatori e intercooler) e di climatizzazione. Presente da quasi cinquant’anni sul mercato, Rhiag offre prodotti certificati di qualità originale, sovente di primo equipaggiamento da parte del produttore (che possono quindi essere usati su automobili in garanzia) al servizio prima di tutto dei ricambisti, che costituiscono la clientela primaria, e dei rettificatori e autoriparatori indipendenti. La sua rete distributiva, estesa a tutto il territorio nazionale, è costituita da 2 magazzini centrali e 17 filiali, controllate direttamente da Rhiag, che servono oltre 4000 clienti. Rhiag ha da sempre creduto nelle potenzialità della condivisione informativa (supportata dalle tecnologie per la collaborazione di filiera) come strumento per l’ottimizzazione della gestione delle relazioni sia con clienti che con fornitori; il suo business, infatti, poggia principalmente su servizi online abilitati dall’information technology, che garantiscono massima visibilità ai fornitori e migliori servizi, continuità e disponibilità di prodotto ai clienti. Uno dei progetti più rilevanti è costituito da una Web Extranet a supporto della ricezione degli ordini da parte dei ricambisti, alla quale hanno accesso più dell’80% dei clienti. Il portale (www.rhiag.com) non è soltanto un sito di e-commerce con funzionalità di catalogo online e sistema di acquisto e pagamento, ma anche uno strumento in grado di aiutare la clientela nel suo lavoro (in modo tale da costituire un differenziale competitivo) e, nello stesso tempo, migliorare le performance dell’intera supply chain. Il portale permette al cliente di selezionare un ricambio ed effettuare ordini tramite quattro modalità (inserimento manuale del codice, caricamento da file, selezione da catalogo elettronico e ricerca del pezzo mediante immagine); una volta selezionato il ricambio desiderato, viene visualizzata la disponibilità del pezzo nella filiale più vicina al rivenditore e, nel caso in cui il codice non sia disponibile, viene comunicato il tempo in ore per farlo pervenire al ricambista. Dopo la ricerca del ricambio, il portale permette di scaricare informazioni tecniche, schemi e istruzioni, tabelle di confronto e quant’altro può servire alle attività di installazione; è inoltre possibile controllare lo stato degli ordini e ricercare negli archivi i documenti di trasporto di ordini passati. Nel caso in cui il ricambio non sia presente a stock, l’applicativo permette di inoltrare l’ordine al fornitore, a garanzia di un soddisfacimento della richiesta nel più breve tempo possibile. A sua volta Rhiag supporta il processo di approvvigionamento di componenti e ricambi sia tramite TecCom (piattaforma per l’aftermarket automobilistico) che attraverso altre soluzioni di tipo Web EDI; complessivamente, gli acquisti fatti secondo tali modalità corrispondono circa all’80% del totale. Il fatturato generato mediante la Extranet ha raggiunto, nel 2011, il 75% del totale vendite; le righe d’ordine trasmesse online, in particolare, sono passate dal 28 all’85% negli ultimi otto anni. Il lancio di una infrastruttura virtuale (e la sua verificata efficacia) ha anche consentito a Rhiag di raddoppiare il portafoglio di servizi offerti ai propri clienti e di incrementarne sensibilmente la qualità. Oltre alla semplice fornitura di prodotto, sono stati sviluppati servizi di formazione (come l’erogazione online di corsi per i ricambisti), promozione (supporto alle attività di sell-out del ricambista), IT (sviluppo di software e applicazioni per il miglioramento dei processi gestionali del ricambista) e supply chain management (pratiche correlate e fidelizzanti per il miglioramento delle performance del ricambista). In quest’ultimo ambito, in particolare, rica-

16. La gestione della partnership ) 605 dono le iniziative di VMI che, ad oggi, riguardano quasi tutti i maggiori clienti dell’azienda (70% del fatturato complessivo). Secondo tale pratica, Rhiag gestisce direttamente i magazzini dei clienti sulla base della domanda attesa e dei carichi di magazzino precedentemente concordati. Grazie all’integrazione informativa dal 2006 è stata riscontrata una riduzione media dello stock dei clienti del 20% (con conseguente riduzione del 25% dei giorni di copertura), un incremento del sell-in Rhiag del 21% e del sell-out cliente del 29%. Fonte: www.rhiag.com.

Il secondo livello: l’integrazione

Investimenti ingenti

16.3.3

Come visto nel caso Rhiag, la collaborazione operativa si può spingere anche oltre alla visibilità per giungere a un livello superiore, che chiameremo integrazione. Integrare i sistemi logistico-produttivi di cliente e fornitore significa accoppiarli fisicamente, con modalità che vanno ad alterare il modo di operare di ciascuna parte, con un costo e un impatto decisamente più elevato rispetto alla sola condivisione di informazioni. Si tratta di un passo successivo alla visibilità, e anzi richiede che essa sia già ben sviluppata. Costruire l’integrazione operativa richiede, ad esempio, la creazione di capacità produttiva dedicata al cliente, o la collocazione fisica del magazzino o addirittura dello stabilimento produttivo del fornitore nei pressi di quello del cliente, se non addirittura nello stesso comprensorio industriale (colocation). Altre possibili forme sono la delega al fornitore della gestione delle scorte di componenti, la pianificazione congiunta della produzione e dei riapprovvigionamenti o, ancora, l’adozione di un sistema just-in-time. Queste varie tecniche verranno discusse in dettaglio nel prossimo paragrafo. Possiamo concludere che esistono svariate modalità di collaborazione operativa, che vanno al di là della pura condivisione di informazioni e comportano una vera e propria integrazione delle attività di cliente e fornitore. Alti livelli di integrazione comportano ingenti investimenti dedicati e quindi possono essere realizzati soltanto nell’ambito di una collaborazione di lungo periodo.

Tecniche e strumenti Passiamo ora in rassegna le diverse modalità con le quali le imprese possono realizzare i due livelli di collaborazione operativa definiti nel paragrafo precedente. Consideriamo dapprima il livello della visibilità. Come visto in precedenza, all’interno di questa definizione sono comprese svariate tipologie di informazioni che possono essere scambiate fra cliente e fornitore, che si differenziano quindi per il contenuto dello scambio informativo. Tuttavia è chiaro che esiste un secondo problema da affrontare: la scelta del mezzo di comunicazione, cioè dell’infrastruttura utilizzata per veicolare tali informazioni. Nel seguito si illustrano le principali tecnologie adottate dalle aziende a questo scopo:

606 ) PARTE IV – ACQUISTI

Soluzioni ad hoc

Soluzioni ibride

La rete per tutti

E SUPPLY CHAIN

• strumenti tradizionali. Telefono e fax, sebbene limitati nelle potenzialità, sono ancora oggi uno strumento molto utilizzato per interagire con clienti e fornitori. In particolare fino a pochi anni fa il fax era l’unica alternativa alla lettera tradizionale avente valore legale, ma oggi con l’introduzione della firma digitale e della Posta Elettronica Certificata (PEC) è destinato a scomparire o, quantomeno, a ridimensionarsi. Oggi l’e-mail è diventata uno strumento indispensabile di comunicazione, ma rimane una forma destrutturata, che non permette una reale integrazione dei sistemi informativi di cliente e fornitore; • sistemi proprietari. Alcune imprese hanno adottato strumenti e formati di comunicazione sviluppati internamente o integrati in sistemi gestionali proprietari, quindi non standardizzati. Queste soluzioni, sebbene abbiano permesso di raggiungere gli obiettivi di condivisione delle informazioni, sono spesso risultate molto costose e rigide, oltre a contribuire alla proliferazione di formati diversi; • EDI. È l’acronimo di Electronic Data Interchange, una tecnologia di scambio asincrono di dati in formato elettronico creata prima della diffusione di Internet, basata su standard internazionali e linee dedicate. Sebbene molto costosa, ha avuto notevole diffusione in quei settori, quali ad esempio l’automotive, caratterizzati da grandi aziende sia fra gli assemblatori, sia fra i produttori di componenti, sia fra i distributori. Questi soggetti avevano la capacità di investimento e la convenienza a dotarsi di questo strumento, e ancora oggi ne fanno largo uso avendo investito in passato nella creazione dell’infrastruttura. Analogamente succede, ad esempio, fra i grandi produttori e i grandi distributori di beni di largo consumo; • EDI su Internet (Web EDI). La diffusione della rete ha permesso di continuare a utilizzare gli standard preesistenti abbattendo notevolmente i costi di trasmissione delle informazioni. Questa modalità viene adottata, per esempio, dalle aziende che già avevano attivato una connessione EDI con i principali fornitori, che ora possono estendere lo scambio informativo anche ad altri, inclusi quelli più piccoli o meno disposti a effettuare investimenti. L’evoluzione più recente è lo scambio asincrono di dati via Internet direttamente in formato XML (abbandonando quindi gli standard EDI); • Extranet. Molte aziende oggi utilizzano Internet per comunicare con clienti e fornitori, utilizzando dei portali, ad accesso riservato, tramite i quali vengono scambiate le informazioni. Ad esempio, un cliente può permettere ai fornitori di controllare autonomamente le giacenze dei propri componenti, consentendo loro l’accesso diretto al proprio sistema informativo via web. In questo modo si ribalta completamente la logica tradizionale: non è più il cliente che trasmette informazioni, ma è il fornitore che autonomamente è tenuto a procurarsele. Queste soluzioni possono essere sviluppate direttamente dalle aziende, in base alle proprie esigenze, oppure è possibile utilizzare i servizi di operatori specializzati che forniscono una piattaforma comune, sulla quale ciascuno condivide le informazioni desiderate con i partner abilitati. Il costo di realizza-

16. La gestione della partnership ) 607

zione di queste soluzioni può variare molto, ma in genere è rilevante per chi crea il portale, mentre i partner accedono a costi ridotti tramite browser. Tuttavia è bene ricordare che l’utilizzo efficace di questi strumenti richiede cambiamenti organizzativi e nel modo di lavorare che comportano anch’essi costi tutt’altro che trascurabili. Esistono numerosi esempi di queste applicazioni: il caso Rhiag ce ne ha mostrata una creata autonomamente dall’azienda cliente per gestire i rapporti con i clienti (ricambisti). Un esempio di piattaforma indipendente, utilizzata da più clienti e fornitori, è TecCom, specializzata nelle relazioni business-to-business nel mercato dei ricambi per auto, citata sempre nel caso Rhiag. Nel box seguente presentiamo invece due fondamentali tecnologie di rilevamento delle informazioni, che non sono quindi finalizzate direttamente alla condivisione, ma ne costituiscono un presupposto.

I sistemi di identificazione Codici a barre: oggigiorno praticamente qualsiasi oggetto è accompagnato da un codice a barre (rilevabile da un apposito lettore tramite un raggio laser) riportato sull’involucro, sull’imballaggio, su un cartellino di accompagnamento, se non sull’oggetto stesso. Questa tecnologia ormai consolidata e pervasiva rappresenta la modalità fondamentale con la quale viene registrata la posizione di un prodotto lungo la catena logistica, di un componente all’interno di un processo produttivo, in generale di un qualsiasi oggetto nel proprio contesto d’uso (le applicazioni di questa tecnologia sono innumerevoli). Radio Frequency Identification (RFID): se il codice a barre da anni rappresenta lo standard, l’RFID è già oggi una realtà e rappresenta lo standard di domani. Si tratta di un sistema di identificazione basato sull’utilizzo di un chip (tag) dotato di antenna, capace quindi di trasmettere in radiofrequenza, che può essere collocato su un prodotto o un imballaggio analogamente a un codice a barre. Il vantaggio è la possibilità di “leggere” il contenuto del chip (più ricco di un codice a barre), senza aver bisogno che il lettore “veda” direttamente l’oggetto: è sufficiente che il chip transiti nel raggio di azione del lettore. È sostanzialmente il principio su cui si basa il sistema Telepass sulle autostrade italiane, ma con la differenza che i nuovi tag sono molto meno ingombranti e non richiedono di essere alimentati a batteria. I vantaggi di questa tecnologia sono numerosi: dalla possibilità di conoscere in tempo reale il contenuto esatto di un magazzino alla lettura istantanea del contenuto di un carrello in un supermercato. Chiaramente il passaggio dai codici a barre all’RFID comporta una serie di costi non trascurabili: nuove infrastrutture tecnologiche, nuovi standard da definire, necessità di un’adozione diffusa perché se ne possano godere i benefici (esternalità di rete). Inoltre vi sono problemi di natura normativa (ad esempio alcune frequenze in Italia sono attualmente riservate a usi militari), e dubbi legati alla tutela della privacy (ad esempio i tag potrebbero venire letti a distanza anche quando i prodotti entrano nelle case dei consumatori). Le applicazioni di questa tecnologia sono già numerose: fra i pionieri ci sono colossi della grande distribuzione quali WalMart e Metro e alcuni loro importanti fornitori, quali Gillette e Procter&Gamble, ma non è infrequente oggi trovare tag anche sui capi di abbigliamento, senza contare le tessere contactless utilizzate ad esempio sui mezzi pubblici o nei comprensori sciistici.

608 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Consideriamo ora il livello più spinto di collaborazione operativa: l’integrazione. Abbiamo accennato, nel paragrafo precedente, alle principali tecniche utilizzate a questo scopo; le riprendiamo ora per illustrarle in maggior dettaglio, rimandando a testi specialistici – Christopher (2005), Chase et al. (2004) – per ulteriori approfondimenti:

Le scorte al fornitore

Consegne frequenti

Analisi congiunte

• vendor managed inventory (VMI): con il VMI le scorte del cliente vengono gestite direttamente dal fornitore, che ha visibilità sul livello di giacenza e sui piani di produzione del cliente, se non addirittura sulla domanda a valle e sulle attività promozionali, e in base a queste informazioni provvede autonomamente a riapprovvigionare la merce. In una relazione caratterizzata dal VMI il cliente demanda quindi al fornitore la gestione del flusso di componenti in ingresso al processo produttivo, concordando preventivamente un livello di disponibilità da garantire, e cercando di ottimizzare le scorte di conseguenza. Il VMI quindi si basa su un alto livello di visibilità, e comporta inoltre il trasferimento al fornitore di una decisione tipicamente presa dal cliente, in un contesto di collaborazione in cui gli obiettivi di entrambi i partner sono la massimizzazione della disponibilità e la minimizzazione delle scorte. In questo modo infatti non è più necessario tenere le scorte sia presso il fornitore sia presso il cliente, e chi decide i riapprovvigionamenti dispone delle migliori informazioni possibili per ottimizzare le scorte e la produzione; • consignment stock: si tratta di una tecnica molto simile al VMI. Il cliente ha nel suo spazio produttivo un magazzino di proprietà del fornitore. Egli preleva ciò di cui necessita e paga in base al proprio consumo. La differenza sostanziale rispetto al VMI, quindi, consiste nella proprietà della merce, che rimane del fornitore finché il cliente non la preleva, con vantaggi per quest’ultimo in termini di flussi di cassa; • continuous replenishment (CR): questa forma di coordinamento, anch’essa simile al VMI, è nata nel mondo della grande distribuzione, e fa riferimento quindi al rapporto fra produttore e distributore. I clienti condividono le informazioni sulle giacenze nei loro centri distributivi, sulle vendite e su eventuali azioni promozionali. Il produttore ogni giorno rifornisce i clienti in modo da mantenere le scorte all’interno di un range prestabilito con il distributore e allocando i prodotti fra i vari clienti in base alle previsioni di vendita. Il prerequisito fondamentale, oltre ovviamente alla visibilità, è la possibilità di consegnare rapidamente a costi contenuti ai clienti, con elevata frequenza. In questo modo vengono ridotte fortemente le scorte, pur garantendo la disponibilità dei prodotti, che anzi aumenta in quanto migliora la capacità di prevedere l’effetto di azioni promozionali; • collaborative planning, forecasting and replenishment (CPFR): anche il CPFR nasce nel mondo della distribuzione, ma, a differenza dei metodi descritti finora, si fonda su decisioni congiunte piuttosto che delegate ai fornitori. In pratica produttore e distributore condividono tutte le informazioni rilevanti già discusse e formulano entrambi previsioni di domanda, con un anticipo com-

16. La gestione della partnership ) 609

Decisioni condivise

Tenersi vicino i fornitori

Nel posto giusto al momento giusto

patibile con il lead time produttivo. Il sistema informativo di supporto confronta tali previsioni ed evidenzia, per ciascun periodo, i singoli prodotti per i quali cliente e fornitore hanno previsto una domanda significativamente diversa. A questo punto le parti si incontrano e insieme risolvono la divergenza, in modo da giungere a una previsione condivisa, e quindi a pianificare la produzione e le consegne. Il salto concettuale rispetto alle tecniche precedenti non è quindi tanto nello strumento informatico di supporto, che semplicemente confronta le previsioni ed evidenzia eventuali scostamenti, quanto nella modalità completamente nuova di pianificare il ciclo logistico-produttivo, che avviene in modo collaborativo. Evidentemente vi è una notevole complessità organizzativa e la necessità di accettare l’“intrusione” del partner nel proprio ambito decisionale (si veda anche www.vics.org); • colocation: la vicinanza geografica dei fornitori consente di ridurre i tempi di consegna e di conseguenza il livello delle scorte. È chiaro che un rapporto di fornitura del genere va di pari passo con la crescita e l’evoluzione dei rapporti di partnership: per poter garantire consegne personalizzate e frequenti nel tempo vi deve essere un rapporto intenso di lungo periodo. Ad esempio Dell, uno dei leader mondiali nella vendita di personal computer, ha ottenuto che i principali fornitori installassero magazzini nei pressi degli stabilimenti di assemblaggio, in modo da permettere un rapido approvvigionamento. I produttori di automobili, che negli ultimi decenni hanno aperto stabilimenti prima in Sud America, poi in Est Europa e ora in Cina, hanno chiesto ai loro sistemisti di fare altrettanto. In Italia lo stabilimento di Melfi della Fiat, nato agli inizi degli anni Novanta per realizzare la Punto, e con essa risollevare la società in crisi, aveva introdotto nel nostro Paese l’idea di integrare i fornitori dentro lo stabilimento del cliente; • just-in-time (JIT): nata nel mondo automotive e diffusa poi nei contesti più disparati, la logica JIT viene spesso intesa con un’accezione ampia di “filosofia” di progettazione di un sistema produttivo (o di un’intera filiera), ispirata ai modelli giapponesi e alla lean production. In questa sede vogliamo limitarci a considerare il termine nella sua accezione più ristretta, come logica di coordinamento fra due fasi successive del ciclo logistico-produttivo, in particolare fra cliente e fornitore. Come illustrato dal nome stesso, JIT significa consegnare al cliente esattamente nel momento in cui necessita la fornitura, direttamente nel luogo di utilizzo. L’esempio forse paradigmatico è quello di Toyota, che riceve dal fornitore kit di sedili direttamente sulla linea di assemblaggio, esattamente nella variante richiesta dalle automobili in produzione, che non sono mai una uguale all’altra. In questo modo vengono ridotte al minimo o addirittura eliminate le scorte intermedie, si sincronizzano le attività del cliente e del fornitore e si evita il rischio di produrre componenti che non verranno utilizzati (si veda anche il Caso 6.1 sull’industria automobilistica giapponese). Chiaramente questa logica presuppone una progettazione adeguata dei prodotti e dei processi

610 ) PARTE IV – ACQUISTI

Logica “pull”

E SUPPLY CHAIN

produttivi, nonché un’intensa condivisione di informazioni, altrimenti rischia di spostare semplicemente l’accumulazione di scorte presso il fornitore, aggiungendo l’onere di consegne rapide e frequenti, ma senza creare reali benefici (per approfondimenti sul sistema JIT si veda il classico Monden, 1983); • Kanban: rappresenta lo strumento più diffuso per implementare una logica di tipo JIT: si tratta, semplicemente, di un cartellino (cartaceo o elettronico) indicante un articolo, una quantità e poche altre informazioni, che esprime una richiesta tra una postazione di lavoro e la sua precedente. Il “cartellino”, con i suoi spostamenti lungo il processo, determina il flusso produttivo “ordinando” le lavorazioni necessarie mediante la logica pull, cioè chiamando da valle le sottoparti o le lavorazioni necessarie in funzione dei fabbisogni del momento (il box seguente illustra il funzionamento del Kanban). Il sistema Kanban è pensato per regolare il flusso di produzione e movimentazione tra due stadi qualunque di un processo. Vi sono due applicazioni principali: la prima riguarda due reparti consecutivi di produzione (uno a valle e uno a monte) nello stesso impianto; la seconda riguarda due impianti, quello del cliente (a valle) e quello del fornitore (a monte). Questa seconda variante costituisce appunto un meccanismo di integrazione operativa dei flussi fisici tra cliente e fornitore in un’ottica di partnership.

Kanban: uno strumento per la gestione pull Il termine giapponese kanban significa “cartellino”. Il sistema fu messo a punto da Toyota negli anni Sessanta e negli anni Ottanta divenne celebre in tutto il mondo. Il flusso di attività viene gestito proprio tramite cartellini che costituiscono il trasferimento di informazioni tra gli stadi della filiera. Oggi, ovviamente, i cartellini sono stati sostituiti da applicativi informatici molto più precisi ed efficienti, ma la logica di gestione rimane la stessa. Esistono sistemi a uno e a due cartellini; di seguito viene illustrato a titolo esemplificativo il caso di due cartellini (movimentazione e produzione). Un aspetto peculiare del kanban consiste nel fatto che il numero di cartellini in circolazione definisce in modo inequivocabile la quantità massima di work-in-progress che può esistere all’interno del sistema: 1. Quando lo stadio a valle necessita di nuove parti da lavorare, esso ritira un contenitore standard dallo stock di materiale (work-in-progress), parcheggiato in entrata; tale ritiro è accompagnato dall’invio di un apposito cartellino di movimentazione nella rastrelliera dei kanban di movimentazione (ordine di movimentazione, vedi punto 3); 2. Quando il materiale prelevato dallo stadio a valle è stato interamente utilizzato, il contenitore viene inviato allo stadio a monte; 3. La presenza nella rastrelliera di un kanban di movimentazione ordina allo stadio a monte di inviare un contenitore pieno all’area in entrata nello stadio a valle, il kanban di produzione viene rimosso dal contenitore e inserito nella rastrelliera di produzione dello stadio a monte (ordine di produzione, vedi punto 4); 4. La presenza di un kanban di produzione ordina allo stadio a monte di prelevare un contenitore dalla propria area in ingresso e avviarne la produzione (come nel punto 1 accadeva per lo stadio a valle, il kanban di movimentazione viene inserito nell’apposita rastrelliera); 5. I materiali prodotti vengono disposti in un contenitore che viene successivamente inviato

16. La gestione della partnership ) 611 nell’area in uscita e contrassegnato tramite un kanban di produzione prelevato dalla relativa rastrelliera. Stadio a monte (fornitore)

Stadio a valle (cliente) 2

2

5 4 4

M 4 M

1 4

1 5

P 3

M

3

P

P 1 M

P

M

P

3 P

M Scorte di semilavorati in entrata

M

P Scorte di semilavorati in uscita

M

P

Scorte di semilavorati in entrata

Scorte di semilavorati in uscita

Flusso dei contenitori standard

Contenitori pieni

Flusso dei kanban di movimentazione (M)

Contenitori vuoti

Flusso dei kanban di produzione (P)

Fonte: tratto da Bartezzaghi, Spina e Verganti (1999).

16.4

Sinergie

Verso la partnership completa Il caso Textile Machines (Caso 16.1) ci ha mostrato un esempio di partnership abbastanza articolato, in cui si instaura dapprima una collaborazione tecnologica, per poi avviarne anche una operativa. Abbiamo visto nei paragrafi precedenti come in realtà si tratti di due ambiti di collaborazione relativamente indipendenti, che possono essere intrapresi in modo autonomo. Tuttavia, lo sviluppo di una collaborazione completa, che coinvolga sia la progettazione sia il ciclo logistico-produttivo, può fornire vantaggi addizionali rispetto alla somma di quelli delle singole forme di collaborazione. In particolare la progettazione congiunta dei prodotti e dei processi produttivi, se avviene già in ottica di una futura collaborazione operativa, può permettere di massimizzare i benefici di quest’ultima. Soprattutto l’integrazione del ciclo logistico-produttivo richiede spesso una progettazione mirata, mentre non sarebbe possibile instaurare le forme più spinte di collaborazione operativa senza averle previste già in sede di sviluppo. Si pensi ad esempio alle forniture just-in-time del settore automotive: spesso i componenti vengono progettati congiuntamente non solo per ottimizzarne le prestazioni, il costo e l’interazione con il prodotto finito, ma anche per sviluppare un ciclo logistico-produttivo che permetta la sincronizzazione fra cliente e fornitore, con la definizione di contenitori standard per un rapido ed efficiente trasporto direttamente sulle linee di assemblaggio (si veda a proposito

612 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

l’esempio di Smart, Caso 16.4). Come vedremo nel prossimo capitolo, progettazione congiunta e collaborazione operativa sono alla base delle strategie emergenti di gestione della supply chain. CASO

16.4

Smart Presentata al Salone dell’Automobile di Ginevra nel 1998, la Smart, la city-car a due posti del gruppo Daimler-Benz che ha avuto un successo particolare nelle grandi città italiane, non è stata soltanto un’innovazione di prodotto, ma anche l’attuazione in forma radicale dei principi sviluppati nel settore automobilistico nei decenni precedenti. La Smart è realizzata da Smart GmbH (fino al 2002 nota come Micro Compact Car Smart GmbH), una società autonoma appositamente creata, in uno stabilimento completamente nuovo a Hambach (Francia), denominato Smartville. Il cuore dell’impianto è un edificio cruciforme che contiene la linea di assemblaggio principale; dai bracci si diramano strutture più piccole che ospitano i sette fornitori di primo livello (sistemisti), scelti fra i leader internazionali. Molti di loro hanno partecipato allo sviluppo dell’automobile sin dalle prime fasi, come responsabili della progettazione, produzione e assemblaggio dei principali sottosistemi modulari, fra i quali vi sono telaio, trasmissione, porte, carrozzeria (pannelli plastici), freni, luci e cruscotto. Le parti rimanenti provengono da altri 16 fornitori, meno integrati, alcuni relativamente distanti. I sistemisti, che a loro volta coordinano una rete di fornitori di secondo livello, lavorano in modo sincronizzato con la linea di assemblaggio principale, alla quale fanno arrivare i loro moduli tramite nastri trasportatori. Le scorte sono drasticamente ridotte e i fornitori non solo pre-assemblano i vari sistemi nelle adiacenze della linea principale, ma spesso completano l’assemblaggio direttamente su di essa, dove si affiancano operatori di diverse aziende. Nel 2002 il processo produttivo è giunto a regime, con un tempo di produzione ridotto a quattro ore e mezzo e un ritmo di un’automobile ogni 90 secondi, ognuna diversa dalla precedente. I dieci fornitori principali, che includono i tre operatori logistici che movimentano materiali e automobili finite, sono responsabili dell’85% del costo totale. Smart, al contrario, si occupa soltanto del 6% delle attività manifatturiere. Fonte: Automotive Intelligence, www.autointell.com.

In questo capitolo abbiamo approfondito la gestione dei rapporti di partnership nei mercati industriali. Come osservato in precedenza, nella più generale tendenza verso l’outsourcing questi rapporti giocano un ruolo chiave per costruire vantaggi competitivi difficilmente raggiungibili attraverso i tradizionali processi di acquisto nei mercati competitivi. Abbiamo discusso ampiamente le due dimensioni fondamentali delle partnership: la collaborazione tecnologica (o codesign), che ha per oggetto i processi di innovazione e sviluppo dei nuovi prodotti e servizi, e la collaborazione operativa, che ha per oggetto il ciclo produttivo e logistico dei beni scambiati. Per ciascuna di queste dimensioni abbiamo illustrato le principali tecniche e strumenti di supporto. Sulla scorta di queste considerazioni possiamo ora affrontare l’ultimo capitolo, dedicato al supply chian management, ovvero all’estensione delle logiche di collaborazione e coordinamento a tutta la filiera, dalle materie prime ai mercati finali di consumo.

17 Supply chain management Gestione di una rete complessa di imprese

SOMMARIO

17.1

Dagli acquisti al supply chain management

CASO

17.1 Introduzione al supply chain management j 17.2 Le strategie per la supply chain j 17.3 Il valore dell’informazione nella supply chain j 17.4 Driver e barriere alla collaborazione

Introduzione al supply chain management Nei capitoli precedenti è emerso come il contesto competitivo in continua evoluzione sposti il livello di competizione: il successo di un’impresa non si ottiene semplicemente tramite la gestione delle attività caratteristiche, ma dipende dalle relazioni che l’impresa stessa è in grado di sviluppare con i propri fornitori. Se ampliamo la prospettiva, è intuitivo concludere che il successo competitivo deriva anche dall’insieme di relazioni che si instaurano a monte con i diversi livelli di fornitura e a valle con i propri clienti. Ciò richiede capacità di visione e di governo dell’intera filiera produttiva (da cui il termine supply chain management, o in modo più appropriato, supply network management). Naturalmente le tendenze verso l’outsourcing (cfr. capitolo 15) non fanno che accentuare la rilevanza di questi approcci. Il caso Mozzini (Caso 17.1) illustra come il successo dell’impresa sia fortemente legato alle interazioni che esistono tra i diversi attori di una filiera produttiva.

17.1

Mozzini: le complessità di una supply chain In un pomeriggio piovoso d’autunno, M.M., Amministratore delegato della Mozzini S.p.A., volge lo sguardo al di fuori della finestra del suo ufficio e guarda sconsolato le pile di container di scatole per lo sterzo grezze e sbavate sparse per tutto il parcheggio dell’azienda. Il magazzino non è abbastanza capiente da accogliere tutti i pezzi prodotti dalla fonderia e dalle sbaverie. Come se non bastasse, M.M. osserva la propria scrivania, senza riuscire a spiegarsi tutti quei reclami provenienti dai clienti a causa dei continui ritardi nelle consegne.

614 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

L’impresa e la filiera produttiva del settore automotive Mozzini è un gruppo italiano di medie dimensioni con un fatturato di circa 150 milioni di euro e il suo business principale è basato sulla progettazione e sulla produzione di scatole per lo sterzo. Il gruppo è fornitore diretto sia delle principali case automobilistiche europee (ad esempio Fiat, Audi, Mercedes, Volvo) sia dei principali sistemisti (ad esempio SMI, TRW), a loro volta fornitori di case automobilistiche in tutto il mondo. L’azienda ha da sempre basato il proprio successo sulla qualità dei prodotti e sulle sue competenze nelle tecnologie di presso-fusione. La strategia competitiva si focalizza su componenti complessi e ad alta marginalità; di conseguenza i processi di progettazione degli stampi e di prototipazione sono critici. Le radici del gruppo sono nella fonderia (Mozzini), dove le diverse leghe di alluminio sono presso-fuse per realizzare le scatole grezze fuse. La lega di alluminio ha da sempre costituito una sorta di business parallelo per il Presidente del gruppo: A.M., padre di M.M. Il Presidente compie abitualmente acquisti speculativi sul mercato dell’alluminio; l’aspetto chiave è dunque comprare e vendere la materia prima al momento giusto, e per questo motivo la gestione della scorta è basata più sui fattori ciclici e finanziari del mercato della materia prima che sulle reali esigenze logistiche e produttive. Nonostante questo, grazie all’abilità di A.M., la fonderia non ha mai avuto problemi di disponibilità di alluminio. La filiera produttiva da questo primo stadio al cliente finale è sempre stata piuttosto complessa, fin dagli anni Settanta. In alcuni casi, le scatole grezze fuse erano inviate a imprese esterne, di seguito denominate sbaverie, per le lavorazioni di sbavatura prima di rifornire i clienti (sistemisti o direttamente case automobilistiche). In questo caso i clienti stessi completavano il processo con lavorazioni meccaniche e assemblaggio finale del sistema sterzante completo. In altri casi, Mozzini consegnava ai clienti le scatole finite, pronte per l’assemblaggio finale, gestendo direttamente il lavoro in conto terzi di sbaverie e officine meccaniche. Pressioni nel settore: variabilità della domanda, aspettative dei clienti e livello di servizio Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, i grandi clienti iniziarono a stabilire alti standard qualitativi per tutti i componenti acquistati; questa tendenza rese molto critico e costoso il processo di controllo della qualità presso le sbaverie e le officine meccaniche esterne. Al tempo stesso, la variabilità della domanda e il carico del lavoro tanto in fonderia quanto nelle sbaverie e officine esterne iniziarono a essere fuori controllo e imprevedibili. A causa della volatilità della domanda, il livello di servizio diminuì drammaticamente, nonostante l’aumento delle scorte accumulate lungo l’intera filiera. I problemi logistici e produttivi furono ulteriormente enfatizzati dallo scarso coordinamento tra fonderia, sbaverie e officine meccaniche. Per rispondere a queste tendenze, nel 1992 A.M. ed M.M. decisero di acquisire Noro, una delle più grandi e affidabili officine meccaniche della zona. Dopo le difficoltà iniziali di integrazione, durante gli anni Novanta le prestazioni del gruppo migliorarono e furono acquisite nuove grandi commesse. Verso la fine degli anni Novanta i clienti cominciarono a divenire più esigenti in termini di prestazioni logistiche e tempi di consegna. Gli ordini iniziarono ad avere cadenza giornaliera e divenne sempre più difficile formulare una previsione attendibile. Inoltre, alcuni clienti cominciarono a richiedere a Mozzini l’adozione del VMI (Vendor Managed Inventory) presso i loro stessi magazzini, ovvero la gestione delle scorte di materiali presso il cliente da parte del fornitore. Problemi nella gestione delle attività produttive e logistiche All’interno della Mozzini e presso le sbaverie sono tutt’oggi presenti numerosi problemi. F.B., Direttore della fonderia, deve continuamente bilanciare i lotti di produzione con la continua variabilità della domanda. Egli sostiene di non poter seguire la domanda a causa del processo produttivo in fonderia. Gli altoforni funzionano 24 ore al giorno su 3 turni, ma il problema principale riguarda le presse: ogni pezzo ha un suo stampo dedicato, e il cambio di stampo

17. Supply chain management ) 615 per il passaggio dalla produzione di una scatola all’altra richiede in media 5 o 6 meccanici per 15 ore. Per questo motivo, la dimensione dei lotti deve essere sufficientemente grande da assorbire gli elevati costi di attrezzaggio e non può adattarsi alla variabilità del mercato. S.R., Direttore di Noro, sostiene che le sue linee produttive sono abbastanza flessibili per seguire la volatilità della domanda, ma il suo problema è legato alla disponibilità di componenti provenienti dalla fonderia o dalle sbaverie esterne; spesso i componenti richiesti dal mercato non sono in magazzino ed egli non può soddisfare le esigenze dei clienti. Sacco, una delle sbaverie esterne, sostiene di non poter continuare a gestire ordini urgenti giorno dopo giorno. La programmazione della produzione è diventata inutile, in quanto non si possiedono dati sulla domanda finale e sui piani di produzione di Mozzini e di Noro. Sacco riceve gli ordini a volte tramite fax e a volte tramite e-mail, ma non esiste nessuna procedura standard di coordinamento. Questo modo di lavorare ha ridotto notevolmente il livello di servizio e la qualità dei componenti. Tutti questi problemi stanno mettendo sotto pressione il Direttore della logistica, L.T., il quale ricopre un ruolo di collegamento e di interfaccia tra la fonderia, le sbaverie e l’officina meccanica, e mantiene i contatti con i clienti per la programmazione delle consegne. Tali consegne avvengono sempre più tramite trasporti eccezionali organizzati giorno per giorno, per inseguire le urgenze, a causa del frammentato processo di produzione. Ovviamente, questo causa elevati costi logistici. Come se non bastasse, L.T. ha una parziale visibilità sul magazzino della fonderia, ma non ha idea di quali siano i livelli di scorta presso Noro e le sbaverie esterne. I risultati della situazione sono di fronte agli occhi dell’Amminstratore delegato: cumuli di container di pezzi grezzi e sbavati fuori dalla finestra e pile di reclami da parte dei clienti sulla propria scrivania.

Evoluzione storica

Sebbene il termine supply chain management sia comparso nella letteratura manageriale solamente negli anni Ottanta, i concetti di fondo basano le loro radici in ambito logistico fin dall’inizio degli anni Sessanta: l’associazione professionale americana Council of Supply Chain Management Professionals (CSCMP) definisce la distribuzione fisica come l’insieme di attività svolte al fine di alimentare il processo produttivo di un’impresa con le materie prime e di distribuire il prodotto finito ai propri clienti. Nel corso degli anni Settanta viene enfatizzata l’integrazione tra le attività di approvvigionamento, pianificazione, produzione e distribuzione di materiali, componenti e prodotti finiti. Finalmente, è negli anni Ottanta che emerge il termine supply chain management come integrazione di flussi fisici e informativi oltre i confini della singola impresa, coinvolgendo quindi la catena dei fornitori e dei clienti: dai fornitori di materie prime fino ai consumatori finali. Lo sviluppo dei sistemi informativi e la continua attenzione alla creazione di valore lungo la filiera produttiva portano negli anni Novanta a una proliferazione di termini, di fatto tra loro simili: network sourcing, supply pipeline management, network supply chain, supply base management, value chain management, value stream management. Oggi possiamo dire che una definizione consolidata e olistica di supply chain management è quella fornita da Metz nel 1998:

616 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Il supply chain management è un approccio orientato ai processi per la gestione dei flussi fisici, informativi ed economico-finanziari lungo l’intera rete di fornitura e di distribuzione, dai fornitori iniziali fino ai clienti finali. Processi, flussi e rete

Flussi di ritorno

Smaltimento e riutilizzo

Le tre parole chiave di questa definizione sono: processi, flussi e rete. Il primo aspetto alla base del concetto di supply chain management è dunque l’estensione della gestione per processi (si veda il capitolo 5) al di fuori dei confini aziendali. Ciò implica il coordinamento di attività che coinvolgono non solo diverse unità organizzative aziendali, ma anche diverse imprese, con la complessità che ovviamente ne deriva. Questi processi, rappresentati nella Figura 17.1, includono la gestione della relazione con i clienti finali e le attività di marketing, la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti da lanciare sul mercato, la gestione e la previsione della domanda, la gestione degli ordini lungo la supply chain, le attività di produzione, logistica e distribuzione, i servizi ai clienti (dai servizi di assistenza pre-vendita a quelli di post-vendita), la gestione del parco fornitori, e infine le attività di reverse logistics. Quest’ultimo aspetto riguarda specialmente i prodotti di consumo durevoli giunti al termine della loro vita utile, e consiste nel ritiro delle apparecchiature per smaltirle, eventualmente smontarle (disassembly) al fine di recuperare e riutilizzare i componenti ancora validi. Nel 2005 è stata recepita in Italia una direttiva europea che impone ai produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche (elettrodomestici bianchi, audio-video, computer e stampanti ecc.) di prevedere opportuni processi di ritiro, smaltimento e riutilizzo dei propri prodotti (RAEE, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche), fin dal momento in cui vengano immessi sul mercato. Il secondo connotato forte del supply chain management è l’enfasi sui flussi fisici, informativi ed economico-finanziari. Occorre infatti coordinare la produzione e il trasporto di materie prime, componenti e prodotti finiti lungo l’intera filiera produttiva. Inoltre, a ogni attività soFigura 17.1 I PROCESSI DI SUPPLY CHAIN MANAGEMENT

Fonte: adattato da Lambert e Cooper (2000).

17. Supply chain management ) 617

Propagazione della domanda

Catene e reti

Ottica globale e della singola impresa

no associate delle informazioni che risultano indispensabili per il corretto coordinamento di tutti gli attori coinvolti. Mentre i flussi fisici di beni sono prevalentemente rivolti dalle fonti di materie prime (monte) verso i mercati intermedi e finali (valle), i flussi informativi per lo più risalgono la filiera. Gli ordini dei finali vengono trasmessi allo stadio a monte e questo, a sua volta, trasmette ordini allo stadio ancora a monte. In tal modo la domanda si propaga da valle a monte, con una velocità variabile che dipende dalle scorte accumulate presso ogni stadio e dalle politiche di acquisto. Infine, poiché ovviamente i flussi fisici implicano cessioni di beni da un’impresa a un’altra nella filiera, si hanno transazioni e relativi flussi finanziari che da valle risalgono verso monte. Nella logica cooperativa del supply chain management è fondamentale gestire correttamente l’attribuzione di valore lungo la filiera, per dar luogo a transazioni che siano soddisfacenti per tutti i partner. L’ultimo concetto chiave di questa definizione è la rete di fornitura e di distribuzione. Osservata dall’esterno una supply chain ci appare come un insieme di imprese che operano in cascata, dalle fonti iniziali di materie prime fino ai consumatori finali. Ciascuno stadio della filiera non è quasi mai formato da una sola impresa, sia perché le imprese tendono ad avere più clienti e più fornitori anche nei rapporti collaborativi sia perché la realizzazione di prodotti complessi richiede la fornitura di materiali, parti e sottosistemi. La filiera dunque raramente si configura come una catena in senso stretto. Di conseguenza, una supply chain, osservata non già dall’esterno, bensì dal punto di vista di una singola impresa che opera al suo interno, consiste di due reti distinte, una a monte (upstream network) formata dai fornitori diretti, dai “fornitori dei fornitori” via via fino alle fonti, e una a valle (downstream network), formata dai clienti diretti, dai canali distributivi e, eventualmente, dai “clienti dei clienti”, fino ai consumatori o agli utilizzatori finali. La Figura 17.2 rappresenta questa prospettiva di analisi. Ognuna delle due reti presenta un determinato numero di livelli (dimensione verticale), e ogni livello include un numero di imprese clienti o fornitori (dimensione orizzontale).

Figura 17.2 LA SUPPLY CHAIN VISTA DALL’IMPRESA Rete a valle a

1

1

1 2

2 j

m

n Fornitori 2× livello

1

Fornitori 1× livello

b

i

Azienda

Clienti 1× livello

Clienti 2× livello

Mercato finale

Rete a monte

618 ) PARTE IV – ACQUISTI

Supply chain dei servizi

17.2

E SUPPLY CHAIN

Sebbene le radici del supply chain management siano molto vicine al mondo della logistica e della distribuzione fisica, esso si è connotato sempre più come disciplina strategico-organizzativa; la recente attenzione alla supply chain dei servizi ne è un esempio evidente. Si pensi all’esempio Eni Servizi, già presentato nel capitolo 15, Caso 15.6. Si tratta della società del Gruppo ENI che fornisce servizi integrati agli edifici, alle persone e a supporto del business per tutte le società del Gruppo. L’azienda si trova a fornire una vasta gamma di servizi ai propri clienti, dalla manutenzione degli edifici alla gestione del servizio mensa, alla gestione degli spazi. Molti di questi servizi sono a loro volta terziarizzati a fornitori esterni, i quali possono avvalersi di altri attori ancora. In un contesto di questo tipo esistono problemi di efficienza, di livello di servizio, di bilanciamento delle risorse produttive, di pianificazione delle attività, di condivisione delle informazioni e di gestione dei flussi economico-finanziari. Ebbene, tali tematiche sono tipiche del supply chain management, anche se il contesto non è strettamente quello produttivo o della distribuzione fisica.

Le strategie per la supply chain Le supply chain evidenziano diverse modalità di gestione, in funzione delle prestazioni chiave su cui le imprese che ne fanno parte hanno intenzione di costruire il loro vantaggio competitivo, e delle caratteristiche del mercato in cui operano.

17.2.1

Trade-off

ICT e collaborazioni

Le prestazioni chiave: costo e servizio Le prestazioni complessive di una supply chain dipendono dalle decisioni di più attori. Il caso Filtrex (Caso 17.2) ci mostra come diverse politiche di gestione dei magazzini (a livello locale) e di gestione delle spedizioni e delle procedure amministrative (a livello centrale) influenzano fortemente le performance globali. In generale, il costo logistico totale sostenuto da una rete di imprese e il livello di servizio fornito al cliente finale sono le due dimensioni principali di performance. Tra costo e servizio esiste la classica relazione di trade-off (illustrata nel capitolo 5): le azioni finalizzate a contenere il costo logistico totale rischiano di penalizzare il livello di servizio e, viceversa, migliorare il livello di servizio richiede costi addizionali. La sfida strategica è naturalmente quella di migliorare il trade-off esistente, ovvero di ridurre i costi aumentando o almeno conservando il livello di servizio. Come? Attraverso l’innovazione, le tecnologie informatiche e, soprattutto, la collaborazione tra gli attori della filiera.

17. Supply chain management ) 619

CASO

17.2

Filtrex: le prestazioni rilevanti La Filtrex produce e commercializza una vasta gamma di filtri attivi per impianti di depurazione e di trattamento delle acque. L’azienda ha sede, stabilimento e magazzino centrale in Veneto. Il mercato della Filtrex è per il 40% nazionale, per il 30% europeo e per il 30% nordamericano. In conseguenza di ciò, la Filtrex serve il mercato nazionale direttamente dalla sede, mentre dispone di due filiali commerciali, rispettivamente ad Amburgo e a Chicago. I clienti della Filtrex sono installatori e manutentori di impianti di depurazione. Ciascuna filiale dispone di un magazzino che mantiene scorte dei prodotti a maggiore rotazione. Per ridurre i costi di struttura, la Filtrex ha deciso di centralizzare tutta la gestione amministrativa. Di conseguenza, la fatturazione e la gestione dell’incasso sono svolte dalla sede centrale. Dato un certo livello di servizio che le filiali vogliono o devono offrire ai clienti, la politica dell’Ufficio spedizioni volta a minimizzare i costi di trasporto, ad esempio ricorrendo a mezzi e vettori economici ma lenti o poco affidabili, può obbligare le filiali a mantenere scorte più elevate nei magazzini periferici, facendo lievitare i costi di mantenimento a scorta e quelli di affitto, pur di tenere un adeguato livello di servizio. Al contrario, utilizzare mezzi di trasporto più costosi ma veloci e puntuali può consentire la riduzione degli spazi affittati nei depositi periferici e la centralizzazione delle scorte, diminuendo così i costi di mantenimento e quelli delle infrastrutture. Analoghi vantaggi possono derivare da investimenti per automatizzare e velocizzare le procedure dell’Ufficio amministrativo per l’evasione dell’ordine, pur a fronte di costi amministrativi più elevati. In ogni caso, a prescindere dall’opportunità o meno di simili azioni, ciò che conta è il costo logistico totale, la cui ottimizzazione non si ottiene semplicemente minimizzando i costi delle singole attività del processo (la determinazione dei livelli di scorta, l’evasione dell’ordine, il trasporto, il magazzinaggio ecc.). Infatti, se i decisori agiscono indipendentemente, senza la visione globale del processo, cercheranno di minimizzare i costi di propria competenza, senza percepire gli effetti delle azioni intraprese localmente sulle performance delle altre attività. Il costo logistico totale, a sua volta, è fortemente legato al livello di servizio fornito ai clienti (in termini di tempo di consegna e/o probabilità di soddisfare una richiesta specifica entro un dato tempo). La diminuzione del costo logistico totale potrebbe impattare negativamente sul livello di servizio fornito dalle filiali. Analogamente, per aumentare il livello di servizio potrebbe essere necessario sostenere maggiori costi logistici, in termini di livello delle scorte, politiche di trasporto e/o procedure amministrative.

Il costo logistico totale è costituito da un insieme di costi elementari che è necessario sostenere lungo la supply chain per consegnare i prodotti al cliente finale. Le componenti principali sono il costo di mantenimento a scorta dei componenti e dei prodotti finiti, il costo legato alle attività di movimentazione e imballaggio dei materiali, il costo dei trasporti, e infine quello dei processi di gestione della domanda e di elaborazione degli ordini dei clienti. È evidente che questi costi sono generati all’interno di più unità organizzative nelle aziende che fanno parte della supply chain: dalle unità di pianificazione e programmazione ai reparti e linee di produzione, dalla logistica alla distribuzione fisica, dagli acquisti ai sistemi informativi.

620 ) PARTE IV – ACQUISTI Le dimensioni del servizio

Gli effetti del disservizio

E SUPPLY CHAIN

Il concetto di livello di servizio è multidimensionale e può essere misurato con diversi criteri. Livello di servizio significa ad esempio tempi di consegna, puntualità, flessibilità nella modifica degli ordini, o ancora corrispondenza tra l’ordinato e il consegnato, disponibilità della merce a magazzino e integrità fisica del carico. Tuttavia, al di là della varietà di misure di volta in volta adottate, i parametri che universalmente sono riconosciuti come parte del servizio in senso “logistico” sono relativi ai tempi di consegna, alla puntualità e alla pronta disponibilità dei prodotti. Osservando le aziende che compongono una supply chain non è difficile individuare quali sono i costi principali e da chi sono sostenuti; al contrario, non è immediato comprendere chi, tra gli attori coinvolti, potrebbe essere svantaggiato da un basso livello di servizio nei confronti del cliente finale. Consideriamo ad esempio la distribuzione di beni di largo consumo. Il concetto di livello di servizio reso al cliente finale coincide in larga misura con la disponibilità del prodotto a scaffale. Quali sono dunque gli impatti del basso livello di servizio? La Tabella 17.1 illustra le possibili reazioni del cliente di fronte all’indisponibilità del prodotto. I dati sono tratti da una ricerca su un campione di consumatori americani e si basano sulle risposte dirette dei consumatori alla domanda: “Che cosa fa se non trova il prodotto che cerca sullo scaffale?”. Ai nostri fini i valori numerici non sono rilevanti in quanto tali. Inoltre, essi cambiano nello spazio e nel tempo, poiché consumatori di aree geografiche differenti o di gruppi sociali diversi manifestano comportamenti e preferenze differenziati e che si modificano nel tempo. Ciò che è più interessante è invece riflettere sulle conseguenze dei comportamenti del consumatore, che sono diverse per il produttore e il distributore. In primo luogo il cliente potrebbe essere disposto a ritardare l’acquisto e tornare nel punto vendita il giorno o la settimana successiva, magari perché ha comunque una scorta domestica residua. In questi casi, il danno per il produttore e il distributore è limitato alla vendita posticipata e dunque con un effetto sul capitale circolante. Vi sono però comportamenti che hanno impatti ben più gravi. L’acqui-

Tabella 17.1 COMPORTAMENTO DI ACQUISTO A FRONTE DI UN BASSO LIVELLO DI SERVIZIO Prodotto

Caffè Dentifricio Cibo per neonati Shampoo Marmellata Carta igienica

Reazione del cliente quando non trova il prodotto a scaffale Acquisto rimandato nello stesso punto vendita

Acquisto di un altro brand nello stesso punto vendita

Acquisto dello stesso brand in un altro punto vendita

30% 15% 19% 15% 22% 21%

33% 37% 37% 25% 58% 55%

37% 48% 44% 60% 20% 24%

Fonte: adattato da Heskett (1994).

17. Supply chain management ) 621

Potenza del brand

Equità della collaborazione

Privilegiare il servizio

sto di un prodotto simile di un’altra marca o addirittura di un prodotto sostitutivo produce un effetto molto negativo sul produttore a causa della mancata vendita, la quale, nel medio termine, potrebbe trasformarsi in perdita definitiva del cliente e dunque influenzare negativamente la quota di mercato. Il distributore potrebbe al più subire qualche variazione nel margine dovuta al diverso mix di vendita. Infine, il cliente potrebbe mostrare tutta la sua fedeltà al produttore e decidere di recarsi presso un altro punto vendita alla ricerca del prodotto desiderato. Questo è il caso di prodotti a marchio forte – si pensi a CocaCola, all’Ovetto Kinder o alle lamette da barba Gillette – per i quali la fedeltà media del cliente è molto alta. Ovviamente, in quest’ultimo caso, l’impatto della rottura di stock ricade integralmente sul distributore. Come si vede nella Tabella 17.1 i comportamenti a basso impatto (acquisto ritardato) sono percentualmente minoritari anche se variabili a seconda della categoria merceologica. Al contrario i comportamenti ad alto impatto – sul produttore o sul distributore – sono percentualmente dominanti. Possiamo facilmente concludere che il basso livello di servizio ha gravi conseguenze sulla supply chain, e cliente e fornitore – in questo caso distributore e produttore di marca – dovrebbero cercare di accordarsi per mantenere elevato il livello di servizio, nell’interesse di entrambi. Naturalmente ciò richiede collaborazione e investimenti congiunti. È un tema assai critico e, infatti, non sempre le imprese trovano le condizioni per un’equa distribuzione dei benefici e dei costi della collaborazione. Nel seguito nel capitolo illustreremo come, attraverso opportuni contratti, si possono distribuire i costi e i benefici tra gli attori della filiera. Torniamo alla questione del trade-off tra costo e servizio. Ogni supply chain deve definire le proprie priorità competitive e valutare il posizionamento migliore in termini di costo e servizio. Vi sono tre approcci differenti per la gestione di questo trade-off (Figura 17.3): • approccio di marketing: viene data priorità al livello di servizio, che viene stabilito in funzione della concorrenza e delle aspettative dei

Figura 17.3 LA GESTIONE DEL TRADE-OFF TRA COSTO E SERVIZIO costi ricavi Approccio analitico Approccio di marketing

Approccio di budget Livello di servizio

622 ) PARTE IV – ACQUISTI

Privilegiare l’efficienza

Ottimizzare il trade-off

17.2.2

E SUPPLY CHAIN

clienti, solitamente su valori piuttosto elevati. Il livello di servizio in quanto elemento essenziale delle scelte distributive è in effetti una variabile della strategia di marketing (si veda il capitolo 13). Ad esempio, nel settore della ricambistica per auto è fondamentale garantire un elevato livello di servizio alle officine per non perdere quote di mercato a favore di altri ricambisti; il cliente in genere decide, infatti, di montare il primo componente disponibile. Le scelte logistico-distributive (scorte, magazzini, trasporti) partono dall’assunto che gli standard di servizio (tempo di consegna, puntualità ecc.) promessi devono essere mantenuti a ogni costo; • approccio di budget: viene data la priorità alla riduzione del costo logistico, definendo un budget massimo di spesa col quale cercare di soddisfare al meglio le richieste dei clienti. La gestione logistica cerca di ottimizzare il servizio con le risorse a disposizione. Ad esempio nel settore delle acque minerali il costo di trasporto ha una forte incidenza sul costo del prodotto. I produttori e i distributori puntano alla minimizzazione dei costi logistici, cercando di soddisfare per quanto possibile la domanda del mercato; • approccio analitico: in questo caso ci si pone l’obiettivo di ottimizzare il trade-off tra costo e servizio, quantificando l’impatto economico di quest’ultimo. In particolare l’approccio analitico richiede una stima delle funzioni di costo e di ricavo al variare del livello di servizio. In teoria questo approccio consente di scegliere la combinazione costo-servizio che garantisce il margine più elevato (si veda la Figura 17.3) ed è dunque concettualmente superiore ai due approcci precedenti. In pratica si scontra con molte difficoltà, poiché la stima delle funzioni è tutt’altro che semplice. Di conseguenza esso è utilizzato raramente, ad esempio da alcune imprese del settore della grande distribuzione organizzata che controllano costantemente i costi logistici e il livello di servizio erogato e sono dunque in grado di ottimizzare il trade-off. In ogni caso, a parte le difficoltà di applicazione, l’approccio analitico conserva una sua validità soprattutto come riferimento concettuale. Infatti, anche se non si è in grado di stimare quantitativamente le funzioni di costo e ricavo, il modello qualitativo delle due curve suggerisce che il livello di servizio ottimale non è in generale quello massimo possibile: oltre un certo valore i costi crescono molto più dei benefici e il margine si assottiglia.

Le quattro strategie di base Negli ultimi anni, imprese dei settori più disparati hanno adottato nuove strategie che tendono a spostare il trade-off tra costo e servizio, sviluppando così supply chain sempre più efficienti e sempre più veloci. Le strategie emergenti possono essere classificate lungo due dimensioni: la tipologia di prodotti e la tipologia di processi (Lee, 2002). I prodotti possono essere standard o innovativi. Per prodotti standard intendiamo prodotti di massa con un ciclo di vita piuttosto lungo, distribuiti su larga scala, per i quali la domanda è relativamente stabile o quantomeno prevedibile – ad esempio molti prodotti ali-

17. Supply chain management ) 623

mentari, la maglieria, la biancheria per la casa, i detergenti, gli elettrodomestici. In questi contesti si genera una forte concorrenza focalizzata prevalentemente sulla riduzione dei costi. Le principali cause di instabilità in questi mercati sono legate alle politiche commerciali da parte delle imprese stesse e agli acquisti speculativi da parte dei distributori. I prodotti innovativi, al contrario, sono caratterizzati da un ciclo di vita breve, domanda molto variabile e non facilmente prevedibile e alto grado di innovazione. Contrariamente al caso precedente, questi mercati offrono spesso forti marginalità dovute all’estrema differenziazione dei prodotti. Pensiamo ad esempio ai settori dell’abbigliamento firmato, dell’elettronica, delle telecomunicazioni. Il processo di fornitura per un determinato prodotto può essere stabile o instabile. I processi stabili sono caratterizzati da tecnologie di produzione e/o assemblaggio mature, reti consolidate e ben definite di fornitori, alti livelli di qualità e forte automazione nei processi produttivi. Alcuni esempi di settori che presentano processi stabili sono l’automobilistico, il tessile e i beni alimentari. I processi instabili presentano invece tecnologie in evoluzione e pertanto non ancora mature e consolidate, specifiche di prodotto non del tutto definite, reti di fornitura non ancora stabili e in continua evoluzione con relativi problemi di qualità e affidabilità nel processo; tutto ciò comporta un alto grado di incertezza sulla disponibilità della fornitura. Questo accade ad esempio nel settore dei semiconduttori a causa dell’innovazione tecnologica continua, ma anche nei settore energetico e agricolo a causa dell’incertezza nella disponibilità delle risorse. In funzione della variabilità della domanda e dell’instabilità del processo, ogni impresa dovrà individuare i propri fattori critici di successo e gestire in modo appropriato la supply chain, adottando rispettivamente strategie lean, responsive, risk hedging o agile, come suggerito dalla Figura 17.4.

Figura 17.4 STRATEGIE DI GESTIONE DELLA SUPPLY CHAIN

Bassa (prodotti standard)

Alta (prodotti innovativi)

Bassa

Supply chain efficiente (lean)

Supply chain reattiva (responsive)

Alta

Instabilità del processo

Variabilità della domanda

Supply chain orientata alla gestione del rischio (risk hedging)

Supply chain agile (agile)

Fonte: tratto da Lee (2002).

624 ) PARTE IV – ACQUISTI

Contesto stabile

Pianificazione e automazione

CASO

E SUPPLY CHAIN

Supply chain efficiente (lean) Questa strategia è adatta quando la prevedibilità della domanda e la stabilità dei processi produttivi e logistici sono elevate. In questi casi si può perseguire una strategia di pura efficienza orientata al contenimento del costo logistico totale. In particolare, le aziende cercano di eliminare tutte le attività senza valore aggiunto perseguendo economie di scala nei processi operativi. Questo comporta generalmente una centralizzazione della pianificazione e della gestione delle scorte lungo la filiera tramite tecniche di ottimizzazione che riducano i costi operativi. Al fine di coordinare un sistema complesso e di ridurre i lead-time, diventa fondamentale l’automazione degli scambi informativi tra fornitori e clienti lungo la filiera. Strategie di tipo lean sono da tempo assai diffuse nel settore della distribuzione degli elettrodomestici, come illustrato nel Caso 17.3.

17.3

Whirlpool-Sears: una supply chain lean Già dagli anni Ottanta la distribuzione di elettrodomestici Whirlpool nel canale Sears (grande catena di distribuzione negli Stati Uniti) segue di fatto una strategia lean. L’eliminazione di tutte le attività non a valore aggiunto, la centralizzazione dello stock (gestito grazie a un’accurata previsione della domanda) e soprattutto l’automazione dei flussi informativi permettono al produttore e al distributore di ridurre i tempi operativi e i costi logistici, e al cliente finale di avere il nuovo elettrodomestico installato in casa nel giro di pochi giorni. Quando il cliente ordina il prodotto presso il punto vendita, l’ordine viene automaticamente reso visibile al magazzino centrale di Whirlpool. Entro il giorno successivo l’elettrodomestico in questione, insieme a tutti quelli ordinati il giorno precedente nei diversi punti vendita, viene consegnato al centro distributivo di Sears utilizzando trasporti a carico completo di prodotti vari a marchio Whirlpool. Nella notte tra il secondo e il terzo giorno dall’emissione dell’ordine gli elettrodomestici vengono smistati e spediti nei negozi specifici utilizzando carichi completi di prodotti vari di fornitori differenti. Questo approccio, noto col termine di cross-docking, è volto a ottimizzare i costi di trasporto, sincronizzando e coordinando le attività logistiche necessarie. Il terzo giorno l’elettrodomestico viene ricevuto e controllato nel punto vendita da personale specializzato. Infine, il quarto giorno il tecnico procede all’installazione presso la residenza del cliente. Fonte: Bowersox, Closs e Helferich (1986).

Riduzione dei lead time

Supply chain reattiva (responsive) In altri casi la domanda di mercato è fortemente variabile o comunque imprevedibile, la gamma di prodotti è ampia e, tuttavia, i processi operativi sono ormai consolidati. La strategia corretta porta a sviluppare supply chain reattive. Da una parte è difficile pianificare i fabbisogni dei prodotti finiti al fine di contenere le scorte. Dall’altra

17. Supply chain management ) 625

processi e tecnologie stabili e affidabili consentono di sviluppare una gestione flessibile. Diventa fondamentale la riduzione dei lead-time di approvvigionamento, produzione e distribuzione per rispondere prontamente alle esigenze del cliente. Il Caso 17.4 illustra un caso piuttosto noto di una strategia reattiva.

CASO

17.4

National Bycicle: una supply chain responsive Negli anni Novanta National Bycicle, importante produttore e distributore di biciclette di alta gamma in Giappone, ha iniziato ad adottare una politica reattiva per soddisfare le esigenze dei propri clienti. Si tratta di un mercato in cui la domanda è molto variabile e difficilmente prevedibile. Il cliente si reca nel punto vendita, visiona alcuni modelli esposti e consulta il catalogo che presenta oltre due milioni di combinazioni possibili. A questo punto configura il proprio prodotto scegliendo i singoli componenti e il loro colore: telaio, cambio, ruote, freni, accessori. L’ordine viene inviato istantaneamente allo stabilimento, vengono prelevati i componenti standard da magazzino, verniciati ad hoc, assemblati e inviati al punto vendita. Nel giro di due settimane il cliente può ritirare la propria bicicletta personalizzata presso il punto vendita. Fonte: Fisher (1997).

Strategie di backup

Supply chain orientata alla gestione del rischi (risk hedging) Esistono casi in cui la domanda di mercato è piuttosto prevedibile, ma le imprese devono cautelarsi da eventuali problemi nei processi operativi di fornitura, produzione o distribuzione. L’attenzione si rivolge in questo caso alla gestione dei rischi, i quali possono essere strutturali (ad esempio vincoli di capacità produttiva, problemi di qualità, scioperi, furti) oppure anomali (ad esempio incendi, alluvioni, terremoti, attacchi terroristici). Può essere opportuno dotarsi di alcune riserve o backup per affrontare eventuali crisi; un’impresa potrebbe ad esempio accumulare scorte di sicurezza con l’obiettivo di attenuare l’effetto di un eventuale problema produttivo o di fornitura. Oppure potrebbe selezionare alcuni fornitori di riserva da attivare nel caso in cui quelli abituali non fossero in grado di soddisfare le richieste (si veda l’esempio di Mercedes – Caso 15.2). Come anche gli approcci precedenti, questa strategia beneficia largamente della potenza dei sistemi informativi e di comunicazione che rendono disponibili in tempo reale i dati sulle scorte e la domanda lungo tutta la filiera. I diversi attori possono così coordinarsi velocemente per affrontare l’eventuale crisi. Il Caso 17.5 illustra un esempio di successo di una strategia risk hedging.

626 ) PARTE IV – ACQUISTI

CASO

E SUPPLY CHAIN

17.5

Nokia: una supply chain risk hedging A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, sia Nokia sia Ericsson iniziarono a rifornirsi da Philips per i chip a radiofrequenza dei propri cellulari. Questi chip venivano prodotti nell’impianto di Albuquerque in Nuovo Messico. Ericsson, al fine di minimizzare i costi, interruppe ogni altro rapporto di fornitura con imprese in grado di fornire tali componenti. Al contrario, Nokia decise di mantenere attivi un paio di fornitori con bassi volumi al fine di conservare un potenziale backup di fornitura. Nel marzo del 2000 l’impianto di Albuquerque bruciò a causa di un incidente e Philips non fu più in grado di rifornire i due clienti. Di fronte alla crisi Nokia riuscì rapidamente a modificare i disegni di alcuni componenti in modo che fossero compatibili con gli impianti produttivi dei due fornitori di backup; ciò permise di ristabilire la continuità produttiva in soli cinque giorni. Al contrario, Ericsson impiegò tre mesi per individuare un nuovo fornitore e ristabilire la propria supply chain con conseguenti ritardi di consegna e mancate vendite presso i punti vendita. Fonte: The Wall Street Journal, 29 gennaio 2001; Forrester Research (2003).

Supply chain agile (agile) Le filiere più complesse da gestire sono quelle in cui la domanda è fortemente variabile e/o imprevedibile e il processo di produzione/distribuzione è fortemente instabile. In questo caso è necessario essere in grado di combinare approcci reattivi e approcci di gestione del rischio; ciò anche a costo di modificare continuamente la propria supply chain per seguire le richieste del mercato e affrontare eventuali problemi di approvvigionamento, produzione e distribuzione. Il Caso 17.6 mostra un esempio di supply chain agile.

CASO

17.6

X-Box: una supply chain agile Nel 2000 Microsoft decise di entrare nel mercato dei videogiochi e si pose come obiettivo il lancio della prima X-Box per il Natale del 2001, in evidente concorrenza con l’uscita della PlayStation 2 di Sony. Flextronics, con sede a Singapore, fu selezionato come fornitore dell’hardware. Il fornitore si rese immediatamente conto che in quell’occasione il time-tomarket e il servizio di assistenza tecnica al cliente erano i fattori critici di successo, e di conseguenza decise di localizzare la produzione della nuova X-Box in Messico e in Ungheria, in prossimità dei due mercati di sbocco: Stati Uniti ed Europa. Questo ovviamente a scapito dei costi di produzione, maggiori che in Asia. Tale strategia permise a Microsoft di erodere una buona quota di mercato a Sony, la quale rispose nel corso del 2002 con un netto taglio dei prezzi del proprio prodotto. A questo punto, una volta stabilizzato il processo produttivo e risolti i problemi tecnici emersi in fase di lancio, Flextronics e Microsoft decisero di sposta-

17. Supply chain management ) 627 re tutta la produzione in Asia realizzando che i costi e l’efficienza della supply chain sarebbero diventati più critici della rapidità e della prossimità al mercato di sbocco. Alla fine del 2003, Microsoft aveva sottratto stabilmente il 20% di quota di mercato a Sony nel settore dei videogiochi grazie anche alla capacità di adattare la propria supply chain alle diverse situazioni contingenti e di realizzare cambiamenti importanti nel giro di pochi mesi. Fonte: Lee (2004).

Strategie miste

Efficienza a monte, efficacia a valle

17.2.3

In molti settori e in molte aziende convivono diverse strategie di supply chain, ad esempio per prodotti diversi. Gap, catena internazionale di abbigliamento, realizza e distribuisce tre distinte famiglie di prodotti, ognuna delle quali segue una strategia diversa. Il brand Old Navy è rivolto a clienti generalmente sensibili al rapporto qualità/prezzo in un mercato piuttosto stabile, pertanto si basa su una supply chain efficiente con produzione in Cina. Il brand Gap, al contrario, è rivolto a clienti attenti alla moda del momento, il cui mercato è generalmente imprevedibile; in questo caso si predilige una supply chain reattiva con produzione in Centro America, in grado di rispondere velocemente alle esigenze del mercato statunitense. Infine, il brand di alta gamma Banana Republic si rivolge a clienti che cercano modelli e materiali di qualità superiore; di conseguenza viene adottata una strategia di gestione del rischio di approvvigionamento affidandosi contemporaneamente a più disegnatori e fornitori di materiali soprattutto in Italia, anche se questo comporta costi elevati. In modo analogo possono essere adottate diverse strategie in stadi differenti della supply chain per una specifica famiglia di prodotti. Generalmente si prediligono strategie efficienti o di gestione del rischio a monte nella filiera e reattive o agili a valle. Starbucks, ad esempio, produce e distribuisce ai propri punti vendita miscele base di caffè e aromi ottimizzando i flussi logistici e gestendo in modo centralizzato gli stock (strategia lean). Presso il punto di vendita, il singolo negoziante produce autonomamente le numerose varianti miscelando tipologie di caffè e aromi in base alla domanda della propria clientela (strategia responsive).

Tecniche di posticipazione e mass-customization Un aspetto centrale nel funzionamento operativo di una supply chain è rappresentato dalle logiche di gestione dei flussi fisici. Per ottimizzare il trade-off tra costo e servizio lungo la supply chain è necessario valutare, da un punto di vista operativo, quando eseguire le diverse attività che consentono di consegnare il prodotto nelle mani del cliente finale. In particolare, l’obiettivo è ritardare il più possibile lo svolgimento delle attività che conferiscono personalizzazione al prodotto in modo da eseguirle solo quando il cliente richiede vera-

628 ) PARTE IV – ACQUISTI

Accuratezza delle previsioni

E SUPPLY CHAIN

mente un prodotto con certi attributi personalizzati. Si parla dunque di posticipazione (post-ponement) e anche di mass-customization per definire la capacità di operare su larga scala ma offrendo al cliente un prodotto “su misura”. In questo senso la mass-customization si distingue fortemente dalla mass production, che è invece la produzione di massa poco differenziata e non associata alle specifiche esigenze dei singoli clienti. Il caso National Bycicle (Caso 17.4) rappresenta un esempio tipico di mass-customization. Per comprendere concretamente come si realizzano post-ponement e mass-customization occorre rifarsi alle due logiche fondamentali di gestione dei flussi in una filiera: logica push e logica pull. Concettualmente esse fanno parte dei “metodi di gestione” dei processi aziendali che abbiamo introdotto nel paragrafo 5.3. Una logica di tipo push implica l’avviamento delle attività di un determinato stadio della filiera in anticipo, sulla base delle previsioni dei fabbisogni dello stadio successivo. A partire da tali previsioni, vengono pianificate tutte le attività che dovranno essere svolte al fine di soddisfare il fabbisogno che si manifesterà. Ciò implica generalmente l’utilizzo di tecniche di material requirement planning (MRP) – si veda il box seguente – sul lato produzione e approvvigionamento e il distribution requirement planning (DRP) sul lato distribuzione. In questo caso è evidente che le prestazioni dello stadio della filiera dipendono in modo rilevante dall’accuratezza delle previsioni: se queste sono accurate, i materiali o i prodotti saranno nel luogo giusto al momento giusto, al contrario, se le previsioni sono sbagliate, sarà troppo tardi per reagire alla domanda del cliente. È proprio a causa degli errori di previsione che i sistemi push si dotano normalmente di scorte di sicurezza nei vari stadi della filiera. Se l’errore di previsione è nullo le scorte di sicurezza non servono. Per approfondimenti sulle tecniche MRP si veda ad esempio Sianesi (2011).

Material Requirement Planning (MRP): uno strumento per la gestione push Il material requirement planning è uno strumento che supporta la pianificazione degli ordini di materiali ai fornitori a partire da un piano di produzione, tenendo conto della distinta base dei prodotti, dell’eventuale tasso di difettosità dei diversi componenti, delle politiche di lottizzazione e dei lead time di approvvigionamento. In un determinato stadio della filiera, sulla base della previsione della domanda futura e del livello delle scorte di prodotti, viene elaborato un piano di produzione e/o assemblaggio che tiene conto dei vincoli produttivi (ad esempio i lotti minimi di produzione). Per ogni prodotto considerato nella pianificazione, si effettua la cosiddetta esplosione dei fabbisogni utilizzando la sua distinta base al fine di determinare quali e quanti materiali/componenti saranno necessari per la sua realizzazione. Con riferimento al caso Mozzini esposto nel Caso 17.1, consideriamo ad esempio la seguente situazione:

17. Supply chain management ) 629 • la previsione di domanda per un mese è di 4.000 scatole per lo sterzo di un determinato modello; • la distinta base del prodotto prevede l’impiego di 3,25 kg di lega di alluminio per ogni scatola, di 2 guarnizioni di gomma da 2,2 pollici e di una guarnizione da 1,25 pollici; • lo scarto medio del materiale di fusione è del 2%. • L’esplosione determina i seguenti fabbisogni: 13.265 kg di lega (3,25 x 4000)/(1 – 0,02), 8.000 guarnizioni da 2,2 pollici e 4.000 guarnizioni da 1,25 pollici. Queste informazioni, combinate con lo stato delle eventuali scorte di materiali/componenti ed eventuali politiche di lottizzazione e di riordino, determinano i quantitativi da riordinare per ogni tipologia di materiale/componente. Tali quantitativi vengono arretrati lungo l’asse temporale in funzione dei lead time di approvvigionamento. Se, ad esempio, è necessario disporre delle guarnizioni da 2,2 pollici per il giorno 20 del mese e il fornitore impiega 3 giorni a farle pervenire, sarà necessario emettere l’ordine il giorno 17. L’intero processo, ripetuto per ogni prodotto da realizzare, porta alla pianificazione degli ordini nell’orizzonte temporale di riferimento. Previsione e pianificazione della produzione Esplosione dei fabbisogni (distinta base) Arretramento temporale in funzione dei lead time Pianificazione degli ordini

Una logica del tutto analoga è quella adottata dal distribution requirement planning (DRP) a valle per le attività di distribuzione. In particolare, in questo caso si partirà dall’esigenza di disponibilità fisica presso il punto vendita e si pianificheranno le attività logistiche necessarie in funzione dei lead time di trasporto tra i diversi stadi della filiera.

Capacità di risposta

Interventi preliminari

Al contrario, una logica di tipo pull implica l’avviamento delle attività di un determinato stadio della filiera solo nel momento in cui lo stadio a valle manifesta una richiesta. La richiesta può essere esplicita, ad esempio un ordine da parte del cliente, o implicita, ad esempio il prelievo della merce da magazzino che segnala allo stadio a monte la necessità di ripristinare la quantità prelevata. L’utilizzo della logica pull presuppone una capacità di risposta rapida e dunque lead time brevi. Negli stadi produttivi di una filiera i lunghi tempi di attrezzaggio – ovvero di riconversione degli impianti a una produzione differente – e le code alle lavorazioni sono le cause più frequenti dei ritardi e dei lead time eccessivamente lunghi. Per questo motivo l’introduzione di una logica di tipo pull richiede spesso interventi tecnologici e gestionali per ridurre i tempi di attrezzaggio. Anche un certo sovradimensionamento della capacità produttiva è utile allo scopo,

630 ) PARTE IV – ACQUISTI

Posticipare le decisioni

Push a monte, pull a valle

Arretrare il punto di disaccoppiamento

E SUPPLY CHAIN

poiché riduce le code. Tuttavia, se la variabilità della domanda dello stadio a valle è troppo elevata, diventa difficile per quello a monte reagire prontamente anche con tempi di attrezzaggio limitati, e quindi una logica di questo tipo risulta inapplicabile. L’approccio just-in-time (JIT) tra cliente e fornitore (si veda il paragrafo 16.3.3) attuato tramite l’utilizzo di cartellini kanban (si veda il box al paragrafo 16.3.3) è un tipico esempio di adozione della logica pull. Anche la normale gestione a scorta con punto di riordino è, di fatto, un approccio pull, in quanto l’ordine di ripristino del materiale a magazzino avviene in risposta alla domanda dello stadio a valle. In sintesi, adottando un approccio di tipo push le decisioni vengono prese sulla base del profilo di domanda (ordini eventualmente già acquisiti e previsioni); al contrario, adottando un approccio di tipo pull, le decisioni vengono prese sulla base dello stato del sistema. Sotto il profilo dell’efficienza, la logica pull permette di posticipare tutte le attività e i relativi costi al momento in cui si manifesta effettivamente il fabbisogno e quindi di ridurre il rischio, e, al tempo stesso, di ridurre le inefficienze di un sistema produttivo, dal livello delle scorte fino ai tempi di attesa. Tuttavia, il livello di servizio richiesto dal mercato in termini di tempi di consegna, la variabilità della domanda e il grado di rigidità dei processi produttivi e logistici rendono spesso necessaria una logica di tipo push. In realtà le due logiche spesso coesistono all’interno della stessa supply chain. In generale, negli stadi a monte di una filiera viene adottata una logica push, mentre negli stadi a valle in prossimità del mercato finale viene adottata una logica di tipo pull. Il punto della supply chain in cui convergono queste due politiche viene chiamato punto di disaccoppiamento o decoupling point. Un caso noto che chiarisce questo concetto è quello di Dell, uno dei leader nel settore dei PC. L’azienda, per la maggior parte dei propri modelli, pianifica le scorte dei componenti base per poi assemblare il computer finito su ordine del singolo cliente. Di fatto Dell adotta una logica di tipo push per la gestione dei fornitori di materie prime e di componenti (ad esempio tastiere, case, video, processori, memorie ecc.) costituendo così magazzini di parti pronte per essere assemblate. Le attività di assemblaggio e spedizione vengono poi attivate su ordine specifico del cliente. In questo caso il punto di disaccoppiamento è il magazzino di componenti; sarebbe impensabile avviare la realizzazione di ogni singolo componente su ordine: nessun cliente sarebbe disposto ad aspettare tanto! Recenti sviluppi nelle strategie di supply chain hanno permesso alle aziende di migliorare il trade-off tra costo e servizio perseguendo pratiche più veloci ed efficienti grazie all’arretramento del punto di disaccoppiamento lungo il processo produttivo o di assemblaggio, sfruttando quindi i vantaggi tipici di una logica pull. La standardizzazione dei componenti e la modularizzazione dei prodotti, da un lato, e la riduzione dei tempi di produzione, assemblaggio e distribuzione, dall’altro, consentono di ridurre le scorte a monte nella filiera e di fornire a valle prodotti personalizzati, posticipando quanto più possi-

17. Supply chain management ) 631

Figura 17.5 POST-PONEMENT E MASS-CUSTOMIZATION: L’ARRETRAMENTO DEL DECOUPLING POINT Decoupling point Mercato finale Logica push

Logica pull

Post-ponement Mercato finale Logica push

Logica pull

bile le attività di assemblaggio e personalizzazione. Si tratta come già detto del post-ponement e della mass-customization (Figura 17.5). La Smart, celebre city car dell’ultimo decennio (Caso 16.4), è un esempio lampante di supply chain reattiva che adotta politiche di mass-customization. Osservando le auto in circolazione si contano centinaia di modelli diversi tra loro: esistono un’infinità di combinazioni colore tra cofano, portiere e portellone posteriore. Ogni cliente può configurare online la sua Smart totalmente personalizzata. L’azienda è riuscita a offrire questa gamma ampia di possibilità mantenendo notevolmente ridotti i costi di produzione e logistica. Il tutto parte da poche configurazioni base definite dalla scelta del modello (coupé o cabrio), del motore e della versione. Queste configurazioni prevedono poi la scelta dei colori del telaio (la cellula di sicurezza Tridion), della carrozzeria e degli interni. Infine si scelgono gli equipaggiamenti e gli accessori di differenziazione (ad esempio sistema audio, computer di bordo). La carrozzeria (cofano, portiere e portellone) viene poi assemblata direttamente su ordine del cliente finale, a volte direttamente presso il concessionario. Questa strategia permette al tempo stesso di ridurre i costi di produzione, distribuzione e mantenimento dello stock lungo la filiera, e di ridurre drasticamente i tempi di consegna pur offrendo un prodotto totalmente personalizzato. Il Caso 17.7 offre un altro esempio di mass-customization.

CASO

17.7

Il settore delle vernici: verso la mass-customization Fino alla fine degli anni Sessanta il settore della vendita al dettaglio delle vernici era caratterizzato fondamentalmente da una gamma più o meno ampia di colori (a seconda dell’azienda) venduti a scaffale presso i punti vendita (fai da te, centri specializzati, colorifici). I pro-

632 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

duttori di vernice realizzavano basi bianche o incolori alle quali venivano poi aggiunti coloranti realizzati a partire dai pigmenti prodotti da alcune multinazionali del settore. La produzione delle diverse varianti di colori e dei diversi formati era pianificata sulla base della previsione della domanda del mercato finale; i produttori programmavano in questo modo le loro scorte di prodotto finito presso il magazzino centrale. Il punto vendita emetteva poi ordini settimanali di approvvigionamento (replenishment) per mantenere l’assortimento a scaffale. La produzione dei diversi colori e dei diversi formati avveniva così in modalità push, consentendo ai produttori di pianificare le proprie scorte sulla base di alti volumi di produzione in modo da minimizzare i tempi morti e i costi per passare da un colore a un altro (tempi e costi di attrezzaggio). Infatti, ogni volta che si cambia colore occorre fermare l’impianto, lavare accuratamente le vasche e predisporre i nuovi pigmenti. Tutto ciò implicava però alti costi finanziari a causa delle scorte immobilizzate e dello spazio occupato presso il magazzino centrale e presso il punto vendita. A partire dagli anni Settanta è esplosa la richiesta di mercato di un numero sempre maggiore di colori e di formati, soprattutto in alcuni Paesi del Nord Europa e del Nord America dove il mercato dei consumatori finali non professionali è molto sviluppato (bricolage, fai da te ecc.). Soddisfare una tale varietà avrebbe significato costi operativi troppo alti che ben pochi produttori potevano permettersi. Fu così che accanto al mercato tradizionale del ready-mix (pronto a scaffale) nacque il mercato del tinting (tinta personalizzata). In questo secondo caso, il punto vendita si dota di un tintometro in grado di dosare gocce di colorante in barattoli di diversi formati contenenti base incolore. La precisione di queste macchine permette di realizzare oltre 32.000 formule colore partendo da una base comune e non più di 32 serbatoi contenenti coloranti diversi tra loro. Il barattolo contenente la base e il colorante dosato in opportuna quantità viene poi posizionato all’interno di un miscelatore grazie al quale si ottiene un colore uniforme. Il cliente ottiene in questo modo il colore desiderato in tempo reale. Alcuni punti vendita dispongono addirittura di un’attrezzatura sofisticata, lo spettrofotometro, in grado di rilevare da un campione di colore del cliente la formulazione corretta al fine di ottenere una vernice identica a quella rilevata. In questo nuovo mercato, il processo di pianificazione della produzione e delle scorte sulla base della previsione della domanda riguarda unicamente le basi incolore e i coloranti di base. La gestione delle diverse colorazioni è posticipata al punto vendita, il quale procede con la dosatura dei coloranti e la successiva miscelazione direttamente su ordine del cliente, in modalità pull. Il livello di personalizzazione è elevatissimo e il tempo di consegna praticamente nullo. Tuttavia la produzione a monte è fortemente standardizzata e la varietà si restringe alle basi incolori e ai coloranti di base: un numero di “componenti” modesto rispetto alle decine di migliaia di prodotti finiti. È dunque una classica situazione di mass-customization, possibile grazie all’arretramento del punto di disaccoppiamento dalle scorte di prodotto finito alle scorte di basi incolori e di coloranti di base, posticipando l’assemblaggio (la miscelazione) al momento della vendita (tecnica del post-ponement). Risulta così enormemente più semplice per i produttori prevedere la domanda di componenti di base piuttosto che dei singoli prodotti finiti. Inoltre, si riducono notevolmente i costi di mantenimento a scorta sia presso il magazzino centrale sia presso i punti vendita: meno tipologie di prodotti e meno spazio impegnato. Infine, anche i costi di trasporto risultano ottimizzati in quanto viene distribuito un numero minore di prodotti con frequenze minori e lotti maggiori, senza compromettere il livello di servizio. Post-ponement e mass customization consentono di aumentare il livello di servizio riducendo il costo logistico totale, migliorando così il trade-off.

17. Supply chain management 冷 633

17.3

Il valore dell’informazione nella supply chain Già con il caso Mozzini (Caso 17.1) abbiamo avuto modo di osservare che la gestione delle informazioni è un aspetto critico per ottimizzare le prestazioni di una filiera produttiva. Ogni attore della filiera riuscirebbe a migliorare la propria gestione condividendo con gli altri informazioni relative, ad esempio, agli stock, ai piani di produzione, ai piani di consegna e alla previsione della domanda nei vari stadi. La possibilità di monitorare in tempo reale la situazione della filiera faciliterebbe di gran lunga il compito del Direttore della logistica della Mozzini, il quale si trova invece a dover rincorrere sbaverie e officine meccaniche al fine di gestire le urgenze con i propri clienti.

17.3.1

Oscillazioni amplificate

L’effetto bullwhip La mancanza di informazioni tempestive in una supply chain causa un fenomeno ricorrente a più stadi: il cosiddetto effetto bullwhip (letteralmente “coda di toro”), detto anche “effetto frusta” o “effetto Forrester”, dal nome di colui che lo ha analizzato per primo negli anni Sesssanta. Tale fenomeno consiste in un aumento della variabilità della domanda lungo la filiera man mano che ci si allontana dal mercato finale e si risale la catena di fornitura. Accade così che lo stadio prossimo al mercato percepisce la reale domanda del cliente finale, in genere abbastanza stabile o quantomeno prevedibile; al contrario, lo stadio più a monte è soggetto a una domanda apparentemente fuori controllo con oscillazioni amplificate – di qui il nome “coda di toro” o “frusta”, poiché allontanandosi dalla radice della coda l’ampiezza dell’oscillazione aumenta. Nel caso Mozzini (Caso 17.1), ad esempio, le case automobilistiche percepiscono la reale domanda di mercato, le officine meccaniche vedono la domanda generata dalle case automobilistiche che già si discosta da quella del cliente finale, le sbaverie vedono quella generata dalle officine meccaniche e la fonderia a sua volta riceve gli ordini elaborati dalle sbaverie, percependo a questo punto una domanda totalmente diversa da quella del cliente finale perché “filtrata” dalle politiche di ordinazione di quattro attori decisionali. L’entità di questo fenomeno può essere osservata direttamente nelle curve di domanda o misurando il coefficiente di variazione (si veda il capitolo 8) lungo la filiera (Figura 17.6): n

s 1 CV = }} = }} media x苶

冱 (xi – 苶x)2

i=1

n

dove n è il numero di dati di domanda osservati allo stadio, e la media è pari a x–. È facile intuire che le prestazioni (efficienza e livello di servizio) di ciascun attore sono legate alla variabilità della domanda che si trova ad af-

634 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

Domanda

Figura 17.6 L’EFFETTO BULLWHIP NELLA FILIERA DEL CASO MOZZINI (SUPPLY CHAIN DELL’AUTOMOBILE) 8000 7000 6000

Fonderia Sbaveria Lavorazioni Casa autom.

5000 4000 3000 2000 1000 0

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 Tempo

frontare. Di conseguenza, in presenza di effetto bullwhip, le aziende più lontane del mercato hanno generalmente performance peggiori sia in termini di livello di servizio sia in termini di costo logistico totale. Le cause dell’effetto bullwhip sono di diversa natura e raggruppabili in quattro categorie fondamentali: “filtri” lungo la filiera, politiche di lottizzazione, azioni commerciali e allocazione della capacità.

Ritardi e perturbazioni

“Filtri” lungo la filiera Ogni stadio della supply chain costituisce di fatto un filtro che osserva i propri dati di domanda, elabora previsioni ed emette ordini a monte in funzione di specifiche politiche di gestione dei materiali. Tutto ciò perturba l’informazione originaria e genera dati di domanda allo stadio a monte che non dipendono esclusivamente dalla domanda a valle, ma anche e soprattutto dal comportamento dell’attore in questione. Inoltre, la presenza di tempi di emissione ed elaborazione ordini prima, e di produzione e spedizione poi, genera ritardi di comunicazione e ricevimento materiali che amplificano il fenomeno. Se replichiamo queste considerazioni lungo l’intera filiera stadio per stadio, è facile rendersi conto delle distorsioni a cui va incontro la domanda a mano a mano che si risale la filiera. Politiche di lottizzazione Un’impresa non può sempre ordinare o produrre la quantità esatta di materiali di cui necessita; esistono lotti minimi di riordino, di produzione e di trasporto che devono essere rispettati per ottimizzare i costi di emissione ordini, di setup di impianto e di trasporto da un lato e di mantenimento dei materiali a scorta dall’altro. Tuttavia, que-

17. Supply chain management ) 635

Lotti sempre più grandi

Effetti dannosi delle promozioni

Accaparramenti

sta necessità operativa genera inevitabilmente perturbazioni nella domanda. Ogni impresa della filiera, infatti, emette ordini e pianifica lotti di produzione che raramente sono esattamente allineati a ciò che chiede il mercato in quel momento. Ciò genera delle variazioni a scalino che vengono amplificate nelle curve di domanda. A questo proposito, è celebre il caso del centro distributivo dei pannolini Pampers di Procter&Gamble negli Stati Uniti all’inizio degli anni Ottanta. Il consumo di pannolini da parte della popolazione di bambini americani, come è intuitivo pensare, era assolutamente regolare con una media costante nel tempo e una variabilità minima. Tuttavia, le politiche di acquisto delle mamme (“compro due confezioni ogni settimana ed eventualmente accumulo scorta prima del week-end”), i lotti di riordino dei dettaglianti (non meno di un bancale per volta) e i lotti di riapprovvigionamento dei grossisti (non meno di un container completo per volta per ottimizzare il trasporto), generavano enormi fluttuazioni a scalino nel profilo di domanda alla fonte. Visto dal centro distributivo della P&G, il consumo di pannolini da parte dei bimbi americani sembrava incomprensibilmente soggetto a fluttuazioni enormi anche dell’ordine del 100% da una settimana all’altra! Azioni commerciali Le azioni commerciali e di marketing – ad esempio le modifiche del listino prezzi, le campagne pubblicitarie e le azioni promozionali sul punto di vendita – sono leve strategiche per aumentare o mantenere la propria quota di mercato (si veda il capitolo 13); tali manovre, se sono di successo, hanno l’effetto di aumentare la domanda nel breve termine e di deprimerla nei periodi successivi innescando l’effetto bullwhip e generando una perturbazione che si protrae e si amplifica verso gli stadi a monte della filiera. Questo fenomeno è molto diffuso nel settore della GDO (grande distribuzione organizzata). Le catene di supermercati concordano frequentemente con i produttori azioni promozionali presso i punti vendita (ad esempio tagli prezzo, esposizioni preferenziali, promoter, campagne 3 × 2 o 4 × 2 ). A fronte di queste azioni, la domanda subisce inevitabilmente un’impennata. Tuttavia, nei periodi seguenti tende a sgonfiarsi, sia perché i clienti, approfittando della promozione, hanno comprato quantità in eccesso che devono ancora smaltire, sia perché le catene distributive e i produttori di marchi concorrenti solitamente reagiscono alle promozioni altrui con nuove campagne promozionali che attirano i clienti altrove. Queste fluttuazioni, se non correttamente gestite e anticipate, si propagano a monte fino ai primi stadi della filiera, amplificandosi. Allocazione della capacità Infine, un’ultima causa ricorrente dell’effetto bullwhip è costituita dall’allocazione di capacità produttiva da parte degli stadi a monte della filiera. Un’impresa, di fronte alla possibilità che il fornitore non abbia sufficiente capacità per soddisfare le richieste di tutti i clienti, può essere tentata di sovradimensionare il proprio ordine nella speranza di riceverne una parte sufficiente a coprire le reali esigenze ed evitare così

636 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

la rottura di stock. Se questo comportamento viene replicato da altri clienti e da altre aziende della filiera, gli ordini diventano inevitabilmente sovradimensionati rispetto alle reali esigenze del mercato. Problemi di allocazione della capacità produttiva sono frequenti nel settore tessile, in cui le operazioni di orditura, tessitura e tintura costituiscono dei colli di bottiglia. I clienti sono pertanto portati ad aumentare l’entità dei loro ordini nella speranza che il fornitore allochi loro capacità sufficiente nei reparti di orditura, tessitura e tintura. Contenere l’effetto bullwhip

Al fine di ridurre l’effetto bullwhip, e quindi migliorare le prestazioni degli attori della filiera, è possibile individuare alcune linee guida che agiscono in modo trasversale sulle quattro cause appena citate. In particolare, si tratta di: condivisione dell’informazione, riduzione dei tempi e allineamento di canale. Condivisione dell’informazione La possibilità da parte di tutti gli attori di vedere i dati reali di domanda, di monitorare lo stato di avanzamento degli ordini e dei materiali lungo la filiera e di avere informazioni relative alle scorte nei diversi stadi, attenua notevolmente l’effetto “filtro”. A questo proposito, si fa riferimento al concetto di visibilità (information sharing) illustrato nel capitolo 16. Inoltre, la possibilità di automatizzare i flussi informativi riduce notevolmente i tempi e i costi di comunicazione, riducendo così l’amplificazione dell’effetto bullwhip dovuto ai lunghi lead-time e alla dimensione dei lotti di riordino. Se ogni attore comunicasse tempestivamente alle aziende coinvolte nella filiera le proprie azioni commerciali (ad esempio pubblicità, promozioni, sconto prezzi), queste avrebbero modo di prepararsi per tempo al picco di domanda previsto, senza trovarsi improvvisamente in rottura di stock e quindi nella tentazione di amplificare gli ordini a monte. Nel caso della GDO visto in precedenza, ad esempio, quando l’informazione di un’azione promozionale viene trasmessa per tempo lungo la filiera, gli attori della supply chain riescono ad anticipare il fenomeno creando scorte di materiale in anticipo. Infine, l’amplificazione degli ordini dovuta a problemi di allocazione di capacità produttiva può essere ridotta nel caso in cui il fornitore comunichi fin da subito la quota di capacità disponibile ed eventualmente sia pronto a negoziarla con i propri clienti.

Tagliare i tempi

Riduzione dei tempi Per rendere più efficiente una supply chain occorre riuscire a ridurre i lead-time di elaborazione degli ordini, di produzione e di distribuzione, e ridurre i tempi e i costi di set-up degli impianti, di emissione ordini e di trasporto. In sostanza l’efficienza di una supply chain dipende dalla velocità dei flussi fisici e informativi. Da un lato, le azioni per velocizzare i flussi riducono l’amplificazione dell’effetto bullwhip causato proprio dai lunghi lead-time, attenuando in questo modo l’effetto “filtro”. Nell’esempio della filiera dell’automotive (si veda il caso Mozzini – Caso 17.1) la vicinanza fisica tra la

17. Supply chain management ) 637

fonderia, la sbaveria e l’officina meccanica riduce notevolmente i costi e i tempi di trasporto, con conseguente facilitazione nel coordinamento e riduzione dei ritardi di ricevimento dei materiali. Dall’altro, una maggiore efficienza permette di gestire lotti più piccoli sia di riordino sia di produzione. Ridurre, ad esempio, i tempi di attrezzaggio di una linea di produzione all’interno dell’officina meccanica consentirebbe di realizzare lotti di produzione più piccoli e quindi accettare ordini più piccoli da parte del cliente, fino addirittura a una gestione just-in-time in cui le scorte di materiale e gli sprechi sono ridotti al minimo.

Programmare insieme

Ottimizzare i trasporti

Allineamento di canale Infine, gli attori della supply chain potrebbero collaborare nella definizione dei piani di produzione e spedizione, nella pianificazione dei materiali e nella previsione della domanda, al fine di livellare gli ordini emessi lungo la filiera. Nell’esempio citato di Procter&Gamble, il centro distributivo, proprio per ovviare ai problemi emersi a causa dell’effetto bullwhip, iniziò a pianificare le consegne in momenti diversi del mese in accordo con i grossisti. Ciò permise di livellare i piani di consegna, evitando che gli ordini dei clienti si concentrassero tutti nello stesso momento. Le politiche di allineamento di canale sono riconducibili al concetto di collaborazione operativa illustrato nel capitolo 16 e in particolare ai livelli più spinti di integrazione, che vanno ben oltre la semplice visibilità dell’informazione. L’allineamento di canale porta all’annullamento dell’effetto “filtro”, in quanto i diversi attori agiscono con l’obiettivo di smorzare i picchi anomali di ordini al fine di rispettare i vincoli di capacità produttiva lungo la filiera; proprio come avviene nel livellamento della produzione in uno stabilimento produttivo a più stadi. Inoltre, la possibilità di consolidare lotti di spedizione diversi in mezzi di trasporto comuni attenua notevolmente l’incidenza dei lotti di riordino e di produzione. Il centro distributivo di Procter&Gamble, oltre a livellare i piani di trasporto, iniziò anche a pianificare consegne verso i grossisti non a pieno carico. Ciò significa allocare lo spazio di un container a più clienti, in modo da ripartire i costi di trasporto e permettere così ai grossisti di riordinare lotti di dimensioni minori. Questa politica viene denominata less-than-truck-load (LTL), in opposizione alla consegna di mezzi a pieno carico denominata fulltruck-load (FTL), e viene spesso applicata anche nei confronti di diversi fornitori che consolidano le loro consegne verso un unico cliente. Quest’ultimo approccio è in genere offerto dai fornitori di servizi logistici (3PL o third-party-logistics) che gestiscono le attività logistiche del cliente. Infine, se la filiera è allineata, le informazioni relative alle azioni commerciali e i vincoli di capacità produttiva sono noti a tutti gli attori interessati, e ciò permette loro di reagire prontamente. Nel settore della GDO, produttore e distributore avrebbero l’opportunità di concordare per tempo la previsione di domanda e iniziare ad accumulare scorta in vista della promozione.

638 ) PARTE IV – ACQUISTI

17.3.2

Oltre gli algoritmi

Cause di variabilità

E SUPPLY CHAIN

Nuovi approcci alla previsione della domanda Gli ultimi spunti di riflessione ci portano a trattare un argomento di particolare attualità nell’ambito del supply chain management: la previsione della domanda. Nel capitolo 8 è stato già introdotto il tema della previsione, mentre nel paragrafo 12.4 sono state illustrate alcune tecniche per prevedere e gestire la domanda di nuovi prodotti. Questo breve paragrafo focalizza l’attenzione sulla natura degli approcci emergenti alla previsione e alla gestione della domanda di mercato. L’obiettivo delle attività di gestione della domanda è quello di interpretare e controllare il processo di generazione delle richieste del mercato al fine di fornire alla pianificazione della produzione e alla logistica una previsione il più accurata possibile (vedi Figura 17.7). In passato, le imprese si sforzavano di sviluppare tecniche analitiche e algoritmi sempre più sofisticati in grado di migliorare l’accuratezza delle previsioni. Oggi l’attenzione si è spostata sulla natura delle informazioni necessarie per formulare una buona previsione e sul processo di raccolta di tali informazioni. Si diffonde la convinzione che, per quanto un algoritmo sia sofisticato, se non è alimentato dalle informazioni corrette non sarà mai in grado di formulare una previsione accurata. Questo fenomeno è noto, in generale, come sindrome GIGO (Garbage in – Garbage out), ovvero la qualità dell’output di un processo dipende prima di tutto dalla qualità dei suoi input, più ancora che dal modo in cui l’input viene elaborato. In primo luogo, è necessario analizzare in dettaglio i dati di domanda al fine di capire quali sono le principali cause di variabilità. Esse possono essere le più disparate: dalle azioni commerciali sul punto vendita, alle politiche di riordino e di gestione delle scorte, dalle politiche di acquisto speculativo a fattori esterni e imprevedibili (come caso limite le condizioni meteorologiche che determinano una maggiore o minore affluenza dei clienti sui punti di vendita). Gli strumenti informatici e i database aziendali risultano ovviamente fondamentali ai fini di queste analisi. Successivamente, occorre capire quale sia l’impatto quantitativo di tali fenomeni sul profilo di domanda e soprattutto se essi sono controllabili o quantomeno prevedibili. Le azioni commerciali, ad esempio, sono facilmente controllabili e quindi prevedibili da parte dell’impresa; al contrario, le condizioni meteorologiche non sono prevedibili con un orizzonte temporale sufficiente a pianificare la produzione o addirittura a pianificare variazioni di capacità produttiva! Un settore tipico che evidenzia questo problema è quello del cemento e dei materiali da costruzione. I cantieri, essendo all’aperto, risentono molto delle condizioni atmosferiche; basti pensare che, in caso di pioggia, il cemento non può essere gettato nei casseri a riempimento. Questo influenza notevolmente la domanda di materiale e quindi la produzione da parte delle cementerie circostanti. Infine, una volta individuate le informazioni rilevanti e il loro effetto

17. Supply chain management ) 639

Figura 17.7 I NUOVI APPROCCI ALLA PREVISIONE DELLA DOMANDA Focus dei nuovi approcci alla previsione

Processo di generazione della domanda

Turbolenza ambientale

Raccolta di informazioni

Informazioni raccolte

Algoritmo di previsione

Incertezza percepita (Errore di previsione)

Focus degli approcci classici

sulla domanda, l’aspetto più critico riguarda la progettazione del processo organizzativo che permette di raccogliere ed elaborare tali informazioni. Questo implica il coordinamento di diverse funzioni all’interno della stessa azienda e di diverse aziende tra loro. Se pensiamo a una promozione, ad esempio, sarà compito della funzione marketing o delle vendite comunicare per tempo a chi elabora le previsioni la sua natura e il periodo di riferimento. Le previsioni devono poi essere condivise e comunicate alle unità di pianificazione che provvederanno all’approvvigionamento dei materiali e quindi al coinvolgimento dei fornitori, i quali a loro volta dovranno coordinarsi con i loro fornitori. L’esempio di Walmart del Caso 17.8 illustra un caso di allineamento di canale e di coordinamento lungo la filiera, nel quale viene posta molta attenzione al processo di raccolta e condivisione delle informazioni.

Processi di raccolta delle informazioni

CASO

17.8

Walmart Con un fatturato di 444 miliardi di dollari realizzato nel 2011 in 27 paesi e con 2,2 milioni di dipendenti, Walmart (Walmart Stores Inc.) è il più grande retailer al mondo. L’azienda detiene una posizione di leadership nel mercato statunitense, con vendite suddivise tra molteplici categorie merceologiche (come cibo e bevande, abbigliamento, carburante, arredamento, elettronica). Sin dai primi passi nelle campagne dell’Arkansas, la supply chain di Walmart fu un fattore di crescita fondamentale per l’azienda e una delle principali fonti di vantaggio competitivo. Tuttavia, in anni recenti, molte delle tecniche perfezionate e applicate con successo da Walmart (quali i codici a barre, la condivisione dei dati di vendita con i fornitori, una flotta di traspor-

640 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

to di proprietà e punti vendita computerizzati per la raccolta di dati in tempo reale) furono via via adottate da altre aziende. Nonostante l’indubbio successo, nel 2006 Walmart non raggiunse il target autoimposto di mantenere il tasso di crescita delle scorte pari alla metà del tasso di crescita delle vendite. Si pose dunque il problema di rinnovare il contributo della supply chain alla competitività dell’azienda. Dal lancio nel 1962 ad opera di Sam Walton delle prime “Wal-Mart Discount City” (che avevano lo scopo di cavalcare il nuovo trend di commercializzazione di beni a un prezzo scontato), l’affermazione di una supply chain vincente si deve a molte iniziative legate alla gestione di acquisti, distribuzione, punti vendita, risorse umane e sistemi informativi. Questi ultimi hanno contraddistinto lo sviluppo di Walmart fin dalla nascita. Se negli anni Sessanta e Settanta Walton era in grado di controllare i suoi negozi grazie a un aereo personale, dagli anni Ottanta Walmart investì in un database centralizzato, sistemi per il punto vendita (POS) e una rete di comunicazione satellitare. Grazie a una delle prime applicazioni estese dei codici a barre (UPC) nel settore della distribuzione, le informazioni relative ai singoli negozi potevano essere raccolte e analizzate in tempo reale. Negli anni Novanta venne creato Retail Link, il più grande database non militare del mondo (stimato in 570 Terabytes), contenente i dati di vendita di un ventennio. Grazie a una rete extranet connessa al sistema EDI di Walmart (successivamente sostituita con una rete Internet-based), tutti i fornitori potevano ottenere i dati di vendita dei loro prodotti in tempo reale, fino al livello dei singoli item in negozio. In cambio, ai fornitori era richiesto di monitorare le giacenze e riassortire autonomamente i prodotti: Walmart divenne così un pioniere del collaborative planning, forecasting and replenishment (CPFR), un approccio integrato alla pianificazione e gestione della domanda basato sulla condivisione di informazioni critiche riguardo le promozioni, i livelli di scorta e le vendite giornaliere. I programmi di VMI (anche noti come continuous replenishment) consentivano infatti ai fornitori di gestire direttamente le giacenze presso i centri distributivi di Walmart, sulla base di ben precisi livelli di servizio concordati (SLA) in termini di giacenze e stockout. Dopo un primo progetto pilota con i pannolini di P&G, oggi i contratti di VMI (anche nella variante del consignment stock) riguardano moltissimi prodotti e fornitori. La rete di comunicazione satellitare permetteva non solo di ottenere i dati dai punti vendita, ma anche di trasmettere video messaggi con cui i manager potevano comunicare i più recenti aggiornamenti riguardanti l’azienda direttamente dal quartier generale di Bentonville. Sistemi come Agentrics LLC (utilizzato da una rete di distributori: Carrefour, Tesco, Metro, Costco, Kroger e Walgreen) o Eqos (Sainsbury’s) sono da considerarsi come emulazioni di Retail Link. Tra i progetti lanciati in anni più recenti, a partire dal 2005, per rendere sempre più efficiente la supply chain e supportare così la strategia di leadership di costo dell’azienda, si può citare l’utilizzo della tecnologia RFID, nel tentativo di aumentare la tracciabilità delle scorte e di ridurre ulteriormente lo stockout presso i punti vendita. I tag RFID permettono infatti di tracciare la merce sia durante il trasporto che all’interno del negozio. Posizionando i lettori RFID in diversi punti del negozio, i gestori sono in grado di seguire passo passo la merce e ridurre lo stockout causato dall’errato posizionamento della merce (a magazzino o a scaffale). Insomma, Walmart è leader mondiale della distribuzione anche grazie a una leadership gestionale e tecnologica nei processi della supply chain. Fonte: www.walmart.com, www.census.gov.

17. Supply chain management ) 641

17.4

Approccio selettivo

Ruolo delle ICT

Tecnologie accessibili

Il ruolo dell’impresaguida

Driver e barriere alla collaborazione Come è emerso più volte in questo capitolo, il supply chain management implica la gestione del portafoglio di relazioni esistenti con gli attori a monte e a valle di una filiera. Tali relazioni non sono necessariamente rapporti di collaborazione in quanto, come visto nei capitoli precedenti, la collaborazione è onerosa e non in tutti i casi è la scelta migliore. Esistono situazioni in cui è opportuno instaurare con un proprio fornitore o un proprio cliente un rapporto non collaborativo, bensì improntato all’opportunismo di breve termine, per ottenere il massimo profitto nel breve periodo o per una singola transazione. Si pensi ad esempio all’utilizzo di un’asta elettronica (si veda anche il paragrafo 15.8) al fine di minimizzare il costo di acquisto di un determinato materiale da un fornitore. Questo significa adottare un approccio selettivo nella scelta di quali partner coinvolgere in attività di collaborazione lungo la supply chain. Nei capitoli 14, 15 e 16 questo concetto è stato affrontato più volte. Tuttavia, una volta individuati gli attori chiave della filiera e le condizioni opportune per la collaborazione, è stato ampiamente dimostrato dai fatti che pratiche di collaborazione portano al miglioramento delle prestazioni complessive della supply chain in termini di livello di servizio da un lato e costo logistico totale dall’altro. L’evoluzione delle ICT aiuta l’affermazione di logiche e pratiche cooperative, rendendo più facile la visibilità delle informazioni e l’integrazione operativa lungo la filiera (si veda in proposito il paragrafo 16.3.3). Si pensi ad esempio alle potenzialità offerte dalle reti Extranet nel veicolare le informazioni rilevanti agli attori interessati (come avviene nel caso Walmart). O ancora alla tecnologia RFID (Radio Frequency Identification), un chip applicato alle confezioni dei prodotti o agli imballi secondari, che permette di tracciare la posizione, il movimento e l’avanzamento dei materiali in tempo reale nei magazzini, nei punti vendita, nelle infrastrutture logistiche e, in definitiva, lungo tutta la filiera (si veda il box sui sistemi di identificazione nel paragrafo 16.3.3, p. 607). Aziende come Metro in Europa e Walmart negli Stati Uniti stanno già adottando la tecnologia RFID nei propri centri distributivi con risultati promettenti in termini di tracciabilitˆ dei materiali e gestione delle giacenze. La tecnologia in questa fase non sembra essere un vincolo, poiché le potenzialità già oggi sul tappeto vanno molto al di là di quello che la maggior parte delle aziende è pronta a recepire. Anche i costi di utilizzo sono in declino, ciò che rende la tecnologia più accessibile anche alle imprese minori. Tuttavia, le esperienze significative di supply chain realmente integrate sono ancora poche e si citano spesso i soliti pochi grandi che utilizzano il potere contrattuale per indurre clienti e fornitori a condividere informazioni al fine di ottimizzare le prestazioni di filiera. È il caso di aziende come Dell o Walmart, che adottano eccellenti pratiche di ottimizzazione della supply chain, condividendo le informazioni con i loro principali clienti e fornitori. Quando, però, non esiste un’impresa-guida in grado di sviluppare e gestire l’infrastruttura adeguata per la comunicazione e il coordina-

642 ) PARTE IV – ACQUISTI

Difficoltà di misura

Giochi a somma positiva

E SUPPLY CHAIN

mento delle informazioni, vi sono ancora alcune rilevanti barriere alla collaborazione tra imprese. Innanzitutto, un primo impedimento deriva proprio dalla misura delle prestazioni che dovrebbero essere ottimizzate in seguito alla collaborazione. Sebbene sia opinione diffusa che livello di servizio e costo logistico totale dovrebbero migliorare in seguito a un’integrazione di filiera, non esistono ancora sistemi consolidati e condivisi di misura delle prestazioni di una supply chain nel suo complesso. Per misurare la redditività di una singola impresa esiste una serie di indicatori (dall’EBIT al ROE, dal ROI alla Rotazione dell’attivo) largamente riconosciuti. Non così per la misura delle prestazioni complessive dell’intera supply chain, e non disponendo di sistemi di misura condivisi risulta difficile convincere gli attori interessati dei reali effetti legati alla condivisione delle informazioni e alla collaborazione. Un secondo problema, connesso al primo ma forse ancora più rilevante, è la condivisione di rischi e benefici lungo la supply chain. Ipotizzando di riuscire a misurare in modo oggettivo gli effetti della collaborazione operativa, rimane difficile capire come essi ricadano sugli attori coinvolti e progettare meccanismi adeguati di ripartizione dei rischi e dei benefici dell’iniziativa. Se ci mettiamo nei panni di una singola impresa il cui fine ultimo è massimizzare la propria redditività e non quella della supply chain nel suo complesso, diventa difficile convincerci della validità della collaborazione se questa non impatta positivamente sul nostro margine e, anzi, richiede inizialmente investimenti, ad esempio in nuovi sistemi informativi, il cui ritorno non è chiaro o non chiaramente appropriabile. Questo problema può essere ben modellizzato tramite la Teoria dei giochi (si veda in proposito il capitolo 9). Occorre che la collaborazione si configuri come un’opzione win-win per tutti gli attori coinvolti. Questi aspetti hanno implicazioni anche contrattuali. Nel capitolo 15 è stato trattato il tema dei contratti tra cliente e fornitore quali strumenti indispensabili ai processi di acquisto. A questo proposito, recentemente sono state sviluppate alcune forme contrattuali che, in situazioni specifiche, permettono di ripartire in modo più equo i rischi e i benefici derivanti da attività di collaborazione (si veda il box); tali forme hanno lo scopo di incentivare la condivisione e il coordinamento dell’informazione. È proprio tramite un contratto di condivisione dei benefici che Blockbuster e alcune case cinematografiche hanno ottimizzato la loro supply chain (si veda il Caso 17.9).

I contratti di ripartizione di rischi e benefici In un tradizionale contratto wholesale price, in cui viene fissato il prezzo di vendita, il rischio logistico connesso alla variabilità della domanda è tutto a carico del cliente: quest’ultimo sarà incentivato a tenere scorte basse per evitare di trovarsi con materiale invenduto, di conseguenza aumenterà la probabilità di stock-out, con conseguente perdita di opportunità di vendita sia per il cliente sia per il fornitore.

17. Supply chain management ) 643 Esistono, tuttavia, alcuni contratti in grado di ripartire i rischi logistici legati alla variabilità della domanda (tipicamente rischio di sovrascorta e stock-out) per meglio orientare le politiche degli attori decisionali. Contratto buy-back Il fornitore si impegna a ritirare le unità invendute presso il cliente (distributore) a un prezzo concordato pieno o, più spesso, a una frazione di esso. Il rischio di sovrascorta viene così ripartito tra fornitore e cliente. Quest’ultimo sarà quindi incentivato ad aumentare le scorte al fine di ridurre la possibilità di stock-out. La distribuzione dei prodotti editoriali è normalmente incentrata attorno a contratti di questo tipo. Contratto capacity option Il cliente acquista un’opzione di capacità produttiva del fornitore. Il prezzo di tale opzione, nel caso in cui venga esercitata, viene poi scontato dal prezzo del prodotto finale. In questo modo il cliente è incentivato ad accumulare virtualmente della scorta, sostenendo un costo pari all’opzione acquisita, proteggendosi così dal rischio di non trovare capacità produttiva disponibile presso i fornitori nel momento in cui diventa necessaria. Ad esempio nel settore dei semiconduttori molti produttori vendono opzioni di capacità ai clienti. Contratto sales rebate Oltre una certa soglia S, il cliente ha uno sconto pari a X sulle unità acquistate; inoltre paga X per ogni stock-out generato oltre tale soglia. Si tratta, di fatto, di un incentivo al cliente simile allo sconto quantità, con l’aggiunta di una penalità nel caso di stock-out del distributore dovuto ad eccesso di prudenza nell’emissione degli ordini. Hewlett Packard e altri produttori di hardware utilizzano contratti di questo tipo con i propri distributori. Contratto revenue sharing Il fornitore vende il prodotto al cliente a un prezzo scontato; i ricavi derivanti dalle vendite sono poi ripartiti tra i due attori. Questo contratto incentiva il cliente ad accumulare scorte di prodotti, in quanto a costo minore, e permette ai due attori di condividere i benefici derivanti dai ricavi. Si veda il Caso 17.9 per un esempio.

CASO

17.9

Blockbuster: coordinamento tramite un contratto revenue-sharing Verso la fine degli anni Novanta, Blockbuster, già leader nel settore del noleggio di prodotti cinematografici (erano ancora lontani i tempi dello streaming e del file sharing, oggi Blockbuster ha chiuso le proprie attività in Italia e soffre anche negli Stati Uniti), si trovava alle prese con un problema imprevisto e di difficile gestione. Accadeva sempre più di frequente che i clienti non trovassero presso i punti vendita i film desiderati. Fece scalpore nel 1997 l’assenza totale di scorte sugli scaffali di film di successo quali Il paziente inglese e Jerry Macguire, immediatamente esauriti dopo l’uscita. Lo scadente livello di servizio presso i punti vendita era dovuto alla struttura della relazione tra Blockbuster e le case cinematografiche e alla tipologia di contratto. Si trattava di un contratto wholesale price con i seguenti parametri:

644 ) PARTE IV – ACQUISTI

E SUPPLY CHAIN

• prezzo di acquisto unitario corrisposto alle major: 60 dollari; • tariffa noleggio unitario: 3 dollari. Di conseguenza, il punto di break-even per ogni copia era pari a 20 noleggi. Se consideriamo che la domanda di noleggio presenta un picco iniziale e successivamente si stabilizza su un livello molto inferiore, è facile intuire che Blockbuster non aveva nessun incentivo ad acquistare un numero di copie sufficienti a coprire la domanda iniziale. Nel 1998, Blockbuster e alcune case cinematografiche stipularono un contratto revenue sharing caratterizzato dai seguenti parametri: • prezzo di acquisto DVD: 9 dollari; • tariffa noleggio: 3 dollari; • il noleggio viene ripartito 50% a Blockbuster e 50% alla casa cinematografica (1,5 dollari). Di conseguenza, per Blockbuster il break-even per ogni copia risultò essere 6 noleggi. In queste condizioni, il distributore è incentivato ad aumentare notevolmente le giacenze e di conseguenza il livello di servizio ai propri clienti (stimato intorno al 98%) fin dalle prime settimane di uscita dei film. Le case cinematografiche, a loro volta, rientrano degli sconti effettuati sulle vendite tramite le royalty sui noleggi (1,5 dollari a noleggio) con un guadagno complessivo per entrambe le parti. Negli anni successivi, Blockbuster ha consolidato la propria leadership raggiungendo una quota di mercato pari al 40% e ha basato la sua campagna pubblicitaria proprio sull’elevato livello di servizio: Make it a Blockbuster night – trovi il tuo film o lo noleggi gratis. Proprio perché sapeva che non trovare il film disponibile era diventato altamente improbabile! Fonte: Cachon e Lariviere (2001).

Processi interaziendali

Il nodo e la rete

Infine, un ultimo ostacolo alla collaborazione è di natura culturale e organizzativa. L’integrazione di processi aziendali differenti implica sempre ostacoli e resistenze. È lo stesso problema emerso nell’ambito della partnership tra cliente e fornitore (si veda ad esempio il Caso 16.1), amplificato dalla presenza di più attori. Nel momento in cui più aziende decidono di collaborare su determinati processi, è difficile rendere compatibili tra loro attività che sono sempre state gestite autonomamente in modo spesso radicalmente diverso tra loro. Di conseguenza, è necessaria una lunga fase di istruttoria in cui gli attori si confrontano e cercano di venirsi incontro modificando i loro processi interni e valutando quali siano le informazioni e le attività che effettivamente vale la pena condividere. Quest’ultimo capitolo ha trattato uno dei temi più dibattuti negli ultimi anni in ambito manageriale: il supply chain management, definito come un approccio orientato ai processi per la gestione dei flussi fisici, informativi ed economico-finanziari lungo l’intera rete di fornitura e di distribuzione, dai fornitori iniziali fino ai clienti finali. La prospettiva di analisi è duplice: olistica, ovvero a prescindere dalla prospettiva della singola impresa, oppure manageriale, in cui l’impresa, singolo nodo di una rete, analizza il proprio network di fornitura a monte e quello di distribuzione a valle al fine di ottimizzarne i processi.

17. Supply chain management ) 645

Rete contro rete

Ottimizzare i processi di una supply chain significa cercare di migliorare costantemente il trade-off tra le due prestazioni chiave considerate: il costo logistico totale e il livello di servizio offerto al cliente finale. Proprio la continua spinta al miglioramento delle prestazioni porta le imprese ad adottare strategie innovative di gestione della filiera. Il concetto di ottimizzazione globale di filiera chiama in causa alcuni elementi cruciali non ancora consolidati nel supply chain management, in particolare lo scambio di informazione e le pratiche di collaborazione, l’utilizzo di un sistema condiviso di misura delle prestazioni lungo la filiera e la creazione di opportuni incentivi e meccanismi di condivisione di rischi e benefici. In termini strategici il supply chain management modifica in parte i termini classici della competizione: non più o non solo l’impresa sola contro i concorrenti e per giunta in guardia costante dai clienti e dai fornitori, bensì l’impresa inserita in una o più reti di collaborazione-competizione dove la dinamica competitiva è spesso “rete contro rete” o “supply chain contro supply chain”.

Glossario*

Account manager Figura all’interno della funzione marketing con la responsabilità di seguire in modo dedicato alcuni clienti di particolare rilevanza (4.5). Acquisti colli di bottiglia (bottleneck items) Beni a bassa importanza strategica ed elevata difficoltà di acquisto, che costituiscono un collo di bottiglia degli approvvigionamenti per effetto dell’elevato potere contrattuale dei fornitori o della complessità del mercato di fornitura (15.4.1). Acquisti diretti/indiretti (direct/indirect purchases) I primi sono tutte le materie prime, i semilavorati e i componenti che confluiscono nei prodotti dell’azienda acquirente; i secondi invece sono tutti i beni che non vengono incorporati nei prodotti/servizi dell’azienda, ma risultano comunque necessari per garantirne l’operatività (15.1). Acquisti leva (leverage items) Beni a elevata importanza strategica e bassa difficoltà di mercato di fornitura, per i quali l’impresa può sfruttare il proprio potere contrattuale per ottenere vantaggi significativi (15.4.1). Affiancamento (training on the job) Formazione all’interno del contesto lavorativo e durante l’esperienza di lavoro nel quale la nuova persona svolge un ruolo di apprendista e assor-

be i “segreti del mestiere” da un maestro (3.2.6). Alternativa dominante (dominant strategy) Alternativa che procura al giocatore che la sceglie un payoff maggiore di ogni altra sua alternativa, qualunque sia la mossa scelta dall’avversario (9.3). Ampiezza del controllo (span of control) Numero di collaboratori sui quali può essere efficacemente esercitato il comando o, simmetricamente, numero di persone che riportano allo stesso superiore gerarchico (4.2). Ampiezza manageriale (managerial span of control) Numero di attività o funzioni di cui il supervisore risponde attraverso la direzione e il coordinamento delle persone, data dal numero di mansioni organizzative dipendenti dal supervisore (cfr. Ampiezza del controllo) (4.2). Analisi congiunta (conjoint analysis) Tecnica statistica utilizzata nell’analisi del valore percepito per stabilire il prezzo di un nuovo prodotto. La tecnica restituisce i valori di utilità che il cliente associa ai diversi attributi del prodotto e viene anche utilizzata in fase di sviluppo dei nuovi prodotti per stabilire quali attributi essi dovranno avere per soddisfare le aspettative del cliente (13.3.4).

* I numeri tra parentesi rimandano a capitoli, paragrafi e casi all’interno del libro.

648 ) LA

GESTIONE DELL’ IMPRESA

Analisi morfologica (morphological analysis) Tecnica per la generazione delle alternative in cui, a fronte della definizione di un problema e dei parametri fondamentali che costituiscono la soluzione, vengono identificate e mappate su una matrice diverse combinazioni di valori dei parametri. Tra le combinazioni si valutano quelle fattibili (8.3.1). Aste inverse elettroniche (Internet reverse auction) Tecnica di selezione dei fornitori che utilizza un’asta condotta per via elettronica sulla Rete in cui i potenziali fornitori sono in concorrenza fra loro e rilanciano le proprie offerte al ribasso, offrendo un prezzo sempre inferiore a quello precedente (15.5). Avversione al rischio (risk adversion) Atteggiamento caratterizzante un decisore che, tra due alternative di pari valore atteso, sceglie quella con il rischio speculativo inferiore (8.5.3).

Back office Parte dell’organizzazione che realizza attività in cui l’intensità di contatto con la clientela è generalmente ridotta (4.3, 6.3.2). Bisogno-desiderio-domanda (need-desire-demand) Sequenza di elementi su cui interviene il marketing, indirizzando il bisogno verso il desiderio di un determinato prodotto o servizio e rendendone possibile la domanda esplicita (11.1.1). Bundled outsourcing Decisione di delegare a un fornitore la gestione di un insieme complesso di componenti e dei relativi subfornitori (15.2.1). Burocrazia (bureaucracy) Apparato amministrativo per l’esercizio dell’autorità formale. In termini organizzativi modello caratterizzato da divisione del lavoro disciplinata da gerarchia, regole e procedure formalizzate, uniformità dei comportamenti, impersonalità delle relazioni interne ed esterne (1.3, 3.2.5, 6.5).

Canale di marketing (marketing channel) Insieme di organizzazioni interdipendenti coinvolto nel processo atto a rendere disponibile

al consumo un prodotto o un servizio (13.4, 12.3.5). Capitalismo renano Termine con cui si identifica il modello delle grandi imprese industriali tedesche al cui capitale partecipano anche le banche e alla cui gestione contribuiscono per legge anche i sindacati (1.2). Carta dei servizi (Service Level Agreement) Dichiarazioni delle caratteristiche e dei livelli di servizio offerti ai clienti utilizzate per valutare la qualità di progetto nel caso di processi di servizio (5.2.2). Catalogo elettronico (e-catalogue) Catalogo online di prodotti contenente informazioni quali la descrizione di singoli item di acquisto, il fornitore, il prezzo concordato, eventuali lotti minimi di acquisto e le modalità di consegna. Gli utenti autorizzati possono così effettuare autonomamente ordini di acquisto all’interno di contratti quadro predefiniti (15.8). Catalogo in punch-out (punch out catalogue) Catalogo in cui le informazioni non risiedono tutte all’interno di un unico database aziendale ma provengono da più fonti gestite anche da altri soggetti (es. fornitori o aziende partner) (15.8). Category manager Variante di product manager con la responsabilità di coordinare le attività di progettazione, produzione e vendita di una intera categoria di prodotti correlati (11.5.2). Choice Fase del processo decisionale in cui si attua la scelta vera e propria dell’alternativa migliore. La decisione è frutto di una serie di fattori che interagiscono tra loro, e non risulta sempre pienamente razionale, ma è influenzata da trade off negli obiettivi e anche dallo stato d’animo del decisore (8.4.1). Ciclo di vita dei prodotti (product life cycle) Tempo intercorrente tra l’introduzione di un nuovo prodotto (ricerca e sviluppo, ingegnerizzazione, produzione, lancio sul mercato) e il suo ritiro dal mercato. Si articola nelle fasi di introduzione, crescita, maturità, declino (11.4, 13.2, 13.3, 13.4, 13.5).

Glossario ) 649 Coinvolgimento anticipato del fornitore (Early supplier involvement) Approccio orientato al coinvolgimento del fornitore da parte del cliente prima del completamento della progettazione del prodotto finito in cui il componente dovrà integrarsi, in modo da anticipare eventuali vincoli o interferenze (16.2.3). Collaborative planning, forecasting and replenishment (CPFR) Metodologia che si basa sulla collaborazione proattiva tra gli attori della stessa supply chain al fine di effettuare congiuntamente le previsioni di vendita e condividere la pianificazione della produzione e delle consegne (16.3.3). Collaborazione operativa (operational collaboration) Collaborazione tra clienti e fornitori che comporta la realizzazione coordinata e congiunta di attività operative, legate al ciclo logistico-produttivo (16.3). Collaborazione tecnologica o progettazione congiunta (codesign) Collaborazione fra cliente e fornitore nelle attività di progettazione e ingegnerizzazione di nuovi prodotti, nuove tecnologie o nuovi processi (16.2). Colocation Localizzazione degli impianti produttivi e/o logistici di cliente e fornitore in luoghi prossimi o addirittura all’interno dello stesso stabilimento, al fine di ridurre i tempi di trasporto e facilitare il coordinamento (16.2.3, 16.3.3). Competenza (competence) Caratteristica di un individuo collegata a una performance adeguata in una mansione o in una situazione, misurata in base a un criterio stabilito (2.4.5, 3.3.1, 3.2.6, Casi 3.5a e 3.5b, 5.8.3, 10.2, 14.1, 14.2, 14.4.1, 15.2.2). Competenze-chiave (core competences) Competenze rappresentate da un mix di abilità (skill) e capacità che, interagendo, determinano i vantaggi competitivi percepiti dai clienti (14.1, 14.4.1). Compito (task) Insieme di attività o operazioni elementari necessariamente collegate in funzione di proprietà/capacità del lavoro umano e/o della tecnica impiegata (2.3, 2.4, 3.2, Caso 3.1, 4.2, 5.8.2, 7.3.1).

Comunità di pratiche (community of practice) Gruppo di persone che, anche appartenendo a organizzazioni diverse, condividono un corpo di pratiche, attività o interessi lavorativi, e che interagiscono, condividendo esperienze e conoscenza (3.3.1). Conoscenza tacita (tacit knowledge) Conoscenza non codificabile, non descrivibile in forma scritta, come la capacità di risolvere problemi logici o di gestire situazioni organizzative complesse (3.2.4, 3.2.6, 3.4.1, 6.3.3). Consignment stock Sistema nel quale vengono mantenute presso il cliente scorte di componenti, che rimangono però di proprietà del fornitore; l’effettiva vendita e il relativo pagamento avvengono soltanto al momento dell’utilizzo (16.3.3). Content management Attività di gestione dei cataloghi elettronici e del workflow automatizzato orientata allo sviluppo vero e proprio del catalogo e al continuo aggiornamento dei suoi contenuti (15.8). Continuous replenishment (CR) Sistema di riapprovvigionamento che si avvale della collaborazione e del coordinamento tra cliente e fornitore per realizzare un processo di ripristino delle scorte frequente, attivato dall’effettiva domanda da parte del cliente finale (16.3.3). Contract manufacturer (CM) Aziende a cui gli OEM esternalizzano la produzione di componenti o l’assemblaggio dei propri prodotti, sfruttandone i vantaggi in termini di economie di scala e di specializzazione (cfr. OEM) (14.2.1). Contratti quadro (frame contract) Contratti validi per orizzonti di tempo medio-lunghi (anche uno o più anni) che definiscono le specifiche tecniche e il prezzo, lasciando dei margini di libertà sui volumi e sui tempi di acquisto (14.2.3, 15.2.3, 15.7). Core business Area di attività più peculiare e caratteristica dell’impresa, ricca di capacità distintive. La focalizzazione sul core business rappresenta una strategia aziendale volta a eliminare o esternalizzare attività non critiche o non distintive (cfr. Outsourcing) (4.3).

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Corporate Social Responsibility (CSR) Iniziative messe in atto dalle imprese volte ad accreditarne l’immagine di attori economici socialmente responsabili, in tema di rispetto dell’ambiente, diritti dei lavoratori, trasparenza delle pratiche di corporate governance e di approvvigionamento (11.3.2). Costi di sostituzione (switching costs) Costi, derivanti dagli investimenti specifici richiesti dalla relazione, legati alla decisione di sostituire un fornitore con un altro (14.2.1, 14.2.3). Costi di transazione (transaction costs) Costi che un’organizzazione o un’unità organizzativa deve sostenere per negoziare o interagire con un soggetto terzo (cliente, fornitore o altra unità organizzativa). Sono talvolta occulti e difficili da stimare a priori (4.4, 6.3.3, 14.2.1, 14.3, 14.4). Costo logistico totale (total logistic cost) Insieme di costi elementari (mantenimento a scorta, movimentazione e imballaggio, trasporti, gestione della domanda ed elaborazione degli ordini dei clienti) sostenuti lungo la supply chain per la consegna dei prodotti al cliente finale (5.5.1, 17.2.1, Caso 17.2). Cost-plus pricing/contract Metodologia di determinazione del prezzo in base ai costi effettivamente sostenuti dal fornitore, incrementati di un margine fisso o percentuale (mark-up del fornitore) (13.3.4, 15.7). Cruscotto direzionale (tableau de board, balanced scorecard) Insieme di indicatori sintetici delle prestazioni di processo, costruito bilanciando il criterio di completezza, ossia la copertura di tutte le prestazioni rilevanti, e quello di parsimonia, ossia limitando la quantità di informazioni (5.8.1). Customer Relationship Management (CRM) Insieme di pratiche gestionali, sistemi e tecnologie utilizzati dalle imprese per gestire la relazione con il cliente, includendo le funzioni che mirano a conquistare e a conservare la propria clientela: marketing, aiuto alla vendita, servizio clienti, call center ed help desk (7.4.1, 12.3.3, 12.5.3, 13.5.2).

Data mining Processo atto a scoprire correlazioni, relazioni e tendenze nuove e significative, setacciando grandi quantità di dati immagazzinati in database, scavando in profondità nei dati raccolti, scoprendo informazioni nascoste, creando modelli esplicativi, al fine di fornire utili informazioni per aiutare le aziende a prendere decisioni migliori nei confronti dei propri clienti (6.3.3, 12.5.3, 13.5.2). Data warehousing Tecniche tramite cui l’informazione esplicita o resa opportunamente tale viene raccolta, strutturata e organizzata (6.3.3). Delayering organizzativo Cambiamento organizzativo finalizzato alla riduzione dei livelli gerarchici manageriali tramite l’ampliamento delle mansioni, l’introduzione della delega decisionale, l’incremento dell’ampiezza di controllo (3.4.1, 4.2, 5.8.5, 6.3.3). Delocalizzazione (offshoring) Tendenza allo spostamento delle attività di produzione in paesi caratterizzati da fattori produttivi a basso costo (manodopera, risorse energetiche e materie prime), tramite investimenti diretti o rivolgendosi ad aziende operanti in tali paesi (14.1). Demarketing Utilizzo del marketing allo scopo di ridurre la domanda in via temporanea o talvolta definitiva, eventualmente indirizzandola verso fasce più redditizie e a maggior valore, o azzerarla se di tipo nocivo (11.1.4). Design In un approccio thinking first rappresenta la seconda fase del problem setting, in cui si procede all’identificazione del sistema, alla generazione delle alternative e alla loro valutazione (8.4.1). Determinismo tecnologico (technological determinism) Convinzione che presuppone che la tecnologia determini rigidamente le scelte di progettazione organizzativa (6.3). Deverticalizzazione (deverticalization) Riduzione del livello di integrazione verticale con affidamento di alcune attività specifiche a fornitori e/o distributori (14.1).

Glossario ) 651 Dilemma del prigioniero (prisoner’s dilemma) Situazione decisionale in cui la razionalità individuale porta inesorabilmente i giocatori verso soluzioni non efficienti (cfr. Efficienza paretiana) (9.6, 15.6). Discriminazione di prezzo (price discrimination) Strategia attuata dalle imprese per cercare di estrarre il massimo profitto possibile dal mercato, sulla base dell’osservazione che clienti diversi, in condizioni diverse, sono disposti ad accettare prezzi differenti (13.3.5). Disintermediazione (disintermediation) Tendenza emergente, accentuata dalle opportunità offerte dall’economia digitale, in cui si instaura un contatto diretto tra fornitore e cliente, che interagiscono ed effettuano transazioni senza necessità di intermediari (11.3.2). Distretti industriali (Industrial districts) Sistemi locali a elevata concentrazione di piccole imprese specializzate in una produzione realizzata attraverso una divisione del lavoro tra unità indipendenti ma interagenti (1.2, 12.3.4). Distribution Requirement Planning (DRP) Applicazione della logica del MRP alle attività di distribuzione, pianificando le attività logistiche in funzione dei lead time di trasporto tra gli stadi della filiera a partire dall’esigenza di disponibilità fisica presso il punto vendita (17.2.3). Divisioni (Business Unit) Unità organizzative costruite utilizzando criteri di raggruppamento orientati agli output (prodotto, cliente o mercato) (4.6.3, 15.3.2). Doing first Approccio al processo decisionale secondo il quale si procede subito all’azione, sperimentando una soluzione, ed eventualmente riprovando con una differente alternativa fino a individuarne una che risulti funzionante da un punto di vista pratico (trial & error) (8.4.2). Domanda di mercato (market demand) È il volume totale di un prodotto o servizio che verrebbe acquistato, se disponibile, da un determinato segmento di consumatori in una specifica area geografica in un determi-

nato intervallo di tempo dato un certo ambiente di marketing e un certo livello dell’attività di marketing (12.4.1, 12.4.3, Casi 12.4 e 12.5, 13.3.1). Downsizing Cambiamento organizzativo volto alla riduzione delle risorse manageriali e degli enti di staff, enfatizzando gli obiettivi di efficienza e riduzione dei costi (5.8.5). Dual sourcing Strategia di approvvigionamento in cui il cliente mantiene un fornitore principale per la maggior parte del fabbisogno di un bene o di un servizio e uno di riserva per la parte rimanente (15.2.1).

EDI (Electronic Data Interchange) Tecnologia di scambio asincrono di dati in formato elettronico creata prima della diffusione di Internet, basata su standard internazionali proprietari e linee dedicate (16.3.3). Effetto frusta (bullwhip effect) Fenomeno di amplificazione delle oscillazioni della domanda nella trasmissione degli ordini da valle verso monte, con conseguente aumento dell’instabilità. Viene chiamato anche effetto Forrester, dal nome dello studioso che per primo se ne è occupato (17.3.1). Effetto leva (leverage effect) Aumento della redditività per l’impresa ottenuto tramite una riduzione dei costi di acquisto, in misura percentualmente inferiore all’incremento di redditività ottenuto (14.1, 15.4.1). Effetto-annuncio (declaration effect) Effetto tale per cui il solo annuncio di una decisione, anche se poi effettivamente non realizzato, può essere particolarmente rilevante nel determinare il comportamento degli attori (9.8). Efficienza del tempo di ciclo (throughput efficiency) Prestazione di processo data dal rapporto tra il tempo delle attività a valore aggiunto (tipicamente il tempo necessario per attività esecutive) e il lead time totale del processo, incluso di tempi morti, attese, code ecc. (5.5.3). Efficienza paretiana (Pareto efficiency) Soluzione per la quale non è possibile trovare una

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diversa soluzione che migliori il payoff per un attore senza peggiorare il payoff dell’altro (9.4). Elasticità della domanda al prezzo (demand elasticity to price) Indicatore percentuale che consente di conoscere l’entità della variazione della domanda in corrispondenza a un dato cambiamento di prezzo. Se, in corrispondenza a un dato cambiamento di prezzo, la domanda resta quasi immutata, questa si dice non elastica o rigida. Se la domanda cambia notevolmente, si definisce elastica (13.3.1). Empowerment Processo mediante il quale i membri del gruppo sono potenziati nelle loro competenze individuali e nelle loro capacità relazionali al fine di renderlo capace di una maggiore autonomia (3.4.1, 5.8.3, 5.8.5). E-procurement o e-supply Automazione del processo di supply tramite lo sviluppo di cataloghi elettronici di acquisto, al fine di eliminare operazioni ripetitive, razionalizzare il processo e delegare agli utenti finali alcune attività (15.8). Equità distributiva (distributive equity) Bisogno degli individui di sentire che il rapporto tra ciò che danno all’organizzazione e ciò che ricevono dall’organizzazione è allineato con quanto accade per gli altri membri dell’organizzazione (3.3.2). Equità procedurale (procedural equity) Bisogno degli individui di sentire che i processi decisionali sono equi e trasparenti, e che opportunità simili sono offerte a individui che hanno capacità simili (3.3.2).

Fattori igienici (hygiene factors) Fattori legati al contesto lavorativo, la cui assenza genera insoddisfazione e dunque scadimento della prestazione, ma la cui presenza non aumenta la soddisfazione e dunque non migliora la prestazione (3.3.2). Fattori motivanti (motivators) Fattori la cui presenza o aspettativa origina un atteggiamento positivo nei confronti dell’attività che si sta svolgendo, crea soddisfazione e dunque aumenta la prestazione (3.3.2). Fordismo (Fordism) Paradigma di organizzazione della produzione di massa sviluppato nei primi anni del Novecento in applicazione pratica dei princìpi di Organizzazione Scientifica del Lavoro elaborati da F. Taylor (cfr. Taylorismo). Nel modello fordista vi è netta separazione tra management e forzalavoro, il consenso non è un obiettivo e la flessibilità del mercato del lavoro garantisce la sostituibilità continua dei membri dell’organizzazione (1.2, 6.1, Caso 6.1). Formalizzazione (formalization) Insieme di attività attraverso cui l’impresa elimina la discrezionalità dei suoi dipendenti, descrivendo minuziosamente regole, procedure, ruoli e responsabilità (3.2.4, 4.1, 6.2.3, 6.4, 6.5, 12.3.6). Formazione continua (life-long education) Processo attraverso il quale gli individui mantengono aggiornato lo stock di conoscenze necessarie ritornando periodicamente ad apprendere e a sperimentare sul campo le competenze acquisite (3.2.6). Fornitori di servizi logistici (Third-Party-Logistics o 3PL) Fornitori che gestiscono le attività logistiche e di trasporto per conto di aziende terze (clienti o fornitori) (17.3.1).

Expediting Attività che consiste nel richiedere al fornitore lo stato di avanzamento della fornitura e la conferma della data di consegna promessa, sollecitando la consegna in caso di ritardo (15.2.3).

Fornitori world class (world class suppliers) Fornitori considerati i migliori al mondo nel proprio settore in termini di qualità e innovazione (15.4.2).

Extranet Utilizzo di Internet da parte delle aziende per comunicare con clienti e fornitori, mediante dei portali ad accesso riservato, tramite i quali vengono scambiate informazioni di varia natura (6.3.3, 16.3.3, 17.4).

Free pass Delega del controllo qualità direttamente al fornitore, previa verifica della sua affidabilità e del rispetto dei parametri qualitativi, con notevole risparmio in termini di tempi e costi per le aziende (15.2.3).

Glossario ) 653 Front office Parte dell’organizzazione che è costantemente in contatto con la clientela (4.3, 6.3.2). Full-truck-load (FTL) Politica logistica consistente nella consegna di mezzi solo a pieno carico, che richiede quindi l’effettuazione di ordini in lotti corrispondenti (17.3.1). Function delivery Tipologia di codesign in cui il fornitore progetta un componente su misura per il cliente, con funzionalità innovative, attraverso un processo decisionale separato, ovvero operando in modo sostanzialmente autonomo e coordinandosi con il cliente in momenti prestabiliti (16.2.2). Funzione obiettivo (target function) Funzione che, una volta ottimizzata, consentirebbe in un’ottica di razionalità perfetta di selezionare l’alternativa ottima. Viene costruita analizzando in modo sistematico gli elementi del problema, del contesto circostante, cogliendo tutti i nessi e le interazioni fra questi elementi e individuando tutte le possibili alternative (7.3, 8.3.2). Funzioni aziendali (functions) Unità organizzative risultanti dal raggruppamento di mansioni simili sotto il profilo dell’attività svolta, delle competenze richieste, delle tecnologie utilizzate (4.4, 4.6.2).

Garbage can Metafora con cui vengono rappresentati alcuni processi decisionali nelle organizzazioni complesse, dove più decisori si sovrappongono in modo poco prevedibile, compiendo scelte sulla base di logiche locali che si combinano con esiti imprevisti (7.4.2). Generazione delle alternative (generation of alternatives) Fase in cui vengono elaborate le alternative decisionali, cioè combinazioni coerenti di variabili decisionali che consentono il raggiungimento degli obiettivi compatibilmente con i vincoli individuati (8.3.1, 8.4.1). Geomarketing Tecnica utilizzata per gestire le operazioni di marketing di aziende che operano su un territorio geograficamente ridotto rispetto a quello nazionale. Si occupa del-

la scelta delle zone a cui dare la precedenza e delle tecniche di copertura, in termini di vendita e comunicazione, delle stesse, nonché della distribuzione geografica dei potenziali clienti e della concorrenza (13.4.3). Gioco a somma positiva (positive sum game) Situazione di gioco in cui entrambi gli attori possono conseguire simultaneamente dei payoff positivi (9, 14.2.3, 15.6). Global sourcing Strategia di fornitura che prevede l’utilizzo di fornitori lontani dal luogo dove opera il cliente e che considera come ambito l’intero pianeta (15.4.2). Glocalization Neologismo che indica la necessità da parte delle imprese globali di sfruttare sinergie ampie e transnazionali, ma contemporaneamente di sviluppare una parte della strategia di marketing sulla base di gusti e culture locali (6.2.1, 11.3.2). Gruppi di pari (peer groups) Forma organizzativa semplice caratterizzata da discreta omogeneità dei compiti, di tipo professionale, complessità mediamente elevata, con diffusa imprenditorialità tra i membri dell’organizzazione (4.6.1).

Identificazione del sistema di riferimento (decision system identification) Attività che consiste nella costruzione del modello decisionale, ossia di una rappresentazione selettiva della realtà, che permetta di identificare i fattori rilevanti per la decisione e i nessi causali che vi sono tra essi (8.4.1). Implementation Fase del processo decisionale in cui l’alternativa selezionata viene realizzata. La programmazione delle azioni, ovvero la definizione delle attività, dei tempi, dei modi, dei ruoli e delle responsabilità delle persone coinvolte, è quindi seguita dalla realizzazione delle azioni secondo il programma stabilito (8.4.1). Imprese globali (global enterprises) Imprese multinazionali caratterizzate da forti spinte al coordinamento centrale in cui le divisioni regionali o di paese presidiano localmente le attività operative, ma ciascuna funzione è

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coordinata tramite un riporto centrale (4.6.3). Imprese multidomestiche (multidomestic enterprises) Imprese nelle quali le unità organizzative locali operano con elevati gradi di autonomia e il ruolo di coordinamento centrale è limitato (strutture divisionali per mercato geografico) (4.6.3). Imprese transnazionali (transnational enterprises) Imprese nelle quali le business unit di paese hanno un elevato grado di autonomia, ma vengono messi in atto collegamenti orizzontali per sfruttare economie di scala e condividere le informazioni tra business unit di paesi differenti (4.6.3). Incertezza (uncertainty) In un processo decisionale identifica la situazione in cui il decisore conosce i possibili scenari o eventi esterni che si possono realizzare, oppure il range di variazione dei valori delle variabili esogene. Tuttavia si trova nell’incapacità di associare a ciascuna di esse una probabilità di accadimento (2.4, 6.2, 7.2, 7.3, 7.4, 8.5.4, 9.1, 10.2, 14.3, 17.3.2). Indicatori di prestazione (Key Performance Indicators) Indicatori che permettono di monitorare e rappresentare le prestazioni dei processi, che quantificano il contributo dell’output alla creazione di valore per il cliente (5.3, 8.2.1). Indifferenza al rischio (risk indifference) Atteggiamento caratterizzante un decisore che non considera come elemento di valutazione per la scelta tra alternative il rischio speculativo associato a ciascuna, ritenendo fra loro equivalenti due alternative con lo stesso valore atteso ma rischio speculativo diverso (8.5.3). Indottrinamento (indoctrination) Strumento mediante il quale l’organizzazione si assicura che i suoi membri condividano ideali e valori e che le norme siano vissute come emanazione di questi, in quanto ciò garantisce che i membri agiscano nell’interesse collettivo (3.2.6). Integrazione verticale (vertical integration) Decisione di un’azienda di presidiare tutte le

attività necessarie alla realizzazione e alla vendita dei propri prodotti o dei propri servizi, dall’approvvigionamento delle risorse primarie alla distribuzione dei prodotti finiti o all’erogazione dei servizi (6.1, 14.1, Caso 14.1, 14.2, 15.4.1). Intelligence In un approccio thinking first rappresenta la prima fase del problem setting, in cui viene percepito il problema, una possibile minaccia o l’emergere di una nuova opportunità, e innescato il processo decisionale. Questo presuppone la definizione degli obiettivi da parte dell’attore decisionale e l’identificazione dei possibili vincoli (8.4.1). Interruption marketing Approccio di marketing in antitesi al permission marketing, basata sul tentativo di catturare l’attenzione del maggior numero di persone possibile con una comunicazione invasiva (11.3.2). Irrazionalità sistemica (systemic irrationality) Irrazionalità in cui sfociano le razionalità (limitate) dei singoli individui nelle organizzazioni a causa della complessità della macchina organizzativa (cfr. Garbage can) (7.4.2).

Job enlargment Riprogettazione dei compiti e delle mansioni volta a ridurre il livello di specializzazione orizzontale, aumentando la varietà di compiti attribuiti alle singole posizioni (2.3.1, 3.2.3, 5.8.2). Job enrichment Riprogettazione dei compiti e delle mansioni volta a ridurre il livello di specializzazione verticale, con un conseguente aumento dell’autonomia decisionale (cfr. Mansioni professionali) (3.2.3, 5.8.2). Joint function development Tipologia di codesign finalizzata allo sviluppo congiunto di un componente innovativo tramite un processo decisionale condiviso (16.2.2). Joint process development Tipologia di codesign in cui viene sviluppato congiuntamente il processo produttivo di un componente, al fine di ridurne il costo di produzione, attraver-

Glossario ) 655 so un processo decisionale condiviso fra cliente e fornitore (16.2.2). Just In Time (JIT) Filosofia di gestione della produzione e della supply chain mirata alla riduzione degli sprechi, al miglioramento della qualità di prodotti e servizi e mediante la riduzione delle scorte e la gestione pull delle attività (Caso 6.1, 7.3.2, 16.3.3, 17.2.3).

Kanban Cartellino (cartaceo o elettronico) indicante un articolo, una quantità e poche altre informazioni che esprime una richiesta tra una postazione di lavoro e la sua precedente, utilizzato come strumento elementare per implementare una logica JIT (7.3.2, 16.3.3).

Leadership Capacità di assumere delle decisioni coinvolgendo tutte le parti interessate e rendendole parte integrante dei successi e degli insuccessi conseguiti (3.4.1, 5.8.1, 6.5, 7.3.1). Less-than-truck-load (LTL) Politica logistica che consiste nel permettere spedizioni anche se il carico non è completo (17.3.1). Livello di servizio (service level) Insieme di parametri di prestazione relativi alla velocità, alla puntualità e alla correttezza delle consegne dei prodotti (13.2.2, 13.4.3, 16.3.1, 17.2.1, Caso 17.2, 17.3). Local sourcing Attività di fornitura presso fornitori locali, che producono nello stesso paese o addirittura in prossimità dei siti operativi del cliente (15.4.2). Logica push e logica pull (push and pull logic) Gestione dei flussi fisici in cui l’avviamento delle attività di uno stadio della filiera avviene sulla base delle previsioni dei fabbisogni dello stadio successivo (push) o solo nel momento in cui lo stadio a valle manifesta una richiesta (pull) (5.7, 5.9, 17.2.3, 12.3.5).

Macrostruttura (organizational macrostructure) Complesso di scelte che determina le

unità organizzative (funzioni, divisioni, enti di staff...), e i relativi criteri di raggruppamento (4). Make or buy Processo che conduce alla scelta se produrre internamente o affidare a terzi l’allestimento di un dato prodotto, di un processo o di un servizio (14). Management by objectives (MBO) Sistemi di valutazione e retribuzione dei singoli nei quali una parte rilevante dei compensi è variabile e legata a obiettivi individuali assegnati ai singoli manager (3.3.2). Management science Approccio che utilizza un corpo di conoscenze strutturate di tipo logico-matematico per risolvere problemi complessi (7.3). Manager integratore (integrating managers) Ruolo di collegamento tra unità organizzative diverse senza autorità formale su di esse (4.5). Mansionario (job handbook) Documento che contiene la descrizione dei compiti assegnati alle posizioni (o alle unità organizzative) (3.2.4). Mansione (job) L’insieme dei compiti assegnabili a una posizione che può essere ricoperta da una persona (3.2). Mansioni manageriali di livello medio-basso (medium-low managerial jobs) Mansioni caratterizzate dalla responsabilità di gestione e coordinamento di attività complesse ma senza un potere decisionale effettivo, bensì con applicazione di schemi e procedure preordinati (3.2.2). Mansioni operative allargate (enlarged operative jobs) Mansioni operative oggetto di allargamento (job enlargement) caratterizzate da spiccata versatilità degli operatori e da diversificazione dei compiti (3.2.2). Mansioni professionali (professional jobs) Mansioni caratterizzate da alta specializzazione orizzontale, una bassa specializzazione verticale (elevata autonomia decisionale) che richiedono competenze avanzate, processi formativi di alto livello e maturazione di esperienza sul campo (3.2.3).

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Mappe causali (causal maps) Tecnica di modellizzazione grafica del processo decisionale che consente di descrivere le relazioni di causa-effetto tra le variabili di un modello in modo semplice e sintetico. Una mappa causale consiste in un grafo i cui nodi sono le variabili rilevanti e gli archi rappresentano i nessi causali (8.2.4). Marca (brand) Nome, disegno, segno grafico che identifica un prodotto o una linea di prodotti o un’impresa, avente lo scopo di simboleggiarne in modo sintetico e continuativo l’immagine e il valore presso il consumatore e i clienti (11.1.2, 11.5.2, 13.2.3, 13.5.2). Marketing Insieme di decisioni e di azioni che un’impresa intraprende per migliorare la commercializzazione dei beni o servizi offerti mediante la creazione, l’individuazione e lo stimolo dei bisogni dei consumatori, associata alla proposta di prodotti o servizi idonei per il soddisfacimento dei bisogni stessi (11.1). Marketing B2B (business-to-business) Tecniche e approcci del marketing utilizzati per il mercato industriale e dei rivenditori, ovvero in cui la relazione è direttamente tra impresa e impresa (12.3.2). Marketing B2C (business-to-consumer) Tecniche e approcci utilizzati nel marketing per raggiungere il consumatore finale dei beni o dei servizi venduti. L’acronimo identifica la relazione tra l’impresa fornitrice di beni e servizi (business) e il consumatore (consumer) (12.3.2). Marketing mix Insieme delle azioni che compongono la strategia di marketing dell’impresa. Le leve del marketing mix riguardano tipicamente le decisioni relative al prodotto, al prezzo, alla pubblicità, alla promozione, ai canali di distribuzione e alla rete di vendita (8.2.4, 11.6.1, 13). Mass-customization Personalizzazione del prodotto finito in un contesto di produzione di massa, possibile grazie alla standardizzazione dei componenti, alla modularizzazione dei prodotti e alla riduzione dei tempi di produzione, assemblaggio e distribuzione (17.2.3, Caso 17.7).

Material Requirement Planning (MRP) Strumento che supporta la pianificazione degli ordini di materiali ai fornitori in logica push, a partire da un piano di produzione, tenendo conto della distinta base, della difettosità, delle politiche di lottizzazione, e dei lead time di approvvigionamento (17.2.3). Mercato disponibile (available market) Parte del mercato potenziale che, oltre a manifestare interesse, possiede anche il reddito necessario e l’accesso all’offerta di prodotto (12.4.1). Mercato obiettivo (target market) Mercato a cui l’impresa decide di rivolgersi, selezionato sulla base dell’attrattività dei segmenti di mercato, ovvero di gruppi di clienti caratterizzati da preferenze e comportamenti relativamente omogenei (12.5). Mercato penetrato (penetrated market) Parte del mercato servito che acquista effettivamente il prodotto (12.4.1). Mercato potenziale (potential market) Insieme di tutti i soggetti che dimostrano interesse nei confronti dell’offerta di mercato relativa a un determinato prodotto/gruppo di prodotti e per ragioni demografiche, economiche, culturali possono essere considerati potenziali acquirenti (12.4.1). Mercato servito (served market) Mercato costituito dai segmenti del mercato disponibile ai quali l’offerta di marketing si rivolge, circoscritto dalle scelte di marketing dell’azienda, in termini di segmentazione, focalizzazione sul mercato target e posizionamento (12.4.1). Metodo 635 (635 method) Strumento per la generazione delle alternative volto a stimolare la creatività dei decisori che prevede la presenza di 6 partecipanti, a cui si richiede in modo iterativo di ricercare 3 proposte di soluzione a un problema dato in 5 minuti. Al termine del giro saranno state generate 108 possibili soluzioni (8.3.1). Metodo del markup (markup pricing) Metodo per la fissazione del prezzo di vendita di un prodotto basato sul costo totale unitario, a cui viene aggiunto un ricarico espresso co-

Glossario ) 657 me percentuale sul costo, o markup, adeguato per raggiungere gli obiettivi di profitto desiderati (13.3.4). Microstruttura (organizational microstructure) Complesso di scelte che determina il livello di specializzazione orizzontale e verticale delle posizioni individuali, la formalizzazione dei compiti e i meccanismi di coordinamento (3). Middle management Gruppo di manager intermedi che esprime il collegamento tra il vertice aziendale (top management) e la base di lavoratori (nucleo operativo) (2.5, 4.3, 5.8.5, 7.2). Modelli epidemiologici (epidemiological models) Tecniche di previsione della domanda basate sull’assunto che l’acquisto di un nuovo prodotto possa avvenire almeno in parte per imitazione con una dinamica simile alla diffusione delle epidemie. Questi modelli sono adatti a prevedere la domanda di primo acquisto di un prodotto a partire da parametri stimati tramite test di mercato o su prodotti analoghi venduti nel passato (12.4.3). MRO (Maintenance, Repair and Operating materials) Acronimo con cui si indicano tutti gli acquisti indiretti di beni di consumo necessari al funzionamento dell’azienda (15.1, 15.8). Multicanalità (multiple channels) Pratica molto diffusa consistente nell’uso simultaneo di più canali di vendita (punto vendita tradizionale, canale internet, canale telefonico) per i propri prodotti. Consente di raggiungere un maggior numero di clienti, con caratteristiche preferenziali e comportamenti di acquisto differenti (11.3.2, 13.4.3). Multiple sourcing Strategia di approvvigionamento in cui il cliente ricorre a molteplici fornitori per l’approvvigionamento di uno stesso bene o servizio, al fine di mantenere la pressione competitiva e ridurre eventuali costi di cambio fornitore (15.2.1, 15.4.1). Mutuo adattamento (mutual adjustment) Anche detto adattamento reciproco, è un meccanismo di coordinamento tra persone che

consegue il coordinamento tramite semplici processi di comunicazione informale (2.4.1).

OEM (Original Equipment Manufacturer) Termine con cui si definiscono i produttori a marchio proprio, che possono incorporare componenti realizzati da terzi (cfr. Contract manufacturer) (13.4.1, Caso 13.6). Order tracing Possibilità da parte degli utenti e della funzione acquisti di ricevere informazioni sulla storia delle fasi precedenti di avanzamento dell’ordine (15.8). Order tracking Possibilità da parte degli utenti e della funzione acquisti di ricevere informazioni sullo stato di avanzamento dell’ordine (15.8). Organi di linea (line units) Organi collocati lungo la linea gerarchica che possiedono l’autorità formale di prendere le decisioni sull’attività caratteristica dell’impresa (4.3). Organi di staff (staff units) Organi costituiti da una serie di unità specializzate collocati a lato della linea gerarchica non dotati di potere formale che forniscono all’azienda un supporto esterno al flusso di lavoro operativo (4.3). Organigramma (organization chart) Rappresentazione grafica che esprime la denominazione delle unità organizzative, la loro composizione, e le loro relazioni di dipendenza gerarchica con le altre unità sovraordinate e sottordinate (2.6, 4.1). Organizzazione orientata ai progetti (projectbased organization) Configurazione in cui la linea gerarchica è riferita alla dimensione di progetto e le funzioni diventano centri di competenza da cui attingere competenze specialistiche per formare i team di progetto (temporanei e non permanenti) (4.6.5). Organizzazione scientifica del lavoro (Scientific organization of work) L’insieme dei princìpi di organizzazione del lavoro orientati al miglioramento dell’efficienza produttiva e basati sullo studio analitico di tempi e metodi di lavoro (cfr. Taylorismo) (1.1, 6.3).

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GESTIONE DELL’ IMPRESA

Organizzazione snella (lean organization) Struttura organizzativa piatta e corta, caratterizzata da un numero di livelli organizzativi, e quindi di management e staff, molto limitato e da flussi di comunicazione prevalentemente orizzontali (cfr. Delayering organizzativo) (5.8.5, Caso 6.1). Orientamento al marketing (marketing orientation) Approccio di gestione aziendale incentrato sulla soddisfazione del cliente, sull’esatta comprensione dei suoi bisogni, sul far emergere domande latenti o sul soddisfare domande già manifeste, conseguendo ricavi e profitti soddisfacenti per l’impresa (11.3). Outsourcing Processo che porta all’esternalizzazione di prodotti o servizi prima realizzati o erogati internamente, a beneficio di uno o più fornitori esterni (cfr. Integrazione verticale) (14).

Parallel sourcing Strategia di approvvigionamento caratterizzata da una serie di relazioni esclusive di single sourcing con fornitori diversi per componenti simili, ciascuno dei quali è dedicato a soddisfare il fabbisogno per una determinata famiglia di prodotti finiti (15.2.1, Caso 15.2).

tore la decisione se accettare il dialogo (11.3.2). Posizionamento (market positioning) Definizione delle caratteristiche specifiche di un prodotto o servizio e della relativa offerta di marketing che permettono all’impresa di differenziarsi dai concorrenti in un determinato segmento di mercato nella percezione dell’acquirente (13.1). Posizione individuale (individual position) Insieme di mansioni e ruoli assegnabili a un’unica persona (3.2). Post-ponement Spostamento verso valle delle attività di personalizzazione dei prodotti (17.2.3, Caso 17.7). Premium price Premio di prezzo, e dunque prezzi superiori alla media del segmento di mercato, che alcune imprese riescono a farsi riconoscere dai clienti in virtù di un valore percepito del proprio prodotto da parte del cliente più elevato rispetto ad altri concorrenti (13.1, 13.3.3). Private labels Prodotti venduti con il marchio del distributore; in particolare per i prodotti di largo consumo sono rappresentate dalle marche delle catene di distribuzione (13.2.3, 13.4.1, 16.3).

Partnership Relazione di outsourcing caratterizzata dalla collaborazione tra cliente e fornitore, basata su rapporti di medio-lungo termine regolati da contratti quadro o accordi strategici (16).

Problem setting Prima fase del processo decisionale che include la percezione e identificazione del problema, la definizione degli obiettivi e l’analisi dei fattori rilevanti per la scelta (8.1, 8.2).

Payoff Valutazione quantitativa della soddisfazione del decisore per ciascun esito possibile del processo decisionale, incrociando le scelte del decisore con quelle della controparte (9.1).

Problem solving Seconda fase del processo decisionale (succede al problem setting) che include attività quali l’identificazione delle alternative, la valutazione della loro capacità di raggiungere in tutto o in parte gli obiettivi, la scelta e l’attuazione della decisione e il controllo dei risultati ottenuti (8.1, 8.3).

Perdita di opportunità (opportunity loss) Mancato guadagno conseguente a una scelta non ottimale per un dato scenario (8.5.3, 8.5.4). Permission marketing Approccio di marketing e di comunicazione che si rivolge solo a coloro che veramente lo desiderano e sono positivamente disposti, lasciando al consuma-

Process delivery Tipologia di codesign in cui cliente e fornitore collaborano nello sviluppo del processo produttivo al fine di ridurre il costo di produzione, senza modificare le funzionalità del componente vero e proprio, attraverso un processo decisionale separato (16.2.2).

Glossario ) 659 Process owner Responsabile di fronte al cliente dell’output e delle prestazioni del processo, preposto a presidiare gli obiettivi globali e la continuità operativa di un processo e a promuoverne il miglioramento continuo (5.7, 5.8.1). Processi aziendali (business processes) Insieme organizzato di attività e di decisioni, finalizzato alla creazione di un output effettivamente richiesto da un cliente, e al quale questi attribuisce un “valore” ben definito (5). Processi di supporto (support processes) Processi necessari alla gestione dei processi primari che hanno clienti interni ma non impattano, se non indirettamente, sulla soddisfazione del cliente esterno (5.4, 5.8.4, 14.5). Processi primari (primary processes) Processi che creano direttamente valore riconosciuto dal cliente esterno e le cui performance impattano sul livello di soddisfazione del cliente esterno (5.4, 5.8.4, 14.5). Product manager Ruolo integratore molto utilizzato nel marketing che funge da collegamento tra unità organizzative diverse, avendo responsabilità sul coordinamento della progettazione, produzione e vendita di specifici prodotti o famiglie di prodotto (4.5, 11.5.2, 13.2.4). Progettazione bottom-up (bottom-up organizational design) Progettazione organizzativa che parte dall’analisi dal basso delle attività realizzate nell’azienda con dapprima la definizione di compiti e mansioni e, a livello più aggregato, delle unità organizzative (4.4).

glie quella con rischio speculativo superiore (8.5.3). Punto di disaccoppiamento (decoupling point) Punto della supply chain in cui si passa da una logica push (adottata negli stadi a monte) a una pull (adottata negli stadi a valle in prossimità del mercato finale) (cfr. Postponement) (17.2.3).

Qualifica del fornitore (supplier qualification) Valutazione di un potenziale fornitore, tramite visite ispettive e valutazione di campioni di prodotti che, se superate, autorizzano l’avvio di un rapporto commerciale (15.2.1, 15.2.2). Quota di mercato (market share) Rappresenta il rapporto tra le vendite di un’impresa e le vendite complessive del settore, a fronte dello sforzo di marketing attuato dall’impresa stessa (12.4.2).

Razionalità limitata (bounded rationality) Concetto secondo il quale nel mondo e nelle organizzazioni reali i decisori non hanno una completa chiarezza degli obiettivi da raggiungere, non dispongono di tutte le informazioni necessarie per vagliare tutte le alternative decisionali disponibili o del tempo necessario per ottenerle. Il loro comportamento quindi non risulta ottimizzante (7.3). Reintermediazione (re-intermediation) Tendenza che si contrappone alla disintermediazione, in cui le opportunità della tecnologia consentono la nascita di nuovi intermediari elettronici che forniscono informazioni e servizi via Internet ad aziende e consumatori (11.3.2).

Progettazione top down (top-down organizational design) Progettazione organizzativa che avviene dall’alto verso il basso, definendo, a partire dal vertice strategico, le principali unità organizzative e i criteri di raggruppamento più adeguati per ciascun livello gerarchico (4.4).

Responsabile di marca (brand manager) Variante di product manager con la responsabilità di coordinare le attività di progettazione produzione e vendita di un gruppo di prodotti commercializzati con un certo marchio (cfr. Product manager) (11.5.2).

Propensione al rischio (risk propension) Atteggiamento caratterizzante un decisore che, tra due alternative di pari valore atteso sce-

Reti collaborative (collaborative networks) Reti cooperative di piccole imprese che mantengono dimensioni ridotte per il timore di per-

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GESTIONE DELL’ IMPRESA

dere controllo o flessibilità, ma sono in grado di fare massa critica aggregandosi (2.1). Reverse logistics Attività di ritiro dei prodotti usati dal mercato finalizzata allo smaltimento, al riuso o al riciclo (17.1). Review Fase conclusiva del processo decisionale thinking first in cui si attua il controllo dei risultati. Questo implica la misura degli effetti ottenuti tramite gli indicatori definiti nella fase di Intelligence, e il confronto di tali effetti con gli obiettivi e i vincoli tramite l’analisi degli scostamenti (8.4.1). Richiesta di Offerta - RDO, Request For Quotation - RF(X) Acronimo utilizzato nel gergo degli acquisti per indicare una richiesta al fornitore. Generalmente si considerano tre tipologie: Richiesta di Informazioni (Request for Information - RFI), di Offerte complete (Request For Proposal - RFP), o di Quotazione di una fornitura dalle specifiche già definite (Request For Quotation - RFQ) (15.5). Riprogettazione dei processi aziendali (Business process reengineering) Approccio strutturato all’innovazione organizzativo-gestionale orientato al raggiungimento di miglioramenti radicali nelle prestazioni tramite il ridisegno dei processi aziendali (5.10). Rischi puri (pure risks) Rischi che coincidono con l’accezione che nell’uso comune si dà al termine “rischio”, ovvero la possibilità di un evento esterno non controllabile che, qualora si manifesti, determina conseguenze negative (8.5.1). Rischi speculativi o d’impresa (speculative risks) Fattori di incertezza connaturati all’attività economica che si distinguono dai rischi puri in quanto le conseguenze degli eventi possono essere sia negative sia positive, o comunque diverse dal valore atteso (8.5.1). Rischio (risk) In un processo decisionale identifica la situazione in cui il decisore conosce i possibili scenari, ossia le situazioni che si possono verificare nell’ambiente, ed è anche in grado di associare a ciascuno una probabilità di accadimento (8.5).

Ruolo (role) Insieme delle aspettative di comportamento nei confronti di una persona in riferimento agli obiettivi dell’organizzazione (3.2).

Scala dei bisogni (hierarchy of needs) Teoria originariamente messa a punto da A. Maslow secondo la quale la motivazione si sviluppa a partire da bisogni elementari, e solo quando questi sono soddisfatti, gli individui si orientano verso bisogni di livello superiore, quali l’appartenenza, l’autorealizzazione ecc. (3.3.2, 11.1.1, 12.3.3). Scouting Attività di esplorazione del mercato di fornitura, con finalità di aggiornamento tecnologico, conoscenza dell’offerta di potenziali fornitori, scoperta di soluzioni alternative e monitoraggio della concorrenza (15.5). Seeing first Approccio al processo decisionale secondo il quale il decisore vede fin dall’inizio “la soluzione” e la persegue con tenacia; consiste quindi non in un vero e proprio processo di analisi ma nell’implementare un’unica soluzione identificata a priori, eventualmente convincendo e motivando gli altri decisori coinvolti (8.4.3). Segmentazione (market segmentation) Processo di selezione che porta al frazionamento di un vasto mercato in segmenti, ovvero gruppi di clienti che possiedono una percezione simile di un bisogno e che mostrano preferenze simili circa le caratteristiche dei prodotti e servizi per soddisfare il bisogno (12.5). Servitization Fenomeno presente sia nei mercati B2C sia in quelli B2B, dato dall’aumento della rilevanza della componente di servizio associata ai prodotti (11.3.2, 13.2.1, Caso 13.3). Single sourcing Strategia di approvvigionamento in cui il cliente, per obbligo o per scelta, si affida a un unico fornitore per l’approvvigionamento di un determinato bene o servizio (15.2.1). Sistema meccanico (mechanistic system) Sistemi organizzativi caratterizzati da suddi-

Glossario ) 661 visione spinta dei compiti, enfasi su autorità e controllo, prestigio connesso alla posizione occupata, forte ricorso alla gerarchia ed elevata formalizzazione delle mansioni (3.2.5).

Standardizzazione dei processi (standardization of work) Meccanismo di coordinamento che consiste nello specificare o programmare in modo dettagliato i contenuti del lavoro (2.4.3).

Sistema organico (organic system) Sistemi organizzativi caratterizzati da scarsa enfasi sulla specializzazione, forte ricorso all’esperienza, orientamento agli obiettivi e al problem solving, forte interazione laterale e bassa formalizzazione delle mansioni (3.2.5).

Standardizzazione dei risultati (standardization of outputs) Meccanismo di coordinamento che si basa sulla determinazione a priori dei risultati del lavoro individuale, affinché il lavoro di ciascuno possa basarsi su input certi forniti da altri (2.4.4).

Sistemi a punteggio (score technique) Tecnica a supporto della valutazione e della scelta tra differenti alternative in un contesto multiobiettivo. Si fonda sulla definizione di una serie di criteri di valutazione, l’attribuzione di un peso a ogni criterio in funzione della sua importanza per il raggiungimento dell’obiettivo, e l’attribuzione di un punteggio ad ogni criterio per ogni alternativa. La comparazione del punteggio pesato attribuito a ciascuna alternativa permette la scelta (8.3.2, 8.5.3, 12.3.3, 15.4.3). Slack Risorse economiche, tecnologiche e organizzative la cui eccedenza rappresenta un aspetto tipico dei processi decisionali organizzati e contribuisce a ridurre i conflitti tra gli attori decisionali e a rendere gli obiettivi, benché ambigui o contrastanti, almeno in parte compatibili (7.3.1, 7.4.1). Soluzione di equilibrio o equilibrio di Nash (Nash-equilibrium) Soluzione tale per cui nessun attore preso singolarmente ha convenienza alcuna a cambiare la propria decisione, una volta fissata quella della controparte (9.5). Specializzazione orizzontale (horizontal specialization) Attribuzione dei compiti elementari necessari alla realizzazione di un certo processo a individui differenti (2.3). Specializzazione verticale (vertical specialization) Separazione tra attività esecutive da un lato e attività di programmazione, coordinamento e controllo dall’altro. Le attività esecutive vengono affidate agli operatori, le altre ai “manager” (2.3).

Standardizzazione dei valori (standardization of norms/values) Forma di coordinamento basato sullo sviluppo e il rafforzamento del senso di lealtà, di identificazione e di appartenenza degli individui nei confronti dell’organizzazione (3.2.6). Standardizzazione delle competenze (standardization of skills) Meccanismo di coordinamento che consiste nell’assicurarsi che le persone abbiano le competenze adeguate per eseguire un determinato lavoro e coordinarsi autonomamente. La formazione è il principale strumento per la standardizzazione delle competenze (2.4.5). Strategia di marketing pull (pull marketing strategy) Strategia di marketing in cui, tramite una serie di azioni, si cerca di stimolare la domanda finale, affinché questa determini una domanda di prodotti e servizi nei confronti dei distributori. La domanda viene dunque “tirata” (pull) dallo stadio a valle, il consumatore finale (12.3.5). Strategia di marketing push (marketing push strategy) Strategie di marketing in cui, tramite un insieme ampio di azioni, il produttore cerca di stimolare e incentivare i rivenditori a privilegiare i propri prodotti, “spingendoli” (push) verso i consumatori, i quali saranno dunque indotti all’acquisto da parte dei distributori stessi (12.3.5). Struttura organizzativa a matrice (matrix structure) Configurazione organizzativa caratterizzata dalla rinuncia al principio di unicità del comando poiché esistono responsabili funzionali e responsabili di divisione con responsabilità congiunte sulle stesse risorse (4.6.5).

662 ) LA

GESTIONE DELL’ IMPRESA

Struttura organizzativa divisionale (divisional structure) Configurazione organizzativa in cui le unità di primo livello vengono costruite utilizzando criteri di raggruppamento orientati agli output (prodotto, cliente o mercato) (cfr. Divisioni) (4.6.3). Struttura organizzativa funzionale (functional structure) Configurazione organizzativa in cui le unità al primo livello gerarchico sono progettate raggruppando le attività in base allo svolgimento di una funzione comune (ad esempio, produzione, progettazione, vendita ecc.) (cfr. Funzioni aziendali) (4.6.2). Struttura organizzativa ibrida (hybrid structure) Configurazione organizzativa in cui i criteri di suddivisione del lavoro e di raggruppamento delle unità organizzative sono differenti (funzionale e divisionale) anche allo stesso livello della struttura gerarchica (4.6.4). Supervisione diretta (direct supervision) Meccanismo di coordinamento tra persone che prevede la presenza di un individuo che si assume la responsabilità del lavoro di altri, dando loro istruzioni, controllando le loro azioni e risolvendo i problemi di coordinamento attraverso l’esercizio dell’autorità formale (2.4.2). Supply Chain Management Approccio orientato ai processi per la gestione dei flussi fisici, informativi ed economico-finanziari lungo l’intera rete di fornitura e di distribuzione, dai fornitori iniziali fino ai clienti finali (17). SWOT analysis Analisi utilizzata per la definizione della strategia di business che parte dall’analisi dell’ambiente interno ed esterno al fine di evidenziare i punti di forza (Strengths) e di debolezza (Weaknessess) conseguenti alle caratteristiche e alle capacità attuali dell’impresa, nonché le opportunità di mercato (Opportunities) e le minacce (Threats) (11.3.1).

Target costing Tecnica di determinazione del prezzo di un prodotto in cui dapprima viene fissato il livello del prezzo corrispondente al valore percepito del prodotto, e successiva-

mente si adatta la progettazione, la produzione e la distribuzione del prodotto per ottenere un livello dei costi compatibile con il prezzo fissato (13.3.4). Taylorismo (Taylorism) Insieme di pratiche di organizzazione industriale volte a rendere il lavoro più specializzato e dunque più frammentato, pianificato e controllabile. (da Francis Taylor, 1867-1915 che per primo pose le basi della progettazione “scientifica” delle organizzazioni) (cfr. Organizzazione scientifica del lavoro) (1.1, 6.3). Team interfunzionali (interfunctional teams) Modalità di organizzazione del lavoro volta a ottenere l’integrazione delle attività svolte da diverse funzioni aziendali, attraverso il lavoro di gruppo (3.4.1, 4.5, 5.8.2, 6.3.2). Tecniche di previsione estrapolative (extrapolative planning/forecasting techniques) Tecniche quantitative di previsione delle variabili ambientali di un problema decisionale che cercano nella storia passata della variabile fattori di regolarità e in base a questi formulano una previsione sull’andamento futuro (8.2.5). Tecniche di previsione qualitative (qualitative planning/forecasting techniques) Tecniche di previsione basate sull’opinione e l’esperienza di persone competenti o influenti nel valutare o determinare le variabili oggetto di previsione. Sono adottate quando non sono disponibili sufficienti informazioni quantitative, o si ritiene che lo studio della storia passata non fornisca spunti utili per il futuro (8.2.5). Tecnologia RFID (Radio Frequency Identification technology) Tecnologia basata su un chip che, applicato a prodotti o imballi, permette di tracciare la posizione, il movimento e l’avanzamento dei materiali in tempo reale nei magazzini, nei punti vendita, nelle infrastrutture logistiche e lungo tutta la filiera (16.3.3). Teoria dei giochi (Games Theory) Teoria dei comportamenti strategici in cui ogni attore, nel prendere le proprie decisioni, deve tenere conto di quali azioni decideranno di intra-

Glossario ) 663 prendere gli altri attori che partecipano all’interazione (9).

mento giusto, né troppo presto, quando i rischi sono elevati, né troppo tardi (10).

Teoria dei rinforzi (Rewards Theory) Teoria motivazionale secondo cui i comportamenti che producono conseguenze positive per l’individuo tendono a essere ripetuti e quelli che producono conseguenze negative tendono a essere scartati o sospesi (3.3.2).

Toyotismo (Toyotism) Termine coniato per il modello tipicamente giapponese dell’azienda-mamma, in grado di generare consenso e ridurre i conflitti, di favorire il coinvolgimento e la motivazione della manodopera in cambio di impiego a vita e cura del nucleo familiare del dipendente (1.2).

Teoria del goal setting (Goal Setting Theory) Teoria motivazionale secondo cui la prestazione dipende dall’intenzione personale di agire per ottenerla, tale per cui a obiettivi ambiziosi corrispondono prestazioni più elevate (3.3.2). Teoria dell’equità (Equity Theory) Teoria motivazionale basata sull’idea che gli individui nei contesti organizzati tendono a paragonarsi ai colleghi ritenuti loro pari e, più in generale, agli altri membri dell’organizzazione, e a basare su tali confronti il loro livello di soddisfazione (3.3.2).

Trade off Legame esistente tra due o più prestazioni tale per cui al miglioramento di una dimensione consegue il peggioramento di un’altra (4.6.4, 5.6, 7.3, 8.2.1, 8.5, 11.6.1, 12.5.4, 13.4.3, 17.2.1, 17.2.3). Trading company Intermediari che acquistano e rivendono su mercati globali prodotti intermedi, agevolando l’incontro tra domanda e offerta e riducendo la complessità dello scambio (12.3.5).

Terziarizzazione (outsourcing) Cessione a terzi di quote di attività precedentemente svolte internamente (14).

Unità organizzativa (organizational unit) Insieme di posizioni e ruoli correlati, assegnabili a un gruppo di individui, e per i quali viene identificato un responsabile (1.2, 2.1, 2.6, 4).

Thinking first Approccio analitico e modellistico al processo decisionale secondo il quale un problema viene analizzato, rappresentato in termini di cause ed effetti o conseguenze, ne vengono studiate le possibili alternative; pur in condizioni di razionalità limitata con questo approccio, si seleziona la migliore alternativa tra quelle prese in considerazione (cfr. Razionalità limitata) (8.4.1).

Valore atteso (expected value) In condizioni di rischio viene definito come la media dei risultati o payoff corrispondenti a un’alternativa decisionale nei vari scenari, pesati in base alla probabilità di accadimento (8.5.3, 8.5.4).

Time to market Tempo intercorrente tra l’inizio del processo di sviluppo di un nuovo prodotto o servizio e la sua commercializzazione. La capacità di ridurlo è una fonte di vantaggio competitivo (11.1.4, 16.2.3).

Value pricing Strategia praticata dalle aziende che operano con prezzi aggressivi, sistematicamente inferiori alla concorrenza, pur offrendo prodotti e servizi di qualità medioelevata (13.3.3, 13.3.4).

Time-based competition Competizione basata sui tempi che spinge le aziende a ricercare modi sempre nuovi per garantire risposte rapide ai clienti o capacità di rapido adattamento ai cambiamenti nel contesto tecnologico, normativo, di mercato (5.2).

Valutazione delle alternative (evaluation of alternatives) Fase che consiste nella valutazione delle alternative generate in termini di soddisfacimento degli obiettivi o dei vincoli, e che in caso negativo può innescare ricircoli, richiedendo di generare nuove alternative o di ridefinire gli obiettivi (8.3.2, 8.4.1, 10.3.1, 12.3.3).

Timing Nell’ambito di un processo decisionale si riferisce alla capacità di decidere al mo-

Variabili ambientali o esogene (A) (exogenous variables) Nel modello decisionale identifi-

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GESTIONE DELL’ IMPRESA

cano i fattori non controllabili dal decisore, ma che influenzano il processo decisionale (8.2.3, 8.2.4, 8.2.5, 8.5.2, 8.5.3, 8.5.4, 9.1, 10.1, 10.3).

no gestite direttamente dal fornitore che ha visibilità sul livello di giacenza e sui piani di produzione e provvede autonomamente al riapprovvigionamento (16.3.3).

Variabili decisionali (D) (decision variables) Nel modello decisionale identificano i fattori che sono controllabili dai decisori, e che costituiscono quindi leve a disposizione dei manager (8.2.3, 8.2.4, 8.3.1, 10.3.2).

Vendor rating Valutazione periodica del comportamento di ciascun fornitore e dei risultati della relazione instaurata con lui al fine di verificarne l’andamento e individuare tempestivamente eventuali criticità (12.3.4, 15.2.1, 15.2.3, 15.4.3).

Variabili endogene (E) (endogenous variables) Variabili che identificano i risultati, ovvero gli effetti e le conseguenze delle decisioni e degli eventi esterni. Nella costruzione di un modello decisionale rappresentano gli obiettivi che si vogliono perseguire (8.2.3, 8.2.4, 10.1). Variabili endogene collaterali (collateral endogenous variables) Risultati indiretti non voluti (effetti collaterali) prodotti dalle decisioni manageriali (8.2.3). Variabili endogene strumentali (È) (instrumental endogenous variables) Effetti intermedi di tipo indiretto che le decisioni sortiscono nei processi reali e che permettono o sono necessari al conseguimento dell’obiettivo finale (8.2.3). Vendor Managed Inventory (VMI) Sistema attraverso il quale le scorte del cliente vengo-

Vincoli (bounds/constraints) Limiti di varia fonte e natura (tecnologica, finanziaria, normativa, organizzativa, ecc.) posti alla libertà di decisione e di azione e all’interno dei quali i decisori sono liberi nelle scelte (8.2.2, 8.2.3, 8.3.2, 8.4.1, 10.1).

Web EDI Evoluzione dell’EDI basata sulla trasmissione delle informazioni via Internet, con utilizzo degli standard preesistenti ma un abbattimento dei costi di connessione (16.3.3). Workflow automatizzato (automated workflow) Strumento associato al catalogo elettronico in grado di velocizzare le attività necessarie all’autorizzazione e all’emissione dell’ordine, con conseguente risparmio di tempi e costi (15.8).

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