La funzione della ragione
 9788855292535, 9788855292542

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Alfred North Withehead La funzione della ragione A cura di Antonio Catalano

C an o n e e u r op eo

Collana diretta da: Andrea Tagliapietra

Comitato scientifico: Giovanni Bonacina, Catherine Douzou, Nicola Gardini, Helmut Karl Kohlenberger, Leonel Ribeiro dos Santos.

Canone europeo | 7

Alfred North Whitehead La funzione della Ragione

Traduzione italiana e saggio introduttivo di Antonio Catalano

Pubblicazione del Centro di Ricerca Interdisciplinare in Storia delle Idee (CRISI) e del Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine (ICONE)

Titolo originale The Function of Reason, 1929

© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Canone europeo ISSN: 2533-1329 n. 7 - aprile 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-253-5 ISBN – Ebook: 978-88-5529-254-2 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Thinker Sculpture, Ueno Park, Tokyo, Japan © danflcreativo – stock.adobe.com

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Nota del traduttore

Il libro riporta tre conferenze tenute da A.N. Whitehead presso la Princeton University, nel 1929. Lo stile dell’autore è affatto differente da quello sperimentato altrove, in opere come Science and Modern World o Process and Reality. The Func­ tion of Reason conserva la struttura di un testo concepito per una pubblica lettura, non per una pubblicazione monografica. Vero è che Whitehead, spesso, ha convertito in densi trattati scientifici interi suoi cicli di lezioni universitarie, con un lavoro però di revisione e riscrittura nettamente maggiore rispetto a quello dell’opera in oggetto. I motivi sono diversi; il libro viene pubblicato nello stesso anno di Process and Reality, l’opera maggiore dell’autore, e viene dunque concepito come una sorta di invito ai temi della sua speculazione matura, o come una sintesi speculativa di questioni trattate più sistematicamente in altre sedi. L’opera, pertanto, esorta da un lato ad approfondire la filosofia dell’organismo, dall’altro però ne presuppone perlomeno una vaga e generica conoscenza. È questa ambiguità di fondo a renderne complessa la lettura e la traduzione: la condensazione in poche righe di concetti che altrove vengono sviluppati in capitoli interi, facilita forse la lettura ma non rende meno criptici alcuni passaggi. A meno, si intende, di avere un quadro più chiaro del pensiero generale dell’autore.

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Di questa doppia esigenza si è tenuto conto sia nel saggio introduttivo sia nella traduzione: a) offrire ai non studiosi del filosofo e matematico inglese delle coordinate generali sulla sua proposta teorica, che possano magari stimolare la lettura delle opere più note; b) indicare agli studiosi dell’autore un tassello spesso ignorato – e che ha i suoi tratti di originalità – di quel percorso che lo condurrà verso le sue due ultime grandi opere (Adventures of Ideas e Modes of Thought). La traduzione è stata condotta sulla versione originale del libro pubblicato da Princeton University Press1; tuttavia, i riferimenti all’originale rimanderanno all’edizione più recente di Beacon Press2, il cui testo è ovviamente inalterato, ma è di più semplice reperimento per gli studiosi che intendessero confrontare la traduzione con l’inglese dell’autore. Il testo originale non presenta note a piè di pagina da parte di Whitehead; tutte le note presenti sono dunque del curatore, e hanno l’obiettivo di chiarire alcuni punti, rimandando alle trattazioni più sistematiche dell’autore o ai commenti di studiosi di rilievo. Lo stesso dicasi per i titoli dei tre capitoli, assenti nell’originale whiteheadiano, e aggiunti per fornire un’idea generale sui temi rispettivamente trattati. Si è mantenuta fede alla letteralità del testo, offrendo comunque una versione molto differente dalla prima traduzione dell’opera risalente agli anni ’50. Si è cercato solo, talvolta, di evitare alcune discordanze nei tempi verbali o alcune frequenti ripetizioni, frutto entrambe di un testo concepito per la lettura orale e non per la pubblicazione scritta. Là dove la tra-

1.  A.N. Whitehead, The Function of Reason, Princeton University Press, Princeton 1929. 2.  A.N. Whitehead, The Function of Reason, Beacon Press, Boston 19717.

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duzione di alcuni termini sembra forzare troppo il loro significato letterale, si è trascritto tra parentesi l’originale inglese. ***

Abbreviazioni delle principali opere dell’autore citate PM =

A.N. Whitehead - B. Russell, Principia Mathemati­ ca, Cambridge University Press, Cambridge 19101913, 3 voll.

TRE =

A.N. Whitehead, La théorie relationniste de l’espace (1914), in «Revue de métaphysique et de morale», vol. 23, n. 3, 1916, pp. 423-454.

SMW = A.N. Whitehead, Science and the Modern World. Lowell Lectures, 1925, Macmillan, New York 1925. AE =

A.N. Whitehead, The Aims of Education and Other Essays, Macmillan, New York 1929.

FR =

A.N. Whitehead, The Function of Reason, Princeton University Press, Princeton 1929.

PR =

A.N. Whitehead, Process and Reality. An Essay in Cosmology, Macmillan, New York 1929.

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Whitehead e la comunità filosofica del Primo Novecento Saggio introduttivo di Antonio Catalano

Il 1929 è un anno cruciale per la produzione filosofica di A.N. Whitehead (1861-1947), e di conseguenza per chiunque si occupi di ricostruire l’itinerario intellettuale del matematico e filosofo inglese. Vedono infatti la luce alcune sue importanti e più o meno note pubblicazioni: PR, AE e FR, l’opera qui in oggetto. Nel primo caso si tratta del lavoro più celebre dell’autore e che lo ha giustamente collocato tra i più grandi filosofi del XX secolo; in PR Whitehead raccoglieva in un’edizione ampliata e organica le Gifford Lectures tenute presso l’Università di Edimburgo tra il 1927 e il 1928, nelle quali per la prima volta si cimentava nell’esposizione rigorosa e sistematica della propria metafisica. Con AE, invece, venivano pubblicati degli articoli a carattere pedagogico o epistemologico, quasi tutti già editi in riviste di settore e risalenti agli anni ’10 del secolo scorso. Pertanto, l’unica opera non solo pubblicata ma anche concepita nel 1929 è FR, la trascrizione pressoché immediata di un ciclo di pubbliche conferenze tenute nello stesso anno presso l’Università di Princeton1. Si tratta dell’opera forse più agile dell’in1.  Per diverso tempo la Princeton University ha organizzato e ottenuto finanziamenti per una serie di pubbliche conferenze tenute da illustri per-

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tero corpus whiteheadiano, dal punto di vista sia quantitativo2 che espressivo, e come tale da subito apprezzata anche da chi aveva poco gradito le asperità stilistiche e speculative di PR. La probabile volontà, da parte dell’autore, di esprimersi in termini più divulgativi rende per certi versi FR la migliore introduzione possibile al suo pensiero maturo; la sede di Princeton e un pubblico composito di scienziati e filosofi, ma non solo, rappresentavano un’occasione propizia a levigare la complessa architettura metodologica e concettuale dei precedenti lavori. L’opera infatti ricapitola in sé alcuni dei tratti storico-filosofici tipici di SMW, e alcuni dei tratti eminentemente speculativi tipici di PR. Tutto ciò ha garantito una buona circolazione dell’opera negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione, come testimoniato dai preziosi commenti di Aaron nel 19303 e di Ritchie nel 19414. In Italia, FR è stata la quarta opera filosofi-

sonalità provenienti dal mondo della scienza, della filosofia, dell’arte, della letteratura. Erano cinque i principali finanziatori che davano anche il nome ai rispettivi cicli di conferenze: Spencer Trask, Stafford Little, Louis Clark Vanuxem (nel caso di Whitehead), J. Edward Farnum e Walter E. Edge. Le Louis Clark Vanuxem Lectures vennero istituite nel 1912 con una donazione di 25000 dollari, con il dichiarato obiettivo di sostenere un ciclo di conferenze su temi di rilevanza scientifica. Nella stessa serie di Lectures, si sono distinti negli anni prima e dopo Whitehead: Emile Boutroux (1913), Edward Hubble (1929), Percy Bridgmann (1935), Richard Oppenheimer (1947). A lato di questa nobile schiera di filosofi e scienziati, non si possono non segnalare le Vanuxem Lectures di Thomas Mann del 1938, esule dalla Germania nazista. 2.  L’edizione originale Princeton University Press conta 72 pp., di contro alle 400 e oltre di PR. L’opera che più gli si avvicina nell’approccio è sicuramente Nature and Life, la trascrizione di due conferenze tenute all’Università di Chicago ed edite da Cambridge University Press nel 1934. 3.  R.I. Aaron, The Function of Reason by A.N. Whitehead, in «Mind», vol. 39, n. 156, 1930, pp. 488-492. 4.  A.D. Ritchie, Whitehead’s Defence of Speculative Reason, in P.A. Schlipp (a cura di), The Philosophy of Alfred North Whitehead, North-Western University, Chicago 1941, pp. 329-350.

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ca whiteheadiana a venire integralmente tradotta, nel 1958 e per mano di Francesco Cafaro5; le prime tre furono Scienza e mondo moderno6, Il concetto di natura7, Natura e vita8. Anche in Italia, come in Inghilterra, il libro ha avuto una discreta diffusione nell’immediato; si vedano i commenti di Crespi nel 19489 e di Paci nel 195010, il dettagliato (e non scevro di vis polemica) articolo di Abbagnano nel 196111 e il paragrafo riservatogli da Rovatti nel 196912. Purtuttavia, proprio le caratteristiche che ne hanno determinato una diffusione rapida e immediata (le ridotte dimensioni e la apparente scorrevolezza del testo) hanno nel medio-lungo termine condannato FR se non all’oblio, quantomeno a una scarsa considerazione. Il pensiero whiteheadiano è stato sin

5. A.N. Whitehead, La funzione della ragione, tr. it. di F. Cafaro, La Nuova Italia, Firenze 1958. L’opera ha avuto altre due ristampe: 1963, 1978. 6. A.N. Whitehead, Scienza e mondo moderno, tr. it. di A. Banfi, Bompiani, Milano 1945. 7. A.N. Whitehead, Il concetto di natura, tr. it. di M. Mayer, Einaudi, Torino 1948. 8. A.N. Whitehead, Natura e vita, tr. it. di G.M. Crespi, Bocca, Milano 1951. 9.  Nell’anno stesso della morte di Whitehead, Gian Maria Crespi pubblicava uno dei primi saggi dedicati all’opera complessiva del filosofo inglese. Il lavoro di Crespi, seppur datato, dimostra ancora una preziosissima lucidità, e verrà nelle note a FR ampiamente citato a supporto di alcuni passaggi: G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, in «Rivista di Filosofia Neo-­Scolastica», vol. 40, n. 4, 1948, pp. 293-331. 10.  Otto anni prima dell’uscita in italiano del testo, in versione integrale, Enzo Paci propone la traduzione delle prime sette pagine di FR, corredate da una sua introduzione: cfr. E. Paci, Il pensiero scientifico contemporaneo, Sansoni, Firenze 1950, pp. 94-99. 11.  N. Abbagnano, Whitehead e il concetto della ragione, in «Revue internationale de philosophie», vol. 15, n. 56-57, 1961, pp. 204-216. 12.  P.A. Rovatti, La dialettica del processo. Saggio su Whitehead, Il Saggiatore, Milano 1969, pp. 163-169.

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da subito oggetto di studio da parte di relativamente pochi specialisti, i quali per motivi comprensibili hanno accordato maggiore (talvolta esclusivo) privilegio alle opere più sistematiche. Perché allora una nuova traduzione di FR? Perché al netto di una semplicità solo apparente, l’impianto e l’incedere dell’opera sono alquanto sofisticati e di non facile decifrazione; i temi evocati da Whitehead sono di un tenore tale da richiedere una precisa competenza scientifica o filosofica o storicofilosofica, a seconda dei casi, e da presentarci qualcosa di più di un aureo libretto divulgativo. Nell’arco di poche pagine, si spazia dall’evoluzionismo alla termodinamica e alla relatività, dai rapporti storici tra Scolastica medievale e scienza moderna a quelli epistemologici tra filosofia e scienze naturali. Lo stile brachilogico di FR, tutto periodi e sentenze molto brevi, agevola la lettura ma lascia inesplicate diverse questioni. È una scelta stilistico-espressiva che risponde all’obiettivo di una conferenza, quello di trasmettere in una cornice limitata dei contenuti di spessore in formule efficaci e incisive, rimandando ai trattati argomentazioni e dimostrazioni vere e proprie. Whitehead esibisce un linguaggio insolitamente colloquiale in taluni punti, ricco di immagini ed exempla; ulteriore circostanza che per un verso favorisce lo scorrere delle pagine, per un altro invece tace tutta una serie di presupposti e rimandi di natura concettuale. Sembrano motivazioni sufficienti a considerare opportuna una nuova traduzione che apra all’opera whiteheadiana le porte del XXI secolo, dimostrandone la spendibilità nel quadro filosofico contemporaneo, oltre che i riferimenti del caso alle opere sistematiche dell’autore o alla letteratura secondaria. Una traduzione, soprattutto, da rendere un minimo fruibile anche per un pubblico di non esperti del matematico e filosofo inglese. Prassi vorrebbe, giunti a tal punto, che si cominciasse da una rassegna sommaria degli argomenti trattati in FR. Si è preferito, tuttavia, lasciare al lettore l’incontro immediato con il te-

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sto e optare per un lavoro introduttivo diverso, dal respiro più ampio e storico-filosofico13. FR resta l’opera whiteheadiana di più facile fruizione anche per non specialisti, di fatto la migliore introduzione possibile ai temi del Whitehead “maturo”. Nondimeno, anch’essa è il risultato di un percorso speculativo assai complesso, che intreccia le scelte personali dell’autore al contesto generale in cui ha sviluppato le proprie posizioni; lasciar trasparire le ragioni di tale contesto, insieme al ruolo al suo interno avuto da Whitehead e da FR, sarà l’esatto compito delle pagine che seguiranno. *** FR si colloca al centro del cosiddetto terzo e ultimo periodo della riflessione whiteheadiana, quello vissuto negli Stati Uniti e dedicato a tematiche di natura cosmologico-metafisica. Quando accetta di insegnare Filosofia ad Harvard, Whitehead ha da poco superato i sessant’anni ed è la prima volta nella sua lunga carriera accademica in cui tiene dei corsi non inerenti al dominio della matematica applicata14. Le sirene americane, accesesi nel 1924, gli permisero di inaugurare una stagione ulteriore e del tutto inattesa del suo pensiero, benché già da qualche anno si interessasse a questioni epistemologiche legate alle scienze naturali. Quest’approdo tardo alla filosofia in nulla intacca lo spessore speculativo delle sue ultime ope-

13.  Come già esplicitato nella nota del curatore, il testo whiteheadiano sarà corredato da una serie di note volte a chiarire alcuni punti con il rimando ai testi sistematici dell’autore, o al commento di alcuni importanti studiosi. 14.  Ancora nei primi anni ’20, mentre pubblica preziosi lavori di filosofia della scienza, Whitehead insegna matematica applicata presso l’Imperial College of Science and Technology di Londra.

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re, ma rappresenta una circostanza che, se ben indagata, getta nuova luce sulla complessità dell’autore15. La cronologia del pensiero di Whitehead finora sottesa, e ormai canonicamente accettata, rimanda alla tripartizione proposta da Victor Lowe: 1) periodo logico-matematico (1884-1910); 2) periodo epistemologico o di filosofia naturale (1911-1924); periodo metafisico o di filosofia speculativa (1925-1938)16. La tripartizione segue fedelmente i trasferimenti di Whitehead nelle tre città in cui ha vissuto, insegnato, lavorato, rispetti-

15.  Sottovalutare l’ingresso tardivo di Whitehead nei domini propri della filosofia ha generato non pochi problemi alla sua ricezione in Italia e all’estero. Si sono privilegiate letture “continuiste” della sua opera, spesso con l’intento dichiarato di rintracciare una filosofia in nuce già nei lavori algebrici di fine ’800. L’evoluzione intellettuale dell’autore è invece molto meno lineare di quanto generalmente si sia creduto; dal 1884 al 1914 si è occupato di questioni molto tecniche, legate all’applicazione della logica simbolica a problemi di natura geometrica o fisico matematica. Valgano su tutte le sue stesse parole, pronunciate ad Harvard in occasione delle celebrazioni per i suoi settant’anni: «You remember that the greater part of my professional life was passed as a mathematician, lecturing and teaching mathematics, and a great deal of the rest has been devoted to the elaboration of symbolic logic» (A.N. Whitehead, Process and Reality, in Id., Essays in Science and Philosophy, Rider and Company, London 1948, pp. 87-91: p. 88). Lo sviluppo di questioni esplicitamente e originalmente filosofiche matura sotto particolari condizioni, da egli stesso individuate nel “trasferimento a Londra”, “negli anni della guerra” e nella “partecipazione ai meetings della Ari­ stotelian Society” («My philosophic writings started in London, at the latter end of the war. The London Aristotelian Society was a pleasant centre of discussion, and close friendships were formed»; A.N. Whitehead, Autobio­ graphical Notes, in P.A. Schlipp [a cura di], The Philosophy of Alfred North Whitehead, cit., pp. 7-16: p. 15). Per una ricostruzione minuziosa di questi temi legati all’evoluzione del pensiero whiteheadiano si rimanda alla tesi di dottorato del sottoscritto, in corso di rielaborazione in vista della pubblicazione: 1898-1917: Le origini della svolta filosofica di A.N. Whitehead. Dalla logica matematica all’epistemologia pre-speculativa. 16.  Cfr. V. Lowe, The Development of Whitehead’s Philosophy, in P.A. Schlipp (a cura di), The Philosophy of Alfred North Whitehead, cit., pp. 15-125.

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vamente: Cambridge (Trinity College), Londra (University College; Imperial College of Science and Technology), Cambridge-Massachusetts (Harvard University). Di una schematizzazione generica si tratta, com’è ovvio, e che pertanto non può essere assunta e applicata in maniera acritica; nessuna delle tre periodizzazioni ha un carattere assoluto, ciascuna potrebbe essere ulteriormente suddivisa e analizzata. Proprio FR, ad esempio, funge da spartiacque tra due microfasi in cui è possibile scomporre l’intero ultimo periodo della riflessione whiteheadiana: a)  tra il 1925 e il 1929, la filosofia dell’organismo viene passata prima al vaglio della storia delle idee filosofico-scientifiche della modernità (SMW), in seguito a quello dell’argomentazione strettamente teoretica (PR); b)  tra il 1930 e il 1938, è invece il momento di mettere la stessa filosofia dell’organismo al banco di prova di una ben precisa filosofia della storia o filosofia della cultura (Adven­ tures of Ideas17; Modes of Thought18), con le quali Whitehead conclude la sua parabola intellettuale. FR compendia le prima due operazioni e ne annuncia la terza; per questo motivo nel libro coesistono le varie anime dell’ultimo Whitehead: lo storico del pensiero, l’epistemologo, il cosmologo, il filosofo della storia. Il tutto complicato dal suo pluridecennale background matematico e scientifico, tutt’altro che un semplice corollario. Una simile plurivocità di riferimenti teorici, con la conseguente impossibilità di un rigido inquadramento disciplinare, è a monte della accidentata ricezione di Whitehead in tutto il secondo Novecento. FR ne è l’esempio fulgido, se pur breve: il

17.  A.N. Whitehead, Adventures of Ideas, Macmillan, New York 1933. 18.  A.N. Whitehead, Modes of Thought, Macmillan, New York 1938.

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lettore “filosofo” è ostacolato dalle sue evidenti lacune scientifiche, mentre il lettore “scienziato” dalle sue altrettante lacune filosofiche. Di più, all’interno della stessa comunità filosofica vi sarà chi si troverà più a suo agio con il lato epistemologico, chi con quello teoretico, chi con quello storico. È un fatto di per sé palese che l’influenza esercitata da Whitehead, nei decenni successivi alla sua morte, non sia minimamente accostabile a quella di altri suoi più o meno contemporanei: Husserl, Bergson, Croce, Russell, Heidegger, Wittgenstein. Meno palesi sono le motivazioni di tale mancata, o perlomeno stentata, circolazione. Sembra reggere poco l’ipotesi che ne imputa la responsabilità a uno stile di scrittura ermetico e involuto19; era il rimprovero spesso mossogli dai colleghi inglesi, comprensibilmente spiazzati sul momento da un’opera-mondo come PR20. La questione non può essere così ridotta ed elusa; è indubbio che simili problemi sussistano ed emergano nella lettura di Whitehead, ma quali grandi opere o quali grandi filosofi del ’900 (e di ogni epoca!) non presentano le medesime difficoltà d’espressione o di stile? Difficoltà che d’altronde nel caso in oggetto non si estendono tout court, ché in lavori come SMW si ammira invece una prosa a larghi tratti elegante e distesa.

19.  Era un problema ben noto già a Enzo Paci: «La lettura delle opere di Whitehead è, anche per un lettore di lingua inglese, un’avventura rischiosa […]. La difficoltà di comprensione delle opere di Whitehead è nei paesi di lingua inglese un luogo comune» (E. Paci, Il pensiero scientifico contem­ poraneo, cit., p. 79). 20.  Si vedano le parole di Susan Stebbing, in una recensione a PR del 1930. Nient’affatto delle critiche isolate al tempo: «The book makes extraordinarily difficult reading […]. But the difficulty is undoubtedly increased by the obscurity of Prof. Whitehead’s style, by his queer choice of words, and by his failure to provide definite examples elucidating his main conceptions» (L.S. Stebbing, Process and Reality: An Essay in Cosmology, by A.N. White­ head, in «Mind», vol. 39, n. 156, 1930, pp. 466-475: p. 466).

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È altrove che occorre guardare per le problematiche inerenti alla sua ricezione, e la lettura di FR può contribuire ad ampliare gli orizzonti proprio in tal direzione. Messe da parte le questioni di stile, è il caso di evocare almeno due fattori decisivi: a) la varietà delle proposte teoriche e delle discipline combinate all’interno di una stessa opera, come nel caso di FR; b) a un livello più generale, l’ampiezza dell’arco temporale coperto dai suoi scritti. Lungo quasi quarant’anni, i lavori di Whitehead hanno spaziato dall’algebra astratta alla filosofia della fisica, dalla logica matematica alla metafisica, dalla sto­ ria delle idee alla filosofia della storia. A rendere tuttora Whitehead per certi versi drammaticamente “inattuale”, per altri tremendamente “attuale”, è proprio la transdisciplinarietà dimostrata nei suoi lavori dai 1920 Books21 in avanti; se la loro lettura risulta a tratti “disorientante”, è per via spesso della mal compresa abilità dell’autore nel districarsi tra registri discorsivi differenti, minando partizioni accademiche per noi oramai scontate. Egli resta pertanto “inattuale”, poiché una figura simile sembra quanto di più distante dall’orizzonte filosofico contemporaneo; parimenti, un profilo come il suo è quanto di più necessario alla sopravvivenza stessa del discorso filosofico, i cui destini andranno sempre più a intrecciarsi con le scienze naturali. Sarebbe sin troppo comodo ascrivere siffatta eccezionalità all’ingegno naturale dell’autore, o alla sua invidiabile abnegazione nel lavoro; sono entrambi elementi essenziali della personalità di Whitehead, ai 21.  Con l’espressione si allude, nel campo degli studi whiteheadiani, alle tre monografie mandate in stampa tra il 1919 e il 1922: si trattava dei primi tre esperimenti filosofici dell’autore, ancora fortemente influenzati dal suo passato matematico: A.N. Whitehead, An Enquiry Concerning the Princi­ ples of Natural Knowledge, Cambridge University Press, Cambridge 1919; Id., The Concept of Nature, Cambridge University Press, Cambridge 1920; Id., The Principle of Relativity with Application to Physical Science, Cambridge University Press, Cambridge 1922.

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quali tuttavia un’attenta analisi storico-filosofica deve aggiungere altro. Egli non fu affatto un’eccezione né rispetto al contesto britannico né rispetto a quello europeo in cui visse. Ebbe modo, all’incirca dal 1915, di assorbire un certo atteggiamento filosofico trasversale a stretto contatto con un gruppo di filosofi connazionali, all’interno di una definita cornice istituzionale: l’Aristotelian Society di Londra22. Consultando gli atti della storica società londinese nel periodo in cui Whitehead ne fu membro attivo (1915-1923) e per un anno anche presidente (1922),

22.  La società viene fondata il 19 aprile 1880 a Londra, al n. 17 di Bloomsbury Square, da un gruppo di cinque intellettuali riunitisi per discutere dell’opportunità di creare da zero una nuova organizzazione studentesca che affrontasse questioni di carattere filosofico. Il nome originale completo era: The Aristotelian Society for the Systematic Study of Philosophy, abbreviato, The Aristotelian Society. All’origine il gruppo non comprendeva filosofi accademici professionisti, bensì un attivista socialista britannico, uno studioso di Shakespeare e, soprattutto, un giovane chimico (Alfred Senier), a cui va riconosciuta l’idea originale di fondare la società. Al di là dell’ispirazione extra-accademica delle origini, nel corso dei decenni la società ha accolto una serie di accademici britannici, e non solo, molto influenti; lo si intuisce facilmente elencandone alcuni tra i presidenti più noti: S. Alexander, B. Russell, H.W. Carr, G.E. Moore, A.N. Whitehead stesso, C.D. Broad, L.S. Stebbing, G. Ryle, A.J. Ayer, J.L. Austin, K. Popper. L’evocazione di Aristotele nel nome stesso della società non alludeva a uno studio sistematico dello Stagirita, né dell’aristotelismo nella storia del pensiero; serviva a rimandare all’ideale di un’approfondimento ampio e articolato della filosofia, in grado di spaziare dalla metafisica all’etica, dalla fisica alla logica. I primi Proceedings (tuttora pubblicati) vengono alla luce nel 1887, sotto la guida del primo presidente della società, Shadword H. Hodgson, con il titolo: Is Mind Synonymous with Consciousness?. Tra gli autori a parteciparvi ve ne erano alcuni destinati a diventare dei nomi simbolo della società e della filosofia inglese tout court dei primi due decenni del ’900: Stout, Bosanquet e Alexander. Per una sintesi complessiva dei primi cinquant’anni della società, si veda l’articolo di una delle sue personalità più influenti: H.W. Carr, The Fiftieth Session: A Retrospect, in «Proceedings of the Aristotelian Society», XXIX, 1928-1929, pp. 359-386.

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si è in grado di ricostruire il modello di interazione filosofia-­ scienze naturali esportato e progressivamente implementato negli anni dell’insegnamento americano. Nell’Inghilterra della metà degli anni ’10 andava sviluppandosi una declinazione assai complessa del fare filosofia, costantemente alimentata da una sapiente padronanza dei linguaggi scientifici dell’epoca, quelli della fisica e della biologia in particolar modo. Da questo intervallo felice e circoscritto del pensiero inglese discende FR, così come l’operato complessivo di Whitehead negli anni del magistero statunitense23. Non si intende affatto sostenere che un rapporto privilegiato con le scienze fosse appannaggio esclusivo dell’ambiente filosofico direttamente frequentato da Whitehead, dopo i suoi trascorsi tra algebra, geometria e fisica. Si intende altresì tratteggiare alcuni di quei fattori concreti che mossero la curiosità di un noto matematico del tempo, spingendolo verso prese di posizione teoriche in linea con le istanze più vive dell’allora grande pensiero europeo. I symposia dell’Aristotelian Society, abbondantemente segnati dalla presenza whiteheadiana, altro non rappresentavano che la declinazione inglese di un fermento intellettuale dalle coordinate internazionali; il quale trovò 23.  Non c’è argomento toccato in FR che non fosse stato prima discusso, ripreso, criticato, in una delle sessioni della società aristotelica cui Whitehead prese parte per quasi dieci anni. È sufficiente, del resto, analizzare la composizione del comitato direttivo e organizzativo della società all’atto della sua candidatura (1915), per incontrare molti dei nomi poi ringraziati ufficialmente nelle prefazioni dei suoi futuri libri: Samuel Alexander, Charlie Dunbar Broad, Herbert Wildon Carr, Lloyd Morgan, Viscount Haldane, Thomas Percy Nunn. A partire dal 1915, l’ingente mole di seminari, sympo­ sia, convegni patrocinati dalla società, mise in moto un vero e proprio gruppo di lavoro filosofico-scientifico, il quale – ancor prima che un programma o un manifesto – condivise degli interessi di ricerca, a cui ciascuno contribuì sulla scorta della propria formazione. Interessi che, a vario titolo, inerivano ai rapporti tra filosofia e scienze speciali. Anche su quest’aspetto particolare il rimando è alla tesi di dottorato sopra citata.

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espressione in peculiari iniziative editoriali e congressuali dalla risonanza storica. Il Novecento filosofico nasceva dall’urgenza di un rinnovato confronto con la metodologia e la logica delle scienze fisico-ma­ tematiche, nello specifico, dall’urgenza di una revisione delle generalizzazioni a riguardo di matrice positivistica. Le critiche alla concezione di scienza, alla concezione del rapporto tra filosofia e scienze, provenienti dal positivismo tardo ottocentesco, accomunavano correnti filosofiche molto diverse tra loro e che in ciò trovavano un minimo comune denominatore. Così si esprimeva, nel merito, un grande storico della filosofia come Eugenio Garin: Di fatto tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, il discorso critico intorno alle scienze, e la polemica contro un positivismo che le aveva indebitamente assolutizzate, riunì in una sorta di fronte unico posizioni diversissime, destinate a esiti fra loro assai lontani, pur nella comunanza di taluni intenti, e nello sforzo di meglio definire l’ambito del sapere scientifico e il significato della ragione.24

Garin pensava a: pragmatismo, fenomenologia, neocriticismo, filosofie della vita, bergsonismo, realismo angloamericano, storicismo. Trattavasi, pur se a gradazioni e a tinte assai diverse, non di un processo intentato alla razionalità tout court, come pure talvolta è stato detto25; bensì di una dura presa di distanza dalla pretesa di esportare il modello deterministico della fisica classica all’intero sistema delle scienze, senza distinzioni. Mai così velocemente come in questo frangente della storia europea, le scienze si rendevano protagoniste di mutamenti 24.  E. Garin, Note sul pensiero del Novecento: ‘rinascita dell’idealismo’, po­ lemica antipositivistica e ‘ragioni’ dell’irrazionale, in «Rivista critica di storia della filosofia», vol. 33, n. 3, 1978, p. 317. 25.  Cfr. G. Lukács, La distruzione della ragione (1954), tr. it., intr. di E. Matassi, Mimesis, Milano-Udine 2011, 2 voll.

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radicali, di svolte epocali, alle quali era necessario che la filosofia rispondesse: ne andava del senso stesso della sua pratica, della sua funzione per dirla con il titolo dell’opera whiteheadiana. Era la natura intrinseca di tali trasformazioni, tutte interne ai singoli protocolli scientifici, a palesare l’insostenibilità di un’immagine meccanicistica dell’universo risalente al XVII secolo. Il vero punto era pertanto la dislocazione dal cuore delle scienze dei residui di quella “vecchia” metafisica, a cui Whitehead darà il nome di “materialismo scientifico”26. Ancor più di una mera critica dell’esprit positive, si dava il caso di un rigetto in blocco della falsa alternativa ottocentesca positivismo o idealismo, Comte o Hegel per dirla semplicisticamente; solo così poteva spiegarsi la prossimità nel punto di partenza – pur nell’irriducibilità delle rispettive proposte teoriche complessive – di figure quali: Mach, James, Bergson, Moore, Croce, Simmel. Per avere un’immagine più concreta dell’atmosfera respirata nella filosofia primonovecentesca – e per evadere dalla generalità degli -ismi –, Garin invitava ad analizzare i redattori e i collaboratori della rivista «Logos. Internationale Zeitschrift für Philosophie der Kultur», fondata in Germania nel 1910. A discutere delle suddette tematiche, almeno fino ai primi anni ’30, vi si ritrovavano alcune delle seguenti autorevoli personalità: Husserl, Simmel, Eucken, Meinong, Natorp, Reichenbach, Cassirer, M. Weber, ecc. Nondimeno, il periodico restava germano-centrico, a forte trazione neocriticista27; si potrebbe 26.  Cfr. infra, pp. 91 ss. 27.  Garin pensava in particolare al noto saggio husserliano Philosophie als strenge Wissenschaft, pubblicato nel primo numero della rivista. Tuttavia, l’articolo inaugurale (che di fatto lanciava la linea editoriale della rivista) era a firma del neokantiano H. Rickert: Vom Begriff der Philosophie, in «Logos», I, 1910-1911, pp. 1-34. Sulla predominante neokantiana della rivista si veda: M. Ferrari, Neokantismo come filosofia della cultura: Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert, in «Revue de métaphysique et de morale» (d’ora in avanti RMM), vol. 103, n. 3, 1998, pp. 367-388.

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allora implementare la segnalazione preziosa di Garin, evocando il ruolo ricoperto nel medesimo periodo da altre riviste europee, anche più a fuoco di «Logos» circa le questioni toccate e senza dubbio maggiormente vicine all’esperienza diretta di Whitehead. È il caso su tutte della RMM, fondata sullo scadere del XIX secolo da Xavier Léon e Henri Halévy, divenuti nel corso degli anni amici personali proprio di Whitehead. Nelle pagine della rivista, tra gli ultimi anni dell’800 e il primo decennio del ’900, si alternavano sul tema dei rapporti tra filosofia e scienze (sovente con reciproci rimandi): Couturat28, Poincaré29, Le Roy30, Bergson31, con le incursioni “forestiere” di Russell32, Natorp33,

28.  L. Couturat, Études sur l’espace et le temps de MM. Lechalas, Poin­ caré, Delbœuf, Bergson, L. Weber et Evelin, in RMM, vol. 4, n. 5 1896, pp. 646-669. 29.  H. Poincaré, Sur la valeur objective de la science, in RMM, vol. 10, n. 3, 1902, pp. 263-293. 30.  É. Le Roy, Science et philosophie, in RMM, vol. 7, n. 4, 1899, pp. 375425; Id., Un positivisme nouveau, in RMM, vol. 9, n. 2, 1901, pp. 138-153. 31.  I rapporti tra Bergson la RMM meriterebbero un capitolo a parte; vi pubblicò alcune anticipazioni di Matière et mémoire, e alcuni testi iconici del bergsonismo tout court come Introduzione alla metafisica o L’intui­ zione filosofica: H. Bergson, Perception et matière, in RMM, vol. 4, n. 3, 1896, pp. 257-279; Id., Introduction à la métaphysique, in RMM, vol. 11, n. 1, 1903, pp. 1-36; Id., L’intuition philosophique, in RMM, vol. 19, n. 6, 1911, pp. 809-827. 32.  La RMM diede ampio spazio alla diatriba tra il filosofo inglese e Poincaré sui fondamenti della geometria, tema a cui Whitehead era particolarmente attento: B. Russell, Sur les axiomes de la géométrie, in RMM, vol. 7, n. 6, 1899, pp. 684-707; Id., Les paradoxes de la logique, in RMM, vol. 14, n. 5, 1906, pp. 627-650. 33.  P. Natorp, La métaphysique. Le développement de la pensée de Des­ cartes. Depuis les «Regulæ» jusqu’aux «Méditations», in RMM, vol. 4, n. 4, 1896, pp. 416-432.

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Simmel34. Couturat in persona, nel 1900, recensì il Trattato di algebra universale di Whitehead, contribuendo in maniera determinante a diffonderne la conoscenza in Francia e nel resto d’Europa35. Sedici anni più tardi, in un clima considerevolmente mutato, Whitehead pubblicava proprio dalle pagine della rivista francese la sua TRE; si trattava dell’ultima opera in cui l’autore ricorreva al simbolismo dei PM, nella quale però esprimeva per la prima volta delle posizioni distanti (quando non opposte) rispetto a quelle russelliane. Alla RMM, dunque, veniva affidato il primo abbozzo di un’elaborazione filosofica autonoma dal progetto logicista, benché fosse ancora in piedi l’ipotesi di un IV volume dei PM sulla geometria, a cura del solo Whitehead. Il ricordo della rivista francese è in realtà importante anche per un’altra ragione; allo spirito e all’iniziativa dei suoi principali animatori si deve l’organizzazione del I Congresso internazionale di Filosofia (d’ora in avanti CIF), svoltosi a Parigi dall’1 al 5 agosto del 1900. Venne così inaugurandosi una tradizione – quella dei CIF – tuttora in vita, sopravvissuta anche alle interruzioni dei due conflitti mondiali: proprio l’Italia, Roma nella fattispecie, ne ospiterà la venticinquesima edizione nel 2024. Uno studio paziente e meticoloso delle prime sette edizioni del Congresso dimostrerebbe appieno la tesi prima esposta attraverso le parole di Garin, e cioè: l’ansia fi­ losofica, peculiarmente primonovecentesca, non di stigmatiz­ zare un uso rigoroso dell’intelletto, bensì di ricongiungere i sentieri interrotti di scienza e filosofia nel rispetto della reci­ proca autonomia. Quanto scriveva Couturat a Léon, in fase

34.  G. Simmel, Sur quelques relations de la pensée théorique avec les inté­ rêts pratiques, in RMM, vol. 4, n. 2, 1896, pp. 160-178. 35.  L. Couturat, L’algèbre universelle de M. Whitehead, in RMM, vol. 8, n. 3, 1900, pp. 323-362.

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di progettazione del Congresso, sintetizza fedelmente la portata della storica iniziativa: «[…] restaurare l’idea della filosofia come unità del sapere umano, non in senso enciclopedico, ma logico e critico. Il modo: distinguerla chiaramente da tutte le scienze e allo stesso tempo definire un rapporto reale con tutte loro, avvicinarla alle scienze razionali, più logiche, più epistemologiche»36. Al senso logico e critico, l’allora designato presidente del Congresso, Emile Boutroux (e con lui Whitehead successivamente), aggiungerà quello speculativo. Perché questa parentesi dedicata al I CIF? Perché Whitehead vi era personalmente presente, partito da Cambridge insieme con Russell. Ebbe perciò modo di ascoltare direttamente il discorso inaugurale di Boutroux, in cui si faceva il punto sulla delicata situazione della filosofia al cospetto del progressivo autonomizzarsi dei saperi scientifici, e si invocava la necessità di aprire il nuovo secolo sotto altri auspici. È bene chiarire che Whitehead era a Parigi in qualità di matematico, non di filosofo, stimolato soprattutto dall’opportunità di incontrare logici e matematici di fama mondiale: Giuseppe Peano, Moritz Cantor, Ernst Schroeder, David Hilbert37. Purtuttavia, è 36.  Lettre de L. Couturat à X. Léon, 22 avril 1899, ms. 360 (tr. mia). Per una visione complessiva del ruolo avuto dalla RMM nella fondazione dei CIF, e per maggiori dettagli circa il carteggio Couturat-Léon-Halevy, si veda: S. Soulié, Les philosophes en République. L’aventure intellectuelle de la Revue de métaphysique et de morale et de la Société française de philosophie (1891-1914), Presses universitaires de Rennes, Rennes 2009. Del medesimo autore: La Revue de métaphysique et de morale et les congrès internatio­ naux de philosophie (1900-1914): une contribution à la construction d’une Internationale philosophique, in RMM, vol. 119, n. 4, 2014, pp. 467-481. 37.  Immediatamente attaccato al CIF, era stato fissato il II Congresso internazionale di Matematica (6-12 agosto 1900). Whitehead prese parte al primo da uditore interessato (particolarmente al panel logico matematico coordinato da Couturat), e solo al secondo nei panni attivi del segretario organizzativo (fu il congresso restato alla storia per la prolusione hilbertiana: Mathematische Probleme).

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lecito supporre che le parole ascoltate da Boutroux non gli furono affatto indifferenti; quest’ultime, infatti, prefigurano non solo le linee guida di un preciso frangente del pensiero contemporaneo, ma anche quello che sarà il peculiare approccio whiteheadiano alla filosofia dagli anni della Grande Guerra all’anno della pubblicazione di PR e FR. Un piccolo estratto del discorso d’apertura del Congresso: In un’epoca non molto remota, la necessità di riunire in questo modo filosofi di diversi paesi non era apparentemente percepita. Il conflitto che era sorto tra filosofia e scienze, in occasione delle audaci costruzioni dialettiche di Schelling e Hegel, aveva determinato un divorzio tra questi due ordini di conoscenze. Da un lato, c’era una filosofia che, sfidando le scienze fisiche e naturali, cercava di costituire un dominio proprio, dandosi il compito di interrogare e approfondire la coscienza. Dall’altro, la scienza ha cercato di eliminare dai suoi principi e metodi qualsiasi tipo di elemento filosofico, ed era disposta seriamente a persuadersi di poterne fare a meno. L’unica filosofia sostenibile, così si sentiva da questo coté, era configurabile come lo studio delle generalità delle varie scienze, concepite come soggette a un unico metodo e come formanti le diverse parti di un piano generale di ricerca. Tra una filosofia estranea alle scienze e una filosofia assorbita in esse, non c’era una via di mezzo.38 Si sentiva chiaramente un doppio bisogno: da un lato, avvi­ cinare la filosofia alle scienze, che sempre più trasferiscono nello studio della realtà, della vita, dell’anima stessa, il rigore e la certezza prima raggiunti solo nell’ordine delle astrazioni e delle possibilità; dall’altro, mantenere l’originalità e la relativa autonomia della filosofia; e, al posto di vedere in essa o una scienza come le altre o la forma generale comune a tutte le scienze, assegnarle un compito che, risultando dalla riflessione originale della mente sulla conoscenza scien38.  É. Boutroux, Séance d’ouverture. Mercredi 1er Aout, in RMM, vol. 8, n. 5, 1900, pp. 503-524: p. 504 (tr. e corsivo miei).

30 tifica, superi veramente la portata e i metodi delle scienze particolari.39

Non è questo il luogo per valutare la pertinenza storiografica del riferimento a Schelling e Hegel; lo stesso Whitehead maturerà ipotesi alternative circa il divorzio tra i due ordini di conoscenza40. Ciò che invece qui conta è contestualizzare l’approccio alla filosofia di Whitehead, di là da venire, nel clima speculativo transnazionale generatosi in simili circostanze d’inizio secolo. Alcune dichiarazioni del solito Boutroux, rese su Temps pochi giorni dopo l’avvenuto congresso, sembrano involontariamente descrivere step by step la parabola intellettuale whiteheadiana: A parer mio, i primi anni del XX secolo saranno un periodo di dissoluzione per la filosofia: si cercherà la filosofia di ogni scienza particolare, piuttosto che abbracciare la filosofia nel suo insieme […]. Credo che i miei giovani colleghi realizzeranno ciascuno uno studio speciale in parallelo al loro lavo­ ro filosofico, e che così arriveranno a risultati che tradiscono questo doppio uso del loro tempo, con monografie che fanno parte della loro specialità scientifica scelta.41

Per circa trent’anni, Whitehead ha lavorato da specialista sulle materie di sua stretta competenza: algebra simbolica, aritmetica, geometria. Anche le sue prime prove filosofiche, tra fine anni ’10 e primi anni ’20, conservavano una serrata vicinanza a questioni fisico-matematiche inerenti in prevalenza alla relatività generale. L’intero gruppo allora più rappresentativo della società aristotelica londinese, di concerto e quasi realizzando quanto preconizzato da Boutroux, darà in stampa una

39.  Ivi, p. 505. 40. Cfr. infra, pp. 90 ss. 41.  E. Fazy, «La mission du XXe siècle», interview d’É. Boutroux, in «Le Temps», 22 août 1900 (trad. mia).

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serie di brillanti monografie tutte dedicate alle implicazioni epistemologiche e/o metafisiche della relatività einsteinia­na. Un breve elenco di quello che a tutti gli effetti era un vero e proprio symphilosophein, condotto nello spirito specialistico previsto anni prima dal filosofo francese fondatore della RMM: H.W. Carr, The General Principle of Relativity, in Its Philo­ sophical and Historical Aspect (1920); S. Alexander, Space, Time and Deity (1920); Viscount Haldane, The Reign of Rela­ tivity (1921); A.N. Whitehead, The Principle of Relativity with Application to Physical Science (1922); T.P. Nunn, Relativity and Gravitation (1923); C.D. Broad, Scientific Thought (1923). Le previsioni di Boutroux, a onor del vero, non si arrestavano al riconoscimento delle oggettive difficoltà vissute dalla filosofia sul levar del secolo, bensì proseguivano oltre: La filosofia generale corrisponde a un bisogno della nostra natura. Siamo esseri speculativi, abbiamo il desiderio di portare all’unità il diverso, il particolare, i risultati dell’analisi. […] Ecco un errore capitale dei positivisti: contrariamente alla loro affermazione pedante e tranchant (mi concedo anch’io il lusso di un vaticinio!), l’istinto filosofico propriamente detto non scomparirà.42

È molto forte la tentazione di rispecchiare nelle parole del filosofo francese la successiva (lenta e paziente) ascesa whiteheadiana, dallo specialismo scientifico alla connaturata generalità della metafisica. Era convinzione di Boutroux che la debolezza della filosofia dipendesse dalla mancanza di grandi sistemi unificanti, di sintesi generali; ma era altrettanto convinto che fosse una debolezza momentanea, e che metafisiche degne del loro nome sarebbero tornate «après un laps de temps indéterminé»43. Sotto questo rispetto, ancora una volta, i lavori “ame-

42.  Ibidem. 43.  Ibidem.

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ricani” di Whitehead sembreranno far avverare il coraggioso vaticinio di Boutroux, dando corpo a una metafisica processua­ le sorretta da una salda preparazione matematica e scientifica; e, soprattutto, spoglia di qualsivoglia dogmatica presunzione di esaustività44. Sotto altri rispetti, invece, portando lo sguardo in particolar modo sul secondo ’900, si è costretti a declassare le parole di Boutroux a nobili auspici smentiti dai fatti; l’esempio whiteheadiano è rimasto purtroppo un unicum, o quasi, non divenendo di certo la regola. *** I pregressi riferimenti al CIF possono aver dato l’impressione di essere estrinseci, o perlomeno non troppo a fuoco con il principale oggetto della discussione: A.N. Whitehead. In realtà, lo sviluppo del suo pensiero si è spesso legato a eventi del genere e a figure di prestigio quali Boutroux. Sin da subito venne istituita una Commissione internazionale permanente, che avrebbe seguito la direzione scientifica dei congressi filosofici internazionali nello svolgersi delle varie edizioni. Nel 1911,

44.  Sono celebri le parole con cui Whitehead apre il cap. I di PR, definendo i contorni generali del suo modo di intendere la metafisica, ovvero, nel suo linguaggio, la filosofia speculativa: «La filosofia speculativa è il tentativo di elaborare un sistema coerente, logico e necessario di idee generali, nei cui termini possa essere interpretato ogni elemento della nostra esperienza. Con questa nozione di “interpretazione” intendo che ogni cosa di cui siamo consapevoli – che sia goduta, percepita, voluta, o pensata – dovrà avere il carattere di un caso particolare dello schema generale […]. I filosofi non possono mai sperare di formulare definitivamente questi primi principi metafisici. La debolezza dell’intuizione e le deficienze del linguaggio sono inesorabilmente di impedimento» (A.N. Whitehead, Processo e realtà. Saggio di cosmologia, tr. it., con testo ingl. a fronte, di M.R. Brioschi, Bompiani, Milano 2019, pp. 135 e 139).

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in occasione della IV edizione tenutasi a Bologna, il comitato aveva assunto una fisionomia compatta e di tutto rispetto; ne facevano parte, tra gli altri: Bergson, Boutroux, Couturat, Croce, Dilthey, Enriques, Russell, Windelband, ecc.45 Da una costola della commissione, proprio nell’occasione bolognese, nacque l’idea di indire e organizzare il primo Congresso internazionale di Filosofia della matematica, cui Whitehead prese parte; venne fissato per l’aprile del 1914, nuovamente a Parigi e sotto la consueta presidenza di Boutroux46. Fu questa la sede in cui presentò la succitata teoria relazionale dello spazio, confrontandosi pubblicamente per la prima volta, su scala europea, anche con dei filosofi; rimaneva ancora legato alla sua comfort zone (logica matematica applicata a problemi di fisica e geometria), aprendo però – come mai fino ad allora – a importanti margini di approfondimento filosofico. L’idea di fondo del Congresso era di riunire filosofi e matematici (Whitehead rientrava ancora, all’epoca, tra i secondi), non semplicemente per confrontarsi sulle nozioni e i metodi della matematica. Si trattava, ben più, di mettere entrambe le categorie dinanzi all’urgenza di problematiche dal carattere generale, eccedenti la specificità dei singoli protocolli scientifici. Lo specialismo – così ammoniva Boutroux nel discorso inaugurale – toccava oramai la filosofia tanto quanto le scienze. Era uso, da tempo, considerare la filosofia unicamente nei panni di metariflessione sui principi fondamentali dei vari ordini di conoscenza: in tal senso, si parlava di filosofia del diritto, filosofia delle scienze, filosofia dell’arte, ecc., giammai di philo­ sophie générale. Fino a che punto però, incalzava Boutroux in

45.  Cfr. Aa. Vv., Atti del IV Congresso internazionale di Filosofia, Formiggini, Genova 1911, p. 886. 46.  Di fatto il filosofo francese fu chiamato a sostituire il collega e amico, recentemente scomparso, Henri Poincaré.

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un crescendo retorico, era legittimo che la ragione filosofica si limitasse allo studio di singoli e specifici oggetti? Era davvero pronta la filosofia a deporre il suo peculiare «effort pour embrasser l’ensemble des choses»47? Era sul serio disposta a rinunciare a quella σύνοψις48, che dai tempi di Platone ne segnava l’autentico tratto distintivo? Molti lo pensavano, perché erano ancora ossessionati dall’idea di una filosofia che rivendicava il diritto, senza studiare le scienze, di concepire l’economia dell’universo a sua discrezione. Era necessario rompere con una tale filosofia: era necessario rendere la filosofia dipendente dalle scienze, e non le scienze dipendenti dalla filosofia. Ma tale diffidenza non è più appropriata nei confronti di una filosofia che non solo utilizza i dati delle scienze, ma è strettamente unita a esse, che ne differisce, in ultima analisi, solo come lo spirito differisce dalle varie forme che dà alla sua attività, applicandosi a diversi oggetti.49

47.  É. Boutroux, Congrès international de Philosophie mathématique, in RMM, vol. 22, n. 5, 1914, pp. 571-580: p. 578. 48.  È Boutroux medesimo a ricorrere al termine greco, nell’accezione platonica di sintesi generale o visione d’insieme (Rep., 537c). L’espressione verrà ripresa quasi intatta da Whitehead ancora nel cap. I di PR, quando discute della generalizzazione descrittiva come metodo della filosofia (contrapposto al metodo deduttivo della matematica): «La generalizzazione filosofica parzialmente riuscita troverà delle applicazioni, se deriva dal campo della fisica, nei campi d’esperienza oltre la fisica […]. Perciò il primo requisito è quello di procedere mediante il metodo della generalizzazione, così che ci sia senza dubbio qualche applicazione; e la prova di una certa riuscita è l’applicazione al di là dell’origine immediata. In altri termini, si è acquisita una qualche visione sinottica. In questa descrizione del metodo filosofico, il termine “generalizzazione filosofica” ha significato “l’utilizzo di nozioni specifiche, applicabili ad un gruppo ristretto di fatti, per la divinazione di nozioni generiche applicabili a tutti i fatti”» (A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., p. 143; corsivo mio). 49.  É. Boutroux, Congrès international de Philosophie mathématique, cit., p. 579.

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Rispetto al discorso pronunciato quattordici anni prima, l’utopia epistemica di Boutroux assumeva contorni sempre più netti, coinvolgendo uno stuolo crescente di filosofi e scienziati. «Cette belle unité»50(quella appunto tra scienza e filosofia) era stata compromessa da una concezione troppo romantica di filosofia, e da una concezione troppo positivistica di scienza. Era giunto il momento di recuperarla: Scienziati e filosofi collaborano alla medesima impresa: la conoscenza e la comprensione delle cose. Filosofia e scienza non sono, come si diceva una volta, due mondi chiusi e incomprensibili l’uno all’altro […]. A questa restaurazione dell’antica unità del sapere umano, e della filosofia come ricerca di questa unità, le relazioni che si stanno stabilendo tra matematici e filosofi devono contribuire efficacemente. E l’affinità tra matematica e metafisica è particolarmente evidente. Ecco perché l’attività di una società di matematici e filosofi può e deve essere veramente comune e filosofica. Dovrebbe offrire un esempio lampante di ciò che tale collaborazione può fare per il bene della scienza e della filosofia.51

Per quanta carica utopica avessero le parole del filosofo francese, non si trattava affatto dei sogni di un visionario, bensì di lucide e audaci iniziative per tentare di porre rimedio a una crisi epocale; e che ebbero l’indiscusso merito di trascinare illustri personalità dal mondo della scienza e (in maggior numero) da quello della filosofia. Egli guardava al modello classico greco e al grande razionalismo moderno, aprendo idealmente la strada a quanto avverrà di lì a poco grazie a un nutrito circolo di intellettuali inglesi, che in Whitehead (matematico e filosofo!) avrà il suo rappresentante di spicco.

50.  Ibidem. 51.  Ibidem.

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A riprova di come il cammino di Whitehead sia segnato dalla natura di simili eventi nazionali e internazionali, nel 1920 lo si ritroverà protagonista del Congresso di Filosofia tenutosi a Oxford dal 24 al 27 settembre. L’idea dell’evento nasceva in sostituzione della V edizione del CIF, previsto a Londra nel 1915 ma rinviato a causa della guerra. Per questioni burocratiche e organizzative, tuttavia, l’iniziativa inglese non è mai stata annoverata nella serie ufficiale dei CIF; come V edizione ufficiale si annovera tuttora quella di Napoli del 1924. Di fatto, il congresso oxfordiano si realizzava lungo un asse quasi esclusivamente franco-inglese, l’asse cioè Société fran­ çaise de philosophie (alias RMM)-Aristotelian Society; gli animatori dell’evento furono infatti i membri più rappresentativi dei rispettivi comitati scientifici ed editoriali: da un lato Halévy, Leon, Lalande, Bergson; dall’altro Carr, Broad, Alexander, Whitehead. Quest’ultimo venne designato chairman del pan­ el più atteso, il primo in programma nei quattro giorni subito dopo l’intervento inaugurale di Bergson52; il titolo del panel era The Philosophical Aspect of the General Theory of Relativity, e alla discussione parteciparono insieme a Whitehead: Eddington, Ross, Broad, Carr, Lindemann, Rougier. Come a rispettare le previsioni di Boutroux, il focus del symposium era dettato da una tematica scientifica fortemente circoscritta, adatta a degli specialisti, dalla quale però venivano estratte questioni di natura sempre più generale, ossia filosofica; e, aspetto non secondario, l’ambizione era esattamente quella di riunire attorno a un tavolo filosofi e scienziati. Proprio sulla relatività einsteiniana, Whitehead poté aver modo di confrontarsi direttamente

52.  Il titolo dell’intervento d’apertura di Bergson era Prévision et nouveauté. Per la testimonianza diretta e per una sintesi complessiva dei temi toccati da Bergson, da Whitehead e dall’intero congresso, si rinvia a: R.F.A. Hoernlé, The Oxford Congress of Philosophy, in «The Philosophical Review», vol. 30, n. 1, 1921, pp. 57-72.

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con Bergson, presente in tutte e quattro le giornate di incontri; non fu meramente un caso la pubblicazione dei loro rispettivi studi sulla materia, quasi all’unisono, appena due anni più tardi (1922)53. Sei anni dopo, nel 1926, Whitehead è oramai un filosofo a tutto tondo e come tale riconosciuto anche dai suoi colleghi americani ed europei. Quasi a chiudere un cerchio cominciato idealmente con l’ascolto delle parole di Boutroux nel 1900, venticinque anni dopo giunse la sua elezione a nuovo membro della commissione internazionale permanente dei CIF, contemporaneamente a quelle di: S. Alexander, E. Husserl, G. Gentile, É. Gilson, tra gli altri. La sua partecipazione al VI CIF, svoltosi ad Harvard nel ’26, con una relazione dedicata al “tempo”54, sanciva l’avvenuta presa in carico di ciò che Boutroux chiamava philosophie générale e che Whitehead medesimo chiamerà speculative philosophy. Così anche nel 1930, in occasione del VII CIF di Oxford, Whitehead figura nuovamente tra i principali organizzatori dell’evento; è il chairman della sezione 3 nella divisione D (Philosophy of the 19th and 20th Centuries), oltre che l’animatore di alcune tra le discussioni comuni più significative del congresso. Da una di queste, stando alla testimonianza di Brand Blanshard, poteva percepirsi tutto lo spirito di Boutroux, tutto il carico di aspettative nutrito dalle menti più

53.  A.N. Whitehead, The Principle of Relativity with Application to Physi­ cal Science, cit.; H. Bergson, Durée et simultanéité. À propos de la théorie d’Einstein, Alcan, Paris 1922. 54.  A.N. Whitehead, Time, in E.S. Brightman (a cura di), Proceedings of the Sixth International Congress of Philosophy, Harvard University, Cambridge (Mass.), United States of America, September 13-17, 1926, Longmans, Green and Co., New York 1927, pp. 59-64. Il titolo della sezione a cui l’autore partecipava era programmaticamente: Physics and Metaphysics, with Special Reference to the Problem of Time.

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illuminate del tempo, che ben avvertivano la necessità di una nuova alleanza tra filosofia e scienze: Il professor Whitehead, in una delle discussioni improvvisate, ha proposto un parallelo tra lo stato attuale della speculazione e il suo stato in Grecia appena prima della grande esplosione di Socrate e dei suoi successori; uno stato in cui la scienza rifiutava di accontentarsi dell’evidenza sensibile e si lanciava con tutte le sue energie nella speculazione, senza alcun tipo di accordo preliminare su come interpretare le nuove scoperte. Questa era probabilmente l’impressione di molti dei presenti al Congresso. C’erano un dinamismo, una solerzia, un entusiasmo nel pensiero, vivi come non mai. Nel corso del prossimo decennio o giù di lì, tutto ciò potrebbe portare a qualcosa di immensamente significativo.55

Whitehead non tenne una vera e propria relazione, ma una buona fetta degli interventi previsti dialogava apertamente (anche in termini critici) con molte delle tesi proposte in FR appena pochi mesi prima. Era il caso del panel dedicato a meccanicismo e finalismo, composto da colleghi e amici delle passate sedute londinesi presso la società aristotelica, tra i quali Wildon Carr56 e Alfred Hoerlné57. La reintroduzione della causalità finale, all’interno del discorso scientifico sulla natura, era uno dei temi centrali di FR puntualmente richiamato e dibattuto in una sezione ad hoc del VII CIF.

55.  B. Blanshard, The Seventh International Congress of Philosophy, in «The Journal of Philosophy», XXVII, n. 22, 1930, pp. 589-609: p. 591 (tr. mia). 56.  H.W. Carr, Cosmic Process and Living Activity, in G. Ryle (a cura di), Proceedings of the Seventh International Congress of Philosophy, Oxford, England, September 1-6, 1930, Milford, Oxford 1931, pp. 39-43. 57.  R.F.A. Hoernlé, Must Biological Processes be Either Purposive or Mecha­ nistic?, ivi, pp. 44-46.

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Questa, tutto sommato breve, ricostruzione storiografica voleva dimostrare la complessità del percorso che si cela alle spalle di opere come PR o FR; complessità che, spesso fraintesa, ha comportato per decenni l’esclusione di Whitehead dai consessi filosofici analitici e continentali. L’aver misconosciuto il contesto e la provenienza di entrambe le pubblicazioni, non ha reso giustizia negli anni all’autore e alle rispettive proposte teoriche avanzate. La vasta portata, con tutte le annesse difficoltà, degli ultimi lavori whiteheadiani testimonia non dello stile involuto di un matematico sedotto dalle chimere della metafisica; testimoniano altresì dell’inquietudine, mista a un carico poderoso di aspettative teoretiche, di una certa temperie filosofica primonovecentesca, che in Whitehead trovava una delle voci più autorevoli. L’inquietudine derivava dal senso della perduta articolazione tra discorso filosofico e discorso scientifico; mentre le aspettative per il futuro traevano linfa dalla certezza che tale articolazione sarebbe rinata sotto altre forme e altri linguaggi. Lo smarrimento di entrambe (e dell’inquietudine e delle speranze di ripresa) ha coinciso di fatto con il progressivo depotenziarsi della filosofia tout court nei Paesi occidentali, dalla seconda metà del ’900 in avanti. Il programma visionario di Boutroux, in pieno sposato da Whitehead e dagli autori inglesi a lui più vicini, non è sopravvissuto alla crisi che ha travolto la filosofia dopo il II conflitto mondiale. I segni della crisi resistono tuttora, alimentati da quanti hanno creduto – e ancora credono – alla perfetta sovrapposizione tra naufragio geopolitico dell’Europa e naufragio epistemico della filosofia58. Sono un riflesso fedele di tale presupposta sovrapposizione (a un livello più o meno avanzato di consapevolezza) tanto le filosofie di tradizione continentale 58.  Per una sintesi fedele di questa prospettiva si veda la recente pubblicazione V. Vitiello, Europa. Topologia di un naufragio, Mimesis, MilanoUdine 2017.

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quanto quelle di tradizione analitica; che Whitehead non sia mai divenuto un modello di riferimento né per le une né per le altre, dimostra ancora una volta l’inattualità patita dopo la sua morte, ma insieme una possibile attualità tutta a venire. Già in vita, durante i corsi tenuti ad Harvard, divenne una guida per giovani di formazione e ambizioni diverse, nient’affatto riconducibili a una scuola: W.O. Quine e C. Hartshorne, solo per fare due nomi, cioè uno dei padri della filosofia analitica e un teologo razionale59. E similmente oggi, anche in Italia, la sua figura funge da riferimento per studiosi dalla storia, dalla metodologia e dall’approccio affatto distanti: Pierfrancesco Basile60, Luca Gaeta61, Rocco Ronchi62, Luca Vanzago63, Achille Varzi64.

59.  Entrambi parteciparono alla raccolta di saggi in onore del “maestro”, curata da P. A Schlipp. Dal tenore dei due scritti si evince tutta la differenza tra i due giovani studiosi, nondimeno ugualmente allievi di Whitehead: W.O. Quine, Whitehead and the Rise of Modern Logic, in P.A. Schlipp (a cura di), The Philosophy of Alfred North Whitehead, cit., pp. 125-165; C. Hartshorne, Whitehead’s Idea of God, ivi, pp. 513-560. 60.  P. Basile, Leibniz, Whitehead and the Metaphysics of Causation, Palgrave Macmillan, London 2009; Id., Whitehead’s Metaphysics of Power. Re­ constructing Modern Philosophy, Edinburgh University Press, Edinburgh 2018. 61.  L. Gaeta, Segni del cosmo. Logica e geometria in Whitehead, LED, Milano 2003. 62.  R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017; R. Manzotti - R. Ronchi, Oggetto. Ontologia dell’immanenza. Platone Alexander Whitehead, in R. Panattoni - R. Ronchi (a cura di), Im­ manenza: una mappa, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 75-92. 63.  L. Vanzago, L’evento del tempo. Saggio sulla filosofia del processo di A. N. Whitehead, Mimesis, Milano 2005. 64.  A.C. Varzi, Points as Higher-Order Constructs. Whitehead’s Method of Extensive Abstraction, in S. Shapiro - G. Hellman (a cura di), The History of Continua. Philosophical and Mathematical Perspectives, Oxford University Press, Oxford 2020, pp. 347-378.

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Si è parlato di “utopia” a proposito dei discorsi di Boutroux, non certo per svilirne il contenuto o imputare loro una mancata aderenza alla realtà. Tutt’altro, si trattava di progetti, visioni, programmi, che hanno effettivamente dettato la linea di riviste, congressi, monografie, su scala internazionale. Ne erano prova pubblicazioni, alcune già menzionate, che proprio nell’Inghilterra degli anni ’20 trovavano il clima filosofico più conforme ai dettami d’inizio secolo del filosofo francese: Space, Time and Deity di S. Alexander, Emergent Evolution di L. Morgan, oltre ovviamente alle opere di Whitehead nel frattempo trasferitosi negli Stati Uniti. Esperimenti teorici insuperati e che, nonostante questo, non ebbero un seguito tale da fare epoca lungo i decenni successivi. Nello stesso 1929, anno di pubblicazione di PR e FR, andavano profilandosi – nel cuore dell’Europa – due degli approcci filosofici che più influenzeranno tutta la seconda metà del secolo. Da un lato, Martin Heidegger teneva la prolusione friburghese Was ist Metaphysik?65, oltre a pubblicare una monografia su Kant66 e il saggio Vom Wesen des Grundes67; dall’altro, Rudolf Carnap (insieme a Neurath e Hahn) mandava in stampa il manifesto teorico del Circolo di Vienna, Wissenschaftliche Weltauffassung68. Non occorre un esperto di storia del pensiero contemporaneo per valutare l’estraneità di Whitehead sia all’ontologia fondamentale dell’uno, sia al neopositivismo

65.  M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, in Id., Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 2008, pp. 59-77. 66.  M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr. it. di M.E. Reina, riv. da V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981. 67.  M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, in Id., Segnavia, cit., pp. 79131. 68.  H. Hahn - O. Neurath - R. Carnap, La concezione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna, tr. it. e note di S. Tugnoli Pattaro, a cura di A. Pasquinelli, Laterza, Roma-Bari 1979.

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logico dell’altro; né per riconoscere quanto dominanti siano stati entrambi i modi di intendere la pratica filosofica (nel loro accoglimento non meno che nel loro respingimento), per almeno 60-70 anni. Un simile discorso comparativo potrebbe notevolmente ampliarsi. Il 1929 vedeva anche la pubblicazione del volume III della Philosophie der Symbolischen Formen69 di Ernst Cassirer, mentre Husserl teneva le quattro celebri Méditations car­ tésiennes70 nelle aule parigine della Sorbona; ulteriori modelli teorici imprescindibili per ricostruire il secondo Novecento. Comunque vada affinandosi l’analisi, ne risulterà sempre l’estrema difficoltà di inquadrare la filosofia dell’organismo whiteheadiana all’interno di una delle tendenze filosofiche dominanti degli ultimi decenni. Se questo da un lato non fa che confermare la sfortunata vicenda della sua ricezione, dall’altro apre a una ricezione tutta ancora da sperimentare e mettere a frutto, per il bene della filosofia e delle scienze – avrebbe chiosato Boutroux. Cominciare dalla lettura di un’opera non sistematica, come FR, certamente non risolve i conti con la comprensione di un grande genio del ’900, molto più a fuoco con le vicende della sua epoca di quanto si sia finora creduto. Rappresenterebbe però un primo e importante passo verso un modo peculiare di concepire la filosofia nel rapporto con la sua tradizione e con le scienze, secondo un gioco di rimandi e implicazioni in cui ne andrà del senso stesso della nostra traballante episteme.

69.  E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. III, Fenomenologia della conoscenza, 2 tomi, tr. it., Pgreco, Roma 2015. 70.  E. Husserl, Meditazioni cartesiane, nuova ed. it. a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 2002.

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Sommario introduttivo

Gli eventi della storia si succedono secondo due tendenze generali. La prima tendenza si rivela nel lento declino della natura fisica: con impercettibile fatalità si assiste all’esaurirsi dell’energia vitale. Sembrano destinate a spegnersi, poco alla volta, le fonti stesse della vitalità: è la loro materia a correre verso la dissoluzione. La seconda e opposta tendenza è esemplificata dalla rinascita stagionale della natura durante la primavera, oltre che dall’andamento progressivo dell’evoluzione biologica. In queste pagine affronterò il tema della Ragione1 nelle sue relazioni con tale duplice e contrastante carattere della storia2. In via preliminare: La Ragione è l’autodiscipli­ 1.  Nella traduzione, è stata ovviamente rispettata la scelta dell’autore di conservare l’iniziale maiuscola per la parola “Ragione”, in tutte le sue occorrenze. 2.  Sul ricorso whiteheadiano al termine “storia”, Carlo Sini: «A questo punto si potrebbe dire che tutta la cosmologia di Whitehead, tutta la sua filosofia del processo e dell’organismo, si presenta come una “storia” del mondo entro la quale si trova pure inserita la storia degli uomini o storia propriamente detta. Il concetto di storia in Whitehead, come d’altra parte quelli di soggetto, mente, ecc., si estende molto oltre il suo uso corrente […]. C’è una storia dell’universo organico, del Sistema solare e del pianeta Terra, come già intuiva Kant; una storia che comprende lotte, avventure, tentativi, successi e sconfitte. Non si tratta qui di una proiezione antropomorfica,

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narsi dell’elemento sorgivo3 nella storia; al di là delle operazio­ ni della Ragione, tale elemento rimarrebbe anarchico.

psicologica, su fatti che sarebbero di natura schiettamente meccanica e fisica. Questa è la tesi del materialista ingenuo che crede in una natura fatta di pezzi di materia che si muovono nello spazio, in un corpo umano costituito da eventi puramente meccanici, cui si aggiungerebbe poi qualcosa di miracoloso e di misterioso quale la psiche o lo spirito. Vero è il contrario e cioè che noi possiamo parlare di lotta, di successo, di sconfitta, di tragedia, di fortuna, perché molto prima di entrare nel nostro linguaggio queste esperienze sono già nella natura, sebbene a un differente livello simbolico, secondo strutture concettuali ancora semplici e oscure. Così c’è una storia del mondo vegetale e degli organismi viventi; ed una storia antropologica dell’uomo che si perde nella notte del passato e attraverso la cultura si è venuta formando, secondo gerarchie sempre più raffinate e sottili […]. Tutto ciò è pienamente storia, sebbene noi non siamo per lo più in grado di narrarla» (C. Sini, Introduzione, in A.N. Whitehead, Natura e storia, tr. it., a cura di C. Sini, Radar, Padova 1969, pp. 1-35: pp. 27-28). 3.  Sia Paci che Cafaro traducono l’inglese “originative” con “originario”. Il significato però sembra rimandare più da vicino alla duplice valenza del latino “origo”: a) principio, inizio, nascita, ma anche b) provenienza, causa, fonte. Si è scelta la traduzione “sorgivo” per rimandare alla continua scatu­ rigine di novità che dal punto di vista whiteheadiano contrassegna il carattere decisivo del divenire degli eventi storici.

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Capitolo I

Evoluzione, Finalismo e ricerca delle novità: la Ragione come arte della vita

Il tema d’ora in avanti considerato è uno dei luoghi classici della discussione filosofica: La Funzione della Ragione. Quale funzione è lecito attribuire alla Ragione, presa com’è dentro al vortice delle nostre esperienze psichiche, delle nostre percezioni, delle nostre emozioni, dei nostri scopi, delle nostre decisioni circa ciò che davvero conta? Per poter rispondere è doveroso mettere a fuoco la natura, l’essenza di ciò che intendiamo con Ragione. Non si tratta certo di un tema nuovo, se ne discute dai primordi del pensiero filosofico. Resta però compito dei filosofi quello di discutere argomenti tanto decisivi, rileggendoli alla luce dei nostri correnti modi di pensare. Varie sono le formulazioni (phrases, 3)1 che è possibile richiamare per ricostruire le controversie intorno alla vera funzione della Ragione: Fede e Ragione; Ragione e Autorità; Critica e Immaginazione; Ragione, Azione, Scopo; Metodologia scien­ tifica; Filosofia e Scienze; Razionalismo, Scetticismo, Dogma­ tismo; Ragione ed Empirismo; Pragmatismo.

1.  Come segnalato nella Nota del traduttore, questi riferimenti di pagina faranno capo all’edizione del libro di Beacon Press.

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Ogni formulazione suggerisce un certo ambito per la Ragione, insieme alle relative delimitazioni. La molteplicità dei temi già toccati è tale da rendere impossibile l’esaurirsi della questione tramite il ricorso a semplici e generiche definizioni. Ciononostante, anche a fronte dell’avvertimento su quanto possa risultare fuorviante una semplice definizione, ne proporrò da subito una, da chiarire, criticare, ampliare nel corso della discussione: la funzione della Ragione è di promuovere l’arte della vita2. Nell’interpretare questa definizione, devo innanzitutto prendere le distanze dalla fallacia evoluzionista3 implicita nell’espressione: «la sopravvivenza del più adatto»4. La fallacia non 2.  Whitehead aveva precedentemente discusso di “arte della vita” in uno dei suoi scritti pedagogici dei primi anni ’20, pubblicati in raccolta nel ’29, lo stesso anno di FR: «Education is the guidance of the individual towards a comprehension of the art of life; and by the art of life I mean the most complete achievement of varied activity expressing the potentialities of that living creature in the face of its actual environment. This completeness of achievement involves an artistic sense, subordinating the lower to the higher possibilities of the indivisible personality. Science, art, religion, morality, take their rise from this sense of values within the structure of being. Each individual embodies an adventure of existence. The art of life is the guidance of this adventure» (A.N. Whitehead, The Rhythmic Claims of Freedom and Discipline, in AE, pp. 29-41: p. 39). 3.  «Evolutionist fallacy» (p. 4) è l’espressione whiteheadiana. Cafaro e Paci traducono fallacy con “inganno”, ma si è preferita la traduzione letterale “fallacia”, data l’importanza di primo piano del termine nell’intera opera dell’autore. Si pensi alla fallacy of misplaced concreteness o alla fallacy of simple location. 4.  L’espressione “survival of the fittest” è stata utilizzata per la prima volta da Herbert Spencer (The Principles of Biology, 1864) dopo la sua lettura del lavoro di Darwin. Fu poi Darwin medesimo a renderla celebre, riprendendo l’espressione spenceriana nella quinta edizione di On the Origin of Species (1869). Whitehead coglieva, nel 1929, uno dei punti nodali legati all’interpretazione del darwinismo, che rimandava a una nobilissima tradizione inglese a lui certamente familiare. Aspri e densi dibattiti sulla questione hanno

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consiste nel credere che, nella lotta per l’esistenza, i più adatti a sopravvivere abbiano la meglio sui meno adatti; questo è un dato di fatto oramai assodato. La fallacia consiste nel credere che, ai fini della sopravvivenza, l’adattabilità (fitness, 4) esemplifichi il carattere principale dell’Arte della Vita. A uno sguardo più sottile, proprio il valore della sopravvivenza sembra quanto di meno essenziale alle dinamiche stesse della vita; persistere è l’arte connaturata a ciò che è privo di vita (The art of persistence is to be dead, 4). Solo le sostanze inorganiche persistono per lunghi lassi temporali: una roccia sopravvive anche per ottocento milioni di anni, mentre il limite della vita di un albero è di circa mille anni; per un uomo e un elefante il limite è rispettivamente di circa cinquanta e cento anni, per un cane di dodici e per un insetto di uno. Il vero problema sollevato dalla dottrina evoluzionista è di spiegare come degli organismi complessi, ma dotati di scarso potenziale di sopravvivenza, siano riusciti a evolversi. Certamente, non ce l’hanno fatta per via della loro maggiore bravura in questa competizione rispetto alle rocce da cui erano circondati. Con l’ipotesi della lotta per l’esistenza tra tali organismi è possibile spiegare “l’origine delle specie”, ma non l’emergere di una tipologia complessa di organismo dalla tenue capacità di sopravvivenza. Nessun dogma, nessuna teorizzazione astratta intorno alla nozione di adattabilità delle cose, possono risolvere il problema; una soluzione efficace dovrebbe prestare attenzione all’evidenza empirica in tutta la sua complessità. Il range delle specie degli esseri viventi è decisamente ampio; si estende dal genere umano a tutti i vertebrati, dagli insetti agli animali scarsamente organizzati che danno l’idea di un attraversato tutto il secondo Novecento. Per uno studio dettagliato sul tema si rimanda a K. Sterelny, La sopravvivenza del più adatto. Dawkins contro Gould, ed. it. a cura di T. Pievani, Cortina, Milano 2004.

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mero aggregato cellulare, dalla varietà della vita vegetale fino ad arrivare a forme di vita microscopiche. Quanto più si giunge alle estremità inferiori della scala, tanto più diviene arduo distinguere nettamente tra esseri viventi e materia inorganica. Esistono due modi di intendere questa varietà di specie: a) il primo astrae dal “tempo” e considera la varietà come la prova provata del darsi di differenti livelli di vita; b) il secondo prevede, invece, che si pongano in rilievo considerazioni di natura temporale, insistendo sulle relazioni genetiche reciproche tra le diverse specie. Quest’ultimo approccio incorpora la dottrina evoluzionista, e interpreta l’estinzione delle specie – e degli esemplari dallo scarso potenziale evolutivo – come un disadattamento all’am­ biente. Si tratta di una interpretazione che ha la sua dose di verità, ma che resta parimenti una delle grandi generalizzazioni della scienza. Sviati da un eccesso di entusiasmo, in molti hanno forzato tale interpretazione fino al punto da non riuscire più a spiegare nulla, per la semplice ragione che pretendevano di poter spiegare tutto5. Siamo affatto distanti dal disporre di una conoscenza chiara e definita delle lotte che avrebbero 5.  Su queste parole di Whitehead, come sul prosieguo del capitolo, si è espresso Nathaniel Barret: «The pervasive influence of Darwinian thought has led many to assume that the most fundamental goal of life is simply to survive. If life strives for more than just getting by, that is only because the forces of natural selection have decreed that only the “fittest” will survive. Survival is the “mother value” that gives birth to all other values of life […]. In this passage, Whitehead is not mounting a case against the theory of evolution. On the contrary, like many other philosophers of his time (e.g., Peirce, James, Bergson, and Dewey), Whitehead was profoundly affected by the idea that all order in nature is a product of evolution. Nevertheless, his thinking about life runs against the grain of modern evolutionary thought, which has generally held that survival is the fundamental value of life – if we can speak of value at all – and that natural selection, which is essentially a culling process, is the primary mechanism of adaptation» (N. F. Barret, Life and Value: A whiteheadian Perspective, p. 2; risor-

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cagionato la scomparsa di alcune specie. Questo modo di in­ tendere l’evoluzione ha assunto i tratti del ritornello liturgico di una litania, cantata sui fossili di specie estinte. Se il mero fatto di estinguersi diviene motivazione sufficiente a prova del disadattamento all’ambiente di una specie, la spiegazione si riduce a una tautologia6. La dottrina della lotta per la sopravvivenza si fonda principalmente su due presupposti: a) gli esseri viventi si riproducono in un numero sufficiente di figli sani; b) l’adattamento all’ambiente come unico fattore decisivo. Tuttavia, siffatta duplice assunzione della fecondità e dell’integrità bio-fisica della prole non vale indistintamente per ogni circostanza: ci sono dei limiti nella dottrina di Malthus7. C’è almeno una questione sa open access consultabile online: https://www.academia.edu/36637778/ Li­fe_and_Value_A_whiteheadian_Perspective. 6.  Negli stessi e identici termini, circa la tautologicità dell’ipotesi della “sopravvivenza del più adatto”, si esprimerà anni dopo Karl Popper: «Quite apart from evolutionary philosophies, the trouble about evolutionary theo­ ry is its tautological, or almost tautological, character: the difficulty is that Darwinism and natural selection, though extremely important, explain evolution by ‘the survival of the fittest’ (a term due to Herbert Spencer). Yet there does not seem to be much difference, if any, between the assertion ‘those that survive are the fittest’ and the tautology ‘those that survive are those that survive’. For we have, I am afraid, no other criterion of fitness than actual survival, so that we conclude from the fact that some organisms have survived that they were the fittest, or those best adapted to the conditions of life» (K.R. Popper, Objective Knowledge. An Evolutionary Ap­ proach, Clarendon Press, Oxford 1972, pp. 241-242). Sono note le letture whiteheadiane di Popper, benché si tratti di letture affatto discutibili (si veda il capitolo Oracular Philosophy and the Revolt against Reason, in Id., The Open Society and Its Enemies, Princeton University Press, Princeton 1950, pp. 410-442, in part. p. 433). Proprio questa concordanza su alcuni rimarchi alla teoria darwiniana potrebbe aprire a una diversa e più approfondita lettura di Whitehead da parte dell’epistemologo austriaco. 7.  Visto il livello dell’uditorio di Princeton, Whitehead dà per scontato che tutti siano a conoscenza del debito intellettuale contratto da Darwin nei

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importante, che riguarda il fenomeno dell’evoluzione e che non viene adeguatamente affrontata dall’ipotesi della sopravvivenza del più adatto: per quali motivi l’evoluzione sembra aver seguito un trend progressivo?8. Né l’adattamento all’ambiente né la lotta per l’esistenza sono in grado di spiegare come, nel corso del tempo, specie organiche si siano prodotte a partire da distribuzioni inorganiche di materia, o come siano venute formandosi tipologie di vita organica via via più complesse. Nei fatti, il trend progressivo dell’evoluzione ci ha messo di fronte a un fenomeno opposto: sono le forme di vita animale ad aver adattato progressivamente l’ambiente alle proprie esi­ genze e non loro a essersi adattate passivamente a esso. Hanno costruito nidi, così come altre tipologie di abitazione e di convivenza estremamente sofisticate; i castori hanno abbattuto alberi e costruito dighe. Gli insetti hanno dato vita a modelli di vita comunitaria altamente elaborati dagli effetti più disparati sull’ambiente circostante. Anche le azioni meno plateali degli

confronti di Thomas Malthus. L’espressione stessa “struggle for existence” veniva ripresa direttamente dal precedente lavoro dell’economista e demografo inglese (An Essay on the Principle of Population, 1798). È nota la teoria malthusiana circa la sproporzione tra la crescita incontrollata della popolazione e la correlativa produzione di mezzi di sussistenza; se la prima tende ad aumentare in proporzione geometrica (2, 4, 8, 16, 32, ecc.), i secondi lo fanno secondo proporzione aritmetica (2, 4, 6, 8, 10, ecc.). Da tale divario incolmabile (a meno di specifiche politiche di controllo) l’insorgere di guerre, carestie, epidemie, ecc. La teoria venne trapiantata da Darwin nel rapporto in natura tra organismi e ambiente. 8.  Con “trend progressivo”, in tutto il testo qui presentato, è stata tradotta l’espressione whiteheadiana “trend upwards”. La traduzione di Cafaro era “tendenza ascendente”. Si è preferita la traduzione non letterale di upwards (verso l’alto), perché – come apparirà chiaro – è proprio il concetto di “progresso” a essere sotto la lente di ingrandimento dell’autore. Per andamento verso l’alto dell’evoluzione è dunque da intendere un andamento progressivo e non regressivo. Si è scelto di tenere l’inglese “trend” per poter utilizzare “tendenza” quando effettivamente Whitehead ricorre al termine “tendency”.

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animali sono in grado di modificare l’ambiente. Gli esseri viventi più semplici lasciano che il cibo penetri al loro interno; gli animali più complessi inseguono il loro cibo, lo catturano e lo masticano. Così facendo, trasformano l’ambiente in base ai propri scopi: alcuni animali scavano per il loro cibo, altri inseguono la loro preda. Si tratta ovviamente di operazioni comprese nella dottrina classica dell’adattamento all’ambiente, benché restino ancora non adeguatamente affrontate; troppi fatti reali rischiano facilmente di non ricevere l’attenzione che meriterebbero. Le forme di vita più complesse sono attivamente impegnate nel modificare il proprio ambiente; nel caso peculiare dell’essere umano, la costanza di tale impegno rappresenta uno dei tratti più rilevanti della sua esistenza. La mia tesi è che tale intervento invasivo dell’essere umano sull’ambiente risponda a una triplice esigenza (three-fold urge, 8): a) vivere; b) vivere bene; c) vivere meglio. L’arte della vita consiste in primo luogo nel restare vivi, in secondo luogo nel vivere in maniera soddisfacente, in terzo luogo nell’au­ mentare quanto più possibile il grado di tale soddisfazione9.

9.  «But what does it mean to “live well” or to “live better”? When expressed so succinctly and without further explanation, it might seem that Whitehead’s view of life represents a naïve faith in the continual progress and limitless potential of life. But Whitehead’s position with respect to progress in life is not as straightforward as it seems. He did endorse the view – still common today – that the overall trend of evolutionary history is toward greater complexity. But on closer examination we also find that he viewed the process of evolution as a tumultuous affair, characterized by instability and “continual perishing”. These apparently contradictory views can be reconciled once we understand that complexity describes a mixture of order and disorder, and not just the amount or degree of order per se. Thus to claim that increased complexity is the overall trend of evolution is not to claim that the universe is becoming more and more orderly […]. Accordingly, while Whitehead does describe an overall trend toward the production of increasingly com-

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Giunti a questo punto dell’argomentazione, occorre richiamare in causa la funzione della Ragione, quella cioè di promuovere l’arte della vita. La funzione primaria della Ragione è di dare una direzione all’intervento sull’ambiente circostante10. plex kinds of order, he does so without requiring any long-term teleological progression toward a particular end state, and without guaranteeing the endurance of any particular order – individual, population, species, or ecosystem […]. So, in fact, Whitehead’s picture of evolution fits remarkably well with contemporary views for which the evolutionary process proceeds not upward but outward, through endless branching and cyclical patterns of constant turnover (i.e. extinction) at every scale. On the other hand, we should not obscure Whitehead’s view of the universe as a fundamentally creative process. As stated above, he did argue that the urge to “live better,” rather than the urge to survive, is what accounts for the abundant diversity and complexity of life. But to avoid naively progressivist readings of this standpoint, it is important to understand that for Whitehead all creativity comes at a price. In particular, the urge to live better is a costly urge, powered by endless consumption, disturbance, violence, and “robbery” (PR, p. 105). As explained above, this basic urge is a grasp at the increase of immediate “satisfaction” (FR, p. 8) and except in a few cases it is pursued without concern for long-term consequences. Because natural selection disposes of whatever cannot be sustained, a proscriptive norm of survival is built into the evolutionary process. But the fundamental impulse of evolution is not a concern for survival. In short, Whitehead’s view is that the heart of life is a process of continual adaptation to new and transient values, not unlike the pursuit of immediate gratification so common in human life. For this perspective, the so-called necessities of survival and reproduction are not even secondary values: rather, they are external constraints imposed upon this more basic pursuit of value» (N.F. Barret, Life and Value, cit., p. 16). 10.  Cafaro aveva ottime ragioni per sottolineare il legame diretto di Whitehead, in queste definizioni, alla tradizione pragmatista. Incredibilmente evidenti sembrano i paralleli testuali con un lavoro di John Dewey, pubblicato dodici anni prima, nel pieno della transizione whiteheadiana alla filosofia. Alcuni estratti significativi del saggio di Dewey: «Empiricism is conceived of as tied up to what has been, or is, “given”. But experience in its vital form is experimental, an effort to change the given; it is characterized by projection, by reaching forward into the unknown; connexion with a future is its salient trait […]. The successful activities of the organism, those within which environmental assistance is incorporated, react upon the environment to bring

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Tutto ciò conduce alla conclusione per cui la Ragione, nell’esperienza, ha la funzione di dirigere e valutare l’esigenza verso11 il raggiungimento di un certo obiettivo; un obiettivo realizzato nell’immaginazione e non ancora nei fatti. Se considerata dal punto di vista della dottrina fisiologica dominante, si tratta di

about modifications favourable to their own future. The human being has upon his hands the problem of responding to what is going on around him so that these changes will take one turn rather than another, namely, that required by its own further functioning. While backed in part by the environment, its life is anything but a peaceful ex- halation of environment. It is obliged to struggle – that is to say, to employ the direct support given by the environment in order indirectly to effect changes that would not otherwise occur. In this sense, life goes on by means of controlling the environment. Its activities must change the changes going on around it […]. But as life requires the fitness of the environment to the organic functions, adjustment to the environment means not passive acceptance of the latter but acting so that the environing changes take a certain turn. The “higher” the type of life, the more adjustment takes the form of an adjusting of the factors of the environment to one another in the interest of life; the less the significance of living, the more it becomes an adjustment to a given environment till at the lower end of the scale the differences between living and the non-living disappear» (J. Dewey, The Need for a Recovery of Philosophy, in Aa. Vv., Creative Intelligence. Essays in the Pragmatic Attitude, Holt and Company, New York 1917, pp. 3-69: pp. 7, 9 e 10). 11.  D’ora in avanti si tradurrà con “esigenza verso” o “esigenza di”, l’inglese “urge toward”. Con “urge toward existence”, gli inglesi traducono il latino di Leibniz “exigentia existentiae”. L’espressione andrebbe opportunamente collocata all’interno della metafisica e della cosmologia leibniziane, e non incautamente richiamata. Tuttavia, è ben probabile che Whitehead quando parla di “urge” non pensi meramente a una “spinta” o “pulsione” di ordine biologico, ma a una propensio ad existendum, a una exigentia existentiae appunto, a un conatus essendi di ordine metafisico. Proprio l’espressione spinoziana veniva esplicitamente ripresa dal saggio di Dewey citato nella nota precedente. Non ci sono in FR riferimenti espliciti a Leibniz o Spinoza, ma la passione speculativa di Whitehead per entrambi è più che nota. Per una panoramica completa sulla metafisica leibniziana, sui temi richiamati, si veda M. Paolini Paoletti, Leibniz. Metafisica dell’esistenza, Limina Mentis, Villasanta 2013.

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una tesi letteralmente eretica; alle precedenti diatribe citate (Fede e Ragione, Ragione e Autorità, ecc.) avrei dovuto aggiungerne un’altra, quella tra Fisiologia e Causalità finale. Solo con quest’ultimo passo, è possibile avviare un dibattito sulla Ragione nello scenario culturale e scientifico contemporaneo. Ci si ritrova, di solito, di fronte a due modi contrastanti di considerare la Ragione. La si può pensare come un’operazione direttamente implicata nell’esistenza di un corpo animale; o, in alternativa, astrattamente da qualsiasi operazione animale particolare. Secondo quest’ultima accezione, la Ragione è lo strumento principe di una costruzione teoretica; all’interno di questa l’universo intero (o almeno alcuni tra i suoi elementi costituitivi) figura come l’esemplificazione materiale di un sistema astratto di concetti. La Ragione, pertanto, attualizzerebbe la possibilità di una certa forma complessa di definitezza, guardando al mondo – in uno dei suoi tratti significativi – come la manifestazione empirica di quella stessa forma di definitezza12. Le più antiche controversie ebbero a che fare principalmente con quest’ultima accezione di Ragione, intesa cioè come la facoltà simil-divina (godlike faculty, 10) di indagare, giudicare e comprendere; in tempi più recenti, invece, si è fatta avanti l’idea di una Ragione direttamente implicata nelle operazioni di un processo vitale. È ovvio che le due prospettive debbano essere integrate, anche solo se si desidera che la ragione teoretica soddisfi la propria natura; molta confusione si è generata nei secoli per via di un’incoerente oscillazione tra i due punti di vista, senza alcun tentativo di reciproca coordinazione. Da una parte una Ragione che si impone al di sopra della fattua12.  Le “forms of definiteness” costituiscono la quinta tra le otto Categories of Existence di PR: «Eternal Objects, or Pure Potentials for the Specific Determination of Fact, or Forms of Definiteness». Si rimanda qui, dunque, per una comprensione più ampia di uno degli aspetti più complessi del platonismo maturo di Whitehead, a A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., p. 198.

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lità del mondo; dall’altra una Ragione riportata al livello di un fattore qualsiasi all’interno del mondo. Dagli antichi Greci ereditiamo due figure, le cui vite reali o mitologiche rispecchiano precisamente queste due nozioni: Platone e Ulisse. Il primo condivide la Ragione con gli dèi, il secondo con le volpi. È possibile combinare entrambi gli aspetti a patto di considerare l’importanza della nozione di causalità finale anche per la condotta dei corpi animali; solo allora si potrà scorgere come Ragion teoretica e Ragion pratica cooperino nella mente degli esseri umani. Dai laboratori di fisiologia, ci vien detto all’unanimità di non introdurre alcuna considerazione sulle cause finali a proposito della loro scienza di riferimento; in questo, i fisiologi si ritrovano in perfetta sintonia con Francesco Bacone – uno dei padri della scienza moderna – e tuttora con la prassi di tutte le restanti scienze naturali13. In un tale rifiuto della causalità finale,

13.  Si esprimerà molto chiaramente su questo punto Jacques Monod quarant’anni dopo: «La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato dell’oggettività della Natura, vale a dire il rifiuto sistematico a considerare la possibilità di pervenire a una conoscenza ‘vera’ mediante qualsiasi interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali, cioè di ‘progetto’. La scoperta di questo principio può essere datata con esattezza. Galileo e Cartesio, formulando il principio di inerzia, non fondarono solo la meccanica, ma anche l’epistemologia della scienza moderna, abolendo la fisica e la cosmologia di Aristotele» (J. Monod, Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, tr. it. di A. Busi, Mondadori, Milano 1970, pp. 29-30). Lo stesso scienziato francese, tuttavia, ammetteva che il riconoscimento di alcune proprietà generali comuni a tutti i viventi (teleonomia, morfogenesi autonoma, invarianza produttiva) manteneva ancora in ballo una certa nozione di “progetto”, di “finalità” nel lessico qui usato da Whitehead: «Ma l’oggettività ci obbliga a riconoscere il carattere teleonomico degli esseri viventi, ad ammettere che, nelle loro strutture e prestazioni, essi realizzano e perseguono un progetto. Vi è dunque, almeno in apparenza, una profonda contraddizione epistemologica. Il problema centrale della biologia consiste proprio in questa contraddizione che occorre risolvere se essa

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la convinzione è talmente radicata da ricordare la stessa forza e lo stesso carattere di altre ben note circostanze storiche: si pensi al rigetto, da parte degli ambienti colti del mondo classico, della nuova visione cristiana; o al rigetto, da parte degli ambienti colti della Scolastica, della nuova visione scientifica del mondo nel XVI e XVII secolo. Occorre allora tenere ben presenti entrambi i volti della Ragione, tanto quello di Platone quanto quello di Ulisse: una Ragione in quanto ricerca di una comprensione totale e una Ragione in quanto ricerca di un metodo immediato a guida dell’azione. Non vi sono dubbi che, per ciò che attiene a questioni di metodologia scientifica, gli scienziati abbiano le loro ragioni. Dobbiamo però discernere tra il credito da tributare agli scienziati nella selezione dei loro metodi, e la loro affidabilità nel formulare giudizi dalla portata più generale: una rassegna anche rapida della storia della scienza naturale dimostrerebbe che le opinioni scientifiche correnti sono quasi infallibili nel primo caso, mentre si rivelano immancabilmente fallaci nel secondo. L’uomo in possesso di un buon metodo per agli scopi dettati dai suoi interessi dominanti, resta parimenti un caso patologico là dove tenti di coordinare – attraverso dei giudizi generali – il metodo stesso con un’esperienza dai margini più ampi. Sotto questo profilo, non c’è differenza tra scienziati, preti, statisti, uomini d’affari, filosofi e matematici; tutti ci procla­ miamo in partenza empiristi, ma di un empirismo circoscritto ai nostri interessi immediati. Quanto più chiaramente viene è solo apparente, o dimostrare insolubile se è reale» (ivi, p. 30). Si tratta di una contraddizione notata subito da Whitehead, il quale però non poteva disporre delle conoscenze biologiche in possesso di Monod pochi decenni dopo, in virtù soprattutto delle novità apportate dalla genetica. Va anche notato che Whitehead arrivava alla biologia da studioso di matematica e fisica formatosi a fine ’800, per quanto sempre al passo con le epocali trasformazioni dell’epoca. Ai suoi occhi dunque molti principi biologici rappresentavano un’importante eccezione alle leggi della fisica classica.

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enucleandosi l’analisi intellettuale del modo che regola la procedura in nome di questi interessi, con tanta più ostinazione viene esclusa ogni evidenza che non si armonizzi immediatamente con il metodo selezionato. Alcuni dei maggiori disastri dell’umanità sono stati il prodotto della chiusura mentale di essere umani pur dotati in partenza di una buona metodologia; Ulisse non è di alcuna utilità per Platone, e le ossa dei suoi compagni vengono sparse su molti scogli e molte isole14. La particolare dottrina in questione è quella secondo cui nelle trasformazioni di materia e di energia, tipiche delle attività di un corpo animale, risulterebbe impossibile individuare principi diversi da quelli che governano le attività della materia inorganica. Intorno ai più importanti fatti fisiologici non si intende sollevare alcuna inutile querelle; osservando le reazioni tra i componenti materiali di un corpo animale, non è emerso alcun elemento che violasse in qualche modo le leggi fisiche e chimiche costitutive del comportamento della materia inorganica. Da ciò, tuttavia, non segue affatto che nessun principio ulteriore possa essere chiamato in causa; così sarebbe solo nel caso in cui la tipologia dei principi fisiologici, oramai ben nota, venisse presupposta come sufficiente a esaurire le attività specifiche di ogni corpo fisico. Non è già questo il caso se prendiamo in considerazione il principio di conservazione dell’energia e le reazioni chimiche. Si presume spesso che basti la sola legge di conservazione dell’energia a determinare senza riserve le attività di ciò a cui viene applicata: è davvero difficile comprendere come una tale infondata convinzione possa essersi diffusa.

14.  Questo parallelo Platone-Ulisse andrà chiarendosi nel corso di FR; per approfondirne i contorni si vedano: D.W. Sherburne, Reason and the Claim of Ulysses, in «Idealistic Studies», vol. 4, n. 1, 1974, pp. 18-34; D.A. Dombrowski, Whitehead’s Religious Thought. From Mechanism to Organism, from Force to Persuasion, Sunny Press, Albany 2017, p. 158.

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Ma il punto su cui desidero attirare l’attenzione è la moltitudine di evidenze che trascendono il metodo fisiologico, e che vengono sistematicamente ignorate dalla dottrina scientifica prevalente. L’andamento delle umane vicende è in toto dominato dal nostro riconoscere nella previsione (foresight, 13) un momento necessario alla determinazione di uno scopo, e nello scopo (purpose, 13) un momento necessario alla generazione di una certa condotta pratica. Quasi ogni frase pronunciata e ogni giudizio formulato presuppongono l’esperienza costante di tale elemento nella vita. L’evidenza è tanto schiacciante, la convinzione indiscutibile, le prove desumibili dal linguaggio così decisive, che è difficile capire da dove cominciare per dimostrarlo15.

15.  Si chiarisca, ove ve ne fosse bisogno, che Whitehead non riabilita certo una concezione classica di finalismo, per la quale il futuro sarebbe già inscritto e contenuto sotto forma di idea nel presente. Da questo punto di vista è del tutto in linea con l’impostazione generale dell’Evoluzione creatrice bergsoniana: «La dottrina del finalismo, nella sua forma estrema, come ad esempio la troviamo in Leibniz, implica che le cose e gli esseri non fanno che realizzare un programma già tracciato. Ma, se non vi è niente di imprevisto, nessuna invenzione né creazione nell’universo, il tempo diventa di nuovo inutile. Come nell’ipotesi meccanicistica, anche qui si suppone che tutto è dato. Il finalismo così inteso non è che un meccanicismo alla rovescia. […] Sostituisce l’attrazione del futuro alla spinta del passato. […] Tuttavia, il finalismo non è, come il meccanicismo, una dottrina dai contorni rigidi. Gli si possono imprimere tutte le direzioni che si vuole. La filosofia meccanicistica è da prendere o lasciare: dovremmo lasciarla se il più piccolo granello di polvere, deviando dalla traiettoria prevista dalla meccanica, manifestasse la più lieve traccia di spontaneità. Al contrario, la dottrina delle cause finali non sarà mai confutata definitivamente. Se se ne scarta una forma, essa ne assumerà un’altra. Il suo principio, che è di natura psicologica, è molto duttile. Esso è così estensibile, e quindi così vasto, che non appena respingiamo il meccanicismo puro, ne accettiamo già qualcosa. La tesi che esporremo in questo libro parteciperà dunque necessariamente, in una certa misura, del finalismo» (H. Bergson, L’evoluzione creatrice, tr. it., a cura di M. Acerra, BUR, Milano 2012, cap. I; consultato in ed. digitale).

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Si prenda, a esempio, la politica di uno statista o di una società d’affari. Se eliminassimo la nozione di causalità finale, la parola stessa “politica” perderebbe di significato. Mentre redigo il testo di questa conferenza sono guidato dall’intenzione di tenerla all’Università di Princeton: prescindendo dalla causalità finale tale “intenzione” rimarrebbe priva di senso. Si prenda in considerazione il viaggio della nave militare Utah attorno al continente sudamericano, partendo dalla nave stessa come oggetto fisico. Ci viene richiesto di credere che il conglomerato di atomi, ferro, azoto ed elementi chimici vari, costitutivo della forma della nave, della sua carenatura, dei suoi cannoni, dei suoi motori, delle sue munizioni, delle sue riserve di cibo, altro non sia che il prodotto delle medesime leggi fisiche che determinano l’infrangersi senza scopo (aimlessly, 14) delle onde oceaniche sulle coste del Maine. In nessuno dei due casi il concepimento di uno scopo sarebbe in qualche modo determinante: l’operato complessivo dei costruttori navali sarebbe del tutto analogo al depositarsi della sabbia lungo una spiaggia. Si passi ora – sempre presupponendo la dottrina fisiologica ortodossa – al viaggio della nave. Il presidente eletto degli Stati Uniti non dovrebbe avervi nulla a che fare; le sue reali intenzioni riguardo alla politica sudamericana, così come i suoi buoni propositi nei confronti del mondo, risulterebbero del tutto futili e irrilevanti. I moti del suo corpo, dei corpi dei marinai e dei costruttori navali, dovrebbero essere esclusivamente governati dalle medesime leggi fisiche che portano una pietra a rotolare giù per un pendio, e l’acqua a bollire. La sola idea dovrebbe risultarci ridicola. Naturalmente, ci verrà risposto che la dottrina non si applica nel caso della condotta pratica degli esseri umani. Eppure, i movimenti corporei sono delle operazioni fisiologiche; se le riteniamo cieche, dovranno esserlo allora anche i movimenti corporei. Del resto, anche gli uomini sono animali. Senza dub-

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bio alcuno l’intera disputa sull’evoluzione si è sempre giocata su quest’ultimo punto. Ci viene chiesto di affrontare la questione anche da un punto di vista storico. L’umanità si è sviluppata gradualmente a partire da forme di vita meno complesse, e tale processo deve essere spiegato in termini applicabili alla totalità di tali forme. Ma perché interpretare stadi evolutivi avanzati in analogia a stadi evolutivi più elementari? Perché non invertire il processo? Parrebbe più avveduto, e più seriamente empirico, lasciare che ogni specie vivente fornisca il proprio specifico contributo alla dimostrazione dei fattori inerenti a un processo vitale. Non è necessario spingersi troppo oltre nella discussione, i casi esibiti dovrebbero risultare di per sé probanti. Ciononostante, la categoria compatta dei fisiologi – forte delle idee che hanno reso efficace la loro metodologia – ignora del tutto l’ingente mole di evidenze contrarie. Trattasi di un esempio lampante di dogmatismo anti-empirico16 derivante da una metodologia di successo; una prova che trascenda il perimetro disegnato dal metodo stesso semplicemente non viene presa in carico. Ci viene ricordato, naturalmente, che la noncuranza di

16.  Non è affatto da escludere che il termine “dogmatismo” (da qui in avanti all’interno di FR) rimandi direttamente all’uso fattone da Kant (Prefazione alla seconda ed. della Critica della ragion pura). Whitehead è stato – per sua stessa ammissione – un attento lettore di Kant negli anni universitari di Cambridge (A.N. Whitehead, Autobiographical Notes, cit., p. 10); ha poi ripreso a confrontarcisi negli anni di maturazione della filosofia dell’organismo, con chiare prese di distanza. È doveroso altresì aggiungere che tali prese di distanza, più che con Kant medesimo, avevano a che fare con le interpretazioni fenomeniste della filosofia critica. Lo dimostrano i rimarchi di Whitehead – trasmessi in una lettera privata – alle bozze preparatorie dei Problems of Philosophy di Russell (cfr. V. Lowe, Whitehead’s 1911 Criticism of The Problems of Philosophy, in «Old Series», n. 13, 1974, pp. 1-8).

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queste prove deriva dal loro eccedere gli scopi della metodologia scientifica. Quest’ultima si limita a tracciare la persistenza dei principi fisico-chimici all’interno delle operazioni fisiologiche. Il successo brillante di tale metodo è oltre ogni dubbio; non si può però eludere un problema solo per via dell’efficacia di un certo metodo. E il problema da affrontare riguarda la comprensione delle operazioni di un corpo animale. Sussistono evidenze chiare su come alcune operazioni di alcuni corpi animali dipendano dalla previsione di un fine e dal proposito di raggiugerlo. Trascurare tali evidenze, solo perché altre operazioni sono state in precedenza spiegate in termini di leggi fisico-chimiche, non rappresenta certo la soluzione del problema. Esso viene semplicemente non riconosciuto, quando non proprio negato con veemenza. Non sono pochi gli scienziati che hanno pazientemente allestito esperimenti allo scopo di comprovare la loro ipotesi di partenza, e cioè che le operazioni animali sono libere da qualsiasi scopo. Verosimilmente, hanno impiegato il loro tempo libero a scrivere articoli per avvalorare l’analogia tra gli umani e il resto degli animali, così da decretare l’irrilevanza della categoria di “scopo” nella spiegazione delle rispettive attività corporee, comprese quelle degli scienziati stessi. Sarebbe un caso interessante da studiare quello degli scienziati animati dallo scopo di dimostrare che il loro medesimo agire è senza scopo. Un’altra ragione, a giustificazione dell’esclusione della causalità finale, ha a che fare con il rischio di introdurre un modello di spiegazione troppo semplice; ed è un rischio indubbiamente concreto. La comoda suggestione di una causa finale potrebbe, infatti, compromettere il paziente lavoro di tracciamento di una catena sequenziale in determinati antefatti di natura fisica. Ciò detto, la mera attestazione di alcuni possibili rischi impliciti nella nozione di causa finale non è un motivo sufficiente per ignorare delle problematiche reali. Anche se le pro-

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ve sono tenui, il problema resta (Even if heads be weak, the problem remains, 17). Il clero cristiano ha sovente sollevato obiezioni simili contro le innovazioni giudicate nocive per la fede e la morale; il mondo scientifico rifiuta con risolutezza tali limitazioni alla libera considerazione dell’evidenza. Eppure, in difesa dei propri dogmi gli scienziati non si comportano diversamente dal clero di un tempo. La condotta umana di un fisiologo, o del governatore del Tennessee, dimostra di obbedire ai medesimi precetti; sotto questo rispetto, tutte le tipologie di essere umano si collocano allo stesso livello, e faticheremo a migliorare a meno di comprendere la fonte di questa nostra tentazione. L’evoluzione della Ragione dal basso è stata essenzialmente pragmatica e con un range ristretto di previsione. La primitiva e fondamentale soddisfazione dovuta all’utilizzo della Ragione, e che rimanda a un’eredità ancestrale, è sorta dalla messa in risalto di un certo metodo a supporto della comune condotta pratica. Se il metodo funziona, la Ragione è soddisfatta; nessun interesse oltrepassa l’ambito del metodo. Anzi, quest’affermazione è ancora troppo contenuta: c’è un interesse attivo nel circoscrivere la curiosità entro il perimetro disegnato dal metodo stesso. Ogni sconfitta di suddetto interesse provoca un risentimento emotivo; è così che l’empirismo svanisce. La migliore chance per ampliare gli orizzonti di una ricerca (survey, 18) passa dalla capacità di questa di presentarsi con la promessa di un metodo più comprensivo. Talvolta, il metodo più diffuso in una data epoca comincia a manifestare segnali di cedimento; se ne hanno delle prove evidenti quando una metodologia, nel suo sviluppo interno, non riesce più a toccare questioni davvero importanti. Inizia così una fase finale di discussioni interminabili su problemi di poco conto. Ogni metodologia ha la sua biografia. Nasce come espediente per agevolare il compimento di una qualche embrionale

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esigenza vitale. Giunta al suo culmine, rappresenta un’ampia coordinazione di pensiero e azione mediante la quale quest’esigenza si esprime come una grande soddisfazione per l’esistenza. Infine, subentra la spossatezza (lassitude, 18) tipica della vecchiaia, per certi versi una sorta di seconda infanzia. I contrasti maggiori affrontabili nell’ambito del metodo sono stati esplorati e addomesticati; la soddisfazione proveniente dalla ripetizione è svanita. La vita affronta allora le sue ultime alternative, nelle quali ne va del suo destino. Queste alternative finali sono segnate dalla triplice esigenza di cui ho già in precedenza parlato: vivere, vivere bene, vive­ re meglio. La nascita di una metodologia è, nella sua essenza, la scoperta di un espediente per vivere. Al suo apice, essa soddisfa le condizioni immediate per una buona vita, benché questa resti per natura instabile: la legge della fatica è inesorabile. Quando una qualsiasi metodologia ha esaurito le novità interne al suo raggio d’azione, e dopo che si è esercitata su di esse fino al sopraggiungere della stanchezza finale, interviene una decisione ultima a determinare il destino di una specie. Essa può decidere di continuare a sopravvivere stabilizzandosi e collassando su sé medesima; oppure può scuotersi e avventurarsi verso una vita migliore. In quest’ultimo caso la specie si impadronisce di una delle metodologie nascenti, nascoste nel groviglio di esperienze varie al di là della portata del vecchio modo dominante. Quando la scelta si rivela positiva, l’evoluzione acquisisce un trend progressivo; quando la scelta è negativa, l’oblio del tempo avvolge le vestigia di una specie estinta. Attraverso una scelta positiva, il nuovo metodo giunge rapidamente alla sua fase intermedia; nasce così una nuova forma di vita buona, il cui perdurare dipenderà dalla varietà di contrasti tollerati all’interno delle nuove disposizioni metodologiche. Nel complesso, esistono prove evidenti che dimostrano una certa velocità di evoluzione dalla fase embrionale di una metodologia alla sua fase intermedia relativamente lunga.

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Nel primo caso, rifiutando l’avventura, la specie cede alla ben sperimentata abitudine della semplice sopravvivenza; il metodo di partenza entra così in una vecchiaia prolungata, in cui il benessere è collassato nel mero essere. La sfaccettata vivacità iniziale è andata svanendo e la specie si trascina attraverso vecchie abitudini e ciechi appetiti. L’Essenza della Ragione, già dalle sue forme meno sviluppate, consiste nella capacità di valutare i lampi di novità17 (flashes of novelty, 20); tanto di novità immediatamente realizzabili, quanto di novità solo appetibili e non ancora realizzatesi di fatto. Nella vita stabilizzata non c’è spazio alcuno per la Ragione; la metodologia è precipitata da un metodo aperto alla novità a un metodo soffocato dalla ripetizione. La Ragione è lo strumento finalizzato a porre in risalto la novità (Reason is the or­ gan of emphasis upon novelty, 20); il suo compito è di mettere a disposizione il giudizio per mezzo del quale uno scopo diviene concepibile, e in un secondo momento realizzabile nei fatti. Il taedium vitae non esprime altro che l’estenuazione (fatigue, 20) derivante da una risposta poco energica di fronte a nuove tipologie di contrasti. Si danno in natura tre “vie”18 diverse at-

17.  Il forte interesse speculativo nei confronti della nozione di “novità” deriva a Whitehead non solo dalla frequentazione dei testi di Bergson, ma dalle discussioni sopra ricordate con i suoi colleghi realisti ed emergentisti della Aristotelian Society. Per approfondirne il dibattito si rinvia a: M.R. Brioschi, How Novelty Arises from Fields of Experience, in «European Journal of Pragmatism and American Philosophy», V, n. 1, 2013, risorsa online: https://journals.openedition.org/ejpap/595; D. Rambo, Interstitial Life and the Banality of Novelty in Whitehead’s Process and Reality, in «Process Studies», vol. 47, n. 1-2, 2018, pp. 26-46. 18.  Si è tradotto l’inglese “way” quasi letteralmente con “via”, e non come avviene più usualmente con “modo”, per un duplice motivo. “Via” rende in termini più immediati l’idea di un cammino, di un percorso; nella fattispecie il cammino o il percorso di una specie verso la stabilizzazione. Inoltre, richiama in termini più diretti il significato del termine greco οδός (via, stra-

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traverso cui la stabilizzazione è assicurata, e sono: la Via della Cecità, la Via del Ritmo, la Via della Transitorietà. Le tre vie non si escludono a vicenda: la Via del Ritmo sembra pervadere l’intera esistenza, La Via della Cecità sembra rendere non essenziale la Transitorietà, e quest’ultima lenisce la Cecità. Tutte e tre le vie sembrano essere compresenti nella fase evolutiva declinante di una specie, ma sono in particolare Cecità e Transitorietà a variare inversamente l’una rispetto all’altra. Cecità sta per collasso, ricaduta (relapse, 20). Una simile im­ passe soffoca quei lampi di novità che avevano contribuito all’ascesa verso uno stadio evolutivo più organizzato. Tali lampi sono infatti parte integrante dello stadio evolutivo raggiunto, sono elementi di novità vitale, di godimento (enjoyment, 21). Il percorso ascendente è stato però scartato, ad essere escluse sono ormai le novità e la loro enfasi ragionata. La complessità raggiunta è vissuta a un livello inferiore di operazioni rispetto a quelle che avevano portato al suo raggiungimento; si è spento il trend progressivo. Va profilandosi una stabilizzazione su qualche livello di inferiore complessità, ovvero una graduale caduta. Si è atrofizzato l’organo della vivacità, che è anche l’organo della novità e l’organo della fatica. Per Via della Transitorietà si intende l’avvicendamento di individui dalla breve vita, funzionale a preservare le specie dalla fatica dell’individuo. La transitorietà è, a ben guardare, una via per la cecità: procura individui nuovi pronti ad affrontare ciecamente l’usuale ciclo dell’esperienza. La Via del Ritmo, infine, pervade la vita nella sua interezza, ossia l’esistenza fisica in tutte le sue forme. Questo comune principio del Ritmo è una delle ragioni per credere che i principi basilari della vita, in una qualche forma elementare, ineriscoda, percorso), che ritorna nelle parole “method” e “methodology”, tra le più ricorrenti nel cap. I del libro.

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no a tutte le tipologie di esistenza fisica. Nella Via del Ritmo, un ciclo di esperienze (le quali danno vita a una determinata sequenza di contrasti all’interno di un metodo definito) è codificato in modo che la fine del ciclo medesimo segni il legittimo stadio antecedente per l’inizio di un altro simile ciclo. Il ciclo è tale che il suo stesso completamento fornisce le condizioni per la sua semplice ripetizione. Esso elimina lo sforzo legato alla ripetizione di una qualsiasi delle sue parti; solo una dose importante di memoria fisica è in grado di assorbire lo sforzo derivante dal ripetersi del ciclo nella sua interezza. A condizione che ogni ciclo sia in grado di autoripararsi, lo sforzo della ripetizione necessita di un alto grado di coordinazione dei vari tratti costitutivi dell’esperienza passata. A livello dell’esperienza umana, è possibile rilevare come lo sforzo maggiore provenga dalla semplice ripetizione dei cicli; il dispositivo, con il quale questo sforzo viene ogni volta affrontato, assume la forma della conservazione della struttura astratta fondamentale del ciclo, combinata però con la variazione dei dettagli concreti dei cicli successivi. Tale dispositivo è particolarmente esemplificato dalla musica e dalla visione, e possiede indubbiamente un enorme capacità di elaborare dettagli complessi. Così il Ritmo della vita non è semplicemente da ricercare nella mera ricorrenza ciclica; l’elemento del ciclo va ricercato a livello del fondamento, là dove vengono rielaborate le variazioni dei cicli e dei cicli dei cicli. Diviene qui possibile individuare l’esempio più nitido di adozione di un metodo. Una vita buona è raggiunta attraverso un certo grado di soddisfazione dei contrasti, all’interno di un certo contesto metodologico; si esemplifica in questo modo l’azione appetitiva che opera internamente a un dato assetto di riferimento. La Ragione trova a quest’altezza il suo scopo preciso, ossia nel­ la funzione di direzionare in termini ascensionali il trend evo­

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lutivo; già dalle sue forme più elementari, la Ragione provvede a porre la giusta enfasi concettuale sull’emergere di talune istanze evolutive innovatrici. La Ragione, dunque, è libera dagli obblighi costruttivi del pensiero astratto; essa opera esclusivamente come un semplice e diretto giudizio volto a fare di un lampo concettuale una vera e propria appetizione, e di questa un fatto realizzato. La “Fatica” rappresenta l’antitesi della Ragione; le operazioni della prima sono una sconfitta per la seconda, il cui carattere essenziale è di assecondare un trend progressivo. Con Fati­ ca si allude a quelle operazioni che soffocano l’impulso verso la novità, che ostacolano qualsivoglia opportunità di sviluppo per lo stadio immediato in cui è venuta a trovarsi la vita. Tale stadio era stato raggiunto sfruttando al meglio le opportunità a disposizione; un metodo ottiene il suo massimo trionfo quando si dimostra in grado di accogliere le opportunità di sviluppo favorevoli, senza trascendere i propri limiti. La mera ripetizione segna lo scacco per un’opportunità; l’inerzia che soffoca la Ragione non fa che generare un mero e reiterante ciclo trasformativo, esente da novità. Questo e non altro è da intendersi con “fatica”: l’esigenza della Ragione ostruita da tale inerzia. Non appena siffatta esigenza, oramai indebolita, finalmente svanisce, la vita preserva il proprio stadio per ciò che concerne le relative operazioni formali; essa ha però smarrito proprio quell’impulso che le aveva permesso di raggiungere il suo stadio effettivo, e che ne costituiva l’elemento originale. C’è stata una ricaduta dentro una semplice vita ripetitiva, oramai spoglia di qualunque tensione attiva verso il vivere bene – e ancora meno verso il viver meglio –, e il cui unico obiettivo resta la mera sopravvivenza. Questo stadio di vita statica, in realtà, non raggiunge mai davvero la stabilità; al contrario, inizia a subire un lento decadimento in cui la complessità dell’organismo gradualmente collassa verso forme di vita via via più elementari.

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In questa descrizione generale della funzione originaria della Ragione nella vita animale, si è scelto di pensare l’organizzazione autonoma di un corpo vivente in analogia all’organizzazione fisica altrettanto autonoma dell’universo materiale nella sua interezza. Quest’ultimo ha conosciuto al suo interno – e forse conosce ancora – un qualche misterioso impulso energetico da cui è stato indotto a perseguire dei trend di natura progressiva; si tratta però di un impulso che, quanto al suo funzionamento generale, rimane nascosto alla nostra osservazione diretta. Ci deve essere stata una qualche epoca in cui il trend dominante dell’universo si concretizzava nella formazione di protoni, elettroni, molecole, stelle; oggi invece, per ciò che concerne le nostre attuali osservazioni, non si può che constatarne lo stato declinante19. Disponiamo di una conoscenza avanzata del corpo animale per tramite della nostra stessa esperienza personale; è proprio nel corpo animale che si fa osservabile un’appetizione verso trend progressivi, con la Ragione a figurare nel suo ruolo di agente selettivo. Altresì, 19.  Whitehead allude alla nozione fisico matematica di “entropia crescente”, dunque al secondo principio della termodinamica o principio di degradazione dell’energia. Con entropia è da intendersi la tendenza intrinseca alla dissipazione di energia utile che si verifica in ogni processo trasformativo all’interno di un sistema isolato. Nelle trasformazioni energetiche reali (pertanto irreversibili) interne a un sistema chiuso, la variazione dell’entropia è sempre positiva, cioè tende al suo massimo. Massimo di entropia che coincide con l’assoluto esaurirsi di energia disponibile per compiere lavoro, per innescare processi energetici (vita inclusa). L’estensione del secondo principio della termodinamica alla vita intera dell’Universo (considerato dunque come il sistema isolato par excellence) ha generato l’ipotesi della morte termica, ossia di uno stadio finale di totale spegnimento delle sue risorse energetiche. È a quest’ultima ipotesi che Whitehead pensa, rispetto alla quale pone una contro-tendenza di natura vitale e progressiva, esemplificata dalla vita animale. Per un esame più accurato della nozione di entropia e del secondo principio della termodinamica si veda A. Ben-Naim, L’entropia svelata. La seconda legge della termodinamica ridotta a puro buon senso, tr. it. di D. Casadei, libreriauniversitaria.it, Limena 2009.

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nel caso dell’universo fisico non abbiamo alcuna conoscenza diretta di un’attività equivalente attraverso la quale sarebbe giunto al suo livello attuale di disponibilità energetica. Sono tuttora affatto rilevabili degli aggregati energetici sotto forma di protoni, elettroni, molecole, polvere cosmica, stelle e pianeti. Per quanto vasta possa essere la scala dell’ordine fisico, essa sembra essere finita e va consumandosi a ritmo altrettanto finito; per quanto estesi possano essere i periodi di tempo, deve esserci stato un inizio di tale mero deperimento e ci dovrà essere dunque una fine. Dal nulla non può nascere nulla (From nothing, there can come nothing, 25). L’universo, interpretato solo in termini di causalità efficiente tra interconnessioni puramente fisiche, evidenzia una contraddizione decisiva e difficile da risolvere. La dottrina fisiologica ortodossa esige che le operazioni dei corpi viventi siano ricondotte esclusivamente all’interno di un sistema fisico, composto da categorie fisiche. Tale sistema, ogniqualvolta si ritrova dinanzi a taluni fatti empirici, fallisce nell’includerli nel proprio dominio d’applicazione a meno di incorrere in un suicidio logico. La morale da trarre, dall’ostinazione a indagare l’universo fisico secondo una prospettiva rigidamente fisicalista (così trascurando quanto non si lascia esprimere in questi termini), è che si è omesso di considerare la possibile esistenza di una qualche contro-azione (counter-agency, 25) generale. Nel suo funzionamento attraverso l’universo fisico, tale contro-azione risulta troppo vasta e dispersiva per la nostra osservazione diretta. Potremmo acquisire una siffatta capacità in seguito a qualche significativo progresso evolutivo o scientifico; ma, allo stato attuale delle cose, mentre analizziamo la struttura del cosmo fisico, non sussiste alcuna intuizione diretta della contro-azione a cui esso deve la possibilità di esistere quale organismo finito in esaurimento. È qui che la dottrina fisiologica ortodossa mostra la sua debolezza, ossia nel fondare le proprie spiegazioni unicamente su un sistema fisico incoerente al suo stesso interno.

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Nel corpo animale, come è già stato notato, vi sono prove irrefutabili di attività condizionate da uno scopo. Viene quindi naturale invertire l’analogia, di modo da sostenere che una qualche forma elementare e diffusa di Ragione sia presente anche nella contro-azione attraverso cui il cosmo materiale viene all’essere; è una tesi che comporta il rifiuto di escludere la causalità finale dalla nostra teoria cosmologica. Il rigetto della finalità risale a Francesco Bacone, all’inizio del XVII secolo, e non vi sono dubbi che, su un piano metodologico e limitatamente a certi campi, sia stato un indubbio successo. Per contro, solo ammettendo la categoria della causalità finale diviene possibile definire la funzione precipua della Ragione; questa funzione consiste nel determinare, mettere in rilievo, valutare le cause finali e la portata degli sforzi a loro diretti. Il pragmatismo non può non accettare questa definizione; se escludesse dal suo orizzonte la causalità finale si svuoterebbe di significato. Una dottrina non è mai davvero testata finché non viene messa alla prova dei fatti. Al di là di questa funzione primaria, l’esistenza stessa della Ragione rimarrebbe priva di scopo e incomprensibile quanto alla sua origine. Nel corso dell’evoluzione, perché mai il trend sarebbe dovuto giungere fino al genere umano, se le attività della Ragione di quest’ultimo fossero rimaste ininfluenti sulle sue azioni corporee? È bene essere limpidi su questo punto: la Ragione resta incomprensibile se si priva lo scopo di efficacia. Come primo passo, occorre esaminare i tratti essenziali della dottrina fisiologica; un tale esame ci conduce alla distinzione tra l’autorevolezza della scienza nella selezione della propria metodologia, e l’autorevolezza della stessa nell’enucleazione delle categorie fondamentali di spiegazione. Siamo così giunti a considerare la reazione naturale di esseri umani dotati di una metodologia efficace, dinanzi a delle evidenze che

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circoscrivono l’ambito applicativo di quest’ultima. La scienza ha sempre accusato il vizio della sovrastimazione (overstate­ ment, 27); in questo modo, conclusioni vere entro determinati limiti sono state dogmaticamente generalizzate in una univer­ salità fallace. Questa funzione pragmatica della Ragione fornisce gli strumenti idonei ad assecondare il trend progressivo dell’evoluzione animale; nondimeno, anche la teoria del trend progressivo richiede una spiegazione sul piano del cosmo puramente fisico. La nostra formulazione scientifica della fisica ci prospetta un universo limitato, in processo di dissipazione energetica; ed è al cospetto di ciò che invochiamo una contro-azione tale da giustificare un universo in dissipazione all’interno di un tempo finito. L’analogia con il corpo animale suggerisce che l’esclusione senza riserve della causalità finale, dalle nostre categorie esplicative, si è rivelata fallace; una cosmologia che si rispetti deve spiegare l’intreccio tra causalità efficiente e casualità finale. Là dove si finisse col pensare i due modi della causalità come reciprocamente limitantesi, la nostra cosmologia si fermerebbe al livello di un arbitrarismo esplicativo. Ciò di cui andiamo alla ricerca è una spiegazione della natura metafisica della realtà, tale che ogni cosa determinabile dalla causalità efficiente sia così determinata e che ogni cosa determinabile dalla causalità finale sia così determinata. Le due sfere di funzionamento dovrebbero intrecciarsi e richiamarsi l’un l’altra; a nessuna delle due dovrebbe competere di limitare arbitrariamente la dimensione dell’altra. Nel frattempo, constatiamo che la funzione a breve raggio della Ragione, tipica di Ulisse, è la Ragione nel suo atto di valutare ed enfatizzare quelle finalità secondarie in natura fungenti da operatori effettivi della causalità finale: si tratta della Ragione nella sua veste pragmatica. Sotto questo profilo, la Ragione è l’incarnazione pratica dell’esigenza di trasformare la

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mera sopravvivenza in un’esistenza buona, e l’esistenza buona in un’esistenza migliore. Eppure, passando in rassegna l’universo della natura, la mera e statica sopravvivenza – accompagnata da un lento decadimento – sembra essere la regola generale. Esempi di trend progressivi non rappresentano che casi sparuti ed eccezionali. Pertanto, la questione principale su cui riflettere (per come ci si presenta empiricamente) rivela dei trend progressivi appannaggio di pochi, combinati a un lento scostamento dal vecchio e diffuso ordine fisico che forma la base da cui il percorso ascensionale si è prodotto. Questo fatto empirico è uno dei più profondi e irrisolti misteri. Una volta riconosciute queste due tendenze all’opera, è inevitabile chiedersi come sia possibile comprendere la natura delle cose in modo da tenere insieme entrambi i caratteri. Viene subito alla mente la dottrina bergsoniana dell’élan vital e della sua ricaduta nella materia; la doppia tendenza a progredire o a regredire è da Bergson enunciata in termini espliciti, senza però che ci venga offerta nel merito un’illuminazione esplicativa20. La medesima carenza di ragioni, a proposito di tale duplice aspetto, resta anche nella vecchia dottrina delle sostanze individuali e delle rispettive qualità inerenti. C’è ancora un altro dualismo lampante nel mondo con cui ogni cosmologia è costretta anzitutto a fare i conti: il dualismo tra Corpo e Mente. Se si seguono le argomentazioni in merito di Descartes, tale dualismo viene espresso nei termini del concetto di “sostanza”, a partire dal quale prendono forma le due nozioni di “sostanza corporea” e “sostanza pensante”. Le sostanze corporee hanno, secondo la nota teoria, un’esi20.  Il riferimento è al terzo capitolo di H. Bergson, L’evoluzione creatri­ ce, ed. digitale cit., Il significato della vita. L’ordine della natura e la forma dell’intelligenza.

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stenza vuota (a vacuous existence, 30): sono meri fatti, privi di qualsivoglia valore intrinseco21. È intrinsecamente impossibile fornire una qualche ragione per cui esse dovrebbero venire all’esistenza, durare o cessare di esistere; la risposta di Descartes è che la loro esistenza è garantita da Dio, ma non prova in modo sufficiente come e perché Dio dovrebbe preoccuparsi di farlo. Questa concezione di esistenza sostanziale vuota manca di un’adeguata chiarificazione. Tutti i tentativi di escludere la causalità finale hanno di fatto contributo a rendere incomprensibile anche la causalità efficiente. Descartes si è visto costretto a chiamare in causa Dio al fine di giustificare il movimento dei suoi corpi. I due trend, progressivo e regressivo, non possono essere presi separatamente; esistono solo insieme. Anche il taglio operato da Descartes tra corpi e menti è una cattiva interpretazione dei fatti empirici. Non si giungerà mai a una metafisica esauriente se non passando dall’abolizione di questa nozione di esistenza vuota e

21.  Sulla coestensività di attualità e valore si è acutamente espresso Brian Henning: «There is no merely passive stuff, no lifeless bits of matter, but this does not mean that the walls literally have ears or that a brook literally babbles. Rather, by imputing experience and subjectivity to even the most trivial puff of existence, what Whitehead is denying is that there is anything that is absolutely determined by external forces. Even the most trivial puff of existence in some remote galaxy renders determinate a small window of relations that are no determined by its environment. It is in this limited sense that Whitehead claims that every occasion is causa sui. That is, in the sense that every occasion to a greater or lesser degree (and this degree can make all the difference, as we will see below) renders determinate its relations to its actual world, it cannot be devoid of subjective immediacy or experience. […] In a processive cosmos such as Whitehead’s, everything has value to some degree. There is no longer such a thing as dead, lifeless, valueless stuff. To be actual is to have value» (B.G. Henning, Saving Whitehead’s Universe of Value: An “Ecstatic” Challenge to the Classical In­ terpretation, in «International Philosophical Quarterly», vol. 45, n. 4, 2005, pp. 447-465: pp. 449, 450).

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priva di valore (valueless, vacuous existence, 30): la vacuità è il prodotto di un’astrazione ed è stata erroneamente introdotta nella nozione di una cosa compiutamente reale (finally real thing, 30), di un’attualità. Gli Universali e le proposizioni sono vuoti, ma in nessuno dei due casi si tratta di un’attualità; solo rifiutando la nozione di esistenza vuota diventa possibile concepire ogni attualità come di per sé stessa anelante al raggiungimento di un fine. La sua esistenza reale coincide con la presentazione a sé medesima delle proprie molteplici componenti, in vista dei propri stessi fini (ends, 31); in altre parole, un’attualità è un’unità complessa, un processo capace di sentire le proprie stesse componenti (a process of feeling its own components, 31)22. Questa la dottrina per cui ogni attualità è un’occasione d’esperienza, il risultato complessivo dei propri stessi scopi (purposes, 31)23.

22.  In PR Whitehead rivela che il suo utilizzo del termine feeling rimanda sia al termine enjoyment, come utilizzato da Alexander, sia a quello di in­ tuition, come utilizzato da Bergson: «Ogni entità attuale è concepita come un atto d’esperienza che sorge dai dati. È un processo del “sentire” i molteplici dati, così da assorbirli nell’unità di una “soddisfazione” individuale. Qui “sentire” è il termine usato per la fondamentale operazione generica del passaggio dall’oggettività dei dati alla soggettività dell’entità attuale in questione» (A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., p. 261). 23.  È una parte molto complessa del libro, che rimanda al modo in cui, all’interno di PR, Whitehead tenta di coniugare il divenire e la permanenza di un’entità attuale, ovvero l’origine (causa efficiente) e la destinazione (causa finale) del processo di concrescenza. L’analisi che ne offre Crespi, a nostro avviso, entra nella questione molto più sottilmente di quanto farà Abbagnano anni dopo, ricollegandosi al discorso fatto in precedenza sulla causalità finale: «La concrescenza invece è un processo finalistico. La realizzazione di una occasione attuale è il passaggio dalla molteplicità disgiunta dei suoi dati all’unità congiunta della “satisfaction”. Ma tale unità è sempre una sintesi emergente rispetto al dato, la quale presenta un elemento di novità irriducibile; essa è quindi inesplicabile in funzione del solo dato ed implica un altro tipo di causalità. La causa finale non è altro che la “satisfaction” futura, la quale è presente, benché non in modo attuale, in ogni momento

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Ciò che sto tentando di fare è di seguire il metodo scientifico ordinario di ricerca di una spiegazione. Avendo trovato un esempio di dualismo fondamentale nell’universo – cioè la tendenza fisica alla degradazione e la controtendenza progressiva –, vado a enumerare altri dualismi significativi, nella speranza di legarli insieme in un concetto coerente e così giustificarli l’un l’altro. La questione da interrogare, a ora, riguarda i termini entro cui è lecito interpretare i trend progressivo e regressivo, la distinzione corpo-mente, come dualismi coordinati ed essenziali alla natura stessa dell’esperienza. L’esperienza corporea è pura esperienza fisica; il puro ed estremo godimento dell’essere compiutamente qualcosa24. È l’auto-

del processo come il termine a cui esso tende intrinsecamente. È la causa finale che determina l’eliminazione prospettica nella prensione del dato in vista della realizzazione di una “armonia soggettiva”; poiché la molteplicità del dato implica elementi incompatibili, mentre l’armonia è un elemento essenziale ad ogni attualità. Così nel divenire concreto si intrecciano determinismo e spontaneità, causalità efficiente e finale; esso è concepito come una serie di “pulsazioni di attualità”; ogni entità emerge da un dato e ogni entità entra a costituire il dato delle entità successive. Naturalmente non si deve vedere in ciò una negazione della continuità del divenire: fluenza e determinatezza sono aspetti del processo; anzi Whitehead sembra concepirli come due modi di considerare il divenire, e cioè dal punto di vista “genetico” e dal punto di vista “morfologico”, il primo dei quali ci mette dinanzi alla continuità del divenire e riguarda l’aspetto potenziale della natura, mentre il secondo riguarda le attualità che sono “incurably atomic”» (G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, cit., p. 319; corsivi miei). 24.  Anche in PR (sez. I, cap. VI) veniva richiamato Descartes in occasione di definire cos’è un’attualità e cos’è esperienza. È qui che la discussione sul tema assume il suo carattere sistematico: «Per la sua filosofia [di Descartes], “attualità” significava “essere una sostanza con qualità inerenti”. Per la filosofia dell’organismo, l’occasione percipiente è il suo proprio criterio dell’attualità. Ci può essere una prova di un mondo di entità attuali, solo se l’entità attuale immediata le rivela come essenziali alla sua stessa composizione. La nozione di Descartes di un’esperienza non essenziale del mondo esterno è del tutto estranea alla filosofia organica. Questo è il punto radicale

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definizione che va a costituire un puro fatto tra altre cose, cioè tra altre attualità e forme selezionate di definitezza. L’esperienza fisica è il godimento materiale (matter-of-fact enjoyment, 31) degli elementi propri a una data e specifica occasione; non c’è componente dell’esperienza fisica che non abbia il suo ruolo in quanto puro dato di fatto (sheer matter-of-fact, 31). Inoltre, ogni occasione d’esperienza è dipolare: esperienza mentale ed esperienza fisica si integrano a vicenda. La prima rappresenta il rovescio della seconda: quella mentale, infatti, è esperienza di forme di definitezza svincolate da un’esperienza fisica particolare, ma con una valutazione astratta circa il loro possibile apporto a quest’esperienza. La coscienza non è affatto un elemento necessario all’esperienza mentale. La forma più elementare di esperienza mentale assume i tratti della cieca esigenza verso una forma d’esperienza, ossia, di una cieca esigenza verso una forma da realizzare. Queste forme di definitezza sono le forme platoniche, le idee platoniche, gli universali medievali25.

della divergenza, ed è la ragione per cui la filosofia organica deve abbandonare qualsiasi tentativo di interpretare l’attualità come sostanza-qualità. La filosofia organica interpreta l’esperienza come l’“auto-godimento dell’essere uno tra i molti, e dell’essere uno che emerge dalla composizione dei molti”. Descartes interpreta l’esperienza come l’“auto-godimento, da parte di una sostanza individuale, della sua qualificazione mediante idee”» (A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., p. 625). 25.  Il platonismo di Whitehead è uno degli aspetti più dibattuti e delicati dell’intero suo ultimo periodo, non si può che darne un accenno. Se l’universo è costituito dal processo temporale delle entità attuali, esistono nondimeno degli elementi non-attuali e non-temporali che intervengono a determinare il processo stesso. Due di questi elementi sono la “creatività” e gli “oggetti eterni”. Con il primo termine, si allude al fondamentale carattere processuale e autocreativo della realtà; si tratta dell’esigenza spontanea – in sé sufficiente e non bisognosa di cause esterne – di sviluppare determinazioni. Essa è pura attività, in quanto tale priva di forme definite; è la pura esigenza creatrice che spiega il divenire della realtà, senza però spiegarne le forme di definitezza. È

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Nella sua essenza, per mentalità è da intendersi l’esigenza verso una qualche vuota definitezza con l’obiettivo però di includerla in un dato di fatto, cioè in un godimento concreto (non-vacuous enjoyment, 32). Quest’esigenza è un’appetizione, uno scopo sentito (emotional purpose, 32), un atto pratico (agency, 32). La mentalità non è più vuota del godimento fisico, anzi, il suo scopo è di trascinare la pura vacuità della forma a realizzarsi nell’esperienza26. Nell’esperienza fisica, le forme sono fattori determinanti; nell’esperienza mentale, le

a questo punto che intervengono gli “oggetti eterni” a definire, determinare il carattere proteiforme della creatività. Whitehead medesimo ammette la filiazione diretta della filosofia dell’organismo dallo spirito più genuino del platonismo: «Così, in un certo senso, affermando la mia convinzione per cui la linea di pensiero in queste lezioni è platonica, non faccio altro che esprimere la speranza che essa rientri nella tradizione europea […]. In una tale filosofia le attualità che costituiscono il processo del mondo sono concepite come un’esemplificazione dell’ingressione (o “partecipazione”) di altre cose che costituiscono le potenzialità di definitezza per qualsiasi esistenza attuale. Le cose che sono temporali sorgono dalla loro partecipazione alle cose che sono eterne» (A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., p. 257). 26.  Whitehead qui non cita la teoria delle prensioni esposta in PR, a cui però evidentemente le sue parole alludono. Si tratta in particolare di accostare ciò che qui chiama “mentalità” alla nozione di “sentimento concettuale” espressa in PR. Questa la breve ma efficace sintesi di Crespi: «In realtà con questo termine [entità attuale] Whitehead intende qualche cosa di più: anzitutto non la semplice unità di un molteplice, ma l’unificazione attiva di un molteplice; più esattamente un “processo di unificazione” […]. Così in ogni entità attuale vi è, almeno in forma embrionale, l’opposizione oggetto-soggetto: un “polo fisico” che è il dato, costituito dall’intero universo e un “polo mentale” che è l’unificazione del dato sotto una certa prospettiva. L’attività descritta è la prensione […]. Le prensioni positive vengono anche chiamate “sentimenti”, e vengono distinte in “sentimenti fisici” e “sentimenti concettuali”. Nei primi il dato è un’entità attuale. I secondi hanno invece per dato un oggetto: essi sono forme di appetizione, cioè tendenza finalistica verso possibilità non ancora attuate. Né gli uni né gli altri implicano necessariamente la coscienza: questa non è che la particolare forma soggettiva di alcune prensioni» (G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, cit., pp. 315-316; corsivo mio).

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forme connettono le occasioni immediate con ciò che viene dopo di loro. La connessione del fatto immediato con il futuro rimanda alle sue appetizioni27. Le forme più avanzate di esperienza intellettuale sorgono soltanto nel caso eccezionale di complesse integrazioni e reintegrazioni tra esperienza mentale e fisica; sono i casi in cui la Ragione figura in quanto disamina critica delle appetizioni (criticism of appetitions, 33), una sorta di mentalità di secondo grado, un’appetizione delle appetizioni. L’esperienza mentale è l’organo della novità, l’esigenza di spingersi oltre; con la forza trainante delle novità essa tenta di vivificare la sostanzialità e la ripetitività del fatto fisico. L’esperienza mentale, dunque, contiene in sé un fattore anarchico; ciascuno di noi è in grado di comprendere l’ordine perché nei 27.  Crespi a proposito della teoria whiteheadiana degli “universali” o “oggetti eterni”, prima menzionata: «Circa il significato di questa eternità e trascendenza bisogna notare che Whitehead non intende attribuire agli oggetti la sussistenza delle idee platoniche: assegnare loro una “realtà assoluta” sarebbe “mera fantasia” […]. L’eternità degli oggetti sembra doversi intendere in un senso puramente negativo: essa significa indifferenza al tempo. E la trascendenza dell’oggetto rispetto al “caso particolare” va intesa anzitutto nel senso che le forme di definitezza che sperimentiamo congiunte in certi fatti, possono essere pensate in innumerevoli altri rapporti, o come realizzabili in innumerevoli altri fatti» (ivi, p. 320). Crespi nota poco oltre, molto acutamente, come Whitehead chiami in causa Platone per dar conto di motivi classicamente aristotelici, legati alla spiegazione del divenire dell’ente: «ché il procedimento whiteheadiano può essere così enunciato schematicamente: se le forme ancora inattuate non fossero in qualche rapporto con il mondo attuale, allora la «novità» sarebbe impossibile. È per spiegare la «novità» dunque, cioè il divenire, che vengono introdotti gli oggetti eterni. Del resto l’affermazione di platonismo, a detta di Whitehead stesso, non va intesa in senso troppo rigido. Benché sembri in qualche modo affermata la trascendenza delle forme, non è affermata però la loro sussistenza» (ibidem). Una riproposizione “contemporanea” di alcune parti della teoria whiteheadiana degli oggetti eterni la si trova in P. Godani, Tratti. Perché gli individui non esistono, Ponte alle Grazie, Milano 2020.

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recessi della nostra esperienza dimora un elemento contrastante di natura anarchica. La pura e semplice anarchia, tuttavia, porterebbe alla nullificazione dell’esperienza tout court; noi godiamo dei contrasti derivanti dalla nostra stessa molteplicità grazie a un principio d’ordine che annulla l’incompatibilità delle mere differenze. Ragion per cui è necessario che l’esperienza mentale venga incanalata verso l’ordine. Nella sua forma più basilare, l’esperienza mentale viene canalizzata in una pedissequa conformità (slavish conformity, 34); essa altro non è che un’appetizione verso, o da, qualcosa di già esistente. La sete inevitabile in un deserto è una mera esigenza dettata da una intollerabile aridità; questa forma molto basica di pedissequa conformità pervade l’intera natura. Si tratta di un aspetto della mentalità, non della mentalità globalmente presa; eppure resta nondimeno tale. Sotto queste sembianze elementari essa non supera alcun ostacolo, non persegue nuove traiettorie, non concorre in alcun modo a perturbare il carattere ripetitivo del fatto fisico. Nessun contributo viene fornito alla salvezza della natura dalla sua decadenza finale; resta declassata al rango di uno degli attori della causalità efficiente. Quando invece la mentalità opera a livelli complessi, è affatto in grado di apportare novità nelle appetizioni dell’esperienza mentale. Un puro elemento anarchico certamente resiste, ma la mentalità è ora divenuta capace di autoregolarsi. Essa instrada le proprie stesse operazioni passando dai propri stessi giudizi; introduce così un’appetizione d’ordine più alto con la quale discrimina tra le sue stesse produzioni anarchiche. È qui che la Ragione fa la sua comparsa, la medesima Ragione che è al centro della corrente discussione. Occorre considerare l’introdursi dell’anarchia, la rivolta nei suoi confronti, il suo utilizzo, la sua regolazione; la Ragione riconduce nei meandri della civiltà l’istinto brutale dell’appetizione anarchica.

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Prescindendo da quest’ultima la natura sarebbe condannata a una lenta discesa verso il nulla; la mera ripetitività dell’esperienza eliminerebbe un elemento dopo l’altro, così scivolando verso la vacuità. D’altronde, l’appetizione anarchica lasciata a sé stessa condurrebbe al medesimo obiettivo finale, anche più velocemente di quanto farebbe la mera ripetitività. Pertanto, la Ragione rappresenta in noi lo speciale incorporarsi di quella contro-azione disciplinante che conserva il mondo.

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Capitolo II

Ragione, storia e progresso: l’antagonismo tra filosofia e scienza

Nel capitolo precedente sono stati descritti due aspetti della funzione della Ragione. Nel primo di questi, è stata descritta nella sua dimensione pratica. Al suo esercizio è legata la scoperta parziale e la chiarificazione su cosa debba intendersi per metodologia. La Ragione, nelle sue vesti pratiche, non solo lavora all’elaborazione di una metodologia, ma innalza a livello di esperienza cosciente tutte le specifiche operazioni possibili entro i limiti del metodo stesso. A questo riguardo, si può dire che la Ragione è il rischiaramento (enlightenment, 37) dello scopo; entro determinati limiti, essa rende efficace uno scopo. Una volta reso efficace un certo scopo, tuttavia, essa ha assolto alla sua funzione e si crogiola nell’autocompiacimento; ha portato a termine il suo obiettivo. Quest’aspetto delle operazioni della Ragione è stato collegato alla vicenda leggendaria di Ulisse. Il secondo aspetto della funzione della Ragione è stato collegato alla vita e all’opera di Platone. In questa funzione, la Ragione è stata innalzata al di sopra dei bisogni pratici del mondo; essa mira, con curiosità disinteressata, a una comprensione generale del mondo medesimo. Niente di ciò che accade le è estraneo (Naught that happens is alien to it, 38). È guidata dalla convinzione fondamentale (ultimate faith, 38) per cui ogni

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fatto particolare è comprensibile in quanto esemplifica i principi generali della sua stessa natura, e del suo stesso status tra altri fatti particolari. La sua funzione è assolta quando ha raggiunto la comprensione; la sua soddisfazione è davvero tale solo quando l’esperienza è stata compresa. Essa presuppone la vita e cerca di renderla buona per via della bontà della comprensione; finché quest’ultima resta incompleta, essa sarà insoddisfatta. È siffatta Ragione, dunque, a costituirsi come esigenza di trascorrere da una buona vita a una vita migliore; nonostante il progresso ricercato riguardi sempre e comunque una migliore conoscenza. Si intende questo per esigenza di una curiosità disinteressata: la Ragione riverisce unicamente sé stessa. In questa funzione, non ha alcun interesse dominante all’infuori di sé e non viene distratta da nient’altro di potenzialmente promuovibile. Questa e non altra è la Ragione speculativa. È per via di una profonda intuizione morale, che riconosciamo nella comprensione speculativa (speculative understanding, 38) – presa di per sé stessa – uno degli elementi fondamentali per una vita buona. La rivendicazione appassionata della libertà di pensiero si basa esattamente su di essa. A differenza, però, di altri sentimenti morali, tale intuizione non è così diffusa: sondando la gran parte del genere umano, essa balugina molto debolmente. Di generazione in generazione, è stata trasmessa grazie all’opera meritoria di alcune personalità eccezionali, a cui si deve una indiscutibile reverenza. L’intrusione di questo sentimento di una pretesa morale fondativa tinge di ulteriore asprezza l’eterna lotta tra Ragione e Autorità. L’intera storia del sogno di Salomone suggerisce che l’antitesi tra le due funzioni della Ragione non è poi così netta come sembra a un primo sguardo1. La Ragione speculativa produce

1.  Il riferimento è al sogno del giovane Salomone (1Re 3,1-15), in cui egli pregava Dio di ricevere in dono saggezza speculativa e intelligenza pratica

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quell’accumulo di comprensione teoretica che, in momenti di particolare crisi, consente una transizione verso metodologie nuove; viceversa, le scoperte dovute alla comprensione prati­ ca forniscono la materia prima necessaria per il successo della ragione speculativa. Pur tenendo in debito conto l’interscambio tra le due funzioni, non si può negare che una certa distinzione fondamentale resti tra le operazioni di una Ragione governata dai fini di qualche predominante interesse esterno, e le operazioni di una Ragione governata dalla soddisfazione immediata che riceve unicamente da sé stessa. Per esempio, la veridicità vissuta come elemento del rispetto che ciascuno porta verso sé stesso, deriva da una reverenza per la Ragione in quanto tale; mentre, la veridicità vissuta come espediente necessario per una vita felice deriva dalla vocazione pratica della Ragione, cioè dall’inseguire scopi a essa estrinseci. A volte questi due criteri di veridicità sono in conflitto tra loro. Può succedere che le questioni morali dipendenti dal secondo criterio per un’immediata veridicità, o per il suo abbandono, possano essere superiori a quelle che dipendono dal primo criterio. Ma l’immediato punto di interesse è che questi due criteri di veridicità testimoniano le due funzioni della Ragione. La storia della Ragion pratica deve essere fatta risalire alla vita animale da cui l’essere umano è emerso. È una durata che va misurata in milioni di anni, se si considera quanto rari e flebili siano stati i lampi di intelligenza (flashes of intelligence, 40) che hanno portato alla lenta elaborazione di metodi. Un’indagine sulle specie sembra dimostrare come l’assunzione abitudinaria di un certo metodo si sia ben presto sostituita alla necessità di assecondare suddetti lampi di progresso. In tal modo l’abitudine (custom, 40) sovrasta ogni traccia di pensiero insieme. Date le diverse citazioni di Francesco Bacone, è più che verosimile che si tratti di un riferimento anche alla Casa di Salomone descritta dallo stesso Bacone ne La Nuova Atlantide (1624).

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potenzialmente in grado di trascenderla; è così che le specie sprofondano in uno stadio stazionario in cui il pensiero resta imbrigliato tra le mura dell’abitudine. La storia della Ragione speculativa è, dal canto suo, molto più breve; coincide con la storia della civiltà umana, cioè all’incirca con gli ultimi seimila anni. Tuttavia, la scoperta decisiva che ha dato alla Ragione speculativa la massima importanza si deve ai Greci: la loro scoperta della matematica e della logica ha introdotto il metodo nella speculazione. La Ragione si ritrovava per la prima volta armata di oggettività e tensione al progresso, pertanto in grado di liberarsi dalla sua singolare dipendenza da visioni mistiche e suggestioni di fantasia. Il suo metodo evolutivo era tratto esclusivamente da sé stessa; cessava così di prodursi in una mera serie di giudizi tra loro scollegati, dando vita invece a sistemi. La Ragione speculativa, ben equipaggiata dai metodi greci, risale a pochi secoli prima degli ultimi due millenni. È un’esagerazione attribuire la moderna fase dalla Ragione speculativa unicamente ai Greci; le grandi civiltà asiatiche, quella Indiana e quella Cinese, hanno dato vita a delle versioni simili dello stesso metodo. Eppure, nessuna di esse è riuscita a ottenere la tecnica perfetta del metodo greco; il modo asiatico di trattare la Ragione speculativa si dimostrava efficace per la speculazione astratta di matrice religiosa e filosofica, ma difettava dinanzi alle scienze naturali e alla matematica. Sono stati dunque i Greci a produrre lo strumento definitivo per disciplinare la speculazione. Se allora si includono le anticipazioni asiatiche, diviene possibile tributare all’utilizzo effettivo della Ragione speculativa circa tremila anni: si tratta del breve periodo della storia moderna del genere umano. Al suo interno sono sorte tutte le grandi religioni, le grandi filosofie razionali, le grandi scienze; è la vita interiore dell’essere umano a essersi radicalmente trasformata.

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Tuttavia, fino a un secolo e mezzo fa, la Ragione speculativa ha stranamente inciso poco su tecnologia e arte. Si può arrivare a sostenere che, in termini generali, per tutta l’età moderna l’arte non sia progredita affatto; e che, anzi, sotto certi aspetti sia anche regredita. La teoria di un generale declino dell’arte può essere smentita se si prende in considerazione lo sviluppo della musica moderna. Ma, nel complesso, in qualità di artisti non siamo in grado di superare gli esseri umani vissuti mille anni prima di Cristo, e non è per niente sicuro che riusciremo mai a farlo. Si ha come l’impressione che l’arte ci riguardi meno; forse abbiamo più a cose a cui pensare, così da tralasciare la cura dei nostri impulsi estetici. La tecnologia è indubbiamente migliorata negli ultimi tremila anni; resta però complicato discernere l’effettiva influenza della Ragione speculativa su questo tipo di progresso, almeno fino al periodo più recente. Non sembra esserci stata alcuna grande accelerazione del processo. Esempio: la tecnologia europea nel XVIII secolo aveva compiuto dei progressi molto moderati rispetto alla tecnologia dell’Impero Romano al suo apice. Il progresso non sembra essere molto più significativo di quello compiuto nei duemila anni precedenti questo culmine della civiltà classica. Il vero ed enorme avanzo tecnologico degli ultimi centocinquant’anni deriva, invece, dalla presa di contatto tra Ragione speculativa e Ragione pratica. La prima ha messo a disposizione la sua attività teoretica, e la seconda i suoi metodi per affrontare varie tipologie di questioni fattuali: entrambe le funzioni ne hanno guadagnato in potenza. La Ragione speculativa ha acquisito dei contenuti concreti sui quali esercitare la sua attività teoretica, mentre la Ragione metodica ha ottenuto la visione teoretica (theoretic insight, 43) utile a trascendere i suoi sessi limiti. Potremmo essere sulla soglia di un avanzamento significativo in tutti i valori della vita umana.

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Un tale ottimismo, d’altronde, merita delle chiarificazioni. L’alba di epoche illuminate è oscurata dall’ingombrante oscu­ rantismo della natura umana. Oscurantismo sta per resistenza inerziale della Ragion pratica (irrobustitasi in una storia lunga milioni di anni), e delle sue metodologie fissate, alle ingerenze di nuove attitudini speculative. Un tale oscurantismo è radicato nella natura umana più intensamente di qualsiasi altra caratteristica; lo è tra gli scienziati e tra il clero, tra i professionisti e gli uomini d’affari, tra tutte le restanti classi sociali. Esso non è solo rifiuto di speculare liberamente attorno ai limiti dei metodi tradizionali, ma anche negazione del valore stesso di tale speculazione e sottolineatura dei suoi pericoli accidentali. Fino a poche generazioni fa era il clero (o meglio una sua larga parte) a rappresentare un esempio perfetto di oscurantismo; oggigiorno il loro posto è stato preso dagli scienziati: By merit raised to that bad eminence.2

Gli oscurantisti di ogni generazione, nella maggior parte dei casi, sono rappresentati principalmente dai seguaci (practi­

2.  Si è scelto di conservare il verso di Milton nell’originale inglese in cui, come ovvio, viene citato da Whitehead. Né l’autore, tuttavia, né la traduzione italiana di Cafaro specificano la provenienza del verso miltoniano; si tratta dei versi iniziali del secondo libro di Paradise Lost: «High on a throne of royal state, which far / Outshone the wealth of / Ormus and of Ind, / Or where the gorgeous East with richest hand / Showers on her kings barbaric pearl and gold, / Satan exalted sat, by merit raised / To that bad eminence». Nella traduzione italiana di Andrea Maffei (Unione Tipografico Editrice, Torino 1857): «Alto in soglio regale, il cui splendore / Supera dell’Ormusse e della ricca / India i tesori, o di qual altra terra, / Là sotto il cielo orïental, profonde / Sui barbarici re le perle e l’oro, / Siede Satano, all’infelice altezza / Da’ suoi merti levato». Milton sta descrivendo Satana assiso sul trono, in consiglio con i suoi demoni, mentre sceglie se levare nuovamente guerra per riconquistare il proprio posto in cielo, o indagare la natura della nuova creatura e del nuovo mondo che prende inizio.

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tioners, 44) della metodologia predominante; oggigiorno il metodo predominante è quello scientifico, circostanza che fa degli scienziati i nuovi oscurantisti. Per comprendere adeguatamente la nostra epoca, si deve cominciare notando che la parte colta dell’Europa occidentale, tra i secoli XVI e XVII, aveva ereditato i frutti di circa cinque secoli di intensa attività speculativa. L’attesa fuorviante di raggiungere una definitività dogmatica (dogmatic finality, 44) attorno ai principi primi della speculazione, aveva oscurato i pur considerevoli successi conquistati da quest’epoca speculativa. Grazie alla conservazione dei manoscritti – in una misura tale da non avere precedenti in nessun’altra civiltà allo stato nascente –, questo fermento speculativo poteva attingere ai pensieri della precedente speculazione classica, pagana e cristiana, terminata con la caduta di Roma. Questo indubbio vantaggio ebbe però anche i suoi punti deboli: il pensiero medievale fu sin troppo erudito nel suo mettere a punto sistemi speculativi chiusi e fondati sulle riflessioni altrui. In questo modo, la filosofia medievale (e sulla medesima scia, in seguito, quella moderna) ha compromesso la sua funzione di disciplina della Ragione speculativa, mal afferrando la fecondità della natura e la corrispondente fecondità del pensiero. Gli scolastici si limitarono nell’impostare sistemi ricorrendo a un numero ristretto di idee; e per quanto tali sistemi fossero mirabili per erudizione e genio architettonico, “v’erano molte più idee in cielo e in terra di quante ne fossero sognate dalla loro filosofia”3. Pur avendone evidenziato alcuni limiti, i successi della scolastica sono stati nondimeno straordinari; sulle loro basi intellettuali si è fondato uno dei periodi di più rapido progresso che 3.  È palese il riferimento ai due celebri versi shakespeariani dell’Amleto: «There are more things in heaven and earth, Horatio, / Than are dreamt of in your philosophy».

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la storia abbia conosciuto. A rivelare la portata di questo progresso, basta un confronto tra la mediocrità degli intellettuali del IX e X secolo (anche di quelli più dotati) e l’alto profilo degli intellettuali del XIII secolo. Il punto non era solo che gli esseri umani dei secoli precedenti sapessero meno. Essi erano intrinsecamente meno abili nel districarsi tra idee generali, non erano in grado di discriminare fra le minori particolarità di un dettaglio e le nozioni maggiori. È la forza di inseguire la profondità di un’idea, anche al di fuori di una metodolo­ gia prefissata, a fungere da spinta propulsiva per la Ragione. I grandi Greci erano dotati di questo talento in misura straordinaria, così come i dotti del XIII secolo; ne erano invece sprovvisti gli esseri umani del X secolo. Nel mezzo, trascorsero ben tre secoli di filosofia speculativa, come riportato alla perfezione dall’opera di Henry Osborn Taylor: The Mediaeval Mind4. Il dono maggiore della scolastica al mondo europeo è stata la profondità (penetration, 46) nel trattamento delle idee. Ogni cosa funziona entro certi limiti; è una legge che si applica anche alla Ragione speculativa. Comprendere una civiltà vuol dire comprenderne i limiti: la profondità speculativa delle generazioni susseguitesi dal XIII al XVII secolo ha funzionato all’interno dei limiti ideali forniti dalla scolastica. Questi

4.  Proprio a partire dal riferimento a Osborn Taylor, sarebbe possibile aprire un campo di studi relativo alla conoscenza whiteheadiana della filosofia medievale, solitamente trascurato. Lo storico fu direttamente coinvolto nella chiamata di Whitehead ad Harvard, in seguito alla quale nacque tra i due un profondo legame non solo professionale. Si veda la dedica allo storico e alla moglie all’inizio di Adventures of Ideas. Sarebbe interessante comprendere, al di là dei noti riferimenti moderni (Descartes, Locke, Hume, Spinoza, Leibniz), quali influenze “medievali” abbiano attivamente inciso nella process philosophy. Il riferimento, poco oltre nel testo di FR, a Cusano potrebbe essere una pista da cui partire. I riferimenti dell’opera citata da Whitehead: H.O. Taylor, The Mediaeval Mind. A History of the Development of Thought and Emotion in the Middle Ages, Macmillan, London 1911, 2 voll.

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cinque secoli rappresentano un periodo di ampliamento degli interessi di ricerca, piuttosto che un periodo di crescita intellettuale. La Scolastica aveva dato fondo alle sue potenzialità: aveva predisposto un capitale di idee fondamentali, logorando però l’umanità con i suoi tentativi di giungere a un sistema definitivo e dogmatico, e meditando sempre sulle stesse idee. Emersero allora nuovi interessi, dapprima lentamente, via via invece in maniera sempre più spedita: letteratura greca, arte greca, matematica greca, scienza greca. Gli esseri umani del Rinascimento esibivano il proprio sapere con molta più delicatezza di quanto facessero gli scolastici, temperandolo con la gioia dell’esperienza diretta. Tornò così alla luce un ulteriore antico segreto mai del tutto smarritosi, benché tristemente in secondo piano nella riflessione colta medievale: l’abitudine all’introspezione e l’abitudine all’osservazione. Il primo effetto fu di confusione. XIV e XV secolo danno l’impressione di una maggiore apertura mentale (enlightenment, 47), ma al contempo di minore potenza intellettuale rispetto al XIII secolo. Sotto certi versi sembrava profilarsi un regresso intellettuale al X secolo; c’era come un’atmosfera di stordimento, esseri umani brancolanti nel buio per ciò che riguardava i loro interessi intellettuali. Sacrificare un gallo o celebrare messa? Gli uomini del primo Rinascimento non furono mai chiari nella scelta da prendere in merito; nel dubbio, scesero a compromessi tenendo insieme entrambe le istanze. Questa analogia rimane però assai superficiale; l’eredità medievale non è mai andata del tutto perduta. Dopo un primo momento di smarrimento, l’appropriazione del circuito di idee della scolastica si è palesato nitidamente. Gli intellettuali del XVI e del XVII secolo fondarono le varie scienze moderne, quelle naturali e quelle morali, formalizzandone i principi pri­ mi in un linguaggio che i grandi scolastici non avrebbero faticato a riconoscere.

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I padri della scienza moderna furono tanto irriconoscenti verso il debito contratto con i medievali, perché non ebbero idea che gli esseri umani potessero pensare in altri termini o, addirittura, non pensare affatto per mancanza di profondità. Galileo e gli “aristotelici” furono senza dubbio rivali, ma ricorrevano al medesimo repertorio di idee generali, con la medesima capacità di approfondimento. Il riconfigurarsi delle idee medievali, e il loro trasformarsi nelle basi concettuali delle scienze moder­ ne, è stato uno dei trionfi intellettuali della civiltà umana; ha avuto luogo principalmente nel XVII secolo, benché l’intero processo abbia occupato almeno due o tre secoli (prendendo in considerazione tutte le scienze venutesi a formare). Nel celebrare questo trionfo, pertanto, sarebbe ingeneroso misconoscere il ruolo avuto dai secoli precedenti di marca scolastica. La scienza moderna ha avuto corso sotto l’impulso decisivo della Ragione speculativa, ossia del puro desiderio di una conoscenza esaustiva. Le prime vere conseguenze di natura tecnologica non si ebbero che dopo il 1769, in seguito all’invenzione e al perfezionamento della macchina a vapore. Il XIX secolo era alquanto sviluppato anche prima che queste conseguenze assumessero un rilievo centrale; come è noto, diversi erano stati gli strumenti scientifici inventati: telescopio, microscopio, termometro, solo per dirne alcuni. Talune iniziali conseguenze di natura tecnica erano già rilevabili, benché la destinazione principale di tali strumenti restasse scientifica; gli avanzamenti tecnici erano dovuti a spunti raccolti da occasioni di ogni genere, anche – ma nient’affatto soltanto – di genere scientifico. Nessun vincolo e nessuna sistematicità vigevano ancora nella mutua relazione tra scienza e procedura tecnica. L’unica importante eccezione fu la fondazione dell’Osservatorio di Greenwich per il miglioramento della navigazione. Come tutte le liti familiari, l’antagonismo tra scienza e metafisica è stato disastroso; ne si deve l’origine all’oscurantismo dei metafisici tardomedievali. Vi furono naturalmente diverse ec-

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cezioni, valga per tutte quella del celebre cardinale Nicola da Cusa, seguendo il quale l’intero corso della storia del pensiero europeo avrebbe preso un’altra piega. La fallacia del dogma­ tismo ebbe però la meglio sui tentativi di cogliere le funzioni proprie del pensiero speculativo, lasciando così che si diffondesse la convinzione di poter fondare la riflessione metafisica su principi chiari, distinti e incontrovertibili. Il risultato fu che il metodo sperimentale della scienza veniva configurandosi alquanto in contrasto con le abitudini dogmatiche dei metafisici, almeno in una fase iniziale. La scienza stessa, infatti, si dimostrò tutt’altro che salda nella sua procedura sperimentale. L’exploit della fisica newtoniana assesterà la scienza su fondamenta dogmatiche di natura materialista, le quali reggeranno per due secoli. Sfortunatamente, da questo avvicinamento al dogmatismo metafisico non scaturì alcun sodalizio neanche nelle cattive abitudini: se il materialismo scientifico deve avere l’ultima parola, la metafisica cessa di avere rilevanza per la fisica. Nessuna interpretazione chiarificatrice è tollerabile circa le verità ultime della natura. La parte più significativa di questa teoria [materialismo scientifico; N.d.C.] coincide con quanto segue: pezzi indeducibili di materia (inexplicable bits of matter, 40) si agitano nello spazio correlati da leggi altrettanto indeducibili5. Se ciò deve essere dogmaticamente preso 5.  Si è scelto per questo passo di FR di prelevare la traduzione offertane da G.M. Crespi nel ’48: G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, cit., p. 299. La prima comparsa dell’espressione “materialismo scientifico” si trova nel cap. I di SMW, a cui queste pagine inevitabilmente rimandano: «Nell’intero periodo [dal XVII al XX secolo], però, perdura la cosmologia scientifica prestabilita, che presuppone come fatto fondamentale della realtà una materia bruta irriducibile, sparsa per tutto lo spazio in un cambiamento costante di configurazioni. In sé stessa una tale materia è priva di significato, scopo e valore. Essa non fa altro che seguire una routine imposta da relazioni esterne che non scaturiscono dalla natura del suo essere. Questa concezione la chiamo “materialismo scientifico”. E intendo porla in discussione in quanto totalmente incongrua alla situazione scientifica alla quale siamo ormai per-

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per verità definitiva, ne segue che la filosofia più nulla avrà da spartire con la scienza naturale6. In aggiunta all’istintiva tendenza umana a trasformare una metodologia di successo in un credo dogmatico, sono matematica e teologia a portare la colpa di aver alimentato il costume dogmatico del pensiero europeo. Le premesse della matematica danno l’idea di essere chiare, distinte, salde; per tanto tempo è sembrato che aritmetica e geometria non potessero essere altrimenti, e come tali venivano applicate al dominio della natura. Parimenti la teologia, per via del suo trattare di questioni inerenti ai nostri interessi più intimi e delicati, ha sempre evitato di affrontare i momenti di confusione dovuti ad approcci speculativi di natura sperimentale. La separazione tra filosofia e scienza naturale, dovuta al predominio del materialismo newtoniano, è ben esemplificata dalla divisione della Scienza in “scienza morale” e “scienza naturale”; la stessa Università di Cambridge ha ereditato la definizione di “scienza morale” per designare il proprio dipartimento di studi filosofici. Il punto sotteso è che la filosofia dovrebbe occuparsi di tematiche inerenti allo spirito, e la scienza naturale di tematiche inerenti alla materia; viene così meno l’intera venuti». La traduzione, solo parzialmente rivista, è quella di Banfi del ’45, in A.N. Whitehead, Scienza e mondo moderno, cit., p. 35. 6.  Così Crespi: «In sé stessa la materia è concepita come ciò che possiede la proprietà della “localizzazione semplice”. Riferita genericamente allo spazio e al tempo questa implica che un corpo si trova in un luogo determinato in un istante determinato, e che può essere descritto senza riferimento ad altri tempi e ad altri luoghi. Riferita in particolare al tempo, la localizzazione semplice implica che una particella materiale in un istante della sua esistenza è qualche cosa di definito senza riferimento agli altri istanti […]. La concezione delineata dà luogo a gravi difficoltà. Anzitutto rende difficile inserire il concetto della vita nella concezione generale della natura; ché la dottrina esaminata è la negazione dei caratteri di organicità e finalismo che costituiscono l’essenza della vita» (G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, cit., p. 297).

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concezione della filosofia come disciplina della Ragione speculativa a cui nulla dovrebbe risultare estraneo. Proprio Newton fu tra i primi scienziati a opporsi risolutamente a un’ingerenza della metafisica nella scienza. Esistono numerose prove che dimostrano come la salute nervosa di Newton, al pari di quella di altre menti brillanti, versasse in un equilibrio precario. Per codeste personalità, l’intrusione di considerazioni estranee alla rotta circoscritta di una sicura tecnologia, o alla suprema padronanza acquisita all’interno di un certo metodo, è fonte soltanto di malumore e turbamento. Naturalmente, sarebbe sciocco credere che ogni essere umano debba a tutti i costi spendere le proprie energie per spingersi oltre le sue linee di ricerca più fruttuose; nondimeno la ricerca della conoscenza resta un’impresa collettiva, e il rifiuto della presa in carico di diverse modalità di approccio a un medesimo argomento invoca maggiori giustificazioni che il solo appello ai limiti delle attività individuali. Il desiderio disperato dell’umanità di dotarsi di fondamenta intellettuali chiare, distinte e incontrovertibili, si ritrova esemplificato nell’affermazione tronfia di Newton hypotheses non fingo, rilasciata contestualmente alla formulazione della sua legge di gravitazione universale. La legge sostiene che ogni particella di materia attrae ogni altra particella di materia; benché, al momento della formulazione, la capacità di attrarre “particelle di materia” fosse stata constatata solo per pianeti e corpi celesti. Ha dovuto attendere quasi cent’anni la conferma che due particelle di materia, nessuna delle due appartenenti a un corpo celeste, si attraggono l’un l’altra. C’era però un secondo significato nel motto di Newton; esso rappresentava una protesta anti-cartesiana, rivolta in particolare contro la teoria dei vortici del filosofo francese7. Newton intendeva

7.  La teoria era esposta nei Principia Philosophiae (parte III) di Descartes.

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sottolineare, molto correttamente, che la sua legge denotava un semplice fatto, e che non si avventurava in nessuna considerazione chiarificatrice circa il carattere o la distribuzione della materia. La nemesi della fisica newtoniana era questa barriera “materialista” che fungeva da impedimento a qualsiasi ulteriore avanzamento verso il razionalismo8. Il valore pragmatico della metodologia di Newton, in questa fase della storia scientifica, è fuori discussione9. Il fatto degno di nota è la sua ostinata ricerca (clutch, 52) di una definitività dogmatica. 8.  Sempre Crespi: «Empirismo dunque; ma empirismo di una natura particolare: la dottrina di Whitehead è molto lontana dall’empirismo classico; anzi è elaborata in netto contrasto con la filosofia di Hume: la realtà è ridotta all’esperienza, ma da questa nulla si vuole lasciar fuori. Essa viene ad includere non soltanto quegli elementi che l’empirismo tradizionale a torto escludeva come le relazioni e la processualità, ma addirittura fattori come la causalità, l’ordine della natura, appunto, e l’organicità universale, che l’empirismo classico escludeva probabilmente a ragione. Non solo, ma si tratta di un empirismo che vuole soddisfare l’esigenza fondamentale del suo antagonista, cioè l’esigenza esplicativa così come essa è intesa dal razionalismo […]. Come si vede l’esigenza sottostante a questa critica è l’esigenza esplicativa: il vizio della concezione newtoniana della natura è che essa presenta dei “fatti privi di ragioni”. E risulta del pari evidente come per Whitehead spiegare significa ridurre le leggi naturali alla natura delle entità implicate. Compito, questo, che Newton avrebbe senza dubbio declinato; ché la sua fisica non pretende affatto di dare delle ragioni delle leggi naturali. E qualcuno potrebbe osservare che, in generale, il compito della fisica non è di spiegare i fenomeni, ma di trovare formule che esprimano le leggi della loro correlazione» (G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, cit., pp. 297 e 299). 9.  Sulla medesima questione, Whitehead in PR: «Così si sono concepiti i frammenti di spazio e tempo come attuali al pari di ogni altra cosa, e come “occupati” da altre attualità che sarebbero i frammenti di materia. Questa è la teoria “assoluta” dello spazio-tempo di Newton, che i filosofi non hanno mai accettato, sebbene a volte alcuni abbiano tacitamente acconsentito […]. Newton presuppone quattro tipi di entità che non distingue rispetto alla loro attualità: per lui le menti sono cose attuali, i corpi sono cose attuali, le durate assolute del tempo sono cose attuali, e gli spazi assoluti sono cose attuali. Egli non usa la parola “attuale”, ma parla di dato di fatto, e a questo riguardo li pone tutti sullo stesso livello. Il risultato è che egli approda ad

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Non mi occorre troppo tempo per puntualizzare come tale de­ finitività, rispetto sia allo schema cosmologico generale sia alla particolare legge di gravitazione, abbia oggi iniziato a vacillare (has now passed into Limbo, 52). Newton stava formulando delle ipotesi. Le sue ipotesi includevano speculativamente una verità concepita in termini ancora vaghi; la includevano secondo una formulazione precisa, che oltrepassava di gran lunga le capacità di intuizione analitica dell’epoca. Le formule richiedono una limitazione per ciò che attiene al rispettivo ambito d’applicazione; quest’idea di limitazione dell’ambito applicativo rimanda a delle recenti formule, le quali a loro volta – nel progredire della scienza – riceveranno altrettante limitazioni d’ambito. Le formule di Newton non erano false: erano enun­ ciate in modo incauto. Le formule di Einstein non sono false: vengono anch’esse incautamente enunciate. Oggigiorno siamo in grado di preservare l’ambito applicativo delle formule newtoniane, mentre ignoriamo ancora i limiti delle formule di Einstein. In un’indagine scientifica la domanda Vero o Falso? è di solito irrilevante; la vera questione è: in quali circostanze una data formula è vera e in quali è falsa?. Se simili circostanze risultano occasionali, insignificanti o poco note, si può concludere – con sufficiente precisione per l’uso quotidiano – che la formula è falsa. Di certo, i limiti ignoti delle formule einsteiniane rappresentano un limite ancora più sottile per la formula di Newton; in

uno schema, chiaramente espresso ma complesso e arbitrario, di relazioni tra gli spazi inter se; tra le durate inter se; e tra le menti, i corpi, i tempi e i luoghi, per la congiunzione di tutti questi elementi nella solidarietà dell’universo singolo. Per gli scopi della scienza questa è stata una formulazione estremamente chiarificante. O meglio è estremamente chiarificante per tutti gli scopi della scienza entro i prossimi duecento anni, e per la stragrande maggioranza degli scopi della scienza da quel periodo in poi» (A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., pp. 365 e 371).

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questo modo la definitività dogmatica svanisce, per essere sostituita da un approccio asintotico alla verità10. L’ideale per cui la scienza comincerebbe da elementi dell’esperienza chiari e distinti, e per cui si svilupperebbe attraverso processi di elaborazione parimenti chiari e distinti, è duro a morire. C’è uno sforzo costante teso a spiegare la metodologia della scienza secondo termini che, in ragione della loro chiarezza e distinzione, non richiedono alcuna delucidazione metafisica. È senz’altro possibile esprimere il procedimento della scienza con una felice ambiguità, tale da generare l’interpretazione di diverse scuole metafisiche. Se, altresì, si forzasse la questione fino al punto da dirimere senza ambiguità il procedimento scientifico, ci si ritroverebbe coinvolti nelle formulazioni metafisiche della Ragione speculativa. La dottrina moderna, così popolare tra gli scienziati, vuole la scienza come mera descrizione di cose osservate; in quanto tale, essa non presupporrebbe alcunché: né un mondo oggettivo, né la causalità, né l’induzione. Una semplice formula, capace di descrivere l’universo comune a una pluralità di oc-

10.  La filosofia non può essere provata, nel senso tecnico dell’espressione, dirà Whitehead in Modes of Thought. I primi principi metafisici non possono essere affermazioni chiare ed evidenti dal carattere dogmatico, bensì delle formulazioni per tentativi di generalità fondamentali. Nota Crespi, commentando queste pagine di FR: «L’idea della “definitività dogmatica” è un errore poiché il metodo filosofico non consiste nel dedurre un sistema di pensiero da premesse chiare, evidenti e irriformabili […]. Con ciò Whitehead non intende tuttavia assegnare dei limiti determinati alla nostra conoscenza: ciò sarebbe altrettanto dogmatico quanto attribuirle delle conquiste definitive: la filosofia è una “approssimazione asintotica alla verità”, ed anche la fatale deposizione di tutti i sistemi storici significa soltanto che essi sono validi sotto certe condizioni e limitazioni che non formulano esplicitamente. Il compito della critica filosofica è appunto quello di assegnare la sfera di applicazione di ogni verità limitata» (G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, cit., p. 327).

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correnze, è preferibile scientificamente alla complessità di più descrizioni di più occorrenze. La semplicità della descrizione diviene il vero oggetto di ricerca da parte della scienza. Ne segue la conclusione per cui la scienza, così definita, non necessita della metafisica; si può allora fare ritorno alla ingenua dottrina dell’Università di Cambridge, e dividere la conoscenza in scienza naturale e scienza morale, l’una irrilevante per l’altra e viceversa. Questa dottrina è meravigliosamente chiara; e proprio nel senso in cui è chiara, la scienza naturale rischia di vedersi privata di importanza. Recupereremo l’importanza della scienza, al solo prezzo di distruggere la chiarezza stessa della dottrina. Le semplici osservazioni altro non sono che particolari occorrenze. Se la scienza si occupasse unicamente di esse, scadrebbe a un compendio di certune occorrenze sopravvenute a certuni scienziati. Un trattato scientifico sarebbe allora solo una via alternativa all’editing di una biografia sul modello Who’s Who, con l’omissione della gran parte dei nomi propri11; un altro modo per dire che la scienza dovrebbe occuparsi meramente di osservazioni particolari, fatte da esseri umani particolari. Si darebbero così nel mondo quattro tipi di biografie diverse: a) quelle vecchio stile Life and Letters in due volumi; b) quelle nuove, più alla moda, della scuola di Lytton Strachey; c) quelle del tipo Who’s Who; d) la variante di quest’ultime, rappresentate dai trattati ad argomento scientifico. A meno che non si sia interessati a un particolare osservatore, il trattato scientifico non riveste alcun interesse; sfortunatamente, proprio i nomi 11.  Who’s Who è uno dei numerosi dizionari biografici, i quali forniscono brevi e più o meno puntuali informazioni su personalità di spicco, distintesi in un qualche campo particolare. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di informazioni che il singolo personaggio fornisce da sé attraverso i questionari dell’editore; tali informazioni includono spesso i nomi dei parenti più stretti, e informazioni biografiche di vario genere.

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degli osservatori sono spesso omessi in questi trattati, così da smorzare qualsiasi sollecitudine. Tutto ciò per dire che, se l’ideale della scienza come ricerca della descrizione più semplice serve a liberare la scienza medesima dalla metafisica, è la scienza in primis a perdere di rilevanza. Tuttavia, dal momento che la metafisica è dismessa da un’interpretazione adottata da una schiera di seguaci, l’importanza della scienza potrà essere recuperata dall’imporsi di un’altra interpretazione. Dovrebbero allora essere introdotte due nozioni, entrambe bisognose di discussione metafisica per essere delucidate. La prima è quella di gene­ ralizzazione induttiva, tramite cui vengono introdotte in ambito scientifico le osservazioni sul futuro. La seconda nozione è più complessa, e prende le mosse dall’adozione della categoria di osservabile, non di osservato. Procede poi coll’introdurre una descrizione speculativa di eventi spazio-temporali, ossia di ciò che rappresenta la base fattuale in virtù della quale tale osservabilità diviene predicabile. E giunge infine a prevedere, in base a questa descrizione e ai fatti così descritti, l’osservabilità di eventi genericamente diversi da quelli sinora verificatisi. Per esempio, un tipo di osservazione interamente visiva suggerisce una teoria delle equazioni elettromagnetiche. Con il supporto di questa si lavora alla progettazione di apparecchi radio, trasmettitori e riceventi. Alla fine, una band suona nello studio di qualche stazione radio e la sua musica viene ascoltata da una popolazione sparsa nel raggio di centinaia di miglia. È verosimile credere che l’unico principio coinvolto, in un simile processo, sia la mera descrizione di osservazioni particolari e originali? Ci viene risposto che, parlando di “descrizione speculativa di eventi spazio-temporali”, avremmo frainteso lo step intermedio. La maniera corretta di esprimere la procedura scientifica

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sarebbe allora la seguente: lo step intermedio consiste unicamente nella messa a punto di una formula matematica, in virtù della quale prevedere le esperienze di persone dotate di apparecchi riceventi. Ma qual è davvero il ruolo di una formula? Potrebbe avere una certa rilevanza nel sequenziare delle esperienze all’interno della riflessione di qualche scienziato, esprimendo formalmente la transizione dalle sue esperienze visive di partenza al suo godimento finale di una band eccellente. La dottrina sembra improbabile e inverosimile; con uno sforzo mentale, sono anche in grado di immaginarla. Il vero punto però è di render conto delle esperienze di una moltitudine di persone con i rispettivi apparecchi radio. Costoro ignorano gli esperimenti alla base del processo, ignorano il luogo esatto in cui si trovano la band e lo studio radio, ignorano il meccanismo interno sia della stazione radio sia dei loro stessi apparecchi. Che cosa ha a che fare dunque una mera formula matematica con le esperienze di tale moltitudine ignara di ascoltatori, i quali semplicemente cercano riposo dopo una cena gradevole e una dura giornata di lavoro? La formula è, forse, una sorta di incantesimo magico? Richiamando i nostri ricordi di infanzia, possiamo proporre un parallelo tra l’ideale moderno della semplice descrizione osservativa e il ricorso a una semplice formula magica. Un mago sale su un palcoscenico davanti a un pubblico numeroso, predispone davanti a sé un tavolo, si toglie il cappotto, lo capovolge e ce lo mostra; dopodiché si lancia in un discorso fumoso accompagnato da gesti elaborati, ed estrae due conigli dal cilindro. Ci viene richiesto di credere che sia stato il suo chiacchiericcio (patter, 58) a far accadere tutto. La morale della questione è che le formule matematiche sono descrittive di quelle caratteristiche del mondo esterno comune, rilevanti per la trasmissione di stati fisici dalla band in esecuzione ai corpi degli ascoltatori.

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Se ciò è vero, siamo oramai molto distanti dall’ingenuità della dottrina di partenza. Abbiamo introdotto la nozione di mondo esterno, con le sue occorrenze spazio-temporali descritte speculativamente dalla scienza; abbiamo introdotto la nozione di potenzialità, sostituendo il termine “osservabile” al termine “osservato”. Inoltre, centinaia di milioni di dollari sono state investite in base alla fiducia riposta sulla generalizzazione induttiva. Se ci chiediamo, allora, cosa intendere con tutto questo apparato di nozioni vaghe, l’unico appello che ci resta da fare è alla Ragione speculativa12.

12.  A commento di queste pagine, Crespi: «Ma è proprio contro questa concezione della scienza che Whitehead tende a protestare. Egli considera infatti il procedimento esplicativo indispensabile alla scienza, e, poiché concepisce l’esplicazione nel senso sopra rilevato, è giunto a ritenere che in ultima analisi la scienza richieda come fondamento una metafisica organica. La concezione newtoniana della legge fisica è una concezione estrin­ secista: la legge è imposta ai corpi dall’esterno. Tale concezione è fondata su di una metafisica delle relazioni esterne: gli impulsi vengono impressi ai corpi da Dio (poiché in Newton il materialismo si accompagna a una sorta di deismo). La legge non ha pertanto alcun fondamento nella natura stessa dei corpi e, di conseguenza, la filosofia non ha nulla da dire alla scienza […]. Di qui la separazione, divenuta tradizionale, della scienza dalla filosofia; e di qui il passaggio alla concezione positivista della legge come pura descrizione; che è la concezione oggi dominante. La scienza viene ridotta alla descrizione di successioni osservate, o meglio alla ricerca di formule generali che includano tutti i fatti osservati e, così intesa, essa non presuppone nulla: né un mondo oggettivo, né la causalità: è veramente indipendente dalla metafisica. Ma se le cose stessero realmente così, essa non presenterebbe alcun interesse: se le descrizioni scientifiche non riguardano che i fatti osservati, allora i trattati scientifici si riducono a biografie degli scienziati osservatori. Il positivista, pur dichiarando di attenersi ai fatti, non tien conto del fatto ovvio che è la previsione del futuro. Questa è essenziale alle enunciazioni scientifiche, né può essere ridotta ad una mera enunciazione di probabilità. Lo scienziato non riesce a salvare l’importanza della scienza se non per il presupposto implicito che il passato condizioni il futuro, e la sua procedura è in realtà più complessa di quanto la descriva il positivista» (G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, cit., p. 299).

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È vero che proprio a quest’altezza si rischia di smorzare ogni ulteriore slancio della Ragione speculativa, così ripiombando nella routine di una metodologia di successo. Il punto però da tenere fermo, a ora, riguarda la completa infondatezza di due pretese della scienza, nello specifico: a) la pretesa di poter giungere a una comprensione delle sue procedure restando nei limiti delle sue stesse categorie; b) la pretesa che tali categorie siano comprensibili senza tener conto del loro status all’interno di categorie più ampie, dettate dalla Ragione speculativa. Nella misura i cui i filosofi dovessero fallire, gli scienziati in primis avrebbero difficoltà a comprendere i propri stessi metodi; solo nella misura in cui i filosofi dovessero avere successo, gli scienziati potranno raggiungere una comprensione adeguata della scienza. Grazie al successo della filosofia, le abitudini miopi del pensiero scientifico possono trasformarsi in spiegazione analitica. La combinazione tra dualismo cartesiano (le realtà ultime si dividono in corpi e menti) e cosmologia materialistica newtoniana ha posto dinanzi alla speculazione filosofica un falso obiettivo. Le nozioni di semplici corpi e di semplici menti venivano accolte acriticamente; il pensiero speculativo era deviato dall’idea di spiegare le menti sul modello dei corpi o i corpi sul modello delle menti. Hobbes per primo ha reso i corpi fondamentali e ha ridotto le menti a fattori derivati; in seguito, è stato Berkeley a rendere fondamentali le menti e derivati i corpi (mere idee della mente o, meglio ancora, della mente di Dio). Tuttavia, l’impatto più significativo sulle relazioni tra filosofia e scienza naturale non è stato né di Hobbes né di Berkeley, bensì di Kant: l’effetto della sua Critica della ragion pura fu di ridurre il sistema della natura a mera apparenza, a mero regno fenomenico – per usare la parola greca. Che si opti per il temine “apparenza” o per quello di “fenomeno”, l’effetto finale è il medesimo: non potrà esservi alcuna metafisica della natura. Nessun approccio metafisico nell’indagine dell’ordine

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naturale, poiché esso è mera apparenza derivata; e ove si provi a prenderlo in considerazione, si resta ben distanti da qualsiasi intuizione capace di rivelarne le verità ultime. È pur vero che Kant non trasse direttamente questa conclusione. Fu attratto dal cielo stellato, un trionfo dell’ovvio sulla filosofia. Ma, alla lunga, l’effetto delle sue posizioni fu di degradare la scienza a considerazione di dettagli derivati: aveva trionfato ancora una volta l’ovvio. C’era un’insistenza significativa sui dettagli della nostra vita fenomenica nel mondo fenomenico, e Kant negava che tale sistema fenomenico potesse aprirci le porte della metafisica. E dunque eccoci ancora qui, ovviamente, a vivere in quanto fenomeni tra altri fenomeni. August Comte fu la nemesi partorita dalla Critica della ragion pura. Le argomentazioni positiviste rovesciavano solo in parte quelle kantiane: noi siamo certamente nel mondo, ma – e qui in linea con Kant – il suo funzionamento non ha nulla a che fare con la metafisica. Ad ogni modo, Kant ha scavato un solco tra scienza e ragione speculativa, benché il problema sia esploso nella sua criticità solo nel XIX secolo. Kant medesimo, infatti, e i suoi successori immediati erano fortemente interessati alla scienza naturale; ne erano oramai ben lontani i neokantiani e i neohegeliani inglesi della metà del XIX secolo13. Questo antagonismo tra filosofia e scienza ha generato spiacevoli limitazioni di pensiero da ambo i lati: la filosofia ha smesso di rivendicare la sua legittima generalità, mentre la scienza naturale si è accontentata di permanere nell’ambito ristretto della sua metodologia. Il XVII secolo aveva costruito le nozioni categoriali delle nuove scienze in maniera così stabile, che il 13.  Il riferimento è qui alla prima generazione di idealisti inglesi, ossia a figure come Thomas Hill Green (1836-1882) o Edward Caird (1835-1908). Alla generazione immediatamente successiva appartennero i grandi idealisti inglesi come Bradley, Bosanquet e McTaggart. Sul tema: J. Wahl, Les philo­ sophies pluralistes d’Angleterre et d’Amérique, Alcan, Paris 1920.

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divorzio dalla filosofia non fu di impedimento alcuno ai primi e importanti progressi. Ora però si è giunti alle soglie di un’e­ poca critica, che impone una riorganizzazione generale delle categorie del pensiero scientifico. Anche scienze come psicologia e fisiologia sono finite in bilico ai bordi del fossato che divide scienza e filosofia. L’atteggiamento oscurantista della scienza rischia di essere disastroso nel ritardare il progresso. Potrebbe essere che non si sia ancora pronti a realizzare un’alleanza più stretta tra pensiero speculativo e metodo scientifico, ma almeno una cosa è certa: l’opinione scientifica non dispone di alcuna valida motivazione per trarre questa conclusione. Il rifiuto di qualsiasi fonte d’evidenza è sempre un tradimento nei confronti di quel fondamentale razionalismo, che sospinge in avanti tanto la scienza quanto la filosofia.

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Capitolo III

Ragione, schema e metodo: lineamenti per una morfologia cosmologica

La Ragione speculativa è, per sua essenza, libera (untram­ melled, 65) dalla giurisdizione esclusiva di un unico metodo. La sua funzione è quella di: a) scavare nelle ragioni generali al di là delle ragioni limitate; b) comprendere tutti i metodi come coordinati in una natura delle cose, la quale può essere colta solo trascendendo ogni metodo. Questo ideale di approssimazione infinita non sarà mai soddisfatto dall’intelletto limitato del genere umano. Ciò che, tuttavia, distingue gli esseri umani dagli animali, alcuni esseri umani da altri esseri umani, è la presenza nelle loro nature – in un modo pur vago e incerto – di un elemento perturbante: la rincorsa all’irraggiungibile (the flight after the unattainable, 65). Si tratta di quella traccia di infinito (touch of infinity, 65) che ha spinto le popolazioni ad avventurarsi in avanti, talvolta verso la loro distruzione. È una sorta di reazione istintiva (tropism, 65) al richiamo della luce, alla luce del sole che trascorre sulla fine delle cose e a quella che sorge alla loro origine. La Ragione speculativa guarda a est e a ovest, al principio e al compimento, celata ai bordi del mondo. La Ragione metodica, dal canto suo, tende a confinarsi nei limiti di una metodologia di successo; opera sotto l’ala protettiva della prassi consuetudinaria. È un costante esercizio di prudenza (shrewdness, 66). Per contro, la Ragione speculativa è portata a

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mettere in discussione i metodi già acquisiti, rifiutando di accettarli acriticamente. La rivendicazione appassionata della libertà di pensiero è un omaggio al profondo legame della Ragione speculativa con le intuizioni religiose; furono gli Stoici a sottolineare il diritto dello spirito religioso a questionare l’infinità delle cose con il massimo della capacità di intendere. Nel primo periodo in cui la Ragione speculativa emerse in quanto istanza autonoma, essa si espresse sotto forma di sporadiche suggestioni. Apparvero veggenti, profeti, custodi di nuovi segreti; costoro si fecero annunciatori, per il mondo, di fiamme o di salvezza, di liberazione o di nuovi atteggiamenti morali. La loro caratteristica comune era di apportare una qualche novità immaginati­ va pertinente e insieme eccedente rispetto alle vie tradizionali. La vera importanza dei Greci nel progresso della civiltà risiede nella straordinaria scoperta per cui anche la Ragione speculativa poteva essere soggetta a un metodo ordinato. L’hanno spogliata del suo carattere anarchico, senza con ciò eliminarne la vocazione a spingersi oltre i limiti stabiliti. Ecco perché ancora oggi si parla di Ragione speculativa al posto di ispirazioni divine. La Ragione fa appello all’ordine di quanto è ragionevole, mentre la “speculazione” rimanda alla trascendenza di ogni metodo particolare. Il segreto tramandatoci dai Greci risiede nella capacità di restare vincolati a un metodo anche nell’atto in cui lo si oltrepassa; hanno a malapena compreso la portata della loro scoperta, ma noi abbiamo avuto la fortuna di vederla all’opera per venti secoli. L’esperienza mondana di profeti e visionari è stata in generale infelice; nella maggior parte dei casi hanno fatto parte di sette equivoche e dalla cattiva reputazione. Anche se delle figure a loro modo sincere sono esistite, restano parimenti una banda di presuntuosi, ignoranti, incompetenti e squilibrati ingannatori. Nel complesso, le prove contro di loro sono talmente schiaccianti che, al di là di qualsiasi metodo di verifica, è forse più sicuro – e in qualche modo misericordioso – lapidarli.

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Dobbiamo invece al popolo greco l’invenzione della logica nel suo senso più ampio: la logica della scoperta. La logica greca, così come è andata perfezionandosi lungo i secoli, fornisce un insieme di criteri ai quali deve essere sottoposto il contenuto di una credenza. I criteri sono: (i) conformità all’esperienza intuitiva; (ii) chiarezza del contenuto proposizionale; (iii) coerenza logica interna; (iv) coerenza logica esterna; (v) stato di uno schema logico con, (a) diffusa conformità all’esperienza, (b) nessuna discordanza con l’esperienza, (c) coerenza tra le sue nozioni categoriali, (d) conseguenze metodologiche. È stato un errore, trascinatosi dalle epoche passate fino a oggi, credere che questi criteri fossero facili da applicare. I pensatori greci e medievali, ad esempio, avevano l’impressione di poter ottenere facilmente premesse chiare e distinte conformi all’esperienza. Di conseguenza, erano relativamente poco inclini alla critica dei presupposti e si dedicavano all’elaborazione di sistemi deduttivi. I moderni, come i greci, hanno dato per scontata la facilità nel formulare proposizione esatte; e, in più, hanno supposto che anche interrogare l’esperienza fosse un’operazione lineare (straightforward operation, 68). Hanno riconosciuto, però, che lo sforzo principale si sarebbe dovuto rivolgere alla scoperta di proposizioni effettivamente conformi all’esperienza. È così che i moderni sono giunti a enfatizzare il ricorso all’induzione. La mia tesi è che nessuna di queste operazioni sia facile. Prescindendo da una completa comprensione metafisica dell’universo, resta arduo intendere una qualsiasi proposizione in maniera chiara e distinta per ciò che concerne le sue componenti. Analizzare l’esperienza senza introdurre elementi interpretativi potenzialmente fallaci, è oltremodo complicato. Da queste

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due ultime difficoltà, segue che anche il giudizio di conformità diretta all’esperienza – libero da qualsiasi elemento di dubbio – è molto difficile da sostenere di fronte a questioni di un certo peso. Ci sono dei dubbi anche circa l’autoconsistenza di una proposizione; se l’analisi della proposizione è già di per sé vaga, ci sarà sempre la possibilità che un’analisi più completa ne scopra un difetto. Il medesimo dubbio vale anche per il quarto criterio, quello della coerenza esterna; in questo caso si tratta del confronto della proposizione sotto esame con altre proposizioni accettate come vere. È ovvio che se i primi due criteri fossero facilmente determinabili, non occorrerebbe nient’altro; parimenti se i primi quattro potessero essere determinati in modo risolutivo, il quinto cesserebbe di essere necessario. Tuttavia, quest’ultimo criterio è evidentemente una procedura atta a rimediare alla difficoltà di giudicare singole proposizioni, ricorrendo a un sistema di idee, il cui reciproco rinvio conferisce chiarezza a ciascuna di esse, e le quali si tengono insieme di modo che la validità di una si rifletta nella validità delle altre. Inoltre, se il sistema ha come propria caratteristica quella di suggerire metodologie delle quali esso è una spiegazione, conserva con ciò stesso la caratteristica di generare idee tra loro coerenti e di ricevere continue validazioni. La questione centrale del quinto criterio è che lo schema produce una maggiore comprensione del mondo, passando per una migliore definizione delle idee e per un’analisi più diretta del fatto immediato. Una singola proposizione poggia su apprensioni confuse, laddove uno schema di idee fornisce la propria misura di esaustività per via della reciproca relazione dei suoi metodi categoriali. È con la loro enfasi sugli schemi di pensiero, che i Greci hanno fondato i vari rami della scienza e ricostruito la civiltà. Una proposizione che rientra in uno schema scientifico viene accet-

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tata a fronte di una verificazione sorprendentemente rapida. Per esempio, attualmente viene accettata da tutti la celebre dottrina dello spostamento delle linee spettrali; tuttavia, per ciò che concerne le prove dirette, ci sono alcuni esperimenti sui raggi solari dalle interpretazioni molto dubbie e il solo caso della luce del satellite oscuro di Sirio. Restano milioni di stelle non testate, per non parlare del fatto che non si è del tutto certi che una stessa stella produrrà sempre i medesimi effetti. Nessuno però dubita della dottrina in quanto rientra nello schema scientifico dominante. L’importanza dello schema può essere intesa immaginando un qualche evento che non rientri in nessuno schema. Vi recate in uno strano paese straniero, e tra le vostre prime osservazioni notate subito un uomo in piedi sulla testa. Prudenza vuole che vi asteniate dal generalizzare sulla propensione degli abitanti del posto a stare a testa in giù; anche perché la metà dei vostri amici stenterebbe a dare credito al vostro racconto. Eppure, la prova diretta è paragonabile a quella dello spostamento delle linee spettrali. La produzione di uno schema implica uno sforzo enorme per la Ragione speculativa; è richiesta un’immaginazione che superi di gran lunga le osservazioni dirette. Il gruppo interrelato di nozioni categoriali, che costituiscono uno schema, consente un’estensione ulteriore (derivative extension, 71) grazie alla forza della logica deduttiva. Nell’intera gamma di tali proposizioni che riflettono le interrelazioni tra le forme delle cose, ve ne sono alcune in grado di aprire a un confronto diretto con l’esperienza; solo così può essere giudicata la conformità, o meno, di uno schema con il fatto osservato. Uno schema che, almeno per un certo tempo, si rivela inutile dal punto di vista metodologi­ co è quello inabile a produrre dei contatti osservabili con i fatti. Uno schema astratto può conservare intatta la sua potenza anche se è il mero prodotto della metodologia astratta della logica, e anche se non riesce a stabilire un contatto con i fatti per mezzo di una metodologia pratica correlata a un esperimento.

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La storia della civiltà moderna ha mostrato che tali schemi realizzano la promessa del sogno di Salomone. In primo luogo, arricchiscono la vita soddisfacendo la peculiare pretesa della Ragione speculativa: la conoscenza in sé e per sé. In secondo luogo, costituiscono quel patrimonio di idee che ogni epoca custodisce per i suoi successori: la fondamentale pretesa morale imposta dalla civiltà ai suoi protagonisti è che essi trasmettano e innovino questa riserva di sviluppo potenziale, da cui hanno tratto beneficio. Una delle principali leggi alla base del progresso moderno, salvo rare eccezioni, è così sintetizzabile: il pensiero anticipa l’osservazione. Può non deciderne i dettagli ma suggerirne la tipologia. Se si fosse privi dell’idea di numero nessuno saprebbe far di conto; nessuno eserciterebbe la propria attenzione se non ci si aspettasse di vedere qualcosa. Un’osservazione inaspettata, giunta per caso, è un avvenimento raro e quasi mai preso in debita considerazione; se manca uno schema in cui inserirla, il suo significato è vano. Lo sperpero delle proprie energie è, per la natura, un comportamento sconsiderato (thoughtless, 72): un milione di semi e un solo albero, un milione di uova e un solo pesce. Allo stesso modo, raramente è emerso uno sviluppo utile, partendo da un milione di osservazioni di fatti eccedenti la routine della vita quotidiana. La relativa stagnazione della civiltà asiatica, dopo un iniziale e brillante sviluppo, era imputabile all’esaurimento del suo patrimonio di idee. L’Asia non disponeva di rilevanti schemi astratti di pensiero, i quali stimolano le menti degli esseri umani e contribuiscono a conferire significato alle loro esperienze occasionali; era in uno stato a tal punto contemplativo da immobilizzare le proprie idee. Una pura contemplazione di idee astratte aveva soffocato quella vena di anarchica curiosità, in grado di produrre novità: era scomparso il lato speculativo della Ragione. Milioni di persone hanno visto delle mele cadere dagli alberi, ma Newton aveva bene in mente lo schema matematico delle relazioni dinamiche; milioni di persone hanno

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visto oscillare lampade nei templi o nelle chiese, ma Galileo aveva in mente una vaga anticipazione del medesimo schema matematico. Milioni di persone hanno visto gli animali predarsi a vicenda, i vegetali asfissiarsi a vicenda, migliaia di persone patire la fame e la sete, ma Darwin aveva in testa lo schema malthusiano. Il segreto del progresso è l’interesse speculativo per gli schemi astratti della morfologia. È difficile comprendere quanto un tale schema astratto possa crescere prima del contatto con interessi pratici. La storia dello sviluppo della fisica matematica è stata raccontata e ripetuta, ma il suo messaggio è così pregnante da non poter essere perso di vista. Si parta dai primordi della matematica, ossia da alcuni rudimentali espedienti diffusi in Egitto all’incirca duemila anni prima di Cristo; si trattava di elementi ancora minoritari, in una comunque grande civiltà. Circa cinquecento anni prima di Cristo, furono i Greci a intraprenderne lo sviluppo teorico per amore della teoria; tutto ciò accadeva quattro o cinquecento anni dopo il sogno di Salomone, la più grande profezia mai realizzatasi. I Greci mostrarono il loro genio intuendo l’importanza della ma­ tematica per lo studio della natura. Si ben comprende la necessità di incentivare lo sviluppo della morfologia astratta, se si considera lo stato della geometria all’inizio del XVI secolo. La scienza era stata studiata ed elaborata nei suoi dettagli per circa duemila anni; ma, salvo eccezioni minori, non ne era derivato nulla se non un interesse esclusivamente teoretico. Poi, fu come se una porta si fosse improvvisamente spalancata: Keplero si cimentò nel primo importante utilizzo delle sezioni coniche (il primo di centinaia), Descartes e Desargues rivoluzionarono i metodi della disciplina, e Newton scrisse i suoi Principia dando così avvio al periodo moderno della civiltà. Senza il patrimonio di idee astratte accumulatosi lentamente per duemila anni, la nostra vita moderna non sarebbe stata possibile. Non c’è nulla di magico nella matematica in quanto tale, si tratta semplicemente del più grande esempio di scienza delle forme astratte.

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La teoria astratta della musica è un’altra di queste scienze, così anche la teoria astratta dell’economia politica e la teoria astratta della moneta. Il punto è che lo sviluppo della teoria astratta anticipa la comprensione dei fatti. Un’ulteriore questione decisiva è illustrata dal caso dell’economia politica. È generalmente noto come, negli ultimi anni, l’economia politica sia stata un po’ sottotono (under a cloud, 75). Si occupa degli esseri umani in modo astratto, concentrando la sua attenzione sull’homo oeconomicus; le sue supposizioni sui mercati e la concorrenza trascurano molti fattori decisivi. Siamo dinanzi a un esempio lampante di necessità di oltrepassamento di uno schema morfologico dato. Fino a un certo punto lo schema è inestimabile: chiarisce il pensiero, suggerisce l’osservazione, spiega i fatti. Ma c’è un limite preciso all’utilità di qualsiasi schema finito: se lo schema viene spinto al di là del suo scopo, non può che risultarne un errore. L’arte della Ragione speculativa consiste tanto nella trascendenza degli schemi quanto nel loro utilizzo. La fisica matematica suggerisce un’ulteriore riflessione. Dobbiamo soffermarci sull’estrema astrattezza delle idee matematiche coinvolte; è sorprendente che uno schema così astratto di idee si sia dimostrato tanto importante. Un gentiluomo di campagna egiziano, ritrovatosi all’inizio del periodo greco, avrebbe potuto tollerare i dispositivi tecnici dei suoi agrimensori, ma le vaporose generalizzazioni dei greci speculativi gli sarebbero parse deboli, poco pratiche, una perdita di tempo. Gli oscurantisti di tutte le epoche mostrano gli stessi principi. Tutto il senso comune è con loro. La loro unica seria antagonista è la Storia, e la storia d’Europa è morta contro di loro. La specula­ zione astratta è stata la salvezza del mondo: una speculazione che ha creato sistemi e poi li ha trascesi, speculazioni che si sono avventurate fino al limite più estremo dell’astrazione. Porre dei limiti alla speculazione è un tradimento nei confronti del futuro. La tessitura stessa di uno schema generale richiede disciplina e deve essere tenuta in una qualche relazione con i fatti generali

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di quest’epoca. La cosmologia è lo sforzo di inquadrare in uno schema il carattere generale dell’attuale stadio dell’universo. Lo schema cosmologico dovrebbe rappresentare il genere di cui gli schemi speciali delle varie scienze sarebbero le specie. Il compito della cosmologia è duplice. Essa, intanto, contiene le imprecisioni di un’immaginazione indisciplinata. Uno schema speciale dovrebbe adattarsi alla cosmologia generale o, in virtù della sua conformità a determinati fatti, dovrebbe presentare ragioni sufficienti a condurre la cosmologia stessa a modificarsi. In casi simili, la conseguenza più verosimile è una qualche modifica sia dello schema cosmologico generale sia degli schemi scientifici particolari. L’uno è critico degli altri e viceversa. La morfologia limitata di una scienza speciale è costitutivamente inadatta a esprimere, secondo le proprie nozioni categoriali, tutte le forme esemplificatesi nel mondo. È un compito per cui spetta alla cosmologia di rivelarsi adeguata. Essa deve, cioè, ricomprendere quei fattori non adeguatamente inclusi in qualche scienza; di più, deve abbracciare tutte le scienze. Gli oscuri recessi dell’esperienza presentano enormi difficoltà d’analisi. La semplice interrogazione della coscienza immediata, in un atto immediato, ci restituisce ben poco; il potere dell’analisi svanisce sotto un tale esame diretto. Dobbiamo perciò ricorrere alla memoria1, alla testimonianza altrui, al linguaggio sot-

1.  È un punto in cui Whitehead sottintende una delle proposte teoretiche più importanti e complesse di PR: la differenziazione tra il modo percettivo della immediatezza di presentazione e il modo percettivo dell’efficacia causale. Sul senso del termine “memoria” in questo contesto, scrive Crespi: «Parlando della memoria Whitehead si riferisce alla vita psichica in generale e a quella sua proprietà peculiare per cui il passato non va perduto ma si viene accumulando nel presente, in tal modo condizionandolo […]. La vita psichica non presenta accadimenti isolati; il passato impone condizioni al presente: più precisamente gli impone sé stesso; esso viene in qualche modo incluso (“oggettivato” secondo la terminologia whiteheadiana) nel presente, di guisa che, senza il suo passato, come pure senza le anticipazioni del futu-

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to forma di analisi di parole e frasi (ovvero all’etimologia e alla sintassi). Dovremmo anche considerare le istituzioni dell’uma­ nità alla luce del prender corpo della loro esperienza stabile. Nella ricerca di nozioni categoriali sufficientemente generali da figurare in una morfologia cosmologica, è giusto porre l’accento su quei fattori dell’esperienza che possono dirsi “costanti” (stable, 77). Con ciò si intende che il loro riconoscimento, per come dimostrato dai fatti, non è affare di poche persone speciali o di pochi eventi speciali; la dimostrazione deve fondarsi su una testimonianza ampia e diffusa. A questo punto, occorre operare una distinzione. La prima dimostrazione può essere merito di un uomo eccezionale in circostanze eccezionali; ma un segreto che non può essere condiviso, resta un segreto. Le forme categoriali dovrebbero giungerci in modo tale da testimoniare una qualche loro relazione con l’esperienza. Stiamo ora prendendo in considerazione la principale difficoltà della Ragione speculativa: il suo confronto con l’esperienza. C’è una visione convenzionale dell’esperienza persistentemente in agguato a un livello di presupposti taciti, benché mai ammessa quando esplicitamente sfidata. Questa visione concepisce l’esperienza cosciente come una conoscenza netta (clear-cut, 78) di elementi netti, dalle connessioni reciproche altrettanto nette. È la concezione di un’esperienza finita, ordinata e uniformemente illuminata. Nessuna nozione potrebbe essere più lontana dalla verità. In primo luogo, equiparare l’esperienza a una conoscenza chiara è contro-evidente; nella nostra vita, in ogni momento, c’è un focus di attenzione, ci sono alcuni elementi di cui si ha chiara consapevolezza, ma allo stesso tempo vagamente e insistentemente connessi ad ro che in qualche modo sono incluse in esso, il presente non sarebbe quello che è» (G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, cit., p. 311).

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altri elementi in un’apprensione opaca, la quale in modo impercettibile sfuma in un sentimento indiscriminato2. Inoltre, la chiarezza non può essere separata dalla vaghezza. Lo stare-insieme (togetherness, 79) di ciò che è chiaro rifiuta di consegnarsi alla chiarezza di un’intuizione analitica. La totalità (the whole, 79) forma un sistema che sfugge all’intuizione diretta là dove si tenti di descriverlo. La nostra consapevolezza cosciente è fluttuante, ondivaga, fuori controllo: manca di profondità. La profondità dell’intuizione dipende dalle aspettative del pensiero; questo è il segreto dell’attenzione. Oltre a questo carattere di momento immediato di esperienza, questi momenti differiscono tra loro nella vita di ciascuno di noi. Siamo vigili o sonnolenti, eccitati o contemplativi, sognanti o in attesa, privi di qualsivoglia aspettativa focalizzata. La varietà delle nostre fasi è infinita. Una variazione analoga si riscontra negli stati intermedi e più o meno avanzati di esseri umani e animali. Man mano invece che si ridiscende la scala verso organismi di tipo meno complesso, ci si ritrova dinanzi al sentimento indiscriminato di un dormiveglia inconscio. Per organismi del genere l’esperienza perde il suo carattere di manifestazione delle forme, la sua illuminazione da parte della coscienza e la capacità di determi-

2.  Sulla natura indefinita di questo “sentire”, commenta Paci: «Il processo dell’universo è dunque processo di parti organizzate che si svolgono in un ritmo che tutte le collega e tutte le distingue come una sinfonia collega le note e collegandole le fa essere quelle che sono. Orbene queste note per Whitehead si rendono conto l’una dell’altra, non hanno esperienza cosciente ma si sentono. Non è necessaria la coscienza per la sensibilità. Tutta la natura è un reciproco e inconscio sentirsi delle sue parti organicamente connesse. Anzi la natura stessa non è altro che inconscio sentire […]. L’universo è puro sentire. Una cosa nuova non è che un nuovo modo con il quale nel tutto una parte dell’universo sente e vive tutte le altre cose» (E. Paci, Il pensiero scientifico contemporaneo, cit., p. 87).

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nare degli scopi; l’esperienza cioè finisce per essere assorbita da una potente pulsione inconscia derivante da un sentimento indiscriminato, a sua volta derivante dal passato immediato. La supremazia del fatto sul pensiero costituisce la base per ogni forma di autorità. Bisogna prestare però attenzione a non concepire fallacemente questa contrapposizione fatto-pensiero. Il pensiero è un fattore interno al fatto d’esperienza: il fatto immediato è quello che è anche a causa del pensiero che vi è implicato. La qualità di un atto d’esperienza è in gran parte determinata dal fattore cogitativo (factor of the thinking, 80) contenuto. Il pensiero implicato in uno di questi atti comporta un’indagine analitica dell’esperienza al di là di sé stessa. Supremazia del fatto sul pensiero significa che anche il massimo volo del pensiero speculativo deve avere la sua misura di verità. Può essere la verità dell’arte. Un pensiero irrilevante per il vasto mondo dell’esperienza sarebbe improduttivo. La soddisfazione precipua del pensiero speculativo coincide con la chiarificazione (elucidation, 80). Ecco motivata la supremazia del fatto sul pensiero, ovvero la base di ogni forma d’autorità. Setacciamo il mondo alla ricerca di prove di tale potenza chiarificatrice (elucidatory power, 80). Pertanto, il supremo banco di prova del volo speculativo è rappresentato dalla sua capacità di tradursi nella costituzione di una tecnica pratica, rivolta a dei fini collaudati; il sistema speculativo si conserverà come chiarificazione della tecnica stessa. In questo modo, c’è un movimento dal pensiero alla prassi e un movimento dalla prassi al pensiero. Questa interazione tra pensiero e prassi funge da suprema autorità; è il test con cui si contiene la ciarlataneria della speculazione. Nella storia umana, una tecnica pratica prende corpo in istituzioni stabili: associazioni professionali, associazioni scientifiche, associazioni d’affari, università, chiese, governi. In tal guisa, lo studio delle idee alla base della struttura sociologi-

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ca è un appello alla massima autorità; è il richiamo stoico alla “voce della natura”. Purtuttavia, neppure quest’ultima forma d’autorità riesce a essere definitiva, principalmente per due ragioni: a) le prove a suo carico spesso si rivelano confuse, ambigue e contraddittorie; b) se in un qualsiasi periodo della storia umana fosse stata accettata come definitiva, si sarebbe arrestata ogni tensione al progresso. Le orribili, brutali e disgustose pratiche del passato sarebbero sopravvissute di epoca in epoca, fino a noi. Ciò non vuol dire che si debba accettare l’epoca presente come il massimo dello standard raggiungibile. Possiamo vivere e possiamo vivere bene; ma sentiamo anche l’esigenza di un trend progressivo, guardiamo ancora a una vita migliore. Dobbiamo puntare a una disciplina della Ragione speculativa. Trascendere il fatto immediato è l’essenza della speculazione; il suo compito è di rendere il pensiero fecondo per il futuro. Lo fa attraverso la sua visione di sistemi di idee, la quale comprende l’osservazione ma si spinge ben al di là di questa. La necessità della disciplina sorge perché la storia della speculazione è analoga alla storia della prassi. Se osserviamo il genere umano, le sue speculazioni sono state spesso insensate, brutali e cattive. Il vero uso della storia è quello di estrarre da essa princi­ pi generali sulla disciplina della prassi e sulla disciplina della speculazione. Oggetto di questa disciplina non è la stabilità, bensì il progresso. È stato sottolineato in queste pagine che non esiste una stabilità vera e propria; ciò che sembra tale, è in realtà un processo relativamente lento di decadimento atrofizzato. L’universo apparentemente stabile non fa che scivolare via sotto i nostri occhi. Il nostro obiettivo è di natura progressiva3.

3.  Il precedente rimando alle istituzioni del genere umano, ma in generale buona parte di quanto finora riportato, trova una sintesi adeguata nel

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Gli esseri umani che hanno reso efficace la speculazione sono stati i pensatori greci. A loro dobbiamo il progresso della civiltà europea. È quindi una mossa di buon senso osservare i metodi da loro introdotti nelle abitudini del pensiero: 1)  Furono oltremodo curiosi; esaminavano tutto, mettevano in dubbio tutto e desideravano comprendere tutto. Questo solo per sottolineare quanto fossero speculativi in misura superlativa. 2)  Furono rigorosamente sistematici nel ricercare definizioni chiare e coerenza logica; inventarono la logica proprio allo scopo di essere coerenti. 3)  Furono onnivori nei loro interessi di ricerca: scienza naturale, etica, matematica, filosofia politica, metafisica, teologia, estetica. La loro curiosità era allo stesso modo attratta da ciascuno di questi argomenti, mai rigidamente separati l’uno dall’altro. Deliberatamente si impegnarono nel combinarli in un sistema coerente di idee. seguente passo di PR: «La storia sociale dell’umanità mostra le grandi organizzazioni nelle loro funzioni che si alternano, di essere condizione per il progresso e espedienti per arrestare lo sviluppo dell’umanità. La storia delle terre del mediterraneo, e dell’Europa occidentale, è la storia della benedizione e della maledizione delle organizzazioni politiche, delle organizzazioni religiose, degli schemi di pensiero, degli organismi sociali dagli ampi intenti. Il momento di predomini, per cui hanno pregato, lavorato, fatto sacrifici generazioni di spiriti nobili, segna il punto di svolta in cui la benedizione si trasforma in maledizione. È necessario qualche nuovo principio di rinnovamento. L’arte del progresso è quella di preservare l’ordine nel cambiamento e di preservare il cambiamento nell’ordine. La vita rifiuta di essere imbalsamata viva. Quanto più prolungato è l’arresto in qualche sistema di ordine monotono, tanto più grande sarà il crollo della società morta […]. L’ordine non è sufficiente. Ciò che è richiesto è qualcosa di molto più complesso. È l’ordine che entra nella novità; così che l’essere massiccio non degeneri nella mera ripetizione, e così che la novità si rifletta sempre su uno sfondo del sistema» (A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., pp. 1281 e 1283).

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4)  Cercarono verità della massima generalità, prestando attenzione anche in questo caso alla totalità dei loro diversi interessi. 5)  Furono uomini dagli interessi pratici attivi. Platone si recò in Sicilia per contribuire a un esperimento politico, pur continuando a studiare matematica per tutta la vita. A quei tempi, la matematica e le sue applicazioni non erano così separate come lo sono oggi. I tipi di fatti da cui Platone era interessato riguardavano le applicazioni della teoria matematica. Platone, più di tutti, ha avuto cognizione della divergenza tra l’esattezza del pensiero astratto e il vago margine d’ambiguità di ogni osservazione. In questo senso, a ben vedere, Platone – il pensatore astratto – supera di gran lunga John Stuart Mill – il filosofo induttivo. Quest’ultimo, nel suo resoconto sui metodi induttivi della scienza, non affronta mai la difficoltà per cui nessuna osservazione verifica mai con esattezza la legge che si presume debba comprovare. Il senso che Platone ebbe dell’imprecisione dell’esperienza fisica rispetto all’esattezza del pensiero astratto, suggerisce che certamente egli era in grado di poter condurre le proprie ricerche senza pregiudizi teorici. Il determinismo di Mill è, secondo la sua stessa formula, un’induzione che rispetta l’esatta adeguazione a condizioni stabilite da circostanze antecedenti. Nessuno però ha mai davvero fatto esperienza di un’adeguazione tanto esatta; nessun fondamento osservativo è realmente in grado di garantire la validità della dottrina di Mill. Platone era perfettamente a conoscenza di questo fatto primario dell’esperienza, Mill no. Il determinismo può essere una dottrina vera, ma non potrà mai essere dimostrata con i metodi prescritti dall’empirismo inglese. Giungendo a parlare di Aristotele, la sola enumerazione delle sue attività pratiche rende straordinario il fatto stesso che abbia trovato del tempo per pensare in astratto. Studiò le costituzioni dei principali stati greci, la grande letteratura dram-

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matica dell’epoca, i pesci, le proposizioni e le dimostrazioni, fece da precettore al giovane Alessandro. Qualunque essere umano impegnato in queste e altre cose sarebbe stato tranquillamente perdonato, se avesse addotto la mancanza di tempo per esimersi dal mero pensiero astratto. Nel riporre il culmine della speculazione greca in Platone e Aristotele, le caratteristiche che in conclusione spiccano sono: l’universalità dei loro interessi, l’esattezza sistematica a cui puntavano, la generalità dei loro pensieri. Non è affatto un’induzione avventata concludere che la combinazione di queste caratteristiche costituisce una delle principali garanzie della speculazione contro la follia. La Ragione speculativa opera in due modi nell’atto di sottoporsi all’autorità dei fatti, evitando di smarrire la sua missione di trascendere l’analisi dei medesimi fatti. Nel primo modo, accetta di circoscriversi all’interno di un ambito specifico come una scienza o una certa metodologia pratica. In seguito, tenta speculativamente di ampliare e ricombinare le idee categoriali entro i limiti stessi dell’ambito in questione. Questa è la Ragione speculativa nella sua alleanza più stretta con la Ragione metodologica. Nel secondo modo, essa tenta di elaborare una cosmologia in grado di esprimere la natura generale del mondo per come si rivela negli interessi umani. È stato già detto che, affinché tale cosmologia rimanga in contatto con la realtà, si deve tener conto dell’insieme delle istituzioni consolidate, le quali costituiscono le strutture della società umana nel corso dei secoli. Solo così è possibile fare appello agli elementi più concreti e diffusi nell’esperienza umana; il significato di queste istituzioni, per l’esperienza dei rispettivi contemporanei, rappresenta l’insieme di fatti più rilevanti a cui ricorrere come fonte ultima d’autorità. Il disaccordo che si manifesta tra le credenze e gli scopi degli uomini è un luogo comune. Ma, in un certo senso, il compito

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risulta più semplice: i dettagli superficiali si mostrano subito nel loro intrinseco disaccordo, mentre l’accordo sulle nozioni generali risalta. Il fatto stesso delle istituzioni, nate per realizzare degli scopi, testimonia l’indiscutibile fiducia che previsione e scopo possano modellare il raggiungimento dei fini. Il disaccordo sui codici morali testimonia il fatto dell’esperienza morale. Non si può litigare su elementi sconosciuti; la base di ogni disaccordo è una qualche esperienza comune vissuta in maniera discordante. Una cosmologia dovrebbe innanzitutto essere adeguata. Non deve limitarsi alle nozioni categoriali di una scienza e spiegare tutto ciò che non vi si adatta. Il suo compito non è quello di rifiutare l’esperienza, bensì di trovare il sistema interpretativo più generale. Inoltre, non è una semplice giustapposizione di varie scienze. Generalizza al di là di qualsiasi scienza speciale, così da fornire il sistema interpretativo in grado esprimerne l’interconnessione. La cosmologia, essendo il risultato della massima generalità della speculazione, è la critica di tutte le speculazioni che le sono inferiori quanto a generalità. Cionondimeno, la cosmologia condivide le imperfezioni tipiche di tutti gli sforzi di un intelletto finito; le scienze speciali non raggiungono il loro scopo, idem dicasi per la cosmologia4. Ecco

4.  È proprio qui che Crespi intravede il nesso tra la metafisica whiteheadiana e il metodo scientifico moderno: «Whitehead non attribuisce all’apodissi alcun ruolo fondamentale in filosofia: non si tratta di cercare le condizioni necessarie dei fatti, ma di cercare delle possibili spiegazioni dei fatti; e tali spiegazioni sono costruite mediante concetti che non si impongono a priori per loro universalità, ma sono semplicemente tratti dall’esperienza ed estesi in via ipotetica all’interpretazione dell’intera realtà; di guisa che l’intera costruzione conserva il carattere, da Whitehead esplicitamente riconosciuto, di “tentativo”. È in tal modo possibile chiarire in che senso la filosofia di Whitehead sia legata alla scienza. Non si tratta di uno scambio illegittimo di categorie: in realtà Whitehead ha superato le categorie astratte della scienza ponendo alla base del proprio sistema l’esperienza concreta nella sua integrità. Egli non sembra invece aver superato il metodo scientifico, cosicché

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che, quando si pone una nuova speculazione, sorge un triplice problema: alcune scienze speciali, lo schema cosmologico e il nuovo concetto avranno punti di accordo e punti di divergenza. La ragione interviene in qualità di arbitro e, insieme, con un ulteriore esercizio di speculazione. Ne segue una modifica della scienza, dello schema cosmologico e del nuovo concetto. La disciplina congiunta ha eliminato gli elementi di follia, o di mera omissione, da tutti e tre. Gli scopi dell’umanità ricevono la conseguente modifica, e lo shock si trasmette attraverso tutta la struttura sociologica dei metodi tecnici e delle istituzioni. Ogni costruzione dell’intelletto umano è più specifica e limitata di quanto lo fosse il suo scopo originario. La cosmologia si propone di essere fatta da tutti i dettagli subordinati; ci dovrebbe così essere una cosmologia che presiede a molte scienze. Purtroppo questo ideale non si è realizzato. Le prospettive cosmologiche delle diverse scuole di filosofia differiscono; ancor più che differire, sono in gran parte incoerenti l’una con l’altra. Il discredito della filosofia è derivato in gran parte da questa guerra tra le scuole. Finché la fallacia dogmatica imperverserà nel mondo, questo disaccordo continuerà a essere male interpretato. Credere che la filosofia possa essere fondata su idee chiare e distinte, vorrà dire per i filosofi (esseri umani pur competenti e sinceri) proseguire nell’inseguimento di una chimera (will-o’-thewisp, 88). Non appena però si comprenda la vera funzione del razionalismo, ossia di essere un approccio graduale alla verità, proprio il disaccordo è ciò che è lecito attendersi. Le varie cosmologie hanno fallito, a gradi differenti, nel raggiungere la generalità e la chiarezza a cui puntavano. Sono state inadeguate, vaghe, e hanno spinto le nozioni speciali oltre i la sua metafisica viene a partecipare di quel carattere di provvisorietà che è proprio della scienza» (G.M. Crespi, La filosofia di Whitehead, cit., p. 329).

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limiti propri della loro applicazione. Descartes ha ovviamente ragione, in un modo o nell’altro, quando dice che abbiamo dei corpi e delle menti, e che possono essere studiati separatamente; è quello che facciamo quotidianamente nella vita pratica. Questa filosofia opera una grande generalizzazione, la quale evidentemente ha una qualche importante validità. Ma quando la si trasforma in una cosmologia definitiva, è lì che gli errori si insinuano. Lo stesso vale per altre scuole di filosofia. Tutte dicono qualcosa di importante e vero. Alcuni tipi di filosofia hanno prodotto cosmologie più penetranti di altre. In certe epoche si può produrre una cosmologia che includa i suoi predecessori, assegnando loro un ambito di validità. Eppure, alla fine, anche questa cosmologia sarà superata: appariranno dei rivali che la correggeranno, senza includere nessuna delle sue verità generali5. È in questo modo che l’umanità procede nel suo compito di comprendere il mondo. 5.  Sullo stesso tema in PR: «Così uno scopo della filosofia è sfidare le mezze verità che costituiscono i principi primi scientifici. La sistematizzazione della conoscenza non può essere condotta in compartimenti stagni. Tutte le verità generali si condizionano l’un l’altra; e i limiti della loro applicazione non possono essere adeguatamente definiti al di fuori della loro correlazione per mezzo di generalità ancora più ampie. La critica dei principi deve per lo più assumere la forma di determinare i significati propri da assegnare alle nozioni fondamentali delle varie scienze, quando queste nozioni sono considerate l’una in relazione all’altra rispetto al loro status. La determinazione di questo status richiede una generalità che trascende qualsiasi argomento particolare […]. Le destituzioni di Platone, Aristotele, Tommaso d’Aquino, Descartes, Spinoza, Berkeley, Hume, Kant, Hegel, significano solamente che le idee che questi uomini hanno introdotto nella tradizione filosofica devono essere interpretate con delle limitazioni, degli adattamenti e delle inversioni, o che sono loro sconosciute, o persino esplicitamente rigettati. Una nuova idea introduce una nuova alternativa, e noi non siamo meno in debito con un pensatore quando adottiamo l’alternativa che ha scartato. La filosofia non torna mai alle sue posizioni precedenti dopo lo sconvolgimento portato da un grande filosofo» (A.N. Whitehead, Processo e realtà, cit., p. 163).

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Per concludere, dobbiamo ritornare al tema iniziale che è il filo conduttore di questa discussione: La funzione della Ra­ gione. Se consideriamo il mondo alla stregua di un sistema fisico determinato dai suoi stati antecedenti, ci si profila lo spettacolo di un sistema finito che va costantemente spegnendosi, perdendo le sue attività e le sue varietà. Le diverse formulazioni dell’evoluzionismo non danno alcun indizio di una tendenza contraria. La lotta per la sopravvivenza non spiega affatto perché debbano esistere le città, così come la densità abitativa in aumento non spiega perché le case debbano essere esteticamente belle. C’è in natura una qualche tendenza progressiva in direzione contraria rispetto alla decadenza fisica. Nella nostra esperienza, troviamo quell’appetizione che pone in essere una causalità finale verso fini ideali trascendenti la mera tendenza fisica. Nel deserto rovente c’è l’appetizione verso l’acqua, nello stesso tempo in cui la tendenza fisica spinge verso una sempre crescente disidratazione; anche il desiderio di soddisfazione estetica, attraverso il godimento della bellezza, è parimenti eccedente rispetto al mero ordine fisico. La semplice appetizione lasciata a sé stessa sarebbe il prodotto del caso, non porterebbe da nessuna parte. Nella nostra esperienza troviamo – ad hoc – la Ragione e l’immaginazione speculativa. Esiste dunque una valutazione delle appetizioni secondo una regola di idoneità; questo regno della Ragione è vacillante, vago, debole, e ciononostante c’è. Abbiamo così una certa conoscenza (in una forma più dettagliata per le attitudini speciali degli esseri umani) di quella contro-tendenza capace di convertire la decadenza di un ordine nella nascita di un ordine nuovo.

Indice

Nota del traduttore

p. 9

Whitehead e la comunità filosofica del Primo Novecento Saggio introduttivo di Antonio Catalano

p. 13

Sommario introduttivo

p. 43

Capitolo I Evoluzione, Finalismo e ricerca delle novità: la Ragione come arte della vita

p. 45

Capitolo II Ragione, storia e progresso: l’antagonismo tra filosofia e scienza

p. 81

Capitolo III Ragione, schema e metodo: lineamenti per una morfologia cosmologica

p. 105

Canone europeo

Collana di classici della filosofia europea Diretta da: Andrea TAGLIAPIETRA

1. Denis Diderot, Colloquio di un filosofo con la Marescial­ la di ***. 2.  Leonardo da Vinci, I diluvi e il tempo Aforismi e fram­ menti filosofici. 3. Helmuth Plessner, Il sorriso. 4. Louis-Sébastien Mercier, Montesquieu a Marsiglia. 5. Georg Simmel, La psicologia di Dante. 6. Henri Bergson, Bergson a Clermont-Ferrand. Corsi di fi­ losofia al Liceo “Blaise Pascal”. 7.  Alfred North Whitehead, La funzione della Ragione.

Canone europeo | 7

Collana diretta da Andrea Tagliapietra

Il volume raccoglie e presenta tre conferenze tenute da A. N. Whitehead presso l’università di Princeton, nel 1929. L’anno è il medesimo della pubblicazione di Process and Reality, il capolavoro filosofico dell’autore. Whitehead era dunque giunto, alle soglie degli anni ’30 e dopo un passato importante da matematico, a proporre per la prima volta in versione sistematica la sua visione processuale dell’universo, secondo una prospettiva metafisica maturata in un dialogo critico serrato con alcuni celebri esponenti filosofici del suo tempo: F. H. Bradley, B. Russell, H. Bergson, W. James. Le tre conferenze, qui pubblicate, non solo si pongono come una sintesi densa e un’introduzione ai temi di Process and Reality, ma ne lasciano emergere alcune questioni storico-critiche rimaste a margine, e intorno alle quali Whitehead non smetterà di interrogarsi fino alla fine della sua attività intellettuale: entro quali limiti, e secondo quali scopi agisce la Ragione? Qual è stata la sua storia dai greci alla scienza contemporanea?

ISBN ebook 9788855292542

€ 6,00