La fisica delle particelle

Table of contents :
Indice......Page 5
Perfetto, troppo perfetto......Page 6
La lezione......Page 9
L'elettronvolt......Page 19
La diffusione......Page 24
Gli acceleratori di particelle......Page 30
Rivelatori di particelle......Page 36
Le particelle......Page 40
Le interazioni......Page 46
Il modello standard e le sue verifiche......Page 56
L'elettrodinamica quantistica......Page 59
Dalla simmetria al principio di inerzia......Page 60
I quark, i gluoni e la cromodinamica quantistica......Page 63
Le interazioni deboli......Page 74
La violazione della parità......Page 79
La scoperta del bosone di Higgs......Page 92
Come scoprire l'Higgs......Page 93
Il Larger Hadron Collider......Page 97
ATLAS e CMS: gli esperimenti di scoperta......Page 102
La scoperta del bosone di Higgs......Page 106
La leadership italiana......Page 110
I neutrini......Page 111
Cosa resta da scoprire......Page 123
Cronologia......Page 131
Le risposte della scienza......Page 136
Qual è stata l'idea da cui si è sviluppato il modello standard?......Page 137
C'è qualcosa che il modello standard non riesce a spiegare?......Page 139
Com'è stato possibile essere sicuri di aver scoperto il bosone di Higgs?......Page 140
Dopo il bosone di Higgs non c'è più niente da cercare?......Page 141
Se il protone non fosse immortale la materia dell'universo si estinguerebbe?......Page 143
Le parole della fisica......Page 147
Video......Page 151
Giochi e interattività......Page 152

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Lezioni ài Fisica

La Fisica delle particelle^ M a r c e l l a D ie m o z

D a n ie l e d e l R e

CORRIERE DELLA SERA

Lezioni di Fisica

La Fisica delle particelle a cura di Daniele del Re e Marcella Diemoz

CORRIERE DELLASERA

Lezioni di Fisica 3 La Fisica delle particelle © 2018 Out of Nowhere S.r.l., Milano © 2018 RCS MediaGroup S.p.a., Milano LE INIZIATIVE DEL CORRIERE DELLA SERA n. 35 del 12/11/2018 Direttore responsabile: Luciano Fontana RCS MediaGroup S.p.a. Via Solferino 28,20121 Milano Sede legale: via Rizzoli 8,20132 Milano Reg. Trib. N. 378 del 6/6/2006 ISSN 1828-5520 Responsabile area collaterali Corriere della Sera: Luisa Sacchi Editor: Martina Tonfoni Realizzazione: Out of Nowhere S.r.l. Impaginazione: Marco Pennisi 6c C. S.r.l. Introduzioni: Giorgio Rivieccio “ La lezione” , “ Cosa resta da scoprire” a cura di Daniele del Re e Marcella Diemoz “ Cronologia” , “ Le risposte della scienza” e “ Le parole della fisica” a cura della redazione Si ringrazia l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare per la preziosa collaborazione.

IN D ICE

Perfetto, troppo perfetto di Giorgio Rivieccio

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La lezione di Daniele del Re e Marcella Diemoz

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Cosa resta da scoprire di Daniele del Re e Marcella Diemoz

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Cronologia

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Le risposte della scienza

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Le parole della fisica

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Letture consigliate

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P ER FET TO , T RO PPO P ER FET TO

Negli anni Sessanta e Settanta dello scorso se­ colo i fisici teorici misero insieme le tessere del puzzle che doveva descrivere il mondo delle particelle: le tre forze (elettromagnetica, nucle­ are forte e nucleare debole) e tutte le sedici par­ ticelle a esse collegate. Due di queste forze sono state poi unificate nella elettrodebole e la forte ha trovato la sua descrizione nello stesso tipo di teoria, detta di gauge, che descrive le prime due, pur non potendo essere unificata a esse. Delle sedici particelle, dodici sono quelle che costituiscono la materia, divise in tre famiglie da quattro particelle ciascuna; quattro sono le me­ diatrici delle tre forze (una di queste, il gluone, mediatrice della forza forte, a sua volta ha ot­ to tipi e tre sono i bosoni mediatori della forza debole); in più, sempre negli stessi anni, è stato teorizzato il bosone di Higgs, il cui campo per­ mette alle particelle di acquisire la massa. Questo è il Modello Standard; una costruzio­ ne assolutamente perfetta, di una semplicità con7

cettuale che rasenta la perfezione delle utopie, con i suoi gruppi di quattro elementi - e i loro multipli - che si ripetono, riallacciandosi ideal­ mente ai quattro elementi che Talete e gli altri presocratici consideravano alla base di tutto. Quando il Modello Standard veniva conce­ pito, delle sedici particelle più Higgs solo poche erano state osservate: negli ultimi cinquantan­ ni, così, i fisici sperimentali hanno compiuto uno sforzo senza precedenti ideando e realiz­ zando esperimenti (e incrociando le dita per l’entità dei finanziamenti che questi richiedeva­ no) grazie ai quali tutte le altre particelle sono state individuate in quei meandri delle collisioni negli acceleratori dove si riteneva che potesse­ ro annidarsi. È nato anche un gioco di rivalità Usa-Europa che ha visto il Vecchio Continente riprendersi la supremazia nel campo della fìsica particellare che nei decenni precedenti gli era stata tolta. L’ultimo elemento, Higgs, è stato scoperto nel 2012 a Ginevra. Il Modello Standard resta quindi inciso nel marmo. Rimarrà inscalfibile? Non c’è più niente da scoprire? Gli scienziati amano ovviamente la perfezione ma sanno che non possono fermar­ si davanti a essa. Il termine “basta così” non è nel loro vocabolario. Ogni scoperta crea nuo­ ve domande. Negli ultimi tempi, infatti, si so­ no succedute alcune osservazioni sperimentali 8

(per esempio, il fatto che i neutrini abbiano una massa, e così piccola, e che il Modello Standard non contempli l’esistenza delle particelle che si ipotizza formino la materia oscura) le qua­ li indicano che all’interno e oltre il Modello Standard deve esserci dell’altro. Senza contare l’ineffabile gravitone predetto dalla relatività e l’unificazione della forza elettrodebole con la forte, e di queste con la gravità: il sogno ultimo. La ricerca continua (come vedrete in alcuni dei prossimi volumi di questa collana); perché si può, anzi si deve, andare al di là della perfezio­ ne, vera o presunta che sia. G.R.

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LA L E Z I O N E

I

l mondo che tocchiamo con mano e che è alla base della nostra esperienza percetti­ va è assai limitato. La distanza tra Roma e Sydney (sedici milioni di metri o sedicimila chi­ lometri) ci sembra molto grande; normalmen­ te, se va bene, viviamo in una scatola di 300 m3e le cose più piccole che riusciamo a vedere a occhio nudo sono granelli di polvere di qual­ che decina di micron (milionesimi di metro). Il “ metro della natura” è assai più esteso. Da un lato il nostro universo generatosi, se­ condo l’attuale comprensione, circa 14 miliar­ di di anni fa, ha raggiunto oggi le dimensioni approssimative di cento milioni di miliardi di miliardi di metri. E la cosa più estesa esistente in natura e la possiamo studiare, ad esempio, con potenti telescopi. E molto scomodo parlare di milioni di miliardi, conviene usare la notazione delle potenze di 10: l’estensione dell’universo è di circa 102é m. Guardando dal lato opposto della scala, nel 13

tentativo di comprendere di che cosa siamo fatti e quale sia la natura ultima della materia, ci si rende conto che le dimensioni di un atomo sono circa IO'10 m e quelle del nucleo atomico scen­ dono a IO 15 m. Queste dimensioni sono di gran lunga più piccole di qualunque cosa possiamo vedere anche con l’aiuto di un potente micro­ scopio ottico.. Come possiamo riuscire a investigare di­ mensioni così incredibilmente piccole e capire se ciò che osserviamo sia effettivamente ele­ mentare e non contenga al suo interno strut­ ture più piccole? Ciò che ci permette di vedere un oggetto è la commensurabilità della lun­ ghezza d’onda della luce visibile (400-750 nm) con le dimensioni dell’oggetto stesso. L’effet­ to sull’acqua di un piccolo scoglio in mezzo al mare non sarà visibile se le onde che lo in­ vestono sono molto lunghe, non ci saranno increspature a rivelarne la presenza. Con un microscopio ottico non si possono distinguere oggetti di dimensione inferiore al milionesimo di metro. Dunque che fare? Nei primi anni del secolo scorso, nel tentare di acquisire risposte su come fosse composto un atomo, è emersa l’evidenza sperimentale che le leggi della fisica classica, che ben descrivono in modo deterministico il mondo macroscopi­ co, falliscono nella loro applicazione ai sistemi microscopici. Ad esempio, non si capisce come 14

mai gli elettroni (carichi negativamente), che orbitano intorno al nucleo atomico (carico po­ sitivamente) sotto l’attrazione della forza coulombiana 1Ir1, non emettano una radiazione elettromagnetica continua. Infatti, essendo sog­ getti ad un’accelerazione centripeta, dovrebbe­ ro irraggiare, come previsto dall’elettromagnetismo classico e di conseguenza collassare sul nucleo. La nostra stessa esistenza, in quanto noi sia­ mo costruiti da “ collezioni di atomi” , dimo­ stra che le leggi classiche non funzionano. La stabilità dell’atomo deriva dal fatto che i suoi elettroni si possono trovare solo in alcuni stati di energia, per cui questa non può va­ riare con continuità. Se l’elettrone irraggias­ se dovrebbe perdere energia con continuità e verrebbe a trovarsi in stati energeticamente non permessi. Ogni elemento atomico può essere identificato da una sorta di impronta digitale, la sequenza di livelli di energia ca­ ratteristici dei suoi orbitali elettronici. Questo comportamento non trova descrizione nelle leggi classiche. Un altro aspetto che non permette di descri­ vere l’infinitamente piccolo con la fisica clas­ sica riguarda il legame che c’è tra lo stato di una particella microscopica e la misura di una 15

sua proprietà. Nel mondo macroscopico ci so­ no misure che possono alterare profondamente o lasciare imperturbato un sistema fisico. Ad esempio, le case costruttrici di automobili ne verificano la resistenza con dei crash test. La misura della resistenza della struttura dell’au­ to, che ne garantisce la sicurezza, implica un urto distruttivo e l’automobile non si può più aggiustare. Viceversa immaginate di viaggiare con la vostra auto oltre il limite di velocità. Un autovelox rileva la velocità con un raggio laser infrarosso tramite una serie di misurazioni (la luce fa avanti e indietro più volte tra l’autovelox e il veicolo). Non vi accorgerete di nulla fino al ricevimento della multa. In questo caso il processo di misura non ha cambiato alcun­ ché del vostro stato, a parte il contenuto del portafoglio. Consideriamo ora una particella microsco­ pica, ad esempio un elettrone, e proviamo a mi­ surarne con precisione la posizione in un dato istante colpendolo con un raggio luminoso e guardando la luce da esso diffusa. A differen­ za del caso precedente e analogamente al crash test, l’elettrone si accorge eccome dell’urto a causa della sua interazione con la luce, dal mo­ mento che questa ne altera significativamente lo stato di moto! Il risultato di questa misura sarà di determi­ 16

nare dove si trova la particella ma di non ave­ re più un’idea precisa del suo impulso (definito come prodotto di massa per velocità, detto an­ che quantità di moto). Il principio di indeter­ minazione (Heisenberg, 1927) ci dice che, nel processo di misura, il prodotto delle incertezze su posizione Ax impulso Ap è dell’ordine di h, dove h = 6,6 2-IO'34 J-s è la costante di Planck, una delle costanti fondamentali della natura. Un’analoga relazione vale per l’indetermina­ zione che affligge la misura dell’energia di una particella AE e l’intervallo di tempo necessario a fare la misura At. Questa seconda relazione ci dice che la con­ servazione dell’energia di un sistema sarà misurabile con tanta più precisione quanto più sarà grande l’intervallo tra due istanti di misura. Matematicamente valgono le relazioni di inde­ terminazione: AxAp > h/2n

AEAt > h/2n

dove h = h/2n è la costante di Planck ridotta. Queste descrivono una proporzionalità inversa: minore è uno dei due fattori e maggiore sarà l’altro. 17

Eseguire delle misure su sistemi microsco­ pici significa inevitabilmente perturbarli modificandone in modo significativo lo stato. La descrizione della dinamica di questi siste­ mi microscopici e dei tanti stati possibili in cui si possono trovare, fornita dalla mecca­ nica quantistica, potrà essere solo probabili­ stica. Il concetto di traiettoria, fondamentale per la meccanica classica, viene compietamente abbandonato. Se facciamo una misu­ ra su un sistema fisico, il suo risultato non è determinato ma dipende dalla probabilità che ha il sistema in questione di trovarsi in un certo stato. Consideriamo ad esempio l’atomo: non si può parlare di posizione di un elettrone rispet­ to al nucleo atomico (come nel caso di un pia­ neta in rotazione intorno al Sole), ma si può definire una regione spaziale simile ad un gu­ scio, che dipende dall’energia, in cui si ha una probabilità, molto alta di trovare l’elettrone che prende il nome di orbitale. Ci sono ulteriori dimostrazioni che il mon­ do microscopico ha decisamente poco a che fa­ re con il nostro senso comune. In fisica classica la luce è descritta da un’onda elettromagnetica mentre le particelle microscopiche si dovreb­ bero comportare come corpuscoli assimilabili 18

a punti materiali. Gli esperimenti ci dicono che questa schematizzazione non funziona: la lu­ ce e le particelle hanno un comportamento sia ondulatorio sia corpuscolare e ciò è la prova più evidente dell’inadeguatezza della mecca­ nica classica. Uno degli esempi più eclatanti riguarda l’effetto fotoelettrico: inviando un fa­ scio di luce ad alta frequenza (ultravioletta) su una superficie metallica (metalli alcalini) sotto vuoto si osserva che alcuni degli elettroni degli atomi del metallo si staccano da esso e diven­ tano liberi. Un dispositivo schematico come quello mo­ strato in figura permette di misurare sia la cor­ rente elettrica totale che esce dalla superficie sia la velocità degli elettroni emessi, ad esem­ pio variando il campo elettrico tra emettitore e collettore. La velocità degli elettroni non dipende dall’intensità della luce, come ci si aspette­ rebbe nella descrizione classica dell’onda, ma solamente dalla sua frequenza. Variando l’intensità della luce si ottengo­ no proporzionalmente più o meno elettroni estratti, cioè una corrente elettrica più o meno intensa. Al di sotto poi di una data frequenza, che dipende dal tipo di metallo, l’emissione di elettroni non avviene affatto. 19

Il dispositivo m ostrato nello schem a è molto sim ile a quanto usato per effettuare l'esperim ento di Lenard i cui risultati vennero poi interpretati da Einstein nel 1905 introducendo il concetto di fotone. Gli elettroni vengono estratti dalla luce e accelerati dal cam po elettrico applicato tramite la differenza di potenziale tra emettitore e collettore. Questa differenza di potenziale può essere ridotta fino ad annullare la corrente e questo valore permette di misurare l’energia con cui gli elettroni vengono estratti dal metallo, che dipende solo dalla frequenza della luce incidente e non dalla sua intensità.

A seguito della precisa evidenza sperimentale (Philipp von Lenard, 1902 ) Einstein spiegò que­ sto comportamento sorprendente nel 1905 con l’ipotesi dei quanti di luce, i fotoni. La luce di lunghezza d’onda L e frequenza v = c/X {c indica la velocità della luce, 3 - 108m/s, un’altra costan­ te fondamentale della natura) si comporta co­ me un insieme di corpuscoli di energia E = bv, 2 0

i fotoni. Questi colpiscono gli elettroni nel me­ tallo cedendo la loro energia hv. Parte di questa energia (I ) è necessaria ad estrarre l’elettrone dall’atomo mentre il resto va in energia cinetica dell’elettrone stesso, vale £ = bv - I e dipende solo dalla frequenza della luce incidente. Vice­ versa il numero di elettroni estratti è proporzio­ nale all’intensità della luce e cioè al numero di fotoni incidenti. Ci volle qualche anno in più e l’esperimen­ to di Davisson e Germer (1927) per dimostrare che l’elettrone si comporta come un corpuscolo di massa m e impulso p ma anche come un’on­ da con lunghezza d’onda £ = hip. Ad una par­ ticella è quindi associata una lunghezza d’onda X che è tanto più piccola quanto più grande è il suo impulso. Ed ecco risolto il problema iniziale! Se vo­ gliamo “vedere” l’infìnitamente piccolo e son­ dare la natura elementare della materia dob­ biamo usare particelle di impulso p sempre maggiore, cioè di lunghezza d’onda sempre più piccola. In un microscopio elettronico queste “ sonde” sono rappresentate da elettroni che permettono di osservare i singoli atomi all’in­ terno di un materiale. C’è un altro elemento che rende il mondo delle particelle diverso da quello macroscopi­ co: la relatività speciale. Poiché le particelle si trovano normalmente a viaggiare con ve21

locità confrontabili con quella della luce, le leggi della meccanica classica non sono più adeguate e vanno estese alla relatività specia­ le. Nel sistema di riferimento in cui una par­ ticella si trova in quiete vale la famosa legge relativistica: E = me2

che mostra come massa ed energia siano equiva­ lenti. In un urto tanto maggiore è l’energia del­ le particelle che collidono tanto maggiore può essere la massa delle particelle create nell’urto stesso. Ma quanto sono grandi le masse di cui stia­ mo parlando e le energie coinvolte? Per como­ dità in fisica delle particelle l’energia viene mi­ surata in elettronvolt. L’ELETTRONVOLT Un eV è l’energia cinetica acquistata da un elettrone, che ha carica elettrica e = 1,6-tO'19 coulomb, net passaggio attraverso una differenza di potenziale elettrico AV = 1 volt.

La massa di un elettrone è 0,9-10‘30 kg e l’energia necessaria a produrlo (E = me2) è 8-10'14 J e cioè 0,5-106 eV (0,5 MeV). L’ener­ gia dell’acceleratore di particelle più potente del mondo, il Large Hadron Collider (LHC) del Cern, (13 TeV 13-1012 eV) equivale a 2 2

circa 2-10"6 J. Torniamo nel nostro mondo: una matita che cade da un tavolo arriva a terra con un’energia cinetica di circa IO'1 J. Dunque la scala di energia di LHC, se con­ frontata con quella coinvolta in un semplice fenomeno macroscopico quotidiano risulta assai piccola, ma è molto grande se riferita agli oggetti microscopici che generiamo tra­ sformando energia in massa secondo la legge di Einstein. In fisica classica le forze sono descrit­ te da campi, cioè da funzioni che associano ad ogni punto dello spazio un vettore che ci dice intensità, direzione e verso della forza. Per mettere in evidenza il campo magnetico generato da una calamita basta spargere un po’ di limatura di ferro nelle sue vicinanze: la limatura si sistemerà lungo le linee di for­ za del campo connettendo i due poli Nord e Sud. Il concetto di campo si può estendere in modo naturale alle particelle per descrivere la probabilità di trovarle in un punto dello spazio-tempo. Le particelle microscopiche vengono rap­ presentate da campi quantistici relativistici, il che significa che il loro comportamento dinamico è descritto dalla meccanica quan­ tistica unita alla relatività speciale. Anche le interazioni tra particelle sono descritte da campi quantistici relativistici e quindi 23

da particelle “ m essaggere” che trasportano tutte le informazioni relative alla m odifica­ zione delle caratteristiche dinamiche delle particelle interagenti (ad esempio due elet­ troni). In questa teoria (come in qualunque altra) i principi fondamentali di conserva­ zione (energia, impulso, momento angolare) della fisica classica rimangono validi. Ma le sorprese non finiscono qui. La teoria prevede anche che per ogni particella esista una particella di massa e spin (una proprietà intrinseca delle particelle, solo quantistica) identici ma con cariche opposte: la sua antiparticella. Ad esempio, nel caso dell’elettrone esiste, come è stato verificato sperimentalmente, un elettro­ ne con carica elettrica positiva: il positrone. Si tratta dell’antimateria, che si trova in quantità minima in natura ma che possiamo creare in la­ boratorio. Un altro fatto singolare riguarda il vuoto. Comunemente intendiamo il vuoto come l’as­ senza di qualunque cosa. Nel vuoto quanti­ stico, invece, il principio di indeterminazione consente la continua creazione e successivo riassorbimento dopo un brevissimo istante di coppie particella-antiparticella. Anche se que­ ste particelle vengono chiamate virtuali (cioè 24

stati che temporaneamente violano la conser­ vazione dell’energia perché questa non può essere verificata con una precisione migliore di h/ln&t), l’effetto di questo ribollire di par­ ticelle virtuali è misurabile e dunque molto reale. Le particelle, oltre che dalla massa e dal­ la carica elettrica, sono caratterizzate da altre proprietà che possono avere o meno una cor­ rispondenza con grandezze classiche. Lo spin, che ha dimensioni e si comporta come un mo­ mento angolare, può assumere solo valori in­ teri o seminteri di h e sommato al momento angolare orbitale di un sistema, contribuisce al suo momento angolare totale. Lo spin richiama l’idea classica di una ro­ tazione vorticosa della particella intorno al proprio asse. Tuttavia sono dotate di spin anche particelle puntiformi e quelle con massa nulla come i fotoni: si tratta appunto di una grandezza quantistica! Lo spin ha una conseguenza molto importan­ te: a seconda che abbiano spin intero (bosoni) o semintero (fermioni), due o più particelle identiche possono trovarsi nello stesso stato quantistico oppure questo gli è proibito. Si tratta del principio di esclusione (di Pauli), cui sono soggetti i fermioni, ed è alla base della 25

struttura degli orbitali atomici in cui si posso­ no trovare al più due elettroni con spin diretti in versi opposti. Ciò definisce tutte le proprie­ tà chimiche degli elementi. Più in generale ci sono una serie di cariche, dette numeri quantici, che derivano dall’osser­ vazione sperimentale delle interazioni tra par­ ticelle e che permettono di classificarle in fa­ miglie le quali seguono comportamenti dello stesso tipo. L’identificazione di questi numeri quantici costituisce una parte molto impor­ tante dello studio sistematico delle particelle elementari. Nel seguito verrà utilizzato il sistema di uni­ tà naturali di Planck in cui h = c = 1. LE UNITÀ NATURALI ti = c = 1 In fisica le unità di m isura fondam entali per lunghezza, m a ssa e tempo sono metro, kitogram m o e secondo (sistem a M KS confluito poi nel sistem a SI). In fisica delle particelle in cui ci si occupa di lunghezze dell'ordine di 1 IL 5 m e m asse di 1 (f27 kg queste unità non sono affatto convenienti, Si definisce invece un sistem a in cui te costanti h (la costante di Planck h divisa per 2 jt e d a velocità della luce) siano adim ensionali e pari a 1. La conseguenza di questa scelta è che lunghezza e tem po hanno le ste sse dim ensioni; energia, im pulso e m a ssa hanno te ste sse dim ensioni e la lunghezza ha le dim ensioni dell’inverso di un im pulso. Sopravvive un'unica dim ensione e norm alm ente viene scelta l'energia, che è conveniente esprim ere in eV.

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I M E T O D I E G LI ST R U M E N T I D E LLA FISICA D ELLE PARTICELLE L a d iffu sio n e La prima cosa che si fa con un uovo di Pasqua, per avere qualche informazione sulla sorpresa che contiene, è di scuoterlo. La seconda, per mettere le mani sulla sorpresa, è di romperlo. Misurando gli angoli e le velocità di due boc­ ce di uguale dimensione che hanno urtato tra loro, si possono imparare parecchie cose sulla loro natura, anche cose che non possiamo sa­ pere semplicemente guardandole. Prendiamo due bocce che si possono muove­ re lungo una guida che garantisca che tra le due avvenga un urto centrale. Supponiamo che una boccia gialla sia ferma e l’altra rossa la urti. Se il risultato è che entrambe le bocce dopo l’urto continuano a muoversi in avanti la boccia rossa avrà una massa maggiore della gialla. Vicever­ sa, se la rossa torna indietro, sarà la gialla ad avere la massa più grande. Se infine la rossa si ferma e la gialla viene proiettata in avanti, le due hanno la stessa massa. Questo sanno fare i bravi giocatori di bocce quando “ sbocciano” e cioè piazzano la loro boccia esattamente al posto di quella avversaria che schizza via. Far urtare particelle microscopiche tra loro e osservare il risultato è il metodo che i fisici usano per capire se ci sono strutture interne ad esse o se 27

ci sono fenomeni nuovi, ad esempio la creazione nell’urto di nuove particelle sconosciute o ma­ gari previste da una qualche teoria. Questo pro­ cesso (urto) viene detto diffusione o scattering. Tanto maggiore sarà l’energia E delle particelle incidenti tanto più piccole saranno le dimensioni d che è possibile sondare (E ~ 1/d) e tanto piu grandi saranno le masse che si possono creare. M a c’è un altro aspetto di grande interesse: in queste collisioni tra particelle si può realizzare una densità di energia altissima (tanta energia in un piccolissimo volume), così alta da avvi­ cinarci ai valori dei primi istanti successivi al Big Bang, quando non esisteva ancora la ma­ teria aggregata e le particelle erano veramente elementari ed interagivano liberamente. In questa prospettiva lo studio dell’infinitamente piccolo ci fornisce informazioni prezio­ se sull’infinitamente grande e su come dal Big Bang siamo arrivati ai giorni nostri. Lo scat­ tering si può realizzare accelerando delle par­ ticelle e mandandole su un blocco di materia (esperimenti a bersaglio fisso) oppure invian­ do due fasci di particelle l’uno contro l’altro (esperimenti nel centro di massa). Nella figura vengono mostrati schematicamente i due tipi di urto e l’energia a disposizione nello stato fi­ nale per creare nuova, massa. 28

LABORATORIO

CENTRO DI M ASSA

Confronto tra urto con bersaglio in quiete (disegni a sinistra) e urto con centro di m assa in quiete (disegni a destra). Se il bersaglio è in quiete esso è fermo nel sistem a di riferimento del laboratorio in cui si effettua l'esperimento. L'energia della particella incidente vale E mentre quella del bersaglio corrisponde alla sua m assa M. Dopo l'urto (disegni in basso), per la conservazione dell'energia e dell’impulso, l'energia a disposizione per produrre nuove particelle è ET0T= J lW . Se l’urto avviene con il centro di m assa in quiete, le due particelle incidenti hanno ciascuna un'energia pari ad E e im pulso pari e opposto. In questo caso l'energia a disposizione per creare nuove particelle vale ET0T= 2 f ed è quindi m aggiore a parità di E rispetto all'urto a bersaglio in quiete.

Il vantaggio di far collidere due fasci di particel­ le nel centro di massa è che tutta la loro energia è a disposizione per creare nuove particelle nel­ lo stato finale; viceversa in un urto contro un bersaglio fisso parte dell’energia della particella incidente finirà nel conservare il moto del centro di massa (baricentro) del sistema e solo la sua radice quadrata potrà finire nella creazione di nuove particelle. 29

Questo grande vantaggio ha portato allo svi­ luppo dei moderni collisori (collider, accelera­ tori a fasci incrociati). Va detto che la densità di particelle realizzabile in un fascio sarà sem­ pre molto minore di quella che si trova in un blocco di materia e che le collisioni su bersaglio fisso permettono l’utilizzo di un’ampia varietà di particelle proiettile e di materiali bersaglio, mentre nei fasci collidenti la gamma di proiettili è invece molto limitata. È stato proprio un esperimento di diffusio­ ne a rivelare la struttura atomica (Rutherford, 1909-1911). Inviando particelle a (atomi di elio privi di elettroni di massa IO4 volte quella dell’elettrone) su una sottilissima lastra d’o­ ro queste la attraversano, nella maggior parte dei casi, quasi indisturbate. Tuttavia alcune di esse vengono diffuse elasticamente ad angoli anche molto grandi rispetto alla direzione di incidenza. Questo risultato non è compatibile con l’idea di una struttura atomica (Thomson, 1904) ad anguria, in cui gli elettroni (semi) si trovano all’interno di una carica positiva diffu­ sa (polpa). La diffusione a grandi angoli indica la presenza nell’atomo di un nucleo massiccio sul quale le particelle a “rimbalzano” e torna­ no indietro, come se avessero sbattuto contro un muro. La figura mostra i due modelli ato­ mici ed il risultato aspettato per lo scattering nei due casi. 30

T H O M SO N

Il modello di atomo di Thom son prevede una distribuzione di carica positiva all'interno detta quale si trovano gli elettroni carichi negativamente in modo che l'insieme risulti neutro. Il proiettile, molto più m assivo degli elettroni, passa attraverso l'atomo con piccolissim e deviazioni che in media non ne cambiano la traiettoria. Il m odello di Rutherford, che rende conto del risultato sperimentale, prevede un atomo sostanzialm ente vuoto in cui un nucleo m assiccio carico positivamente respinge le particelle a anche a grandi angoli per urti centrali.

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L’analisi quantitativa dei risultati dell’esperi­ mento portò a concludere che l’atomo fosse costituito da un nucleo massivo carico positi­ vamente e da una nube di elettroni che ruota­ no intorno al nucleo e ne bilanciano la carica positiva. Il rapporto tra le dimensioni dell’atomo e del suo nucleo è circa 10s. Per rendere l’idea è come se il nucleo fosse un nocciolo di ciliegia al centro di un campo da calcio e gli elettroni fossero gli spet­ tatori sugli spalti. Sorprendentemente, l’atomo è sostanzialmente vuoto! In seguito venne scoper­ to il neutrone (Chadwick, 1932), una particel­ la neutra con massa di poco maggiore di quella del protone, e si comprese che il nucleo atomico massivo è composto di protoni e neutroni. Osservando il neutrone trasformarsi in un protone ed un elettrone (n -» p + e~) ci si re­ se conto che per conservare l’energia si dove­ va postulare l’esistenza di una particella neutra debolmente interagente che partecipasse al pro­ cesso: il neutrino (Pauli, 1931). Un esperimento di diffusione che utilizzava gli ipotetici neutrini prodotti da un reattore confermò l’esistenza di questa particella molto elusiva (Cowan e Reines, 1956). In tempi più recenti lo sviluppo degli accele­ ratori di particelle ha permesso una serie di 32

esperimenti (fine anni Sessanta-metà anni Set­ tanta) di diffusione di elettroni di alta energia (proiettili da 20 GeV) su protoni (bersaglio fisso) grazie ai quali si è compreso che neu­ troni e protoni (detti nucleoni in quanto co­ stituenti il nucleo atomico) non erano affatto elementari e se ne è stabilita la struttura a quark-partoni. In questo caso le distanze indagate sono dell’or­ dine di IO'18 m, ma Pesperimento è concet­ tualmente analogo a quello di Rutherford. Gli elettroni vengono usati come una potentissima lente di ingrandimento per osservare l’interno del protone. Quello che mostra la misura è un numero inaspettato di elettroni diffusi a grande angolo rispetto alla direzione di incidenza, indi­ ce di una granularità dovuta a oggetti puntifor­ mi costituenti il protone: i quark. G li acceleratori d i particelle Lo sviluppo degli acceleratori di particelle dagli anni Trenta ad oggi va di pari passo con l’ap­ profondirsi della nostra comprensione della na­ tura. La crescita dell’energia si traduce infatti nella possibilità di indagare dimensioni sempre più piccole.

Il modo più semplice per accelerare una particella di carica q, ad esempio un elettrone o un 33

protone, è di farle attraversare una differenza di potenziale AV. La particella viene accele­ rata dal campo elettrico statico e acquisisce un’energia cinetica E = q-AV. Tuttavia, a causa della rigidità dielettrica dell’aria (il massimo campo elettrico sosteni­ bile in aria secca prima di generare una sca­ rica è 3-104 V/m), la massima energia che si può ottenere in questo modo è di qualche MeV. Troppo poco per penetrare anche so­ lo la struttura del nucleo atomico. L’idea per aggirare questo ostacolo è quella di mettere una serie di AV acceleranti in sequenza e con la polarità in fase con il passaggio della par­ ticella sfruttando così tante piccole spinte al momento giusto. Nel 1927 venne realizzato il primo acce­ leratore lineare con elettrodi cavi, drift tube linac (Rolf Wideroe) che sfruttava questo concetto. Il limite di questo schema (oltre al dover calcolare con precisione la lunghezza degli elettrodi a seconda della velocità della particella in modo da poter sincronizzare la AV accelerante con il moto della particella stessa) è la lunghezza complessiva dell’ac­ celeratore necessaria per poter raggiunge­ re energie alte. Anche qui un’idea brillante supera il problema: la particella viene ac­ celerata facendola passare più volte nello 34

stesso sistema di elettrodi, mantenendola su un’orbita circolare e invertendo il campo accelerante con la sua frequenza di rotazio­ ne. Intorno al 1930 viene messo in funzio­ ne il primo prototipo di ciclotrone (Ernest Orlando Lawrence), il cui diametro di 11,5 cm permetteva di accelerare ioni di idrogeno fino a 80 KeV. Ma come si fa a mantenere una particella carica su un’orbita circolare? Si usa un campo magnetico J3 e la forza di Lorentz. Se i vettori di campo B e impulso p di una particella di carica q (che può essere positiva o negativa) sono ortogonali tra loro questa si muoverà su un’orbita circolare di raggio: R = p/qB

Particelle di carica opposta seguiranno tra­ iettorie di curvatura opposta. Nel ciclotrone il campo magnetico è uniforme, le particelle cariche vengono iniettate al centro della zona magnetizzata e accelerate attraverso due elet­ trodi cavi a forma di D con un campo alterna­ to con frequenza accordata al moto circolare. Tutto l’insieme si trova sotto vuoto spinto. Si evince dalla relazione citata che al cresce­ re dell’impulso p , poiché il campo magnetico B è costante, il raggio R dell’orbita aumenta proporzionalmente. 35

Le particelle spiralizzano allargando la loro traiettoria e alla fine vengono estratte e invia­ te sul bersaglio. Il limite di queste macchine è dovuto alla vasta zona magnetizzata in modo uniforme che si deve realizzare per ottenere energie che comunque rimangono sempre li­ mitate a qualche centinaio di MeV. La soluzione per raggiungere energie sem­ pre più alte è il sincrotrone: si mantengono le particelle cariche in un anello (tubo sot­ to vuoto) su un’orbita di raggio R costante tramite dei magneti dipolari disposti lungo l’orbita stessa; in alcuni punti dell’anello le particelle vengono accelerate tramite delle cavità a radiofrequenza. L’intensità del campo magnetico B aumenta in modo da mantenere le particelle di impul­ so sempre maggiore sull’orbita fissa R e la fre­ quenza di oscillazione del campo elettrico ac­ celerante aumenta in sincronia con la frequen­ za di rivoluzione delle particelle nell’anello. Le particelle nel sincrotrone sono un po’ come dei surfisti che devono mantenersi in equilibrio vicino alla cresta dell’onda per essere spinti e non finire gambe all’aria. Nella figura è ripor­ tato lo schema di un sincrotrone con i suoi ele­ menti principali.

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ACCELERATORE LINEARE (SOOMeV)

Schem a degli elementi principali del collider per fasci incrociati di elettroni e positroni LEP del Cern in funzione dal 1989 al 2000. Elettroni e positroni vengono iniettati in versi opposti con un sistem a di acceleratori che li porta a 20 GeV. I magneti dipolari distribuiti lungo l'anello di 27 km di circonferenza tengono elettroni e positroni sull'orbita. Le cavità a radiofrequenza reintegrano l’energia persa per irraggiam ento (2,3 GeV in un giro) e accelerano le particelle fino a 50 GeV, un sistem a di lenti m agnetiche (quadrupoli) anche esse distribuite lungo l'anello permette di mantenere i fasci focalizzati.

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Ci sono due questioni importanti da tenere in conto: la perdita di energia per irraggiamento e i limiti tecnologici nella generazione di campi magnetici molto intensi per guidare le particelle su lunghezze dell’ordine di metri. Una particella carica di energia E in moto circolare subisce un’accelerazione centripeta e quindi perde energia irraggiando fotoni (radia­ zione di sincrotrone). Questa perdita, in un giro dell’anello di raggio R, è AEirr ~ (E/m)4/R e va compensata con la spinta delle cavità a radiofrequenza. Tanto più grande è l’anello, e quin­ di R, tanto minore sarà la perdita. Similmente ed in modo ancora più efficace grazie alla di­ pendenza di tipo m 4 della perdita di energia, il problema è mitigato per particelle massive. Da questo punto di vista è più facile accelerare protoni che non elettroni, visto che tra le masse delle due particelle c’è un fattore circa 2000 in favore dei primi. Le particelle possono essere accumulate, estratte dal sincrotrone e inviate su un bersaglio fisso e molte scoperte sono state fatte in questo modo. All’inizio degli anni Sessanta, il fisico Bruno Touschek ebbe l’idea di far collidere fasci di materia contro fasci di antimateria. Nello specifico si trattava di elettroni e positro­ 38

ni che sono particelle identiche di carica elet­ trica opposta e ruotano in verso opposto nello stesso campo magnetico. In questo modo tutta l’energia dei fasci era a disposizione per la cre­ azione di particelle nello stato finale. Il primo anello di accumulazione, ADA, venne costruito nei Laboratori Nazionali di Frascati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) nel 1961 e segnò l’inizio della storia che ci ha portato oggi ad LHC. R ivelatori d i particelle Come si fa a “vedere” quali particelle sono state create in un urto e se ce ne sono di nuove che non conosciamo? Anche se viaggiano quasi alla velocità della luce molte delle particelle prodot­ te vivono poco e al più viaggiano per qualche frazione di millimetro prima di decadere dando luogo a particelle figlie. Il processo può essere a cascata e qualche istante dopo la collisione avremo solo particelle stabili o quasi che posso­ no essere figlie, nipoti o pronipoti della particel­ la prodotta in origine. E necessario costruire degli strumenti che misurino le caratteristiche fondamentali di que­ ste particelle finali - quali l’energia, l’impulso, la carica - permettendoci di ricostruire cosa ef­ fettivamente sia stato generato in origine. Dob­ biamo osservare le “ impronte” che tutte queste particelle lasciano passando attraverso la mate­ 39

ria e arrivare ad una visione d’insieme che viene chiamata “evento” . In figura viene mostrato un evento prodotto al LEP del Cern.

Un evento prodotto in una collisione positrone-elettrone al LEP del Cern nell'esperimento ALEPH. La proiezione ortogonale atta linea dei fasci e alla direzione del campo magnetico mostra le tracce delle particelle cariche incurvarsi nel cam po m agnetico e i depositi di energia nei calorimetri visualizzati da torri di altezza proporzionale all'energia stessa. Si tratta di un evento in cui sono stati prodotti quark e gluoni che non potendo esistere individualmente si trasform ano in tre cascate di adroni chiam ate jet.

Questo si fa sfruttando il fatto che le singole particelle interagiscono con la materia in modo molto diverso. Il segnale che le particelle lascia­ no nei rivelatori dipende, per esempio, dal fatto che esse siano cariche o neutre, che interagisca­ no fortemente con protoni e neutroni del nucleo (adroni) oppure interagiscano molto debolmen­ te. Ci sono molti tipi di rivelatori, realizzati con 40

tecniche differenti, che si sono molto evoluti nel tempo grazie allo sviluppo di nuove tecnologie. La scelta della strumentazione da usare dipen­ de dall’obiettivo di fisica che si vuole raggiunge­ re e dalle condizioni nelle quali si deve eseguire la misura. Ad esempio, se si vogliono cercare nuove particelle in un collisore, bisognerà tenere conto di un parametro come la distanza tempo­ rale tra un urto ed il successivo. Bisogna infatti fare sì che il risultato delle misure venga raccolto completamente tra i due urti. I rivelatori dovran­ no essere quindi sufficientemente veloci. Gli elementi indispensabili (ma non gli uni­ ci) per fare un esperimento sono tracciatori e calorimetri. I primi misurano le traiettorie del­ le particelle cariche grazie alla ionizzazione del mezzo attivo per la rivelazione (ad esempio un gas o dei piani sottili di silicio). I depositi di carica localizzati lungo la traiettoria della par­ ticella e l’immersione in un campo magnetico permettono di determinarne l’impulso in base alla relazione R = p/qB. Alla fine di questa misu­ ra la particella esce dalla zona di tracciamento e prosegue il suo percorso quasi indisturbata. I secondi misurano l’energia della particella con un processo di assorbimento nel materiale atti­ vo che restituisce l’energia depositata nel mezzo sotto forma di un segnale che può essere ottico, elettrico o anche termico. Alla fine della misura la particella non esiste più e tutta la sua ener41

già finisce nel calorimetro che, opportunamente calibrato, ci permette di misurarla. Nella figura viene schematizzato il comportamento di particelle differenti, che si trovano normalmente nel­ lo stato finale di una collisione, nell’attraversare tracciatori e calorimetri usati in esperimenti agli acceleratori. TRACCIATORE

CAtORIMETRO HETTR0MA6NETIC0

CAtORIMETRO ADRONICO

TRACCIATORE RERMUONI

fotoni

elettroni

muonì

adroni carichi

adroni neutri

Schem a del comportamento delle particelle che comunemente si trovano nello stato finale di una collisione. Fotoni neutri ed elettroni (positroni) carichi interagiscono con il cam po elettromagnetico degli elettroni atomici e dei nuclei. I primi non lasciano segnali nei tracciatori, i secondi vi lasciano segnali dì ionizzazione; entrambi vengono assorbiti generando degli sciam i di particelle nei materiali con alto numero atomico Z (calorimetro elettromagnetico). Muoni (negativi e positivi) si comportano come elettroni pesanti (m assa 200 volte superiore); nella m aggior parte dei casi lasciano solo segnali di ionizzazione sia nei tracciatori sia nei calorimetri penetrando grandi spessori di materiale. Adroni carichi (protone, pioni e altri) e neutri (neutroni e altri) interagiscono fortemente con i nucleoni e generano degli sciam i di particelle che vengono poi assorbite nei materiali con numero di m assa A alto. Se carichi lasciano anche segnali di ionizzazione nei tracciatori. 42

M A TERIA E IN T E R A Z IO N I L e particelle Gli scienziati hanno cercato da sempre di de­ scrivere la realtà secondo un modello sem­ plice ed elegante, immaginando la materia composta di entità elementari, indivisibili e facilmente schematizzabili. Possiamo quindi immaginare il trambusto in ambito scientifi­ co quando, intorno alla metà del secolo scor­ so, le scoperte di nuove particelle elementari si sono susseguite in modo frenetico. Si era partiti lentamente con la scoperta dell’elettro­ ne alla fine del XIX secolo e poi con quella del protone intorno al 1919. Poi negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta si ebbero le scoperte di tutta una serie di nuove particel­ le che avevano da un lato creato un enorme entusiasmo ma dall’altro posto dubbi sulla possibile interpretazione dei risultati. Si trat­ tava di una proliferazione esponenziale delle specie di particelle che non aveva molto a che fare con il modello semplice che gli scienziati speravano di formulare. Fermi stesso, che ave­ va contribuito alla scoperta di queste nuove particelle, durante quegli anni disse: «Se mi ricordassi il nome di tutte queste particelle sa­ rei un botanico!». In effetti Fermi aveva ragione e la fisica fondamentale non poteva assomigliare alla 43

botanica. Tutte quelle particelle scoperte non erano per nulla elementari. Quando più tardi gli esperimenti di “ scattering profondo” degli anni Sessanta e Settanta allo Stanford Linear Accelerator Center negli Stati Uniti permise­ ro, con proiettili molto energetici, di indagare la sottostruttura del protone e del neutrone, vi fu la conferma che le entità fondamentali erano i partoni, successivamente identificati con ciò che era stato predetto qualche anno prima da Murray Gell-Mann e George Zweig: i quark. Oggi la descrizione del mondo subatomico è estremamente asciutta. Le particelle che costituiscono la materia visibile delPuniverso sono soltanto tre: il quark up, quello down e l’elettrone. Opportune combina­ zioni di queste particelle formano i nucle­ oni, cioè i protoni e i neutroni, e quindi gli atomi, le molecole e tutto il mondo che conosciamo. Il Modello Standard delle particelle elementari ha in realtà un numero di particelle più consi­ stente che permette di ottenere anche stati che non sono presenti in forma stabile. Le particel­ le elementari vengono categorizzate seguendo un metodo che i giocatori esperti di puzzle co­ noscono molto bene. Quando ci si appresta a 44

fare un puzzle di dimensioni importanti i pezzi vengono subito divisi sulla base della possibi­ lità che essi hanno di attaccarsi insieme, di in­ teragire. Si mettono da una parte i pezzi della cornice del puzzle, quelli che hanno un colore simile, oppure che hanno forme particolari. Per le particelle elementari viene fatto qualco­ sa di simile. Le particelle vengono divise in categorie che rispecchiano il modo in cui esse possono interagire fra loro a seconda di alcune caratte­ ristiche elencate di seguito. La carica elettrica : esistono particelle ele­ mentari con carica uguale alla carica dell’e­ lettrone, i leptoni carichi, tra cui anche l’elet­ trone, o carica frazionaria rispetto a quella dell’elettrone, come i quark. Avere una carica elettrica implica che queste particelle posso­ no interagire fra loro con forze elettroma­ gnetiche. Il sapore : si tratta di una caratteristica intrinseca della particella che determina il modo in cui si accoppia alle altre particelle per ciò che riguarda le interazioni dette de­ boli. Ad esempio il quark u (up) ed il quark c (charm) hanno la stessa carica elettrica ma sapore diverso. Lo spin: anche questa è una caratteristica intrinseca della particella che però ha a che vedere con il momento angolare e quindi de45

termina il modo in cui le particelle interagi­ scono fra loro nello spazio. Lo spin è fondamentale poiché permette di distinguere le par­ ticelle in due grandi categorie: i fermioni, che hanno spin semintero (ad esempio per leptoni e quark vale 1/2), e i bosoni che hanno spin intero. I bosoni hanno un ruolo di primaria importanza poiché sono i cosiddetti mediatori delle interazioni. Ad esempio il fotone è il bosone responsabile dell’interazione elettroma­ gnetica ed ha spin 1. Il colore: questa caratteristica accomuna tutte le particelle che si scambiano un’intera­ zione forte, che è quella che tiene insieme i co­ stituenti del nucleo dell’atomo. Si tratta dell’e­ quivalente di ciò che rappresenta la carica elet­ trica nelle interazioni elettromagnetiche e verrà chiarita meglio successivamente. L’isospin debole: anche questa è una gran­ dezza intrinseca delle particelle, che le ac­ comuna per ciò che riguarda le interazioni deboli. In analogia con lo spin, può assume­ re valori interi e seminteri e raggruppare le particelle in multipletti, cioè in sottogruppi in cui, grazie allo scambio di un’interazione debole, è possibile saltare da una particella ad un’altra. Sulla base di queste caratteristiche possia­ mo interpretare la figura seguente, che descri­ ve le particelle del Modello Standard. 46

Tre generazioni d» fermioni

Bosonì

Le particelle elementari che com paiono nel Modello Standard.

I 6 quark, che sono mostrati in grigio chiaro, sono fermioni che interagiscono con interazioni forti, elettromagnetiche e deboli. I 6 leptoni, in bianco in figura, sono fermioni che interagisco­ no con interazioni elettromagnetiche e/o deboli. I neutrini, poiché privi di carica e di colore, pos­ sono soltanto interagire con interazioni deboli e questo li rende estremamente sfuggenti. Le 4 particelle in grigio scuro sono i bosoni, che nel Modello Standard mediano le interazioni. L’ultima particella, quella scoperta più di re­ cente, è un altro bosone ma è l’unico a spin nul­ lo. Si tratta del bosone di Higgs e ci occuperemo di lui in seguito. Per ogni fermione esiste anche il suo corrispettivo di antimateria. Dunque la 47

tabella mostra 6 quark e 6 leptoni di materia ma ne esistono altrettanti di antimateria. Dei 12 fermioni in tabella solo 3 costituisco­ no la materia ordinaria (up, down, elettrone) mentre tutti gli altri vengono prodotti quando le particelle ordinarie interagiscono fra loro con grandi energie trasferite. Ciò può avvenire nel cosmo oppure nei grandi laboratori di fìsica delle alte energie dove vengono fatti collidere protoni oppure leptoni molto veloci e si crea­ no stati legati che possono contenere gli altri 4 quark in tabella (strange, charm, bottoni, top) insieme a leptoni non ordinari (muoni, leptoni tau e neutrini). Serve tanta energia perché queste particelle non ordinarie sono molto più massive di quel­ le ordinarie. Diamo un ordine di grandezza: il leptone tau ha una massa che è quasi 3000 vol­ te quella dell’elettrone mentre il quark top ha una massa che è quasi 100.000 volte quella del quark up\ Il fatto che le particelle di materia ordinaria siano meno massive delle altre non è ovvia­ mente un caso. Sappiamo infatti che tutti gli stati fisici tendono all’equilibrio, che corri­ sponde al minimo dell’energia potenziale. È il caso della biglia nella boccia di vetro: se la mettiamo in movimento dopo un po’ di tempo 48

finirà per rimanere ferma nel punto di minima quota. Così è per le particelle elementari. Se in un certo momento della vita dell’universo vengono prodotte alcune particelle di grande massa (che per l’equivalenza massa-energia hanno un’ener­ gia elevata) dopo un po’ finiranno per decadere in particelle al minimo della massa, sempre che sia consentito dalle regole di conservazione. Di conseguenza l’universo finisce per essere inflazio­ nato di particelle al minimo dell’energia e poco massive che andranno a formare tutti gli atomi e le strutture legate che vediamo intorno a noi. L e interazioni Ma come fanno ad interagire le particelle ele­ mentari? Nel Modello Standard ciò avviene at­ traverso i cosiddetti mediatori. Si tratta di particelle elementari che hanno il compito di portare l’interazione.

Questi mediatori possono mettere in contatto solo le particelle che hanno le caratteristiche giuste elencate in precedenza: il fotone collega particelle che hanno carica elettrica diversa da zero mentre il gluone (mediatore dell’intera­ zione forte) collega particelle dotate di colore e così via. Per capire il ruolo del mediatore possiamo fare il seguente esempio: immaginiamo di avere due 49

persone, ciascuna su una barca. Sono lontane fra loro e l’unico modo che hanno per comu­ nicare e per interagire è quello di scambiarsi un oggetto, una palla (vedi figura).

Diagram m a di Feynman di un'interazione elettromagnetica tra due elettroni e confronto del ruolo del mediatore della forza (fotone, indicato con y ) con il caso classico di una palla scam biata tra due persone, ciascuna su una barca.

Quando una delle due persone lancia o rice­ ve la palla cambia il proprio stato di moto, o meglio il proprio impulso. Più la palla viene lanciata energicamente e maggiore sarà l’inten­ sità di questo cambiamento di moto. Questo esempio meccanico macroscopico prevede solo 50

la repulsione, viceversa le particelle hanno in­ terazioni più varie. Due elettroni, per esempio, interagiscono in questa maniera. Hanno un proprio stato di mo­ to, cioè una certa velocità, e occupano una data posizione nello spazio. Si scambiano un fotone e ciò comporta un cambiamento del loro sta­ to di moto. Un modo elegante per visualizzare questo meccanismo avviene attraverso i dia­ grammi di Feynman (dal nome dello scienziato che li inventò) che sono il pane quotidiano del fisico delle particelle. I due assi rappresentati nel diagramma sono il tempo e lo spazio e, in que­ sto piano, le particelle sono indicate da linee in quanto esse occupano una certa posizione nello spazio in funzione del tempo. L’interazione elettromagnetica tra due elet­ troni viene vista come l’emissione di un fotone in un certo punto dello spazio e il successivo assorbimento dello stesso da parte di un altro elettrone in un altro punto dello spazio. Come conseguenza di questa emissione/assorbimento le due particelle cambiano il loro stato di moto, che corrisponde al cambio di pendenza della li­ nea che descrive la particella stessa. Ciascun vertice del grafico viene pesato con un coefficiente detto costante di accoppiamen­ to. Questi coefficienti sono caratteristici del ti­ po di interazione e regolano la probabilità che due particelle possano interagire. Come è stato 51

detto in precedenza, le interazioni tra le particelle elementari sono governate dalla meccanica quantistica e avvengono su base probabilistica. Più l’interazione è probabile, più grande è la co­ stante di accoppiamento associata ad essa. Le interazioni che hanno costanti di accoppiamen­ to grandi determinano fenomeni molto frequen­ ti mentre costanti piccole sono caratteristiche di fenomeni rari. Tutte le particelle elementari interagiscono con 4 forze fondamentali: Interazione elettromagnetica. Si manifesta quando interagiscono particelle dotate di ca­ rica elettrica. È quella che permette, per esem­ pio, agli elettroni di restare legati al nucleo e la formazione degli atomi e delle molecole: in una sola parola è l’interazione che plasma il mon­ do sensibile. Come accennato in precedenza, il mediatore è il fotone. L’interazione è pesata da una costante chiamata costante di struttura fi­ ne (aem) che è proporzionale al quadrato della costante di accoppiamento, la carica elettrica e, e vale a em= 1/137. Si tratta di una interazione apprezzabile a livello macroscopico. Ciò è con­ seguenza del fatto che essa è intensa, che il suo raggio di azione è infinito e che è possibile iso­ lare in una zona dello spazio particelle con una carica elettrica specifica. Anche il mediatore è 52

osservabile macroscopicamente. Infatti la luce è fatta di fasci di fotoni. Interazione forte. È l’interazione che avviene tra i quark, che sono particelle dotate di colo­ re, che è l’equivalente della carica elettrica delle interazioni elettromagnetiche. Essa permette ai componenti del nucleo (nucleoni) di rimanere legati e genera quasi tutta la loro massa. Spegnendo l’interazione forte i protoni cari­ chi positivamente si respingerebbero, rendendo di fatto impossibile la creazione di un nucleo atomico. L’interazione forte deve, quindi, supe­ rare in intensità quella elettromagnetica a pari­ tà di distanza. Ne consegue che la sua costante di accoppia­ mento deve essere molto più grande di quella elettromagnetica. L’equivalente forte della co­ stante di struttura fine si indica con a s e vale circa 1, cioè 137 volte la sua controparte elet­ tromagnetica. La probabilità che una interazio­ ne avvenga è proporzionale al quadrato di a s, quindi le interazioni forti sono circa IO4 volte più probabili. L’interazione si trasmette in modo simile a quel­ la elettromagnetica. Al posto del fotone abbiamo i gluoni che sono sempre bosoni di spin 1 e massa nulla. A differenza del fotone, che è una particella neutra dal punto di vista dell’interazione, poiché non porta con sé la carica elettrica, i gluoni sono essi stessi colorati. Ciò implica che essi possono 53

cambiare il colore dei quark che collegano. Un’al­ tra implicazione interessante che li rende diversi dai fotoni è il fatto che essi possano interagire tra loro proprio perché trasportano colore. Interazione debole. Si tratta dell’interazione meno intensa tra quelle descritte dal Modello Standard delle particelle elementari e l’equi­ valente debole della costante di struttura fine vale a w= IO'6. Pur essendo quella più debole, è l’interazione che coinvolge tutti i fermioni del Modello Standard. Mentre l’interazione forte è propria solo dei quark e l’elettromagnetica so­ lo dei quark e dei leptoni carichi, l’interazione debole coinvolge anche i neutrini. Una delle sue caratteristiche fondamentali è quella di poter cambiare il sapore della particel­ la coinvolta. Dal momento che il sapore iden­ tifica, per esempio, se abbiamo a che fare con materia ordinaria oppure no, questa interazione permette la trasformazione della materia ordi­ naria, cioè quark up, quark down ed elettro­ ni, in materia non ordinaria, rappresentata dai quark di sapore diverso (strange, charm, beauty e top) e dai neutrini. Essa permette inoltre di trasformare un quark down in un quark up, e quindi può convertire un neutrone {up, down, down) in un protone {up, up, down). Si tratta quindi di un’interazione che de­ termina il decadimento di nuclei atomici instabili. Un nucleo decade in un altro nucleo con 54

pari numero di massa, dove un neutrone si trasforma in un protone con l’emissione di un elettrone e un neutrino. In sostanza (vedi figu­ ra) uno dei costituenti del neutrone, un quark d, si trasforma in un quark u, cioè nell’altro quark del doppietto di ìsospin debole, attraver­ so l’interazione debole che è mediata attraver­ so il bosone W.

Diagramma di Feynman del decadimento |3 di un neutrone (a sinistra) e dello scattering di un neutrino su un protone (a destra).

Il neutrino e l’elettrone che partecipano a questa transizione rappresentano anche essi un dop­ pietto di isospin debole. L’interazione debole è mediata da due bosoni elettricamente carichi, W+e W', e da un bosone neutro Z°. Tutti e tre hanno spin 1 ed una massa molto grande, circa 100 volte la massa del pro­ tone. Quest’ultima caratteristica è in fortissimo contrasto con le altre due interazioni che hanno mediatori di massa nulla. Questo fatto implica anche che l’interazione, oltre ad essere debole, 55

non ha raggio infinito come nel caso elettroma­ gnetico, ma agisce solo a distanze molto picco­ le, dell’ordine di un millesimo del raggio del nu­ cleo. Le interazioni deboli possono avvenire con o senza il cambio di sapore (come per esempio nel diagramma di destra nella figura). Interazione gravitazionale. Si tratta di un’in­ terazione molto poco intensa e nel mondo delle particelle elementari è assolutamente trascura­ bile. L’attrazione gravitazionale tra due protoni è circa IO36 volte più piccola della loro repulsio­ ne elettrostatica! A causa di questa enorme dif­ ferenza e della difficoltà nel conciliare la relati­ vità generale con la meccanica quantistica que­ sta interazione non è stata ancora inclusa nel Modello Standard delle particelle elementari. Si è già accennato al fatto che la materia ordinaria è composta da elettroni, quark up e quark down, con i due quark aggregati solo in protoni e neutroni. Il protone libero è stabile, il neutrone lo è solo negli atomi non radioatti­ vi, che compongono la stragrande maggioranza della materia. Il resto delle particelle, 4 quark, due leptoni carichi, i bosoni, tutte le antipar­ ticelle, più un’infinità di stati aggregati che si possono formare con questi mattoncini, costi­ tuiscono la materia instabile. Il decadimento delle particelle instabili è go­ vernato dalle interazioni forti, elettromagneti­ che e deboli, a seconda delle particelle coinvolte 56

e delle regole di conservazione di cui parleremo più avanti. Le particelle che possono decadere attraverso l’interazione più intensa, quella forte, lo fan­ no in modo più rapido. Una volta prodotte, vivono così poco da non poter essere osserva­ te con gli esperimenti. L’ordine di grandezza è pari a un tempo di so­ pravvivenza di IO-22-IO-24 s, che, per una particella che viaggia a una velocità vicina a quella della luce, corrisponderebbe a una distanza per­ corsa di 10'14-10"16 m, cioè al raggio del proto­ ne. In realtà, grazie alla dilatazione relativistica dei tempi, la loro vita media può diventare si­ gnificativamente maggiore ma comunque risulta troppo piccola per essere osservata. La loro presenza viene quindi esclusivamente desunta ricostruendo i prodotti del loro deca­ dimento. Grazie ai principi di conservazione della relati­ vità speciale, dall’impulso e dall’energia cinetica dei prodotti di decadimento si può risalire alla massa della particella che è decaduta attraverso il calcolo della cosiddetta massa invariante. In un processo d’urto a determinate energie si “ massimizza” l’energia trasmessa, così come 57

in un oscillatore armonico, ad esempio, a de­ terminate frequenze si massimizza la potenza trasferita sull’oscillatore stesso. Se si fa un grafico della massa invariante ri­ costruita dalle particelle figlie si ottiene un pic­ co di risonanza (in analogia con il fenomeno di risonanza in meccanica o in elettromagneti­ smo). La massa della particella originaria corri­ sponde al massimo del picco. In figura troviamo lo spettro in massa inva­ riante di coppie muone-antimuone misurato dall’esperimento CMS del Cern. Si possono iden­ tificare vari picchi che corrispondono alle diverse risonanze che decadono in questo stato finale.

M assa invariante di coppie muone-antimuone misurata dall'esperimento CMS. Nel grafico sono visibili i picchi di risonanza di varie particelle instabili che decadono in questo stato finale. L'ultimo picco a destra è relativo al bosone vettore Z°.

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Le particelle che invece decadono attraverso le interazioni meno intense, in particolare quelle deboli, possono sopravvivere e percorrere di­ stanze misurabili sperimentalmente. Prendiamo il caso del muone, che è un leptone carico insta­ bile. Quando decade, si trasforma in un elettro­ ne (stabile), in un antineutrino elettronico e in neutrino muonico. Non è invogliato a decadere per via della scarsa intensità delle interazioni deboli ed ha una vita media di 2-IO'6 s. Se viag­ gia a velocità prossime a quelle della luce (cosa che capita spesso quando si ha a che fare con le particelle elementari) può vivere per diversi metri o anche per chilometri. Quando passa at­ traverso un rivelatore la sua traccia verrà iden­ tificata senza dover ricorrere alla ricostruzione dei suoi prodotti di decadimento.

IL M O D E L L O STA N D A RD E LE SUE V ER IFICH E SPERIM EN TA LI C he cosa è una sim m etria ? Un oggetto è simmetrico se è possibile cambiare in esso qualcosa lasciandone immutato l’aspet­ to, diceva Hermann Weyl, grande matematico tedesco. Le leggi fisiche che descrivono un feno­ meno sono simmetriche se ci sono delle modifi­ che che possiamo fare ad esse, o al nostro modo di rappresentarle, che non producono alcuna 59

differenza e lasciano tutto invariato nei suoi effetti. Se una specifica trasformazione lascia invariato un sistema, o una parte di esso, o le leggi che lo descrivono, allora abbiamo trovato una simmetria. Ad esempio una sfera (il nostro sistema) ri­ mane identica rispetto a qualunque rotazione intorno ad uno dei suoi diametri. La descrizio­ ne matematica che facciamo della sfera deve riflettere questa simmetria e rimanere invariata rispetto alle trasformazioni di rotazione intor­ no al diametro. Un esempio dalle conseguenze meno banali: se giochiamo a biliardo in una sa­ la da gioco, gli urti che avvengono tra le biglie sono gli stessi se la partita viene giocata alle ore 17 o alle 18, se il tavolo viene spostato in pun­ ti diversi nella sala o anche se viene ruotato, mantenendolo in orizzontale, di un qualunque numero di gradi. Le leggi meccaniche che de­ scrivono questi urti rimangono identiche, sono cioè invarianti, rispetto a traslazioni temporali, spaziali o a rotazioni spaziali rispetto ad un as­ se verticale. La questione rimarchevole è che a queste proprietà di invarianza corrispondono, se il si­ stema rimane indisturbato, delle grandezze fisi­ che che si conservano: l’energia, l’impulso e il momento angolare dell’intero sistema! I grandi principi di conservazione della fisica, ci permet­ tono di fare previsioni precise sul comporta­ 60

mento dei sistemi, sui quali non agiscano forze esterne, senza conoscerne i dettagli dinamici. Essi corrispondono a proprietà di simmetria spazio-temporali. Nel 1918 la matematica tedesca Emmy Noether formula l’omonimo teorema che ci di­ ce che ad ogni trasformazione continua di simmetria corrisponde in fisica una legge di conservazione. Questo teorema trasforma le simmetrie da un divertente gioco matema­ tico ad un potentissimo strumento di com­ prensione della natura e ci indica infatti cosa misurare per capirla in profondità. Le simmetrie possono essere continue, cioè dipendere da variabili che cambiano con con­ tinuità (come angoli di rotazione o coordina­ te spaziali e temporali) o anche discrete come l’inversione di segno delle coordinate spaziali (parità), del verso tempo (inversione temporale) o del segno della carica (coniugazione di cari­ ca). Dal punto di vista matematico le simmetrie sono descritte da un insieme di trasformazioni che possiede delle proprietà ben precise: costi­ tuiscono un Gruppo. Se in natura qualcosa è simmetrico, ci può essere una ragione sotto. Nel capire la ragione di una simmetria si ha la possibilità di compren­ dere la natura di un fenomeno: le simmetrie in 61

fisica ci permettono di fare previsioni e nella fisica delle particelle svolgono un ruolo fondamentale, sono una specie di filo di Arianna. Le più importanti si chiamano in linguaggio tecni­ co U(1),SU(2),SU(3). In generale non è poi così facile individua­ re le simmetrie come può avvenire nel caso di quelle spazio-temporali. Oltre a queste ultime ce ne sono di vario tipo. Le simmetrie possono essere interne e cioè riguardare il cambiamen­ to di certe proprietà intrinseche delle particel­ le (come ad esempio la carica elettrica). Una trasformazione di simmetria interna può esse­ re applicata globalmente in tutti i punti dello spazio-tempo (simmetria globale) o anche esse­ re dipendente dal punto dello spazio-tempo al quale viene applicata (simmetria locale o sim­ metria di gaugé). Questo ultimo tipo di trasfor­ mazioni di simmetria è all’origine di tre delle quattro interazioni fondamentali in azione tra le particelle elementari. La natura sembra amare le simmetrie, ma di­ spettosamente ama anche nascondercele in­ troducendo dei piccoli difetti (rompendole) così che la loro identificazione spesso non è affatto semplice. L’ elettrodinam ica quantistica Abbiamo dunque visto che c’è una corrispon­ 62

denza tra leggi di conservazione e simmetria di un sistema fìsico. Questo principio è ancora più potente. Le simmetrie sono anche collegate alla dinamica di un sistema fìsico, cioè al modo in cui il sistema cambia il suo stato di moto e alle forze che agiscono su di esso. DALLA SIMMETRIA AL PRINCIPIO DI INERZIA Da considerazioni di sim m etria è p o ssib ile ricavare un principio della dinam ica: il principio d'inerzia. P re n d iam o il c a s o di un punto m ate riale libero (non s o g g e tt o a forze) che si m u o v e s o lo lu n g o una direzione (x). Qu esto pù nto è dotato di due s im m etrie: 1) s p o s t a n d o lo da un punto a un altro le s u e proprietà r im a n g o n o invariate (o m o g e n e ità dello s pa z io ) 2) tr a s la n d o il te m p o le s u e proprietà r im a n g o n o invariate (o m o ge n e ità del tem po). Se n z a entrare nel dettaglio, il m oto del punto m ateriale è descritto dall'equazione

±9L_ài_ dtdv

dx

do v e L è la la g r a n g ia n a del s is t e m a , un a fu nz io ne ch e ne caratterizza la d in a m ic a . In g e n e ra le la la g r a n g ia n a può dipe nde re d a lla p o s iz io n e x, d a lla v elo cità v e da l te m p o /.V isto ch e v a lg o n o le s im m e t rie 1) e 2), e s s a d ipe nde rà s o lo d a lla ve lo cità (perciò — = o). Quindi dx =>

4 ^ = costante dv

Questa im plica che, visto che f à u n a funzione so lo di v, allora v è n e ce ssa ria m e n te costante. A b b ia m o quindi ricavato il principio di inerzia da s e m p lici considerazioni di sim m etria.

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In modo simile le interazioni fondamentali che agiscono sulle particelle elementari sono colle­ gate a grandezze conservate e a simmetrie. L’elettrodinamica quantistica, la teoria di elettroni e fotoni, è stata il “ laboratorio” nel quale la connessione tra simmetrie, grandez­ ze conservate e interazioni è stata studiata, compresa e generalizzata. Questo è accadu­ to perché il modo di descrivere le interazioni tra elettroni e fotoni presentava una sim­ metria globale, immediatamente visibile, la cui conseguenza era la conservazione della carica elettrica. Di più, la teoria rimane immutata anche tra­ sformando la simmetria globale in una simme­ tria locale, a condizione che il fotone assuma il ruolo di mediatore dell’interazione elettroma­ gnetica; Da qui l’idea di rovesciare il percorso e costruire una teoria matematica delle intera­ zioni, anche quelle più complesse, a partire da proprietà di simmetria. Naturalmente alla fine di un percorso del genere c’è sempre il vaglio sperimentale. In meccanica quantistica lo stato di un sistema è descritto da una funzione d’on­ da ip(x). Nella teoria quantistica di campo questo concetto viene superato, rendendolo coerente con la relatività speciale. La nuo­ 64

va entità è il campo quantistico che dipende dallo spazio-tempo e che è definito in ogni punto di esso. Questo campo non è accessibi­ le sperimentalmente ma lo sono le particelle, che si manifestano come eccitazioni di que­ sto campo. Supponiamo ora di applicare una trasfor­ mazione che trasli lo spazio-tempo di una certa quantità ea, dove e rappresenta la ca­ rica elettrica di un elettrone. È ciò che capita quando ad esempio aggiungiamo una costan­ te (f>, detta fase, all’argomento di un coseno (che è una possibile funzione per descrivere un’onda). I grafici di cos(x) e di cos (x+ “ Ni + e + ve ), a t tr a v e rs o il d e c a d im e n t o be ta tipico d e lle in te ra z io ni d e b o li. Inoltre, p o iché l'a to m o di n ic h e l è p r o d o tto in u no s ta to e ccitato, v e n g o n o a n c h e e m e s s i du e foto ni c o m e c o n s e g u e n z a d e lla s u a d is e c c ita z io n e . In c a s o di c o n s e r v a z i o n e d e lla parità, la d is tr ib u z io n e d e ll'a n g o lo di e m i s s io n e d e g li e lettro ni d o v e v a e s s e r e s im m e t r i c a , q u in d i d o v e v a n o e s s e r e e m e s s i tanti elettroni in d ire z io n e p a ra lle la a llo s p in d e l “ Co q u a n t i in d ire z io ne o p p o s t a (vedi figu ra ). Ciò s ig n if ic a c h e le d ue c o n f ig u r a z io n i s a r e b b e r o sta te e q uipro bab iti. V ic e v e r s a , se gli e lettro n i f o s s e r o stati e m e s s i p r e fe r e n z ia lm e n te in dire z io n e p a r a lle l a (o a n t ip a r a lle la ) a llo s p in d e l n u c le o , la p a rità s a r e b b e s t a t a v io lata.

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specchio

s p e c c h io

Sinistra: lo spin è una grandezza fisica sim m etrica rispetto alta simmetria di parità. Destra: spin del “ Co e direzione dell'elettrone proveniente dal suo decadimento prima e dopo aver applicato la trasformazione di parità.

Per verificare ciò servivano due tipi di rivelatori: due cristalli a scintillazione, per misurare il flusso di fotoni em essi dalla diseccitazione del “ Ni che permettevano di capire se lo spin del “ Co si fosse o meno orientato rispetto al cam po magnetico, e un cristallo di antracene posto sopra alla sorgente di “ Co per misurare il flusso di elettroni dal decadimento beta. Le complicazioni sperimentali di questo esperimento derivavano dal fatto che il rivelatore di elettroni doveva essere posto all’interno del criostato (per evitare che gli elettroni venissero assorbiti dalle sue pareti) e dal fatto che il segnale prodotto dal cristallo doveva essere trasportato fuori dall'apparato fino ai fotomoltiplicatori (che non lavorano a temperature criogeniche) attraverso una guida di luce. Per misurare il flusso di elettroni in direzione opposta allo spin serviva in teoria un rivelatore anche sotto alla sorgente. Tate duplicazione fu evitata invertendo il campo magnetico, ruotandolo di 180 gradi. Con questo apparato il numero di fotoni visti dallo scintiltatore doveva essere fortemente dipendente dalla polarizzazione del “ Co e quindi correlato con la direzione del campo magnetico mentre il segnale visto dal rivelatore per

elettroni, nel c a so di s im m e tria di parità conservata, d o veva essere indipendente dalla polarizzazione e dal c a m p o (vedi figura),

0 Guida di luce Rivelatori di fotoni (scintillatoti)

Rivelatore di elettroni (antracene)

Cam po Magnetico

Sorgente di «>Co

I risultati sperimentati, m ostrati dal grafico tratto dall'articolo originale (vedi figura sottostante), furono soprendenti. Il f lu sso di fotoni, co m e ci si aspettava, dipendeva dal ca m p o magnetico, m ostrando u n 'a s im m e ­ tria che svaniva nel tempo, a m a n o a m a n o che il 60Co si scaldava. La s te s s a co s a però ac cade va con il flu sso di elettroni, m ostrando una cor­ relazione com pleta con il c a m p o m agne tico e la violazione della parità!

85

L’impatto di questa osservazione fu enor­ me: era impensabile che l’evoluzione di un processo fisico potesse essere diversa cam­ biando segno alle coordinate spaziali. Perché mai il decadimento di una particella dovrebbe cambiare guardandolo in uno spec­ chio? La trasformazione di parità P (che, ri­ cordiamo, cambia il segno delle coordinate spaziali ed è equivalente alla riflessione in uno specchio che scambia la destra con la sinistra) opera nello spazio ed era naturale presumere, che come nel caso di traslazioni e rotazioni, non dovesse cambiare le leggi che descrivono un fenomeno fisico. In sostanza non si pensa­ va ci fosse un fenomeno fisico fondamentale che distinguesse la destra dalla sinistra. Di certo questo non avviene nelle interazio­ ni elettromagnetiche e nemmeno in quelle forti, che conservano sia la parità P sia le altre due simmetrie discrete, la trasforma­ zione di particelle in antiparticelle C e l’in­ versione temporale T. Purtroppo non possiamo entrare veramente in uno specchio e rifare un esperimento per vedere se il risultato rimane invariato. Ma quello che possiamo fare è misurare se una grandezza che descrive un processo fisico, ad 86

esempio la distribuzione angolare delle par­ ticelle emesse in un decadimento, dipenda da qualche variabile che cambia sotto una trasformazione di parità P. Ciò è esattamen­ te quello che fu fatto dalla signora ChiengShiung Wu, dimostrando che gli elettroni emessi nel decadimento |3 di un nucleo di cobalto é0Co polarizzato (momento angolare totale orientato in una direzione definita) pre­ feriscono essere emessi in direzione opposta a questa polarizzazione. Dunque la corrente carica debole non può essere rappresentata esattamente in analogia a quella elettromagnetica che conserva la pari­ tà, ma deve contenere un termine che la viola. Numerosi esperimenti successivi hanno stabili­ to che la violazione della parità è la massima possibile. Gli elettroni emessi nel decadimento |3 sono di preferenza levogiri: il loro spin è orientato in direzione opposta al loro impulso. Per i neutrini, che hanno massa sostanzialmente nulla, lo spin è sempre orientato in direzione opposta all’im­ pulso, sono solo levogiri. Esistono antineutrini destrogiri (spin nella direzione dell’impulso) ma non neutrini destrogiri! I doppietti di fermioni che partecipano alle correnti deboli cariche corrispondono ad una nuova simmetria di gauge che governa questo tipo di interazione, indicata in linguaggio tecni87

co con SU(2), corrispondente all’isospin debole che viene conservato nell’interazione. Negli anni 1967-1968 Steven Weinberg e Abdus Salam formularono una teoria che unifi­ cava le interazioni elettromagnetica e debole in una sola interazione di gauge: l’interazione elettrodebole SU(2)xU(l). In questo schema viene introdotto un terzo bosone di spin 1, elettricamente neutro, con massa intorno ai 100 GeV, il bosone Z°. Le correnti previste nell’interazione elettro­ debole sono: debole carica (di cui si è detto), accoppiata ai bosoni carichi W, debole neutra (nuova previsione della teoria), accoppiata al bosone Z° e quella elettromagnetica accoppiata al fotone. L’introduzione del bosone Z° e delle correnti deboli neutre è la predizione più imme­ diatamente spettacolare di questa teoria. L’osservazione di questi processi di corren­ te neutra debole a bassa energia è molto diffi­ cile perché sono in competizione, con intensi­ tà molto minore data la massa molto grande del bosone Z, con i processi elettromagneti­ ci. Solo la sperimentazione con i neutrini (di per sé complessa) e la produzione diretta del bosone Z hanno permesso la verifica dell’esi­ stenza e uno studio dettagliato delle correnti deboli neutre. 88

Il fatto che i mediatori W e Z° non abbiano massa nulla rompe in malo modo la simme­ tria di gauge. Nel 1964 Brout, Englert e Higgs, per risolvere questo problema, proposero un meccanismo chiamato rottura spontanea della simmetria di gauge importandolo in fisica del­ le particelle dalla fisica dello stato solido. Le equazioni che descrivono la dinamica e le in­ terazioni elettrodeboli delle particelle restano simmetriche, ma lo stato fondamentale perde questa simmetria. Il meccanismo viene poi este­ so per generare la massa di tutte le particelle elementari. Dalla complessità matematica di questo mec­ canismo esce un’altra predizione molto reale che può essere verificata sperimentalmente: l’esistenza del bosone di Higgs H, una particella neutra e priva di spin (scalare). Questo bosone H interagisce con le particelle elementari in modo tanto più intenso quanto più è grande la massa della particella stessa. Come vedremo in seguito, la ricerca di questa particella ha impegnato i fisici sperimentali per circa 50 anni. I l (quasi) trio n fo d el M o d ello Standard Il Modello Standard prevede l’esistenza di nuove particelle: i bosoni W e Z con massa in89

torno ai 100 GeV, il quark top e il bosone di Higgs. Non c’è una predizione dei valori esatti della loro massa ma essi entrano nel modello come parametri liberi e vanno misurati dagli esperimenti. Dunque osservare queste nuove particelle e misurarne le proprietà sarebbe stato di certo un obiettivo primario, una prova regina della capacità del Modello Standard di descrivere la realtà. Ma il Modello Standard consente calcoli molto precisi delle grandezze misurabili (osservabili) nelle reazioni tra particelle. È quindi importan­ te, dal punto di vista sperimentale, saper fare misure con altrettanta precisione. I fisici sono in genere molto fantasiosi e non si accontentano di sviluppare un solo modello teorico. Ce ne sono molti alternativi, ognuno dei quali propone motivazioni diverse per ciò che si osserva e previsioni diverse per ciò che ci si deve aspettare. Nel 1973 in una camera a bolle a liquido pe­ sante, Gargamelle, furono osservate per la pri­ ma volta le correnti deboli neutre. Questo è sta­ to il primo successo del Modello Standard che ha poi spinto la sperimentazione in modo deci­ so verso la ricerca dei mediatori deboli da esso previsti, i bosoni carichi W± e quello neutro Z°. 90

Gli esperimenti UA1 e UA2, collocati al Super Proton Syncrotron collider (SpS) del Cern, vennero dedicati a questa ricerca. Il collisore consentiva l’urto di fasci di protoni e antiprotoni di 270 GeV (540 GeV nel centro di massa). I due esperimenti restarono in fun­ zione dal 1981 al 1990 e nel 1983 la rivista Physics Letters B pubblicò l’articolo in cui la collaborazione UA1 descriveva la scoperta del bosone W. Due Nobel premiarono la costruzione del mo­ dello (Glashow, Weinberg, Salam, 1979) e la prova sperimentale dell’esistenza dei bosoni W e Z°, sia nella parte di concezione dell’ac­ celeratore sia dell’esperimento (Rubbia, Van der Meer, 1984). Tuttavia le proprietà dei bosoni non vennero misurate con grande precisione. In tutto venne­ ro infatti raccolte solo diverse centinaia di W e un centinaio di Z. Per avere un test accurato del Modello Stan­ dard è necessario confrontare una misura estre­ mamente precisa di tutti i parametri che ca­ ratterizzano i bosoni intermedi (intensità degli accoppiamenti, massa, larghezza e spin) con le predizioni. Era dunque necessario un accelera­ tore che producesse i bosoni vettori in grande quantità, al fine di migliorare la precisione stati91

stica delle misure e, per quanto possibile, in as­ senza di contaminazioni. Per questo venne costruito al Cern un gran­ de collisore e* e- di 27 km di circonferenza con energia del centro di massa dell’ordine della massa dello Z e la possibilità di raddoppiare quasi questa energia per permettere, in una se­ conda fase, la produzione di coppie W+ W~. Il LEP (Large Electron Positron collider) entrò in funzione nel 1989 e la raccolta dati da parte dei quattro esperimenti, ALEPH, DELPHI, L3 e OPAL, durò per dieci anni durante i quali un campione di 18 milioni di Z e 40.000 coppie W+ W~ hanno permesso una verifica molto det­ tagliata del Modello Standard. Nella prima fase la misura della proba­ bilità del processo Z —» v v ha permesso di stabilire che le famiglie di neutrini sono tre e quindi il numero di repliche o generazioni di leptoni e quark è al massimo tre. Al tempo mancava all’appello un quark, il quark top non ancora osservato, per completare la terza generazione. Decine di grandezze osservabili misurate so­ no state confrontate con le predizioni del M o­ dello Standard trovando che queste erano in ottimo accordo con i dati sperimentali. Uno degli esiti più spettacolari ottenuti dal confronto tra modello e risultati sperimentali 92

è stata la stima indiretta abbastanza precisa della massa del quark top. Le masse ignote di particelle troppo pesanti per essere prodotte realmente, come quella del top o del bosone di Higgs, entrano comunque nel cal­ colo degli osservabili fisici perché partecipano “virtualmente” ai processi. Queste masse com­ paiono come parametri e il loro valore può esse­ re variato con l’effetto di cambiare di una certa percentuale il risultato dei calcoli teorici. Se le misure sono molto precise, si può confrontare il valore misurato di un osservabile con il suo va­ lore calcolato modificando le masse in gioco così da ridurre al minimo la differenza tra quest’ulti­ mo e il risultato della misura. Questo è il modo in cui la massa del top è stata misurata al LEP prima della scoperta della particella stessa. Nel 1995 il quark top venne scoperto, più o meno nella regione di massa indicata dal­ le misure indirette di LEP, dagli esperimenti CDF e DO al collisore Tevatron (protoni con­ tro antiprotoni a 1,8 TeV nel centro di massa) del laboratorio statunitense Fermilab. Il risultato in funzione del tempo delle misure indirette della massa del top ottenute al LEP e di quelle dirette ottenute al Tevatron è mostrato in figura. 93

massa top

(GeV)

240 .......

..... ;............. 1.1,^...,............. ..................... .j....

200

160

| {! ^ # t 4 +4 t * * H*

120

80 40 ' '

0..L.

1990

1995

2000

2005

I risultati della misura della m assa del quark top in funzione del tempo. Le misure indirette di LEP (punti tondi) aumentano di precisione nel tempo e sono molto vicine al valore della m assa della particella misurato direttamente dopo la sua scoperta dagli esperimenti CDF e DO al Tevatron di Fermilab (quadratini e triangolini).

II Modello Standard ha retto molto bene la pro­ va dell’esperimento ma mancava un pezzo fon­ damentale, il bosone di Higgs. Gli esperimenti a LEP nella loro ricerca di questa particella sono arrivati a mettere un limite diretto (produzione della particella reale) sulla sua massa stabilendo che è certamente più pesante di 114 GeV. Per osservare sperimentalmente il bosone di Higgs è servito un nuovo progetto, il Large Hadron Collider, che ha portato a termine la missione nel 2012. 94

LA SCO PERTA D EL B O SO N E DI H IG G S Il ruolo del meccanismo di Higgs è cruciale nel Modello Standard. Da un lato permette, come abbiamo già accennato, di conciliare l’invarian­ za di gauge con il fatto che i mediatori dell’in­ terazione debole, i bosoni W+, W" e Z° devono avere massa non nulla. Dall’altro fornisce il meccanismo attraverso il quale le particelle ele­ mentari acquisiscono una massa, necessario per descrivere lo spettro delle particelle misurato dagli esperimenti. Ciò avviene grazie all’introduzione nel model­ lo di un nuovo campo (di Higgs) che permea tutto lo spazio. È l’interazione con questo campo a determinare la massa delle particelle. È come se la presenza di questo campo avesse un’influenza sull’inerzia delle particelle elemen­ tari stesse. Il fatto che ci sia una relazione tra massa e intensità dell’interazione con il bosone di Higgs implica un’interessantissima proprietà che può essere verificata sperimentalmente: le particelle elementari più massive interagiscono in modo più intenso con il bosone. Questo signi­ fica, per esempio, che il bosone di Higgs predili­ ge il decadimento in particelle più pesanti (come il quark bottom) rispetto a quelle più leggere (come l’elettrone o il muone). 95

Si capisce dunque il motivo per cui la ricer­ ca del bosone di Higgs ha impegnato i fisici delle particelle per mezzo secolo. Scoprendo l’Higgs, in un sol colpo, si sarebbe confermata la bontà del modello, anche nel rendere conto delle masse, e lo studio degli accoppiamenti di questa nuova particella con tutte le altre avreb­ be aperto nuove strade per la ricerca di una nuova fisica. C ome scoprire l’H iggs Le scoperte in fisica si concretizzano con per­ corsi vari. Il più delle volte è lo sperimentatore che produce una serie di misure che alPinizio non riesce ad interpretare. È il caso della “mela” di Newton: dobbiamo aspettare che ci caschi in testa prima di trovare l’ispirazione per costruire un modello nuovo che spieghi perché è caduta in quel modo. Anche nella storia della fisica delle particelle le cose sono spesso andate in questa ma­ niera. Per esempio i fisici sperimentali hanno dovuto misurare una pletora di particelle nuo­ ve prima di capire che non erano elementari e che serviva il modello a quark per spiegarle. Così è accaduto anche per la soppressione dei decadimenti con variazione di stranezza nei decadimenti deboli che ha portato alla scoper­ ta del mescolamento dei quark con l’angolo di Cabibbo. 96

Altre volte però i fisici teorici, costruendo congetture nuove, introducono una predizio­ ne, un qualcosa che gli sperimentali non hanno mai provato a misurare semplicemente perché ignari dell’esistenza di tale effetto. Il caso più strabiliante è quello di Einstein e della relatività generale. Grazie alla sua nuova teoria, egli pre­ disse che la luce fosse deviata in presenza di og­ getti massivi, esattamente come fanno i pianeti soggetti alla forza di gravità. La luce prodotta da una stella nel cono d’om­ bra del sole può raggiungere la Terra grazie al fatto che essa non viaggia con una traiettoria rettilinea ma curva in prossimità del sole. Ciò a causa della deformazione dello spazio-tempo prodotta dal campo gravitazionale del sole stes­ so. Anni dopo la predizione, durante un’eclissi, questo effetto venne osservato, segnando il trionfo della teoria di Einstein. Per il bosone di Higgs è andata più o meno nello stesso modo. Circa 50 anni fa, per risolvere il problema che riguardava la massa dei mediatori dell’intera­ zione debole, i bosoni W e Z, i fisici Brout, Englert e Higgs proposero un meccanismo che implicava l’esistenza di una nuova particella. Essa doveva accoppiarsi a tutte le particelle do­ tate di massa, avere spin nullo ed essere neutra. 97

Permetteva inoltre di introdurre nuovi termi­ ni nel modello che descrivessero la massa dei quark e dei leptoni e quindi di tutta la materia che ci circonda. La dimostrazione che tale mo­ dello fosse corretto non avvenne subito. I fisici sperimentali hanno inseguito il bosone di Higgs per decine di anni fino al 2012, quando gli espe­ rimenti ATLAS e CMS hanno annunciato la sua scoperta e confermato il meccanismo proposto da Brout, Englert e Higgs. Negli anni Novanta si sapeva una serie di co­ se del bosone di Higgs. Innanzitutto la ricerca al LEP aveva stabilito che la sua massa doveva essere maggiore di 114 GeV, mentre i vincoli del Modello Standard imponevano che fosse mino­ re di 1000 GeV. Questa particella si doveva poi accoppiare con molte delle particelle del model­ lo, interagendo più intensamente con le particelle dotate di massa elevata. Come conseguenza di questo fatto, il bosone di Higgs doveva poter essere osservato in molti canali di decadimento diversi. Se la sua massa fosse stata minore di 160 GeV, il rarissimo de­ cadimento in due fotoni (H - * yy) e quello in due bosoni Z, che successivamente decadono in leptoni (H -» 4 leptoni), dovevano essere quelli più promettenti per la sua scoperta. C’erano dunque tre questioni sperimentali che bisognava risolvere per scoprire l’Higgs. 98

Produrre l’Higgs. Si è detto che quando due particelle collidono esse possono trasformarsi in un’altra particella e che la loro energia si tra­ sforma in massa grazie alla relazione E = me2. Per creare un bosone di Higgs di centinaia di GeV, servono dunque fasci di particelle con energie dello stesso ordine di grandezza. Il collisore LEP non aveva potuto esplorare masse oltre i 114 GeV proprio perché l’energia dei suoi fasci era limitata. LEP era infatti stato pro­ gettato per misurare con precisione le proprietà di Z e W. Produrre l’Higgs in abbondanza. La crea­ zione di un bosone di Higgs è un fenomeno raro. In meccanica quantistica ciò significa che la probabilità di generare l’Higgs da colli­ sioni di particelle del Modello Standard è bas­ sa. Per dare un’idea, in un collisore di protoni di alta energia meno di una collisione ogni miliardo crea un bosone di Higgs. Servono perciò Collisori molto efficienti per produrre un numero di bosoni di Higgs sufficiente per permetterne la scoperta. Ad esempio al Tevatron l’energia dell’acceleratore permetteva sì di creare l’Higgs ma non in modo abbastanza efficiente da consentire la sua osservazione in tempi ragionevoli (minori di decine di anni di presa dati). Identificare la presenza dell’Higgs. Una par­ ticella instabile come l’Higgs, che decade in 99

modo pressoché istantaneo una volta creata, si osserva solo attraverso i prodotti del suo de­ cadimento. Abbiamo accennato al fatto che il bosone di Higgs decade in tanti modi diversi, che coinvolgono praticamente tutte le particelle elementari note. Per questa ragione servono de­ gli esperimenti in grado di misurare le proprietà di queste particelle con grande precisione e in tempi molto rapidi. Inoltre, a causa dell’energia elevata delle collisioni, le particelle create pene­ trano grandi spessori di materiale. Dunque tali esperimenti devono essere di dimensioni mag­ giori rispetto a quelle dei rivelatori delle gene­ razioni precedenti. Tenendo in considerazione questi tre aspetti si è progettato il Large Hadron Collider (LHC), il cui fine principale era proprio quello di sco­ prire il bosone di Higgs. I l L arge H adron C o llid er La storia dell’LHC dimostra la lungimiranza che i fisici delle particelle hanno nel guardare alle future necessità della ricerca. Nel 1977 i fisici delle alte energie europei progettarono il collisore elettrone-positrone LEP al Cen­ tro Europeo per la Ricerca Nucleare (Cern, il laboratorio europeo dedicato alla fisica del­ le particelle) di Ginevra che avrebbe poi con grande successo studiato a fondo il Modello Standard. 100

Nel fare questo tennero aperta la possibi­ lità di riutilizzare in un secondo momento il tunnel per un acceleratore di protoni. Tra le varie possibilità si optò per lo scavo di una macchina circolare di 27 km di circonferen­ za. L’energia che avrebbe potuto raggiungere questo acceleratore di protoni sarebbe stata limitata solo dall’intensità del campo dei suoi magneti. Consci del fatto che la tecnologia si evolve nel tempo, i fisici fecero la scommessa, succes­ sivamente rivelatasi vincente, che l’acceleratore di protoni avrebbe poi raggiunto energie suffi­ cienti per fare nuove scoperte. A questo scopo venne messo in campo un robusto programma di ricerca e sviluppo sui magneti supercondut­ tori, l’elemento chiave. Il Large Hadron Collider lavora con fasci di protoni che circolano in versi opposti e rag­ giungono ciascuno un’energia di 6,5 TeV (corrispondente al 99,9999991% della ve­ locità della luce). Si tratta di un’energia mai toccata in precedenza in nessun laboratorio del mondo. I protoni si scontrano ogni 25 miliardesimi di secondo in punti equipaggiati con apparati spe­ rimentali progettati per osservare i fenomeni prodotti negli urti. Le condizioni di densità di 101

energia che si vengono a creare sono equiva­ lenti a quelle esistenti un millesimo di miliar­ desimo di secondo (10'12s) dopo la creazione dell’universo. Le particelle cariche sono accelerate tramite campi elettromagnetici. Per mantenere i proto­ ni sulla traiettoria circolare si usano magneti superconduttori da oltre 8 tesla. L’acceleratore è stato installato in una regione situata tra il lago di Ginevra e la catena montuosa del Giu­ ra ad una profondità sotterranea di circa 100 m (vedi figure). I due fasci di LHC hanno una struttura a pacchetti che viaggiano distanziati di circa 7 m, producendo circa un miliardo di collisioni al secondo.

Tunnel dell'LHC e posizione degli esperimenti ATLAS, CMS, LHCb e Alice. 102

Tratto del tunnel dell'LHC, con magneti e quadrupoli dell'acceleratore.

I protoni vengono iniettati nell’anello di LHC con un’energia di 450 GeV dopo essere stati prodotti e accelerati in vari stadi dal complesso di acceleratori del Cern. I fasci sono poi guidati da 9593 magneti di diversi tipi e con differenti funzioni. Quelli più importanti e difficili da realizza­ re sono i 1232 dipoli (magneti che realizzano un campo uniforme), ciascuno dei quali è lun­ go 15 m e viene mantenuto ad una temperatura di -271,3 °C, molto vicina allo zero assoluto, da un sistema criogenico assai complesso ad elio superfluido. Non sarebbe stato possibile raggiungere un campo magnetico di 8,3 T che richiede l’impiego di una corrente elettrica di 11.700 A (per confronto, quella massima in uso in un normale appartamento è di circa 100 A) usando dei magneti a temperatura ambiente per 103

via del consumo di energia. Sono state dunque sfruttate le proprietà superconduttrici di una lega niobio-titanio in cui, ad una temperatura inferiore ai -263 °C, la corrente scorre senza re­ sistenza elettrica. LHC rappresenta oggi il sistema criogenico più grande esistente al mondo e uno dei punti estesi più freddi dell’universo. L’acceleratore ha quattro punti di collisione nei quali i fasci di protoni circolanti in versi oppo­ sti vengono fatti incrociare 40 milioni di volte al secondo e dove sono installati altrettanti ap­ parati sperimentali principali. Due giganteschi apparati “ universali” , ATLAS (A Toroidal Lhc ApparatuS) e CMS (Compact Muon Solenoid) per la caccia a fenomeni nuovi, un esperimento (LHCb) dedicato ad approfondire lo studio del quark b e gettare luce sul mistero dell’assenza della antimateria nell’universo e un esperimen­ to che cerca di penetrare i segreti del plasma di quark e gluoni (ALICE: A Large Ion Collider Experiment). I fisici che lavorano in questi esperimenti sono organizzati in grandi collaborazioni in­ ternazionali che includono paesi distribuiti nei cinque continenti. L’Italia e l’Infn svolgono un ruolo molto importante nel Laboratorio e in tutti questi esperimenti. 104

ATLAS e CMS: gli esperim enti di scoperta Gli esperimenti ATLAS e CMS sono stati pro­ gettati per misurare principalmente i prodotti di decadimento del bosone di Higgs. Come è sta­ to menzionato in precedenza, i due canali più importanti per la scoperta sono quello in due fotoni e quello in quattro leptoni. Un evento di questo tipo è mostrato in figura. In questa sorta di “ fotografia” dell’evento, linee e parallelepipe­ di rappresentano le diverse particelle prodotte nella collisione e ricostruite dai rivelatori. Da un semplice conteggio si vede che in queste due collisioni sono presenti centinaia di particelle misurate. Il numero è enorme se si pensa che i rivelatori scattano queste immagini con risolu­ zioni equivalenti a quelle di una macchina fo­ tografica da 100 megapixel ad un ritmo di 40 milioni al secondo!

Un evento H - » y y registrato dall'esperimento CMS. 105

Un evento

4 leptoni registrato dall’esperimento ATLAS il 18 m aggio 2012.

Ogni linea curva rappresenta una traccia carica la cui traiettoria è deviata dal cam­ po magnetico dell’esperimento. I parallelepi­ pedi invece indicano la presenza di fotoni, elettroni, positroni oppure adroni carichi o neutri che vengono misurati nei calorimetri. Il bosone di Higgs non viene prodotto da solo nella collisione. Infatti, insieme ai due fotoni (i parallelepipedi lunghi nella figura dell’esperimento CMS) e ai quattro leptoni (i parallelepipedi lunghi nella figura dell’espe­ 1 0 6

rimento ATLAS) moltissime altre particelle sono presenti nell’evento. Questo fatto rende ancora più complicata l’identificazione del bosone di Higgs, visto che il resto dell’even­ to confonde in un certo modo la “ fotogra­ fia” , rendendo meno evidente la presenza del bosone. Nella figura si può vedere schematizzata una fetta dell’apparato sperimentale di CMS e l’interazione dei diversi tipi di particelle nei suoi vari strati di rivelatore.

Una latta della sezione trasversale di CMS

Fetta dell'esperim ento CM S, con i diversi sottorivelatori. Viene evidenziato il m odo in cui le diverse particelle in te ragiscono con i sottorivelatori e po sso n o quindi essere identificate. 107

Come si è detto, le funzioni cruciali in ap­ parati di questo tipo sono la tracciatura che permette di ricostruire il percorso delle particelle cariche e la calorimetria che permette di misurare l’energia di particelle sia cariche sia neutre per assorbimento (nel processo di mi­ sura la particella viene distrutta). In ogni caso ciò che segnala il passaggio o l’assorbimen­ to di una particella nel rivelatore è in defini­ tiva un segnale elettrico che viene raccolto, opportunamente elaborato e combinato con tutti gli altri. Tutti i rivelatori devono essere in grado di rispondere al passaggio delle particelle pro­ venienti da una collisione ed essere poi pronti per quella successiva. Ci sono dunque 25 mi­ liardesimi di secondo entro i quali il passag­ gio della particella deve produrre un segnale significativo. Questo segnale deve essere raccolto e invia­ to alla catena di acquisizione ed il rivelatore deve essere libero per l’evento successivo. Il tempo non è molto e la velocità di risposta non si ottiene in modo banale! Più i rivelatori sono vicini al punto di in­ terazione più la densità di particelle che li attraversano è alta. I rivelatori di tracciatu­ ra più vicini al punto di interazione hanno la granularità più alta e contano circa 70 milioni di canali che segnalano il passaggio 108

delle particelle. Sono così tanti in modo che l’eventualità che due particelle passino con­ temporaneamente nello stesso canale sia mol­ to bassa. Infine, dato che non è possibile scrivere su disco tutte le informazioni che i circa 100 milioni di canali dall’apparato sperimentale trasmettono in uscita 40 milioni di volte al se­ condo, è necessario essere in grado di decidere nel giro di un tempo brevissimo (circa un mi­ lionesimo di secondo) se la collisione prodotta ha delle caratteristiche interessanti o meno e se si vuole conservarla. Solo qualche centina­ io di collisioni al secondo vengono finalmente tenute e guardate in dettaglio. La soluzione di questo genere di problemi ha richiesto diversi anni di ricerca e sviluppo in molteplici campi: dai materiali innovativi all’elettronica veloce. L a sco perta d e l b o so n e d i H ig g s I canali in due fotoni e in quattro leptoni (muoni ed elettroni) sono stati cruciali per la scoperta del bosone di Higgs. Entrambi gli esperimenti, con diverse tecnologie, hanno puntato ad ottenere una capacità eccellente nella misura dell’energia di muoni, elettro­ ni e fotoni. La combinazione delle energie e degli angoli dei prodotti finali della disinte­ grazione dell’Higgs permette di ricostruire 109

proprio la m assa della particella madre con una precisione legata appunto alla capacità di misura dei rivelatori. Naturalmente in questa analisi di iden­ tificazione e misura vanno considerati gli inevitabili processi di fondo, che sono costi­ tuiti da altre particelle già note che a volte producono un risultato molto simile a quello cercato. Come distinguere il segnale dal fon­ do? Questo è il centro del lavoro di decine di giovani fisici che in gergo viene indicato co­ me: “ fare l’analisi dati” . Si tratta di cercare le differenze che distinguono il segnale che si ricerca da tutto il resto che accade con fre­ quenza molto maggiore. Sulla base di queste differenze si implementa una selezione che aumenti il rapporto tra eventi di segnale ed eventi di fondo. Le due figure seguenti mostrano i grafici che hanno permesso di dire al mondo: abbiamo scoperto il bosone di Higgs! Esso si manifesta come un picco di massa su un fondo continuo. La posizione del picco indica la massa del bosone misurata in labo­ ratorio e corrisponde a circa 125 GeV. Il fat­ to che in entrambi gli stati finali mostrati in figura mostrino la presenza del bosone rende la scoperta ancora più solida.

no

35.9#>’1(13TeV)

CMS

T "‘ y ■ ‘ “ H —y y y

'

I •~ T '

Aìlcategories S/{S+B) weighted

^rr^*125.4GeV, 5*1.18

* Data -— S+B fit .....B component

H±2o

10C

110

120

130

140

150

180

170

180

myy (GeV)

Distribuzione della m assa invariante di due fotoni e picco dovuto al bosone di Higgs. Nella parte sottostante della figura viene m ostrata la stessa distribuzione una volta sottratto il fondo.

Distribuzione della m assa invariante di quattro leptoni e picco dovuto al bosone di Higgs.

Ili

Ci si può domandare come mai servano due esperimenti con lo stesso scopo e non ne basti soltanto uno. La risposta sta in uno dei cardini del metodo scientifico: la riproducibilità delle osservazioni. Se uno dei due esperimenti osserva un fenomeno nuovo, l’altro deve poter confer­ mare l’osservazione. Una conferma indipenden­ te è irrinunciabile quando c’è in ballo una sco­ perta rivoluzionaria. Dopo la scoperta del 2012, grazie alle pre­ stazioni eccellenti dell’LHC, la quantità dei da­ ti raccolti dagli esperimenti è più che quintupli­ cata. Ciò sta permettendo di studiare in modo accurato le proprietà del bosone, misurando l’intensità dei suoi accoppiamenti con le par­ ticelle del Modello Standard. Nei risultati mo­ strati nel grafico si può osservare come l’Higgs si accoppi alle particelle del Modello Standard proporzionalmente alla loro massa. Ciò rap­ presemi un altro successo del modello: non solo il bosone di Higgs esiste ma si comporta proprio nel modo atteso.

112

Grafico degli accoppiamenti delle diverse particelle elementari con il bosone di H iggs in funzione della loro m assa, ricavato dall'esperimento CMS.

LA LEADERSHIP ITALIANA L'Italia ha contribuito con un ruolo di le ad e rsh ip a questa sco pe rta e co n tin u a a partecipare al grand e progetto scien tifico in ternazionale delt’LHC, grazie all’lnfn e ai su o i ricercatori. La te cn o lo gia italiana ha p e rm e sso di costruire parti e stre m am e n te critiche dei rivelatori e dell'acceleratore. D al punto di vista e co n om ico, ne gli anni di costruzio ne d e lla m acch in a acceleratrice e de gli e sperim enti, il ritorno in term ini di c o m m e sse di alta te cn o lo gia a ll’in du stria italiana è sta to superiore al contributo m on etario de llo Stato italiano al Cern. S i può parlare in questo ca so di un buon in ve stim en to per il co ntribuente italiano. I ricercatori italiani so n o o ggi in prim a fila n e lla produzione dei risultati scientifici ch e de rivan o da q u e sta im presa.

113

I N E U T R IN I In ogni secondo noi siamo attraversati da decine di migliaia di miliardi di neutrini ma non ce ne accorgiamo, e neppure questi se ne accorgono, perché tali particelle interagiscono debolmente con la materia. I neutrini possono attraversare l’intero globo terrestre senza interagire. I neutrini prodotti con macchine accelera­ toci sono stati studiati per anni, ne sono stati scoperti i tre diversi tipi distinti dal sapore lep­ tonice [neutrino elettronico, muonico e tauonico, con la rispettiva antiparticella] e sono stati usati come sonde per lo studio del nucleone. La particolarità di interagire solo debolmente e di avere una massa piccolissima li rende strumenti unici per esplorare i partoni all’interno dei nu­ cleoni: i neutrini sono stati negli anni Settanta e Ottanta un efficacissimo strumento di indagine della struttura dei nucleoni. Infatti, poiché l’interazione debole distingue tra destra e sinistra, i neutrini permettono di capire quanta parte del nucleone sia costituita dai tre quark («, u, d) detti di valenza, quanto di esso sia fatto di coppie quark-antiquark del mare (quantistico) e per differenza quanto sia fatto di gluoni. Guardando ai neutrini ci sono due “ stranez­ ze” . La prima è l’apparente assenza di massa. 114

Questo può accadere, ad esempio i fotoni o i gluoni hanno massa nulla. Tuttavia in questo caso c’è una ragione profonda: fotoni e gluoni hanno massa nulla per preservare l’invarianza di gauge. I neutrini sono particelle “normali” e non c’è nessun motivo per il quale la loro massa debba essere così piccola da poter esse­ re considerata nulla o addirittura esattamente nulla. Ad oggi a questa prima stranezza non c’è alcuna spiegazione confermata da prove sperimentali. La seconda stranezza venne mostrata per la prima volta dall’osservazione sperimentale che i neutrini generati dalle reazioni nucleari nel Sole, neutrini di tipo elettronico, sembra­ no sparire nel lungo viaggio prima di arrivare sulla Terra. Naturalmente un esperimento del genere è assai complicato: bisogna avere una grande massa bersaglio per sperare di osserva­ re qualche interazione prodotta dai neutrini; è necessario porre l’esperimento sotto terra in modo da schermare qualunque particella che non sia un neutrino; infine bisogna saper iden­ tificare il singolo processo in cui un neutrino elettronico viene assorbito da un nucleo cam­ biando la sua identità. Il primo esperimento di questo tipo venne condotto da Raymond Davis nella miniera d’o­ ro di Homestake (USA) negli anni 1964-1967. La grande massa bersaglio era costituita da una 115

grande vasca contenente cloro (378.000 litri), un neutrino elettronico solare che interagiva con un nucleo di cloro (37C1) lo trasformava in argon (37Ar) che poteva essere rivelato grazie al suo decadimento radioattivo con vita media di 35 giorni. Il risultato di questa misura con­ frontato con quanto ci si aspettava dai modelli solari dava un rapporto di 1 a 3. Cioè i neutrini effettivamente osservati erano solo un terzo di quelli aspettati! Per anni il mistero rimase. C’erano tre pos­ sibili cause della discrepanza: visto che l’e­ sperimento era uno solo e non c’era stata una verifica indipendente, si poteva trattare di un risultato errato; il modello solare, sulla base del quale si calcolava il flusso predetto, avreb­ be potuto essere completamente sbagliato; in­ fine la terza possibilità, quella più affascinante, proposta da Bruno Pontecorvo nel 1957, ipo­ tizzava che i neutrini avessero una massa, na­ scessero con un sapore definito ma in seguito oscillassero tra un sapore e l’altro. Dato che sono particelle neutre, la meccanica quantisti­ ca permette questo fenomeno, peraltro osser­ vato anche in altri tipi di particella (ad esempio nei mesoni K neutri). Il risultato sperimentale relativo al difetto di flusso venne confermato da GALLEX (poi GNO, 1991-2003) un esperimento concet­ tualmente simile al precedente, presso i Labo­ 116

ratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn. Per questo esperimento invece della transizione del cloro si usò quella da gallio (71Ga) a ger­ manio (71Ge). In questo modo si era sensibili ad una frazione dello spettro solare più ampia e meno incerta. I neutrini osservati risultarono circa la metà di quelli aspettati. In definitiva si faceva lar­ go l’ipotesi più affascinante, i neutrini hanno massa e oscillano! Ciascuno dei neutrini ve, v^, vTpuò trasformarsi per un periodo della sua esistenza in uno degli altri due. Questo avviene perché lo stato di sa­ pore leptonico che viene generato nell’intera­ zione debole è una sovrapposizione quantistica degli stati con massa definita vv v2, v3, che deter­ minano la propagazione fisica. La probabilità che la trasformazione avven­ ga dipende da un parametro che è chiamato angolo di mescolamento (mixing). L’evoluzio­ ne temporale dipende invece dal cammino per­ corso e dalla differenza di massa tra i diversi stati. Per osservare questo fenomeno di mixing con gli esperimenti è necessario costruire degli enormi rivelatori che possano distinguere le tre specie di neutrini. La cosa non è semplice, ma i fisici sono testardi. Un esperimento di questo tipo è sensibile a 117

tre diverse sorgenti di neutrini. Quelli che pro­ vengono dalle reazioni nucleari interne al sole sono quelli elettronici, ve. I neutrini possono anche essere prodotti nell’atmosfera terrestre dall’interazione di raggi cosmici di alta energia. Questi contengono particelle instabili che a loro volta decadono producendo ve, vH. Ad esempio uno dei processi principali riguarda il decadi­ mento del pione, 7? - * 'fi* v , e successivamente quello del muone, fi* - * e* ve vp . In questi sciami atmosferici di particelle, i neutrini di tipo muonico sono prodotti in quan­ tità circa doppia rispetto a quelli di tipo elet­ tronico. Infine esistono sorgenti artificiali come fasci di neutrini prodotti in laboratorio (ve, v ) o in reattori nucleari che nel processo di fissione danno luogo ad antineutrini elettronici, ve. La sperimentazione avviene con l’utilizzo di tutte queste sorgenti di neutrini che hanno caratte­ ristiche diverse e forniscono informazioni com­ plementari. Due esperimenti hanno dimostrato in modo inequivocabile che i neutrini oscillano e dun­ que hanno massa. L’importanza dei risultati è stata riconosciuta con il Nobel 2015 a Takaaki Kajita e Arthur McDonald per gli esperimenti Super-Kamiokande (in Giappone) e Sudbury Neutrino 118

Observatory (SNO, in Canada) rispettivamente. Entrambi si trovano a grandi profondità e sono costituiti da un’enorme vasca di acqua purifi­ cata (acqua pesante nel caso di SNO, deuterio al posto di idrogeno) ricoperta da migliaia di grandi fotomoltiplicatori in grado di rivelare la luce emessa, per via dell’effetto Cherenkov, da particelle cariche che si muovono nel mezzo con una velocità superiore a quella della luce nel mezzo stesso (v > dn dove n è l’indice di rifrazione del mezzo). L’effetto Cherenkov è dovuto ad una sorta di onda d’urto che le molecole di un materiale subiscono quando una particella lo attraversa con v > dn. È un po’ quello che avviene con una barca che si muove con una velocità mag­ giore di quella di propagazione delle onde del mare: crea una scia, un’onda piana che forma un angolo specifico, con la direzione del moto della barca. Così l’onda di shock Cherenkov genera fotoni che si propagano con un dato angolo 0 rispetto alla direzione della particel­ la, formando un cono di luce. In questo modo gli esperimenti possono identificare gli elettroni e/o i muoni generati dai rispettivi neutrini (la carica elettrica non può essere determinata e dunque non si pos­ sono distinguere neutrini da antineutrini). In figura, un neutrino muonico interagisce con i nucleoni del mezzo e genera un muone che 119

emette un cono di luce Cherenkov. Questo può essere rivelato da una parete di fotomoltipli­ catori; nel rivelatore si osserveranno dei cerchi luminosi caratteristici.

Un’im m agine-schem atica della rivelazione di un neutrino muonico in un dispositivo basato sull'effetto Cherenkov, ad esempio un cilindro pieno di acqua le cui pareti sono ricoperte da fotomoltiplicatori. Questi permettono di trasformare un segnale di luce, anche molto debole, in un segnale elettrico. La luce forma sulla parete dei cerchi caratteristici costituiti da fotomoltiplicatori accesi.

Solar Neutrino Observatory in Canada ha mi­ surato il flusso totale di neutrini provenienti dal Sole, indipendentemente dal loro sapore e quindi da possibili oscillazioni, identificando sia le correnti cariche prodotte dai ve (con un 1 2 0

elettrone nello stato finale) sia le correnti neu­ tre (nessun elettrone nello stato finale). Que­ ste ultime sono generate in uguale misura da tutti e tre i tipi di neutrino. In questo modo SNO, sommando le interazioni cariche a quelle neutre, ha misurato il flusso totale che è in ac­ cordo con quello previsto dal modello solare e dalla misura delle correnti cariche, dovute solo ai ve, ha confermato che solo 1/3 di questi rag­ giunge la Terra rimanendo ve. I restanti 2/3 si trasformano in v„ o vr. Super-Kamiokande ha aggiunto alla mi­ sura dei neutrini solari quella dei neutrini atmosferici. Ci si aspetta in questo caso che i neutrini di tipo muonico siano prodotti in quantità circa doppia rispetto a quelli di tipo elettronico e questo non dovrebbe dipendere dall’energia dei neutrini. L’osservazione spe­ rimentale non conferma ciò che ci si aspetta: i neutrini di tipo muonico spariscono prima di raggiungere il rivelatore e il modo in cui lo fanno è ben spiegato dal meccanismo di oscillazione. Tutti questi risultati sono poi stati confer­ mati utilizzando sorgenti artificiali, acceleratori e centrali nucleari. Lo sforzo sperimentale in corso è molto intenso e punta a misurare con precisione i parametri che determinano il feno­ meno: le differenze di massa tra i tre neutrini e gli angoli di mescolamento. 121

In conclusione i neutrini hanno massa e oscillano tra loro. Questo significa che la conservazione del numero leptonico per fa­ miglia che osserviamo sperimentalmente è accidentale. Le masse in questione sono ol­ tre un milione di volte più piccole di quella dell’elettrone (il leptone più leggero). In real­ tà il decadimento [A, -» e + y non è proibito da una legge di conservazione, ma a causa della piccolezza delle masse dei neutrini la proba­ bilità che accada è dell’ordine di IO"55. Dal punto di vista sperimentale è come dire che non accade, a meno che non intervengano nuove particelle sconosciute ad aumentarne la possibilità. I neutrini sono fermioni, e per ogni fermione esiste un antifermione con cariche oppo­ ste. Oltre ad essere particolare per via della massa, il neutrino è anche l’unico fermione elementare neutro. Per questo potrebbe es­ sere l’antiparticella di se stesso, un’ipotesi formulata da Ettore Majorana negli anni Trenta. Se i neutrini fossero particelle di Majorana si capirebbe forse la loro particolarità. Si può sco­ prire la vera natura del neutrino cercando even­ ti molto rari (per questo la ricerca viene fatta in laboratori sotterranei): doppi decadimenti |3 122

che abbiano nello stato finale solo due elettro­ ni e non due elettroni e due antineutrini come accade nel pur raro decadimento |3 standard, in figura. u

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Nel decadim ento p ' un neutrone si trasform a in un protone con l'em issione di un elettrone ed un antineutrino elettronico, In nuclei particolari può accadere un processo m olto raro: il decadim ento doppio f i ” con 2 antineutrini in cui A (nucleoni), Z (protoni) - » (A, Z + 2) + 2er + 2 ir, m ostrato nel diagram m a.

La probabilità del doppio decadimento |3 sen­ za neutrini, in figura, permesso solo nella teoria di Majorana, è proporzionale alla probabilità di avere due decadimenti (3 in simultanea e alla massa del neutrino al quadrato. 123

u

u

Se il neutrino è una particella di Majorana e coincide dunque con l'antineutrino, il neutrino em esso in un decadimento |3~ può innescare il processo inverso nello stesso nucleo con il risultato di avere nello stato finale due elettroni ma nessun neutrino come mostrato nel diagramma.

Se un tale decadimento venisse osservato si chiarirebbe la natura del neutrino e si avreb­ be anche una misura del valore assoluto della sua massa. Un esperimento che cerca di fare luce sulla natura del neutrino è attualmente in corso ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn. Si tratta di CUORE, un grande ca­ lorimetro (bolometro) costituito da cristalli di ossido di tellurio. In questo caso si rivela l’aumento di tempe­ ratura dei cristalli dovuto all’energia depositata dai due elettroni del decadimento. Per rendere 124

possibile la misura, il sistema viene mantenu­ to quasi allo zero assoluto (-273 °C) in modo da evitare la naturale agitazione termica degli atomi del materiale che coprirebbe il segnale d’interesse. Il nemico mortale di questi esperimenti è il rumore di fondo dovuto alla radioattività na­ turale dell’ambiente e dei materiali di cui sono fatti, che devono essere selezionati e trattati in modo da renderli il più possibile radiopuri. Questi esperimenti sono tecnologicamente mol­ to complessi e richiedono molta pazienza. La misura del valore assoluto della massa del neutrino sarebbe di fondamentale importanza per la conoscenza del nostro universo e della sua massa complessiva. Questo problema costituisce oggi uno dei miste­ ri più fitti su cui non siamo capaci di fare luce: di cosa è fatta la materia oscura?

125

C O S A R E S T A DA S C O P R I R E

I

l Modello Standard delle particelle elemen­ tari descrive in modo piuttosto preciso la natura su scala subatomica. Dalla sua for­ mulazione ad oggi la lista dei suoi successi è molto lunga. I più spettacolari sono certamente l’aver predetto l’esistenza di nuove particelle, dal quark top ai bosoni mediatori dell’intera­ zione elettrodebole W e Z, al bosone di Higgs, tutte puntualmente osservate. M a è la capacità di calcolare con enorme precisione gli osservabili fisici che rende il Modello Standard una costruzione di grande solidità.

Sappiamo molto quanto a particelle stabili e instabili e alle interazioni che ne regolano la di­ namica. Sappiamo tanto da poter persino fare previsioni quantitative, verificate sperimental­ mente, sull’abbondanza di elementi leggeri pri­ mordiali quali deuterio 2H, elio 3He e litio 7Li 129

presenti oggi nell’universo a circa 14 miliardi di anni dall’evento ipotizzato come origine, il Big Bang. Tuttavia ci sono dei fatti sostanziali e miste­ riosi che tutta la nostra conoscenza attuale condensata nel Modello Standard non è in grado di spiegare. E questo induce a pensare che non abbiamo ancora formulato la Teoria delle Particelle Elementari. Per cominciare, la struttura stessa del Modello Standard pone questioni: non c’è spiegazione al perché ci debbano essere tre (e solo tre) ge­ nerazioni di particelle e nemmeno al fatto che queste particelle, che costituiscono i mattoni elementari di tutto ciò che osserviamo, abbiano una distanza di oltre undici ordini di grandezza tra la più pesante (quark top) e la più leggera (neutrino). Tutto ciò che ci circonda a qualunque scala lo guardiamo, gli atomi, noi stessi, la Terra, le stelle, le galassie, è fatto di materia. In laborato­ rio osserviamo che quando materia ed antima­ teria si incontrano si annichilano in pura ener­ gia trasformandosi in lampi luce (fotoni) e che quando si converte dell’energia in massa si cre­ ano particelle ed antiparticelle in uguale misura. La pura energia del Big Bang si sarebbe do­ vuta trasformare in materia e in un’equivalente 130

quantità di antimateria, e nell’evoluzione suc­ cessiva tutto avrebbe dovuto trasformarsi in fotoni. M a allora come mai l’universo odierno è fat­ to solo di materia invece di essere una bolla di luce? Cosa ha invece permesso alla materia di sopravvivere? L’unica antimateria osservata è invece quella prodotta nei raggi cosmici, meno di una parte su 10.000 rispetto alla materia, e quella pro­ dotta artificialmente in laboratorio. La traccia delbannichilazione di materia e antimateria pri­ mordiali si trova oggi nella radiazione cosmica di fondo, ma ciò non spiega la totale assenza di antimateria. L’asimmetria tra materia e anti­ materia ha permesso la formazione di galassie, di pianeti e di noi stessi. Il meccanismo che ha prodotto questa asimmetria non è spiegato dal Modello Standard. Le osservazioni cosmologiche pongono un altro grande problema. Per citarne una tra tan­ te, dallo studio della velocità di rotazione delle galassie si deduce che essa è incompatibile con la quantità di materia visibile (stelle e pianeti) nella galassia stessa. La spiegazione di questo fenomeno richiede l’introduzione di una nuova forma di mate131

ria che non emette luce ed è perciò chiamata “ oscura” (dark matter). Ma qual è la natura fisica di questa materia oscura? Quali particelle la costituiscono? Forse sono particelle non ancora osservate, ma in ogni caso non esistono nel Modello Standard. Per le particelle elementari la forza di gravi­ tà non produce effetti osservabili poiché essa viene sovrastata per via della sua debolezza. Tuttavia sarebbe auspicabile includere nel Modello la gravità al pari delle altre tre intera­ zioni e ottenere l’unificazione delle forze (tut­ te quelle che conosciamo). Nonostante i molti sforzi questo obiettivo sembra assai lontano. Queste e altre questioni irrisolte rendono neces­ sario considerare teorie più generali che inglobi­ no il Modello Standard. Infatti questo modello, pur non spiegando tutto, rende conto in maniera estremamente precisa di ciò che osserviamo e le sue predizioni, come l’esistenza dei bosoni W e Z o l’esistenza del bosone di Higgs, si sono ri­ velate esatte. Ci sono molte nuove idee e teorie affascinanti al vaglio degli esperimenti. Queste sono più o meno solide, ma fino ad oggi nessuna di esse ha portato a risultati confermati speri­ mentalmente. Il tentativo di dare una risposta ai problemi 132

che la natura ci pone richiede l’esplorazione in molteplici direzioni. 1) Estendere la frontiera dell’energia proget­ tando nuovi acceleratori di particelle in grado di superare il limite attuale (LHC, 13 TeV). Questo richiede un enorme sforzo progettuale e un soli­ do programma di ricerca e sviluppo sull’elemen­ to che oggi limita l’energia di un acceleratore: i suoi magneti. In particolare, vengono considerati materiali che presentano il fenomeno della superconduttività ad alte temperature, cioè a temperature maggiori di quella critica dell’azoto liquido (77 K). La possibilità di usare tali materiali, oltre a permettere il raggiungimento di campi magnetici molto più elevati dei limiti attuali, semplificherebbe in modo significativo tutta l’infrastruttura criogenica necessaria al sistema magnetico dell’acceleratore. Al momento sono in corso studi molto ap­ profonditi per capire quale sia la strada mi­ gliore da seguire. Ci sono anche idee, molto futuribili, su come ottenere un’accelerazione lineare molto più efficiente di ciò che sappia­ mo fare attualmente. Tramite l’accelerazione al plasma (di elettroni) si potrebbero raggiungere accelerazioni migliaia di volte superiori a quelle ottenibili con i sistemi tradizionali e quindi re­ alizzare acceleratori di particelle di grandissima energia in spazi contenuti. 133

2) Aumentare la precisione con cui verificare le predizioni quantitative del Modello Standard a qualunque scala di energia. Dalla fisica nucleare ad LHC, questo sforzo è in continua evoluzione. L’idea è di trovare qualcosa che evidenzi una de­ viazione dalle predizioni del Modello Standard. Potremmo dire che questa è la ricerca di pic­ cole discrepanze. Oggi ce ne sono, ma è ancora presto per capire se si tratti di qualcosa di nuovo che il modello non spiega o se si tratti di erro­ ri sperimentali. D’altra parte fare misure molto precise implica conoscere molto bene il proprio apparato sperimentale e averlo completamente sotto controllo. Non è semplice e qualcosa può sempre sfuggire. 3) Studiare la natura e il comportamento dei neutrini, le particelle elementari più elusi­ ve. Questo è un settore molto promettente, che presenta enormi difficoltà sperimentali proprio perché i neutrini sono molto poco interagenti. Il futuro di questa sperimentazione sta oggi nelle sorgenti artificiali, acceleratori e reattori nucle­ ari, e nella determinazione precisa di tutte le ca­ ratteristiche di queste particelle. 4) Cercare fenomeni rari che possano fare lu­ ce sull’origine della materia oscura. Qui la ricer­ ca segue tutte le piste. Nei laboratori sotterranei, al riparo dai raggi cosmici, si cercano eventi ul­ tra rari ascrivibili ad urti tra la materia oscura e la materia ordinaria. Questi urti produrrebbero 134

segnali nei rivelatori che sono estremamente de­ boli. Per questa ragione gli apparati sperimenta­ li devono essere particolarmente sensibili e libe­ ri dal rumore ambientale che potrebbe simulare un segnale di materia oscura. Con esperimenti nello spazio, invece, si cer­ cano segnali di una possibile annichilazione tra particelle di materia oscura. In queste reazioni si produrrebbero altre particelle che possono esse­ re individuate negli apparati sperimentali. Infine, con gli acceleratori come LHC, si cer­ ca la produzione di particelle di materia oscura che verrebbe creata nella collisione tra protoni. Le particelle di materia oscura non interagiscono con i rivelatori poiché sono per definizione de­ bolmente interagenti (altrimenti le avremmo già viste!) e quindi lasciano in essi segnali partico­ larmente “vuoti” , con pochi canali di rivelazione accesi, che si distinguono dai segnali molto densi dovuti alle particelle del Modello Standard. Questo tipo di ricerca pone una sfida intel­ lettuale e tecnologica appassionante che impe­ gna e impegnerà generazioni di scienziati. Non bisogna mai dimenticare che una comprensione più profonda della Natura, prima o poi, incide­ rà profondamente sulla vita di tutti. Gli autori ringraziano il professor Antonello Poiosa, il dottor Gianni Salmè e il professor Guido Martinelli per i loro utili suggerimenti e le proficue discussioni; il dottor Mauro Mancini e la dottoressa Francesca Cuiccbio per l’aiuto nell’elaborazione delle figure.

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CRONOLOGIA

1802

L’inglese John Dalton afferma che la materia sia composta da atomi, per giustificare la legge delle pro­ porzioni multiple nelle combina­ zioni chimiche.

1896

Il francese Henri Becquerel scopre la radioattività.

1897

L’inglese Joseph John Thomson sco­ pre la prima particella elementare, l’elettrone.

1901

Il neozelandese Ernest Rutherford e l’inglese Fre­ derick Soddy osservano la prima trasmutazione radioattiva di un elemento chimico in un altro.

1905

Albert Einstein postula l’esistenza di particelle luminose, i fotoni, per giustificare la sua teoria dell’effetto fotoelettrico.

1911

Rutherford presenta la sua teoria dell’atomo, dotato di una carica po­ sitiva centrale ed elettroni che vi ruo­ tano intorno.

1913

Il danese Niels Bohr nella sua teoria dell’atomo battezza protone la particella positiva elementare che forma il nucleo dell’idrogeno.

1928

L’inglese Paul Dirac postula l’antimateria, e l’esi­ stenza del positrone, l’antiparticella dell’elettrone.

138

© CERN © Argonne National Laboratory

^ H ji L’austriaco Wolfgang Pauli predice 1930 l’esistenza di una particella neutra, il neutrino, dotata di carica e massa I H » nulle, che giustifica la conservazio­ ne dell’energia nel decadimento beta (emissione di elettroni o positroni da nuclei atomici radio­ attivi).



Lo statunitense Cari D. Anderson scopre il po­ sitrone.

1932

L’inglese Jam es Chadwick scopre il neutrone.

1932

Enrico Fermi elabora la teoria dell’interazione debole, che influenza la maggior parte dei pro­ cessi radioattivi.

1933

Fermi compie il primo espe­ rimento di radioattività arti­ ficiale, utilizzando i neutroni lenti.

1934

Il giapponese Hideki Yukawa elabora la teoria dell’interazione forte, che unisce protoni e neu­ troni all’interno del nucleo atomico, e ipotizza l’esistenza del mesone, quale particella di massa intermedia tra il protone e l’elettrone, come por­ tatore di questa forza.

1935

I tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann otten­ gono la prima fissione nucleare in laboratorio.

1938

Gli statunitensi Richard Feynman e Julian Schwinger e il giapponese Shin’Ichiro Tomonaga formulano, ognuno indipendentemente dall’al­ tro, la prima teoria compiuta che descrive l’inte­ razione quantistica della luce con la materia e che viene definita elettrodinamica quantistica (QED).

1948

1956

Lo statunitense Frederick Reines individua il neutrino.

1956

I cinesi Chen Ning Yang e Tsung-Dao Lee ipotizzano la violazione di parità P (sim­ metria tra destra e sinistra nei fenomeni fisici), che viene dimostrata dalla cinostatunitense Chien-Shiung Wu (foto) nel decadi­ mento del cobalto 60 (interazione debole).

1963

Lo statunitense Mur­ ray Gell-Man svilup­ pa un modello che prevede l’esistenza dei quark come costituenti degli adroni (protoni, neutroni, mesoni).

1964

Robert Brout, Francois Englert e Pe­ ter Higgs (foto) postulano l’esisten­ za di una particella che fornisce la massa alle particelle elementari.

1964

Gli statunitensi Jam es Cronin e Val Fitch sco­ prono la violazione CP, che rompe la simmetria dovuta all’inversione simultanea spaziale (P) e di carica (C).

1967

Steven Weinberg (nella foto il suo lavoro scienti­ fico), Sheldon Glashow e Abdus Salam sviluppano indipendentemente la teo­ ria elettrodebole, che unifica la forza elettroma­ gnetica e quella dell’interazione debole in un’unica forza e nella quale confluisce la teoria dell’elettro­ dinamica quantistica.

140

© Jacek Rybak

«

© Fermi lab

Gell-Mann elabora la teoria della Cromodinamica quantistica (QCD) così chiamata perché basata sull’ipotesi che ogni quark esista in tre forme diverse chiamate colori. La QCD vuole essere per le particelle pesanti (adroni) l’analo­ go di quanto l’elettrodinamica quantistica è per i leptoni (elettrone, muone).

1972

Viene proposto il Modello Anni ’70 Standard, che incorpora le particelle conosciute e le forze con cui interagi­ scono, ad eccezione della gravità.

© Kamioka Observatory, ICRR. The University of Tokyo

Il gruppo di Carlo Rubbìa al Cern scopre i bosoni W*, W' e Z°, mediatori della forza elettrodebole. Ricercatori statunitensi del Fermilab scoprono il quark top, il più massivo dei sei quark.

1995

Ricercatori giap­ ponesi, con il rivelatore SuperKamiokande, stabiliscono che i neutrini oscil­ lano tra tre tipi diversi e non sono privi di massa, ma hanno una massa, seppure molto piccola.

1998

Ricercatori del Cern individuano, con due diversi esperimenti nell’acceleratore LHC, l’esistenza del bosone di Higgs.

2012

141

LE R I S P O S T E DELLA SCIENZA

QUAL È STATA L’IDEA DA CUI SI È SVILUPPATO IL MODELLO STANDARD? “Il lavoro di Steven Weinberg A Model of Leptons, pubblicato nelle Physical Review Letters il 20 no­ vembre 1967, determinò l’orientamento della fisica particellare delle alte energie per i decenni conclusi­ vi del XX secolo. Lungo appena due pagine e mez­ zo, è uno dei lavori più citati nella storia della fisi­ ca teorica. Il suo contenuto è il nucleo del Modello Standard [...]. [All’epoca] l’elettrodinamica quantistica (QED) era ben consolidata come la descrizione delle interazio­ ni elettromagnetiche, ma non esistevano teorie ma­ ture per le forze nucleari debole e forte. Negli anni Sessanta, scoperte sperimentali avevano mostrato che la forza debole presenta alcune caratteristiche comuni con la QED; in particolare, che può essere mediata da un bosone vettore analogo al fotone [il mediatore della forza elettromagnetica]. [...] C’era però un problema con uno schema del genere: il bosone vettore W ipotizzato come mediatore della forza debole avrebbe dovuto essere, empiricamen­ te, molto massivo, laddove la simmetria matematica della teoria ne richiedeva uno senza massa, come il fotone. L’importanza delle simmetrie nella comprensione delle forze fondamentali era già abbastanza chiara all’epoca; in particolare, come la natura può na­ scondere le sue simmetrie. Poteva una “simmetria nascosta” condurre a un bosone W massivo mante­ nendo la consistenza matematica della teoria? Fu­ rono gli sviluppi di Weinberg, nel 1967, a portare questo concetto alla vita. [...] 144

Weinberg iniziò il suo scritto definendo la sfida dell’unificazione delle forze elettrodeboli come un’opportunità e insieme una minaccia. Si focalizzò sui leptoni, cioè quei fermioni come l’elettrone e il neutrino che non avvertono la forza nucleare forte. «I leptoni interagiscono solo con i fotoni e con i bosoni [deboli] che presumibilmente mediano le inte­ razioni deboli. Cosa potrebbe esserci di più naturale che unire questi bosoni a spin-1 [il fotone e i bosoni deboli] in un multipletto» si chiese. Questa era l’op­ portunità. La minaccia era che «restano, in questa sintesi, le ovvie differenze tra le masse del fotone e del bosone [debole]». Weinberg allora suggerisce una soluzione: le simmetrie relative alle forze debo­ le ed elettromagnetica sono esatte a livello fondamentale ma sono nascoste nella pratica. Prende poi in considerazione le idee di Higgs, Brout, Englert, Guralnik, Hagen e Kibble e le usa per dare la massa al W e agli Z nel suo modello. Con una successiva importante intuizione, Weinberg mostra come que­ sto meccanismo di rottura della simmetria lascia il fotone senza massa. [...] Il genio di Weinberg è stato quello di assemblare i vari pezzi del puzzle e mostrare l’intera immagi­ ne. L’idea base della generazione della massa si de­ ve ai fisici teorici prima menzionati, nell’estate del 1964. Tuttavia, un elemento cruciale del modello di Weinberg fu l’astuzia di rendere plausibile dare una massa al W e agli Z lasciando allo stesso tempo il fotone senza massa. [...] Il lavoro di Weinberg apparve a novembre 1967 in un silenzio assordante. «Raramente un risultato così grande è stato ignorato in modo così ampio», 145

scrisse Sidney Coleman in Science nel 1979. Oggi, l’articolo di Weinberg è stato citato più di 10.000 volte. Essendo stato citato solo due volte dal 1967 al 1971, divenne improvvisamente così importante che i ricercatori lo hanno citato tre volte ogni setti­ mana per oltre mezzo secolo” . Frank Close, University of Oxford, Birth o f a symmetry, Cern Courier, 13 October 2017

C ’È QUALCOSA CHE IL M O D ELLO STANDARD N O N RIESCE A SPIEGARE? “ Per prima cosa, il M odello Standard non spiega alcuni aspetti dello studio dell’universo su larga scala, la cosmologia. Per esempio, il Modello Stan­ dard non può spiegare perché l’universo è fatto di materia e non di antimateria, né può spiegare che cosa costituisce la materia oscura dell’universo. La supersimmetria suggerisce delle spiegazioni per en­ trambi questi misteri. In secondo luogo, i confini della fisica stanno cambiando. Ora gli scienziati si chiedono non solo come funziona il mondo (cui ri­ sponde il Modello Standard), ma perché funziona in questo modo (cosa cui il M odello Standard non può rispondere). Einstein si chiese il «perché» all’inizio del Ventesimo Secolo, ma solo nel decennio scorso all’incirca il problema del «perché» è entrato nella normale ricerca scientifica più che nei retropensieri filosofici” . Gordon Kane, University of Michigan, Supersymmetry and Beyond: From thè Higgs Boson to thè New Physics, Basic Books, 2013

146

PERCHÉ LA TEORIA DI HIGGS È STATA PRESA IN CO NSIDERAZIO NE COSÌ TARDI? “ [Negli anni Sessanta] nessuno dette seriamente cre­ dito a ciò che stavo facendo, così nessuno voleva lavorare con me. Ero ritenuto un po’ eccentrico e irritabile. M i sembrava di aver raggiunto un risul­ tato importante, ma naturalmente non era chiaro all’epoca come sarebbe stato applicato nella fisica delle particelle, e quelli di noi che avevano compiuto quel lavoro nel 1964 erano orientati nella direzione sbagliata per la sua applicazione” . Peter Higgs, premio Nobel 2013 per aver teorizzato la particella che porta il suo nome, intervista alla BBC Radio4,17 febbraio 2014

C O M ’È STATO POSSIBILE ESSERE SICURI DI AVER SCOPERTO IL BO SO N E DI HIGGS? “ Il 5 sigma [sigma è la misura della deviazione stan­ dard] è una misura di quanto gli scienziati sono fi­ duciosi dei loro risultati. Se gli esperimenti danno risultati a un livello di fiducia 5 sigma, significa che se questi fossero dovuti al caso e l’esperimento fosse ripetuto 3,5 milioni di volte ci si aspetterebbe un risultato simile non più di una volta. Facciamo un’analogia con i dadi. Immaginate di avere 60 dadi dei quali uno è diverso dagli altri per­ ché ha il 5 su ogni faccia. Dopo averli tirati insieme una prima volta si contano quanti 5 appaiono. In media ci si aspettano dieci 5. Poi nelle volte succes­ sive può comparire un numero diverso di 5. Conti­ nuando a tirare i dadi si può misurare la deviazione dei risultati intorno al valore medio di 10. Più tiri si fanno e più piccola diviene la deviazione standard. 147

Dopo un numero sufficiente di tiri si arriva al punto in cui la media dei 5 dei tiri è 11 e la deviazione standard è di 0,2. Vi aspettavate un risultato di 10 ma il risultato di 11 ha un livello più alto di 5 sigma. Così potete essere sicuri al 99,9999% di avere un dado diverso dagli altri tra questi 60. [...] Gli scienziati hanno cercato il bosone di Higgs os­ servando il prodotto di collisioni; in questo caso il bosone di Higgs decade in due fotoni di una spe­ cifica energia. M a ci sono molte altre reazioni che producono due fotoni della giusta energia. L’LH C osserva milioni di collisioni di particelle, conta il nu­ mero delle volte in cui vengono prodotti due fotoni della giusta energia e paragona questo al numero che ci si aspetterebbe normalmente [se non esistesse il bosone di Higgs]. In modo simile all’esempio dei dadi in cui si registrava un numero di 5 in eccesso, l’LH C osserva se vi è un eccesso nel numero di vol­ te in cui due fotoni sono prodotti, con tale eccesso prodotto dal bosone di Higgs. Una volta che l’ec­ cesso raggiunge un livello di 5 sigma, si considera scopertoli bosone di H iggs” . What does thè 5 sigma meati?, Institute Of Physics, London

DOPO IL BO SO N E DI HIGGS N O N C ’È PIÙ N IEN TE DA CERCARE? “ Sei anni fa la scoperta del bosone di Higgs fu an­ nunciata con grande clamore nei mezzi di comuni­ cazione del mondo come il coronamento del succes­ so dell’acceleratore LH C del Cern. L’eccitazione di quei giorni ora sembra solo un ricordo, sostituita da un crescente senso di delusione per la mancanza 148

di altre grandi scoperte successive. [...]. Mentre la scoperta delle onde gravitazionali è stata salutata, del tutto giustamente, come l’inizio di una nuova era di esplorazione, la scoperta del bosone di Higgs è spesso descritta come la fine di un lungo sforzo per completare il M odello Standard. [...] Guardiamo alle cose in modo più positivo. Il bosone di Higgs è un tipo di particella fondamentale del tut­ to nuovo, che permette esperimenti senza precedenti sulla rottura della simmetria elettrodebole. Ci forni­ sce così un nuovo microscopio con il quale studiare l’universo alle scale più piccole, analogamente alle prospettive dei nuovi telescopi a onde gravitazionali che lo studieranno alle scale più ampie. C ’è un chia­ ro bisogno di misurare il suo accoppiamento con altre particelle - specialmente l’accoppiamento con se stesso [essendo la particella che dà la massa a tut­ te le altre, la deve dare anche a sé] - e di esplorare i possibili collegamenti tra Higgs e la materia oscura o la materia nascosta. Questi argomenti, da soli, for­ niscono ampie motivazioni per la prossima genera­ zione di acceleratori di particelle, che comprendono e vanno al di là dei miglioramenti dell’LH C ad alta luminosità [la cui entrata in funzione è prevista per il 2026]. Finora il bosone di Higgs sembra entrare bene nel M odello Standard, ma occorre un salto di pro­ spettiva. Sono stati necessari più di 40 anni dalla scoperta del neutrino alla consapevolezza che non è [come si riteneva] senza m assa e quindi non en­ trerebbe più nel M odello Standard; studiare questo mistero è ora un elemento chiave del programma mondiale di fisica delle particelle. Spostandoci nel 149

mio principale program m a di ricerca, il quark b e­ a u ty - che l’anno scorso ha celebrato il suo qua­ rantesimo compleanno - è un altro esempio di una particella ben consolidata che ora fornisce indizi eccitanti di nuovi fenomeni [il quark b e au ty come strumento per scandagliare l’universalità dei leptoni, cioè l’idea, prevista nel M odello Standard, se­ condo cui gli elettroni, i muoni e la particella tau si com portano allo stesso modo e vengono pro­ dotti con la stessa frequenza nel decadimento de­ bole]. Uno scenario eccitante, se queste deviazioni dal M odello Standard saranno confermate, è che nuovi panoram i della fisica possono essere esplo­ rati attraverso i “ m icroscopi” del quark b e au ty e di Higgs. Chiamiamola «fisica delle particelle a multi-messaggeri» [nome derivato dall’astrofisica a multi-messaggeri, inaugurata con la scoperta delle onde gravitazionali]” . Tim Gershon, University of Warwick e membro della collaborazione LHCb, We need to talk about thè Higgs, Certi Courier, March 2018

SE IL PRO TO NE N O N FOSSE IM M O RTALE LA M ATERIA D ELL’UNIVERSO SI ESTIN GU EREBBE? “ La materia con cui abbiam o a che fare nella no­ stra vita quotidiana è fatta di atomi e questi sono fatti sempre di tre cose: elettroni, protoni e neutro­ ni. Protoni e neutroni sono fatti degli stessi quark. M a i neutroni differiscono dai protoni perché non sono stabili. Un neutrone libero decade in pochi minuti in altre particelle. [...] I protoni, sia liberi, 150

sia all’interno degli atomi, sono invece decisamen­ te stabili. N essuno ha mai visto un protone deca­ dere. Tuttavia, nulla di essenziale nella fisica proi­ bisce a un protone di decadere. Anzi, molte teorie 10 richiedono. La fisica fondamentale si affida alle leggi di conser­ vazione: certe quantità vengono conservate, come l’energia, la quantità di moto e la carica elettrica. La conservazione dell’energia, combinata con la fa­ m osa equazione E - m e 2 significa che le particelle di piccola m assa non possono trasformarsi in altre di m assa superiore senza una immissione di energia. Combinando la conservazione dell’energia con la conservazione della carica elettrica deduciamo che gli elettroni resteranno probabilmente stabili per sempre: non esiste, a nostra conoscenza, una particella di m assa minore con carica negativa. I protoni non sono vincolati allo stesso modo: sono molto più massivi di molte altre particelle e il fatto che siano composti da quark permette a essi molti modi possibili di morire. [...] 11 decadimento del protone è la previsione più for­ temente verificabile di diverse teorie di grande uni­ ficazione (GUT) che si propongono di unificare tre delle quattro forze fondamentali della natura: l’e­ lettromagnetismo, la forza debole e la forza forte. [...] In particolare, una delle teorie di grande uni­ ficazione coinvolge la supersimmetria [...] la quale prevede alcune nuove interazioni che, come piace­ vole effetto collaterale, prevedono una vita media più lunga per il protone; tuttavia, fanno ancora ri­ entrare il decadimento del protone nel regno delle osservazioni sperimentali. [...] 151

Finora, comunque, non abbiamo ancora visto un protone morire. Il motivo è che ciò avviene rara­ mente, come si evince dalla teoria e dagli esperi­ menti. Finora, gli esperimenti dicono che il protone ha una vita superiore a IO34 anni, cioè 1 seguito da 34 zeri. Al confronto, l’universo ha solo 13,8 mi­ liardi di anni, che è all’incirca 1 seguito da 10 zeri. I protoni, in media, sopravvivranno a ogni stella, galassia e pianeta, anche quelli che devono ancora nascere. L’elemento chiave della frase è «in media». Infatti, non è che ogni singolo protone durerà per IO34 anni e poi arrivati a IO34 anni tutti insieme scompariran­ no. In base alla fisica quantistica, il tempo di deca­ dimento di ogni protone è casuale, così una piccola frazione decadrà molto prima della vita media di IO34 anni. Per questo motivo, oggi si stanno com­ piendo esperimenti con grandi quantità di protoni per aumentare le probabilità che uno di essi decada durante le nostre osservazioni. [...] Tali esperimen­ ti sono collocati nelle profondità della Terra per essere isolati da altre particelle “di passaggio” la cui presenza potrebbe far sembrare che un proto­ ne stia decadendo. È la strategia dell’esperimento Super-Kamiokande in Giappone, che consiste di un gigantesco serbatoio di 50.000 tonnellate di acqua in una miniera. L’esperimento Deep Underground Neutrino Experiment, installato in una miniera d’oro nel Sud Dakota [operativo nel 2027], con­ sisterà in 40.000 tonnellate di argon liquido. Poi­ ché i due esperimenti sono basati su diversi tipi di atomi, sono sensibili a differenti modi in cui un protone può decadere, cosa che rivelerà quale teo­ 152

ria di grande unificazione è corretta. Entrambi gli esperimenti sono rivolti allo studio dei neutrini, ma possono essere utilizzati anche per il decadimento del protone” . Matthew R. Francis, Do protons decay? Symmetry Magazine, Fermilab/Slac, 22/09/2015

153

LE PARO LE D ELLA F IS IC A

- Particella soggetta ad interazio­ ne forte, Tra gli adroni figurano i mesoni (bosoni costituiti da un quark ed un anti­ quark) ed i barioni (fermioni, costituiti da 3 quark oda 3 antiquark), A drone

B osone - Particella elementare con spin (v.) intero (0,1,2...). Il comportamento col­ lettivo di un insieme di bosoni è regolato dalla statistica di Bose-Einstein, per la quale non c% limite al numero di particelle che si possono trovare nello stesso stato quantistico, Sono bosoni le particelle mediatrici delle forze fondamentali, come i gluoni, i fotoni, le W \ W e 2°, Pur non essendo una particella mediatrice di forza, è un bosone anche la particella di Higgs,

- Proprietà dei quark indicata con i colori: rosso (R), verde (green, G) e blu (B), Ad ogni colore corrisponde un anticolore (dato dal suo colore comple­ mentare): antirosso (ciano), antiverde (magenta) e antiblu (giallo). Il colore è la sorgente del campo dell'interazione forte e corrisponde alla carica elettrica per l'in­ terazione elettromagnetica. I gluoni (me­ diatori dell'interazione forte) sono porta­ tori di colore, facendo cambiare il colore a un quark che lo emette o lo assorbe. Si hanno 9 combinazioni indipendenti dei colori e degli anticolori. C olore

- La costante di Planck /^6,6-KE34 J s, detta anche quanto d'azione, è il rapporto tra l'ener­ gia di ogni quanto di radiazione elettro­

C o s ta n te di P lan ck

magnetica (fotone) e la frequenza della radiazione stessa. La costante di Planck ridotta, ft= h l(2 j\), compare nelle relazio­ ni che esprimono il principio di indeter­ minazione di Heisenberg, per esempio Ax A[mv) > f i l i , dove Ax rappresenta l'incertezza sulla posizione e A(mv) rappresenta l'incertezza sul prodotto di massa e velocità. - Costante di accoppiamento che caratterizza l'in­ tensità dell'interazione elettromagnetica. C os ta n te di s tru ttu ra fin e

- Sono grandezze adimensionali, proprie di ciascuna delle quattro interazioni fondamentali: la forza elettromagnetica, la forza nucleare debole, la forza nucleare forte e la forza dì gravità. Ogni costante definisce l’intensità dell'interazione. C ostanti d i ac c o p p ia m e n to

(3 - È una delle reazioni nucleari spontanee attraverso le quali elementi chimici radioattivi si trasforma­ no in altri con diverso numero atomico. Il processo coinvolge le forze nucleari de­ boli e determina l'emissione di particelle subatomiche ionizzanti. Nel decadimen­ to (3 principale (p-), un neutrone si di­ sintegra spontaneamente originando un protone, un elettrone e un antineutrino elettronico, mentre nel decadimento p* un protone si trasforma in un neutrone, un positrone e un neutrino elettronico. D e c a d im e n to

F erm io n e - Particella il cui spin ha un valore multiplo dispari di 1/2 (1/2,3/2..,), Come conseguenza del loro spin, tutti

154

LE P A R O L E D E L L A F IS IC A

i fermioni obbediscono al Principio di esclusione di Pauli (v.). Le particelle materiali fondamentali (quark e leptoni) sono fermioni,

fiauge - Le teorie di gauge sono par­ ticolari teorie quantistiche dei campi basate sulle simmetrie di gauge, tra­ sformazioni che modificano i campi in modo diverso in ciascun punto dello spazio-tempo, ma lasciano invariata la forma delle equazioni che descrivono la dinamica, Lorigine storica del termine, che in inglese significa 'calibro' risale ad un tentativo fallito di Hermann Weyl nel 1919 di unificare gravitazione ed elet­ tromagnetismo mediante trasformazio­ ni che modificano le scale di lunghezza. Alle simmetrie di gauge sono associati bosoni di spin 1che mediano interazioni fondamentali. Nel Modello Standard, ad esempio, le interazioni elettromagne­ tica, forte e debole, mediate rispettiva­ mente dal fotone, dai bosoni (W*,Z°) e dai gluoni, sono tutte associate a sim­ metrie di gauge. Ip ero n e - Un iperone è un barione più pesante del neutrone, I nucleoni sono costituiti da 3 quark di due tipi: u p (u ) e d o w n (d), mentre negli iperoni entrano in gioco anche altri quark più pesanti e con altri sapori: s tr a n g e (s), c h a rm (c )

e b o tto m [b).

- È un numero quantico (spin isotopico), conservato solo nelle intera­ zioni forti, Deve il nome all'analogia del­ Iso sp in

155

la sua struttura matematica con quella dello spin, pur avendo caratteristiche fisiche diverse. Lep tone - Particella, con carica elettrica (elettrone, muone, tau) o senza carica elettrica (neutrini), che non avverte l'in­ terazione forte. I leptoni sono particelle elementari e finora non se ne è osservata una sottostruttura,

- Il Large Hadron Collider (LHC) è il più grande e più potente acceleratore di particelle del mondo. È entrato in funzione il 10 settembre 2008. Consiste in un anello di 27 chilometri di ma­ gneti superconduttori con strutture di accelerazione per aumentare l'energia delle particelle che vi scorrono dentro. All'interno dell'acceleratore, due fasci di particelle (protoni) ad alta energia viaggiano in direzione opposta prima di essere fatte collidere. I due fasci viag­ giano in tubi separati, due tubi mante­ nuti in condizione di altissimo vuoto. Sono guidati nell'acceleratore da un intenso campo magnetico generato da magneti superconduttori. Gli elettroma­ gneti sono realizzati con avvolgimenti realizzati con speciali cavi elettrici che lavorano in uno stato di superconduttività, conducendo l'elettricità in modo efficiente senza perdite di energia, Ciò richiede che i magneti vengano raffred­ dati a una temperatura di -271,3 °C, una temperatura più bassa di quella dello spazio cosmico, Per questo motivo, gran parte dell’acceleratore è collegata a un LHC

LE P A R O L E D E L L A F IS IC A

sistema di distribuzione di elio liquido che raffredda i magneti, nonché altri tipi di apparecchiature, Per guidare i fasci di particelle nell'anello dell'acceleratore, vengono usati migliaia di magneti di differenti tipi e dimensioni, Fra questi, 1232 dipoli magnetici lunghi 15 metri che incurvano la traiettoria dei fa­ sci, e 392 quadrupoli magnetici ognuno lungo 5-7 metri, che focalizzano i fasci, Prima dei punti d'interazione le dimen­ sioni dei fasci vengono ulteriormente ridotte con magneti dedicati, in modo da aumentare le probabilità delle collisioni. Intorno all'anello sono collocati quattro rivelatori di particelle, gli esperimenti ATLAS, CMS, ALICE ELHCb. Lorentz, fo rza di - Èla forza che si eser­ cita su un oggetto elettricamente carico per effetto di un campo elettromagnetico. Il contributo dovuto all'interazione con il campo elettrico è direttamente propor­ zionale al valore della carica dell'ogget­ to ed ha la stessa direzione del campo elettrico, mentre il contributo dovuto all'interazione con il campo magnetico è proporzionale sia alla carica, sia alla velocità dell'oggetto ed è ortogonale sia alla direzione del moto sia a quella del campo magnetico, M assa in v a ria n te - Quando una particella decade e quindi non esiste più, la sua massa prima del decadimento può essere calcolata a partire dalle energie e dagli impulsi dei prodotti del decadimen­ to. Questo valore inferito della massa è

indipendente dal sistema di riferimento in cui vengono misurati le energie e gli im­ pulsi; per questo motivo la massa viene definita invariante, N u cleo n e - È un modo generico di in­ dicare le particelle che compongono il nucleo atomico, protoni e neutroni. N um eri q u a n tic i - Furono introdotti da Wolfgang Pauli per descrivere compiutamente lo stato degli elettroni all'interno degli orbitali atomici, Il principale (n) de­ finisce il livello di energia dell’elettrone e la dimensione degli orbitali. Il secondario (/) stabilisce il numero dei sottolivelli di ogni livello, Il magnetico (m) determina il numero di orbitali appartenenti a ciascun sottolivello e il loro orientamento nello spazio, Il numero di spin (ms ) caratterizza lo spin orario o antiorario dell'elettrone. Esistono anche altri numeri quantici, a ognuno dei quali è associata una legge di conservazione specifica. Sono il momen­ to angolare totale, il numero barionico, il numero leptonico, il numero B-L, la carica elettrica, la carica di colore, l’isospin,

Sono formate da due protoni e due neutroni legati insieme dal­ la forza forte, Si tratta, quindi, di nuclei di elio-4 (4He). P a rtic e lle alfa -

P a lto n e - Termine che indica i costituen­ ti elementari di un nucleone, vale a dire quarkegluoni.

- Individua il tipo di quark. Si hanno 6 sapori; u (u p ), d (d o w n ),

S a p o re

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LE P A R O L E D E L L A F IS IC A s (s tr a n g e ), c ( c h a rm ), b (b o tto n i),

I quark con sapore u, d, s sono detti leggeri. I 6 quark si possono rag­ gruppare in 3 famiglie: (u,d), (c,s) e (t,b ), L'interazione forte e quella elet­ tromagnetica conservano il sapore dei quark. Il sapore viene modificato solo da un'interazione debole carica, mediata dai tosoni W, mentre le interazioni de­ boli neutre con un bosone Z non cam­ biano il sapore. t (to p ).

- La scala di Fermi è defi­ nita come il valore medio che il campo di Higgs assume nel vuoto, v~250 GeV Essa è collegata alla costante di Fermi Gf, che misura la forza dell'interazione efficace a quattro fermioni che descrive il deca­ dimento del neutrone ed altri processi simili, dalla relazione v2=1/(Gfi/2). S ca la di Ferm i

- Lo spin è un concetto quantistico associato ad una sorta di rotazione intrin­ seca delle particelle. In riferimento ad un qualsiasi asse di rotazione, esso è quan­ tizzato e descritto da un numero s intero Spin

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(0,1,2,,..) o semintero (1/2,3/2,.,), moltipli­ cato per la costante di Planck ridotta fi, Lo spin è cruciale nella classificazione delle particelle elementari: il bosone di Higgs ha spin 0, quark e leptoni hanno spin 1/2, i bosoni di g a u g e hanno spin 1, l'ipote­ tico gravitino ha spin 3/2, il gravitone ha spin 2. Le particelle con spin intero sono dette bosoni, quelle con spin semintero fermioni. - È l'unità di misura del campo ma­ gnetico e si indica con T, Quello terrestre ha un'intensità variabile tra 3,1 e 5,0 T. In una macchina per la risonanza magne­ tica nucleare l’intensità del campo è di qualche tesla, mentre per i dipoli di LHC raggiunge gli 8 T, Tesla

Sono definite vettoriali le grandezze che, per essere rappresentate, richiedono l'indicazione, oltre al modulo, della direzione e del verso (sono dunque rappresentate da un vetto­ re), per esempio la velocità di un corpo o una forza ad esso applicata. V etto riale , g ra n d e zza

LETTU RE C O N SIG LIA T E LIBRI

Il bosone di Higgs. L'invenzione e la scoperta della «particella di Dio» Jim Baggott, Adelphi 2013

Oltre la particella di Dio. La fisica del XXI secolo Leon M. Lederman, Christopher! Hill, Bollati Boringhieri 2014

Sempre più veloci. Perché ifisici accelerano le particelle Ugo Arnaldi, Zanichelli 2012

Acaccia del bosone di Higgs. Magneti, governi, scienziati e particelle nell'impresa scientifica del secolo Luciano Maiani, Romeo Bassoli, Mondadori 2013

Higgs Marco Giliberti, Grandangolo Scienza, Corriere della Sera 2017

Interazioni elettrodeboli Luciano Maiani, Editori Riuniti Univ. Press 2013

Introduzione alle teorie di gauge Nicola Cabibbo, Luciano Maiani, Omar Benhar, Editori Riuniti Univ. Press 2016

VIDEO

https://www.youtube.com/watch?v=XYcw8nV_GTs https://www.youtube.com/watch?v=VOKjXsGRvoA https://www.youtube.com/watch?v=0CeLRrBAI60 https://www.youtube.com/watch?v=hHTWBc14-mk https://www.youtube.com/watch?v=72pprrSSDK0 https://videos.cern.ch/record/2020780 https://videos.cern.ch/record/2622078 https://www.youtube.com/channel/UCKzqyRUej9BI5dhdjwF09vQ

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LET T U R E C O N SIG LIA T E WEB

https://home.cern/topics/large-hadron-collider https://home.cern/topics/higgs-boson http://scienzapertutti.infn.it/1-perche-ce-bisogno-del-bosone-di-higgs http://scienzapertutti.infn.it/percorsi-divulgativi-list/13-il-modellostandard21 https://epp.slac.stanford.edu/ https://www.fnal.gov/pub/science/particle-physics/index.html

GIOCHI E INTERATTIVITÀ

http://www.cernland.net/ http://atlas-live.cern.ch/

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2018 a cura di RCS MediaGroup S.p.A. presso Sfct Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD) Printed in Italy

Noi stessi, e ogni altra forma di materia visibile dell’universo, siamo un concentrato di particelle e di forze che le tengono legate: ora i fisici hanno identificato tutte le tessere di questo puzzle e le hanno messe insieme in modo impeccabile. Ma hanno anche capito che, al di là di questo modello perfetto, c e una nuova fisica da scoprire.

D an iele del R e è professore associato nel dipartimento di Fisica dell’Universi­

tà Sapienza di Roma e lavora nell’esperimento C M S . Tra gli incarichi ricoperti, quello di coordinatore del gruppo che cerca nuova fisica in modelli che prevedono la presenza di risonanze molto massive, materia oscura o nuove particelle a vita media lunga. Ha inoltre contribuito alla scoperta del bosone di Higgs. M arcella D iem oz, dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare

(Infn), si è occupata dello studio sperimentale delle interazioni fondamentali utiliz­ zando neutrini, elettroni e protoni. Ha realizzato il calorimetro elettromagnetico a cristalli scintillanti dell’esperimento C M S, uno strumento innovativo che ha permes­ so di osservare il bosone di Higgs. È stata insignita del Premio Minerva per la Ricerca Scientifica ed è Grande Ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica.

LE INIZIATIVE DEL CORRIERE DELLA SERA L E Z IO N I D I F IS IC A - 3 L A F IS IC A D E L L E P A R T IC E L L E

PUBBLICAZIONE SETTIMANALE DA VENDERSI ESCLUSIVAMENTE IN ABBINAMENTO A CORRIERE DELLA SERA O LA GAZZETTA DELLO SPORT E U R O 6 ,9 0 + IL P R E Z Z O D E L Q U O T ID IA N O