La forza di essere migliori
 9788811812890

Table of contents :
Indice......Page 299
Frontespizio......Page 3
L’autore......Page 2
PROLOGO......Page 8
1. L’obiettivo......Page 16
2. Diventare ciò che si è......Page 18
4. Migliori come esseri umani......Page 20
5. Laboratorio, esperimenti, teoria......Page 21
6. La mia teoria......Page 22
7. Un nugolo di domande......Page 24
8. Il nostro più grande problema......Page 25
9. Logica del mondo e logica dell’umano......Page 27
10. Il compito dell’etica......Page 29
11. Sospetto......Page 32
12. Fondazione alla prima persona singolare......Page 33
13. L’utilitarismo......Page 34
14. La via della guarigione......Page 35
15. La via della bellezza......Page 37
16. La natura dello sperimentatore......Page 41
17. Cervello......Page 43
18. Mente......Page 45
19. Coscienza......Page 46
20. Il primo significato di coscienza: cognizione......Page 47
21. Il secondo significato di coscienza: autocoscienza......Page 48
22. Il terzo significato di coscienza: coscienza morale......Page 49
23. Crisi......Page 52
24. Dennett......Page 53
25. Quale «io» mi metto?......Page 56
26. Pensiero ed esistenza......Page 58
27. Anima......Page 59
28. Auto-trascendenza......Page 60
29. Il tunnel dell’io......Page 61
30. Sul trascendimento di sé e sulla trascendenza......Page 62
31. Il dono della coscienza......Page 64
32. Il quarto significato di coscienza: coscienza mistica......Page 65
33. Etimologia di etica e di morale......Page 69
34. Il radicamento corporeo dell’etica e la necessità della virtù......Page 70
35. I molteplici significati del concetto di virtù......Page 71
36. Virtù come forza......Page 72
37. Virtù come misura......Page 73
38. Virtù come capacità tramite l’abitudine......Page 75
39. Virtù come leggerezza......Page 78
40. Le virtù......Page 79
41. Le virtù cardinali: origine e tradizione......Page 81
42. Le virtù cardinali: terminologia e logica......Page 83
43. Primato della morale individuale......Page 85
44. Il dono delle virtù......Page 87
45. Immagini ed etimologia......Page 89
46. Un nome sbagliato......Page 91
47. Il motivo del suo primato......Page 93
48. L’origine della saggezza: dono e acquisizione23......Page 95
49. Il lavoro della saggezza......Page 97
50. Parlare saggiamente......Page 99
51. Dialettica della saggezza: la virtuosità della stoltezza......Page 100
52. La sapienza......Page 101
53. Immagini ed etimologia......Page 104
54. Seconda?......Page 105
56. Giustizia nel senso di essere giusti......Page 107
57. Negazioni......Page 108
58. Affermazioni......Page 111
59. La via da percorrere per essere giusti......Page 114
60. Giudicare......Page 118
61. Pensare per valori......Page 119
62. Le radici della giustizia......Page 121
63. Il ruolo cosmico della giustizia......Page 122
64. Il punto dolente della logica naturale e la necessità di una luce più grande......Page 125
65. Dialettica della giustizia: la virtuosità dell’infrazione......Page 127
66. Immagini ed etimologia......Page 132
67. La nostra vera essenza e il nostro vero problema......Page 133
68. La forza in natura come principio di organizzazione......Page 135
69. Forza, potenza, potere, violenza......Page 137
70. La natura del potere......Page 140
71. La natura della natura......Page 144
72. La forza di un essere umano......Page 145
73. La fortezza secondo il cristianesimo......Page 146
74. Lo spartiacque fondamentale......Page 148
76. Nietzsche......Page 150
77. La forza più preziosa: vincere se stessi......Page 153
78. La sorgente della forza di essere migliori......Page 156
79. Ipotesi alternativa sulla sorgente della forza di essere migliori......Page 158
80. Il bisogno della forza di essere migliori......Page 159
81. Dialettica della fortezza: la virtuosità della debolezza......Page 160
83. Controllo dei piaceri e delle passioni......Page 164
84. Il contrario di hýbris......Page 167
85. Superare se stessi......Page 168
86. Temperare......Page 169
87. Distaccarsi......Page 171
88. Libero arbitrio......Page 174
89. Dialettica della temperanza: la virtuosità dell’intemperanza......Page 176
90. Virtù primarie e secondarie......Page 178
91. Attenzione......Page 179
92. Benevolenza......Page 180
93. Calma......Page 183
94. Chiarezza......Page 184
96. Consapevolezza......Page 185
97. Fedeltà......Page 186
98. Flessibilità......Page 187
99. Innocenza......Page 189
100. Mitezza......Page 191
102. Responsabilità......Page 192
103. Rispetto......Page 194
104. Semplicità......Page 195
105. Sincerità......Page 197
107. La corona della giustizia......Page 199
108. La domanda radicale......Page 200
109. Un’amara verità......Page 202
110. Il cuore dell’etica: la motivazione......Page 204
111. La religione come motivazione dell’etica13......Page 205
112. Le conseguenze della prospettiva religiosa tradizionale: Isacco sono io......Page 207
113. La natura e l’emergenza etica......Page 210
114. Prima motivazione decisiva dell’etica: la coscienza di dover guarire......Page 212
115. Seconda motivazione decisiva dell’etica: la coscienza estetica......Page 216
CONCLUSIONE......Page 219
Aristotele......Page 225
Hinduismo......Page 227
Cristianesimo......Page 228
Classicità......Page 231
Spiritualità di origine indiana......Page 232
Spiritualità abramitiche......Page 233
BIBLIOGRAFIA......Page 235
RINGRAZIAMENTI......Page 249
INDICE DEI NOMI......Page 251
NOTE......Page 263

Citation preview

L’autore

Vito Mancuso, teologo e filosofo, ha insegnato presso l’Università VitaSalute San Raffaele di Milano e l’Università degli Studi di Padova. È autore, tra gli altri libri, di L’anima e il suo destino (2007), La vita autentica (2009), Obbedienza e libertà (2012). Il suo pensiero è oggetto di una monografia uscita in Germania nel 2011 (Essentials of Catholic Radicalism. An Introduction to the Lay Theology of Vito Mancuso). Per Garzanti ha pubblicato Io e Dio. Una guida dei perplessi (2011), Il principio passione (2013), Io amo. Piccola filosofia dell’amore (2014), Questa vita (2015), Dio e il suo destino (2015), Il coraggio di essere liberi (2016), Il bisogno di pensare (2017) e La via della bellezza (2018). www.vitomancuso.it twitter @vitomancuso

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www.illibraio.it In copertina: elaborazione da © praetorianphoto/Getty Images Progetto grafico: Mauro De Toffol / theWorldofDOT ISBN 978-88-11-81289-0 © 2019, Garzanti S.r.l., Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale: ottobre 2019 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

LA FORZA DI ESSERE MIGLIORI

A J. K. che da almeno dieci anni mi diceva di scrivere un libro sulle virtù cardinali

«Raccomandate ai vostri figli di essere virtuosi; perché soltanto la virtù può rendere felici, non certo il denaro. Parlo per esperienza.» Ludwig van Beethoven, Lettera del 6 ottobre 1802

PROLOGO

Guardatevi attorno: tutti vivono, solo alcuni esistono. Vivono, ma non esistono, perché in-sistono, perché cioè si collocano dentro, dentro la catena, alimentare e di altro tipo, della vita. Alcuni, invece, e-sistono, hanno il coraggio di collocarsi fuori, di esistere nel senso radicale del termine indicato dalla filologia. E così vanno alla ricerca della forza di essere migliori. In questo mondo tutti vogliono essere i migliori, ben pochi, invece, si curano di essere semplicemente e autenticamente migliori: cioè di lavorare su di sé, individuare i propri vizi, estirparli, far fiorire le virtù e così non limitarsi a vivere ma iniziare a esistere. Nel linguaggio ordinario vivere ed esistere sono sinonimi; anzi, vivere ha tendenzialmente un significato più forte, perché si ritiene che tutto ciò che c’è esista, anche i sassi e i lampioni, mentre solo i viventi vivano. Se si riflette, però, la differenza tra i due verbi appare chiara ed emerge il senso forte di esistere. Il vivere in natura consiste nel nutrirsi e nel riprodursi, ovvero cibo e sesso; gli umani vi aggiungono una terza dimensione fatta di onori, inchini, sfilate, vestiti, profumi, gioielli, decorazioni, divertimenti e altre cose di questo genere di cui vanno ghiotti, anche perché esse risultano strettamente legate al cibo e al sesso di cui incrementano l’afflusso, ovvero: più onori e più divertimenti, più cibo e più sesso. Non è così? Il cibo, il sesso e le varie manifestazioni dell’aggregazione sociale sono le operazioni che alimentano la vita fisica e psichica dei più e che li tengono in vita, espressione da intendersi esattamente nel senso che li tengono legati alla catena della vita: li tengono in vita, ma, tenendoli, li legano e li incatenano; sono vivi, ma ridotti in prigionia. Montale l’aveva espresso a modo suo: «So che si può vivere / non esistendo, / emersi da una quinta, da un fondale».1 Non esistono, in-sistono: sono in, dentro, chiusi dentro. Di contro il verbo esistere esprime quello che indica la sua etimologia. Il verbo latino originario è formato dalla preposizione ex, che in questo caso significa «fuori», e dal verbo sistere che significa «porre, collocare,

collocarsi», per cui ex-sistere propriamente significa «venir fuori».2 Esiste chi viene fuori. Da cosa? Dal vivere ordinario, dalla vita come catena, alimentare e di altro tipo, che ci tiene in vita tenendoci prigionieri. Oppure, per riprendere l’immagine antica di secoli, dalla vita come caverna, dove pure si è tenuti prigionieri, incatenati e con la faccia al muro, e stranamente felici di esserlo. Pensare significa elaborare informazioni e tutti i viventi, per il fatto stesso di vivere, elaborano informazioni. L’elaborazione di informazioni in funzione della vita è prevedibile, circolare, ripetitiva; non è azione, è solo reazione, produce un pensare sostanzialmente prigioniero, termine che in latino si dice captivus perché la prigionia, oltre a essere cattività, a volte genera cattiveria. Il pensiero generato dalla e-sistenza costituisce invece un salto perché nasce dal collocarsi fuori, è il primo atto di libertà intesa come liberazione, è visione dall’alto, immaginazione creativa, sogno, ideale, utopia. Questo libro si intitola La forza di essere migliori e si basa su una duplice convinzione: 1) che incombe su di noi l’urgenza di essere diversi, di cambiare, di essere migliori nel senso di iniziare davvero a esistere; 2) che l’essere umano è un essere capace di migliorare. Dico urgenza proprio nel senso comune del termine, come quando si chiama l’ambulanza e una volta giunti al Pronto soccorso si riceve il codice rosso. Con questo non sostengo che noi come occidentali, e in particolare come italiani, siamo già da codice rosso, dico però che vi siamo vicini e che forse ci aggiriamo nella zona di pericolo immediatamente sotto. A parole non tutti saranno d’accordo con me, nei fatti però sono sicuro che ogni persona avverta dentro di sé un senso diffuso di insicurezza, mancanza, disagio, preoccupazione, la cui definizione più appropriata è paura. Paura di cosa? Paura del futuro. Il futuro ha sempre fatto paura all’umanità. Da lì sono sorti l’incubo della fine del mondo, l’attesa angosciosa della conflagrazione di tutte le cose, il tremore e a volte il terrore del giudizio universale, le altre varie minacce della letteratura religiosa di stampo apocalittico, e anche l’ansia meno spirituale e più terrena di non arrivare alla fine del mese. Il futuro però conteneva in sé anche una dimensione positiva per l’attesa e la speranza che qualcosa potesse davvero cambiare in meglio: si spiegano così il messianismo religioso, l’utopia politica, il mito del progresso, le «magnifiche sorti e progressive»,3 nonché il sentimento diffuso che per i figli le prospettive di vita sarebbero state migliori rispetto a quelle dei padri. Oggi, salvo eccezioni, queste proiezioni non ci sono più. Il futuro ha

perso buona parte della sua carica positiva e con la sua intatta carica negativa fa quasi unicamente paura. Sarà perché la popolazione invecchia, sarà per il graduale venir meno della fede in Dio e nel suo paradiso, sarà per la fine delle ideologie e il conseguente tramonto del «sol dell’avvenir», sarà per il sempre più rapido mescolamento delle etnie e la conseguente difficoltà a riconoscersi in un determinato popolo e in un determinato territorio, sarà per chissà quali altri motivi, il dato di fatto è l’ansia crescente di molti. A mio avviso la causa principale di questa diffusa paura del futuro è l’impressione generale che nessuno sia in grado di esercitare sulla situazione un controllo degno di questo nome. Forse in altre zone del mondo non è così, vi sono paesi in cui i più hanno la sicurezza di avere un timoniere alla guida della nave e semmai il loro problema è esattamente al contrario quello di un controllo eccessivo, di una rotta stabilita da altri da cui per il singolo è quasi impossibile anche solo deviare. Ma cos’è psicologicamente e vitalmente meglio: il desiderio della libertà o la paura della libertà? Di certo nel passato neppure in Occidente vi era questa sensazione ansiogena di mancanza di controllo. Allora quasi tutti erano più o meno convinti che a controllare ci pensasse Dio, il cui mestiere consisteva proprio nell’essere il grande e onnipotente controllore del mondo; è vero che non sempre l’esito del lavoro divino risultava rassicurante a causa di qualche pestilenza o terremoto o guerra di troppo, per non parlare della diffusa mortalità infantile che non di rado portava via i figli ancora bambini e di molti altri lati oscuri dell’esistenza che poi, una volta divenuti oggetto di consapevolezza, hanno condotto al crollo più o meno generalizzato di questa fede nella «provvidenza»; tuttavia rimaneva il fatto che i più erano convinti dell’esistenza di un governo del mondo e della loro personale esistenza che, giusto o sbagliato che fosse, rappresentava un punto di riferimento, e se si voleva protestare si aveva pur sempre qualcuno contro cui poterlo fare. Lo stesso valeva per la dimensione sociopolitica, a proposito della quale era evidente il controllo dell’imperatore o del re e per altri aspetti del papa, come in epoca più recente il controllo del partito e della sua ideologia capace di infondere alla coscienza di non poche persone la salda sicurezza di una visione «sistematica», se non addirittura «scientifica», della realtà. Oggi coloro che dispongono della sicurezza proveniente da una fede religiosa o da un’ideologia politica sono sempre meno, e tra le giovani generazioni quasi nessuno più se ne cura. Oggi nella nostra mente, più spesso nel nostro cuore e nelle nostre viscere, è diffusa l’impressione che nessuno abbia davvero la

possibilità di governare la situazione e che quindi il mondo sia praticamente fuori controllo. Ma cosa sfugge di preciso al nostro controllo? La risposta è: il nostro potere. Abbiamo un potere fisico sul mondo quale mai l’umanità prima di noi ha avuto, che risulta però più forte del controllo che su di esso dovremmo esercitare. Siamo paragonabili a un’automobile con un motore potentissimo ma senza volante e freni adeguati; o a un essere umano con i muscoli d’acciaio ma il cervello d’argilla, o con il cervello d’acciaio ma il cuore di ghiaccio. Abbiamo muscoli e intelligenza fredda, manchiamo di intelligenza calda, di quel calore che chiamiamo calore umano e di cui ognuno vorrebbe essere circondato. Il potere dell’umanità sull’umanità cresce a dismisura, e riguarda le cose fuori di noi e le cose dentro di noi. Ma fuori o dentro che sia, si tratta in ogni caso di un potere sulle cose e che come tale si traduce nella costruzione di macchine. L’espressione per eccellenza del nostro potere sono le macchine. Talora grandi, più spesso piccole, alcune già così piccole da essere quasi invisibili, esse svolgono sempre più funzioni al nostro posto compiendole in modo più efficace ed economico di quanto noi facevamo prima e potremmo fare adesso. Alcuni sostengono che queste macchine in cui si condensa il nostro potere giungeranno un giorno non lontano anche a ospitare la nostra anima, quando risulterà chiaro che tale cosiddetta anima non è altro che un algoritmo che si può scaricare dal nostro cervello biologico e poi ricaricare in una macchina, insomma un software da far girare in un hardware costruito con fattezze più o meno umane che ieri si chiamava robot, oggi umanoide, domani chissà. Quindi di cosa abbiamo paura? Abbiamo paura di noi stessi, o meglio, di alcuni tra noi. Il potere di alcuni esseri umani ci fa paura. Abbiamo paura del potere umano di modificare la natura: la natura esterna a noi, e soprattutto la natura interna a noi, la nostra natura. Abbiamo paura dell’intelligenza artificiale con la sua capacità di trasformare il nostro mondo da mondo di uomini a mondo di macchine, e abbiamo paura dell’ingegneria genetica con la sua capacità di trasformare il nostro genoma da elaboratore naturale a elaboratore artificiale ed eteroguidato. Ma io vi chiedo: conoscete qualcosa di più sacro della natura? Al suo cospetto, di fronte al suo muto e immenso mistero, i nostri padri si inchinavano, non di rado tremavano di paura, ma il più delle volte alla fine trovavano requie, pace, silenzio, secondo un’arcana primordiale religiosità, e

in tal modo si generava in loro un senso indicibile di venerazione che riempiva di significato la vita. Noi abbiamo raggiunto il potere di modificare tutto questo. Anzi, noi abbiamo già modificato, forse irreversibilmente, tutto questo: sia la natura fuori di noi, sia la natura dentro di noi. Per questo ormai da alcuni anni vi è chi sostiene che siamo entrati in una nuova era geologica: finita Olocene, è iniziata Antropocene.4 Qualcuno arriva a paragonare noi umani a una sorta di tumore maligno di cui è caduto vittima il pianeta, ci considera alla stregua di cellule cancerogene che si moltiplicano in modo sconsiderato all’interno dell’organismo terra portandolo inesorabilmente alla morte. Quello che a mio avviso è sicuro è che alla nostra immensa crescita tecnica non fa riscontro un’analoga crescita etica. Noi lo sentiamo e per questo avvertiamo un acuto bisogno di controllo sulla potenza tecnologica raggiunta, ma è chiaro che non vi potrà mai essere controllo senza autocontrollo. E se il controllo si chiama politica, l’autocontrollo si chiama etica. Dall’attuale povertà dell’etica discende l’attuale povertà della politica e la conseguente assenza di quel necessario controllo sulla potenza tecnica acquisita. Che fare quindi? Si dice nel vangelo che Gesù fanciullo «cresceva e si fortificava, pieno di sapienza».5 Anche noi cresciamo e ci fortifichiamo, ma trascuriamo di crescere in sapienza, con il risultato che questa nostra crescita fortificata rischia di diventare la nostra tomba. Come dice un antico detto indiano citato da Tagore: «L’uomo prospera con la malvagità, conquista ciò che sembra desiderabile, sconfigge i suoi nemici, ma muore alla radice».6 Per non far morire la radice santa dell’umanità, è indispensabile tornare a crescere anche in sapienza. Per questo io ritengo che l’etica debba entrare di diritto nel kit di sopravvivenza dell’umanità: non è più sostenibile istruire la mente trascurando l’educazione del cuore, inteso quale centrale operativa della volontà. Il dato di fatto purtroppo è esattamente il contrario: le nostre scuole hanno abbandonato la dimensione educativa, sono concentrate unicamente sulla dimensione conoscitiva, per cui oggi frequentarle significa ricevere (quando va bene) informazioni, ma ben poca, o il più delle volte nessuna, formazione. Senza formazione però le informazioni generano solo una conoscenza finalizzata al profitto, cioè alla cosa più naturale e più scontata del mondo, quella conoscenza sfruttatrice e strumentale che sta minacciando gli ecosistemi del nostro pianeta e l’ecosistema del nostro cuore.

Si tratta di una tendenza antica, visto quello che Montaigne scriveva nel Cinquecento, con la sola differenza che egli si riferiva al greco e al latino mentre noi oggi parliamo di inglese e di economia: «Domandiamo volentieri: Sa di greco o di latino? Scrive in versi o in prosa? Ma la cosa principale era chiedere se è diventato migliore o più saggio […]. Noi lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l’intelletto e la coscienza».7 Non lasciare vuoti l’intelletto e la coscienza significa alimentare la capacità di pensare in modo eticamente responsabile, e quindi diventare umanamente migliori, più saggi: e se questo era un problema già qualche secolo fa, ai nostri giorni è diventato una vera e propria urgenza. La mentalità oggi dominante, però, guarda all’etica come a una specie di soprammobile d’altri tempi, come a un vezzo che alcuni dal cuore troppo tenero, per questo detti spregiativamente «buonisti», si ostinano a esercitare. Ai nostri giorni hanno un doppio valore le parole che Hannah Arendt riservava all’America degli anni Sessanta: «Imbrogliare era divertente, mentre la virtù era una noia mortale, e non se ne poteva più dei moralisti». E per far capire cosa intendesse, la grande filosofa proponeva un esempio a noi diventato molto familiare: «Nessuno disse che era sbagliato il programma televisivo a quiz, che una domanda di 64.000 dollari era come un invito a comportarsi in maniera fraudolenta».8 Oggi questi comportamenti, che ancora scandalizzavano colei che scrisse La banalità del male, non scandalizzano più nessuno, sono diventati banalità. L’etica però non è un soprammobile ingombrante, né un lusso che ci si può concedere dopo che tutti i bisogni essenziali siano stati soddisfatti; al contrario, è sempre stata uno strumento imprescindibile della coesistenza umana, e oggi a maggior ragione è diventata indispensabile per la sopravvivenza dell’umanità. È semplicemente per sopravvivere infatti che noi dobbiamo imparare a essere più leali, più saggi, più fedeli, più capaci di capire e di agire secondo giustizia. L’etica non è un optional, è un must. Non ci credete? Date un’occhiata ai paesi nei quali l’etica civile è rispettata e la corruzione è al minimo, confrontateli con quelli dove quasi tutti fanno i furbi, chiedetevi dove si vive meglio e tirate le conclusioni. Oggi non solo il mondo non si può più permettere la furbizia avida e predatoria degli esseri umani, non se la possono permettere più neppure gli stessi esseri umani, se vogliono rimanere tali. Le risorse del pianeta sono strutturalmente limitate, basti pensare all’acqua dolce, alle foreste, al suolo coltivabile; gli esseri umani invece

aumentano sempre più, e insieme a loro aumentano sempre più i poteri della tecnologia. I piccoli paesi e le campagne sono destinati a spopolarsi, le grandi città sono destinate a diventare metropoli, le metropoli megalopoli, le megalopoli non so. Alcune di queste, come Lagos, San Paolo, New Delhi, Città del Messico, potranno presto arrivare a oltrepassare i 30 milioni di abitanti: metà della popolazione italiana concentrata in un’area ristretta! Sarà possibile convivere senza divorarsi? Se si rimane umani, sì. Altrimenti, no. Essere migliori è diventato un’urgenza, il lavoro etico che compete a ognuno di noi sta per ricevere il codice rosso nel Pronto soccorso dell’umanità. Il cambiamento prodotto dalla tecnologia è irreversibile, ma proprio per questo deve diventare altrettanto irreversibile il miglioramento interiore di ognuno, il non lasciare vuoti l’intelletto e la coscienza. Si tratta di adeguare la nostra volontà alla nostra intelligenza. Ognuno di noi, oltre che sentimento, è intelligenza e volontà: non si può crescere in intelligenza, intesa qui come conoscenza di dati, senza crescere in volontà, perché la crescita dell’intelligenza senza una pari crescita della volontà genera un’immensa quantità di forza senza controllo. Praticamente dei mostri. Siamo cresciuti e ogni giorno cresciamo in intelligenza operativa, altrettanto però dovremmo fare in volontà consapevole, se vogliamo ottenere almeno un po’ di quell’autocontrollo etico necessario per il controllo politico di cui abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo. Quanto permette a un essere umano di crescere in volontà e consapevolezza si chiama virtù. La virtù è la forza della volontà; più precisamente, è la forza della volontà indirizzata al bene e alla giustizia. Questo indirizzo non si fonda di per sé sul voler essere buoni, ma sull’aver capito che essere buoni e giusti è da sempre la via più efficace per vivere bene. Oggi iniziare a essere migliori è la via obbligata per sopravvivere. La questione è dove si possa trovare la forza per questa crescita della volontà e della consapevolezza che ci conduce al passaggio dal vivere all’esistere e ci fa essere migliori. Io penso che essa sia dentro di noi; in particolare nel nostro passato, nella grande sapienza che il passato ancora oggi ci trasmette. È grazie agli antichi che siamo qui, è grazie a loro che possiamo parlare e prima ancora pensare. Il nostro linguaggio viene da lontano, e insieme al linguaggio anche la sapienza e la saggezza in esso condensate. In questo libro cercherò di contribuire alla crescita della nostra consapevolezza e della nostra volontà per recuperare capacità di controllo sul nostro futuro, e lo farò attingendo per lo più al nostro passato. È infatti il

passato la fonte della nostra energia spirituale, le sue immense ricchezze sono i giacimenti di gas naturale e i pozzi di petrolio della nostra interiorità. Se spezziamo i legami con il nostro passato rimaniamo senza fonti di energia spirituale, quindi incapaci di generare quell’autocontrollo che si traduce in etica e quel controllo che si traduce in una politica degna di questo nome, finendo vittime di un potere privo di visione e della paura che esso genera in noi. Se al contrario rafforziamo i legami con il nostro passato, dal tesoro della sua sapienza spirituale può sorgere dentro di noi la forza in grado di alimentare la nostra volontà e la nostra consapevolezza, e così renderci capaci di affrontare la sfida di rimanere umani. O forse meglio, di iniziare a diventarlo.

I. DIVENTARE

1. L’obiettivo In questo mondo tutti vorrebbero essere i migliori, ben pochi invece si curano di essere semplicemente migliori. L’aggettivo «migliore» è in sé un comparativo, ma, preceduto dall’articolo determinativo, diventa superlativo, grado dell’aggettivo che esprime superiorità in senso assoluto. E la superiorità è ciò che l’appetito istintuale suggerisce a ciascuno, lo mostra già Omero nel mettere sulla bocca di Peleo il seguente consiglio per il figlio Achille: «Primeggiare sempre ed essere superiore agli altri».1 Non si tratta solo di volontà di potenza o, come oggi si usa dire, di successo; si tratta, più precisamente, di volontà di potenza sugli altri, cioè di volontà di potere, della tendenza al primato, dell’affermazione di sé come predominio e supremazia, della vittoria propria in quanto sconfitta altrui. Il che si applica tanto ai singoli individui quanto ai gruppi, alle istituzioni, alle ideologie, alle fedi. Questa concezione della vita è raffigurata al meglio dalla piramide, al cui vertice ognuno anela a collocare se stesso o il proprio ideale, e la cui base è data da tutti gli altri esseri umani o da tutti gli altri ideali considerati inferiori. Dato però che il vertice, per definizione, spetta logicamente a uno solo, il fatto che vi aspirano in molti produce quell’incessante competizione sotto gli occhi di tutti; anzi, prima ancora dentro gli occhi di tutti. È l’impostazione da sempre dominante tra gli esseri umani: voler essere i migliori per avere supremazia sugli altri, per vincerli, comandarli, riceverne obbedienza e ossequio, e così godere della propria potenza. La visione della vita che proviene da questo desiderio di essere i migliori è connotata necessariamente in modo sociale, nel senso che chi la fa propria è poi costretto a determinare se stesso in funzione degli altri. Lo fa per vincerli e dominarli, è chiaro, ma tale sua continua competizione non può non determinare ciò che egli diviene in se stesso, con la conseguenza, alla fine, che la sua effettiva identità non è più sua, non è più la sua, ma è quella che

gli deriva dal gruppo su cui desidera primeggiare. Scriveva Spinoza venticinquenne, circa un anno dopo essere stato scomunicato dalla sinagoga di Amsterdam: La ricerca degli onori è di grande impedimento giacché, per conseguirli, bisogna necessariamente prendere a modello di vita i più, evitando ciò che tutti gli altri evitano e cercando ciò che tutti cercano.2

Avviene così che uno risulti di fatto il migliore e raggiunga il vertice dell’azienda, del partito, del movimento, dell’intera nazione o di qualunque altra istituzione abbia inteso scalare, senza che però diventi mai effettivamente migliore in se stesso, nella propria singolare autenticità. È il migliore, ma non è realmente migliore, neppure nel senso minimo di migliorato; è solo superiore. Come però il vertice della piramide non potrebbe sussistere senza la base e il corpo del solido, così chi vive per essere superiore agli altri viene dagli altri necessariamente sorretto e quindi plasmato. È un dato di fatto, purtroppo: sono pochi gli esseri umani da cui scaturisce la musica interiore del loro vero sé. Rendendosene conto, Shakespeare mise sulla bocca di Amleto queste parole rivolte all’amico Orazio: «Beati coloro che hanno il sangue e il senno così ben temperati da non fare da pifferi alle dita della Fortuna perché ella possa suonare la nota che le garba».3 Beato cioè chi con la sua vita non ripete una melodia composta da altri, o che addirittura si vende volta per volta suonando per chi paga di più; beati coloro, tanti o pochi che siano, che sono compositori ed esecutori creativi della propria esistenza. Tendere a essere migliore significa avere come scopo il proprio vero sé. La meta, in altri termini, non è determinata dagli altri su cui si desidera primeggiare, ma è da sempre inscritta al nostro interno e consiste nel comprendere la nostra effettiva condizione con i suoi pregi e i suoi difetti lavorandovi per farne emergere la più vera essenza. Essere migliori significa lavorare per diventare veramente se stessi, programma già tracciato da Pindaro nella Grecia di più di duemila anni fa: «Diventa ciò che sei».4 Jaspers ha scritto di Spinoza che aveva un «modo di divenir se stesso che non pensa alla propria persona».5 Non è bellissimo? Essere se stessi, senza pensare a se stessi; coltivare il proprio ego, senza essere egoisti; diventare se stessi, senza incrementare il proprio narcisismo; sviluppare relazioni, senza produrre attaccamento. Ma è davvero possibile? Come si fa a coltivare il proprio sé, senza concentrare tutto su di sé? Come incrementare l’ego, senza renderlo egoista? Sarà mai possibile questo movimento così diverso rispetto a quanto di solito si osserva nella vita di tutti i giorni, dove si incontrano

persone di valore con un ego ipertrofico, o persone prive di egoismo ma anche di sapore? Spinoza, dice Jaspers, non volle altro che «pensare e vivere il vero»,6 e io penso che questo si debba dire di tutti i grandi maestri spirituali, siano essi filosofi (quali Platone, Aristotele, Marco Aurelio, Kant, Hannah Arendt, che in queste pagine avranno molto rilievo), o mistici, artisti, scrittori, musicisti o persone senza un particolare talento ma non per questo non in grado di insegnare, di segnare-in, di lasciare un segno dentro, trasformando interiormente la vita di chi le incontra. Per tutti è comunque questa la via: pensare e vivere il vero. È questo il sentiero per «diventare ciò che si è». Non si tratta solo di pensare, si tratta anche di vivere; non si tratta solo di vivere, si tratta anche di pensare. Pensare e vivere insieme: ecco il metodo, inteso proprio nel suo senso etimologico di via o cammino,7 per accostarsi alla verità; per comprenderla, certo, ma soprattutto per farsi prendere da lei e così diventare veri. Diventare ed essere se stessi non significa in nessun modo dire di sì a tutti i propri impulsi, voglie, capricci, servendo una meta che coincide con il proprio immediato e istintivo desiderare. Al contrario, significa camminare verso qualcosa di più grande del proprio immediato e istintivo desiderare e quindi più grande di sé, un qualcosa denominato in vari modi di cui i principali sono verità, bene, bellezza, giustizia, divino. Quando il sé si orienta nella direzione di pensare e vivere il vero, trova la via per essere migliore e sorreggere l’ego senza cadere nell’egoismo. Lo scopo di questo libro è illustrare questa via e discutere dove e come si possa trovare la forza di percorrerla.

2. Diventare ciò che si è «Diventare ciò che si è»: il verbo diventare rimanda a un processo e indica due cose. La prima è che ognuno di noi, così come vive immediatamente, non è ciò che è veramente; che cioè tra la nostra vita di fatto e la nostra esistenza autentica non si dà coincidenza immediata, e che quindi essere se stessi richiede un lavoro, nonché la forza di poterlo svolgere. Nasciamo dipendenti in tutto e per tutto e trascorriamo buona parte della vita da gregari, ovvero, come dice la radice dell’aggettivo, completamente inseriti all’interno di un gregge che ci determina nella direzione, nella velocità, nello stile e quindi necessariamente nell’identità. Il lavoro dell’etica nella sua fase

iniziale consiste quindi anzitutto nel distaccarsi dal gregge, nel cominciare a camminare in solitaria e diventare in questo modo egregi, letteralmente «fuori dal gregge» (ex-grege). Per diventare se stessi si deve anzitutto decidere di non essere più come ci vogliono gli altri, siano essi i genitori, gli amici, il partner, i figli, il movimento, la religione, la moda, la società dei consumi e chissà che altro. La seconda conseguenza implicita nel verbo diventare è l’indicazione che si tratta di un lavoro realizzabile: è cioè davvero possibile diventare ciò che si è. Diversamente da chi afferma, magari con un’alzata di spalle: «Guarda, non ci posso fare niente, io sono fatto così», l’insegnamento delle grandi tradizioni spirituali è unanime nell’affermare il contrario: ognuno può cambiare la sua condizione di partenza e diventare migliore realizzando autenticamente se stesso. I frutti del lavoro interiore sono del resto facilmente riconoscibili, basta aprire gli occhi per vedere che vi sono esseri umani che, a prescindere dal successo ottenuto, in quanto umani risultano falliti: sono incapaci di ascolto e di contatti reali perché imprigionati dentro la terribile gabbia mentale dell’ego; oppure tragicamente scontenti di sé e della vita, imbruttiti, sfiduciati, incattiviti; oppure sommersi nelle acque salmastre dell’ignoranza e della stupidità. E vi sono invece altri esseri umani che vivono lieti, sereni, grati della loro condizione; persone sul cui volto risplende la luce dell’intelligenza e della bontà, che hanno saputo conservare la fiducia nella vita e l’attenzione al suo inesauribile mistero, che non hanno tradito l’energia dell’infanzia ma hanno conservato la capacità di stupirsi e per questo infondono gioia al solo incontrarle. Insomma vi sono persone infelici e colleriche che trasmettono energia negativa e vi sono persone felici e serene che trasmettono energia positiva. Da cosa dipende questa differenza? Non è facile rispondere, ma io penso che dipenda in gran parte dal lavoro compiuto. Esattamente come quando si vede un giardino o un vigneto e l’occhio esperto riconosce all’istante la qualità della fatica profusa, allo stesso modo quando si sente parlare o si osserva in azione un essere umano è sufficiente poco per rendersi conto della qualità della sua interiorità e intravedere le erbacce o i frutti saporiti che essa nasconde. Il lavoro interiore infatti consiste anzitutto nello sradicamento delle erbacce e delle malapiante che, chissà perché e chissà da dove, spuntano spesso dentro di noi, e poi nell’assidua coltivazione del terreno in cui riposa il seme del più autentico sé per farlo fiorire e fruttificare.

3. Una questione di igiene Volendo esprimere il concetto con un’altra metafora, direi che il lavoro interiore è primariamente una questione di igiene. Quando si parla di igiene pensiamo d’istinto al corpo, il che è normale visto che il corpo si sporca quotidianamente per il fatto stesso di vivere: gli avanzi di cibo si depositano sui denti, il sudore si secca lasciando un sentore di acido, le cellule morte si accumulano, e la continua secrezione di sebo che rende morbida la pelle finisce per renderla anche inevitabilmente maleodorante. Il nostro corpo produce sporcizia per il fatto stesso di essere, non ne può fare a meno, e ci obbliga a lavarlo con cura. Ma io chiedo: questa cura dell’igiene non dovrebbe valere allo stesso modo anche per la nostra interiorità? Non si sporca anche lei per il fatto stesso di vivere? Non richiede anche lei di essere pulita? E se sì, qual è la sua doccia o il suo spazzolino? Con il termine volutamente neutro di interiorità intendo quella dimensione del nostro essere variamente denominata, per esempio psiche, sé, mente, coscienza, cuore, anima, spirito, ipseità, ego, io… su cui le opinioni degli umani non sono mai state concordi e oggi risultano più confuse che mai. Ebbene, il lavoro interiore consiste nel ripulire e risanare questa nostra misteriosa ma reale interiorità. Come ci prendiamo cura del corpo mediante l’igiene personale, così dovremmo lavare, spazzare, strigliare la nostra interiorità. Essere migliori in questa prospettiva è quindi anzitutto una questione di igiene, al fine di ottenere, come si usa dire, una coscienza pulita. È infatti proprio quella peculiare disposizione della nostra più preziosa energia interiore che chiamiamo coscienza, su cui mi soffermerò con attenzione più avanti, il principale fattore che ci fa essere migliori come esseri umani.

4. Migliori come esseri umani Migliori come esseri umani? Non sto dicendo migliori come studenti, insegnanti, artigiani, dirigenti, atleti, giudici, imprenditori o che altro, secondo i sempre più esigenti parametri che ci vengono quotidianamente richiesti dal mondo del lavoro, sia per entrarvi sia per rimanervi. Sto dicendo migliori come esseri umani, del tutto a prescindere dalla professione, anche se non senza una palpabile ricaduta su di essa, perché quando uno è migliore come essere umano sarà anche migliore professionalmente (a meno che di

professione non sia un ladro, un killer o un’altra delle varie figure criminali per interpretare le quali occorre davvero essere «cattivi dentro»). Ma è possibile essere migliori come esseri umani? E prima ancora, cosa significa esattamente? Essere migliori come esseri umani significa esercitare l’intelligenza in modo da comprendere veramente le diverse situazioni della vita acquisendo quella penetrazione e ponderazione delle cose che si chiama saggezza. Significa esercitare la volontà in modo da dirigerla a volere non il proprio scontato interesse, come fanno d’istinto coloro che sono privi di educazione morale, ma ciò che tutti riconoscono come equo e corretto, cioè la giustizia. Significa rispettare la parola data, rimanere saldi, perseverare, resistere, avere coraggio nell’aprire strade nuove, esercitando la fortezza. Significa procedere con equilibrio, centrare quel giusto mezzo che fa sì che una parola o un’azione sia, come la grande musica, «ben temperata», praticando la temperanza. Saggezza, giustizia, fortezza e temperanza costituiscono le cosiddette virtù cardinali.8 Denominate così dalla tradizione cristiana, esse sono più antiche di secoli perché provengono dalla filosofia della Grecia classica. Esercitarle quotidianamente significa diventare migliori come esseri umani. Queste virtù, queste disposizioni della nostra energia interiore definibili «forze del bene», ci possono rendere più saggi, più giusti, più forti, più temperanti e quindi umanamente migliori.

5. Laboratorio, esperimenti, teoria Paragono la vita etica di ognuno di noi a un laboratorio. Un tempo il termine di paragone più adatto sarebbe stato l’esercito o la chiesa o la scuola, perché per secoli l’etica fu elaborata in modo fortemente direttivo, catechistico e scolastico, finalizzando ogni assunto all’inquadramento dell’individuo in un’istituzione e basandosi per lo più sul principio di autorità che in ambito etico vigeva come qualcosa di indiscutibile. A seguito del crollo di tale indiscutibilità etica, oggi la situazione è completamente diversa e per questo io penso che lo spazio in cui tentiamo di far corrispondere le nostre vite agli ideali etici sia paragonabile non più a un luogo dove si impartiscono ordini e lezioni ma a un luogo dove si conducono esperimenti. Ovviamente gli esperimenti possono riuscire o fallire, anzi di solito per ottenere un esperimento riuscito occorre realizzarne molti che falliscono,

quindi non so se i lettori di questo libro avranno alla fine le idee più chiare oppure più confuse; né, d’altra parte, so se una certa indeterminazione sia sempre un male oppure possa giovare ad accostarsi con saggia moderazione ai casi complicati della vita. Quello che so è che il laboratorio è il luogo degli esperimenti e che gli esperimenti non si fanno tanto per farli ma per verificare una teoria. Sicché, se la pratica etica è analoga a un laboratorio, per poterla realizzare occorre essere in possesso di una filosofia di vita o visione del mondo. Il fine dell’esperimento è verificare una teoria, sulla cui base vengono poi configurati i necessari strumenti tecnici. Si pensi al cosiddetto «bosone di Higgs», detto anche «campo di Higgs», la cui scoperta è stata ufficialmente annunciata al Cern di Ginevra il 4 luglio 2012: dapprima il fisico teorico Peter Higgs postulò nel 1964 l’esistenza di una particolare particella subatomica a suo avviso necessaria perché il modello standard dell’universo potesse avere piena coerenza, poi i fisici sperimentali del Cern presero sul serio la sua teoria e scavarono un tunnel lungo 27 chilometri a 100 metri di profondità, dove presero a sparare miliardi di speciali particelle dette adroni facendole viaggiare a una velocità vicina a quella della luce e portandole a scontrarsi tra loro, e alla fine, analizzando le collisioni, giunsero a trovare l’effettiva esistenza di quella particella altrimenti ribattezzata «particella di Dio» in quanto generatrice della massa materiale. È quanto avviene per tutte le acquisizioni scientifiche: prima la teoria, poi il laboratorio. Lo stesso deve valere per l’etica: prima la teoria, poi il laboratorio. Che cos’è una teoria? Il termine deriva dal greco antico e vuol dire «visione», ha la stessa radice di teatro e lo stesso significato di idea, che a sua volta letteralmente significa «visione». In particolare teoria significa «visione d’insieme»: vedo un dato, per esempio un essere umano; poi ne vedo un altro, per esempio un cranio di centomila anni fa; poi un altro ancora, per esempio lo scheletro di un ominide di un milione di anni fa; li collego cercando una spiegazione unitaria e ottengo una teoria, in questo caso la teoria dell’evoluzione.9 Dove nasce la teoria? Non nel laboratorio ma nella mente. Ebbene, qual è la teoria nata nella mia mente che intendo presentare in queste pagine sottoponendola alla verifica sperimentale?

6. La mia teoria

Espongo la mia teoria in un mondo come quello occidentale, e in particolare in una società come quella italiana di questi ultimi anni, che in prevalenza crede solo alla forza; non alla forza ordinata, non alla forza del bene che è la virtù, ma alla forza che conosce solo se stessa e che vuole solo imporsi per il gusto primitivo del trionfo esplicandosi come potere, fama, successo, ricchezza, e che vuole raggiungere questi obiettivi a qualunque costo e perciò non esita a prendersi gioco del bene chiamandolo buonismo e di chi lo pratica chiamandolo buonista. Espongo la mia teoria in un mondo in cui i più vogliono essere i migliori, senza curarsi affatto di essere migliori. In questa situazione in cui mi trovo a vivere e a operare, la teoria che ho concepito e che intendo verificare è la seguente: la virtù è il più sicuro orientamento della libertà per vivere bene. È quanto scriveva Beethoven: Raccomandate ai vostri figli di essere virtuosi; perché soltanto la virtù può rendere felici, non certo il denaro. Parlo per esperienza. È stata la virtù che mi ha sostenuto nella sofferenza. Io debbo a essa, oltre che alla mia arte, se non ho messo fine alla mia vita con il suicidio. State bene e amatevi.10

La mia teoria si può declinare in vari modi, per esempio dicendo che la bontà è meglio della malvagità, l’onestà meglio della disonestà, la sincerità meglio della menzogna, la gentilezza meglio della rabbia, la correttezza meglio della corruzione. Sembrano ovvietà e forse in teoria lo sono, però nella pratica quotidiana, dove spesso imperversano malvagità, disonestà, menzogna, rabbia, corruzione, non lo sono per nulla. Ma in che senso dico «meglio»? In base a un criterio fisico: la vita. Più precisamente, il mio criterio è la vita umana nella completezza delle sue dimensioni che riguardano il corpo, la psiche e lo spirito, intendendo con spirito la facoltà che ci permette talora di essere liberi (cioè consapevoli, creativi, responsabili). La virtù è quanto ci consente di praticare l’igiene della nostra interiorità e così di mantenerla in salute, evitando che l’accumulo della sporcizia produca infezioni interiori paragonabili alle carie che perforano lo smalto dei denti, o peggio alle cellule impazzite dei tumori. La virtù è il più efficace sistema immunitario contro i numerosi agenti patogeni che minacciano la salute della nostra interiorità. È quella preziosa energia interiore difficilmente denominabile ma che fa della nostra vita un’esistenza umana, uno stare al mondo umanamente degno. La mia profonda convinzione è che, per far fiorire la nostra vita a tutti i suoi livelli, la strada più efficace sia la virtù, da intendersi secondo le molteplici declinazioni su cui mi soffermerò in queste pagine. È fondata questa teoria? È sensato parlare di un’etica per vivere bene? Di

un’etica per non ammalarsi o per guarire? Esiste veramente un potere igienico e terapeutico della virtù? E se sì, come si esercita in concreto? Rispondere a queste domande costituisce l’esperimento che intendo condurre.

7. Un nugolo di domande Sono consapevole delle perplessità che la mia teoria può suscitare a causa del fatto che il concetto di virtù, e più ancora quello di bene, sono ai nostri giorni oggetto di innumerevoli controversie. A dire il vero già molti secoli fa Platone notava che sul bene le idee erano alquanto confuse: «Nel mondo delle realtà conoscibili l’Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande difficoltà».11 Noi oggi però non solo vediamo a stento l’Idea del Bene, ma corriamo il rischio di non vederla per nulla. Per questo ognuno di noi, appena sente parlare di bene e di virtù, non può evitare il sorgere di una serie di domande che lo trasportano in uno scivoloso labirinto concettuale. Le prime riguardano il bene e la virtù dal punto di vista oggettivo: Esiste il bene in sé? E se sì, cos’è? Oppure dicendo bene ci si riferisce a una dimensione inevitabilmente soggettiva e come tale relativa? E che cos’è, di contro, il male? Esiste il male in sé? Oppure il cosiddetto male dipende ogni volta dalla condizione del soggetto e dalle circostanze, così da risultare anch’esso inevitabilmente relativo? Si può, in altri termini, parlare di «bene assoluto» e di «male assoluto», o tali espressioni sono solo esagerazioni retoriche? Esiste un bene che sia tale veramente per tutti e che la tradizione chiama «bene comune»? Oppure il bene di alcuni è sempre necessariamente il male di altri, come avviene in natura dove il leone raggiunge il suo bene e quello dei suoi piccoli divorando la gazzella e i suoi piccoli? Come stanno le cose tra gli esseri umani? Anche nel mondo umano il bene di alcuni è necessariamente il male di altri, oppure è possibile almeno in parte superare la legge mors tua vita mea e instaurare uno stato di cooperazione sociale? Perché il bene dovrebbe essere sempre meglio del male? Il male talora non può a sua volta produrre bene? E il bene, troppo bene, non finisce a volte per produrre del male? Che rapporto c’è tra bene e male, e quindi tra virtù e vizi? Si tratta di un rapporto dualistico, che per il darsi del bene e della virtù esclude la

presenza del male e del vizio? Oppure si tratta di un rapporto complementare, che per il darsi del bene e della virtù include la presenza del male e del vizio? Altre domande concernono l’esperienza soggettiva di ognuno di noi alle prese con il tentativo di praticare il bene e la virtù: Come mi devo comportare nella routine quotidiana per operare bene e per respingere il male? Cosa significa in concreto fare il bene? E prima ancora, come faccio a capire qual è il bene e qual è il male nelle diverse e complicate circostanze della vita? È possibile essere davvero all’altezza del compito di stare sempre dalla parte del bene? Non è un po’ troppo impegnativo, troppo esigente, troppo stressante? Non è un compito tale da schiacciare l’essere reale dell’ego con il dover-essere precettistico del superego? Non significa condannarsi all’infelicità privandosi di una serie di piaceri della vita? Infine la domanda più importante, rispondere alla quale risulta esistenzialmente decisivo e teoreticamente fondativo: perché devo fare il bene? E perché devo farlo sempre, anche quando non mi conviene e posso ometterlo senza immediate conseguenze negative? Non è più conveniente barcamenarsi tra bene e male, un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, una dose di virtù e una dose di vizio, all’insegna di una filosofia di vita più salutare perché più conforme alla natura delle cose?

8. Il nostro più grande problema Questo nugolo di domande, a cui immagino se ne possano aggiungere altre, rimanda al più grande problema che in questo momento storico incombe su noi postmoderni occidentali. Le epoche passate avevano problemi per lo più legati alla vita fisica come la fame, il freddo, le epidemie, le guerre, oppure legati alla vita sociale come l’acquisizione dei diritti politici, la libertà di stampa, la libertà di religione, l’uguaglianza dei sessi. Gli esseri umani del passato avevano problemi che noi in buona parte abbiamo risolto, visto che mediamente godiamo di sicurezza fisica e di spazi di libertà come mai prima d’ora nella storia. Tuttavia sentiamo che c’è qualcosa che non va. Qual è dunque il nostro problema più grande? Esso riguarda quella dimensione che in precedenza ho chiamato

interiorità e consiste nella gestione di questa energia libera dentro di noi, che, se non è gestita o è gestita male, provoca malessere: il quale si manifesta o rimanendo al nostro interno e facendo male a noi stessi, quindi come depressione; oppure uscendo all’esterno e facendo male agli altri, quindi come aggressione, anzitutto nella forma potenziale detta aggressività. La nostra energia libera ha bisogno di direzione, prospettiva, senso, ma da sola il più delle volte non riesce a trovarli. Per questo nel passato fiorivano le religioni e le ideologie politiche, e sempre per questo ai nostri giorni fiorisce più potente che mai l’industria del cosiddetto intrattenimento, che intrattiene la nostra energia libera alla ricerca di una direzione e che da sola non sa dove trovarla. I sempre più pervasivi mezzi di comunicazione di cui dispone tale industria nutrono e guidano la nostra energia libera che così acquista una direzione, il nostro vuoto interiore si riempie, la nostra solitudine svanisce. Peccato, però, che la direzione venga a coincidere con il consumo, il vuoto sia riempito dalle chiacchiere, la compagnia ci sia offerta da una serie di volti sullo schermo che in quanto meri fantasmi mentali lasciano più soli di prima. E l’intrattenimento non è che un’altra forma, la più sofisticata, della catena che ci tiene o trattiene in vita facendoci prigionieri. In realtà, il più efficace intrattenimento che la nostra energia libera possa incontrare e di cui si possa nutrire è la bellezza del bene e della comunione umana. Più di ogni fiction e di ogni social, la realtà ideale e reale del bene condiviso è tale da riempire di senso la vita, e dico senso nella triplice valenza del termine: significato, sensazione, direzione. La bellezza del bene condiviso non si limita a intrattenere, ma, molto più profondamente, arriva a contenere la nostra energia interiore. La bellezza del bene condiviso non è un intrattenitore, è un grande contenitore. Possiamo dire di essa quanto il Nuovo Testamento dice di Dio, cioè che in lui noi «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo».12 Di sicuro infatti, quando una vita giunge al culmine della fioritura, questo avviene perché avverte di vivere, di muoversi e di esistere nell’amore e come amore, cioè precisamente nella bellezza del bene condiviso, donato e ricevuto, nella sua piena fioritura. Il tema al centro di questo libro è l’etica, non la teologia e la spiritualità; la filosofia morale, non la filosofia teoretica; ma si può dare etica senza una visione del mondo e della gerarchia dei valori che ne consegue? Ognuno risponda da sé; quanto a me, io penso di no. L’etica è la disciplina che si occupa dell’agire umano all’interno del mondo e come tale deve appoggiarsi su un sapere dell’uomo e su un sapere del mondo, e sulla relazione tra i due.

Per questo io penso che chi si accinge a proporre un’etica abbia il compito imprescindibile di chiarire a se stesso e poi di dichiarare agli altri quale sia la prospettiva filosofica in base a cui guarda il mondo e considera gli esseri umani. Occorre avere un’ipotesi di lettura della logica del mondo e della logica dell’umano, della grammatica mediante cui si esplica l’essere e il nostro esserci dentro in quanto esseri umani.

9. Logica del mondo e logica dell’umano Da tempo mi pongo la domanda se la logica del mondo sia la medesima della logica dell’umano oppure no. Chiarisco cosa intendo dicendo che è evidente che noi in quanto esseri umani siamo un prodotto della natura, più precisamente un frutto dell’evoluzione della vita apparsa quasi quattro miliardi di anni fa su questo nostro pianeta (se per caso o per necessità, se per la prima volta nell’universo oppure per l’ennesima, nessuno al momento lo sa) e in questo senso la logica che ci governa non può che essere la medesima di quella che governa ogni altro vivente. Questo però vale anche quando mettiamo in atto comportamenti etici? Oppure quelle volte che ci comportiamo eticamente, poche o tante che siano, emerge una logica diversa, per non dire opposta, rispetto alla «lotta per la vita» collocata da Darwin alla base della natura vivente? Il nostro poter ospitare comportamenti etici fa di noi il culmine di una tendenza intrinseca alla logica della natura, oppure ci pone come singolare eccezione rispetto a una condizione la cui unica logica è la guerra, «la guerra di tutti contro tutti» o bellum omnium contra omnes individuata da Hobbes,13 e secoli prima da Archiloco poeta e mercenario,14 e ancora prima chissà da quanti, quale stato di natura? Quando pratichiamo l’etica, siamo all’interno della medesima logica che governa la vita di tutti gli altri viventi, o entriamo in una dimensione che ci rende unici rispetto a tutti gli altri viventi? La risposta non è semplice e la mia si articola secondo una triplice scansione: esiste un’unica logica a governare l’essere nella sua totalità ed è la relazione; più precisamente, la relazione che produce armonia, ovvero quella tendenza intrinseca nell’essere conosciuto che conduce all’aggregazione e al nascere degli enti in quanto sistemi; tale unica logica relazionale non esclude il conflitto tra i singoli

sistemi, anzi essa si alimenta anche del conflitto, ma, come dice Eraclito, «da elementi che discordano si ha la più bella armonia»,15 armonia più bella alla quale il pensiero antico assegna il nome di cosmo; all’interno dei viventi tale unica logica relazionale si manifesta in misura diversa a seconda del grado di energia libera in essi presente. Argomento il mio pensiero affermando che tutte le cose che vediamo, e anche le cose che non vediamo, costituiscono un sistema. Considerate l’aria che in questo momento entra nei vostri corpi e li tiene in vita: essa è un sistema composto da molecole di azoto, ossigeno e argon, a loro volta formate da elementi detti atomi, a loro volta formati da particelle dette protoni, neutroni, elettroni, fino a giungere ai cosiddetti quark che, guarda caso, non si presentano mai da soli ma sempre in tre, più o meno come le note di un accordo musicale, per esempio Do Mi Sol nell’accordo in Do Maggiore. I nostri stessi corpi sono un complicatissimo insieme di sistemi e sottosistemi, a partire dall’unità di base della vita biologica che è la cellula. Anche questo mio discorso che parla di sistemi è a sua volta un sistema costituito da suoni, parole, frasi e da determinate regole che legano questi elementi tra loro dando forma e senso al linguaggio. La logica dell’essere, il suo principio costitutivo, la sua legge costituzionale, esiste e si chiama relazione. Anzi, relazione armoniosa, cioè tale da produrre sistemi. Questa logica fondamentale però non si realizza ovunque e sempre allo stesso modo, ma ogni ente, e ancor più ogni vivente, vi partecipa per quel tanto che è nelle sue possibilità. Prendiamo l’ossigeno. Su questo nostro pianeta (altrove non so), esso si incontra casualmente con l’azoto e la logica relazionale lo conduce a formare l’aria; si incontra casualmente con l’idrogeno e la medesima logica lo conduce a formare l’acqua. Allo stesso modo alcuni primitivi organismi unicellulari, insediatisi alla ricerca di cibo all’interno di altri organismi, vennero condotti dalla medesima logica di armonia relazionale a dare vita a fenomeni di simbiosi che li portarono a trasformarsi negli odierni mitocondri presenti nel nostro citoplasma causando così il passaggio dalle cellule procariote prive di nucleo alle cellule eucariote dotate di nucleo, momento decisivo nell’evoluzione della vita.16 Allo stesso modo ogni vivente cerca nutrimento per mantenersi in vita e la logica relazionale lo guida a contribuire alla riproduzione della specie, ponendo proprio in questo compito lo scopo fondamentale della sua esistenza. Così il leone sbrana la gazzella per nutrire sé e i propri piccoli, così la gazzella

estirpa l’erba sopprimendo vita vegetale per nutrire sé e i propri piccoli, e così ogni altro vivente si nutre come il suo istinto lo induce a fare ponendo il proprio esserci al servizio della specie favorendone la riproduzione, anche a costo della propria sopravvivenza. Tra i viventi apparsi su questo pianeta è solo l’essere umano, a causa della maggiore energia di cui è dotato, che può sottrarsi al compito naturale di porre la propria individualità al servizio della specie e agire unicamente in funzione di se stesso, a volte anche esplicitamente contro l’interesse della specie. È precisamente per questo che noi abbiamo da sempre bisogno di etica, cioè di quella disciplina che ci spinge a interpretare il nostro desiderio di vivere ponendolo in armonia con la logica relazionale che persegue il bene della specie o bene comune.

10. Il compito dell’etica Per lo meno a partire da Aristotele la nostra tradizione ha pensato l’essere ponendo al primo posto la categoria di sostanza («la sostanza è prima in ogni senso»),17 secondo una prospettiva per la quale prima vi sono i singoli individui, che poi entrano in relazione con gli altri e con il mondo. Tutti noi siamo portati d’istinto a pensare così: prima io, poi le mie relazioni. L’io è considerato la sostanza primordiale, secondo l’idea che tanti io esistano in origine indipendentemente gli uni dagli altri. Significativamente Leibniz li chiamava monadi,18 quasi fossero monaci eremiti. Ebbene, tutto questo è sbagliato. L’io di ognuno infatti è il risultato delle sue relazioni: lo è delle relazioni che formano il corpo, a partire dagli atomi che ne sono alla base i quali a loro volta sono il risultato di aggregazioni, e lo è delle relazioni che formano la psiche, a partire dall’abbraccio e dal nutrimento materno nei primi momenti di vita. Prima la relazione, poi la sostanza: prima è all’opera la grande logica aggregativa, poi, grazie a essa, sorgono gli enti individuali. Questo vale per tutto. Secondo Aristotele, «si dicono sostanze i corpi semplici»,19 ma oggi è noto che non esistono corpi semplici nel senso di non-composti o senza parti, persino gli atomi non lo sono, perché gli atomi non sono a-tomi, in-divisibili. Se la sostanza è «ciò che esiste in sé e per sé»,20 occorre dire che non esiste nessuna sostanza, perché nulla esiste in sé e per sé, e tutto quello che esiste è un sistema. Occorre quindi mutare la visione togliendo il primato alla sostanza e assegnandolo alla relazione, perché tutto si origina e consiste in quanto

sviluppo della logica relazionale. È in questa prospettiva che io penso che il compito di un essere umano consista nell’armonizzare l’energia libera che si muove nella sua interiorità con la logica più ampia dentro cui si è trovato a nascere e a esistere, che è la relazione. Io penso sia questo il compito di ognuno di noi: entrare in sintonia con la logica relazionale che ci ha portato e ci mantiene all’esistenza. Parlo al riguardo di re-ligio, da intendersi non nel senso ormai consunto di «religione», ma nel senso etimologico di relazione originaria e fondante che lega, collega, accorda, raccorda ognuno di noi alla vita. Anzi, alla Vita. In questa prospettiva l’etica si può descrivere come una specie di accordo tra il singolo individuo e la Vita. Si potrebbe dire che il problema è musicale. Ognuno di noi rappresenta una nota, o forse meglio un accordo, cioè un’unione simultanea di più suoni di diversa altezza, e in quanto tale ognuno di noi ha due compiti davanti a sé: da un lato deve accordare internamente le sue note costitutive (che a seconda delle tradizioni sono dette corpo e anima; oppure corpo, anima, spirito; oppure corpo, psiche, spirito; oppure es, ego, superego; oppure cervello e mente; oppure…); dall’altro lato deve accordarsi esternamente con i suoni diversi dal proprio rappresentati dalla natura, dalla storia, dalla società, dagli altri esseri umani, e anche dal divino in quanto significato profondo del cosmo. È possibile questa doppia accordatura interiore ed esteriore? Oppure siamo condannati alla scordatura? Possiamo accordare lo strumento musicale che siamo o il nostro destino è di rimanere scordati? Scordáti, peraltro, lo si può intendere anche nel senso di dimenticáti, il che mi conduce a chiedere se l’essere, che in questo caso è più opportuno scrivere Essere, si ricordi oppure al contrario si scordi di noi; se cioè esista una prospettiva più ampia per la nostra vita individuale, oppure se con la morte si spenga del tutto anche la nostra personalità. Rispondere a questa domanda però non è compito dell’etica ma della filosofia teoretica e della teologia. Qual è invece il compito dell’etica? L’etica è paragonabile a un ponte tra il singolo e il mondo, e il suo compito è anzitutto la costruzione di tale ponte. Costruire però non è sufficiente, occorre che ci sia anche il desiderio e il coraggio di attraversare il ponte costruito. Anzi, ancor più che costruire, il compito dell’etica è principalmente quello di individuare la motivazione per attraversare il ponte costruito. Fuor di metafora, io penso che il problema etico fondamentale non consista nel sapere cosa è bene e cosa è male perché nella gran parte dei casi

quotidiani la coscienza ordinaria sa istintivamente da sé come stanno le cose al riguardo: è consapevole se sta mentendo, se sta facendo finta di non vedere, se sta diffamando, se sta barando con le parole, se sta alzando la voce per non riconoscere di avere torto, se sta ingannando, se sta molestando, se non sta lavorando come dovrebbe, se non sta rispettando la parola data, se sta tradendo la persona amata… In tutti questi casi e nei molti altri dell’esperienza quotidiana ognuno ha quasi sempre ben chiaro: 1) che si sta comportando male; 2) che non lo dovrebbe fare; 3) come si dovrebbe comportare per essere nel giusto. È quanto sostiene il tradizionale concetto di sinderesi, tanto importante nella teologia cattolica scolastica e su cui in seguito mi soffermerò, ed è quanto ha scritto Kant: «Ciò che è dovere si dà a conoscere da se stesso ad ognuno».21 Lo sappiamo, e tuttavia spesso il saperlo non basta. Perché? Rispondere a questa domanda significa affrontare il problema etico vero e proprio, che non è teoretico, non riguarda cioè l’intelligenza, ma è eminentemente pratico e riguarda la volontà, in particolare la volontà di essere giusti, di dove trovarla, di come alimentarla. Emerge da qui la centralità del concetto di virtù come forza del bene, cioè come spinta che ci motiva ad agire per la giustizia, laddove motivo e motivazione hanno la stessa radice di moto e di motore, sicché la virtù appare come il carburante che accende e fa viaggiare il veicolo che noi siamo, facendolo transitare sul ponte che collega il nostro territorio interiore con la realtà a noi esterna in modo tale da promuovere l’autenticità della vita. Certo, vi possono essere questioni che sorgono all’improvviso e che si rivelano assai complesse perché nessuno le ha mai affrontate prima e su cui nessuno ha le idee chiare (salvo gli immancabili integralisti la cui chiarezza di idee a livello pratico è direttamente proporzionale alla infondatezza della visione teoretica). Si pensi per esempio ai problemi bioetici, a quelli legati alla tecnologia e all’intelligenza artificiale, a quelli che riguardano la questione ecologica spesso in conflitto con le ragioni dell’economia e dei posti di lavoro, problemi però che rappresentano casi estremi e che sono lontani dai dilemmi etici con i quali abbiamo a che fare quotidianamente, e su cui peraltro ben pochi hanno potere. Al contrario i problemi etici con cui tutti noi abbiamo quotidianamente a che fare non sono per nulla nuovi ma sono antichi quanto il genere umano, sempre i medesimi dall’età della pietra, e per questo sono ancora attuali testi di migliaia di anni fa come il codice di Hammurabi di Babilonia, il decalogo biblico di Mosè, le leggi di Licurgo per

Sparta, le leggi di Solone per Atene, i libri di sapienza degli antichi egizi, le opere morali degli antichi cinesi, il giuramento di Ippocrate, e altri ancora. Gli insegnamenti principali di tali testi si possono compendiare in una manciata di formule sempre identiche quali non uccidere, non rubare, non mentire, non tradire. Perché allora uccidiamo, rubiamo, mentiamo, tradiamo?

11. Sospetto La questione etica decisiva è quella di come alimentare il motore che genera in noi motivazione. Si tratta cioè di capire su cosa si fonda la percezione di una dimensione che risulta più importante del mio io e che mi obbliga a uscire da me stesso e a obbedire, mettendo in atto azioni che, se ascoltassi unicamente il mio io, talora eviterei volentieri. Si tratta di una questione da sempre necessaria ma tanto più oggi, quando tutti siamo inevitabilmente preda del sospetto che ogni affermazione di valore non abbia fondamento in se stessa ma scaturisca da interessi economici, da giochi di potere, da pulsioni sessuali più o meno represse, da condizionamenti genetici, nella generale convinzione che tutto ciò che riguarda la vita libera e spirituale sia una sovrastruttura posticcia senza nessuna reale relazione con la verità effettiva di noi stessi. Un caso tipico riguarda la tesi secondo cui Marco Aurelio, che credeva fermamente al primato del bene e alla giustizia, sarebbe stato in realtà un oppiomane, tesi che Pierre Hadot, dopo averne smontato a uno a uno gli argomenti, commenta così: Sarebbe d’altro canto interessante tracciare un ritratto psicologico di alcuni psicologi storici: potremmo svelare in loro, credo, due tendenze: l’una iconoclastica, che trae piacere dal prendersela con le figure ingenuamente rispettate dalle anime buone, come Marco Aurelio o Plotino per esempio; l’altra riduttiva, che ritiene che ogni elevazione d’animo o di pensiero, ogni eroismo morale, ogni sguardo grandioso portato sull’universo non possa essere che morboso o anormale. Tutto deve essere spiegato con il sesso o con la droga.22

L’etica, in quanto generatrice di obbligo e di dovere, non gode oggi di buona salute all’interno delle coscienze contemporanee. Tale sospetto del resto ha radici profonde: già i sofisti dell’antica Grecia riconducevano l’etica a una sorta di utile convenzione e per quanto attiene all’epoca moderna così scriveva Montaigne nella seconda metà del Cinquecento: Il mercante fa bene i propri affari solo sull’intemperanza della gioventù; il contadino, sulla carestia del frumento; l’architetto, sulla rovina delle case; gli ufficiali di giustizia, sui processi e sulle liti degli uomini; perfino la dignità e l’esercizio dei ministri della religione procedono dalla nostra morte e dai nostri vizi. Nessun medico è contento della salute dei suoi stessi amici, dice l’antico comico greco, né alcun soldato della pace della sua città: e così via. E quel che è peggio, se ognuno si scava nell’intimo troverà che i nostri desideri interiori per la maggior parte nascono e si nutrono a

spese altrui.23

A metà del Seicento il duca di La Rochefoucauld osservava: Ciò che scambiamo per virtù spesso altro non è che un insieme di azioni e di interessi diversi che la fortuna o la nostra abilità sanno combinare: non sempre è per valore e castità che gli uomini sono valorosi e le donne caste.24

Nel 1714 Bernard de Mandeville pubblicò il saggio Favola delle api, con il celebre sottotitolo Vizi privati e pubbliche virtù, la cui tesi di fondo ripresenta l’osservazione di Montaigne sull’importanza economica dei vizi: «Se un popolo aspira a essere grande, il vizio è necessario allo Stato quanto la fame per mangiare. La virtù da sola non può far vivere le nazioni nello splendore».25 Direi che da allora la società capitalistica ha grandemente basato la fortuna della sua economia sull’immoralità. Perché quindi bisognerebbe essere giusti, se l’ingiustizia, unita a un’opportuna dose di furbizia, può essere così conveniente?

12. Fondazione alla prima persona singolare Nel corso della storia la fondazione dell’etica ha seguito sostanzialmente due vie: il riferimento a un’istanza esterna e il riferimento a un’istanza interna. Al riguardo Kant distingueva tra eteronomia e autonomia, tra etiche che pongono la norma dell’agire in altro (éteros, in greco) ed etiche che la pongono nel soggetto stesso (authós, in greco), laddove la prima prospettiva a livello storico risulta di gran lunga maggioritaria, anche se per Kant è soltanto la seconda che conferisce autenticità all’etica (dichiara il filosofo: «L’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei corrispondenti doveri; al contrario, ogni eteronomia del libero arbitrio, non solo non fonda alcun obbligo, ma è contraria al principio dell’obbligo e alla moralità della volontà»).26 A mio avviso è possibile individuare cinque istanze fondatrici dei valori avvertiti dal soggetto come più importanti di sé e quindi all’origine della motivazione in cui consiste propriamente l’etica: 1) tradizione; 2) religione; 3) ideologia; 4) natura; 5) coscienza. È una di queste istanze, o più di una nello stesso tempo, a spingere gli esseri umani a oltrepassare il ponte camminando con giustizia dal loro mondo interiore verso il mondo esterno. Le prime tre istanze rappresentano la via eteronoma e a mio avviso, benché ancora molto influenti specialmente in alcune società e presso alcuni individui, hanno perso in Occidente la capacità di indiscutibile richiamo su cui strutturare l’agire e per questo sono ormai sempre più prive di potere

fondativo. Si consideri per esempio il richiamo alla famiglia tradizionale cattolica e ai suoi valori (tra cui l’esclusione della pratica sessuale al di fuori del matrimonio e una vita sessuale all’interno del matrimonio sempre aperta alla procreazione): ebbene, persino i leader politici che nei loro programmi sostengono a spada tratta tale modello di famiglia, poi, nella vita privata, quando è in gioco la loro vita affettiva e la loro concreta condotta sessuale, disattendono platealmente la prospettiva teorica sostenuta a parole per seguire convinzioni etiche interamente basate su una prospettiva autonoma. Il che significa, al di là della propaganda, che per l’etica vale di fatto solo la fondazione basata sulla coscienza autonomamente considerata. La fondazione dell’etica, in altri termini, è oggi possibile in Occidente solo alla prima persona singolare.

13. L’utilitarismo Tra coloro che sostengono la fondazione autonoma dell’etica vi è chi ragiona così: praticare l’etica conviene di più del suo contrario perché nello svolgimento pratico della vita essere giusti risulta più utile rispetto all’essere ingiusti. Tale visione delle cose è denominata utilitarismo e nella sua formulazione classica risale ai filosofi britannici Jeremy Bentham e John Stuart Mill.27 Ora, a prescindere dalle osservazioni di Montaigne e di Mandeville sull’utilità economica e sociale del vizio, contro questa prospettiva vi è un’affermazione di Machiavelli che ha dalla sua la forza dell’esperienza: «Uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni».28 È la medesima lezione che si ricava dal romanzo di Dostoevskij intitolato L’idiota, e ancora prima dalla lettura dei Vangeli e dalla fine di Gesù, e ancora prima dalle opere di Platone e dalla analoga fine di Socrate.29 Che cosa significa per il nostro discorso? Significa che l’etica, a mio avviso, non si può fondare sulla natura umana e la sua capacità di calcolo dell’utile, perché tale natura calcolante non è disinteressatamente equa ma è sempre più o meno intensamente interessata, quindi di parte, e quindi incapace di un calcolo obiettivo dell’utilità tale da costituire la base per un’etica degna di questo nome. Perché mai un utilitarista coerente con se stesso dovrebbe ricercare il bene comune quando il suo bene privato lo porta in direzione contraria ed egli può permettersi di perseguirlo? Perché per

esempio un imprenditore non dovrebbe fabbricare e vendere armi, o non abbattere foreste per coltivare sempre più soia, o non inquinare l’aria e l’acqua in una zona del pianeta assai distante dalla riva del lago svizzero dove si trova la sua villa? Che la natura umana sia buona in se stessa e quindi capace di calcoli utili a sé e agli altri è la convinzione di coloro per i quali il male deriva dalla corruzione della società, sicché per risolvere il problema basterebbe tornare alla natura, o, come avrebbe voluto fare il comunismo, cambiare radicalmente la società. Io non la penso così; a mio avviso, il problema non è esterno all’uomo ma interno; non è politico ma esistenziale, o forse meglio spirituale. Ritengo quindi che l’etica non si possa basare sulla natura umana e sulla sua capacità di calcolo, ma che spetti semmai all’etica il compito di raddrizzare la natura umana e la sua capacità di calcolo, sempre troppo interessata e tale da presentare calcoli contraffatti quando c’è di mezzo l’interesse personale.

14. La via della guarigione Vi è una celebre affermazione di Kant: «Ogni interesse della mia ragione (tanto lo speculativo che il pratico) si concentra nelle tre domande che seguono: 1. Che cosa posso sapere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è lecito sperare?».30 Alla prima domanda risponde la scienza, alla seconda l’etica, alla terza la religione. Parlare di etica significa quindi rispondere alla domanda su che cosa debba fare un essere umano, su quale sia il dovere che gli sta davanti per il fatto stesso di esistere come essere umano. Come rispondere a Kant? Che cosa deve fare un essere umano? E prima ancora, esiste un dovere che compete a ognuno in quanto essere umano? Non dico un dovere in quanto medico, insegnante, giudice, carabiniere, muratore o qualunque altra professione o mestiere si possa pensare, dovere che si chiama deontologia professionale e che certamente esiste. No, intendo un dovere in quanto essere umano: esiste? E se sì, qual è? La mia risposta è che questo dovere esiste e consiste nello stare bene. Non nel fare, ma nello stare, precisamente nello stare bene. Quello che ogni essere umano deve fare in quanto essere umano è stare bene, e ciò che gli consente di farlo in modo integrale è la virtù. La virtù è la forza del bene, ovvero la forza che proviene dal bene, che produce a sua volta bene e che consente di stare bene. Il bene e la virtù costituiscono il concetto centrale della mia teoria, ma,

come ho già scritto, non mi riferisco a un bene astratto o metafisico, ma a un bene concreto, anzitutto fisico, al bene di ognuno in quanto condizione che produce benessere e che si può chiamare salute. Ne viene che quello che ognuno di noi deve fare anzitutto è essere in salute. La salute è il nostro primo dovere. Naturalmente mi riferisco alla salute di un essere umano che è corpo, psiche e spirito, la quale quindi si esprime come benessere del corpo, della psiche e dello spirito, del tutto in linea con l’Organizzazione mondiale della sanità per la quale la salute è «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità».31 Lo stato complessivo della nostra salute si estende anche alla psiche e allo spirito, concetto del resto sempre affermato dalla sapienza antica come testimonia Platone: «Come non si devono curare gli occhi senza prendere in esame la testa, né la testa indipendentemente dal corpo, così neppure il corpo senza l’anima».32 È possibile non avere problemi a livello fisico e tuttavia non stare bene, esperienza di molti e sempre più frequente, visto che la depressione è diventata ai nostri giorni una delle malattie più diffuse in Occidente. Quando non si sta bene a livello psichico usiamo l’espressione essere giù di morale, o anche demoralizzati. La saggezza codificata nel linguaggio ci insegna in questo modo che la morale, quando è autentica, non è qualcosa che appesantisce, ma al contrario qualcosa che alleggerisce, che tira su, che aiuta a vivere bene, mentre è la sua assenza a spingere giù facendo scendere di grado la vitalità. Avendo una morale, si è su di morale; non avendo una morale, si è giù di morale, demoralizzati. So bene di giocare con due termini diversi, il morale e la morale, ma a mio avviso è chiaro che tra queste due dimensioni del vivere esiste una stretta relazione come ci insegna la lingua che utilizza lo stesso termine per indicare l’etica e lo stato d’animo. Il nostro primo dovere non consiste nel fare, nel lavorare, nell’aiutare, in altre operazioni certamente importanti ma successive, bensì nello stare, nello stare bene nel corpo, nella psiche e nello spirito. «Come stai?», prima ancora che agli altri, ognuno lo dovrebbe chiedere quotidianamente a se stesso: «Come sto?». Ognuno ha un dovere verso la propria salute, non rispettare il quale è indice non solo di scarsa saggezza ma anche di scarsa moralità: è quanto nella terminologia cristiana viene detto «peccato». Kant chiedeva: «Che cosa devo fare?», ma è nell’ambito professionale che si tratta di fare, mentre un essere umano in quanto tale non deve anzitutto fare, deve anzitutto stare. Certo, abbiamo una serie di doveri che ci

provengono dalla nostra condizione familiare e dalla nostra professione, ma il loro fine ultimo è sempre la vita individuale, perché il primato spetta alla morale individuale, non alla morale sociale.33 Qualunque sia o siano le società cui apparteniamo (famiglia, movimento, chiesa, azienda…), esse non devono mai diventare il fine supremo, perché il fine è sempre interno a ognuno di noi ed è il nostro stare bene, la nostra salute integrale. Quanto ho appena sostenuto è ben lungi dall’essere un inno alla pigrizia per un semplice e basilare motivo: perché per stare bene occorre lavorare. Nella realtà infatti nessuno di per sé sta bene, tutti siamo più o meno malati e abbiamo bisogno di guarire. Non è forse vero? Conoscete qualcuno che sta sempre bene, qualcuno senza sofferenze, ferite, ansie, preoccupazioni per sé o per i propri cari? Per il Buddha vi è una costante dell’esistenza che egli chiamava dukkha, termine che significa «dolore, sofferenza» e che costituisce la «prima nobile verità» del suo messaggio,34 la base da cui partire per comprendere il mondo e la vita. Più o meno nello stesso periodo scriveva Solone: «Non c’è un uomo felice, sono sciagurati tutti i mortali che contempla il sole».35 Io penso che non vi sia nessuno che non abbia bisogno di guarigione. Vi sono persone che per mantenersi in vita devono mentire perché hanno scelto, o hanno dovuto adattarsi, a un lavoro che non permette loro di essere sempre onesti, quindi è logico che diranno che da loro, o con il loro prodotto, o nel loro movimento o istituzione o congregazione, la sofferenza non esiste. Ma chi non è costretto a mentire e ha solo un po’ di esperienza, sa bene che la vita procura inevitabilmente sofferenza; anzi, sa che quanto più si cresce e si diviene consapevoli e sensibili, tanto più si soffre, perché, anche se si sta bene in se stessi, non si può fare a meno di partecipare alle sofferenze altrui, e non solo degli altri esseri umani ma di tutti i viventi. Il che significa che nessuno sta bene di coloro che semplicemente stanno. Occorre lavorare per stare bene. Questo lavoro si chiama guarigione e si tratta del nostro lavoro più urgente e, quando riesce, del nostro più prezioso successo. La concreta attuazione di tale lavoro in vista della guarigione si chiama etica, l’etica elementare delle virtù.

15. La via della bellezza Nella fondazione della motivazione etica, accanto alla via della guarigione, vi è la via della bellezza. È quella che sento più mia e che

introduco rifacendomi a Hannah Arendt. Considerando il male apparso nella prima metà del Novecento e il totale fallimento che tale manifestazione ha rappresentato per l’etica occidentale basata per lo più su cristianesimo e illuminismo, la filosofa giunge a una conclusione sorprendente: che il fondamento dell’etica non può più essere fisico, come sostiene l’etica classica e in particolare aristotelica e stoica; che non può più essere metafisico, come sostengono le religioni che si rifanno a una rivelazione divina; che non può più essere politico in quanto antropocentricamente determinato, come sostiene la modernità illuminista e poi socialista. Quale sarà quindi il fondamento dell’etica? Ecco il suo pensiero: «Le nostre decisioni sul bene e sul male dipendono dalla scelta dei nostri compagni, di coloro con cui vogliamo passare il resto dei nostri giorni».36 Viene spontaneo chiedere: ma la scelta dei nostri compagni, a sua volta, da cosa dipende? Come tutti sperimentano, tale scelta è una questione di gusto, di affinità, di sintonia. La fondazione dell’etica si risolve quindi in una questione prettamente estetica. Hannah Arendt scrive che quei pochi che si rifiutarono di obbedire al fascismo e al nazismo non lo fecero perché avevano detto a se stessi: «Questo non devo farlo», quanto piuttosto perché si erano detti: «Questo non posso farlo».37 Il che significa che l’infrazione dei valori per i quali si vive viene evitata perché si sente dentro di sé di non poter procedere in quella direzione, perché si avverte come una specie di disgusto verso le conseguenze che inevitabilmente ne verranno. Disgusto: appunto una questione, per quanto invertita, di gusto. È come se risuonasse all’interno una voce, afferma la Arendt, che dice che questo non lo si può fare perché, se lo si facesse, si verrebbe meno a se stessi, a ciò che per noi esiste di più prezioso, al senso del nostro essere qui, e quindi ci si vergognerebbe terribilmente di fronte a se stessi e forse neppure si potrebbe più sopportare di esistere in compagnia di un sé così sporco. L’etica quindi si gioca tra gusto e disgusto, e l’avere o no una vita virtuosa appare consistere ultimamente in una questione estetica, in un amore per la bellezza della pulizia. Tornerò su questo argomento nell’ultimo capitolo. Per ora dico che, a quanto ne so, se si prescinde dall’antico pensiero greco,38 l’etica non ha mai avuto tale fondazione.39 Essa però, insieme alla motivazione terapeutica illustrata sopra ma a un livello ancora più profondo, appare oggi alla mia coscienza come l’unica in grado di sussistere, perché sa fondare l’obbedienza richiesta dall’etica promuovendo al contempo la libera personalità del

soggetto. In questa prospettiva anche il concetto di virtù si ritrascrive, perché non è più primariamente sforzo, ma attrazione; la virtù non si fonda più sul senso del dovere e sul sacrificio, ma sul fascino e sulla creatività. Non per questo il senso del dovere è cancellato; è, piuttosto, riscritto, nel senso che viene destituito dall’essere il motore principale per diventare una disposizione che fluisce spontaneamente, per quanto talora non senza fatica, dall’esperienza originariamente motivante di tipo estetico. Ma ora si faccia attenzione: se l’etica viene dall’estetica, la sua fondazione non è in realtà autonoma, bensì eteronoma, anche se di una eteronomia del tutto sui generis. L’estetica infatti è sensazione, come dice il termine greco originario aísthesis, e quindi esprime passività, ricezione, apertura a qualcosa di più grande dell’io. Ne viene in questa prospettiva che si diventa giusti non perché si decide da sé di diventarlo (chi mai lo potrà fare?) ma perché chiamati, come attratti e affascinati, dalla giustizia. È lei, il suo ideale, a muovere il primo passo. Lo stesso vale per le altre virtù, in particolare per sophía, la sapienza, dal cui ascolto scaturisce ciò che la filosofia stoica chiama hegemonikón40 e che io chiamo coscienza morale, la dimensione in cui si sommano intelligenza, bontà, senso della giustizia e fiducia nel senso della vita, e che è la somma virtù di un essere umano. In tutto ciò appare il primato di una dimensione ideale, dell’Idea direbbero Platone e Kant, che non proviene da dentro ma arriva da fuori, come ispirazione e richiamo, si potrebbe dire anche come vocazione. Ha scritto lo psicanalista Erich Neumann: «I fatti originari dell’etica derivano dalla “Voce” che parla a certi individui baciati dalla Grazia. Il loro carisma sta proprio nel sentire la Voce. Che questa sia la voce di un Dio o di un animale, di un sogno o di un’allucinazione, la realtà della Voce è comunque assoluta e vincolante per l’individuo fondatore».41 Si sente come un richiamo indistinto ma reale e se ne rimane affascinati. È qualcosa di nobile e di vero che si affaccia dentro di noi, seguendo il quale si sente che anche noi possiamo diventare un po’ meno grossolani e un po’ meno falsi, quindi più nobili e più veri, per lo meno in alcuni momenti. E quando diciamo di sì a questo misterioso richiamo, ci tendiamo nella sua direzione, e questa dolce tensione dentro di noi si chiama etica. L’etica, in altri termini, suppone che esista qualcosa di più importante della vita biologica, ed è esattamente qui che si radica la differenza tra vivere ed esistere. L’etica è la forza di esistere che supera il mero desiderio di vivere e che ci rende migliori. Ha scritto Hannah Arendt, in polemica con Nietzsche:

«L’etica, cristiana o meno che sia, ha sempre preso le mosse dall’idea che la vita non fosse il bene più alto per i mortali, che ci fosse qualcosa di diverso in gioco nella vita oltre alla semplice procreazione e sostentazione».42 Oltre che filosofo e teologo, medico, Nobel per la pace, Albert Schweitzer fu un grande organista, magistrale esecutore delle opere di Bach. Della musica di Bach egli ha affermato che esprime «la realtà della vita sentita da uno spirito costantemente conscio di essere superiore alla vita, uno spirito in cui le emozioni più contraddittorie, l’aspro dolore e l’allegria esuberante, sono semplici momenti di una fondamentale superiorità dell’anima».43 L’etica è la manifestazione di questa superiorità dell’anima rispetto alla superficiale mondanità, superiorità dell’anima che si può anche denominare coscienza morale e che nel prossimo capitolo indagherò.

II. LA COSCIENZA

16. La natura dello sperimentatore Se la vita etica è un laboratorio, e se avere una teoria è la prima condizione per compiere un esperimento, in questo capitolo affronterò la seconda condizione di questa metafora: lo sperimentatore. La mia teoria sostiene infatti il primato del bene e quindi occorre che vi sia un soggetto capace di bene. Ma esiste un soggetto così? L’essere umano è capace di intendere cos’è il bene e di volerlo realizzare anche al di là delle proprie convenienze? Tu lo sei? Gli altri lo sono? Come sono gli esseri umani? Che cosa siamo noi umani? Ci siamo definiti in modi così contraddittori: libertà (Pico della Mirandola), gene egoista (Dawkins), microcosmo (Leonardo da Vinci), scimmia nuda (Morris), misteriosa unità di estensione e di pensiero (Cartesio), desiderio irresistibile di esistere o conatus essendi (Spinoza), canna pensante (Pascal), legno storto ma anche coscienza morale (Kant), spirito incarnato (Hegel), unico (Stirner), gregge ma anche qualcosa da oltrepassare (Nietzsche), ego schiacciato tra il coacervo dell’inconscio e le norme del superego (Freud), sequela di maschere (Pirandello), passione inutile (Sartre), essere-per-la-morte ma anche pastore dell’essere (Heidegger) … Nessun dubbio che siamo la specie più aggressiva e violenta del pianeta (solo negli scimpanzé si riscontra un’analoga aggressività contro i propri simili);1 nessun dubbio neppure che siamo la specie più capace di cooperazione e di solidarietà, né sul fatto che siamo capaci di cultura, di gusto del bello, di senso del diritto e dell’etica e che alcuni di noi sono giunti a dare la vita per la giustizia. Che cos’è quindi l’essere umano? Che cosa siamo? Che cosa rappresentiamo gli uni per gli altri? Ventitré secoli fa Plauto in una commedia intitolata Asinaria faceva proferire a un mercante un detto destinato a diventare celebre nella storia del pensiero occidentale: Homo homini lupus.2 Due o tre decenni dopo Cecilio Stazio coniò in polemica con lui il detto opposto: Homo homini deus, a sua

volta ripreso in filosofia, seppure con meno successo.3 Ma quale dei due detti è più vicino alla verità: quello che ci paragona a esseri dotati di istinti voraci verso i nostri simili, o quello che ci paragona a esseri benevolmente o addirittura divinamente disposti? Il duca di La Rochefoucauld inizia le sue celebri Massime dicendo che «il più delle volte le nostre virtù sono soltanto vizi camuffati»,4 però persino questo caustico osservatore della natura umana non volle negare totalmente il darsi delle virtù, perché scrisse «il più delle volte»: voleva dire che, almeno qualche volta, possiamo raggiungere davvero la virtù? Uno pensa di leggere la Bibbia per chiarirsi le idee e invece vi ritrova la medesima contraddizione, perché da un lato vi legge che l’uomo è «polvere»,5 «soffio», «ombra che passa»,6 «vapore che appare per un istante e poi scompare»;7 e dall’altro che è «poco meno di un dio»,8 «immagine di Dio»,9 «figlio di Dio».10 Ma cosa siamo veramente: pulvis o imago Dei? La risposta più saggia è: dipende. Da cosa? Da quello che facciamo. E cosa facciamo? Dipende. Da cosa? Da quello che pensiamo. Ogni essere umano dipende dal pensiero che ospita, perché tale pensiero dà forma al suo essere e al suo agire. Si legge all’inizio del Dhammapada, il libro sacro più venerato dal buddhismo theravada: «Tutto ciò che siamo è generato dalla mente, è la mente che traccia la strada».11 Attenzione però: qui non si tratta del pensiero come opinione o come teoria, ma del pensiero come coscienza. Quello che siamo dipende da quello che facciamo e quello che facciamo dipende dalla nostra coscienza, sicché alla fine ognuno di noi è la propria coscienza. Naturalmente si potrebbe continuare e chiedersi da cosa dipende la coscienza, sostenendo che essa è condizionata dai geni e dal conseguente quoziente intellettivo, dall’ambiente in cui siamo cresciuti e dalla conseguente educazione, e magari arrivare a concludere che quello che siamo dipende da quello che mangiamo e che «l’uomo è ciò che mangia», come scrisse Ludwig Feuerbach.12 Io però non penso che l’essere umano sia ciò che mangia; senza mangiare nessuno di noi potrebbe essere, è ovvio, ma nessuno è riducibile al suo cibo, tant’è che nella stessa famiglia si mangiano le stesse cose e si può essere molto diversi quanto a qualità umana. Lo stesso vale per i geni e l’ambiente, visto che due gemelli monozigoti con identica educazione ricevuta non sono la stessa persona né esprimono la stessa personalità. Io non penso, in altri termini, che noi siamo totalmente riducibili a qualcosa di materiale e di semplicemente naturale, intendendo con ciò la

dimensione naturalistica dell’essere, quella che l’antica distinzione filosofica denominava natura naturata. Penso, piuttosto, che in noi vi sia anche ciò che la medesima tradizione denominava natura naturans, «natura naturante», vale a dire, come indica il participio presente, un principio attivo.13 A mio avviso questo principio attivo, e quindi libero, trova in noi la sua massima manifestazione nel pensiero inteso come coscienza, in particolare come coscienza morale. Per questo sostengo che ognuno di noi diventa quello che è in base alla sua coscienza. È la coscienza a stabilire il valore di un essere umano, intendendo con valore la sua capacità di bene e di giustizia, ovvero la capacità di infondere energia positiva nei sistemi di cui è parte. Specularmente anche il disvalore di un essere umano dipende dalla sua coscienza, come insegna la lezione che Hannah Arendt trasse dal processo di Adolf Eichmann a Gerusalemme cui assistette come inviata del «New Yorker», giungendo alla conclusione che il nazismo era stato possibile a causa dell’assenza di pensiero responsabile inteso come coscienza morale: da qui era scaturita la «spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male».14 Con questa espressione la filosofa non intendeva ovviamente che il male provocato dal nazismo fosse stato banale nel senso di comune e di poco conto, ma che nella sua mostruosità era stato realizzato da individui del tutto normali, comuni, appunto banali, e tali perché privi della capacità di pensare moralmente alla prima persona singolare, privi appunto di coscienza morale. Ma oggi è ancora possibile sostenere l’esistenza di una coscienza morale? È ancora possibile sostenere l’esistenza di un’istanza capace di distinguere il bene dal male e di spronare a scegliere il bene? In realtà, oggi non sono pochi a dubitarne. Anzi, sempre più si mette in dubbio la stessa esistenza della coscienza intesa come centro consapevole e unificatore della personalità. È quindi necessario fare un passo indietro e partire dalla base, dalla realtà la cui esistenza è per tutti un’evidenza.

17. Cervello Ora vi invito a mettervi le mani sulla testa. Fatelo, per favore. Potete metterle così, oppure anche così. Quando vi mettete le mani sulla testa in questo modo? Quando vi fa male, immagino. Ora spero che a nessuno faccia male la testa, ma proprio per questo toccatela con entrambe le mani, stringetela e poi accarezzatela. E dite: «Mi fa bene la testa». Non lo diciamo

mai, diciamo solo «mi fa male la testa», e invece dovremmo considerare quanto bene ci faccia, in ogni istante, la nostra testa. Ci fa vivere da esseri umani. Cosa vuol dire vivere da esseri umani? Ci siamo denominati sapiens, termine che rimanda al verbo latino sapio, sapere, che significa «sapere» e anche «avere sapore». Denominandoci così, abbiamo voluto affermare che la peculiarità che ci distingue come esseri umani è la cultura, la quale è possibile grazie al pensiero prodotto dal cervello che abbiamo nella testa. Ci fa bene la testa. Il nostro cervello non l’abbiamo mai visto, così come non abbiamo visto il nostro cuore, i nostri polmoni e gli altri organi vitali. È strano: viviamo grazie a loro, ma non li abbiamo mai visti né mai probabilmente li vedremo, né ce ne curiamo se non quando stanno male e ci fanno stare male. E invece dovremmo curarcene, provare a immaginarli, conoscerli, pensarli, visualizzarli, magari accarezzarli con il pensiero, visto che con la mano non è possibile. Concentriamoci sul cervello. È qui dentro la nostra testa, è grande grossomodo come un melone, pesa in media un chilo e tre etti, è meno del 2 per cento della nostra massa, consuma però il 20 per cento della nostra energia, dicono corrisponda a una lampadina da 20 Watt sempre accesa. È composto da cellule umidicce e grigiastre, per lo più fatte di grasso, chiamate neuroni dal greco neûron, «corda», stimate di solito in un numero di 100 miliardi, l’identica cifra proposta per le stelle della nostra galassia e per le galassie del nostro universo, ma ovviamente si tratta di cifre tonde un po’ troppo sospette per essere precise, e poi recentemente sembra che la stima dei neuroni sia stata ridotta a 88 miliardi. Queste cellule di forma allungata, e per questo paragonate anche agli alberi, comunicano tra loro formando delle connessioni elettriche e chimiche chiamate sinapsi dal greco synápto, «congiungere», stimate in una cifra impensabile: un milione di miliardi. Secondo i calcoli di Gerald Edelman, neuroscienziato e premio Nobel, volendo contare tutte le nostre sinapsi con il ritmo di una al secondo si impiegherebbero 32 milioni di anni. È grazie a tali connessioni che noi respiriamo, digeriamo, parliamo, ascoltiamo, proviamo desideri ed emozioni, vediamo il mondo colorato, pensiamo e abbiamo le nostre idee, e svolgiamo tutte le altre svariate operazioni che ci caratterizzano in quanto esseri umani. Il nostro cervello, questo melone grigiastro decisamente bruttino che nessuno di noi comprerebbe vedendolo sui banchi del mercato, è di sicuro la più

stupefacente produzione dell’universo conosciuto. Ora vi chiedo: noi siamo il nostro cervello o noi usiamo il nostro cervello? Oppure c’è una via di mezzo tra le due possibilità? Noi consistiamo in ultima istanza in quest’organo, oppure grazie a esso siamo anche qualcos’altro? Siamo o non siamo riducibili al nostro cervello? Quando diciamo «io», che cosa lo dice dentro di noi? Lo dice la nostra interiorità tramite il cervello, oppure lo dice il cervello e basta? Il cervello è un organo che contribuisce alla formazione dell’io, oppure coincide del tutto con l’io? In questo secondo caso ognuno di noi è solo una specie di computer naturale, che sarà probabilmente ricostruibile grazie alla tecnologia dell’intelligenza artificiale in un futuro non tanto lontano. Nell’altro caso invece siamo anche una soggettività che prova sentimenti, nutre ideali, può scegliere liberamente e non è ripetibile. Ma qual è la nostra vera natura: siamo un fenomeno seriale o un fenomeno irripetibile?

18. Mente In natura ogni vivente tende sostanzialmente a due scopi: nutrirsi e riprodursi. Ma per nutrirsi e per riprodursi, evitando allo stesso tempo di diventare il nutrimento di altri, è necessario muoversi, quindi possiamo dire che il vivere in natura consta di tre operazioni fondamentali: movimento, nutrizione, riproduzione. Per compiere queste operazioni occorre elaborare informazioni e così produrre una serie di atti cognitivi cercando di capire cosa è buono da mangiare e come ottenerlo, chi ti vuole mangiare e come evitarlo, chi trovare per accoppiarsi e come convincerlo a farlo con te e altre cose del genere. Compiere tali atti che richiedono cognizione non sarebbe possibile senza una funzione operativa che raccoglie ed elabora i dati ambientali: il nome di questa funzione è mente. La mente è il processo mediante cui si elaborano informazioni e si compiono atti cognitivi. Tutti i viventi quindi, nessuno escluso, compresi i batteri e le piante, hanno una mente. O forse meglio, sono una mente. Nei mammiferi il cervello è la principale struttura materiale da cui scaturisce il processo mentale. Si può dire quindi che, se la mente è il processo, il cervello è il processore. Vi sono però organismi che elaborano i dati senza avere un cervello, per esempio i batteri, i quali «sono dotati di varie forme di percezione, di memoria, di comunicazione e di coordinamento sociale»:15 l’essere sprovvisti di cervello non impedisce loro di compiere atti

cognitivi. Non hanno un cervello, ma svolgono un’attività mentale. Se si possono svolgere attività mentali senza cervello, ciò significa che la mente è più del cervello. Possiamo quindi dire così: la mente è elaborazione di informazioni finalizzate ai processi cognitivi essenziali per il darsi della vita, il cervello è una struttura particolare di alcuni organismi che rende possibile tale processo.16 A differenza di tutti gli altri organismi, nella specie umana ha luogo una peculiare attività mentale per comprendere la quale è necessario soffermarsi sulla disposizione della mente detta coscienza.

19. Coscienza «Il paziente è ancora cosciente?» chiedono i medici. Se c’è coscienza, infatti, c’è vita. Più in particolare, nel concetto di coscienza convergono tre esperienze generali che caratterizzano gli esseri umani, più una quarta che caratterizza solo alcuni di essi: 1) la coscienza in quanto cognizione operativa del mondo e di sé in quanto parte del mondo, ovvero la coscienza base; 2) la coscienza in quanto consapevolezza di sé come del tutto distinto da ogni altra manifestazione del mondo, ovvero l’autocoscienza; 3) la coscienza in quanto consapevolezza della qualità relazionale delle proprie e delle altrui azioni, ovvero la coscienza morale; 4) la coscienza in quanto consapevolezza di essere uniti a tutte le cose e al principio di tutte le cose, ovvero la coscienza mistica. Condividiamo la coscienza nel primo significato con tutti i viventi ed è quanto ho illustrato sopra analizzando il concetto di mente. Per quanto riguarda la seconda e la terza definizione di coscienza, c’è chi sostiene che siano esclusivamente umane e chi invece le individua anche nel mondo animale. Io per esempio intravedo talora negli occhi del mio cane una certa opacità quando ha appena fatto qualcosa che non doveva e viceversa una particolare lucentezza quando ha eseguito bene un compito: si tratta nel primo caso di una specie di vergogna e nel secondo di orgoglio, e quindi di un principio di coscienza morale? Il quarto livello, per quanto sia presente in tutti i luoghi e in tutti i tempi della vicenda umana, si manifesta solo in alcuni esseri umani, mentre da altri viene ritenuto un’illusione o addirittura una patologia. Quello che è sicuro, a mio avviso, è che la cognizione costituisce il

presupposto della coscienza, essendo, prima ancora, il presupposto della vita, perché non ci può essere vita senza cognizione. La coscienza nel senso forte del termine nasce però solo laddove si ha consapevolezza: in questa prospettiva dire che si ha coscienza equivale a dire che si ha consapevolezza, e dire che si è coscienti equivale a dire che si è consapevoli. In altri termini: ogni forma di vita esprime necessariamente cognizione, ma non esprime necessariamente consapevolezza. Così, mentre è sicuro che i batteri e gli insetti hanno cognizione, è assai dubbio che abbiano consapevolezza. La cosa del resto vale anche per gli esseri umani: tutti hanno cognizione, non tutti hanno consapevolezza. Meno che mai tutti hanno sempre consapevolezza. Il cammino della coscienza verso la consapevolezza si presenta secondo un processo determinato da una progressiva capacità di distinzione che si può descrivere così: 1) cognizione operativa del mondo e di sé come del tutto coappartenenti: si ha coscienza in quanto attività mentale, ma non in quanto consapevolezza; 2) coscienza in senso forte o autocoscienza che comporta una netta e radicale distinzione tra il sé e il mondo; 3) coscienza morale in quanto distinzione all’interno del sé; 4) coscienza mistica in quanto consapevolezza dell’unione totale con tutte le cose e con il principio di tutte le cose tradizionalmente detto Dio, secondo un movimento contrario alla distinzione che genera il sentimento dell’unità. Ora analizzerò brevemente i primi tre livelli della coscienza in quanto base dell’esperienza etica.

20. Il primo significato di coscienza: cognizione Il primo significato di coscienza è quello di cognizione operativa del mondo e di sé come del tutto coappartenenti, per quanto pur sempre fisicamente distinti. Dico distinti perché ogni vivente nel mondo si muove, del mondo si nutre, dal mondo si protegge, e lo può fare perché percepisce se stesso come altro rispetto al mondo. Gli atti cognitivi di cui si sostanzia il vivere non potrebbero essere compiuti senza un’attività mentale che presuppone la percezione di sé e del mondo in quanto distinti, distinzione necessaria a ogni organismo per comprendere cosa è cibo e cosa no, chi è amico e chi nemico, e tutte le altre operazioni indispensabili alla nutrizione e alla riproduzione. La coscienza, anche in quanto cognizione operativa, implica sempre la distinzione. Affermo quindi che tutti i viventi presentano un’attività mentale e che tale

produzione della mente corrisponde al primo significato di coscienza, la coscienza-base come cognizione del mondo e di sé all’interno del mondo, di sé come pezzo di mondo. Ipotizzo però che tale distinzione implicata nel primo significato di coscienza riguardi l’essere diverso come pezzo di mondo rispetto a ogni altro pezzo di mondo, non invece l’essere radicalmente diverso da tutto il resto del mondo nella solitudine, forse insuperabile e talora angosciosa, dell’io. Ipotizzo cioè che sia una distinzione quantitativa e non qualitativa. E dico ipotizzo perché non posso entrare nella mente di nessun altro vivente oltre alla mia, e mentre della condizione della mente degli altri esseri umani ho cognizione tramite le loro comunicazioni, della condizione della mente dei viventi non umani non ho nessuna attestazione.

21. Il secondo significato di coscienza: autocoscienza La vita umana si caratterizza per una serie di stati mentali tra cui vi sono sensazioni, percezioni, appercezioni, impressioni, emozioni, sentimenti,17 affetti, passioni, opinioni, credenze, concetti, idee, sogni (sia nel senso di fenomeni onirici, sia nel senso di utopie e speranze) e chissà che altro. La questione ora è la seguente: è possibile l’unificazione dei diversi stati mentali in un centro unitario, consapevole e responsabile? È possibile raggiungere ciò che Jung chiama «individuazione»?18 È possibile la formazione di una personalità unitaria dotata di una propria filosofia di vita e quindi capace di agire in modo coerente e responsabile, cioè secondo quell’ordine comportamentale detto tradizionalmente etica? A questa domanda sulla possibilità dell’unificazione dei diversi stati mentali si è tradizionalmente ritenuto di dover rispondere sì, denominando tale unificazione coscienza. La coscienza in questa prospettiva è la mente unificata e consapevole che dice io: io penso, io non sono d’accordo, io decido, io mi ribello. La coscienza non è più solo cognizione operativa del mondo e di sé al suo interno come pezzo di mondo, ma diviene consapevolezza di sé in quanto del tutto diverso dal mondo e irriducibile a ogni altro fenomeno, e quindi consegna a una individualità che spesso comporta il sentimento di una insuperabile solitudine. La coscienza qui diviene auto-coscienza, e in quanto tale costituisce l’atto fondativo del soggetto, di un centro operativo consapevole, capace di intendere e di volere, desideroso di autodeterminazione e anche capace di attuarla. L’autocoscienza

corrisponde alla consapevolezza di sé in quanto distinto per essenza da ogni altro fenomeno del mondo. In questa prospettiva il teologo e filosofo medievale Duns Scoto, frate francescano, denomina l’essere umano «ultima solitudo».19 Oltre agli esseri umani vi sono altri viventi che giungono a sentirsi del tutto diversi rispetto al resto del mondo, fino a mettere in questione il loro stesso farne parte? È probabile di no, anche se non lo si può escludere con sicurezza perché non possiamo entrare nella mente di un elefante o di qualunque altro animale. È vero però che qualche volta, guardando negli occhi i nostri animali domestici, vi si scorge una sottile malinconia o una gioiosa vivacità che di certo rivelano un profondo sentire, veri e propri sentimenti, e che quindi possono nascondere un grado insospettato di consapevolezza di sé. Rimane comunque come dato di fatto che solo gli esseri umani a partire da questo secondo livello della coscienza hanno dato origine all’attività detta pensiero, inteso, per dirlo con Platone, come «il dialogo che l’anima per sé instaura con se stessa»,20 o, per dirlo con Kant, come «parlare con se stesso, quindi anche un ascoltarsi interiore»,21 o, per dirlo con Hannah Arendt, come «il dialogo silenzioso che si intrattiene con se stessi».22 Da questo intrattenersi di sé con sé sono sorte le espressioni della vita interiore quali l’arte, la poesia, la musica, la religione, la filosofia, la spiritualità. E sempre da questa attività è nata l’esperienza che ha portato gli esseri umani, o per lo meno alcuni di loro, a concepirsi come «due-in-uno»,23 per riprendere un’espressione di Hannah Arendt, vale a dire come non riducibili alla semplice materialità. Occorre notare però che la logica dell’essere, anche in questa discesa nella solitudine del sé, è sempre la relazione, perché anche quando siamo soli con noi stessi e pensiamo, lo possiamo fare perché l’io in un certo senso si sdoppia, facendo sorgere quel fenomeno relazionale di dialogo tra sé e sé in cui consiste l’autentico pensare. Approfondendo la distinzione di sé con sé si precisa il terzo significato di coscienza.

22. Il terzo significato di coscienza: coscienza morale Se il secondo significato di coscienza nasce dalla distinzione dell’io rispetto al mondo avvertito come strutturale non-io, il terzo significato di coscienza nasce dalla medesima logica di distinzione applicata però

all’interno dello stesso io. La coscienza in questa prospettiva è la facoltà valutativa che distingue l’io dalle sue parole, dalle sue azioni, dalle sue omissioni, persino dai suoi pensieri, dando origine a quella disposizione della nostra energia mentale detta coscienza morale. La coscienza morale è la classica istanza che suggerisce, proibisce, rimprovera, rimorde: la coscienza come voce, come giudice che sottopone a un esame, come tribunale. Esattamente così la descriveva Kant, come «la voce di questo giudice interno»,24 come «tribunale interno»,25 a suo avviso il più alto e il più esigente perché «l’uomo può bensì stordirsi o ottundersi con piaceri e distrazioni, ma non può evitare, di quando in quando, di ritornare in se stesso e di svegliarsi: ed allora sente ben presto la voce terribile della coscienza». E non ci sono eccezioni: «Ogni uomo ha una coscienza e si sente osservato, minacciato e in genere tenuto in rispetto (che è una stima unita a timore) da un giudice interno, e questa potenza, che veglia in lui all’esecuzione della legge, non è qualcosa da lui arbitrariamente costruita, ma è inerente al suo stesso essere».26 Udire la voce della coscienza significa sentire di avere in sé una dimensione più grande di sé, una via che è propria ma che non coincide con il semplice io psichico. Per questo Kant parla di «duplice io» e argomenta: «Io, in quanto accusatore e nello stesso tempo anche accusato, sono un solo e medesimo uomo (numero idem); ma, come soggetto della legislazione morale derivante dal concetto di libertà, dove l’uomo è sottomesso a una legge data da lui stesso (homo noumenon), io debbo considerarmi come tutt’altro essere dall’uomo sensibile».27 L’antico mito egizio della pesatura del cuore o dell’anima al cospetto di Osiride avendo come contrappeso la piuma di Maat dea della giustizia (operazione detta psicostasia) è un’immagine simbolica che rimanda all’esperienza del giudizio cui la coscienza morale sottopone il singolo nel fargli prendere consapevolezza delle sue azioni e del loro peso, e ponendogli sostanzialmente questa domanda: hai contribuito a incrementare il bene e la giustizia, oppure l’ingiustizia e la sofferenza? Socrate descriveva qualcosa di simile quando raccontava ai giudici che poi l’avrebbero condannato a morte una sua ricorrente esperienza, quella di una presenza da lui talora avvertita misteriosamente dentro di sé e che egli denominava daimónion: «In me si manifesta qualcosa di divino e di demonico […] è come una voce che mi dissuade, allorché si manifesta, dal fare quello che sono sul punto di fare».28 Marco Aurelio, sei secoli dopo,

riprendeva il simbolo mutandone leggermente il termine ed esortando se stesso a trattare con cura il proprio daímon: «Non macchiare né agitare il démone che risiede nel tuo petto».29 La tradizione cattolica individua nella coscienza morale uno specifico legame con Dio che essa esplicita in un duplice modo: ontologico e operativo. In primo luogo essa afferma che, data la provenienza dell’anima umana da Dio, vi è in ogni essere umano un’innata disposizione che consente di capire che cos’è il bene e di preferirlo rispetto al male, disposizione che viene tradizionalmente denominata sinderesi. In secondo luogo la tradizione cattolica sostiene che nelle circostanze concrete della vita opera un particolare influsso dello Spirito Santo che aiuta la singola coscienza a riconoscere il bene e ad attuarlo, e a riconoscere il male e a respingerlo. Il teologo anglicano John Henry Newman, poi divenuto cattolico e creato cardinale da papa Leone XIII, parlava della coscienza dicendo che essa «è una legge del nostro spirito, ma che lo supera, che ci dà degli ordini». E proseguiva: «Essa è la messaggera di colui che, nel mondo della natura come in quello della grazia, ci parla velatamente, ci istruisce e ci guida. La coscienza è il primo di tutti i vicari di Cristo».30 In questa prospettiva il teologo Aristide Fumagalli definisce significativamente la coscienza «eco dello Spirito».31 Approfondirò la visione cattolica della coscienza morale e in particolare il concetto di sinderesi quando tratterò della prima virtù cardinale e del suo specifico lavoro, limitandomi ora a ricordare, quasi a mo’ di sigillo, le bellissime parole che il concilio ecumenico Vaticano II ha dedicato alla coscienza morale: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve obbedire […]. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nel suo intimo. Tramite la coscienza si fa riconoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità i molti problemi morali che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto nel contesto sociale».32 È possibile riassumere dicendo che la coscienza morale rappresenta quella forza che ci spinge a fare o a non fare, a compiere azioni che di per sé non vorremmo compiere e a non compierne altre che invece ci attirano. Come disse Cicerone: «Per la virtù non c’è pubblico più importante della coscienza».33 Talora è quasi come se si potesse giungere ad avere con questa

forza un contatto diretto, quasi a toccarla, e forse è per questo che si usa dire «mettersi la mano sulla coscienza». Da questa terza dimensione della coscienza nasce la consapevolezza di aver trattato gli altri, o di essere stati trattati dagli altri, secondo giustizia oppure no, di aver detto la verità o di aver mentito, di aver fatto il proprio dovere o di essersi tirati indietro, insomma la consapevolezza del bene e del male compiuti, o subiti, in prima persona singolare. Da questa peculiarità dell’esperienza umana nasce l’etica e la piena umanizzazione che essa comporta, di cui una delle più belle metafore è il travagliato itinerario di Pinocchio che prima sopprime il Grillo Parlante simbolo della coscienza morale e poi, a poco a poco, ripensando alle sue parole, si ravvede e da burattino giunge a essere «ragazzino perbene».34

23. Crisi Oggi però il concetto di coscienza è in crisi. Per quanto riguarda il terzo significato di coscienza morale, penso che ormai siano più numerosi coloro che ne contestano la legittimità fisica e psichica rispetto a coloro che la sostengono, ma anche il secondo significato di centro unificato della consapevolezza soggettiva è sempre più oggetto di perplessità, quando non di esplicita contestazione. Vi sono neuroscienziati e filosofi della mente per i quali la coscienza non è altro che un nome un po’ ambiguo dell’unico meccanismo di elaborazione dell’informazione che è la mente, e che quindi assumono il termine coscienza solo nel primo significato di cognizione operativa. Sulla base dell’assunto secondo cui l’unica realtà effettivamente esistente è quella dotata di estensione materiale, essi sostengono che a esistere realmente è solo il cervello, dal quale vengono prodotti «meccanismi di auto-monitoraggio»35 che la cultura prescientifica chiamava, e continua ingenuamente a chiamare, coscienza, o, peggio ancora, anima, ritenendoli espressioni di un altro livello dell’essere, mentre non sono altro che funzioni interamente naturali prodotte dal cervello in quanto macchina calcolatrice, cioè mere computazioni. Il cervello è l’hardware, la mente è il software, i pensieri sono i prodotti generati da tale software al fine di calcolare vantaggi e svantaggi nella lotta per l’esistenza. Tutto qui. E se rimane spazio per l’etica, esso è dato solo dalla prospettiva utilitaristica in quanto calcolo dei vantaggi e degli svantaggi del soggetto nel suo stare al mondo alle prese con altri soggetti.

24. Dennett Il più noto esponente di questa filosofia della mente, che ovviamente porta con sé una complessiva filosofia di vita, è il filosofo statunitense Daniel Dennett, nato nel 1942. Partendo dal fatto che le indagini scientifiche non ritrovano nel cervello nessun luogo centrale dove tutto converga e che abbia funzione di coordinamento tra le diverse operazioni cognitive (assunto che oggi non appare per nulla scontato, come poi mostrerò), Dennett sostiene che l’idea stessa di soggetto autocosciente è un «mito», intendendo ovviamente il termine mito secondo l’accezione ordinaria di favola, fantasia, non-verità. Più precisamente, Dennett parla di «mito del teatro cartesiano», di una rappresentazione cioè che immagina che all’interno del cervello vi sia un omuncolo che, come a teatro, vede la realtà, la giudica e decide. La verità invece, per Dennett, è che nulla di tutto ciò accade realmente: non c’è nessun omuncolo, non c’è nessuno che vede, giudica e decide. La teoria cognitiva di Dennett è decisamente un’altra: in ogni parte del cervello si verificano in ogni momento moltissime operazioni di filtro e di connessione degli input sensoriali, denominabili «Molteplici Versioni composte da processi di fissazione di contenuti».36 Da questa massa di contenuti fissati si producono molteplici versioni che raccontano il mondo, e tra queste ne emerge ogni volta una che risulta prevalente rispetto a tutte le altre versioni e che così produce la sensazione dell’unificazione della coscienza e di conseguenza dell’esistenza del soggetto. Il problema a questo punto è chiarire in che modo, all’interno dell’attività del cervello paragonabile al traffico di una megalopoli, la versione vincente riesca a imporsi e a emergere su tutte le altre, dando la sensazione illusoria di una coscienza unificata. La risposta di Dennett è molto chiara: ciò avviene a causa della sua «fama», o «celebrità», o «peso politico».37 Anche nel nostro cervello infatti vige la medesima lotta che permea il mondo naturale e il mondo economico: in natura si dà la competizione detta selezione naturale che fa progredire l’evoluzione, in economia vige la competizione detta mercato che fa affermare un prodotto e creare profitto, nel cervello vige una competizione denominabile selezione neurologica che fa emergere un contenuto sugli altri generando il senso (illusorio) del sé. In tutti i casi la logica è la medesima: quella di una lotta permanente che premia chi è più potente e più abile, ha più fama, è più celebre, ha più peso politico. Un proverbio milanese riferito originariamente al mercato del bestiame riassume

bene a mio avviso la situazione: Chi vusa püsé, la vaca l’è sua (letteralmente: «Chi grida di più, la vacca è sua»). Ma non è finita qui. Noi siamo dotati di linguaggio, interpretato da Dennett come «rete di parole» o come «ragnatela di discorsi».38 Il che vale per ogni nostra forma di comunicazione, anche per questa pagina che sto scrivendo, la quale pure sarebbe paragonabile a una ragnatela e io che scrivo a un ragno, con l’unica differenza che il ragno con le sue secrezioni produce una ragnatela, mentre io con le mie secrezioni sotto forma di parole secerno il senso dell’io; e come me, lo stesso fa ognuno di voi quando a sua volta parla, scrive, suona, dipinge, canta. Il motivo per cui il ragno crea la sua tela è noto. Lo stesso, per Dennett, fanno gli esseri umani: si dispongono verso gli altri come prede da cui estrarre emozioni, sentimenti, risorse e in questo modo nasce in loro l’illusione di avere, o peggio ancora di essere, un sé. In realtà: C’è solo la posizione del soggetto attorno alla quale viene tessuta una ragnatela infinita di discorsi: i discorsi di potere, sesso, famiglia, scienza, religione, della poesia, ecc. E, alla stessa stregua, non esiste l’autore, cioè colui che inventa un lavoro di fantasia dal nulla… nelle parole famose di Derrida… «il n’y a pas de hors-texte», «non c’è niente al di fuori del testo». Non ci sono origini, ma solo una produzione, e noi produciamo i nostri «sé» nel linguaggio.39

Il mercante di Plauto diceva homo homini lupus; con Dennett cambia solo il termine di paragone zoologico: homo homini araneus. Per quanto mi riguarda, ho imparato da Hegel che con la filosofia bisogna procedere come si fa con il maiale: non si butta via niente. Non vi sono cioè teorie interamente false, tutte sono portatrici di una parte di verità, perché «ogni filosofia è stata necessaria, e tale è ancora».40 La necessità che ci consegna Dennett concerne la fenomenologia della coscienza concreta di molti esseri umani, la quale davvero è in balìa di chi grida di più e della seduzione di parole sotto forma di ragnatela. Non ho dubbi che spesso si viva proprio come afferma Dennett, cioè sprovvisti di una coscienza quale centro unificatore di consapevolezza e ancora più di una coscienza morale, guidati solo da un istinto predatorio che a volte genera l’aggressività del predatore, altre volte la paura di chi è preda. Sono molte le persone che gridano o che sono in balìa di chi grida di più: lo si vede palesemente in politica e nel commercio, ma anche nella vita personale, nei gusti estetici che presiedono al nostro vestire, al nostro leggere, al nostro ascoltare, e ovviamente anche a livello religioso. Ovunque le mode e le suggestioni imperversano e molti vi rimangono intrappolati. Dennett, a mio avviso, non ha ragione a livello assiologico (a livello di ciò che Kant denomina antroponomia), ma ne ha da vendere a livello fenomenologico (a livello di ciò che Kant denomina

antropologia).41 Desidero concludere discutendo l’assunto di Dennett secondo cui le indagini scientifiche non ritrovano nel cervello nessun luogo centrale dove tutto converga e che abbia funzione di coordinamento tra le diverse operazioni cognitive, dando vita a ciò che chiamiamo io cosciente. Il punto è che non tutti gli addetti ai lavori sono di questa idea. Qui ne ricordo due. Allan Hobson, docente di psichiatria presso la Harvard Medical School, esperto delle basi cerebrali dei sogni, nega frontalmente l’assunto di Dennett sulla non rintracciabilità empirica della coscienza con queste parole: «Se, come io predico, la corteccia prefrontale dorsolaterale si riattiva durante le fasi di sogno lucido mentre continua lo spettacolo ponto-talamico dei sogni, allora il teatro cartesiano tanto disprezzato da Daniel Dennett esiste davvero. Una parte del cervello – la sede dell’io esecutivo – rimane sveglia e osserva, o addirittura dirige, lo spettacolo del sogno proiettato sullo schermo della coscienza mediante l’attivazione del ponte, del talamo e del sistema limbico». E conclude con parole non proprio gentili: «Roditi il fegato Daniel Dennett!».42 Il neuroscienziato americano di origine portoghese Antonio Damasio esprime una visione della vita e della coscienza all’insegna dell’emergentismo, la medesima prospettiva nella quale da tempo io colloco la mia visione del mondo. In questa prospettiva risulta del tutto evidente il ruolo della fisica e della chimica nella costruzione del fenomeno detto coscienza, ma, essendo la coscienza per l’appunto un fenomeno emergente o una costruzione, risulta altrettanto chiaro che essa non potrà essere individuata analizzando le componenti fisiche e chimiche che la rendono possibile perché sarebbe un po’ come voler gustare la torta mangiando le uova o le noci che la compongono. La coscienza infatti per Damasio si sviluppa sulla base di due prerequisiti che sono: «le due componenti della soggettività (la prospettiva e il sentimento) e l’integrazione di esperienze». Ora, «nessuna regione e nessun sistema specifico del cervello soddisfano i prerequisiti della coscienza», per cui, conclude Damasio, «non stupisce che i tentativi di individuare un’unica sede cerebrale della coscienza siano naufragati».43 Il che significa che siamo ancora una volta alle prese con l’inafferrabilità della libertà, già a suo tempo definita da Kant «la vera e propria pietra dello scandalo della filosofia»44 perché vi sono argomenti a favore tanto della sua esistenza quanto della sua illusorietà. E con questo concordano gli attuali

risultati della filosofia della mente, visto che «le attuali acquisizioni delle neuroscienze si dimostrano compatibili con tutte le tradizionali concezioni della libertà: tanto quelle positive (che radicano la libertà in un ambiente deterministico oppure in uno indeterministico) quanto quelle negative (che denunciano il concetto di libertà come una mera illusione)».45

25. Quale «io» mi metto? Oggi il terzo significato e persino il secondo significato di coscienza vengono da molti considerati un residuo dell’antica metafisica, in quanto affermano che in realtà non esiste un io unitario ma solo aspetti differenti e contrapposti del concreto e molteplice vissuto umano. Nell’ambito degli studi detto filosofia della mente si catalogano le diverse manifestazioni della realtà cui ci si riferisce di solito con il termine io, registrandone una quantità sorprendente: vengono individuati un io nucleare o proto-sé, un io esteso, un io fenomenologico, un io narrativo, un io autobiografico, un io concettuale, un io non-concettuale, un io momentaneo, un io continuo, un io somatico, un io ecologico, un io sociale. Sintetizzano Michele Di Francesco e Massimo Marraffa da cui riprendo questi dati: «La tendenza prevalente è di abbandonare l’assunto del carattere unitario della mente per affermarne la natura composita».46 Sembra quasi che, come a casa ci disponiamo di fronte all’armadio riflettendo su quali scarpe o vestito mettere, allo stesso modo facciamo con l’io: quale io mi metto? Con la differenza, rispetto alle scarpe e ai vestiti, che non siamo noi a scegliere, ma è piuttosto il caso, l’inconscio, l’istinto, l’ambiente, gli altri. Vale a dire: possiamo scegliere l’abbigliamento esteriore, ma non quello interiore; possiamo scegliere come vestirci, ma non chi essere. Questa decostruzione dell’io viene da lontano: già un secolo fa Freud dichiarava che nessuno di noi, in realtà, è «padrone in casa propria».47 Teoreticamente, il perno del discorso dipende a mio avviso dall’accettare o meno il libero arbitrio: se lo si ammette, si pone per ciò stesso un centro che lo esercita; se lo si nega, si esclude tale centro o nucleo di consapevolezza che struttura l’energia libera della nostra interiorità. Ora, se è vero che la negazione del libero arbitrio accompagna da sempre la storia del pensiero (nella modernità occidentale si pensi a Spinoza e a Schopenhauer),48 credo sia al contempo lecito sostenere che, mentre nel passato la negazione rappresentava l’orientamento minoritario tra gli studiosi, oggi è divenuta

maggioritaria. Con un inevitabile paradosso: che le nostre convinzioni teoretiche contrastano con il nostro modo di vivere quotidiano. Nella vita concreta infatti tutti presupponiamo come reale ed effettivo il libero arbitrio, sia il nostro, che esigiamo venga rispettato nelle decisioni prese, sia quello degli altri, che noi non esitiamo a richiamare alle loro responsabilità quando non adempiono ai loro compiti. A livello pratico tutti agiamo come se fossimo dotati, noi e gli altri, di libero arbitrio in quanto capacità di intendere e di volere, mentre a livello teorico sosteniamo sempre più diffusamente che siamo in balìa di istinti e di pulsioni irrazionali su cui la nostra volontà non ha alcun potere, salvo quello, effimero e consolatorio, di razionalizzarne gli effetti illudendoci che vi sia un io che, come a teatro, vede da fuori e controlla e decide, mentre è vero esattamente l’opposto. Insomma la crisi del soggetto è servita, sintetizzata bene da questa celebre battuta: «Dio è morto, Marx è morto, e anch’io non mi sento molto bene».49 La filosofia degli antichi insisteva sulla presenza in noi di ciò che gli stoici denominavano «principio direttivo», in greco hegemonikón, un criterio stabile in base a cui governare le azioni e i pensieri. Epitteto ammoniva nel suo Manuale, tanto amato da Leopardi: «Fa’ attenzione a non nuocere al principio direttivo che è tuo».50 Marco Aurelio annotava: «Ciò che io sono, qualunque cosa sia, altro non è se non un po’ di carne, soffio vitale e il principio direttivo»,51 esortando se stesso a porre tutta la sua attenzione nella coltivazione di tale principio. Si illudevano? Oppure siamo noi che stiamo perdendo la nostra più preziosa ricchezza perché consideriamo la coscienza personale nulla più che un mito, una finzione, un residuato, una ragnatela? Io abbraccio la prospettiva classica, quella che, pur consapevole delle nebbie dell’io, crede nel lavoro e nella sua reale operatività, crede nella libertà responsabile e nei suoi frutti, la prospettiva che nel modo più chiaro (quindi appunto classico) viene presentata dalla filosofia dell’antica Grecia, in particolare da Platone, Aristotele, gli stoici, che nell’epoca moderna rivive soprattutto in Cartesio, Kant, Hegel, e nel Novecento in Karl Jaspers, Hans Jonas, Hannah Arendt. Tra coloro che sostengono la possibilità della coscienza morale e dell’azione responsabile, e coloro che negano consistenza all’io e alla sua capacità di responsabilità, io, dotato di capacità di giudizio e di coscienza morale, non esito a stare dalla parte dei primi, anche se temo di ritrovarmi in minoranza.

26. Pensiero ed esistenza Alla luce della crisi del concetto di coscienza penso sia necessario chiedersi se abbia ancora senso parlare di bene, di virtù, di educazione, di etica, nonché di una politica come ricerca del bene comune, e non come lotta per acquisire il consenso popolare facendo leva proprio sull’inesistenza di una reale capacità di giudizio perché gli esseri umani sono tutti facilmente adescabili dalla propaganda della ragnatela dei media e dei social. A questa domanda la mia risposta è un convinto sì. Penso infatti che l’essere umano sia un fenomeno straordinario, per nulla riducile alla mera dimensione naturalistica. Quello che dice Dennett è tutto vero, ma non è tutto. E non essendo tutto, non è vero, perché il vero, come ha insegnato Hegel, è solo «l’intero».52 Non c’è dubbio che noi siamo una ridda scomposta di voci interiori, neppure però c’è dubbio che siamo anche di più: siamo anche la consapevolezza di questo disordine interiore, la quale a sua volta è resa possibile da un più originario desiderio di ordine senza il quale il disordine non apparirebbe disordine ma semplice normalità. I nostri antichi padri latini assegnavano sommo valore al concetto di humanitas: cosa intendevano? Tutti noi nella concretezza della quotidianità facciamo spesso un’esperienza abbastanza sconfortante di umanità assaporando quel misto di maleducazione, ignoranza, supponenza, noncuranza, avidità, stupidità, arroganza, banalità, a cui Nietzsche si riferiva dicendo «umano, troppo umano». Mi ricordo una sera d’estate in una località marina, di come avevo appena letto e meditato alcuni pensieri di Marco Aurelio sulla benevolenza verso gli esseri umani ed ero uscito ricolmo di buoni sentimenti, e di come questi si sciolsero all’improvviso al vedere un signore a un passo da me buttare con noncuranza per terra la carta del cibo che stava mangiando. Ed è solo un esempio ridicolo, quanti se ne potrebbero esporre molto più drammatici. Tuttavia il fenomeno umano non è riducibile a questo piattume, e a volte marciume; esiste anche un altro modo di vivere, quello di chi si colloca fuori da questa grossolanità, anche solo per un’esigenza estetica, anzi soprattutto per un’esigenza estetica, e così inizia a esistere. In questo modo superiore di stare al mondo (com’è superiore la grande musica rispetto a tante «immondizie musicali»)53 consiste la vera e propria humanitas, quel modo di essere che possiamo chiamare anche nobiltà d’animo, cura, coraggio, generosità, lealtà, altruismo, senso di giustizia; in sintesi, coscienza morale.

Ha affermato Hannah Arendt: «Coloro che non sono innamorati della bellezza, della giustizia e della sapienza sono incapaci di pensiero».54 Cosa ha a che fare il pensiero cui si riferisce la filosofa con la ragnatela di Daniel Dennett? Poco, perché il pensiero nell’accezione arendtiana proviene da quel desiderio di ordine interiore che è alla base del concetto di humanitas. Se ne comprende il senso, se si distingue con attenzione pensare da elaborare informazioni, distinzione che rimanda a quella ancora più radicale tra vivere ed esistere. Chi decide di ex-sistere si colloca fuori dalla catena della vita simboleggiata dalla caverna di Platone, dalla ragnatela di Dennett, dal tunnel dell’io di cui parla il filosofo della mente Thomas Metzinger.55 Il punto però è capire che cosa conduce il nostro io fuori dalla caverna, che cosa lo libera dalla ragnatela, che cosa lo conduce a non elaborare semplicemente informazioni ma a pensare.

27. Anima Anima significa originariamente «vento, soffio, aria che si muove». Il termine greco ánemos significa «vento» e corrisponde in latino ad anima e animus, termini che rimandano al soffio vitale che rende animato, cioè vivo, un organismo; non a caso da qui viene anche il termine animale, sicché chiedersi se gli animali abbiano un’anima è come chiedersi se il triangolo abbia tre lati. A sua volta il principale termine greco per «anima», psyché, significa anzitutto «soffio», come si intuisce anche dall’evidente onomatopea. E sempre da «aria» deriva il termine ebraico per anima, nèfesh o neshamà. Allo stesso modo spirito significa in prima battuta «soffio, respiro», il che vale per il latino spiritus, il greco pneûma, l’ebraico ruah, il sanscrito ātman da cui «atmosfera», sfera del respirare (verbo che in tedesco si dice atmen). Tutto questo per dire che a ognuno di noi, situato nel fondo della caverna o nel centro della propria ragnatela dove può trascorrere l’intera vita, talora può succedere qualcosa di diverso, può arrivare «una voce sottile, quasi silenzio»56 che lo strappa dalla ragnatela e lo libera dalla caverna. Mi riferisco a una specie di ispirazione, diversamente interpretata a seconda della tradizione di appartenenza e della sensibilità personale, e denominata bene, giustizia, verità, bellezza, armonia, divino, o in altri modi ancora. Questa idea, che, per distinguerla dall’accezione comune che la confonde con il concetto o peggio con l’opinione, andrebbe scritta Idea, è la luce che illumina le nostre tenebre di cui parla Platone sottolineandone il carattere

improvviso e il suo consistere in uno «sguardo in su verso la luce»,57 e di cui anche il buddhismo parla in termini di bodhi, letteralmente «risveglio», o di satori, letteralmente «rendersi conto».58 È la forza che ci strappa dalla ragnatela. È un’esperienza che supera il livello delle esperienze ordinarie, e per questo viene avvertita come diversa e connotata secondo due modalità apparentemente opposte: o come esperienza di trascendenza, riferendola a qualcosa di più alto solitamente collocato «nei cieli»; o come esperienza di profondità, riferendola a una discesa nel proprio interno fino a toccare «il cuore dentro il cuore».59 Ma a questo livello, come ha scritto Alberto Magno, «altum et profundum idem sunt»,60 nel senso che il fenomeno è lo stesso: è quello del vivere che diventa esistere. È sorta da qui l’idea del divino, espressa poi con categorie diverse a seconda delle culture di riferimento. Oggi alcuni conservano questa idea, altri non più, ma questo è secondario. Quello che è veramente decisivo non è la concettualizzazione della trascendenza, ma la sua esperienza. E per esperienza della trascendenza non intendo sentire voci, avere visioni, ricevere apparizioni, assistere a miracoli e cose di questo tipo; né intendo aderire a una religione istituita e «tributare sommo onore al clero»;61 intendo piuttosto il compiersi della auto-trascendenza.

28. Auto-trascendenza Che cosa intendo con auto-trascendenza? Con questa espressione mi riferisco all’esperienza di chi avverte, ora con una specie di urgenza, ora con pacata serenità, l’instaurarsi al proprio interno di un’istanza più importante di sé, e il conseguente farle spazio assegnandole il posto d’onore della mente e del cuore. Intendo il superamento di sé. Ovvero, per riprendere le parole di Hannah Arendt, l’innamorarsi della bellezza, della giustizia e della sapienza. È questo, a mio avviso, il momento decisivo della vita: quando esso avviene, la vita diviene esistenza. Allora l’io scopre un sentiero dentro la foresta di voci interiori tutte diverse in cui normalmente si trova, individua un filo rosso all’interno del labirinto di passioni, desideri, paure, complessi, paranoie dentro cui solitamente si muove. Senza questa idea-guida rimane in balìa della ridda di voci interiori e la sua mente è come una fiera di bestiame dove vince chi grida di più; con questa idea-guida, invece, raggiunge l’unificazione interiore. Ne viene una conclusione paradossale: che il superego è la condizione

necessaria per la realizzazione dell’ego. Senza superego infatti l’ego non è neppure ego, ma solo una babele di tanti piccoli e contrastanti io, il cui vero nome è come quello che il vangelo attribuisce a un demonio: «Il mio nome è Legione perché siamo in molti».62 È paradossale ma è così, sembra una specie di salto quantico: diveniamo veramente noi stessi superando noi stessi.

29. Il tunnel dell’io La prova del fatto che il superego è il presupposto della realizzazione dell’ego è data da quanto oggi è sotto gli occhi di tutti, quando il superego è ormai smantellato e si assiste al progressivo smantellamento dello stesso ego, non solo nella vita quotidiana dove aumenta il disagio psichico, ma anche nella ricerca filosofica e psicologica dove predomina «l’attacco diretto verso quell’unità della consapevolezza cosciente che è stata a lungo considerata un tratto essenziale dell’io».63 Secondo Thomas Metzinger, autorevole filosofo della mente dei nostri giorni, «non esiste una cosa simile a quello che comunemente chiamiamo sé… nessuno è mai stato o ha mai avuto un sé».64 Che cosa siamo, quindi, per lui? «Siamo macchine dell’io, sistemi naturali di elaborazione dell’informazione sviluppatisi nel corso del processo di evoluzione biologica su questo Pianeta.»65 E qual è il nostro destino? Un’invalicabile solitudine, in quanto «non possiamo abbandonare il tunnel dell’io, poiché nessuno potrebbe farlo».66 Metzinger però a mio avviso dimentica che tutta l’impresa filosofica, per lo meno secondo la tradizione operante a partire da Platone, consiste proprio in questa uscita dal tunnel, di cui già Platone parlava in termini di caverna. Anzi, già un secolo prima Pitagora invitava i discepoli all’esame di coscienza, da compiersi due volte al giorno, al mattino appena alzati e alla sera prima di addormentarsi:67 e che cos’è questo esame di coscienza se non una salita della coscienza sopra se stessa paragonabile all’uscita dell’io dal tunnel dell’io? L’educazione morale e spirituale a cui l’umanità ha da sempre mirato può essere sintetizzata nella massima delfica «Conosci te stesso»,68 la quale si può descrivere come un’uscita, per quanto temporanea e sempre da rinnovare, dal tunnel dell’io. Chi conosce se stesso, infatti, se non sempre il sé? Questa conoscenza di sé da parte del sé comporta, come ogni atto di conoscenza, un’oggettivazione, il fatto cioè che l’io soggetto possa porre se stesso come oggetto, operando una specie di auto-superamento o auto-

trascendenza che consente di vedersi come dall’alto; ovvero, riprendendo la metafora di Metzinger, di uscire dal tunnel. Ma c’è dell’altro: io posso sapere che sono in un tunnel solo se ho l’esperienza della luce; altrimenti, essere nel tunnel equivale semplicemente a essere, esattamente come i prigionieri nella caverna dell’omonimo mito di Platone che stavano benissimo incatenati con la faccia al muro perché pensavano che la vita fosse tutta lì. Quindi già l’affermare che siamo in un tunnel presuppone che, almeno in parte, non lo siamo e che quindi, almeno qualche volta, ne possiamo uscire. È quanto affermava già Kant: «Se consideriamo il mondo come apparenza, esso dimostra l’esistenza di qualcosa che non è apparenza».69

30. Sul trascendimento di sé e sulla trascendenza Nel celebre incipit della «Conclusione» della Critica della ragion pratica Kant afferma: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuove e crescenti» e le nomina così: «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».70 Il filosofo prosegue dicendo che queste due «cose» non sono situate chissà dove là in alto, ma sono congiunte immediatamente con la coscienza della sua esistenza, vale a dire: basta iniziare a esistere per rendersene conto. Continua analizzando le due «cose» e mostrando come da esse provenga una duplice e contraddittoria sensazione, del tutto in linea con l’antinomia a cui l’indagine della ragione teoretica l’aveva condotto: da un lato la consapevolezza di essere una nullità rispetto al cosmo, dall’altro la consapevolezza della nostra natura speciale che ci apre all’infinito. Per quanto attiene al primo aspetto, Kant scrive che «la vista di una molteplicità innumerevole di mondi riduce in certo modo a nulla la mia importanza di creatura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (che è un semplice punto nell’universo) la materia di cui è formata».71 Si tratta di un’esperienza comune fin dai primordi del genere umano: sempre noi uomini abbiamo avvertito come il cosmo e la sua immensità manifestino la condizione effimera della nostra vita, il nostro essere polvere destinata a tornare polvere, il nostro essere solo un soffio, foglie che presto cadranno e che nessuno raccoglierà, e da qui molti di noi sono giunti a considerare la vanità che avvolge il tutto, anzi la vanità che lo stesso tutto è, come recita l’amara sapienza di Qohelet: «Vanitas vanitatum, et omnia vanitas», «Vanità delle vanità, tutto è vanità».72

Con la seconda «cosa» si ha una brusca virata. Essa, dice Kant, «comincia dal mio io invisibile, dalla mia personalità», il che significa che la condizione di possibilità di tale seconda cosa consiste nel prendere sul serio la propria interiorità, l’attestazione del proprio sentire morale, la propria passione per il bene e per la giustizia. Ecco le parole di Kant: «L’altra vista innalza invece infinitamente il mio valore, come proprio di una intelligenza, attraverso la mia personalità, in cui la legge morale mi rivela una vita indipendente dalla animalità e anche da tutto il mondo sensibile».73 Qui Kant afferma che la presenza dell’etica attesta che l’essere umano è più di semplice vita naturale, contiene un valore e una personalità che lo rendono indipendente, si potrebbe dire libero, dal mondo materiale. Identica conclusione a cui era giunto Platone. Kant aggiunge inoltre che l’etica conferisce alla nostra esistenza una «determinazione secondo fini» intendendo dire che la presenza in noi dell’esigenza morale ci inserisce in una prospettiva teleologica, cioè ci dà uno scopo. Tale teleologia forse nel mondo non c’è, forse il mondo naturale non ha alcun senso, non nasce da un progetto, meno che mai da un progettista autore di un disegno intelligente, né va verso il compimento di un progetto; forse, chissà. È indubitabile però per Kant che la presenza dell’esigenza morale dentro di me mi apre a una prospettiva teleologica, insomma mi conferisce un fine, uno scopo, e con questo un senso e una direzione. Non posso avere dubbi infatti che dentro di me il fine esista e si muova, lo vedo dal fatto che mi porta ad agire per il bene e la giustizia, sicché io capisco, dice Kant, che questo mio esistere «non si restringe alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito».74 L’infinito. È l’apparire dell’etica nel fenomeno umano a rendere legittima la speranza religiosa, esattamente al contrario della pretesa delle religioni di far scaturire e dipendere l’etica da se stesse. Hannah Arendt commenta così questo passo kantiano: «Dunque, ciò che ci salva dall’annientamento, o dall’essere un “semplice puntino” nell’infinità dell’universo, è per l’appunto questo “io invisibile”, capace da solo di contrapporsi all’universo infinito».75 È l’esperienza descritta e immagino vissuta da Cicerone, con parole che sorprendono per l’analogia con la prospettiva kantiana: «In chi ha l’animo intento a questi problemi e li medita giorno e notte, insorge quel tipo di conoscenza prescritta dal dio di Delfi, in cui la mente riconosce se stessa e si sente congiunta con la mente divina, e questo la riempie di gioia infinita. La mente infatti, proprio attraverso la

meditazione sull’essenza e sulla natura degli Dei è presa dal desiderio di imitarne l’eternità, e non si sente chiusa nei limiti della brevità della vita».76 Il punto però, mi permetto di aggiungere, è che questo «io invisibile» o «personalità», questo «semplice puntino» tanto diverso rispetto all’universo perché ospita la legge morale, è pur sempre il prodotto di questo universo a cui esso poi si contrappone. Per chi ne assume la consapevolezza, viene allora meno la contrapposizione e nasce la disposizione, cioè non più «due cose» ma un unico processo: ci si dispone di fronte all’universo avvertendone sempre la differenza a causa della sua sconvolgente immensità e del suo essere privo di moralità, sapendo, tuttavia, che ne siamo parte e che siamo il prodotto del suo lavoro e che veniamo da lì, e che anche la nostra legge morale viene da lì seppure secondo un processo discontinuo, e così si acquisisce un profondo senso di unificazione. Vorrei richiamare quanto già affermato sopra, cioè che tale autotrascendimento può culminare o no in una fede di tipo religioso in Dio e nell’immortalità dell’anima, ma che non è questo il punto decisivo. Il punto decisivo non è credere, ma è trascendere se stessi, superarsi, vivere per qualcosa di più grande del piccolo sé, e quindi essere in grado di esaminarsi, di pesarsi, di soppesarsi, di porre se stessi sulla bilancia mettendo su un piatto la vita reale e sull’altro la vita ideale, giungendo alla vera conoscenza di sé e soprattutto all’azione virtuosa, alla pratica del bene e della giustizia. Poi per qualcuno questo trascendimento di sé condurrà alla trascendenza pensata in senso teologico, cioè all’esistenza della Divinità; per altri no, rimarrà solo un auto-trascendimento senza nessuna trascendenza reale. Ma questo, a mio avviso, lo ripeto, è secondario. L’essenziale è che questo auto-trascendimento si dia e che si giunga così a percepire il desiderio e la forza di essere migliori.

31. Il dono della coscienza Credo che adesso risulti chiaro il profondo significato di queste sorprendenti parole di Hannah Arendt: «Non è irrilevante notare come la parte immortale e divina nell’uomo non esista se non viene attualizzata e focalizzata su ciò che è divino fuori di lui; in altre parole, l’oggetto dei nostri pensieri conferisce immortalità al pensare stesso».77 Io penso che qui tocchiamo il punto decisivo: ognuno di noi diventa ciò che guarda, desidera, pensa. La qualità della nostra vita interiore, il valore di ciò che siamo, il nostro stesso destino, dipendono da noi. Abbiamo la

possibilità di sperimentarci come prigionieri in una caverna o come ragni, oppure come «affamati e assetati di giustizia»,78 di rapporti autentici e responsabili vivendo i quali divenire autentici e responsabili. Tutto dipende da ciò su cui avviene l’attualizzazione e la focalizzazione della nostra energia interiore. Questa fame-sete di giustizia, così diversa rispetto alla fame-sete ordinaria, ci può strappare dalla ragnatela, e quando questo avviene si è nella condizione di sentire come proprie queste parole di Marco Aurelio: Un attimo dura la vita dell’uomo, e un fluire continuo è la sua essenza, indistinta la sua percezione, corruttibile il suo intero corpo, un turbine l’anima, imprevedibile il destino, incerta la fama. Insomma, tutto ciò che riguarda il corpo è come un fiume; tutto ciò che riguarda l’anima, sogno e illusione; la vita è lotta e viaggio in terra straniera; la fama dopo la morte, oblio. Che cosa dunque resta che ci dia protezione? Unica e sola, la filosofia. E questa consiste nel serbare intatto e puro il proprio demone interiore [daímon], trionfante sui piaceri e sui dolori, incapace di agire a caso o con falsità e ipocrisia, indipendente dal fatto che altri compiano o no la tale azione.79

Se è possibile esprimere con una parola sola la visione della vita contenuta in questo brano, questa parola è coscienza. È la coscienza che ci fa serbare intatta la nostra interiorità, perdendo la quale si perde tutto, anche se si diventa l’uomo più importante del mondo, mentre conservando la quale si conserva tutto, tutto quello che costituisce il valore reale di un essere umano. Riassumo le acquisizioni di questo capitolo rispondendo alla domanda iniziale sulla natura dello sperimentatore, se esista cioè un soggetto umano realmente capace di bene. A mio avviso la risposta è sì, e lo è grazie alla realtà di quella delicata disposizione della nostra energia interiore che chiamiamo coscienza: la coscienza è quella forma di intelligenza che ci fa percepire il bene e insieme quella forma della volontà che ci fa sentire il dovere di compierlo. La coscienza chiama in causa sia l’intelligenza sia la volontà, è l’intelligenza applicata alla volontà ed è la volontà applicata all’intelligenza, con il risultato di una consapevolezza vigile, attenta, ben disposta. Tutto ciò si manifesta in particolare generando quella disposizione fondamentale della mente e del cuore detta tradizionalmente virtù, su cui mi soffermerò nel prossimo capitolo.

32. Il quarto significato di coscienza: coscienza mistica Quasi a mo’ di appendice mi soffermo brevemente sul quarto livello della coscienza detto coscienza mistica. Lo faccio a partire dalla considerazione che l’essere che noi vediamo è impermanente, muta, passa, se ne va; il buddhismo parla al riguardo di anitya, una delle tre caratteristiche strutturali

di ogni fenomeno (le altre due sono dukkha, sofferenza, e anātman, assenza di un’anima immutabile). Ma io chiedo: come chiamare quella facoltà che in noi vede l’impermanenza e la dichiara come tale? Se io vedo l’impermanenza e dichiaro che tutto è impermanente, produco in quello stesso istante un’affermazione che impermanente non è, bensì che vale sempre e sempre si verificherà, visto che l’essere sarà sempre impermanente. Dicendo «tutto è impermanente» produco un’affermazione che, proprio mentre dichiara l’impermanenza, dichiara altresì la permanenza, potremmo dire l’eternità. Tutto scorre, ma la frase che afferma «tutto scorre» non scorre, permane. Sorge quindi la questione di come denominare questa facoltà che, vedendo lo scorrere del tempo, lo dichiara, e quindi lo supera, perché produce un’affermazione che non perderà mai valore. Per dare un nome a questa capacità della mente di superare l’impermanenza, la tradizione filosofica greca a partire da Anassagora nel V secolo a.C. ha parlato di noûs, termine tradotto solitamente con «intelletto», e che io preferisco rendere con «spirito». Ma a prescindere dalle denominazioni, quello che conta è il fenomeno della nostra energia interiore che vede l’impermanenza di ogni cosa e dichiarandola produce un’affermazione che impermanente non è, e che può generare altre forme di manifestazione dello spirito tra cui la coscienza morale generatrice di etica. Per coloro che hanno una visione del mondo all’insegna del materialismo riduzionista il termine spirito che rimanda a un’energia interiore e libera dentro di noi è il residuo di una concezione di altri tempi perché per loro l’energia può essere solo meccanica, chimica, termica, elettrica, elettromagnetica, nucleare, ma non certamente spirituale. Per altri però le cose stanno in modo diverso. Qui mi limito a citare due scienziati, per il ruolo, diciamo così, al di sopra del sospetto di essere sognatori o visionari. Erwin Schrödinger, Nobel per la fisica, ha parlato di «energia libera»,80 mentre il biologo Stuart Kauffman, tra i principali elaboratori della teoria della complessità, scrive ai nostri giorni di una «mente immateriale, non reale oggettivamente», dicendo che essa «ha conseguenze sul mondo fisico reale»; che «la res cogitans ha conseguenze sulla res extensa! La mente immateriale ha conseguenze sulla materia».81 Lo spirito cioè si manifesta come una forma particolare di energia. Ottenere un’evidenza sperimentale di questa energia non legata a un sostrato materiale, e tuttavia tale da incidere sulla materia, è possibile. È sufficiente considerare come nello yoga di tradizione hindu o nella

meditazione di tradizione buddhista vi siano casi in cui con la mente si giunge a controllare completamente il respiro e persino il battito del cuore, segno di come la materia del corpo possa essere controllata dalla pura energia spirituale che procede dalla mente. Si pensi anche al controllo della temperatura corporea di chi riesce a resistere all’esposizione a freddi intensi, al controllo della sensibilità al dolore che giunge a fare a meno di anestesie in operazioni chirurgiche o dentistiche. Le grandi spiritualità e le filosofie classiche hanno sempre conosciuto l’esistenza di questa particolare e raffinatissima forma di energia che è lo spirito. Come ho detto, gli antichi greci ne parlavano in termini di noûs, cui si affianca il termine pneûma, con un significato sia antropologico sia cosmologico; gli hindi ne parlano in termini di dharma a livello cosmologico e di pra¯na o kundalinı¯ a livello antropologico, e i cinesi di tao a livello cosmologico e di qi a livello antropologico. Di quest’ultimo si ha evidenza sperimentale nell’agopuntura, sempre più diffusa in Occidente e praticata anche in alcuni ospedali.82 Aristotele collocava la pienezza dell’essere nel noûs poietikós (solitamente tradotto con «intelletto attivo» e traducibile anche come «spirito creativo») che egli qualificava «immortale ed eterno».83 Schrödinger ha sostenuto la medesima prospettiva: «La teoria fisica nel suo stato presente suggerisce energicamente l’idea dell’indistruttibilità dello Spirito per opera del Tempo».84 Gli esseri umani hanno sempre fatto esperienza di questa particolare forma di energia al loro interno e ne hanno parlato in vari modi, definendola a volte ispirazione, a volte voce della coscienza. Di tale voce della coscienza che ispira e al contempo ammonisce vi sono attestazioni in tutte le grandi civiltà, si tratta delle esperienze di chi ha sentito di avere in sé una dimensione più grande di sé, una via che è sua ma che non coincide con il suo semplice io. Le testimonianze in tal senso sono molteplici e universali, e il loro senso è riassunto bene da queste parole con cui Pierre Hadot presenta l’intuizione centrale di Plotino: «L’io dell’essere umano non è irrimediabilmente separato dal modello eterno dell’io quale si trova nel Pensiero divino. Questo vero io, questo io in Dio, è dentro di noi».85 Io penso che anche uno dei più brillanti geni matematici della modernità, Blaise Pascal, sperimentò questo peculiare stato della coscienza mistica quando, a testimonianza di un’intensa esperienza spirituale nella notte del 23 novembre 1654, scrisse «fuoco» su un foglietto, oggi noto come Memoriale,

che da quel momento portò sempre con sé cucito sull’interno della giacca.86

III. LA VIRTÙ, LE VIRTÙ

33. Etimologia di etica e di morale Si parla comunemente sia di etica sia di morale. Il primo termine è di origine greca, il secondo di origine latina e talora vengono usati con un’accezione diversa, riservando etica allo studio delle dottrine e morale al comportamento concreto. Questa maggiore concretezza ha conferito al termine morale la possibilità di una sfumatura negativa, come quando si dice «fare la morale» o «moralista», rischio che il termine etica non corre. Al contempo però morale possiede più aderenza alla realtà rendendo possibile dire per esempio «bellezza morale», mentre non si può dire «bellezza etica». Per quanto mi riguarda, pur consapevole delle diverse etimologie e delle diverse sfumature, considero i due termini sostanzialmente sinonimi perché rimandano entrambi alla dimensione pratica della vita umana e ai criteri orientativi che la guidano. Il termine morale viene da moralia, letteralmente «le cose morali», da mos, moris che significa principalmente: a) volontà, b) usanza, c) regola. Il termine etica viene da ēthiké, a sua volta da ēthos che significa principalmente: a) dimora, b) usanza, c) carattere. Ēthos ha una significativa assonanza con ethos (la differenza tra i due è data dalla «e» iniziale, lunga per il primo termine, breve per il secondo), il cui significato è «abitudine, uso, costume». Queste informazioni sono necessarie per capire l’affermazione di Aristotele secondo cui «la virtù morale (ēthiké) deriva dall’abitudine (ethos)»;1 il che significa anche che il carattere, ovvero quello che uno è, deriva dall’abitudine, ovvero da quello che uno fa. In questo modo la virtù per Aristotele consiste nel contrarre un’abitudine e l’educazione viene ad assumere un ruolo cruciale: «Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro, ma al contrario è importantissimo, o meglio, è tutto».2 Emerge un’analogia quasi perfetta con questo proverbio buddhista:

«Semina un atto, e raccogli un’abitudine; semina un’abitudine, e raccogli un carattere; semina un carattere, e raccogli un destino».3 L’etimologia greca, l’etimologia latina e il proverbio buddhista ci fanno così capire in piena consonanza cos’è realmente in gioco nell’etica: non semplicemente un fare, ma più profondamente un essere. L’etica infatti, portandoci a fare o non fare determinate azioni, giunge a costituire la dimora della nostra mente e così a dare forma e sapore al nostro essere.

34. Il radicamento corporeo dell’etica e la necessità della virtù Il fatto che ēthos significhi anzitutto «dimora» mi conduce a un’ulteriore considerazione. La nostra primordiale e inestirpabile dimora è il corpo, il quale è abitato da una logica di armonia relazionale che fa sì che la salute vada intesa come equilibrio dinamico, tecnicamente detto omeostasi.4 È questo il motivo per cui, a mio avviso, in una coscienza retta e fisiologicamente sana l’etica si impone da sé, senza bisogno di ipotizzare influssi soprannaturali: l’impulso a comportarsi in modo onesto e il sentimento del dovere che ne consegue sono connaturati a una mente umana in salute perché ne rispecchiano la medesima logica. È quanto già sosteneva Epitteto: «Per ciascuno, la misura di ciò che deve avere è il suo corpo, come il piede è la misura della calzatura. Se ti attieni a ciò, manterrai la giusta misura». Non senza aggiungere: «Se vai oltre, è inevitabile che alla fine tu sia trascinato come in un precipizio».5 I peggiori criminali (tra cui i criminali politici di un tempo e di oggi, che Platone chiamava tiranni compiangendoli come i più sventurati tra gli uomini,6 e di cui Marco Aurelio diceva di aver capito «a quale grado di invidia, di scaltrezza e di ipocrisia arrivino», aggiungendo che sono «tra i più incapaci di vero affetto»)7 pensano sia giusto quello che ordinano agli altri di fare, oppure sono consapevoli di dare ordini perversi? Io non lo so; quello che so è che la perversione è tale perché dice a se stessa: “Questo è quanto dovrebbe essere giusto fare, io però faccio il contrario perché mi va così”. Si chiama perversione proprio perché muta radicalmente l’originario verso che ogni essere naturale è portato a seguire in modo spontaneo. Il perverso è colui che tradisce il verso seguendo il quale ci si muove istintivamente, come quando uno per strada ti chiede dov’è quella via e tu glielo dici e non ti passa neppure per la testa di indicargli la direzione opposta, o come quando uno cade e tu l’aiuti a rialzarlo perché ti viene spontaneo dargli la mano e non ti

passa neppure per la testa di schiacciarlo con il piede. Nella gran parte dei casi però, soprattutto quando è in gioco il nostro interesse, questa logica originaria di armonia relazionale che governa i nostri corpi e che in alcune situazioni particolari fluisce spontaneamente deve passare attraverso l’energia libera che chiamiamo volontà, o anche libero arbitrio, al fine di potersi realizzare stabilmente nelle nostre relazioni e nelle nostre attività. Per questo necessita di una forza che agisce su di essa. Tale forza è la virtù.

35. I molteplici significati del concetto di virtù Già a partire dal nome, il concetto di virtù sa un po’ di antico, forse addirittura di sorpassato. Lo si comprende considerando l’aggettivo corrispondente, virtuoso: quanti usano ancora questo aggettivo? Un’azione virtuosa, un uomo virtuoso, una donna virtuosa… Certo, talora si dice, ma è come girare in città con vestiti d’altri tempi, non dico con la bombetta e il bastoncino, o con la veletta e la gonna a balze che arriva fino ai piedi, ma quasi. È più frequente l’uso di virtuoso come sostantivo, intendendo chi padroneggia alla perfezione un’arte o una tecnica, come quando diciamo «un virtuoso del violino». Questo non toglie però che il concetto di virtù abbia un’importanza decisiva in sede etica e spirituale e quindi meriti di essere attentamente considerato. Per comprendere la virtù nella sua essenza specifica occorre distinguerla con attenzione dalle doti naturali. Il fatto di possedere intelligenza, o bellezza, forza, agilità, umorismo, o tutte queste doti insieme con l’aggiunta di altre, non attiene alla virtù ma alle qualità naturali, alla dotazione con cui ognuno di noi, con maggiore o minore fortuna, viene al mondo. La virtù entra in gioco quando si usano «in base a certi principi del giusto»8 le qualità di cui si è dotati, se dalla sorte o dalla provvidenza chissà. La virtù è una disposizione della posizione in cui la natura ci ha posizionato. La posizione non dipende da noi, la disposizione sì. Virtù ha più di un significato: 1) è la forza che permette di compiere un atto, come quando si dice «in virtù di»; 2) è la misura che fa raggiungere il giusto equilibrio, come quando si dosano gli elementi di una pianta ottenendone la «virtù curativa»; 3) è la capacità acquisita tramite l’abitudine, come quando si dice «la virtù dell’ascolto»; 4) è la leggerezza che deriva dal saper prendere le distanze anche dalla propria virtù, quel senso di libertà

rispetto a se stessi che è una delle più belle manifestazioni della maturità spirituale. Individuati questi quattro significati del concetto di virtù, ora li passo sinteticamente in rassegna.

36. Virtù come forza Etimologicamente virtù significa «forza», essendo la radice latina di virtus la medesima di vir, «uomo forte», «guerriero», da cui l’aggettivo «virile». Lo certifica Cicerone: «Virtus è così chiamata da vir».9 Da qui virtù indica anche «potere», come quando diciamo di poter fare qualcosa «in virtù della tal legge». Anche il corrispondente termine greco areté rimanda al medesimo ambito che indica anzitutto capacità di operare, come si deduce dalla radice ar, la stessa di «arte» e di «artigiano». Così per Aristotele, che tra i filosofi antichi è colui che ha riflettuto più sistematicamente sull’etica e sulla virtù («Aperse la bocca la divina sentenza d’Aristotile da lasciare mi pare ogni altrui sentenza»),10 la virtù è anzitutto un poter fare, una capacità. Non deve sorprendere quindi che egli parli della «virtù del cavallo», intendendo non certo la sua rettitudine ma ciò che lo «rende adatto a correre, a portare il cavaliere e a resistere di fronte ai nemici».11 In questa prospettiva per Aristotele la virtù umana «verrà a essere lo stato abituale a partire dal quale un essere umano è virtuoso e esercita correttamente la sua funzione»,12 laddove virtuoso va inteso nel senso di «abile», «capace di fare». C’è un’opera che dobbiamo compiere, e quanto ci consente di eseguire quest’opera si può definire virtù. La virtù quindi è ciò che permette di realizzare la peculiare opera o dovere di un essere umano. Il che significa che essere virtuosi non rimanda a una dimensione che si aggiunge alla nostra vita ma di cui potremmo fare a meno, ma corrisponde esattamente al compimento della vita umana in quanto umana. La nostra vita non potrebbe esistere senza la dimensione vegetale e la dimensione animale che ne sono la base, tuttavia non è riducibile a esse. O per lo meno: non dovrebbe esservi riducibile, se vuole esprimere la sua peculiarità. Nella vita vegetale e animale l’individuo è in funzione della specie; nella vita propriamente umana l’individuo diventa fine a se stesso, diventa ciò che Aristotele chiama entelechia, termine da lui coniato per dire «ciò che ha il fine in se stesso». Si accede alla vita propriamente umana

quando non si esiste più in funzione di qualcosa di esteriore come la specie, o la gloria, la ricchezza, il successo, ovvero di quanto viene tributato dalla dimensione sociale mediante acquisizioni che non hanno senso in se stesse ma solo come strumenti di potere, e di cui il denaro è l’esempio più significativo. La vita propriamente umana a cui la virtù consente l’accesso è piuttosto quella nella quale si compie lo specifico lavoro di un individuo umano nella sua irripetibile singolarità, che Jung descrive come «processo di individuazione» e a cui alludeva Pindaro dicendo «diventa ciò che sei». Anche Kant, che tra i filosofi moderni è quello che più ebbe a cuore l’etica, descrive la virtù come una forza, la definisce «intenzione morale in lotta»13 e sostiene che è solo mediante essa che si compie il senso della vita e si raggiunge la vera libertà. Ma mentre per Aristotele la virtù è una forza che riguarda l’intelletto e che si può paragonare a una luce, per Kant la forza della virtù tocca la volontà e si può paragonare a un’energia. Per lui la virtù è «la forza morale della volontà di un uomo nell’adempimento del suo dovere».14 E in questa prospettiva Kant scrive il seguente bellissimo brano: Questa forza morale, questo coraggio (fortitudo moralis), costituisce per l’uomo il maggiore, anzi il suo vero titolo di gloria, ed è anche chiamata la vera saggezza, cioè la saggezza pratica, perché essa si propone come scopo lo scopo finale dell’esistenza dell’uomo sulla terra. Soltanto possedendola l’uomo è libero, sano, ricco, un re ecc., e non ha nulla da temere né dal caso né dal destino, perché egli possiede se stesso, e l’uomo virtuoso non può perdere la sua virtù.15

La virtù è talmente preziosa per Kant che essa «è a se stessa il suo proprio fine… ha in sé la propria ricompensa»,16 e questo perché non si può ottenere nulla di più prezioso e di più nobile dell’essere virtuosi.

37. Virtù come misura Il più delle volte nella vita tutto è questione di dosaggio e di misura. Una certa pianta che ha effetti velenosi, se assunta nelle giuste proporzioni sviluppa virtù medicinali. Lo stesso vale per i sentimenti, le passioni e le azioni che costituiscono il nostro vivere; per esempio la fiamma di Eros può divampare come un incendio e portare alla rovina, ma può anche costituire la fonte di un calore costante e diffusivo che allieta e riscalda i giorni e le notti: tutto dipende dalla misura con cui somministra il suo fuoco. Vivere da esseri umani significa provare sentimenti e compiere azioni, e per Aristotele la virtù è esattamente la facoltà che mette in grado di provare sentimenti e di compiere azioni che siano privi di eccesso e di difetto, così da essere equilibrati e cogliere il giusto mezzo o mesótes. La virtù quindi «verrà

a essere ciò che mira al giusto mezzo», «una certa medietà».17 Viene da qui il detto latino: In medio stat virtus. E anche l’espressione aurea mediocritas. Medietà e mediocritas però non hanno affatto lo stesso significato dell’italiano mediocrità, cioè qualcosa di appena sufficiente, ma, esattamente all’opposto, significano eccellenza, perché sono il risultato di un lavoro di precisione. Aristotele lo fa capire tramite l’esempio del tiro con l’arco: «Si può sbagliare in molti modi (infatti il male ha la caratteristica dell’illimitato, come avevano intuito i Pitagorici, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato), mentre la correttezza si dà in un modo solo (perciò accade anche che una cosa è facile e una è difficile: facile, da un lato, è fallire il bersaglio, mentre difficile è coglierlo)».18 Il filosofo ricorda poi un proverbio: «Nobili in un modo solo, ignobili in tanti modi», e conclude che se dal lato della logica la virtù «si configura come una medietà», dall’altro lato, quanto all’obiettivo etico, «la virtù si configura come un vertice»19 e viverla significa raggiungere l’eccellenza. A dimostrazione dell’universalità che la ricerca umana può raggiungere anche in ambito spirituale è per me fonte di vera e propria gioia rilevare la totale consonanza tra la prospettiva aristotelica e quanto dall’altra parte del mondo proponeva grossomodo nello stesso periodo la scuola confuciana quale si esprime soprattutto nel testo classico Zhongyong, ovvero La costante pratica del giusto mezzo, attribuito tradizionalmente a un nipote di Confucio e quindi collocato nel V secolo a.C., ma la cui redazione viene spostata dagli studiosi tra il III e il I secolo a.C. Tra i molti passi dedicati al concetto di zhong, che è l’esatto equivalente della mesótes aristotelica e che «come verbo, è il movimento della freccia che trafigge in pieno centro il bersaglio»,20 ne riporto due: «Il giusto mezzo è la fonte primaria dell’esperienza umana sulla terra, mentre l’armonia è la piena realizzazione della Via nell’esperienza umana sulla terra. Se si perverrà al giusto mezzo e all’armonia, l’ordine dominerà in Cielo e in Terra e i diecimila esseri ne trarranno nutrimento».21 E ancora: «Il Maestro disse: “Praticare con perseveranza il giusto mezzo è il sommo grado di perfezionamento!”»; non senza aggiungere però subito dopo: «Da tempo immemorabile è assai raro tra gli uomini!»,22 sottolineando anche lui quanto sia difficile raggiungere tale eccellenza. Sempre all’interno della tradizione confuciana fa un certo effetto constatare che, negli stessi anni in cui viveva Aristotele, il filosofo Meng-tzu, latinizzato in Mencio, nel libro che si intitola proprio come lui, Meng-tzu, e

che è una delle opere più ottimiste sulla natura umana, usava la medesima immagine che equipara l’agire etico a un bersaglio da centrare: «Nel tirar d’arco a cento passi di distanza, raggiungere il bersaglio dipende dalla tua forza, ma far centro non dipende dalla tua forza».23 Queste parole ci fanno capire che in ogni azione del nostro agire, di cui il tiro con l’arco è un simbolo, sono in gioco due qualità: quella che consente di tirare e quella che consente di centrare; da un lato la forza, o potenza, energia, vitalità, dall’altro la precisione, o ponderazione, equilibrio, riflessione. Forza e precisione insieme costituiscono i due aspetti fondamentali della virtù. Rimanendo sull’immagine dell’arco, occorre considerare che, come quando si tira una freccia si hanno molte più possibilità di sbagliare rispetto all’unica possibilità di fare centro, allo stesso modo, mentre si provano i sentimenti e si compiono le azioni, è molto più alta la possibilità di non viverli in modo adeguato sbagliando per difetto o per eccesso: il che significa che noi solitamente sbagliamo. Proprio per questo abbiamo bisogno della virtù, di questa disposizione che orienta la scelta facendola consistere «in una via di mezzo», in quella rara e preziosa medietà che ci consente di centrare il bersaglio con la freccia della nostra vita. A proposito di medietà, concludo con un’annotazione etimologica facendo notare che medicina e medico vengono dai corrispettivi termini latini che rimandano al verbo medeor («medicare, curare, sanare») la cui radice è med, misurare, e la cui forma iterativa dà origine al verbo meditor che significa «meditare», e già da qui si comprende che la meditazione in quanto pratica spirituale è un’opera di guarigione della mente.24

38. Virtù come capacità tramite l’abitudine Accanto alla forza e alla misura, c’è un altro concetto che aiuta a comprendere la natura della virtù: il concetto di abito. Dicendo abito, noi pensiamo al vestito: «Che abito mi metto stasera?»; oppure: «Ma come stai bene con l’abito lungo!». Abito però significa anche abitudine; più precisamente, indica un’abitudine così radicata da diventare una capacità operativa come disposizione permanente, quasi una seconda natura. Secondo Tommaso d’Aquino, che anche in questo segue Aristotele, la virtù è un «abito operativo», più precisamente «un abito buono, fatto per compiere il bene» (bonus habitus, et boni operativus).25 Il proverbio dice: «L’abito non fa il monaco», ma in questa prospettiva è

vero esattamente il contrario: «Il monaco è fatto dall’abito», intendendo l’abito interiore, un comportamento diventato abitudine di vita e naturale modo di essere. È proprio tale abito interiore a costituire un essere umano nella sua rettitudine. L’abito interiore è l’abito mentale, il quale, a ben vedere, è l’unico vestito che dovremmo realmente preoccuparci di indossare: il vestito della mente, la veste bianca della nostra anima. Capiamo così ancora una volta che nell’etica non è in gioco semplicemente il fare, ma ben più profondamente l’essere. Il nostro essere non è cioè qualcosa di predeterminato ma dipende dal nostro agire, perché vi è un potere performativo del lavoro nel senso che le azioni che compiamo a loro volta compiono noi. Cito ancora Aristotele: «Compiendo atti giusti si diventa giusti, si diventa temperanti compiendo cose temperanti, e coraggiosi compiendo atti coraggiosi».26 Qualche secolo prima di Aristotele, così dichiarava la più antica Upanis.ad: «Quando si dice che qualcuno è in un certo modo, qualcun altro è in un altro modo, si deve intendere che si diventa tali a seconda delle proprie azioni, del proprio comportamento. Chi bene agisce diventa buono, chi agisce male diventa cattivo, virtuoso diventa con l’azione virtuosa e cattivo con la cattiva».27 E molti secoli dopo, Kant sosteneva esattamente lo stesso: «La virtù, considerata in tutta la sua perfezione, è rappresentata non come una cosa posseduta dall’uomo, ma come una cosa che ha il possesso dell’uomo».28 L’identità personale non è una necessità, è piuttosto un’acquisizione che scaturisce dal lavoro, così che ognuno diventa quello che vuole diventare. Se uno vuole seguire unicamente i propri istinti e non rendere conto a nessuno, sarà simile a un animale selvaggio. Se uno vuole essere una macchina per eseguire sempre gli ordini qualunque essi siano, sarà una perfetta macchina automatica, come Adolf Eichmann. Se uno vuole vivere in funzione dell’empatia, della solidarietà e della giustizia, sarà un uomo o una donna nobile. E se uno vuole fare di sé un’opera d’arte, a poco a poco lo potrà diventare perché vi sono esseri umani che sono opere d’arte in quanto riproducono quotidianamente l’arte del vivere, quella ars vivendi a cui gli antichi attribuivano il massimo della preziosità. Vi sono anche esseri umani abbruttiti, cinici, cattivi, talora così malvagi da essere persino fieri di essere tali. Hanno voluto diventarlo? Sono caduti vittime di sfortunate circostanze? O addirittura erano predestinati da un’oscura fatalità? Non lo so. Quello che so è che la storia presenta tipi umani di ogni sorta e noi possiamo essere Anito e Meleto che accusano ingiustamente Socrate, o

Socrate stesso; Caifa o Pilato oppure Gesù, o anche Giuda o Pietro, oppure la folla che grida crucifige dopo aver gridato osanna solo qualche giorno prima. Possiamo uscirne o possiamo rimanervi dentro, dico dentro la folla, il volgo, quella amorfa e grossolana entità che prima applaude Bruto e poi, arringata da Marco Antonio, intende ucciderlo, descritta alla perfezione da Shakespeare nel Giulio Cesare. Quella stessa amorfa e grossolana entità descritta da Manzoni nei Promessi sposi nella scena dell’assalto al forno delle grucce.29 E che Platone chiama «animale da allevamento grosso e robusto», dicendo che attorno a esso si aggirano individui che non sanno nulla di cosa siano il bene e la giustizia, ma definiscono «l’una e l’altra cosa sulla base delle opinioni di quel bestione», di modo che, «senza tener conto di nient’altro, a quello che piace all’animale danno il nome di buono, a quello che gli dispiace di cattivo».30 Eccoci ai nostri giorni e al nostro populismo, perfettamente illustrati con parole di ventiquattro secoli fa. Possiamo essere una camicia nera o una camicia rossa, oppure decidere di non indossare mai nessuna camicia né divisa né uniforme né saio né talare della mente per essere in condizione di pensare ogni volta daccapo con la nostra libera individualità. È quanto afferma Pico della Mirandola nella Oratio de hominis dignitate del 1486, dove sostiene che l’essenza dell’essere umano non esiste in quanto sostanza immutabile ma scaturisce dal processo della vita, il quale, pur essendo in parte determinato, non è però tale da escludere al suo interno il darsi della libera scelta. Così Pico fa parlare Dio Padre rivolto all’uomo, subito dopo averlo creato: «Non ti ho fatto né celeste né terrestre, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto».31 Come definire un essere né celeste né terrestre, né mortale né immortale? Quale identità è mai questa? È quell’identità che esiste solo in quanto si fa e a cui ognuno contribuisce in modo decisivo, e il nome di quell’essere è libertà. È vero che la decisione del singolo dipende anche dal contesto sociale con le sue spinte economiche e i suoi obiettivi culturali, e prima ancora dal carattere personale quale è venuto a formarsi nei primissimi e decisivi anni di vita. Ma è altrettanto vero che una medesima pressione economica e politica, così come medesime esperienze di accudimento o di abbandono subite da piccoli, non producono in modo automatico una serie stereotipata di medesimi individui perché vi sarà sempre chi dirà «io invece no» e riuscirà a vincere le sue paure e le sue ferite, scegliendo di uscire dal gregge.

Stabilito quindi che la virtù è la conseguenza di un’abitudine e che abbiamo la libertà necessaria per farla nostra, la domanda che ognuno a questo punto dovrebbe rivolgere a se stesso è la seguente: sono disposto a fare della pratica del bene, dell’evitare il male, del limitare il più possibile la sofferenza altrui, una stabile abitudine delle mie giornate? Se sì, si è sulla via della virtù; se no, no. Pongo questa domanda, inusuale in molti contesti dove risuonerebbe lesiva della privacy, perché faccio mia la prospettiva di Aristotele: «Non stiamo indagando per sapere che cos’è la virtù ma per diventare virtuosi, dato che altrimenti l’indagine non sarebbe di alcuna utilità».32 Era la medesima prospettiva di Platone e di Socrate. È la prospettiva di tutte le tradizioni spirituali. Gesù la presentava così: «Non chi dice “Signore, Signore” entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio».33 Kant ne parlava in questo modo: «Quando finalmente comincerai a vivere virtuosamente?, diceva Platone a un vecchio che gli raccontava di ascoltare lezioni sulla virtù. Non si tratta di speculare sempre, ma bisogna una buona volta pensare di passare alla pratica. Ma oggi si prende per esaltato chi vive in modo conforme a ciò che insegna».34

39. Virtù come leggerezza In un’opera interamente dedicata alle origini dei nomi Platone si sofferma sul termine greco per virtù, areté, dicendo che «significa prima di tutto euporia», vale a dire «facilità nel procedere».35 Il termine, continua Platone, rimanda allo scorrere (roé) e si contrappone direttamente ad aporía, letteralmente assenza di sbocco, impossibilità di procedere. Il che significa che chi è virtuoso scorre, proprio come scorre l’acqua, è fluido, dinamico; chi no, no. Per Platone «l’anima buona è sempre libera»,36 nel senso che non ha blocchi, non è bloccata, e quindi è diffusiva, così come lo è il bene di cui significativamente gli scolastici medievali proporranno l’assioma: Bonum diffusivum sui, traducibile con «Il bene tende a diffondere il proprio essere».37 Proseguendo nella sua interpretazione del termine areté, Platone aggiunge che «sarebbe corretto pronunciare aeireíte», letteralmente «che sempre scorre», quale a suo avviso era il termine originario, divenuto solo dopo, in seguito a una più comoda contrazione, areté. Al di là della filologia, quello che qui è importante sottolineare è la scorrevolezza assegnata da Platone alla

virtù. Ben lungi dall’essere qualcosa di pesante e dal bloccare il passo per l’eccesso di scrupoli e la paura di peccare, la vera virtù è qualcosa che compie il percorso opposto: alleggerisce, fa camminare spediti, infonde slancio, dona vitalità. In questa stessa prospettiva il taoismo paragona la virtù all’acqua, come si legge nel Tao Te Ching: «Il bene più alto è simile all’acqua. La bontà dell’acqua benefica i diecimila esseri e non compete. Dimora in luoghi che tutti gli esseri umani detestano. Perciò è simile al Dao».38 E ancora: «Nel mondo nulla è morbido e debole quanto l’acqua, ma nel lavorare il solido e il forte nulla è in grado di superarla».39 Sorge da qui una serie di virtù particolari che, a differenza di quelle predominanti in Occidente caratterizzate da una certa gravitas e tali da suscitare forza di gravità o forza centripeta in quanto rafforzano il soggetto e il suo sé, sono caratterizzate dalla dimensione opposta della leggerezza e della forza centrifuga. In ambito etico la parola leggerezza è per lo più negativa perché indica volubilità e frivolezza, con l’aggettivo leggero che ha il senso di «incostante, instabile, privo di fermezza». Il latino levitas rimanda però anche a un altro ambito linguistico, quello contrassegnato da termini come «rapidità, prestezza, mobilità, agilità», e anche e soprattutto «nonpesantezza».40 Ci si avvicina così a un modo di essere che è sì leggero ma non nel senso di frivolo, bensì di non-pesante; è cioè serio senza essere serioso, aderisce alla situazione ma non grava e non risulta gravoso. Recita un antico detto cinese: «La forza morale è leggera come una piuma».41 Questa levitas-leggerezza infonde «grazia, garbo, amabilità» e produce in chi la ospita una forza centrifuga come distanza da sé, distacco da quello che si dice e si fa, un non-prendersi-troppo-sul-serio che genera autoironia e umorismo, e quindi amabilità e simpatia. Da qui le virtù leggere che derivano da ciò che il taoismo chiama «non-agire» (wu-wei), tra le quali desiderio, calma, naturalezza, pacificazione, pazienza, silenziosità, spontaneità, sulle quali mi soffermerò più avanti e di cui questo passo del Tao Te Ching è uno degli esempi più belli: «Agisci senza agire, occupati di non faccende, assapora l’insapore, ingrandisci il piccolo, aumenta il poco, ripaga l’odio con la benevolenza».42

40. Le virtù Nel concetto di virtù è in gioco una relazione: quella tra noi e il bene. La

virtù non è il bene, è piuttosto la condizione che ci mette in grado di compierlo. Il bene è un’azione o uno stato oggettivo, la virtù è uno strumento operativo; più precisamente, la virtù è la forza che consente di compiere un’azione che permette di raggiungere lo stato di armonia relazionale denominato bene. La virtù quindi media la relazione tra noi e il bene: qui ci siamo noi, là davanti c’è il bene da praticare o da raggiungere, in mezzo c’è la virtù che come un ponte collega noi e il bene mettendoci in grado di riconoscerlo, di praticarlo, di viverlo. Se invece che al ponte pensiamo a una scala, possiamo dire che la virtù è la scala che ci consente di salire verso il bene, mentre le singole virtù sono i gradini di cui essa è costituita, o i pioli nel caso di una scala da imbianchino. Il bene infatti è una realtà complessa, per nulla univoca, richiede un approccio articolato, perché non c’è nulla o quasi che sia sempre per forza bene o sempre per forza male. Non si deve uccidere, ma alcune volte purtroppo lo si deve fare, come quando un poliziotto non ha altra possibilità di difendere i cittadini da un aggressore omicida, o come quando si elimina il tiranno mettendo fine alla guerra da lui provocata e salvando migliaia di vite. Persino Gandhi sosteneva che a volte occorre usare la violenza e uccidere può essere un dovere: «In alcuni casi può essere necessario persino versare sangue umano. Supponiamo che un uomo venga preso da una follia omicida e cominci a girare con una spada in mano uccidendo chiunque gli si pari dinnanzi, e che nessuno abbia il coraggio di catturarlo vivo. Chiunque uccida il pazzo otterrà la gratitudine della comunità e sarà considerato un uomo caritatevole. Dal punto di vista della ahim.sā è chiaro dovere di ciascuno uccidere un simile uomo».43 Un altro esempio riguarda il rapporto con la verità: la menzogna è detestabile, tanto più quando è una calunnia, ma un conto sono la menzogna e la calunnia, un altro è la bugia finalizzata a celare una verità che l’interlocutore non sarebbe in grado di reggere o userebbe male, sicché mentire non è sempre un male né dire la verità è sempre un bene. Per capire volta per volta quale sia il comportamento più giusto è necessaria una specifica virtù, che, nel caso degli esempi proposti, è quella che riguarda la disposizione della mente alle prese con l’interpretazione della realtà, cioè la prima virtù cardinale. Le virtù sono quindi la traduzione concreta della virtù nelle contorte pieghe della vita. Tale traduzione dalla virtù singolare alle virtù plurali è più che necessaria; anzi, è precisamente in essa che consiste l’arte del vivere. Quando infatti essa

viene a mancare e si rimane fermi all’assunto tetragono della virtù da praticare sempre e comunque secondo la via consolidata, si può giungere all’esatto contrario rispetto alla realizzazione concreta del bene: come chi, volendo dire sempre la verità, finisce per svelare agli aguzzini il nascondiglio dei rifugiati; o come chi, non volendo uccidere, permette che continui indisturbato il massacro di numerosi innocenti; o come chi, volendo rimanere fedele fino all’ultimo alle promesse del giorno del matrimonio, trascina la propria e l’altrui esistenza in un gorgo di rassegnazione e di tristezza risentita. La necessità di tradurre la virtù (in quanto disposizione interiore di fondo) nelle singole virtù (in quanto concrete forze operative) è stata avvertita da sempre dalle tradizioni filosofiche e religiose dell’umanità e ha generato una serie di suddivisioni e di elencazioni, tra cui una delle più note è quella delle virtù cardinali al centro di questo libro. Prima di approfondirle, ricordo altre due ulteriori importanti suddivisioni: 1) quella operata da Aristotele, il quale distingue le virtù in etiche e dianoetiche, cioè morali e spirituali, per la cui presentazione rimando alla prima appendice; 2) quella operata da Plotino, che distingue tra virtù civiche e virtù di livello superiore, laddove le prime sono esattamente le virtù cardinali il cui ambito è la vita terrena, mentre le seconde corrispondono alle virtù dianoetiche aristoteliche e hanno per fine la realizzazione del senso ultimo della vita individuato da Plotino nella «assimilazione a Dio» (dichiarava: «Il nostro impegno non è quello di essere esenti da colpe, ma di essere Dio»).44

41. Le virtù cardinali: origine e tradizione Penso che a ognuno capiti ogni tanto di chiedere a se stesso: dove sono arrivato? Dove sto andando? Vado avanti o torno indietro? Per rispondere occorre avere dei criteri in base a cui giudicare cosa è avanti e cosa è indietro per il bene della nostra esistenza: ebbene, fornire tali criteri è esattamente quanto si propongono le virtù cardinali (da cardo, cardinis, «cardine»). Selezionate dall’antichità con l’intenzione di farle corrispondere ai quattro punti cardinali, esse intendono giocare un ruolo essenziale nell’orientamento della vita costituendo una specie di bussola per la coscienza alle prese con il caos della libertà. Non a caso Dante le paragona alle stelle, punti di orientamento fondamentali per i viaggiatori e i naviganti del passato: «… e vidi quattro stelle».45 Sempre in questa prospettiva di orientamento e di

guida, egli le descrive come «le quattro belle»46 che danzando lo conducono al cospetto dello sguardo di Beatrice di cui sono «ancelle», secondo la tipica concezione medievale della filosofia e in genere della sapienza umana come ancilla theologiae, dama di servizio della teologia. Nel Convivio il sommo poeta specifica il fine del nostro agire a livello pratico dicendo che consiste in «operare per noi virtuosamente, cioè onestamente, con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia».47 Secondo la denominazione tradizionale le virtù cardinali sono prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, ma la denominazione della prima virtù come prudenza è tanto inadeguata da costituire un errore, peraltro di non poco conto, come ho già detto e come illustrerò più avanti. L’individuazione e il raggruppamento di tali quattro virtù risalgono alla Grecia antica, per la precisione a Platone, il quale a sua volta riprese tale canone «dall’etica della polis della Grecia arcaica»,48 come scrive Werner Jaeger che rimanda al proposito a un passo di Eschilo in cui si descrive un cittadino ideale con questi quattro aggettivi: «saggio, giusto, valoroso e pio».49 Platone fece della riflessione sulla virtù uno dei temi centrali della sua filosofia, come appare dal fatto che dei suoi Dialoghi dedicò il Menone al concetto generale di virtù, il Carmide alla temperanza, il Liside alla fortezza e la sua opera più celebre e più estesa, la Repubblica, alla giustizia.50 Solo la prima virtù, la phrónesis, non ebbe un’opera a sé, ma questo solo perché, in realtà, è tutta l’opera di Platone a esserne una trattazione. Nella Bibbia ebraica le virtù cardinali sono assenti, sono però presenti nell’ebraismo influenzato dal pensiero greco, come appare da quei libri di religione ebraica detti deuterocanonici perché scritti originariamente in greco e per questo esclusi dal canone ebraico ma, per fortuna, inclusi nel canone della Bibbia cattolica. Tra essi vi è il libro intitolato Sophía, «Sapienza», dove riguardo alla sapienza si legge: «Essa insegna la temperanza e la saggezza, la giustizia e la fortezza».51 Nella predicazione cristiana odierna le quattro virtù cardinali sono quasi del tutto dimenticate. Il loro oblio si deve al fatto che il cristianesimo contemporaneo è dominato intellettualmente dal protestantesimo e quindi ha perso quasi del tutto i legami con la tradizione filosofica greca, considerata dal protestantesimo una pericolosa infezione, detta ellenizzazione, da cui liberarsi al più presto. È quindi logico che dalla predicazione odierna, concentrata pressoché esclusivamente sulla Bibbia, siano scomparse le virtù cardinali, la cui distanza dalla spiritualità biblica viene sottolineata in questo

modo da Bernhard Häring, il più noto teologo morale cattolico del secondo Novecento: «Le quattro virtù cardinali non costituiscono affatto la caratteristica della morale biblica».52 A differenza di oggi, però, le virtù cardinali hanno giocato un ruolo importante nella tradizione cristiana, come appare dai maggiori teologi e dai catechismi. Proprio al cristianesimo si deve l’introduzione dell’aggettivo cardinale per connotarne l’importanza decisiva, aggiunto da sant’Ambrogio di Milano nel IV secolo.53 Sant’Agostino dedica grande attenzione a tali virtù nell’opera I costumi della Chiesa cattolica, composta nel 388 contro i manichei. Qui afferma che «la virtù è quadripartita», parla delle quattro virtù dicendo che sono «famose», le espone una a una seguendo la successione temperanza-giustizia-fortezza-saggezza che però poi non sempre rispetta, e giunge a ricondurre il loro esercizio complessivo all’amore con queste parole: «La temperanza è l’amore integro che si dà a ciò che si ama; la fortezza è l’amore che tollera tutto agevolmente per ciò che si ama; la giustizia è l’amore che serve esclusivamente ciò che si ama e che, a causa di ciò, domina con rettitudine; la prudenza è l’amore che distingue con sagacia ciò che è utile da ciò che è nocivo».54 Per quanto riguarda la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, così si legge nel Catechismo attualmente in vigore: «Quattro virtù hanno funzione di “cardine”. Per questo sono dette “cardinali”; tutte le altre si raggruppano attorno a esse. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza».55 A ogni singola virtù viene poi dedicato un articolo che riprenderò nelle specifiche trattazioni.

42. Le virtù cardinali: terminologia e logica I termini originari greci e latini delle quattro virtù cardinali coprono un’ampia area semantica: Phrónesis, Prudentia: saggezza, e a seguire in ordine alfabetico: assennatezza, attenzione, buon senso, comprensione, controllo della mente, discernimento, ingegnosità, intelligenza, lungimiranza, perspicacia, prudenza, sagacia; la sua funzione è anzitutto quella di mettere in grado di vedere, operazione di cui tutti si reputano capaci ma che pochi esercitano a dovere, vedere e quindi capire veramente la realtà ed elaborarne un senso (è paragonabile a ciò che in inglese si dice insight).

Dikaiosýne, Iustitia: giustizia, e a seguire in ordine alfabetico: dirittura morale, equanimità, integrità, onestà, rettitudine; la sua funzione è indirizzare la volontà che si appresta ad agire dopo che la mente ha compreso come stanno le cose, affinché l’azione sia a servizio non dell’interesse personale ma di quanto obiettivamente giusto; si può anche sostenere però che l’azione della giustizia venga ancora prima della comprensione, essendo la condizione epistemologica in base a cui si vuole vedere la realtà per quello che è, e non per quanto conviene che sia, e in questo caso la giustizia precede e guida la stessa saggezza. Andreía, Fortitudo: fortezza, e a seguire in ordine alfabetico: coraggio, costanza, determinazione, fermezza, forza di volontà, resistenza, risolutezza, tenacia; la sua funzione è indirizzare la volontà che agisce perché resista e perseveri nell’azione intrapresa, perché non abbia paura. Sophrosýne, Temperantia: temperanza, e a seguire in ordine alfabetico: autodominio, controllo, decenza, duttilità, equilibrio, flessibilità, moderazione, pudore, resilienza; la sua funzione è di indirizzare la volontà verso una pacata moderazione rispetto ai vari ambiti dell’esistenza: rispetto ai piaceri della vita, usandone senza farsene travolgere; rispetto ai doveri, compiendoli senza farsi schiavizzare; rispetto a se stessi, amandosi senza cadere nell’amor proprio; rispetto agli altri, esercitando benevolenza senza generare o subire dipendenza. Vi è una logica che lega tra loro le quattro virtù, comprendendo la quale si comprende anche l’ordine con cui vengono nominate. Tutte agiscono sulla volontà, ma ognuna secondo un’angolatura particolare: la prima agisce sulla volontà in gioco nella conoscenza, la seconda agisce sulla volontà come organo della decisione, la terza agisce sulla volontà come sorgente della resistenza e della perseveranza, la quarta agisce sulla volontà alle prese con le proprie passioni. Vale a dire: la prima fa vedere e capire; la seconda fa decidere; la terza fa perseverare nella decisione presa; la quarta fa procedere in equilibrio a volte trattenendo e a volte spronando. Nella loro polifonia esse costituiscono un sentiero concreto per la realizzazione quotidiana del bene. Occorre considerare infine che esse sono tra loro intimamente legate, in quanto il retto esercizio di una dipende sempre anche dalla presenza attiva delle altre. Ha scritto a questo riguardo Cicerone: «Non sai che se perdi uno

dei tuoi vasi di Corinto puoi conservare il resto della collezione, mentre se perdi anche una sola virtù […] non ne avrai nessuna?».56

43. Primato della morale individuale Lo scopo delle virtù cardinali è consentire il lavoro interiore, strettamente individuale. Anche quando si tratta della giustizia, che di certo è la più socialmente connotata tra le quattro virtù, a essere in gioco non è la dimensione sociale e politica della vita ma la dimensione interiore: non il fare cose giuste, ma l’essere interiormente giusti. Il che significa che le virtù cardinali concernono la morale individuale, la quale, per quanto strettamente associata alla morale sociale, va da essa accuratamente distinta. Tutto ciò che è individuale proviene a livello ontologico dalle proprie connessioni sociali: l’io di ognuno di noi è il risultato delle proprie relazioni, già a partire dal corpo. Prima la relazione, quindi, poi la sostanza; prima la grande logica aggregativa, poi gli enti individuali; il primato ontologico non spetta alla sostanza ma alla relazione. Tuttavia, il lavoro dell’essere che a partire dalla logica aggregativa produce enti individuali è reale e gli individui generati sono irriducibili gli uni agli altri: sono unici, insostituibili, irripetibili. Io penso che ciò valga per ogni fenomeno naturale (quella nuvola che vedo dalla finestra non la rivedrò mai più tale e quale) ma a maggior ragione questa preziosità dell’individualità vale quanto più cresce la complessità della vita. Ognuno di noi è determinato dalle sue relazioni, anche in questo istante ce ne nutriamo, senza di loro non avremmo potuto essere né potremmo rimanere all’essere; tuttavia, noi non ci risolviamo interamente in esse. Crederlo è stato il grande errore del comunismo, che bollava la coltivazione dell’interiorità come individualismo borghese, e lo è in genere di tutti i sistemi di pensiero materialistici, incapaci per statuto di comprendere i concetti che intendono esprimere la nostra interiorità quali anima, spirito, coscienza morale. Il che significa: il primato ontologico spetta alla relazione e non alla sostanza, ma il primato etico spetta alla morale individuale e non alla morale sociale. Il bene comune può diventare una pericolosa astrazione, e rimane legittimamente il criterio-guida solo se si tiene sempre presente che esso è composto da tanti irripetibili beni individuali e che curarlo significa porre attenzione a ogni singolo bene individuale. A nessuna logica del collettivo si può mai sacrificare il bene del singolo, in qualunque modo si chiami tale

logica: ragione di Stato, bonum Ecclesiae, budget aziendale… Nella morale individuale non sono in gioco i doveri verso gli altri, ma i doveri verso se stessi, i quali, a mio avviso, sono i più importanti doveri di un essere umano. Lo sono per due motivi, uno principale e uno secondario. Il motivo principale consiste nel fatto che per ognuno di noi non c’è nulla di più prezioso della propria anima, o, se si preferisce un termine più laico, del proprio sé. Ecco tre autorevoli testimonianze al riguardo, molto distanti l’una dall’altra nel tempo e nello spazio ma concordi nel contenuto: Meng-tzu (III secolo a.C.): «Quale cura è più grande? La cura della propria persona… Aver cura della propria persona è il fondamento di ogni cura»;57 Gesù (I secolo): «A che serve a un uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la sua anima?»;58 Gandhi (XX secolo): «Credo nel camminare da soli. Sono venuto da solo a questo mondo, ho camminato da solo nella valle dell’ombra della morte e me ne andrò da solo quando verrà il momento».59 Lo scopo finale della vita non è sociale ma strettamente individuale e consiste nel «salvare la propria anima», esprimibile anche con la formula «realizzare se stessi». Il motivo secondario alla base del primato della morale individuale è dato dal fatto che il compimento dei doveri verso se stessi costituisce il presupposto per compiere i doveri verso gli altri, perché chi non è giusto verso se stesso non può essere giusto verso gli altri; chi non ama autenticamente se stesso non può amare autenticamente gli altri; chi non sta bene con se stesso non potrà far stare bene gli altri (magari potrà dare loro dei beni, ma è tutt’altra cosa). Con ciò non intendo negare che abbiamo degli obblighi verso gli altri; intendo piuttosto sottolineare che tali obblighi saranno tanto meglio espletati quanto più procederanno da un io risanato e sereno, nella convinzione della verità di quanto affermava il Buddha: «Chi ama veramente se stesso, non farà mai del male a un altro».60 Mi colloco così in una posizione opposta rispetto a quella predominante in Occidente che sottolinea il primato della morale sociale, da Platone e Aristotele, passando per Agostino e Tommaso d’Aquino («quanto più una virtù riguarda il bene comune, tanto più è superiore»),61 fino al comunismo. Io sono convinto al contrario che una virtù è tanto superiore quanto più è in

grado di rinnovare alla radice la vita del singolo. Concludo il paragrafo con un’importante chiarificazione che discende dal primato ontologico della relazione da me sostenuto. Noi siamo le nostre relazioni ed è logico che il nostro stare bene dipenda strettamente dalla qualità delle nostre relazioni, così come a loro volta le nostre relazioni saranno influenzate e nutrite dal nostro stare bene con noi stessi. È quindi essenziale ricordare sempre che lo stare bene con se stessi si nutre necessariamente dello stare bene con gli altri. E qui desidero aggiungere: anche dello stare bene con l’Altro. Con questo Altro scritto al maiuscolo intendo il Tutto, la Natura, il Divino, Dio, in qualunque modo si voglia chiamare il supremo mistero dell’essere da cui veniamo, dentro cui ci muoviamo e in cui un giorno confluiremo del tutto. Avere un rapporto di fiducia e di sereno abbandono verso il Tutto di cui facciamo parte credo sia una grande fonte di consolazione, analoga a quella consolatio philosophiae evocata da Severino Boezio nella sua cella nei pressi di Pavia.62

44. Il dono delle virtù Le virtù cardinali consegnateci dalla tradizione classica e cristiana descrivono bene il senso di un’esistenza umana che ascolta il desiderio e insieme assume il compito di essere migliore. Mediante un perseverante lavoro su di sé si può giungere alla costruzione di un essere umano che diventa capace di: 1) capire, perché esercita il discernimento; 2) agire rettamente, perché ospita interiormente la giustizia; 3) essere forte e resistente, perché esprime la sua potenza; 4) essere temperante e moderato, perché porta la pace dentro di sé. A quest’ultimo riguardo ha scritto Oscar Wilde: «La nota della personalità perfetta non è la ribellione, ma la pace».63 Tale pace interiore o pace del cuore è denominabile anche serenità, quiete, innocenza, ilarità, letizia o in altri modi ancora, ed è il dono più bello che l’esercizio delle virtù consegna a tutti coloro che l’intraprendono e lo praticano con costanza. Questo sentimento è descritto da Tommaso d’Aquino in termini di «tranquillità dell’anima»,64 da Spinoza in termini di «letizia» e di «beatitudine»,65 da Kant in termini di «serenità».66 Nel linguaggio comune i termini emozione e sentimento sono usati come sinonimi, ma non sono la stessa cosa. L’emozione è improvvisa, il sentimento è duraturo. L’emozione provoca una reazione istantanea a livello fisico, come

per esempio il rossore per la vergogna o il sudore per la paura; il sentimento invece genera uno stile di vita, come nel caso di chi ama ed è riamato, o nel caso di chi odia o di chi è ossessionato dalla gelosia. Ebbene, la pratica costante e consapevole delle virtù cardinali genera non emozioni, ma un sentimento complessivo verso la vita denominabile «pace» (Oscar Wilde), «tranquillità» (Tommaso d’Aquino), «letizia» (Spinoza), «serenità» (Kant). Anzi, a mio avviso la pratica delle virtù deve avere come scopo principale la formazione di persone che ospitano stabilmente questo sentimento fondamentale denominabile anche come fiducia, altrimenti non è altro che l’ennesima trappola che ci lega alla catena della vita. Questa disposizione serena e fiduciosa è contrapposta da Kant a ciò che egli definisce «ascetismo monacale», di cui scrive che «per un timore superstizioso o per un ipocrita orrore di se stesso usa mortificare e torturare il proprio corpo». Tale ascetismo, che al tempo di Kant era solo monacale e che oggi ha ben altre e più diffuse declinazioni, viene descritto come «una specie di espiazione fanatica che consiste nell’infliggere punizioni a se stessi», ben lontano dall’autentica virtù la cui caratteristica è invece «un gradevole godimento della vita» che genera «un cuore sempre sereno».67 Il dono che le virtù consegnano a chiunque le pratica costantemente e onestamente è questo cuore sempre sereno per la coscienza pulita, è la pace interiore che ne deriva. La sapienza spirituale dell’antica Cina ne parla in questi termini: «L’uomo nobile d’animo guardando dentro di sé non trova alcun disagio, alcun rimorso nella propria coscienza […]. Recita l’Ode: “Uno sguardo vigila su di te nella tua stanza, anche nell’angolo più remoto non hai nulla da rimproverarti”».68 C’è un salmo biblico che esprime la medesima esperienza: «In pace mi corico e subito mi addormento».69

IV. LA SAGGEZZA

45. Immagini ed etimologia La prima virtù cardinale è detta phrónesis in greco, prudentia in latino, prudenza in italiano. Secondo la dottrina cattolica «la prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo». Il Catechismo aggiunge che «è detta auriga virtutum – cocchiere delle virtù: essa dirige le altre virtù indicando loro regola e misura». E conclude: «È la prudenza che guida immediatamente il giudizio di coscienza».1 Questa virtù è molto sottolineata anche dal buddhismo, dove è analoga a ciò che viene chiamato prajna (in sanscrito) e panna (in pali), termini tradotti entrambi dagli studiosi con «saggezza». Il suo opposto è la stoltezza. Gli antichi dipinti allegorici la raffigurano tradizionalmente come una giovane donna con fare pensoso e con in mano uno specchio, laddove lo specchio in questo caso, lungi dall’essere uno strumento di vanità, rappresenta la conoscenza di sé in obbedienza al detto delfico: «Conosci te stesso» (in greco Gnôthi seautón, in latino Nosce te ipsum).2 A volte la giovane donna tiene nell’altra mano un serpente, il cui significato in questo contesto non ha nulla a che fare con il Diavolo tentatore, ma simboleggia precisamente la prima virtù di cui si pensava che i serpenti fossero particolarmente dotati, come appare dall’ammonimento evangelico di essere «phrónimoi come i serpenti», tradotto dalla Vulgata «prudentes sicut serpentes».3 Il detto di Gesù rimanda a sua volta a una delle più celebri pagine della Bibbia ebraica, quella della trasgressione del divieto di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male da parte di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, interpretata dalla dogmatica cristiana in termini di «peccato originale», nella quale il serpente, vero protagonista della scena, viene presentato come «il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto».4 Il testo ebraico presenta l’aggettivo arùm che viene tradotto solitamente

con «astuto» per conferire una sfumatura negativa all’artefice della tentazione, ma l’aggettivo ha in sé un valore positivo, come appare nel resto della Bibbia ebraica, per esempio nel libro dei Proverbi, dove l’aggettivo arùm non viene mai tradotto, né dalla versione CEI né dalla Bibbia ebraica italiana, con «astuto», ma sempre con «avveduto» o «accorto» e direttamente contrapposto a «stolto», «ingenuo», «inesperto».5 È inoltre significativo che in Genesi 3,1 arùm sia stato tradotto dalla Bibbia greca detta Settanta con l’aggettivo phrónimos, a sottolineare ulteriormente il medesimo ambito concettuale che portò Gesù a invitare i discepoli a essere «phrónimoi come i serpenti» e in seguito gli artisti a dipingere la giovane donna allegoria della prima virtù in compagnia di un serpente. Del tutto a sé è un misterioso dipinto di Tiziano che raffigura tre teste maschili (di un vecchio, di un adulto, di un giovane) che sovrastano tre teste di animali (di un lupo, di un leone, di un cane).6 Il significato? Tiziano inserisce anche un detto latino: «Ex praeterito – praesens prudenter agit – ni futuram actionem deturpet», che io traduco così: «In base al passato – chi è presente agisce saggiamente – per non rovinare l’azione futura». L’anziano raffigura la memoria del passato, l’adulto l’intelligenza che è presente alla situazione, il giovane l’imprevedibilità del futuro. Il messaggio potrebbe essere che il futuro, che non può mai essere anticipato del tutto, può però arrivare non del tutto imprevisto se si ha memoria del passato e si sa leggere il presente. Nella prima virtù per Tiziano sono quindi in gioco tre qualità: memoria, intelligenza e perspicacia, e al riguardo gli studiosi ipotizzano che il pittore veneto possa essersi ispirato a ciò che Dante afferma nel Convivio: «Conviensi adunque essere prudente, cioè savio: e a ciò essere si richiede buona memoria de le vedute cose, buona conoscenza de le presenti, e buona provedenza de le future».7 Ma in che modo memoria, intelligenza e perspicacia si combinino con il lupo, il leone e il cane che Tiziano dipinse sotto le teste umane, non è, almeno per me, in alcun modo chiaro. Per quanto riguarda l’etimologia, il greco phrónesis deriva da phrén, che in prima istanza significa «diaframma», il muscolo che separa il torace dall’addome e che gioca un ruolo essenziale nella respirazione, e che nella remota antichità indicava anche la sede dell’attività intellettuale e psichica, per cui phrén prese a indicare anche «mente, intelligenza, volontà» e generò il sostantivo phrónesis. Il latino prudentia è invece da ricondurre a provideo, «prevedere», e più alla radice di videre, per cui coloro che hanno prudentia sono letteralmente coloro che guardano avanti, pre-vedono, sono lungi-

miranti. Non sorprende in questa prospettiva che Dante, descrivendo le virtù cardinali come festanti e vestite di porpora, attribuisca alla saggezza tre occhi: «Da la sinistra quattro facean festa / in porpora vestite, dietro al modo / d’una di lor che avea tre occhi in testa».8 La prima virtù ha tre occhi perché vede di più, ed è immediato il collegamento al cosiddetto «terzo occhio» della tradizione mistica hindu e anche cristiana,9 nonché al «terzo genere di conoscenza» di cui parla Spinoza nell’ultima parte dell’Etica quando dice: «Lo sforzo supremo della mente e la sua virtù suprema è comprendere le cose con il terzo genere di conoscenza».10

46. Un nome sbagliato La prima virtù cardinale è tradizionalmente detta prudenza, ma, come ho già osservato e come ora finalmente approfondisco, si tratta di un errore. La parola originaria greca usata da Platone è phrónesis, che corrisponde al latino prudentia, la quale viene spontaneamente tradotta in italiano con «prudenza», ma che, come si dice di alcuni termini inglesi, è un false friend, un falso amico. Infatti la prudenza nell’italiano corrente corrisponde alla cautela, a quella felpata disposizione che sta sulle sue e che non prende nessuna posizione arrischiata, un comportamento distante dalla franchezza e dal coraggio, e del quale Montaigne affermava: «La prudenza così morbida e circospetta è mortale nemica delle nobili azioni».11 Contro questa falsa virtù risuona anche lo sdegno di John Milton, rivolto soprattutto contro la censura ecclesiastica che, per prudenza, proibiva la lettura di molte opere letterarie, filosofiche e teologiche: «Io non posso lodare una virtù che diserta e si rinchiude in un chiostro, non esercitata e non contaminata, che non balza mai fuori ad affrontare l’avversario […] Quella virtù, che non è se non una verginella nella contemplazione del male, e non conosce il meglio che il vizio offre ai suoi seguaci, e lo rifiuta, non è che una virtù in bianco, non pura, e il suo candore solo un superficiale biancore».12 A volte essere cauti è necessario, come quando si guida o ci si arrampica in montagna, altre volte però può essere limitante perché la situazione richiede piuttosto imprudenza, trasporto, impeto, come quando ci si trova di fronte a chi ha urgente bisogno di aiuto e in genere nelle situazioni in cui occorre essere coraggiosi, visto che l’esercizio del coraggio comporta per definizione il superamento della cautela, essendo il coraggio, inteso etimologicamente come azione del cuore, la forza psichica che colma lo

spazio tra quanto la situazione richiede di fare e la cautela che suggerisce «meglio non rischiare, non si sa mai, chi te lo fa fare?». Se si è sempre prudenti nel senso usuale di cauti, si diventa incapaci di rischiare e ci si chiude alla forza integrale della vita. È quindi del tutto escluso che la prima decisiva virtù di un essere umano possa consistere in una tale casalinga prudenza. Phrónesis in greco indica un particolare esercizio della mente, la cui necessità nasce dal fatto che la realtà non è sempre immediatamente decifrabile; anzi, spesso essa presenta molteplici sfumature, talora ingannevoli, che fanno dubitare di quale sia, e se vi sia, la verità, e di conseguenza di come si debba agire. Glielo devo dire, o è meglio di no? Devo rimanere o andare via? Lui cosa desidera veramente? Io cosa desidero veramente? La realtà spesso non è come appare, soprattutto quando si tratta della realtà umana, e per questo, al fine di distillare la verità dall’apparenza, occorre una specifica disposizione della mente che i nostri antichi padri greci chiamavano phrónesis e i nostri antichi padri latini prudentia, due termini che hanno esattamente il medesimo significato come indica Cicerone che utilizzava l’uno quale diretta traduzione dell’altro.13 Il primo decisivo significato di phrónesis e di prudentia è quindi «conoscenza». Si tratta però di una conoscenza mossa non da interesse teoretico ma da finalità pratica, di quel genere di conoscenza che vuole capire per agire. La prima virtù rimanda alla capacità di vagliare e di capire la concretezza quotidiana, e chi l’esercita non bada alle grandi teorie ma alla risoluzione dei casi singoli, cercando di mettere in pratica quanto consigliava Montaigne: «Bisogna togliere la maschera alle cose come alle persone».14 Il fine della prima virtù può essere descritto proprio come una specie di smascheramento, o svelamento, del reale. Alla luce di tutto ciò, io penso che una denominazione adeguata della prima virtù cardinale in quanto traduzione di phrónesis e di prudentia sia «discernimento», visto che tale termine indica comprensione attraverso la distinzione, come appare dall’etimologia formata dal prefisso dis che indica separazione e dal verbo cerněre che significa «vagliare, sceverare, distinguere», come il crivello separa la farina dalla crusca. A mio avviso però la denominazione più adeguata della prima virtù cardinale è saggezza, perché il discernimento è l’azione, mentre la saggezza è la condizione che la consente e quindi si situa a un livello più profondo. La prima virtù riguarda la mente, è conoscenza pratica e se ne potrebbe

parlare come di un esercizio saggio dell’intelligenza. Lo indica già Dante, laddove nel Convivio, quasi preavvertendo l’equivoco che forse già allora si stava formando riguardo al vero significato di prudente, specifica: «Essere prudente, cioè savio».15 C’è infatti la possibilità di un uso non saggio dell’intelligenza, la quale può raggiungere livelli altissimi ma ciononostante risultare distruttiva, servile, menzognera, fatua, perversa; anzi, di solito i più grandi criminali presentano un livello elevato di intelligenza, non a caso li si definisce «geni del male». Rendendosi conto di ciò, Cartesio scriveva: «Non basta essere ben forniti di ingegno, quel che più conta è indirizzarlo bene».16 Ecco, la prima virtù in quanto saggezza consiste nella forza che indirizza l’ingegno o intelligenza verso il bene, ponendolo in condizione di valutare ogni cosa non solo in sé ma anche nel contesto, e viceversa non solo nel contesto ma anche in sé, perché i fenomeni e le persone si valutano veramente quando li si coglie sia essenzialmente sia contestualmente, «in sé e per sé» diceva Hegel.

47. Il motivo del suo primato Occorre ora considerare il motivo per cui alla virtù che stiamo trattando sia stato assegnato il primo posto nell’elencazione tradizionale. Perché la prima virtù cardinale è prima? Il motivo consiste nel fatto che essa viene considerata la condizione imprescindibile di tutte le altre, come sostiene Epicuro per il quale essa è a tal punto «principio e sommo bene» da indurlo a sostenere che «ha un valore superiore persino alla filosofia, e da essa traggono origine tutte le altre virtù».17 Il Catechismo cattolico come abbiamo visto ne ricorda l’appellativo tradizionale di «cocchiere delle virtù», auriga virtutum, e san Tommaso d’Aquino è esplicito nell’affermare che la prudentia «è senz’altro la principale tra tutte le virtù».18 Ma è soprattutto Platone che argomenta a favore del primato della saggezza facendo consistere in essa l’essenza stessa della virtù. Nel Menone, dialogo dedicato interamente al concetto di virtù, Platone si sofferma dapprima sui beni del corpo (che a suo avviso sono: salute, forza, bellezza e ricchezza), poi su quelli dell’anima (che a suo avviso sono: temperanza, giustizia, fortezza, facilità nell’apprendere, memoria e magnanimità). Dei beni dell’anima dice che possono anche non giovare nella misura in cui non siano usati con saggezza, e fa al riguardo l’esempio del coraggio che, privo di saggezza, diventa temerarietà: «Non è forse vero che

quando un uomo è audace senza senno ne riceve danno, quando invece con senno ne riceve vantaggio?».19 Così il ruolo della saggezza diviene a tal punto centrale da condurre Platone a concludere che la virtù in quanto tale «deve essere saggezza», «deve essere una forma di saggezza».20 Nel Fedone, in un contesto in cui riflette sullo scopo della filosofia quale purificazione dell’anima, Platone giunge a parlare della saggezza, della fortezza e della temperanza e poi afferma: «Ma sta’ attento che l’unica moneta autentica, quella con la quale bisogna scambiare tutte queste cose, sia la saggezza, e che solo ciò che si compra e si vende a questo prezzo sia veramente fortezza, temperanza, giustizia e che, insomma, la virtù sia solo quella accompagnata da saggezza».21 Prendiamo la seconda virtù: si può dare qualcosa che, pur essendo giusto in teoria, cioè legale, di fatto risulti ingiusto, cioè tale da non tutelare chi ha subito un torto e da non punire il prevaricatore? La risposta è sì, penso si tratti di un’esperienza condivisa da molti, basta ricordare l’antico detto latino «summum ius, summa iniuria»22 a mostrare come a volte l’applicazione meccanica della legge senza la considerazione delle circostanze concrete possa produrre proprio il contrario della giustizia. Ebbene, la prima virtù è ciò che permette la considerazione delle circostanze e la conseguente giusta interpretazione della legge, ed è emblematico che dal latino prudentia venga il nome della disciplina che contrassegna la giusta interpretazione del diritto alla luce delle circostanze: iuris-prudentia. Il che significa: perché vi possa essere un’autentica realizzazione della seconda virtù, cioè della iustitia in quanto frutto dell’applicazione di ius, vi deve essere prudentia, la prima virtù; in assenza di essa, non si ha ius, bensì in-iuria, cioè letteralmente cose contrarie al diritto, storture. E ciò che vale per la seconda virtù vale anche per la terza e la quarta, direi soprattutto per la terza: non è difficile infatti immaginare esempi di uso della forza privi di saggezza e quindi arbitrari e violenti. Viene però da chiedersi se lo stesso non valga per la prima virtù, se essa pure non potrebbe essere tale senza le altre, in particolare senza la giustizia. Riprenderò il problema più avanti, perché ora è necessario cercare di capire come si consegue tale prima virtù cardinale in quanto capacità di valutazione complessiva: è un dono che si riceve alla nascita, è il frutto di un’educazione ricevuta, oppure è il risultato di un costante e quotidiano lavoro?

48. L’origine della saggezza: dono e acquisizione23 Vi sono persone sagge che a parole non sanno rendere conto delle loro convinzioni eppure sanno risolvere problemi, conciliare animi, riportare in equilibrio situazioni delicate. Viceversa vi sono eruditi che possono discettare per ore ma che non capiscono le situazioni né le persone e quando aprono bocca aggravano i problemi invece di risolverli, o perché pieni di sé e del loro sapere o perché persi nelle nuvole dei loro pensieri. Il che significa che la saggezza non deriva dal sapere, né tanto meno dall’erudizione. L’aveva visto già Eraclito ventisei secoli fa: «Il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto».24 Da dove proviene allora la saggezza? Il saggio ama il silenzio. Egli non è tale perché sa e perché parla; semmai lo è perché sa di non sapere e quindi tace, e tacendo ascolta, e ascoltando pensa, e pensando vede, e vedendo impara, e solo a questo punto, dopo aver a lungo taciuto e a lungo imparato, diviene in grado di insegnare, spesso anche senza parlare. Ma perché uno è così? Io penso che la saggezza si basi anzitutto su una dote naturale, di cui, riprendendo la terminologia cristiana, si può parlare in termini di talento, carisma, grazia; penso che essa derivi in primo luogo da una disposizione originaria della personalità, quasi una specie di ritmo interiore che nelle persone sagge è più lento, più ordinato, anche più leggero. Ma perché i saggi sono così pochi in confronto ai molti che non lo sono per nulla? Perché non si dà un’equa distribuzione della saggezza? Perché questa clamorosa sperequazione? Si tratta di un problema dibattuto da sempre le cui molteplici soluzioni sono classificabili in due grandi categorie: da un lato le teorie che fanno risalire la causa della sperequazione ai soggetti stessi ipotizzandone meriti e demeriti nelle vite precedenti, visione tipica delle religioni orientali chiamata karma, ma presente anche in ambito greco dove è detta metempsicosi o anche metensomatosi e venne sostenuta da Pitagora, Empedocle, Platone, Plotino;25 dall’altro lato le teorie che attribuiscono la responsabilità a un Dio che ad alcuni dona di più rispetto ad altri senza criteri oggettivi ma semplicemente perché così ha voluto nel suo assoluto e imperscrutabile volere, teoria tipica delle religioni monoteiste chiamata elezione o anche predestinazione. Di essa un esempio paradigmatico è la parabola di Gesù detta «dei talenti» che narra di monete distribuite in modo diseguale e senza nessun criterio oggettivo da un esigente padrone ai suoi servi, peraltro con tragiche conseguenze proprio per chi da lui aveva ricevuto

di meno; da cui, a illustrazione dell’insegnamento complessivo della parabola, le dure parole finali: «A chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha»,26 un detto che penso potrebbe campeggiare nel più radicale programma politico di economia liberista. Per quanto mi riguarda, non trovo convincente nessuna delle due spiegazioni, né quella del karma né quella dell’elezione: la prima finisce con il colpevolizzare chi nella vita presente nasce poco dotato, o persino malato, dicendogli che in fondo è colpa sua; la seconda consegna il destino di ognuno nelle mani di una potenza arbitraria, capricciosa e alla fine non si sa se clemente oppure spietata come appare dalla conclusione della parabola dei talenti: «E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre, là sarà pianto e stridore di denti».27 Il problema della sperequazione della saggezza rimane quindi insoluto, né a risolverlo contribuisce richiamarsi al caso, perché tale concetto in fondo non è altro che una confessione di ignoranza. Tornando all’origine della saggezza, ho detto che essa ha una base naturale, nel senso che per essere saggi si deve nascere in un certo modo; ora però aggiungo che essa si nutre anche dell’equilibrio della vita, dell’esistenza buona e serena, del non avere brame e cupidigie, del volere veramente il bene di tutti nel senso di volere che ciascuno possa avere ciò che gli spetta secondo la più elementare definizione di giustizia. La saggezza richiede un cuore senza invidie e senza rancori, conciliato, magnanimo, accogliente; in una parola sola, giusto. Penso infatti che saggezza e giustizia siano strettamente collegate, che anzi siano ultimamente la stessa cosa: il saggio è un giusto, il giusto è un saggio. Per la saggezza non è necessario il sapere, che anzi può risultare persino dannoso; è però indispensabile la giustizia della vita, perché priva di essa la capacità di discernimento di cui è dotato un essere umano non è più saggezza, ma diviene astuzia, scaltrezza, furbizia, fino a degenerare in malizia. Oltre alle doti naturali e alla giustizia, vi è una terza fonte della saggezza nella vita di un essere umano. Mi riferisco al lavoro interiore, che si può definire anche coltivazione di sé, concentrazione, attenzione, vigilanza, raccoglimento, riflessione, meditazione, silenzio, tutte pratiche particolari il cui insieme coincide con i cosiddetti esercizi spirituali. A quanto io sappia, nella tradizione occidentale questa espressione ricorre per la prima volta in Platone, precisamente in un passo della Repubblica dove si menzionano «gli esercizi dell’anima».28 Platone era molto attento a sottolineare l’importanza

degli esercizi di ginnastica del corpo, da lui posti alla base dell’educazione dei giovani, ma, avendo a cuore un’educazione integrale dell’essere umano, giunse a parlare anche di «esercizi dell’anima». Tale pratica venne assunta lungo i secoli dalla tradizione cristiana fino a essere consacrata nel 1548 dal capolavoro di sant’Ignazio di Loyola, il fondatore dei gesuiti, intitolato esattamente Esercizi spirituali.29 La tradizione cristiana però insiste soprattutto sugli esercizi spirituali che una guida fa compiere al fedele, quando per alcuni giorni (l’ideale è trenta giorni, il cosiddetto «mese ignaziano», lo standard è una settimana) ci si ritira in luoghi particolari e un maestro detto predicatore «detta» o «predica» gli esercizi, propone cioè delle riflessioni su un tema particolare invitando poi i partecipanti a meditarvi sopra nel silenzio esteriore e possibilmente anche interiore. Ora, senza togliere nulla all’importanza di tale pratica, a mio avviso i veri esercizi spirituali non sono quelli che in periodi delimitati di tempo e in luoghi privilegiati qualcun altro ci guida a svolgere, ma sono quelli che ogni giorno ognuno di noi conduce da solo là dove la vita l’ha collocato a vivere, esercitando ciò che i filosofi stoici chiamavano «attenzione» (prosoché) e ciò che Gesù chiamava «vigilanza» (grégorsis), due termini che indicano la medesima concentrazione della mente, per quanto con finalità molto diverse.

49. Il lavoro della saggezza Per comprendere il lavoro concreto che la prima virtù cardinale nel suo farsi attenzione consente di compiere riprendo il detto del filosofo cinese Meng-tzu già citato sopra: «Nel tirar d’arco a cento passi di distanza, raggiungere il bersaglio dipende dalla tua forza, ma fare centro non dipende dalla tua forza».30 Queste antiche parole ci fanno capire che in ogni nostra azione, di cui il tiro con l’arco è un simbolo suggestivo, sono in gioco due atteggiamenti: quello che consente di tirare e quello che consente di centrare; da un lato cioè la forza, o anche la potenza, l’energia, la vitalità; e dall’altro la precisione, o anche la ponderazione, l’equilibrio, la riflessione. Ebbene, è quest’ultimo insieme di atteggiamenti che corrisponde all’ambito della prima virtù cardinale. Essa nel suo lavoro specifico si ricollega quindi al concetto di coscienza morale, su cui mi sono già soffermato e su cui ora ritorno approfondendo in particolare il concetto di sinderesi. Assai importante per la tradizione cattolica, il concetto di sinderesi compare nei testi della scolastica medievale mediante il termine latino

synderesis, che a giudizio di molti è un «errore di scrittura»31 del termine greco originario per «coscienza» cioè synéidesis.32 Filologicamente quindi, dire sinderesi e dire coscienza morale è la medesima cosa. Ma al di là della filologia, la specificità del concetto di sinderesi rispetto a quello più ampio di coscienza morale consiste nella sottolineatura della rettitudine della coscienza: la sinderesi cioè indica la percezione naturale, spontanea, immediata, da parte della coscienza di ciò che è bene e di ciò che è male, e la sua preferenza altrettanto naturale, spontanea e immediata per il bene rispetto al male. Sostenere la pertinenza del concetto di sinderesi significa quindi affermare una prospettiva assai ottimista secondo cui in ogni essere umano vi è un’innata disposizione che consente due operazioni decisive: 1) capire che cos’è il bene; 2) preferirlo rispetto al male. Appare quindi che la sinderesi riguarda sia l’intelligenza che capisce, sia la volontà che preferisce. A questo riguardo gli studiosi di solito affermano che la prima dimensione della sinderesi viene sottolineata da Tommaso d’Aquino e dalla scuola domenicana, mentre la seconda da Bonaventura e dalla scuola francescana,33 il che in linea di massima è certamente vero, ma non si deve dimenticare che per Tommaso la sinderesi, oltre a essere «legge del nostro intelletto», oltre cioè a indicare i precetti della legge naturale in quanto principi primi dell’agire,34 non si limita a questa indicazione teorica ma «inclina» al bene,35 «spinge al bene e allontana dal male»,36 per cui agisce anche come efficace sollecitazione della volontà. Chi è quindi il saggio? È colui o colei nel quale si assommano tre atteggiamenti qualificanti: 1) la conoscenza del bene; 2) la volontà di attuarlo; 3) il sapere come attuarlo. Il saggio conosce il bene, vuole compierlo, sa come fare. Privo di questa dedizione dell’intelligenza e della volontà al bene, è impossibile che un essere umano venga denominato saggio. Si dirà che è astuto, scaltro, furbo, dritto, o altri aggettivi analoghi, ma non saggio, perché la saggezza implica intrinsecamente la propensione al bene, che essa porta inscritta nel suo stesso codice genetico. Per questo il Catechismo cattolico può istituire un legame diretto tra esercizio della prima virtù cardinale (da esso tradizionalmente denominata prudenza) e coscienza morale affermando che «la verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza».37 Il giudizio prudente della coscienza (in corsivo nel testo originale) è esattamente il lavoro della prima virtù cardinale.

Non deve perciò sorprendere, a dimostrazione dell’universalità di tale visione, ritrovare la medesima affermazione nella filosofia stoica, per esempio in queste parole di Crisippo risalenti a tre secoli prima di Cristo: «Se esiste la saggezza [phrónesis], esiste anche la scienza delle azioni da compiersi e da evitarsi».38 Il che significa: se esiste la saggezza, esiste anche la sinderesi, essendo la sinderesi esattamente il lavoro per eccellenza della saggezza.

50. Parlare saggiamente Un ambito particolare per l’esercizio della saggezza è il nostro linguaggio. Esso non comprende solo la comunicazione, interessa anche la comprensione, cioè l’ambito di pertinenza della prima virtù cardinale, perché noi comprendiamo in proporzione alla nostra capacità di attenzione e di ascolto, la quale è direttamente proporzionale alla nostra capacità di moderarci nel parlare e di fare silenzio. Chi parla sempre molto è destinato a capire poco. Chi non chiude mai la bocca non apre mai la mente. Gesù diceva che il nostro linguaggio deve essere all’insegna del sì e del no: «Il vostro parlare sia sì, sì; no, no: il di più viene dal maligno».39 Con questo immagino non volesse esaltare un linguaggio da subalterno, «signorsì, signornò», visto che egli per primo non parlò mai così: amava piuttosto ricercare analogie dal mondo naturale e familiare per farsi capire e quando i suoi discepoli lo interrogavano non li scoraggiava, anzi provocava egli stesso il gusto della domanda come quando chiese: «A che cosa posso paragonare il regno di Dio?»,40 domanda formulata alla prima persona singolare a dimostrare gusto della ricerca. Dire che il linguaggio deve essere all’insegna del sì e del no significa piuttosto ricondurlo alla realtà, al primato delle cose rispetto al linguaggio che le nomina, al primato dei fatti rispetto alle parole. Significa porsi nell’atteggiamento di non mentire mai, laddove il verbo mentire è da intendersi nel senso etimologico che lo fa derivare da mente e così allude al lavorio della mente che distoglie dall’aderire alla situazione reale di ciò che è. Mentire significa affermare qualcosa che non c’è (simulare), negare qualcosa che c’è (dissimulare) e anche alterare, aggiungere o togliere dettagli e sfumature inesistenti. Sostenere che il linguaggio deve essere «sì sì, no no» e che «il di più viene dal maligno» significa porsi in un atteggiamento riverente verso la realtà, situandosi all’estremo opposto rispetto al detto di Nietzsche

secondo cui «i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni»,41 un detto che esalta il di più rispetto alla realtà riconosciuta dicendo «sì sì, no no». In questa prospettiva il linguaggio autentico è quello da cui traspare il primato dei fatti, sapendo che di essi esistono interpretazioni vere e interpretazioni false, interpretazioni cioè che consentono ai fatti di emergere nella loro luce e nella loro portata e così assolvere l’innocente e condannare il colpevole, e interpretazioni che invece offuscano, annebbiano, adulterano, finendo per esempio con lo stabilire che tutti sono colpevoli e tutti sono innocenti, senza che la vittima (che invece purtroppo esiste) abbia mai il legittimo risarcimento e il colpevole la meritata punizione.

51. Dialettica della saggezza: la virtuosità della stoltezza Alle virtù solitamente si affiancano i vizi in quanto loro diretta contrapposizione, come per esempio fece Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Ora però desidero evidenziare una dialettica più sottile: non sempre la trasgressione di una virtù comporta la caduta in un vizio perché a volte avviene il contrario, cioè l’ingresso in un superiore stato virtuoso. Prendiamo la saggezza, il cui contrario è la stoltezza. Ebbene, questa antivirtù campeggia nel titolo Stultitiae Laus, in greco Morías Enkómion, in italiano Elogio della follia, la celebre opera pubblicata da Erasmo da Rotterdam nel 1509. Ma in che senso si può dare un elogio della stoltezza o della follia? La saggezza è una virtù mattutina, che ama la luce e quindi fa luce. La vita però ha anche una fase notturna, non meno importante, che esprimiamo quando evochiamo irrazionalità, pazzia, follia, eccesso, furia, frenesia, furore, ardore, invasamento, passione, entusiasmo, impeto, fiamma. Raramente un essere umano non ha provato e non prova l’attrazione verso questo ambito irrazionale, avvertendo un’istintiva necessità di abitarlo per non chiudere in faccia la porta alla vita che bussa. Nel mio libro dedicato al pensiero, che qui in buona parte riprendo,42 ho parlato metaforicamente di questa dimensione denominandola Follia al fine di collegarmi all’opera di Erasmo e dicendo che essa è irrazionalità, indisciplina, indeterminazione, caoticità, a volte collera, altre volte brivido, fremito, sempre e comunque passione. Ben lungi dall’essere diabolica, essa è piuttosto demonica: energia e voce di un misterioso démone che Socrate chiamava daimónion e Marco Aurelio daímon, a metà tra la condizione

divina e quella umana, e di cui Goethe affermò: «Prepotentemente fa dell’uomo ciò che vuole e a lui l’uomo si abbandona senza saperlo, credendo di agire per iniziativa propria».43 Follia è il demonico, energia caotica, negativa e positiva, che il più delle volte scompagina ma talora sa anche impaginare a un livello più alto e inaspettato. Mi posso sbagliare, ovviamente, ma credo di intuire che nella sua irrazionalità la Follia di cui Erasmo fece l’elogio è l’espressione umana di ciò che a livello fisico rappresenta il magma primordiale in cui consisteva l’essere originario e di cui oggi gli scienziati parlano in termini di «zuppa di quark», quel coacervo indistinto da cui provengono tutte le cose, noi compresi, e la cui energia è ancora sommamente attiva nel mondo e dentro di noi. La follia di Erasmo è una manifestazione di ciò che Esiodo nella Teogonia chiama cháos, termine greco che significa propriamente «abisso», ed è una manifestazione di ciò che il primo libro della Bibbia, la Genesi, chiama tehòm, termine ebraico che pure significa «abisso».44 Il cháos di Esiodo e il tehòm della Bibbia sono la stessa cosa: rappresentano «quel sacro fonte da cui tutte le cose attingono la vita in modo più oggettivo del quadrato di Pitagora», come ebbe a dire Erasmo di Follia.45 Tale materia informe da cui provengono tutte le cose si ritrova anche dentro di noi, ne siamo divenuti consapevoli dopo Freud che ne ha parlato definendola Es, e talora si manifesta nella nostra vita come desiderio di negazione e superamento della saggezza e della cautela che può derivare. Assecondarla sempre conduce senza dubbio alla rovina; assecondarla spesso a una vuota e pusillanime immaturità; non assecondarla mai, però, significa chiudere la porta in faccia alla vita che bussa e quindi rinunciare alla possibilità di inoltrarsi in territori sconosciuti e potenzialmente più ricchi. Ammoniva il duca di La Rochefoucauld: «Chi vive senza follia non è poi così saggio come crede».46 Naturalmente, capire quando respingere la voce notturna dell’anti-saggezza e quando invece risponderle è un altro preziosissimo dono della saggezza.

52. La sapienza La prima virtù cardinale chiama in causa la mente e la vita della mente e corrisponde al livello più alto di ciò che chiamiamo vita umana, visto che tutto parte da lì e tutto lì torna, e anche quando diciamo «cuore» non intendiamo certo rimandare al muscolo cardiaco ma a una particolare e

delicata disposizione della mente. Occorre quindi chiedersi quale sia il dono più prezioso che la coltivazione della mente possa procurare a un essere umano e di conseguenza quale sia il valore più alto verso cui debba tendere il nostro agire. Di solito si associa la mente alla conoscenza, così che la risposta dei più consiste nel dire che il più alto prodotto della mente, e quindi della vita umana, è la conoscenza. Io però non la penso così per almeno questi due motivi: 1) perché la conoscenza può diventare pericolosa senza una luce più alta che ne guidi l’utilizzo; 2) perché la conoscenza è senza fondo: una risposta acquisita genera subito un’altra domanda, e più si avanza lungo il sentiero della conoscenza tanto più ci si rende conto con Socrate di «sapere di non sapere». Da ciò consegue che, per quanto sia importante, il più alto prodotto della mente non è la conoscenza. Qual è allora? La luce che guida l’utilizzo della conoscenza è la saggezza. Però neppure la saggezza in se stessa costituisce la più alta produzione della mente. L’acquisizione più alta, a mio avviso, non è gnôsis, non è neppure phrónesis, ma è l’unione delle due: sophía. Ovvero: gnôsis + phrónesis = sophía.47 Sophía, in latino sapientia, indica quella particolare disposizione della più preziosa energia della mente mediante cui la dimensione cognitiva si unisce in noi alla dimensione volitiva, l’intelletto si sposa con la volontà, producendo l’atto integrale di chi sa e insieme sa motivare e indirizzare il suo sapere. La sapienza è unione della conoscenza e della ponderazione che della prima sa fare un uso benefico, e come tale è il più alto prodotto della mente. Talora nel petto di alcuni esseri umani si accende il desiderio di raggiungere questa forma più alta del vivere e da qui si genera amore, da cui appunto philo-sophía. La più alta produzione della mente è quindi l’intelligenza usata per il bene: la sapienza. C’è un sapere teoretico (l’intelligenza pura), c’è un sapere pratico (la saggezza): l’unione dei due produce la forma più alta del sapere, che non è solo teoretico né solo pratico, ma conosce entrambe le dimensioni: è la sapienza, sophía, dove il sapere coincide con l’essere. Tale primato della sapienza rispetto alla conoscenza si riverbera sugli esseri umani, i migliori dei quali non sono gli eruditi e gli scienziati e neppure i semplici e i saggi, ma sono i sapienti, coloro che uniscono conoscenza e saggezza, potere dell’intelletto e capacità di utilizzarlo al meglio, intelligenza e bontà. Il sapiente non può non essere saggio, ma è più del saggio, perché al sapere pratico egli unisce il sapere teorico, sapendo così

sostenere, e se è il caso difendere, le sue scelte pratiche. In un intervento radiofonico dell’11 aprile 1943 Albert Einstein diceva: Dovremmo stare attenti a non fare dell’intelletto il nostro dio; esso ha, naturalmente, muscoli possenti, ma non è dotato di alcuna personalità. Non può guidare, può solo servire; e non è esigente nella sua scelta di un capo. Questa caratteristica si riflette nella qualità dei suoi sacerdoti, gli intellettuali. L’intelletto ha la vista lunga in fatto di metodi e strumenti, ma è cieco rispetto a fini e valori… Il fattore più importante nel dare forma alla nostra esistenza umana è individuare e fissare una meta.

Quale? Ecco la risposta: Una società di esseri umani liberi e felici che si prodighino con costante sforzo interiore per liberarsi dal retaggio degli istinti antisociali e distruttivi.48

Einstein afferma qui il primato della sapienza, il primato di quella dimensione della mente che sa guidare l’intelletto nel darsi una meta e lavorare per essa. Il che significa che la nostra mente, e quindi la nostra vita, conseguirà la sua più alta realizzazione quando metterà la sua conoscenza, piccola o grande che sia a seconda del quoziente intellettivo con cui si è nati (e di cui nessuno ha merito) e della possibilità di sfruttarlo al meglio mediante l’istruzione ricevuta (di cui neppure nessuno ha merito), al servizio del bene e della giustizia e della loro bellezza. È qui che si gioca il merito e il valore di un essere umano.

V. LA GIUSTIZIA

53. Immagini ed etimologia La seconda virtù cardinale è detta dikaiosýne in greco, iustitia in latino, giustizia in italiano. Essa indica la giustizia come virtù, cioè come abito interiore o attitudine di un essere umano, la quale quindi coincide con l’essere giusti, retti, equi, onesti, integri, probi. È sottolineata soprattutto dalla tradizione ebraica per la quale la giustizia, che si dice zedaqà, gioca un ruolo preminente essendo il principale attributo di Dio e il principale attributo degli uomini che ne seguono fedelmente i precetti, i quali sono detti per l’appunto giusti, e non santi come nella tradizione cristiana. È dalla giustizia che discende la pace, shalom, il bene più grande che si possa augurare all’umanità. Il suo opposto è l’ingiustizia, che in questo contesto è da intendere come inganno, frode, malizia, disonestà. Dante la presenta dicendo che «ordina noi ad amare e a operare dirittura in tutte le cose».1 Secondo la dottrina cattolica la giustizia è «la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto».2 L’iconografia allegorica della tradizione la ritrae con la bilancia, simbolo della ponderazione e dell’equilibrio, a significare la sua capacità di stabilire la ragione e il torto. Molto spesso nell’altra mano le viene posta anche la spada a significare la dimensione punitiva da sempre collegata al suo esercizio, il che le conferisce un aspetto complessivamente caratterizzato da una certa durezza, come attesta anche il proverbio latino dura lex sed lex. Talora viene raffigurata con una benda sugli occhi, come la Fortuna, dea bendata per antonomasia, anche se il significato è del tutto diverso: mentre infatti la benda della Fortuna indica la casualità e l’arbitrarietà e quindi l’ingiustizia con cui essa opera, la benda sugli occhi della Giustizia rimanda alla sua imparzialità, all’assenza di favoritismi, a quel «non guardare in faccia nessuno», come si usa dire, che fa sì, o dovrebbe far sì, che la legge sia «uguale per tutti». Giotto nella Cappella degli Scrovegni affrescò le sette virtù (le tre

teologali e le quattro cardinali) e i corrispettivi vizi, per un totale di quattordici immagini.3 Tutte le virtù sono raffigurate in piedi, solo la giustizia è seduta in trono e porta la corona, a significare il primato assegnatole dall’artista. Seduto in trono, in verità, è anche il vizio corrispettivo dell’ingiustizia, ma ovviamente è senza corona e poi, caso unico tra tutti i vizi e le virtù, è rappresentato al maschile, da un uomo nel pieno della forza e della maturità, il quale a me ricorda all’istante il potere. La scelta di Giotto di attribuire il primato alla giustizia e non, come da tradizione, alla saggezza o a una delle virtù teologali, apre la questione al centro del prossimo paragrafo. Per quanto concerne l’etimologia, infine, il termine greco dikaiosýne deriva da díke, che significa «giustizia» ma anche «azione giudiziaria», nel senso di processo, giudizio ed eventuale castigo. Come nome proprio, Dike indica la figlia di Zeus e di Temi, la dea della giustizia. Il termine latino iustitia deriva da ius con l’aggiunta del suffisso usato solitamente per sostantivare gli aggettivi come nel caso di stultitia o di tristitia, quindi in latino dire giustizia e dire diritto è pressoché la medesima cosa. Ius a sua volta viene ricondotto alla radice indoeuropea iu che esprime l’azione del legare, la medesima da cui deriverebbe yoga.

54. Seconda? Seguendo l’impostazione di Platone per il quale il primato spetta alla saggezza, l’elencazione classica delle virtù cardinali vede la giustizia al secondo posto. Per Aristotele però sembra che le cose stiano diversamente: «La giustizia è ritenuta essere la virtù più eccellente, e neppure la stella della sera né la stella del mattino sono altrettanto degne di ammirazione».4 Il filosofo, che dedica alla giustizia tutto il quinto libro dell’Etica Nicomachea, richiama il proverbio «nella giustizia è compresa ogni virtù» e continua: «È una virtù massimamente perfetta perché consiste nell’esercizio della virtù perfetta, ed è perfetta perché colui che la possiede è capace di esercitare la virtù anche verso il prossimo e non solo verso se stesso».5 In realtà per Aristotele il primato della giustizia si dà tra le virtù etiche, cioè tra quelle disposizioni che riguardano ciò che egli denomina «anima irrazionale» e che noi diremmo carattere o psiche, le quali sono distinte dalle virtù dianoetiche che riguardano l’anima razionale o l’intelletto all’interno delle quali c’è la phrónesis o saggezza che quindi non è seconda alla giustizia perché gioca, per così dire, in un campionato diverso. In ogni caso ciò non

impedì a Giotto nella Cappella degli Scrovegni di assegnare il primato assoluto alla giustizia e con ciò di venire a coincidere con la prospettiva dell’ebraismo. Per l’ebraismo infatti la giustizia detiene il primato, sia in ordine ai doveri dell’uomo, sia in ordine a ciò che Dio opera e a ciò che in se stesso è. Sotto quest’ultimo aspetto la Bibbia ebraica afferma ripetutamente che Dio ama la giustizia e il diritto, che la sua destra è piena di giustizia, che giudica con giustizia, che fa giustizia sulla terra,6 e i profeti insistono nell’ammonire i fedeli che il dovere primario è anteporre a tutto, culto divino compreso, la pratica della giustizia. Emblematiche al riguardo sono le parole di Isaia, che prima dice: «Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è per me un abominio», e poi richiama alla vera finalità che descrive così: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia».7 Il libro biblico deuterocanonico della Sapienza sottolinea il primato della giustizia facendo di essa la sorgente delle altre virtù: «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Ella infatti insegna la temperanza e la fortezza».8 Nello stesso ambiente dell’ebraismo ellenizzato del I secolo a.C. operava Filone di Alessandria per il quale la giustizia è la virtù «egemone».9 Il primato della giustizia rivive nel pensiero di Gesù che, delle otto beatitudini del Discorso della montagna, ne dedica ben due alla giustizia; la quarta: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati»; e l’ottava: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli».10 Carlo Maria Martini si ricollega a questa visione quando della giustizia scrive: «Questo bene richiede di essere anteposto a ogni altro bene, vantaggio e interesse. Ne va, infatti, del senso stesso della vita».11 Martini però va ben oltre nel sostenere il primato della giustizia con un’affermazione dal punto di vista teologico non poco sorprendente: mentre infatti per la coscienza cristiana è usuale sostenere in consonanza con il Nuovo Testamento che l’attributo fondamentale di Dio è l’amore, Martini estende il primato della giustizia anche all’essenza divina: «La giustizia è l’attributo fondamentale di Dio»; dichiarazione approfondita con queste parole: «Secondo la Bibbia, la giustizia è più del diritto e della carità: è l’attributo fondamentale di Dio».12 Anche la tradizione confuciana assegna alla giustizia un’importanza decisiva, come appare da questa frase di Meng-tzu: «La vita è ciò che desidero e anche la giustizia è ciò che desidero: se non posso averle ambedue, lascio la vita e scelgo la giustizia. Desidero, sì, la vita, ma v’è qualcosa che

desidero più della vita: perciò non cerco di conservarla con mezzi illeciti».13 Affermare il primato della giustizia sulla vita significa compiere il passaggio dal vivere all’esistere.

55. Legalità La giustizia non è la legalità. È chiaro che si tratta di due realtà strettamente connesse, ma non sono per nulla la stessa cosa ed è molto importante distinguerle con chiarezza. La legalità riguarda le leggi prodotte dagli uomini e dal loro potere, le quali non sono sempre giuste. Senza entrare nel merito di leggi contestate tra quelle attualmente in vigore, la differenza tra giustizia e legalità emerge in modo palese considerando le leggi razziali emanate nel 1938 dal regime fascista, su cui nessuna persona civile dovrebbe avere oggi dubbi quanto alla loro negazione del più elementare concetto di giustizia. E come altro esempio si pensi all’Antigone di Sofocle e alla scelta della protagonista di morire per la giustizia contro la legalità avendo voluto dare sepoltura al corpo del fratello Polinice a dispetto della legge emanata da Creonte che lo proibiva pena la morte. La legalità è la giustizia intesa come regolazione dei rapporti sociali su cui vegliano le forze dell’ordine e la magistratura, e a cui è preposto un apposito ministero con relativo ministro, quella giustizia che oltre alla bilancia impugna sempre la spada; quella giustizia i cui esperti vengono definiti legali («il mio legale») e che talora possono essere solo legulei, soggetti cavillosi e sofistici, esperti di leggi ma non di giustizia, come il dottor Azzeccagarbugli che diceva a Renzo: «Perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente».14 Quella giustizia di questo mondo cui si riferiva Lutero quando, conversando a tavola con i discepoli, diceva: «Quaggiù i giuristi sanno acchiappare solo le mosche; i grossi calabroni passano attraverso la ragnatela».15

56. Giustizia nel senso di essere giusti Trattando la giustizia non dal punto di vista del diritto bensì da quello della filosofia morale, si tratta di comprenderla in connessione con l’etica. È in gioco quindi la giustizia come virtù, come abito interiore o attitudine di un essere umano; la giustizia che coincide con l’essere giusti, cioè retti, equi, onesti, integri, probi; io direi anche miti, comprensivi, umani, perché, a

differenza della giustizia che ha la spada e gli occhi bendati, la vera giustizia interiore è disarmata perché non ha bisogno della violenza e tiene gli occhi ben aperti, ovviamente non per indulgere a favoritismi ma per capire bene la situazione e così esercitare veramente la iuris prudentia dando «a ciascuno il suo», unicuique suum, come recita una massima tradizionale del diritto romano.16 Si tratta della giustizia definita come equità, la quale rappresenta quella che io chiamo la morbidezza della giustizia. Con questa espressione non intendo sostenere nessuna rilassatezza nel suo esercizio, quanto piuttosto la capacità di adattamento al caso concreto, perché solo se si realizza tale abito su misura si ha il compimento della giustizia dando veramente «a ciascuno il suo». È quella giustizia di cui Gesù diceva: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli»,17 intendendo una giustizia interiore, una giustizia da giusti, cioè né da furbi né da duri fustigatori; una giustizia che non è la mia o la tua, ma la giustizia di tutti, quindi è imparziale, ma è altresì la giustizia che sa dare a ciascuno il suo e che quindi sotto questo aspetto sa anche essere ad personam, non perché compie favoritismi ma perché favorisce la persona e si pone al suo servizio (l’espressione ad personam riferita alla giustizia entrò in auge al tempo di un presidente del Consiglio italiano che sapeva abilmente far legiferare in suo favore). Mi sto riferendo alla giustizia non come virtù sociale ma come virtù personale, come disposizione prima ancora che comportamento, qualcosa che viene prima della correttezza esteriore perché riguarda l’interiorità, il nostro essere, il nostro sentire, il nostro esistere come libera e pura coscienza che vuole favorire il sorgere e il fiorire di altre libere e pure coscienze. Ora la domanda diviene: è veramente possibile per un essere umano una giustizia così? È veramente possibile che un essere umano sia non solo esteriormente corretto, ma anche interiormente giusto? Ed è veramente possibile che questa giustizia interiore che rende incorruttibili non porti al contempo a essere duri, inflessibili, persino spietati, ma al contrario renda miti, flessibili, dotati di pietas e quindi veramente giusti?

57. Negazioni Nel secondo libro della Repubblica, riprendendo le tesi contro la giustizia esposte in precedenza da Trasimaco, Platone fa tenere a Glaucone un lungo

discorso contro Socrate al cui interno vi è la storia dell’anello di Gige, che io raccontavo ai miei figli quando erano piccoli non senza un certo successo. Vi si narra di un pastore di nome Gige che dopo una terribile tempesta e un terremoto scorge una fenditura nella terra, vi entra, vede un cavallo di bronzo cavo con un’apertura, vi guarda, trova un cadavere completamente nudo di statura gigantesca con un anello d’oro, glielo strappa, risale in superficie e qui si accorge del potere straordinario di quell’anello: ruotandolo in un senso si diventa invisibili, ruotandolo nell’altro si torna di nuovo visibili. Cosa fa allora Gige? Cosa farebbe ognuno di voi in possesso di quell’anello? Egli non ha esitazioni: si introduce nel palazzo reale, seduce la regina e con il suo aiuto uccide il re e prende il suo posto. Fine della storia. La sua morale, dice Glaucone contro Socrate, è che in possesso di quell’anello «nessuno sarebbe a tal punto integro da restar saldo nella giustizia, avendo la forza di tenersi lontano dai beni altrui, e di non toccarli, quando invece avrebbe la possibilità di prendere impunemente dai banchi del mercato tutto quello che desidera, di penetrare nelle case e far l’amore con chi gli aggrada, di uccidere o liberare dai ceppi chi vuole, e poi di fare tante altre cose, quasi fosse un dio tra gli uomini».18 È così? Chi di voi in possesso dell’anello di Gige non lo userebbe mai per nulla di ingiusto e di illegale, neppure per prendere una manciata di ciliegie al mercato, entrare gratis al cinema, saltare la coda al museo, o a scuola durante le verifiche scritte? Secondo Glaucone, a dispetto del tanto parlare di giustizia, le cose in realtà stanno diversamente: «Nessuno di propria volontà si comporterebbe secondo giustizia, ma solo perché costrettovi […]. Insomma non c’è uomo che non creda che, a livello personale, l’ingiustizia rende assai più della giustizia».19 Il fatto straordinario è che chi dà voce in modo tanto suggestivo e convincente a questa visione che nega la possibilità della giustizia interiore, cioè della giustizia come virtù, è Platone, il quale pensava esattamente il contrario. Il suo pensiero sulla giustizia si basa infatti su due assunti fondamentali: 1) il lavoro della filosofia consiste esattamente nell’educare gli esseri umani alla giustizia; 2) gli esseri umani possono riuscire in questo lavoro perché la loro natura nel suo fondo è ultimamente giusta. Riguardo a quest’ultima tesi va detto che per Platone l’ingiustizia umana indubitabilmente esiste e spesso anzi trionfa, come egli fin da giovane ebbe a sperimentare con la condanna a morte del suo maestro, ma essa è solo frutto di diseducazione, perché l’essere umano è essenzialmente buono, come essenzialmente buona è la natura di cui fa parte. La malvagità non è

intrinseca all’essere umano, ma costituisce una deviazione, un errore, per la precisione una pericolosa quanto diffusa malattia della mente che si chiama ignoranza. Il cristianesimo non è dello stesso parere. La sua dottrina considera gli esseri umani irrimediabilmente corrotti sul piano naturale in seguito al peccato originale e quindi dotati di una volontà intrinsecamente egoista e non di rado malvagia; per questo essi vengono considerati come bisognosi di una salvezza a cui da soli non potrebbero mai giungere ma che viene loro conquistata da un altro (denominato redentore) e che a loro è concessa come grazia immeritata (denominata redenzione). È noto che il cristianesimo afferma che ogni essere umano è immagine di Dio (imago Dei) e figlio di Dio (filius Dei), ma il peccato originale pesa a tal punto sull’antropologia cristiana da sostenere l’impossibilità per chiunque di essere giusto da sé e quindi di salvarsi con le sue forze. Pelagio, monaco britannico del V secolo che insegnava che mediante l’esercizio e la virtù un essere umano può diventare giusto, venne condannato come eretico dal concilio di Cartagine indetto per volere di sant’Agostino e da allora il pelagianesimo è considerato una delle più classiche eresie.20 Per il cristianesimo dottrinale nessun uomo è naturalmente giusto, né lo può diventare da sé; può solo essere reso giusto. Così, a differenza dell’ebraismo che parla di giustizia e di giusti, il cristianesimo parla di giustificazione e di giustificati. Le sfumature variano tra cattolici, ortodossi e protestanti, ma il cuore della dottrina è identico e lo riassume questo articolo del Catechismo cattolico attualmente in vigore: «La giustificazione ci è stata meritata dalla passione di Cristo che si è offerto sulla croce come ostia vivente».21 Fortunatamente il cristianesimo è poliforme, per cui alla corrente pessimista che accentua la corruzione della natura umana, rappresentata principalmente dall’apostolo Paolo, dal tardo Agostino, da Lutero e Calvino, da Pascal, da Kierkegaard, da Barth e da Ratzinger, fa da controcanto la corrente ottimista che ha più fiducia nella libertà umana e nella sua capacità di operare bene, rappresentata principalmente dall’apostolo Giacomo (che non a caso polemizzò aspramente con Paolo), da Origene, dal giovane Agostino di formazione neoplatonica, Erasmo da Rotterdam, Ignazio di Loyola, Schweitzer, Teilhard de Chardin, Rahner, Martini, Küng. Concludo segnalando che tra le teorie che negano la capacità dell’essere umano di essere intrinsecamente giusto vi sono non poche filosofie laiche: si pensi a Hobbes e alla sua visione dello stato di natura come «guerra di tutti

contro tutti» con la conseguente istituzione di un potere assoluto quale unica garanzia per la sicurezza sociale, a Darwin e alla sua visione della vita quale continua lotta (struggle for life), a Nietzsche che privilegia l’impulso e il desiderio di potenza a scapito della giustizia, e in genere alla tendenza dominante nella cultura novecentesca contrassegnata da un diffuso pessimismo antropologico che permea di sé la politica, l’economia, l’estetica, la letteratura, il cinema, il pensiero, e grava quotidianamente sulle nostre menti e sui nostri sentimenti, e non può ovviamente non determinare i nostri comportamenti. Un conto infatti è agire pensando di avere a che fare con persone di cui ti puoi tendenzialmente fidare, un altro è ritenere di essere circondato da nemici verso cui coltivare sistematicamente diffidenza e ostilità.

58. Affermazioni Di contro alla visione negativa presentata sopra io penso che l’essere umano sia capace di giustizia. In questo concordo con Aristotele secondo cui «la giustizia è una realtà umana»,22 e con il libro biblico deuterocanonico del Siracide secondo cui «se cerchi la giustizia, la raggiungerai e te ne rivestirai come di un manto di gloria».23 Sono giunto a questa convinzione grazie all’esperienza, avendo incontrato fin da piccolo una giustizia concretamente esercitata, poche parole tanti fatti, una giustizia vera, e dico vera proprio in quanto umana, cioè esercitata per se stessa, per il gusto e il piacere di essere giusti, non per dovere, non per obbedire, non per essere in regola. Ho incontrato e continuo a incontrare persone veramente giuste che prescindono del tutto da qualunque riferimento religioso o appartengono a una religione diversa da quella cristiana, la cui esistenza e il cui comportamento quotidiano sono la più efficace smentita del dogma del peccato originale (questa invenzione contorta di san Paolo e sant’Agostino in collaborazione lungo i secoli, tanto inumana quanto insensata, che non teme di collocare persino i bambini tra le fiamme eterne dell’inferno se morti senza battesimo).24 Sono inoltre convinto del fatto che tale mia esperienza non sia affatto unica, ma sia al contrario condivisa da molti altri esseri umani di tutti i tempi e di tutti i luoghi, come dimostrano i testi che ora propongo, in ordine cronologico discendente: Antico Egitto, Libro dei Morti,

XVI

secolo a.C.: «Ho soddisfatto dio

con ciò che ama. Ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva»;25 Persia, parole fatte incidere dall’imperatore Dario I (550-486 a.C.) sulla sua tomba a Naqš-i Rostam: «Per volere di Ahura Mazdah [il Dio giusto e benevolo della religione zoroastriana] io sono di questa natura: di ciò che è giusto io sono amico, di ciò che è ingiusto non sono amico. Io non desidero che il debole subisca danno per opera del potente, né che il potente subisca danno a opera del debole. Quello che è giusto è il mio desiderio. Il seguace della menzogna io lo detesto. Io non sono vendicativo. Se una cosa desta in me collera, io mi freno con la ragione; io sono padrone dei miei propri impulsi»;26 Cina, parole del filosofo confuciano Meng-tzu (370-289 a.C.): «Tutti gli uomini hanno un cuore che non tollera le sofferenze altrui […]. Ciò per cui dico che tutti gli uomini hanno un cuore che non tollera la sofferenza altrui, è questo: supponi che la gente veda improvvisamente un bambino che sta per cadere nel pozzo. Tutti provano un sentimento di raccapriccio e di pietà […]. Essere privo del sentimento della pietà e della commiserazione non è da uomo; essere privo del sentimento della vergogna (per le proprie colpe) e della ripugnanza (per le colpe altrui) non è da uomo; non avere il sentimento della rinuncia di sé e della cedevolezza agli altri non è da uomo; non avere il sentimento del diritto e del torto non è da uomo»;27 India, Editti incisi su roccia del re Aśoka, di religione buddhista, III secolo a.C.: «È un dovere per me adoperarmi per il bene di tutto il mondo. E questa ne è la radice: lavoro assiduo e risoluzione degli affari. E non v’è opera più importante che il lavorare per il bene di tutto il mondo. E quel che io mi sforzo di fare è l’assolvere il debito che ho verso le creature: agire perché siano felici in questo mondo, e possano nell’altro raggiungere il Cielo»;28 Roma antica, Cicerone, I secolo a.C. (106-43 a.C.), De re publica: «La vera legge è la retta ragione, in accordo con la natura, diffusa tra tutti gli uomini, immutabile, eterna, quella che chiama al dovere con il suo comando, con il suo divieto distoglie dalla frode […]. Non è permesso proporre modifiche a questa legge, né è lecito derogare a una qualche sua disposizione, né è possibile abrogarla interamente […] né questa legge sarà una a Roma, un’altra ad Atene, una ora, un’altra in futuro, ma una sola legge terrà unite tutte le genti e in ogni tempo, e sarà

uno solo comune guida e signore di tutti, il dio: lui di questa legge autore, arbitro, giudice; chi a essa non ubbidirà, fuggirà se stesso […], ha rifiutato la sua natura di uomo».29 I brani proposti, che risalgono tutti a prima della nascita di Cristo e provengono da diverse tradizioni spirituali, sono concordi nel sottolineare la reale capacità di giustizia dell’essere umano e attestano che la luce di cui abbiamo bisogno per essere giusti (sciogliendo la contraddizione di una logica aggregativa che produce vita e insieme morte, su cui mi soffermerò più avanti) è già dentro di noi. È quanto affermava il giovane Agostino in aperta contraddizione con la dottrina del peccato originale che nella vecchiaia contribuirà in modo determinante a far diventare dogma cattolico: «La verità abita nell’uomo interiore».30 Tre secoli prima Seneca ne aveva parlato in questo modo: «Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. Secondo me, Lucilio, c’è in noi uno spirito sacro».31 Questa presenza non dimostrabile, ma non per questo non sperimentabile e non sperimentata, si può chiamare «verità» come Agostino, «spirito divino» come Seneca, «sentimento del rispetto» come Kant, o anche «coscienza morale», «sinderesi» o «anamnesi» come Joseph Ratzinger,32 o in altri modi ancora, secondo la visione del mondo propria di ciascuno. Essa rappresenta la forza che porta gli esseri umani a superare i legami di sangue e di interesse, e a vivere per la giustizia. Questa luce insita in noi non è proprietà esclusiva di nessuna ideologia, filosofia, religione. Tutte le diverse spiritualità, religiose o laiche che siano, devono semmai mettersi con umiltà al suo servizio. È da tale luce che scaturisce la formula più chiara della giustizia relazionale, comunemente detta Regola d’oro, presente in tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità e di cui la formulazione più classica è la seguente: «Non fare agli altri quello che non vuoi che gli altri facciano a te».33 Si tratta della formula più efficace della giustizia in quanto virtù etica, così semplice e chiara che anche un bambino la comprende, perché esprime l’armonia relazionale da cui noi fisicamente veniamo e in cui consistiamo. Anche quel grande pessimista di Hobbes riconosceva che tale regola è «la legge di tutti gli uomini».34 E Schopenhauer, dal pessimismo ancora più cupo: «Il giusto sarà sempre disposto a rendere agli altri l’equivalente di quanto riceve».35

59. La via da percorrere per essere giusti Penso che il problema a questo punto si possa formulare più o meno così: belle parole queste sulla giustizia e sull’essere giusto, ma come si fa ad attuarle in concreto diventando davvero interiormente giusti? La risposta è: lavorando su se stessi, in qualunque modo tale lavorare venga chiamato. Io uso l’espressione esercizi spirituali, che preferisco a direzione spirituale per la maggiore libertà che trasmette, per quanto spesso siano necessari una direzione e un direttore soprattutto all’inizio del cammino. Parlo di esercizi spirituali intendendo per spirito, come ho già detto, quell’energia indeterminata dentro l’essere umano che produce la sua libertà, per cui gli esercizi spirituali consistono in un lavoro sulla libertà, nella convinzione che, come il corpo richiede esercizi fisici e la psiche esercizi psichici, allo stesso modo ne richiede lo spirito per generare vera libertà. Si tratta di un lavoro necessario per tutti ma diverso per ognuno perché va strutturato sulla specifica condizione di ogni persona soppesandone forza di volontà, senso dell’io, dose di coraggio, grado di accettazione di sé, nonché specifica visione del mondo. L’obiettivo però è in ogni caso sempre il medesimo: disporsi interiormente in modo da essere equi, intendendo con ciò la condizione di chi non cerca esclusivamente il proprio interesse a scapito degli altri, neppure però fa prevalere l’interesse altrui a scapito del proprio, ma persegue l’interesse del sistema, più tradizionalmente detto bene comune. Sottolineo bene comune perché talora vi è una certa retorica dell’altro, come se il fine dell’agire etico fosse l’altro e non la giustizia di entrambi, e come se l’altro o il tu non fossero in se stessi a loro volta un io. La realtà, però, è che lo sono, per cui l’essere unilateralmente rivolti verso di loro conduce per forza ad alimentarne l’egocentrismo, come accade a certi genitori con i figli o all’interno di certe coppie. La verità è che, se non si deve essere egoisti alimentando il proprio ego, neppure si deve essere tanto altruisti da alimentare l’ego altrui. Si tratta piuttosto di essere giusti, cioè centrati, non sbilanciati, servendo la logica del sistema; si tratta di capire quale è il bene del sistema o bene comune e lavorare a suo beneficio, a volte dicendo sì, a volte dicendo no all’altro. Il fine primario degli esercizi spirituali consiste nel porsi nella condizione di coltivare questa giustizia interiore e lo si fa anzitutto vedendosi, esaminandosi, soppesandosi: la giustizia interiore è ciò che scaturisce dal dialogo con se stessi, è il prodotto di un dialogo onesto tra sé e sé. Chi lo

accetta, acquisisce progressivamente una prospettiva fondamentale. Quale? La prospettiva fondamentale che genera la giustizia interiore è quella che porta a capire che tutti nasciamo e ci formiamo in un punto determinato dello spazio-tempo, una condizione che ci consegna una prospettiva particolare facendoci assumere un punto di vista. Sottolineo il termine punto. È impossibile pensare, e prima ancora vivere, senza essere radicati in un punto; di conseguenza tutti noi siamo necessariamente puntualizzati, quindi anche necessariamente parziali, collocati cioè in una prospettiva che ci rende per forza di parte. Si potrebbe anche dire, giocando un po’ con le parole, che vivere compiendo il viaggio della vita implica partire, ma si parte necessariamente da un punto e quindi si è per forza di parte. Chi non è di parte, non parte, perché non si può partire senza essere in un punto e quindi senza essere di parte: se non si è di parte, non si prende parte, non si partecipa e quindi non si parte. Collocandoci necessariamente in un punto, la vita ci consegna un punto di vista e di partenza che ci definisce e, de-finendoci, ci rende finiti, mai infiniti. Ogni esistenza quindi è partizione, proprio nel senso di spartizione, di divisione: è una prospettiva particolare che non coinciderà mai con l’intero. Omnis determinatio negatio, recita un assioma della logica ricondotto a Spinoza.36 Il che significa che ogni cosa che dici o che fai, anche se è esatta, contiene l’errore. Lo contiene perché non è il tutto, non è l’intero, il quale solo è il vero, perché «il vero è l’intero», come insegna la filosofia di Hegel.37 Il che significa che il vero non può essere nominato da nessuno, perché tutti partiamo da un determinato punto e seguiamo una determinata linea con la conseguente inevitabile negazione delle altre. Ecco quindi la prospettiva fondamentale che genera la giustizia interiore: la consapevolezza della propria fallibilità; e quindi della propria ingiustizia. Proprio nel momento in cui vuoi essere vero e veritiero soppesando la tua mente, ti scopri parziale, quindi mendace e falso. Il voler essere giusto ti fa scoprire che non lo sei. Anzi, che non lo puoi neppure diventare, perché, esistendo, sarai sempre collocato in un punto che ti renderà di parte. Siamo consegnati a una strutturale imperfezione. Questa consapevolezza della propria finitudine e fallibilità è la parte di verità contenuta nel dogma del peccato originale, solo che il dogma, presentando tale condizione antropologica come colpa che rende colpevoli, come un peccato che, per quanto non commesso da noi, ci rende tuttavia

peccatori, finisce per creare alla coscienza più danni che benefici, un po’ come un cibo genuino con un’impanatura avariata, come un piatto di ottimi spaghetti al veleno. La nostra condizione strutturalmente di parte non ci consente di essere giusti, neppure però ci fa essere radicalmente ingiusti: ci consegna piuttosto all’imperfezione. Tale imperfezione comprende anche il livello delle idee e delle dottrine. Qui tutti siamo necessariamente di parte: i diversi partiti, ovviamente, ma anche le diverse religioni, le diverse confessioni all’interno delle religioni, le diverse filosofie, le diverse correnti artistiche, le diverse scuole mediche, le diverse scuole psicanalitiche, le diverse prospettive pedagogiche… i diversi esseri umani considerati uno per uno, io che scrivo, tu che leggi. Il primo passo verso la giustizia interiore consiste quindi nella consapevolezza del proprio punto di vista in quanto punto e in quanto parte e per questo di parte, e la conseguente presa di distanza dall’atteggiamento mentale che pretende di identificare la propria parte con il tutto e che così genera integralismo, fanatismo, intolleranza, violenza. Questo non significa cadere nell’estremo opposto secondo cui nella vita non si dà nessuna gerarchia e perciò risulta impossibile parlare di valori e di virtù, posizione intellettuale che può essere definita scetticismo, cinismo, relativismo etico, indifferentismo, nichilismo e immagino in altri modi ancora. Questo significa piuttosto che si può essere giusti solo superando il modo dell’intelletto determinante, solo superando la forma della determinatio che contiene necessariamente sempre anche la negatio: si può essere interiormente giusti solo deponendo la forma dell’intelligenza determinante e assumendone un’altra. Quale? Comprendere la relatività di tutti i punti di vista non significa negare l’esistenza dell’elefante, ma comprendere che l’abbiamo toccato solo in un punto e che quindi non conosciamo per intero la sua immagine. Mi sto riferendo a un’antica parabola buddhista che racconta di un re che ordinò di radunare tutti i nati ciechi del regno e di condurre loro un elefante per farlo toccare a ognuno: ci fu così chi gli toccò la testa, chi un orecchio, una zanna, la proboscide, il corpo, le zampe, le natiche, la coda, il ciuffo della coda. Poi il re chiese come fosse l’elefante e i ciechi risposero paragonandolo all’oggetto che più si confaceva alla parte che avevano toccato: a una brocca, a un setaccio, a un aratro, a un pilastro, a un mortaio, a una scopa, il che naturalmente finì per farli litigare e persino prendersi a pugni. L’insegnamento dell’antica parabola è riassunto così: «Disputano e

polemizzano coloro che vedono soltanto un lato delle cose».38 Il cammino verso la giustizia interiore inizia quando capisci che il tuo punto di vista è certamente vero (perché anche tu hai toccato l’elefante) ma non è assoluto, e quindi, benché sia vero, non è la verità. Prosegue poi quando ti rendi conto che anche altri hanno toccato l’elefante e che anche la loro esperienza, benché diversa dalla tua, è vera, per quanto neppure essa sia la verità. Nasce da qui la stima verso le esperienze e i punti di vista altrui, considerati non più come pericolose istanze rivali ma come testimonianze che consentono di allargare il nostro sapere sull’elefante e quindi risultano degni di essere analizzati con attenzione intrecciando con chi li sostiene un dialogo rispettoso. La parabola dei ciechi e dell’elefante non riguarda solo l’esperienza del divino, come intende il testo originario che paragona l’elefante al Dharma; riguarda anche ogni altra esperienza della vita più grande di noi: la concezione dell’essere umano, della storia, dell’estetica, dell’etica, della politica, dell’economia, della medicina e via discorrendo. Quando tu capisci che il tuo punto di vista è sì vero, ma non è «il vero» perché non è «l’intero», e quindi è parziale, e quindi, oltre che vero, è anche falso, quando tu capisci questo, sei sulla via giusta per evitare il pericolo del fanatismo e quello speculare del cinismo di chi non crede a nulla. In questo modo si genera la giustizia interiore perché si istituisce la mente come una bilancia e si produce equanimità, la disposizione che rende equi. Perché? Perché non si vuole più vincere, perché non si ha più la preoccupazione di far prevalere il proprio punto di vista su quello degli altri. Il proprio punto di vista diviene piuttosto il contrappeso sulla bilancia della mente che consente di pesare o soppesare gli altri punti di vista, visto che avere una parte è necessario per valutare la controparte e non cadere in balìa delle opinioni o esperienze altrui. È attraverso questa ricerca di equilibrio tra la mia parte e la parte altrui sulla bilancia della mente che conseguo equanimità e divengo giusto. Il giusto è colui che non cerca più di vincere facendo prevalere la propria parte o il proprio partito, ma, per quanto è possibile a un essere umano, cerca l’equilibrio della bilancia, l’armonia delle parti, qualcosa di più grande del proprio piccolo punto di vista; cerca l’intero, la verità. E quando pensa in solitudine e quando discute con gli altri, si sforza di tenere sempre presente l’avvertimento biblico: «Non ricorrere mai alla menzogna».39

60. Giudicare C’è una dimensione dell’essere giusti che chiama in causa l’intelligenza e che porta a esprimere giudizi. Ma è eticamente sostenibile esprimere giudizi? Il termine giudizio ha la medesima radice di giustizia, rimanda a ius e da qui a iustitia, sicché esprimere giudizi significa di per sé pensare dal punto di vista della giustizia. Il verbo giudicare deriva dal latino iudico, formato da ius e da dico, ovvero «dico il giusto». E nel termine giudice è insito a tal punto il riferimento alla giustizia che dire «giudice giusto» è di per sé un pleonasmo, un’espressione ridondante analoga a «luce luminosa», perché come non ci può essere una luce che non sia luminosa, così non può esserci un giudice che non sia giusto, in quanto se non è giusto non è neppure giudice ma un usurpatore della qualifica. Ma torno a chiedere se sia eticamente sostenibile esprimere giudizi e proporsi come giudici: non sarebbe meglio astenersi e non giudicare? Si può esercitare il ruolo di giudice senza ergersi a giudici? Nei Vangeli vi sono al riguardo due affermazioni di Gesù in contrasto tra loro, perché la prima ammonisce a non esprimere giudizi e la seconda invita a farlo. Eccole: «Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi»;40 «Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?».41 Che fare? La Bibbia annuncia il giudizio di Dio che viene detto «giudice giusto» e che «in quel giorno», «nell’ultimo giorno», esprimerà su ogni vivente la sua definitiva valutazione, tradizionalmente detta «giudizio universale». Qui però a essere in gioco non è il giudizio di Dio nell’ultimo giorno, ma quello degli esseri umani giorno per giorno, posti di fronte ai casi della vita. Gesù stesso lo sollecita: «Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?». In effetti non sono pochi a prendere sul serio il suo avvertimento mostrandosi sempre pronti a giudicare tutto e tutti, non senza un certo malizioso piacere nel fustigare i costumi altrui. Dimenticano però l’avvertimento opposto di Gesù: «Non giudicate». Ma come è possibile giudicare e al tempo stesso non giudicare? Io penso che i due contrastanti ammonimenti evangelici disegnino bene la

polarità dentro cui si deve muovere la coscienza: da un lato la prontezza e il coraggio di distinguere il bene dal male nelle situazioni concrete della vita, dall’altro l’attenzione a non sezionare l’interiorità altrui con lo sguardo usato a mo’ di bisturi pretendendo di definire l’intenzione profonda e il peso specifico di una persona. Io penso, in altri termini, che occorra giudicare le azioni e non giudicare le anime. Giudicare le azioni è importante non solo per noi, al fine di capire con chi abbiamo a che fare; lo è anche per chi è oggetto del nostro giudizio nella misura in cui si comprende bene il significato di giudicare. Ha scritto al riguardo Carlo Maria Martini: «Dobbiamo aiutare il mondo a trovare una direzione, essere giudici non significa altro».42 Giudicare non è esprimere sentenze che inchiodano, perché, quando è così, vale l’ammonimento «non giudicare»; giudicare è piuttosto orientare verso la giustizia compiendo veramente l’atto di ius dicare, di «indicare ciò che è giusto». Se lo si fa con grazia e amorevolezza, si infonde luce, orientamento, spinta, si suscita l’energia che mette in cammino e fa trovare una direzione. La vera giustizia genera azione. Ha scritto ancora Martini: «Secondo la Bibbia, la giustizia è più del diritto e della carità: è l’attributo fondamentale di Dio. Giustizia significa impegnarsi per chi è indifeso e salvare vite, lottare contro l’ingiustizia. Significa un impegno attivo e audace».43 Contro ogni indifferenziato «al di là del bene e del male» auspicato da Nietzsche con l’omonimo testo,44 la mia posizione consiste in un convinto rimanere e operare al di qua del bene e del male assegnando alla libertà e alla responsabilità personale un’importanza decisiva. Ne viene che per me il resistente antinazista Dietrich Bonhoeffer rimarrà sempre insuperabilmente migliore di Hitler; Falcone e Borsellino sempre insuperabilmente migliori dei mafiosi loro assassini; i giudici che perseguono la corruzione sempre insuperabilmente migliori dei corrotti e dei corruttori; chi paga le tasse sempre insuperabilmente migliore di chi le evade; chi fa il suo dovere sempre insuperabilmente migliore di chi fa il furbo. E il compito del pensiero consiste nel dare sostanza teoretica a questo essere insuperabilmente migliori.

61. Pensare per valori Rimanere al di qua del bene e del male significa pensare facendo dell’etica il punto di vista decisivo, significa cioè pensare in termini di valori. Si tratta di una prospettiva oggi decisamente inattuale, avversata e schernita

da molti, bollata come moralismo. Martin Heidegger riteneva questo punto di vista addirittura un attentato mortale alla filosofia in quanto esercizio rigoroso del pensiero. Scriveva: Il pensare per valori si rivela come l’assassinio vero e proprio. Esso non solo colpisce l’ente come tale nel suo essere-in-sé, ma pone l’essere completamente in disparte […]. Il pensare per valori, proprio della metafisica della volontà di potenza, è uccisione in senso estremo, perché è un non lasciar essere l’essere stesso nel suo sorgere e dischiudersi di fronte all’uomo e cioè nella presenza vivente della sua essenza. Il pensare per valori fa sì che l’essere non possa pervenire ad essere nella sua verità.45

Heidegger scriveva queste cose nel 1940, e ognuno sa qual era la situazione in Europa nel 1940 a causa del regime la cui ascesa Heidegger aveva salutato con favore avendo voluto «lasciar essere l’essere stesso nel suo sorgere». Ne venne ripagato con la carica di rettore dell’Università di Friburgo nel 1933, l’anno dell’ascesa al potere di Hitler e l’anno in cui Husserl e altri docenti ebrei venivano costretti a lasciare i loro incarichi universitari. Il 3 novembre 1933 Heidegger concludeva così un appello agli studenti: «Il Führer stesso, e lui solo, è la realtà tedesca di oggi, ma è anche la realtà di domani e quindi la sua legge. Imparate a sapere sempre più profondamente: d’ora in poi, ogni cosa richiede decisione e ogni azione responsabilità. Viva Hitler».46 Certo, occorre tenere conto del contesto, fare attenzione a non giudicare le persone con il senno di poi, considerare che Hitler nel 1933 forse non aveva ancora palesato il suo vero volto, riconoscere che Heidegger diede le dimissioni da rettore solo un anno dopo; occorre tenere presente tutto ciò e anche altro, ma, precisamente facendo questo, non può non apparire la grandezza umana, spirituale e filosofica di coloro che, contrariamente a Heidegger, vollero sempre, anche nel 1933, «pensare per valori» e quindi videro bene da subito qual era la realtà, mostrando concretamente il valore della loro umanità e della loro filosofia. Esemplare è il caso del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, il quale, solo due giorni dopo l’ascesa al potere di Hitler, in un discorso alla radio affermava: Il vero capo deve sempre poter deludere. Proprio questo fa parte della sua responsabilità e obiettività. Egli deve portare i seguaci a liberarsi dell’autorità della sua persona e riconoscere la vera autorità degli ordini e della funzione. Il capo deve portare il seguace alla responsabilità verso gli ordini della vita, verso il padre, il maestro, il giudice, lo Stato. Deve rifiutarsi assolutamente di diventare il seduttore [Verführer], l’idolo, l’autorità ultima.47

Diversamente da Heidegger, Bonhoeffer era uno che pensava per valori. Come lui Husserl, Jaspers, Jonas, Arendt, Barth, Tillich, Bultmann, tutti pensatori che non ebbero nessuna intenzione di «lasciar essere l’essere stesso nel suo sorgere», se questo essere aveva il volto di Adolf Hitler. Bonhoeffer

collaborò con la resistenza antinazista finendo per essere arrestato dalla Gestapo, trascorrere due anni in carcere a Berlino e venire impiccato il 9 aprile 1945 nel lager di Flossenbürg a trentanove anni. Un anno prima dal carcere aveva scritto rivolgendosi al nipote neonato in occasione del suo battesimo: «L’origine dell’azione non è il pensiero ma la disponibilità alla responsabilità. Per voi pensare e agire entreranno in un nuovo rapporto. Voi penserete solo ciò di cui dovrete assumervi la responsabilità agendo. Per noi il pensare era molte volte il lusso dello spettatore, per voi sarà completamente al servizio del fare».48 Ciò che muove questa prospettiva di pensiero non è la registrazione di ciò che accade, secondo una prospettiva che equipara il pensatore a un notaio; è piuttosto la volontà di riforma e di cambiamento delle inique condizioni del mondo di cui ci si assume la responsabilità, secondo la prospettiva che equipara il pensatore a un medico e che quindi porta a giudicare ciò che fa bene o male alla salute. Questa visione genera un pensiero responsabile, pragmatico, interessato, operativo; un pensiero che fa della passione per il bene e la giustizia il suo principio costitutivo, secondo una prospettiva che trova in Platone e in Kant, e nei profeti ebrei e in Gesù a livello religioso, gli interpreti più alti.

62. Le radici della giustizia Oggi la passione per la giustizia deve assumere, e in parte ha già assunto, una dimensione ecologica, configurandosi come giustizia verso il pianeta, gli animali, le piante, l’aria, le acque. Tale dimensione ecologica in quanto esercizio della giustizia verso ogni essere senziente e ogni ente del pianeta non deve però far dimenticare che solo l’essere umano, così come sa infrangere i limiti della natura perturbandone l’equilibrio, allo stesso modo sa trascendere la natura in forza di un maggiore senso di giustizia. Per onorare la giustizia, noi sappiamo andare al di là della nostra biologia superando le necessità legate alla nutrizione e alla riproduzione. Le due più possenti leggi che governano il mondo naturale possono essere talora superate dall’essere umano in forza di convinzioni che si radicano nella sua mente (se fondatamente o meno, è un’altra questione). L’essere umano intuisce che l’ordine e la giustizia hanno più dignità e valore della forza; sente che il diritto sta più in alto della mera forza fisica. Dando voce a questa intuizione e a questo sentire, e in diretta

contrapposizione alla morale della storia dell’anello di Gige, Platone afferma: «Nessuno acconsente volontariamente alla falsità nella parte più importante di se stesso e circa le cose più importanti».49 È vero? Io penso di sì. Un essere umano può mentire, rubare, uccidere, compiere le azioni più truci, nessun dubbio al riguardo, ogni giorno vi sono migliaia di attestazioni, ma perché lo fa? Perché è convinto che a lui sia consentito mentire, rubare, uccidere e compiere le azioni più truci; anzi, che proprio agendo così egli può dimostrare di essere forte, addirittura il più forte, il che è esattamente quanto più gli sta a cuore, per cui in un certo senso deve agire così. Di questo suo desiderio di essere forte o meglio ancora il più forte, egli è profondamente convinto, non si comporterebbe così se non lo fosse, ne va del suo onore, ed egli si considera un uomo di onore e vuole onorare la sua convinzione fondamentale secondo cui il senso del suo esistere consiste nel riuscire a diventare il più forte. Nella parte più importante di sé, nell’intimità della sua coscienza, egli vuole essere vero e coerente con se stesso, fedele ai suoi valori. Per ognuno è così. È questo il senso dell’affermazione più volte ribadita da Platone secondo cui il male proviene dall’ignoranza, come per esempio in questo passo: «Coloro che sbagliano nella scelta dei piaceri e dei dolori (e questi sono i beni e i mali) sbagliano per mancanza di scienza».50 Ognuno vuole essere fedele alle proprie intime convinzioni, e se l’intima convinzione di un uomo coincide con il desiderio di successo e di potere, egli farà di tutto per giungere al massimo del successo e al massimo del potere. La logica suprema dell’essere non è la sostanza ma è la relazione e ogni essere umano vive nella relazione costitutiva con ciò che egli considera il proprio tesoro, il proprio desiderio fondamentale, al quale intende essere fedele con tutto se stesso: quando scopre di non poterlo o di non saperlo essere si ammala.

63. Il ruolo cosmico della giustizia Penso che nella mente di molti ogni tanto compaia questa domanda: visto che noi umani siamo esseri tanto ambigui, io perché dovrei fare eccezione cercando di essere sempre giusto? Da questa nostra strutturale ambiguità procede una storia altrettanto strutturalmente ambigua, legittimamente interpretabile sia come evoluzione verso una sempre maggiore cultura dei diritti umani all’insegna di una progressiva «educazione del genere umano»,51 sia come crescita esponenziale di un’ingiustizia che alla fine ci

porterà all’autodistruzione attraverso un’inevitabile catastrofe, come quella che contempla con orrore l’angelo della storia disegnato da Paul Klee e commentato da Walter Benjamin.52 Per questo sembra molto più logico considerare la giustizia come un’elaborazione culturale che ha poco a che fare con la natura, soprattutto con la nostra natura. In Occidente ormai siamo sempre più portati a considerare la natura come del tutto priva di senso e di direzione esprimendo una visione che la concepisce solo come scenario di una spietata lotta per l’esistenza. Così però a mio avviso si perde di vista l’essenza del fenomeno natura e la base per fondare il primato della giustizia. Nella natura esiste certamente il conflitto, ma la natura non è riducibile al conflitto. Noi vediamo che un pesce grande mangia un pesce piccolo, per essere poi a sua volta mangiato da un pesce ancora più grande, e quindi poniamo il conflitto a fondamento della natura. In effetti non vi sono dubbi che in natura esista il conflitto, ma esso non ne è il fondamento, perché, se lo fosse, la natura non potrebbe neppure esistere. Perché infatti il pesce grande possa mangiare il pesce piccolo deve prima di tutto essere un pesce. Il fondamento della natura quindi non è il conflitto ma è la generazione: lo indica lo stesso termine natura, che viene dal verbo nascor, che significa «nascere». Consideriamo il pesce, consideriamo l’acqua in cui vive, consideriamo il pianeta che lo ospita: qual è la logica che rende possibile i fenomeni pesce, acqua, pianeta? È la logica dell’aggregazione. Ogni fenomeno nel mondo è il risultato di aggregazione: l’acqua è idrogeno + ossigeno; l’aria è azoto + ossigeno + argon; il Sole è idrogeno + elio; il pianeta terra è ferro + ossigeno + silicio + magnesio. Ogni singolo ente è un aggregato, un sistema. Anche gli atomi lo sono. Anzi, persino la massa materiale delle particelle subatomiche nasce dalla relazione tra le particelle-materia e le particelle-forza o bosoni, in particolare tramite il cosiddetto campo di Higgs. Anche l’essere umano è un sistema. Lo è nel suo corpo, composto da 18 elementi atomici di cui tre, ossigeno carbonio idrogeno, lo compongono per oltre il 90 per cento; lo è nella sua mente che si esprime mediante parole formate da suoni e pensieri formati da parole; lo è a livello sociale attraverso aggregazioni chiamate coppia, famiglia, amicizia, paesi, nazioni… Aristotele definiva l’essere umano «animale politico»,53 io lo definisco un animale sistemico, che proviene da una progressiva aggregazione sistemica e ne crea a sua volta altre. Ognuno di noi infatti vive dei suoi legami affettivi o di sangue, dei suoi legami economici o professionali, dei suoi legami territoriali,

dei suoi legami ideologici e spirituali. Nella natura il pesce grande mangia il pesce piccolo, ma la dinamica più profonda della natura non è questa, che è soltanto un mezzo necessario; la dinamica più vera è la generazione, il servizio alla vita della specie. Se il pesce grande mangia il pesce piccolo è perché si deve nutrire, e questo suo nutrirsi è al servizio di una missione più fondamentale rispetto alla sua sopravvivenza, cioè la riproduzione. L’essenza della natura non è data quindi dalla voracità, ma dalla generazione e dalla cura della vita. L’Occidente ha avuto per tanto tempo le case e le vie adornate con le immagini di una madre con un bambino: tramite il simbolo religioso, la coscienza popolare intuiva d’istinto la vera posta in gioco nel fenomeno che chiamiamo natura. Quando si compie la ricerca all’armonia che è alla base della giustizia e la si realizza, si entra in quella logica di armonia relazionale che è la grande madre degli enti e dei sistemi, e che riguarda la natura prima che la cultura. La giustizia ha un ruolo cosmico, perché nulla potrebbe esistere senza di essa. Il pensiero greco ha intuito tale ruolo cosmico della giustizia facendo della dea che la rappresenta, Dike, la figlia di Zeus. Platone ha esplicitato tale intuizione nelle parole che fa pronunciare a Socrate in replica a Trasimaco e alla sua visione di una natura dominata dall’arbitrio della forza e dell’ingiustizia: «Ti sembra che una città, o un esercito, o una banda di delinquenti e di ladri, o qualsiasi altra associazione che si formi allo scopo di delinquere, potrebbe combinare qualcosa se al suo interno si comportasse al di fuori di ogni principio di giustizia? […] L’ingiustizia, Trasimaco, è fonte di sedizioni, di odi, di conflitti fratricidi; la giustizia, invece, produce concordia e solidarietà».54 Cicerone tre secoli dopo riprende l’immagine: «La giustizia risulta necessaria per la gestione di ogni cosa. Essa è talmente importante che neppure quelli che si nutrono di cattive azioni e di delitti possono vivere senza una qualche piccola misura di giustizia. Infatti chi tra costoro ruba o sottrae qualcosa ai propri complici, non troverà spazio per sé neppure in una banda di ladri, e il capo dei pirati, se non divide il bottino in modo equo, o viene ucciso o viene abbandonato dai propri compagni. Anzi si sostiene che esistano leggi anche tra i banditi, leggi a cui obbediscono e che rispettano».55 È la medesima visione espressa dalla sapienza ebraica depositata nel Talmud, secondo cui vi sono trentasei giusti nascosti che tengono in piedi il mondo perché è grazie a loro che Dio non lo distrugge, come di per sé meriterebbe.56 Io penso sia vero, penso cioè che sia la giustizia in quanto

logica dell’armonia relazionale a tenere insieme il mondo, e per questo penso che essere giusti coincida con l’essere semplicemente naturali, nel senso di portare a compimento la logica costitutiva della natura. Si profila però a questo punto un ostacolo su cui occorre soffermarsi con attenzione.

64. Il punto dolente della logica naturale e la necessità di una luce più grande Il punto che ora illustrerò intende far apparire l’insufficienza della semplice logica naturale per la fondazione della giustizia in quanto virtù etica nell’intimo di ognuno di noi e soprattutto in quanto logica complessiva del mondo. Esso costituisce l’ostacolo che mi impedisce di abbracciare una visione totalmente positiva del mondo, come quella dell’antica filosofia stoica basata sul concetto di heimarméne (Fato o Destino) e di prónoia (Provvidenza), o come quelle di Spinoza e di Hegel nell’epoca moderna che giungono a negare la presenza del male, prospettive di pensiero che io stimo e frequento da anni ma da cui mi sento distante, come argomenterò più avanti, così come mi sento distante dall’affermazione di san Tommaso d’Aquino, fatta propria dal Catechismo cattolico, secondo cui «Dio permette che ci siano i mali per trarre da essi un bene più grande».57 Io convergo piuttosto su una visione più dialettica e più drammatica, come quella di Platone e di Kant, per i quali la presenza e la potenza del male nel mondo sono inequivocabili e ingiustificabili, senza però essere, per questo, predominanti. Il perno del mio ragionamento è finora consistito nella sottolineatura della logica relazionale, più in particolare dell’armonia relazionale, da me considerata come ciò che dà esistenza e forma all’essere, nel senso che ogni ente è venuto all’esistenza e viene mantenuto all’esistenza grazie a tale logica. Platone prefigurava tale armonia relazionale mediante l’immagine dell’Anima del mondo, e io effettivamente ritengo che tale energia informativa sia propriamente ciò che anima il mondo, ciò che gli conferisce vita, forma e senso. Gli Stoici, riprendendo un termine introdotto da Eraclito, la denominavano Logos, concetto ripreso nel prologo del Quarto Vangelo e poi da molti Padri della Chiesa. Anche altre grandi tradizioni spirituali dell’umanità hanno intuito la sua presenza operativa: l’antica sapienza egizia vi allude mediante il concetto di Maat, l’antica sapienza hindu e buddhista mediante il concetto di Dharma, l’antica sapienza cinese, sia confuciana sia

taoista, mediante il concetto di Tao. La Bibbia ebraica prefigura il medesimo concetto nel libro dei Proverbi tramite la personalizzazione della sapienza creatrice, Hokmà, che dichiara di essere accanto a Dio come «artefice». Il problema a questo punto qual è? Esso consiste, per citare Platone, nel drammatico e inspiegabile passaggio dal mondo come «organismo divino», come si legge nel Timeo, al mondo come «caverna», come si legge nella Repubblica. Tale antinomia rivive identica nel Nuovo Testamento, che da un lato parla del mondo come governato da Dio e dall’altro come nelle mani del suo Avversario detto «capo di questo mondo» (cfr. Giovanni 12,31; 14,30; 16,11). Ma che cos’è propriamente il mondo? Un organismo divino o una caverna? Ed è governato da Dio o dall’Avversario? La risposta è che esso è entrambe le cose e questa sua antinomia strutturale va seriamente posta accanto a ogni affermazione sulla sua logica in quanto armonia. Penso di poter precisare il problema affermando che ogni aggregazione di individui forma un Noi e ogni Noi si viene a definire immediatamente di fronte a un non-Noi, a un Loro. Così la tendenza alla relazione che inserisce in un sistema e porta a lavorare a vantaggio di tale sistema, al contempo rende ostili e talora violenti verso chi è estraneo a tale sistema, considerato una minaccia o una preda. Questa dialettica vale per il mondo dei viventi in tutti i suoi aspetti, dalla vita naturale che conosce la suddivisione in prede e predatori, fino alla vita sociale strutturata in gruppi, clan, tribù, popoli, nazioni. Proprio la logica che rende possibile la vita, l’aggregazione, è all’origine della chiusura, dell’ostilità, della violenza. Quanto costituisce la nostra forza peculiare, cioè la capacità di avere un’identità e di costruire relazioni, è anche l’origine delle nostre micidiali inclinazioni aggressive. Consideriamo noi esseri umani: cosa saremmo senza la nostra identità fatta di lingua, tradizioni, cultura, estetica, spiritualità, pensiero, cibo? Ma l’identità che ci dona consistenza è la medesima causa di quelle divisioni da cui sorgono l’intolleranza, l’odio, la violenza, di cui siamo pure abbondantemente capaci. Non è terribile? L’alternativa però, cioè non formare aggregazioni che conferiscano una specifica identità, è contraria alla logica della vita umana, e non a caso in questo Occidente sempre più privo di identità si soffre per assenza di significato e dilaga ciò che viene denominato nichilismo. Dove trovare allora l’energia necessaria per far sì che la tendenza relazionale che ci porta

all’aggregazione non si tramuti in ostilità verso le altre aggregazioni umane? È a questo riguardo che io sento che abbiamo bisogno di una luce più grande. Chiusa in se stessa, l’umanità non potrà mai uscire da questo circolo contraddittorio di una logica aggregativa che serve al contempo la vita e la morte, che genera al contempo altruismo verso il proprio gruppo e ostilità e violenza verso i gruppi estranei. E per luce più grande intendo una forza che rende possibile il fatto paradossale, ma reale, che da un legno storto qual è l’uomo sia potuto nascere qualcosa di diritto come la giustizia, secondo quanto annotava Kant.58 Ora, se il diritto è concepito unicamente come funzione del potere, non è difficile concepire il suo sorgere perché esso è uno dei più efficaci strumenti per il mantenimento del potere, sicché la sua presenza che non fa altro che dimostrare che l’uomo è per l’appunto un legno storto. Ma se il diritto è davvero ciò che dice il suo nome, cioè diritto, retto, se almeno in parte è tale da rimandare alla rettitudine, alla «dirittura» di cui scriveva Dante, allora in esso c’è in gioco qualcosa di più del semplice controllo del potere: c’è in gioco la vera e propria giustizia. Ebbene, se il diritto è concepito come giustizia, come tentativo mai completamente riuscito e tuttavia concreto di rendere il legno storto dell’umanità un po’ meno storto e un po’ più diritto, allora la sua esistenza, a mio avviso, rimanda oltre l’umanità concreta. Dove? Nella profondità esistenziale dell’essere umano, testimoniata anzitutto dalla Regola d’oro. Il diritto nella sua capacità di servire la giustizia nasce dal fatto che l’umanità ha desiderio di giustizia, o, forse meglio, è desiderio di giustizia. Vorrei concludere dicendo che tale primato del bene e della giustizia sta a fondamento del mio pensiero, e se credo in Dio (o forse meglio, in un Dio) è esattamente per dare spessore ontologico a questa tensione etica, da me ritenuta l’espressione del compimento verso cui anela ogni vivente e l’essere nel suo insieme. È la medesima prospettiva di Kant: «Io avrò fede nell’esistenza di Dio e in una vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché in tal caso verrebbero scalzati quei princìpi morali cui non posso rinunciare senza apparire spregevole ai miei stessi occhi».59

65. Dialettica della giustizia: la virtuosità dell’infrazione Come ho già argomentato a conclusione del capitolo sulla saggezza, non

sempre la trasgressione di una virtù comporta la comparsa del vizio opposto perché a volte avviene il contrario, si crea cioè una superiore condizione virtuosa. Lo stesso vale per la giustizia. Essere giusti significa essere imparziali, non a caso la tradizione allegorica ha posto una benda sugli occhi della personificazione della giustizia al fine di mostrare che essa non fa favoritismi e non pratica parzialità. L’esperienza della vita però insegna che a volte è necessario essere parziali, prendere le parti di qualcuno esercitando un’esplicita parzialità, non dare a ciascuno il suo secondo un’esatta quanto meccanica ripartizione in parti uguali ma privilegiare qualcuno, al fine di esercitare veramente la giustizia. Oppure, quando si tratta della giustizia come rispetto delle leggi o legalità, a volte l’esperienza mostra la necessità di infrangere la legge, perché si tratta di una legge ingiusta in quanto contrasta con le più fondamentali norme da sempre scritte nelle coscienze degli esseri umani, come insegna Sofocle con l’immortale personaggio di Antigone. Un altro ambito dove l’infrazione della giustizia non genera ingiustizia ma una giustizia superiore riguarda il rapporto con la verità, più precisamente il nostro dire la verità e che cosa questo veramente significhi. Un esempio particolarmente efficace è stato fornito da Dietrich Bonhoeffer. Prima di essere arrestato dalla Gestapo, egli stava lavorando a un libro sull’etica per il quale aveva scritto un saggio intitolato Che cosa significa dire la verità?, di cui riporto il seguente brano: «Un maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo padre torni spesso a casa ubriaco. È vero, ma il bambino nega […]. Nel rispondere negativamente alla domanda del maestro dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è un’istituzione sui generis nella quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. Si può dire che la risposta del bambino è una bugia, ma è una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità, che non una risposta in cui egli avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna».60 Bonhoeffer dice che una bugia in quanto esplicita negazione della verità (e come tale falsa) può contenere più verità di un’affermazione in sé vera, o per meglio dire esatta. Con ciò egli profila un complesso rapporto tra noi e il nostro dire la verità. Possiamo dire la verità al modo di «colui che pretende di dire la verità dappertutto, in ogni momento e a chiunque», ma chi agisce così «è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità». Oppure possiamo dire la verità inserendo il nostro parlare, o non parlare, all’interno di una concezione della vita secondo cui il rapporto umano è più importante

della descrizione oggettiva di come stanno effettivamente le cose, una concezione della vita al vertice della quale non c’è una fredda oggettività ma la relazionalità dell’essere. La verità nel primo caso è qualcosa di statico, è un dato di fatto: il padre è ubriaco punto e basta, poche chiacchiere. Nel secondo caso è qualcosa di dinamico, è una relazione, e per questo sa collocare il dato di fatto dell’ubriachezza del padre nel contesto più ampio di un figlio costretto a riconoscerla pubblicamente di fronte al maestro e ai compagni di classe e che per questo, negandola al primo livello dell’esattezza, la serve al livello più profondo della relazione. Nel primo caso la verità si dice, si riconosce, si dichiara, si professa; nel secondo caso si fa, si attua, si realizza, si costruisce. Nel primo caso la verità è un dato, una tesi, una dottrina, un dogma; nel secondo caso la verità è un processo, un evento, una relazione, un sistema. Nel primo caso chi nega la verità dice un’eresia; nel secondo caso chi nega la verità produce ingiustizia. La seconda prospettiva è quella di Bonhoeffer, e anche la mia. Scrive il teologo: «La parola veridica non è una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa. Quando essa si distacca dalla vita e dal rapporto concreto con il prossimo, quando qualcuno “dice la verità” senza tenere conto della persona a cui parla, c’è l’apparenza ma non la sostanza della verità».61 Penso fosse anche il punto di vista di Gesù, per il quale la verità era una relazione che si compie, non una dottrina che si professa, e per questo diceva: «Chi fa la verità viene alla luce».62 L’esperienza più autentica veicolata dal concetto di verità non si dà senza lavoro, senza il lavoro di chi ama il bene e la vera giustizia. In questa prospettiva la verità è qualcosa che si muove, esattamente come si muove la vita, perché la verità è la vita buona, autentica, giusta. Verità è un concetto integrale che riguarda tutte le dimensioni umane e che è in grado di accogliere in sé anche il negativo, anche il falso e l’errore, e per questo è davvero universale. Viene alla mente il motto episcopale del cardinale Carlo Maria Martini: Pro veritate adversa diligere.63 Un maestro chiede a un bambino davanti a tutta la classe se suo padre è alcolizzato. La verità è che lo è, ma il bambino risponde di no. La sua affermazione però non è una menzogna, ma una custodia a un livello superiore della verità, della verità che non è riducibile all’esattezza, ma che è anche misura, giustizia, bene, bellezza, decoro. Il che significa che la verità si attinge solo quando si ha a cuore l’intero; o forse basterebbe semplicemente dire: la verità si attinge quando si ha cuore.

In questa prospettiva di compimento della vera giustizia che talora eccede la giustizia immediata si inserisce il concetto di epicheia, un concetto che io devo agli studi di diritto canonico e che esprime l’indulgenza nell’applicazione della legge, ma la cui origine è ancora una volta risalente alla Grecia antica, per la precisione ad Aristotele. Epicheia deriva dal greco epieíkeia che significa «equità», ma anche «clemenza, mitezza, bontà». Il testo di riferimento è un passo dell’Etica Nicomachea in cui Aristotele argomenta che la giustizia (dikaiosýne) e l’equità (epieíkeia) appartengono al medesimo genere, specificando però che tra le due «l’equità è superiore» perché più concreta.64 Secondo il filosofo infatti si danno casi non previsti dalla legge per affrontare i quali la giustizia come legalità non basta, occorre un altro genere di giustizia che è appunto l’equità e la sua capacità di adattamento. Scrive: «Ogni legge è universale, ma su certe questioni non è possibile pronunciarsi correttamente in forma universale», per cui ne viene che «quando la legge si pronuncia in generale, e successivamente accade qualcosa che va contro l’universale, è legittimo colmare la lacuna». Questa capacità di colmare la lacuna fa sì che l’epicheia porti a compimento la giustizia perché «la natura dell’equità è proprio quella di correggere la legge laddove essa, a causa della sua formulazione universale, è difettosa».65 Tommaso d’Aquino illustra il concetto di epicheia mediante questo esempio: La legge stabilisce che la roba lasciata in deposito sia restituita, poiché ciò è giusto nella maggior parte dei casi; capita però talvolta che sia nocivo: p. es. se chi richiede la spada è un pazzo furioso fuori di sé, oppure se uno la richiede per combattere contro la patria. In simili casi dunque sarebbe un peccato seguire materialmente la legge; è invece un bene seguire ciò che esige il senso della giustizia e il bene comune, trascurando la lettera della legge. E tale è appunto il compito dell’epicheia, che noi latini chiamiamo equità. Quindi l’epicheia è una virtù.66

È possibile concludere che l’epicheia in quanto equità è una correzione dell’inevitabile astrattezza della giustizia in quanto legge, astrattezza che si può definire anche come incapacità di com-prendere nel duplice senso del termine, cioè capire e contenere, tutti i casi della vita concreta. La legge non sempre comprende, a volte è stupida, e tale sua limitatezza traspare sul volto di alcuni suoi rigorosi e zelanti custodi, sui quali spesso si osserva un che di limitato e di ottuso, inevitabile conseguenza della loro mancanza di apertura e di duttilità senza le quali non si può comprendere il reale nelle sue mille e imprevedibili sfaccettature. La giustizia ha sempre un che di durezza, non a caso la sua immagine tradizionale la ritrae con la spada, oltre che con la bilancia. Ebbene, l’equità è

la morbidezza e l’intelligenza profonda della giustizia, da non intendersi come rilassatezza ma come effettiva capacità di adattamento al caso concreto, in mancanza del quale non si ha autentico compimento della giustizia perché non si giunge a dare a ciascuno il suo.

VI. LA FORTEZZA

66. Immagini ed etimologia La terza virtù cardinale è detta andreía in greco, fortitudo in latino, fortezza in italiano. Il suo opposto è la debolezza nel senso di incostanza, impazienza, incapacità di mantenere e di sopportare, evanescenza. La fortezza corrisponde a ciò che il buddhismo chiama virya (con la radice vr di vir e di virtus, nonché di ver, «primavera» e di veritas, «verità») e che costituisce il sesto stadio dell’ottuplice sentiero detto «retto sforzo». È molto presente anche nella tradizione musulmana dove viene chiamata jihad, termine tristemente noto come «guerra santa» ma che primariamente significa «sforzo» o «lotta interiore» e che di per sé rimanda al perfezionamento della fede e dell’obbedienza personali. Secondo la dottrina cattolica «la fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale».1 Dante definisce questa virtù «arme e freno a moderare l’audacia e la timiditate nostra, ne le cose che sono corruzione de la nostra vita».2 Il che ci fa comprendere che esistono due accezioni della forza o fortezza: una accezione passiva, a cui si possono ascrivere la costanza, la fermezza, la capacità di sopportazione o pazienza e tutto ciò che aiuta a «moderare l’audacia»; e una accezione attiva altrettanto importante, a cui si possono ascrivere il coraggio, l’ardire, la grandezza d’animo e tutto ciò che aiuta a moderare «la timiditate». A mio avviso il nome più proprio della fortezza in senso passivo è resistenza e in senso attivo è coraggio. In entrambi i casi la posta in gioco è la forza interiore, detta anche forza d’animo, forza morale, forza del carattere. L’iconografia tradizionale ritrae la fortezza in modo abbastanza prevedibile con una mazza e non di rado le viene assegnato anche uno scudo. Altre volte viene raffigurata mentre sorregge una colonna o parte di essa, oppure rivestita con un’armatura o con accanto un leone.

Il termine greco andreía deriva da anér, genitivo andrós, l’equivalente di vir in latino, cioè «uomo forte, maschio, guerriero». Mentre in greco dall’equivalente deriva quindi solo il nome di una specifica virtù, in latino dal termine per uomo forte deriva il termine per la virtù in generale (virtus). E Cicerone, che per quanto sapesse bene il greco tuttavia pensava in latino, ne dà testimonianza in questo passo, dal quale traspare come ai suoi occhi la fortitudo compia al meglio l’essenza della virtus: «Virtù deriva da vir; ma specificamente virile è la fortezza, i cui compiti principali sono due: il disprezzo della morte e il disprezzo del dolore. Questi dunque dobbiamo praticare se vogliamo avere il pieno possesso della virtù, o meglio se vogliamo essere virili, poiché da vir la virtù ha derivato il nome».3

67. La nostra vera essenza e il nostro vero problema Cicerone assegna alla fortezza il duplice compito di disprezzare la morte e il dolore, e noi dobbiamo chiederci che cosa significhi tale disprezzo. Esiste forse qualcuno che si possa permettere responsabilmente di disprezzare la morte e il dolore, nel senso di non curarsene affatto, né per sé né per gli altri? Io penso di no, e ritengo che chi sostiene il contrario, proponendo per esempio di «vivere pericolosamente» come fece Mussolini riprendendo questo detto di Nietzsche e istituendolo quale «parola d’ordine del fascismo italiano», sia, come minimo, un irresponsabile.4 Baso la mia convinzione sull’osservare che ogni vivente desidera con tutto se stesso mantenersi in vita. Gli esseri umani l’hanno sempre osservato. Per esempio i padri fondatori dello stoicismo, Zenone, Cleante e Crisippo, affermavano: «Il primo impulso dell’essere vivente è quello della conservazione che gli è stato dispensato dalla natura sin dall’inizio».5 La stessa osservazione si ritrova in Leonardo da Vinci: «Naturalmente ogni cosa desidera mantenersi in suo essere; universalmente tutte le cose desiderano mantenersi in sua natura».6 E in Spinoza: «Ogni cosa, per quanto sta in essa, si sforza di perseverare nel suo essere».7 Anche per noi umani in quanto esseri naturali l’istinto di sopravvivenza è la forza più grande, che ognuno esercita spontaneamente del tutto a prescindere dal pensiero razionale, il che mostra nel modo più chiaro che la nostra più intima essenza in quanto esseri naturali è il nostro desiderio di vita. Vogliamo vivere, perseverare nel nostro essere. Siccome però tale perseverare nell’essere è possibile solo grazie all’uso della forza, ne consegue

che l’uso della forza come atto essenziale per proteggere la vita è una virtù. Anzi, a mio avviso, la fortezza è la prima virtù dell’organismo vivente, senza la quale le altre non sarebbero possibili. Dicendo la prima, non intendo sostenerne il primato in senso assiologico e ricondurre a essa le altre virtù, nel senso che lo scopo di essere saggi, giusti e temperanti consisterebbe nell’essere forti; intendo piuttosto sottolineare il fatto che essa costituisce la base indispensabile per la pratica di tutte le altre virtù, senza la quale queste non potrebbero realizzarsi perché non avrebbero dove appoggiarsi. Paragonando la vita morale e spirituale a una spedizione alpinistica, la fortezza è il campo-base. Le altre virtù saliranno più in alto, ma lo potranno fare solo grazie a essa. Sostengo quindi che il nostro primo compito di esseri viventi è nutrire e custodire la vita e in questo concordo con il taoismo, secondo il quale noi dobbiamo anzitutto «preservare con cura l’energia vitale e badare a non perderla».8 Secondo questa tradizione spirituale la fruttuosa preservazione dell’energia vitale è strettamente collegata alla pratica della virtù e alla pace interiore che essa porta con sé: «È proprio della natura originaria del cuore che gli giovino calma e pace».9 Nutrire la vita è quindi il nostro primo compito, ma non essendo possibile farlo senza esercitare la forza, tale esercizio della forza che serve la vita è una virtù e il suo nome è fortezza. Per questo è importante chiedersi che cosa veramente significhi disprezzare il dolore e la morte, e prima ancora se abbia senso farlo. Il fatto è che la paura del dolore e della morte può essere tale da risultare raggelante e da condurre chi la subisce non solo a non esistere nel senso forte da me usato, ma neppure a vivere pienamente, passando l’intero arco temporale della vita come con il fiato eternamente sospeso. Di questa patologia della psiche si può parlare in termini di fobia, ansia, angoscia, depressione, disperazione e altri modi ancora, ma in ogni caso si tratta di un medesimo problema di fondo il cui nome complessivo è paura. Quindi non si tratta tanto di disprezzare il dolore e la morte in se stessi, quanto la paura che ne abbiamo, cercando di essere più forti di tale paura esercitando, per l’appunto, la virtù della fortezza o del coraggio. La terza virtù appare dunque come la manifestazione della forza da parte degli esseri umani, grazie alla quale essi nutrono la vita e sconfiggono la paura di esistere e prima ancora anche solo di vivere, e per questo essa merita a mio avviso di essere considerata come la prima per il vivere umano, non nel senso di più importante o più meritevole, ma nel senso di più basilare,

esattamente in linea con quanto afferma Spinoza: «Il fondamento della virtù è lo sforzo di conservare il proprio essere»,10 sicché «non si può concepire alcuna virtù anteriore a questa, allo sforzo di conservare se stessi».11 Prova ne sia il linguaggio. Considerate cosa diciamo per dare sostegno a chi ha un problema vitale: gli diciamo di essere saggio, giusto o temperante? Gli diciamo piuttosto: «Forza!»; o anche: «Coraggio!», sperando così di fargli rinnovare il desiderio di vivere quale atto fondamentale alla base del suo esserci. La fortezza infatti è il campo-base della vita.

68. La forza in natura come principio di organizzazione Occorre affrontare a questo punto due questioni: 1) che cos’è la forza in se stessa, nella sua natura essenziale? 2) la forza di un essere umano riproduce tale e quale la forza come si manifesta in natura, o si dispone su una direzione e un senso diversi? A proposito della prima questione affermo che la forza è la fondamentale struttura ontologica in cui l’essere consiste e mediante la quale si manifesta. La forza è ciò che fa essere quello che è, così come è. La forza è ciò che fa muovere quello che si muove, così come si muove. La forza, in altri termini, è la dinamica che consente all’essere di essere ordine e non solo caos. Che cos’è infatti l’essere? È energia. Il termine originario greco enérgheia, formato da en (in) e da érgon (opera), letteralmente significa «all’opera», «al lavoro», «in atto», «in azione», per cui dire che l’essere è energia, come ha constatato la fisica del Novecento, significa affermarne la natura intrinsecamente dinamica e operativa. Se tutto è energia, nulla è mai fermo, tutto lavora. Ma attenzione: l’essere è energia, e non staticità, grazie al fatto che esso esprime forza. Lo fa attraverso le quattro forze fondamentali scoperte dalla fisica: la forza gravitazionale, la forza elettromagnetica, la forza nucleare forte e la forza nucleare debole. A partire dagli atomi tutto ciò che possiamo vedere e concepire è un sistema, ovvero il risultato di un’aggregazione, ma ciò che conduce i fenomeni all’aggregazione facendoli così essere è la forza operante nelle quattro forze fondamentali. La forza fa sì che l’essere-energia, da caos informe, diventi materia dotata di forma, informata, e in quanto tale madre di tutti gli enti, animati e inanimati, tutti costituiti da materia (come intuisce l’assonanza materia-mater della lingua latina). Se dunque la forza è la grande madre del mondo in quanto cosmo

organizzato in grado di ospitare la vita, nella misura in cui si vive è impossibile uscire dalla sua logica. L’essere del mondo esiste e consiste in quanto è mediato dalla logica della forza: l’onda originaria dell’energia diventa materia e si solidifica in enti solo se, e solo in quanto, viene mediata dalla forza nelle quattro tipologie conosciute. Ma eccoci al punto decisivo. La forza che governa il mondo non è la forza bruta che coincide con l’arbitrio che afferma se stesso a dispetto di tutti, mera volontà che non deve rendere conto a nessuno, descrivibile come «un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di nemici e di opposizioni e di trionfi».12 Nulla di tutto ciò. Se il mondo fosse abitato da tale logica, paragonabile al bullismo di un bambino viziato che distrugge i castelli di sabbia degli altri bambini per il solo gusto di distruggere e di risultare il più forte, non avremmo l’essere organizzato ma solo caos mostruoso e assassino, come fu l’esito dell’ideologia nazifascista che si nutriva delle parole di Nietzsche e concepiva la forza solo come violenza. La forza in natura non è assimilabile alla violenza. La forza naturale contiene la violenza, se per violenza si intende la capacità e la volontà di distruzione; però essa è più della violenza, perché contiene anche la capacità e la volontà di costruzione. Quest’ultima, anzi, è prevalente, perché in caso contrario non avremmo nessuna molecola stabile ma solo l’essere ridotto a onda, o meglio a orda, che costruisce solo per abbattere. Invece nel mondo, di sicuro sul nostro piccolo pianeta blu e forse anche altrove, le cose stanno diversamente: vi è un accumulo dell’organizzazione e della complessità che fa sì che l’onda dell’essere, ben lungi dall’essere un’orda, si manifesti come «evoluzione creatrice» fino allo splendore della mente e del cuore.13 Sul nostro pianeta la forza, nucleo pulsante dell’essere-energia, è promozione di legami, nessi, connessioni, relazioni: è una grande rete organizzativa che tanto più esprime se stessa, quanto più rende consistenti e durevoli i legami prodotti. Oggi la fisica considera la legge costitutiva dei fenomeni naturali l’unione delle particelle-materia dette fermioni mediante le particelle-forza dette bosoni. Tale legge venne intuita dall’antica filosofia greca, in particolare dallo stoicismo che la trasmise poi al cristianesimo, ed espressa mediante il termine lógos. Logos viene dalla radice lg, la quale in greco ha generato il verbo légo, che primariamente significa «mettere insieme» e poi anche «dire, parlare» perché parlando si mettono insieme le parole; e ha generato il verbo loghízomai, «calcolare», e il sostantivo loghismós, «calcolo», perché

calcolando si mettono insieme i numeri. La medesima radice lg in latino ha generato il sostantivo lex, genitivo legis, in quanto la legge è il principio che unisce gli uomini a livello civile; e ha generato il verbo lego, infinito legere, il cui primo significato come in greco è «mettere insieme», e che poi significa «leggere» perché leggendo si mettono insieme i diversi suoni delle parole. Il fatto che ogni fenomeno sia tenuto insieme dalla forza spiega anche perché i fenomeni siano instabili, perché tutto evolve o involve, senza mai rimanere immobile e identico a se stesso.

69. Forza, potenza, potere, violenza Ora la questione consiste nel comprendere il rapporto tra la forza naturale e la forza umana e la domanda è: la forza in quanto logica che regge il mondo e la forza in quanto fortezza di un essere umano hanno la stessa natura, guardano nella stessa direzione, perseguono il medesimo obiettivo, oppure no? La fortezza di un essere umano è la traduzione a livello umano della medesima logica che innerva la natura, oppure rispetto alla forza in natura presenta un cambio di direzione, un salto, persino una vera e propria rottura? La questione richiede di affrontare il nesso forza-potenza-potere-violenza. «Tutta la Bibbia parla di forza e ne sogna»,14 scrive un classico dizionario di teologia biblica, e probabilmente scaturisce da qui il motivo che condusse il Credo niceno-costantinopolitano ad assegnare a Dio Padre come prima qualifica la pienezza di krátos o di potere denominandolo pantokrátor, onnipotente. Lo stesso avvenne qualche secolo dopo per il Cristo, a sua volta raffigurato come pantocratore, di cui gli esempi più suggestivi in Italia sono a mio avviso i mosaici absidali del Duomo di Monreale e della Basilica di Cefalù. Ma questo passaggio diretto da forza a potere, da pienezza della forza a pienezza del potere o pantocrazia, rappresenta un errore logico e genera un ben più grave errore etico. Forza, potenza, potere, violenza sono concetti che per la coscienza comune formano quasi un tutt’uno e che invece occorre distinguere con attenzione. La forza è costitutiva dell’essere e non c’è essere senza forza, il che è sempre stato avvertito dalla coscienza umana come appare dal fatto che al Principio primo dell’essere (cui comunemente ci si riferisce dicendo Dio) è stata attribuita la pienezza della forza parlando di onni-potenza. Questo passaggio da forza a potenza è legittimo sul piano logico e sul piano fisico, poiché per potenza (dýnamis in greco, potentia in latino) si intende l’effettiva

capacità di compiere un lavoro, di cui la forza è la sorgente. Chi è dotato di forza, ha anche necessariamente potenza. Non vi può essere forza senza potenza. L’avere forza si esplica nell’essere potente, cioè nell’essere dotato della potenzialità, o del potenziale, di esplicitare la forza posseduta in un lavoro concreto. Qualunque essere vivente dotato di forza è allo stesso tempo dotato di potenza esattamente in proporzione alla forza posseduta. Viceversa l’impotenza indica mancanza di forza e incapacità operativa. Ne consegue che il passaggio dalla forza alla potenza è lineare, naturale, logicamente fondato, fisicamente necessario. Ben diverso invece è il rapporto tra forza e potere. A differenza di potenza che esprime operatività, il concetto di potere (krátos in greco, potestas in latino) rimanda alla supremazia. La potenza definisce un rapporto tra sé e la vita, il potere invece un rapporto tra sé e gli altri, o meglio sugli altri. La differenza si coglie bene a partire dall’espressione «essere in potere di qualcuno», che non si può riesprimere dicendo «essere in potenza di qualcuno». Essere in potenza infatti ha senso solo in quanto riferito al soggetto, di cui si dice che «è in potenza» intendendo che ha la possibilità di essere o di acquisire qualcosa che ancora non ha concretamente realizzato (o, più tecnicamente, «attualizzato», per richiamare la differenza tra potenza e atto, dýnamis ed enérgheia, risalente ad Aristotele).15 La coscienza comune però stenta a distinguere potenza da potere. Forza, potenza e potere, e spesso anche violenza, nella sua percezione vengono a coincidere. Ne consegue, per esempio a livello teologico, che affermare che in Dio risiede la pienezza della forza e della potenza significa affermare che in lui risiede anche la pienezza del potere. Onnipotente equivale così a «dominatore assoluto», come erano gli imperatori bizantini ai tempi dei primi concili ecumenici, e prima ancora gli imperatori egizi, assiri, babilonesi, persiani, romani, tutti gli imperatori di sempre. In questa prospettiva però è stato inevitabile il sorgere di un problema per la coscienza. Il potere nel mondo infatti viene esercitato spesso in modo ingiusto, come testimonia l’allegoria dell’Ingiustizia dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni e come sa bene l’esperienza di molti, forse di tutti. Da qui l’immenso problema, etico e ontologico al contempo, della noncoincidenza tra forza (giusta) e potere (ingiusto), tra logica del mondo (giusta) e stato effettivo del mondo (ingiusto). Guardando al mondo naturale sembra legittimo cogliere la forza per lo più al servizio dell’ordine e della crescita dell’organizzazione, e quindi in linea con il ruolo cosmico della

giustizia e della sapienza; guardando invece al mondo storico dove la forza si esercita come potere (guardando cioè a quella dimensione che il Nuovo Testamento chiama non più «mondo» ma «questo mondo»), l’affermazione precedente risulta infondata perché la forza è spesso esercitata in modo ingiusto e si trasforma in violenza. La violenza (in greco bía, in latino violentia) è tale perché vìola, perché è violazione. La forza, che di per sé è giusta in quanto principio di organizzazione, si presenta spesso nel mondo sotto la forma della violenza che crea ingiustizia e quindi come una violazione del suo statuto. Invece di contribuire all’ordine e alla giustizia, l’esercizio della forza nel mondo assume la forma della violenza, diviene violazione e provoca ingiustizia. Il che avviene già in natura, più spesso nella storia. La forza-violenza risulta a tal punto preponderante da giungere a rappresentare per la coscienza comune il volto per eccellenza della forza. Gli uomini sentono dire forza, e l’associano automaticamente alla violenza. Sentono dire che un uomo è forte, e lo pensano immediatamente connesso con il potere e disposto alla violenza; sentono dire viceversa che è un nonviolento, e lo pensano immediatamente debole e rinunciatario. È così da sempre per la mentalità ordinaria, sia nell’ambito umano sia in quello divino. Per il primo si pensi a quanto la Bibbia dice di un discendente di Caino di nome Lamech, che pavoneggiandosi con le sue donne si vantava di aver ucciso per un nonnulla: «Ada e Silla, ascoltate la mia voce; mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire. Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido».16 Si pensi inoltre a come vengono raffigurati da Omero gli eroi dell’Iliade, in particolare il più forte di loro, Achille, di cui si dice che la sua rovinosa ira «mali infiniti provocò agli Achei».17 Per l’ambito divino si consideri che, secondo Esiodo, Krátos, il Potere, non è mai senza Bía, la Violenza, ed entrambi «presso Zeus che tuona profondo hanno sempre la loro dimora».18 Esiodo sostanzialmente ci dice che se vogliamo avere un’idea del Dio supremo, cioè della forza che manda effettivamente avanti il mondo e la storia, occorre che guardiamo al potere e alla violenza: lì troveremo la sua casa. Più o meno allo stesso modo l’anonimo profeta biblico detto Deuteroisaia fa parlare il suo Dio: «Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e creo il male; io, il Signore, compio tutto questo»;19 affermazione che in buona sostanza si può ritradurre così: «Io faccio quello che mi pare perché non devo rendere conto a nessuno». Qui la forza non è più nemmeno onnipotenza, è solo prepotenza. Sulla stessa linea si muove per lo

più il Corano, della cui visione questa affermazione è emblematica: «Egli perdona chi vuole e punisce chi vuole»,20 laddove tutto appare dipendere dalla volontà divina, nulla dalla libertà umana. Nel valutare questa impostazione teologica occorre tenere sempre presente l’intenzione di fondo che la guida, quella secondo cui la forza-onnipotenza è l’attributo essenziale di Dio; lo è a tal punto che, pur di non scalfire il potere divino su tutto quanto avviene nel mondo, si riconduce direttamente a lui anche il male. Al contrario il mio pensiero distingue con attenzione forza e potenza da un lato, potere e violenza dall’altro. In particolare ritengo decisiva la distinzione tra potenza (sempre positiva) e potere (non sempre positivo). Che la potenza sia sempre positiva lo deduco dal suo contrario, l’impotenza, la quale è sempre negativa: chi mai vorrebbe essere impotente? Si può scegliere di non esercitare la potenza di cui si dispone, ma nessuno vuole essere privo della possibilità di agire e quindi di potenza. L’assenza di forza e di potenza conduce al deperimento e alla morte, e soffrirne significa essere affetti da una patologia. Il contrario della potenza, l’impotenza, è sempre negativo. Così non è per il potere, di cui peraltro non esiste neppure un termine esattamente antitetico che equivale a ciò che impotenza è per potenza. Ma a prescindere dalla terminologia, l’essere senza potere, a differenza dell’essere senza potenza, non è necessariamente negativo. Anzi, si può essere sprovvisti di potere e avere lo stesso una grande potenza operativa. Il potere è potenza esercitata sugli altri, ma una persona senza potenza sugli altri non è per nulla impotente o priva di potenza operativa; semmai, rischia che il suo lavoro, per il solo fatto che è suo, non venga riconosciuto superiore a quello degli altri, un capolavoro solo perché è il lavoro del capo. Ma questo, ben lungi dal togliere valore alla sua vita, può conferire genuinità, sincerità, autenticità, e se il suo lavoro viene riconosciuto come importante vuol dire che è davvero così. L’unico potere cui aspira un uomo forte ma insieme libero e liberante è quello su se stesso. La coscienza comune però non sa concepire un uomo forte e potente che non sia al contempo dotato di potere e disposto a ricorrere alla violenza, anche solo diventando nervoso.

70. La natura del potere Occorre ora approfondire la natura della forza che storicamente si manifesta come potere. Per la precisione la domanda è: il potere è essenzialmente giusto, perché la sua assenza provocherebbe il massimo

dell’ingiustizia, oppure è essenzialmente ingiusto, perché solo la sua assenza può garantire il dispiegamento della vera giustizia? Si tratta, in altri termini, di chiarirsi le idee sulla manifestazione peculiare del potere: se essa sia la forza ordinata che promuove la giustizia, oppure la forza arbitraria e violenta che genera necessariamente ingiustizia. Omero, la Bibbia ebraica (con l’eccezione dei libri di Giobbe e Qohelet), il Corano non lasciano dubbi: la manifestazione della forza che nella storia si dice come potere può essere dura ma è assolutamente necessaria e a essa va prestata la più ferma obbedienza e sottomissione. Non avviene nulla infatti nella storia che non sia permesso e voluto da un Dio o da un unico Dio, sicché opporsi al potere costituito significa opporsi al volere divino. Il Nuovo Testamento cambia radicalmente prospettiva. Esso riconduce la violenza e il male non più a Dio al fine di garantirne l’onnipotenza, ma a un potere a lui avverso detto Diavolo o Satana o in altri modi ancora, che soprattutto nei Vangeli diviene assai importante e che, a differenza della Bibbia ebraica dove ha un ruolo marginale, gode di autonoma capacità decisionale e operativa. Nella scena delle tentazioni del Terzo Vangelo si legge che il Diavolo condusse Gesù in un luogo alto da cui «gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e poi gli disse: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio”».21 Chi è quindi l’effettivo pantokrátor? Il Quarto Vangelo parla di lui per ben tre volte definendolo «capo di questo mondo»,22 affermando con ciò che il mondo è nelle mani di un potere che non è quello di Dio. Chi è quindi l’effettivo pantokrátor? Il libro dell’Apocalisse è interamente strutturato su una visione negativa del potere politico ed economico e sulla terribile distruzione finale cui il mondo è destinato. Anche l’apostolo Paolo si inserisce in questa prospettiva quando parla di un «dio di questo mondo», cui attribuisce il potere di accecare le menti degli increduli.23 Chi è quindi l’effettivo pantokrátor? Dalla Bibbia nel suo insieme, Bibbia ebraica da un lato e Nuovo Testamento greco dall’altro, emergono dunque due contrapposte visioni della storia e del potere, e naturalmente ciò fa sorgere la questione di quale debba essere il retto atteggiamento da assumere verso il potere: se di fedeltà, in quanto esso è essenzialmente giusto, o di ribellione, in quanto essenzialmente ingiusto. Il problema però a livello biblico rimane irrisolto, perché nel Nuovo Testamento sono presenti entrambe le opzioni, di cui la prima, più conservatrice, è rappresentata dall’apostolo Paolo, la seconda, più sovversiva,

dall’autore dell’Apocalisse. Per entrambi il potere istituito è il medesimo, l’Impero romano, ma al suo riguardo essi danno indicazioni opposte: san Paolo sostiene che al potere si deve sempre obbedire perché viene da Dio («Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio»);24 l’autore dell’Apocalisse sostiene invece che al potere romano ci si deve opporre, anche violentemente («Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva», laddove la figura femminile cui il testo si riferisce è una Bestia con sette teste di cui si era detto in precedenza che «le sette teste sono i sette monti sui quali è seduta» e che «i re sono sette»).25 Io penso che qui affondino le radici delle opzioni politiche fondamentali che secoli dopo in Occidente presero a chiamarsi «destra» e «sinistra». La contraddizione del Nuovo Testamento si ritrova anche in altre tradizioni spirituali. In Cina il confucianesimo si pose sulla stessa linea di san Paolo: è sufficiente ricordare al proposito come Meng-tzu istituisse una perfetta equivalenza tra azione del signore imperiale e volere divino: «Il Cielo non parla. Rende manifesto il suo decreto con la condotta personale e con l’attività pubblica del suo prescelto».26 Non è quindi un caso che ai nostri giorni la Cina postcomunista valorizzi grandemente la tradizione confuciana.27 Di contro il taoismo ha sempre coltivato, se non l’aperta ostilità al potere mostrata dall’Apocalisse, di certo un elevato tasso di noncuranza alimentando una propensione all’indipendenza personale e quasi all’anarchia. La medesima divisione si ritrova tra le scuole filosofiche dell’antica Grecia, con Aristotele e gli stoici più vicini al lealismo paolino e con Eraclito e soprattutto Socrate quali vere e proprie spine nel fianco del potere: a loro si collegano il radicalismo degli scettici e dei cinici, nonché il «Vivi nascosto» consigliato da Epicuro ai suoi.28 Per quanto attiene a Platone e alle correnti da lui ispirate, penso si possa parlare di una via di mezzo: vi si ritrovano infatti sia l’attenzione all’importanza imprescindibile della struttura politica, sia la denuncia dell’intrinseca corruzione che l’esercizio del potere porta con sé e della persecuzione dei giusti che vi si oppongono. La contraddizione etica (fedeltà o rivolta contro il potere?) proviene da una contraddizione di filosofia della storia (è giusta la logica che la governa oppure no?), che a sua volta rimanda a una contraddizione teologica (qual è l’essenza di Dio: la forza o il bene?) e più radicalmente ancora a una

contraddizione ontologica che concerne l’essere nella sua logica e nella sua dinamica (essere e bene coincidono o si oppongono strutturalmente?). Vi è chi ritiene che la logica alla guida della storia, ben lungi dall’essere l’ordine che mira alla giustizia e che argina il caos distruttivo, sia la forza bruta, l’arbitrio, la volontà dispotica, l’imperio, il sopruso; in una parola sola, la violenza. Da parte di chi condivide questa visione del potere come violenza strutturale si offrono sostanzialmente due opzioni politiche fondamentali: o rovesciare la struttura politica tramite la rivoluzione oppure cavalcare fino in fondo con coerenza la logica violenta del potere e più in generale della natura e della storia. La prima opzione si chiama comunismo e la sua aporia consiste nel capire come, una volta ottenuto il potere, far sì che la nuova struttura politica sorta nel nome della giustizia non torni a essere strutturalmente oppressiva. La seconda opzione si chiama fascismo e la sua prospettiva di fondo è rappresentata bene dal motto delle camicie nere italiane, «Me ne frego», perfetta espressione dell’atteggiamento di chi non ha a cuore nulla perché nulla è più prezioso della propria volontà collocata sopra ogni cosa. E non avere a cuore significa non avere cuore. Secondo questa prospettiva la violenza non è violazione, ma perfetta applicazione della forza, la quale in latino si dice vis, per cui vi è chi sostiene che vis e violentia siano parenti strette anche già dal punto di vista etimologico. Questa visione del mondo genera la convinzione politica secondo cui la forma più adatta al governo della storia è la dittatura, la tirannide, l’esercizio oppressivo del potere. Il totalitarismo, sia di destra sia di sinistra, sorge sostanzialmente sulla base di un cupo pessimismo antropologico e ancor più ontologico. Tale posizione è presente fin dalle origini della civiltà occidentale, come testimonia Platone che, al fine di combatterla, crea i personaggi di Trasimaco nella Repubblica e di Callicle nel Gorgia, i protofascisti dell’Occidente. Secondo Callicle «la natura e la legge sono per lo più contrarie»,29 perché la natura vuole che «il più forte domini il più debole»,30 mentre la legge è stata inventata dalla massa dei deboli a loro ipocrita protezione: «Io credo che quelli che hanno stabilito le leggi siano stati gli uomini deboli e la massa».31 Si tratta del medesimo concetto sostenuto dagli ambasciatori di Atene in un discorso che Tucidide fa rivolgere da parte loro agli abitanti dell’isola di Melo durante la guerra del Peloponneso. Questi esitavano a violare il trattato di alleanza con Sparta appellandosi alla giustizia che imponeva il rispetto della parola data, e a loro gli ambasciatori ateniesi replicarono così: «I concetti della giustizia affiorano e assumono corpo nel linguaggio degli

uomini quando la bilancia della necessità sta sospesa in equilibrio tra due forze pari. Se no, a seconda: i più potenti agiscono, i deboli si flettono».32 E dopo questa lezione di filosofia della storia, segue la lezione di filosofia della natura, umana e divina: «Riteniamo infatti che nel cosmo divino, come in quello umano (vale l’opinione per il primo, ma per l’altro è una sicurezza nitida) urga eterno, trionfante, radicato nel seno stesso della natura, un impulso: a dominare, ovunque s’imponga la propria forza».33 I meli rimasero fedeli al trattato sottoscritto e la loro fine fu atroce. Nella contemporaneità questa posizione è rappresentata in modo esemplare dalla filosofia di Nietzsche, il filosofo preferito di Mussolini e Hitler e tra i più letti e stimati ai nostri giorni. Al suo riguardo occorre osservare che se è vero che egli non sarebbe mai stato nazista in quanto non era antisemita,34 è altrettanto vero che i due dittatori menzionati erano seguaci entusiasti della sua filosofia. Mussolini, come già documentato, ne adottò una frase quale motto suo personale e del fascismo italiano, mentre Hitler «visitò molte volte il museo di Nietzsche a Weimar, e vi sono foto che lo ritraggono in posa, mentre guarda rapito un enorme busto del filosofo».35 Il che avveniva non perché i due dittatori e i loro numerosi seguaci leggessero male le opere di Nietzsche, ma perché il pensiero del filosofo, come mostrerò presto, rispecchia fedelmente la loro visione secondo cui l’essenza del mondo, ben lungi dall’essere forza generatrice di ordine e di giustizia, è forza arbitraria a cui non importa nulla se non il proprio cieco e spesso feroce dispiegamento.

71. La natura della natura Penso che la questione si possa risolvere solo guardando alla natura di cui noi umani siamo espressione. Quindi la domanda diventa: c’è una costituzione alla base del mondo naturale, oppure vige solo la tirannide? E se c’è, qual è la carta costituzionale della natura? Qual è in altri termini la natura della natura? La Costituzione della Repubblica italiana promuove principi di uguaglianza, per esempio nell’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge». Questa pari dignità e questa uguaglianza davanti alla legge esprimono un principio naturale o innaturale? I diritti umani sono naturali o innaturali? L’articolo 2 dice che la Repubblica «riconosce» i diritti dell’uomo, il che significa che non li istituisce ma li trova

già dati, quindi la nostra Costituzione rimanda a una sorta di diritto naturale. Ma si tratta di un’operazione fondata? Esiste veramente un diritto in natura? Qual è la natura della natura? Di sicuro molti risponderebbero che i diritti umani sono culturali, e certamente lo sono, ma la questione non per questo è risolta: questa cultura che si esprime nella Costituzione repubblicana è in conformità alla natura, la serve, la potenzia, l’innalza, oppure al contrario è in antitesi alla natura, ne è contestazione, difformità, opposizione, eresia? Come ho già sostenuto in precedenza, io penso che la natura sia forza, ma penso altresì che lo scopo fondamentale della forza in natura sia la costruzione, ben prima della distruzione che pure esiste. Si può distruggere qualcosa solo a condizione che sia stato in precedenza costruito, e la forza in natura costruisce anzitutto producendo legami, sicché tutto quello che vediamo nel mondo è un sistema, cioè il risultato di legami. La forza è davvero «la legge regina di tutti, dei mortali e degli immortali», come recita un carme perduto di Pindaro conosciuto attraverso una citazione che Platone pone sulla bocca di Callicle a supporto della visione negativa che scambia la forza per il mero potere,36 ma lo è nel senso positivo manifestato dalla logica naturale che la rende ancora prima madre del mondo. Prova ne sia che il contrario della forza in natura è la debolezza dei legami che porta all’inconsistenza, alla sfilacciatura, allo scioglimento dei fenomeni. Per questo la sapienza greca, latina, ebraica, cristiana, buddhista e altre ancora hanno visto nell’esercizio della forza in quanto fortezza una virtù. Ne viene che la natura della natura è la generazione, come insegna la filologia che riconduce il termine latino natura al verbo nascor. Volete l’immagine per eccellenza della natura? Pensate a una madre con il figlio, sia esso un cucciolo umano o di animali. Ne consegue altresì che la forza più autentica di un essere umano degno di questo nome è quella che si pone al servizio del mistero della generazione in tutte le sue forme.

72. La forza di un essere umano La quantità di energia che costituisce un essere umano si traduce a tre livelli quali corpo, psiche e spirito; di conseguenza la forza di un essere umano esprimerà una dimensione che riguarda il corpo, una che riguarda la psiche e una che riguarda lo spirito. In un essere umano la forza si manifesta a livello fisico come forza

muscolare, a livello psichico come forza interiore, detta anche forza morale o del carattere. Non sono qualità necessariamente coordinate, perché esistono esseri umani fisicamente forti e dal carattere debole, e altri fisicamente deboli e dal carattere forte e dominatore. A prevalere nella gran parte dei casi è la forza psichica, anche perché la forza fisica di un essere umano può essere o inibita o galvanizzata dalla psiche. C’è anche una forza spirituale che potremmo chiamare ascendente, carisma, magnetismo, e che internamente al soggetto si manifesta come ardore, entusiasmo o anche come notevole concentrazione. Appartengono a questa terza manifestazione della forza i casi di ispirazione artistica e le esperienze mistiche, quando si avverte di venire come invasi da una forza più grande che potenzia il cuore e la mente. Giordano Bruno la chiamava «eroico furore».37 Essere forte significa avere la possibilità di far sì che qualcosa accada o non accada, e quando l’ambito in cui si situa l’azione è quello psichico o spirituale, la forza espressa da un essere umano è detta tradizionalmente fortezza. Come ho detto all’inizio di questo capitolo, essa ha due direzioni, attiva e passiva: in senso attivo è impeto, conquista, assalto, dominio, creatività e il suo simbolo è la mazza; in senso passivo è resistenza, solidità, tenacia, pazienza, sopportazione e il suo simbolo è l’armatura. Di queste due direzioni nell’esercizio della fortezza è soprattutto quella passiva a essere stata maggiormente, e talora unilateralmente, sottolineata dalla tradizione occidentale.

73. La fortezza secondo il cristianesimo Si deve soprattutto al cristianesimo la sottolineatura della dimensione passiva della fortezza. È una tradizione così centrale che l’esercizio attivo della forza venne ad assumere lungo i secoli una connotazione tendenzialmente negativa dal punto di vista etico e spirituale, mentre ricevette una connotazione eticamente e spiritualmente positiva il concetto che esprime il contrario della forza, la debolezza. Con ciò non intendo riferirmi all’importanza di soccorrere i deboli, ma ben più radicalmente al fatto che divenne eticamente e spiritualmente meritorio presentare se stessi come deboli, diventare ed essere deboli. La rinuncia alla forza personale prese a essere guardata con favore, la scelta di coltivarla con sospetto. Si considerino al riguardo queste parole di Gesù: «Se qualcuno vuol

venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».38 Anche se alcune scene evangeliche testimoniano in Gesù una non comune forza interiore e un carattere tutt’altro che remissivo (si pensi alla cacciata dei mercanti dal tempio, alle numerose dispute con gli scribi e i farisei, alle polemiche con la famiglia di origine), non ci sono dubbi a mio avviso sul fatto che questa sua affermazione unita ad altre abbia indotto lungo i secoli a considerare la forza personale come una dimensione da esercitare solo in senso passivo: come sopportazione e pazienza nel portare la croce, come vigilanza nell’attesa, come difesa dalle tentazioni, come rifiuto della personale volontà di autoaffermazione in quanto nociva volontà di «salvare la propria vita». Ancora più rilevanti nel determinare la forma prevalentemente passiva della fortezza cristiana sono state alcune paradossali affermazioni dell’apostolo Paolo. Egli dichiara anzitutto la preferenza di Dio per la debolezza: «Quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti»;39 poi racconta così il suo arrivo a Corinto: «Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione»;40 definisce così il suo stile apostolico: «Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli»;41 dice di sé: «Chi è debole, che anch’io non lo sia?» e aggiunge: «Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza».42 Al vertice di questo paradossale capovolgimento si arriva con le parole che l’apostolo sostiene di aver ricevuto direttamente dal cielo: «La forza si manifesta pienamente nella debolezza».43 Per concludere: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze […] infatti, quando sono debole, è allora che sono forte».44 Sulla base di questa prospettiva il cristianesimo è giunto spesso a promuovere la necessità della soppressione non solo dell’ego ma dello stesso io, esaltando l’umiltà, l’ascesi e il rinnegamento di sé. Il modello furono sempre alcune parole dell’apostolo Paolo: «Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù».45 Si svilupparono così forme di vita che si potrebbero definire non senza fondamento contronatura: vivere in luoghi aridi e inospitali come gli eremiti detti «padri del deserto», trascorrere l’esistenza completamente rinchiusi secondo uno stile di vita detto clausura, non parlare pressoché mai, passare la vita in cima a una colonna come i cosiddetti stiliti, praticare l’autoflagellazione, usare lo strumento penitenziale detto cilicio e

altre pratiche estreme denominate complessivamente, con un evidente simbolismo, mortificazioni. Né si deve ritenere che queste pratiche riguardassero solo coloro che le compivano, tanti o pochi che fossero, perché esse costituivano il modello della vita spirituale cristiana, sia dei religiosi sia dei laici, la quale quindi ne risultava impregnata e le rispecchiava nella sua intonazione complessiva, espressa da termini quali abnegazione, penitenza, umiliazione, sofferenza, sopportazione: non a caso i cosiddetti «fioretti» proposti ai fedeli consistevano pressoché sempre in una forma di rinuncia. Tanto era radicata questa visione delle cose che quando alcuni autori spirituali sostennero l’inutilità o addirittura la dannosità di tali mortificazioni vennero prontamente condannati come eretici.46 È logico quindi che in ambito cristiano la fortezza sia stata valorizzata pressoché esclusivamente come capacità di resistenza e di sopportazione. Secondo Tommaso d’Aquino il suo «atto principale» è «il resistere, cioè il restare fermi nei pericoli».47 In questa prospettiva l’intero esistere divenne resistere. La virtù della fortezza prese a essere concepita e vissuta come fortezza nel senso della costruzione fortificata isolata e dotata di alte mura, e vivere con fortezza venne a coincidere con il vivere nella fortezza: per alcuni, trascorrendo la vita fisicamente rinchiusi e rivestiti di un’armatura di cui l’abito religioso, soprattutto femminile, era la traduzione esteriore più evidente; per i più, esibendo un pensiero gregario e ripetitivo espressione di prigionia mentale. Raramente si favorì ex-sistentia, cioè esodo e liberazione, quasi sempre si favorì in-sistentia, cioè il vivere così da essere sempre «in», sempre «dentro», figli devoti dell’istituzione, fedeli pecorelle del gregge. Questo è il prezzo che si è pagato lungo i secoli per il prevalere della dimensione passiva della fortezza e per l’oblio della sua dimensione attiva. Il che ha contribuito alla nascita del pregiudizio molto diffuso ai nostri giorni secondo cui l’esistenza virtuosa sarebbe di fatto rinunciataria, spenta, ben poco vitale, per nulla vivace, paragonata da Max Scheler già un secolo fa a «una vecchia zitella, sdentata e brontolona».48

74. Lo spartiacque fondamentale A questo punto occorre chiedersi quale sia la più corretta disposizione di fondo rispetto alla forza personale, se sia più giusto coltivarla o rinunciarvi. In particolare, la questione concerne il senso dell’io: va rafforzato o va indebolito fino a «rinnegare se stessi»? Vi è chi ritiene di dover giungere

effettivamente a rinnegare se stesso e così a fare sue le parole di san Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me».49 Ma io chiedo: è giusto affermare «non vivo più io»? È giusto che l’io rinunci alla sua personalità, al suo desiderio di esistere, a quel conatus essendi che secondo Spinoza, e anche secondo me, rappresenta la sua stessa essenza? E prima ancora, è possibile? Questo è lo spartiacque fondamentale. Da un lato vi sono le prospettive di pensiero che tendono a incrementare la forza e la vitalità, dall’altro quelle che tendono a sminuirle se non a negarle del tutto. Per quanto mi riguarda, io mi colloco nella prima impostazione. Anzi, aggiungo che mi ritrovo d’accordo con Cicerone e con Spinoza nel fare della fortezza in senso attivo, anzitutto come desiderio di esistere, non solo una virtù, ma, come ho già detto, la prima delle virtù, prima non in senso assiologico ma in senso fisico, in quanto costituisce il fondamento indispensabile per le altre virtù, il campobase senza il quale esse non potrebbero realizzare la loro ascesa. La saggezza, la giustizia e la temperanza saliranno più in alto rispetto alla fortezza, ma lo potranno fare solo grazie a essa. Nel non accettare il ruolo basilare della forza per il darsi della vita si colloca a mio avviso la grande aporia del pensiero di Simone Weil. Per lei infatti il compimento della spiritualità richiede la sparizione della forza: «È puro ciò che è sottratto alla forza»;50 e ancora: «La purezza assoluta consiste nell’assenza di qualsiasi contatto con la forza».51 E questo perché, per lei, «la forza è il male».52 Fu questa impostazione a condurla a sostenere del tutto logicamente la decreazione, portandola poi a compimento su di sé con il lasciarsi morire.53 Al contrario, io condivido uno degli assunti fondamentali di Spinoza, già richiamato in precedenza: «Ogni cosa, per quanto sta in essa, si sforza di perseverare nel suo essere».54 Io penso sia proprio così, basta aprire gli occhi e osservare con attenzione la natura per rendersi conto che questa è proprio una legge naturale, anzi la legge naturale, concetto peraltro molto caro al pensiero cristiano che ruota spesso in sede etica attorno al concetto di lex naturalis. Questo sforzo di essere è un esercizio attivo della forza, per Spinoza alla base di tutta l’etica e prima ancora di tutta l’ontologia. Afferma: «Lo sforzo con cui ogni cosa si sforza di perseverare nel suo essere non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa».55 Il che significa che noi siamo il nostro sforzo, noi siamo la nostra forza. Nietzsche, radicalizzando la prospettiva, disse che tutto è volontà di potenza: «Per questo mondo volete un nome? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? E una luce anche per voi, i più

nascosti, i più forti, i più impavidi, o uomini della mezzanotte? Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza – e nient’altro!».56

75. Volontà di potenza diversa da volontà di potere Ora occorre fare bene attenzione: dire volontà di potenza non equivale a dire volontà di potere. Come ha sottolineato Hannah Arendt,57 volontà di potenza non significa necessariamente volontà di dominio sugli altri; significa piuttosto volontà di riuscire, di fare bene, di raggiungere la meta prevista, fosse anche quella di risultare il meno potente. La forza, di cui la volontà è esplicitazione, è infatti intrinseca al darsi dell’essere naturale e da essa non si può uscire se non con la morte. Anche per negare la forza, occorre usare la forza; anche per non esercitare la potenza, occorre volontà di potenza. Ne viene che nessuno può evitare di praticare la fortezza in quanto esercizio umano della forza, e quindi nessuno deve tendere a essere debole, come del resto non furono deboli né Gesù né tanto meno san Paolo, al quale l’iconografia tradizionale assegna non a caso la spada. La vera questione non consiste nell’essere o non essere attivamente forti, ma nello stile e nella direzione con cui si esercita attivamente la fortezza. Nietzsche quindi ha fatto bene a valorizzare la volontà di potenza. Ha fatto male però (sia nel senso che ha sbagliato, sia nel senso che ha prodotto del male) a connotare tale volontà di potenza in termini per lo più distruttivi, come documenterò nel paragrafo successivo a lui dedicato perché lo ritengo il filosofo oggi più influente, dico oggi quando la destra estrema sta sempre più ritornando sulla scena politica del nostro mondo.

76. Nietzsche Come abbiamo visto, Nietzsche descrive la forza come «un voler sopraffare, un voler abbattere, un voler signoreggiare, una sete di nemici e di opposizioni e di trionfi»,58 proponendo immagini e simboli che solo qualche decennio dopo sarebbero diventati crudele realtà, prima nella sua patria, poi nell’Europa intera. Si consideri il suo elogio della «belva feroce, la magnifica divagante bionda bestia, avida di preda e di vittoria», o «la furia della bionda bestia germanica».59 Si consideri il suo volersi «liberare dalla vista disgustosa dei malriusciti, dei meschini, degli intristiti e intossicati», in linea

con ciò che egli definisce «la nostra ripugnanza per l’“uomo”».60 Si consideri soprattutto la sua interpretazione della logica della vita, che coincide perfettamente, nessun dubbio al riguardo, con la visione nazifascista del mondo, come appare da queste parole che immagino Mussolini e Hitler da giovani leggessero avidamente, vista l’applicazione che poi ne fecero da adulti: Parlare in sé di diritto e torto è cosa priva di ogni senso; in sé offendere, far violenza, sfruttare, annientare non può naturalmente essere nulla di «illegittimo», in quanto la vita si adempie essenzialmente, cioè nelle sue funzioni fondamentali, offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando e non può essere affatto pensata senza questo carattere.61

Qui Nietzsche ripresenta tale e quale l’equazione di Callicle: forza = violenza. Nell’insieme delle sue opere vi sono non pochi passi in cui viene elogiata l’onestà e la bontà, spesso traspare un desiderio di pulizia intellettuale e morale che fa vibrare il lettore, c’è un desiderio di verità che non si ferma giustamente davanti a nulla, insomma Nietzsche è un grande filosofo che va letto con attenzione, e, come scrive Hannah Arendt, «si definiva un moralista, e senza dubbio lo era».62 Tutto ciò però non fa che rendere ancora più insidiosi i passi in cui inneggia alla cattiveria e alla crudeltà, talora con note di sadismo, come nel brano che segue: È la gioia per il male altrui diabolica, come dice Schopenhauer? Ora, noi ci procuriamo piacere nella natura spezzando rami, staccando sassi, combattendo contro bestie feroci, per acquistare in ciò coscienza della nostra forza. Il sapere che un altro soffre a causa nostra renderebbe dunque qui immorale la stessa cosa, in relazione alla quale ci sentiamo di solito irresponsabili? Ma se non lo si sapesse, non si proverebbe neanche il piacere della propria superiorità, questa può farsi conoscere appunto solo attraverso il dolore altrui.

Poco più avanti, a proposito della cattiveria: Essa ha per scopo il dolore dell’altro. Giacché essa contiene in sé almeno due (ma forse molti di più) elementi di un piacere personale, ed è in tal modo godimento di sé: uno come piacere dell’emozione… e un altro, quando essa spinge all’azione, come piacere di appagamento nell’esercizio della potenza.63

Sono vere o sono false queste parole di Nietzsche? Possono essere vere, non ci sono dubbi: ogni giorno, ogni minuto, esse si inverano in tante esistenze umane. Ma l’essere umano è tutto qui? È questa la sua vera natura? Teoreticamente non si uscirà mai dalla questione, la quale può essere affrontata solo eticamente, ovvero: tu vuoi essere così? Ci sarà chi risponderà sì e ci sarà chi risponderà no, e in questa possibilità di una differente risposta si manifesta la verità delle parole che Pico della Mirandola fa pronunciare a Dio Padre rivolto all’uomo appena creato, immagine di ognuno di noi: «Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine».64 Questa possibilità di un duplice esercizio della forza naturale di cui

ognuno di noi è dotato attesta ancora una volta, come ho argomentato in precedenza, che la forza non coincide con la violenza, così come la volontà di potenza non coincide con la volontà di potere. Si può essere potenti senza volere in alcun modo dominare e predominare, senza desiderare per nulla che la propria potenza si traduca in un potere sugli altri che si esprime «offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando». Io sostengo che l’autentica volontà di potenza di un essere umano non debba fare nulla di diverso rispetto a quanto fa primariamente la forza in natura, cioè: creare sistemi. È vero che a volte per creare sistemi occorre distruggerne altri, proprio come fa la natura; è vero che altre volte i sistemi creati vengono interiormente corrosi dalla malattia; è vero anche che per creare sistemi si ha bisogno di carburante e che lo si prende dalla vita altrui; tutto questo è vero, io lo riconosco e ne scrivo da anni perché so bene che la natura e la vita che essa esprime sono un processo e quindi sono ben lungi dall’essere perfette, a differenza di quanto riteneva Spinoza,65 e prima ancora gli stoici con la loro concezione della provvidenza;66 so bene tutto ciò e per questo seguo Platone e non gli stoici, Kant e non Spinoza, e neppure Hegel che ammetteva certo la processualità del reale ma pur sempre celebrandone ottimisticamente la totale razionalità;67 tuttavia, l’essenziale, ritengo, è cogliere che la distruzione, la malattia, la predazione sono l’antitesi, mentre la tesi è data dalla costruzione, dalla salute, dalla generazione. Per questo l’obiettivo a cui occorre principalmente tendere, per essere in salute, è costruire, nutrire, generare, favorendo tale logica in sé e negli altri. Volontà di potenza non è necessariamente volontà di potere, tanto meno di prepotenza: la differenza tra Spinoza e Nietzsche sta tutta qui. E forse corre anche qui la differenza tra la musica di Beethoven e quella di Wagner, entrambe colme di forza ma così diverse quanto a qualità delle sensazioni che suscitano in chi le ascolta (non a caso si racconta che Hitler si commuovesse fino alle lacrime ascoltando Wagner, non Beethoven). A proposito di Nietzsche, vorrei aggiungere che l’esplicitazione della volontà di potenza non come prepotenza ma come costruzione è quanto esattamente ha fatto egli stesso con la sua scrittura. Una scrittura forte e pulita, espressione vigorosa e onesta del suo pensiero. Un giorno scrisse, quasi protestando: «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio poiché crediamo ancora alla grammatica».68 Anch’egli credeva nella grammatica, e ancor più nella sintassi, cioè nello stile e nella bellezza. Con questo non intendo certo sostenere che in fondo credesse in Dio, ma piuttosto che comunque credeva:

credeva nell’ordine complessivo del mondo che chiamava fato e che invitata ad amare mediante l’atteggiamento da egli definito amor fati,69 una disposizione interiore molto simile a quanto due secoli prima Spinoza aveva chiamato amor Dei intellectualis.70 Si tratta in entrambi i casi di amore, e chi ama veramente supera sempre se stesso, cioè passa dalla semplice vita all’esistenza.

77. La forza più preziosa: vincere se stessi Si legge nel libro biblico dei Proverbi: «Chi domina se stesso vale più di chi conquista una città».71 Io penso che questa affermazione dica il vero. Il nemico da temere di più non è esterno a noi, ma dimora al nostro interno: è la nostra stessa personalità, con i suoi lati oscuri e inautentici. Allo stesso modo il tesoro da conquistare non è esterno a noi, ma dimora al nostro interno: è la nostra stessa personalità, con i suoi lati luminosi e autentici. Il che significa che la vera città che occorre conquistare, e una volta conquistata proteggere dagli assalti nemici, è la nostra interiorità. Solo padroneggiandola veramente potremo affrontare le sfide della vita con coraggio e relativa sicurezza di non essere presi alle spalle. Per questo la più preziosa esplicitazione della fortezza consiste nel dominare e, quando occorre, nel vincere se stessi. Sono in molti tra i sapienti dell’antichità a ricordarlo. Così Cicerone: «Tutto dunque sta in questo: che tu sappia comandare a te stesso».72 Seneca sembra quasi abbia voluto offrire un commento al proverbio biblico ricordato sopra: «Quanto si ingannano quegli uomini che bramano di spingere il loro dominio al di là del mare e pensano di essere veramente felici se occupano militarmente molte regioni e alle vecchie ne aggiungono di nuove, e sono ignari di quale sia quello straordinario potere, pari al potere degli dèi: il dominio di se stessi è il più grande dominio».73 La stessa lezione ripete il Dhammapada: «C’è chi da solo sa sconfiggere centinaia e centinaia di avversari; ma il più sublime degli eroi è colui che sa vincere se stesso»; e ancora: «La vittoria su se stessi è la massima vittoria, ha molto più valore che soggiogare gli altri. Questa vittoria nessuno la può contraffare né carpire».74 Di contro il testo sacro buddhista ricorda quanto sia «disastrosa l’incapacità di dominarsi».75 Gesù afferma lo stesso concetto: «Quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?».76 E volendo insegnare come non perdersi, insegnava alla folla: «Ascoltate tutti e

comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro», perché, continuava, «sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E di quanto esce dal nostro interno rendendoci malvagi Gesù fornisce anche un elenco dettagliato di dodici cause: «Impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza».77 Da qui nasce una particolare versione della virtù della fortezza detta in greco enkráteia, e traducibile come «padronanza di sé». Il sostantivo è formato dalla preposizione en, «in», e dal sostantivo krátos, «potere», quindi letteralmente significa «in potere». Una delle sue prime occorrenze è sulla bocca di Socrate: «Bisognerebbe davvero che ogni uomo considerasse la padronanza di sé (enkráteia) come le fondamenta della virtù e cercasse per prima cosa di gettare queste fondamenta nella propria anima».78 In questa stessa prospettiva Platone consigliava di «vivere cercando, giorno per giorno, di diventare sempre più padrone di sé stesso (enkratés)».79 Aristotele fornisce analisi dettagliate e sorprendenti su chi è padrone di sé (enkratés) e su chi non lo è (akratés), soffermandosi soprattutto su quest’ultimo aspetto perché anche in sede etica è sempre dal travaglio del negativo che emerge il positivo: accenna così all’ubriachezza, ai desideri sessuali incontrollati, agli impeti di vario genere che «modificano visibilmente anche il corpo e in alcuni individui producono anche casi di follia»,80 con una galleria di immagini che comprende chi si strappa i capelli, chi si mangia le unghie, chi rosicchia il carbone e la terra,81 chi «trascina il mantello per non dover sopportare la fatica di tenerlo sollevato», «chi finge di essere ammalato senza accorgersi che, imitando il disgraziato, finisce per esserlo realmente»,82 e altre stranezze del genere, fino a eccessi definiti «stati bestiali» come il caso di «quella donna che, raccontano, apre il ventre delle donne incinte e ne divora i feti», o «di colui che mangiò il fegato del suo compagno di schiavitù»83 e altra casistica aberrante. Poi pone al riguardo due distinzioni decisive: la prima tra chi è incontinente e chi è intemperante; la seconda tra i piaceri che denomina «umani e naturali» e i piaceri che denomina «bestiali» o «causati da lesioni e da malattie».84 Quanto alla prima distinzione, una cosa è cadere occasionalmente nel vizio, un’altra cosa è dimorarvi stabilmente: vi è la stessa differenza, dice Aristotele, tra una città che ha solide leggi ma talora non le osserva e una città che ha leggi cattive.85 Quanto alla seconda distinzione, una cosa è cadere in vizi causati dalla ricerca eccessiva dei

piaceri naturali legati al cibo e alla sessualità, un’altra cosa è precipitare in aberrazioni irrimediabilmente dannose per sé e per gli altri, ed è del tutto evidente che «è più perdonabile il fatto di inseguire gli appetiti naturali».86 Aristotele sa bene che «è possibile trovarsi in situazioni tali da essere sopraffatti»,87 per cui «non è affatto strano che qualcuno si sia lasciato soggiogare da piaceri o da dolori intensi ed eccessivi, ma anzi è persino scusabile».88 Sa bene inoltre che «sono soprattutto le persone vivaci ed eccitabili a essere incapaci di controllarsi per un’incontinenza generata dalla precipitazione».89 È consapevole di tutto ciò, tuttavia stabilisce anche che «non è possibile che uno stesso individuo sia, insieme, saggio e incontinente»,90 perché si può essere solo saggi e moralmente retti nello stesso tempo. Colui che è davvero saggio, cioè davvero all’altezza dell’intelligenza, «lo è non solo per il fatto di possedere la conoscenza ma anche per il fatto di saperla mettere in pratica».91 E se uno non sa metterla in pratica, non è solo perché è moralmente debole, ma anche perché è intellettualmente immaturo, dotato di una conoscenza solo teorica, libresca, nozionistica, ultimamente futile. Se invece ha «la scienza in senso proprio»,92 allora la passione negativa in lui non si genera. Vi sono due importanti precisazioni al riguardo. La prima è che Aristotele giunge alla medesima conclusione di Platone sul ruolo decisivo della conoscenza in sede etica, arrivando a sostenere che l’origine del male è essenzialmente l’ignoranza.93 La seconda consiste nell’affermazione del carattere non solo teorico ma anche pratico della conoscenza, nel senso che si conosce anche con il corpo, non solo con la mente, per cui un corpo usato male è inevitabilmente destinato a produrre ignoranza, mentre un corpo usato bene è inevitabilmente destinato a produrre conoscenza. Si tratta di una pratica spirituale, di un modo di essere, e per questo «è necessario che la conoscenza venga interiorizzata, e per questo ci vuole tempo».94 Scaturisce da qui una prospettiva secondo la quale la vittoria più preziosa, cioè quella su se stessi, non è questione di forza di volontà, di sforzi ascetici, magari di mortificazioni; è invece una vera e propria questione di esercizi spirituali, di coltivazione cioè della propria interiorità detta spirito alla luce dell’intelligenza, della bontà, della giustizia, al fine di raggiungere quell’atteggiamento complessivo della mente e insieme del corpo che si chiama sapienza, in greco sophía. La sapienza non riguarda solo la mente, non consiste di nozioni, non è scienza in quanto possesso di dati oggettivi unificati da una teoria senza

nessun collegamento con la soggettività, secondo la concezione usuale di scienza, oggi come ai tempi di Platone e Aristotele, e della quale scrive Platone: «La maggior parte degli uomini pensa della scienza all’incirca questo: che essa non abbia forza, né capacità di guidare né potere di comandare».95 Né ovviamente la sapienza è una dottrina da seguire e da praticare senza discutere, a dispetto delle ragioni del corpo o, anzi, considerandolo un nemico da domare severamente come avveniva per esempio con gli encratiti, cristiani ereticali dei primi secoli che seguivano il pensiero rigorista di Taziano (nativo della regione siriaca attivo a Roma tra il 150 e il 165 e significativamente definito «campione dell’antiellenismo»)96 improntato a una strutturale contrapposizione tra cristianesimo e civiltà greco-romana, e più in generale tra cristianesimo e umanità.97 La sapienza si distingue sia dalla fredda oggettività della scienza sia dalla troppo calda soggettività dell’ascesi. Non è però nemica né dell’una né dell’altra, anzi le ricerca entrambe, sapendo che sia la conoscenza senza virtù sia la virtù senza conoscenza possono degenerare in pericolosa pazzia.

78. La sorgente della forza di essere migliori Occorre ora affrontare una questione cruciale per lo svolgimento di questo libro, vale a dire la sorgente della forza di essere migliori. Da dove viene la forza di vivere infatti è chiaro: dalla natura. Ma da dove viene la forza di esistere e quindi di essere migliori? Se esistere è collocarsi fuori rispetto al mero vivere determinato dalla natura e dalla struttura sociale con le loro costrizioni incatenanti, da dove si attinge la forza di strappare e mettersi fuori e letteralmente di ex-sistere? Io penso che sia stata questa domanda a far sorgere il bisogno di rimandare a una dimensione diversa, designata tradizionalmente sovra-natura o meta-fisica. Talora infatti capita di osservare nel darsi concreto della vita la purezza dello spirito libero che emerge nell’essere umano e sembra quasi impossibile che la natura possa aver prodotto un movimento animato da una logica così diversa rispetto alla logica consueta mediante cui i viventi per lo più si muovono. Penso sia per questo che alcuni osservatori che pretendono di essere fedelissimi custodi della razionalità tendono inevitabilmente a ridurre tale purezza spirituale a una sublimazione spesso inconsapevole della libido, o della volontà di potenza o di altre oscure manifestazioni della psiche.

E penso sia sempre per questo, anche se per finalità del tutto opposte, che in ambito cristiano si sia giunti a parlare della fortezza non solo come virtù cardinale, quindi come una forza che proviene dalla natura, ma anche come «dono dello Spirito Santo», quindi come una forza di altra origine rispetto alla natura. La tradizione cattolica conosce infatti i cosiddetti «Sette doni dello Spirito Santo» (che sono: Sapienza, Intelletto, Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietà, Timor di Dio), e tra di loro solo la fortezza si ritrova anche nelle virtù cardinali, per quanto l’intelletto e il consiglio possano essere associati alla saggezza. Simone Weil traduceva il Padre Nostro in modo da individuarvi questa prospettiva sovra-naturale. Traduceva infatti la domanda riguardante il pane, tradizionalmente resa «dacci oggi il nostro pane quotidiano», dando un significato diverso all’aggettivo greco epioúsion: non «quotidiano», bensì «soprannaturale». Ecco l’originale francese: «Notre pain, celui qui est surnaturel, donne-le-nous aujourd’hui», ovvero: «Dacci oggi il nostro pane, quello soprannaturale».98 Questa versione di Simone Weil è in effetti più fedele all’originale, essendo l’aggettivo epioúsion formato dalla preposizione epí, «sopra», e dal sostantivo ousía, «essenza», quindi letteralmente «sopra l’essenza», appunto sovra-naturale. Tale traduzione era praticata nei primi secoli cristiani, come appare dal fatto che la traduzione latina della Bibbia detta Vulgata, ricondotta in buona parte a san Girolamo, traduce l’aggettivo epioúsion con supersubstantialem: «Panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie». Questo vale però solo per la versione latina del Padre Nostro del Vangelo di Matteo, perché il medesimo aggettivo nella versione del Padre Nostro del Vangelo di Luca è tradotto con «cotidianum», versione che poi è stata, purtroppo, quella vincente. La scelta di tradurre l’invocazione del Padre Nostro al modo di Simone Weil rende possibile istituire una decisiva distinzione: il pane naturale conferisce calorie che incrementano la forza di vivere, il pane sovra-naturale conferisce calorie che alimentano la forza di esistere in quanto esseri umani migliori. Va anche ricordato in questa prospettiva che per Gesù la collocazione di Dio Padre è «nei cieli», e che il suo regno «non è di questo mondo» ma è appunto «il regno dei cieli».99 Siamo del tutto in linea con la visione di Platone, secondo cui il bene è da concepirsi come «al di sopra dell’essere».100 L’origine della forza di esistere come diversa e superiore rispetto alla

naturale forza di vivere rimanda all’esperienza di un incontro con una dimensione altra, alla quale ci si può riferire con il termine generico di trascendenza. Rispetto al monismo stoico, o spinoziano, o hegeliano, la forza di esistere produce una rottura, segna una discontinuità, introduce la dualità intravista da Platone con la cosiddetta «seconda navigazione».101 Ovviamente si può o meno accettare questa dualità, la quale anzi ripugna al rigore del pensiero e per questo viene esclusa dai pensatori più attenti alla coerenza del sistema (che non alla verità della vita, mi permetto di aggiungere), ma rimane il fatto a mio avviso incontestabile: il fenomeno etica è una struggente contraddizione, poiché rappresenta la produzione di qualcosa di perfettamente diritto (il bene) da parte di qualcosa che di per sé è solo un legno storto (l’essere umano). Affermando ciò, mi ritrovo con Kant, a cui si devono le espressioni «perfettamente diritto» e «legno storto»,102 e prima ancora con Platone. Mi ritrovo con il loro pensiero non sistematico, contraddittorio, ma consapevole di esserlo e perciò volutamente antinomico come antinomica è la vita, un sistema di pensiero che nel Novecento ha avuto tra i suoi maggiori rappresentanti Ludwig Wittgenstein, Pavel Florenskij, Simone Weil, Albert Schweitzer.

79. Ipotesi alternativa sulla sorgente della forza di essere migliori Gli stoici, Spinoza, Hegel miravano alla logicità. Rispetto alla questione della sorgente della forza di esistere, essi avrebbero sostenuto che è errato pensare che la forza di esistere in quanto esseri umani migliori non possa provenire dalla natura, dalla quale verrebbe invece solo la forza di vivere. Sarebbero stati senza dubbio d’accordo sul fatto che l’esperienza quotidiana mostra quanto pochi siano coloro che esistono rispetto ai tanti che solo vivono o sopravvivono, ma avrebbero negato che questo potesse costituire la prova dell’inefficacia della natura nell’infondere la forza di esistere. In realtà per loro anche la forza di esistere deve essere ricondotta alla natura, perché la natura è molto più ampia di ciò che semplicemente appare a uno sguardo di superficie, è molto più ampia e profonda della semplice natura naturata. La natura è anche natura naturans, il che coincide con quella che la teologia cristiana chiama forza creatrice, l’ebraismo shekinah, e altre tradizioni in altro modo. Per stare alla terminologia cristiana, tale forza creatrice è da intendersi come l’energia divina che da sempre è all’opera nel tessuto di questo mondo e all’interno degli esseri viventi. In particolare

nell’essere umano questa forza creatrice o energia divina può generare la dimensione dello spirito, cioè della libertà rispetto alle determinazioni naturali, e diventare creatività, profondità, altezza, visione, luminosità, sorgività, arte, bellezza morale. Quando questo avviene, l’energia interiore di un essere umano non mira più al proprio interesse, al proprio sé, al proprio particolare (in greco l’aggettivo «proprio» si dice ídion, da cui «idiota»). Quando questo avviene, si comincia a vivere per qualcosa più grande di sé e l’idiozia in senso etimologico viene superata dall’intelligenza. Quando questo avviene, il conatus essendi genera il conatus existendi e nasce la forza di esistere. Questo probabilmente avrebbero risposto alla mia domanda pensatori come Epitteto, Marco Aurelio, Spinoza, Hegel, Bergson, Whitehead, alla luce del loro pensiero unitario e monista che rifiuta ogni frattura dell’essere. E nell’escludere che la forza di esistere provenga da una dimensione trascendente, affermando invece che è pur sempre una manifestazione dell’energia di questo mondo e del suo mistero, credo sarebbe stato d’accordo anche il teologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin.

80. Il bisogno della forza di essere migliori Ma perché c’è bisogno della forza di esistere in quanto esseri umani migliori? Non basta vivere? Non è così bello semplicemente e spensieratamente vivere? Perché mai la forza di vivere dovrebbe trasformarsi in forza di essere migliori? Non è sufficiente essere semplicemente e tranquillamente normali? La risposta si basa sul fatto che la vita, per quanto bellissima, non sempre è giusta, anzi spesso non lo è. E di fronte all’ingiustizia della vita la forza di vivere si trasforma, prendendo per lo più due direzioni: o si indurisce, facendo diventare duri, diffidenti, cinici, aggressivi, cattivi; oppure si corrode, facendo diventare scaltri, astuti, furbi, sleali, maliziosi. Dal volto scompaiono la genuinità e l’innocenza originarie e si inizia a vivere, come si usa dire, o con il coltello tra i denti interpretando la vita come «guerra di tutti contro tutti», o con un falso sorriso sempre pronto a tradire. Questa amara metamorfosi dipende dal fatto che la vita non di rado è in balìa della fortuna, concetto filosofico caro agli antichi e per questo molto indagato anche dal rinascimento italiano, in particolare da Niccolò Machiavelli.103 I greci la chiamavano týche. Shakespeare nell’Amleto la

paragona a un pifferaio imprevedibile.104 La fortuna produce un’ingiustizia strutturale perché è cieca. Non lo è al modo della giustizia, che si pone una benda sugli occhi per essere imparziale ma che di per sé vede; lo è invece proprio perché impedita dalla sua natura a vedere in quanto geneticamente cieca, e quindi necessariamente incapace di agire con giustizia. Per questo Seneca diceva: «Dobbiamo fare della filosofia una fortificazione, un muro inespugnabile, che la fortuna non possa superare anche attaccandolo con uno spiegamento di macchinari bellici».105 L’ingiustizia della vita toglie il desiderio di vivere da giusti, perché quando si viene trattati ingiustamente si tende a reagire di conseguenza. Spesso chi è stato trattato ingiustamente dalla vita non ce la fa a essere giusto, non ne ha proprio la possibilità, perché chi non ha mai avuto giustizia neppure sa cos’è la giustizia. L’ingiustizia si estirpa solo introducendo giustizia nell’esistenza di chi non l’ha mai conosciuta. Il che significa che siamo chiamati a essere più giusti della vita. Questo però non è per nulla facile e di conseguenza occorre una disposizione della forza a un livello diverso rispetto a quello della mera vita naturale. La forza di vivere non basta di per sé a conferire la forza di esistere. Occorre un’altra luce.

81. Dialettica della fortezza: la virtuosità della debolezza In questo capitolo ho difeso la legittimità etica della fortezza in senso attivo contro la diffusa impostazione, presente soprattutto nel cristianesimo e dovuta principalmente a san Paolo, che tende a sottovalutarla, se non addirittura a denigrarla. L’affermazione paradossale di san Paolo secondo cui è nell’essere debole che si manifesta il suo essere forte il più delle volte risulta problematica: in che senso l’incostanza è più forte della costanza, o la rilassatezza dell’autocontrollo, o la pigrizia della laboriosità? Quando si parla della fortezza in senso attivo sono in gioco precisamente queste disposizioni e a mio avviso non vi possono essere dubbi sul fatto che la forza attivamente esercitata risulti eticamente più fruttuosa del suo contrario. Del resto lo stesso san Paolo esorta così i cristiani di Roma: «Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito»,106 e come si può mettere in pratica questo suo consiglio senza un esercizio attivo della fortezza interiore? È giunto però il momento, come già a proposito delle prime due virtù cardinali, di mostrare la dialettica che esprime anche la terza virtù e quindi

l’esistenza di un’effettiva virtuosità della debolezza. Vi sono infatti circostanze della vita concreta che aiutano a comprendere il senso corretto delle affermazioni paradossali di san Paolo lasciando intravedere tutta una serie di virtù che in apparenza non hanno molto a che fare con la forza e che invece consentono di sviluppare un modo diverso di essere forte nel senso di efficacemente operativo. In un certo senso, è un po’ come la forza nucleare di cui parla la fisica, che ha una versione forte e una versione debole. Le nostre ferite possono darci forza, una volta medicate e diventate cicatrici; si possono trasformare, come è stato detto con efficace assonanza, da ferite in feritoie e consentirci di scorgere territori altrimenti destinati a rimanere inesplorati. Il che vale anche per le proprie convinzioni intellettuali e spirituali, a proposito delle quali venire confutati può essere un grande vantaggio, come attesta questo brano di Platone: «Per tutte queste ragioni, Teeteto, noi dobbiamo dire che la confutazione è la più grande e la più potente delle purificazioni e, d’altro canto, dobbiamo pensare che chi non è stato confutato, anche se fosse il Gran Re, poiché non è stato purificato per quanto riguarda le cose più grandi, è privo di educazione».107 Sullo stesso registro Marco Aurelio: «Ricordati che cambiare opinione e seguire chi ti corregge è ugualmente un segno di libertà».108 Viceversa, non voler perdere mai, voler dire sempre l’ultima parola, difendere a spada tratta le proprie convinzioni anche quando ne appaiono aspetti problematici, è segno di rigidità, ostinazione, testardaggine. Ha scritto Aristotele: «Vi sono alcuni che si mantengono saldamente ancorati alla loro opinione e che noi chiamiamo ostinati», specificando poco dopo: «E ostinati sono i testardi, gli ignoranti e gli scorbutici».109 Ma ben più che per riguardo verso le nostre idee, è soprattutto per riguardo verso la vita nel suo insieme che bisogna essere capaci di ospitare la sconfitta, visto peraltro che la vicenda terrena di ognuno di noi si conclude inevitabilmente con il lento declino della vecchiaia quale progressiva perdita di forza e con la cessazione totale della forza al momento della morte. Nella lettera del 21 febbraio 1944, scritta nel carcere berlinese di Tegel, Dietrich Bonhoeffer afferma: «Mi sono chiesto molte volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al “destino”. Don Chisciotte è il simbolo della resistenza portata avanti fino al nonsenso, anzi alla follia […]; Sancho Panza è il rappresentante di quanti si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che è dato».110 Resistenza e resa, don Chisciotte e Sancho Panza: la resistenza di don

Chisciotte è senza dubbio un esercizio della fortezza, ma anche la resa di Sancho Panza, sostiene Bonhoeffer (che peraltro si trovava in carcere proprio per aver collaborato con la resistenza antinazista e che per questo verrà impiccato poco più di un anno dopo, il 9 aprile 1945), ha la sua legittimità etica. La resa diventa una virtù quando consiste in un arrendersi al destino, termine che il teologo scrive tra virgolette come a volerne prendere le distanze, dato che si tratta di un concetto non cristiano ma pagano (il fatum dei latini, l’heimarméne o l’anánche dei greci, personificati rispettivamente dalle tre Parche e dalle tre Moire), e che tuttavia nomina spesso in questa sua lettera. Arrendersi al destino, anzi in questo caso al Destino, alle Potenze superiori che ci sovrastano e che non possiamo neppure concepire di poter vincere, è un esercizio paradossale, ma per nulla raro, di fortezza. Questa fortezza debole, o debolezza forte, di cui parlano san Paolo e Bonhoeffer, consiste nel saper perdere, nel saper arrendersi, nel saper accettare la sconfitta, nel saper rinunciare. Una volta ho sentito dichiarare l’alpinista Nives Meroi, una delle poche donne al mondo ad aver scalato tutte le quattordici vette al di sopra degli ottomila metri senza l’ausilio dell’ossigeno artificiale, che alla montagna bisogna saper obbedire, capendo quando essa ci impone di rinunciare e di interrompere la salita. Chi lo fa, non è meno forte del temerario che non sa leggere i messaggi della natura, lo è di più, perché sa vincere anche il suo orgoglio, ciò che i greci chiamavano hýbris, e che costituisce uno dei più pericolosi eccessi cui va incontro la fortezza. E l’ascesa della montagna costituisce da sempre un archetipo che simboleggia il cammino della vita. Oltre che nella resa, la fortezza debole si esplicita nel non agire, nel saper attendere, nel prendere tempo vincendo la propria ansia di prestazione e così lasciando evolvere la situazione. Nella storia militare sono celebri gli esempi di Quinto Fabio Massimo detto il Temporeggiatore nella guerra contro Annibale e del feldmaresciallo Kutuzov, comandante dell’esercito russo, nella guerra contro Napoleone. Entrambi capirono che i loro nemici erano più forti e che l’unica possibilità di ottenere la vittoria finale consisteva nel sopportare una serie di sconfitte temporeggiando e contando sul logoramento del nemico, il che fu quanto esattamente avvenne. Tra le tradizioni spirituali è soprattutto il taoismo che sottolinea l’importanza del non-agire, detto wu-wei. Afferma il Tao Te Ching: «Il saggio si pone al servizio del non agire»,111 passo così spiegato da Augusto Shantena Sabbadini: «Wu wei è essenzialmente “non fare”, “non agire”; ma

in questa idea risuona anche il senso di wu come “vuoto, assenza, non-essere” e quindi l’idea di un agire mediante il vuoto, l’assenza, il non-essere».112 Non si tratta perciò di non-azione, perché, di fatto, tutto è azione; anche scegliere di non agire e rispettare tale scelta è azione. Si tratta piuttosto di un’azione particolare, la cui caratteristica non risulta da quanto fa il soggetto direttamente ma procede come risultato del suo non-agire lasciando che ad agire siano altri. Tale agire senza agire non produce inattività, permette piuttosto che i sistemi lavorino da sé. Esso ha le sue corrispettive virtù, tra cui vi sono assenza di desiderio, calma, naturalezza, pazienza, quiete, saper attendere senza far precipitare la situazione, silenziosità, spontaneità, e direi anche umorismo (in quanto ben distinto dalla comicità che invece è fortemente attiva). La fortezza debole è molto stimata anche nel buddhismo che parla al riguardo della virtù detta ksanti, «pazienza, pace interiore», e della virtù detta nekkhamma, termine pali traducibile con «rinuncia». Si tratta di quell’atteggiamento molto sentito dai buddhisti che ne parlano comunemente come «lasciar andare». Questa prospettiva etica può essere illuminante in ambito cristiano per il dibattito teologico sul controverso concetto della debolezza di Dio, in collegamento diretto e speculare con il concetto contrapposto della onnipotenza di Dio e non senza riferimento alla questione della sofferenza di Dio. Sulla base di queste brevi considerazioni intorno alla fortezza debole, penso sia possibile sostenere che parlare di un Dio debole non significa necessariamente affermarne l’impotenza e l’inoperatività, ma piuttosto dichiarare un altro suo modo di essere operativo: un po’ come il saggio taoista, Dio opera mediante il non-agire, cioè non operando direttamente in prima persona ma facendo in modo che il mondo nella sua autonomia tenda verso la coesione e l’evoluzione dei sistemi che lo formano. Ha scritto Teilhard de Chardin: «A rigor di termini, Dio non fa: Egli fa sì che le Cose si facciano».113

VII. LA TEMPERANZA

82. Immagini ed etimologia La quarta virtù cardinale secondo l’elenco tradizionale è denominata in greco sophrosýne, in latino temperantia, in italiano temperanza. Etimologicamente sophrosýne è imparentata con phrónesis, in quanto entrambe discendono da phrén, «diaframma, mente». Il suo opposto è denominato intemperanza. È molto presente nel taoismo dove costituisce il secondo dei cosiddetti «tre tesori» e viene espressa da un termine cinese che si traduce di solito con «frugalità» ed è associato a un ambito verbale che comprende termini quali «restringersi, parsimonioso, frugale, semplice, poco, piccolo, magro, raccolto».1 In realtà, anche il terzo tesoro taoista ha molto a che fare con la temperanza, visto che viene definito come «non osare porsi come primo nel mondo».2 Secondo la dottrina cattolica la temperanza è «la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onestà».3 Nelle raffigurazioni allegoriche la quarta virtù viene dipinta come una giovane donna con una brocca da cui versa acqua o vino, o più spesso con due brocche da cui travasa con attenzione. Altre volte ha in mano una tazza, simbolo a sua volta della capacità di riempire senza superare il limite. Nelle Stanze vaticane Raffaello la raffigura mentre regge le briglie, immagine che rimanda al mito della biga alata narrato da Platone nel Fedro per descrivere la nostra interiorità, quanto non sia facile governarla e il fermo controllo che essa richiede. In questa prospettiva Dante definisce la temperanza «regola e freno de la nostra gulositade e de la nostra soperchievole astinenza ne le cose che conservano la nostra vita».4

83. Controllo dei piaceri e delle passioni La frase di Dante citata sopra descrive l’oggetto peculiare della

temperanza dicendo che essa concerne «le cose che conservano la nostra vita». Cosa conserva la nostra vita? Essenzialmente il cibo e la sessualità. Di tali «cose» occorre farne uso, perché altrimenti la vita non si potrebbe «conservare» e quindi un’astinenza eccessiva o «soperchievole» è da condannare; da tali cose però occorre altresì non farsi travolgere superando il limite che separa il loro uso dall’abuso perché altrimenti si finisce per ottenere l’opposto della conservazione della vita. Ebbene, saper riconoscere il limite tra uso e abuso, tra «gulositade» e «soperchievole astinenza», è prerogativa della temperanza. Essa è così anzitutto capacità di moderazione. Scrive Tommaso d’Aquino: «Il suo stesso nome implica una certa moderazione, o temperamento, dovuto alla ragione».5 Platone definisce la temperanza come «il non lasciarsi trascinare dalle passioni, ma il tenerle in poco conto e imporre ordine a esse», aggiungendo che su tale definizione tutti si trovano d’accordo.6 Cicerone, dopo aver introdotto tale virtù dicendo che i greci la chiamano sophrosýne, la commenta dicendo: «Io d’abitudine la chiamo ora temperanza (temperantia), ora moderazione (moderatio), certe volte anche senso della misura (modestia); ma forse sarebbe giusto chiamare tale virtù frugalità (frugalitas)».7 Il cristianesimo, soprattutto nelle sue origini e nel medioevo, interpreta la temperanza come dominio di sé e come lotta contro le tentazioni e le inclinazioni cattive. Collegando «la debolezza della carne» alle «passioni peccaminose»,8 san Paolo giunse a stilare il seguente elenco dettagliato dei mali che a suo avviso ci procura la condizione corporea: «Sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere».9 Contro questi quattordici mali egli non cessa di mettere in guardia: «Non lasciatevi prendere dai desideri della carne»;10 «Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne»;11 «Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna».12 Di conseguenza l’intera esistenza cristiana prese a essere interpretata come «vigilanza», «dura lotta», «buona battaglia».13 Anzi, da lotta contro la carne, assurse a lotta contro i demòni e altre misteriose entità: «La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti».14 All’interno di questa concezione drammatica della vita, la temperanza

venne vissuta come la virtù che consentiva di non cadere in balìa delle passioni carnali e che però impediva al contempo di cadere nell’eccesso opposto della condanna del corpo materiale. Nel suo complesso infatti il cristianesimo non ha mai avuto una concezione totalmente negativa rispetto a «le cose che conservano la nostra vita», prova ne sia che quando alcune correnti minoritarie, come gli encratiti nell’epoca patristica e i catari nel medioevo, manifestarono tale concezione totalmente negativa vennero prontamente condannate come eretiche. È altrettanto vero però che per il cristianesimo la temperanza prese a coincidere quasi interamente con la continenza (mentre tra le due vi è l’importante differenza che poi chiarirò) generando spesso un atteggiamento complessivo qualificabile come «disprezzo del mondo» (contemptus mundi),15 sicché, se non è lecito parlare di condanna totale della dimensione materiale della vita da parte del cristianesimo, neppure si può dire che esso abbia espresso una totale fiducia verso la natura e le sue esigenze, tanto più se legate alla sessualità. Il cristianesimo ha espresso piuttosto un complessivo atteggiamento di cautela, di diffidenza, di attenzione guardinga, talora anche di sospetto, come traspare da queste parole di sant’Agostino: Riguardo alle cose della vita presente, l’uomo temperante ha questa regola stabilita nell’uno e nell’altro Testamento: di non amarne e non desiderarne alcuna per se stessa, ma di servirsene per le necessità e i compiti della vita presente quanto basta: con la moderazione (modestia) di chi ne usa, non già con l’affetto di chi le ama.16

La modestia di cui parla Agostino esprime bene l’interpretazione cristiana prevalente della temperanza, caratterizzata da un’innegabile tendenza ad appiattire tale virtù sulla continenza. Tale prospettiva si ritrova in Tommaso d’Aquino, il quale presenta la temperanza dicendo che essa «ritrae dalle cose che attraggono l’appetito contro la ragione» perché consiste nella «disposizione a trattenere l’appetito dalle cose che più attraggono l’uomo»,17 vale a dire da quei piaceri più importanti e necessari alla conservazione della vita definiti da Tommaso come «i piaceri relativi ai cibi, alle bevande e alla sessualità».18 I verbi ritrarre e trattenere indicano bene la funzione attribuita da Tommaso alla temperanza: fungere da freno ai piaceri corporei. E siccome «questi piaceri dipendono dal senso del tatto, rimane che la temperanza riguarda i piaceri del tatto».19 Si afferma così una concezione abbastanza ristretta, per non dire povera, della temperanza, ridotta al solo controllo delle concupiscenze e dei piaceri individuali, espressione della tendenza prevalente nel cristianesimo patristico e medievale a far coincidere del tutto questa virtù con la continenza.

Paragonata alle briglie del cavallo, la temperanza sembra avere l’unico scopo di trattenerne la corsa, non anche quello di spronarlo per incrementarne la velocità. Anche Kant si colloca in questa prospettiva, visto che parla della temperanza come «ascetica morale» e la definisce «una specie di dietetica per l’uomo, atta a conservarlo moralmente sano».20 C’è da dire, in verità, che il termine dieta risulta oggi assai attuale. Sono infatti molti a essere consapevoli del bisogno di una dieta per il corpo, spesso ingrassato e fuori forma per la sovrabbondanza dei cibi, ma penso sia altrettanto importante diventare consapevoli della necessità di una dieta per la psiche, a sua volta ingrassata e appesantita dal disordinato proliferare dei desideri e delle conseguenti emozioni indotte per realizzarli. Di tale dieta integrale si occupa la virtù della temperanza: di nutrire il corpo senza farlo ingrassare, di condurre una vita sessuale che rimanga un piacere e non diventi un’ossessiva schiavitù, di nutrire la psiche senza farla contaminare dalle suadenti ma tossiche emozioni della fiction e dei social.

84. Il contrario di hýbris Che la temperanza, al contrario di quanto sostiene Tommaso d’Aquino, non riguardi solo i piaceri corporei e non interessi esclusivamente il tatto, appare dal fatto che il suo opposto per il mondo greco, a cui dobbiamo il concetto originario, è l’atteggiamento denominato hýbris.21 La hýbris è tracotanza, prepotenza, trasgressione dei limiti assegnati dalla natura o dalla storia, e chi ne vuole un esempio pensi al comportamento dei Proci a Itaca descritto nell’Odissea. In quanto polo contrario della hýbris, la sophrosýne può quindi essere descritta come l’espressione concreta del detto delfico «Nulla di troppo».22 È interessante notare che Aristotele usa il termine hýbris per connotare la violenza in ambito sessuale, come quando, con prospettiva tipicamente maschile, descrive il sorgere di particolari passioni al vedere una bella donna: «Come, per esempio, quando vediamo una bella donna siamo subito presi dalla passione, e dalla passione si origina un impulso a compiere una di quelle azioni che, di certo, non si devono compiere».23 Ebbene, se si controlla quell’impulso, si ha sophrosýne ovvero temperanza; se non lo si controlla, si ha hýbris ovvero tracotanza. Nella circostanza dell’esempio proposto da Aristotele la temperanza

(sophrosýne) si esprime come continenza (enkráteia), ma il rapporto tra le due virtù non è per nulla paritario. Non lo è per due motivi: primo, perché chi è temperante può anche non avere bisogno di esercitare la continenza in quanto è capace di vedere una bella donna senza per questo avvampare di desiderio e soprattutto senza avvertire l’impulso di trasformare il suo desiderio in violenza; secondo, perché la temperanza può anche spingere a un’azione contraria alla continenza laddove non vi sia bisogno di contenere ma piuttosto di spingere, come nel caso di un giovane assai timido innamorato della bella donna di cui parla Aristotele e che debba trovare il coraggio di farle conoscere il suo sentimento. La continenza è la virtù che contiene: sia nel senso che tiene in sé, come un bicchiere contiene o racchiude dell’acqua; sia nel senso che trattiene, come un esercito contiene o respinge gli attacchi del nemico. La continenza quindi vuole frenare, limitare, persino reprimere i piaceri sensibili. La temperanza, invece, intende solo per l’appunto temperarli. Occorre anzi tener presente che tutti coloro che vanno oltre il giusto mezzo peccano di hýbris, e che questo superamento può avvenire o per eccesso o per difetto, così che persino la continenza può essere hýbris laddove si presenti come, direbbe Dante, «soperchievole astinenza». Il carattere specifico della temperanza, al contrario, consiste proprio nel saper cogliere il giusto mezzo e capire quando occorre frenare e quando occorre invece accelerare, quando occorre astenersi e quando occorre partecipare. E il suo esercizio, ben lungi dal limitarsi alle sole cose che riguardano il tatto, riguarda tutti gli ambiti della nostra vita: sentimenti, lavoro, opinioni politiche, idee etiche e filosofiche, spiritualità.

85. Superare se stessi Nella Repubblica Platone fa un’affermazione molto importante riguardo alla temperanza quando dice di essa che «parrebbe avvicinarsi a una forma di armonia ed equilibrio molto più che le virtù precedenti». E poi specifica: «La temperanza è una sorta di ordine, un dominio imposto a certe passioni o desideri, che ha attinenza con quel modo di dire […] stando al quale uno potrebbe, non so bene in che modo, superare se stesso».24 Superare se stesso: si tratta di un’affermazione molto importante perché fa intravedere la peculiarità essenziale della temperanza, la quale nella sua essenza consiste a mio avviso nell’esercizio del libero arbitrio. Argomenterò

in seguito questa mia affermazione: già fin d’ora però anticipo che si può superare se stessi solo a condizione di assumere un certo distacco da sé o da una parte di sé, il che avviene precisamente ricorrendo a quella discussa facoltà umana detta libero arbitrio. Ebbene, la creazione di questo distacco o di questa distanza tra sé e sé, la scoperta e la cura di questa specie di spazio vuoto al proprio interno, l’esercizio cioè del libero arbitrio, è opera di quella peculiare disposizione della mente e della volontà a cui ci si riferisce tradizionalmente parlando di temperanza. La capacità di temperare, in altri termini, è la madre della libertà.

86. Temperare Il verbo tempero, infinito temperare, in latino significa in prima battuta «mescolare nelle giuste proporzioni», da cui i significati di «regolare» e «moderare» e, riferito al soggetto su se stesso, «regolarsi, moderarsi, trattenersi». Il dizionario Zingarelli dà come primo significato «mescolare con la debita proporzione, specialmente il vino con l’acqua», ricalcando la diffusa iconografia dell’allegoria della temperanza quale giovane donna con in mano due brocche. Tra i termini che derivano da temperare vi è temperatura, definita nel suo primo significato «mescolanza in giusta misura di caldo e freddo», e difatti dei climi ben mescolati si dice che sono temperati; e vi è la tempera, la tecnica pittorica che diluisce i colori con l’acqua. La nostra lingua però presenta anche un significato diverso del verbo temperare, cioè «affilare, aguzzare, fare la punta». Da qui provengono tempra e temprare, che indicano la maggior durezza e resistenza che acquistano i metalli una volta temprati, sicché siamo in presenza quasi dell’esatto opposto del senso precedente. Infatti quando di un individuo si dice in senso traslato che ha «una tempra eccezionale» non si intende certo dire che è un individuo mite e moderato, ma piuttosto che è un tipo duro, severo, estremo. Temperare non a caso è anche «fare la punta», da cui temperino per lo strumento che si tiene nell’astuccio per appuntire i pastelli colorati e la matita, o per designare un piccolo coltello, l’oggetto per definizione dotato di punta, oltre che di lama. L’essere umano di cui si dice che è temperante è però ben lontano dall’essere paragonabile a un coltello perché non è per nulla appuntito; non nel senso che è spuntato e non incide, ma nel senso che è smussato e agisce in

modo morbido, senza graffiare, con rispetto e senso della misura, senza prendere le cose e le persone «di punta»; è puntuale ma non appuntito. Questo dimostra che la forza attraversata dalla temperanza si addolcisce e diviene mitezza, la quale non è debolezza ma forza buona e gentile.25 Così è la forza dello Spirito Santo che intenerisce e rende morbido tutto quello che avvolge, come recita l’antico inno ecclesiastico del Veni Sancte Spiritus che invoca: Flecte quod est rigidum, «Piega ciò che è rigido». Il doppio e contrastante significato di temperare («moderare» da un lato, «appuntire» dall’altro) crea una situazione abbastanza paradossale. In italiano infatti esiste il verbo stemperare, che significa «attenuare la forza, l’intensità o l’asprezza di qualcuno» e che quindi viene a coincidere con temperare nel significato base di moderare, per cui temperare e stemperare sono in buona parte sinonimi. Temperanza ha la medesima radice di tempo e il tempo in effetti tempera e stempera, produce cioè l’effetto di riportare le esperienze all’interno di un flusso che le rende meno appuntite, meno aggressive, meno dominanti. In musica abbiamo i diversi tempi musicali, di cui il più vicino alla temperanza penso sia quello denominato «allegro ma non troppo», essendo la temperanza per definizione ciò che evita il troppo, la pratica del «nulla di troppo». E ovviamente è impossibile scrivere di temperanza e musica senza citare Il Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach. Occorre infine sottolineare il particolare valore del termine temperamento, che si comprende bene nella sua differenza rispetto a carattere. Vi è chi spiega il rapporto tra i due termini dicendo che il temperamento è qualcosa di innato e immutabile, mentre il carattere è il risultato del lavoro che l’individuo fa su di sé, ma, dal punto di vista filologico, è vero esattamente il contrario. Carattere viene dal verbo greco charásso che significa «fendere, solcare, coniare» e descrive l’azione dell’aratro sulla terra o della zecca che conia le monete, dando precisamente l’idea di qualcosa di strutturalmente immutabile, tant’è che il termine carattere si usa anche nell’espressione caratteri di stampa, e la teologia cattolica parla del carattere indelebile che viene trasmesso dai sacramenti del battesimo, della confermazione e dell’ordine sacro.26 Temperamento invece è quanto risulta dal lavoro dell’individuo sul suo carattere originario, mitigato o temprato a seconda delle esigenze. È l’azione precisamente della quarta virtù cardinale, che fa della musica interiore di un essere umano un insieme ben temperato. Concordo quindi con quanto scrive Antonio Damasio: «Quello

che noi chiamiamo temperamento – il modo più o meno armonico con cui reagiamo agli scossoni della vita, ogni giorno che passa – è il frutto di un lungo processo educativo e della sua interazione con gli elementi fondamentali della reattività emotiva di cui siamo dotati».27 Lo spazio vuoto tra carattere e temperamento indica che possiamo realmente cambiare, che possiamo realmente seminare atti che poi diventano abitudini, le quali poi formano un carattere, o per meglio dire lo temperano, essendo il carattere il solco originario e il temperamento l’azione di modifica che lo rende più morbido o più duro.

87. Distaccarsi Essere morbido, gentile, mite, tenero: questo è il significato base di temperante. Si tratta di essere morbidi in primo luogo verso chi non ce la fa, senza cadere in quell’atteggiamento superbo da primo della classe che guarda dall’alto in basso chi non ottiene i suoi stessi risultati e vive il suo primato come altezzosa separazione. Anche perché la temperanza verso i limiti degli altri, ben lungi dal poter essere identificata con il lassismo, è una delle condizioni principali del superamento di tali limiti perché infonde motivazione e coraggio, mentre al contrario l’intemperanza demotiva e scoraggia. Chi è temperante e flessibile incoraggia e vivifica; chi è intemperante e inflessibile scoraggia e mortifica. Si tratta poi di essere temperanti anche verso se stessi, il che significa sostanzialmente non prendersi troppo sul serio: né nel bene, cadendo preda del narcisismo; né nel male, cadendo preda del senso di colpa. Prendersi un po’ sul serio sì, è giusto e doveroso; troppo sul serio però no, si diventa pesanti e direi anche ridicoli; è sempre questione di misura, di giusto mezzo, di equilibrio, di mente e cuore bilanciati. Essere temperanti verso se stessi significa anche saper perdonare i propri errori, giudicandoli sì come errori e proponendosi di non commetterli più, ma senza farsene inchiodare finendo per identificare la propria vita e la propria identità con quell’errore o con quel delitto. Noi non siamo i nostri errori. E non siamo neppure i nostri meriti. Per quanto entrambi contribuiscano a formare quello che siamo, quello che siamo è sempre di più, e per questo possiamo cambiare. La temperanza, quindi, è capacità di distacco. Non solo il distacco da ciò che si ha, che è abbastanza facile da comprendere; ma anche e soprattutto il

distacco da ciò che si fa, che è più difficile da capire e da esercitare perché molto spesso siamo tentati di identificarci con il nostro lavoro e i suoi risultati. Ma per quanto siano importanti le nostre azioni e la nostra professione, o per quanto siano fallimentari, noi non siamo ciò che facciamo, né siamo ciò che sappiamo, allo stesso modo di come non siamo ciò che possediamo. Il distacco da quanto si ha, da quanto si fa e da quanto si sa, conferisce quella preziosa leggerezza di chi non si identifica del tutto con le sue molteplici esternazioni e quindi lascia spazio all’autocritica, all’autoironia, alla distanza da quel sé che quasi sempre coincide con il livello superficiale dell’ego. Prendere distanza dai propri errori e dai propri meriti significa esercitare la temperanza verso se stessi, il che si esprime in quel bellissimo atteggiamento di chi, dopo aver compiuto tutto quello che doveva fare (aver visto le cose per quello che sono tramite la saggezza; aver esercitato la volontà in modo equo tramite la giustizia; aver perseverato con tenacia tramite la fortezza) non si prende troppo sul serio. La temperanza è moderazione, equilibrio, senso della misura. È pazienza con se stessi e con gli altri, è quel tratto tipico del sapiente in umanità che conosce le debolezze umane e le guarda sì con severità oggettiva ma anche e soprattutto con amorevolezza soggettiva. Una forma particolare di distacco da sé e quindi di temperanza è la cosiddetta sprezzatura. Molto apprezzata nelle corti del rinascimento italiano, in particolare dal Castiglione a cui si deve il termine,28 essa è il contrario dell’affettazione e dell’ostentazione, dice la distanza dall’ego, il non prendersi troppo sul serio, il fare le cose in maniera disinvolta. Sto eseguendo qualcosa di molto difficile, mi impegno al massimo, tuttavia lo faccio senza tornare con la mente su di me beandomi della mia bravura, ma con una tale dedizione alla cosa da dimenticarmi. Sprezzatura è sprezzo, non disprezzo: consiste cioè nel prescindere dal prezzo, dalla ricompensa, pur prendendo sul serio l’impresa, come chi va a combattere e mostra sprezzo del pericolo. La sprezzatura è il contrario di chi, facendo un qualsiasi lavoro, già si prepara agli applausi che deve ricevere. Sprezzatura è totale attenzione all’oggetto e quindi dimenticanza di sé. Se ne può parlare come di una concentrazione e una dedizione all’oggetto così intense da coincidere con una forma di amore. Ma da cosa è causato questo distacco da sé? E perché alcuni lo praticano e altri no? Perché alcuni iniziano quel dialogo di sé con sé che secondo Platone contrassegna il vero pensare (pensare non come sfilata di opinioni,

ma come analisi di sé per giungere, talora non senza dolore, alla conoscenza di sé) e altri no? Si può rispondere in senso negativo o in senso positivo: nel primo caso si chiama in causa l’insoddisfazione, nel secondo l’attrazione. L’insoddisfazione si riferisce a un sentimento diffuso di non completezza, o anche di vera e propria vanità o nullità, in alcuni casi di sconfitta, proveniente dalla vita quotidiana. Questo sentimento malinconico e a volte drammatico si manifesta nel non accontentarsi delle cose e delle esperienze che nella gran parte dei casi soddisfano la vita dei più; nel cercare e desiderare qualcosa di diverso rispetto all’effimero scorrere del tempo, rispetto al panem, ai circenses e ai vari ludi amatorii. Questa però è solo una descrizione fenomenologica, non una spiegazione esaustiva, perché rimane inspiegato il motivo per cui alcuni restano insoddisfatti di ciò che invece è perfettamente soddisfacente per i più. Mi viene in mente uno dei più struggenti pensieri di Marco Aurelio, quasi una fotografia della vita di corte e di cortile cui egli era, e cui noi siamo, destinati, se non ce ne distacchiamo: «Vanità di cortei trionfali, drammi sulla scena, greggi, armenti, duelli, un ossicino buttato ai cani, briciole di pane in un vivaio di pesci, tribolazioni e affanni di formiche, corse folli di topolini spaventati, burattini mossi da fili». Questa era la situazione sua ed è la situazione nostra, per noi ancora più complicata dal fatto che la vanità di cortei trionfali e tutto il resto ci penetra incessantemente nella mente bombardata dagli spot della pubblicità, dalle news delle radio e delle tv, dalle chiacchiere dei social. Che fare quindi? Così Marco Aurelio: «A tutto questo si deve assistere con indulgenza, e tuttavia capire che ognuno vale tanto quanto le cose a cui si interessa».29 Quell’assistere con indulgenza è esattamente il distacco. Non il distacco risentito e aggressivo, ma quello colmo di comprensione e di misericordia per queste «pecore senza pastore», come Gesù guardava alle folle.30 Torna però la domanda: perché alcuni si distaccano dalla fiera delle vanità e altri no? Per rispondere entra in gioco il motivo positivo che dà origine al distacco, a cui ci si può riferire in prima battuta con il concetto di attrazione. La tradizione cristiana ne parla attraverso i concetti di elezione, chiamata, vocazione, grazia. La tradizione classica vi si riferisce parlando delle Muse, del daímon e in genere dell’ispirazione che proviene dalla dimensione del Divino.

88. Libero arbitrio Più di ogni altra virtù, la temperanza presuppone il libero arbitrio. Argomento questa mia affermazione chiarendo anzitutto cosa intendo per libero arbitrio nella sua netta distinzione da arbitrio. L’arbitrio rimanda a un abuso, a un sopruso, a una prepotenza, azioni rispecchiate dall’aggettivo arbitrario, per cui qualificare una decisione come «arbitraria» significa dichiararla non fondata e ingiusta; l’avverbio arbitrariamente ha lo stesso significato. Il libero arbitrio invece rimanda alla facoltà di decidere in autonomia e di prendere responsabilmente le proprie decisioni. Se ne comprende adeguatamente il significato se lo si connette al sostantivo arbitro in quanto agente che ha ricevuto il compito di un arbitrato e opera un arbitraggio. Prendiamo l’uso più popolare di arbitro, quello del giudice sportivo che nel gioco del calcio fischia o non fischia il rigore. L’atto dell’arbitro, l’arbitraggio, implica le seguenti condizioni: 1) la presenza di due squadre; 2) il loro accordo nel riconoscere l’arbitro quale istanza superiore; 3) un conflitto che le separa; 4) l’accettazione della decisione dell’arbitro e il conseguente adeguamento della condotta. Ebbene, il libero arbitrio è l’arbitro interno a ognuno di noi che dirige la partita tra le diverse squadre della nostra vita. Hannah Arendt, alla quale queste mie osservazioni devono molto, ne parla in questi termini: «La volontà appare qui come una sorta di arbitro – liberum arbitrium – tra la mente che conosce e la carne che desidera. In questo ruolo di arbitro, la volontà è libera, ossia decide in tutta spontaneità».31 Da un lato abbiamo la squadra degli impulsi, delle pulsioni, dei desideri, delle voglie, dei capricci, anche degli arbitrii in quanto decisioni immotivate e ingiuste, insomma la dimensione irrazionale, romantica, pulsionale, emotiva, egoista, non necessariamente malvagia, anche se tendenzialmente avida; dall’altro lato c’è la squadra della ragione, del volere controllato, dell’autodominio, del governo o padronanza di sé, dell’adesione a valori oggettivi superiori, della deliberazione motivata e razionale, della consapevolezza, del senso del dovere e della giustizia. Mediare tra queste due dimensioni capendo quando si deve fischiare a favore dell’una o dell’altra è il compito del libero arbitrio in quanto libero arbitro, libero nel senso di indipendente, distaccato, esente da interessi di parte, «non venduto», e quindi nella migliore condizione per capire a chi dare ragione nelle circostanze

concrete delle azioni, proprio come se fossero azioni di gioco. Quando, trattando della coscienza, sono giunto a parlare di coscienza morale, l’ho potuto fare presupponendo il concetto di libero arbitrio in quanto istanza superiore cui spetta il compito dell’arbitraggio tra le diverse squadre dell’esistenza di ognuno di noi. Ebbene, più di ogni altra virtù la temperanza presuppone l’esistenza e l’esercizio del libero arbitrio. Essa infatti è movimento tra due estremi e ricerca del loro punto di sintesi, e in questo è la virtù per eccellenza della misura, del senso del limite: non solo, come ho già sottolineato, nel senso usuale di non superare il limite, ma anche nel senso altrettanto importante di raggiungerlo, perché l’errore non è solo l’eccesso ma è anche il difetto. L’esercizio della temperanza presuppone la libertà in quanto libero arbitrio, sia la libertà o indipendenza dal sé, sia la libertà o indipendenza dalle proprie passioni o desideri, perché se non ci fosse questa possibilità di libertà non avrebbe senso parlare di temperanza in quanto atto del mescolare prendendo da una parte e dall’altra in modo bilanciato. La temperanza presuppone il libero arbitrio in quanto capacità di giudizio imparziale, più di ogni altra virtù. La saggezza è esercizio dell’intelligenza e di per sé si può compiere senza il libero arbitrio. La fortezza è forza di volontà, in senso attivo e passivo, e meno di tutte le altre virtù presuppone il libero arbitrio, assente nel suo esercizio, perché è la più vicina alla forza vitale che ci proviene dalla natura. La giustizia è confronto tra i due piatti della bilancia ed essa pure presuppone il libero arbitrio, anche se in misura minore rispetto alla tolleranza perché è adeguamento a un’oggettività, spesso sancita da una legge o da un precetto. La temperanza invece riguarda per lo più la vita interiore alle prese con le proprie passioni, i propri desideri, i propri istinti vitali e per questo è l’esercizio per eccellenza del libero arbitrio. Essa è mescolanza tra due brocche, quella del vino e quella dell’acqua, come insegna la più classica raffigurazione allegorica; quindi è scelta ed esercizio del senso della misura, dosaggio di quanta passione e di quanta ragione, il che presuppone la capacità di misurare da parte della mente, che infatti non a caso si chiama così condividendo la radice con il termine misura: mens-mensura. La saggezza è la virtù dell’intelligenza, la giustizia dell’equanimità, la fortezza della vitalità; la temperanza, invece, è la virtù della libertà. Senza la libertà, essa non si può esercitare, né prima ancora concepire. La temperanza produce libertà in chi l’esercita, ma prima ancora è essa stessa prodotta dalla

libertà in quanto libero arbitrio.

89. Dialettica della temperanza: la virtuosità dell’intemperanza In alcune occasioni della vita è necessario mettere in campo il contrario della temperanza, essere cioè intemperanti nel senso di eccessivi, testardi, fissati, unilaterali, per risultare efficaci, per esempio sbloccando una situazione da tempo ferma o raggiungendo un risultato da tutti ritenuto impossibile. Nella gran parte delle circostanze il senso della misura è il criterio più importante, ma vi sono momenti e situazioni in cui si è chiamati a essere smisurati. In questi casi la normale evoluzione delle cose deve lasciare il posto alla rivoluzione, la cui logica è necessariamente, spesso anche dolorosamente, fuori misura. Se al contrario non si osa infrangere i limiti e si rimane sempre classicamente nella misura, si finisce per non rispondere alla chiamata urgente della vita. In questa sua potenziale virtuosità l’intemperanza si presenta come unilateralità, estremizzazione, rigore, fede cieca nel riuscire a compiere la propria missione, rischio, investimento totale, tenacia fino alla testardaggine. Questa virtuosa intemperanza è la tipica disposizione degli innamorati, da intendersi sia nel senso usuale del termine che riguarda gli individui, sia in quello riferito ai movimenti. Prendiamo per quest’ultimo caso i primi secoli cristiani. Come tutti i movimenti allo stato nascente, anche il cristianesimo iniziale era pervaso da una passione e da un estremismo che lo rendevano ben lungi dall’essere temperante: martirio, talora ricercato dagli stessi cristiani come nel caso di sant’Ignazio di Antiochia;32 ascesi dura e spesso eccessiva; lotta contro la natura e le sue richieste, fino all’episodio limite, ma non isolato, della autoevirazione di Origene.33 Ma solo così il cristianesimo riuscì a conquistare tutto l’Impero romano e a diventarne la religione. Steve Jobs parlando agli studenti ha raccomandato: «Stay hungry, stay foolish», «Rimanete affamati, rimanete incoscienti», a significare come da questo squilibrio possano sorgere le spinte più grandi. Sottolineando l’importanza dell’intemperanza, non sto ovviamente sostenendo che essa debba essere la disposizione permanente della vita all’insegna del «vivere pericolosamente» di Nietzsche e di Mussolini, o che si debba ricercare il martirio come sant’Ignazio di Antiochia o passare l’intera esistenza sopra una colonna come fece san Simeone lo stilita. Sto piuttosto sostenendo che in certe particolari occasioni dobbiamo essere pronti anche

noi a compiere azioni impreviste ed eccessive, qualunque sia il nostro personale pericolo o la nostra personale colonna, e per alcuni addirittura il loro personale martirio. È così che si spiegano alcune affermazioni paradossali e persino inumane dei Vangeli, in primo luogo quella di Gesù che proibisce a coloro che sta chiamando non solo di andare a salutare i familiari (come sarebbe il minimo, anche per non farli preoccupare) ma persino di dare sepoltura al padre: «A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre”. Gli replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”».34 Ora, seppellire i morti è un dovere fondamentale degli esseri umani, avvertito dalla coscienza fin dai primordi dell’umanità e celebrato da Sofocle nell’Antigone, e vale a maggior ragione quando si tratta del proprio padre. Affermare di lasciare che siano i morti a seppellire i morti è un evidente paradosso che invita a lasciare insepolto il cadavere del padre, il che è semplicemente inumano e terribile, e si può spiegare solo per l’intemperanza che l’urgenza dell’annuncio del regno provocava in Gesù. Vi sono altri detti evangelici sulla stessa linea, per esempio: «Se uno viene a me e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo».35 E anche: «Vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca».36 Quest’ultimo è il versetto evangelico preso alla lettera nel III secolo dal giovane Origene. Ma a prescindere dagli eccessi, questa virtuosa intemperanza, che potremmo definire anche passione, non riguarda solo la vita religiosa ma anche la pratica filosofica e in genere ogni serio impegno nella virtù. Platone scriveva che «la mania che proviene da un dio è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini»,37 ed Epitteto raccomandava: «Se vuoi progredire, sopporta di apparire stolto e insensato, per quanto concerne le cose esteriori».38 Ha scritto Hegel: «Nulla di grande è stato compiuto nel mondo senza passione»,39 quindi anche noi, quando avvertiamo che la vita ci chiama a una particolare grandezza, dobbiamo essere pronti a stemperare la temperanza. La capacità di capirlo è uno dei doni più preziosi della prima virtù cardinale.

VIII. ALTRE VIRTÙ

90. Virtù primarie e secondarie Crisippo, uno dei maggiori esponenti del primo stoicismo vissuto nel III secolo a.C., divideva le virtù in primarie e subordinate. Le prime erano per lui le quattro virtù cardinali, che enumerava collocando al primo posto la saggezza e facendo seguire temperanza, fortezza e giustizia. Le seconde erano le dirette emanazioni delle virtù primarie, le loro specifiche manifestazioni. Ne risultava un quadro generale di 23 virtù, 4 primarie e 19 secondarie, così configurato: Dalla saggezza: a) consiglio, b) riflessione, c) perspicacia, d) assennatezza, e) destrezza, f) accortezza. Dalla temperanza: a) tempestività, b) decoro, c) riservatezza, d) continenza. Dalla fortezza: a) fermezza, b) coraggio, c) grandezza d’animo, d) ardire, e) laboriosità. Dalla giustizia: a) pietas, b) bontà, c) socievolezza, d) affabilità.1

Naturalmente si possono dare altre versioni della gemmazione delle virtù cardinali: per esempio secondo Cicerone le filiazioni della fortezza non sono cinque ma quattro (magnanimità, serietà, pazienza, disprezzo delle cose umane),2 oppure vi è chi della temperanza presenta solo tre filiazioni (astinenza rispetto al bere, sobrietà rispetto al vino, pudicizia rispetto al sesso). I teologi morali cattolici Tullo Goffi e Giannino Piana affermano che «tutte le altre virtù morali si riallacciano alle virtù cardinali come parti integranti o come parti potenziali», per presentare poi la seguente suddivisione: «Docilità, consiglio, giudizio si riallacciano alla prudenza; ossequio, obbedienza, veracità e giustizia sociale alla giustizia; magnanimità, pazienza, costanza e perseveranza alla fortezza; castità, pudicizia, clemenza, studiosità, sobrietà, astinenza e umiltà alla temperanza».3 Ciò che conta è comprendere che ogni virtù primaria ha una sua declinazione, esattamente come il sostantivo che al nominativo si declina negli altri casi, come avviene in latino e in altre lingue. E come il genitivo o l’ablativo di un nome sono sempre riconducibili al nominativo di cui sono declinazioni ma presentano una forma diversa, allo stesso modo le virtù secondarie: sono sempre riconducibili alla virtù primaria, ma presentano

forma e significato originali. Vi è però anche una serie di virtù che non sono riconducibili alle quattro virtù cardinali, che non provengono da esse in quanto loro declinazioni. Ovviamente presentano chiare relazioni con le virtù cardinali, e non potrebbe essere che così, ma ognuna di esse gode di una sua piena autonomia, a indicare come non necessariamente le quattro virtù cardinali, per il fatto di essere cardinali, sono anche per ciò stesso germinali rispetto a tutte le altre. Ne ho individuate quindici, elencate qui di seguito in ordine alfabetico: attenzione, benevolenza, calma, chiarezza, competenza, consapevolezza, fedeltà, flessibilità, innocenza, mitezza, precisione, responsabilità, rispetto, semplicità, serietà, sincerità. Presentandole, mi muoverò in modo abbastanza disordinato, a volte privilegiando le citazioni, a volte le considerazioni personali, perché quello che offro al loro riguardo sono solo appunti, spesso non organici, per riflessioni ulteriori.

91. Attenzione Il duca di La Rochefoucauld osservava che i più nelle conversazioni cercano solo di affermare se stessi e poi annotava: «Saper ascoltare, come saper rispondere, è una delle maggiori perfezioni che si possono avere nella conversazione».4 Molti secoli prima Marco Aurelio aveva notato la medesima situazione e raccomandava a se stesso: «Abituati ad ascoltare attentamente ciò che gli altri dicono, e cerca di penetrare il più possibile nell’animo di chi ti parla».5 Queste parole esprimono l’atteggiamento fondamentale del filosofo stoico o platonico, consistente nella cosiddetta prosoché, cioè «l’attenzione a se stesso, la vigilanza di ogni istante».6 L’attenzione crea una specie di vuoto dentro di noi. Sono attento, cioè mi svuoto, e quindi divengo capace di vero ascolto. Sono in grado di ricevere perché ho messo a tacere le mie voci interiori, ho spento la mia mente, o meglio, un certo tipo di mente, quella della continua e incontrollata proliferazione di pensieri paragonabile a una radio sempre accesa, e ne accendo un’altra, la mente luminosa dell’attenzione, e la rivolgo a chi sta parlando, o sta suonando, o su chi altro mi si trovi davanti, e divengo completamente ricettivo. E così facendo coltivo la mia interiorità, la ripulisco, la nutro. Per questo tipo di attenzione il sapere non serve. Anzi, a volte può risultare nocivo, perché per generare l’attenzione bisogna fare il vuoto, e non

sempre le persone che sanno tanto, e che sono consapevoli e fiere di questo tanto sapere, e che sono abituate a esibirlo, sanno creare questo vuoto dentro di sé. Il filosofo Edmund Husserl parlava dell’attenzione come di un raggio: il «raggio dell’attenzione».7 L’accostamento dell’attenzione alla luce apre al significato spirituale di tale virtù, su cui Simone Weil ha scritto cose bellissime. Riporto alcuni suoi pensieri da me estratti a mo’ di aforismi dai suoi Quaderni: «L’amore soprannaturale e la preghiera non sono altro che la forma più alta di attenzione»;8 «L’attenzione estrema è ciò che nell’uomo costituisce la facoltà creatrice, e non c’è attenzione estrema se non religiosa»;9 «L’estasi più alta è la pienezza dell’attenzione»;10 «L’occhio dell’anima è l’attenzione»;11 «Dio è l’attenzione senza distrazione».12

92. Benevolenza Non esiste tradizione filosofica e spirituale degna di questo nome che non abbia dato e non dia somma importanza al bene, e da qui al sentimento che ne scaturisce, la benevolenza, e da qui alle disposizioni che realizzano questo sentimento, sia a livello pratico (la generosità, la beneficienza, l’altruismo, la carità, la misericordia, la filantropia) sia a livello psichico (l’empatia, l’immedesimazione, la partecipazione, la compassione, la gentilezza, la cortesia, la delicatezza, l’amabilità). Al riguardo mi permetto di annotare, come tra parentesi, quanto sia segno della nostra crescente miseria spirituale (dico nostra pensando soprattutto a noi italiani) il fatto che di questo sommo ideale e di coloro che lo praticano si senta parlare sempre più spregiativamente in termini di buonismo e di buonisti, quasi che a essere cattivi o malvagi si sia chissà che, mentre si è solo ignoranti. Per Platone il bene è il valore assoluto, e se ha un senso parlare di Dio, lo ha in quanto Dio è l’Idea sussistente del bene, laddove il termine Idea non designa certo l’opinione soggettiva, bensì il livello più alto dell’essere, quello non sottoposto alla corruzione del tempo, quel livello a cui si riferiva Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus scrivendo: «La risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo è fuori dello spazio e del tempo», scrivendo fuori volutamente in corsivo.13 Per Aristotele e per gli stoici la generosità è una delle virtù supreme. Si legge nell’Etica Nicomachea: «La caratteristica specifica della virtù consiste nel fare il bene piuttosto che nel subirlo»,14 e Marco Aurelio dichiara: «La

benevolenza è invincibile» (non senza specificare: «quando è genuina e priva d’affettazione o ipocrisia»).15 A proposito dell’assenza di affettazione e di ostentazione, nel suo libro sulla pratica della benevolenza Seneca ricorda che il filosofo Arcesilao, vissuto tra il IV e il III secolo a.C., aveva un amico povero che per una malattia non disponeva del denaro per comprare l’indispensabile ma che ciononostante nascondeva la sua indigenza, al che Arcesilao «gli mise a sua insaputa un borsellino sotto il cuscino».16 Tre secoli dopo Arcesilao, Gesù dirà: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra»,17 esattamente per insegnare di compiere il bene rispettando la sensibilità di chi lo riceve. E quasi due secoli dopo Gesù, Marco Aurelio dirà: «Dobbiamo essere di quelli che, per così dire, fanno del bene senza saperlo».18 A proposito di Gesù, egli sintetizza tutto il senso della religione nell’amore per Dio e per il prossimo e fa della pratica concreta del bene il criterio decisivo per l’ingresso in quella dimensione dell’essere da lui denominata «regno di Dio» e a cui alludeva Wittgenstein scrivendo «fuori». Nel taoismo il primo dei cosiddetti «tre tesori» di cui parla il Tao Te Ching è indicato dal termine cinese ci, che Sabbadini traduce «amore» e poi commenta: «La parola che ho tradotto con “amore” è ci, “tenero affetto, benevolenza, amore materno, amore dei genitori per i figli, amore filiale, compassione”. Varie tradizioni hanno privilegiato diversi aspetti di questa nozione: mansuetudine, compassione, pietà, eccetera. Il vero coraggio è radicato nell’amore (o nella compassione, nel senso che i buddhisti danno a questa parola) – e viceversa: amare richiede coraggio, l’autentico pacifismo richiede un cuore di leone».19 La tradizione confuciana fa della benevolenza una delle tre virtù fondamentali, come si legge nello Zhongyong: «Le tre virtù, saggezza, benevolenza e coraggio, sono la somma espressione della forza morale».20 Ricordo anche il limpido pensiero di Meng-tzu secondo cui «nel saggio nulla è più grande che indurre gli altri a fare il bene» e questo perché «la carità è il cuore dell’uomo».21 Nel Dhammapada si legge: «I buoni si scorgono anche da lontano, splendono come le distanti cime dell’Himalaya»,22 a significare quanto la bontà sia altamente considerata da questa luminosa tradizione spirituale. Più che di bontà o di benevolenza, però, nel buddhismo si preferisce parlare di compassione, un concetto che non ha per nulla la sfumatura negativa che compare in espressioni quali «mi fai compassione!» o «non voglio la tua

compassione», ma che indica la partecipazione affettuosa e benevola al vissuto altrui, soprattutto nei momenti negativi o di passione, e che potremmo anche rendere con empatia. A questo proposito dichiara il Dhammapada: «Provando empatia per gli altri si scopre che tutti gli esseri amano la vita e temono la morte. Allora, non si assale né si provoca più nessuno».23 Nel buddhismo i termini che esprimono la disposizione benevola sono principalmente due: maitrī, termine sanscrito di cui si noti la comune radice con mater, e che nella versione pali è mettā, che significa «benevolenza, amore»; e karun.ā, «pietà, misericordia», identico in sanscrito e in pali, di cui si noti la comune radice con caritas. Occorre inoltre aggiungere che tra le pāramitā buddhiste (cioè le perfezioni morali e spirituali accostabili alle virtù formulate in Occidente) al primo posto vi è dāna, la generosità. Uno dei Cinque pilastri dell’islam, per la precisione il terzo, è l’elemosina, pratica concreta e nobile di benevolenza. È suddivisa in elemosina legale ovvero prescritta, consistente in un prelievo del decimo dei propri guadagni, e in una elemosina volontaria, fortemente raccomandata ma lasciata a discrezione dei fedeli. Si legge al riguardo nel Corano: «Non avrete parte della virtù finché non donerete delle cose che amate, e qualsiasi cosa voi donerete, Dio lo saprà».24 Sempre nel libro sacro dell’islam si leggono queste bellissime parole: «Dovunque vi troviate gareggiate nel fare il bene e Dio vi riunirà tutti insieme».25 Per quanto riguarda l’ebraismo, mi limito a ricordare il più noto degli aneddoti su Hillel, uno dei celebri saggi di questa tradizione, nato a Babilonia verso il 70 a.C., operante a Gerusalemme e spesso confrontato con Gesù per la relativa vicinanza cronologica. Ebbene, si racconta che un pagano fosse andato dal maestro rivale di Hillel, Shammai, chiedendogli di insegnargli tutta la Torah mentre egli si reggeva su un piede solo, e che Shammai, noto per il carattere burbero e severo, l’avesse scacciato con un colpo del regolo che teneva tra le mani. L’aneddoto prosegue così: «Allora il pagano andò a far visita a Hillel avanzando la stessa richiesta e costui disse: “Ciò che non vuoi che venga fatto a te, non farlo al tuo prossimo, questo è tutta la Torah. Il resto è solo commento. Ora va’ e studia”».26 A proposito della benevolenza che si presenta come misericordia vi è una sorprendente osservazione di Norberto Bobbio, dico sorprendente alla luce della rigorosa laicità del filosofo torinese. Bobbio fa notare che spesso le virtù vengono associate a un animale che ne diventa il simbolo, per esempio semplice come una colomba, mite come un agnello, coraggioso come un

leone, fedele come un cane e così via. Poi prosegue: «Avete mai provato a raffigurarvi la misericordia con un animale? Provateci, non ci riuscirete», e questo perché per lui «solo la misericordia contrassegna il mondo umano rispetto al mondo animale».27 Il che significa che quanto ci rende umani non è la forza, né il coraggio, l’astuzia, l’intelligenza e altre virtù, ma è la misericordia, visto che tra tutti i viventi siamo i soli a esserne capaci. Humanitas quindi è propriamente capacità di misericordia, di benevolenza verso un altro essere vivente, umano e no. Gli antichi egizi facevano dipendere proprio dalla pratica della benevolenza l’ingresso nella vita eterna. Ricordo le parole che l’anima avrebbe dovuto pronunciare al cospetto di Osiride: «Ho soddisfatto dio con ciò che ama. Ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva».28

93. Calma Dalla coscienza comune la calma è collegata al freddo, infatti di una persona calma si usa dire che agisce con freddezza, ma l’etimologia del termine rimanda esattamente all’opposto perché il greco kaûma, da cui viene l’italiano calma, significa «calore ardente del sole». Cosa significa questa apparente contraddizione? Il contrario di calmo è nervoso, e di solito di un tipo nervoso che si arrabbia facilmente si pensa che sia forte, dominante, «un duro», perché sa imporre ad altri il suo stato d’animo, spesso facendo paura. In realtà si tratta di un grossolano errore di valutazione perché perdere la calma e diventare nervoso non è affatto segno di forza bensì di debolezza, di instabilità emotiva, di incapacità di governare le correnti del mare interiore facendosene travolgere e così pronunciare parole e compiere azioni di cui poi talora ci si pente, magari ci si vergogna, e di cui comunque non si è mai padroni perché in quei momenti si viene come trasportati pericolosamente fuori di sé: infatti si dice «essere fuori di sé». Perdere la calma è da deboli, mantenerla è da forti. Non a caso si usa dire: «La calma è la virtù dei forti». L’essere umano veramente forte è sempre padrone di se stesso e della situazione, e se si arrabbia alzando la voce è perché decide di arrabbiarsi, avendo capito che solo in questo modo può affrontare o sbloccare una situazione. Esteriormente si arrabbia, interiormente mantiene la calma. Il suo interno è serenità, quiete, pace.

Cosa succede quando si perde la calma? Succede che si alimenta la collera, l’ira, e da qui la violenza. Tale negatività si manifesta dapprima a livello verbale dando voce alla collera e all’ira interiori e producendo insulti (spesso gridati) o sarcasmi (spesso pronunciati con voce artefatta); poi, se non è sufficiente, si ricorre alle mani, proprie o altrui, se si ha il denaro per comprare le mani altrui. È strano constatare come la collera e l’ira, che sono indice indubitabile di violenza interiore, siano guardate con una certa condiscendenza da Aristotele e da Tommaso d’Aquino.29 Essi però dimenticano che molto spesso alzare la voce è un preludio ad alzare le mani, o a farle alzare da altri. Né considerano il fatto che certe parole urlate o sussurrate con disprezzo possono a volte fare molto più male di un morso o di un pugno. La violenza verbale è spesso l’anticamera della violenza fisica, ma in certe circostanze può essere più tagliente di un coltello e incidere così in profondità da risultare poi per tutta la vita difficilmente medicabile.

94. Chiarezza La chiarezza riguarda anzitutto il rapporto con se stessi e si chiama lucidità. Poi riguarda il rapporto con gli altri a cui si parla o si scrive o si comunica in altro modo, e si chiama onestà intellettuale. Essa è indice di generosità, di voler servire la comprensione altrui senza voler in alcun modo asservire gli altri con le seduzioni del linguaggio. Più un discorso o una pagina sono chiari, più sono fondati e intellettualmente onesti; meno, meno. «I Greci hanno sopra tutti una filosofia chiara e pura»,30 ha scritto Pico della Mirandola, e infatti la chiarezza domina la filosofia classica, la domina anzitutto per una ragione estetica, visto che claritas significa anche splendore, bellezza.31 Chiarezza non significa necessariamente linearità, regolarità, assoluta coerenza; significa piuttosto sforzo incessante di servire da un lato l’oggetto dell’indagine, dall’altro coloro a cui l’indagine si rivolge (i lettori, gli ascoltatori o altri a seconda del genere dell’indagine). Si può essere paradossali, enigmatici, anche oscuri, se si tratta di descrivere aspetti paradossali, enigmatici e oscuri del reale. Ma il punto decisivo è accertarsi che tale dimensione sia sempre al servizio dell’oggetto descritto, e non del soggetto che mette in mostra la sua erudizione o che altro. È quello che per esempio accade a Kant o a Hegel, o nell’Arte della fuga di Bach o all’ultimo

Beethoven: a volte sono oscuri, mai però narcisisti o fumosi, e quindi anche la loro tenebra splende, rivela, mostra la fatica del pensare o del comporre, illumina il travaglio del concetto o dell’armonia, e infatti seguendoli si arriva alla chiarezza: o ad avere un’idea chiara e distinta di quanto vogliono dire con la loro precisa e sistematica filosofia, o a percepire la pace che scaturisce dall’abbandono a una musica superiore. Lo stesso purtroppo non si può dire di alcuni filosofi e musicisti contemporanei, la cui oscurità stilistica è solo indice di confusione concettuale. Ed è evidente che quanto ho detto per la filosofia e la musica vale per ogni altra forma di comunicazione scritta o orale, comprese le forme della comunicazione quotidiana. Ha scritto Galileo: «Parlare oscuramente lo sa fare ognuno, ma chiaro pochissimi».32 E Pavel Florenskij: «Essere precisi e chiari nei propri pensieri è il pegno della libertà spirituale e della gioia del pensiero».33 Va da sé che questo elogio della chiarezza non ha nulla a che fare con la grossolanità e il semplicismo di chi non sa dare conto delle sfumature del reale e scambia la chiarezza con un linguaggio assertivo fatto di slogan e di luoghi comuni.

95. Competenza È preparazione, onestà intellettuale, rigore, precisione, puntualità, e quindi affidabilità e serietà. Richiede un lavoro continuo, un aggiornamento assiduo, una verifica costante. Non mi sembra ci sia altro da aggiungere, se non che ne abbiamo un grande e urgente bisogno.

96. Consapevolezza Consapevolezza è prendere coscienza. Ho scritto il verbo prendere in corsivo per evidenziare che è questa azione attiva che prende a trasformare la coscienza in consapevolezza e a farne una virtù. La coscienza infatti, in quanto organo di cognizione, accompagna da sempre il vivere e agisce spesso indipendentemente dalla ragione elaborando le informazioni necessarie, e sotto questo profilo non è una virtù, ma piuttosto una qualità. Essa però, in quanto coscienza naturale che funge da centro di raccolta e di elaborazione delle informazioni, è del tutto passiva rispetto alla vita; è solo reazione, non è azione. La coscienza cessa di essere reazione e diviene azione quando il soggetto

prende coscienza. In questo caso la coscienza diviene attività, si trasforma in una virtù e si chiama consapevolezza.

97. Fedeltà La tesi che sostengo è che l’essenza della fedeltà consiste nella fedeltà a se stessi e che l’essere fedeli a se stessi significa essere autentici, per cui il vero nome della fedeltà è autenticità. Sostengo, in altri termini, che l’inautenticità è sempre negativa, mentre non sempre lo è l’infedeltà, che in alcuni casi è necessaria, salutare, persino doverosa. Argomento la mia tesi con alcuni esempi. Tutti conoscono la storia di Paolo e Francesca resa celebre da Dante nel quinto canto dell’Inferno. Ebbene, qual è la differenza tra Francesca che tradisce il marito Gianciotto Malatesta con il fratello Paolo Malatesta e Messalina che tradiva il marito Claudio, l’imperatore, con innumerevoli amanti? A cosa è infedele Francesca? A cosa è fedele? Il secondo esempio riguarda Dietrich Bonhoeffer, impiccato perché coinvolto nel piano dell’ammiraglio Canaris per assassinare Hitler. Partecipandovi, egli venne meno al comandamento di non uccidere nonché alla fedeltà al governo. Fu quindi un traditore del vangelo e della patria? Oppure nella sua infedeltà viveva una fedeltà diversa? L’ultimo esempio riguarda Giordano Bruno, che era un frate domenicano e che come tale aveva fatto voto di obbedienza, e che invece fu infedele al voto mettendo in discussione la dottrina, così che l’Inquisizione lo condannò a morte bruciandolo vivo sul rogo con una sentenza eseguita in Campo de’ Fiori a Roma il 17 febbraio 1600. A che cosa fu infedele Giordano Bruno? A che cosa fu fedele? Dei tre esempi proposti il primo riguarda l’amore, il secondo la politica, il terzo la fede. Naturalmente i nomi potrebbero essere molti altri: per l’amore si pensi ad Anna Karenina innamorata del conte Vronskj che per lui lascia il marito, o alla Margherita di Bulgakov innamorata del Maestro e che per lui lascia il marito, o a Juri Živago innamorato di Lara Antipov e che per lei lascia la moglie. Per la politica si pensi a tutti i ribelli alle leggi statali a partire da Antigone che non obbedì a Creonte, ai partigiani che fecero la Resistenza, fino a Carola Rackete che fa attraccare la sua nave nel porto di Lampedusa il 29 giugno 2019 (a proposito: volete una metafora di Dio? Dio è un porto sempre aperto). Per la fede e la religione si pensi ai martiri cristiani

che furono infedeli alle leggi dell’Impero romano, oppure ai liberi ricercatori della verità bollati quali eretici dal potere ecclesiastico. Tutte queste persone, che in prima battuta si possono definire infedeli e traditori, dimostrano in realtà una fedeltà a qualcosa di più originario. A che cosa? Alla vita e alla coscienza. Il termine fedeltà rimanda a fede, fiducia, ambito linguistico da cui provengono anche credere e credito. Il credito personale, oltre a quello bancario, si basa sulla fiducia che siamo capaci di generare, sulla nostra affidabilità. La fedeltà è quindi un valore relazionale: dice la nostra affidabilità nelle relazioni. Siamo uomini e donne di parola? Gli altri possono contare su di noi? Noi stessi possiamo contare su di noi, o siamo sabbie mobili anche per noi stessi, perché non siamo capaci neppure di essere fedeli a quanto ci proponiamo? Che tipo di terreno siamo? Siamo roccia o siamo sabbia? Cosa si può costruire su di noi? E quanto dura quello che viene costruito su di noi? La fedeltà-affidabilità di un essere umano è un criterio decisivo per capire il suo valore. A volte però c’è una fedeltà agli altri che diviene infedeltà a se stessi. C’è una fedeltà alla propria fede, alla propria chiesa, alla propria ideologia politica, al proprio partito, alla propria azienda, al proprio stato, alla propria moglie o al proprio marito, o compagna o compagno, che diviene una negazione di noi stessi, dei nostri bisogni di autenticità, di vita, di futuro, di sincerità, di solidarietà. Insomma, la vita è complicata. Proprio per questo c’è bisogno di una stella, di un punto di orientamento, e io credo che tale stella consista nella autenticità. Essa non rimanda all’ego psichico e capriccioso, ma al nostro io più vero e più profondo, come indica l’etimologia greca, visto che autentico viene da authós, «se stesso».

98. Flessibilità La flessibilità è una virtù che si può anche denominare adattabilità, duttilità, elasticità, resilienza. Deriva da un esercizio dell’intelligenza che comprende che la situazione nella sua peculiarità non è proprio come ci si aspettava e si manifesta come un esercizio della volontà che non si irrigidisce rimanendo sulle sue posizioni ma sa adattarsi. Adattarsi non significa accettare del tutto la situazione, perché questo sarebbe arrendevolezza, cedevolezza, debolezza e quindi insignificanza; significa piuttosto

comprendere che dalla logica della vita siamo chiamati alla relazione, e che anche gli altri hanno attese e precomprensioni, per non dire pregiudizi, e che il nostro compito non è dominarli ma appunto entrare in una relazione virtuosa con loro, creando con le nostre operazioni un sistema operativo. La flessibilità è quindi ciò che scaturisce dall’incontro nella nostra interiorità tra la forza e l’attenzione, tra la custodia del proprio punto di vista e l’accoglienza del punto di vista altrui. Il risultato è l’equilibrio dinamico, la disposizione che ci fa procedere avendo sia energia per camminare sia capacità di controllo. La flessibilità attiene, in altri termini, a una concezione dinamica e operativa della virtù. Un aspetto particolare molto delicato dell’esercizio della flessibilità riguarda il rapporto con le nostre idee e i nostri valori. Quanto più un essere umano ha delle convinzioni che per lui sono importanti o persino vitali, tanto più è portato d’istinto a difenderle a spada tratta, quando non addirittura a inculcarle negli altri, sicché spesso la durezza e l’intolleranza caratterizzano proprio le persone più convinte delle loro idee, siano esse credenti o non credenti (come insegna la storia, il fanatismo e la conseguente violenza si ritrovano da entrambe le parti). A questo livello la flessibilità si chiama tolleranza, o forse meglio, capacità di dialogo e di apertura. La nostra epoca si caratterizza come mai prima d’ora per il dialogo interreligioso, che, se è autentico e non mero tatticismo, è uno specifico esercizio spirituale all’insegna della flessibilità. Già gli antichi però conoscevano bene questo abito mentale, tipico di chi concepisce la verità come sempre più grande della sua concezione o dottrina. Nel 384 il senatore pagano Simmaco ebbe una disputa con Ambrogio vescovo di Milano nella quale pronunciò queste parole: «Contempliamo le stesse stelle, abbiamo il cielo in comune, siamo parte di uno stesso universo: che importa con quale ideologia ciascuno cerchi il vero? Non si può giungere per una sola via a un mistero così grande».34 Le parole di Simmaco erano parte di una più ampia relazione inviata in qualità di Praefectus Urbi all’imperatore Valentiniano II per protestare contro la rimozione dal senato di Roma dell’altare della dea Vittoria, ordinata due anni prima dal predecessore Graziano proprio dietro consiglio di Ambrogio. La supplica di Simmaco però rimase inascoltata, vinse Ambrogio e il cristianesimo iniziò ad assumere quell’intolleranza che poi lo porterà all’esercizio diretto della violenza, e a tradire così la sua stessa essenza. La mente dei saggi ha sempre saputo che «non si può giungere per una

sola via a un mistero così grande» e per questo invitavano e praticavano il dialogo, come probabilmente nessuno ha saputo fare meglio di Platone, le cui opere sono tutte dialoghi, e che solo per questo merita la qualifica di padre del pensare occidentale.

99. Innocenza Per innocenza intendo il candore dell’infanzia, quella fiducia di fondo nella vita che porta sempre con sé una dose di inevitabile ingenuità, spesso scambiata per stupidità da chi si considera un uomo di mondo. Dostoevskij ha scritto pagine indimenticabili al riguardo nel romanzo intitolato L’idiota. Di contro, io sono convinto che la preservazione del candore dell’infanzia, che si manifesta in quella disposizione aperta e meravigliata di fronte alla vita che legittimamente è detta innocenza perché davvero è incapace di nuocere, sia uno dei doni più grandi della vita, e insieme una delle più grandi conquiste della vita spirituale. Diceva al riguardo Meng-tzu: «È un grande uomo colui che non perde il suo cuore di fanciullo».35 Gesù appare sempre molto sensibile verso i bambini e i Vangeli raccontano che un giorno, per rispondere ai discepoli che gli avevano chiesto chi fosse il più grande nel regno dei cieli, «chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli”».36 Le più belle considerazioni contemporanee che io conosca sull’infanzia spirituale e l’innocenza che essa comporta provengono da Pavel Florenskij nelle sue lettere dalla prigionia, iniziata in Siberia nel 1933 e conclusasi con un colpo di pistola alla nuca l’8 dicembre 1937, il cadavere gettato in una fossa comune nei pressi dell’allora Leningrado a marcare l’inizio delle cosiddette purghe staliniane. In una lettera indirizzata alla madre Florenskij racconta dell’ambiente siberiano dicendo che gli ricorda quello dell’infanzia e commenta: «Così dev’essere: la fine coincide con l’inizio».37 Scrivendo alla pianista Marija Judina: «In me, probabilmente per la vecchiaia, si fanno sempre più evidenti e vistosi gli stati e gli atteggiamenti della mia infanzia, cioè lo stare con Mozart e in Mozart. Ciò non è una teoria artificiosa né semplicemente un gusto estetico, ma la più intima sensazione che solo in Mozart, sia letteralmente che allegoricamente, cioè nell’infanzia paradisiaca, ci sia la difesa contro le tempeste».38 Pochi giorni dopo, scrivendo alla

madre, ribadisce il pensiero: «Forse solo verso la vecchiaia, ma inoltrata, si può cominciare il ritorno all’infanzia».39 E sempre rivolto alla madre: «La vita, concludendosi, con la vecchiaia ritorna all’infanzia: questa è la legge, questa è la forma della vita completa».40 È straordinario questo collegamento infanzia-vecchiaia che ricorda il «se non diventerete come i bambini» di Gesù. Dico straordinario per la prospettiva che apre sulla vecchiaia e quindi sul senso complessivo dell’esistenza. Considerare lo stato dell’infanzia quale meta da raggiungere significa infatti due cose: 1) dare alla vita un senso, 2) collocare questo senso nell’innocenza, nella totale confidenza con l’essere. Appare così che il valore supremo da raggiungere nella vita è l’abbandono, il lasciarsi andare, la noncuranza di sé, l’apertura totale alla vita e al destino: è la leggerezza suprema, il pieno distacco da sé, il compimento del vuoto a cui richiamano buddhismo e taoismo. Si tratta però di uno stato che in effetti è possibile coltivare in pienezza solo nell’infanzia e nella vecchiaia inoltrata, quando la battaglia per la vita o non è ancora iniziata o è già conclusa, quando non si hanno ancora, o non si hanno più, responsabilità per gli altri. Scrivendo alla moglie Anna, Florenskij parla del nipotino neonato Pavel, così chiamato in suo onore, di cui aveva ricevuto una fotografia: «A quest’età il bambino (e più è piccolo, più ciò è evidente) emana una sapienza straordinaria, e solo un uomo eccezionale può raggiungere da adulto questa sapienza, e con l’ascesi di tutta la vita».41 Qual è questa sapienza straordinaria? Che cosa emana il bambino piccolo? Io direi fiducia, totale apertura, innocenza, completo abbandono. Questa è la sapienza straordinaria del bambino, questo non possedersi, questo disporsi verso la vita senza egoismo. Vorrei aggiungere però che lo stato del bambino è tale solo quando i suoi bisogni primari sono soddisfatti, altrimenti è in grado di scatenare una vera e propria tempesta. In questo senso la vecchiaia è spiritualmente superiore all’infanzia, in quanto è il ritorno all’infanzia con l’aggiunta della capacità di rinunciare persino ai propri bisogni primordiali. In una delle ultime lettere, indirizzata ai figli, Florenskij si rivolge così alla terzogenita Olga: «Il segreto dell’attività creativa sta nel conservare la giovinezza. Il segreto della genialità, nel conservare l’infanzia, la disposizione d’animo dell’infanzia per tutta la vita. È proprio questa disposizione che dà al genio una percezione obiettiva del mondo». Poco dopo aggiunge: «Non per gli altri, ma per se stessi bisogna essere così, e non

importa che cosa gli altri penseranno di voi: essere, e non apparire. Avere una disposizione d’animo chiara e trasparente, una percezione integrale del mondo e portare avanti un’idea disinteressata: vivere così da poter dire nella vecchiaia di aver preso il meglio dalla vita, di aver fatto proprie le cose più nobili e più belle del mondo e di non aver macchiato la coscienza con le sozzure di cui si sporca la gente e che, una volta esaurita la passione, lasciano un profondo disprezzo. Ti mando un grosso bacio, mia cara».42

100. Mitezza Vi è un bellissimo saggio di Norberto Bobbio, pubblicato per la prima volta nel 1993 e risalente a una conferenza milanese di dieci anni prima, intitolato Elogio della mitezza. Per definire la mitezza, che per lui «è certamente una virtù cardinale»,43 Bobbio introduce la distinzione tra virtù forti e virtù deboli, di cui rivendica l’originalità («ignoro sia stata fatta da altri»).44 Tra le prime elenca il coraggio, la fermezza, la prodezza, l’ardimento, l’audacia, la lungimiranza, la generosità, la liberalità, la clemenza, dicendo che «sono tipiche dei potenti» e chiamandole «virtù regali o signorili, e magari anche, senza malizia, aristocratiche».45 Passa poi al versante delle virtù deboli tra cui include l’umiltà, la modestia, la moderazione, la verecondia, la pudicizia, la castità, la continenza, la sobrietà, la temperanza, la decenza, l’innocenza, l’ingenuità, la semplicità. Continua dicendo che tra le virtù deboli «la mansuetudine, la dolcezza e la mitezza sono proprie dell’uomo privato, dell’insignificante, dell’inappariscente, di colui che nella gerarchia sociale sta in basso, non detiene potere su alcuno, talora neppure su se stesso».46 E precisa: «Chiamo deboli queste virtù non perché le consideri inferiori o meno utili e nobili, e quindi meno apprezzabili, ma perché caratterizzano quell’altra parte della società dove stanno gli umiliati e gli offesi, i poveri, i sudditi».47 Venendo a trattare più da vicino la mitezza, dice che il suo contrario è rappresentato da severità, rigore, arroganza, protervia, prepotenza, che per Bobbio «sono virtù o vizi, secondo le diverse interpretazioni, dell’uomo politico»; per cui la mitezza «non è una virtù politica, anzi è la più impolitica delle virtù».48 In quanto distaccato dalla politica intesa come corsa verso il potere, il mite per Bobbio è «completamente al di fuori dello spirito della gara, della concorrenza, della rivalità, e quindi anche della vittoria».49 La mitezza però

va distinta dalla remissività, perché il remissivo è colui che rinuncia alla lotta per paura e rassegnazione, mentre il mite rifiuta la lotta a priori «per un senso di fastidio, per la vanità dei fini cui tende questa gara, per un senso profondo di distacco dai beni che accendono la cupidigia dei più».50 Per il mite, continua Bobbio, la vera partita si gioca al proprio interno, per questo «non serba rancore, non è vendicativo, non ha astio contro chicchessia, non continua a rimuginare sulle offese ricevute, a rinfocolare gli odii, a riaprire le ferite». E questo perché un essere umano fatto così «per essere in pace con se stesso, deve essere prima di tutto in pace con gli altri».51 Un’altra preziosa sottolineatura riguarda il legame tra mitezza e semplicità, perché Bobbio ritiene che per essere miti sia necessario essere semplici, laddove per semplicità egli intende «il rifuggire intellettualmente dalle astruserie inutili, praticamente dalle posizioni ambigue».52 La semplicità è così strettamente unita alla limpidezza, al desiderio di essere chiari, al rifiuto della simulazione. Il saggio di Bobbio potrebbe essere riassunto a mio avviso da questo consiglio di Epitteto: «Tu però non avere il sopracciglio arrogante».53

101. Precisione Per precisione non intendo minuziosità, quel modo di fare che rende precisi nel senso di minuziosi, cioè così meticolosi da essere scrupolosi e quindi inevitabilmente pedanti e pesanti. Per precisione intendo piuttosto cura della puntualità, dell’ordine, dell’esattezza, del controllo dei dati, per far sì che le cose che si dicono e le tesi che si sostengono abbiano un effettivo fondamento. È una forma di onestà intellettuale: se la chiarezza manifesta l’onestà intellettuale a livello di forma, la precisione la manifesta a livello di contenuto. La precisione è la disposizione mentale che consente di ottenere il punto di equilibrio tra i due estremi e quindi compiere la virtù, secondo il concetto di mesótes, punto centrale o di mezzo, su cui Aristotele costituisce la logica delle virtù etiche in quanto medietà tra un eccesso e un difetto. Il proverbio dice: In medio stat virtus. Ma raggiungere esattamente tale medium è questione di precisione.

102. Responsabilità

Responsabilità significa capacità di risposta. Essere responsabile significa essere in condizione di rispondere, come bevibile significa in condizione di essere bevuto. La responsabilità è una risposta e chi è responsabile è uno che deve rispondere, che ha l’onere giuridico e morale della risposta. Non a caso si usa il verbo rispondere proprio in questa accezione quando si dice: «Io non rispondo che di me stesso». Rispondere viene dal verbo latino respondeo, formato dal prefisso re, rafforzativo, e da spondeo, che significa «promettere» e da cui vengono sponsus e sponsa che in latino non sono gli sposi ma i promessi sposi, i fidanzati. Una persona responsabile è quindi paragonabile a una fidanzata della realtà, perché ha preso un impegno con essa, le ha dato la sua parola, si è legata, e quindi intende essere una persona seria, affidabile, vera, di parola, leale; ha il senso del dovere, non solo quello del piacere, e il suo senso del piacere sa sottoporsi, quando è il caso, al suo senso del dovere. Anzi, per una persona responsabile il dovere diviene un piacere, perché quando lavora è contenta, quando si può dedicare a qualcosa di più grande e più importante di sé è ancora più contenta. Le piace rispondere, corrispondere, non tradire, non risultare inaffidabile, non essere falsa, menzognera, sleale. La responsabilità è il centro dell’etica e del diritto. Se non ci fosse responsabilità in quanto capacità di rispondere o di non rispondere, non avrebbe senso alcuno parlare di etica e di diritto. Tale capacità di rispondere sì oppure no oppure nulla si chiama libero arbitrio. Senza la responsabilità in quanto libero arbitrio, chi si comporta in modo responsabile non avrebbe alcun merito ma semplicemente seguirebbe il suo desiderio o i suoi istinti o le determinazioni dell’ambiente; e allo stesso modo non avrebbe nessun demerito chi viceversa si comporta in modo irresponsabile. Perché si possa parlare di merito e di demerito, di colpa e di colpevolezza, occorre che vi sia la capacità di intendere e di volere, ed è soprattutto quest’ultima, la capacità di volere, che designa la responsabilità. Hans Jonas ha scritto uno dei libri di filosofia morale più importanti del nostro tempo intitolandolo Il principio responsabilità, con un sottotitolo assai significativo: Un’etica per la civiltà tecnologica. Jonas pubblicò il libro nel 1979 e da allora l’urgenza di avere un’etica per la civiltà tecnologica è aumentata direi a dismisura. Le parole con cui si apre la Prefazione, datata luglio 1977, sono le seguenti: «Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante auto-restrizioni impedisca

alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo».54 Oggi più che mai, il compito del pensiero è costruire una visione del mondo e dell’uomo che abbia al centro la responsabilità, o, che è lo stesso, la libertà che risponde di sì al bene e alla giustizia.

103. Rispetto Il rispetto, di per sé, non è una virtù ma è un sentimento, uno stato d’animo che ci si impone. Kant lo descrive come «un tributo che, volenti o nolenti, non possiamo rifiutare al merito»; anzi, come qualcosa di cui spesso faremmo a meno, perché «è tanto poco un sentimento di piacere che solo malvolentieri lo si concede a un uomo», mentre cerchiamo piuttosto, prosegue Kant, di trovare «qualche manchevolezza per diminuire l’umiliazione che proviamo».55 È davvero così? O è davvero sempre così? Non accade al contrario di individuare persone davvero degne di rispetto e di tributarlo loro con gioia, riconoscendo la loro superiorità e il loro valore, e gioendone e abbeverandosene come se fosse acqua per la nostra sete di senso e di direzione? Non è bello trovare dei maestri e nutrire per loro quella forma di rispetto che si chiama stima, la quale è riverenza dell’intelligenza? Sia come sia, è certo che il rispetto è un sentimento che si impone, non una virtù. Uno però dovrebbe chiedere a se stesso cosa e chi rispetta, e così capirebbe chi è. Per questo ne tratto qui, perché il rispetto consapevolmente esercitato diviene una virtù. Secondo Kant si deve nutrire un rispetto incondizionato per la legge morale e per la virtù che essa genera in noi per il solo fatto che si tratta della legge morale. Formalmente parlando, ciò equivale a fare della legge morale l’assoluto e quindi ad assegnare al sentimento del rispetto verso di essa il valore del primo comandamento, quello dell’amore verso Dio, da cui poi tutti gli altri dipendono. L’etica quindi prende il posto della religione, il bene prende il posto di Dio, e la virtù prende il posto della pratica religiosa liturgica e sacramentale. Io mi chiedo se vi sia qualcosa che meriti il mio rispetto più del bene e della legge morale che mi spinge a praticarlo. E mi rispondo di no: non trovo nulla che meriti di essere rispettato più del bene e delle virtù che consentono di comprenderlo e di praticarlo in modo autentico e fattivo. Dal rispetto del bene nella purezza della sua Idea (rispetto che può essere denominato anche deferenza, devozione, ossequio, riverenza, venerazione)

discende il rispetto per gli altri esseri umani, per tutti gli altri esseri viventi nella misura del possibile a un essere umano, per la natura, per il divino, per la vita, per se stessi. Albert Schweitzer ha riassunto la sua proposta filosofica e spirituale sotto il motto «rispetto per la vita». Ecco il racconto del momento in cui gli si palesò l’intuizione: «Risalivamo lentamente il fiume durante una delle lunghe missioni in Africa, cercando con fatica – era la stagione secca – i canali in mezzo ai banchi di sabbia. Immerso in profonda meditazione sedevo sul ponte della barca, sforzandomi di arrivare al concetto elementare e universale dell’etica, che non ero riuscito a trovare in nessuna filosofia. Ricoprivo di frasi sconnesse un foglio dopo l’altro, solo per impedire a me stesso di distrarmi da questo problema. Poi il terzo giorno, al tramonto, proprio nel momento in cui ci stavamo facendo strada tra una mandria di ippopotami, balenò nella mia mente, quando meno me l’aspettavo, la frase: “Rispetto per la vita”. Il cancello di ferro aveva ceduto, si poteva vedere il sentiero nel bosco. Ecco che avevo trovato il modo di arrivare al concetto in cui sono contenute insieme l’affermazione del mondo e della vita e l’etica».56 Nel principio del rispetto per la vita Schweitzer concilia l’obiezione mossa da Nietzsche all’etica nel nome della vita e della vitalità con il rispetto della legge morale di Kant: amare la vita significa rispettarla, in se stessi e negli altri; vivere al meglio la spinta vitale significa essere giusti. L’etica quindi non allontana dalla vita chi la pratica, ma l’immette al contrario nella profondità della sua logica, la logica della relazione armoniosa.

104. Semplicità Gesù invita a essere «semplici come le colombe», ma chi nel suo cuore vorrebbe essere così? L’altro suo invito a essere «saggi come i serpenti» appare a tutti degno di essere preso in considerazione, ma questa semplicità da colomba, in questo mondo, emana davvero poco fascino come programma di vita. Il motivo di ciò risiede nel fatto che, quando si dice semplice, si pensa comunemente a elementare, basilare, facile, non senza una connotazione negativa di ovvio, banale, scontato; e quando di una persona si dice che è semplice, spesso si intende dire che è ingenua, un po’ sciocca, sempliciotta. Per questo nessuno ama essere ritenuto una persona semplice: molto più gratificante essere considerati una persona complessa. Questa visione delle cose dipende dall’errata considerazione che fa della

semplicità un punto di partenza, senza comprendere che in realtà essa è un prezioso, se non il più prezioso, punto di arrivo nella costruzione intellettuale e spirituale di un essere umano. Ho già ricordato il detto evangelico: «Se non diventerete come i bambini…». Quando la mente inizia a pensare e a esporre il prodotto dei suoi pensieri (siano essi sotto forma di scrittura, o di musica, o di arti figurative, o anche di discorsi tra amici), raramente è semplice: se pensa veramente, se non ripete banalità semplicistiche o nozioni di scuola già pronunciate mille volte, la sua produzione risulta magmatica, caotica, spesso disordinata, di certo complicata, paragonabile all’energia di un fiume in piena dalle acque limacciose e oscure. È solo in un secondo tempo, quando il pensiero si è decantato ed è ritornato su di sé, quando il soggetto ha avuto il tempo di prendere le distanze dalla propria iniziale produzione e di ponderarla, giudicarla, correggerla o bilanciarla, che giungono la semplicità e la luminosità delle acque pulite. La semplicità è un punto di arrivo, richiede lavoro, spesso faticoso, per nulla facile. È grossomodo quello che diceva Pascal quando, durante la feroce polemica contro i padri gesuiti sulla teologia della grazia e del libero arbitrio che fu all’origine delle Lettere provinciali, chiudeva una di queste ultime lettere scusandosi della sua eccessiva lunghezza a causa del «poco tempo che ho avuto» e aggiungeva: «Mi sono dilungato nella presente soltanto perché non ho avuto l’opportunità di farla più breve».57 Secondo Dietrich Bonhoeffer la semplicità «è un concetto etico» e contro le astrattezze di tanta educazione egli afferma che occorre «educare e formare alla semplicità – anzi, questo è uno degli obiettivi essenziali dell’educazione e della formazione culturale».58 In una lettera all’amico Bethge dell’11 agosto 1944 scriveva: «Tu dici di aver dovuto sostenere e vincere una lotta per raggiungere la semplicità; lo credo bene. La semplicità è una capacità dello spirito, una delle più grandi».59 Bobbio ha scritto che per lui la semplicità consiste nel «rifuggire intellettualmente dalle astruserie inutili, praticamente dalle posizioni ambigue»,60 e l’affianca alla limpidezza, alla chiarezza, al rifiuto della simulazione. Infatti un’altra declinazione della semplicità è la spontaneità. Oggi però purtroppo valgono queste parole di Albert Schweitzer: «Lo spirito della nostra epoca disprezza ciò che è semplice. Non crede più che semplicità possa corrispondere a profondità. Si compiace di ciò che è complicato e lo considera profondo […] Allo spirito dell’epoca piace la

disarmonia, nei toni, nelle linee e nel pensiero».61 Tra le tradizioni spirituali penso che il taoismo sia quella nella quale la semplicità ha più valore, una semplicità che giunge a prosciugare e al contempo ad ammorbidire gesti e linguaggio. Tra le filosofie classiche penso soprattutto a Epicuro e al suo mite minimalismo. E poi agli stoici come Epitteto e Marco Aurelio, altrettanto semplici nel loro mite massimalismo.

105. Sincerità Meng-tzu: «La sincerità è la Via del Cielo, aspirare alla sincerità è la Via dell’uomo».62 Si poteva lodare di più questa virtù? Anche se non è stata collocata tra le virtù cardinali (chissà come mai), la sincerità ha un organico collegamento con la giustizia e con la saggezza. Il suo collegamento con la giustizia è il più semplice da capire, essendo la sincerità proprio una forma di giustizia, anzitutto verso di sé e il proprio linguaggio che, quando è sincero, viene connotato dicendo che è schietto, franco, genuino; lo stesso vale per chi parla così. Il Nuovo Testamento conosce al riguardo una forma particolare di sincerità, detta in greco parresía, che indica quella particolare sincerità o franchezza o schiettezza nel parlare che, quando è il caso, non teme di dire la verità anche a costo di urtare la sensibilità dell’interlocutore. San Paolo per esempio scriveva ai suoi interlocutori: «Molta parresía da me verso di voi», ovvero: «Sono molto franco con voi».63 Sulla stessa linea vi è il detto che Aristotele avrebbe rivolto al suo maestro Platone per prepararlo alle critiche: «Amicus Plato, sed magis amica veritas», «Platone è amico, ma ancora più amica la verità». La sincerità quindi è una virtù che attiene anzitutto al nostro rapporto con la verità, alla nostra capacità di servirla, e la si può definire anche come autenticità o veridicità. In questa prospettiva si capisce la sua etimologia, che verrebbe dal latino sine cera, «senza cera», laddove tale assenza di cera era riferita o al miele del tutto genuino o alle statue levigate completamente a mano senza usare la cera per mascherare le imperfezioni qua e là. Alla luce del suo rapporto con la verità, praticando la sincerità si tocca il cuore dell’etica che nella sua essenza consiste, come scrive lo psicanalista Luigi Zoja, nel «combattere la menzogna, prima di tutto quella che raccontiamo a noi stessi».64 Qui la sincerità corrisponde alla veridicità. Ma vi è un livello più profondo in cui la sincerità ha a che fare non più con la sola veridicità ma con la stessa verità. Zoja infatti continua: «Siamo alla ricerca di

una maggiore sincerità. Vogliamo comprendere. La vita è troppo preziosa per essere vissuta tra convenzioni contrarie a quello di cui abbiamo intimamente bisogno».65 Ebbene, la ricerca di maggiore sincerità di cui si parla qui è legata a questo punto non più alla giustizia ma alla prima virtù cardinale, alla saggezza, in quanto comprensione. Infatti non si comprende veramente se non si è sinceri con se stessi. La prima condizione per disporre lo sguardo in modo retto, raddrizzandolo dalla tendenza a essere ricurvo su di sé risultando incapace di vedere il mondo senza deformarlo, è di essere sinceri. Il che vale a partire dallo sguardo rivolto a se stessi. La sincerità quindi è la condizione per l’attuazione del detto delfico «Conosci te stesso». Albert Schweitzer ha scritto: «La sincerità è il fondamento di ogni vita spirituale e, quando questa base viene scossa, non rimane più alcuna vita spirituale».66 È il destino del cristianesimo. Ritenendo di poter risolvere con la violenza le obiezioni rivoltegli nel nome della verità durante il medioevo e l’epoca moderna, e dicendo violenza mi riferisco all’Inquisizione e al patto con «il braccio secolare», il cristianesimo ha perso la sincerità e ha fatto seccare la sorgente della vita spirituale in Occidente. Potrà farla rinascere solo riprendendo la via della sincerità.

IX. IL CUORE DELL’ETICA: LA MOTIVAZIONE

106. Erodere Viviamo secondo un modello di sviluppo che adora le cose; non la coltivazione dell’intelligenza, non la lettura, non la cultura, non la partecipazione politica consapevole e competente, ma le cose, gli oggetti, i beni di consumo. I nostri ragazzi sono orientati d’istinto dal clima culturale che respirano a pensarsi in funzione degli oggetti che hanno e non dei pensieri che pensano. Siamo sempre più consumatori, sempre meno esseri pensanti. E quindi consumiamo il nostro pianeta. Lo spolpiamo. Lo inquiniamo. Lo devastiamo. Ne compromettiamo gli equilibri che reggono gli ecosistemi. Per quanto ancora? Siamo erosi dai desideri ed erodiamo, e questa assonanza del verbo erodere con il nome di Erode, il re che secondo il vangelo fu il mandante della strage degli innocenti, forse non è casuale. Anche noi siamo all’origine di una strage degli innocenti, si pensi alle specie animali e vegetali che si sono estinte per causa nostra, ai bimbi concepiti e mai venuti alla luce perché abortiti, alle foreste secolari abbattute per estrarre petrolio o minerali, all’aria infettata dai gas velenosi che produciamo… Stiamo male e produciamo male.

107. La corona della giustizia Le virtù sono forze relazionali, agiscono all’interno di un contesto nel quale contribuiscono a introdurre energia positiva così da lottare contro l’entropia, il disordine, la lacerazione, la disgregazione. Quali virtù ci sono più richieste dal contesto sociale e ambientale? A questa domanda non so rispondere con precisione: sono tentato di dire tutte, tutte quelle che ho presentato finora, le quattro virtù cardinali con le relative filiazioni e le quindici virtù non cardinali ma altrettanto importanti. È evidente però che non si tratta di una risposta precisa. Di una cosa tuttavia sono convinto: che coronare il lavoro interiore

esplicitato dalle virtù cardinali spetti alla giustizia. Se ha uno scopo percorrere il sentiero delle virtù cardinali, è quello di produrre giustizia. Se ha un senso essere forte, saggio e temperante è per essere giusto, perché non c’è nulla, a mio avviso, più importante dell’essere giusto. Condivido quindi l’affermazione del cardinal Martini già richiamata sopra: «Questo bene richiede di essere anteposto a ogni altro bene, vantaggio e interesse. Ne va, infatti, del senso stesso della vita».1 Come Giotto nella Cappella degli Scrovegni, anch’io tra tutte le virtù assegno la corona alla giustizia.

108. La domanda radicale La libertà è «la condizione della legge morale», ha affermato Kant, sostenendo con questo che, se esiste la morale, è perché, prima, c’è la libertà.2 Se non ci fosse la libertà, mancherebbe la condizione essenziale, condicio sine qua non, della morale. È vero; peccato, però, che il tentativo di dare una fondazione teoretica al concetto di libertà si sia chiuso da sempre in modo aporetico e che questa aporia si sia riversata e ancora si riversi sulla fondazione della morale. In ordine alla libertà si constatano contraddizioni anche all’interno della stessa tradizione: il cristianesimo, per esempio, deve ancora capire come conciliare l’affermazione del libero arbitrio di cui afferma essere dotato l’essere umano con il primato della grazia divina da esso pure sostenuto: prova ne è l’irrisolta controversia de auxiliis gratiae Dei che agli inizi del Seicento divise ferocemente gesuiti e domenicani e attende ancora oggi un pronunciamento papale.3 Anzi, a ben vedere le contraddizioni si riscontrano persino all’interno dello stesso pensatore: Platone, per esempio, da un lato parla di ispirazione o mania sottolineando il primato dell’influsso divino, dall’altro sostiene la radicalità della scelta umana; Kant nega la conoscibilità della libertà teoreticamente, ma l’afferma quale postulato della ragion pratica; Schopenhauer, che considera Platone e Kant i soli veri filosofi prima di lui, nega il libero arbitrio che invece per loro è decisivo. Persino una mente come quella di Einstein da un lato nega il libero arbitrio, dall’altro vi fa appello in tempo di guerra.4 La domanda radicale sulla libertà non può dunque essere di tipo teoretico, cioè: «Esiste la libertà?», perché qualunque risposta si possa dare si avranno sempre obiezioni che condurranno all’antinomia. La domanda radicale è piuttosto di tipo etico: «Tu, vuoi essere libero?».

Ora, siccome l’etica è l’espressione privilegiata della libertà in azione, anche la fondazione dell’etica, esattamente come quella della libertà, è condannata a non arrivare a un risultato definitivo. Lo ha sottolineato Hannah Arendt: «Questo problema di rendere obbligatorie e cogenti le proposizioni morali […] ha afflitto sin dalle sue origini la filosofia morale. È un problema che già troviamo in Socrate. Quando questi dice che è meglio patire il male piuttosto che farlo […] questa affermazione non può essere provata».5 Io aggiungo che anche l’esito aporetico del Menone, il dialogo dedicato da Platone al concetto di virtù, depone in questa direzione, visto che vi si afferma che della virtù non ci sono maestri e che essa non è ultimamente insegnabile, e che, se ci sono uomini virtuosi, come effettivamente ci sono, questo loro essere non rimanda a una «scienza» ma solo a una loro «retta opinione» che deriva da una specie di «divina ispirazione» o di «sorte divina» analoga a quella dei poeti.6 Ecco apparire qui il radicamento estetico della virtù su cui in seguito mi soffermerò. Secondo Hannah Arendt il problema riguarda anche Kant: «L’obbligazione in Kant proviene dal dictamen rationis, il semplice dettame della ragione. E questo dettame non si può provare».7 È la medesima conclusione a cui giunse Norberto Bobbio riflettendo sulle diverse fondazioni della morale laica: «Come si vede, nessuna delle più comuni teorie della morale laica è esente da critiche. Sembra dunque che ogni tentativo di dare un fondamento razionale ai principi morali sia destinato al fallimento».8 Ne viene che anche riguardo all’etica la domanda radicale non può essere teoretica, cioè: «Su cosa si fonda l’etica?», bensì personale. Ma com’è possibile formulare una domanda personale riguardo alla questione etica? Nella nostra lingua al termine etica manca un aggettivo che abbia la stessa relazione di quella che intercorre tra libero e libertà, perché se ha senso chiedere: «Vuoi essere libero?» non ne ha molto chiedere: «Vuoi essere etico?». Né le cose migliorano dicendo: «Vuoi essere morale?». C’è qualcosa che stona in queste domande e che le rende implausibili, persino un po’ ridicole. È strana questa difficoltà del linguaggio a porre la domanda sulla volontà di essere eticamente corretti, è strana questa assenza di un aggettivo adeguato a contrassegnare chi vive secondo le prescrizioni dell’etica, come diciamo libero chi vive in libertà, coraggioso chi ha coraggio, forte chi ha forza e così via. Se non è possibile dire etico di un essere umano che vive in conformità all’etica, o morale per chi rispetta la morale, quale aggettivo è possibile usare per chi vive in modo eticamente degno? Giusto? Saggio?

Temperante? Onesto? Retto? Virtuoso? Perbene? Buono? Migliore? Penso che tutti questi aggettivi possano funzionare, tra loro però io scelgo il primo, giusto, perché è quello che a mio avviso esprime meglio la posta in gioco nella questione etica. Sono convinto infatti che porre la questione etica equivalga a porre la questione della giustizia. Più in particolare, sono convinto che porre la questione al livello della morale individuale dove si collocano le virtù cardinali equivalga a porre la questione della giustizia interiore, di quella dimensione a cui ci si può riferire dicendo anche rettitudine, onestà, equità, probità, veracità, lealtà, coerenza. La domanda radicale quindi è: «Vuoi essere giusto?». La pongo proprio così, in modo diretto, consapevole di quanto essa oggi suoni strana e possa suscitare imbarazzo, fastidio o anche un ironico sorriso di sufficienza. Mi guardo bene dal negare che si potrebbe anche chiedere: vuoi essere saggio? Vuoi essere forte? Vuoi essere temperante? Ogni virtù infatti contiene in parte le altre, e l’assegnare personalmente il primato all’una o all’altra dipende dal carattere di ciascuno, se più portato alla durezza della forza o all’elasticità della temperanza o all’uso dell’intelligenza che contrassegna la saggezza. Per quanto mi riguarda però sento che la domanda radicale rispondendo alla quale si attiva il motore che motiva e mette in moto l’azione etica sia quella concernente la giustizia: «Tu, vuoi essere giusto?». E mi tornano in mente queste parole di Aristotele: «La giustizia è ritenuta essere la virtù più eccellente, e neppure la stella della sera né la stella del mattino sono altrettanto degne di ammirazione».9

109. Un’amara verità Il fatto però è che gli esseri umani per buona parte (se sia la maggior parte o no, non saprei dire) non vogliono essere giusti. Di per sé non vogliono neppure essere ingiusti, vogliono piuttosto guadagnare, godere e possibilmente ricevere onori e tributi dai propri simili, così da potersi sentire qualcuno. Ben lungi dal voler essere giusti, vogliono piuttosto essere forti, di quella forza che il più delle volte si chiama astuzia o furbizia, usando ora della giustizia ora dell’ingiustizia come meglio conviene nelle varie situazioni. Non è così? Se non fosse così, non avremmo bisogno delle leggi e del loro potere sanzionatorio, che invece accompagnano da sempre le vicende dell’umanità. Gli esseri umani per buona parte (se la maggior parte o no, non saprei

dire) sono attratti da quella bellezza e da quella intelligenza che, se fossero di carta, sarebbero lucide e brillanti come i fogli con i quali si preparano le confezioni regalo, all’insegna di quel modo di essere oggi denominato look che consiste nell’apparire, concentrato unicamente sulla superficie, un modo di stare al mondo che mira ad attrarre lo sguardo, ad affascinarlo e a catturarlo. Così è per tutto: i vestiti, le carrozzerie delle macchine, le protezioni dette cover dei telefoni cellulari detti smartphone, il linguaggio, i post, le canzoni. Tutto quello che si fa e che si dice vuole attrarre gli occhi su di sé, a partire dai propri, anch’essi su di sé, secondo quella curvatura della psiche che il gesto del cosiddetto selfie descrive alla perfezione. Se gli uomini e le donne volessero essere giusti, come sarebbe diverso il mondo! Come sarebbero diversi i vestiti, le scarpe, le borse. Come sarebbero diversi i giornali nel fare i titoli e nel porgere le notizie. Come sarebbero diversi i film e i libri di successo. E la politica e i politici. E le religioni e i religiosi. E le università e gli universitari. Come sarebbero trattati diversamente gli animali, le foreste, le acque. E gli esseri umani da parte degli esseri umani. Se gli uomini e le donne volessero essere giusti, come sarebbero diversi i loro bambini, meno viziati, più buoni, più felici. È la mancanza di giustizia a rendere vana la vita, così come è la sua presenza a renderla sensata. Se la giustizia c’è, allora vivere da esseri umani ha senso; se no, no, siamo solo una delle tante specie animali. Il che ha due conseguenze: che noi in quanto umani siamo qui per produrre giustizia, e che siamo qui per diventare noi stessi interiormente giusti. E questa seconda conseguenza riguardante la morale individuale è più importante della prima che concerne la morale sociale. Ma ecco il problema: come si fa a desiderare di essere giusti? Dove si attinge questa strana motivazione che ci strappa e ci libera dalla catena della vita e ci colloca fuori, nell’aria pulita dell’ex-sistere? L’azione etica si esplica sostanzialmente nel riprodurre la legge universale detta Regola d’oro, presente in tutte le grandi tradizioni spirituali e consistente per lo più nella famosa massima: «Non fare agli altri quello che non vuoi che gli altri facciano a te». Ne esiste anche la versione al positivo: «Fa’ agli altri quello che vuoi che gli altri facciano a te». Il problema però è il motivo: perché dovrei agire così? Quando mi conviene, è chiaro il perché; ma quando non mi conviene? E quando addirittura posso agire indisturbato in senso contrario perché nessuno mi vede, perché mai dovrei rispettare questa regola che poi chissà chi ha definito d’oro? Quale trucco è mai questo?

110. Il cuore dell’etica: la motivazione Il problema etico vero e proprio è eminentemente soggettivo e riguarda la motivazione che ci spinge all’osservanza, ciò che Kant chiama «forza motrice».10 Il problema etico vero e proprio non è teoretico e non riguarda l’intelligenza, è invece pratico e riguarda la volontà, la forza motrice. Nella gran parte dei casi un essere umano che sia dotato della capacità di intendere e di volere vede da sé quale sia il dovere da compiere, ma per l’appunto, come ha scritto Bobbio, «il vero problema è l’osservanza».11 Si tratta della volontà di essere giusti, di dove trovarla, di come ottenerla, di come alimentarla. L’essenza della virtù consiste nel suo essere «forza motrice», nel senso che è come una spinta che motiva ad agire bene producendo motivazione. Motivo e motivazione hanno la stessa radice di moto e di motore, sicché la virtù può essere paragonata al carburante che mette in moto e fa viaggiare il veicolo che noi siamo. Si potrebbe dire così: la virtù è il carburante, l’etica è la macchina, la vita è il viaggio. E il problema che ora stiamo affrontando è da dove derivi il carburante. Come ho già affermato nel primo capitolo e come ora approfondisco, io penso che esso derivi da due sorgenti: dal sentimento estetico e dalla volontà di guarire. Ho parlato di sentimento e di volontà perché la fondazione soggettiva è più importante di quella oggettiva: un’automobile del secolo scorso con il serbatoio pieno sarà sempre comunque più veloce dell’automobile più moderna e più equipaggiata dei nostri giorni con il serbatoio vuoto. Il problema etico per eccellenza non è meccanico, ma è energetico; non è quello della macchina (se cristiana o di altra religione o di nessuna religione, anche perché tutte le macchine più o meno si equivalgono), ma è quello del carburante. Tale problema oggi è aggravato dal fatto che i distributori di un tempo sembrano aver esaurito le scorte. Quali sono questi distributori tradizionali del carburante motivazionale? I cinque elencati in precedenza: 1) tradizione; 2) religione; 3) ideologia; 4) natura; 5) coscienza. Oggi però l’unico distributore di energia che sembra realmente funzionare in Occidente è la volontà di potenza intesa nel senso basico di Max Stirner, cioè la piatta identificazione del fine della mia azione con il mio interesse egoistico: «La mia causa non è né il divino né l’umano, non è ciò che è vero, buono, giusto, libero, ecc., bensì solo ciò che è mio, e non è una causa

generale, ma – unica, così come io stesso sono unico. Non c’è nulla che mi importi più di me stesso!».12 Penso sia del tutto evidente che, sulla spinta di questo carburante, il viaggio della vita non sarà certo diretto verso la giustizia. Purtroppo però è proprio a quel distributore che i più oggi attingono il loro carburante motivazionale. Dei cinque distributori tradizionali di energia motivazionale non vi è molto da dire riguardo al primo e al terzo, cioè la tradizione e l’ideologia, perché il loro esaurimento è sotto gli occhi di tutti. Analizzerò invece gli altri tre, la religione, la natura e la coscienza morale, giungendo a individuare in quest’ultima le due motivazioni a mio avviso decisive: la motivazione terapeutica della guarigione e la motivazione estetica della bellezza.

111. La religione come motivazione dell’etica13 Inizio dalla motivazione religiosa, ancora molto forte in alcune parti del mondo e in alcune coscienze, riferendomi qui prevalentemente alla tradizione rappresentata da ebraismo, cristianesimo e islam, religioni dette abramitiche perché tutte e tre riconoscono Abramo quale padre fondatore. Esse sono a mio avviso la più esemplare manifestazione della morale eteronoma, in quanto vivono la dimensione etica come obbedienza a una norma esterna al soggetto, a livello sia di contenuto di cosa fare o non fare, sia di motivazione. La pagina più emblematica al riguardo non è quella dei Dieci comandamenti, o Dieci parole come ama dire la tradizione ebraica, dettati da Dio a Mosè sul Monte Sinai;14 è piuttosto l’episodio che la tradizione ebraica denomina Legatura di Isacco e quella cristiana Sacrificio di Isacco. Si legge nel primo libro della Bibbia che Dio mise alla prova Abramo ordinandogli: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».15 Abramo obbedì a questa Voce, prese suo figlio e la legna, si incamminò, quando al terzo giorno il bambino gli chiese dove fosse l’animale da sacrificare lui gli rispose di stare tranquillo, arrivò al luogo indicato, costruì l’altare, vi collocò la legna, legò suo figlio, tese la mano, prese il coltello. Quanto tempo sarà passato dal momento in cui Abramo aveva iniziato a legare il figlio a quando stava per alzare il coltello su di lui? Non so quanto ci vuole a legare un bambino in modo che non si muova quando vedrà il coltello scendere verso di lui, né posso immaginare cosa avrà pensato Isacco in quei

momenti avendo capito che l’animale per il sacrificio era lui, né quali immagini di suo padre e della vita gli saranno comparse nella mente: posso solo pensare al volto con cui lo dipinse Caravaggio. È noto che ad Abramo apparve un angelo che lo fermò dicendogli di non uccidere Isacco ma un ariete comparso nel frattempo lì accanto, e che tutto si concluse con la Voce che giurava che avrebbe dato ad Abramo una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare e altre cose di questo genere perché Abramo non aveva rifiutato di uccidere suo figlio in suo onore. Ma qual è l’insegnamento di questo episodio? L’obbedienza più assoluta. Non c’è nulla infatti per un essere umano di più prezioso di un figlio, tanto più se bambino, e questa Voce (che il testo dice essere Dio, ma che non può esserlo) arriva a chiedere ad Abramo di uccidere il figlio per verificare se ci fosse stato qualcosa che egli le avrebbe anteposto e così verificare se lei, la Voce, era davvero il signore assoluto, il tutto secondo una prospettiva che, riprendendo Nietzsche, si può definire al di là del bene e del male. La tradizione cristiana ha visto in questo episodio il modello del vero uomo di fede in quanto capace di assoluta obbedienza al volere divino: esso può risultare terribile per la coscienza morale ma non importa, perché quello che conta non è il bene in sé ma l’assoluta obbedienza a Dio. Il filosofo luterano Søren Kierkegaard ha dedicato a questo episodio un’opera dal titolo significativo, Timore e tremore, nella quale presenta Abramo come «il cavaliere della fede»,16 e questo perché, obbedendo al comando divino, sospese e superò l’etica (andò per l’appunto nietzschianamente al di là del bene e del male) entrando così in un rapporto assoluto con Dio, cioè non normato da altro che dalla più pura obbedienza, per cui tutto quello che ne consegue è un atto meritorio, anche il crimine più orrendo, di cui si potrà parlare come «sacrificio» o «martirio» o «guerra santa». Siamo nella più perfetta eteronomia. Ma le cose, se ci si dispone dal punto di vista etico volendo rimanere al di qua del bene e del male, non stanno per nulla così. Questa figura arbitraria di un Dio che per un’insondabile volontà può ordinare di uccidere persino il proprio figlio (figuriamoci i nemici o gli infedeli) è lontanissima dal volto dell’autentica divinità, che, come ha insegnato Platone, è il bene, e che, come ha insegnato Gesù, è l’amore. È nel nome di questa autentica essenza divina che Kant critica la pagina biblica del sacrificio di Isacco. Per lui la «sospensione teologica dell’etica»,

di cui parlerà Kierkegaard qualche decennio dopo, è semplicemente inammissibile, perché ogni cosa che sia in contrasto con la legge morale non può strutturalmente venire da Dio, che è la realtà sussistente del bene, «l’Idea del Principio buono»,17 come scrive Kant riprendendo Platone e anche la più pura teologia cattolica.18 In una delle sue ultime opere Kant commenta l’episodio del sacrificio di Isacco dicendo che Abramo avrebbe dovuto agire in ben altro modo: non solo avrebbe dovuto rifiutarsi di prendere in considerazione l’ordine di uccidere il figlio, ma ancor più avrebbe dovuto mettere in questione se la Voce potesse essere davvero quella di Dio. Ecco le sue parole: «Può servire come esempio il mito del sacrificio che Abramo voleva offrire, per ordine divino, scannando e bruciando il suo unico figlio (il povero fanciullo, per giunta, portò inconsapevolmente la legna). A quella presunta voce divina Abramo avrebbe dovuto rispondere: “Che io non debba uccidere il mio caro figlio, è assolutamente certo; ma che tu che ti manifesti a me sia proprio Dio, di ciò io non sono né posso diventare sicuro”, anche se tale voce risuonò dall’alto del cielo (visibile)».19 Tralascio le considerazioni teologiche sulle quali mi sono soffermato altrove,20 e mi concentro sulla fondazione eteronoma dell’etica che caratterizza strutturalmente le religioni di ascendenza abramitica in quanto portate dalla loro stessa logica a identificare il sommo bene con la volontà divina, e non con la logica relazionale generatrice di armonia. Significative al riguardo sono queste parole di Abraham Joshua Heschel, tra i più importanti teologi e filosofi ebrei del Novecento: «Noi facciamo il bene non perché è un valore o perché è utile, ma perché lo dobbiamo a Dio»; e ancora: «Noi non possiamo stabilire valori senza di Lui»; e infine, a rimarcare nel modo più chiaro la dipendenza del bene dalla volontà divina: «Se non fosse per la volontà di Dio, non ci sarebbe bontà».21 Secondo questa impostazione, che l’islam riproduce in modo più radicale e il cristianesimo in modo più sfumato,22 il criterio del bene non è intrinseco alla vita, non è cioè la fioritura della vita in tutti i suoi aspetti, ma è esterno alla vita e risiede nella somma volontà divina alla quale va prestata obbedienza assoluta. Ora occorrerà esaminare le conseguenze di tale impostazione, a lungo maggioritaria in Occidente, sull’etica e la sua motivazione quali vengono oggi percepite e vissute dalla coscienza comune.

112. Le conseguenze della prospettiva religiosa tradizionale:

Isacco sono io Quando si parla di morale i più avvertono un senso di noia, per non dire di prigionia. La morale spesso risulta pesante: demoralizza. Come mai? La mia risposta è la seguente: la morale demoralizza perché nella sua concezione usuale vi è un grave errore di fondo che la rende effettivamente pesante. L’errore consiste nel ribaltamento dell’ordine naturale delle cose, ovvero nel considerare i doveri verso un’istanza esterna come più importanti dei doveri verso se stessi. Si viene così a prefigurare una situazione che alla parola etica collega d’istinto un insieme di pratiche che Manzoni definiva «tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé».23 La prospettiva è a tal punto distorta che molti parlando di etica si riferiscono solo alla morale sociale, arrivando a identificare il comportamento etico come un dovere o un obbligo verso gli altri. Etica viene a significare così accoglienza dei migranti, battaglia ecologista, lotta contro corruzione e criminalità; oppure, su un versante più tradizionale, dedizione alla famiglia, sacrifici per i figli, maternità decisamente più importante della realizzazione individuale, conformità alla morale sessuale tradizionale a spese delle proprie tendenze. Sia chiaro che non sto dicendo che gli esempi riportati prefigurano comportamenti non etici e che quindi sarebbe più giusto respingere sistematicamente le persone che cercano asilo, deturpare la natura, corrompere e lasciarsi corrompere, frodare il prossimo, non impegnarsi in alcun modo per una società più giusta, oppure, dall’altro lato, non sposarsi, non mettere al mondo figli vivendo all’insegna del più gaudente individualismo e non avere nessun orientamento etico nella gestione della sessualità. Sto dicendo piuttosto che i comportamenti menzionati non sono ciò che determina la specificità dell’etica in quanto condotta di vita all’insegna del bene e della giustizia, perché qualcuno li può praticare quotidianamente e tuttavia rimanere interiormente una persona irrisolta, dura, insensibile, persino spietata, così narcisista da rappresentare l’apoteosi dell’egoismo e quindi essere molto distante dalla pienezza dell’etica. Si può lottare per la giustizia e non essere giusti. Si può spendere la vita per la famiglia e rovinarla con la durezza del proprio superego che produce tristezza e aggressività. Ci si può impegnare giorno e notte per gli altri, e rimanere imprigionati in una serie di conti irrisolti con se stessi. Si possono mettere in atto azioni esteriori che sanno di eroismo e che talora lo realizzano veramente, e dentro di sé rimanere piccoli, meschini, invidiosi,

arroganti, aggressivi, violenti. Si possono salvare migliaia di sconosciuti, e non essere capaci di intrattenere relazioni serene e durature con le poche persone veramente conosciute. Si può partire volontari per le parti più bisognose del pianeta, tutti rigorosamente «ong» e «senza frontiere», e neppure conoscere i territori pieni di mine antiuomo dentro di sé. Si possono mettere al mondo figli vivendo una «vita di sacrifici» per «non fare mancare loro niente», e sentire dentro di sé un sottile e persistente rimpianto per le privazioni autoimposte e i propri talenti sprecati che avrebbero potuto fiorire e che invece mai fioriranno. Oppure si può dedicare la vita a Dio e all’annuncio della sua Parola, e non saper praticare un sincero ascolto di sé, delle istanze del proprio cuore e di altre parti corporee altrettanto vitali, finendo per trascorrere l’intera esistenza in quella lacerazione interiore che Hegel a suo tempo definì «coscienza infelice» proprio in riferimento a questo tipo alienato di religiosità.24 Se si trattasse solo di un autoinganno che riguarda alcuni di noi non sarebbe così grave. Il fatto però è che questo grave errore di prospettiva si manifesta nella maggioranza delle persone portandole a considerare l’etica come un’impresa che concerne essenzialmente sempre e solo il bene degli altri, e che quindi risulta praticabile solo da pochi scelti volontari disposti all’operazione (tanto nobile quanto innaturale) di considerare gli altri più importanti di sé. Tutto ciò conduce la mente dei più a configurare l’etica come un’impresa pressoché impossibile per un’esistenza normale, e quindi ad avvertire verso di essa un’istintiva antipatia. Uno sente parlare di etica e non si sente all’altezza, prova imbarazzo, finisce per sentirsi in colpa. Quale colpa? A volte semplicemente la colpa di lavorare e di guadagnare, la colpa di potersi permettere un po’ di comodità dopo tanto lavoro, la colpa di poter andare al ristorante «mentre tanta gente muore di fame». Un giorno un postino mi stava consegnando un pacco e riconoscendomi mi chiese quale sarebbe stato il mio prossimo libro. Quando gli risposi che mi stavo dedicando all’etica mi disse: «L’etica? Ma lo sa cos’hanno fatto? Hanno preso l’etica, l’hanno lavata, e poi l’hanno stesa facendola diventare un ricatto». Io non ebbi il modo di chiedergli spiegazioni di questa frase sibillina, ma rimasi colpito dal termine ricatto. Sentii, entrando in casa e depositando il pacco, che quel giovane uomo con un volto scavato e uno spiccato accento bolognese aveva espresso qualcosa di importante: oggi l’etica per i più, invece di rappresentare una sorgente di energia, è avvertita come qualcosa che toglie energia, perché quando stai bene la sua voce ti

ricatta sottilmente riversando dentro di te tutti i mali del mondo e mormorando che in fondo è sempre colpa tua: o perché sei un occidentale capitalista il cui benessere si basa sul malessere dei poveri del resto del mondo; o perché non ti sei impegnato a fondo con i genitori, il coniuge, i figli, e tutti i loro problemi dipendono da te; o perché sei un peccatore il cui egoismo non conosce limiti, o per chissà quali altri motivi. Ma non è finita qui. Identificata con il prendersi cura degli altri, l’etica viene concepita in questa prospettiva come un’impresa che si compie veramente solo se tale cura per gli altri è esercitata in modo da richiedere un permanente sacrificio di sé, sia nella direzione della famiglia, sia nella direzione dei cosiddetti ultimi. E a questo punto una voce dentro di noi un bel giorno sbotta e dichiara: «Ma allora Isacco sono io!». Nella nostra tradizione il criterio del bene è stato sempre posto al di sopra del singolo: o nell’interesse dello Stato e del partito, o nell’interesse di Dio e della Chiesa, o nell’interesse dell’economia e della sua crescita. Lo stesso avviene per lo più anche oggi. Fino a quando però regnerà questo stato di cose, l’etica avrà sempre una posizione subordinata: o alla politica, o alla religione, o all’economia, all’insegna di una filosofia di vita necessariamente segnata da un’impostazione eteronoma. Risanare l’etica, togliendole la qualifica di «ricatto» e restituendole quella genuina di «forza motrice», sarà possibile solo se si capirà il primato dei doveri verso se stessi rispetto a quelli verso gli altri.

113. La natura e l’emergenza etica Per ritrovare un fondamento adeguato della motivazione etica dentro di noi è decisivo anzitutto acquisire un’adeguata consapevolezza del percorso compiuto dall’universo per dare origine alla nostra presenza, dico di noi, esseri viventi, pensanti, e capaci di responsabilità. Capiremo così che siamo davvero al cospetto di una emergenza etica: intesa non però nel senso di pericolo imminente, ma come fenomeno sbalorditivo che emerge in modo inaspettato dalle profondità cosmiche producendo qualcosa su cui nessuno, date le condizioni iniziali, avrebbe scommesso alcunché: un pezzo di materia che giunge a essere dotato di coscienza morale! Se il cuore dell’etica è la cura, io sono convinto che senza la consapevolezza di questo legame originario della nostra interiorità con l’universo non si possa dare autentica cura: né per gli altri, né per l’ambiente,

né per se stessi. Ognuno di noi può veramente curare solo se capisce che, curando gli altri, cura se stesso, e solo se prima ancora capisce che è stato a sua volta curato. Il che può avvenire solo se si prende coscienza dell’origine relazionale della nostra natura, ovvero del fatto che ognuno di noi, come ogni altro ente dell’universo, fa parte di un tessuto di interconnessioni che mira alla generazione e alla creatività; vive in un universo fertile e bioamichevole, e il suo essere qui non è un incidente casuale e maligno ma la scaturigine di una logica materna (materia mater), con la conseguenza che la nostra vita non è solo nostra, e che la nostra realizzazione si compie mediante la relazione con altri, che il nostro io si nutre dei rapporti con tanti tu capaci insieme di generare il noi; che la nostra individualità insomma fiorisce tanto più quanto più è immersa nella comunione. Occorre quindi una nuova visione, o meglio una nuova cosmovisione, all’insegna dell’interdipendenza dell’essere e del primato ontologico della relazione. In realtà, dico nuova per modo di dire, perché i più sapienti tra noi hanno sempre avvertito questa logica di armonia relazionale da cui veniamo e che ci sorregge. Il buddhismo per esempio ne parla in termini di «genesi interdipendente»,25 e Marco Aurelio dicendo che «la mente dell’universo è sociale».26 Questo mi porta a pensare al mio io non come a una sostanza individuale, a una «monade» avrebbe detto Leibniz, ma come a un processo. Per meglio dire, a un processo sostanziale: a un processo cioè da cui scaturisce una sostanza capace di continuità, di coerenza, di stabilità, di identità, di responsabilità, insomma un io individuale, un soggetto, il quale però, nascendo dalla relazione, sarà tanto più se stesso quanto più si nutrirà di relazioni. Sono consapevole, tuttavia, che questo discorso, per quanto sia coerente con ciò che la scienza ci fa conoscere oggi della natura, non sarà mai tale da essere accettato da tutti. Il che è perfettamente in linea con la storia dell’etica, che non è mai arrivata a una fondazione universale e che mai vi arriverà. L’etica vive della libertà, quindi per definizione non è fondabile. Se ti dimostro in modo incontrovertibile che devi agire così e non così, ti ho tolto la libertà di scelta inchiodandoti alla necessità e quindi ho fatto venir meno la condizione di possibilità dell’etica che risiede precisamente nella scelta in quanto deliberazione su di sé. Esattamente come ha osservato Kant: la libertà è la ratio essendi, la ragione di essere della legge morale. E tale libertà vale anzitutto verso se stessi, attuando ciò che oggi, soprattutto in ambito bioetico,

si usa chiamare autodeterminazione. Fondata sulla libertà, l’etica è destinata per statuto a rimanere infondata e può vivere solo come appello. Ma il punto interessante è che questo appello, infondato e indimostrabile sul piano logico, una volta accolto nell’interiorità diventa per il soggetto molto più forte ed efficace di un assioma di geometria perfettamente fondato e dimostrato. Come mai? Precisamente perché è entrata in gioco la libertà, la quale, se da un lato toglie forza all’etica nella sua origine, dall’altro gliene conferisce in abbondanza nella sua operatività. Questo significa che l’etica non si può fondare direttamente sulla natura, e sulla scienza che la spiega, perché essa nasce precisamente dalla condizione di incertezza che implica una scelta, dal nostro essere al bivio. In questo aveva ragione Hume quando affermava che dall’essere non scaturisce il dover essere, stabilendo quella che dopo di lui si usa denominare «legge di Hume».27 È altrettanto vero però che l’etica non può prescindere da una visione del mondo, perché la sua normatività deve essere coerente con l’essere e con la vita. L’etica riguarda l’agire ma richiede coerenza con l’essere, e in questo senso il dover essere non può che scaturire dall’essere. Da dove altro, se no? Dalla volontà immotivata, dall’arbitrio, dal capriccio? Eccoci quindi di nuovo a un legame tra etica e natura. Solo che la natura a cui mi riferisco qui non è quella di cui parla la scienza nella sua rigorosa oggettività; o meglio, è evidentemente sempre quella, ma interpretata dalla filosofia, il che la costituisce quindi come una filosofia della natura. L’etica non vivrà mai di una deduzione diretta dalla scienza e in questo senso dall’essere non deriva e non può derivare direttamente il dover-essere; vivrà sempre come interpretazione della logica naturale che mette in gioco la libertà perché ognuno di noi risponda a questa domanda radicale: io, che tipo di essere umano voglio essere? Eccoci quindi al vero luogo di fondazione dell’etica: la coscienza personale. Analizzandola, emergono i due più autentici distributori di energia motivazionale: il bisogno di guarigione e il desiderio di bellezza.

114. Prima motivazione decisiva dell’etica: la coscienza di dover guarire Assegnare il primato alla morale individuale rispetto alla morale sociale, ai doveri verso se stessi rispetto ai doveri verso gli altri, significa anzitutto prendersi cura della propria salute integrale, cioè del corpo, della psiche e

dello spirito. Tralascio le malattie del corpo che nella loro evidenza sono sotto gli occhi di tutti e quindi risultano più facili da curare, e richiamo piuttosto l’attenzione sulle malattie della nostra interiorità, convinto come sono che nel profondo della propria interiorità ognuno di noi abbia bisogno di guarigione. Possono essere antiche ferite legate all’infanzia, psicosi recenti, complessi, angosce, fobie, paure, colpe mai confessate, inspiegabili terrori, veri e propri delitti, torrenti impetuosi di rabbia, laghi ghiacciati di gelido odio: quello che è certo è che tutti, nessuno escluso (e chi si escludesse sarebbe il più bisognoso di tutti), abbiamo bisogno di guarigione. Il precetto delfico «Conosci te stesso» si traduce spontaneamente in quest’altro: «Guarisci te stesso». Ecco il vero e proprio imperativo categorico, ben più potente di quello kantiano, che si impone alla coscienza. Questo non significa che non ci si debba occupare degli altri e impegnare per un mondo più giusto; questo significa piuttosto che la prima vera cura concerne il proprio sé, che la prima vera giustizia è quella da introdurre dentro di sé, che la prima vera lotta contro «il capitalismo, la finanza e le multinazionali», oppure contro «i nemici della famiglia» è quella contro il capitalismo, la finanza e le multinazionali, o i nemici della famiglia, istituiti dal proprio ego per far ruotare tutto attorno a sé e generare negli altri la medesima prigionia di cui esso per primo è vittima. Ovvero: vuoi una società migliore? Migliora te stesso. Vuoi una società più giusta? Rendi più giusto te stesso. Vuoi una società più sicura? Vinci la paura e la rabbia che covano dentro di te. Se non si parte dal proprio intimo e non si lavora per trasformarlo, si può girare il mondo intero aiutando milioni di poveri e lottando contro ogni tipo di ingiustizia, si possono salvare migliaia di vite, si possono lanciare campagne sociali e azioni di sensibilizzazione politica, si può dedicare tutta la vita al coniuge, ai figli e agli anziani genitori e magari anche alla parrocchia e alla Caritas, si può fare tutto questo e altro ancora, ma non si giungerà mai a realizzare quella giustizia e quella pulizia interiori che sono il vero obiettivo dell’etica e che si manifestano come gentilezza, pace interiore, armonia, e che generano libertà e quiete negli altri. Per fare ora alcuni esempi concreti: se per rispettare te stesso capisci che devi giungere a rispettare meno tuo padre e tua madre, diciamo a non onorarli più come invece hai fatto finora seguendo alla lettera quanto prescrive il quarto comandamento («onora tuo padre e tua madre»), rispettali

meno, non onorarli più. Se per rispettare te stesso capisci che devi liberarti da una serie di norme e tradizioni che ti vengono dalla tua educazione e che ora sono un peso insopportabile per te, liberatene. Se per rispettare te stesso capisci che il tuo amore è una prigione che ti incatena, liberatene. E fa’ attenzione che se non te ne liberi, fallirai e peccherai, perché il vero compito nella vita è la liberazione dalle imposizioni altrui e il rispetto verso se stessi, perché solo così si possono generare relazioni autentiche. Quando una persona giunge davvero a rispettare se stessa, vince la rabbia e il malessere dentro di sé e scioglie la sua durezza, la sua aggressività, la sua violenza. Se invece rimane sottomessa alle imposizioni ricevute perché non trova il coraggio di ribellarsi, genera progressivamente dentro di sé una rabbia che può condurre a comportamenti aggressivi, talora violenti, persino aberranti. Si pensi agli abusi e alle violenze sui bambini, un comportamento così deviato che segnala all’istante un fallimento totale nell’ascolto delle proprie esigenze personali, vera radice dell’aberrazione manifestata in questi rapporti con gli altri. La salute di un essere umano è il risultato di una complessa armonia che scaturisce dall’integrazione delle tre dimensioni in cui l’energia vitale si esplica, cioè il corpo, la psiche e lo spirito. Quando è veramente tale, la salute umana riguarda tutte e tre queste dimensioni e si può definire integrale. La salute fisica dona vitalità; la salute psichica, serenità e allegria; la salute spirituale, significato. Non ci sono separazioni nette tra questi tre diversi stati della salute, essendo essi tutti fortemente correlati l’uno con l’altro, così che un malessere fisico provoca spesso un malessere psichico, e questo un malessere spirituale, e viceversa. Tutto si relaziona, tutto è intrecciato, e tuttavia questo tutto non è tutto uguale: il corpo non è la psiche, la psiche non è il corpo, e lo spirito non è né il corpo né la psiche. Allo stesso modo la vitalità della salute fisica non è la serenità della salute psichica, e il significato della salute spirituale non è riducibile né alla vitalità né alla serenità e all’allegria. Sulla salute fisica desidero sottolineare che la sua cura, a partire dall’alimentazione e dal movimento, è la base del discorso etico. Quando mi capita di ascoltare qualcuno che parla di etica o di spiritualità, prima ancora di fare attenzione alle sue parole, guardo il suo corpo e il suo volto, e ascolto il tono e il timbro della sua voce. Per quanto riguarda la salute psichica, essa coincide con ciò che Jung denominava «individuazione», vale a dire con la maturazione e il

raggiungimento della individualità, con lo stare bene in se stessi e con se stessi. Si ottiene quando si accetta il proprio corpo, la propria intelligenza, la propria famiglia, la propria storia, quando si dice sì a quello che siamo. Per alcuni è il lavoro di tutta una vita, per altri è un dono ottenuto da subito, una specie di equilibrio naturale di chi sta bene con se stesso in modo spontaneo, con quella beatitudine naturale che contraddistingue gli animali e le piante che sono sempre «tranquilli e sereni come un bimbo svezzato in braccio alla madre»,28 laddove la madre è la natura. Un essere umano dotato di salute psichica è uno che ha raggiunto quiete e serenità naturale. Come definire la salute spirituale? Prima di tutto occorre ovviamente capire a quale concreto fenomeno ci si riferisce dicendo spirito e io, come ho argomentato in precedenza, sostengo che tale termine sia stato coniato dalla mente per designare la sua possibilità di libertà. Nel corpo non esiste energia libera che permette libertà, nella psiche intesa come carattere nemmeno, tuttavia in alcuni momenti noi possiamo essere liberi (cioè consapevoli, creativi e responsabili) e per denominare il supporto che ci consente di approdare a tale dimensione si è parlato tradizionalmente di spirito. Spirito quindi come energia libera. Ma che cos’è allora la salute spirituale? Ognuno di noi è le sue relazioni, le quali nell’ordine sono: 1) relazione con gli altri esseri umani; 2) relazione con se stessi; 3) relazione con il mondo in quanto natura e in quanto storia; 4) relazione con la totalità dell’essere o totalità dell’energia da cui veniamo e di cui siamo parte. Ebbene, la salute spirituale riguarda la relazione della nostra interiorità con il mondo nel suo insieme, con il senso dell’essere qui, dell’essere nati e del dover morire, con il Destino. È la relazione che la nostra libera coscienza intrattiene con il senso del mondo, visibile e invisibile, con la totalità dell’essere o totalità dell’energia che io chiamo Grande E (Grande Essere o Grande Energia). Questa relazione con la Grande E ha un potere organizzativo e sintetico, nel senso che collega (proprio secondo il movimento fondamentale evocato dal termine religio) l’io agli altri e al mondo. Per riprendere la terminologia cristiana tradizionale, in base alla relazione con la Grande E capisco me stesso come figlio, gli altri come fratelli, il mondo come cosmo, il principio costitutivo del mondo e di tutte le cose come Padre. Il bisogno della spiritualità sorge quando il soggetto (che sta bene fisicamente e psichicamente) scopre dentro di sé un’ulteriore quota di energia libera che possiamo chiamare libertà e che lo porta a chiedersi: e di questa, cosa ne faccio? Come la uso? A chi la consegno? A chi la raccordo? E io chi

sono? E di chi sono? La salute spirituale offre a queste domande una risposta che nel suo insieme si chiama significato. O forse meglio, senso, da intendersi nella triplice accezione del termine: 1) significato; 2) sensazione, sentimento; 3) direzione. La salute spirituale offre un senso alla vita, è l’acquisizione del senso della vita. E per ottenere questo triplice terapeutico senso l’etica in quanto pratica del bene e della giustizia è la via maestra. Perché quindi devo fare il bene? Per guarire. E come guarisco? Facendo il bene. Ma non è un circolo vizioso? No, semmai è un circolo virtuoso; o meglio, una danza.

115. Seconda motivazione decisiva dell’etica: la coscienza estetica Il concetto di senso è decisivo anche per la dimensione estetica, visto che il termine greco da cui deriva estetica significa proprio «sensazione». Ebbene, l’estetica costituisce la fonte della motivazione etica perché trasmette questa sensazione o sentimento fondamentale: vi è qualcosa di più importante di me. Il motivo decisivo alla base di quelle pratiche di vita tradizionalmente dette virtù è il sentire emotivamente che nella vita non tutto si riduce al mio benessere, tanto meno al mio successo, ma che al contrario il mio vero benessere e il mio vero successo (che in questo caso occorre piuttosto chiamare realizzazione) dipendono dal mio aderire a uno scopo più importante di me. Tale sentire viene avvertito da alcuni e da altri no, senza che si riesca a spiegare perché (di solito i primi tendono a ricondurlo a un’attrazione speciale, i secondi a smontarlo). Ma chi ne fa esperienza non ha dubbi, sente che la sua vita si compie solo se si spende per questa dimensione più grande. Questo qualcosa più grande dell’ego, e che coinvolge l’ego a tal punto da smuoverlo e farlo uscire da sé, si può chiamare propriamente super-ego. Questo termine venne coniato da Freud con un’accezione prevalentemente negativa per esprimere l’inquietudine e i complessi che la presenza incombente di un’istanza superiore genera nell’ego provocando timore e tremore e tutti i complessi che ne derivano. Una volta superata però la prospettiva eteronoma e abbracciata la prospettiva autonoma, il termine superego può risultare efficace per esprimere l’auto-superamento o autotrascendenza di cui vive necessariamente l’esperienza etica. Io chiedo: che merito o demerito ha una persona della sua tanta o poca

intelligenza, della sua tanta o poca forza fisica, della sua tanta o poca bellezza, del suo tanto o poco talento musicale e di altre qualità che provengono dalla nascita? Di merito e di demerito, e quindi di effettivo valore individuale, ha senso parlare solo quando si considera il concreto utilizzo delle doti ricevute in dono dalla vita. Queste doti, altresì dette talenti, possono essere utilizzate o a favore dell’ego, rispetto a cui nulla viene considerato superiore, oppure a favore di una dimensione più grande e che come tale sta sopra l’ego, super ego, rispetto alla quale l’ego si mette in ascolto. L’etica e le virtù vivono quindi di questo sentire fondamentale: c’è qualcosa più importante di me (del mio piacere, del mio potere, del mio interesse, del mio successo…) a cui io devo prestare servizio. Esiste, dicevano i latini, un officium. Kant lo chiamava «sentimento del dovere». Uno guarda alla vita, considera il suo farne parte, pensa come doverla vivere, e giunge alla conclusione che non è qui semplicemente a fare quanto gli va e come gli va, ma a relazionarsi a qualcosa di più importante del suo semplice desiderio, e quindi in un certo senso a prestare servizio, a servire, a lavorare, a dare una mano per l’edificazione di una dimensione più grande. Tale dimensione è stata denominata in vari modi dagli esseri umani che ci hanno preceduto: Dio, Dei, regno dei cieli, pólis, res publica, patria, partito, società futura, utopia, ricerca, bellezza, arte, natura, amore, bene, giustizia… non senza intrecciare tra loro alcune di queste realtà a formare un più ampio insieme di valori e di obiettivi ai quali dedicare la vita. Ma a questo livello del discorso i nomi non hanno molta importanza, ciò che più conta è il sentimento di non essere in funzione di sé, di non essere riducibile all’equazione esistenziale: Io = Io. Per quanto mi riguarda, io sostengo che l’etica va costruita sulla base del sentimento di una dimensione o di un compito più importante dell’ego, e che per questo può essere collocato dalla coscienza sopra l’io, super ego. Questa costruzione non va intesa però all’insegna del dovere, come avviene in genere nell’etica religiosa, bensì all’insegna della bellezza. Io sostengo un’etica basata sul fascino che proviene dalla bellezza. È l’esperienza estetica ciò che fonda la prassi etica: essere giusti è la modalità più appropriata per essere belli. Di quale bellezza? Io rispondo indicando la bellezza della giustizia, della lealtà, della sincerità, dell’amicizia, dell’amore. Giustizia, lealtà, sincerità, amicizia, amore, sono tutti concetti relazionali, nel senso che superano il

piano dell’ego che tende a riportare tutto sempre e solo a sé e che per questo è tendenzialmente egoista, e raggiungono una visione relazionale nella quale l’ego si pensa come parte di un sistema e quindi in relazione con altro da sé, con altri soggetti, umani e non, verso cui mira a relazionarsi in modo giusto, leale, sincero, amichevole, amorevole. Non si tratta però di passare così da egoista ad altruista, perché in realtà praticando l’etica il primo a guadagnare veramente è proprio lo stesso ego. Guadagna perché si supera e superandosi si sgonfia, e sgonfiandosi dimagrisce, e dimagrendo acquisisce più visuale, e acquisendo più visuale impara a vedere il mondo anche da altri punti di vista, guadagnando così in intelligenza, comprensione e operatività. L’ego che si supera non scompare, ma si trasforma ottenendo più essere. Lo si percepisce dal suo sguardo che emette una luce diversa, più pulita, più calda, più gioiosa e al contempo più pacata. È solo superando la ristrettezza di Io = Io, è solo ponendo qualcosa di più importante di sé, è solo sulla base di questa operazione che l’Io può guarire. Questa operazione di chi pone qualcosa come più importante di sé è stata chiamata dalle religioni conversione. È conosciuta anche in filosofia, Platone ne parla in termini di periagogé, letteralmente «inversione di marcia».29 Dante ne parla in termini di «vita nuova», altri la definiscono «rinascita», «risveglio», «illuminazione». In conclusione, alla domanda radicale che sta alla base dell’etica: «Perché devo compiere ciò che è giusto?». La mia risposta è: perché ti abbellisci. E alla domanda complementare sul perché non compiere ciò che è ingiusto, la mia risposta è: perché ti abbruttisci. Senza trascurare il potere terapeutico del bene e della giustizia illustrato in precedenza, sostengo che il principale fondamento della motivazione etica è estetico, in quanto si basa sulla sensazione e sul sentimento di avere a che fare con qualcosa di più importante e di più bello di sé.

CONCLUSIONE

Immagino che a molti sia capitato di sentirsi rivolgere con toni più o meno indignati questa domanda: «Ma mi stai facendo la morale?». E immagino che tutti si siano affrettati a rispondere: «No, ma figurati, la morale! A te! Non mi permetterei mai!». Ebbene, io con questo libro ho voluto fare la morale. Ho voluto farla, perché credo sia necessario che qualcuno riprenda a fare la morale (o forse meglio, a rifare la morale), se non vogliamo continuare a decadere, per non dire a precipitare. Ho fatto la morale per cercare di ridare forza al morale, perché la morale e il morale, per quanto tra loro diversi, sono strettamente connessi, e quanto più c’è morale al femminile, tanto più c’è morale al maschile. Ho fatto la morale sulla base di due convinzioni: 1) che abbiamo una grande urgenza di tornare a pensare alla nostra vita dal punto di vista del primato dell’etica; 2) che siamo in grado di farlo perché l’essere umano è un essere capace di migliorare. In questa operazione il mio principale punto di riferimento è stata la nostra ricchissima tradizione occidentale. Questa nostra tradizione noi la dobbiamo amare, e prima ancora conoscere; non si tratta di un semplice omaggio al passato, ne va del nostro futuro, perché solo in essa possiamo ritrovare gli strumenti spirituali che ci possono consentire di affrontare le immani sfide che ci attendono. Conoscere e amare la nostra tradizione non significa però attribuirle un primato, meno ancora una supremazia, meno ancora trasformarla in supporto di un’ideologia suprematista. Anche perché non dovremmo mai dimenticare quanto sia stato fatale nel passato l’errore di ritenere la propria tradizione in materia etica superiore alle altre. Come dimostra l’alta consonanza con altre tradizioni etiche, non c’è nessun primato, c’è semmai una peculiarità. In questo libro ho parlato della coscienza e della virtù; ho analizzato le quattro virtù cardinali; ne ho elencate altre non direttamente riconducibili a queste quattro e tuttavia per nulla trascurabili; infine sono giunto a discutere il cuore dell’etica, la motivazione. Di quest’ultimo passo offro ora un

riassunto, vista la sua importanza. Lungo la storia sono state sostanzialmente cinque le fonti della motivazione etica: religione, natura, tradizione, ideologia, coscienza. La tradizione e l’ideologia sono superate, rimangono le altre tre. La religione, in particolare quella di stampo abramitico, pone la sorgente della motivazione etica fuori dal soggetto, secondo un modello di etica eteronoma. Si tratta della medesima logica alla base del modello di etica più diffuso ai nostri giorni, spesso privo di espliciti riferimenti religiosi e tuttavia animato dalla medesima logica eteronoma esplicitata al meglio dall’importanza in sede etica del termine altro: l’etica consiste nell’essere giusti con gli altri, nel fare del bene agli altri, con il risultato che l’Isacco sacrificale sono io. Il cammino verso l’autonomia etica parte dalla natura, dal ritrovare in essa e nella sua logica da cui veniamo la motivazione dell’agire etico, nonché la sua norma fondamentale. Non è possibile però giungere a una derivazione diretta e lineare dell’etica dalla natura, occorre sempre passare attraverso la coscienza e la sua interpretazione. Eccoci quindi al punto decisivo: la coscienza. Qui nasce la sorgente della motivazione etica più autentica. Parlare di coscienza significa raggiungere l’autonomia, nel senso che ognuno può ritrovare dentro di sé la motivazione per praticare il bene e la giustizia. Tale motivazione è duplice: terapeutica ed estetica. Consiste cioè nella salute e nella bellezza che l’etica conferisce a chi la pratica genuinamente. Perché quindi devo essere giusto? Per essere in salute e per diventare bello, una bella persona. Parlando di estetica, si rinnova l’apertura a qualcosa di più grande del soggetto, a una prospettiva che il soggetto percepisce come più importante di sé, anche se non nel segno della eteronomia, perché il nómos dell’agire etico rimane sempre e inevitabilmente mediato dalla coscienza personale. Dicendo queste cose sto parlando di Dio, proprio nel senso logico e fisico del termine. Dio cioè non come una persona (magari lo è, magari non lo è, nessuno lo sa), ma come punto che attrae, come centro di gravità, come Idea, per riprendere il termine caro a Platone e Kant (quest’ultimo pregava quanti hanno a cuore la filosofia di «adottare l’espressione idea nel suo significato originario»).1 Esattamente questa è la funzione dell’Idea: l’Idea irrompe nella mente, la vince, la conquista, perché dotata di più forza, di più luce, di più informazione. Ed esattamente questo è il ruolo logico e fisico di Dio. Gli esseri umani, quando hanno sperimentato e quando sperimentano il divino, incontrano la forza attrattiva e ordinatrice dell’Idea.

L’Idea irrompe nella mente. Il cristianesimo parla di metánoia, il buddhismo di bodhi, il buddhismo zen di satori, Platone di periagogé, altre spiritualità di altri modi, ma quello che è decisivo non è la terminologia, ma il fatto dell’esperienza reale: e questa è l’irruzione dell’Idea, da cui si generano ordine, gerarchia, disposizione. L’Idea dà stabilità all’ego e lo ordina. Lo subordina, e di conseguenza lo ordina. Proprio subordinandolo, gli conferisce ordinamento. Nel subordinare sta l’ordinare. Senza subordine, non c’è ordine, ma solo disordine. Chi vuole fare di se stesso il centro subordinando tutto a sé, si taglia fuori dalla logica del mondo. È essenziale comprendere che l’ordine scaturisce dal subordine, l’ego dal superego. È la logica della religio: mi lego, mi collego, mi relaziono in modo serio e permanente, mi voto a un’energia più grande della mia, faccio voto a una forza più grande della mia, a una luce più grande della mia, a un amore più grande del mio. E facendolo ottengo più energia, più forza, più luce, più amore. Non lo faccio per guadagnarci, lo faccio per amore, perché vengo attratto. Ma facendolo, guadagno. Guadagno in stabilità e motivazione. Le dinastie reali, le nobili casate, i cardinali e i vescovi hanno un proprio stemma con il relativo motto. Un motto è finalizzato a dare l’orientamento complessivo della vita, anzi, come dice il termine che rimanda a moto, motore, mozione, movimento, è finalizzato prima ancora a suscitare energia dando spinta e vitalità. Il motto dà energia, e tutti nella vita abbiamo bisogno di energia. Ne ha bisogno il corpo, che la trae dal nutrimento; ne ha bisogno la psiche, che la trae dai legami affettivi, dall’amicizia, dai libri, dai film, dai viaggi; e ne ha bisogno anche lo spirito in quanto nostra più intima coscienza. Da dove trae energia la libera coscienza? Ognuno deve rispondere da sé, e la sua risposta mostrerà quali sono i suoi ideali, perché è l’ideale la fonte di energia della coscienza libera. Per questo io penso che ognuno debba configurare per se stesso un motto e un relativo stemma, anche se non è di sangue blu né diventerà mai vescovo. Vi sono alcuni motti celebri: Ora et labora dei monaci benedettini; Gott mit uns dei monaci teutonici e poi dell’esercito tedesco durante il Terzo Reich; Pax et bonum dei francescani; Liberté, Égalité, Fraternité della rivoluzione francese; In God We Trust degli Stati Uniti d’America; I care di don Lorenzo Milani coniato in diretta contrapposizione al Me ne frego delle milizie fasciste. Coniare per se stessi il proprio motto e configurare uno stemma su cui collocarlo può essere un esercizio utile per capire chi siamo. Già, chi siamo? Possiamo decidere chi siamo? L’abbiamo mai potuto

decidere? Per quanto tempo possiamo ancora almeno interrogarci al riguardo? La post-umanità o trans-umanità verso cui avanziamo, chissà se inesorabilmente oppure no, ci porta a chiederci se avremo ancora una coscienza morale, ovvero se avremo ancora quella disposizione caotica di una parte della nostra energia vitale che denominiamo di solito libertà; oppure se una macchina, una piccolissima macchina quasi invisibile detta microchip inserita all’interno del nostro cervello o chissà dove altro nel nostro corpo, prenderà le decisioni per noi, e noi non avremo più il problema di decidere, perché prima ancora non ne avremo la capacità. Io ovviamente non lo so e non intendo far paura a nessuno ponendo questa domanda, anche perché la paura cova già dentro ognuno di noi. Io vorrei solo ribadire che la capacità di bene e di giustizia è diventata una necessità politica. Il bene (se qualcuno preferisce altri nomi, può dire giustizia, virtù, rettitudine, bellezza interiore…) rappresenta certamente la fioritura del singolo individuo. Ma qui non si tratta solo del singolo individuo. Nella capacità di fondare il primato del bene nella mente contemporanea è in gioco qualcosa di molto più grande del singolo: è in gioco il futuro stesso dell’umanità. Non vorrei risultare enfatico con questa espressione, ma io temo che la sovrappopolazione destinata a crescere sempre più, unita alla limitatezza delle risorse destinate a essere sempre meno, ci pongano davanti a un bivio: o diventare migliori o scomparire. O diventare più responsabili o annegare in un bagno di sangue. Si pensi all’acqua dolce, ai ghiacciai delle nostre montagne che ormai non esistono quasi più, ai boschi e alle foreste, alla terra da coltivare, si pensi a tutti quegli spazi necessari al vivere che formano quella dimensione che in tedesco si chiama Lebensraum, «spazio vitale», espressione utilizzata da Adolf Hitler per invadere la Polonia il 1o settembre 1939. Questo ci dovrebbe insegnare che lo spazio vitale è stato all’origine della guerra più spaventosa della storia, così come di molti altri conflitti precedenti e successivi, si pensi all’invasione cinese del Tibet nel 1959, dovuta essenzialmente alle grandi sorgenti di acqua dolce presenti in quel territorio. O diventiamo migliori, cioè più responsabili, o finiremo per trasformarci in tante piccole e grandi bestie feroci che si divorano tra loro. Un certo incattivimento si sta già producendo attorno e dentro di noi, ma potrebbe essere solo l’inizio. Contro di esso non esistono medicine sicure, ma la via su cui incamminarci non può essere che quella della conoscenza e dell’etica: della scienza che sa e della saggezza che sa come usare ciò che sa. L’unione

delle due, scienza + saggezza, forma la sapienza, ovvero la scienza responsabile. Siamo a quanto Hans Jonas denominava principio responsabilità. Essere responsabili significa rispondere. L’etica e le virtù che la concretizzano sono una risposta al grido di allarme che sale dal nostro mondo e dalla nostra interiorità. Ben lungi dall’essere qualcosa di superfluo o di semplicemente accessorio, rappresentano uno strumento essenziale per non attualizzare a livello di massa il classico detto homo homini lupus. Vorrei concludere parlando dell’amore perché sono convinto che la vera questione a cui un’esistenza umana cerca risposta, ben più che l’indipendenza, sia l’appartenenza. Spendersi per qualcosa di più grande di sé, appartenere a qualcosa di più grande di sé, ovviamente a condizione che questo qualcosa non risulti tale da mortificare l’io ma lo compia e lo faccia fiorire: questa è la missione della vita. Per questo l’amore vero è così appagante, e non c’è nulla che lo sia di più per un essere umano: perché compie l’io superandolo, inserendolo in qualcosa di più grande e di più importante, e al contempo rafforzandolo. L’amore vero in quanto relazione totale e gioiosa fa sì che la propria solitudine come isolamento venga vinta, e al contempo che la propria solitudine come senso del sé venga rafforzata. L’amore è così decisivo perché è il fondamento della realtà. Che lo sia, è convinzione dell’antica sapienza da cui proviene la nostra civiltà: la convinzione del cristianesimo, e prima ancora di Pitagora, di Empedocle, di Platone, di Aristotele, degli stoici. A proposito di quest’ultima tradizione ha scritto Marco Aurelio: «La Terra ama la pioggia, la ama anche l’Etere venerabile; e il Mondo ama fare ciò che deve accadere. Io dico al Mondo: Io amo insieme a te».2 Il buddhismo e il taoismo, come ho più volte mostrato, concordano con tale visione. In questo libro ho sostenuto che la fondazione dell’etica è ultimamente estetica perché si basa sul fascino che la bellezza suscita in chi l’avverte dentro di sé. Questo fascino si chiama amore. Tale bellezza che ci affascina e ci attrae è la medesima che ha fatto il mondo, anzi che lo va facendo giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, la bellezza in quanto armonia, in quanto principio di organizzazione che ha fatto sì che dal primo gas primordiale scaturisse la forza della vita, lo splendore della mente, il calore del cuore. Questo disegno grandioso sale faticosamente dal basso e per questo produce anche tragedie ingiustificabili, ma comunque sale; e in chi lo percepisce esso produce un sentimento variegato di gioia e di malinconia, sorgente della creatività artistica e spirituale, e anche dell’etica e delle virtù in quanto forza

di essere migliori.

APPENDICE 1 QUATTRO CLASSICHE SUDDIVISIONI-ELENCAZIONI DELLE VIRTÙ

Aristotele Aristotele approfondisce l’opera di Platone presentando una suddivisione delle virtù in etiche e dianoetiche, cioè virtù morali e virtù tradizionalmente denominate intellettuali ma che io preferisco rendere con spirituali, come dopo argomenterò. Le prime sono 14 secondo l’Etica Eudemia e 12 secondo l’Etica Nicomachea, le seconde sono sempre 5. Le virtù etiche rappresentano le disposizioni che guidano i desideri e le passioni, si potrebbe dire la spinta vitale, e quindi necessariamente irrazionale, alla base di ogni essere umano; in una parola sola, il carattere. Le virtù dianoetiche riguardano la parte direttiva e spirituale dell’essere umano; in una parola sola, la coscienza. Delle virtù etiche Aristotele individua la logica nel giusto mezzo da cogliere tra due estremi: tra un difetto che non fa raggiungere quanto dovuto e un eccesso che lo travalica; sicché la qualità ontologica essenziale della virtù etica è la misura. Aristotele non è invece altrettanto preciso nell’individuazione e nell’elencazione delle singole virtù etiche, perché le presenta in un modo nell’Etica Eudemia, dove ne individua 14 secondo un certo ordine, e in un altro modo nell’Etica Nicomachea, dove ne individua 12 secondo un altro ordine. Solitamente si privilegia l’elenco dell’Etica Nicomachea perché in ambito etico è l’opera più ampia e sistematica, però per l’elencazione delle virtù etiche io preferisco rifarmi all’Etica Eudemia che in questo specifico caso trovo più completa e più chiara. Le 14 virtù etiche presentate da Aristotele nell’Etica Eudemia sono le seguenti: 1. 2. 3. 4. 5.

Mitezza (medio tra Irascibilità e Indifferenza); Coraggio (medio tra Temerarietà e Viltà); Pudore (medio tra Esibizionismo e Timidezza); Temperanza (medio tra Intemperanza e Insensibilità); Indignazione (medio tra Invidia e una virtù cui Aristotele non trova

6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.

nome e che potrebbe dirsi apatia, disinteresse, freddezza); Guadagno (medio tra Lucro come eccessiva cura per gli affari e Perdita come incapacità negli affari); Generosità (medio tra Prodigalità e Avarizia); Sincerità (medio tra Millanteria e Auto-deprezzamento); Amabilità (medio tra Adulazione e Ostilità); Serietà (medio tra Compiacenza e Superbia); Fermezza (medio tra Mollezza e Durezza); Fierezza (medio tra Presunzione e Sottomissione); Magnificenza (medio tra Prodigalità e Meschineria; Saggezza (medio tra Furbizia e Ingenuità).1 Le virtù etiche secondo l’Etica Nicomachea sono le seguenti:

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

Coraggio; Temperanza; Generosità; Magnificenza; Fierezza; Virtù senza nome, medio tra disinteresse per gli onori e brama di onori, assente in Etica Eudemia; Mitezza; Sincerità; Senso dell’umorismo, assente in Etica Eudemia, medio tra buffoneria e seriosità, tra chi ride sempre e chi non ride mai; Amabilità; Pudore; Indignazione.

A questo elenco va aggiunta la Giustizia cui è dedicato tutto il quinto libro dell’Etica Nicomachea. Le virtù dianoetiche si chiamano così sulla base del termine diánoia che significa «facoltà di pensare» o anche «intelletto» e che indica quell’attività mediante cui noi, oltre a essere un fascio di impulsi e di desideri, possiamo essere anche capacità di controllo e di governo di tali impulsi e desideri. Tali virtù dianoetiche riguardano quindi la parte direttiva e spirituale dell’essere umano. Sono tradotte solitamente dagli studiosi come virtù intellettuali, ma

io ritengo tale denominazione inadeguata perché l’aggettivo intellettuale rimanda all’ambito dello studio e della produzione culturale, dando così l’impressione che tali virtù riguardino solo gli intellettuali e coloro che hanno intenzione di diventarlo, mentre esse riguardano ogni essere umano in quanto dotato di capacità di pensare e di decidere, in quanto dotato di coscienza; per questo le denomino intellettive o, come preferisco, spirituali. Aristotele le espone in modo identico (anzi con lo stesso testo) nell’Etica Nicomachea e nell’Etica Eudemia. Esse sono: 1. 2. 3. 4. 5.

Arte, nel senso di tecnica o abilità, cioè saper suonare, disegnare o che altro; Scienza; Saggezza; Sapienza; Intelletto.2

Hinduismo Dalla più antica Upanis.ad (3 virtù): «Proprio queste tre virtù bisogna praticare: il dominio di sé, il far elemosina, la compassione».3 Dal Mahābhārata (12 virtù): «La giustizia, la veracità, il controllo di sé, l’ascesi, l’assenza di invidia, la modestia, la pazienza, l’assenza di malevolenza, il sacrificio, la generosità, la fermezza, la conoscenza dei testi sacri: queste sono invero le dodici osservanze religiose del brahmana. E colui che possegga in modo eccellente queste dodici virtù può dominare tutta questa terra».4 Più avanti si afferma che «la pazienza è considerata la suprema virtù»,5 mentre proseguendo ancora si incontra quest’altra affermazione: «L’elemosina, i sacrifici, il rispetto dei buoni, lo studio della scienza sacra, la rettitudine, tutto ciò costituisce il dharma supremo, efficace in questo mondo e nell’altro».6 Dalla Bhagavadgītā (elenco di 26 virtù): «Assenza di paura, purezza di cuore, costanza nello yoga e nel conoscere, liberalità, dominio di sé, sacrificio, studio dei testi sacri, austerità, rettitudine, non nuocere ad alcuno, veracità, assenza di ira, rinuncia, tranquillità, avversione alla calunnia, compassione per gli esseri, assenza di cupidigia, tenerezza, pudore, ponderazione, energia spirituale, pazienza, fermezza,

purezza, lealtà, assenza di arroganza: questo sono le virtù di colui che è riservato a una sorte divina».7

Buddhismo La tradizione del buddhismo mahayana o Grande Veicolo ha stilato un elenco delle perfezioni del Bodhisattva, in sanscrito, o Bodhisatta, in pali (ovvero di chi ha conseguito la pienezza dell’illuminazione) dette pāramitā. Esse possono essere accostate alle virtù formulate in Occidente. Scrivono gli studiosi: «Le pāramī o pāramitā sono le perfezioni nelle quali il bodhisatta deve esercitarsi. Ne esistono varie liste; quella più frequente nei testi pāli comprende: 1 la generosità (dāna), 2 la sensibilità morale (sila), 3 il lasciar andare (nekkhamma), 4 la saggezza (panna), 5 l’energia (viriya), 6 la pazienza (khanti), 7 la veracità (sacca), 8 la ferma determinazione (adhitthana), 9 l’amore altruistico (mettā) e 10 l’equanimità (upekkha)».8 Un elenco analogo riguarda le quattro Dimore divine o Brahmavihāra: gentilezza amorevole verso tutti gli esseri (in sanscrito maitrī, si noti la medesima radice di mater; in pali mettā); 2. compassione verso i sofferenti (karun.ā, medesima radice di caritas); 3. gioia compartecipe (mudita, medesima radice di medium e di medicina); 4. equanimità (upeks.a). 1.

Riporto al riguardo un testo tratto dal Canone pali: «Fratelli miei, esistono quattro elementi incommensurabili. A partire dal proprio spirito impregnato di bontà (di compassione, di gioia compartecipe, di equanimità), il monaco fa luce prima su una direzione, poi su un’altra, poi su un’altra ancora e poi tutt’intorno. Sentendosi legato a tutto, ovunque rischiara il mondo intero con una mente che irradia bontà (compassione, gioia compartecipe, equanimità), con una mente vasta, superiore, illimitata, liberata da ogni odio e da ogni rancore».9

Cristianesimo La tradizione cristiana distingue le virtù in cardinali e teologali. Le virtù

cardinali sono quattro come i punti cardinali e sono presenti in ogni essere umano che prenda sul serio la dimensione morale dell’esistenza. Le elenco in greco, in latino e in italiano: 1) phrónesis, prudentia, saggezza; 2) dikaiosýne, iustitia, giustizia; 3) andreía, fortitudo, fortezza; 4) sophrosýne, temperantia, temperanza. Le virtù teologali sono state denominate così perché secondo la dottrina spettano specificamente ai credenti e sono: 1) pístis, fides, fede; 2) elpís, spes, speranza; 3) agápe, caritas, carità. Abbiamo quindi un totale di sette virtù. A queste virtù vengono spesso contrapposti sette vizi a rappresentare il comportamento esattamente contrario. Essi vanno distinti dai cosiddetti «sette vizi capitali» (che sono: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia) perché vi coincidono solo in parte. Il quadro d’insieme delle sette virtù e dei vizi antitetici che ne scaturisce, presentato secondo la classica denominazione latina, è il seguente: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Fides – Infidelitas; Spes – Desperatio; Caritas – Invidia; Prudentia – Stultitia; Iustitia – Iniustitia; Fortitudo – Incostantia; Temperantia – Ira.

La più celebre raffigurazione pittorica al riguardo la si deve a Giotto, nella Cappella degli Scrovegni a Padova, all’inizio del Trecento. Segnalo inoltre due elenchi significativi della tradizione cristiana che riguardano l’azione dello Spirito Santo e quindi le virtù umane che ne scaturiscono. Di tale azione divina la tradizione distingue i doni, che arrivano gratuitamente sul soggetto, e i frutti, che invece scaturiscono dal soggetto fecondato precedentemente dai doni. Il Catechismo cattolico attuale presenta i doni come «disposizioni permanenti che rendono l’uomo docile a seguire le mozioni dello Spirito Santo» (art. 1830), e i frutti come «perfezioni che lo Spirito Santo plasma in noi come primizie della gloria eterna» (art. 1832). I sette doni dello Spirito Santo sono: 1.

Sapienza;

2. 3. 4. 5. 6. 7.

Intelletto; Consiglio; Fortezza; Scienza; Pietà; Timor di Dio (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, artt. 1830 e 1845). I dodici frutti dello Spirito Santo sono:

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

Amore; Gioia; Pace; Pazienza; Longanimità; Bontà; Benevolenza; Mitezza; Fedeltà; Modestia; Continenza; Castità

(cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 1832). L’elenco dei dodici frutti dello Spirito Santo viene tradizionalmente attribuito a san Paolo, ma questi nel testo tradizionalmente indicato ne presenta solo nove. Ecco il testo: «Il frutto dello Spirito Santo è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Galati 5,22). Il numero dodici lo si deve alla traduzione latina della Bibbia detta Vulgata risalente al IV-V secolo, il cui testo è il seguente: «Fructus spiritus est caritas, gaudium, pax, patientia, benignitas, bonitas, longanimitas, mansuetudo, fides, modestia, continentia, castitas» (Ad Galatas 5,22-23).

APPENDICE 2 LA REGOLA D’ORO

La cosiddetta Regola d’oro è il principio morale fondamentale presente in pressoché tutte le grandi tradizioni spirituali dell’umanità ed esemplificata per lo più dalla seguente formula: «Non fare agli altri quello che non vuoi che gli altri facciano a te». Riporto di seguito le principali formulazioni, diverse nella forma, identiche nel contenuto e nello spirito, che riprendo da varie fonti, tra cui una pubblicazione della Stiftung Weltethos, la «Fondazione per l’etica mondiale» fondata nel 1995 in Germania;1 il volume La Regola d’oro come etica universale;2 il volume di Jeffrey Wattles, The Golden Rule;3 le voci Golden Rule e Goldene Regel rispettivamente dell’edizione inglese e tedesca di Wikipedia, e altre mie letture.

Zoroastrismo Si deve a questa tradizione quella che probabilmente è la più antica versione scritta della Regola. Essa recita: «Quello che è bene per tutti e per ciascuno, per chiunque, quello è bene per me […]. Quello che io ritengo sia buono di per sé, io lo devo per tutti. Solo la Legge Universale è vera Legge».4

Classicità Pittaco, uno dei Sette sapienti della Grecia antica: «Ciò che disapprovi nel tuo vicino, non farlo tu stesso».5 Platone, a proposito di un ordinamento per le reciproche transazioni: «Nessuno tocchi per quanto possibile le mie ricchezze […]; allo stesso modo io, se ho una mente assennata, agirò nei confronti delle cose altrui».6 Seneca: «Mettiamoci nella condizione in cui è la persona con la quale ci adiriamo e vedremo che è una falsa valutazione di noi stessi a

renderci iracondi».7

Spiritualità di origine indiana Hinduismo «Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te; e desidera per gli altri quello che desideri e aspetti per te stesso […]. Bada bene, questo è il tutto del Dharma.»8 «Quando così si vedono, grazie al sé, tutti gli esseri come uguali al sé, si diventa equanimi verso ogni cosa e si raggiunge il brahman, lo stadio supremo.»9 Giainismo «Come il dolore non piace a te, così non piace agli altri. Conoscendo questo principio di uguaglianza, tratta sempre gli altri con rispetto e compassione.»10 Con estrema attenzione verso tutte le forme di vita: «Uccidere un essere vivente è come uccidere se stessi; provare compassione per un essere vivente è come provarla per se stessi. Chi desidera il proprio bene, dovrebbe evitare di causare qualsiasi danno a un essere vivente».11 «L’uomo dovrebbe comportarsi con indifferenza verso le cose mondane e trattare tutte le creature del mondo come egli stesso vorrebbe essere trattato.»12 Buddhismo «Una condizione, che non è gradita o piacevole per me, non lo deve essere neppure per lui; e una condizione che non è gradita o piacevole per me, come posso io imporla a un altro?»13 «Tutti temono il bastone, tutti sono atterriti dalla morte. Considerando gli altri come se stesso, un uomo non dovrà uccidere né far uccidere.»14 «Tutti temono il bastone, a tutti è cara la vita. Considerando gli altri come se stesso, un uomo non dovrà uccidere né far uccidere.»15

Spiritualità di origine cinese Confucianesimo «Il Maestro [Confucio] disse: “Maestro Zeng, lungo la mia Via vi è un filo che tutto unisce”. Il Maestro Zeng rispose: “Capisco”. Quando il Maestro se ne andò, gli altri domandarono: “Cosa intendeva dire?”. Il Maestro Zeng rispose: “La Via del Maestro consiste nell’agire con la massima lealtà e non imporre agli altri quel che non si desidera per sé.»16 «Zigond domandò: “Esiste forse un adagio che possa guidare la nostra condotta per tutta la vita?”. Il Maestro disse: “Vi è l’adagio ‘Non imporre agli altri quello che non desidereresti per te stesso’”.»17 «Lealtà ed empatia non sono lontane dalla Via; non imporre agli altri quel che non desideri per te.»18 Taoismo «Il saggio sempre non ha una mente propria. Considera la mente dei cento clan come la propria» (chiara indicazione del bene comune).19 «Con i buoni sono buono, anche con i non buoni sono buono, perché la virtù è buona. Con i sinceri sono sincero, anche con i non sinceri sono sincero, perché la virtù è sincera.»20

Spiritualità di origine giapponese Shintoismo «Il cuore della persona di fronte a te è come uno specchio. Scopri in esso la tua immagine.»21

Spiritualità abramitiche Ebraismo «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore.»22 «Non fare a nessuno ciò che non piace a te.»23 «Non fare agli altri ciò che non vorresti venisse fatto a te.»24

Cristianesimo «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti.»25 «E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.»26 Islam «Nessuno di voi crede veramente fino a quando non desidera per suo fratello ciò che desidera per sé.»27 A sigillo di questa presentazione di certo incompleta, pongo alcune parole di Niccolò Cusano tratte dall’opera La pace della fede (De pace fidei), scritte nel 1453 in seguito alla caduta di Costantinopoli in mano musulmana: I comandamenti di Dio sono pochi, noti a tutti e comuni a tutte le nazioni. Anzi, la luce che ce li rivela è innata nell’anima razionale. Dio infatti parla in noi chiedendoci di adorarlo e di riconoscerlo come padre della vita, ordinandoci di non fare a un altro ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. L’amore è il compimento della legge divina e a questa tutte le altre leggi sono riconducibili.28

BIBLIOGRAFIA

Ben lungi dal voler presentare una bibliografia esaustiva, qui mi limito a due semplici obiettivi: ordinare i libri di cui ho fatto uso, perlopiù citati nelle note; presentare possibilità di approfondimento segnalando libri che conosco e ritengo importanti ma che non ho utilizzato direttamente. A differenza delle note, dove ho sempre indicato curatori e traduttori, qui per maggiore chiarezza espositiva mi limito ai curatori. Presento i titoli in ordine sistematico, o cronologico, o alfabetico, a seconda della logica specifica della materia. Sempre per motivi logici a volte qualche libro compare in più di una sezione.

Testi sacri o magisteriali e strumenti collegati (ordine cronologico) ANTICO EGITTO Testi religiosi dell’antico Egitto, a cura di Edda Bresciani, Mondadori, Milano 2001, in particolare Libro dei Morti, cap. 125. La saggezza dell’antico Egitto. Massime sapienziali, testi religiosi e letterari scelti da Manfred Kluge, Tea, Milano 1994.

HINDUISMO Hinduismo antico, vol. I, Dalle origini vediche ai Purān.a, a cura di Francesco Sferra, Mondadori, Milano 2010. I Veda. Mantramañjarī. Testi fondamentali della rivelazione vedica, a cura di Raimon Panikkar, Bur, Milano 2001. Upanis.ad vediche, a cura di Carlo Della Casa, Tea, Milano 2000.

Bhagavadgītā , a cura di Marcello Meli, Mondadori, Milano 1999; cfr. Vinoba Bhave, Discorsi sulla Bhagavadgītā. I principi spirituali dell’azione nonviolenta [1952], a cura di Alberto Pelissero, Libreria Editrice Fiorentina-Centro Gandhi Edizioni, Firenze-Pisa 2006; Bede Griffiths, Fiume di compassione. Un commento cristiano alla Bhagavadgītā, Appunti di Viaggio, Roma 2006. Dizionario della saggezza orientale [1986], a cura di Kurt Friedrichs, Ingrid Fischer-Schreiber, Franz-Karl Ehrhard, Michael S. Diener, Mondadori, Milano 2007 (su hinduismo, buddhismo e taoismo).

GIAINISMO Saman. Suttam·. Il canone del Jainismo, a cura di Rrī Jinendra Varn.i e Sagarmal Jain, ed. it. a cura di Claudia Pastorino e Claudio Lamparelli, Mondadori, Milano 2001. Carlo Della Casa, Il Giainismo, Bollati Boringhieri, Torino 1962 e 1993.

BUDDHISMO La rivelazione del Buddha, vol. I, Testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001. Un’edizione particolarmente consigliabile del Dhammapada, anche per l’ottima traduzione di Chandra Candiani, è Dhammapada per la contemplazione. Una versione di Ajahn Munindo, Associazione Santacittarama, Frasso Sabino 2002. Si tratta però di un libro fuori commercio e quindi difficilmente reperibile. Gli editti di Aśoka, a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Adelphi, Milano 2003. Corrado Pensa, Corso sulle virtù (pāramī), a cura di Elena Rafanelli, A.Me.Co, Roma 2007 (scritto a uso privato). Richard Gombrich, Il pensiero del Buddha [2009], Adelphi, Milano 2012. Dalai Lama e Bhiks.un.ī Thubten Chodron, Che cosa è il buddhismo. Un maestro e molte tradizioni [2014], Mondadori, Milano 2016.

EBRAISMO

Bibbia ebraica, a cura di Rav Dario Disegni, 4 voll., Giuntina, Firenze 1998-2003. Abraham Joshua Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo. Una filosofia dell’ebraismo [1955], Borla, Roma 1969. Mireille Hadas-Lebel, Hillel. Maestro della Legge al tempo di Gesù [1999], tr. di Pierluigi Lanfranchi, Portalupi Editore, Casale Monferrato 2002. Rabbi Harold M. Schulweis, Conscience. The Duty to Obey and the Duty to Disobey, Jewish Lights Publishing, Woodstock 2008 (alla luce di Genesi 18, ma senza nessun riferimento a Genesi 22, Abramo è presentato come esempio di «moral audacity»).

TAOISMO E CONFUCIANESIMO Lao Tzu, Tao Te Ching. Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo, traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini, Feltrinelli, Milano 20132. Neiye. Il Tao dell’armonia interiore, a cura di Amina Crisma, Garzanti, Milano 2015. Confucio, Dialoghi, a cura di Tiziana Lippiello, Einaudi, Torino 2006. La costante pratica del giusto mezzo. Zhongyong, a cura di Tiziana Lippiello, Marsilio, Venezia 2010. Meng-tzu (Mencio), a cura di Fausto Tomassini, Tea, Milano 1991. Dizionario della saggezza orientale [1986], a cura di Kurt Friedrichs, Ingrid Fischer-Schreiber, Franz-Karl Ehrhard, Michael S. Diener, Mondadori, Milano 2007 (su hinduismo, buddhismo e taoismo). Anne Cheng, Storia del pensiero cinese [1997], ed. it. a cura di Amina Crisma, Einaudi, Torino 2000. Amina Crisma, Confucianesimo e taoismo, Emi, Bologna 2016.

CRISTIANESIMO La Sacra Bibbia, a cura della Conferenza episcopale italiana (Bibbia CEI), UELCI, Roma 2008. La Bibbia di Gerusalemme (testo biblico: La Sacra Bibbia, versione ufficiale a cura della Conferenza episcopale italiana 2008; note e commenti: La Bible de Jerusalem, 1998), EDB, Bologna 2009.

Heinrich Denzinger, Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, a cura di Peter Hünermann, EDB, Bologna 1996. Solitamente abbreviato in DH. Catechismo della Chiesa Cattolica [1992]. Testo integrale e Nuovo commento teologico-pastorale, a cura di Rino Fisichella, Libreria Editrice Vaticana-San Paolo, Città del Vaticano-Cinisello Balsamo 2017. I Padri Apostolici, a cura di Antonio Quacquarelli, Città Nuova, Roma 19782. Giustino, Apologia per i cristiani, a cura di Charles Munier e Maria Benedetta Artioli, Edizioni San Clemente-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2011. Agostino, De moribus Ecclesiae catholicae. Tommaso d’Aquino, La somma teologica, testo latino dell’edizione Leonina, tr. it. a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014 (in particolare sulle virtù cardinali in generale: I-II, q. 61 e III, q. 85, art. 6; su prudentia II-II, qq. 47-56; su iustitia II-II qq. 57-122; su fortitudo II-II qq. 123-140; su temperantia II-II 141-170). Dante Alighieri, Convivio [1304-1307], trattato IV, capitolo XXII, in Opere, a cura di Manfredi Porena e Mario Pazzaglia, Zanichelli, Bologna 1966. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali [1548], a cura di Gaetano Piccolo, Garzanti, Milano 2016.

ISLAM Corano, a cura di Alessandro Bausani, Bur, Milano 1988, 20106. Il Corano, a cura di Hamza Roberto Piccardo. Revisione e controllo dottrinale Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia, Newton & Compton, Roma 1996. Il Corano, a cura di Alberto Ventura, tr. di Ida Zilio-Grandi, Mondadori, Milano 2010. Dizionario del Corano, a cura di Mohammad Ali Amir-Moezzi, ed. it. a cura di Ida Zilio-Grandi, Mondadori, Milano 2007. Hamed Abdel-Samad, Il Corano. Messaggio d’amore, messaggio di odio [2016], Garzanti, Milano 2018. Giuseppe Morotti, Il Sufismo. Una risposta all’odierna sete di spiritualità, Edizioni La Parola, Roma 2017.

SIKHISMO Canti religiosi dei Sikh, a cura di Stefano Piano, Rusconi, Milano 1985.

Fonti antiche (ordine cronologico) Pitagora, Le opere e le testimonianze, a cura di Maurizio Giangiulio, Mondadori, Milano 2000. Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra, Mondadori, Milano 1993. Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944; in particolare: Menone, sul concetto generale di virtù; Carmide, sulla temperanza; Liside, sulla fortezza; Repubblica, sulla giustizia. Per quest’ultima opera, cfr. anche La Repubblica, a cura di Mario Vegetti, Bur, Milano 20134. Cfr. inoltre Lettera Settima, in Lettere, a cura di Margherita Isnardi Parente, Fondazione Valla – Mondadori, Milano 2002. Aristotele, Etica Nicomachea, Etica Eudemia e Grande Etica, in Le tre etiche, a cura di Arianna Fermani, Bompiani, Milano 2008; Metafisica, a cura di Carlo Augusto Viano, Utet, Torino 2005. Epicurea. Testi di Epicuro e testimonianze epicuree nella raccolta di Hermann Usener, a cura di Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano 2002; Come essere felici. Lettera a Meneceo, Massime capitali, Gnomologio vaticano, Vita di Epicuro, a cura di Giacomo Origo, Garzanti, Milano 2014. Stoici antichi. Tutti i frammenti. Secondo la raccolta di Hans von Arnim [1903-1905], a cura di Roberto Radice, Bompiani, Milano 2002. M.T. Cicerone, De officiis. Quel che è giusto fare, a cura di Giusto Picone e Rosa Rita Marchese, Einaudi, Torino 2012; La repubblica, a cura di Francesca Nenci, Bur, Milano 20154; Tuscolane, a cura di Lucia Zuccoli Clerici, Bur, Milano 20045. L.A. Seneca, Lettere a Lucilio, a cura di Caterina Barone, Garzanti, Milano 201510; I benefici, in Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1994. Epitteto, Manuale, ed. it. Manuale di Epitteto. Introduzione e commento di Pierre Hadot, Einaudi, Torino 2006. Marco Aurelio, Pensieri, a cura di Maristella Ceva, Mondadori, Milano 19942; cfr. anche l’edizione a cura di Enrico V. Maltese, Garzanti, Milano 20147. Segnalo inoltre: Pierre Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai “Pensieri” di Marco Aurelio [1992], Vita e Pensiero, Milano 1996.

Plotino, Enneadi, a cura di Roberto Radice, Mondadori, Milano 20032, in particolare il trattato I,2 (19) sulle virtù alle pp. 98-115. Cfr. anche l’edizione a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi, Milano 1992. Segnalo inoltre: Pierre Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo [1963], Einaudi, Torino 1999. A.M. Severino Boezio, La consolazione della filosofia [524], a cura di Ovidio Dallera, Bur, Milano 1977.

Studi collegati (ordine cronologico) Max Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale [1943], Bompiani, Milano 2005. Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo [1944, con titolo originario: Die Entdeckung des Geistes, «La scoperta dello Spirito»], Einaudi, Torino 1979. Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco [1944], Bompiani, Milano 2018. Werner Jaeger, Cristianesimo primitivo e Paideia greca [1961], La Nuova Italia, Firenze 1977. Cristoph Horn, L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici [1998], ed. it. a cura di Emidio Spinelli, Carocci, Roma 2004. Il sapere greco. Dizionario critico [1996], a cura di Jacques Brunschwig e Geoffrey E.R. Lloyd, Einaudi, Torino 2007. Enrico Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2007. Claudia Baracchi, L’architettura dell’umano. Aristotele e l’etica come filosofia prima [2008, ed. originale inglese], Vita e Pensiero, Milano 2014.

Modernità (ordine cronologico) Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate [1486], ed. it. a cura di Eugenio Garin, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1994. Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia [1509], a cura di Roberto Gianetti, Garzanti, Milano 2015. Leonardo da Vinci, Prose, a cura di Luigi Negri, Utet, Torino 1926. Niccolò Machiavelli, Il Principe [1513], a cura di Ugo Dotti,

Feltrinelli, Milano 1979; Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio [15131519], a cura di Giorgio Inglese, Bur, Milano 1984. Michel de Montaigne, Saggi [1580-1588], a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano 1992. René Descartes, Discorso sul metodo [1637], La Nuova Italia, Firenze 197723. Thomas Hobbes, De cive [1642], ed. it. Elementi filosofici del cittadino, a cura di Norberto Bobbio, Tea, Milano 1988; Leviatano [1651], La Nuova Italia, Firenze 19912. John Milton, Areopagitica [1644], a cura di Mariano Gatti e Hilary Gatti, Rusconi, Milano 1998. Baltasar Gracian, Oracolo manuale e arte di prudenza [1647], Guanda, Parma 1986. François de La Rochefoucauld, Massime [1664], a cura di Maurizio Enoch, Newton & Compton, Roma 1993. Blaise Pascal, Pensieri [1669, postuma], a cura di Bruno Nacci, Garzanti, Milano 1994. Baruch Spinoza, Tutte le opere, a cura di Andrea Sangiacomo, Bompiani, Milano 20112; Etica. Trattato teologico-politico [1677, postuma; 1670], a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani, Utet, Torino 1997. Bernard de Mandeville, La favola delle api. Vizi privati e pubbliche virtù [1714], Bur, Milano 20183. Gottfried Wilhelm Leibniz, I Principi della filosofia o la Monadologia [1721], Rusconi, Milano 1997. Gotthold Efraim Lessing, L’educazione del genere umano [1780], in Opere filosofiche, a cura di Guido Ghia, Utet, Torino 2008. Immanuel Kant, Critica della ragion pura [1781 e 17872], a cura di Pietro Chiodi, Utet, Torino 2005; Critica della ragion pratica [1788], a cura di Pietro Chiodi, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, Utet, Torino 1995; La religione entro i limiti della semplice ragione [1793], a cura di Massimo Roncoroni e Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1996; Metafisica dei costumi [1797], a cura di Giovanni Vidari, Laterza, Bari-Roma 201813; Antropologia dal punto di vista pragmatico [1798], a cura di Pietro Chiodi, Tea, Milano 1995; Il conflitto delle facoltà [1798], in Scritti di filosofia della religione, a cura di Giuseppe Riconda, Mursia, Milano 1989.

Georg W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito [1807], La Nuova Italia, Firenze 199210. Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione [1818], Mondadori, Milano 19953. Ludwig Feuerbach, L’essenza del cristianesimo [1841], Feltrinelli, Milano 19804. Søren A. Kierkegaard, Timore e tremore [1843], in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Piemme, Casale Monferrato 1995. Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà [1844], Adelphi, Milano 19862. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano [1878], Adelphi, Milano 20029; Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno [18831885], Adelphi, Milano 198914; Al di là del bene e del male [1886], Adelphi, Milano 199615; Genealogia della morale. Uno scritto polemico [1887], Adelphi, Milano 19904; Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello [1888], Adelphi, Milano 19924; Ecce homo. Come si diventa ciò che si è [1888], Adelphi, Milano 199212; La volontà di potenza, Frammenti postumi ordinati da Peter Gast ed Elisabeth Förster-Nietzsche [1906], ed. it. a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Bompiani, Milano 20014.

Ricerca filosofica e spirituale del Novecento (ordine alfabetico) Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing [1959], a cura di Laura Boella, Raffaello Cortina, Milano 2006; La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme [1963], Feltrinelli, Milano 2001; Alcune questioni di filosofia morale [1965-1966], Einaudi, Torino 2006; La vita della mente [1978, postuma], il Mulino, Bologna 2009. Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti [1955, postumo], Einaudi, Torino 1962. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, il Saggiatore, Milano 2006. Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere [1943-1945], a cura di Eberhard Bethge, ed. it. a cura di Alberto Gallas, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 19892; Che cosa significa dire la verità? [1942], in Etica, appendice V, Bompiani, Milano 19833. Pier Cesare Bori, Per un consenso etico tra culture, Marietti, Genova

20052; Universalismo come pluralità delle vie, Marietti, Genova 2004. Albert Einstein, Il fine dell’esistenza umana [1943], in Pensieri, idee, opinioni, Newton & Compton, Roma 2006. Pavel A. Florenskij, Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo [1933-1937], ed. it. a cura di Natalino Valentini e Lubomír Žák, Mondadori, Milano 2000. Philippa Foot, La natura del bene [2001], il Mulino, Bologna 2007; Virtù e vizi [2002], il Mulino, Bologna 2008. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, a cura di Arnold I. Davidson [1983-1992], Einaudi, Torino 2005; La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson [2001], Einaudi, Torino 2008. M.K. Gandhi, Il mio credo, il mio pensiero [1945, antologia a cura di S. Radhakrishnan più volte riedita], Newton & Compton, Roma 2010; Teoria e pratica della non-violenza, a cura di Giuliano Pontara, Einaudi, Torino 1996. Romano Guardini, Virtù [1963], Morcelliana, Brescia 19802 (dopo un capitolo sull’essenza della virtù, l’Autore elenca senza un ordine preciso le seguenti 15 virtù: veracità, accettazione, pazienza, giustizia, rispetto, fedeltà, assenza di intenzioni, ascesi, coraggio, bontà, comprensione, cortesia, riconoscenza, raccoglimento, silenzio). Etty Hillesum, Diario 1941-1942, edizione integrale a cura di Jan G. Gaarlandt, Adelphi, Milano 2012; Lettere 1941-1943, a cura di Klaas A.D. Smelik, testo critico stabilito da Gideon Lodders e Rob Tempelaars, Adelphi, Milano 2013. Vladimir Jankélévitch, Corso di filosofia morale. Appunti raccolti alla Libera Università di Bruxelles, 1962-1963, ed. it. a cura di Antonio Delogu, Raffaello Cortina, Milano 2007. Karl Jaspers, I grandi filosofi [1957 e 1964], Longanesi, Milano 1973. Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica [1979], a cura di Pier Paolo Portinaro, Einaudi, Torino 2002. Carl Gustav Jung, Jung parla. Interviste e incontri, a cura di William McGuire e R.F.C. Hull [1977], Adelphi, Milano 20134. Hans Küng, Progetto per un’etica mondiale [1990], Rizzoli, Milano 1991; Per un’etica mondiale. La Dichiarazione del Parlamento delle religioni mondiali, a cura di Hans Küng e Karl-Joseph Kuschel [1993],

Rizzoli, Milano 1995; Perché un’etica mondiale? Religione ed etica in tempi di globalizzazione, Intervista con Jürgen Hoeren [2002], Queriniana, Brescia 2004. Carlo Maria Martini, Sulla giustizia, Mondadori, Milano 1999; Id. e Georg Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2008. Erich Neumann, Psicologia del profondo e nuova etica [1943], Moretti & Vitali, Bergamo 2005. Raimon Panikkar, Tra Dio e il cosmo. Una visione non dualista della realtà, Dialogo con Gwendoline Jarczyk [1998], Laterza, Roma-Bari 2006; L’esperienza di Dio [1998], Queriniana, Brescia 20022; Kierkegaard e Śān˙kara. La fede e l’etica nel cristianesimo e nell’induismo [1962-1963], a cura di Milena Carrara Pavan e Paulo Barone, Jaca Book, Milano 2017; Ecosofia, la saggezza della terra [1993], a cura di Milena Carrara Pavan, Jaca Book, Milano 2015. Josef Pieper, Sulla Prudenza [1937], Morcelliana, Brescia 1956; Sulla Giustizia [1953], Morcelliana, Brescia 1956; Sulla Temperanza [1939], Morcelliana, Brescia 1957; Sulla Fortezza [1934], Morcelliana, Brescia 1965. John Rawls, Una teoria della giustizia [1971 e 1999], ed. it. a cura di Sebastiano Maffettone, Feltrinelli, Milano 2009. Paul Ricoeur, Etica e morale [1975-1994], Morcelliana, Brescia 20142. Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico [1944], Adelphi, Milano 20105; Spirito e materia [1956], in L’immagine del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Albert Schweitzer, Rispetto per la vita [1947], a cura di Charles R. Joy, Edizioni di Comunità, Milano 1957. Rabindranath Tagore, La civiltà occidentale e l’India [1961], Bollati Boringhieri, Torino 1991. Pierre Teilhard de Chardin, La mia fede. Scritti teologici, Queriniana, Brescia 1993. Thich Nhat Hanh, Le quattro verità dell’esistenza [2012, con il titolo originario Good Citizens, a indicare la finalità etica del testo], Garzanti, Milano 2016. Marco Vannini, Lessico mistico. Le parole della saggezza, Le Lettere, Firenze 2013. Simone Weil, Quaderni, 4 voll. [1941-1942], a cura di Giancarlo

Gaeta, Adelphi, Milano 1982-1993; Lettera a un religioso [1942], a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1996; Padre Nostro [1941], a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, Castelvecchi, Roma 2015; Attesa di Dio [1942], a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano 2008; La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano [1942], Leonardo, Milano 1996; cfr. anche l’antologia L’attesa della verità, a cura di Sabina Moser, Garzanti, Milano 2014. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus [1922], in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 1998.

Saggi e studi contemporanei (ordine alfabetico) Remo Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991. Remo Bodei, Giulio Giorello, Michela Marzano, Salvatore Veca, Le virtù cardinali. Prudenza, Temperanza, Fortezza, Giustizia, Laterza, BariRoma 2017. Christophe Bonneuil e Jean-Baptiste Fressoz, La terra, la storia e noi. L’evento Antropocene [2013, con titolo: L’Événement Anthropocène], Treccani, Roma 2019. Fritjof Capra e Pier Luigi Luisi, Vita e natura. Una visione sistemica, Aboca, Sansepolcro 2014. Sergio Cremaschi, Breve storia dell’etica, Carocci, Roma 2012. Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello [2003], Adelphi, Milano 20145; Lo strano ordine delle cose. La vita, i sentimenti e la creazione della cultura [2018], Adelphi, Milano 2018. Duccio Demetrio, Ascetismo metropolitano. L’inquieta religiosità dei non credenti, Ponte alle Grazie, Milano 2009; La religiosità della terra. Una fede civile per la cura del mondo, Raffaello Cortina, Milano 2013. Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2003; La questione morale, Raffaello Cortina, Milano 2010; Al di qua del bene e del male. Per una teoria dei valori, Einaudi, Torino 2015. Daniel C. Dennett, Coscienza [1991], Rizzoli, Milano 1993; Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza [2005], Raffaello Cortina, Milano 2006.

Michele Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Raffaello Cortina, Milano 1998; La coscienza, Laterza, RomaBari 20052; Introduzione alla filosofia della mente, Carocci, Roma 20083. Michele Di Francesco e Massimo Marraffa, Il soggetto e l’ordine del mondo, «Introduzione» a Id. (a cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, Bruno Mondadori, Milano 2009. Franco Fabbro, Le neuroscienze: dalla fisiologia alla clinica, Carocci, Roma 2016; Universalismo e istanze identitarie alla luce delle neuroscienze, Forum, Udine 2016; Identità culturale e violenza. Neuropsicologia delle lingue e delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino 2018; La meditazione mindfulness. Neuroscienze, filosofia e spiritualità, il Mulino, Bologna 2019. Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo [2018], Bompiani, Milano 20196. Stuart Kauffman, Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione [2008], Codice Edizioni, Torino 2010. Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale [1981, 1984, 2007], Armando Editore, Roma 2007. Thomas Metzinger, Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto [2009], Raffaello Cortina, Milano 2010. Roberto Mordacci, L’etica è per le persone, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015. Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano 20178. Martin Rees, Il nostro futuro. Scenari per l’umanità [2019], Treccani, Roma 2019. Milena Santerini, Educazione morale e neuroscienze. La coscienza dell’empatia, La Scuola, Brescia 2011. Salvatore Veca, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia, Feltrinelli, Milano 2002. Luigi Zoja, Al di là delle intenzioni. Etica e analisi [2007], Bollati Boringhieri, Torino 2011.

Studi teologici e religiosi (ordine alfabetico) José Arregi e Leonardo Boff, Ivone Gebara, Manuel Gonzalo,

Diarmuid O’Murchu, José Maria Vigil, Il cosmo come rivelazione. Una nuova storia sacra dell’umanità, a cura di Claudia Fanti e José Maria Vigil, Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2018. Francesco Compagnoni, Vissuto virtuoso. I. Virtù cardinali e teologali, in Corso di morale. I. Vita nuova in Cristo (Morale fondamentale e generale), a cura di Tullo Goffi e Giannino Piana, Queriniana, Brescia 1983, pp. 553-573. Aristide Fumagalli, L’eco dello Spirito. Teologia della coscienza morale, Queriniana, Brescia 2012. Tullo Goffi e Giannino Piana, Il vissuto personale virtuoso, in Corso di morale. II. Diakonia (Etica della persona), a cura di Tullo Goffi e Giannino Piana, Queriniana, Brescia 1983, pp. 9-56. Giovanni Battista Guzzetti, Morale individuale, Nuove Edizioni Duomo, Milano 1982. Bernhard Häring, La legge di Cristo. Trattato di teologia morale, vol. I, Teologia morale generale [1954], Morcelliana, Brescia 1957, pp. 487-567; Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici [1978], Edizioni Paoline, Roma 1979 (in quest’opera, conformemente all’idea che «le quattro virtù cardinali non costituiscono affatto la caratteristica della morale biblica», non si ha di esse una trattazione specifica). Mauricio Y. Marassi e Gennaro Iorio, La via libera. Etica buddhista e Etica occidentale, Editrice Stella del Mattino, Città di Castello 2103. Joseph Ratzinger / Benedetto XVI, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena 2009 (l’Autore presenta due significati di coscienza: coscienza come «anamnesi» e coscienza come «giudizio», soffermandosi soprattutto sul primo significato per affermare che il senso del bene e del vero è impresso originariamente in ogni essere umano; il suo fine è superare il contrasto tra «morale della coscienza» e «morale dell’autorità» mostrando che l’originaria voce della coscienza che agisce in noi ha bisogno di un aiuto esterno per giungere alla propria autenticità: «L’anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire, di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé», p. 26, laddove questo aiuto esterno coincide con il Magistero ecclesiastico).

Sulla Regola d’oro Albrecht Dihle, Die goldene Regel, Vandenhoeck & Ruprecht,

Göttingen 1962. Jeffrey Wattles, The Golden Rule, Oxford University Press, OxfordNew York 1996. La Regola d’oro come etica universale, a cura di Carmelo Vigna e Susy Zanardo, Vita e Pensiero, Milano 2005.

RINGRAZIAMENTI

La causa prossima di questo libro sono le lezioni sulle virtù cardinali da me tenute in quella che da qualche anno è diventata la mia città, Bologna. Mi era sorto il desiderio di offrire un contributo a titolo del tutto volontario per servirne la coscienza morale, ma di farlo in consonanza con lo spirito del nostro tempo, non con un sentimento ostile rimpiangendo un passato che non c’è più. Proposi così di lavorare con me a Stefano Bolognini, psicanalista freudiano, il quale con entusiasmo accettò. Chiesi poi alla mia agenzia di proporre ad alcune istituzioni cittadine il progetto di tale corso a doppia voce sulle virtù cardinali. La proposta venne accettata dalla Fondazione MAST (un’istituzione internazionale, culturale e filantropica, basata su tecnologia, arte e innovazione) nella cui aula magna, tra gennaio e aprile 2019, si tennero le lezioni. Desidero quindi ringraziare: Stefano Bolognini per aver accettato di confrontarsi con me sui temi al centro di questo libro e di averlo fatto con rara profondità e insieme con leggerezza e senso dell’umorismo; Francesca Parisini e Giulia Stagi dell’agenzia Elastica per aver promosso l’iniziativa; Isabella Seragnoli, presidente della Fondazione MAST, per aver creduto nel progetto e averlo ospitato nella sua bellissima sede; i 400 partecipanti al corso per la loro attenzione, il loro calore e le loro domande. Ringrazio inoltre l’arcivescovo di Bologna, cardinale Matteo Zuppi, per aver partecipato alla lezione inaugurale. Ringrazio Elisabetta Rossi, cardiologa, per alcuni importanti suggerimenti nella stesura del libro. Ringrazio Franco Fabbro, neuroscienziato, e i suoi collaboratori del Master in Meditazione e neuroscienze dell’Università di Udine, per un legame professionale e umano senza il quale alcune pagine di questo libro non avrebbero potuto essere scritte. Ringrazio la mia casa editrice, in particolare l’editore Stefano Mauri, il direttore editoriale Paolo Zaninoni e l’editor della saggistica Michele Fusilli per la passione e la competenza con cui hanno seguito il mio lavoro. Ringrazio mia moglie, Jadranka Korlat, per aver letto per prima il

dattiloscritto e avermi dato il suo solito, prezioso, insostituibile riscontro. Il più sentito ringraziamento, però, così intimo da diventare devozione, va agli antichi maestri che tanta importanza rivestono in queste pagine e del cui pensiero la mia anima da anni si nutre.

INDICE DEI NOMI

Abramo Adickes, Erich Agostino di Ippona Alberto Magno Alcmeone di Crotone Alighieri, Dante Allen, Woody Ambrogio di Milano Amos Anassagora Anassimandro Anito An-Nawawi Annibale Barca Antonio abate Aquilecchia, Giovanni Arcesilao Archiloco Arendt, Hannah Aristotele Arrighetti, Graziano Artioli, Maria Benedetta Aśoka Atanasio Baccianini, Mario Bach, Johann Sebastian Barone, Caterina Barth, Karl Basile, Giuseppe Basilio di Cesarea

Battiato, Franco Bausani, Alessandro Beaucamp, Évode Beethoven, Ludwig van Benedetto XVI, vedi Joseph Ratzinger Benjamin, Walter Bentham, Jeremy Bergson, Henri Bethge, Eberhard Bobbio, Norberto Boezio, Severino Anicio Manlio Torquato Bolognini, Stefano Bonaventura da Bagnoregio Bonhoeffer, Dietrich Bonneuil, Chrisophe Borsellino, Paolo Bresciani, Edda Bruno, Giordano Brunschwig, Jacques Bruto, Marco Giunio Buddha Bulgakov, Michail Afanaśevič Bultmann, Rudolf Caifa Calvino, Giovanni Canaris, Wilhelm Canciani, Domenico Cantoni, Remo Canto-Sperber, Monique Capra, Fritjof Caravaggio (Michelangelo Merisi) Carena, Carlo Caroli, Ernesto Cariati, Salvatore Carlier, Jeannie Cartesio, Renato Castiglione, Baldassar

Cecilio Stazio Centanni, Monica Cesa, Claudio Ceva, Maristella Cheng, Anne Chiesara, Maria Lorenza Chilone di Sparta Chiodi, Pietro Chiurco, Carlo Cicero, Vincenzo Cicerone, Marco Tullio Cicuzza, Claudio Claudio, imperatore Cleante Clemente Alessandrino Collodi, Carlo (Carlo Lorenzini) Confucio Conte, Amedeo G. Corradini, Antonella Cuneo, Daniele Cusano, Niccolò Crisippo Crisma, Amina d’Amico, Masolino da Polenta, Francesca Dallera, Ovidio Damasio, Antonio Dario I Darwin, Charles Robert Davidson, Arnold I. Dawkins, Richard Della Casa, Carlo Della Rosa, Massimo Delogu, Antonio Democrito de Molinos, Miguel Dennett, Daniel C.

Derrida, Jacques Di Francesco, Michele Diano, Carlo Diels, Hermann Diener, Michael S. Diogene di Sinope Diogene Laerzio Doroteo di Gaza Dostoevskij, Fëdor Michajlovič Dotti, Ugo Duns Scoto, Giovanni Eckermann, Johann Peter Edelman, Gerald Ehrhard, Franz-Karl Eichmann, Adolf Einstein, Albert Empedocle Enoch, Maurizio Epicuro Epitteto Eraclito Erasmo da Rotterdam Erode il Grande Eschilo Esiodo Eusebio di Cesarea Evagrio Pontico Fabbro, Franco Fabro, Cornelio Falcone, Giovanni Fédier, François Felice, prefetto di Alessandria Fergnani, Franco Fermani, Arianna Ferrari, Franco Ferraris, Maurizio Ferretti, Giovanni

Feuerbach, Ludwig Filippani-Ronconi, Pio Fiori, Gabriella Fischer-Schreiber, Ingrid Florenskij A., Pavel Florenskij, Anna Florenskij, Olga Florenskij, Pavel Flores d’Arcais, Francesca Förster-Nietzsche, Elisabeth Francesco, papa Fressoz, Jean-Baptiste Freud, Sigmund Friedrich, Gerhard Friedrichs, Kurt Fumagalli, Aristide Fusilli, Michele Gaeta, Giancarlo Galileo Galilei Gallas, Alberto Gandhi, Mohandas Karamchand Ganni, Enrico Garavini, Fausta Garin, Eugenio Gast, Peter Gatti, Hilary Gatti, Maria Luisa Gatti, Mariano Gesù di Nazareth Getto, Giovanni Ghia, Guido Ghiberti, Giuseppe Giacomo, apostolo Gianetti, Roberto Giangiulio, Maurizio Gigante, Marcello Giotto di Bondone

Girolamo Giuda Iscariota, Giustino Gnoli, Raniero Goffi, Tullio Gombrich, Richard Gregorio Magno Hadas-Lebel, Mireille Hadot, Pierre Hammurabi Häring, Bernhard Hegel, Georg W.F. Heidegger, Martin Heschel, Abraham Joshua Higgs, Peter Hillel Hitler, Adolf Hobbes, Thomas Hobson, Allan Hume, David Husserl, Edmund Ignazio di Antiochia Ignazio di Loyola Inglese, Giorgio Innocenzo III Ionesco, Eugène Ippocrate Isacco Jaeger, Werner Jain, Sagarmal Jankélévitch, Vladimir Jarczyk, Gwendoline Jaspers, Karl Jonas, Hans Joy, Charles R. Judina, Marija Jung, Carl Gustav

Kant, Immanuel Kauffman, Stuart Kierkegaard, Søren A. Kittel, Gerhard Klee, Paul Kobau, Pietro Korlat, Jadranka Kovacev, Alfonso Kranz, Walther Küng, Hans Kutuzov-Goleniščev, Michail Ilarionovič Lamparelli, Claudio Lao Tzu La Rochefoucauld, François de Lauriola, Giovanni Lecaldano, Eugenio Leibniz, Gottfried Wilhelm Leonardo da Vinci Léon-Dufour, Xavier Leone XIII Leopardi, Giacomo Lessing, Gotthold Ephraim Licurgo Liminta, Maria Teresa Lippiello, Tiziana Lloyd, Geoffrey E.R. Lo Muzio, Ciro Lonergan, Bernard Lucilio il Giovane Luck, Ulrich Luisi, Pier Luigi Lutero, Martin Machiavelli, Niccolò Maffettone, Sebastiano Malatesta, Gianciotto Malatesta, Paolo Maltese, Enrico V.

Mandeville, Bernard de Manzoni, Alessandro Marchese, Rosa Rita Marco Antonio Marco Aurelio Margulis, Lynn Marraffa, Massimo Martini, Carlo Maria Marx, Karl Masini, Ferruccio Maspero, Francesco Mauri, Stefano Mazzarelli, Claudio Meleto Melloni, Clara Meng-tzu (Mencio) Messalina, Valeria Metaxas, Eric Metzinger, Thomas Milani, Lorenzo Milanoli, Ambretta Mill, John Stuart Milton, John Montagnini, Felice Montaigne, Michel de Montale, Eugenio Morris, Desmond Mosè Mozart, Wolfgang Amadeus Munier, Charles Munindo, Ajahn Musatti, Cesare Luigi Mussolini, Benito Nacci, Bruno Napoleone Bonaparte Negri, Luigi Nenci, Francesca

Neumann, Erich Newman, John Henry Nietzsche, Friedrich Wilhelm Omero Ordine, Nuccio Origene Origo, Giacomo Panikkar, Raimon Paolo, apostolo Parisini, Francesca Pascal, Blaise Pastorino, Claudia Pazzaglia, Mario Pelagio Perini, Leandro Piana, Giannino Piano, Stefano Piccolo, Gaetano Pico della Mirandola, Giovanni Picone, Giusto Pietro, apostolo Pindaro Pini, Giovanni Pirandello, Luigi Pitagora Pittaco Platone Plauto Plotino.115 Plutarco Pohlenz, Max Poli, Silvia Polidori, Fabio Pontara, Giuliano Ponzio Pilato Poppi, Antonino Porena, Manfredi

Porete, Margherita Porfirio Portinaro, Pier Paolo Porzio, Michele Pugliese Carratelli, Giovanni Quacquarelli, Antonio Quinto Fabio Massimo Rackete, Carola Radice, Roberto Raffaello Sanzio Ragni, Benedetto Rahner, Karl Ramelli, Ilaria Raponi, Santino Ratzinger, Joseph Rawls, John Reale, Giovanni Rees, Martin Repossi, Cesare Riccardo di San Vittore Riconda, Giuseppe Riganti, Elisabetta Roncoroni, Massimo Rossi, Elisabetta Rubino, Angelo Sala, Maria Concetta Sandonà, Leopoldo Sangiacomo, Andrea Santerini, Milena Santoni, Anna Sartre, Jean-Paul Scarpari, Maurizio Scarpat, Giuseppe Scheler, Max Schopenhauer, Arthur Schrödinger, Erwin Schweitzer, Albert

Segna, Domenico Seneca, Lucio Anneo Senofonte Seragnoli, Isabella Serra, Giuseppe Sferra, Francesco Shakespeare, William Shammai Shantena Sabbadini, Augusto Simeone lo Stilita Simmaco, Quinto Aurelio Sini, Carlo Snell, Bruno Socrate Soffritti, Omero Sofocle Solone Spinoza, Baruch Sporschill, Georg Squarcini, Federico Stagi, Giulia Stella, Angelo Stirner, Max Tagliapietra, Andrea Tagore, Rabindranath Taziano Teilhard de Chardin, Pierre Tillich, Paul Tiziano Vecellio Tomassini, Fausto Tommaso d’Aquinom Tonna, Giuseppe Tosi, Renzo Trasimaco Tucidide Usener, Hermann Valentini, Natalino

Valentiniano II Vanni Rovighi, Sofia Vannini, Marco Varni, Sri Jinendra Vegetti, Mario Viano, Carlo Augusto Vidari, Giovanni Vigliani, Ada Vigna, Carmelo Viola, Giovanni Vito, Maria Antonietta Vivarelli, Vivetta von Arnim, Hans Vorgrimler, Herbert Wagner, Richard Wattles, Jeffrey Weil, Simone Whitehead, Alfred North Wilde, Oscar Wittgenstein, Ludwig Wrangham, Richard Zaccaria, Gino Žák, Lubomír Zampa, Giorgio Zanardo, Susy Zaninoni, Paolo Zenone Zoja, Luigi Zuccoli Clerici, Lucia Zuppi, Matteo

Note al «Prologo»

Eugenio Montale, Il primo gennaio, in Satura II [1971], in Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori, Milano 1984, p. 411. 2 Cfr. Elisabetta Riganti, Lessico latino fondamentale, Pàtron Editore, Bologna 1989, p. 198. 3 Giacomo Leopardi, La ginestra, verso 51 [1836], in Opere, a cura di Giovanni Getto, Mursia, Milano 19736, p. 116. 4 Cfr. Christophe Bonneuil - Jean-Baptiste Fressoz, La terra, la storia e noi. L’evento Antropocene [2013], tr. di Agnese Accattoli e Andrea Grechi, Treccani, Roma 2019. L’edizione italiana inverte titolo e sottotitolo rispetto all’edizione originaria francese il cui titolo è: L’Événement Anthropocène. Cfr. anche Martin Rees, Il nostro futuro. Scenari per l’umanità [2019], tr. di Luigi Civalleri, Treccani, Roma 2019. 5 Luca 2,40. 6 Rabindranath Tagore, La crisi della civiltà [1941], in La civiltà occidentale e l’India, tr. di Jole Pinna-Pintor, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 263. 7 Michel de Montaigne, Saggi, libro I, cap. 25 [1580-1588], ed. it. a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano 1992, p. 178. 8 Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale [1965-1966], tr. di Davide Tarizzo, Einaudi, Torino 2006, p. 15. 1

Note al capitolo «I. Diventare»

Omero, Iliade, XI,784, ed. a cura di Giuseppe Tonna, Garzanti, Milano 1973, p. 204. Riprendo la citazione da Monique Canto-Sperber, L’etica, in Il sapere greco. Dizionario critico [1996], a cura di Jacques Brunschwig e Geoffrey E.R. Lloyd, ed. it. a cura di Maria Lorenza Chiesara, vol. I, Einaudi, Torino 2007, p. 116, dove si traduce: «Distinguersi sempre al di sopra degli altri». 2 Baruch Spinoza, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, 5 [1656-1657], in Tutte le opere, a cura di Andrea Sangiacomo, Bompiani, Milano 20112, p. 113. 3 William Shakespeare, Amleto, 3,2 [1599-1602], tr. di Antonio Meo, Garzanti, Milano 19816, p. 55. Il testo prosegue: «Dammi quell’uomo che non è schiavo della passione, ed io lo porterò nell’intimo del mio cuore, sì, nel cuore del mio cuore». 4 Cfr. Pindaro, Pitiche, II,72. L’edizione a cura di Franco Ferrari traduce: «Dimostra di sapere chi sei», in Pitiche, Bur, Milano 20184, pp. 92-93. Il testo greco è: Ghénoi’ hoîos essì mathón, tradotto anche «Diventa chi sei imparando chi sei». L’espressione venne ripresa da Nietzsche nel 1888 nel sottotitolo di Ecce homo: «Come si diventa ciò che si è». 5 Karl Jaspers, I grandi filosofi [1957 e 1964], tr. di Filippo Costa, Longanesi, Milano 1973, p. 1041. 6 Ivi, p. 1040. 7 Metodo viene dal greco antico méthodos, formato dalla preposizione metá e dal sostantivo hodós, «via, cammino», quindi letteralmente «sulla via, in cammino». 8 Solitamente la prima virtù è denominata prudenza sulla base del latino prudentia, ma tale traduzione, come chiarirò, è un errore. 9 La sua prima espressione, a quanto ne sappia io, risale ad Anassimandro di Mileto nel VI secolo a.C.: «Dall’acqua e dalla terra riscaldate nacquero o pesci o animali simili a pesci; in essi si formarono gli uomini», in Diels-Kranz 12 A 30, tr. di Salvatore Obinu, in I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2017, p. 197. In Diels-Kranz 12 A 10 si riporta un brano di Plutarco secondo cui Anassimandro «dice che in origine l’uomo nacque da animali di specie diversa», ed. it. cit., p. 185. 10 Ludwig van Beethoven, Lettera ai fratelli del 6 ottobre 1802, in Autobiografia di un genio. Lettere, pensieri, diari, a cura di Michele Porzio, Mondadori, Milano 1996, pp. 49-50. 11 Platone, Repubblica, VII,517 B-C, tr. di Roberto Radice, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 1240. 12 Atti degli apostoli 17,28. 13 Così Thomas Hobbes: «Durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo», in Leviatano, XIII [1651], tr. di Gianni Micheli, La Nuova Italia, Firenze 19912, p. 120. Il medesimo concetto era stato espresso da Hobbes in De cive, I,12 [1642], ed. it. Elementi filosofici del cittadino, a cura di Norberto Bobbio, Tea, Milano 1988, p. 88. 14 Così Archiloco: «Lancia: pane impastato; lancia: vino d’Ismaro per me. Lancia: mio letto conviviale», in I lirici greci. Età arcaica, tr. di Filippo Maria Pontani, Einaudi, Torino 1969, p. 115. 15 Eraclito, frammento n. 24, ed. Diano, in Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra, Mondadori, Milano 1993, p. 17. Il frammento per esteso è il seguente: «Ciò 1

che contrasta concorre e da elementi che discordano si ha la più bella armonia». È tale intuizione che ha portato Eraclito a concepire il concetto di Logos, medesima intuizione che ha portato il pensiero classico cinese a parlare di Tao e quello hindu di Dharma. 16 Cfr. Antonio Damasio, Lo strano ordine delle cose. La vita, i sentimenti e la creazione della cultura [2018], tr. di Silvio Ferraresi, Adelphi, Milano 2018, p. 70. Qui il neuroscienziato americano rimanda al testo fondamentale di Lynn Margulis, Symbiotic Planet: A New View of Evolution, Basic Books, New York 1998. 17 Aristotele, Metafisica, VII,1,1028 a, ed. it. a cura di Carlo Augusto Viano, Utet, Torino 2005, p. 354. 18 Cfr. Gottfried Wilhelm Leibniz, I Principi della filosofia o la Monadologia, 1-7 [1721], ed. it. a cura di Salvatore Cariati, Rusconi, Milano 1997, p. 61. Qui le Monadi sono dette «sostanze semplici» nel senso di senza parti, «veri atomi della Natura», e distinte dai Composti, che sono ammassi o aggregati di Semplici. 19 Aristotele, Metafisica, V,8,1017 b, ed. it. cit., p. 313. 20 Così Sofia Vanni Rovighi: «Il modo fondamentale di essere è quello della sostanza, ossia di ciò che esiste in sé e per sé», in Elementi di filosofia, vol. II: Metafisica, La Scuola, Brescia 1964, p. 37. In nota l’autrice rimanda a Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 3, art. 5. 21 Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, A 64 [1788], ed. it. a cura di Pietro Chiodi, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, Utet, Torino 1995, p. 174. 22 Pierre Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai «Pensieri» di Marco Aurelio [1992], tr. di Andrea Bori e Monica Natali, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 235. 23 Michel de Montaigne, Saggi, libro I, cap. 22 [1580-1588], ed. it. a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano 1992, p. 139. 24 François de La Rochefoucauld, Massime [1664], ed. it. a cura di Maurizio Enoch, Newton & Compton, Roma 1993, p. 17. 25 Bernard de Mandeville, La favola delle api. Vizi privati e pubbliche virtù [1714], tr. di Clara Valenziano, Bur, Milano 20183, p. 24. Il testo nel suo nucleo originario risale al 1705 quando si intitolava L’alveare scontento, ovvero i furfanti diventati onesti, e veniva venduto per le strade di Londra per mezzo penny, come ricorda Carlo Sini nella sua «Introduzione» all’edizione citata. 26 Kant, Critica della ragion pratica, A 58, ed. it. cit., p. 170. 27 Cfr. Jeremy Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione [1789], ed. it. a cura di Eugenio Lecaldano, Utet, Torino 1998; John Stuart Mill, L’utilitarismo [1861], ed. it. a cura di Mario Baccianini, SugarCo, Milano 1991. 28 Niccolò Machiavelli, Il Principe, XV [1513], a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano 1979, p. 90. 29 In due passi, Gorgia, 473 C e Repubblica, II,361 E - 362 A, Platone parla esplicitamente delle persecuzioni a cui il giusto è inevitabilmente destinato da parte del potere. Secondo Clemente Alessandrino, teologo cristiano del III secolo, Platone scrisse queste cose «profetando», cioè anticipando l’annuncio della crocifissione di Cristo, in Stromati. Note di vera filosofia, V,14,108, ed. it. a cura di Giovanni Pini, Edizioni Paoline, Milano 1985, p. 635. 30 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B 833 [1781 e 1787], ed. it. a cura di Pietro Chiodi, Utet, Torino 2005, p. 607. 31 Constitution of the World Health Organization, 1946, citata dalla voce «Health» dell’edizione inglese di Wikipedia. 32 Platone, Carmide, 156 E - 157 A, ed. it. a cura di Maria Teresa Liminta, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 692. Evidentemente però anche allora queste raccomandazioni erano poco seguite, visto che aggiunge: «Questa sarebbe la ragione per cui ai medici greci sfugge la maggior parte delle malattie, poiché essi trascurerebbero di prendersi cura della totalità dell’uomo». Per Platone è invece centrale il ruolo della mente: «Tutti i mali e i beni del corpo e per l’uomo nella sua interezza nascono dall’anima […] e l’anima si cura con certi incantesimi e questi incantesimi sono i bei discorsi, da cui nell’anima si genera la temperanza; una volta che questa sia nata e si sia radicata, allora è facile ridare salute alla

testa e a tutte le altre parti del corpo». 33 Così Kant: «Quali sono i fini che sono nello stesso tempo doveri? Essi sono: la propria perfezione, la felicità altrui. Non si può qui invertire il rapporto dei termini», in Metafisica dei costumi [1797], II,4, ed. it. a cura di Giovanni Vidari, Laterza, Bari-Roma 201813, p. 235. 34 Così nel primo discorso pubblico del Buddha, denominato Il discorso della messa in moto della ruota del Dharma (Sam.yutta Nikāya, 56.11): «Questa, o monaci, è la nobile verità del dolore (dukkha): la nascita è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che è discaro è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve, i cinque aggregati che rappresentano la base dell’attaccamento all’esistenza, sono dolore», ed. it. a cura di Claudio Cicuzza, in La rivelazione del Buddha, vol. I: Testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, pp. 7-8. 35 Solone, La condizione umana, in I lirici greci. Età arcaica, cit., p. 31. 36 Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale [1965-1966], tr. di Davide Tarizzo, Einaudi, Torino 2006, p. 111. Sopra aveva scritto: «Il problema qui sta tutto nel decidere con chi io voglio stare insieme, senza basarmi su norme o regole “oggettive” di comportamento». 37 Ivi, p. 36. 38 Ha scritto Bruno Snell a proposito della nascita dell’etica nella Grecia antica: «Così la morale viene subordinata all’estetica, e in realtà la sophrosyne è una specie di intuito artistico della misura e della forma nel campo della morale. Man mano che l’armonia diventa per i Greci un valore supremo nell’arte, essa acquista sempre maggiore rilievo anche nelle massime etiche», in La cultura greca e le origini del pensiero europeo [1944, con titolo originario: Die Entdeckung des Geistes, «La scoperta dello Spirito»], tr. di Vera Degli Alberti e Anna Solmi Marietti, Einaudi, Torino 19798, p. 238. 39 Significativamente Jankélévitch iniziava le sue lezioni di filosofia morale parlando di una «riduzione» dell’etica all’estetica, ovvero esattamente il contrario di una fondazione estetica dell’etica, cfr. Vladimir Jankélévitch, Corso di filosofia morale. Appunti raccolti alla Libera Università di Bruxelles, 1962-1963, ed. it. a cura di Antonio Delogu, Raffaello Cortina, Milano 2007, pp. 7-15. 40 La prima attestazione del termine hegemonikón, di solito tradotto «egemonico», si trova in Crisippo. Esso indica la parte razionale dell’anima, la più elevata, e per questo capace di controllare le altre parti. Ecco uno dei più antichi passi al riguardo: «Gli Stoici sostengono che l’egemonico è la parte superiore dell’anima, e che esso produce le rappresentazioni, l’assenso, le sensazioni e gli impulsi: lo chiamano anche pensiero. Dall’egemonico scaturiscono sette parti dell’anima che si estendono in direzione del corpo come i tentacoli di un polipo», Crisippo, B.f. 836.1, in Stoici antichi. Tutti i frammenti. Secondo la raccolta di Hans von Arnim [1903-1905], a cura di Roberto Radice, Bompiani, Milano 2002, p. 731. 41 Erich Neumann, Psicologia del profondo e nuova etica [1943], tr. di Maria Anna Massimello, Moretti & Vitali, Bergamo 2005, p. 58. 42 Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 5. 43 Albert Schweitzer, Rispetto per la vita [1947], a cura di Charles R. Joy, tr. di Costanza Walter, Edizioni di Comunità, Milano 1957, p. 86.

Note al capitolo «II. La coscienza»

Così Richard Wrangham, primatologo britannico: «Sono rari gli animali che vivono in comunità patrilineari, a vincolo maschile, dove le femmine riducono i rischi di accoppiamenti tra consanguinei spostandosi nei gruppi confinanti per la riproduzione. Si conoscono soltanto due specie di animali che lo fanno usando il sistema di un’intensa aggressività territoriale maschile, con incursioni letali nelle comunità confinanti in cerca di nemici vulnerabili da attaccare e uccidere. Fra quattromila specie di mammiferi e dieci milioni o più di altre specie animali esistenti, quest’insieme di comportamenti è conosciuto solo negli scimpanzé comuni e negli umani», citato da Franco Fabbro, Universalismo e istanze identitarie alla luce delle neuroscienze, Forum, Udine 2016, p. 11. 2 La frase che ho riportato è quella divenuta classica, in realtà il verso 495 dell’Asinaria suona: Lupus est homo homini non homo, «L’uomo è un lupo, non un uomo, per l’altro uomo», cfr. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, cit., p. 535. 3 Delle opere di Cecilio Stazio sono arrivati solo alcuni frammenti di cui quello citato è il 264 R, cfr. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, cit., pp. 583-584. Secondo Bobbio, che curò l’edizione del De cive di Hobbes nella cui «Lettera dedicatoria» si ricordano entrambi i detti («Certamente è altrettanto vero che l’uomo è per il suo simile un dio, quanto che esso è per il suo simile, un lupo», De cive [1642], ed. it. Elementi filosofici del cittadino, a cura di Norberto Bobbio, Tea, Milano 1988, p. 56), la fonte originaria è Quinto Aurelio Simmaco, Epistole, IX,114. Ludwig Feuerbach riprende la frase di Cecilio Stazio nella «Conclusione» di L’essenza del cristianesimo del 1841: «Homo homini deus est: questo è il nuovo punto di vista, il supremo principio pratico che segnerà una svolta decisiva nella storia del mondo», tr. di Camilla Cometti, Feltrinelli, Milano 19804, p. 286. 4 François de La Rochefoucauld, Massime [1664], ed. it. a cura di Maurizio Enoch, Newton & Compton, Roma 1993, p. 17. 5 Genesi 3,19. 6 Libro dei Salmi 39,7 7 Lettera di Giacomo 4,14. 8 Libro dei Salmi 8,6. 9 Genesi 1,27. 10 1Giovanni 3,1. 11 Dhammapada 1, citato da Dhammapada per la contemplazione, una versione di Ajahn Munindo, tr. di Chandra Candiani, Associazione Santacittarama, Frasso Sabino 2002, p. 5. 12 La frase nell’originale tedesco ha un’assonanza particolare: «Der Mensch ist, was er isst». È anche il titolo di un saggio di Feuerbach: Il mistero del sacrificio, ovvero l’uomo è ciò che mangia, ora in Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a cura di Andrea Tagliapietra, Bollati Boringhieri, Torino 2017. 13 Scrive Tommaso d’Aquino: «La natura universale è la virtù attiva esistente in un principio universale dell’universo, p. es. in uno dei corpi celesti; oppure in una sostanza superiore, ossia in Dio stesso, denominato da qualcuno “natura naturante”», in Summa theologiae, I-II, q. 85, art. 6, resp., ed. it. La Somma Teologica, Seconda Parte, Prima Sezione, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, vol. II, p. 838. 14 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme [1963], tr. di Piero Bernardini, Feltrinelli, Milano 2001, p. 259. Più avanti a p. 282 si legge: «Naturalmente i giudici sapevano che 1

sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro… Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali». 15 Antonio Damasio, Lo strano ordine delle cose. La vita, i sentimenti e la creazione della cultura [2018], tr. di Silvio Ferraresi, Adelphi, Milano 2018, p. 69. 16 Peraltro non è l’unica struttura deputata al processo della cognizione, perché a tale attività partecipa «l’intera struttura dell’organismo», scrivono Fritjof Capra e Pier Luigi Luisi, in Vita e natura. Una visione sistemica [2014], tr. di Giulia Frezza, Aboca, Sansepolcro 2014, p. 325. Si pensi per esempio all’intestino, dove pure vi sono non pochi neuroni, da cento a seicento milioni, dicono gli esperti. Così il neuroscienziato Antonio Damasio: «Il sistema nervoso enterico è centrale, e non periferico; ha una struttura enorme, e la sua funzione è indispensabile; comprende, secondo le stime, da cento a seicento milioni di neuroni, un numero compatibile, se non superiore, a quello dell’intero midollo spinale», da Lo strano ordine delle cose, cit., p. 156. 17 Per la distinzione tra emozioni e sentimenti, cfr. Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello [2003], tr. di Isabella Blum, Adelphi, Milano 20145. 18 Cfr. Carl Gustav Jung, Jung parla. Interviste e incontri, a cura di William McGuire e R.F.C. Hull [1977], tr. di Adriana Bottini, Adelphi, Milano 20134, pp. 63, 325 e 405. 19 Così Duns Scoto: «Per la personalità si richiede l’ultima solitudine, ossia la negazione della dipendenza attuale e attitudinale verso la persona di un’altra natura», in Ordinatio, III, d. 1, q. 1, n. 17, in Giovanni Duns Scoto, Antologia, a cura di Giovanni Lauriola, Editrice Alberobello, Alberobello 2007, p. 411. 20 Platone, Teeteto 189 E, ed. it. a cura di Claudio Mazzarelli, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 237. Cfr. anche Sofista, 263 E, e Filebo, 38 E. 21 Immanuel Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, B 109, paragrafo 39 [1798], ed. it. a cura di Pietro Chiodi, Tea, Milano 1995, p. 75. 22 Hannah Arendt, La vita della mente [1978, postuma], tr. di Alessandro Dal Lago, il Mulino, Bologna 2009, p. 87. 23 Cfr. ivi, pp. 274-289. Cfr. anche Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale [19651966], tr. di Davide Tarizzo, Einaudi, Torino 2006, p. 49, dove la filosofa commenta Platone, Gorgia, 482 B-C. 24 Immanuel Kant, Metafisica dei costumi [1797], II, ed. it. a cura di Giovanni Vidari, Laterza, Bari-Roma 201813, «Introduzione alla dottrina delle virtù», XII, B, ed. it. cit., p. 253. 25 Ivi, «Elementi dell’etica», parte I, libro I, cap. II, sez. I, 13, ed. it. cit., p. 298. 26 Ibid. 27 Ivi, p. 299. 28 Platone, Apologia di Socrate, 31 C-D, tr. di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 37. Modifico la traduzione di daimónion, che Reale rende con «demoniaco» e che io preferisco rendere con «demonico», perché il demone greco non rimanda al demonio cristiano quanto all’angelo. Cfr. anche Eutifrone, 3 B e Fedro, 242 C. 29 Marco Aurelio, Pensieri, III,16, ed. it. a cura di Maristella Ceva, Mondadori, Milano 19942, p. 43. 30 John Henry Newman, Lettera al Duca di Norfolk, 5 [1875], citato da Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 1778. L’espressione «vicari di Cristo» rimanda naturalmente al vicario di Cristo per eccellenza che per il cattolicesimo è il pontefice romano, e a questo riguardo Newman nello stesso scritto afferma: «Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza, e poi per il Papa», citato senza indicazione di pagina da Joseph Ratzinger / Benedetto XVI, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena 2009, p. 16. 31 Aristide Fumagalli, L’eco dello Spirito. Teologia della coscienza morale, Queriniana, Brescia 2012.

32 Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 16 [1965], in DH 4316. 33 Marco Tullio Cicerone, Tuscolane, II ,26,62, ed. it. a cura di Lucia 20045, p. 255.

Zuccoli Clerici, Bur, Milano

34 Sono le ultime parole del romanzo di Carlo Collodi, pronunciate da Pinocchio: «Com’ero buffo, quand’ero un burattino!… e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…», in Carlo Collodi (Carlo Lorenzini), Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino [1881], Einaudi, Torino 1990, p. 166. 35 Michele Di Francesco, La coscienza, Laterza, Roma-Bari 20052, p. 16. 36 Daniel C. Dennett, Coscienza [1991], tr. di Lauro Colasanti, Rizzoli, Milano 1993, p. 480. Cfr. anche Michele Di Francesco e Massimo Marraffa, Il soggetto e l’ordine del mondo, «Introduzione» a Id. (a cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 33-38. 37 Cfr. Di Francesco - Marraffa, Il soggetto e l’ordine del mondo, cit., p. 33. Gli autori rimandano a Daniel C. Dennett, Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza [2005], Raffaello Cortina, Milano 2006. 38 Dennett, Coscienza, cit., pp. 456 e 462. 39 Ivi, pp. 456-457. 40 Georg W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, «Introduzione», A, 3, B, tr. di Ernesto Codignola e Giovanni Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1981, p. 48. 41 La distinzione di Kant tra antroponomia e antropologia si trova in Metafisica dei costumi, II,XIV, ed. it. cit., p. 259. 42 Dalla conversazione tra Allan Hobson e Thomas Metzinger, riportata da quest’ultimo nel suo Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto [2009], tr. di Matteo Baccarini, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 180. 43 Damasio, Lo strano ordine delle cose, cit., p. 179. 44 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B 476 [1781 e 1787], ed. it. a cura di Pietro Chiodi, Utet, Torino 2005, p. 384. 45 Di Francesco - Marraffa, Il soggetto e l’ordine del mondo, cit., p. 51. 46 Ivi, p. 31. In un contributo all’interno del volume da lui curato con Maraffa, Di Francesco ricorda come «il modello della mente tipico delle scienze e neuroscienze cognitive sia caratterizzato non dall’unità (apparente) dell’io cosciente dell’introspezione, ma dalla divisione in una quantità di agenzie cognitive, spesso operanti a livello subpersonale (inconscio) e automatico (fuori dal controllo della nostra volontà)», da L’io esteso. Il soggetto tra biologia e cultura, in Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, cit., p. 168. 47 Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi 1915-1917, in Opere, a cura di Cesare Luigi Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1968-1993, vol. VIII, p. 446. 48 Per una discussione di queste posizioni rimando al mio libro sulla libertà, Il coraggio di essere liberi, Garzanti, Milano 2016. 49 Di solito attribuita a Woody Allen, sembra risalga invece a Eugène Ionesco. 50 Epitteto, Manuale, n. 38, in Manuale di Epitteto. Introduzione e commento di Pierre Hadot, Einaudi, Torino 2006, p. 199. 51 Marco Aurelio, Pensieri, II,2, ed. it. a cura di Maristella Ceva, Mondadori, Milano 19942, p. 25. 52 Georg W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, «Prefazione», 20 [1807], tr. di Enrico De Negri, La Nuova Italia, Firenze 199210, vol. I, p. 15. 53 Franco Battiato, Bandiera bianca, nell’album La voce del padrone, 1981. 54 Arendt, La vita della mente, cit., p. 274. 55 Cfr. Metzinger, Il tunnel dell’io, cit. 56 L’espressione proviene da 1Re 19,12 secondo la traduzione di Rav Dario Disegni, in Bibbia ebraica. Profeti anteriori, Giuntina, Firenze 20082, p. 249. La Bibbia CEI traduce «il sussurro di una brezza leggera».

57 Platone, Repubblica, VII,515 C, tr. di Roberto Radice, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 1238. Nell’edizione a cura di Mario Vegetti viene sottolineato «il carattere improvviso, “istantaneo” della liberazione e della conseguente conversione dello sguardo del prigioniero… frattura nel continuum temporale dell’esistenza», in Platone, La Repubblica, a cura di Mario Vegetti, Bur, Milano 20134, p. 843. 58 Cfr. Dizionario della saggezza orientale [1986], a cura di Kurt Friedrichs, Ingrid FischerSchreiber, Franz-Karl Ehrhard, Michael S. Diener, tr. di Anna Poletti, Mondadori, Milano 2007. 59 L’espressione «nei cieli» rimanda all’incipit del Padre Nostro secondo la versione del primo evangelista in Matteo 6,9; l’espressione «il cuore dentro il cuore» proviene dal testo taoista Neiye, XIV,15, ed. it. Neiye. Il Tao dell’armonia interiore, a cura di Amina Crisma, Garzanti, Milano 2015, p. 137. 60 Il detto è di Alberto Magno, In Lucam I,32 e lo riprendo da Marco Vannini, Lessico mistico. Le parole della saggezza, Le Lettere, Firenze 2013, p. 98. 61 Cfr. Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico, «Prefazione» [1670], ed. it. in Etica – Trattato teologico-politico, a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani, Utet, Torino 1997, p. 392. Scrive Spinoza: «Per il volgo religione significa tributare sommo onore al clero e ritenere dignità i ministeri ecclesiastici». 62 Marco 5,9. 63 Michele Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Raffaello Cortina, Milano 1998, p. 49; citato da Milena Santerini, Educazione morale e neuroscienze. La coscienza dell’empatia, La Scuola, Brescia 2011, p. 17. 64 Metzinger, Il tunnel dell’io, cit., p. 1. 65 Ivi, p. 237. 66 Ibid. 67 Cfr. Porfirio, Vita di Pitagora, 40, in Pitagora, Le opere e le testimonianze, a cura di Maurizio Giangiulio, Mondadori, Milano 2000, vol. II, p. 279. Di tale pratica pitagorica parla anche Cicerone in De senectute, 11,38. 68 La prima occorrenza in filosofia si trova in Chilone di Sparta, uno dei Sette sapienti, cfr. DielsKranz, 10, 3, 1, 1, ed. it. I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari 1990, vol. I, p. 137. Un altro dei Sette sapienti, Talete, affermava: «È difficile conoscere se stesso», in Diels-Kranz, 10, 3, 4, 9, cit., p. 139. 69 Riprendo il brano di Kant da Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 104, la quale rimanda a Erich Adickes, Kants Opus postumum, Reuter & Reichard, Berlin 1920, p. 44. 70 Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, A 288 [1788], ed. it. a cura di Pietro Chiodi, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, Utet, Torino 1995, p. 313. 71 Ivi, A 289, p. 313. 72 Cito il brano biblico del Qohelet secondo la Vulgata: Ecclesiastes (qui ad Hebraeis «Coheleth» appelatur) 1,2. La Bibbia CEI traduce così Qohelet 1,2: «Vanità delle vanità, dice Qohelet, vanità delle vanità: tutto è vanità». 73 Kant, Critica della ragion pratica, A 289, ed. it. cit., p. 313. 74 Ivi, A 290, ed. it. cit., p. 313. 75 Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 23. 76 Cicerone, Tuscolane, V,25,70, ed. it. cit., pp. 509-511. 77 Arendt, La vita della mente, cit., p. 226. 78 Matteo 5,6. 79 Marco Aurelio, Pensieri, II,17, ed. it. a cura di M. Ceva, cit., p. 35. 80 Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico [1944], tr. di Mario Ageno, Adelphi, Milano 20105, p. 127. 81 Stuart Kauffman, Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione [2008], tr. di Silvio Ferraresi, Codice Edizioni, Torino 2010, pp. 205 e 217. In questo

libro Kauffman ipotizza che la meccanica quantistica giochi un ruolo essenziale nell’esperienza della coscienza, il che a suo avviso permette di risolvere il problema filosofico del libero arbitrio. Kauffmann fa notare che già il fisico britannico Roger Penrose aveva ipotizzato la relazione tra coscienza e fenomeni quantistici nel libro del 1989 La mente nuova dell’imperatore (tr. di Libero Sosio, Rizzoli, Milano 1992). 82 Cfr. Introduzione al Qigong. Pratiche di quiete, a cura di Clara Melloni, Edizioni Dao Tong, Monterotondo 2014, p. 76. 83 Aristotele, De anima, III,5,430 A. 84 Erwin Schrödinger, Spirito e materia [1956], in Id., L’immagine del mondo, tr. di Adolfo Verson, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 353. 85 Pierre Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo [1963], tr. di Monica Guerra, Einaudi, Torino 1999, p. 14. 86 Cfr. Blaise Pascal, Pensieri [1669, postuma], n. 711, ed. Le Guern, ed. it. a cura di Bruno Nacci, Garzanti, Milano 1994, p. 345.

Note al capitolo «III. La virtù, le virtù»

Aristotele, Etica Nicomachea, II,1,1103 A, ed. it. in Le tre etiche, a cura di Arianna Fermani, Bompiani, Milano 2008, p. 483. Lo stesso rapporto tra i due termini viene ribadito in Etica Eudemia, II,2,1220 B, in ivi, p. 43; e in Grande etica, I,6,1186 A, in ivi, p. 1021. 2 Aristotele, Etica Nicomachea, II,1,1103 B, ed. it. cit., p. 485. 3 Citato da Richard Gombrich, Il pensiero del Buddha [2009], tr. di Roberto Donatoni, Adelphi, Milano 2012, p. 37. 4 Così Antonio Damasio: «L’omeostasi è l’insieme fondamentale di operazioni al cuore della vita… è il potente imperativo, inconsapevole e inespresso, il cui assolvimento implica per ogni organismo il semplice perdurare», in Lo strano ordine delle cose. La vita, i sentimenti e la creazione della cultura [2018], tr. di Silvio Ferraresi, Adelphi, Milano 2018, p. 37. Si tratta della classica concezione di salute come armonia che risale a Pitagora, il cui discepolo Alcmeone di Crotone definiva la salute isonomia, descritta da Bruno Snell come «democratica uguaglianza di diritti», per esempio del freddo e del caldo, dell’umido e del secco, in contrapposizione alla malattia che è «monarchia di una singola forza», in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cit., p. 237. Ecco il frammento di Alcmeone: «Ciò che mantiene la salute è l’equilibrio di forze: umido secco, freddo caldo, amaro e così via; invece il predominio [monarchia] di una di esse genera malattia, perché micidiale è il predominio di un opposto», in Diels-Kranz, 24 B 4, ed. it. I Presocratici, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2017, p. 441. 5 Epitteto, Manuale, n. 39, in Manuale di Epitteto. Introduzione e commento di Pierre Hadot, Einaudi, Torino 2006, p. 199. 6 Cfr. per esempio Platone, Gorgia, 525 D. 7 Marco Aurelio, Pensieri, I,11, ed. it. a cura di Maristella Ceva, Mondadori, Milano 1989, p. 9. 8 John Rawls, Una teoria della giustizia [1971 e 1999], ed. it. a cura di Sebastiano Maffettone, tr. di Ugo Santini, Feltrinelli, Milano 2009, p. 414. 9 Marco Tullio Cicerone, Tuscolane, II,18,43, ed. it. a cura di Lucia Zuccoli Clerici, Bur, Milano 20045, pp. 232-233. 10 Dante Alighieri, Convivio [1304-1307], IV,XVII, in Opere, a cura di Manfredi Porena e Mario Pazzaglia, Zanichelli, Bologna 1966, p. 1194. 11 Aristotele, Etica Nicomachea, II,6,1106 A, ed. it. cit., p. 499. 12 Ibid. 13 Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, A 151 [1788], ed. it. a cura di Pietro Chiodi, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, Utet, Torino 1995, p. 227. 14 Immanuel Kant, Metafisica dei costumi [1797], II,XIV, ed. it. a cura di Giovanni Vidari, Laterza, Bari-Roma 201813, p. 258. 15 Ivi, pp. 258-259. 16 Ivi, p. 259. 17 Aristotele, Etica Nicomachea, II,6,1106 B, ed. it. cit., p. 501. 18 Ibid. 19 Ivi, II,6,1107 A, ed. it. cit., p. 503 (traduzione modificata da parte mia). 20 Anne Cheng, Storia del pensiero cinese [1977], ed. it. a cura di Amina Crisma, vol. I, Einaudi, Torino 2000, p. 24. 1

21 Zhongyong, n. 1, ed. it. La costante pratica del giusto mezzo. Zhongyong, a cura di Tiziana Lippiello, Marsilio, Venezia 2010, p. 45. Riprendo dalla «Introduzione» della curatrice le indicazioni cronologiche. 22 Zhongyong, n. 3, ivi, p. 49. 23 Meng-tzu, libro V, parte II, n. 132, ed. it. a cura di Fausto Tomassini, Tea, Milano 1991, pp. 136137. 24 Cfr. Franco Fabbro, La meditazione mindfulness. Neuroscienze, filosofia e spiritualità, il Mulino, Bologna 2019. 25 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 55, art. 3, resp., ed. it. La Somma Teologica, Seconda Parte, Prima Sezione, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, p. 515. 26 Aristotele, Etica Nicomachea, II,1,1103 B, ed. it. cit., p. 485. 27 Br.hādaran.yakopanis.ad, IV,4,5, ed. it. Upanis.ad vediche, a cura di Carlo Della Casa, Tea, Milano 2000, p. 77. 28 Kant, Metafisica dei costumi, II,XIV, ed. it. cit., p. 259. 29 Cfr. Alessandro Manzoni, I promessi sposi [1827-1842], ed. a cura di Angelo Stella e Cesare Repossi, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, capitoli XII-XIII. 30 Platone, Repubblica, VI,493 B, ed. it. a c. di R. Radice, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 1221. 31 Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate [1486], ed. it. a cura di Eugenio Garin, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1994, p. 7. 32 Aristotele, Etica Nicomachea, II,2,1103 B, ed. it. cit., pp. 485-487. Prospettiva ribadita nella Grande etica: «Noi vogliamo, contemporaneamente, sia sapere cos’è la virtù sia essere noi stessi virtuosi», in Grande etica, I,1,1182 A, ed. it. in Le tre etiche, cit., p. 997. 33 Matteo 7,21. 34 Immanuel Kant, Vorlesungen über Philosophische Enzyklopädie, in Kants gesammelte Schriften, vol. XXIX, W. de Gruyter, Berlin 1980, p. 12, citato da Pierre Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson [2001], tr. di Anna Chiara Peduzzi, Einaudi, Torino 2008, p. 156. 35 Platone, Cratilo, 415 D, ed. it. a cura di Maria Luisa Gatti, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 161. 36 Ibid. 37 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 5, art. 4, ad secundum, ed. it. cit., p. 76 38 Tao Te Ching, n. 8, ed. it. Lao Tzu, Tao Te Ching. Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo, traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini, Feltrinelli, Milano 20132, p. 93. 39 Ivi, n. 78, p. 573. 40 Il verbo levare in latino significa «alleggerire, sollevare», e rivive nell’italiano «alleviare». 41 Citazione dalla Ode Zhengmin che riprendo dal paragrafo 33 del classico confuciano Zhongyong, ed. it. cit., p. 139. 42 Tao Te Ching, ed. it. cit., n. 63, p. 473. Cfr. anche n. 48, p. 367. 43 Mohandas Karamchand Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, a cura di Giuliano Pontara, tr. di Fabrizio Grillenzoni e Silvia Calamandrei, Einaudi, Torino 1996, pp. 69-70. Il brano citato proviene da un articolo su «Young India» del 4 novembre 1926. Ahim.sā significa non-violenza. 44 Plotino, Enneadi, I,2,6, ed. it. a cura di Roberto Radice, Mondadori, Milano 20032, p. 111. Porfirio, discepolo di Plotino e redattore delle Enneadi, distingue quattro tipi di virtù: le virtù civiche, le virtù che preparano alla contemplazione, quelle che derivano dalla contemplazione, quelle della mente del tutto purificata dalle passioni, cfr. Porfirio, Sentenze, XXXIX, ed. it. a cura di Massimo Della Rosa, Garzanti, Milano 2012, pp. 104-115. 45 Dante Alighieri, Purgatorio, I,23. 46 Ivi, XXXI,104.

Dante, Convivio, IV,XXII, in Opere, cit., p. 1203. Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco [1944], tr. di Luigi Emery e Alessandro Setti, Bompiani, Milano 2018, pp. 207-208. 49 Eschilo, Sette contro Tebe, verso 610, ed. it. in Eschilo, Le tragedie, a cura di Monica Centanni, Mondadori, Milano 2003, p. 157. 50 Jaeger fa notare che il primo libro della Repubblica ricorda i precedenti dialoghi sulle virtù tutti conclusosi in modo aporetico, e osserva che a essi va affiancato l’Eutifrone sulla pietà religiosa, la quale nella polis arcaica, come appare dal passo di Eschilo, costituiva una delle quattro virtù cardinali, cfr. Jaeger, Paideia, cit., pp. 844-845. 51 Sapienza 8,7. La traduzione proposta differisce dalla versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana (CEI) la quale, al fine di riecheggiare il latino prudentia, rende l’originale greco phrónesis con «prudenza» secondo l’errore già segnalato su cui tornerò. 52 Bernhard Häring, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici [1978], tr. di Renato Volante, Edizioni Paoline, Roma 1979, vol. I, p. 244. 53 Così sant’Ambrogio: «Sappiamo che ci sono quattro virtù cardinali, cioè la temperanza, la giustizia, la prudenza e la fortezza»; riprendo il passo, che proviene dal commento a Luca (Super Lucam 6,20), da Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 61, art. 1. 54 Agostino, De moribus Ecclesiae catholicae, I,15,25. In De Trinitate, XIV,9,12 Agostino sostiene una superiorità della giustizia sulle altre virtù perché a suo avviso a essa sola spetta la certezza di essere immortale e quindi di continuare a essere praticata anche nella condizione di vita futura detta beatitudine. 55 Catechismo della Chiesa Cattolica [1992], art. 1805. 56 Marco Tullio Cicerone, Tuscolane, II,14,32, ed. it. a cura di Lucia Zuccoli Clerici, Bur, Milano 20045, pp. 220-221. 57 Meng-tzu, libro IV, parte I, n. 80, ed. it. cit., pp. 105-106. In precedenza si legge: «La gente ha sempre in bocca le parole: impero, stato, famiglia. Il fondamento dell’impero è nello stato, il fondamento dello stato nella famiglia, il fondamento della famiglia in se stessi» (ivi, n. 65, p. 99). 58 Marco 8,37. 59 Mohandas Karamchand Gandhi, Il mio credo, il mio pensiero [1945], tr. di Lucio Angelini, Newton & Compton, Roma 2008, p. 190. Il brano è tratto da un articolo su «Harijan» del 21 luglio 1946. 60 Visuddhi Magga, IX,297,323; citato da Fabbro, La meditazione mindfulness, cit., p. 7. 61 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 141, art. 7, resp. 62 Cfr. Severino Boezio, La consolazione della filosofia [524], ed. it. a cura di Ovidio Dallera, Bur, Milano 1977. 63 Oscar Wilde, L’anima dell’uomo sotto il socialismo [1891], in Opere, a cura di Masolino d’Amico, Mondadori, Milano 1979, p. 1168. 64 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 141, art. 2, ad secundum. 65 Il concetto di letizia ricorre frequentemente nell’Etica di Spinoza, la prima occorrenza è in Etica, parte III, proposizione 11, scolio: «In seguito intenderò con Letizia la passione per cui la Mente passa a una maggiore perfezione», ed. it. in Etica – Trattato teologico-politico, a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani, Utet, Torino 1997, p. 200. In ordine alla beatitudine, nella proposizione conclusiva dell’Etica si afferma che beatitudine e virtù coincidono: «La beatitudine non è il premio della virtù, ma la virtù stessa»; continua il filosofo: «E noi non godiamo di essa perché reprimiamo le nostre voglie, ma, al contrario, possiamo reprimerle perché godiamo di essa», in Etica, parte V, proposizione 42, ed. it. cit., p. 375. 66 Cfr. Kant, Metafisica dei costumi, II, par. 53, ed. it. cit., p. 366, dove si legge che la serenità accompagna sempre la virtù e che è un dovere coltivarla. 67 Ibid. Vi è qui una specificazione di Kant che merita di essere sottolineata: è quando il filosofo, subito dopo aver detto del cuore sempre sereno, aggiunge: «Secondo l’idea del virtuoso Epicuro». 47 48

Kant, una delle più insigni realizzazioni dell’ideale platonico in epoca moderna, parla qui di Epicuro attribuendogli la qualifica di «virtuoso» a dispetto di tutta una tradizione per la quale la qualifica di epicureo è sinonimo di edonista; il che non solo è sorprendente, ma è soprattutto bellissimo. 68 Zhongyong, n. 33, ed. it. cit., p. 137. 69 Libro dei Salmi 4,9.

Note al capitolo «IV. La saggezza»

Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 1806. Sull’uso del termine specchio quale strumento di autoconoscenza si consideri il titolo Lo specchio delle anime semplici, opera della mistica medievale Margherita Porete, arsa sul rogo dall’Inquisizione cattolica il 1o giugno 1310 a Parigi. Cfr. l’edizione italiana a cura di Giovanna Fozzer e Marco Vannini, Le Lettere, Firenze 2018. 3 Matteo 10,16. 4 Genesi 3,1. 5 Cfr. Proverbi 12,16; 12,23; 13,16; 14,8; 14,15; 14,18; 22,3; 27,12. 6 Tiziano Vecellio, Allegoria della Prudenza, olio su tela, 1570, Londra, National Gallery. 7 Dante Alighieri, Convivio [1304-1307], IV,27, in Opere, a cura di Manfredi Porena e Mario Pazzaglia, Zanichelli, Bologna 1966, p. 1217. 8 Dante Alighieri, Purgatorio, XXIX,130-132. 9 È Raimon Panikkar a istituire un’analogia tra il terzo occhio della tradizione hindu e l’oculus fidei di Riccardo di San Vittore dicendo che del terzo occhio non parla solo la religiosità orientale ma anche la tradizione cristiana: «Secondo Riccardo di San Vittore ci sono tre occhi: l’oculus carnis, l’oculus rationis e l’oculus fidei», da Raimon Panikkar, L’esperienza di Dio [1998], tr. di Mauro Nicolosi, Queriniana, Brescia 20022, p. 11. Cfr. anche dello stesso autore Tra Dio e il cosmo. Una visione non dualista della realtà. Dialogo con Gwendoline Jarczyk [1998], tr. di Michele Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 181. 10 Baruch Spinoza, Etica, parte V, Proposizione 25 [1677], ed. it. in Etica – Trattato teologicopolitico, a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani, Utet, Torino 1997, p. 362. Sul terzo genere di conoscenza si struttura praticamente tutta l’ultima parte dell’Etica, cfr. in particolare parte V, proposizioni 26-33. 11 Michel de Montaigne, Saggi, libro I, cap. 24 [1580-1588], ed. it. a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano 1992, p. 169. 12 John Milton, Areopagitica [1644], ed. it. a cura di Mariano Gatti e Hilary Gatti, Rusconi, Milano 1998, pp. 29-31. 13 Cfr. Marco Tullio Cicerone, De officiis, I,43,153: «Prudentiam enim, quam Graeci phrónesin dicunt»; ovvero: «la prudentia, che i greci chiamano phrónesis», ed. it. in De officiis. Quel che è giusto fare, a cura di Giusto Picone e Rosa Rita Marchese, Einaudi, Torino 2012, p. 129. 14 Montaigne, Saggi, libro I, cap. 20, ed. it. cit., p. 124. 15 Dante, Convivio, IV,27, in Opere, cit., p. 1217. 16 René Descartes, Discorso sul metodo, I,13-14 [1637], tr. di Enzo Carrara, La Nuova Italia, Firenze 197723, p. 31. 17 Epicuro, Lettera a Meneceo, 132, ed. it. in Come essere felici. Lettera a Meneceo, Massime capitali, Gnomologio vaticano, Vita di Epicuro, a cura di Giacomo Origo, Garzanti, Milano 2014, p. 11. 18 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 61, art. 3, ad primum, ed. it. La Somma Teologica, Seconda Parte, Prima Sezione, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, p. 573. 19 Platone, Menone, 88 B, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di 1 2

Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 956. L’esempio è poi ripreso da Aristotele in Etica Nicomachea, II,5,1106 B che fa consistere la saggezza in quanto esercizio del senno nel cogliere il giusto mezzo. 20 Platone, Menone, 88 C-D, ed. it. cit., p. 956, con traduzione mia perché Reale qui traduce phrónesis ora con «intelligenza», ora con «senno». 21 Platone, Fedone, 69 A-B, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 80. La medesima prospettiva viene ribadita da Platone nella sua ultima opera: «Fra i beni divini si trova al primo posto, in posizione preminente, la saggezza», in Leggi, I,631 C, ed. it. a cura di Roberto Radice, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 1465. 22 Così Cicerone: «Da questo è derivato il proverbio, ormai comunemente abusato, di «massima giustizia, massima ingiustizia», in De officiis, I,10,33, ed. it. cit., pp. 28-29. 23 In questo paragrafo riprendo in parte quanto ho scritto in Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, paragrafo 18. 24 Eraclito, frammento n. 82, ed. Diano, in Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra, Mondadori, Milano 1993, p. 39. Il frammento corrisponde al n. 40 della classica raccolta Diels-Kranz. Con «intelletto» si traduce il termine greco nóos, la cui variante più nota è noûs. 25 Si dice che Pitagora, vedendo un tale picchiare un cagnolino, gli si rivolgesse così: «Smetti, non picchiare, perché invero si tratta dell’anima di una persona amica che ho riconosciuto udendone la voce», frammento n. 1, in Pitagora, Le opere e le testimonianze, a cura di Maurizio Giangiulio, Mondadori, Milano 2000, vol. I, p. 3. Platone illustra la metempsicosi soprattutto nel mito di Er in Repubblica, X,614 A - 621 D, a conclusione dell’opera. 26 Matteo 25,19; idem in Luca 19,26. 27 Matteo 25,30. 28 Platone, Repubblica, VI,498 B, in Repubblica, a cura di Mario Vegetti, Bur, Milano 20134, p. 791. Cfr. anche l’edizione a cura di Roberto Radice, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 1226. Oltre a esercizi spirituali, anche il termine teologia lo si deve a Platone, cfr. Repubblica, II,379 A, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 1127, prima occorrenza del termine nella cultura occidentale. 29 Cfr. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali [1548], ed. it. a cura di Gaetano Piccolo, Garzanti, Milano 2016. Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica [1983-1992], a cura di Arnold I. Davidson, tr. di Anna Maria Marietti, Einaudi, Torino 2005, in particolare il capitolo Esercizi spirituali antichi e «filosofia cristiana», pp. 69-86. 30 Meng-tzu, libro V, parte II, n. 132, ed. it. a cura di Franco Tomassini, Tea, Milano 1991, pp. 136137. 31 Karl Rahner e Herbert Vorgrimler, «Sinderesi (Synéidesis)», in Dizionario di teologia [1968], ed. it. a cura di Giuseppe Ghiberti e Giovanni Ferretti, Tea, Milano 1994, p. 646. 32 La più antica attestazione giunta a noi di synéidesis risale al V secolo a.C. e si deve a Democrito che scrive: «Certi uomini ignorano che la natura mortale è soggetta a corruzione, ma sono coscienti del male commesso nella propria vita», in Diels-Kranz 68 B 297, ed. it. I Presocratici, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2017, p. 1439. 33 Cfr. Antonino Poppi, «Conscientia», in Dizionario bonaventuriano. Filosofia teologia spiritualità, a cura di Ernesto Caroli, Edizioni Francescane, Padova 2008, pp. 257 e 260. 34 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 94, art. 1, ad secundum. 35 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 79, art. 12, sed contra, laddove più estesamente si afferma che la sinderesi «ad bonum tantum inclinat», «inclina soltanto al bene». 36 Ibid., resp. 37 Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 1780. 38 Crisippo B.f. 1005.1, in Stoici antichi. Tutti i frammenti. Secondo la raccolta di Hans von Arnim [1903-1905], ed. it. a cura di Roberto Radice, Bompiani, Milano 2002, p. 871. Cfr. anche C.e 256, in ivi, p. 1089.

Matteo 5,37. Luca 13,18 e 20. Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche [1906], n. 481, ed. it. a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Bompiani, Milano 20014, p. 271. 42 Cfr. Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2017, pp. 65-69. 43 La frase di Goethe si trova in Johann Peter Eckermann, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita [1836, con materiale degli anni 1823-1832], ed. it. a cura di Enrico Ganni, tr. di Ada Vigliani, Einaudi, Torino 2008, pp. 526-527. 44 Cfr. Esiodo, Teogonia, 116; e Genesi 1,2. 45 Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 11 [1509], ed. it. a cura di Roberto Giannetti, Garzanti, Milano 2015, p. 79. 46 François de La Rochefoucauld, Massime [1664], n. 209, ed. it. a cura di Maurizio Enoch, Newton & Compton, Roma 1993, p. 30. 47 È ad Aristotele che si deve la più chiara distinzione tra saggezza e sapienza, entrambe virtù dianoetiche, ma di cui la prima riguarda solo la ragion pratica, la seconda anche la ragione teoretica. 48 Albert Einstein, Il fine dell’esistenza umana [1943], ora in Id., Pensieri, idee, opinioni, tr. di Lucio Angelici, Newton & Compton, Roma 2006, p. 221. 39 40 41

Note al capitolo «V. La giustizia»

Dante Alighieri, Convivio [1304-1307], IV,17, in Opere, a cura di Manfredi Porena e Mario Pazzaglia, Zanichelli, Bologna 1966, p. 1195. 2 Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 1807. 3 Giotto di Bondone, Cappella degli Scrovegni, Padova, 1300-1305; cfr. Giotto. Gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, a cura di Giuseppe Basile, testi di Giuseppe Basile e Francesca Flores d’Arcais, fotografie di Angelo Rubino, Skira, Ginevra-Milano 2002. 4 Aristotele, Etica Nicomachea, V,1129 B, ed. it. in Le tre etiche, a cura di Arianna Fermani, Bompiani, Milano 2008, p. 631. 5 Ibid. 6 Tra i numerosi passi, cfr. Libro dei Salmi 33,5; 45,8; 48,11; 58,12; 72,4; 89,15; 97,2; 98,9. 7 Isaia 1,13 e 16-17; cfr. sulla medesima linea Geremia 22,3; Amos 5,21-24; Michea 6,6-8. 8 Sapienza 8,7. 9 Cfr. Grande Lessico del Nuovo Testamento, a cura di Gerhard Kittel e Gerhard Friedrich [19331935], voce Dikaiosune, ed. it. a cura di F. Montagnini, G. Scarpat, O. Soffritti, Paideia, Brescia 1966, vol. II, col. 1244. 10 Matteo 5,6 e 5,10. 11 Carlo Maria Martini, Sulla giustizia, Mondadori, Milano 1999, p. 26. 12 Carlo Maria Martini e Georg Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, tr. di Francesca Gimelli, Mondadori, Milano 2008, pp. 116 e 119 (il libro fu scritto originariamente in tedesco). 13 Meng-tzu, libro VI, parte I, n. 150, ed. it. a cura di Fausto Tomassini, Tea, Milano 1991, p. 154. 14 Alessandro Manzoni, I promessi sposi, III,35 [1827-1842], ed. a cura di Angelo Stella e Cesare Repossi, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, p. 43. 15 Martin Lutero, Discorsi a tavola, trascrizioni di Veit Dietrich, n. 2, ed. it. a cura di Leandro Perini, nuova ed. a cura di Domenico Segna, Garzanti, Milano 2017, p. 75. Si tratta di un proverbio tedesco a lui precedente. 16 Insieme a Honeste vivere («Vivere con onestà») e ad Alterum non laedere («Non danneggiare gli altri») costituisce la «triade fondamentale dei precetti del diritto romano», da Renzo Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Bur, Milano 19923, p. 511. 17 Matteo 5,20. 18 Platone, Repubblica, II,360 B-C, tr. di Roberto Radice, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 1110. 19 Ivi, II,360 C-D, p. 1111. 20 La prima condanna risale al concilio di Cartagine del 411, cfr. DH 223-225, e venne rinnovata dal concilio di Trento con il Decreto sul peccato originale del 17 giugno 1546, cfr. DH 1511-1516 e con il Decreto sulla giustificazione del 13 gennaio 1547, cfr. DH 1551-1552. Papa Francesco ha richiamato spesso la condanna del pelagianesimo, cfr. p. es. l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate. Sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, nn. 47-62, Città del Vaticano 2018. 21 Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 1992. Un altro articolo in questa prospettiva è il 1987: «La grazia dello Spirito Santo ha il potere di giustificarci, cioè di mondarci dai nostri peccati e di comunicarci la giustizia di Dio». 1

Aristotele, Etica Nicomachea, V,9,1137 A, ed. it. cit., p. 675. Siracide 27,8. Il concilio di Cartagine condanna all’anatema chi afferma che «nel regno dei cieli ci sarà un qualche luogo posto nel mezzo o altrove dove vivono come beati gli infanti che trapassarono da questa vita senza il battesimo», in DH 224. 25 Libro dei Morti, cap. 125, ed. it. in Testi religiosi dell’antico Egitto, a cura di Edda Bresciani, Mondadori, Milano 2001, p. 641. Il testo rimanda al mito della psicostasia, la pesatura dell’anima o del cuore al cospetto di Osiride avendo come contrappeso la piuma di Maat, dea della giustizia. Vi è una forte somiglianza con questo passo evangelico: «Venite, benedetti dal Padre mio […] perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito» (Matteo 25,34-36). A parte il riferimento alla barca, che poteva risultare essenziale in Egitto, l’unica differenza reale è che il testo egizio è più antico di quindici secoli. 26 Riprendo il testo da Franco Fabbro, Identità culturale e violenza. Neuropsicologia delle lingue e delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino 2018, p. 119, il quale cita da Pio Filippani-Ronconi, Zarathustra e il mazdeismo, a cura di Ciro Lo Muzio, Edizioni Irradiazioni, Roma 2007, p. 90. 27 Meng-tzu, libro II, parte I, n. 29, ed. it. cit., p. 54. 28 Gli editti di Aśoka, VI, ed. it. a cura di Giovanni Pugliese Carratelli, Adelphi, Milano 2003, p. 52. 29 Marco Tullio Cicerone, La repubblica, III,22[33], ed. it. a cura di Francesca Nenci, Bur, Milano 20154, p. 473. 30 Agostino, De vera religione, 39,72. Testo originale: «In interiore homine habitat veritas». Si tratta dell’Agostino neoplatonico, molto diverso dal tardo Agostino che definirà l’umanità massa damnata o massa damnationis, cfr. p. es. De civitate Dei, XV,1 e XXI,12. 31 Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, IV,41,1-2, ed. it. a cura di Caterina Barone, Garzanti, Milano 201510, vol. I, p. 199. 32 Joseph Ratzinger / Benedetto XVI, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena 2009, p. 23. 33 Per il suo approfondimento vedi Appendice 2. 34 Thomas Hobbes, Leviatano, I,14 [1651], tr. di Gianni Micheli, La Nuova Italia, Firenze 19912, p. 125. 35 Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, par. 66 [1818], ed. it. a cura di Ada Vigliani, Mondadori, Milano 19953, p. 521. 36 Così Hegel: «La determinazione è la negazione posta come affermativa; è la proposizione di Spinoza: Omnis determinatio est negatio. Questa proposizione è di una importanza infinita», da Gerog W.F. Hegel, Scienza della logica, libro I, sez. I, cap. II, A, tr. di Arturo Moni, revisione di Claudio Cesa, Laterza, Roma-Bari 19944, vol. I, p. 108. Per Spinoza il riferimento è alla Lettera 50, indirizzata a Jarig Jelles, del 2 giugno 1674, dove si legge: «Poiché dunque la figura non è altro che la determinazione, e la determinazione è una negazione [determinatio negatio est], la figura non potrà essere altro, come ho detto, che una negazione», da Baruch Spinoza, Tutte le opere, a cura di Andrea Sangiacomo, Bompiani, Milano 20112, p. 2077. 37 Georg W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, «Prefazione», 20 [1807], tr. di Enrico De Negri, La Nuova Italia, Firenze 199210, vol. I, p. 15. 38 Udāna (Versi ispirati), 6.4 (54), ed. it. a cura di Francesco Sferra, in La rivelazione del Buddha, vol. I: Testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, p. 683. 39 Siracide 7,13. 40 Matteo 7,1-2 e Luca 6,37; il testo greco presenta il verbo kríno, «discernere». 41 Luca 12,57; il testo greco presenta il verbo kríno. Analoga affermazione in san Paolo: «L’uomo mosso dallo Spirito giudica ogni cosa» (1Corinzi 2,15; il verbo è anakríno, «indagare»). 42 Martini e Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme, cit., p. 21. 43 Ivi, p. 119. 44 Cfr. Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male [1886], tr. di Ferruccio Masini, Adelphi, 22 23 24

Milano 199615. 45 Martin Heidegger, La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto» [1940], in Id., Sentieri interrotti, ed. it. a cura di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 19873, p. 241. 46 Martin Heidegger, Scritti politici (1933-1966), a cura di François Fédier, ed. it. a cura di Gino Zaccaria, Piemme, Casale Monferrato 1998, p. 149. 47 Dietrich Bonhoeffer, Il concetto alterato di leadership della generazione più giovane, discorso radiofonico del 1o febbraio 1933, citato da Eric Metaxas, Bonhoeffer. La vita del teologo che sfidò Hitler [2010], tr. di Pietro Meneghelli, Fazi Editore, Roma 2012, p. 181. 48 Dietrich Bonhoeffer, Pensieri per il giorno del battesimo di Dietrich Wilhelm Rüdiger Bethge, in Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere [1943-1945], a cura di Eberhard Bethge, ed. it. a cura di Alberto Gallas, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 19892, p. 368. 49 Platone, Repubblica, II,382 A, in La Repubblica, a cura di Mario Vegetti, Bur, Milano 20134, p. 427. 50 Platone, Protagora, 357 D, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 847. 51 Cfr. Gotthold Ephraim Lessing, L’educazione del genere umano [1780], in Id., Opere filosofiche, a cura di Guido Ghia, Utet, Torino 2008. 52 Cfr. Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, 9, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti [1955, postumo], tr. di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1962, p. 80. 53 Il testo originale di Aristotele ho ánthrōpos phýsei politikón zôon viene tradotto da Viano: «L’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città», in Aristotele, Politica, I,2,1253 A, ed. it. Politica e Costituzione di Atene, a cura di Carlo Augusto Viano, Utet, Torino 2006, p. 66. 54 Platone, Repubblica, I,351 C-D, ed. it. a cura di Roberto Radice, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 1104. 55 Cicerone, De officiis, II,40, ed. it. De officiis. Quel che è giusto fare, a cura di Giusto Picone e Rosa Rita Marchese, Einaudi, Torino 2012, p. 167. 56 La locuzione ebraica è Tzadikim Nistarim, cfr. trattato Sanhedrin, Sinedrio, 97 b e trattato Sukkah, Capanna, 45 b. 57 Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 412, che cita Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, III, q. 1, art. 3, ad tertium. 58 Cfr. Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, III, sez. I, IV [1793], ed. it. a cura di Massimo Roncoroni e Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 241. 59 Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B 856 [1781 e 1787], ed. it. a cura di Pietro Chiodi, Utet, Torino 2005, p. 621. 60 Dietrich Bonhoeffer, Che cosa significa dire la verità? [1942], in Etica, Appendice V, tr. di Aldo Comba, Bompiani, Milano 19833, pp. 310-311. 61 Ivi, p. 309. 62 Giovanni 3,21. 63 «Il motto mio è: Pro veritate adversa diligere, cioè essere contento delle contraddizioni»: così, durante una conferenza presso il Pontificio Istituto Biblico di Roma il 23 maggio 2002, Carlo Maria Martini traduceva il senso della frase che ventidue anni prima aveva scelto come motto episcopale. La frase è tratta da Gregorio Magno, La regola pastorale, I,3, opera composta dall’autore poco dopo l’elezione a vescovo di Roma nel 590. Normalmente è tradotta: «Amare le avversità per difendere la verità». 64 Aristotele, Etica Nicomachea, V,10,1137 B, ed. it. cit., p. 677. 65 Ibid. Sempre sul concetto di epicheia, cfr. Aristotele, Retorica, I,1374 A - 1374 B. 66 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 120, art. 1, resp., ed. it. La Somma Teologica, Seconda Parte, Seconda Sezione, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, vol. III, pp. 1122-1123.

Note al capitolo «VI. La fortezza»

Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 1808. Dante Alighieri, Convivio [1304-1307], IV,17, in Opere, a cura di Manfredi Porena e Mario Pazzaglia, Zanichelli, Bologna 1966, p. 1194. 3 Marco Tullio Cicerone, Tuscolane, II,18,43, ed. it. a cura di Lucia Zuccoli Clerici, Bur, Milano 20045, p. 233. Alla fine dell’opera ribadisce la posizione elencando le virtù e sottolineando soprattutto la fortitudo: «In primisque fortitudinem», V,28,80, ed. it. cit., p. 519. Altrove però Cicerone assegna il primato alla giustizia: «… la giustizia, nella quale lo splendore della virtù è massimo», in De officiis, I,7,20, ed. it. De officiis. Quel che è giusto fare, a cura di Giusto Picone e Rosa Rita Marchese, Einaudi, Torino 2012, p. 19. 4 Dal discorso di Benito Mussolini del 2 agosto 1924, Roma, Palazzo Venezia: «Signori, chiunque è capace di navigare in mare di bonaccia, quando i venti gonfiano le vele, né vi sono onde e cicloni. Il bello, il grande, e vorrei dire eroico, è di navigare quando la bufera imperversa. Un filosofo tedesco disse: “Vivi pericolosamente”. Vorrei che questa fosse la parola d’ordine del fascismo italiano: “Vivere pericolosamente”. Ciò deve significare essere pronti a tutto, a qualsiasi sacrificio, a qualsiasi pericolo, a qualsiasi azione, quando si tratti di difendere la Patria e il Fascismo». Il filosofo tedesco è ovviamente Nietzsche che propone di «vivere pericolosamente» con queste parole: «Perché – credete a me – il segreto per raccogliere dall’esistenza la fecondità più grande e il diletto più grande, si esprime così: vivere pericolosamente! Costruite le vostre città sul Vesuvio, spedite le vostre navi su mari inesplorati! Vivete in guerra con i vostri simili e voi stessi! Siate predatori e conquistatori finché non potrete essere dominatori e padroni, voi uomini della conoscenza», in La gaia scienza, IV, n. 283 [1882], tr. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 19896, p. 164. Si tratta di parole che evidentemente avevano affascinato molto Mussolini. 5 Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII,85, ed. it. a cura di Marcello Gigante, Laterza, Roma-Bari 2003, vol. I, p. 273. Cfr. anche Epitteto, Manuale, n. 31,3: «Ogni essere vivente è per natura portato a questo: evitare le cose che gli paiono dannose e le loro cause e allontanarsene, ricercare e ammirare le cose che gli sono utili e le loro cause», in Manuale di Epitteto. Introduzione e commento di Pierre Hadot, Einaudi, Torino 2006, p. 183. 6 Leonardo da Vinci, Prose, a cura di Luigi Negri, Utet, Torino 1926, p. 25. 7 Baruch Spinoza, Etica, parte III, proposizione 6, ed. it. in Etica – Trattato teologico-politico [1677], a cura di Remo Cantoni e Franco Fergnani, Utet, Torino 1997, p. 197. 8 Neiye, II,11, ed. it. Neiye. Il Tao dell’armonia interiore, a cura di Amina Crisma, Garzanti, Milano 2015, p. 131. La curatrice fa notare che il termine cinese per energia vitale è qi. 9 Ivi, III,8-9, ed. it. cit., p. 132. 10 Spinoza, Etica, parte IV, proposizione 18, scolio, ed. it. cit., p. 281. 11 Ivi, proposizione 22, ed. it. cit., p. 284. 12 Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico [1887], tr. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 19904, p. 34. 13 Cfr. Henri Bergson, L’evoluzione creatrice [1907], ed. it. a cura di Fabio Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2002. 14 Évode Beaucamp, «Forza», in Dizionario di Teologia Biblica, direzione di Xavier Léon-Dufour, ed. it. a cura di Giovanni Viola e Ambretta Milanoli, Marietti, Torino 1971, p. 422. 1 2

Cfr. Aristotele, Metafisica, IX. Genesi 4,23. Omero, Iliade, I,2, tr. di Giovanni Cerri, Rizzoli, Milano 1996, p. 117. Esiodo, Teogonia, verso 388, ed. it. a cura di Graziano Arrighetti, Bur, Milano 200413, p. 89. Isaia 45,7, traduzione mia. La Bibbia CEI traduce «faccio il bene e provoco la sciagura», ma si tratta di un tentativo di attutire la durezza del testo che nell’originale ebraico presenta il sostantivo ra’, «male», e il verbo bara’, «creare». Sulla stessa linea altri autori della Bibbia, tra cui il profeta Amos: «Avviene forse nella città una sventura, che non sia causata dal Signore?» (Amos 3,6), e Gesù ben Sira detto Siracide: «Bene e male, vita e morte, povertà e ricchezza, provengono dal Signore» (Siracide 11,14). 20 Corano, sura III, versetto 129, ed. it. a cura di Alessandro Bausani, Bur, Milano 20106, p. 47. 21 Luca 4,5-6. 22 Cfr. Giovanni 12,31; 14,30; 16,11; il greco ho árchōn toû kósmou toútou non è a mio avviso reso bene dal «principe di questo mondo» della versione CEI, perché il termine principe risulta troppo debole. 23 Cfr. 2Corinzi 4,4. 24 Romani 13,1-2. 25 Apocalisse 18,6 e 17,9. 26 Meng-tzu, libro V, parte I, n. 127, ed. it. a cura di Fausto Tomassini, Tea, Milano 1991, p. 128. 27 Cfr. Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, il Mulino, Bologna 2015. 28 Epicurea. Testi di Epicuro e testimonianze epicuree nella raccolta di Hermann Usener, n. 551, ed. it. a cura di Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano 2002, pp. 696-699. 29 Platone, Gorgia, 482 E, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 894. 30 Ivi, 483 D, ed. it. cit., p. 895. 31 Ivi, 483 B, ed. it. cit., p. 894. 32 Tucidide, La guerra del Peloponneso, V,89, ed. it. a cura di Ezio Savino, Garzanti, Milano 19928, p. 374. 33 Ivi, V,105, ed. it. cit., p. 377. 34 Cfr. Nietzsche e gli ebrei, antologia a cura di Vivetta Vivarelli, Giuntina, Firenze 2011. 35 Eric Metaxas, Bonhoeffer. La vita del teologo che sfidò Hitler [2010], tr. di Pietro Meneghelli, Fazi Editore, Roma 2012, p. 213. 36 Il passo di Pindaro è in Platone, Gorgia, 484 B, ed. it. cit., p. 895. 37 Cfr. Giordano Bruno, De gli eroici furori, dialogo morale pubblicato a Londra nel 1585, ora in Opere italiane, a cura di Giovanni Aquilecchia e Nuccio Ordine, Utet, Torino 2002, vol. II. 38 Marco 8,34-35. 39 1Corinzi 1,27. 40 1Corinzi 2,3. 41 2Corinzi 9,22; egli non aggiunge però di essersi fatto forte con i forti. 42 2Corinzi 11,29-30; affermazione ripetuta poco dopo in 12,5. 43 2Corinzi 12,9. 44 2Corinzi, 12,10. 45 2Corinzi 9,27. 46 È il caso per esempio del prete spagnolo Miguel de Molinos, operante a Roma come confessore e direttore spirituale, che venne giudicato colpevole di «quietismo» dall’Inquisizione nel 1687, costretto all’abiura pena la morte e infine condannato all’ergastolo. Tra le altre cose egli sosteneva che «la croce volontaria delle mortificazioni è un peso opprimente e senza frutto, deve perciò essere eliminato» (DH 2238; cfr. anche 2239 e 2240). Molinos morì in carcere il 28 dicembre 1696. 47 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 123, art. 6, sed contra, ed. it. La Somma 15 16 17 18 19

Teologica, Seconda Parte, Seconda Sezione, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, p. 1151. 48 Riprendo la citazione da Bernhard Häring, La legge di Cristo. Trattato di teologia morale, vol. I, Teologia morale generale [1954], ed. it. a cura dei Padri Redentoristi Alfonso Kovacev, Benedetto Ragni, Santino Raponi, Morcelliana, Brescia 1957, p. 487, che rimanda a Max Scheler, Umsturz der Werte, I, p. 13. 49 Galati 2,20. 50 Simone Weil, Quaderni, ed. it. a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 19952, vol. III, p. 142. 51 Ivi, p. 195. 52 Ivi, p. 141. 53 In coerenza con la propria visione del mondo Simone Weil si lasciò morire, come risulta dal certificato ufficiale di morte dell’ospedale di Ashford in Inghilterra: «La defunta si è condannata e uccisa rifiutando di mangiare, in situazione di turbamento mentale», citato da Gabriella Fiori, Simone Weil. Biografia di un pensiero, Garzanti, Milano 1981, p. 10. La stessa Simone Weil aveva dichiarato al medico curante: «Quando penso ai miei compatrioti che stanno morendo di fame in Francia, mi è impossibile mangiare» (ibid.). Anche le testimonianze del Middlesex Hospital di Londra, dove la filosofa francese era stata ricoverata in precedenza, concordano sul fatto che «la professoressa Weil si lasciava morire di fame» (ibid.). 54 Spinoza, Etica, parte III, proposizione 6, ed. it. cit., p. 197. 55 Ivi, proposizione 7, ed. it. cit., p. 197. 56 Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche [1906], n. 1067, ed. it. a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Bompiani, Milano 20014, p. 562. 57 Cfr. Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale [1965-1966], tr. di Davide Tarizzo, Einaudi, Torino 2006, pp. 98-99. 58 Nietzsche, Genealogia della morale, I,13, ed. it. cit., p. 34. Si pensi anche all’utilizzo di termini quali martello e dinamite: il primo si trova nel sottotitolo del Crepuscolo degli idoli del 1888 che recita: «Come si filosofa col martello»; il secondo in Ecce homo, sempre del 1888: «Io non sono un uomo, sono dinamite», in Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, a cura di Roberto Calasso, Adelphi, Milano 199212, p. 127. 59 Nietzsche, Genealogia della morale, I,11, ed. it. cit., pp. 30-31. 60 Ivi, p. 32. 61 Ivi, II,11, ed. it. cit., p. 65. 62 Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 5. 63 Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, vol. I, n. 103 [1878], tr. di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 20029, pp. 79-80. 64 Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate [1486], ed. it. a cura di Eugenio Garin, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1994, pp. 7-9. 65 Così Spinoza: «Per realtà e perfezione intendo la stessa cosa», in Spinoza, Etica, parte II, definizioni, VI, e parte IV, «Prefazione», ed. it. cit., pp. 130 e 265. 66 Nella concezione stoica del mondo sono decisivi i concetti di prónoia e di heimarméne, il primo traducibile «provvidenza», il secondo «destino», così intrecciati tra loro che «la heimarméne può essere equiparata alla provvidenza e anche al noûs di Zeus, anzi a Zeus stesso», Max Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale [1943], tr. di Ottone De Gregorio, Bompiani, Milano 2005, p. 202. 67 Così Hegel: «Ciò che è razionale, è reale; e ciò che è reale, è razionale», in Georg W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto [1820], «Prefazione»; ed. it. a cura di Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 19982, p. 59. 68 Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello [1888], tr. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 19924, p. 44.

69 Cfr. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno [1883-1885], tr. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 198914, pp. 279-283; cfr. anche Ecce homo, ed. it. cit., pp. 140-141. 70 Cfr. Spinoza, Etica, parte V, proposizione 32, corollario, e proposizione 33, ed. it. cit., p. 367. 71 Proverbi 16,32. 72 Cicerone, Tuscolane, II,22,53, ed. it. cit., p. 245. 73 Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, XIX,113,30, ed. it. a cura di Caterina Barone, Garzanti, Milano 201510, vol. II, p. 871. 74 Dhammapada, nn. 103 e 104-105, citato da Dhammapada per la contemplazione, una versione di Ajahn Munindo, tr. di Chandra Candiani, Associazione Santacittarama, Frasso Sabino 2002, p. 36. Sulla stessa linea il n. 145: «I costruttori di canali convogliano il flusso dell’acqua, i fabbri forgiano le frecce, i falegnami lavorano il legno, i buoni domano se stessi». 75 Ivi, n. 248, p. 82. 76 Luca 9,25. 77 Marco 7,15 e 7,21-22. 78 Senofonte, Memorabili, I,5,4, ed. it. a cura di Anna Santoni, Bur, Milano 20106, p. 135. 79 Platone, Lettera Settima, 331 E, ed. it. in Lettere, a cura di Margherita Isnardi Parente, tr. di Maria Grazia Ciani, Fondazione Valla-Mondadori, Milano 2002, p. 85. Cfr. anche Fedro, 256 B. 80 Aristotele, Etica Nicomachea, VII,3,1147 A, ed. it. cit., p. 737. 81 Ivi, VII,5,1148 B, p. 745. 82 Ivi, VII,7,1150 B, p. 755. 83 Ivi, VII,5,1148 B, p. 745. 84 Ivi, VII,6,1149 B, p. 751. 85 Ivi, VII,10,1152 A, pp. 765-767. 86 Ivi, VII,6,1149 B, p. 749. 87 Ivi, VII,7,1150 A, p. 753. 88 Ivi, VII,7,1150 B, p. 755. 89 Ivi, VII,7,1150 B, p. 757. 90 Ivi, VII,10,1152 A, p. 765. 91 Ivi, VII,10,1152 A, p. 765. 92 Ivi, VII,3,1147 B, p. 739. 93 Scrive Aristotele: «Potrebbe anche sembrare che si arrivi alla stessa conclusione di Socrate: in effetti non è in presenza di quella che viene ritenuta essere la scienza in senso proprio che la passione si genera, né è trascinata qua e là a causa della passione, ma in presenza della conoscenza sensibile», ibid. Per la posizione di Platone, cfr. Protagora, 357 D. 94 Aristotele, Etica Nicomachea, VII,3,1147 A, ed. it. cit., p. 737. 95 Platone, Protagora, 352 B, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 842. 96 Werner Jaeger, Cristianesimo primitivo e Paideia greca [1961], tr. di Silvano Boscherini, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 46. 97 Per gli encratiti essere cristiani significava sostanzialmente volgere le spalle al mondo e alla natura umana, sicché rifiutavano ogni consumo di carne e di vino (celebrazione della messa compresa, per la quale usavano l’acqua), e ogni esercizio della sessualità; prendevano così sul serio la enkráteia o padronanza di sé, talora effettivamente minacciata dall’alcol e dal sesso, da dimenticare le altre virtù cardinali, in particolare la saggezza. 98 Simone Weil, Padre Nostro, ed. it. a cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, Castelvecchi, Roma 2015, p. 26. Cfr. anche la raccolta di scritti Attesa di Dio, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano 2008, p. 91. 99 Matteo 6,9: «Padre nostro che sei nei cieli»; Giovanni 18,36: «Il mio regno non è di questo mondo».

Platone, Repubblica, VI,509 B, ed. it. in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 1235. Platone, Fedone, 99 C, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 107. Cfr. Immanuel Kant, La religione entro i limiti della semplice ragione, III, sez. I,IV [1793], ed. it. a cura di Massimo Roncoroni e Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 241. 103 Si legge nel Principe, cap. XXV: «Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi». Se però questo nostro governo agisce male, continua Machiavelli, la fortuna è implacabile e come un fiume in piena travolge ogni cosa: essa «dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla», ed. a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano 1979, p. 130. Lo stesso concetto nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio [1513-1519], II,30,32: «Dove gli uomini hanno poca virtù, la fortuna mostra assai la potenza sua», ed. a cura di Giorgio Inglese, Bur, Milano 1984, p. 377. 104 William Shakespeare, Amleto 3,2. 105 Seneca, Lettere a Lucilio, X,82,5, ed. it. cit., vol. I, p. 497. 106 Romani 12,11. 107 Platone, Sofista, 230 D-E, ed. it. a cura di Claudio Mazzarelli, in Platone, Tutti gli scritti, cit., pp. 276-277. 108 Marco Aurelio, Pensieri, VIII,16, ed. it. a cura di Maristella Ceva, Mondadori, Milano 1989, p. 175. 109 Aristotele, Etica Nicomachea, VII,9,1151 B, ed. it. cit., pp. 761-763. 110 Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere [1943-1945], a cura di Eberhard Bethge, ed. it. a cura di Alberto Gallas, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 19892, p. 289. Fu proprio ispirandosi a questo passo che il corrispondente di Bonhoeffer, Eberhard Bethge, intitolò la raccolta delle lettere indirizzate a lui e ai genitori. 111 Tao Te Ching, n. 2, ed. it. Lao Tzu, Tao Te Ching. Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo, traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini, Feltrinelli, Milano 20132, p. 51. 112 Ivi, p. 54. 113 Pierre Teilhard de Chardin, Nota sulla modalità dell’azione divina nell’Universo [1920], in Id., La mia fede. Scritti teologici, tr. di Annetta Dozon Daverio, Queriniana, Brescia 1993, p. 33. 100 101 102

Note al capitolo «VII. La temperanza»

Tao Te Ching, ed. it. Lao Tzu, Tao Te Ching. Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo, traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini, Feltrinelli, Milano 20132, p. 509. 2 Ivi, p. 505. 3 Catechismo della Chiesa Cattolica, art. 1809. 4 Dante Alighieri, Convivio [1304-1307], IV,17, in Opere, a cura di Manfredi Porena e Mario Pazzaglia, Zanichelli, Bologna 1966, p. 1194. 5 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 141, art. 1, resp., ed. it. La Somma Teologica, Seconda Parte, Seconda Sezione, a cura dei Frati Domenicani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2014, pp. 1259-1260. 6 Platone, Fedone, 68 C, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 80. Lo ribadisce nel Simposio: «Sono tutti d’accordo nel sostenere che la temperanza sia il dominare i piaceri e i desideri», in Simposio, 196 C, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 505. 7 Marco Tullio Cicerone, Tuscolane, III,8,16, ed. it. a cura di Lucia Zuccoli Clerici, Bur, Milano 20045, pp. 278-279. La curatrice del testo richiama in nota che la frugalitas latina esprime ben più di quanto noi oggi intendiamo con frugalità, essendo la frugalitas latina «misura, energia, saggezza e sobrietà», e non mera parsimonia, se non austerità. 8 Così si legge in Romani 7,5: «Quando eravamo nella debolezza della carne, le passioni peccaminose, stimolate dalla Legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte». 9 Galati 5,19. 10 Romani 13,14. 11 Galati 5,16. 12 Galati 6,8. 13 L’espressione «dura lotta» si trova in Colossesi 2,1; cfr. anche Romani 15,30: «Lottate con me nella preghiera»; Filippesi 1,30: «sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora»; Ebrei 12,4: «Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato». Per l’espressione «buona battaglia», cfr. 1Timoteo 1,18 e 6,12 e in particolare 2Timoteo 4,7: «Ho combattuto la buona battaglia». 14 Efesini 6,12. 15 Cfr. Innocenzo III, De contemptu mundi [1191-1198], ed. it. La miseria della condizione umana, a cura di Carlo Carena, Mondadori, Milano 2003. Si tratta di un atteggiamento spirituale presente prima ancora nei filosofi greci aderenti alla scuola cinica, si pensi in particolare a Diogene. Anche Cicerone parla del «disprezzo delle cose umane» (rerum humanarum despicientia, in Tuscolane, II,13,32, ed. it. cit., p. 221) ma si tratta di un rifiuto di ciò che diremmo mondanità, non certo della dimensione naturale. 16 Agostino, De moribus Ecclesiae catholicae, 1,21, citato da Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 141, art. 6, sed contra. 17 Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 141, art. 2, resp., corsivo mio, p. 1261. 18 Ivi, art. 4, p. 1266. 1

Ibid. Immanuel Kant, Metafisica dei costumi [1797], II,I, sez. II, par. 53, ed. it. a cura di Giovanni Vidari, Laterza, Bari-Roma 201813, p. 365. 21 Cfr. Ulrich Luck, Sophrosýne, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, a cura di Gerhard Kittel e Gerhard Friedrich [1964-1969], ed. it. a cura di F. Montagnini, G. Scarpat, O. Soffritti, Paideia, Brescia 1981, vol. XIII, col. 800. Nel testo si rimanda a Platone, Repubblica, III,399 D; Eschilo, Persiani, 829-831. Anche alla voce Hýbris si afferma che essa è l’opposto di sophrosýne, oltre che di díke e di eunomía (Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. XIV, col. 7) e qui il rimando è Senofonte, Ciropedia, 8,4,14 (col. 13). Hýbris è tracotanza, volontà di supremazia, arroganza, orgoglio, alterigia, presunzione. Anche la Bibbia ebraica la condanna fortemente, cfr. p. es. Isaia 13,11: «Dio punisce la tracotanza dei superbi e l’arroganza dei tiranni». 22 Originale greco: Medèn ágan. La prima attestazione nel pensiero occidentale si trova in Solone di Atene, uno dei Sette sapienti, cfr. Diels-Kranz 10, 2, 1, ed. it. cit., p. 137. Cfr. anche Platone, Protagora, 343 B, ed. it. cit., p. 836. 23 Aristotele, Grande etica, II,6,1203 A, ed. it. in Le tre etiche, a cura di Arianna Fermani, Bompiani, Milano 2008, p. 1129. 24 Platone, Repubblica, IV,430 E, tr. di Roberto Radice, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 1170. Platone aggiunge che la temperanza all’interno dello Stato «si propaga in ogni luogo, in tutta la città, mettendo in sintonia i deboli, i forti, e quelli che stanno nel mezzo» (IV,432 A), e che quindi essa è «una specie di armonia» (IV,431 E), un «accordo» (IV,432 A). 25 Cfr. Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, il Saggiatore, Milano 2006. Vi si legge a p. 36: «La mitezza è certamente una virtù cardinale». 26 Così il Decreto sui Sacramenti del concilio di Trento, 3 marzo 1547: «Se qualcuno afferma che nei tre sacramenti del battesimo, della confermazione e dell’ordine non viene impresso nell’anima il carattere, cioè un segno spirituale e indelebile, per cui non possono essere ripetuti: sia anatema», in DH 1609. 27 Antonio Damasio, Lo strano ordine delle cose. La vita, i sentimenti e la creazione della cultura [2018], tr. di Silvio Ferraresi, Adelphi, Milano 2018, p. 133. 28 Così il Castiglione: «E, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia», da Baldassar Castiglione, Il libro del cortegiano, I,26 [1513-1518], Garzanti, Milano 201517, pp. 59-60. 29 Marco Aurelio, Pensieri, VII,3, ed. it. a cura di Maristella Ceva, Mondadori, Milano 1989, p. 141. 30 Cfr. Matteo 9,36. 31 Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale [1965-1966], tr. di Davide Tarizzo, Einaudi, Torino 2006, p. 82. Cfr. anche ivi, p. 76: «La volontà è l’arbitrio tra la ragione e il desiderio»; e ivi, p. 92: «La volontà è l’arbitro tra la ragione e i desideri, e come tale essa è libera». 32 Così sant’Ignazio di Antiochia scriveva ai cristiani di Roma mentre veniva tradotto in città: «Io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono il frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo e io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo», in Lettera ai Romani, IV,1-2, ed. it. in I Padri Apostolici, a cura di Antonio Quacquarelli, Città Nuova, Roma 19782, pp. 122-123. 33 Origene non fu il primo tra i cristiani a compiere tale gesto, visto che un caso analogo è già riportato da Giustino: «Uno dei nostri presentò al prefetto Felice ad Alessandria una richiesta chiedendo che permettesse a un medico di recidergli le parti genitali», in Apologia, I,29,2, ed. it. Apologia per i cristiani, a cura di Charles Munier e Maria Benedetta Artioli, Edizioni San Clemente-Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2011, p. 229. Né tale azione di Origene dovette scandalizzare, visto che il 19 20

vescovo di Alessandria lo lodò e gli offrì la responsabilità della catechesi, cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, VI,8,3, ed. it. a cura di Francesco Maspero e Maristella Ceva, Rusconi, Milano 1979, pp. 331-332. 34 Luca 9,59-60. 35 Luca 14,26. La versione CEI ammorbidisce il greco ou miseî, letteralmente «non odia», in «non mi ama più di quanto ami». 36 Matteo 19,12. 37 Platone, Fedro, 244 D, ed. it. a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 20094, p. 103. 38 Epitteto, Manuale, n. 13, in Manuale di Epitteto. Introduzione e commento di Pierre Hadot, Einaudi, Torino 2006, p. 161. Il passo è per molti versi accostabile a 1Corinzi 2,1-4. 39 Georg W.F. Hegel, Filosofia della storia, I, 62-63, tr. di Guido Calogero e Corrado Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1981, pp. 73-74.

Note al capitolo «VIII. Altre virtù»

Crisippo, C.e 264, in Stoici antichi. Tutti i frammenti. Secondo la raccolta di Hans von Arnim [1903-1905], ed. it. a cura di Roberto Radice, Bompiani, Milano 2002, p. 1097. Per la traduzione mi rifaccio a quella di R. Anastasi, in Giovanni Reale, Storia della filosofia antica, vol. III: I sistemi dell’età ellenistica, Vita e Pensiero, Milano 19834, p. 407, leggermente modificata. 2 Cfr. Marco Tullio Cicerone, Tuscolane, II,13,32, ed. it. a cura di Maristella Ceva, Mondadori, Milano 1989, p. 221. Le denominazioni latine sono: magnitudo animi, gravitas, patientia, rerum humanarum despicientia. 3 Tullo Goffi e Giannino Piana, Il vissuto personale virtuoso, in Corso di morale. II. Diakonia (Etica della persona), a cura di Tullo Goffi e Giannino Piana, Queriniana, Brescia 1983, p. 19. 4 François de La Rochefoucauld, Massime [1664], n. 139, ed. it. a cura di Maurizio Enoch, Newton & Compton, Roma 1993, p. 26. 5 Marco Aurelio, Pensieri, VI,53, ed. it. a cura di Enrico V. Maltese, Garzanti, Milano 20147, p. 135. 6 Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica [2002], a cura di Arnold I. Davidson, tr. di Anna Maria Marietti, Einaudi, Torino 2005, p. 74. Hadot prosegue mostrando come questo atteggiamento dalla grecità proseguì nel cristianesimo con Clemente Alessandrino, Origene, Basilio di Cesarea, Antonio, Atanasio, Doroteo di Gaza, Evagrio Pontico. 7 Devo la citazione a Thomas Metzinger, Il tunnel dell’io. Scienza della mente e mito del soggetto [2009], tr. di Matteo Baccarini, Raffaello Cortina, Milano 2010, p. 269, dove è presente anche la definizione originaria tedesca: Blickstrahl der Aufmerksamkeit. 8 Simone Weil, Quaderni, ed. it. a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 19973, vol. II, p. 266. 9 Simone Weil, Quaderni, ed. it. a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 19952, vol. III, p. 122. 10 Ivi, III, p. 217. 11 Ivi, III, p. 232. 12 Simone Weil, Quaderni, ed. it. a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1993, vol IV, p. 178. 13 Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus [1922], in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 1998, p. 107. 14 Aristotele, Etica Nicomachea, IV,1,1120 A, ed. it. in Le tre etiche, a cura di Arianna Fermani, Bompiani, Milano 2008, p. 577. 15 Marco Aurelio, Pensieri, XI,18, ed. it. cit., p. 261. 16 Lucio Anneo Seneca, I benefici, II,10,1, ed. it. in Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1994, p. 483. Devo l’indicazione a Pierre Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai «Pensieri» di Marco Aurelio [1992], tr. di Andrea Bori e Monica Natali, Vita e Pensiero, Milano 1996, p. 185. 17 Matteo 5,3. 18 Marco Aurelio, Pensieri, V,6, ed. it. cit., p. 91. 19 Così Sabbadini commenta Tao Te Ching, n. 67, ed. it. Lao Tzu, Tao Te Ching. Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo, traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini, Feltrinelli, Milano 20132, p. 507. 20 Zhongyong, n. 20, ed. it. La costante pratica del giusto mezzo. Zhongyong, a cura di Tiziana Lippiello, Marsilio, Venezia 2010, p. 91. 1

21 Meng-tzu, libro II, parte I, n. 31 e ivi, libro VI, parte I, n. 151, ed. it. a cura di Fausto Tomassini, Tea, Milano 1991, pp. 56 e 155. 22 Dhammapada, n. 304, citato da Dhammapada per la contemplazione, una versione di Ajahn Munindo, tr. di Chandra Candiani, Associazione Santacittarama, Frasso Sabino 2002, p. 100. 23 Ivi, n. 130, p. 45. 24 Corano, sura III, versetto 92, ed. it. a cura di Alessandro Bausani, Bur, Milano 20106, p. 44. 25 Ivi, sura II, versetto 148, p. 17. 26 Mireille Hadas-Lebel, Hillel. Maestro della Legge al tempo di Gesù [1999], tr. di Pierluigi Lanfranchi, Portalupi Editore, Casale Monferrato 2002, p. 55. 27 Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, il Saggiatore, Milano 2006, pp. 4445. 28 Libro dei Morti, cap. 125, ed. it. in Testi religiosi dell’antico Egitto, a cura di Edda Bresciani, Mondadori, Milano 2001, p. 641. 29 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, q. 123, art. 10: «I Peripatetici, guidati da Aristotele, attribuivano alle persone virtuose l’ira e le altre passioni, però moderate dalla ragione… Così dunque il forte nel suo agire si serve dell’ira, però di quella moderata». 30 Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate [1486], ed. it. a cura di Eugenio Garin, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1994, p. 53. 31 La claritas intesa come «conoscibilità» è la prima condizione della bellezza secondo l’estetica di Tommaso d’Aquino, seguono integritas e proportio. Cfr. Sofia Vanni Rovighi, Elementi di filosofia, vol. II: Metafisica, La Scuola, Brescia 1964, pp. 202-203. 32 Galileo Galilei, Considerazioni al Tasso, Stamperia Pagliarini, Roma 1793, p. 39, citato da Franco Fabbro, Le neuroscienze: dalla fisiologia alla clinica, Carocci, Roma 2016, p. 29. 33 Pavel A. Florenskij, Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo [1933-1937], ed. it. a cura di Natalino Valentini e Lubomír Žák, Mondadori, Milano 2000, p. 418 (Testamento, annotazione del 19-20 marzo 1921). Nella lettera del 19-20 aprile 1936: «Il mondo impazzisce e infuria alla ricerca di un qualcosa, mentre ha già in mano l’unica cosa che serve: la chiarezza. La cultura borghese si sta disgregando perché in essa non c’è un’affermazione chiara, un netto sì al mondo. Essa è tutta nel come se, come se fosse, l’illusionismo è il suo vizio principale. Quando il soggetto si stacca dall’oggetto e gli si contrappone, tutto diventa convenzionale e vuoto, tutto appare un’illusione», ivi, p. 281. 34 Quinto Aurelio Simmaco, Relatio III, 10, ed. it. in La maschera della tolleranza. Ambrogio, Epistole 17 e 18. Simmaco, Terza Relazione, tr. di Alfonso Traina, Bur, Milano 2006, p. 65. Ecco l’originale della frase finale: «Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum». 35 Meng-tzu, libro IV, parte II, n. 101, ed. it. cit., p. 112. 36 Matteo 18,2-4. 37 Florenskij, Non dimenticatemi, ed. it. cit., p. 62 (lettera del 13-14 ottobre 1933). 38 Ivi, p. 280 (lettera del 19-20 aprile 1936). 39 Ivi, p. 282 (lettera del 23-25 aprile 1936). 40 Ivi, p. 316 (lettera del 28-29 luglio 1936). 41 Ivi, p. 332 (lettera del 23 ottobre 1936). 42 Ivi, pp. 400-401 (lettera del 13 maggio 1937). 43 Bobbio, Elogio della mitezza, cit., p. 36. 44 Ibid. 45 Ivi, p. 37. 46 Ibid. 47 Ibid. 48 Ivi, pp. 38-39. 49 Ivi, p. 40. 50 Ivi, p. 41.

Ibid. Ivi, p. 44. Epitteto, Manuale, n. 22, in Manuale di Epitteto. Introduzione e commento di Pierre Hadot, Einaudi, Torino 2006, p. 171. 54 Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica [1979], a cura di Pier Paolo Portinaro, Einaudi, Torino 2002, p. XXVII. 55 Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, A 137 [1788], ed. it. a cura di Pietro Chiodi, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, Utet, Torino 1995, p. 219. 56 Albert Schweitzer, Rispetto per la vita [1947], a cura di Charles R. Joy, tr. di Costanza Walter, Edizioni di Comunità, Milano 1957, p. 325. 57 Blaise Pascal, Sedicesima lettera provinciale, ed. it. in Lettere provinciali [1656-1657], a cura di Ferruccio Masini, Bur, Milano 1989, p. 289. 58 Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere [1943-1945], a cura di Eberhard Bethge, ed. it. a cura di Alberto Gallas, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 19892, p. 284. 59 Ivi, p. 466. 60 Bobbio, Elogio della mitezza, cit., p. 44. 61 Schweitzer, Rispetto per la vita, cit., pp. 25-26. 62 Meng-tzu, libro IV, parte I, n. 73, ed. it. cit., pp. 102-103. 63 2Corinzi 7,4. 64 Luigi Zoja, Al di là delle intenzioni. Etica e analisi [2007], tr. di Giovanni Sorge, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 7 (l’autore scrisse originariamente in inglese). 65 Ibid., corsivo mio. 66 Schweitzer, Rispetto per la vita, cit., p. 63. 51 52 53

Note al capitolo «IX. Il cuore dell’etica: la motivazione»

Carlo Maria Martini, Sulla giustizia, Mondadori, Milano 1999, p. 26. Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, «Prefazione», A 5 [1788], in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di Pietro Chiodi, Utet, Torino 1995, p. 136. 3 Così il documento papale Formula pro finiendis disputationibus de auxiliis del 5 settembre 1607: «Per quanto riguarda la questione relativa agli aiuti della grazia […] è stato aggiunto che Sua Santità avrebbe promulgato a tempo opportuno la dichiarazione e la decisione che ci si aspettava», in DH 1997. 4 Per le argomentazioni rimando al mio Il coraggio di essere liberi, Garzanti, Milano 2016. 5 Hannah Arendt, Alcune questioni di filosofia morale [1965-1966], tr. di Davide Tarizzo, Einaudi, Torino 2006, p. 28. Platone afferma che è meglio patire che infliggere il male con queste parole: «Se fosse necessario o fare o ricevere ingiustizia, sceglierei piuttosto il ricevere che non il fare ingiustizia», Gorgia, 469 C, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 19944, p. 882. Poco prima: «Il più grande dei mali è il fare ingiustizia» (Gorgia, 469 B). 6 Cfr. Platone, Menone, 99 B-E, ed. it. a cura di Giovanni Reale, in Platone, Tutti gli scritti, cit., p. 965. 7 Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, cit., p. 28. 8 Norberto Bobbio, Pro e contro un’etica laica [1983], in Id., Elogio della mitezza e altri scritti morali, il Saggiatore, Milano 2006, p. 175. 9 Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1129 B, ed. it. in Le tre etiche, a cura di Arianna Fermani, Bompiani, Milano 2008, p. 631. 10 Immanuel Kant, Metafisica dei costumi, «Prefazione alla seconda parte» [1797], II,4, ed. it. a cura di Giovanni Vidari, Laterza, Bari-Roma 201813, p. 223. 11 Bobbio, Pro e contro un’etica laica, cit., p. 177. 12 Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà [1844], tr. di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 19862, p. 13. 13 In questo paragrafo riprendo in parte quanto ho scritto in Io e Dio. Una guida dei perplessi, Garzanti, Milano 2011, paragrafo 29. 14 Esodo 20,1-21 e Deuteronomio 5,1-22. 15 Genesi 22,2. 16 Søren Kierkegaard, Timore e tremore [1843], in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Piemme, Casale Monferrato 1995, vol. I, p. 214. 17 Immanuel Kant, La religione entro i limiti della sola ragione [1793], II,1,A, ed. it. a cura di Massimo Roncoroni e Vincenzo Cicero, Rusconi, Milano 1996, p. 156. 18 Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa contra gentiles, I, cap. 37: «Dio è buono»; cap. 38: «Dio è la stessa bontà»; cap. 39: «In Dio non può esserci il male»; cap. 40: «Dio è il bene di ogni bene». 19 Immanuel Kant, Il conflitto delle facoltà, I,III, «Conclusione» [1798], tr. di Andrea Poma, in Scritti di filosofia della religione, a cura di Giuseppe Riconda, Mursia, Milano 1989, p. 272. 20 Cfr. Io e Dio, op. cit. 21 Abraham Joshua Heschel, God in Search of Man. A Philosophy of Judaism, Farrar, Straus and Giroux, New York 1955, pp. 376-377, traduzione mia. L’edizione italiana è Dio alla ricerca dell’uomo. Una filosofia dell’ebraismo [1955], tr. di Elèna Mortara Di Veroli, Borla, Roma 1969, pp. 406-407. 1 2

22 È soprattutto il protestantesimo a sottolineare l’impossibilità di una morale autonoma; Lutero, per esempio, parla della prima virtù cardinale come «prudenza della carne» e la fa coincidere con il peccato, perché per lui l’unica opera veramente buona è la fede e senza la fede nessuna opera umana può essere buona, cfr. Aristide Fumagalli, L’eco dello Spirito. Teologia della coscienza morale, Queriniana, Brescia 2012, pp. 216-217. Il cattolicesimo è decisamente più ottimista, soprattutto nella teologia elaborata dai gesuiti, tra cui in particolare nel Novecento Pierre Teilhard de Chardin, Bernard Lonergan, Karl Rahner. 23 Alessandro Manzoni, I promessi sposi [1827-1842], ed. a cura di Angelo Stella e Cesare Repossi, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, cap. XXVI, 1, p. 376. 24 Cfr. Georg W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito [1807], B, IV,41-42, tr. di Enrico De Negri, La Nuova Italia, Firenze 199210, p. 174. 25 L’espressione in sanscrito è pratityasamutpada, in pali paticcasamuppada, cfr. Dizionario della saggezza orientale [1986], a cura di Kurt Friedrichs, Ingrid Fischer-Schreiber, Franz-Karl Ehrhard, Michael S. Diener, tr. di Anna Poletti, Mondadori, Milano 2007, ad vocem. 26 Marco Aurelio, Pensieri, V,30, ed. it. a cura di Maristella Ceva, Mondadori, Milano 19942, p. 105. 27 «Con legge di Hume si intende la legge che asserisce la dicotomia tra fatti e valori, vale a dire la legge che sancisce la frattura tra essere e dover-essere», dalla voce «Etica, epistemologia della», a firma di A. Corradini, in Enciclopedia filosofica, Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate-Bompiani, Milano 2006, vol. IV, p. 3790. 28 Cfr. Libro dei Salmi 131,2. 29 Devo l’annotazione a Hannah Arendt, La vita della mente [1978, postuma], tr. di Alessandro Dal Lago, il Mulino, Bologna 2009, p. 104. Il locus platonico è il cosiddetto «mito della caverna» in Repubblica, 518 E. Un altro modo di tradurre periagogé è «rotazione», volendo indicare una vera e propria «inversione a u».

Note alla «Conclusione»

Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B 376 [1781 e 1787], ed. it. a cura di Pietro Chiodi, Utet, Torino 2005, p. 317. Altrove Kant parla della «guida di un’idea celata nel nostro intimo», ivi, B 863, p. 625. 2 Marco Aurelio, Pensieri, X,21, riportato nella traduzione di Hadot. Ecco il commento di Hadot al passo citato: «Ciò che affascina Marco Aurelio è il fatto che questa immagine mitica indica che i processi naturali sono, in ultima analisi, dei processi di unione e dei processi di amore [...]. Così, l’antica rappresentazione della ierogamia lascia intravedere, in modo mitico, la grandiosa prospettiva dell’amore universale che le parti del Tutto provano le une per le altre, la visione cosmica di un’attrazione universale che diviene sempre più intensa man mano che si sale nella scala degli esseri e che questi divengono più coscienti. Più gli uomini si avvicinano allo stato di saggezza, cioè più si avvicinano a Dio, più l’amore che provano gli uni per gli altri, per tutti gli altri uomini e per tutti gli altri esseri, anche per i più umili, aumenta in profondità e in lucidità», in Pierre Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai «Pensieri» di Marco Aurelio [1992], tr. di Andrea Bori e Monica Natali, Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 211-212. 1

Note alla «Appendice 1»

Aristotele, Etica Eudemia, II,3,1220 B - 1221 A, ed. it. in Le tre etiche, a cura di Arianna Fermani, Bompiani, Milano 2008, p. 47. 2 Cfr. ivi, V,3,1139 B, p. 201; ed Etica Nicomachea, VI,3,1139 B, ed. it. in Le tre etiche, cit., p. 691. In greco i nomi delle virtù dianoetiche sono: Téchne, Epistéme, Phrónesis, Sophía, Noûs. 3 Br.hadāranyaka Upanis.ad, V,2,3, ed. it. Upanis.ad vediche, a cura di Carlo Della Casa, Tea, Milano 2000, p. 86. 4 Mahābhārata. L’insegnamento di Sanatsujata, III,20, ed. it. a cura di Stefano Piano, in Hinduismo antico, vol. I, «Dalle origini vediche ai Purana», a cura di Francesco Sferra, Mondadori, Milano 2010, p. 507; elenco analogo a p. 516 con l’indulgenza al posto del sacrificio. 5 Ivi, III,29,44, p. 549. 6 Ivi, III,33,46, p. 572. 7 Bhagavadgītā, 16-1-3, ed. it. a cura di Raniero Gnoli, in Hinduismo antico, cit., p. 836. 8 Glossario in Testi antichi, a cura di Raniero Gnoli, Mondadori, Milano 2001, p. 1347. 9 Dizionario della saggezza orientale [1986], a cura di Kurt Friedrichs, Ingrid Fischer-Schreiber, Franz-Karl Ehrhard, Michael S. Diener, tr. di Anna Poletti, Mondadori, Milano 2007, p. 59. 1

Note alla «Appendice 2»

Cfr. Hans Küng, Progetto per un’etica mondiale [1990], tr. di Giovanni Moretto, Rizzoli, Milano 1991. 2 La Regola d’oro come etica universale, a cura di Carmelo Vigna e Susy Zanardo, Vita e Pensiero, Milano 2005 (con 18 contributi di vari studiosi). 3 Jeffrey Wattles, The Golden Rule, Oxford University Press, Oxford-New York 1996. 4 Avesta, Yasna, Gathas, 43.1, citato da La Regola d’oro come etica universale, cit., pp. VII e 580. 5 Il detto di Pittaco in Diels-Kranz 10, 3, V, 4, ed. it. I Presocratici, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2017, p. 139. 6 Platone, Leggi, XI,913 A, ed. it. a cura di Franco Ferrari e Silvia Poli, Bur, Milano 20185, p. 929. 7 Lucio Anneo Seneca, De ira, III,12,3, in Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1994, p. 131. 8 Mahābhārata, Anusasana Parva, 113.8; il testo risale al III secolo a.C. ma veicola una tradizione molto più antica risalente al III millennio a.C.; lo riprendo da La Regola d’oro come etica universale, p. VII. 9 Mānavadharmaśāstra. Il trattato di Manu sulla norma, 12.125, ed. it. a cura di Federico Squarcini e Daniele Cuneo, Einaudi, Torino 2010, p. 303. 10 Saman. Suttam˙, 12,150, in Saman. Suttam˙. Il canone del Jainismo, a cura di Śrī Jinendra Varn.i e Sagarmal Jain, ed. it. a cura di Claudia Pastorino e Claudio Lamparelli, Mondadori, Milano 2001, p. 67. 11 Saman. Suttam˙, 12,151, in ivi, p. 67. 12 Sutrakritanga, I,11,33, citato da La Regola d’oro come etica universale, cit., p. 582. 13 Sam.yutta Nikāya, V,353.35-354.2. 14 Dhammapada, 10.1. 15 Dhammapada, 10.2. 16 Confucio, Dialoghi, 4,15, ed. it. a cura di Tiziana Lippiello, Einaudi, Torino 2006, p. 39. 17 Ivi, 15,24, p. 189. 18 La costante pratica del giusto mezzo. Zhongyong, 13, ed. it. a cura di Tiziana Lippiello, Marsilio, Venezia 2010, p. 69. 19 Tao Te Ching, 49.1, ed. it. Lao Tzu, Tao Te Ching. Una guida all’interpretazione del libro fondamentale del taoismo, traduzione e cura di Augusto Shantena Sabbadini, Feltrinelli, Milano 20132, p. 373. 20 Ivi, 49.2, p. 373. 21 Kojiki, da La Regola d’oro come etica universale, cit., p. 579. 22 Levitico 19,18. 23 Tobia 4,15. Va detto che il libro di Tobia non è considerato canonico dagli ebrei, e tra i cristiani solo dai cattolici e dagli ortodossi. 24 Rabbi Hillel, Shabbat 31 a. 25 Matteo 7,12. 26 Luca 6,31. 27 Citato da An-Nawawi, Les quarante hadiths, n. 13, Alger 1954, citato da Carlo Chiurco, Nota 1

sulla Regola d’oro nell’Islam: le ragioni di un’assenza, in La Regola d’oro come etica universale, cit., p. 38. 28 Niccolò Cusano, De pace fidei, cap. XVI [1453], ed. it. La pace della fede, tr. di Monica Arrigoni, Jaca Book, Milano 1991, p. 106, corsivo mio; devo la citazione a Leopoldo Sandonà che la pone all’inizio del suo contributo Forme della Regola d’oro nel mondo ebraico-cristiano, in La Regola d’oro come etica universale, cit., p. 3.

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Frontespizio

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L’autore

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PROLOGO

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I. DIVENTARE 1. L’obiettivo 2. Diventare ciò che si è 3. Una questione di igiene 4. Migliori come esseri umani 5. Laboratorio, esperimenti, teoria 6. La mia teoria 7. Un nugolo di domande 8. Il nostro più grande problema 9. Logica del mondo e logica dell’umano 10. Il compito dell’etica 11. Sospetto 12. Fondazione alla prima persona singolare 13. L’utilitarismo 14. La via della guarigione 15. La via della bellezza II. LA COSCIENZA 16. La natura dello sperimentatore 17. Cervello 18. Mente 19. Coscienza 20. Il primo significato di coscienza: cognizione 21. Il secondo significato di coscienza: autocoscienza 22. Il terzo significato di coscienza: coscienza morale 23. Crisi 24. Dennett 25. Quale «io» mi metto? 26. Pensiero ed esistenza 27. Anima 28. Auto-trascendenza 29. Il tunnel dell’io 30. Sul trascendimento di sé e sulla trascendenza 31. Il dono della coscienza 32. Il quarto significato di coscienza: coscienza mistica III. LA VIRTÙ, LE VIRTÙ 33. Etimologia di etica e di morale 34. Il radicamento corporeo dell’etica e la necessità della virtù 35. I molteplici significati del concetto di virtù 36. Virtù come forza 37. Virtù come misura 38. Virtù come capacità tramite l’abitudine 39. Virtù come leggerezza 40. Le virtù 41. Le virtù cardinali: origine e tradizione 42. Le virtù cardinali: terminologia e logica 43. Primato della morale individuale 44. Il dono delle virtù IV. LA SAGGEZZA 45. Immagini ed etimologia 46. Un nome sbagliato 47. Il motivo del suo primato 48. L’origine della saggezza: dono e acquisizione23 49. Il lavoro della saggezza 50. Parlare saggiamente 51. Dialettica della saggezza: la virtuosità della stoltezza 52. La sapienza V. LA GIUSTIZIA 53. Immagini ed etimologia 54. Seconda? 55. Legalità 56. Giustizia nel senso di essere giusti 57. Negazioni 58. Affermazioni

16 16 18 20 20 21 22 24 25 27 29 32 33 34 35 37 41 41 43 45 46 47 48 49 52 53 56 58 59 60 61 62 64 65 69 69 70 71 72 73 75 78 79 81 83 85 87 89 89 91 93 95 97 99 100 101 104 104 105 107 107 108 111

59. La via da percorrere per essere giusti 60. Giudicare 61. Pensare per valori 62. Le radici della giustizia 63. Il ruolo cosmico della giustizia 64. Il punto dolente della logica naturale e la necessità di una luce più grande 65. Dialettica della giustizia: la virtuosità dell’infrazione VI. LA FORTEZZA 66. Immagini ed etimologia 67. La nostra vera essenza e il nostro vero problema 68. La forza in natura come principio di organizzazione 69. Forza, potenza, potere, violenza 70. La natura del potere 71. La natura della natura 72. La forza di un essere umano 73. La fortezza secondo il cristianesimo 74. Lo spartiacque fondamentale 75. Volontà di potenza diversa da volontà di potere 76. Nietzsche 77. La forza più preziosa: vincere se stessi 78. La sorgente della forza di essere migliori 79. Ipotesi alternativa sulla sorgente della forza di essere migliori 80. Il bisogno della forza di essere migliori 81. Dialettica della fortezza: la virtuosità della debolezza VII. LA TEMPERANZA 82. Immagini ed etimologia 83. Controllo dei piaceri e delle passioni 84. Il contrario di hýbris 85. Superare se stessi 86. Temperare 87. Distaccarsi 88. Libero arbitrio 89. Dialettica della temperanza: la virtuosità dell’intemperanza VIII. ALTRE VIRTÙ 90. Virtù primarie e secondarie 91. Attenzione 92. Benevolenza 93. Calma 94. Chiarezza 95. Competenza 96. Consapevolezza 97. Fedeltà 98. Flessibilità 99. Innocenza 100. Mitezza 101. Precisione 102. Responsabilità 103. Rispetto 104. Semplicità 105. Sincerità IX. IL CUORE DELL’ETICA: LA MOTIVAZIONE 106. Erodere 107. La corona della giustizia 108. La domanda radicale 109. Un’amara verità 110. Il cuore dell’etica: la motivazione 111. La religione come motivazione dell’etica13 112. Le conseguenze della prospettiva religiosa tradizionale: Isacco sono io 113. La natura e l’emergenza etica 114. Prima motivazione decisiva dell’etica: la coscienza di dover guarire 115. Seconda motivazione decisiva dell’etica: la coscienza estetica CONCLUSIONE APPENDICE 1 QUATTRO CLASSICHE SUDDIVISIONI-ELENCAZIONI DELLE VIRTÙ Aristotele Hinduismo Buddhismo Cristianesimo

114 118 119 121 122 125 127 132 132 133 135 137 140 144 145 146 148 150 150 153 156 158 159 160 164 164 164 167 168 169 171 174 176 178 178 179 180 183 184 185 185 186 187 189 191 192 192 194 195 197 199 199 199 200 202 204 205 207 210 212 216 219 225 225 227 228 228

APPENDICE 2 LA REGOLA D’ORO Zoroastrismo Classicità Spiritualità di origine indiana Spiritualità di origine cinese Spiritualità di origine giapponese Spiritualità abramitiche BIBLIOGRAFIA

231 231 231 232 233 233 233 235

RINGRAZIAMENTI

249

INDICE DEI NOMI

251

NOTE

263

LA FORZA DI ESSERE MIGLIORI

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