La fine di una teoria. Il collasso del marxismo storico del Novecento 9788840004099

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La fine di una teoria. Il collasso del marxismo storico del Novecento
 9788840004099

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Testi e Studi 123

G ianfranco La G rassa Costanzo Preve

IL COLLASSO DEL MARXISMO STORICO DEL NOVECENTO

EDIZIONI UNICOPLI

"Vorremmo mettere subito in guardia il lettore da un possibile fraintendi­ mento. Anche se parliamo di "fine di una teoria", in modo che fin dal titolo appaia chiara la nostra concezione e non siano possibili interpretazioni possibilistiche, opportunistiche e concordistiche, non riteniamo di avere teoricamente nulla in comune con l’odierna retorica della cosiddetta fine della storia (Francis Fukuyama) o della fine del comuniSmo come di una grande illusione utopica e totalitaria (Francois Furet). Riteniamo che in tutta questa retorica della "fine" ci sia soltanto un rispec­ chiamento congiunturale dell’attuale dominio mondiale, che sembra effet­ tivamente per ora incontrastato ed incontrastabile, delle grandi oligarchie finanziarie transnazionali (Fukuyama)". Gianfranco La Grassa. Docente di Economia politica nell'Università di Venezia. Ha approfondito gli studi di teoria dei modi di produzione con Charles Bettelheim all’Eco^ des H autes Etudes en Sciences Sociales. Autore di una ventina di libri (tra individuali e collettanei) e di decine di articoli (alcuni tradotti in francese e spagnolo) sul marxismo e la teoria della società capitalistica. Costanzo Preve ha stidiato Filosofia e Scienze politiche in Università ita­ liane e straniere. È autore di numerosi saggi filosofici inerenti soprattutto alla storia del marxismo nel suo rapporto con le grandi filosofie dell'Otto­ cento e del Novecento.

ISBN 88-400-0409-2

L. 25.000

9 788840 0

Gianfranco La Grassa Costanzo Preve

LA FINE DI UNA TEORIA Il collasso del marxismo storico del Novecento

EDIZIONI

UNICOPLI

Copertina : Studio grafico Strada

Copyright © 1996 by Edizioni Unicopli spa Edizioni Unicopli, Alzaia Naviglio Grande, 98 20144 Milano-tei. 02/58107155, 58101140 Ristampa 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1

1996 1997 1998 1999 2000

ISBN 88-400-0409-2 Prima edizione: febbraio 1996 È vietata la riproduzione, anche parziale, a uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, non autorizzata.

Indice

p. 9

Introduzione

L'ENIGMA DEL COMUNISMO PRIMA, DURANTE E DOPO MARX E IL COMUNISMO STORICO DEL NOVECENTO, di Costanzo Preve 17 17 19 23 27 31 34

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1. Il comuniSmo precapitalistico. La volontà di Dio e la conformità alla natura LI l cuore del problema nei suoi tratti essenziali II. Alcune ragioni che rendono oggi indispensabile per noi 10 studio del comuniSmo precapitalistico III. Il comuniSmo come realizzazione della volontà di Dio attraverso messia e/o profeti IV. Il comuniSmo come manifestazione dell'Essere sociale originario conosciuto attraverso la ragione filosofica V. Il comuniSmo come conformità alla natura e ai bisogni autentici che da essa direttamente discendono VI. Il ritorno del rimosso: le eredità novecentesche dei comuniSmi precapitalistici 2. Il comuniSmo di Marx nelle sue dim ensioni m etafisiche, epistem ologiche e ideologiche

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11 cuore del problema nei suoi tratti essenziali I. Il marxismo di Marx e la differenza tra ricostruzione

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II. I! modello marxiano della transizione necessaria

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dal capitalismo al comuniSmo III. Lo spazio metafisico del pensiero di Marx IV. Lo spazio epistemologico del pensiero di Marx V. Lo spazio ideologico del pensiero di Marx

e coerentizzazione

6

p. 59

72 75

3. Il comuniSmo nei marxismi storicamente esistiti nell'Ottocento e Novecento I. Il cuore del problema nei suoi tratti essenziali II. L'ideologia socialdemocratica fra evoluzionismo e positivismo III. La natura storica del comuniSmo novecentesco dopo il 1917 IV. Le cause strutturali della dissoluzione del comuniSmo storico novecentesco nel 1989-91 V. Le basi fragili del comuniSmo ideale e filosofico del Novecento VI. Le due eredità del comuniSmo storico novecentesco

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4. Marx e il comuniSmo del Novecento I. Il cuore del problema nei suoi tratti essenziali II. Il problema del lavoro salariato e sfruttato oggi III. L'irrazionalismo globale dal fondamentalismo religioso

59 61 63 67

90 97 105

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al conservatorismo capitalistico IV. Il problema cruciale del nuovo soggetto rivoluzionario­ comunista V. Il capitalismo della terza rivoluzione industriale, la sua nobiltà, il suo clero, il suo Terzo stato VI. Il comuniSmo moderno della libera individualità, unico illuminismo e unico romanticismo possibili per il Terzo stato della terza rivoluzione industriale VII. Le due distinte prospettive concrete del comuniSmo di oggi

RICOSTRUIRE IL CONCETTO DI MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO (PER RIPENSARNE LA TRASFORMAZIONE), di G ianfranco La Grassa 117

1. Mance il comuniSmo

117

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I. Impostazione del problema II. La cosiddetta socializzazione delle forze produttive III. 1due stadi del comuniSmo IV. Permanenza o estinzione di Stato e mercato

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2. Marx e il capitalismo I. La fase attuale: fine del comuniSmo del Novecento

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e transizione capitalistica li. La prima distorsione del pensiero di Marx da parte del marxismo III. Modo di produzione capitalistico e teoria del valore in Marx

7

p. 161 165

IV. La seconda distorsione del pensiero di Marx

V. Per tornare a Marx

173 173

3. Il modello di Marx e la sua possibile revisione 1. La teoria generale di Marx e le mistificazioni

178 185 193 203

delle ideologie correnti II. Le ipotesi di Marx sulla trasformazione sociale III. La revisione del modello di Marx IV. Ipotesi sui raggruppamenti sociali dopo la revisione V. Conclusioni

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Indice dei nomi

Introduzione

È stato detto, in modo molto acuto, che udire è un fenomeno fisiolo­ gico, mentre ascoltare è un atto psicologico. L'ascolto presuppone dunque una sorta di disposizione primaria, basata sul fatto che si ritiene impor­ tante il contenuto di ciò che ci viene comunicato. Come tutti i saggisti, grandi o piccoli, dotati o mediocri, anche noi vorremmo essere ascoltati. Ciò non comporta affatto, ovviamente, l’arrogante pretesa della con­ divisione automatica. Ci basti, ed anzi ci avanza, la presa in considera­ zione onesta e razionale delle argomentazioni che portiamo, che rite­ niamo sinceramente dotate di un certo valore teorico. In prima appros­ simazione, non vediamo nulla di particolarmente originale nella riaffer­ mazione del fatto, apparentemente ben noto a tutti gli studiosi, per cui in Marx le nozioni di capitalismo e di comuniSmo sono pensate ab origine in modo ontologicamente ed assiologicamente unitario, e le stesse ca­ tegorie del "comuniSmo" sono dialetticamente ricavate dallo sviluppo temporale delle determinazioni storiche e sociali del modo di produzio­ ne capitalistico, e non vengono invece per nulla "sovrapposte" ad esso sulla base di una sorta di protesta morale o di un'invocazione al ristabi­ limento della comunità perduta. Per gli studiosi seri di Marx e di marxismo, questa è un'assoluta ov­ vietà. Non ci saremmo mai permessi di suggerire un titolo tanto provo­ catoriamente netto e reciso, che parla di fine di una teoria e di collasso del marxismo storico del Novecento, se non fossimo stati profondamen­ te convinti che è necessario prendere fermamente congedo da una teo­ ria (o meglio, da una costellazione di teorie convergenti) che ha dimen­ ticato questa fondamentale ovvietà trasmessagli dal suo fondatore, in­ seguendo un'interminabile serie di giustificazioni ideologiche e retoriche allo scopo di censurare, rimuovere ed occultare lo scarto fra la diagnosi marxiana e gli esiti della storia del Novecento. Si tratta di un atto di ri­ spetto nel confronti del pensiero marxiano originario, che non conside­

10 riamo in alcun modo un "fallimento" teorico, scientifico o filosofico che sia, ma che riteniamo anzi essere per molti versi un orizzonte tuttora in­ superato, in particolare per ciò che concerne la centralità metodologica ed epistemologica della nozione di modo di produzione storicamente determinato. Vorremmo inoltre mettere subito in guardia il lettore da un possibile fraintendimento. Anche se parliamo di "fine di una teoria", in modo che fin dal titolo appaia chiara la nostra concezione e non siano possibili in­ terpretazioni possibilistiche, opportunistiche e concordistiche, non rite­ niamo di avere teoricamente nulla in comune con l'odierna retorica della cosiddetta fine della storia (Francis Fukuyama) o della fine del comuni­ Smo come di una grande illusione utopica e totalitaria (Francois Furet). Riteniamo che in tutta questa retorica della "fine" ci sia soltanto un rispecchiamento congiunturale dell'attuale dominio mondiale, che sem­ bra effettivamente per ora incontrastato ed incontrastabile, delle grandi oligarchie finanziarie transnazionali (Fukuyama), cui si unisce in modo subalterno ed addirittura un po' ridicolo l'esito terminale dei processi psicologici ed esistenziali di "delusione" verso il comuniSmo di intellet­ tuali che a suo tempo verso il comuniSmo ebbero un fugace innamora­ mento giovanile (Furet). Il lettore attento si renderà facilmente conto che lo stile del nostro ragionamento non ha nulla a che fare con questa retorica della "fine", che fra qualche decennio verrà certamente giudicata in modo severo dai nostri figli e nipoti. Vi è però un elemento paradossale ed anzi un po' surreale della si­ tuazione attuale che ci ha costretti ad usare una formula tanto netta e tranchante come quella di "fine di una teoria", e faremo due esempi per farci capire meglio. Immaginiamo che un pubblico di studiosi e di filosofi, che si ritiene serio, informato ed aggiornato, chieda a gran voce che il vecchio orizzon­ te metafisico di origine medioevale venga coraggiosamente superato, e che pertanto si vada verso il criticismo di Kant, l'idealismo di Hegel ed il materialismo di Marx, ma nello stesso tempo ci si astenga dallo scrivere la Dialettica Trascendentale di kantiana memoria, perché sarebbe troppo "distruttiva" e "demonizzante" nei confronti di tutti i "lati positivi" della vecchia credenza metafisica neH'immortalità dell’anima e dell'esistenza di Dio. Si innovi dunque con coraggio, ma non si tocchino le "credenze" dei semplici, che non devono essere "scandalizzati" da un eccesso di razio­ nalismo iconoclasta che potrebbe infrangere le loro certezze. Immaginiamo ancora che un pubblico di fisici e di astronomi, che si ritiene serio, informato ed aggiornato, chieda a gran voce che le scienze della natura vengano coraggiosamente coltivate, e che pertanto si vada

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verso la teoria della gravitazione universale e della relatività generale e speciale, ma che nello stesso tempo si mantenga ad ogni costo il pre­ supposto geocentrico della terra piatta, senza il quale le stesse innova­ zioni scientifiche sembrerebbero "ingiuste" ed "unilaterali" nei confronti di una gloriosa tradizione i cui aspetti "edificanti" non devono essere mai dimenticati, se non vogliamo "perdere le nostre radici". A questo punto il lettore penserà di essere in pieno teatro dell'assur­ do e del paradosso, perché è assolutamente evidente che per procedere verso la filosofia contemporanea bisogna rompere con la metafisica tradi­ zionale (sia pure "nobile" come era quella di Leibniz e di Wolf), e per sviluppare la fisica moderna è necessario rompere con la teoria della terra piatta. Ebbene, questa scandalosa assurdità, che salta agli occhi di qualunque lettore anche distratto, è stata per più di un secolo la normali­ tà della dinamica teorica del marxismo storico novecentesco, e continua ad essere ancor oggi la normalità nella stanca riproduzione di pressoché tutti i marxismi fondamentalisti ancora esistenti, sia di quelli di origine ortodossa sia di quelli di origine variamente "eretica" e minoritaria. Del tutto indipendentemente dall'adesione o meno all'epistemologia popperiana (cui noi non aderiamo), è evidente che nella logica di ogni pro­ getto scientifico (come era quello di Marx) ci sta fisiologicamente anche la possibile "falsificazione" di tutti, o alcuni, dei suoi elementi portanti. Nella fattispecie, riteniamo tuttora valido il concetto che a suo tem­ po Marx ha "costruito", quello di modo di produzione sociale (e di modo di produzione capitalistico in particolare), un concetto, fra l'altro, che non è suscettibile di falsificazione epistemologica popperiana per la sua natura intimamente non "realistica" (nel senso preciso del realismo gno­ seologico), e che nello stesso tempo continua ad essere la migliore ap­ prossimazione possibile per cogliere la dinamica riproduttiva globale della totalità mondializzata dei rapporti sociali di produzione oggi esi­ stenti. A fianco di questo concetto fondamentale, in cui ci riconosciamo consapevolmente (per cui, civettando con un'espressione crociana, non possiamo non dirci "marxisti" nel senso di allievi di Marx), vi sono due "pilastri" della tradizione marxiana novecentesca, i cui presupposti sono però già presenti in Marx (ed ecco perché è del tutto illusorio pensare di poter "ritornare" a Marx "saltando" il marxismo), con cui intendiamo rompere recisamente, anche se questo implica una dolorosa rottura cul­ turale, politica ed esistenziale con molti ambienti italiani ed internazio­ nali. In primo luogo, non riteniamo che esista una dinamica immanente, sociale e tecnologica, che porti nel modo di produzione capitalistico alla ricomposizione "virtuosa" fra le potenze mentali della produzione (da Marx definite come generai intellect) ed il lavoro collettivo associato, dal

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direttore di fabbrica all'ultimo manovale. Questo aspetto è stato partico­ larmente trattato nel saggio di Gianfranco La Grassa, in cui si argomenta in modo analitico la diversità qualitativa fra la nozione di "fabbrica" e la nozione di "impresa", che Marx ebbe il diritto più di un secolo fa di as­ similare, ma che oggi soltanto una colpevole pigrizia intellettuale e mo­ rale può ancora confondere, allo scopo di "integrare" ideologicamente un piccolo cabotaggio politico opportunistico con una roboante retorica operaistica. In secondo luogo, non riteniamo che il proletariato, o la classe ope­ raia, o tutti e due, comunque definiti, mescolati ed articolati, possano essere concepiti come classi intermodali, capaci cioè di vera e propria transizione da un modo di produzione (capitalistico) ad un altro (comunista), anche se ammettiamo volentieri non soltanto la piena le­ gittimità politica e morale della loro resistenza allo sfruttamento capita­ listico (ivi comprese le forme rivoluzionarie ed "eversive" che questa re­ sistenza ha storicamente assunto negli ultimi due secoli), ma anche la loro parziale capacità (che non è però intermodale) di costituire regimi politico-sociali di tipo anticapitalistico (come ad esempio nel caso del comuniSmo storico novecentesco fra il 1917 ed il 1991). In altri termini, riteniamo la classe operaia di fabbrica (variamente definita) una classe strutturalmente non-intermodale, esattamente co­ me a suo tempo gli schiavi ed i servi della gleba nei loro rispettivi modi di produzione. Questo aspetto, che deriva fra l'altro dal primo, è stato particolar­ mente trattato nel saggio di Costanzo Preve il quale, per la sua natura di introduzione generale storico-filosofica, è stato premesso a quello di Gianfranco La Grassa, maggiormente centrato su di una analisi del modo di produzione capitalistico. È bene però segnalare al lettore che, da un punto di vista "logico", il saggio di La Grassa potrebbe tranquilla­ mente precedere quello di Costanzo Preve, dal momento che, marxia­ namente, l'anatomia dell'uomo è la chiave per capire l'anatomia della scimmia (e non viceversa, come sembrerebbe in chiave puramente stori­ ca), ed è proprio la piena comprensione della differenza fra la fabbrica e l'impresa nel modo di produzione capitalistico che permette di com­ prendere anche il comuniSmo di Platone o di Gesù di Nazareth. Lavo­ rando in piena solidarietà intellettuale e metodologica, i due saggisti hanno attuato una strategia di "avvicinamento convergente" al comune oggetto teorico che volevano mettere a fuoco. La strategia dell'avvici­ namento convergente, che non implica un'impossibile omogeneizzazio­ ne linguistica e concettuale dei due distinti discorsi, ci è sembrata la più adatta per rispettare la specificità dei due distinti percorsi che ci hanno infine portati a posizioni comuni. In uno di noi (Gianfranco La Grassa) si

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è trattato di un percorso di approfondimento successivo, segnato da rot­ ture e da discontinuità, della nozione di modo di produzione capitalistico, in direzione di una distinzione sempre più chiara fra "genotipo" e "fenotipi" di esso. Questo percorso, in tappe che vanno dall'insegnamento di Antonio Pesenti a quello di Charles Bettelheim, è infine sfociato in una posizione personale del tutto originale (che toccherà ovviamente al lettore giudi­ care). Nell'altro (Costanzo Preve) si è trattato di un percorso interno alle avventure ed alle tappe fenomenologiche della forma filosofica che il marxismo ed il comuniSmo hanno assunto nel Novecento, sfociato infi­ ne nella piena consapevolezza deH'irriformabilità radicale della globalità espressiva di questa forma filosofica, segretamente comune a pensatori apparentemente diversissimi. Questo libro non rappresenta dunque una rottura con la logica complessiva di sviluppo della ricerca dei due saggi­ sti, ma semplicemente una esplicitazione ed una radicalizzazione di premesse e di contenuti già a lungo maturati. È inutile appesantire ulteriormente questa introduzione con un rias­ sunto di argomentazioni che il lettore potrà leggere fra poco. Basti ricor­ dare soltanto che i due saggisti non hanno inteso svolgere un'opera "distruttiva" nei confronti dell'intenzione globale che ha retto la teoria di Marx e che anzi essi ritengono, sulla scorta di pensatori come Kant e Hegel, che sia del tutto possibile una "ricostruzione" in un prossimo fu­ turo (una "architettonica", per usare il linguaggio di Kant) di una sintesi teorica all'altezza dei nostri tempi. Senza un deciso congedo però dalla logica complessiva dell'intero marxismo storico del Novecento, questa "architettonica" non verrà mai. È questa una convinzione che abbiamo maturato in decenni di studi e di sforzi, e da cui non intendiamo in alcun modo recedere.

Gianfranco La Grassa, Costanzo Preve

L’ENIGMA DEL COMUNISMO PRIMA, DURANTE E DOPO MARX E IL COMUNISMO STORICO DEL NOVECENTO di Costanzo Preve

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IL COMUNISMO PRECAPITALISTICO LA VOLONTÀ DI DIO E LA CONFORMITÀ ALLA NATURA

I. Il cuore del problema nei suoi tratti essenziali Karl Marx non è mai stato, in nessun momento, lo scopritore o l'in­ ventore del comuniSmo. Egli è invece stato il pensatore che, costruendo la nozione di modo di produzione capitalistico, e di conseguenza diffe­ renziando questa nozione dagli altri (qualitativamente differenti) modi di produzione sociali pre-capitalistici, e (eventualmente) post-capitalistici, ha permesso di rendere pensabile (e forse praticabile) una nozione di comu­ niSmo moderno, di comuniSmo cioè che ha come fondamento storico evo­ lutivo la generalizzazione stessa di rapporti di produzione capitalistici, e che abbandona pertanto consapevolmente il fondamento precedente che il comuniSmo si era necessariamente dato nei modi di produzione preca­ pitalistici, un fondamento che oscillava tra la realizzazione e la rivelazio­ ne della volontà di Dio e la conformità alla vera natura umana, cioè ai bisogni autentici e non corrotti dell'uomo. Marx è dunque il pensatore del comuniSmo della modernità. Sviluppere­ mo questa nozione nei capitoli successivi. In questo primo capitolo, in­ vece, è necessario chiarire la ragione profonda, strutturale e non con­ giunturale, per cui il comuniSmo precapitalistico non solo non poteva, per ovvie ragioni storiche, assumere l'aspetto di un partito politico, di una classe operaia prodotta da ondate di rivoluzione industriale, di uno stato socialista, di una ideologia marxista-leninista, eccetera, ma non poteva neppure determinarsi concettualmente come produzione consa­ pevole ed integralmente sociale di una prassi umana basata su determi­ nazioni storiche e dialettiche. Il lavoro umano associato, infatti, era già ampiamente e spesso ferocemente sfruttato nella maggioranza dei modi di produzione precapitalistici, ma non era ancora, e questo è l'essenziale, sottomesso (se non formalmente) ai gruppi sociali (generalmente militari o sacerdotali) che lo sfruttavano. È solo infatti con il modo di produzione capitalistico sviluppato che il lavoro umano, diviso e ricomposto secon­

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Costanzo P reve

do modalità ad un tempo sodali e tecniche, viene sottomesso, prima in modo formale e poi in modo reale, e questa sottomissione formale e reale è a sua volta inscindibile dalle modalità concrete in cui avviene lo sfruttamento. La sottomissione, se vogliamo, era puramente estrinseca, all'interno di un modo di produzione precapitalistico, e funzionava in modo brutalmente costrittivo per obbligare comunità di schiavi e di servi a fornire un prodotto finale di cui i padroni si appropriavano, pur senza aver dato alcun contributo tecnico essenziale al processo di pro­ duzione complessivo (una parziale eccezione è data, in proposito, dal modo di produzione antico-orientale ed anche da quello meso-americano, in cui i "contributi tecnici” alla produzione dei gruppi sociali sfruttatori erano indiscutibilmente maggiori). Non esisteva, in poche parole, una sottomissione reale del lavoro al capitale. E non esisteva, appunto, perché il "capitale" non esisteva anco­ ra come rapporto sociale generale. Il "capitale", infatti, non consiste af­ fatto in un insieme di strumenti, sementi, pascoli, greggi da impiegare in un processo di produzione, e non consiste neppure in somme di denaro da investire e da far fruttare all'interno di un modo di produzione sociale in cui i rapporti fondamentali tra le classi siano caratterizzati dalla pre­ senza di un lavoro umano schiavile, servile, e comunque giuridicamente e religiosamente inserito in rapporti piramidali di dominio. Il "capitale" esiste soltanto come rapporto sociale generale, cioè co­ me relazione sociale tra le classi, di cui una è proprietaria, giuridica e reale, dei mezzi di produzione, e l'altra, disponendo soltanto della pro­ pria forza-lavoro giuridicamente non vincolata a costrizioni schiavili o servili, non può che vendere questa forza-lavoro stessa ai proprietari dei mezzi di produzione. Il merito di Marx è quello di aver portato chiarezza su questo problema, e di aver consentito di non fare confusione tra "capitale" inteso come quantità di oggetti, beni, strumenti e denaro e "capitale" inteso come rapporto sociale generale e specifico di produzione. L'assenza di sottomissione reale del lavoro al capitale, nei modi di produzione precapitalistici, non significa però che non vi fossero modali­ tà specifiche di sottomissione delle classi dominate alle classi domi­ nanti. Questa sottomissione, però, non era di regola intrinseca alla pro­ duzione, che veniva compiuta secondo modalità tecniche quasi inte­ gralmente gestite in modo autonomo dalle stesse comunità sfruttate di lavoratori, ma veniva imposta in forma estrinseca con la forza militare e/o religiosa. La forza militare e quella religiosa, ovviamente, non si pre­ sentavano quasi mai in forma pura, se non in periodi relativamente bre­ vi, o dovevano intrecciarsi non appena fossero sorte (come era inevitabi­ le che sorgessero) ribellioni e resistenze armate, da un lato, e interpre­ tazioni eretico-messianiche della religione dominante, dall'altro.

li comuniSmo precapitalistico

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Nei suoi tratti essenziali, il cuore del problema dell’accertamento delle modalità di apparizione del comuniSmo nei modi di produzione precapita­ listici sta nel fatto che, in mancanza di una relazione sociale tra borghesia e proletariato che facesse da premessa strutturale all'emergenza della no­ zione di libera individualità (borghese) e della nozione di forza collettiva politicamente organizzabile (proletaria), in mancanza cioè del quadro di­ segnato dalla presenza del capitale inteso come rapporto sociale generale, il comuniSmo stesso era costretto a presentarsi nella forma del ritorno, ga­ rantito o meno da Dio e dalla sua volontà soprannaturale preferibilmente rivelata in forma messianica, ad una comunità fraterna, solidale ed eguali­ taria tra gli uomini, che doveva inoltre corrispondere e conformarsi ai bi­ sogni naturali dell'uomo, non più corrotti dal peccato, dal lusso, dalla ric­ chezza eccetera. Il comuniSmo precapitalistico era paradossalmente più rivo­ luzionario di quello moderno concettualizzato da Marx, se teniamo nel debito conto che il termine "rivoluzionario" ha un'origine astronomica, ed indica il ritorno di un astro al suo punto di partenza dopo aver percorso integralmen­ te la sua orbita. È noto che negli ultimi trecento anni il termine "rivoluzionario" ha avu­ to un'evoluzione semantica che lo ha trasformato da un semplice ritorno di una circolarità astronomica ad un rovesciamento sociale globale nei rapporti fra le classi sociali. Anche nel suo significato originale, però, ri­ torno e rovesciamento erano già concettualmente uniti, dal momento che soltanto con il modo di produzione capitalistico è possibile realizza­ re una distinzione filosofica integrale fra ciò che è sociale (ed appartiene dunque esclusivamente all'umanità) e ciò che è naturale (ed appartiene alla "natura" in senso astronomico, fisico e chimico). Il comuniSmo pre­ capitalistico si è ovviamente presentato in molte forme, documentateci analiticamente dalla storia universale. Per chiarezza ci è sembrato che tutte queste forme differenziate si riducessero essenzialmente a due, quella religiosa del comuniSmo come rivelazione e realizzazione della volontà di Dio, che agisce decidendo di reagire ai peccati umani divenuti per lui intollerabili ed insopportabili, e quella filosofica (più esattamen­ te giusnaturalistica) della conformità alla vera natura umana, liberata dalla cor­ ruzione e dall'ignoranza.

II. Alcune ragioni che rendono oggi indispensabile per noi lo studio del comuniSmo precapitalistico Lo studio, storico e filosofico, del comuniSmo precapitalistico è Sèm­ pre stato patrimonio di pochissimi studiosi. Se analizziamo le modalità pedagogico-politiche della divulgazione del materialismo storico marxi­

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Costanzo P reve

sta nei periodo del movimento operaio e socialista (1880-1914) e poi del comuniSmo storico novecentesco (1917-1991), ci accorgiamo facilmente che delle forme politiche e religiose del comuniSmo precapitalistico non si fanno praticamente che accenni fuggevoli e sostanzialmente irrilevan­ ti. In breve, si dà per scontato che non vi siano che curiosità archeologiche più o meno pittoresche, e che le "cose serie" cominciano soltanto con l'analisi del modo di produzione capitalistico, delle classi sociali mo­ derne (borghesia, piccola borghesia, operai, contadini eccetera), del plus­ valore, della teoria politica del partito e dello stato eccetera. A nostro avviso si è trattato di un errore culturale strategico, peraltro non casua­ le, che oggi non dobbiamo assolutamente più permetterci. Segnaleremo qui con forza alcune ragioni di questa nostra precisa convinzione. In primo luogo non si capisce quasi nulla di Marx se non si è ben co­ scienti che Marx pensa in opposizione, o se si vuole "per differenza”, con le due filosofie globali del comuniSmo precapitalistico, che lo fondano e lo legittimano appunto o sulla base della rivelazione della volontà di Dio o sulla base dell'instaurazione di una società razionale, conforme alla vera natura umana. Per Marx il comuniSmo è sempre e soltanto un pro­ getto umano globale, che ha un fondamento storico-cronologico impre­ scindibile, la generalizzazione spaziale e temporale del modo di produ­ zione capitalistico (con l'eccezione, peraltro rilevante, e su cui si dovrà tornare, dell'allusione di Marx alla possibilità che la "comune rurale rus­ sa" potesse in fondo permettere alla Russia stessa di fare a meno di per­ correre tutta la trafila stadiale capitalistica, e passare "direttamente" a forme socialiste di produzione e di consumo). Non intendiamo certo negare che sia utile condurre operazioni concet­ tuali di comparazione fra Marx, da un lato, e Smith, Ricardo, Kant e Hegel dall'altro. Queste operazioni, però, sono infinitamente meno importanti della consapevolezza del fatto che Marx non pensa tanto sulla base di una "differenza" con Smith o Hegel, ma sulla base di una ben più decisiva diffe­ renza fra il comuniSmo precapitalistico, che non ha il modo di produzione capitalistico come suo presupposto, ed il comuniSmo moderno, di cui egli si fa profeta e annunciatore, che invece ce l'ha. Non è infatti esatto dire che l'oggetto teorico di Marx è il modo di produzione capitalistico, e solo es­ so. Se si adotta questo punto di vista metodologico (che criticheremo più analiticamente nel secondo capitolo), il "comuniSmo" diventa allora neces­ sariamente un'aggiunta utopico-moralistica, una superfetazione egualitaria dovuta a ragioni caratteriali dell'uomo Marx (sdegno contro l'ingiustizia, in­ vidile; p,sentimento verso i ricchi eccetera). L'oggetto teorico di Marx, in quanto "oggetto" che lega insieme in­ scindibilmente ontologia ed assiologia, analisi della specificità dell'essere sociale capitalistico e sua valutazione globale in termini negativi, è sem­

Il comuniSmo precapitalistico

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pre a nostro avviso il nesso fra modo di produzione capitalistico e co­ muniSmo. Non è certo obbligatorio adottare questo punto di vista, e non è neppure obbligatorio apprezzarlo, condividerlo o stimarlo. È invece ob­ bligatorio conoscerlo nei suoi termini esatti, e per conoscerlo lo studio differenziale delle forme di comuniSmo precapitalistico è indispensabile, perché Marx pensa appunto per differenza e contrasto con quest'ultimo. La sua strategia, in una parola, non è "continuativa", ma "contrastiva". il comuniSmo moderno che egli cerca di ricavare dialetticamente dallo sviluppo delle determinazioni sociali capitalistiche "contrasta" in­ fatti con i comuniSmi precapitalistici basati sulla volontà divina o sulla conformità alla vera natura umana. In secondo luogo, lo studio dei modi di produzione precapitalistici, e conseguentemente anche dei progetti egualitario-comunistici che in essi presero forma, rappresenta il migliore antidoto alle concezioni post­ moderne della modernità, in cui l'incredulità rispetto al lieto fine delle grandi narrazioni (per adottare la terminologia di Lyotard) porta diret­ tamente alle idee di Fukuyama sulla fine capitalistica della storia. Si stanno diffondendo in Italia concezioni di origine liberaldemocratica (da Bobbio a Sylos Labini) che sfociano di fatto in una accettazione integrale delle teorie storiografiche revisionistiche alla Nolte, in base al presup­ posto che il comuniSmo e il fascismo storici novecenteschi sono stati due fratelli nemici, sono nati insieme e dovranno morire insieme, per fare spazio ad una sorta di capitalismo liberaldemocratico infinito e il­ limitato. Prima di essere odiosa, una simile concezione è errata. Il co­ muniSmo infatti è un progetto storico che preesisteva da millenni al co­ muniSmo storico novecentesco, così come preesisteva alla concezione di Marx. Chi limita la sua attenzione allo studio del solo modo di produ­ zione capitalistico, disinteressandosi delle formazioni sociali precapita­ listiche, e fissa ossessivamente la sua sensibilità conoscitiva alla sola tecnologia capitalistica, alla classe operaia ed alle sue composizioni differenziate, al partito politico ed alle sue degenerazioni, eccetera, finirà inevitabilmente con il lasciarsi ipnotizzare dall'apparente onnipotenza del capitalismo stesso, e con il non avere più un termine di paragone per una società diversa. Ora, dal momento che il comuniSmo del futuro non esiste ancora, nessuno sa con certezza se esisterà mai e non è pertanto descrivibile, ma soltanto evocabile, i modi di produzione precapitalistici restano le sole società sicuramente esistite in base a cui si possa dire che l'orizzonte capitalistico può e deve essere relativizzato, e non ha senso assolutizzarlo ed eternizzarlo. Vi è però una terza ragione, incommensurabilmente più importante delle due precedenti, che impone lo studio delle forme di comuniSmo

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precapitalistico come presupposto indispensabile di ogni rifondazione teorica del comuniSmo alla fine del Novecento. Si è detto che il comuni­ Smo precapitalistico, in assenza di un rapporto sociale generalizzato di capitale, non poteva che auto-rappresentarsi in forma religiosa o filoso­ fica, come compimento della volontà di Dio o come adeguamento alla vera natura umana ed ai suoi bisogni non corrotti. Nel secondo capitolo vedremo come Marx cercò di rompere integralmente con queste conce­ zioni, che egli intendeva archiviare definitivamente ed irrevocabilmente, ma che questa sua intenzione non potè essere realizzata integralmente, perché il suo presupposto ottimistico massimo e principalissimo, quello della socializzazione cooperativa (e quindi potenzialmente pre-comunista) delle forze produttive attuata già dal capitalismo, non era esatto, ed era anzi sostanzialmente errato. Marx aprì quindi, a fianco di due legittimi "spazi filosofici" di tipo metafisico ed epistemologico, anche un terzo "spazio" ideologico, che non poteva che ereditare, sia pure in forma lai­ cizzata, elementi culturali essenziali del comuniSmo precapitalistico, in cui la volontà di Dio e la conformità alla natura umana venivano certo elaborate e trasformate, ma non certo superate. Nel terzo capitolo, inol­ tre, cercheremo di mostrare che ciò che in Marx restava ancora in qualche modo dominato (lo spazio ideologico) diventava dominante ed anzi so­ verchiente nei vari "marxismi" che hanno riempito il lungo secolo del movimento operaio, socialista e comunista (1880-1990). Naturalmente, il dominio dello spazio ideologico è per noi qualcosa di storicamente logi­ co ed inevitabile, per il semplice fatto che la classe operaia-proletariato, su cui si basavano le speranze di Marx, non è affatto una classe universalisti­ ca, e non può quindi essere la "levatrice" del mondo da Marx evocato. Le modalità ideologiche del comuniSmo precapitalistico, basato sulla vo­ lontà di Dio e sulla conformità alla natura umana, si riproducono quindi inevitabilmente nel marxismo della II Internazionale così come nel mar­ xismo della III Internazionale, e si riproducono anche nell’essenziale in tutte quelle forme di marxismo marginale, eretico e minoritario che non riescono ad emanciparsi dall'adesione dogmatica alla dottrina di Marx. Abbiamo ricordato tre ragioni per segnalare l'interesse per lo studio delle forme precapitalistiche di comuniSmo. La sola ragione fondamen­ tale è però la terza. In breve, quasi tutto il gigantesco corpus teorico di un secolo di marxismo non è che una lunga secolarizzazione imperfetta delle due forme ideologiche essenziali del comuniSmo precapitalistico, la realiz­ zazione della volontà di Dio e la costruzione utopico-progettuale di una comunità egualitaria conforme alla vera natura umana. Senza un conge­ do radicale da questo universo culturale non c’è alcun futuro filosofico credibile per l'idea comunista. Questo universo culturale, però, deve es­ sere concettualmente ricostruito nelle sue articolazioni essenziali se non

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altro per essere "riconosciuto" al di là dei suoi mutevoli e variopinti tra­ vestimenti. Sarebbero necessarie migliaia di pagine. Non disponendone, e correndo il rischio consapevole della semplificazione, ci limiteremo a segnalare tre, e soltanto tre, determinazioni concettuali che fanno da fondamento del comuniSmo precapitalistico, Dio, l'Essere e la Natura, chiedendo al lettore uno sforzo autonomo di integrazione di dati storici e politici.

III. li comuniSmo come realizzazione della volontà di Dio rivelata attraverso messia e/o profeti La genesi dell'idea di religione nel marxismo è storicamente situata negli ottant'anni che intercorrono fra il 1760 e il 1840, quando alla con­ cezione materialistico-illuministica della religione come prodotto di un consapevole inganno dei preti basato sulla preventiva ignoranza, paura e superstizione delle masse si sostituì progressivamente, per opera so­ prattutto della filosofia classica tedesca (Hegel, Feuerbach) la concezio­ ne di una alienazione (Entfremdung) delle capacità contenute in potenza nella stessa natura umana, che venivano inconsapevolmente "trasferite" in una entità ad un tempo teoricamente onnipotente e praticamente inesistente chiamata Dio (anzi, dio, per sottolinearne anche graficamen­ te l’inesistenza). È necessario peraltro tener conto del fatto che questa evoluzione filosofica resta nell'essenziale un capitolo di storia delle idee, dal momento che in pratica il materialismo e l'anticlericalismo popolari, componenti culturali determinanti per connotare l'ideologia quotidiana dei militanti dei partiti politici socialdemocratici, socialisti e comunisti, non effettuarono mai il "passaggio" da D'Holbach a Feuerbach (passaggio che è in realtà un episodio del tutto interno alle vicende dell'autocoscienza filosofica della borghesia, e della sola borghesia), ma restarono sempre ro­ bustamente ancorati all'idea della religione come trucco dei preti basato sull'ignoranza e sulla credulità degli ignoranti (ed è del resto su questa base, e non certo su quella hegeliano-feuerbachiana, che viene condotta la propaganda ateistica ed antireligiosa in Urss dal 1917 al 1991). Se­ gnaliamo questo fatto non certo per "aprire" un capitolo di filosofia della religione alla luce di un marxismo rinnovato (non ve ne è qui né lo spa­ zio né l’intenzione), ma soltanto per sottolineare che in questo modo l'attenzione viene concentrata sul problema, a nostro avviso del tutto marginale e fuorviante, dell’eventuale esistenza o inesistenza di Dio. il lettore può stupirsi del fatto che connotiamo qui come marginale e fuorviante un problema che viene in generale messo al centro del tema cruciale ed ineludibile dell'esistenza umana e del suo senso ultimo, non

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solo in momenti particolari dell'esistenza stessa (come la sventura o l'imminenza della morte individuale), ma anche in momenti ritenuti più "normali" e fisiologici (come la scelta morale fra alternative radicali). Se facciamo questo, però, non è certo per provocatorietà o (speriamo) per superficialità e insensibilità ma perché la questione dell'esistenza (o dell'inesistenza) di Dio passa in secondo piano di fronte ad una questio­ ne concreta, materiale, storica, fattuale gigantesca, che deve essere pri­ ma di tutto capita bene nei suoi termini fondamentali. In breve, Dio, al di là della sua eventuale esistenza o inesistenza fisico-chimica, cioè astronomico-cosmologica (considerata generalmente come la premessa imprescindibile della sua autorevolezza morale, ritenuta conseguenza evidente della sua preventiva esistenza fisico-chimica), è stato, e per mol­ tissimi è ancora, il solo fondamento "astratto" mediante il quale è con­ cretamente pensata la propria collocazione sociale nel mondo, e quindi anche il comuniSmo della produzione, della distribuzione e del consumo. Ciò non avviene a nostro avviso né per ignoranza né per alienazione (anche se, sia ben chiaro, l'ignoranza e l’alienazione esistono entrambe "ai lati" di questa questione), ma per una modalità strutturale della rap­ presentazione umana dell'assolutezza e dell'onnipotenza che conduce a pensare in modo correttamente unitario il mondo della natura e quello della società. La nozione di Dio permette infatti (e lo ripetiamo, in modo sostanzialmente corretto) di pensare unita riamefite l’ontologia e l’assiologia, il fatto cioè che qualcosa esista, in primo luogo, e che 1’esistenza di questo qualcosa produca direttamente e senza la mediazione dell'"opinione" umana un insieme di valori umani e politici sottratti ad una discussione interminabile alla fine della quale c'è la dissoluzione nichilistica di tutto e il trionfo del più violento e del più forte. Dio, lo ripetiamo, è una no­ zione unitaria così come unitario è il legame sociale complessivo che lega insieme tutti i membri della comunità umana. Il processo di seco­ larizzazione capitalistica e di dissoluzione dell'unità inscindibile fra on­ tologia ed assiologia è oggi stato spinto talmente avanti da far ritenere che le "conversioni" (e soprattutto le esemplari conversioni in punto di morte, cavallo di battaglia di tutte le chiese organizzate) consistano non in una riformulazione pratica radicale dell'unità del lavoro sociale com­ plessivo (e dunque in una rivoluzione sociale sempre in qualche modo "comunistica"), ma nella semplice ammissione nella "credenza" in un’entità la cui natura è soprannaturale e pur sempre però esistente. In estrema sintesi Dio è una nozione unitaria (così come unitaria è sempre la relazione sociale che struttura, armonicamente o conflittual­ mente, il lavoro sociale complessivo), è un principio di unificazione radi­ cale di ontologia e di assiologia (così come unitario è il processo di pensiero che ambisce alla conoscenza dell'essere sociale e nello stesso

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tempo io fa oggetto di valutazione e di giudizio etico e politico), ed è in­ fine un principio di unificazione categoriale del mondo della natura e di quello della storia e della società (così come unitario è il rapporto fra l'uomo ed il suo ambiente, nel senso del "ricambio organico" fra società e natura, un qualcosa che non è certo scoperta recente degli ecologisti). Il lettore è pregato di tenere bene a mente queste tre determinazioni ca­ tegoriali della divinità, per il semplice fatto che queste tre determina­ zioni sono assolutamente vere, nel senso che è vero che il rapporto socia­ le è unitario, che l'attività di conoscenza e di valutazione della totalità del rapporto sociale è unitaria e che infine unitario è anche il nesso fra mondo della natura e mondo della società. Nel modo di produzione ca­ pitalistico questa unitarietà diviene apparentemente irrilevante, per il fatto che il legame sociale viene "unificato" artificialmente dalla "socievole inso­ cievolezza" della merce e del denaro, l’assiologia viene separata dall'ontologia in un'interminabile e frustrante "rincorsa" di valori morali che non riescono mai a "raggiungere" l'inesorabile procedere anonimo dei mercati finan­ ziari e dell'approfondimento della scissione antagonistica del lavoro so­ ciale ed infine la stessa "natura” è costretta anch’essa pateticamente a rincorrere la società che incede irresistibilmente inquinandola e stravol­ gendola. Nei modi di produzione precapitalistici, invece, questa unitarie­ tà profonda era praticamente operante ogni giorno, per il fatto che l'esternità dello sfruttamento al prelevamento forzoso (ed "ingiusto”) al processo di produzione dei beni e dei servizi consentiva la permanenza di una rappresentazione "unitaria" (anche se, ovviamente, superstiziosa ed addirittura "idiota") dei rapporti sociali. In sintesi, gli agenti sociali dei modi di produzione precapitalistici non credevano in Dio perché era­ no più ignoranti di noi, ma perché la divinità e la sua onnipotenza strut­ turava direttamente l’insieme delle loro pratiche e delle loro rappresen­ tazioni naturali e sociali. Posto il problema in questi termini (che ci sembrano gli unici termini corretti) diventa del tutto marginale il pro­ blema dell'esistenza, o viceversa dell'inesistenza, di un "centro energeti­ co” titolare delle tre cattedre universitarie di fisica nucleare, biologia molecolare e teologia morale. A questo punto, si dirà, che cosa c'entra questo Dio con il comuni­ Smo? Qui vi è infatti un problema cruciale, il comuniSmo precapitalistico non può certamente consistere in uno sviluppo onnilaterale della libera individualità integrale (che ha come presupposto storico ineludibile la costituzione di una soggettività "borghese", e quindi già in qualche modo interna ad un capitalismo sviluppato), e neppure in un'affermazione di universali bisogni ed universali capacità (che ha come presupposto l'uni­ versalità contraddittoria dello sviluppo delle forze prqduttive promosso dai rapporti capitalistici di produzione). Il comuniSmo precapitalistico

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parte dalla constatazione (che per gli agenti della produzione precapita­ listica è esperienza quotidiana e diretta) che 1’esistenza di ricchi e di po­ veri (e di padroni e di servi-schiavi) non nasce da un processo interno alla produzione, in qualche modo "neutrale" in senso ontologico ed assiologico (cosi come è nel capitalismo), ma è frutto di una ingiustizia messa in atto da un gruppo di potenti, cioè da una potenza (ontologica) messa al servizio di una ingiustizia (assiologica). Questo avviene (non ci stancheremo mai di ripeterlo) per il fatto che il processo di sfruttamento è sostanzialmente esterno al processo di produzione, e che la percezione da parte delle classi subalterne del nesso di potenza e di ingiustizia è assolutamente realistica e corretta, e non è dovuta dunque principal­ mente ad ignoranza. Si tratta, semmai, di "falsa coscienza necessaria", nozione che non implica alcuna valutazione negativa per chi ne è porta­ tore. La divinità è di conseguenza percepita come portatrice di una poten­ za più grande di quella delle classi sfruttatrici, e correlativamente di una giustizia più vera di quella proclamata dai loro magistrati, giudici, manu­ tengoli, sacerdoti e soldati. Dal momento che non si può ammettere che questa divinità abbia consentito la propria perdita di potenza e di giustizia per un difetto in­ trinseco ad essa, le classi sfruttate dei modi di produzione precapitali­ stici devono necessariamente ricorrere a miti religiosi incentrati sul "peccato", cioè sulla colpa degli uomini che hanno abbandonato, per ignoranza o malvagità, la retta via che pure in origine questa divinità aveva sempre indicato. Questa "retta via" è poi quasi sempre una forma di società comunista originaria, organizzata sulla base di una divisione co­ operativa del lavoro, su di un consumo frugale comune, sull’inesistenza di beni di lusso che in qualche modo differenziavano gli uomini. Un esame storico comparativo delle società dette "primitive" e di quelle an­ tiche porta a conclusioni assolutamente inequivocabili: il comuniSmo, inteso come comunità solidale della produzione e del consumo, è lo sfondo ideologico permanente ed il criterio primario di riferimento di un intervento salvifico della divinità, reso possibile dalla sua onnipotenza. La divinità deve però in qualche modo manifestarsi, rivelarsi, far cono­ scere il proprio sdegno e la propria collera. La rivelazione della sua po­ tenza e della sua volontà, a sua volta, avviene sempre attraverso la me­ diazione di messia e di profeti, che fanno da portavoce e da "parola" alla divinità stessa. È questo ad esempio il caso di Gesù di Nazareth e di Paolo di Tarso. Nel caso di Gesù di Nazareth il contenuto comunista della sua predica­ zione risulta inequivocabile, se ci si sforza di correlare il contenuto se­ mantico del suo annuncio messianico con il contesto storico in cui si svolse la sua attività. Gesù promette ai poveri una emancipazione socia­

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le ed un riscatto dei debiti che non ha nulla di generico o di puramente "morale", ma che ha come presupposto materiale e politico la "purificazione" del Tempio di Gerusalemme, e la proclamazione di un "anno di misericordia del signore" da parte di un'autorità messianica, la sua, che è ad un tempo giusta e potente a causa dell’appoggio del Padre celeste. La distribuzione comunista dei beni è in Gesù di Nazareth la realizzazione di una ben pre­ cisa volontà divina, che intende "rivoluzionare" lo stato di generale ingiusti­ zia ed oppressione in cui si era caduti a causa dei peccati degli uomini. Questo comuniSmo messianico è ovviamente un comuniSmo della di­ stribuzione egualitaria, ma non manca in esso anche un elemento schiet­ tamente organizzativo, incentrato appunto su di quella "economia del tempio" tipica dei modi di produzione antico-orientali (ed è per questo appunto che il tempio deve essere preventivamente "purificato", cioè libe­ rato dai suoi burocrati corrotti e privatizzatori). Il contenuto comunista della predicazione di Gesù si attenua in Paolo di Tarso, ma questa atte­ nuazione non è dovuta ad una scelta soggettiva cosciente di Paolo in fa­ vore della proprietà schiavistica, quanto ad una ragione oggettiva, strut­ turale, la mancanza di una economia pianificata da un tempio i cui pro­ dotti potessero essere distribuiti comunisticamente. La purificazione del tempio e l'anno di misericordia del signore devono quindi incorporarsi nell'orizzonte della vecchia basileia ellenistica, il Regno di un Re-Dio ca­ pace di potenza e giustizia, Regno che fa da sfondo messianico alla stes­ sa Apocalisse di Giovanni. Nonostante la sottomissione, prima formale poi reale, del cristianesimo prima al modo di produzione schiavistico, poi a quello feudale (da lui preferito) ed infine a quello capitalistico, l'orizzonte di un comuniSmo egualitario della distribuzione non scompa­ re mai del tutto, e riemerge in forma intermittente in varie congiunture storiche di crisi sociale. L'islamismo, il buddismo, l'induismo, il confu­ cianesimo, le religioni meso-americane, eccetera, ci forniscono analoghi esempi di questo comuniSmo precapitalistico ricavato dal riferimento alla volontà di un Dio potente e giusto, la cui "onnipotenza" è sempre prima di ogni altra cosa una garanzia del successo finale del suo inter­ vento.

IV. il comuniSmo come manifestazione dell'Essere sociale originario conosciuto attraverso la ragione filosofica Il comuniSmo religioso di cui abbiamo appena parlato ha un caratte­ re universale, e tende a presentarsi con rassicurante regolarità ogniqual­ volta una società precapitalistica, colpita da catastrofi naturali o squas­ sata da sconvolgimenti sociali, cerca una via d'uscita ai propri problemi

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in un "ritorno" alla propria struttura originaria, nel frattempo "decaduta" a causa del peccato degli uomini. Non è però un caso che la forma clas­ sica di questo comuniSmo abbia origine nella struttura sociale del modo di produzione antico-orientale, in cui l'assenza di proprietà privata e la pianificazione "religiosa" dell'economia da parte di un Tempio rende in un certo senso più facile e diretto il "raddrizzamento" comunista dei torti e delle ingiustizie. In società di origine nomadico-guerriera, estranee ad un'esperienza di lunga durata di modo di produzione antico-orientale, si hanno ovviamente forme diverse di coscienza sociale, che si possono ad esempio riscontrare nella cosiddetta "ideologia o struttura delle tre fun­ zioni" (sovranità religiosa, forza fisica e fecondità), ritenuta da Georges Dumézil tipica delle popolazioni indoeuropee (e quindi anche dei greci e dei romani, oltre che dei popoli ariani dell’India). Lo studio di queste forme di coscienza è particolarmente importante per studiare la genesi di quel particolare comuniSmo aristocratico ed elitario che ha caratteriz­ zato la nascita della filosofia greca classica, in particolare nei pitagorici (e cioè anche in Parmenide) e soprattutto in Platone. Questo comuni­ Smo aristocratico ed elitario, che non ha di regola un carattere egualita­ rio ed anzi rivendica la diseguaglianza nelle funzioni sociali, non fa gene­ ralmente riferimento alla volontà di una divinità infinitamente giusta e potente, ma si legittima in forma filosofica "razionale" come manifesta­ zione terrena e contingente di un Essere eterno, sottratto alla corruzione ed alla morte. Come Dio, questo Essere è unitario, unisce ontologia ed assiologia (cioè il Vero e il Bene) e domina sia la natura che la società, anche se, a differenza della divinità monoteista classica, non si rivela mediante libri sacri e profeti, ma si "lascia conoscere" attraverso l'uso della ragione umana. Questa nozione di Essere è riscontrabile in forma comparativa sia nella filosofia antica sia nel pitagorismo classico (da Pitagora a Parme­ nide). Un simile Essere, dotato di caratteristiche "permanenti" (così che anche la temporalità diventa lo scenario delle manifestazioni differenzia­ te ed apparentemente "diverse" della permanenza stessa) è in genere il fondamento di legittimazione "metafisica" di una sorta di comuniSmo aristocratico, che consente appunto le "differenze sociali" come semplice manifestazione statica (e dunque castale) di una unità sociale conside­ rata immutabile. È del tutto inutile, ed è anzi gravemente fuorviante, applicare le categorie moderne di "conservatorismo" e di "progressismo" a queste concezioni, dal momento che queste categorie hanno senso sol­ tanto in una rappresentazione unilineare, omogenea e stadiale della sto­ ria, e non ha invece a nostro avviso nessun senso affermare seriamente che il comuniSmo platonico era "conservatore” mentre il relativismo dei sofisti era "progressivo" (e segnaliamo qui incidentalmente che l'abitudine

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a trasferire al mondo antico e medioevale nozioni come "conservazione" e "progresso" è radicata sia nei manuali di materialismo dialettico del defun­ to comuniSmo storico novecentesco, sia nella storiografia filosofica acca­ demica, borghese-capitalistica). La nozione di Essere, nella sua insisten­ za sull'unitarietà essenziale del mondo, è invece particolarmente adatta per pensare astrattamente l'unità profonda dei lavoro, sociale complessi­ vo, assolutamente compresente con la scissione instaurata dalla rela­ zione sociale fra sfruttati e sfruttatori, attività intellettuali ed attività manuali, direzione ed esecuzione, eccetera. Questa unità del lavoro so­ ciale si manifesta come unità diretta fra ontologia e assiologia, ed è per questo che il "potere" dell'Essere si manifesta inscindibilmente come struttura sociale e come "significato morale" di questa struttura stessa. Siamo oggi abituati a distinguere fra le tecniche di conoscenza e tra­ sformazione di un oggetto e il conferimento di senso morale ad una azione particolare, ed è in effetti assolutamente vero che la conoscenza tecnica della navigazione a vela è "neutrale" rispetto all’uso che si può fare di questa navigazione a vela stessa, che può andare dal massimo di "bontà" (il salvataggio di naufraghi innocenti) al massimo di "malvagità" (l'attività di pirateria in cui si buttano in mare ad annegare i bambini rapi­ nati). Il carattere di "neutralità morale" della conoscenza, rispetto all'uso possibile, è però tipico soltanto del mondo degli enti, non di quello dell'Essere, che non è affatto un Ente superiore agli altri (su questo pun­ to Heidegger coglie a nostro avviso il punto essenziale), ma è l'orizzonte di possibilità degli enti stessi. In Parmenide, ad esempio, l'Essere rap­ presenta metaforicamente l'unità materiale e morale della convivenza nella polis di Elea, ed il Nulla non è certamente l’assenza di atmosfera o il vuoto pneumatico, quanto la "perdita del senso" (e cioè dell'unità fra ontologia ed assiologia) che si ha violando la riproduzione della struttu­ ra sociale considerata "perfetta". Il rapporto fra questa concezione ed il comuniSmo aristocratico indoeuropeo ci sembra evidente, e non è un caso che nel pitagorismo italico questo "comuniSmo" desse luogo ad una specifica "unità fra teoria e prassi" (concezione matematica dell'universo, rapporto fra armonia e musica, natura dietetica e preventiva dell’arte me­ dica, insistenza sulla necessità di dare una base filosofica alle costitu­ zioni politiche ecc.), che ispira tutto il pensiero politico di Platone. Il cosiddetto "comuniSmo platonico", dettagliatamente descritto nella Repubblica (ma presente in forma non sistematica anche in altri dialoghi), è ben conosciuto, e possiamo quindi evitare di scendere nei dettagli. Vale invece la pena di sottolineare che nel comuniSmo platonico si fondono in un certo senso due tradizioni, quella antico-orientale non indoeuropea (che giunge a Platone in particolare dall'antico Egitto e dall'antica Creta) e quella indoeuropea micenea, dorica e greca, con i suoi elementi di tri-

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funzionalismo prima accennati. La fusione di queste due tradizioni è attua­ ta da Platone in modo assolutamente originale, anche se il carattere "greco" ed addirittura "ateniese" del suo pensiero è predominante (sostanziale as­ senza di elementi religiosi messianici e apocalittici, centralità del dialogo razionale mutuato dall’insegnamento socratico, eccetera). Il comuniSmo platonico è ovviamente fondato su una filosofia dell'Essere che ricono­ sce la "diversità" (espressione a nostro avviso della divisione del lavoro ormai irreversibilmente costituitasi, e che rendeva impossibile un "ritorno" alla semplicità primitiva), e nello stesso tempo la integra in una ferrea gerarchizzazione. Questo comuniSmo si basa su di una dialettica fortemen­ te bimondana (e non monomondana come il comuniSmo di origine he­ geliana e marxiana), per il semplice fatto che l'unità della società uma­ na non è ricavata dall'esito di un processo storico temporalmente omo­ geneo ed unitario (come nel materialismo storico), ma è ottenuta "duplicando" nella terra ciò che è già irreversibilmente costituito nel cielo. Un simile comuniSmo aristocratico ed elitario è pertanto filosofico, non religioso, ma la sua autorappresentazione filosofica non si di­ stingue qualitativamente dall'unitarietà garantita dal monoteismo se­ mitico (con la volontà della sua divinità giusta e potente, rivelata ai profeti e realizzata dai messia), per il semplice fatto che in entrambi i casi l'elemento bimondano resta centrale. In proposito, non è assolutamente casuale che questa sostanziale unitarietà si riscontri storicamen­ te non solo nelle varie forme di neoplatonismo religioso occidentale, ma soprattutto nel neoplatonismo filosofico musulmano, rimasto sempre maggiormente "incorporato" nella legittimazione religiosa della struttura sociale (come si può oggi verificare nelle varie forme, sia sunnite sia scii­ te, del fondamentalismo islamico anti-occidentale, ed a suo modo anti­ capitalistico). Il comuniSmo aristocratico, elitario e gerarchico, che si può trovare in Platone diventa nella modernità capitalistica una componente essenzia­ le della cosiddetta "cultura di destra", laddove il comuniSmo religioso e monoteistico di origine cristiana ed antico-orientale confluisce in modo subalterno in forme estremistiche, pauperistiche e populistiche della "cultura di sinistra". Tutto ciò è noto e non ha bisogno di riferimenti det­ tagliati. Bisogna però dire che, così come non ha nessun senso utilizzare le categorie di "conservazione" e di "progresso" per comprendere storio­ graficamente questo fenomeno, analogamente non ha nessun senso eti­ chettare pedantescamente le reviviscenze contemporanee di esso in termini di "sinistra" e "destra". In termini storici il comuniSmo religioso fondato sulla volontà di Dio è molto più importante del comuniSmo filo­ sofico basato sulla conformità dell’Essere reale delle cose e dei valori. Il primo è infatti la forma assolutamente normale di intendere in una for­

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mazione economico-sociale precapitalistica la scissione (apparentemente inspiegabile, se non in termini di "peccato") fra ricchi e poveri, mentre il se­ condo rappresenta in un certo senso l'eccezione, o meglio l'evoluzione eccezionale, del trifunzionalismo indoeuropeo. L'unità fra ontologia ed assiologia è garantita nel primo dall’unicità monoteistica di una sola divinità che presiede sia ai destini umani, sia ai valori morali, mentre nel secondo questa stessa unità è ricavata razionalmente dalla natura omo­ genea delle idee-numeri (matematiche) e dalle idee-valori (morali). Si tratta comunque sempre di un comuniSmo precapitalistico, ostile alle di­ seguaglianze sociali, garante del lavoro e del consumo di tutti i membri delle società e nemico di ogni scissione fra politica ed economia. Questo comuniSmo non è affatto peggiore di quello moderno, novecentesco, ma è semplicemente diverso, perché diverso è il radicamento in un modo di produzione che ne determina in forma "contrastiva" le modalità.

V. HcomuniSmo come conformità alla natura ed ai bisogni autentici che da essa direttamente discendono La lunga transizione storica ed economica dal modo di produzione feudale al modo di produzione capitalistico si prolunga per quasi tre se­ coli (1500-1800), ed in questi tre secoli la rivendicazione del comuniSmo assume come suo quadro ideologico di riferimento una sintesi radicale di giusnaturalismo e di contrattualismo. È possibile ovviamente una let­ tura non-religiosa ed antireligiosa del diritto naturale, che fa in effetti appello al "lume naturale” della ragione umana etsi Deus non daretur (come se Dio non esistesse), ma non bisogna dimenticare che storicamente il diritto naturale non ha affatto una origine laica o tantomeno atea, ma al contrario ha robuste radici cristiane e medioevali. Ad esempio, il comu­ niSmo rivendicato dai contadini tedeschi insorti del 1525 (il comuniSmo di Thomas Muntzer, studiato da Engels e Bloch), così come il comuni­ Smo dei cosiddetti "zappatori" (Diggers) attivi durante la grande rivolu­ zione inglese del 1640-60, utilizza una mescolanza specifica di linguaggio biblico pauperistico, messianico ed apocalittico e di linguaggio giusna­ turalistico ispirato alla tradizione del diritto naturale cristiano del Me­ dioevo. Questo comuniSmo dà correttamente per scontato il fatto che il prelevamento estorsivo dei "ricchi" ai danni dei lavoratori "poveri" è esterno al processo di produzione, ancora saldamente in mano alle co­ munità contadine ed artigiane, e rivendica il raddrizzamento dei torti nel nome congiunto di Dio e della Natura. I due termini sono del resto spes­ so sinonimi (fino all'equazione apertamente proposta nel Seicento dall’ebreo olandese Spinoza), e tutto questo non è casuale, perché la

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mescolanza filosofica esplicita di Dio e di Natura (rimasta sempre im­ plicita nel pensiero medioevale e feudale, che non la chiarì mai fino in fondo) rispecchia nel rarefatto mondo delle categorie metafisiche il fatto che stava venendo meno, insieme con il modo di produzione feudale, la necessità di "duplicare" religiosamente in modo bimondano una realtà sociale che non riteneva più necessaria una legittimazione religiosa. La religione, ovviamente, non sparisce affatto, ma si laicizza capitalistica­ mente nella forma calvinista, che identifica esplicitamente vocazione e professione (Beruf) e che soprattutto non fa più dipendere la salvezza ul­ traterrena dalle "opere" (ed in particolare da tutte quelle opere caritative e pauperistiche che rendevano difficile lo svincolamento dello sviluppo capitalistico dalle pastoie "castali" medioevali). Il Dio protestante è un'entità soprannaturale che non ha ormai nulla da obiettare al capitalismo, e che si "ritira" .neH’interiorità della coscienza individuale nella misura in cui si "ritira" anche da una giurisdizione diretta sulle attività economiche. Il Dio medioevale e feudale era invece "dirigista" in economia, e non tran­ sigeva sul fatto che le categorie economiche fossero anche categorie mo­ rali (teologia domenicana di Tommaso d'Aquino, condanna dell'usura, ecce­ tera). La legittimazione religiosa della diseguaglianza feudale era però una arma a doppio taglio, perché l'uso diretto della rivelazione religiosa per giustificare la piramide degli ordinamenti vassallatici e dello sfruttamen­ to signorile finiva con il giustificare implicitamente anche un uso alter­ nativo, antifeudale e antisignorile, di questa rivelazione religiosa stessa. Mille anni di crudeli torture inquisitorie e di roghi degli eretici testimo­ niano in modo storicamente inequivocabile che una lettura "comunistica" dei testi evangelici poteva essere impedita solamente manu militari. Para­ dossalmente, l'eclisse del comuniSmo evangelico, o meglio della riven­ dicazione pauperistica ed egualitaria in nome del "vero" insegnamento di Gesù di Nazareth, potè avvenire soltanto con l’eclisse parallela e cor­ rispondente del cristianesimo feudale, cioè della legittimazione religiosa dei rapporti feudali di produzione. I due cristianesimi, feudale e "comunisticoevangelico", crebbero insieme, vissero insieme in simbiosi agonale, ed infine morirono insieme al giungere dell'alba del modo di produzione capitali­ stico (in analogia, del resto, con il crescere, il vivere ed il morire insieme dei marxismi ortodossi e dei marxismi eretici alTinterno dell'unica vicen­ da del comuniSmo storico novecentesco, dal 1917 al 1991). Il tramonto del comuniSmo fondato sulla volontà di Dio non poteva certamente riproporre il comuniSmo filosofico, aristocratico-elitario, dei pitagorici e di Platone. Da secoli erano scomparsi i gruppi sacerdotali e militari indoeuropei che ne rappresentavano il presupposto sociale. Questi gruppi erano stati sciolti e distrutti prima dallo sviluppo dell'economia schiavistica, ellenistica e poi romana, e le loro forme ideologiche erano

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state completamente incorporate, poi, nella legittimazione religiosa della gerarchia sociale. Il comuniSmo "utopico" che va da Tommaso Moro a Fon­ der (in un arco di tempo di tre secoli), un comuniSmo che accompagna pas­ so passo la transizione dal feudalesimo al capitalismo, si svolge in uno scenario sociale che è già caratterizzato dalla coscienza dell’impossibilità di un "ritorno" ai rapporti feudali stessi, e che pertanto mette l'accento os­ sessivamente non tanto sulla "volontà" di Dio, quanto sulla conoscenza della struttura razionale della natura umana e sui bisogni, semplici e frugali, che da questa natura umana derivano. Il comuniSmo evangelico era stato antifeudale, questo comuniSmo è invece già per molti aspetti anticapitalistico, nel senso che intende in un certo senso "impedire" la possibilità di uno sviluppo capitalistico, di cui non si possono certamen­ te "prevedere" esattamente le caratteristiche (rivoluzione industriale, macchinismo, mercato mondiale, eccetera), ma di cui è già possibile "intravedere" la natura privatistica, dissolutiva, acquisitiva, e comunque "innaturale" (rispetto ad una struttura dei bisogni umani data per defini­ tivamente conosciuta nella sua staticità ed immutabilità). Si tratta, in breve, di un comuniSmo precocemente anticapitalistico. Riteniamo nell'essenziale fuorviarne (anche se siamo caduti nella leggerezza metodologica di usarla) la connotazione di "utopico" per indi­ care questo comuniSmo della prima modernità. Il termine "utopico" è largamente casuale, perché si origina dal titolo fortunato di un libro di Tommaso Moro, ed è anche fuorviante, perché da Engels in poi è usato per indicare la differenza con il cosiddetto socialismo "scientifico", marxiano-engelsiano, basato teoricamente sul materialismo storico e so­ cialmente sulla classe operaia organizzata in partito politico indipenden­ te. Chi scrive non crede assolutamente nella "scientificità" di questo so­ cialismo, e considera questa connotazione un mito positivistico, una quasi-religione ed un deplorevole equivoco (per ragioni su cui ci soffer­ meremo nel secondo e nel terzo capitolo). Il termine "utopico" è anche fuorviante per un'altra decisiva ragione, perché oscura il fatto che sotto questa denominazione vengono confuse due tendenze teorico-pratiche radicalmente diverse: una tendenza aristocratica, che dall'"alto" prefigu­ ra società autoritarie, paternalistiche e fortemente integrate, che sotto la veste di un comuniSmo giusnaturalistico disegnano in realtà i tratti di un dispotismo assolutistico, mercantilistico, protezionistico, che è filopopo­ lare solo nella misura in cui è antiborghese (il "socialismo feudale" di cui parla sprezzantemente Marx); ed una tendenza democratica, che "dal basso" prefigura società egualitarie, a dominanza contadina e artigiana, in cui più che di "comuniSmo" si tratta di una società democratica di pic­ coli produttori indipendenti. In questa sede non ci interessa entrare nei pur importantissimi dettagli sulle differenze tra Moro e Morelly, Meslier

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e Mably, Rousseau e Robespierre, Fourier e Cabet, eccetera. In realtà la descrizione analitica delle centinaia di "comuniSmi" evocati nei tre secoli della transizione dal feudalesimo al capitalismo, pur nella variopinta di­ versità delle soluzioni proposte, ci permette di rintracciare un minimo denominatore comune, la teoria della vera "natura umana" cui si tratta di conformarsi armoniosamente, commisurando i propri bisogni al lavo­ ro prestato. Questa "natura" è poi descritta nei modi più diversi, e si va allora da forme di vero proprio autoritarismo che configurano un control­ lo dispotico sui comportamenti ed una dittatura sui bisogni (la "monarchia comunista" di Morelly), fino ad apologie del libertarismo comportamentale e sessuale (la vita nei falansteri di Fourier). Da un punto di vista filosofico, Rousseau resta esemplare ed ineguagliato per la sua capacità "dialettica" di legare insieme il lato della produzione e del lavoro ed il lato del consumo e dei bisogni. La "conformità" comunista alla "vera" natura umana nascondeva ov­ viamente il fatto che il modo di produzione capitalistico non aveva anco­ ra compiutamente ed irreversibilmente sconvolto questa (apparente) na­ turalità stessa, e che l'artificialità storica delle capacità e dei bisogni non si era ancora imposta come l’orizzonte specifico della modernità, il co­ muniSmo della conformità alla vera natura umana è l’ultima linea di re­ sistenza, l'ultima trincea delle classi subalterne prima della generalizza­ zione irreversibile dei rapporti di produzione capitalistici. Esso corri­ sponde, ovviamente, all’azione sociale di gruppi di contadini ed artigia­ ni, gli stessi che nel secolo successivo diedero vita all’anarchismo, un movimento che filosoficamente si fonda anch'esso su di una teoria antropologico-libertaria della natura umana stessa. In questo caso, il vive­ re conformemente alla vera natura umana significa vivere senza stato, preti, padroni ed autorità. In proposito non bisogna dimenticare mai che, così come il cristianesimo medioevale oscillava fra legittimazione feudale e signorile e comuniSmo pauperistico-evangelico, analogamente il giusnaturalismo antiborghese oscillava fra il dispotismo paternalistico di una monarchia comunista e l'utopia anarchica della liberazione tota­ le. In entrambi i casi, un mondo "in cui tutto si teneva" stava finendo, sostituito proprio da quel mondo borghese-capitalistico che Marx ebbe il merito di considerare soglia irreversibile per la costituzione di quella modernità in cui siamo immersi.

VI. If ritorno del rimosso: le eredità novecentesche dei comuniSmi precapitalistici

Abbiamo già ripetutamente ricordato in questo primo capitolo che lo studio dei comuniSmi precapitalistici non è un "lusso erudito", ma un

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presupposto per comprendere la lunga durata e la sotterranea continui­ tà di certe modalità ideologiche e culturali. Nel prossimo capitolo so­ sterremo che lo stesso Marx, che pure è caratterizzato dalla rottura co­ sciente ed esplicita con le fondazioni precapitalistiche del comuniSmo, e che in effetti riesce a realizzare questa rottura aprendo uno spazio epi­ stemologico nuovo, quello dell'analisi dialettica del modo di produzione capitalistico nella sua irriducibile specificità, finisce con il formare uno spazio ideologico in cui quasi tutte le modalità del comuniSmo precapita­ listico ritornano solo apparentemente secolarizzate e rese "scientifiche". Questo fenomeno però caratterizza in modo assai maggiore il comuniSmo storico novecentesco, di cui parleremo nel terzo capitolo. Per ora possia­ mo limitarci a ricordare telegraficamente le "eredità” novecentesche dei comuniSmi precapitalistici, raggruppandole in tre gruppi. È ovvio che esiste una base ontologico-sociale unitaria che regge questa analogia: i modi di produzione mutano, il modo di produzione capitalistico è radi­ calmente diverso da quello antico-orientale, asiatico, schiavistico e feu­ dale, ma non cambia il fatto che la classe operaia e proletaria ha in co­ mune con le precedenti classi oppresse e dominate un'identica subal­ ternità strutturale e un’identica incapacità di essere una classe intermo­ dale, dotata cioè della capacità di superamento reale del modo di produzio­ ne che la sottomette e ne riproduce in forma allargata la sottomissione. Si tratta allora, per usare una espressione psicoanalitica, di un vero e proprio "ritorno del rimosso", tanto più pericoloso quanto più il soggetto interessato (in questo caso la classe operaia, i marxisti, i socialisti e i comunisti) non ne è cosciente e crede di essersi lasciato alle spalle ciò che invece gli resta davanti agli occhi. In questo modo il problema si presenta come se fosse la soluzione, e nessuna soluzione può essere trovata, perché è lo stesso problema che, pur di non farsi mettere in di­ scussione, sceglie le soluzioni più "addomesticate". In primo luogo, l'attesa del comuniSmo dalla volontà di un Dio giusto e potente si trasforma nel Novecento in una concezione idolatrica della storia, o meglio delle sue inesorabili volontà. Il comuniSmo religioso precapitalistico confrontava l'ingiustizia distributiva dei prodotti del la­ voro umano, causata dall'estorsione permanente di gruppi armati, con la "giustizia" della ripartizione ideale egualitaria dei prodotti del lavoro sociale complessivo, eretta simbolicamente in Divinità, cui si attribuiva contestualmente anche la "potenza" necessaria per un intervento salvifi­ co che raddrizzasse i torti. Questo comuniSmo religioso precapitalistico rispecchiava l'impotenza delia prassi collettiva dei gruppi sfruttati, ben consapevoli peraltro di questa impotenza, che veniva "riscattata" dalla decisione divina. Nel comuniSmo novecentesco, che si trova di fronte un contesto storico diverso, caratterizzato da una "internità" del preleva­

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mento "ingiusto" allo stesso processo produttivo (il plusvalore estorto nell'"apparenza" di uno scambio "eguale" fra forza-lavoro e capitale), la potenza salvifica viene attribuita alla Storia, questa nuova divinità terre­ na, il cui scorrimento temporale orientato orizzontalmente sostituisce, senza modificarlo nell'essenziale, il precedente rapporto fra divino ed umano orien­ tato verticalmente. Si è di fronte ad una storia di "orizzontalizzazione della verticalità", in cui alla temporalità non è attribuita soltanto una funzione di "potenza", ma anche di "giustizia", perché alla temporalità è attribuita una capacità magica, quella di portare il "progresso". Ogni divinità vuole ov­ viamente dei sacerdoti, ed i nuovi sacerdoti della Storia sono prodotti in gran numero dalla nuova funzione di "rappresentanza" delle classi subal­ terne nelle forme liberaldemocratiche della gestione politica del modo di produzione capitalistico. Il "progressismo storicistico", o se si vuole lo "storicismo" tout court, non è assolutamente, come molti pensano erro­ neamente, una forma di monoteismo superiore, in quanto più "razionale" ed immanentistico, alle vecchie religioni bimondane, che almeno consen­ tivano lo "scarto" fra dottrina e applicazione. Esso è una religione idolatri­ ca, che tende irresistibilmente a santificare la bruta esistenza di ciò che di volta in volta sembra incarnare la forza del progresso. In secondo luogo, il comuniSmo aristocratico-elitario dei filosofi-re di Platone, frutto della specifica sovrapposizione del trifunzionalismo indo­ europeo su di un substrato culturale di antica origine orientale, si ripro­ duce nelle forme di azione politica e di identità ideologica dei nuovi "ceti politici" professionali prodotti dai partiti marxisti-leninisti dopo il 1917. Così come nella Repubblica platonica la legittimazione del mono­ polio del governo politico non era clata dall'elezione democratica, pos­ sibile fonte di ingiustizie demagogiche, ma si basava sul monopolio delle conoscenza "scientifica" delle idee-numeri e delle idee-valori (cioè della scienza e della morale sociale), analogamente nei partiti marxistileninisti la legittimazione al monopolio del governo politico della socie­ tà "socialista” di transizione dal capitalismo al comuniSmo è data dal monopolio spirituale della conoscenza del materialismo storico e del materialismo dialettico, sottratti entrambi ad ogni libera discussione pubblica ed eretti a dogma sacerdotale su cui è sovrano solo il Partito, o meglio le sue istanze dirigenti. In Platone, così come nel marxismoleninismo (ma non certo in Marx, che non c'entra nulla, a differenza di come vergognosamente sostenuto dall'ignorante Popper nel suo paralle­ lo superficiale di Marx e Platone), si è di fronte ad una religione filosofi­ ca parallela, la dottrina bimondana delle idee ed il materialismo storico­ dialettico, che sostituisce in entrambi i casi la casualità e la contingenza della legittimazione "elettorale" del potere politico con la falsa sicurezza della identità fra comando e sapere. Simili società sono statiche e non

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possono trovare in se stesse elementi di trasformazione e di salvezza, ma possono dar luogo soltanto a fenomeni di "decadenza" e di implo­ sione-esplosione. In un libro della Repubblica Platone ha il coraggio di parlare delle forme di decadenza progressiva della sua società perfetta (dalla timocrazia alla tirannide), mentre un simile coraggio è mancato al marxismo-leninismo, nei cui manuali è sempre mancata una teoria pa­ rallela delle possibili forme degenerative del "socialismo scientifico". Quando quest'ultimo è stato colto da una malattia degenerativa mor­ tale, il burocratismo come morbo di Alzheimer del comuniSmo nel suo ultimo stadio dissolutivo, il materialismo dialettico non disponeva nep­ pure di un capitolo (che sarebbe stato del resto inutile) dedicato alle proprie patologie organiche. La conclusione che ne traiamo è che le élites di origine popolare, operaia e proletaria sono filosoficamente inferiori alle élites prodotte dai gruppi guerrieri e sacerdotali delle tribù indoeuro­ pee nel loro periodo di sviluppo, e producono quindi concezioni filosofiche meno articolate e più rozze. Preghiamo il lettore di prenderci alla lettera. Purtroppo, non stiamo affatto scherzando, come sinceramente vorremmo. In terzo luogo, infine, il comuniSmo contadino-artigiano degli albori della rivoluzione industriale, basato su di un modello ascetico-egualitario del consumo sociale, che si intende "conformare" ai veri bisogni della na­ tura umana non corrotta dal lusso e dalla frivolezza, ritorna irresistibil­ mente nelle forme di moralismo, pauperismo, miserabilismo, populi­ smo, eccetera, oltre che nei ricorrente sospetto verso le forme di con­ sumo capitalistico, ritenuto capace di integrare e di corrompere l'originaria rivoluzionarietà "pura" della classe operaia e proletaria. Queste forme re­ gressive, che nulla hanno a che fare con Marx (il quale non si aspettava il comuniSmo dalla miseria, ma dalle contraddizioni dello sviluppo e della ricchezza capitalistici), sono state nel concreto le forme ideologi­ che dominanti nella coscienza comune della stragrande maggioranza dei militanti, dei simpatizzanti e degli elettori dei partiti che si richiamavano formalmente al marxismo o al marxismo-leninismo. Chi scrive non ha nulla a che vedere con l'apologià post-moderna delle forme di consumi­ smo capitalistico, al contrario. Qui si è però di fronte a qualcosa di mol­ to più strutturale, che consiste nel fatto che i contenuti economici del "comuniSmo" che veniva evocato come la fine provvidenziale della sto­ ria, lungi dall’essere "ricavati" (come era il caso di Marx) da una sorta di orizzonte di ricchezza nelle capacità e nei bisogni, erano ricavati da una sorta di proiezione ascetica e moralistica (segretamente religiosa, e se­ gnatamente religioso-pauperistica) di un "consumo minimo" livellato e garantito a tutti i sudditi egalizzati dalla monarchia comunista. Cono­ sciamo ovviamente le ragioni storiche di questo fatto, che si compen­

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diano tutte nello scoppio delle rivoluzioni anticapitalistiche nei punti deboli della catena mondiale imperialistica, e non nei punti alti dello sviluppo capitalistico. Resta comunque il fatto che il comuniSmo del fu­ turo è stato di fatto "mediato" culturalmente con il comuniSmo ascetico pauperistico del livellamento integrale forzato. il "ritorno del rimosso" di cui abbiamo parlato in questo primo capi­ tolo è un fenomeno storico-filosofico di prima grandezza. Esso deve es­ sere il punto di partenza per ogni analisi spregiudicata sul comuniSmo di oggi, per far sì che il morto (per usare l'espressione di Marx) non si at­ tacchi al vivente e non lo distrugga. Alla luce di questa consapevolezza è possibile anche scoprire qualcosa di nuovo in un pensiero come quello di Marx, in cui sembra che sia stato ormai detto tutto, e non vi sia più nulla di nuovo da scoprire.

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IL COMUNISMO DI MARX NELLE SUE DIMENSIONI METAFISICHE, EPISTEMOLOGICHE E IDEOLOGICHE IL CUORE DEL PROBLEMA NEI SUOI TRATTI ESSENZIALI

Marx è un pensatore dell'epoca della prima rivoluzione industriale, un orizzonte storico ormai integralmente trascorso. L'epoca della prima rivoluzione industriale (nata in Inghilterra e diffusasi con modalità irri­ petibili e specifiche in Francia e in Germania, in Belgio e negli Stati Uni­ ti) è un'epoca di sottomissione formale e non ancora reale, sia della borghesia che del proletariato al modo di produzione capitalistico. Il "miracolo teorico" chiamato Karl Marx non sarebbe stato possibile senza l'esistenza sociale di un proletariato e di una borghesia non ancora sot­ tomessi in forma reale al modo di produzione capitalistico. Quella della prima rivoluzione industriale è un’epoca di libero scambio, in cui il libe­ ro scambio stesso funzionava da premessa ad una concezione cosmopo­ litica (per la borghesia) ed internazionalistica (per il proletariato) che venne sostanzialmente meno con il passaggio (statalistico e protezioni­ stico) alla seconda rivoluzione industriale, epoca storica dell'età d'oro del movimento operaio e socialista e poi del comuniSmo storico nove­ centesco. Da un lato, la borghesia non era ancora una classe sottomessa in modo reale alla riproduzione anonima ed impersonale del modo di pro­ duzione capitalistico. Sul piano economico, nonostante la grande impor­ tanza già assunta dal capitale bancario ed ancora mantenuta dalla pro­ prietà terriera parzialmente precapitalistica, non era ancora avvenuta quella scissione fra proprietà e direzione d'impresa, titolo giuridico di possesso e management, eccetera, che comincia a connotare la seconda rivoluzione industriale e diventerà nella terza un elemento strutturale e fondante del panorama sociale e produttivo. Sul piano politico esisteva ancora una separazione visibile fra liberalismo e democrazia, che faceva della borghesia una classe sociale fondamentalmente liberale ma non democratica, favorevole al costituzionalismo ma ostile al suffragio uni­ versale, visto come il luogo di un possibile scardinamento rivoluzionario dell'intero sistema sociale proprietario. Sul piano culturale la borghesia

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era ancora immersa in quel particolare clima prodotto dalla mescolanza di illuminismo e di romanticismo in cui si tendeva ancora a dare alla "modernità" un significato morale unitario, ed in cui l’arte e la letteratu­ ra erano ancora inserite in una totalità espressiva in cui era immersa la vita quotidiana. Dall’altro lato, il proletariato conservava una autonomia sociologica e culturale rispetto alla produzione capitalistica complessiva, di cui oggi non abbiamo neppure più idea. Sul piano economico, la sostanziale mancanza del welfare state, cioè di una rete di protezione sociale, lo faceva vivere in una situazione esistenziale quotidiana molto precaria, ma lo rendeva anche molto più forte rispetto ai meccanismi corporativi della spesa pubblica e della sua erogazione, dipendenti sempre in ultima istan­ za dalla solidità capitalistica ed imperialistica del proprio stato nazionale e della sua collocazione nel mercato mondiale. Sul piano politico, la ri­ vendicazione democratica del suffragio universale non dava luogo ad un mondo di "illusioni sovrastrutturali" nel cielo della politica, ma era diret­ tamente carica di significato sociale rivoluzionario, dal momento che la riproduzione del mondo borghese dell'epoca era semplicemente incom­ patibile con il suffragio universale, che fu concesso (o meglio, concessoottenuto, in una complicata dialettica di lotta rivendicativa e di sapiente riformismo dall'alto) soltanto quando il suo orizzonte divenne la inte­ grazione proletaria nello stato capitalistico ed imperialistico della se­ conda rivoluzione industriale (da Bismarck a Disraeli, dalla terza Re­ pubblica francese a Giolitti). Sul piano culturale, l'inesistenza di una ve­ ra cultura di massa manipolata dall'alto, ed il permanere di una cultura popolare comunitaria, sostanzialmente precapitalistica, facevano sì che il proletariato restasse un agglomerato sociale ancora parzialmente "esterno" alla riproduzione capitalistica. Abbiamo utilizzato i concetti di sottomissione formale e reale al di fuori del semplice processo produtti­ vo di fabbrica, e crediamo in questo modo di essere rimasti all’interno del raggio concettuale marxiano, per cui il modo di produzione non deve essere connotato in termini tecnologico-produttivi (come se il modo di produzione fosse un "substrato tecnico" su cui "scorrono" la macchina a vapore ed il taylorismo, il fordismo e il toyotismo, eccetera) ma inte­ gralmente sociali. E questo non può che portarci alla segnalazione di come Marx sia stato prima di ogni altra cosa lo scopritore della nozione di modo di produzione, e che a questa nozione deve essere ferreamente correlato anche il suo "comuniSmo". Marx pensa infatti il capitalismo e il comuniSmo con un solo, unico movimento del pensiero. A rigore, questa formulazione linguistica non è del tutto esatta, e bisogna fare attenzione alle parole che usiamo, perché il diavolo si nasconde nel dettaglio, o meglio il diavolo del fraintendi-

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mento si nasconde nel dettaglio dell'imprecisione. Marx pensa il comu­ niSmo a partire dalla nozione di modo di produzione capitalistico ed il "comuniSmo" diventa in lui una determinazione (Bestìmmung) che ha co­ me condizione (Bedingung) il modo di produzione capitalistico stesso, inteso sia nel suo processo presente di sviluppo (il "movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti") sia nella sua teleologia imma­ nente, che porta ad una socializzazione delle forze produttive che rende ontologicamente possibile ed assiologicamente desiderabile una società in cui ciascuno potrà dare secondo le proprie capacità e ricevere secon­ do i propri bisogni. Senza una nozione di modo di produzione capitali­ stico, il "comuniSmo" è letteralmente impensabile, o meglio è pensabile e desiderabile soltanto nella modalità dei comuniSmi precapitalistici, basati sulla volontà di Dio o sulla conformità ad una natura umana con­ cepita staticamente. Cogliamo l'occasione per chiarire ancora una volta che in Marx l'ateismo, il materialismo e la dialettica sono sempre e soltanto orizzonti teorici comprensibili nello stretto contesto del suo rifiuto dei comuniSmi precapitalistici. Marx non è "ateo" perché gli interessa ripete­ re ad ogni piè sospinto che non esiste una sopravvivenza dell’anima in­ dividuale dopo la morte del corpo, che l'universo non è stato progettato, creato e messo in movimento da un'entità soprannaturale cosciente, e che infine bisogna rinunciare ai piaceri drogati della religione intesa come "oppio del popolo" (oppio che è comunque un anestetico, non cer­ to un eccitante), ma è ateo perché gli occorreva chiarire che non può esistere un "raddrizzamento sociale egualitario" del mondo per opera di una volontà divina rivelata ad un profeta e concretizzata da un messia in cui questa divinità si è "incarnata". Marx non è "materialista" perché è ossessionato dalla priorità del corpo rispetto allo "spirito", e perché i desideri e i bisogni carnali abbiano la precedenza rispetto alle norme morali introiettate da un’educazione autoritaria, ma è materialista per­ ché ritiene l'"idealismo" (nella forma proposta da Hegel, non in quella sostenuta da Platone) un'ideologia filosofica di legittimazione di un po­ tere politico-sociale di minoranza, che può naturalmente assumere le forme storiche più diverse, dall’aristocrazia dei filosofi-re platonici fino alla burocrazia prussiana, infine, Marx non è "dialettico" perché intende in modo programmatico e aprioristico ricollegarsi al metodo di Hegel, ma perché, posto di fronte al concreto problema di pensare insieme l’unità di produzione, distribuzione e consumo in formazioni economicosociali fortemente differenziate nel tempo e nello spazio, giunge alla conclusione che i bisogni umani non possono essere "dedotti" meccani­ cisticamente da una sottostante natura umana immutabile, ma non pos­ sono che risultare da cambiamenti qualitativi che investono la totalità delle relazioni sociali.

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È questo a nostro avviso il punto essenziale da cogliere: il comuni­ Smo marxiano ha come presupposto il modo di produzione capitalistico. Si tratta di un’assoluta ovvietà metodologica, nota a migliaia di studiosi di marxismo, economia e filosofia. Se però riteniamo opportuno ripeter­ la con tanta enfasi, è perché vi sono tantissime persone che si dichiara­ no ingenuamente non solo "comunisti" ma addirittura "marxisti", che ri­ tengono di poter sapere (o almeno intravedere) che cos’è il comuniSmo e che dicono di volerlo propiziare, auspicare o addirittura "realizzare" senza assolutamente provare un corrispondente interesse per la conoscenza del modo di produzione capitalistico in cui vivono, che giudicano sistemati­ camente in modo religioso, morale o addirittura esistenziale, ed in cui credono talvolta di poter orientarsi sulla base di luoghi comuni giornali­ stici e di identità di tipo populistico, miserabilistico, plebeistico e triba­ le. Dal loro "comuniSmo” mi guardi Iddio, che dai capitalisti mi guardo io (mai come in questo caso un proverbio coglie tanto nel giusto!).

i. Il marxismo di Marx e la differenza tra ricostruzione e coerenlizzazione Marx era già "marxista" o il marxismo successivo lo ha frainteso e sfi­ gurato? Nel prossimo paragrafo ci ingegneremo a mostrare che questo modo di porre il problema è radicalmente falso e fuorviante e che non ha nessun senso continuare a porlo e riproporlo. Marx non aveva infatti "coerentizzato" il suo pensiero prima di morire (nel 1883), ed anche se lo avesse coerentizzato il suo pensiero non sarebbe stato adatto a diventa­ re un riferimento ideologico per il movimento operaio e socialista, per ragioni che dettaglieremo tra poco. La "coerentizzazione" effettuata da Engels (e proseguita da Kautsky, Plechanov, eccetera) era a nostro avvi­ so la sola forma ideologica possibile che potesse adattarsi alla costitu­ zione in partito politico indipendente di una classe che a nostro avviso non ha, e non può avere, le capacità universalistiche necessarie per supe­ rare nella sua interezza il modo di produzione capitalistico. Il "marxismo" non è dunque in nessun modo un "tradimento" del pensiero di Marx. Il "marxismo" è stato storicamente il solo modo possibile con cui l'idea comunista (moderna) poteva manifestarsi nell'epoca della seconda rivo­ luzione industriale, dello stato nazionale imperialistico, delle due guerre mondiali novecentesche, della costruzione di un sistema di stati sociali­ sti, della formazione di partiti popolari di massa, eccetera. Nel prossimo capitolo mostreremo come il " marxismo" (inteso come somma di marxi­ smi differenti) ha attuato una fusione specifica di contenuti ideologici precapitalistici (il "ritorno del rimosso" di cui abbiamo parlato nel pre­ cedente capitolo) e di generalizzazioni estrapolate dal privilegiamento di

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uno spazio ideologico che era stato effettivamente di Marx, un privilegiamento che metteva in secondo piano, fino a farli diventare praticamente irrilevanti, gli altri due spazi teorici marxiani, quello metafisico e quello epistemologico (di cui parleremo tra poco). Ritorniamo ora a Marx. Noi pensiamo che Marx non possa essere "ricostruito" se non su un piano meramente estrinseco, biografico, erudi­ to. Marx non può essere "ricostruito" per il semplice fatto che nei sessantacinque anni della sua vita egli mutò spesso posizione, e riformulò i problemi in modo tale da modificare qualitativamente le soluzioni via via proposte. La vita di Marx forma una armonica unità coerente, ma la forma appunto soltanto se questa armonica unità coerente viene indivi­ duata nella ricerca continua e nella modificazione ininterrotta delle pro­ prie formulazioni. Facciamo in proposito un solo esempio. Da un lato, ci sono decine di passi in cui Marx ripete che il comuniSmo è possibile sol­ tanto sull'esclusiva base dello sviluppo capitalistico, e che ogni passag­ gio diretto dalla comunità precapitalistica al comuniSmo è escluso. Dall'altro, non appena gli si prospetta l'ipotesi che la comune rurale rus­ sa possa servire da base diretta per il passaggio a forme socialiste di produzione e di consumo, Marx non lo esclude, ma anzi ne ammette esplicitamente la possibilità. In questa "incoerenza" non vediamo asso­ lutamente alcuna colpa, ma esclusivamente un fisiologico atteggiamen­ to di ricerca continua. Non ha infatti senso cercare di "coerentizzare" la biografia scientifica di Marx. Siamo disposti a concedere, sia pure con­ trovoglia, che può avere un minimo di senso "periodizzare" l'evoluzione del pensiero di Marx, purché non si attribuisca a questa periodizzazione un valore in qualche modo "scientifico". Ci riferiamo alla ben nota pro­ posta di Louis Althusser, avanzata alla metà degli anni Sessanta, secon­ do cui vi sarebbe stata ad un certo punto della vita di Marx una "rottura epistemologica", che avrebbe segnato il passaggio da un Marx romanti­ co, idealista, naturalista e giovane hegeliano ad un Marx veramente scientifico ed ormai privo di categorie filosofiche che non fossero rigoro­ samente epistemologiche. Consideriamo la proposta althusseriana un episodio storicamente determinato di una lotta ideologica in una congiun­ tura politica ormai integralmente tramontata, che si serviva (peraltro le­ gittimamente) della filologia marxiana per scopi non filologici, ma inte­ gralmente politici, la riforma (rivelatasi impossibile) del comuniSmo storico novecentesco in preda ad una malattia rivelatasi mortale. Questa proposta di Althusser deve dunque essere giudicata, così come la pro­ posta contemporanea e convergente di Gyòrgy Lukàcs di separare meto­ dologicamente tutto il pensiero di Marx (ritenuto ricuperabile nella sua interezza) da quello di Engels (ritenuto invece errato, perché ispirato non ad un'ontologia dell'essere sociale ma ad un materialismo dialetti­

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co), qualcosa di assolutamente inessenziale per il problema che ci inte­ ressa in questa sede, che è quello del nesso fra modo di produzione ca­ pitalistico e comuniSmo di Marx. È necessario, in proposito, abbandonare risolutamente la via della "ricostruzione" per una via alternativa, che definiremo della "coerentizzazione". Bisogna infatti costruire un modello coerente dell'apparato concettuale di Marx a proposito del nesso fra modo di produzione capitalistico e comuniSmo, al di là delle oscillazioni terminologiche che lo stesso Marx ebbe nel corso della sua vita. Un simile tentativo di coerentizzazione è già stato svolto, in forma indipendente dalla nostra (ed a nostro avviso convergente nei suoi tratti essenziali), da Gianfranco La Grassa nel saggio seguente. Possiamo dunque trascurare per brevità molti rilievi sulla struttura del modo di produzione capitalistico secondo Marx, per proporre un ap­ proccio in due momenti distinti: la rilevazione di un modello unitario che "ricava" le determinazioni del comuniSmo dalle categorie modali del capitalismo stesso, in primo luogo; e la distinzione all'interno del pen­ siero "coerentizzato" di Marx di tre distinti spazi teorici, che denomine­ remo rispettivamente metafisico, epistemologico ed ideologico, secondo una griglia di significati teorici che cercheremo di dare volta per volta, in secondo luogo.

li. Il modello marxiano della transizione necessaria dal capitalismo al comuniSmo Se coerentizziamo il modello marxiano classico di comuniSmo, giun­ giamo alla seguente conclusione: la socializzazione capitalistica crescen­ te delle forze produttive sociali comporta necessariamente la generaliz­ zazione di rapporti sociali capitalistici di produzione caratterizzati da una contraddizione fra carattere sempre più sociale della produzione e carat­ tere sempre più privato dell'appropriazione, la cui teleologia immanente è la genesi progressiva di un orizzonte comunista, che si concretizza at­ traverso la sinergia convergente di lotte di classe sempre più coscienti e di una produzione sociale sempre più cooperativa. Questa formulazione "coerentizzata" è ben nota, e non intendiamo attribuirle alcuna originali­ tà interpretativa. In questo caso, il diavolo si nasconde nel dettaglio, cioè nel modo di interpretare alcune delle nozioni classiche citate nella formulazione data. Questa formulazione marxiana, che deriva la possibilità ontologica di un lieto fine della storia (il comuniSmo) dallo sviluppo immanente di una negatività apertamente riconosciuta come tale (lo sfruttamento ca­ pitalistico e la sua generalizzazione all'intero pianeta), è un episodio maturo e moderno di una lunga tradizione filosofica e religiosa di tipo

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provvidenzialistico. Si tratta, in breve, di una teodicea laicizzata. Il pen­ siero provvidenzialistico non deve essere naturalmente confuso con un generico "ottimismo", categoria non storico-filosofica, ma semplicemen­ te psicologico-esistenziale (si può essere infatti personalmente "ot­ timisti" e non credere affatto in un esito positivo della storia, così come si può essere personalmente "pessimisti" e crederci intensamente). Il provvidenzialismo implica infatti l’aperto riconoscimento della funzione necessaria del "negativo" nella storia, e questo è riscontrabile sia nei modelli di origine religioso-apocalittica basati sul ciclo creazione-cadutaredenzione, sia nei modelli di origine illuministico-romantica, come quello della filosofia della storia di Hegel. La filosofia della storia di Marx è in questo senso pienamente provvidenzialistica, perché implica che proprio la dolorosa generalizzazione dell'estorsione capitalistica del plusvalore è la premessa della costituzione di una società comunista. 11 termine "socializzazione delle forze produttive" non deve ovviamente es­ sere inteso in senso riduttiva mente economicistico o tecnologico. Dal momento che la principale forza produttiva è l'uomo stesso nella sua interezza psicologica ed antropologica, la socializzazione di questa forza produttiva decisiva implica sopra ogni altra cosa l'aumento del controllo cosciente sulla divisione sociale e tecnica del lavoro, ed è invece incom­ patibile con il semplice aumento della produttività tecnica di apparati automatizzati. Sebbene in Marx vi siano su questo punto oscillazioni non solo terminologiche ma anche concettuali, dovute alia indubbia fa­ scinazione che su di lui esercitò in un certo periodo la scoperta del "macchinismo capitalistico" in quanto tale, bisogna riaffermare che se­ condo Marx resistenza di un sistema di robot guidati da computer, che nei film di fantascienza o di fantapolitica guidano l'intera produzione sociale senza l'intervento del lavoro umano, non avrebbe configurato af­ fatto un progresso nella socializzazione delle forze produttive. Socializ­ zazione delle forze produttive è sempre per Marx aumento del controllo cosciente dei produttori sulle modalità sociali e tecniche della produ­ zione. Qui vi è, naturalmente, un punto problematico della teoria di Marx, che si tratta di evidenziare apertamente. Da un lato, infatti, feno­ meni come il taylorismo, il fordismo e il toyotismo sono indubbiamente manifestazioni di progressiva e crescente socializzazione capitalistica delle forze produttive, cioè di indiscusso aumento della sottomissione reale del lavoro al capitale. Dall'altro, questi stessi fenomeni non sono per nulla manifestazioni di socializzazione (senza aggettivi) delle forze produttive, perché non socializzano, ma anzi desocializzano, la capacità umana concreta ripetutamente definita da Marx "onnilaterale", di padro­ neggiare la produzione sociale. Siamo qui evidentemente nel cuore della questione, non solo, ma anche (diciamolo francamente) nel "difetto" del

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sistema di Marx. Si tratta di un difetto del tutto comprensibile ed anche scusabile, se pensiamo che la teoria marxiana delle forze produttive è stata elaborata p r im a della seconda rivoluzione industriale, che ha visto per la prima volta un impiego massiccio e pianificato della scienza nella produzione. È però un difetto cruciale, perché la teoria marxiana del comuniSmo si basa incontestabilmente sul fatto che la socializzazione capitalistica delle forze produttive è l’anticamera temporale della socia­ lizzazione comunista di esse. Questo difetto cruciale si manifesta ovvia­ mente anche nella considerazione marxiana del "lato soggettivo e co­ sciente" delle forze produttive stesse, la classe operaia della grande pro­ duzione moderna intesa come avanguardia sociale e politica dell'intero proletariato. Da un lato, la classe operaia è vittima non solo dell'estorsione del plusvalore assoluto e relativo, ma anche della crescente sottomissione del lavoro al capitale, che è appunto la manifestazione massima e prin­ cipalissima della socializzazione capitalistica delle forze produttive. Dall'altro, questa stessa classe operaia resta sostanzialmente il soggetto collettivo cosciente del processo di socializzazione (senza aggettivi) delle forze produttive stesse, ed è appunto questa caratteristica positiva che le permette di essere il "lato attivo", rivoluzionario, del rapporto ca­ pitalistico di produzione. In questa duplicità, e non certo in semplici istanze egualitarie di tipo filosofico o religioso, sta per Marx il fonda­ mento materiale del comuniSmo. Lo stesso carattere sempre più "privato", borghese-capitalistico, dell'appropriazione, resterebbe un semplice dato scandaloso sul piano morale (come nelle società precapi­ talistiche e nei comuniSmi tipici di esse descritti nel primo capitolo di questo saggio), e tutto finirebbe lì, se non ci fosse la garanzia del solido, salvifico e potente carattere sempre più sociale della produzione. È que­ sta, non ci stancheremo mai di ripeterlo, la so la garanzia dialettico­ materialistica che Marx dà per il suo comuniSmo, il comuniSmo di Marx è allora, congiuntamente ed inscindibilmente, l'esito immanente e ter­ minale del processo di socializzazione capitalistica. Con l'espressione "esito immanente terminale" si vuole indicare che in Marx non c'è sepa­ razione ontologica tra processo e fine, ed il comuniSmo è allora in sie m e un esito immanente, dunque già presente qui ed oggi (il "movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti"), e l'esito terminale, che in­ vece non esiste ancora qui ed oggi (la società in cui ognuno darà secon­ do le sue capacità e riceverà, o meglio "preleverà", secondo i suoi biso­ gni). È importante capire bene la compresenza di esito immanente e di esito terminale, perché in caso contrario si cade in una concezione che separa processo e fine, e consente allora di rimandare il "comuniSmo" nelle nebbie di un lontanissimo e sempre più improbabile futuro, men­ tre il presente è invariabilmente gestito secondo modalità sociali e poli-

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tiche provocatoriamente non comuniste. Ciò del resto è quanto avvenne sistematicamente nel comuniSmo storico novecentesco, di cui parlere­ mo più diffusamente nel terzo capitolo di questo saggio. Ci troviamo allora di fronte ad un paradosso, che a nostro avviso deve essere messo al centro della discussione contemporanea. In breve, quella che a Marx legittimamente sembrava la garanzia materiale più forte del suo comuniSmo, la padronanza operaio-proletaria della socia­ lizzazione crescente delle forze produttive, si è dimostrata in realtà una garanzia debole, ed addirittura infondata. È questa a nostro avviso la ve­ ra ragione strutturale, epocale, del declino apparentemente irreversibile del pensiero di Marx in un'epoca come la nostra, in cui sembrerebbe in­ vece che dovrebbero sussistere ragioni profonde per una sua ulteriore fioritura, tenendo conto delle feroci condizioni sociali ed economiche in cui le oligarchie imperialistiche tengono l'intero pianeta, Le ragioni che sembrano fenomenicamente (e superficialmente) alla radice del declino del marxismo, come il passaggio di campo generazionale di ex-studenti arrabbiati nel campo del capitale finanziario, oppure la delusione di in­ numerevoli ex-militanti di fronte alle inaudite manipolazioni degli appa­ rati professionali dei partiti e degli stati socialisti e comunisti, eccetera, sono in realtà ragioni secondarie, anche se sussistenti. La chiave di tutto sta invece nel fatto che l’orizzonte comunista sembra svuotarsi di consi­ stenza di fronte alla traumatica scoperta della generalizzazione di una socializzazione capitalistica del lavoro che non sembra assolutamente produrre i famosi "becchini" del capitalismo. In proposito, tutti i discorsi sulla cosiddetta "integrazione" nel sistema della classe operaia, che sa­ rebbe stata "imborghesita", cioè corrotta, mediante il "consumismo", lo sport e la televisione, e via straparlando non sono che rigurgiti morali­ stici provenienti sotterraneamente dai codici ideologici dei comuniSmi precapitalistici, come se la "classe operaia" avesse dovuto conservare una sorta di purezza morale, garante della sua titolarità messianica di un comuniSmo austero, egualitario e livellatore. Marx avrebbe riso di questi discorsi sulla "integrazione nel sistema" mediante le utilitarie, le lavatrici, i supermercati, le offerte speciali, le discoteche ed i mutui per l'alloggio in proprietà, per il semplice fatto che la radice della contraddizione capitali­ stica era da lui vista in termini produttivi, non distributivi. Il "difetto” della sua teoria non può dunque essere nascosto con il pretesto di non "turbare" i fedeli, cioè i militanti. Nello stesso tempo, il pensiero di Marx contiene una specifica "eccedenza" rispetto al suo difetto strutturale, che occorre conoscere nelle sue tre articolazioni fondamentali.

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III. Lo spazio metafisico del pensiero di Marx In Marx esiste uno spazio metafisico del suo pensiero, o se si vuole una "metafisica influente", che occorre conoscere nei suoi termini esatti. Con il termine "metafisica" non si allude qui al significato tradizionale del termine, che ha avuto un'origine aristotelica per poi slittare pro­ gressivamente in un campo semantico spiritualistico, secondo il quale la "metafisica" è la trattazione dell’Essere trascendente opposto a quello immanente, per cui c’è "metafisica" soltanto quando siamo di fronte ad un universo di tipo bimondano, cioè divino/umano. Questo termine è invece qui impiegato in un senso simile a quello impiegato da Martin Heidegger, per cui metafisica non è la descrizione delle strutture immu­ tabili del mondo celeste, ma l'individuazione, storicamente determinata, delle modalità prevalenti con cui gli enti si presentano sullo scenario storico della temporalità. Marx è dunque a tutti gli effetti un pensatore "metafisico" (come tutti, del resto) per il semplice fatto che nel suo pensie­ ro l’ente naturale generico (cioè l'umanità) si presenta caratterizzato da un impulso alla libertà, o meglio alla liberazione integrale dalle estranea­ zioni, che si manifesta a sua volta come opposizione alla diseguaglianza e tensione ad una "eguale libertà" di libere individualità. Questa è una metafisica a tutti gli effetti, perché non è ovvio per nulla che l'impulso alla libertà sia una caratteristica dell'ente naturale generico. Si possono infatti fare affermazioni altrettanto "metafisiche" di segno assolutamente opposto, che presuppongono, oppure che giungono alla conclusione che l'ente naturale generico è caratterizzato da una tendenza irresistibile alla sicurezza, in nome della quale si possono tranquillamente accettare forme di dispotismo, gregarismo, gerarchizzazione "rassicurante”, eccete­ ra (e da Thomas Hobbes ad Arnold Gehlen vi sono pensatori di prima grandezza che sostengono, con ottimi argomenti, tesi "metafisiche" del genere). La metafisica di Marx è quindi una metafisica della libertà, non dell’eguaglianza (che è invece il principio metafisico fondamentale e dominante dei comuniSmi precapitalistici). Più esattamente, è una meta­ fisica di una pratica individuale egualitaria della libertà. Questo principio metafisico marxiano non è però un presupposto arbitrario, una "scelta originaria" compiuta fra molte altre possibili, ma è una "espansione filoso­ fica" della teoria della specificità del modo di produzione capitalistico, il primo modo di produzione della storia umana che attua una integrale li­ berazione "formale” degli individui ridotti a portatori "astratti" di forzalavoro e quindi "asserviti" al dominio dei capitalisti, ma nello stesso tempo anche "liberati" dai vincoli organici di tipo castale, schiavistico e feudale.

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La genesi storica di questo principio metafisico della libertà non è affatto operaia o proletaria, ma è integralmente borghese. Sebbene ciò possa apparire a prima vista strano e scandaloso, non vi sono dubbi che Marx è al 100% un pensatore filosoficamente "borghese"; non solo, ma è addirittura un episodio della storia dell'individualismo borghese mo­ derno. Nel terzo capitolo ovviamente chiariremo le ragioni inesorabili per cui un pensatore la cui metafisica filosofica era integralmente bor­ ghese e individualistica dovette essere trasformato in pensatore proletario e collettivista, e come questa trasformazione, abbozzata da Engels, Kautsky e Plechanov, e realizzata da Lenin, Stalin e Trotskij, non sia stata affatto un fraintendimento compiuto per ignoranza e/o malafede, ma sia stato un "imperativo sistemico" assolutamente inevitabile. Per ora basti ribadire che Marx, proprio per il fatto che il suo pensiero filosofico non si sareb­ be neppure mai costituito se non avesse rotto con le fondazioni eguali­ tarie e livellatrici dei comuniSmi precapitalistici, era costretto ad assu­ mere, in aperta polemica con queste ultime, il principio borghese rivo­ luzionario della libertà come fondamento ontologico ed antropologico primario. Naturalmente è necessario richiamare alla memoria il fatto che questo principio borghese rivoluzionario di libertà non aveva nulla a che vedere con ciò che spesso oggi è specificatamente definito "libertà", cioè l'arbitrio incondizionato del volere individuale rispetto alle scelte delle forme di vita, oppure la mancanza di ogni limite rispetto alla pro­ duzione e alla circolazione di merci prodotte dalle oligarchie capitalistiche (che nella nostra terminologia non sono per nulla definibili come "borghesia", e neppure come forma contemporanea di esistenza della borghesia). La concezione borghese-capitalistica di libertà, fondamento metafisi­ co della concezione marxiana del comuniSmo come società di libere in­ dividualità (secondo la formulazione del noto brano dei Grundrisse in cui Marx distingue tra dipendenza personale, indipendenza personale e libe­ ra individualità) si costituisce progressivamente nell’epoca moderna sulla base di una teoria della personalità integrale, in cui "l'atto libero" non è il presupposto, ma il punto d'arrivo di una formazione armonica dell'in-dividuo. Non è un caso che Hegel sia riuscito a dare una formu­ lazione insuperabile di questa teoria con la sua distinzione "dialettica” fra In Sé e Per Sé. Questa distinzione non è affatto una invenzione arbi­ traria di Hegel (che si può dunque "scegliere" di non prendere neppure in considerazione), ma è l'espressione teorica elaborata del fatto mate­ riale che l'in-dividuo, cioè l'atomo sociale svincolato dai rapporti orga­ nici di appartenenza feudale e non ulteriormente "divisibile", è comun­ que esistente in sé, lo si voglia o no, per il fatto che il nuovo modo di produzione capitalistico così lo ha costituito, e che questa esistenza in

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sé, che non può essere seriamente negata, è il presupposto di una esi­ stenza persi, che verrà però soltanto quando la libertà, intesa come l'integralità dell'autocoscienza consapevole della totalità storica e sociale, riuscirà a costituirsi progressivamente. Questo scenario metafisico non è affatto per noi "ideologico", mentre è invece ideologica (e lo diremo alla fine di questo capitolo) l'estensione compiuta da Marx della dialet­ tica fra In Sé e Per Sé dalla libera individualità alla classe operaia, che in quanto in sé sarebbe sfruttata dal capitalismo, ed in quanto per sé sarebbe invece capace di fare da base materiale al comuniSmo (la scorrettezza di questa estensione, naturalmente, è per noi dovuta al "difetto" segnalato nel precedente paragrafo, a proposito della natura della socializzazione capitalistica delle forze produttive). Marx attua dunque una estensione arbitraria, o se si vuole una proiezione ideologica, da un fatto reale (lo spazio della libertà moderna come rapporto sociale fra individualità in sé e per sé) ad un fatto illusorio (il passaggio della classe operaia da classe sfruttata a classe dirigente come garanzia materiale della transi­ zione fra capitalismo e comuniSmo). Nella metafisica marxiana lo spazio di costituzione della libera indi­ vidualità moderna si scinde dialetticamente in un "lato" della produzio­ ne, la nozione di capacità, ed un "lato" del consumo, la nozione di biso­ gni. Queste due nozioni non possono essere metodologicamente sepa­ rate, dal momento che per Marx la natura delle capacità è quella di esse­ re "onnilaterali" e quella dei bisogni è di essere "ricchi". Questi due at­ tributi non sono certo casuali. Da un lato, il fatto che le capacità umane siano onnilaterali garantisce che il progetto ontologico del superamento della divisione capitalistica del lavoro è antropologicamente possibile, e non vi sono ostacoli di principio alla sua realizzazione. Dall'altro, il fatto che la caratteristica dei bisogni umani è la ricchezza, e non una generica ed informe mancanza di limiti, garantisce che nel comuniSmo l’estinzione dello stato e del mercato non darà luogo a deliranti arbitri individuali di consumo illimitato e senza "forma", incompatibili persino con la produ­ zione sociale più abbondante. In Marx "tutto si tiene" nello spazio meta­ fisico del suo pensiero: la libera individualità si costituisce in un arco di comportamenti fatto di capacità onnilaterali e di bisogni ricchi ed artico­ lati, la capacità onnilaterale non è incompatibile con la specializzazione tipica della produzione moderna, che non può essere ridotta a "gioco" e neppure essere fatta regredire ali'artigianato, ma supera la grettezza unilaterale di questa specializzazione con una conoscenza razionale della riproduzione della totalità sociale; il bisogno ricco non è incompa­ tibile con l'autolimitazione individuale del consumo, perché la socialità comunista riuscirà a superare l'orizzonte ascetico e la frugalità coatta delle società precapitalistiche senza sfociare in una sorta di "consumismo

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comunista illimitato", in cui il bisogno non sarebbe più ricco, ma rende­ rebbe di nuovo l'uomo schiavo della sua dinamica (e qui non vi è dubbio che Marx non fa che riproporre la concezione epicurea del rapporto fra libertà, desiderio e soddisfacimento del bisogno desiderato). Lo ripetiamo ancora una volta: lo spazio metafisico del comuniSmo di Marx è quello di un pensiero radicalmente borghese e radicalmente individualistico, che prende atto dialetticamente del fatto che il "regno animale dello spirito borghese", il capitalismo, non è in grado di realiz­ zare l'impulso alla libertà dell'ente umano generico, e che è quindi ne­ cessario perseguire l'orizzonte del comuniSmo come unico orizzonte ca­ pace di unire ciò che è ontologicamente necessario (a causa dello svi­ luppo della socializzazione delle forze produttive) e ciò che è assiologicamente desiderabile (come realizzazione integrale delle capacità e dei bisogni della libera individualità)

IV. Lo spazio epistemologico del pensiero di Marx A fianco dello spazio metafisico sopra segnalato, vi è ovviamente in Marx uno spazio epistemologico caratterizzato da quel "continente teorico" (Althusser) il quale, sulla base del rilevamento delle caratteristiche specifi­ che e differenziali dei diversi modi di produzione, giunge all’isolamento me­ todologico della nozione di modo di produzione capitalistico. Sebbene Marx dica che è l'anatomia dell'uomo a spiegare l'anatomia della scim­ mia, e non viceversa (per indicare come sia il modo di produzione capi­ talistico a spiegare le caratteristiche dei modi di produzione precapitali­ stici, e non viceversa), e abbia a nostro avviso perfettamente ragione su questo punto (gli stessi rilievi fatti sulle caratteristiche dei comuniSmi precapitalistici presuppongono la chiara comprensione della natura del comuniSmo moderno, che ha come presupposto la produzione capitali­ stica), egli è storicamente partito da una teoria della successione delle formazioni economico-sociali, e soltanto dopo è approdato alla critica dell'economia politica. Gli stessi trattati specialistici di marxologia fan­ no risalire il "materialismo storico" agli anni Quaranta, e la "critica dell'economia politica” agli anni Cinquanta dell'Ottocento, in cui Marx comincia ad articolare e concretizzare la sua teoria dinamica del modo di produzione capitalistico. A differenza di come sostenne erroneamente Althusser, non esiste nella biografia di Marx una scansione temporale fra metafisica della sto­ ria e scienza della storia. I due "spazi teorici" coesistono e si intrecciano nel corso della sua intera vita, e possono essere separati e divisi (come facciamo in questo paragrafo) soltanto con un'operazione di astrazione

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metodologica. Alla domanda se quella di Marx sia o no stata "scienza", si deve rispondere che ciò dipende dal significato che si dà a questa paro­ la, e soprattutto dal canone epistemologico che si adopera per connota­ re come "scientifico" un certo tipo di sapere. Il canone di Marx, ad esem­ pio, non è di tipo empiristico. Sulla base di una metodologia empiristica non si riuscirebbe mai ad "isolare" le caratteristiche differenziali del modo di produzione capitalistico rispetto a quelli precedenti, e non si potrebbe soprattutto mai giungere alla cruciale nozione di forma del valore, che connota il fatto che il tempo di lavoro sociale medio incorporato nei beni-merci non è una caratteristica permanente ed eterna di ogni forma di produzione sociale, ma una modalità economica specifica del solo modo di produzione capitalistico. Il canone di Marx, inoltre, non è nep­ pure di tipo positivistico (a differenza di come avverrà nel marxismo suc­ cessivo), perché il nesso tra capitalismo e comuniSmo non è ricavato da "leggi" sociali estrapolate da leggi naturali considerate espressione del determinismo e della necessità, ma incorpora lo sviluppo della coscienza umana, le cui capacità ed i cui bisogni non possono essere fatti oggetto di metodologia galileiana, newtoniana o comtiana. Insomma, quella di Marx non è una Science (pronunciata all’inglese "sàiens"), perché quest'ultima si fonda su di una canone empiristico, e neppure una Science (pronunciata alla francese "siàns") perché quest'ultima si fonda su di un canone positivistico. Il modello epistemologico di Marx si avvicina semmai apparente­ mente a quello di Max Weber, con cui ha in comune il carattere modelli­ stico e costruttivistico, dal momento che in Marx la nozione di modo di produzione non intende "assorbire" in modo cannibalico tutti gli aspetti della realtà umana, ma soltanto connotare una struttura specifica, uno "scheletro" che sostiene i rapporti sociali. Nonostante la somiglianza con la tipizzazione metodologica di Max Weber, che è di tipo kantiano e non hegeliano, perché separa concettualmente ontologia ed assiologia (e proclama infatti apertamente la "neutralità rispetto al valore", Wertfreifieit), il canone epistemologico di Marx, pur essendo modellistico e costruttivi­ stico, è però radicalmente diverso da quello weberiano, per il fatto ap­ punto che in Marx esiste una fondazione teorica unitaria di ontologia e assiologia, la cui derivazione sta evidentemente nella Scienza della logica di Hegel, e non certamente nella Crìtica della Ragion Pura di Kant. Se Marx si fosse limitato ad essere un teorico "puro" del modo di produzione ca­ pitalistico, costruito e modellizzato secondo canoni non empiristici e non positivistici, e di come in esso agiscono le classi e le categorie eco­ nomiche, egli sarebbe certamente un "Weber del proletariato", così co­ me Weber è stato il "Marx della borghesia". Ma egli volle fondare in modo "scientifico" non solo l'ontologia del comuniSmo (cioè la sua presunta de­ rivazione necessaria dalla socializzazione capitalistica delle forze prò-

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duttive), ma anche la sua assiologia (cioè la sua desiderabilità sulla ba­ se di una nozione metafisica di espansione della libera individualità moderna). Tutto questo non ha nulla a che fare con la tipizzazione ed il costruttivismo di Max Weber, che sono a loro volta canoni metodologici incomprensibili senza la comprensione di nozioni come quelle di disin­ cantamento del mondo, neutralità rispetto ai valori e politeismo agona­ le dei valori stessi. Max Weber non ha mai trionfato su Marx, ma soltan­ to sul marxismo della 11 Internazionale, e non è stato tanto il "Marx della borghesia", quanto "la risposta della borghesia a Marx", una risposta in cui la borghesia si è suicidata di fronte al suo prodotto storico, il capita­ lismo, identificato con qualcosa di non più assiologicamente giudicabile in modo unitario, sulla base della premessa irrazionalistica del politei­ smo dei valori. La ferita filosofica che Weber ha aperto, naturalmente, oggi sanguina più che mai. Benché non sia scientific o scientifique nel senso dei canoni empiristico o positivistico, in Marx esiste egualmente uno spazio epistemologico che permette di conseguire conoscenze feconde ed articolate del modo di produzione capitalistico, conoscenze superiori a quelle ottenibili sulla base di un Durkheim o di un Tocqueville, di un Keynes o di uno Schum­ peter. Nel quarto ed ultimo capitolo di questo saggio torneremo in modo più dettagliato su questo punto. Lo spazio epistemologico che Marx apre, e che è parzialmente indipendente dal suo provvidenzialismo comunisticoproletario, è quello delle tendenze strutturali del modo di produzione capi­ talistico, il quale, pur essendo prima di tutto una nozione epistemologica, e non una cosa, riproduce in una certa misura la realtà sociale che intende descrivere. Questa riproduzione non è un "rispecchiamento", come suggeri­ sce la gnoseologia del materialismo dialettico, perché non si ha la registra­ zione fotografico-filmica nella coscienza della processualità di una realtà indipendente dall'osservatore, ma non è neppure un atto arbitrario dell'osservatore stesso, che "decide" di isolare nell'inesauribile complessità della realtà gli aspetti che più gli piacciono o gli interessano. Il metodo di Marx permet­ te la migliore approssimazione possibile alla società contemporanea, per il fatto che la generalizzazione planetaria della forma di merce e della divisione del lavoro "ideale” per moltiplicarla fa da "scheletro" alla centralità dei rapporti di produzione, che sono tipici del capitalismo e non a quelli politici, familiari o religiosi, tipici dei modi di produzione precedenti. Questo spazio teorico ha molto a che vedere con quello della epistéme del pensiero classico greco o con quello della Wissenschaft della filosofia idealistica tedesca e ne rappresenta a tutti gli effetti una ripresa moder­ na. Vi sono naturalmente differenze fondamentali. Nella epistéme greca, in particolare nella variante di Platone, la fondazione bimondana dell’unicità

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ontologica delle idee-numeri e delle idee-valori permetteva naturalmente di non separare, nella considerazione della realtà sociale, ciò che è cono­ scibile e ciò che è desiderabile, ma questo risultato era ottenuto a spese della storicità, ed infatti dava luogo ad un comuniSmo gerarchico, elita­ rio ed aristocratico, in cui il solo spazio possibile per la libera individua­ lità non conformista era l'espulsione dalla polis ideale. Nella Wissenscfiaft idealistica, in particolare nella variante di Hegel, la fondazione mono­ mondana della storicità permetteva di pensare integralmente l'orizzonte borghese-rivoluzionario del passaggio dall’ln Sé al Per Sé per ogni singo­ lo individuo "liberato" dalla spiacevole necessità di vendere la propria forza-lavoro per sopravvivere, ma non consentiva (se non in un certo senso "in controluce") di concettualizza re il trascendimento della società borghese stessa, in cui lo scatenamento del capitalismo appare allo stesso Hegel non come qualcosa di fisiologico, ma come qualcosa di quasi pato­ logico e comunque di controllabile dall'eticità statuale. Il canone scientifico di Marx è dunque qualcosa di assolutamente unico e singolare, che non può essere assimilato a nessuna altra epi­ stemologia passata o presente. Esso è inscindibile dalla costruzione del modello di modo di produzione, ed è inseparabile dalle categorie con cui viene indagato il modo di produzione capitalistico. Alla luce delle attuali epi­ stemologie, prevalentemente post-empiristiche e post-positivistiche, esso appare tuttora sostanzialmente solido. Le stagioni ormai trascorse del verificazionismo e del falsificazionismo si sono accanite contro varianti impoverite e semplificate dei marxismi successivi a Marx, ossessionate com'erano dall'ansia di distruggerlo. È interessante che quasi sempre non si siano mai neppure accorte dei veri difetti e delle vere debolezze di Marx, dal momento che su questo terreno (come documentano entrambi i saggi di questo libro) non si ottengono i risultati che l'anti-marxismo capitalistico vuole raggiungere sul piano ideologico, la "colpevolizzazione" di Marx dei "crimini" reali o presunti compiuti dal comuniSmo storico novecente­ sco. In proposito la vicenda anti-marxista del papa epistemologico del Novecento capitalistico, il petulante, supponente e presuntuoso Popper, è assolutamente significativa. Popper è talmente occupato a paragonare Marx con Platone e con Stalin da non accorgersi mai dei veri difetti epi­ stemologici di Marx, per il fatto appunto che la scoperta di questi difetti non serve ad eliminare lo spettro di Marx, ma può essere anzi la premes­ sa di una ripresa e di una rifondazione qualitativamente nuova dell'oriz­ zonte comunista.

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V. Lo spazio ideologico del pensiero di Marx Marx giunge quasi simultaneamente, intorno al 1845, alle nozioni di modo di produzione e di ideologia, e questo non è un caso, perché la nozione di ideologia come falsa coscienza, generalmente "organizzata", necessaria a riprodurre rapporti di classe e di sfruttamento mediante rappresentazioni non vere, e però efficaci, della totalità sociale, è ovvia­ mente correlata con la più ampia nozione di modo di produzione. 1 modi di produzione funzionano e si riproducono, sul piano "sovrastrutturale", attraverso la mediazione necessaria dell'ideologia. Come è noto, la cor­ relazione dialettica fra modo di produzione ed ideologia è uno dei "pun­ ti forti" del canone epistemologico di Marx, laddove i punti di vista em­ piristico e positivistico non riescono generalmente a "mediarsi" concet­ tualmente, ed esibiscono la loro presunta "neutralità scientifica" con in­ cosciente arroganza, in quanto a Marx, è vero che egli non pensa mai la propria produzione concettuale come potenzialmente "ideologica", ma questo avviene, in primo luogo, perché nessun pensatore riesce vera­ mente a farlo (anche il migliore chirurgo non può operare se stesso in certe operazioni), ed in secondo luogo perché egli pensa che la classe operaia e proletaria, in quanto classe che non può "concettualmente" diventare sfruttatrice di altre, ed è pertanto "universalistica" secondo il suo proprio concetto immanente, non avrà mai bisogno di elaborare ideologie giustificative del proprio ruolo oppressivo. In realtà, anche in Marx vi è uno spazio ideologico, che si tratta di individuare con esattez­ za, in modo da non cercarlo là dove non si trova. In primo luogo, lo spazio ideologico di Marx non si trova nel suo "difetto" di prognosi e di previsione evolutiva del modo di produzione capitalistico, che effettivamente non socializza le forze produttive in modalità tali da favorire il parto di nuovi rapporti comunistici di produzione, ma appro­ fondisce la scissione agonistica fra direzione ed esecuzione non solo nella fabbrica o nell'azienda, ma nell'intera società. Questo "difetto" di Marx non è per nulla ideologico, ma è un episodio interno all’impresa "scientifica" in quanto tale, che prevede fisiologicamente l’errore e la sua correzione come qualcosa di normale e di non patologico. Inoltre, nell'epoca in cui Marx visse e lavorò, cioè al culmine della prima rivolu­ zione industriale, vi erano profonde ragioni "oggettive" per sostenere quanto egli sostenne sulla possibile "padronanza" del lavoratore collet­ tivo sull'intera riproduzione sociale. Il "difetto" del paradigma concettua­ le marxiano non è dunque in quanto tale ideologico. In secondo luogo, il suo spazio ideologico non si trova neppure nella sua visione "metafisica" (in senso positivo) dell'espansione della libera individualità umana. Questa non è in nessun modo "l'ideologia" di Marx,

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por il fatto che questa concezione non può servire alla legittimazione di forme di dominio politico e sociale di cui profittano gruppi ben determi­ nati di persone, ed ancor più per il fatto che questa concezione coglie un dato reale "istituito" dal modo di produzione capitalistico. Abbiamo det­ to che la distinzione fra In Sé e Per Sé non è in nessun modo una curiosa "invenzione" di Hegel, ma è la registrazione notarile, fatta in linguaggio filosofico, che la nuova società borghese-capitalistica, dissolvendo le precedenti appartenenze "organiche" feudali, costituisce per la prima volta "in sé" un atomo sociale indipendente, l'in-dividuo, che scriviamo con il trattino per indicare che è qualcosa di non ulteriormente divisibile. Questo atomo sociale indipendente in sé è inserito in un sistema di rap­ porti e di esperienze che costituiscono uno spazio di possibilità alternati­ ve, dentro il quale si realizza la nuova esperienza della libertà in un arco che va dall'arbitrio alla consapevolezza, e che è appunto il fondamento del per sé. Facciamo notare, in proposito, che non esiste prima l’universalità, l'ente umano generico come base ontologica della individualizzazione ul­ teriore, e poi l’individualità come sua specificazione moderna, ma al con­ trario esiste prima l'individualità (sia pure ancora in sé), costituita antro­ pologicamente dalla formazione del nuovo modo di produzione capitalistico, e soltanto dopo esiste l’universalità moderna, che a differenza di quella precapitalistica non consiste in un asservimento ad una divinità monotei­ stica "comunista", cioè potente e giusta, ma consiste unicamente in una ge­ neralizzazione egualitaria, cioè "universale", della forma della libera indivi­ dualità. Abbiamo qui riassunto ancora una volta il codice filosofico, cioè metafisico, del concetto di comuniSmo in Marx, concetto che lo scriven­ te condivide nell’essenziale, e che non ha nulla a che vedere, ovviamente, con forme di totalitarismo politico, organicismo sociale, militanza sacrificale, appartenenza partitica, miserabilismo moralistico, pauperismo religioso e populismo culturale. In Marx il fondamento ontologico-antropologico unita­ rio è sempre l’individualità (che egli non si inventa arbitrariamente, ma che trova già esistente in sé nel modo di produzione capitalistico), da cui poi scaturisce l'universalità, o meglio il progetto universalistico di comuniSmo come sola possibilità di non "perdere", o meglio riperdere, l'individualità conseguita in un nuovo organicismo, cioè in una sorta di "feudalizzazione del capitalismo" (cui accenneremo nel quarto ed ultimo capitolo). Lo spazio ideologico in Marx si costituisce esclusivamente nell’operazione concettuale che estende e trasferisce lo schema del passaggio dall’In Sé al Per Sé dal solo fondamento in cui questo schema è giustificato (l'individualità e la sua natura universale) ad una soggettività sociologica ottenuta attraverso l’analogia con la borghesia intesa come classe-soggetto, il proletariato o classe operaia. Questo è lo spazio ideologico marxiano, che è tale per­ ché il proletariato, ovviamente, non è un individuo, e non può pertanto

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diventare universale. Marx postula l'universalità del proletariato a priori, come classe che non ha da perdere che le proprie catene, e cerca poi di "dimostrarne" a posteriori questa stessa universalità, inserendola ap­ punto come "parte attiva" della socializzazione progressiva delle forze produttive. In alcuni punti, Marx sembra consentire l'equazione fra la classe filosofica dei proletari, il solo "soggetto empirico" della filosofia della storia umana capace di universalismo pratico già contenuto nella sua esistenza in sé, e la classe sociologica dei salariati, cui il capitale estorce incessantemente plusvalore facendo diventare la loro condizione di "lavoratori produttivi" una "disgrazia”. In altri punti, Marx distingue salariati e proletari, individuando nella classe degli operai di fabbrica il "nucleo politicamente organizzarle" del più vasto proletariato, e sono i punti in cui Marx è più "marxista" (nel senso che daremo a questa parola nel prossimo capitolo). In ogni caso, con questa operazione (la cui erro­ neità risulta dal "difetto" prima rilevato a proposito della natura della socializzazione capitalistica delle forze produttive) si instaura uno spazio ideologico grande come un cratere lunare, in cui pùò essere messa in scena la grande narrazione ideologica di un Soggetto pieno, che garantisce con la permanenza nel tempo della sua identità iniziale la realizzazione finale del suo progetto originario. È questa la forma ideologica che già a suo tempo Spinoza seppe mettere in luce molto bene nell'appendice alla prima parte dell'Etica, in cui ricostruisce la genesi di tutto il pensiero teologico che ha teorizzato 1'esistenza di un Dio-persona, libero, dotato di attributi morali e progettista di un finalismo predeterminato. È questa la forma ideologica che ]ean-Frangois Lyotard ritiene falsificata nella odierna post-modernità, in cui di fronte a simili grandi narrazioni non ci può che essere incredulità e disincanto. Su questa base, Spinoza e Lyo­ tard hanno a nostro avviso entrambi perfettamente ragione, ed è dunque tempo perduto continuare a difendere un inesistente statuto epistemo­ logico di questa grande narrazione ideologica. Questa grande narrazione ideologica non ha nessuno statuto epistemologico serio, non è "scientifica" più di quanto lo siano Gastrologia e i tarocchi, ed è semmai una forma del "ritorno del rimosso” dei comunisti precapitalistici, in cui il monoteismo salvifico è semplicemente sociologizzato. Essa non ha neppure un respi­ ro metafisico ampio, perché non riesce a collocare in modo credibile né l'individualità né la libertà. Questa grande narrazione si mantiene sol­ tanto nella misura in cui la Classe (operaia e proletaria) ed il Partito (socialista e comunista) sembrano garantire con la loro organizzazione l'ottenimento stabile e permanente di certe conquiste individuali e sociali. Su questa grande narrazione ideologica, le cui radici sono già pre­ senti nel pensiero di Marx, ma che in Marx conserva uno spazio tutto sommato marginale (e comunque non esclusivo) a fianco dei ben più

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importanti spazi metafisico ed epistemologico, fu edificato solidamente il marxismo storico in tutte le sue varianti, da quella del movimento operaio e socialista della Seconda Internazionale a quella del comuni­ Smo storico novecentesco sorto con la Terza Internazionale, da quella dei gruppi politici "eretici" o comunque minoritari a quella sofisticata dei grandi intellettuali marxisti più o meno "indipendenti" del Novecen­ to. Di questo marxismo, che riteniamo un fatto ormai puramente stori­ co-archeologico, parleremo nel prossimo capitolo di questo saggio.

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IL COMUNISMO NEI MARXISMI STORICAMENTE ESISTITI NELL’OTTOCENTO E NOVECENTO

I. Il cuore del problema nei suoi tratti essenziali Il marxismo storicamente esistito è stato un fenomeno culturale globa­ le interno ad una "transizione capitalistica" determinata, quella che è in­ tercorsa fra la prima e la terza rivoluzione industriale. Questa "transizione capitalistica" coincide dunque quasi integralmente con la seconda rivolu­ zione industriale, non dimenticando però di precisare che il termine di "seconda rivoluzione industriale" è parzialmente riduttivo, perché biso­ gna anche aggiungervi determinazioni essenziali come il superamento imperialistico della grande depressione del 1873-1896, l'epoca delle due grandi guerre mondiali del Novecento, la colonizzazione imperialistica e la conseguente decolonizzazione con i suoi movimenti democratici di liberazione nazionale. Questo scenario storico è radicalmente diverso da quello ipotizzato da Marx, pensatore interno alla prima rivoluzione indu­ striale ed all'epoca del libero scambio dominata dal capitalismo inglese. Non ha dunque molto senso dire che il marxismo ha "frainteso" Marx. Il fraintendimento è sempre una categoria temporalmente sincronica, non diacronica, nel senso che non può mai applicarsi in orizzonti temporali diversi e distanti, ma può aver luogo soltanto fra stretti contemporanei. L'apostolo Pietro può eventualmente fraintendere Gesù di Nazareth, ma Agostino d’Ippona e Tommaso d'Aquino non possono già più farlo, dal momento che non hanno più un orizzonte temporale comune. Analoga­ mente, Engels può ancora fraintendere Marx, ma Stalin e Gramsci non possono già più farlo, per la ragione sopra indicata. Il cuore del problema di questo terzo capitolo, nei suoi tratti essen­ ziali, sta proprio nel radicale ripudio della teoria del fraintendimento, cavallo di battaglia della marxolatria di ogni tipo. Da un punto di vista puramente teorico, infatti, o se si vuole "ermeneutico", è evidente che una concezione che ha un'intenzionalità individualistica, come quella di Marx, è "fraintesa" se viene trasformata in un'ideologia livellatrice ed or­

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ganicistica, in cui "l'individuo" è denunciato come aberrazione anarchica e piccolo-borghese e se ne predica la "fusione" nel partito e nel popolo. Un simile punto di vista, però, resta del tutto astratto. Se la teoria di Marx fosse rimasta confinata nei soli spazi metafisico ed epistemologico, e non avesse assunto anche un "deplorevole" spazio ideologico, "incontrando" così il movimento operaio concretamente esistente, Marx sarebbe rimasto una sintesi fra Nietzsche e Max Weber, cioè la somma di una interpreta­ zione metafisica della sorte dell'individuo moderno nell'epoca della crisi dei fondamenti e di un canone epistemologico costruttivistico delle scienze sociali. Più esattamente, Marx non avrebbe nemmeno avuto la fortuna che ebbero invece Nietzsche e Weber, per il fatto che la piccola borghesia colta dell'epoca imperialistica non avrebbe potuto apprezzare una teoria della libera individualità di tipo egualitario e comunista, da un lato, e la nuova divisione universitaria del lavoro, base delle nuove gerarchie accademiche strettamente legate al capitale finanziario, non avrebbe saputo che farsene di un canone epistemologico che di fatto fondava in modo unitario la conoscenza della realtà sociale e la sua valu­ tazione, dall'altro. Insomma, Marx rischiava di "sparire" dalla scena cultura­ le visibile come una sorta di "ricardiano minore" nella teoria economica e come una specie inedita di "tocquevilliano di estrema sinistra" nel campo della filosofia politica. Non ha infatti senso ribadire che la teoria del va­ lore di Marx non ha nulla a che fare con quella di Ricardo e che la sua critica allo svuotamento capitalistico della democrazia non ha nulla a che fare con quella di Tocqueville. Questo è astrattamente verissimo, ma può diventare storicamente inefficace, se non trova un "portatore sociale" che si faccia carico di portare avanti questo punto di vista. Quando Marx muore nel 1883, la sua complessa interpretazione dell'impossibilità di un individualismo universalistico nel capitalismo era già morta (almeno per quella fase storica) se i "marxisti" non si fossero dati la pena di sviluppare lo spazio ideologico del suo pensiero, con una simultanea operazione di trasformazione positivistica del suo canone epistemologico. Se Marx lo avesse saputo, sarebbe stato d'accordo o no? Ecco una domanda insensata. A suo tempo Croce sostenne che la storia (anche quella delle idee) non si fa con i se e con i ma, così come i monelli della mia infanzia solevano dire che se mia nonna avesse avuto le ruote sa­ rebbe stata una locomotiva. È storicamente certo che Marx credeva nella "capacità politica della classe operaia", e dunque nella costituzione di un partito politico indipendente della classe operaia su base nazionale, e che su questo punto ebbe il noto irriducibile conflitto con Bakunin e con gli anarchici alla fine degli anni Sessanta e agli inizi degli anni Set­ tanta. Marx era dunque a tutti gli effetti un "marxista", nonostante alcu­ ne prese di posizione verbali in contrario, per il fatto che accettava con-

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sapevolmente che 11 suo pensiero potesse diventare la base "scientifica" di legittimazione di un partito politico operaio e socialdemocratico indipendente. Certo, egli rigettava quelle che gli apparivano schematiche volgarizzazioni riduzionistiche del suo pensiero, ma le riteneva anche malattie infantili destinate ad essere pienamente superate con il famoso progredire benefico ed inarrestabile della socializzazione delle forze pro­ duttive. Senza il "marxismo", questo indigesto zibaldone positivistico, il "pensiero marxiano" sarebbe oggi una curiosità dell’Ottocento "minore". Se questo è chiaro, possiamo andare avanti nel ragionamento.

II. L'ideologia socialdemocratica fra evoluzionismo e positivismo Non è un caso che fra il 1880 e il 1917, nel tempo di quel vero e pro­ prio "periodo aureo" del marxismo (secondo l’espressione di Kolakowski, che riteniamo corretta nell'essenziale) che è stato il tempo della Secon­ da Internazionale e della crescita dei partiti socialisti e socialdemocratici su base nazionale, il "comuniSmo" come nome e come cosa sparì quasi completamente per essere sostituito dal termine "socialdemocrazia". In proposito, alcuni marxolatri sostengono che questa temporanea eclisse del comuniSmo fu dovuta ad una deformazione revisionistica piccolo­ borghese, causata dalla sovrapposizione di apparati di partito sociologi­ camente non proletari e non operai a spese della "base" autenticamente operaia e proletaria (revisionismo di Bernstein in Germania, ascesa dei fa­ biani in Inghilterra, Turati in Italia, menscevismo in Russia, marxismo della cattedra, socialismo neokantiano, eccetera). I proletari e gli operai sarebbero stati spontaneamente "comunisti", mentre gli apparati organizzativi e cultu­ rali che li inquadravano e rappresentavano avrebbero trasformato questo "comuniSmo" rivoluzionario in un’innocua "socialdemocrazia", gradualista, piccolo-borghese, revisionista e precocemente "burocratica". La nostra inter­ pretazione è esattamente opposta. La classe operaia, o meglio quella par­ ticolare composizione di classe operaia prevalente nei paesi-guida della Seconda Internazionale, che erano poi spesso i paesi-guida della secon­ da rivoluzione industriale, non era per nulla "comunista" in senso mar­ xiano ed era invece pienamente "socialdemocratica" nel senso graduali­ sta ed evoluzionista del termine. La "natura comunista" della classe ope­ raia è un mito, se per "comuniSmo" si intende il comuniSmo moderno di Marx, che è un episodio maturo della storia dell'individualismo borghese­ rivoluzionario. La cultura "diffusa" della Seconda Internazionale (come do­ cumenta ad esempio il recente libro di Marc Angenot, L’utopie collectiviste. Le grand rèdi socialiste sous la Deuxième Internationale, Puf, Paris 1993) era una cul­ tura basata sull'odio verso la libertà e l'individualismo, un'evocazione

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permanente di una "utopia collettivista" di tipo populistico ed organicisti­ co, che perseguiva una sorta di regolamentazione salarialistica dell'intera società. Ciò non avveniva a caso, per il fatto che i partiti della Seconda In­ ternazionale sono stati un grande fenomeno sociale effettivamente ope­ raio e proletario, il cui programma non era ovviamente il "comuniSmo", ma la salarializzazione egualitaria dell'intera società sulla base de! suf­ fragio universale e della democratizzazione politica dello stato. Il "sol dell’avvenire" di questo "quarto stato" non si definiva neppure linguisticamente come "comuniSmo", ma esclusivamente come "socialismo", ed il "socialismo" era filosoficamente concepito non come l'universalizzazione delle libere individualità (il "comuniSmo" di Marx), ma come l'integrazione progressiva, di tutti gli individui nell'unico modello antropologico di "socialità" proletaria, un modello conformistico, egualitario e livellatore. Si ha qui un tipico esempio di "ritorno del rimosso” precapitalistico, per­ ché una simile antropologia "socialista" (che Angenot documenta det­ tagliatamente nei suoi aspetti più grotteschi) non era che la riproposi­ zione, nel contesto del mondo di fabbrica della seconda rivoluzione in­ dustriale, di quel comuniSmo settecentesco basato sulla riduzione dei bisogni umani al modello semplice e frugale della "vera" natura umana non corrotta da desideri artificiali. Il socialismo è dunque una semplifi­ cazione radicale dei bisogni, non certo un'espansione della loro ricchez­ za non più privatizzata ma socializzata. Per Marx l'uomo "sociale" era l’uomo ricco di relazioni sociali, e dunque ricco di conoscenze e capaci­ tà, mentre per questo socialismo, integralmente operaio e proletario, l'uomo "sociale" era l'individuo riassorbito nel collettivo ed abituato a considerare ogni anticonformismo come un residuo di "anarchismo pic­ colo-borghese". Al comuniSmo restava comunque un piccolo spazio concettuale co­ me termine ultimo, utopico, dell'evoluzione sociale, una sorta di lattigi­ nosa fine della storia. L'evoluzionismo era infatti l'ideologia spontanea di una classe operaia e proletaria che si era già solidamente assestata sul terreno dello stato nazionale moderno (ad un tempo assistenzialistico ed imperialistico), e che però voleva legittimamente "evolvere" verso una sorta di integrale salarializzazione garantita e tranquilla dell'intera società, un'economia senza crisi e senza disoccupazione, un ventaglio mo­ derato di differenze sociali, basato esclusivamente sul "merito" produttivo, eccetera. Non si trattava affatto di un "paradiso piccolo-borghese", come di­ cevano i rivoluzionari radicali dell'epoca. Si trattava invece di un "paradiso operaio e proletario", garantito da quella nuova divinità onnipotente e giu­ sta (ecco un secondo "ritorno del rimosso" precapitalistico) che era l’Evoluzione Storica, le cui "leggi" erano assimilate a quelle della natura, secondo un modello positivistico che non era soltanto un canone epi-

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stemologico dominante, ma che era una vera e propria religione popola­ re della Scienza. Nei grandi pensatori della Seconda Internazionale, Engels, Kautsky, Plechanov, eccetera, il comuniSmo è pressoché inesistente, ed il sociali­ smo socialdemocratico è il solo orizzonte sociale concretamente esi­ stente. Ancora una volta ribadiamo che non c'è qui nessun "abbandono" della prospettiva comunista di Marx, ma c'è soltanto un adattamento alle richieste della classe operaia dell'epoca, la cui ideologia spontanea, con la fine del mondo produttivo individualistico e semianarchico dei piccoli produttori, era una sorta di socialismo conformistico, ideologi­ camente puntellato da una "scienza" che dimostrava infallibilmente il crollo futuro della produzione capitalistica. Non è un caso che il secondo e il terzo libro del Capitale di Marx (libri che Marx non aveva mai pubbli­ cato e che forse non avrebbe mai pubblicato in quella forma, decisa do­ po la morte da Engels) siano diventati per la Seconda internazionale quasi "libri-feticcio”. Con essi il marxismo diventava finalmente scienza del crollo necessario del modo di produzione capitalistico. Non possiamo stupirci del fatto che per questo mondo il 1914 sia diventato l'equivalente del 1989 per il comuniSmo storico novecentesco. Il sanguinoso "olocausto" della classe operaia della seconda rivoluzione industriale cominciava, ed il suo marxismo evoluzionistico non era riuscito ad impedirlo.

III. La natura storica del comuniSmo novecentesco dopo il 1917 Lenin fu il fondatore del comuniSmo storico novecentesco. Marx non c’entra in proposito quasi nulla, e la rivoluzione del 1917 non fu soltanto una rivoluzione contro il Capitale (nel senso dato a questa espressione da Gramsci, che intendeva dire che si trattava di una rivoluzione contro l’interpretazione evoluzionistica e gradualistica data al pensiero di Marx dalla Seconda Internazionale), ma anche una rivoluzione estranea al pa­ radigma originale marxiano, basato come è noto sul modello (errato) della trascrescenza comunista della socializzazione capitalistica delle forze produttive, in proposito, la tradizione marxista classica del co­ muniSmo storico novecentesco (applicando inconsapevolmente il mo­ dello descritto dall'epistemologo Kuhn per indicare la difesa di un pa­ radigma scientifico in crisi con il metodo delle "aggiunte ad hoc" e delle eccezioni) ha sempre risolto il problema sostenendo che con l'insorgere della fase imperialistica del capitalismo (e la conseguente crescita di "aristocrazie operaie" nelle metropoli imperialiste stesse) il luogo di scoppio delle rivoluzioni proletarie passa dai punti alti dello sviluppo capitalistico agli anelli deboli della catena mondiale imperialistica (e

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cioè dall'Inghilterra alla Russia). Si tratta di un argomento ingegnoso e plausibile, ma a nostro avviso fuorviante, perché finisce con il "normalizzare" ingannevolmente un evento inquietante, che viene così riportato ad una sequenza razionale di fatti. È invece molto più utile a nostro avviso rico­ noscere apertamente che il 1917 russo non è un evento storico deducibi­ le (neppure dialetticamente) dallo schema marxiano, e nello stesso tempo rivendicarne apertamente la positività più completa, dal momen­ to che il precedente "socialismo" era già morto nel 1914 con la rivelazione della incapacità storica della classe operaia e dei suoi partiti "marxisti" di impedire il macello mondiale imperialista. Vi è in proposito da ribadire un punto di vista storiografico su cui si è spesso equivocato. Nel polemizzare a posteriori contro Lenin e la rivolu­ zione russa del 1917, si suole ripetere che i bolscevichi hanno commesso un "errore", dal momento che non c'erano ancora le "condizioni" storiche di maturità del capitalismo e delle forze produttive per fare una rivoluzione socialista. Questa argomentazione ci sembra assolutamente "demenziale", e non useremmo un termine tanto crudo e severo se non fossimo sincera­ mente indignati da chi crede che si possa interpretare un evento storico in base alle categorie scolastiche della "maturità economica" o meno di un sistema sociale. La legittimazione storica, politica e morale del 1917 non sta in una diagnosi "stadiale" fatta a tavolino della maturità economica del capitalismo russo, ma risiede esclusivamente nella risposta alla scel­ ta assassina del 1914 fatta dalle borghesie (e dalle aristocrazie) imperia­ listiche. Tutto ciò che hanno fatto Lenin e compagni nel 1917 e negli anni immediatamente successivi è poco in confronto al crimine com­ messo nel 1914 dagli imperialisti. In proposito, ribadiamo che questo giudizio storiografico può essere dato prescindendo completamente dal marxismo e dal comuniSmo, sulla base esclusiva del giudizio che si dà dei fiumi di sangue umano provocati dai banditi imperialisti del 1914 nel loro scontro per il dominio sui mercati. La questione del comuniSmo di Lenin deve dunque essere posta do­ po, e non prima, di aver salutato con il rispetto e l'ammirazione che me­ ritano ciò che hanno fatto i bolscevichi nel 1917. Il comuniSmo di Lenin non è quello di Marx, e non è neppure una sua trasformazione qualitativa che però pur sempre "concretizza” nella nuova fase storica (imperialistica) la continuità essenziale del progetto marxiano. Una simile concezione è proprio tipica delle "grandi narrazioni", che vedono la storia come il luo­ go di scorrimento di un medium temporale omogeneo, progressista ed accrescitivo, e devono ovviamente postulare 1'esistenza di un Soggetto (il proletariato) la cui "causa" è difesa nel 1870 da Marx, e nel 1920 da Lenin. Così non è. Dal punto di vista filosofico, Lenin non ha quasi nulla a che vedere con lo spazio metafisico del pensiero di Marx, che trapianta

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una teoria della libertà individuale in uno spazio epistemologico che ne giustifica le pretese di universalizzazione comunista, sulla base di una ipotesi "scientifica" sulla socializzazione delle forze produttive la cui di­ namica immanente eroderebbe la riproduzione di rapporti sociali di sfruttamento capitalistico. La filosofia di Lenin si costituisce sulla base del materialismo dialettico di Engels, del materialismo storico di Kautsky, del monismo materialistico di Plechanov. Certo, Lenin ci mette in più "del suo", ma non esce comunque da questo orizzonte teorico secondinternazionalistico. Ogni continuità "metafisica" con Marx è a nostro avvi­ so spezzata. La questione fondamentale sta in ciò, che Lenin pensa e costruisce la nozione di comuniSmo (e di socialismo come suo stadio economicosociale preliminare) a partire dalla nozione di formazione economicosociale, non dalla nozione di modo di produzione (capitalistico). Qui sta la cruciale diversità di spazio epistemologico rispetto a Marx. Questa di­ versità ovviamente non è un "errore", ma è la conseguenza obbligata della situazione in cui si trova, quella di dirigente di un partito rivoluzio­ nario che deve elaborare la sua strategia e la sua tattica in un paese, la Russia zarista, che è il modello quasi esemplare di una "formazione economico-sociale" in cui si intrecciano elementi di diversi modi di produ­ zione stratificati da una storia assolutamente peculiare (il dispotismo mongolo, l'assolutismo bizantino, il feudalesimo burocratico di Pietro il Grande, la comune rurale russa e la sua tradizione comunitaria, le eredi­ tà politiche del nichilismo e del populismo, eccetera). Marx pensava la transizione al comuniSmo sulla base di un processo sociale, Lenin deve pensarla sulla base di una costruzione sociale. Una costruzione sociale ha bisogno di una "ideologia" che la legittimi, ed ecco la ragione per cui Lenin non riprende la vecchia nozione negativa di Marx di ideologia co­ me falsa coscienza, ma ripropone una versione aggiornata della nozione positiva di Engels di ideologia come concezione del mondo organica e coerente di una classe sociale, il proletariato organizzato e diretto da un partito, che dalla sua mera esistenza sociologica, l’In Sé, deve elevarsi a realtà politica comunista, il Per Sé. Questa nozione costruttivistica di comuniSmo sta alle origini del co­ muniSmo storico novecentesco. Essa presuppone un "primato della po­ litica" che in Marx non c'era assolutamente, dal momento che Marx è piuttosto un critico della politica e di ogni suo presunto primato. In Marx il comuniSmo è un processo sociale globale metapolitico e post­ politico, centrato sull'universalizzazione egualitaria di libere individuali­ tà, in Lenin il comuniSmo è il frutto di una costruzione sociale cosciente, attuata in condizioni di inevitabile primato della politica, in cui fattori come l'organizzazione e la mobilitazione capillare di tutte le forze di-

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sponibili diventano l'elemento decisivo. Ancora una volta, il tradimento ed il fraintendimento non c’entrano nulla. Nella fase storica in cui visse, Lenin non poteva fare diversamente. Egli era anche consapevole dell'assoluta novità della situazione, e di come essa fosse assolutamente "non marxia­ na". Questa consapevolezza finì dopo la sua morte, avvenuta nel 1924, e con la fondazione, fra il 1924 e il 1926, del marxismo-leninismo. Il marxi­ smo-leninismo è una formazione ideologica complessa che non ha più un rapporto di continuità, neppure indiretto, con il comuniSmo di Marx. Essa non ne ha in comune lo spazio metafisico, perché non esiste più traccia dell'antropologia filosofica borghese-rivoluzionaria di Marx, di origine illuministica e romantica, che pensa il comuniSmo come un pro­ cesso di concretizzazione-coronamento di universalizzazione di capacità onnilaterali e di bisogni ricchi di libere individualità, ma vi è al contrario un programma di costruzione di una sorta di "uomo nuovo", presuppo­ sto teorico del populismo nichilistico dei mrodniki, che è piuttosto un "foglio bianco" su cui disegnare il primato della scienza e della tecnica sulle tradizioni e sulla religione. Essa non ne ha in comune lo spazio epistemologico, perché non c'è più traccia del primato dell'orizzonte del modo di produzione capitalistico dentro cui far crescere il comuniSmo, ma al suo posto si è installata una filosofia stadiale della storia che rac­ conta il percorso di una sorta di "linea ferroviaria" ad un solo binario, che porta dalla comunità primitiva al comuniSmo attraverso le tre "stazioni" dello schiavismo, del feudalesimo e del capitalismo. Essa non ha neppure in comune lo spazio ideologico, perché lo spazio ideologico di Marx era strutturato da una grande narrazione che vedeva come pro­ tagonista la Classe, una classe-soggetto che garantiva con la permanen­ za della sua identità iniziale la realizzazione finale del suo progetto ori­ ginario (il comuniSmo in sé e per sé), mentre lo spazio ideologico del marxismo-leninismo ha al centro il Partito, la preservazione a tutti i costi della sua efficienza, i rituali di appartenenza e di militanza che identifi­ cano i suoi membri, le tecniche di promozione, selezione e cooptazione ai suoi vertici, eccetera. Marx non c'entra più nulla. Se egli fosse stato ancora vivo, gli sareb­ be successo esattamente quanto successe al Gesù di Nazareth di fronte al Grande Inquisitore, di cui scrive Dostoevskij nei Fratelli K.aramazov. Egli sarebbe stato sicuramente processato e ucciso da quegli stessi che le­ gittimavano il loro potere con il suo nome. A meno che, ovviamente, egli avesse scelto di condurre l'oscura vita di uno studioso di storia antica. Ma non sarebbe stato più Marx.

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IV. Le cause strutturali della dissoluzione del comuniSmo storico novecentesco nel 1989-91 In questo paragrafo daremo per scontata la conoscenza della parabo­ la storica del comuniSmo del Novecento, le divergenze fra Stalin, Trotzkij e Bucharin, l’affermazione dello stalinismo negli anni Trenta, la diaspora delle eresie comuniste minoritarie, l'egemonia del comuniSmo in molti movimenti di liberazione nazionale anti-imperialista (dalla Cina alla Co­ rea, dal Vietnam all'Angola, da Cuba all'Etiopia), la formazione del co­ siddetto "campo socialista" in Europa dal 1945 al 1989, la figura di Kruscev ed il XX congresso del Pcus nel 1956, le tappe della crisi sovietica da Breznev a Gorbaciov, eccetera. La conoscenza storica di questi feno­ meni è indispensabile ma non coincide ad esempio con l'approccio di Marx al modo di produzione capitalistico, che non fu mai quello di una diligente ricostruzione di avvenimenti, ma fu sempre quello che risiede nel cogliere, nell'afferrare concettualmente la logica generale di sviluppo di una totalità dinamica temporalmente determinata da un inizio (in questo caso il 1917) e da una fine (in questo caso il triennio 1989-91). In estrema sintesi, si trattò di un tentativo, storicamente più che le­ gittimo (legittimato, per essere più precisi, dalla ferocia del capitalismo, dell’imperialismo e del colonialismo), di costruzione del comuniSmo at­ traverso metodi strutturalmente inadatti a questo scopo, metodi mu­ tuati dalla logica della divisione sociale e tecnica del lavoro che caratte­ rizza il modo di produzione capitalistico. La costruzione del comuniSmo con metodi capitalistici è impossibile, e la storia ne è stata attonita te­ stimone. I "costruttori" di questo comuniSmo (Stalin in primo luogo) erano naturalmente convinti in buona fede, ma in falsa coscienza neces­ saria, e qui sta appunto lo spazio ideologico, di stare uscendo definiti­ vamente dal modo di produzione capitalistico attraverso un sistema so­ ciale nuovo, in cui la proprietà statale dei mezzi di produzione sostituiva la proprietà privata della classe dei capitalisti, ed in cui la pianificazione economica degli investimenti sostituiva l'anarchia del mercato capitali­ stico, fonte di crisi, miseria e disoccupazione. Ciò di cui erano soggetti­ vamente convinti i costruttori, però, non è il dato determinante, alla luce proprio del metodo "oggettivistico" proposto epistemologicamente da Marx. Non è neppure determinante, anche se è indubbiamente interes­ sante, il fatto che i costruttori fossero spesso (non sempre) personal­ mente "disinteressati", e non perseguissero coscientemente l'edificazione di una società basata su privilegi, morali e materiali, riservati al proprio grup­ po sociale (gli appartenenti al partito comunista, ed in particolare alle sue istanze medio-alte di dirigenza). La storia comparata delle religioni mondiali ci illustra a iosa la permanente ed addirittura ossessiva azione

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di milioni di persone "disinteressate" sul piano materiale, e che si sotto­ pongono ad inaudite privazioni corporali e spirituali, finendo regolar­ mente con il contribuire attivamente all’edificazione di sistemi classisti quasi sempre ferocissimi. Il disinteresse e lo spirito soggettivo di sacri­ ficio dei militanti comunisti del Novecento è un dato storico e storiogra­ fico di importanza eccezionale, degno di essere testimoniato, documen­ tato, ricordato e tramandato, ma non è un dato esplicativo della logica riproduttiva di sistemi sociali complessi. La costruzione statale del comuniSmo (espressione che riteniamo concettualmente più precisa di quella tradizionale di "costruzione del socialismo in un solo paese") è inscindibile dalla costruzione, inconsa­ pevole ed involontaria quanto si vuole, di una società classista, o per meglio dire, di una formazione economico-sociale classista. Diventa a questo punto meno importante, anche se conserva un suo statuto con­ cettuale rilevante, il fatto che questa formazione economico-sociale classista sia di tipo "capitalistico" (di capitalismo di stato o di partito) oppure sia espressione di un "classismo" analogicamente riducibile agli esempi storici dei passati modi di produzione asiatici o antico-orientali, caratterizzati da forme di proprietà statale, collettivo-religiosa o colletti­ vo-burocratica, dei principali mezzi di produzione. Parliamo a ragion ve­ duta di costruzione statale del comuniSmo, e non del semplice "socialismo", perché nella stessa ideologia ufficiale di legittimazione politica del partito­ stato il comuniSmo, e non il socialismo, è esplicitamente posto come lo scopo ultimo della "costruzione sociale"; il "socialismo" è una semplice tappa intermedia, che si giustifica in base alla mera "immaturità" dello sviluppo delle forze produttive. Vale la pena in proposito di notare che soltanto negli ultimi venti anni della storia del comuniSmo storico nove­ centesco (dal 1968 al 1988 circa) l'ideologia ufficiale accetta di mettere definitivamente fra parentesi la finalità comunista del processo sociale, per concentrarsi nella difesa di lungo periodo (rivelatasi poi più breve di quello che si potesse pensare) di una sorta di "socialismo integralmente sviluppato", che da semplice formazione economico-sociale di transizio­ ne fra capitalismo e comuniSmo sembrava addirittura un modo di pro­ duzione stabile ed autonomo. Non possiamo qui rievocare le critiche di parte "maoista", sia cinese che occidentale (Bettelheim), a questa con­ cezione non comunista del socialismo, se non per sottolineare che le somiglianze di questa concezione sia con il socialismo della Seconda Internazionale (un altro grande esempio di socialismo non comunista) sia con l'ideologia borghese-liberale sono molto grandi, dal momento che in tutte queste circostanze si vuole sostenere che ci possono essere società non classiste, e nello stesso tempo non comuniste. Marx non sa­ rebbe stato d’accordo. Per lui le "classi" non erano semplici raggruppa-

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menti caratterizzati dalla proprietà giuridica o meno dei mezzi di produzio­ ne, ma erano (in particolare con la fine dei modi di produzione "organici", precapitalistici) raggruppamenti caratterizzati da differenziali di sapere e di potere reale all’interno della divisione sociale e tecnica del lavoro che garantiva la riproduzione globale complessiva dell’intero rapporto di produzione. La costruzione statale del comuniSmo implica allora neces­ sariamente le "classi”, per il fatto che lo stato non è una semplice orga­ nizzazione "neutra", tecnica, della produzione sociale, ma è anche il luo­ go dell’organizzazione politica dei gruppi titolari di differenziali di sapere e di potere in ambito produttivo e distributivo, sia delle risorse che dei consumi. Per poter negare questa ovvietà evidente (che Marx non avreb­ be comunque mai negato) bisogna proprio che lo spazio ideologico della falsa coscienza, non importa se in "buona fede" o meno, ci abbia com­ pletamente accecati, e che l'idealismo abbia cancellato ogni forma resi­ duo di materialismo, non importa se storico o dialettico. La costruzione statale del comuniSmo è dunque classista, anche se non è a nostro avviso opportuna la trasposizione meccanica di categorie sociali tipiche del "capitalismo" normale, come borghesia e proletariato. Le funzioni di direzione sociale non sono infatti assunte da un gruppo sociale culturalmente omogeneo come la "borghesia", ma da un insieme di "agenti della produzione" selezionati attraverso il partito ed inseriti in posizione dominante negli apparati industriali dello stato (una volta che questo inserimento sia avvenuto, naturalmente, possono insorgere conflitti fra apparati del partito e dello stato, così come avviene nel capi­ talismo "normale" fra proprietari e manager, profitto e rendita, eccetera). Si tratta della cosiddetta nomenklatura del partito-stato (il nome russo allude al fatto che è il partito comunista a "nominare" i dirigenti medio­ alti delle proprietà di stato). Questa nomenklatura può essere concet­ tualmente definita in termini di "classe" (come fecero i seguaci di Bordiga e di Mao) o di semplice "ceto" (come fecero i seguaci di Trotzkij), ma questa attribuzione terminologica, lo si è appena detto, non è importan­ te, dal momento che ciò che conta è che si ammetta che la costruzione statale del comuniSmo, appunto per il suo carattere statale, non può che dar luogo a differenziali di conoscenza e di potere di "disposizione" su scelte, decisioni, risorse e consumi fortemente disegualitari (ancora una volta, ribadiamo che Marx, nel bene come nel male, non è affatto "responsabile" di questa evoluzione storica che il suo pensiero non sep­ pe concettualizzare). A questo punto si innesta il "fenomeno Gorbaciov" con cui intendia­ mo connotare un processo sociale, anonimo ed impersonale ma poten­ tissimo, caratterizzato dalla liquidazione dail'alto del progetto di costru­ zione statale del comuniSmo (già peraltro da vent’anni derubricato a

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"socialismo integralmente sviluppato"), e dalla reintegrazione contratta­ ta non tanto in un "capitalismo" generico, quanto nel modo di produzio­ ne capitalistico dell'incipiente terza rivoluzione industriale. Il termine decisivo su cui vogliamo si concentri l’attenzione del lettore, è quello di "reintegrazione contrattata". Non si tratta, infatti, di una "catastrofe in­ controllata", o di una sconfitta pura e semplice. Nella storia, tutte le classi dominanti che si rendevano conto di non poter riprodurre il loro dominio nelle forme precedenti, ma di dover scendere a compromessi radicali con forze più potenti (pensiamo all'aristocrazia schiavistica ro­ mana di fronte ai barbari, o alla aristocrazia europea di fronte alla bor­ ghesia), hanno scelto la via del compromesso, non quella della "morte eroica" in una battaglia senza speranze. La nomenklatura formatasi nei de­ cenni della costruzione statale del comuniSmo non si è comportata di­ versamente. In quanto classe amministrativa pura, specializzata in ma­ nipolazione politica ed in gestione di sistemi complessi di dominio, mediazione e consenso, essa è anche un gruppo dotato di competenze che possono interessare molto all’attuale capitalismo transnazionale, che ricerca una mediazione fra i flussi finanziari globali che si muovono in un pianeta "unificato" ed una gestione politica ordinata di spazi na­ zionali che ormai non hanno più una sovranità politica paragonabile al periodo della seconda rivoluzione industriale. Non è allora un caso che i grandi gruppi finanziari preferiscano che a gestire le privatizzazioni, negli stati del defunto socialismo reale est-europeo, siano partiti neo-so­ cialisti e neo-socialdemocratici formati da personale politico provenien­ te dai vecchi apparati della nomenklatura della fase terminale (già ideo­ logicamente socialista) della precedente costruzione statale del comuni­ Smo. In proposito, vorremmo fare due rilievi volti a rafforzare la tesi della "reintegrazione contrattata". In primo luogo, sconsigliamo decisamente l’uso di categorie come quelle di "tradimento", a proposito di personaggi come Gorbaciov o Eltsin (e nella nostra provincia mediterranea come Occhetto o D’Alema). La nomenklatura professionale comunista non tradisce il "comuniSmo" di Marx, per il semplice fatto che non lo ha mai conosciuto, o se lo ha co­ nosciuto teoricamente non ci ha mai creduto, ritenendolo correttamente una semplice "risorsa ideologica" con cui mobilitare una massa plebea ritenuta incapace di accedere al mondo delle decisioni politiche "serie". Chi vuole giudicare i comportamenti politici collettivi di questo gruppo sociale non deve commisurarli alla lettera o allo spirito di Marx e di Le­ nin, di Gramsci e di Althusser. Si tratta di un gruppo sociale che era già pienamente "classista" nella vecchia configurazione sociale defunta (il socialismo reale ad Est, l’intermediazione politica nello stato keynesiano del benessere ad Ovest), e che appunto perché era già pienamente clas-

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sista deve ora modificare le forme di manifestazione di questo classi­ smo. Esso riconosce la "vittoria" del capitalismo imperialistico e finan­ ziario della terza rivoluzione industriale, e smantella integralmente il proprio precedente apparato ideologico (facendosi anzi zelante promo­ tore della "crisi del marxismo" ed annientando dove può in prima perso­ na con il silenzio ed il discredito chi intende continuare a richiamarsi al "comuniSmo" ed a Marx), e nello stesso tempo contratta collegialmente la propria collocazione in apparati politici intermedi di gestione del siste­ ma capitalistico. Nel Gattopardo di Giuseppe Tornasi di Lampedusa il ni­ pote Tancredi dice allo zio principe che "se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi". La nomenklatura comunista sa bene che tut­ to deve cambiare, dal socialismo integralmente sviluppato alla "democrazia" capitalistico-finanziaria, perché rimanga, sia pure ridimensionata e ricon­ trattata, la propria posizione privilegiata nella produzione, distribuzione e consumo. Quanto diciamo non è affatto dovuto a cinismo. Chi scrive preferisce Hegel e Marx a Hobbes ed a Pareto. Non siamo partigiani delle teorie sulla cosiddetta "circolazione delle élites", o peggio. Sulla scia di Marx, riteniamo che categorie emozionali come quella di "tradimento" non spieghino nulla. La categoria di "tradimento" equivale, a livello po­ litico, alla categoria di "fraintendimento" in campo filosofico e culturale. L’ultima generazione dei gruppi politici classisti prodotti dal dramma della costruzione statale del comuniSmo non tradisce una causa che non era più sua da molto tempo, ma semplicemente contratta con i vincitori una propria ricollocazione privilegiata nella piramide sociale del capita­ lismo della terza rivoluzione industriale. Se qualcuno continua ancora a credere e ad avere "fede" in essa non ci rimarrà che rifarci all'autorità di Einstein, che sostenne che c’erano due cose "infinite", l’universo e la stupidità umana, ma dell’infinità della prima non era sicuro. In secondo luogo, bisogna riaffermare che il fallimento del tentativo di costruzione statale del comuniSmo, effettuato nella triplice forma dello stato socialista, del partito comunista e dell'ideologia marxistaleninista, non è stato affatto dovuto ad un’insufficiente egemonia della classe operaia (che sarebbe stata "espropriata" dai burocrati), ma ad una ragione esattamente opposta, la sostanziale centralità della classe ope­ raia durante tutte le fasi decisive di questa costruzione. La nostra tesi è consapevolmente in opposizione a quella di tutte le "eresie marxiste" del Novecento, di tipo luxemburghista, bordighista, operaista, trotzkista e maoista, ma non è a nostro avviso incompatibile con un approccio spregiudicato e realistico alla nozione marxiana originale di modo di produzione. Detto in altri termini, la nostra tesi è incompatibile soltanto con lo spazio ideologico del pensiero di Marx (e forse neppure con quello, dal momento che egli non parlò mai della classe operaia come

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supporto di una costruzione statale del comuniSmo) ma non certo con il suo spazio metafisico e con quello epistemologico. La classe operaia e proletaria, a causa della sua collocazione subalterna nei rapporti di pro­ duzione, è per eccellenza una classe incapace di autogestione economi­ ca e di autogoverno politico stabili, e deve pertanto dotarsi di rappresen­ tanti economici e politici i quali, come tutti i "rappresentanti" professio­ nali e professionalizzati, diventano un gruppo sociale dotato di interessi autonomi, fra i quali c'è anche ovviamente quello della reintegrazione contrattata. Il "silenzio operaio" nel triennio 1989-91 (per non parlare del consenso passivo alla ricostruzione del capitalismo "normale") è stato a nostro avviso uno degli eventi, o se si vuole dei non-eventi, più impor­ tanti degli ultimi due secoli di storia mondiale. L'assenza di serie rifles­ sioni su questo punto rivela che è ormai venuto meno un intero ciclo storico, e che la storia del comuniSmo, che non è comunque stata mai una grande narrazione ininterrotta, deve diventare consapevole di una discontinuità forte, quasi altrettanto forte di quella avutasi al sorgere delle prima rivoluzione industriale con i comuniSmi precapitalistici di­ scussi nel primo capitolo di questo saggio.

V. Le basi fragili del comuniSmo ideale e filosofico del Novecento Lo spazio metafisico del pensiero di Marx, che inseriva in una pro­ spettiva rivoluzionario-comunista i destini di sviluppo dell’individualità storicamente costituita, modellata e formata dallo stesso modo di pro­ duzione capitalistico, non poteva certo finire per il semplice fatto che il "marxismo", divenuto ideologia di organizzazione della classe operaia della seconda rivoluzione industriale, inseriva questi destini in una pro­ spettiva evoluzionistico-socialista, collettivistica, organicistica. Questo spa­ zio continuò in forma nuova ed inedita nello sviluppo teorico multiforme del grande marxismo "indipendente" del Novecento (Lukàcs, Korsch, Adorno, Benjamin, Bloch, Sartre, eccetera). È interessante che uno storico delle idee marxiste come Kolakowski, una volta abbandonata la prospettiva di Marx per divenire liberale, abbia dato un giudizio globale negativo su tutto questo marxismo critico indipendente (di cui era stato anche lui un episodio, sia pure minore), mostrando così di voler soltanto razionalizza­ re ideologicamente a posteriori la propria scelta filosofica personale. Il marxismo "indipendente" del Novecento è stato invece a nostro avviso un fenomeno culturale di prima grandezza e si tratta allora di vedere quali siano i motivi che legittimano un giudizio tanto positivo. Vi sono infatti, tanto per cominciare, due motivi che non lo legittimerebbero af­ fatto. In primo luogo, bisogna ammettere apertamente che la ragione

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principale di esistenza di questo marxismo critico ed indipendente, il miglioramento del profilo culturale globale della classe operaia e dei partiti comunisti realmente esistenti, non è stato assolutamente rag­ giunto. La classe operaia novecentesca realmente esistente (non quella ideale o idealtipica cara ai marxisti critici) ha aderito massicciamente, sia pure in forme diverse, a movimenti reali del tutto estranei a questi marxismi critici, come il laburismo, il populismo, la socialdemocrazia e 10 stalinismo, ed ha sempre ignorato perfino 1'esistenza di queste cor­ renti culturali, rivolte ad un destinatario sociologico diverso, come i vari strati della borghesia colta in crisi esistenziale di identità. I partiti co­ munisti storici novecenteschi erano comunità culturali globali, fondati su identità psicologiche rigide e semireligiose, che ricevevano militanza, producevano rappresentanza e davano fierezza ed appartenenza. Per la loro stessa struttura organizzativa queste comunità culturali globali non erano interessate a forme di coscienza individuali ed interindividualistiche, in cui persino l'assenso a fenomeni come lo stalinismo non derivava da meccanismi di fedeltà e di appartenenza al gruppo, ma veniva media­ to concettualmente nella coscienza individuale e razionalizzato come "necessità" o come "male minore" (il caso di Lukàcs è in proposito esem­ plare, dal momento che persino la sua "ortodossia" era sospetta, in quan­ to fondata su di un'operazione ideologica personale, poco affidabile in quanto sempre revocabile). La logica militante e/o elettoralistica dei partiti comunisti storici novecenteschi era tale che persino intellettuali marxisti del livello di un Lukàcs o di un Althusser dovevano inevitabil­ mente contare di meno di un qualunque segretario di sezione o di un eletto in un ente locale, che almeno portavano tangibilmente voti, iscritti, sottoscrizioni, adesioni. I soli "intellettuali" che i partiti comuni­ sti potevano "onorare" erano coloro che non "rompevano le scatole" con proposte potenzialmente eversive di marxismo critico e che accettavano 11 loro ruolo di megafoni ideologici dei gruppi dirigenti. In secondo luogo, è giusto dire che il contributo filosofico all'innovazione radicale del paradigma marxiano classico è stato per quasi cent'anni mode­ stissimo. La maggior parte dei marxisti "indipendenti" e critici del Novecen­ to sono rimasti sempre all’interno di quel centro magico concettuale d'origine kautskiana che era fondato appunto sulla sottomissione degli spazi metafisico ed epistemologico allo spazio ideologico, il solo che concretamente poteva "servire" all’organizzazione politica della classe ope­ raia. In proposito, si suol dire generalmente che la modestia dell’innovazione teorica marxista nel Novecento è dovuta al fatto che gli intellettuali non hanno sufficientemente saputo legarsi alla classe operaia, e sono rimasti troppo separati da essa. Il nostro giudizio è esattamente opposto a que­ sto. Gli intellettuali marxisti più dotati del Novecento (con la parziale

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eccezione di Adorno) sono sempre stati troppo legati ad una nozione di classe operaia di tipo ideologico, cioè grande-narrativo, e questo legame (peraltro inevitabile) ha funzionato da ostacolo epistemologico alla com­ prensione di molti fatti storici e politici. Da un punto di vista concettuale gran parte del marxismo critico ed indipendente del Novecento ha finito con l'adottare un paradigma teorico costruito su due distinti movimenti teorici entrambi difettosi. Da un lato, la nozione del modo di produzione era recepita non nella forma marxiana, ma in quella "marxista" (derivata da Engels, Kautsky, Plechanov, Rosa Luxemburg, Lenin, eccetera), in modo che si finiva con il confondere il modo di produzione con la sua base tecnologica o economica (l'addizione del sistema di fabbrica e delle crisi circolatorie). Dall'altro, questo economicismo appariva ovviamente po­ vero e insufficiente agli stessi intellettuali che lo avevano adottato, ed ecco allora l’operazione di "integrazione" con valori morali di tipo uma­ nistico (ed alla fine del ciclo del marxismo storico novecentesco di tipo pacifistico, femministico ed ecologistico). Un simile modello teorico (tuttora diffusissimo in coloro che si professano politicamente neoco­ munisti, sia in Italia che all'estero) è assolutamente sterile, e non è in grado di produrre alcuna innovazione. Il massimo di "ortodossia" (nella concezione economicistica e tecnologica del modo di produzione) si unisce con il massimo di eclettismo superficiale, con l'inseguimento di tutte le mode culturali, moderne e post-moderne, offerte incessante­ mente dal teatrino ideologico capitalistico. Bisogna dunque cercare altrove le ragioni del giudizio positivo sulla lunga storia del marxismo critico ed indipendente del Novecento, che è invece stato sostanzialmente un fallimento sul piano politico-organizzativo e su quello scientifico-epistemologico. Esse risiedono esclusivamente a nostro avviso sul fatto che questo marxismo ha dimostrato che la storia dell'individualismo (o meglio della libera individualità), nel suo delicato passaggio di fase dall'Ottocento al Novecento e dalla prima alla seconda rivoluzione industriale, ha continuato a praticare una possibile via rivolu­ zionario-comunista, e non si è dissolta integralmente nelle sue due va­ rianti maggioritarie della cultura di destra (cioè dell'individualismo eroico ed elitario, o meglio della critica individualistica e "superuomistica" allo eccessivo livellamento democratico delle società capitalistiche) e della cultura di integrazione consumistica di "centro" (cioè dell'individualismo ad un tempo familistico ed atomistico, centrato nella famiglia egoista come centro del consumo). È necessario prestare molta attenzione a questo fatto, perché si tratta di qualcosa che non era storicamente del tutto ovvio e scontato. Le tendenze conformistiche ed omogeneizzanti insite nello sviluppo capitalistico, tendente a sottomettere non solo il proletariato ma anche la vecchia borghesia nel suo dinamismo produt­

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tivistico e consumistico, sono infatti talmente forti, da non permettere di escludere, sia pure in via ipotetica, un esito di integrazione massiccia dell'individuo nella riproduzione capitalistica, con la conseguenza di "consegnare" il comuniSmo ad una cultura di destra, che finirebbe inevi­ tabilmente con il riproporre il modello di Platone, adatto a garantire li­ bertà per il solo strato superiore e comunità per quello inferiore. Il mar­ xismo critico ed indipendente del Novecento, che a nostro avviso ha raggiunto il suo livello "metafisico" massimo in Lukàcs ed il suo livello "epistemologico" massimo in Althusser, è invece stato una lunga ed af­ fascinante testimonianza vivente della capacità di mantenere, in circo­ stanze storiche inedite ed assolutamente non previste da Marx, una pro­ spettiva di fusione potenziale fra l'orizzonte sociale rivoluzionario­ comunista e le sorti della libera individualità moderna, già costituita come atomicità indipendente in sé fra il Cinquecento e l’Ottocento. Tut­ to ciò ci sembra moltissimo, ed è per questo che lo rivendichiamo, ricol­ legandoci idealmente (anche se non "contenutisticamente") a questa tradizione.

VI. Le due eredità del comuniSmo storico novecentesco A nostro avviso il fenomeno centrale del "secolo breve" (seguendo l'indicazione storiografica, corretta nell'essenziale, dello storico inglese Hobsbawm), il comuniSmo storico novecentesco, appartiene ormai al passato, e ad un passato irrevocabilmente trascorso. È vero infatti che vi sono dei corsi e dei ricorsi storici, e che si ripresentano puntualmente fenomeni che a prima vista dovrebbero essere finiti per sempre. Questo ripresentarsi, però, è apparente, e dal punto di vista storico quasi sem­ pre soltanto analogico (come la "caccia alle streghe" del Novecento, un fenomeno di persecuzione mirata di gruppi intellettuali "scomodi" che non ha in realtà nulla a che vedere con la vera caccia alle streghe della prima età moderna). Il comuniSmo storico novecentesco è un fenomeno concluso nella sua ammirevole unità temporale (1917-1991), ed appar­ tiene al passato come i comuniSmi precapitalistici sopra esaminati. Det­ to in altri termini, la sua "data di scadenza" è ormai trascorsa. Se, po­ niamo, prendiamo due diverse confezioni di latte fresco, ed una è scadu­ ta da soli cinque mesi, mentre l'altra è già scaduta da cinque anni, un'analisi chimica o biologica vi potrà certo trovare importanti differen­ ze, ma dal punto di vista pratico, merceologico, non c'è nessuna differen­ za, perché comunque le due confezioni non potranno essere messe in vendi­ ta e consumate. Analogamente, la "data di scadenza" del comuniSmo storico novecentesco è recentissima, mentre quella del comuniSmo precapitalisti­

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co è molto più lontana nel tempo, ma da un punto di vista sociale, poli­ tico ed economico le differenze sono molto minori, se le si guarda dal punto di vista pratico e progettuale. La differenza fra il passato recente ed il passato lontano sta però nel fatto che il passato recente continua a vivere nella forma dell'eredità ed in quella del ricordo, o meglio della memoria storica. In proposito, le ere­ dità del comuniSmo storico novecentesco sono ancora vivissime, e pro­ poniamo allora di dividerle in due grandi classi, la prima nell'essenziale positiva, la seconda nel complesso invece negativa, ed anzi pericolosa. Sappiamo bene che questa distinzione è astratta e scolastica, dal mo­ mento che concretamente le due grandi classi sono mescolate e spesso confluiscono l'una nell'altra, ma riteniamo di poterla fare lo stesso, per ragioni di chiarezza e di comunicazione con il lettore. Partiamo dalla prima eredità, quella che definiamo positiva, un'eredità pienamente "spendibile", e che sarà forse ancora più spendibile fra qual­ che decennio, quando apparirà più chiaro che il capitalismo della terza rivoluzione industriale è un sistema talmente pericoloso e barbarico da far rimpiangere perfino lo stalinismo, cioè il comuniSmo statuale, di­ spotico ed illiberale. Questa eredità consiste in ciò, che bisogna rivendi­ care come storicamente legittimo non solo l'Ottobre rosso del 1917, ma anche la stessa costruzione di un comuniSmo statale di partito. Si trattò di un tentativo che oggi sappiamo essere stato fondato su basi fragili, ma che coloro che lo intrapresero avevano il diritto di progettare. In altri termini, esiste un diritto assoluto delle classi sfruttate e dei popoli op­ pressi alla rivoluzione, un diritto assoluto che non risiede in presupposti moralistici o pauperistici, ma che ha il suo fondamento nel fatto che vi è una profonda unità del lavoro sociale complessivo necessario a riprodur­ re la comunità umana, e che il legame sociale che struttura in forma re­ lazionale questa unità del lavoro sociale complessivo è caratterizzato nelle società classiste da una polarizzazione ontologicamente ed assiologicamente conflittuale. Questa conflittualità non è un’invenzione arbi­ traria di "sovversivi" e maniaci del disordine, ma è un portato della di­ namica riproduttiva del nodo di produzione. Questa osservazione non significa affatto che il "polo sfruttato" in un modo di produzione classista sia "capace" di trascendere il modo di produzione che lo sfrutta e lo sot­ tomette: gli schiavi non sono strutturalmente capaci di trascendere il modo di produzione schiavistico; i servi della gleba non sono struttu­ ralmente capaci di trascendere il modo di produzione feudale; gli operai (ed i loro rappresentanti sociali e politici) non sono capaci di trascende­ re il modo di produzione capitalistico (ed il "secolo breve" del Novecento ne è stato attonito spettatore). Tuttavia, capaci o no, schiavi, servi della gleba ed operai hanno avuto ed hanno il diritto assoluto ed incondizio­

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nato di provare, nella forma di uno Spartaco, di un Thomas Miintzer, di uno Stalin, di un Mao o di un Fidel Castro. Una simile affermazione, lo si noti bene, non è per nulla "storicistica" o giustificazionistica, perché non stiamo affatto dicendo che ciò che concretamente fu fatto era anche il massimo che si poteva concretamente fare nelle condizioni storiche da­ te. Al contrario, chi scrive ritiene ad esempio che lo stalinismo storica­ mente esistito non fu affatto l'unica soluzione politica possibile alle sfi­ de del periodo 1924-53, ma che una soluzione frutto di una sorta di "sinergia virtuosa" di proposte fatte da Stalin, Trotskij e Bucharin era possibile, sia concettualmente che praticamente. Non stiamo affatto tornando indietro sul principio storiografico ed epistemologico prima ricordato, che impone di ammettere che le nonne hanno gambe e brac­ cia, e non ruote come le locomotive, e che dunque non ha senso auspi­ care a posteriori capacità motrici che le nonne non potevano avere. Si trat­ ta invece di respingere l'errato principio di Plechanov, frutto del deter­ minismo e del necessitarismo del marxismo post-marxiano, per cui il cosiddetto "ruolo delle personalità nella storia" è in fondo minimo, e ciò che avviene è sempre il frutto inevitabile di leggi storiche soverchiami. Non lo crediamo. Non era fatale che il fascismo italiano entrasse in guerra nel 1940; se Mussolini fosse morto per cause naturali nel 1936 avremmo avuto forse una sorte di fascismo anti-tedesco e filo-inglese (Ciano, Grandi, eccetera), che avrebbe contrattato con Gran Bretagna e Francia un impero coloniale africano in cambio del rifiuto dell'alleanza con Hitler. Non era fatale che il nazismo tedesco avesse un orientamen­ to antisemita ed antislavo così accentuati, che portarono infine ai campi di sterminio ed all'aggressione all'Urss. Questi orientamenti erano anche un'idiosincrasia personale di Hitler. Se Hitler fosse morto per cause na­ turali nel 1936, a "nazismo" già instaurato, avremmo forse anche potuto avere una sorta di pangermanesimo meno avventurista, antislavo ed an­ tisemita, analogo in fondo alle politiche di Bismarck nell'Ottocento o della Germania di Kohl in questa fine Novecento. Per finire, non era fata­ le che lo stalinismo si costituisse fra il 1929 e il 1939 nel modo in cui si è costituito. Per questo ci voleva anche l'empirica "personalità" di Stalin, violenta e sospettosa, una personalità caucasica formatasi in un semi­ nario ortodosso georgiano, che è quanto di più empirico e contingente possa esistere, e che non ha pertanto nulla a che vedere con presunte leggi storiche necessarie simile alle leggi delle scienze naturali. In breve, la nostra affermazione "metafisica" (e non solo epistemologica) sulla positività globale di tutto il fenomeno comunista-rivoluzionario del No­ vecento non è dovuta a ragioni storicistiche, ma alla convinzione pro­ fonda che le classi subalterne hanno sempre un diritto assoluto a tenta­ re il rovesciamento delle condizioni di produzione che le asserviscono.

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Esaminiamo infine la seconda eredità, che pesa ancora sulle nostre spalle come negativo fardello, e che a nostro avviso costerà alcuni de­ cenni di inutili e regressive "riproposizioni" di un modello storico irrevo­ cabilmente scaduto, il comuniSmo storico novecentesco dell'epoca della seconda rivoluzione industriale (in proposito non nutriamo alcun "principio di speranza" alla Bloch, ma ci teniamo su di un piano di realismo sociale di ma­ terialismo incondizionato). Questa eredità negativa proviene direttamente da quella positiva, e vi è qui un esempio della correttezza del punto di vista dialettico, che fa nascere il negativo dal positivo, e viceversa. Que­ sta eredità negativa ha due aspetti, il primo ontologico ed il secondo an­ tropologico, aspetti che devono essere distinti per ragioni di chiarezza, ma che sono in realtà uniti, in quanto parti indistinguibili dello stesso complesso processuale. Sebbene si sia già fatto riferimento a questi due aspetti nelle pagine precedenti, è bene riproporli, in modo da non la­ sciare alcun equivoco per il lettore attento ed esigente. L’aspetto onto­ logico negativo consiste in una forma di nichilismo, cioè di radicale in­ fondatezza del fondamento, per cui si pensa che il fondamento del pro­ getto rivoluzionario-comunista sia la Classe operaio-proletaria nella sua dimensione In Sé, che accede al proprio Per Sé con l'ausilio e la media­ zione teorico politica del Partito. Parliamo di nichilismo perché non esi­ ste altro modo per far capire che questo Fondamento è Nulla, e non è invece un Essere. Certo, questo fondamento sarebbe stato un Essere, e non un Nulla, se le potenze mentali della produzione (il generai intellect di cui parla Marx) si fossero alleate con la classe operaia, o più esattamen­ te con il lavoro complessivo socializzato. Ma queste potenze mentali della produzione si sono invece alleate con il capitale, contribuendo al suo sviluppo ed al suo dominio, ed è dunque nichilismo fingere che il Fondamento sia un Essere laddove esso è invece il Nulla. Ribadiamo qui ancora una volta che la sola forma ontologica che sopporta, ed anzi esige, la rappresentazione sociale in termini di In Sé e di Per Sé è l'individuo moderno costituitosi a partire dal dissolvimento dei ceti precapitalistici, e che le altre forme ontologiche non la sopportano, dal momento che né la Classe né tantomeno il Partito contengono in potenza quell’universalità che può fare da base strutturale per la società comuni­ sta intesa come orizzonte di libere individualità caratterizzate da capaci­ tà onnilaterali e da bisogni ricchi. Questo nichilismo ontologico (che comporta una mancanza di fon­ damento anche assiologica, essendo ['assiologia, cioè il mondo dei va­ lori, lo spazio per eccellenza dell'universalismo) comporta necessaria­ mente un nichilismo antropologico, cioè un difetto in termini di "natura umana" nel profilo del "compagno", cioè del comunista medio novecen­ tesco. Così come la forma capitalistica del valore è data dal fatto che il

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tempo di lavoro sociale medio incorporato nel bene-merce fa da fonda­ mento del legame sociale capitalistico (e non è dunque una forma che indichi ogni possibile forma di prodotto sociale, dalle piramidi egizie alle cattedrali gotiche), analogamente il militante comunista medio nove­ centesco è caratterizzato da un profilo antropologico di tipo militare e religioso, strutturato sulla "professione" di una fede del tutto infondata, la fede nella grande narrazione ideologica del proletariato. Le fedi in­ fondate crollano in modo catastrofico, in particolare quando crollano alcuni "articoli" essenziali di queste fedi, come la supposta incapacità del capitalismo di sviluppare la forze produttive o l'altrettanto supposta capa­ cità del proletariato di "battere" il capitalismo nella sfida dello sviluppo delle forze produttive stesse, il tipo umano che "incarna" ed "impersona" queste fedi infondate deve necessariamente essere un tipo umano dotato di una psicologia rigida ed insicura, capace di grandissimi sacrifici ma anche altrettanto capace di crolli improvvisi (e vi è qui una gamma di comportamenti studiati dalla grande tradizione psicoanalitica novecen­ tesca). in breve, ogni ontologia è solidale di una antropologia; la "catastrofe antropologica" non è altro che la rivelazione superficiale, em­ pirica, di una sottostante carenza ontologica, o meglio ontologico-sociale. Questa eredità ci pesa ancora addosso come un cadavere che tra­ sportiamo sulle spalle per la sepoltura. Essa rischia di essere il "becchino" del comuniSmo, e lo è già comunque stata per milioni di persone, non tut­ te corrotte e disprezzabili, che hanno concluso frettolosamente che ci troviamo ormai immersi nella fine capitalistica della storia. Ne! nostro quarto ed ultimo capitolo, vorremmo portare alcuni argomenti contro questa conclusione.

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MARX E IL COMUNISMO DEL NOVECENTO

I. Il cuore del problema nei suoi tratti essenziali Verificata la "data di scadenza" del comuniSmo storico novecentesco, il problema del comuniSmo non è chiuso, ma anzi si apre in modo nuovo ed inedito. È vero che l'ideologia capitalistica, promossa capillarmente dalle oligarchie finanziarie transnazionali, bombarda ogni giorno, con un fuoco ideologico di sbarramento sulla fine definitiva ed irreversibile del comuniSmo in qualunque forma, ma è anche vero che in questa sede possiamo tranquillamente trascurare questo fuoco di sbarramento, per concentrarci invece sui veri problemi. Questi veri problemi si possono in realtà compendiare in uno: in questa incipiente terza rivoluzione indu­ striale, nel quadro di questa inaudita mondializzazione del modo di pro­ duzione capitalistico, sulla base dell’incredibile forza militare ed ideo­ logica dei centri finanziari internazionali, e tenendo conto anche dello scoraggiamento causato dalla fine ingloriosa dell’esperimento di costruzio­ ne del comuniSmo storico novecentesco, eccetera, è possibile ancora parlare del comuniSmo come di una prospettiva strategica praticabile e come di "un movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti"? Questo è il cuore del problema. Per determinarne i tratti essenziali, bisogna ricordare ancora una volta che l’ipotesi fondamentale di Marx stava nel fatto che le potenze mentali della produzione sociale (da lui battezzate in lingua inglese generai intellect), nonostante il loro sviluppo in forma capitalistica, si sarebbero ad un certo punto ricomposte dalla par­ te del lavoro, non da quella del capitale. Questa "ricomposizione" sareb­ be stata la premessa storica materiale del comuniSmo, e avrebbe com­ portato il superamento del modo di produzione capitalistico, favorito anche dalla capacità politica autonoma e indipendente della classe ope­ raia, "fronte avanzato" di queste stesse potenze mentali della pro­ duzione.

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Tutto questo non è avvenuto. Le potenze mentali della produzione si sono bensì sviluppate, ma in forma rigorosamente capitalistica, raffor­ zando il capitale ed indebolendo il lavoro. Si tratta allora di capire se e in quale misura questa tendenza sia irreversibile, fino ad una vera e pro­ pria fine capitalistica della storia, oppure se vi siano prospettive mate­ riali di rovesciamento di questa tendenza. Il problema del comuniSmo sta infatti qui, non certo nella retorica pauperistica, moralistica e miserabilistica sulle nefandezze e le ingiustizie scandalose del capitalismo. Questa retorica è sufficiente per legittimare la rappresentanza elettorale di minuscole aziende-partito, che possono denominarsi o meno "co­ muniste", ma è insufficiente per dare una prospettiva storica di supera­ mento del modo di produzione capitalistico. Questa era la prospettiva di Marx e solo in questa prospettiva accettiamo di denominarci e di essere denominati "marxisti". Se per "marxismo" si intende invece la difesa no­ stalgica della tradizione del movimento operaio e socialista e del co­ muniSmo storico novecentesco, unita con la riproposizione inconsapevole (il "ritorno del rimosso") dei contenuti organicistici e regressivi del comu­ niSmi precapitalistici (spesso scambiati in buona fede per "protesta anti­ capitalistica", addirittura più "attuale" dello stesso marxismo), allora è chiaro che non siamo per nulla "marxisti", non ci dichiariamo tali e re­ spingiamo questa etichetta fuorviante. Ma per fortuna non è questo il ca­ so. È infatti possibile, anche se difficile, riprendere il filo di un Marx del tutto estraneo a quello kautskiano, che la vulgata marxista ci ha consegnato.

II. Il problema del lavoro salariato e sfruttato oggi Nella terza rivoluzione industriale il tema del lavoro salariato e sfrutta­ to si manifesta apparentemente solo sotto l'aspetto di una sua eccedenza, cioè della disoccupazione strutturale, crescente e di lungo periodo. Non si tratta solamente del vecchio tema del cosiddetto "esercito industriale di riserva", con cui il vecchio capitalismo ricattava i lavoratori occupati e calmierava il prezzo del lavoro. Si tratta del fatto che l'attuale transizione capitalistica appare strutturalmente caratterizzata da un’incapacità, da par­ te del capitale, di "dare lavoro" ai nuovi svecchi proletariati, e che questa incapacità, sebbene abbia anch’essa alcuni lontani e pallidi precedenti storici, è un fenomeno storico sostanzialmente nuovo ed inedito. La no­ vità di questo fenomeno è tale da avere già provocato "a sinistra" ideo­ logie futuristiche e avveniristiche di "fine del lavoro", che a nostro parere sono fuorviarti, e che finiscono con il riecheggiare temi delle ideologie capitalistiche della "fine della storia". Noi non ci metteremo su questa

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strada, dal momento che pensiamo che nel modo di produzione capita­ listico il lavoro salariato continua ad essere un elemento fondamentale della riproduzione del legame sociale, e che le utopie sulla "fine del la­ voro", spesso con ottima volontà ed in perfetta buona fede "di sinistra", finiscono con l'ingenerare l'idea errata che il consumo, e non più il lavo­ ro, possa già diventare qui e ora nel capitalismo la base di un nuovo le­ game sociale. In proposito, il fatto che il consumo venga concepito in queste utopie "di sinistra" come un consumo collettivo, solidale ed eguali­ tario, rispettoso dei vincoli ambientali ed attento alla riproduzione umana e familiare, e non come un vorace consumismo individualistico distrut­ tore degli ecosistemi, non cambia nell’essenziale il fatto che si ha una "fuga in avanti", avveniristica e futuristica, laddove si tratta ancora inve­ ce di studiare come il lavoro salariato possa almeno "resistere" allo sfruttamento capitalistico, in vista di una possibile, ma problematica, alleanza con le potenze mentali della produzione, che sono oggi mag­ giormente presenti nel lavoro autonomo e nella direzione manageriale dei processi produttivi (ed è questo appunto il dramma della situazione attuale). 1 teorici del capitalismo sono perfettamente consapevoli della novità storica presente, consistente nel fatto che gli investimenti produttivi non producono occupazione, ma sono anzi spesso mirati direttamente ad abolirla. Nel linguaggio dell'economista americano Paul Kennedy, "una nuova invenzione è un conto; una nuova invenzione specificamente pen­ sata per cacciare via la gente dall'impiego è tutta un'altra faccenda". Non è allora un caso che Kennedy faccia appello a Marx, dicendo letteral­ mente: "Marx ha detto che alla storia si affacciano di volta in volta solo quelle questioni alle quali essa è in grado di dare risposte. Speriamo che, per una volta, Marx abbia ragione". È interessante che Marx, privato del suo comuniSmo, venga arruolato come un consulente manageriale per risolvere il problema di uno sviluppo senza occupazione, problema che deve essere risolto con il solo vincolo del mantenimento integrale del modo di produzione capitalistico. Vi sono infatti alcune novità quali­ tative dell'attuale fase storica che sono sotto gli occhi di tutti, in primo luogo, ovviamente, il rapporto tra invenzione, innovazione e occupazio­ ne. L'industria cantieristica navale nei secoli XVII e XVIII fu un moltipli­ catore di posti di lavoro, e lo stesso avvenne per le macchine tessili a vapore, le ferrovie, l'automobile e l'industria del trasporto aereo. Oggi, invece, le nuove tecnologie non hanno un simile effetto moltiplicatore: le biotecnologie sembrano richiedere solo superspecialisti, mentre la robotica distrugge più posti di lavoro di quanto ne crei. Il "circolo virtuo­ so" fra invenzione, innovazione ed occupazione appare spezzato, e nes­ suno sa in che modo possa essere ricostituito. In società come gli Usa

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questa situazione ha già portato ad una composizione demografica con il 3 o il 4% della popolazione attiva in agricoltura, il 18% nell’industria e fra il 70 e il 75% nei servizi, ma è chiaro che ciò è reso possibile solo dall'imperialismo e dal dominio economico e militare del mondo, dal momento che la stragrande maggioranza geografica del pianeta non po­ trebbe mai reggere, in condizioni capitalistiche, una simile composizio­ ne demografica (già ora, il problema delle migrazioni dai paesi poveri a quelli "ricchi" ha come origine primaria lo sconvolgimento tellurico dei rapporti fra agricoltura, industria e terziario). In secondo luogo, è chiaro che non funziona più oggi il celebre argomento di Adam Smith a favore del libero commercio e della specializzazione, in base al quale non aveva senso né per l’Inghilterra né per il Portogallo insistere a produrre sia vi­ no che prodotti tessili, quando le circostanze rendevano l'Inghilterra più idonea a produrre prodotti tessili ed il Portogallo a produrre vino. Nella situazione attuale vi sono almeno 50 paesi in grado di produrre soia e 70 in grado di produrre acciaio, tutti con standard di retribuzione diversis­ simi, per cui il "taglio del costo del lavoro" appare l'unica soluzione rea­ listica per rispondere alla sfida della concorrenza internazionale. Il capi­ talismo sa benissimo che, in presenza di un aumento annuo medio di 95 milioni di persone sul pianeta, si dovrebbero creare almeno 40 milioni di nuovi posti di lavoro. La sua sola risposta, allora, è colpire il lavoro, svalorizzarlo, flessibilizzarlo, ridurne il costo. Tutto questo, naturalmen­ te, è presentato come se fosse una fatalità religiosa cui non ci si può opporre in alcun modo. La stessa economia ha oggi una struttura teo­ logica. Essa presuppone l'esistenza e l’eternità temporale del capitali­ smo come un dato esogeno, un atto di fede indiscutibile. Il comunista è appunto "l'ateo" del XX secolo, perché non crede nell'esistenza eterna del capitalismo. il rapporto di produzione capitalistico, in questa terza rivoluzione in­ dustriale, deve riprodursi riproducendo il rapporto di sfruttamento fra lavoro salariato e capitale. Questa riproduzione si fa oggi difficile, pro­ prio perché le potenze mentali della produzione, che il capitale ha sot­ tomesso, si sono talmente concentrate nel macchinismo, ed hanno tal­ mente aumentato la produttività globale, da rendere sempre più difficile la cosiddetta creazione di "occupazione", il lavoro salariato è ad un tempo un bene raro (da conseguire) ed un bene svalorizzato. Questo paradosso, che "inverte" il senso comune capitalistico (e che, come vedremo più avanti, provoca pazzia sociale quotidiana), è però spiegabile alla luce della teo­ ria marxiana del valore, purché essa venga interpretata in modo non kautskiano o engelsiano di teoria della mera "sostanza" del valore. In base ad una teoria sostanzialistica del valore noi dovremmo essere giunti oggi alla sua virtuale estinzione, dato il grado di incorporazione della produt­

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tività globale nel sistema macchinico. Il modo di produzione capitalistico, però, è caratterizzato dalla permanenza e dalla riproduzione della "forma di valore" dei prodotti del lavoro umano, per cui il lavoro deve sempre essere mantenuto nella forma "asservita" della merce, ed è sem­ pre più svalorizzato, flessibilizzato ed impoverito nel suo stesso "valore". Nella storia del genere umano, il processo di svalorizzazione plane­ taria del lavoro che oggi ha luogo su scala mondiale è un fenomeno qualitativamente nuovo ed inedito. Per millenni gli uomini si sono abi­ tuati a mettere in rapporto la povertà e la penuria con la produttività globale delle loro società (facendo qui astrazione dal prelevamento for­ zoso dei gruppi di sfruttatori esterni al processo di produzione, contro cui si levava la protesta dei comuniSmi precapitalistici). Gli esquimesi non abbandonavano i loro vecchi a morire di fame sulla banchisa gelata perché erano barbari e cattivi, ma perché le forze produttive che control­ lavano erano troppo modeste per assicurare il mantenimento di chi non poteva ormai partecipare più alla produzione sociale del gruppo. Migliaia di gruppi sociali, in diverse forme, hanno fatto l'esperienza vissuta dagli esqui­ mesi. Oggi, invece, ci troviamo nella situazione in cui vi sarebbero le forze produttive sufficienti per dare un certo benessere all’intera popolazione mondiale, ma in cui questo, pur tecnicamente possibile, non viene fatto, pur di riprodurre il modo di produzione capitalistico. Milioni di persone non capiscono, pur avvertendo confusamente che ci deve essere qualco­ sa di poco chiaro, come sia possibile che trentanni fa, con una tecnolo­ gia globale meno produttiva di quella attuale, era possibile pagare le pensioni, la scuola e la sanità pubblica, mentre oggi non è più possibile, e non è più possibile non perché siano avvenute pestilenze o cataclismi naturali (siccità, carestie, eccetera), ma perché indecifrabili ed oscuri "mercati internazionali" dicono che non è più possibile. Un esquimese, certo, non lo capirebbe: ma come, proprio ora che potremmo mantenere i vecchi perché siamo pieni di beni, proprio ora dobbiamo lasciarli mori­ re come quando c'era un solo pesce alla settimana per tutta la famiglia? Questa situazione è letteralmente "barbarica", con la doverosa ag­ giunta che mai vi furono barbari tanto barbari come le oligarchie finan­ ziarie multinazionali attuali. Essa è la matrice materiale di una sorta di fibrillazione globale, di impazzimento ideologico e filosofico planetario di cui segnaleremo le coordinate nel prossimo paragrafo. Ancora una volta, non bi­ sogna perdere di vista l'essenziale: le manifestazioni "ideologiche" di irraziona­ lismo planetario, e di apparente impazzimento globale, hanno tutte una matrice ontologico-assiologica fortemente unitaria, il paradosso della povertà crescente in mezzo ad una crescente produttività, frutto a sua volta del fatto che il lavoro umano, uscito sconfitto dalla sua titanica lot­ ta novecentesca con il capitale, continua ad essere il fondamento del le­

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game sociale, e nello stesso tempo questo "fondamento" è sfondato da processi di svalorizzazione. Il valore del lavoro è sistematicamente svalo­ rizzato dall'economia, proprio quando la morale pretende ipocritamente che continui ad essere il massimo dei valori.

111. L'irrazionalismo globale dal fondamentalismo religioso al conservatorismo capitalistico L'individualità, o meglio la forma individuale della personalità socia­ le, non è un monopolio dei popoli ricchi e "colti" dell'Europa e degli Usa. Se è vero, infatti, che la forma individuale della personalità sociale è un prodotto della dissoluzione delle comunità organiche precapitalistiche provocato dalla mondializzazione del modo di produzione capitalistico, vi sono oggi al mondo miliardi di individualità in sé, che hanno il pro­ blema di definirsi rispetto al legame sociale (capitalistico) che li tiene insieme, sia pure nella forma contraddittoria della "insocievole socievo­ lezza". Questi miliardi di individualità in sé, scaglionati in una gamma quasi infinita di situazioni sociali che vanno dalle ville californiane ai tu­ guri delle baraccopoli asiatiche ed africane, non formano certo un’unica "classe globale" (il sostenerlo sarebbe un macabro umorismo!), ma han­ no in comune il fatto che di fronte a loro c'è un legame sociale, il lavoro capitalistico (cioè il lavoro salariato diviso, diretto, da alcuni ed eseguito da altri), che è sempre più pubblicamente ed apertamente svalorizzato, e c'è anche il fatto scandaloso e visibile di una sempre maggiore produt­ tività tecnica e scientifica che produce una sempre maggiore povertà e disoccupazione. Il nesso vizioso di svalorizzazione (cioè di annichilimento ontologico ed assiologico) del legame sociale, da un lato, e di contradditto­ rietà scandalosa di produttività e di miseria sociale, dall'altro, che filosofi­ camente si manifesta nel divorzio ormai insanabile fra libertà ed uguaglianza (la disuguaglianza come frutto di una libertà sempre apparentemente cre­ scente), è una provocazione quotidiana per questi miliardi di individuali­ tà (ed abbiamo scritto provocazione per mostrare che questo "chiama fuori" dalla sua interiorità ogni singola persona). Questa provocazione è spesso psicologicamente insostenibile per l'individuo, ed ecco perché sono oggi tanto diffuse strategie psicologiche di alleggerimento delle tensioni e di riduzione della complessità (analizzate magistralmente dal grande studioso Christopher Lasch). Nonostante queste strategie, è inevitabile che crescano le due modalità della schizofrenia e della paranoia, che sono ormai categorie sociali e politiche, non più li­ mitabili ad un ambito di psicologia specialistica. Tutto questo non av­ viene certo a caso. Da un lato, la schizofrenia è provocata dal fatto che vi

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è ormai una scissione intollerabile fra la razionalità specialistica che è sempre più richiesta nei saperi particolari, che diventano effettivamente sempre più ricchi ed efficaci, e l’irrazionalità globale della totalità socia­ le complessiva, ormai sfuggita ad ogni controllo sistemico possibile (e questa modalità schizofrenica è ovviamente più diffusa nelle metropoli capitalistiche, dagli Usa al Giappone). Dall’altro lato, la paranoia è pro­ vocata dal fatto che la realtà sociale "visibile" appare talmente scandalo­ sa e "peccaminosa" (nel suo doppio aspetto di svalorizzazione crescente del lavoro, che pure resta "ufficialmente" il legame sociale fondamenta­ le, e di compresenza provocatoria di produttività e di povertà) da ingene­ rare inevitabilmente l'idea che vi siano oscuri e terribili colpevoli, che devono essere puniti costi quel che costi (e la modalità paranoica è ov­ viamente più diffusa nelle periferie capitalistiche, in cui è effettivamente plausibile l'idea che il colpevole ci sia, e sia appunto il mondo ricco ed egoista del Nord del mondo). In proposito, bisogna insistere sul fatto che la compresenza patologica di schizofrenia e di paranoia è purtroppo la sola modalità di massa concessa a miliardi di individualità sociali dalle oligarchie finanziarie transnazionali, che sono effettivamente "colpevoli" in ultima istanza di questo quadro storico-sociale. Questa costellazione ideologica è purtroppo una realtà estremamen­ te sfavorevole alla formazione delle due identità individuali globali tipi­ che dell’orizzonte filosofico marxiano, l'identità "borghese" e l’identità "comunista", e favorisce invece altre due identità individuali globali del tutto estranee a questo orizzonte, quella fondamentalistico-religiosa e quella individualistico-capitalistica. Abbiamo già ripetutamente ricordato che il profilo filosofico del comuniSmo moderno di Marx non è assolutamente di derivazione proletaria (il comuniSmo proletario dell'Ottocento era una forma di comunitarismo egualitario che affondava le sue radici in forme tradizionali di convivenza sociale precapitalistiche), ma è di deriva­ zione pienamente borghese, nella misura in cui elabora dialetticamente la nozione hegeliana di libertà come "logica del concetto" ed in partico­ lare ne elabora due dimensioni storico-fenomenologiche, il diritto asso­ lu to del servo al "riconoscimento" nel suo conflitto con il signore ed il rifiuto dello scatenamento degli egoismi individuali tipico di quel "regno animale dello spirito" che è l’incontrollata disgregazione capitalistica. Fra Ottocento e Novecento, in concomitanza con la separazione fra la proprietà e la direzione dell’impresa capitalistica, l'identità borghese si era già filosoficamente scissa in una dimensione irrazionalistica, spiri­ tualistica, nostalgica di un inesistente, anche se idealizzato, mondo pre­ capitalistico di valori disegualitari, ed in una dimensione positivistica, che elevava apertamente la scienza e la tecnica ad unici fondamenti comuni­ tari possibili. L'attuale terza rivoluzione industriale vede un'incredibile de­

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cadenza dell'identità borghese tradizionale (che negli anni Trenta, con il fascismo, ma più ancora con il nazismo, aveva battuto la via impraticabi­ le e suicida dell'alleanza fra la dimensione irrazionalistica e la dimen­ sione positivistica), e la sua sottomissione pressoché totale agli impe­ rativi sistemici di riproduzione dei meccanismi di estorsione del valore, istituiti dalle oligarchie proprietario-finanziarie (che sono sotto certi aspetti più neofeudali che neocapitalistiche, e che appunto per questo lo­ ro carattere "neofeudale" hanno eretto l'economia politica in una nuova religione). Lungi dall'essere rafforzata da questo indebolimento dell'identità borghese, l'identità "comunista" ne è danneggiata, proprio a causa del suo legame dialettico con l'identità borghese stessa, senza contare, ovvia­ mente, la diminuzione sociologica del peso statistico della classe ope­ raia nell'insieme dei lavoratori occupati e l'effetto di delegittimazione politica e morale causato dalla dissoluzione del comuniSmo storico no­ vecentesco. Al posto della "feconda" polarità di borghesia e comuniSmo, si istalla una polarità molto più regressiva, schizofrenico-paranoica, che ha come fondamento sociale l'unità fra il movimento centripeto che assorbe tutti i popoli del mondo in un'unica mostruosa comunità capitalistica globa­ le, tenuta assieme dai flussi del capitale finanziario-proprietario, ed il movimento centrifugo che con inaudita violenza scagliona i differenti popoli in orbite più o meno lontane dai centri metropolitani deH'imperialismo. Questa unità centripeto-centrifuga (è importante che se ne colga bene la dinamica unitaria di sviluppo, .e non si concepiscano invece il Nord e il Sud del mondo come entità geografiche separate ed autonome) si mani­ festa filosoficamente come contrapposizione fra un'identità di tipo fondamentalistico (religioso, ma anche religioso-nazionalistico) ed un'identità di tipo ultracapitalistico ed ormai post-borghese (l'Iran e gli Usa possono es­ sere visti oggi come due paesi esemplari per studiare queste due diverse identità). L'identità fondamentalistica appare oggi ai popoli del mondo oppressi ed emarginati dall’imperialismo la sola possibilità realistica di difesa dei propri interessi storici e politici, ed è dunque un errore meto­ dologico interpretarla in termini di irrazionalismo, tradizionalismo e addirittura neomedioevalismo. Si tratta in realtà di una reazione mo­ dernissima (ed addirittura post-moderna) all'unificazione imperialistica del mondo, che propone ì'american way of life (in una versione liberalizzata e cosmopolitica derivata dal passaggio di campo di una certa cultura ebraica dal messianesimo internazionalistico di Trotzkij e di Benjamin alla diretta apologia del capitalismo globale) come sola identità culturale glo­ bale consentita. Non intendiamo con questo dire che l'approviamo sog­ gettivamente e ce ne felicitiamo. Al contrario, non ce ne felicitiamo, per il semplice fatto che preferiremmo un'identità comunista rinnovata, anche

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perché riteniamo che questa identità fondamentalistico-religiosa, tesa os­ sessivamente a combattere in forma necessariamente paranoica alcuni aspetti sovrastrutturali della cultura capitalistica (liberalizzazione della sessualità, della droga, dei liquori, dell’abbigliamento ecc.) non è in grado di combatterla efficacemente ed è perciò destinata (purtroppo) a soccom­ bere. Anche se non ce ne felicitiamo, però, la riteniamo una forma di re­ sistenza storicamente legittima. In proposito, la forza relativamente maggiore di Allah (fondamentalismo islamico) rispetto a Dio (teologia della liberazione) è dovuta a ragioni culturali di lungo periodo, causate dalla maggiore incorporazione del cristianesimo nel capitalismo, che è iniziata addirittura nel Cinquecento, laddove l'Islam è rimasto forzatamente ai margini dello sviluppo imperialistico, di cui è stato addirittura una delle vittime principali (imperialismi francese, inglese, russo, sioni­ sta, eccetera). Nonostante il dichiarato antimarxismo, questo fondamen­ talismo religioso è intriso di residui di comuniSmo precapitalistico, che hanno appunto un carattere comunitario e non individualistico, e che danno una grandissima importanza al tema messianico della volontà di Dio (cioè soprattutto di Allah). Non siamo però in questo caso di fronte ad un "ritorno del rimosso", ma di fronte ad una legittima resistenza co­ munitaria all'imposizione di un unico profilo culturale capitalistico. Se passiamo al polo opposto della contraddizione, però, vediamo che si sviluppano forme di cultura ancora più pericolose di quella fondamentalistica. Gli Usa dell'epoca di Reagan, Bush e Clinton ne sono in proposito un esempio allucinante. Con la decadenza parallela della vecchia borghe­ sia e del vecchio movimento operaio organizzato, si ha l'affermazione sen­ za freni di un tipo di cultura nuova ed inedita, mai conosciuta prima nello sviluppo storico dell'umanità, una cultura fondata sul dominio massiccio e capillare dei media (in particolare quello televisivo). Questa cultura non ha più a rigore un carattere "di classe", dal momento che si basa appun­ to sul superamento sia della vecchia cultura borghese e dei suoi valori morali e politici, sia delle vecchie culture popolari e comunitarie, ma è la prima cultura storica che possa essere legittimamente definita in termini * di autorappresentazione globale del capitalismo. È pertanto una cultura in un certo senso "democratica" (nel senso che Tocqueville dava a que­ sto termine), ma questa democraticità è incorporata e totalmente sot­ tomessa ad un dominio estremamente oligarchico, il dominio della clas­ se proprietario-finanziaria. Questa cultura, infine, è la matrice fondamentale di quell’unità di schizofrenia e di paranoia di cui abbiamo parlato sopra. In proposito si pensi a fenomeni come la decadenza ormai irrever­ sibile del cinema (l'arte principale del Novecento e della seconda rivolu­ zione industriale), il ritorno massiccio alla pena di morte come la sola possibilità di frenare una criminalità comune percepita come fatale e

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inarrestabile, lo smantellamento isterico di ogni garanzia sociale in un paese che potrebbe tranquillamente permettersi ogni tipo di aiuto e so­ stegno assistenziali, il ripiegamento della vecchia e gloriosa cultura ameri­ cana "di sinistra" in una sorta di culto narcisistico del proprio gruppo, de­ nominato politically cornei, ecc. Tutti questi fenomeni hanno purtroppo un robusto collante unitario, costituito da una forma di individualismo che non ha più nulla di "borghese", ma che è ormai semplicemente ultraca­ pitalistico, e che mette ormai in pericolo la stessa identità individuale moderna in quanto tale. Stretto tra il fondamentalismo religioso-nazionalistico e l'individualismo ultracapitalistico, il presupposto antropologico del comuniSmo sembra mi­ nacciato in modo irreversibile. Questa minaccia è reale ed è gravissima. Per fortuna, però, resta l'orizzonte materiale di una base sociale ed antropologica per il comuniSmo anche in questa terza rivoluzione industriale.

IV. Il problema cruciale del nuovo soggetto rivoluzionario-comunista Il quadro che abbiamo tracciato nel paragrafo precedente, caratteriz­ zato dalla compresenza viziosa ed antitetico-polare di un fondamentali­ smo anticapitalistico regressivo, di tipo religioso e nazionalista, e di un individualismo egoistico ultracapitalistico, carico di elementi schizofrenici e paranoici, non vuole essere l'anticamera di un pessimismo apocalittico, ma soltanto una segnalazione realistica delle difficoltà sociali e antropologiche da cui partire. Del resto la questione del soggetto rivoluzionario anticapitalista non è mai stata semplice, neppure ai tempi di Marx e di Lenin. In via teorica, già ai tempi di Marx la questione del soggetto rivo­ luzionario è la sintesi di una stratificazione di tre diverse istanze: la clas­ se dei proletari, una classe "filosofica", caratterizzata dalla capacità, (ricavata per via "analitica" e non "sintetica", per usare un linguaggio kantiano) di liberare insieme con se stessa l'intera umanità; la classe dei salariati, una classe "sociologica" caratterizzata dall'essere la sola pro­ duttrice di valore, vittima dello sfruttamento e dell'estorsione di plusva­ lore, ma anche fronte avanzato della socializzazione cooperativa delle forze produttive; ed infine, le potenze mentali della produzione (il cosid­ detto generai intellect), concepite come la forza produttiva decisiva, che si sarebbero ad un certo punto unite al lavoro, facendo saltare le catene regressive dei rapporti capitalistici di produzione. Queste tre diverse istanze, variamente mescolate e diversamente enfatizzate, erano conce­ pite filosoficamente come qualcosa di in sé, cui il partito politico marxi­ sta, prima socialdemocratico (1880-1914) e poi comunista (1917-1991), dava infine la forma del per sé, divenendo così una vera e propria quarta

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istanza soggettiva. Nessuno dubiterà, credo, che tutta la questione deb­ ba essere radicalmente riformulata. Iniziando dal tema del possibile nuovo soggetto rivoluzionario in questa terza rivoluzione industriale, mettiamo in guardia da una concezione soggettocentrica, di tipo esclu­ sivamente filosofico e/o sociologico, come se ci potesse essere una sorta di istanza motrice dotata di identità a priori. Non è così. 1 soggetti si co­ stituiscono attraverso delle pratiche e non possono essere definiti senza ed al di fuori di esse (da Althusser a Foucault vi è qui una lunga e glorio­ sa tradizione cui fare riferimento). Non è un caso, inoltre, che lo stesso Marx, parlando di "potenze mentali della produzione", abbia già fatto ri­ ferimento a forze sistemiche ed impersonali di tipo esplicitamente non soggettocentrico. Fatta questa premessa, che resta metodologicamente decisiva, possiamo cominciare a stilare un brevissimo elenco politico­ sociologico di possibili soggetti rivoluzionari nella nuova fase storica. Iniziamo dai poveri, dagli emarginati, dagli esclusi, dai "proletari" nel senso letterale del termine. Se osserviamo il problema su scala mondia­ le, e non solo dal punto di vista delle metropoli capitalistiche (dove pure le povertà classiche aumentano, con il criminale smantellamento del welfare e della spesa pubblica imposta dal compromesso keynesiano promosso dalla classe operaia politicamente organizzata della seconda rivoluzione industriale), questi "proletariati" aumentano, non diminui­ scono. Gli yuppies scavalcano indifferenti gli homeless, gli emigrati poveri (generalmente illegali e clandestini) cercano di sopravvivere e di fare for­ tuna in città straniere ostili e percorse da fremiti di razzismo. Dal punto di vista di Marx, è noto che non possono essere i poveri il soggetto rivo­ luzionario decisivo, per il semplice fatto che non sono loro i portatori empirici delle nuove potenze mentali della produzione. Questo però non è per noi un argomento decisivo, perché Marx potrebbe anche sbagliarsi, visto che si è anche sbagliato su altri punti. Ci pare proprio, però, che su questo punto Marx abbia ragione. 1 nuovi comunisti sbagliano, se pen­ sano seriamente, con la dissoluzione epocale del progetto di transizione modale del comuniSmo storico novecentesco, di riciclarsi idealmente e di riqualificarsi organizzativamente come i "rappresentanti" politici (ed addirittura parlamentari) delle nuove povertà, nazionali o internazionali. Non diciamo certamente questo per cinismo. Al contrario, riteniamo perfettamente legittimo sostenere (e lo abbiamo anche personalmente sostenuto in un precedente paragrafo) che la colpa peggiore, assolutamente imperdonabile, dell'oligarchia proprietario-finanziaria che tiene oggi le fila della terza rivoluzione industriale, sta proprio nella sua in­ tenzione, provocatoriamente conclamata, di aumentare la povertà attra­ verso lo sviluppo economico e l'innovazione tecnologica. I "poveri" han­ no diritto al massimo di appoggio, morale e politico, ed hanno anche

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diritto alla ribellione assoluta. Nello stesso tempo, però, il loro essere ai margini dello sviluppo delle potenze mentali della produzione fa sì che essi restano del tutto estranei ai processi di conoscenza e di organizza­ zione che strutturano una possibile transizione modale. Una transizione modale (nel senso dei modi di produzione) non può infatti avvenire sulla base dell'indignazione morale contro l'ingiustizia o sulla generalizzazio­ ne di forme di solidarietà comunitaria, nuove o tradizionali che siano. La natura strutturalmente subordinata dei poveri è dei resto perfettamente conosciuta da tutte le grandi religioni, che infatti sono generalmente ca­ ratterizzate dalla compresenza provocatoriamente ipocrita di scelta pre­ ferenziale per i poveri e di appoggio ideologico integrale ai modi di pro­ duzione sfruttatori, schiavistico, feudale o capitalistico che siano. Que­ sto è anche dovuto all'irresistibile ipocrisia di tutte le caste sacerdotali, politeiste o monoteiste, barbute o glabre, caste o fornicatrici, che lo sce­ nario della storia mondiale ha visto in azione. Non intendiamo negare questa irresistibile ipocrisia (che si è estesa, come è noto, anche all'ultima casta sacerdotale storicamente esistita, la burocrazia politica del comuni­ Smo storico novecentesco), ma vorremmo anche suggerire un punto di vista metodologicamente alternativo alla solita indignazione per questa ipocrisia. In realtà le caste sacerdotali sono sempre partite (e tuttora partono) da una valutazione tutto sommato realistica e materialistica (diremmo quasi "scientifica") che prende atto dell'incapacità assoluta dei poveri di dirigere in quanto tali una società complessa ed articolata. Questa valutazione, assolutamente corretta e pienamente "marxista", fa da presupposto semiconsapevole aH'altrimenti scandalosa compresenza schizofrenica di scelta preferenziale per i poveri e di appoggio organizza­ tivo ed ideologico ai dominatori. Per una volta, i "marxisti" dovrebbero imparare un po’ di sano realismo scientifico dalla millenaria esperienza dei preti, la cui conoscenza disincantata dell'incapacità progettuale in­ termodale dei poveri è inestimabile. Passiamo alla classe dei contadini. È noto che la "prima ondata" sto­ rica di rivoluzioni anticapitalistiche ha visto in molti casi la centralità della classe dei contadini (ciò è visibile non solo nel caso classico della rivoluzione comunista cinese del 1949, ma anche nel caso della rivolu­ zione russa del 1917). Molti teorici marxisti hanno negato alla classe dei contadini una vera capacità politica progettuale anticapitalistica, soste­ nendo che i contadini potevano fare al massimo da base di massa per sollevamenti rivoluzionari, ma questo ruolo non poteva che limitarsi all'innesco del processo di transizione intermodale, che rendeva invece necessaria la centralità della classe operaia e del suo partito politico. La storia del Novecento ha a nostro avviso ampiamente smentito questo pregiudizio anticontadino (in questo 1995 in cui scriviamo, dal Vietnam

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a Cuba alla stessa Cina, regimi socialisti nati da società contadine resi­ stono ancora, laddove regimi socialisti nati da società maggiormente operaie, come l’Urss, la Cecoslovacchia e la Repubblica Democratica Te­ desca sono già spariti da tempo). Aggiungiamo anche che il fatto che i contadini sarebbero irresistibilmente portati alla proprietà della terra e alla produzione delle merci, mentre gli operai non lo sarebbero, anche ammesso che fosse un fatto vero (ma non lo crediamo), non è per noi assolutamente decisivo, perché la chiave della capacità di transizione intermodale non sta in generiche tendenze alla proprietà (il comuniSmo per Marx è definito anche in termine di generalizzazione della proprietà individuale), ma in un dominio conoscitivo reale sulle potenze mentali della produzione, finalizzate naturalmente alla produzione sociale di valori d'uso. La ragione per cui i contadini non ci sembrano essere il soggetto rivoluzionario odierno sta nel fatto che il processo di espulsio­ ne catastrofica dei contadini dalla terra che oggi ha luogo ci sembra sin­ ceramente irreversibile. Il capitalismo si introduce in agricoltura, infatti, nella forma di una riduzione drastica dei contadini (laddove la sua intro­ duzione nell'industria avveniva invece in un primo momento nella forma di un aumento massiccio degli operai). I contadini ovviamente reagisco­ no a questo fenomeno, ma questa reazione oscilla necessariamente fra una difesa, strategicamente impotente, delle vecchie forme di conduzio­ ne comunitaria della terra (come è il caso per gli indios latinoamericani, dal Messico al Perù) ed un appoggio politico a governi populistici e pro­ tezionistici, che riescono a tener alti i prezzi dei prodotti agricoli soltan­ to per un tempo limitato, fino a quando lo strangolamento dei mercati finanziari non li distrugge. Consideriamo ora la classe operaia, o meglio la classe dei salariati dell'industria (che comprende, a fianco degli operai in senso stretto, an­ che impiegati, tecnici, addetti ai trasporti ed alla commercializzazione, eccetera). Si tratta della classe che per i marxisti ha sempre avuto la "primogenitura rivoluzionaria", la classe dei lavoratori produttivi di plusva­ lore e dunque anche di profitto capitalistico, la classe che utilizzava la sua "internità strutturale" ai processi di produzione per aumentare la sua pro­ gressiva padronanza delle potenze mentali della produzione "oggettivate” nel macchinismo, la classe interessata alla scienza e alla tecnica, la classe allenata dalla disciplina di fabbrica alla disciplina politica tipica del partito prima socialdemocratico e poi comunista, la classe capace di "egemonizzare" anche culturalmente gli strati dispersi ed oscillanti della piccola borghesia vecchia e nuova, eccetera. L'assoluta "centralità" di questa classe è forse l'unico vero minimo comun denominatore tra il pensiero di Marx, o pensiero marxiano, ed il pensiero marxista successivo. Questo non è af­ fatto un caso, ma è il riflesso teorico di un grande fatto storico, il fatto

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cioè che sia la prima che ia seconda rivoluzione industriale sono state entrambe caratterizzate dal protagonismo sociale e politico della classe operaia di fabbrica. Ciò non sembra essere il caso di questa terza rivolu­ zione industriale, inequivocabilmente caratterizzata da un restringimen­ to strutturale progressivo ed irreversibile del peso numerico, sociale e statistico della classe operaia, erosa dalla produzione automatizzata e dall'espansione delle attività terziarie. In proposito si è spesso sostenu­ to da parte "marxista" che tutto ciò è vero ed innegabile, ma che questo fatto incontestabile non cambia i dati fondamentali della questione po­ sta da Marx, dal momento che, se la classe operaia in senso stretto (il lavoratore manuale di fabbrica) è in restringimento relativo ed assoluto, la più ampia classe dei salariati in senso ampio (il lavoratore dipenden­ te, operaio, impiegato, tecnico, addetto alla ricerca, ai servizi, alla com­ mercializzazione, eccetera) è invece in espansione, ed è appunto questa ampia classe dei salariati del moderno capitalismo il nucleo del sogget­ to rivoluzionario anticapitalista di cui continuiamo ad avere oggi biso­ gno. Certo, è sotto gli occhi di tutti che questa ampia classe dei salariati della produzione capitalistica non ha una sufficiente "coscienza di clas­ se", non è politicamente unificata, è divisa su basi generazionali, lingui­ stiche, etniche, professionali, di accesso al consumo, eccetera. Reste­ rebbe il fatto comunque che questo vasto gruppo sociale continuerebbe ad essere la "classe in sé" potenzialmente portatrice di capacità politica anticapitalistica. È evidente che un simile punto di vista merita di essere preso in seria considerazione in termini almeno teorici generali (è infatti altrettanto evidente che una sua trattazione sociologica è impossibile nei limiti telegrafici di questo paragrafo). Nell'ipotesi originaria di Marx, l'insieme composito del lavoro sala­ riato e dipendente, politicamente egemonizzato dal suo reparto di avan­ guardia, la classe operaia della grande industria moderna, si sarebbe ricongiunto con le potenze mentali della produzione evocate dalla crescita della socializzazione delle forze produttive, ed avrebbe storicamente ga­ rantito la transizione al comuniSmo, società della generalizzazione del valore d'uso e dell'estinzione del valore di scambio. In molti paragrafi precedenti abbiamo già sottoposto a critica radicale questa ipotesi, ma varrà la pena fare ancora una volta un bilancio storico. In estrema sinte­ si, negli ultimi 120 anni (1870-1990) questo insieme composito del lavo­ ro salariato e dipendente si è espresso politicamente in due forme fon­ damentali. In primo luogo, attraverso forme politiche riformiste, socialde­ mocratiche, laburiste e populiste esso ha perseguito la strategia della massima valorizzazione possibile del proprio valore di scambio all'interno di rapporti sociali capitalistici dati come scontati, sulla base di un com­ promesso in cui in cambio di pace sociale e di collaborazione produttiva si

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riceveva aumento progressivo dell'occupazione, del salario sociale ed in generale della promozione sociale individuale e collettiva. In secondo luogo, attraverso forme politiche rivoluzionarie, comuniste, marxisteleniniste, esso ha perseguito una salarializzazione integrale dell’insieme dei lavoratori, sulla base di una statalizzazione altrettanto integrale dell'intera società, accompagnata da istituzioni politiche dispotiche ed il­ liberali, espressamente concepite per impedire l'organizzazione politica autonoma di gruppi sociali in qualche modo ostili alla salarializzazione integrale. Come è noto, entrambe queste strategie sociali sono comple­ tamente fallite. Il fatto che siano fallite in passato, però, non è di per sé un argomento contro la loro riproposizione, perché chi propone questa ri­ proposizione di fatto sostiene che oggi l'insieme composito del lavoro sa­ lariato e dipendente (calcolato su scala mondiale ed "arricchito" dalle nuove categorie tecniche ed impiegatizie dei servizi) è più vasto e poten­ zialmente qualificato e maturo di prima, e si può così "ripartire" su basi più solide e meno geograficamente "periferiche". Non lo crediamo. Da un lato, il processo di svalorizzazione crescente del lavoro vivo ci sembra un dato strutturale della terza rivoluzione industriale (unito ovviamente alla disoccupazione crescente ed alla flessibilizzazione inaudita del lavo­ ro rimasto), e non ci pare quindi realistico puntare su di un nuovo ciclo "socialdemocratico" su scala mondiale; un simile ciclo dovrebbe neces­ sariamente basarsi su prospettive strategiche di lungo periodo di rivalo­ rizzazione del lavoro salariato e dipendente, e queste prospettive ci paiono incompatibili con i dati tecnologici e finanziari di cui abbiamo parlato in un precedente paragrafo. Dall’altro lato, il progetto di salaria­ lizzazione integrale della società, fondamento economico della costru­ zione statale di un comuniSmo burocratico di partito, ci sembra non più proponibile, non solo per il fatto che esso ha già storicamente mostrato le sue debolezze strutturali, ma anche perché questo progetto presup­ pone una statualità forte, capace di protezionismo, mercantilismo e massiccio autofinanziamento, laddove oggi l’awenuta mondializzazione e transnazionalizzazione dei flussi finanziari sembra distruggere le stesse basi autonome di una politica economica "statuale", socialista o capitalista che sia. La classe dei lavoratori salariati e dipendenti deve dunque riproget­ tare integralmente la propria strategia, e prendere in considerazione l'alleanza possibile non solo con le due categorie cui prima si è accennato (i poveri e i contadini) ma con due altre categorie cui accenneremo ora (il lavo­ ro autonomo capitalisticamente sottomesso ed il gruppo sociale imprenditoriale-manageriale, distinto da quello proprietario-finanziario). Il lavoro auto­ nomo di cui parliamo non deve essere certamente ristretto alle vecchie cate­ gorie di produttori indipendenti di beni e di servizi (agricoltori proprietari, arti­

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giani, professioni liberali tradizionali, commercianti all'ingrosso ed al dettaglio, eccetera). Si tratta di un lavoro autonomo in buona parte nuovo, che eroga servizi direttamente incorporati nella produzione capitalistica complessiva, e che in alcuni campi (in particolare nelle nuove tecnologie) si trova all'avanguardia dell'innovazione ed è ben collocato all'interno dello sviluppo delle potenze mentali della produzione. Questo gruppo è stato favorito negli ultimi decenni dalle direzioni capitalistiche, in particolare da quelle proprie­ tario-finanziarie, perché l'autovalorizzazione (cioè l'autosfruttamento) cui si dedicavano i membri di questo gruppo, abituati a 12-14 ore al giorno di lavoro, unita allo scarso contributo fiscale da essi fornito (aspetto niente affatto negativo agli occhi del grande capitale proprietario-finanziario, in quanto fatto che accelerava la crisi fiscale dello stato keynesiano e quindi lo smantellamento del compromesso storico precedente), funzio­ navano da potenti ed inesorabili fattori di svalorizzazione del lavoro sa­ lariato e dipendente. A nostro avviso, però (e lo chiariremo meglio nel prossimo paragrafo), non bisogna concludere che questo soggetto socia­ le sia un alleato strategico e secolare delle oligarchie finanziarie. In que­ sti ultimi decenni lo è stato, ma le cose potrebbero cambiare in futuro. Abbiamo già parlato dei poveri, dei contadini, del grande insieme del lavoro salariato e dipendente, ed infine del lavoro autonomo. Un quinto gruppo che a nostro avviso merita una segnalazione è quello degli agenti direttivi della produzione capitalistica, il gruppo imprenditorialemanageriale in quanto distinto da quello proprietario-finanziario. Il let­ tore "marxista" si potrà forse stupire di questa segnalazione, perché è ormai chiaro da quasi un secolo, nonostante eccezioni interessanti, ma storicamente marginali, che questo gruppo non ha mai saputo separarsi dal suo fratello gemello proprietario-finanziario, e che la separazione fra proprietà e gestione nell'impresa capitalistica non ha mai dato luogo fino ad ora ad un riorientamento produttivo e culturale "comunista" dei soggetti imprenditoriali e manageriali. Ancora una volta, ciò che è avve­ nuto nel passato storico, lontano o recente, è significativo, importante ed interessante, ma non è mai decisivo per la riflessione teorica ispirata allo "spazio epistemologico" dei modi di produzione, il ciclo storico della seconda rivoluzione industriale, che è stata anche la terza transizione interna della storia del capitalismo (la prima transizione capitalistica, compiutasi fra il 1480 ed il 1760, precede cronologicamente la prima ri­ voluzione industriale, mentre la prima rivoluzione industriale coincide con la seconda transizione capitalistica), è irrevocabilmente concluso. Se è vero che ci troviamo oggi nella terza rivoluzione industriale, e quindi nella quarta transizione capitalistica, tutti i dati sociali, soggettivi ed oggettivi, devono essere radicalmente ridefiniti. Ed è quello che faremo nel prossimo paragrafo, che è il paragrafo centrale di questo capitolo.

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V. I! capitalismo della lena rivoluzione industriale, la sua nobiltà, il suo clero, il suo Terzo stato Ci troviamo ben dentro una fase di transizione qualitativa del modo di produzione capitalistico, caratterizzato da un legame sociale antago­ nistico fra capitale e lavoro salariato, e non è dunque appropriato utiliz­ zare categorie strutturali tratte analogicamente dal modo di produzione feudale o dal modo di produzione asiatico. Nello stesso tempo, ritenia­ mo fuorviante strutturare il nostro "campo concettuale" attraverso una polarità dicotomica astratta fra "borghesia" e "proletariato". Questa dico­ tomia era molto appropriata nella prima rivoluzione industriale, e già nella seconda cominciava a rivelare limiti di improprietà ed inesattezza (nella seconda rivoluzione industriale, infatti, i ceti medi vecchi e nuovi e la piccola borghesia rivelarono capacità politiche di autonomia strategica); nella terza essa è diventata del tutto impropria. Chi continua ad usare questa dicotomia (in generale per una forma di pigrizia concettuale e di conservato­ rismo teorico) è costretto a rincorrere continuamente un "proletariato" che mostra pervicacemente di non avere affatto quella "coscienza di classe" che dovrebbe avere, e di inseguire pateticamente una "borghesia" finalmente ve­ ra, pura, colta, progressiva, avanzata, che naturalmente non esiste più, non esiste ora e non esisterà mai, essendo oggi la "borghesia" un'astrazione smaterializzata incorporata in oligarchie proprietario-finanziarie siste­ maticamente voracissime e crudeli. Mettiamo in guardia il lettore da questi pervicaci sacerdoti della dicotomia pura borghesia/proletariato. Apparentemente essi sono molto radicali e di "sinistra", perché sosten­ gono che c'è ancora il "proletariato" capace potenzialmente di attingere una stupenda coscienza di classe (dall'in sé al per sé, eccetera), ed in realtà il loro radicalismo è sempre apparente, perché questo proletariato è sistematicamente invitato ad allearsi alla "vera borghesia", quella pro­ gressiva, democratica, rooseveltiana, contro la borghesia "stracciona", volgare, populista, fascista, eccetera. Da questi "marxisti" mi guardi Id­ dio, che dall'oligarchia finanziaria mi guardo io. In questo paragrafo vol­ teremo le spalle ad ogni dicotomia, radicale nella forma e moderata nella sostanza, per proporre un’immagine politico-sociale del moderno capitali­ smo completamente differente, costruita liberamente sulla base di un'ana­ logia con la prima transizione capitalistica, che era già capitalistica, ma in cui non c'era ancora la dicotomia sviluppata fra borghesia e proleta­ riato, capitalisti ed operai. Utilizzeremo invece le categorie di Nobiltà, Cle­ ro e Terzo stato, applicate ovviamente alla terza rivoluzione industriale at tuale, non certo per suggerire un’inesistente analogia con il modo di prò duzione feudale (il modo di produzione attuale è ultracapitalistico, e si ba sa infatti su un nuovo ciclo di accumulazione basato sulla svalorizza/lone

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del lavoro salariato), quanto per segnalare che la questione del soggetto rivoluzionario potenzialmente anticapitalistico oggi presenta analogie maggiori con la galassia del Terzo stato francese del Settecento di quanto non lo presenti con il proletariato inglese, tedesco o russo di fine Otto­ cento-inizio Novecento. Si dirà che questa analogia è eccessivamente "francese", e dunque non universale. Certo, ma anche la dicotomia capitalisti/operai è eccessivamente “inglese" e "tedesca", e quindi non uni­ versale. Solo la nozione di modo di produzione è universale, così come soltanto la libera individualità moderna può rappresentarsi come arco cognitivo ed emotivo teso fra un in Sé ed un Per Sé. Dove sta la Nobiltà dell'attuale capitalismo della terza rivoluzione industriale? Su scala mondiale, la nuova Nobiltà è esclusivamente l'oli­ garchia finanziaria capitalistica, più esattamente la frazione proprietario­ finanziaria degli agenti della produzione capitalistica, cioè della ripro­ duzione allargata ed approfondita dei rapporti di produzione capitalisti­ ci. Non vogliamo con questo suggerire, per analogia, che si tratti di una classe integralmente oziosa e parassitaria. Neppure la vecchia Nobiltà del resto lo era, dal momento che essa doveva pur sempre coordinare militarmente la riproduzione dei rapporti feudali di produzione. L'attività finanziaria globale, peraltro, assomiglia molto più ad un'attività militare che ad una attività produttiva, e si coagula e condensa infatti in vittorie e sconfitte, eliminazioni ed annessioni, conquiste e perdite, eccetera. Da un punto di vista rigorosamente "produttivo", infatti, la frazione proprie­ tario-finanziaria degli agenti della produzione capitalistica preleva per il suo consumo (produttivo ed improduttivo di plusvalore) frazioni di pro­ dotto creato non da lei, ma dalle potenze mentali della produzione mes­ se in atto congiuntamente dai tre gruppi sociali distinti del gruppo imprenditoriale-manageriale degli agenti della produzione capitalistica, dell'ampia galassia del lavoro salariato e dipendente (dal tecnico al ma­ novale), ed infine del lavoro autonomo fornitore di servizi capitalistica­ mente incorporati (tutti e tre questi gruppi, come vedremo fra poco, so­ no da noi classificati in termini di nuovo Terzo stato). Questa nuova Nobiltà è il prodotto storico di un'inaudita finanziarizzazione del capita­ le, che per la prima volta nella storia permette ai cosiddetti "mercati in­ ternazionali", che bisognerebbe forse più propriamente denominare "transnazionali", un dominio quasi incontrollato sugli stati nazionali e sulle loro politiche economiche. Questo dominio svuota di contenuto la vecchia democrazia politica costruita negli ultimi due secoli nel quadro degli stati nazionali, che può ormai soltanto "registrare" passivamente i giganteschi movimenti di capitali. Dal punto di vista culturale, questa Nobiltà, responsabile di questa terribile costellazione di schizofrenia e di paranoia descritta in un precedente paragrafo, una costellazione che è

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quotidiana matrice di integralismo religioso comunitario (presso gli op­ pressi) e di individualismo ultracapitalistico (presso gli oppressori), può però permettersi di ostentare pubblicamente un profilo liberale e co­ smopolitico. A differenza di settori di proletariato "metropolitano", che trovano nel "razzismo" la via illusoria per rispondere alla minaccia di svalorizzazione della loro forza-lavoro a causa della concorrenza degli im­ migrati poveri (così come l'antisemitismo al tempo della Seconda Interna­ zionale, analogamente oggi il razzismo è un vero e proprio "socialismo degli imbecilli”), questa sofisticata oligarchia proprietario-finanziaria, uni­ ficata dalla lingua inglese, dai viaggi facili e dai consumi di lusso, pratica una sorta di cosmopolitismo multicolore (alla Benetton, per intenderci). Essa si presenta di fronte al Clero e al Terzo stato moderni come il "salotto buono della borghesia colta", e si autorappresenta illusoriamente in forma ideologica come "borghesia colta" anche nella propria autocoscienza mi­ stificata. Non è così. Questa nuova Nobiltà ultracapitalistica è in realtà una classe intimamente barbarica, contro cui ogni forma di ribellione è giustificata, per il fatto che non vi è in essa alcun "contributo" alla cosid­ detta socializzazione delle forze produttive, ma semplicemente vi è una sorta di ricatto militare quotidiano al mondo intero. Dietro il sofisticato cosmopolitismo culturale vi sono infatti immensi arsenali militari di armi atomiche, nucleari, biologiche. L’ideale geopolitico di questa nuova Nobiltà proprietario-finanziaria è un mondo frantumato in ministati re­ gionali totalmente sprovvisti di autonomia economica e tecnologica, un mondo percorso incessantemente dai flussi sovrani di denaro. La sua concezione artistica è museale, anche se al vecchio museo "statale" di tipo nazionalistico essa antepone il museo flessibile dell'esposizione sponso­ rizzata da mecenati capitalistici. Questa Nobiltà è ovviamente "aperta" a promozioni sociali controllate selezionatissime verso il "basso" (ma tutte le nobiltà, in tutte le epoche storiche, hanno sempre previsto forme con­ trollate di cooptazione), anche se si notano crescenti fenomeni endo­ gamici sul piano matrimoniale. Essa ha ovviamente cooptato parti della vecchia nobiltà di origine signorile e feudale europea, ed anche parti della vecchia borghesia commerciale ed industriale (così come, del re­ sto, la nobiltà feudale europea cooptò sempre gruppi selezionati di mer­ cati ed imprenditori manifatturieri). Questa Nobiltà è anche in generale sospettosa nei confronti dei mercanti-avventurieri arricchitisi troppo rapidamente (si pensi al caso Berlusconi in Italia, snobbato dai "nobilicapitalisti" di più alto lignaggio), perché non ama forme di potere perso­ nale, carismatico, "monarchico". Si tratte di una classe collegiale collet­ tiva, che ama presentare il suo dominio come qualcosa di fatale, imper­ sonale, inevitabile, e che ha selezionato un tipo di Clero adatto ai suoi bisogni di legittimazione ideologica.

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Qual è infatti il Clero di questa terza rivoluzione industriale? Con questo termine non intendiamo assolutamente riferirci ai sacerdoti delle grandi religioni monoteistiche mondiali, oggi gerarchizzate in ordine di importanza a seconda della loro vicinanza fisica all’oligarchia proprieta­ rio-finanziaria (nell'ordine: ebraismo, protestantesimo, cattolicesimo, Islam, ortodossia). A nostro parere questi sacerdoti (ricchi o poveri, grassi o magri, barbuti o glabri, funerei o multicolori, eccetera) fanno ormai parte del nuovo Terzo stato, ed in particolare di quella parte del lavoro autonomo ed indipendente che fornisce servizi "simbolici" alla riproduzione capitalistica. La forma ideologica di dominio dell'oligarchia proprietario-finanziaria è infatti integralmente post-metafisica (o se si vuole, in linguaggio heideggeriano, ultrametafisica), non impone assolu­ tamente più un culto "positivo" di una divinità ultraterrena, ed è pertan­ to insieme laica ed ecumenica. La "credenza", sia cosmologica che mora­ le, in un Personaggio Morale superiore le è del tutto indifferente, e biso­ gna soprattutto che questo Personaggio Morale non abbia nulla da obiettare alle forme del dominio proprietario-finanziario che essa eserci­ ta (in questo caso essa sospetta, giustamente, di Allah e subordinatamente della Trinità ortodossa, mentre considera correttamente sue al­ leate strategiche le divinità monoteistiche ebraica, protestante e cattoli­ ca). Il suo Clero deve dunque officiare una sola religione monoteistica, la religione dell'eternità del capitalismo e della sovranità inesorabile delle sue leggi di riproduzione economica, politica e culturale globale. Questo nuovo Clero è dunque composto essenzialmente di intellet­ tuali realmente sottomessi alla riproduzione capitalistica (gli intellet­ tuali sottomessi ad essa in modo puramente formale verranno invece da noi calcolati nel Terzo stato), in particolare i giornalisti, più esattamente gli operatori dei media (e del medium televisivo in particolare), ed in su­ bordine l'apparato universitario mondiale, nella sua qualità di tessuto di riproduzione di saperi specialistici e frammentati, che trovano una loro ricomposizione esclusivamente nella totalità del dominio dell'oligarchia proprietario-finanziaria (gli insegnanti proletarizzati delle scuole mater­ ne, elementari e secondarie non fanno invece parte del Clero, ma sono invece parte del Terzo stato, come vedremo fra poco). Dunque, il Clero capitalistico è formato essenzialmente da due categorie: gli operatori dei media e gli apparati universitari. Non abbiamo certamente fatto que­ sta scelta a caso: gli operatori dei media e gli apparati universitari sono infatti l'esito terminale concentrato di un progressivo processo di sot­ tomissione reale crescente al capitale del gruppo sociale degli intellet­ tuali. In modoterminologicamente più preciso, si tratta della fine di ogni illusione di "indipendenza" da parte del gruppo degli intellettuali, ma anche e soprattutto della 'fine (anzi, del naufragio) delle illusioni di "organicità"

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degli intellettuali stessi a classi-soggetto come la Borghesia ed il Proletaria­ to. Al posto dei defunti profili deH'intellettuale "indipendente" (alla Mannheim) e deH'intellettuale "organico" (alla Gramsci) si installa un intellettuale "sottomesso" (o meglio, "direttamente sussunto") alla riproduzione capitali­ stica purificata, in una gamma di forme ideologiche tutte in ultima istanza riconducibili alle due categorie professionali sopra segnalate. È necessario evitare gli equivoci. Dove c'è un Clero, c'è anche necessa­ riamente un Alto Clero ed un Basso Clero. È evidente che il giornalista "comunista" (ce ne possono anche essere, nei bassissimi ranghi della pro­ fessione) ed il professore universitario "marxista" (un'eccezione biologica ra­ ra, come i panda e le balene) non sono servitori ideologici "organici" del­ l'oligarchia proprietario-finanziaria, così come del resto il fraticello fran­ cescano ed il teologo agostiniano non erano servitori ideologici diretti del modo di produzione feudale. A rigore, soltanto gli strati selezionati dell'Alto Clero (che tendono a fondersi, in quanto i media usano come "opinionisti accreditati" soltanto professori universitari preventivamente selezionati) sono realmente ideologicamente organici alla nuova Nobil­ tà. Qui, però, si discute la struttura fondamentale della società del capi­ talismo mondializzato della terza rivoluzione industriale. Il nuovo Clero, a somiglianza del Medioevo, tende a dividersi in clero "secolare" e clero "regolare", in cui il clero secolare si occupa capillarmente delle masse, mentre quello regolare elabora nei suoi campus protetti le nuove forme ideologiche di volta in volta necessarie. La parte "secolare" del nuovo Clero è data dall'apparato dei media, che non si occupano di formalizza­ zione dei saperi, ma di immagini. Come a suo tempo notò intelligente­ mente il situazionista Guy Debord, lo spettacolo non è semplicemente un insieme di immagini, ma è un rapporto sociale fra individui mediato da immagini. Lo scopo dell'ininterrotto spettacolo capitalistico dei media non è principalmente ideologico (anche se questo aspetto è presente), ma tende a sostituire ai rapporti sociali reali dei rapporti fittizi, conti­ nuamente riprodotti, che confermano l'individuo nella sua radicale im­ potenza. Vi è qui la ragione principale del fatto che è completamente ri­ sibile ed irrilevante l'oggetto della contesa che divide la "destra" e la "sinistra" oggi dominanti, secondo cui sarebbe cruciale sostituire giornali­ sti ed opinionisti di "sinistra" a giornalisti ed opinionisti di “destra". In entrambi i casi, la logica dello spettacolo non cambierebbe di un gram­ mo. Negli ultimi due anni le televisioni di tutto il mondo hanno reiterato ogni giorno, in modo ossessivo, le stesse immagini di bambini e vecchi spauriti che camminavano per le vie di Sarajevo, capitale della Bosnia ex-jugoslava in preda ad una guerra civile fra tre comunità etnicopolitiche, non certo per dare informazioni, ma per mettere in scena una spettacolo senza spazio e senza tempo, quello dell'astratta assurdità di

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una guerra dovuta a follia umana (e potremmo fare decine di esempi del genere). Vista da un punto di vista di diritto naturale, la comunità giornali­ stica internazionale dei media (e la Cnn in primo luogo) è un'organizzazione criminale, che "droga" sistematicamente un'opinione pubblica cui non si danno mai le coordinate razionali minime per capire le ragioni struttu­ rali di quanto sta avvenendo. È però meglio utilizzare la categoria di Cle­ ro, perché in questo modo si evitano giudizi di valore, e si mostra con maggiore precisione l'organicità dei mezzi di comunicazione di massa con la riproduzione del dominio oligarchico del capitalismo contempo­ raneo. Se l'apparato dei mezzi di comunicazione di massa (e della tv, in pri­ mo luogo) è la parte "secolare" del Clero, la parte "regolare" è composta dagli addetti alla riproduzione dei saperi speciali odierni, in cui le po­ tenze mentali della produzione, che non derivano direttamente da que­ sto gruppo sociale, sono piegate alla divisione differenziata dei poteri. Non vi è quasi più traccia delle vecchie ideologie, umanistiche e positi­ vistiche, delle università ottocentesche "borghesi", ideologie che svilup­ pavano pur sempre un certo universalismo. Oggi i saperi universitari si sono specializzati in modo tale, articolandosi in una frammentazione di codici comunicativi ormai mutualmente incomprensibili, da non permet­ tere più l'emersione di un punto di vista filosoficamente espressivo della totalità sociale. La sola connessione possibile di tutti questi saperi spe­ cialistici è la riproduzione del dominio della nuova Nobiltà, una ripro­ duzione che è ormai concepita da tutti questi saperi in modo religioso e destinale. Ancora una volta, ripetiamo che la religione del nuovo Clero non è una forma di monoteismo trascendente (e neppure di universali­ smo morale laico di tipo illuministico e kantiano), ma è un riflesso del­ l'assolutezza intrascendibile (e l'intrascendibilità ha appunto sostituito la trascendenza) del dominio delle oligarchie proprietario-finanziarie del capitale. Passiamo ora al Terzo stato. Riprendendo in forma più ordinata temi del paragrafo precedente, diremo che l'odierno Terzo stato, su scala mondiale, è formato da quattro gruppi fondamentali: il gruppo imprenditoriale-manageriale degli agenti della produzione capitalistica, la costella­ zione del lavoro autonomo ed "indipendente" (sia pure "dipendente" dalla produzione capitalistica), l'ampia galassia del lavoro salariato e dipenden­ te (dai tecnici specializzati al manovale generico), ed infine il vastissimo universo dei poveri e degli emarginati. Da un lato, abbiamo suddiviso gli agricoltori ed i contadini poveri nei quattro gruppi citati (dalla direzione manageriale dell'impresa agricola e mineraria capitalistica alla piccola produzione agricola specializzata, dal salariato bracciantile agricolo alle masse di contadini ormai proletarizzati ed impoveriti che cercano di

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emigrare nelle metropoli imperialistiche). Dall'altro, non abbiamo volutamente utilizzato la categoria sociologica marxista-tradizionale di ''sottoproletariato" (Lumpenproletariat), perché essa ci è sempre sembrata una categoria moralisti­ ca, impropria, contrapposta ideologicamente alla "purezza rivoluzionaria" del vero proletariato. I moderni "sottoproletariati" si distribuiscono in gruppi diversi e non omogenei, e mentre le direzioni dell'industria del crimine nazionale ed internazionale (un'industria che ha oggi uno dei fat­ turati più grandi e stabili) fanno parte integrante della Nobiltà proprieta­ rio-finanziaria o del Terzo stato imprenditoriale-manageriale, una miria­ de di piccoli criminali oscillano fra il lavoro autonomo e le sacche di po­ vertà ed emarginazione. Come nei casi precedenti, anche a proposito del Terzo stato non vor­ remmo generare equivoci, in primo luogo, è chiaro che a nessuno di questi quattro gruppi è possibile applicare lo schema del passaggio daH'In Sé al Per Sé, e che non ha quindi nessun senso parlare di "soggetti" rivoluzionari o controrivoluzionari dati a priori. Abbiamo già fatto ripetutamente rilevare che il solo caso cui si possa applicare corret­ tamente lo schema del passaggio fra In Sé e Per Sé è la libera individua­ lità moderna singolare, nata ontologicamente ed assiologicamente dalla dissoluzione sociale dei modi di produzione precapitalistici, e ribadiamo che non è possibile definire questi quattro raggruppamenti astraendo dal loro rapporto dinamico (e perciò mutevole) con le potenze mentali della produzione. In secondo luogo, è parimenti chiaro che non pensia­ mo a questi quattro raggruppamenti in termini in aggregati sociologi­ camente omogenei. È di fronte agli occhi di tutti che, all’interno di ogni raggruppamento, le differenze di reddito e di status sociale possono esse­ re vistosissime (non solo all'interno del gruppo dei salariati, ma anche all'interno di quello dei poveri). Più in generale la purezza dell'aggregato sociologicamente omogeneo è una vera e propria chimera, perché è proprio qui che rivestono una particolare importanza le differenze nazio­ nali, linguistiche, religiose, "razziali", eccetera. In terzo luogo, non abbiamo affatto elencato queste quattro distinte componenti del moderno Terzo stato (il Quarto stato per noi non esiste, a meno di inventare una separatezza di principio dei poveri, che sono invece un gruppo sociale direttamente dipendente dalle trasformazioni capitalistiche, che li aumentano o riducono di numero a seconda delle loro dinamiche di sviluppo) per suggerire che già oggi, qui ed ora, vi è un'attuale o anche solo potenziale comunità di interessi fra di loro. Non lo pensiamo affatto. Ad esempio, l’ampia galassia del lavoro salariato e dipendente si trova oggi sostanzialmente sola di fronte agli altri tre gruppi, che le sono variamente indifferenti od ostili: il gruppo dei poveri non è interessato a solidarizzare con la difesa del valore e della rigidità

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della forza-lavoro salariata e dipendente, perché è disposto a tutto pur di entrare nel meccanismo della valorizzazione capitalistica, ed è pertanto indifferente alla lotta dei salariati già occupati contro la svalorizzazione e la flessibilizzazione delle loro condizioni lavorative; la costellazione del la­ voro autonomo ed indipendente è addirittura attivamente e consapevol­ mente ostile ai salariati, perché vuole scaricare su di loro i costi della crisi fiscale dello stato post-keynesiano, e vede nelle tasse e nelle imposte qualcosa di diabolico, non solo in rapporto ai propri consumi "improduttivi", ma in relazione ai propri margini di concorrenzialità con le direzioni imprenditoriali-manageriali delle imprese; queste direzioni imprenditorialimanageriali, infine, messe continuamente sotto stress dall’appetito cannibalico della Nobiltà proprietario-finanziaria, sono spesso le nemiche diret­ te più feroci e "visibili" del lavoro salariato, perché devono comunque ridurne il costo, ampliarne la flessibilità, espellerne dalla produzione tutte le componenti di esso sostituibili con macchine (come abbiamo già detto in uno dei primi paragrafi di questo capitolo). Potremo fare al­ tri esempi, dai momento che in questo "gioco dei quattro cantoni" ogni gruppo oggi è in conflitto con gli altri tre. Senza questo conflitto, ovvia­ mente, il dominio della nuova Nobiltà e del nuovo Clero avrebbe le ore contate. Questi quattro gruppi non riescono ad entrare in una connes­ sione sociale diretta, per il fatto appunto che le potenze mentali della produzione non si sono riunificate in una forma armonica e cooperativa. Nello stesso tempo (ed è questa la tesi di fondo di questo capitolo, ed in un certo senso del nostro intero saggio), se al gioco dei quattro cantoni (anzi, dei tre, se teniamo conto che uno dei quattro gruppi deve sempre e comunque perdere) non si sostituisce strategicamente un altro gioco radicalmente diverso, solidale e cooperativo, la questione del comuni­ Smo appare oggi assolutamente irrisolvibile, perché uno (ed anche due) di questi soggetti non è in grado da solo di scalzare l'alleanza di Nobiltà e di Clero. La situazione "ideologica" è in questo momento pessima, perché il monopolio pressoché integrale dell'ideologia è nelle mani della Nobiltà e del Clero che la serve, e non sono ancora visibili forme di riaggregazione culturali alternative. Il gruppo imprenditoriale-manageriale degli agenti della produzione capitalistica, pur continuamente messo sotto stress e frustrato dalla voracità della Nobiltà proprietario-finanziaria, trala­ sciando pure la costante "corruzione" cui è sottoposto con la distribuzione mirata dei dividendi d'impresa, è in questo momento dominato da un'ideologia tecnocratica, anzi da un vero e proprio delirio tecnocratico che riduce tutti i problemi sociali a quesiti "tecnici" da risolvere, con l'aiuto di una "scienza" settorializzata e frammentata. Il gruppo dei po­ veri, lo si è detto, non può che oscillare fra le forme di nostalgia comuni­ taria precapitalistica, la protesta di tipo fondamentalistico-religioso e

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l'adesione a modelli di "comuniSmo" precapitalistico oppure "tradizionale" (nel senso del comuniSmo storico novecentesco). Il gruppo del lavoro auto­ nomo è oggi il fronte culturale avanzato della rappresentazione post­ moderna del mondo, che autori come Harvey hanno correttamente cor­ relato con il doppio fenomeno della flessibilizzazione del lavoro e della finanziarizzazione dell'economia. Il post-moderno, con il suo svuotamen­ to ostentato del senso globale della totalità sociale e di ogni sua pos­ sibile direzionalità temporale, è solidale con un'autovalorizzazione del la­ voro puramente individuale, singolare e personale, oltre che ad essere af­ fine ad un'apparente "smaterializzazione" della produzione, che è in realtà soltanto una sua finanziarizzazione. Infine, la galassia del lavoro salariato e dipendente, che rappresenta il vero soggetto storico e sociale sconfitto e perdente in questa transizione capitalistica, non riesce ad attestarsi in una trincea stabile in cui difendere il valore della propria forza-lavoro salariata. La svalorizzazione delle proprie prestazioni lavorative, anche molto qualificate, le appare come qualcosa di inarrestabile, ed allora que­ sta galassia oscilla ideologicamente fra l'impossibile fuga in avanti di una sintesi sociale non più fondata sul lavoro (che è infatti svalorizzato), ma sul tempo libero, e la testarda riproposizione di strategie "riformiste" ormai rese obsolete ed impraticabili dall'attuale transizione capitalistica (fronti popolari, e vocazioni di nuovi New Deal, proposte di nuovi compro­ messi storici con una ormai "inesistente borghesia" produttiva, progressi­ sta e riformista, e via dolcemente farneticando). Su queste basi, il nuovo Terzo stato non potrà mai riunirsi. Anche se potrà sembrare provocatorio e paradossale, noi pensiamo che il comu­ niSmo, inteso ovviamente in senso ben preciso, può essere il solo pro­ gramma, o se si vuole il programma minimo, con cui questo Terzo stato potrà riunificarsi. Ci rendiamo perfettamente conto che questa afferma­ zione potrà sembrare estemporanea ed un po’ folle, ma vorremmo porta­ re pacatamente nel prossimo paragrafo alcune argomentazioni razionali per far sembrare questa affermazione meno eccentrica ed estremistica.

VI. Il comuniSmo moderno della libera individualità, unico illuminismo ed unico romanticismo possibili per il Terzo stato della terza rivoluzione industriale Il Terzo stato della prima rivoluzione industriale si costituì cultural­ mente, e non solo economicamente e politicamente. Certo, la transizio­ ne dal modo di produzione feudale al modo di produzione capitalistico fu determinante, e deve essere messa con forza a "fondamento" di questa costituzione, ma questa transizione è un fenomeno globale, una totalità strutturata (gestaltete) ed articolata (gegliederte), e non ha dunque senso rite­

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nere che l'economia sia stata più importante della politica, e la politica più importante della cultura. Questa sorta di "topica economicistica'’, che mette a pian terreno l'economia, al primo piano la politica, ed al se­ condo piano la cultura, non ha nulla a che fare con la teoria dei modi di produzione ed in particolare con l'interpretazione marxiana della logica di sviluppo del modo di produzione capitalistico, che vede nella dinami­ ca storica delle potenze mentali della produzione il possibile fondamen­ to sociale del comuniSmo. Il ruolo di questi "fattori" può mutare: nel decol­ lo della rivoluzione industriale inglese del 1760 fu determinante l'econo­ mia, nella rivoluzione russa del 1917 fu determinante la politica (più esat­ tamente, la giusta e geniale linea politica di Lenin, un "miracolo sogget­ tivo contingente" che non poteva essere per nulla ricavato e dedotto da inesistenti leggi sociali), nella riforma cinquecentesca protestante di Lu­ tero e Calvino fu determinante la cultura. Resta, però, la totalità struttu­ rata ed articolata nella sua possibile dinamica evolutiva. La costituzione culturale del Terzo stato fu un processo complesso, in cui sia l’illuminismo che il romanticismo giocarono un ruolo fondamentale. La storiografia letteraria e filosofica tende in generale a distin­ guere ed a separare questi due fenomeni, che sono anche temporalmen­ te non coincidenti. Da un punto di vista storico, invece, questi due fe­ nomeni sono momenti di un unico processo di costituzione culturale unitaria, e la corretta comprensione di questa unità fa saltare metodo­ logicamente le note classificazioni scolastiche, che contrappongono in­ fantilmente l’epoca della ragione e l'epoca del sentimento, l'epoca del cosmopolitismo degli intellettuali e l'epoca del risveglio della coscienza nazionale, eccetera. Da un punto di vista storico, inoltre, risulta scolasti­ ca ed astratta anche la valutazione, corretta da un punto di vista storiografico-filosofico, secondo la quale l'illuminismo è l'epoca dell'intelletto (Verstand), ed il romanticismo l'epoca della ragione (Vernunft). Il pensiero di Marx, ad esempio, è figlio nello stesso tempo di Rousseau e di Hegel. Conformemente alla nostra impostazione metodologica, non pensiamo affatto che l'illuminismo ed il romanticismo abbiano fatto passare il Terzo stato dall’In Sé al Per Sé, ma riteniamo che abbiano modellato un'identità inedita, niente affatto contenuta in una presunta "essenza" pre-esistente. In questi termini metodologici vorremmo affrontare il problema del rap­ porto fra il comuniSmo come orizzonte sociale e movimento culturale e l’attuale Terzo stato della terza rivoluzione industriale. Questo composi­ lo Terzo stato non contiene per nulla il "comuniSmo" nel suo codice ge­ lici ico. Il comuniSmo è semplicemente una possibilità oggettiva, che non ha "alle spalle" nessun determinismo storico, e che potrebbe dun­ que non realizzarsi mai. Su questo punto vorremmo essere non soltanto chiari, ma addirittura drastici: la nostra rottura con la teoria per cui il

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comuniSmo è un portato necessario del capitalismo, teoria che non fu solo del "marxismo", ma fu anche di Marx, è aperta, esplicita e conclamata. Il comuniSmo è soltanto una possibilità oggettiva che la processualità storica offre alla progettualità umana, individuale e collettiva. Ogni for­ mulazione necessitaristica è a nostro avviso religiosa, con la sola ecce­ zione della formulazione di Marx, che non era affatto religiosa, ma semplicemente "errata" (e rimandiamo qui alle considerazioni svolte nei capitoli precedenti ed in particolare nel secondo). Potranno infatti pas­ sare migliaia di anni, ed il comuniSmo non esserci ancora. Potrebbe an­ che non venire mai. La sola formulazione sobria e razionale della que­ stione consiste nel dire che un comuniSmo maturo e moderno è oggi oggettivamente possibile, e che questo comuniSmo, possibile da un punto di vista ontologico-sociale, è anche augurabile ed auspicabile da un punto di vista assiologico. Al di là di questa formulazione non si può e non si deve andare. Quale comuniSmo? È questa la prima domanda che spontaneamente ci si pone. In proposito, occorre subito chiarire due questioni di grande importanza teorica. In primo luogo, se quanto abbiamo detto nel para­ grafo precedente a proposito del nuovo ed inedito Terzo stato di questa transizione capitalistica è anche solo parzialmente plausibile, appare chiaro che ogni riproposizione, aperta o mascherata, del modello eco­ nomico, politico, culturale e sociale del comuniSmo storico novecente­ sco è una follia destinata ad un sicuro fallimento. Le nuove potenze mentali della produzione, di cui i quattro gruppi sociali prima ricordati sono pur sempre portatori, non accetterebbero mai di essere coartate, imprigionate e rinchiuse in forme economiche, politiche e culturali di­ spotiche e burocratizzate. Non sviluppiamo ulteriormente questo punto perché vi siamo già ritornati molte volte nelle pagine precedenti. Non è comunque mai inutile ribadire che il modello del comuniSmo novecen­ tesco ha ormai un carattere esclusivamente storico, ed appartiene ad un passato ormai irrevocabilmente trascorso. Vi è però una seconda questione molto più rilevante. Si potrebbe in­ fatti osservare che l'elencazione dei quattro gruppi sociali che costitui­ rebbero il Terzo stato oggi evoca una costellazione talmente vasta ed eterogenea da far ritenere politicamente poco realistico, ed anzi franca­ mente improbabile, che il minimo comun denominatore fra questi quat­ tro gruppi eterogenei, e di conseguenza la loro possibile "piattaforma politica" unitaria, possano essere trovati su di una base tanto estremi­ stica e radicale come è il comuniSmo, sia pure definito in termini di libe­ ra individualità, eccetera. Potrebbe sembrare più ragionevole cercare una soluzione più "moderata", tale da non "spaventare" i due gruppi for­ mati dal lavoro autonomo ed indipendente e dagli imprenditori-manager.

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Si tratterebbe di una sorta di New Deal adattato alle nuove condizioni sto­ riche, magari un New Deal con forte impronta ecologica ed ambientale e con una spiccata tendenza solidaristica e redistributiva rispetto ai conti­ nenti ed ai popoli poveri. Un simile modo di porre le questioni, a nostro avviso, è tipico di chi ragiona in termini di dicotomia spaziale destra/sinistra e di dicotomia politica moderata/estremista, per cui si trat­ terebbe sempre di individuare un terreno di compromesso e di incontro a mezza strada. Una simile concezione potrebbe essere provvisoriamen­ te definita almenismo-, il comuniSmo è il nostro obiettivo ultimo, il nostro fine ideale, ma ammettiamo che esso è troppo radicale per essere con­ diviso dai nostri potenziali alleati; cerchiamo allora "almeno" un terreno di intesa comune, che "isoli" il nemico principale e ci consenta di batter­ lo. A nostro avviso, finché un simile modo di ragionare apparentemente "realistico" sarà diffuso, un'unificazione politica e culturale del Terzo sta­ to della terza rivoluzione industriale sarà impossibile. Questa concezione compromissoria, riformista, "almenista", tipica della mentalità sviluppata dal comuniSmo storico novecentesco (almeno dopo il Vii congresso della Terza Internazionale e l'epoca dei "fronti po­ polari") presuppone che possa esistere una sorta di "borghesia progres­ sista" interessata a contrattare le norme di consumo sociale con il lavoro salariato sindacalmente e politicamente organizzato, ed interessata a porre solide basi per un'alleanza con il lavoro salariato stesso. Ma que­ sto è uno scenario che appartiene al passato, e che è stato tipico del­ l'ultima parte del periodo storico della seconda rivoluzione industriale. Oggi questa "borghesia progressista", ammesso che sia mai esistita, non esiste più, per il semplice fatto che la svalorizzazione del lavoro è tuttora un obiettivo strategico della sola classe dominante odierna, la Nobiltà proprietario-finanziaria, e semplicemente non esistono "altre" frazioni del capitalismo che contemplino invece una rivalorizzazione strategica del lavoro salariato. I gruppi imprenditoriali-manageriali, che pure ab­ biamo consapevolmente incluso nel Terzo stato e non nella Nobiltà, sa­ ranno sempre costretti a colpire selvaggiamente il lavoro salariato, sva­ lorizzandolo e flessibilizzandolo, finché la sintesi sociale sarà di tipo ca­ pitalistico. Benché si sia usato provocatoriamente il termine di Nobiltà per il gruppo proprietario-finanziario che oggi domina il mondo, non bi­ sogna pensare che questo termine alluda ad una sorta di "parassitismo ozioso" che potrebbe essere "tosato" (alla Saint-Simon) senza inconve­ nienti per la produzione capitalistica complessiva, tornando ad un capi­ talismo veramente "produttivo", non ozioso o parassitario, guidato dagli imprenditori e dai manager. Oggi la finanziarizzazione del rapporto di produzione capitalistico è un legame sociale strutturale complessivo, non un dato accidentale, e ciò avviene appunto per una ragione materia­

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le molto precisa, l'inaudito sviluppo della produttività delle potenze mentali della produzione, sia pure incorporate nel macchinismo capita­ listico. È dunque un pio sogno illusorio pensare che, ridando la guida dello sviluppo capitalistico al gruppo imprenditoriale-manageriale ed emarginando (ma come?) il gruppo proprietario-finanziario, si riavrebbe un bel capitalismo capace di dar lavoro ai giovani e di aumentare il valo­ re del salario individuale e sociale. Comunque la si giri, questo New Deal è più improbabile del comuniSmo. Il programma dell'abolizione della forma del valore del lavoro umano (che è appunto uno dei fondamenti del comuniSmo) è più realistico del programma della rivalorizzazione salariale globale contrattata con una pretesa "borghesia produttiva". Sappiamo bene che questo punto di vista stenta a farsi strada fra le ma­ cerie delle vecchie ideologie del defunto comuniSmo storico novecente­ sco, recentemente bombardate dalle nuove ideologie del Clero capitali­ stico della terza rivoluzione industriale. Ci rendiamo conto perfettamen­ te che questo implica una rivoluzione culturale di portata inaudita, ed è alla luce di questa consapevolezza che abbiamo scomodato riferimenti storici tanto impegnativi come quelli dell’illuminismo e del romanticismo. Nello stesso tempo, una delle ragioni del nostro relativo "ottimismo" (che resta cautissimo e moderatissimo) sta nella percezione delle difficoltà strutturali che la nuova Nobiltà ha nell'inserire stabilmente nel suo siste­ ma di dominio uno o più dei gruppi di questo inedito Terzo stato. Vi è qui, ovviamente, un punto essenziale dell'intera questione, cui è neces­ sario accennare sia pure brevemente. La vecchia Nobiltà del modo di produzione feudale sopravvisse molti secoli cooptando nel suo sistema di dominio gruppi sociali di origine "plebea", cui fece concessioni spesso molto rilevanti. In particolare i mercanti, i banchieri ed i capi delle corporazioni manifatturiere trovaro­ no per secoli il modo di entrare a far parte della stessa Nobiltà feudale. Alla fine del suo dominio, gran parte dei nobili erano in realtà dei plebei nobilitati attraverso forme diverse di cooptazione (dai legami matrimo­ niali alle concessioni ed acquisti di titoli nobiliari). Vi era però una cosa che questa Nobiltà feudale non poteva fare, ed era accettare il consenso alla generalizzazione sociale della produzione di valore, spinta al punto da far diventare questa produzione di valore il legame sociale dominante di un nuovo modo di produzione. Per passare a questa generalizzazione sociale della produzione di valore ci vollero rivoluzioni sociali e muta­ menti produttivi giganteschi. Alla fine la transizione si affermò. Oggi la nuova Nobiltà del modo di produzione capitalistico della terza rivoluzio­ ne industriale è in grado di fare molte concessioni ai gruppi che essa domina, inserendo gli agenti imprenditoriali-manageriali della produ-' zione nella proprietà finanziaria, concedendo al lavoro autonomo un

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godimento dei redditi guadagnati al netto di imposte e di tasse, attivan­ do forme organizzate di volontariato per i gruppi emarginati, eccetera. La sola cosa però che essa non può fare è consentire la fine della pro­ duzione di valore, o anche soltanto consentire una prospettiva sia pure lontana di estinzione progressiva di questa produzione. Ma questa pro­ duzione di valore, appunto, si scontra oggi non tanto con quella socializ­ zazione "comunista" delle forze produttive ipotizzata da Marx (che non ha fino ad ora avuto luogo), quanto con la stessa potenza "astratta" delle potenze mentali della produzione, che rende sempre più "concreta" la compresenza di sviluppo tecnologico e di miseria sociale. È questa la ragione per cui la nuova Nobiltà capitalistica sembra aver perso il con­ trollo della situazione mondiale. Essa, in poche parole, è la prima classe della storia a non avere prospettive storiche. Si tratta di un punto cultu­ ralmente molto importante. Tutte le classi dominanti che si sono succe­ dute nella storia fino ad oggi hanno prodotto forme di razionalizzazione ideologica che tentavano di giustificare la (presunta) universalità morale del loro dominio. L’oligarchia proprietario-finanziaria, invece, si trova ad ammettere per la prima volta che la precondizione storica e sociale del suo dominio è la svalorizzazione crescente del lavoro umano in tutte le sue forme, l’impoverimento crescente di intere aree geografiche del pia­ neta, lo svuotamento di tutte le forme creative di cultura ad eccezione della preservazione museale di un passato selezionato e di una cultura di massa sempre più involgarita e manipolata. Per il momento, lo am­ mettiamo, la coscienza di questo carattere regressivo non è ancora suf­ ficientemente diffusa, a causa della attiva opera di manipolazione del Clero, ma come ci insegna la storia del modo di produzione feudale la capacità manipolatoria del Clero non è eterna. Parafrasando una nota frase di Lincoln, è possibile che la nuova Nobiltà proprietario-finanziaria inganni tutti per un certo periodo di tempo o inganni qualcuno per l'eternità, ma non è possibile che inganni tutti per l'eternità. È questa la ragione per cui crediamo che la prospettiva del comuniSmo, un comuni­ Smo moderno della libera individualità, abbia delle potenzialità strategi­ che. Per il momento, certamente, non si vedono prospettive immediate di avvicinamento strategico dei quattro gruppi del Terzo stato di cui ab­ biamo parlato, almeno da un punto di vista economico e politico. Rite­ niamo pertanto poco "onesto" nei confronti del lettore "inventare" in modo affrettato e superficiale soluzioni magari belle sulla carta, ma ine­ sistenti nella realtà. Prima di finire questo saggio, invece, vi sono ancora due cose che riteniamo di poter invece già dire, su di un piano non solo teorico, ma parzialmente pratico.

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VII. Le due distinte prospettive concrete del comuniSmo di oggi Cosa possono fare concretamente i comunisti oggi? A nostro awiso, fondamentalmente due cose, che possono sembrare a prima vista con­ traddittorie, e che invece non lo sono affatto: difendere con decisione il valo­ re della forza-lavoro salariata e dipendente contro la strategia dell'oligarchia proprietario-finanziaria che la svalorizza, e nello stesso tempo promuovere un gigantesco movimento culturale e teorico contro un legame sociale basato sulla produzione di valore. La contraddittorietà apparente, ov­ viamente, sta nel fatto che da un lato ci si deve sempre mettere sul pia­ no della difesa del "valore" (sia pure della forza-lavoro e dei suoi redditi in­ dividuali e sociali, salariali e pensionistici, rigidi e flessibili), e dall'altro si propugna come unica prospettiva storica razionale e sensata quella della progressiva estinzione della produzione di valore in tutte le sue forme, compreso la forma del valore del lavoro salariato. Non vediamo in que­ sto nessuna schizofrenia. Non c'è schizofrenia, perché la difesa, radicale e coerente, del valore della forza-lavoro salariata è il presupposto, ma­ teriale e sociale, di quella sorta di "rigidità" che consente di entrare in rapporto con gli altri tre gruppi fondamentali del nuovo Terzo stato sulla base di una proclamata e conclamata ostilità strategica al dominio della Nobiltà proprietario-finanziaria. I poveri, il lavoro autonomo, ed infine i gruppi imprenditorial-manageriali devono sapere fin dall'inizio che non ci può essere nessuna "alleanza" possibile contro la nuova Nobiltà ed il suo miserabile Clero senza il rispetto dei diritti materiali e morali del lavoro salariato, che incorpora non certo tutte, ma almeno una parte delle potenze mentali della produzione. Nessuno può lottare se non par­ te da una posizione preliminare di dignità nei confronti prima di tutto di se stesso. Il lavoro salariato deve dunque rifiutare qualunque strategia di alleanza sociale che, con la scusa pretestuosa di una sorta di New Deal o di "patto progressista", chieda l'assenso alla svalorizzazione, grande o piccola, della propria capacità. Sono finiti irrevocabilmente i tempi della seconda rivoluzione industriale, dello stato nazionale e del suo mercato più o meno protetto, delle guerre di liberazione anticoloniale in cui si forgiavano alleanze fra classi distinte e spesso antagonistiche. La finan­ ziarizzazione dell'economia mondiale mette all’ordine del giorno una ri­ sposta in termini di programma comunista di superamento della forma di valore. Bisogna dunque diffidare di quei presunti "comunisti" che si inven­ tano improbabili "alleanze progressiste" che, con il pretesto della difesa di interessi "generali", accettano provvedimenti di svalorizzazione del lavoro. La radicalità su questo terreno è il programma minimo. La svalorizzazione del lavoro non serve assolutamente a creare occupazione o a promettere

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benessere, ma serve soltanto a rafforzare il potere delle oligarchie pro­ prietario-finanziarie e del loro dominio economico e militare. Questa è la prima parte, economico-difensiva, del programma di ricostruzione di una prospettiva comunista. È evidente che essa non è una strategia per il comuniSmo. Si tratta di un presupposto elementare di sopravvivenza, di difesa elementare di una prospettiva di fase. Come abbiamo ripetutamente sostenuto in precedenza, il lavoro salariato e dipendente non è assolutamente il "soggetto rivoluzionario" in sé del progetto comunista. Sul piano meramente economico-politico, inoltre, non vi sono prospettive immediate che facciano sperare che gli altri tre grandi gruppi che compongono il Terzo stato siano interessati a difende­ re il valore della forza-lavoro salariata e dipendente. Il solo argomento "strategico" che legittima il programma comunista di difesa assoluta ed intransigente del valore del lavoro salariato (compreso ovviamente quello dei salariati ad alta qualificazione ed alta retribuzione, in aperta opposizione ad ogni falso ed ipocrita miserabilismo) sta nel fatto che il legame sociale presente si riproduce sempre attraverso lo scambio di lavoro alienato e capitale, e che il comunista deve sempre partire meto­ dologicamente da un polo della contraddizione, anche se è ormai coscien­ te che questo polo non è affatto il portatore privilegiato delle potenze mentali della produzione. In ogni caso, la seconda parte del programma cui vogliamo accennare è ancora più importante della prima. Si tratta di un compito culturale, o più esattamente culturale-antropologico (perché mette in campo la natura umana come "seconda natura" espansiva e crea­ trice di rapporti sociali nuovi), che i comunisti devono riuscire a mettere in campo in questa congiuntura storica. È questo, oggi, il loro principale titolo di legittimazione storica. Useremmo in proposito il termine di "egemonia", già proposto negli anni Trenta da Antonio Gramsci, se non intendessimo recisamente rompere con tutte quelle forme di marxismo del passato che connettevano l'egemonia o ad un partito politico (battezzato o meno "moderno Principe”) o ad una classe-soggetto in sé postulata come rivoluzionaria (cui si trattava di diventare "organici”). La nostra rottura teorica con queste forme di marxismo (e dunque anche con quella di Gramsci, cui siamo disposti a riconoscere grandi meriti storici, ma solamente storici) è assoluta ed irrevocabile. Il pensiero co­ munista deve oggi costruire un "orizzonte di senso", una prospettiva storica, un'apertura temporale, una proposta antropologica libera, soli­ dale e democratica, uno spazio filosofico espansivo, eccetera, su cui si possano confrontare, anche dialogicamente, tutte e quattro le forze sociali che compongono l'odierno Terzo stato. Singoli membri della Nobiltà e del Clero potranno essere interessati ed addirittura coinvolti (come del resto avvenne al tempo delle rivoluzioni borghesi per singoli membri

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della nobiltà e del clero feudali), ma il grosso di queste forze si opporrà al comuniSmo in modo strategico. Non vi sono prospettive immediate che i gruppi imprenditoriali-manageriali abbandonino l'ideologia tecno­ cratica e il delirio positivistico, il lavoro autonomo abbandoni le forme di postmoderno, riflesso simbolico della sua autovalorizzazione indivi­ dualistica sul mercato capitalistico del lavoro, ed i poveri si emancipino dall'impasto miserabilistico costruito dal fondamentalismo religioso e dal "ritorno del rimosso" dei comuniSmi precapitalistici. Chi si fa illu­ sioni in proposito è destinato a risvegliarsi bruscamente con cocenti delusioni. Nessuna illusione deve essere intrattenuta anche sul Clero. Il clero "secolare" aumenterà la pressione manipolatoria (già oggi parzial­ mente intollerabile) esercitata dai mezzi di comunicazione di massa, che persino pensatori organici alla Nobiltà capitalistica (come il defunto Karl Popper) ritengono parzialmente incompatibile con il mantenimento antropologico di una identità razionale dell'uomo. Il clero "regolare" proseguirà probabilmente nella via suicida della moltiplicazione dei sa­ peri settoriali, fino alla loro totale ed ostentata incomunicabilità. In en­ trambi i casi, si tratta dello sviluppo di una logica inesorabile, perché l'oligarchia proprietario-finanziaria deve restare la sola portatrice auto­ rizzata del senso globale della relazione sociale complessiva che la vede egemone. Non avere illusioni non significa essere pessimisti, e tantomeno catastrofisti. il comuniSmo ha prospettive realistiche in campo culturale, per il fatto che lo sviluppo delle potenze mentali della produzione, pur non essendosi "ricongiunto" con il lavoro salariato, continua a formare uno spazio sociale oggettivo di possibile incompatibilità con la riproduzione della forma capitalistica di valore del lavoro umano. Qui sta la superiorità culturale ed antropologica strategica del comuniSmo rispetto alla tecno­ crazia, al postmoderno, al fondamentalismo religioso-nazionalistico. Nes­ suno può predire il futuro. Una cosa però è certa, ed è che un "comuniSmo" non all'altezza dell'espansione dei bisogni e delle capacità umane non inte­ ressa a nessuno, è uno zombie da seppellire il più in fretta possibile. Un co­ muniSmo diverso ed alternativo, qui evocato, è invece in grado di far tramontare la società del capitalismo attuale. Ne siamo pacatamente e fermamente convinti, e siamo sicuri che le giovani generazioni prima o poi troveranno la strada per inoltrarvisi.

RICOSTRUIRE IL CONCETTO DI MODO DI PRODUZIONE CAPITALISTICO (PER RIPENSARNE LA TRASFORMAZIONE) di Gianfranco La Grassa

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MARX E IL COMUNISMO

I. Impostazione del problema 1. Parlare della concezione che Marx aveva del comuniSmo potrà appari­ re come una mossa precipitosa o troppo anticipatoria; ed infatti, certa­ mente, nel trattare di questa concezione, dovrò anticipare una serie di asserti marxiani relativi, in particolare, al modo di produzione capitali­ stico, che saranno esplicitati assai più esaurientemente in seguito. Tut­ tavia, individuare le idee che Marx aveva in merito alle possibilità di trasformazione della società capitalistica in comunistica significa coglie­ re con maggior nettezza la strutturazione e la dinamica riproduttiva che, nella sua visione, caratterizzano la società attualmente esistente. Rispet­ to alla complessiva opera di Marx, le considerazioni intorno al comuni­ Smo rappresentano qualcosa di apparentemente marginale, ma solo perché egli non voleva certo seguire la strada di Owen, Fourier, ecc., os­ sia non voleva, per sua stessa ammissione, approntare "ricette per la cucina dell'avvenire". Si tratta però, come già detto, di marginalità appa­ rente, poiché la supposta tendenza dinamica del modo di produzione capitalistico preme "oggettivamente" - il che non esclude affatto, sia chiaro, la necessità dell'azione di date classi sociali e forze politiche - in direzione della trasformazione comunistica della società. in questo capitolo, vorrei esplicitare al massimo la coerenza delle considerazioni di Marx intorno alla tendenza al comuniSmo, poiché ri­ tengo che nel suo pensiero vi siano elementi sufficienti a compiere, sen­ za tradirlo, tale sistematizzazione. Tuttavia, mi limiterò a trattare del comuniSmo come tendenza intrinseca al modo di produzione capitalistico, quale nuovo modo di produzione in via di emergenza nello (e a causa dello) sviluppo di quest'ultimo. È indubbio che la concezione del co­ muniSmo implica anche altri connotati decisivi del pensiero marxiano. Mi sembra evidente un sostanziale ottimismo circa la capacità di espansione della "natura" umana, capacità di continuo autosviluppo e

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autosuperamento sia nell’interazione tra i molti individui costituenti l'umanità sia nell'interazione tra quest'ultima e la natura. L'uomo, d'al­ tra parte, è anche parte della natura (per la sua costituzione biologica), è natura e cultura; esso, in quanto "soggetto", si pone in relazione con !'"oggetto" (la natura appunto, compresa la sua propria) in un'attività (il lavoro) di incessante trasformazione, che è sia trasformazione dell'og­ getto per il soggetto (sviluppo delle forze produttive) sia, reciprocamen­ te, trasformazione del soggetto per l’oggetto (sviluppo di sempre nuove forme "storiche" dei rapporti sociali di produzione). Per Marx, quindi, la natura non è semplicemente fondo da cui si trag­ gono risorse necessarie allo sviluppo dell'umanità, risorse che poi si ri­ veleranno essere limitate ed in via di esaurimento, secondo quanto è diventato l'assillo dei nostri tempi. Mi pare evidente che Marx non pote­ va, all'epoca, porsi nell'ottica dell’ecologia, poiché la scarsità delle risor­ se non era minimamente all'ordine del giorno. Non solo questo è però il motivo della sua non considerazione di tale insieme di problemi. Se egli avesse enfatizzato solo la questione dello sviluppo delle forze produtti­ ve, sarebbe certo arrivato a conclusioni paraecologiche. Marx, tuttavia, pensa soprattutto ai problemi della trasformazione dei rapporti sociali di produzione. In quest'ambito, la natura è profondità da sondare, da penetrare, da scavare, progressivamente, poiché in un'attività del genere - che non ha limite, dato che la profondità in og­ getto non può mai essere discesa fino al suo estremo termine, del tutto inesistente o sempre spostato più in là - l'uomo continua a trasformare se stesso, ad espandere le sue capacità (sempre più culturali e meno na­ turali). E in quest'attività, che è il lavoro (in tutti i suoi aspetti, manuali e intellettuali, materiali e culturali) in quanto acquisizione e trasforma­ zione orientate dal sapere pratico e teorico, si sviluppano nuove forme di rapporti sociali tra gli uomini, che Marx pensa sempre più fondate sulla cooperazione, cioè sul progressivo riconoscimento della necessità di pensare e risolvere insieme i vari problemi della produzione e ripro­ duzione delle condizioni, materiali e sociali, della vita. In definitiva, nella concezione di Marx, non sussiste la considerazione del mero sviluppo produttivo, che implicherebbe la valutazione della na­ tura, essenzialmente quella esterna all'uomo, come riserva di beni scarsi ed esauribili. Se si pone, invece, l’accento sulle forme dei rapporti sociali tra uomini (sull'uomo in quanto essere sociale), la natura - in questo ca­ so, anche quella dell'uomo in quanto ente naturale - va vista quale illi­ mitato orizzonte di cui appropriarsi, in una spirale ascendente senza fi­ ne, in senso pratico-conoscitivo; si tratterebbe di attingere ad essa non per semplici crescite quantitative, bensì per sviluppare le potenzialità specificamente umane legate, in senso lato, alla cultura, al sapere, onde

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conseguire più alti livelli di integrazione sociale, in cui lo sviluppo di ogni individuo sarebbe armonicamente coordinato con quello della so­ cietà tutta. Quest'ordine di problemi è affrontato nel saggio di Preve in questo stesso volume; essi sono senz'altro rilevanti, essenziali, per capire il co­ muniSmo di Marx, che però, se si limitasse a ciò, non sarebbe, in fondo, così radicalmente diverso da altri comuniSmi pensati o desiderati. Marx era convinto di aver posto la possibile nascita della società comunista, forma sociale con cui si sarebbe entrati finalmente nella vera "storia" dell'umanità, su basi decisamente oggettive, in quanto tendenza in atto nello sviluppo del modo di produzione capitalistico, ultima forma socia­ le della "preistoria". Il comuniSmo, come egli lo pensa, è insomma, in­ nanzitutto, nuovo modo di produzione, nuova forma dei rapporti sociali di produzione. È allora necessario comprendere quali sono i processi sociali mediante cui sarebbe dovuto emergere tale nuovo modo di pro­ duzione. 2. Salvo riprendere più avanti il problema, è preliminarmente indispen­ sabile accennare ai concetti marxiani di modo di produzione e di modo di distribuzione, che sono essenziali per comprendere le cosiddette basi sociali oggettive del comuniSmo. Il modo di produzione è campo strutturato e interrelato di forze pro­ duttive e rapporti di produzione; questi ultimi rappresentano l'elemento decisivo, poiché le prime si sviluppano in quanto sorrette e orientate dalla forma autoriproducentesi dei secondi. Le forze produttive mutano certo anche qualitativamente - ad es. si passa dai primitivi strumenti alle complesse tecnologie odierne - ma il loro sviluppo non può essere adeguatamente colto in se stesso, come se si trattasse solo di progressi­ ve invenzioni e acquisizioni teorico-pratiche dell'umanità. Per compren­ dere lo sviluppo in questione, è indispensabile individuare le cesure formali, il passaggio (discontinuo) da un sistema dei rapporti di produ­ zione all'altro, ogni sistema essendo caratteristico di una specifica "epoca storica della produzione sociale". Tale sistema - posto all'atten­ zione teorica a partire dalla presupposta centralità dei processi del lavo­ ro sociale in quanto tramite decisivo tra società e natura - determina la posizione degli agenti della produzione nei loro rapporti reciproci, ma con riferimento particolare alla relazione che corre tra essi e la proprietà (potere di disposizione, possesso) dei mezzi di produzione. La posizione che gli agenti della produzione sociale occupano nella struttura inter(rel)azionale, che la sorregge e ne orienta l'autoriproduzione secondo quella data forma "storicamente determinata", definisce nel contempo la posizione di detti agenti nella distribuzione di quanto

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essi hanno prodotto. Non in senso puramente quantitativo, poiché sotto questo aspetto, evidentemente, la spartizione del prodotto può conosce­ re un numero indefinito di variazioni - pur compreso entro un delimitato campo di variabilità - a seconda dei rapporti di forza intercorrenti in quella data congiuntura tra gli agenti in questione. Facciamo un esempio. Nel modo di produzione capitalistico, la rela­ zione decisiva è, per Marx, quella esistente tra chi occupa la posizione di proprietario dei mezzi di produzione (capitalista) e chi occupa quella di proprietario di semplice forza lavorativa venduta come merce (operaio, lavoratore salariato). Tale posizione nel modo di produzione determina la distribuzione del prodotto nelle forme del profitto e del salario. La di­ stribuzione può certo variare, percentualmente, a seconda dei rapporti di forza esistenti tra capitale e lavoro in ogni data congiuntura. Tuttavia, la fascia di variazione non può alterare la forma della distribuzione, per cui il profitto deve essere tale da permettere la riproduzione allargata del processo produttivo (ammortamenti più investimenti netti in nuovi mezzi di produzione di proprietà dei capitalisti e in nuova forza lavoro); mentre il salario non deve permettere al proprietario di semplice forza lavoro di uscire da questa sua condizione, deve cioè costringerlo a ripre­ sentarsi comunque nella figura di venditore d'essa in forma di merce. Modo di produzione e modo di distribuzione (nonché quelli di scambio e di consumo) si pfesentano come aspetti analitici del com­ plessivo fenomeno della produzione sociale, posti sotto la dominanza del modo di produzione che determina le forme degli altri, la loro "qualità", pur nell'ambito di un certo campo di possibile variazione quantitativa. Ogni dato modo di produzione si è costituito attraverso particolari movimenti della società, il cui aspetto "superficiale" indica quasi sempre la continuità storica, il mutamento graduale, anche se più o meno accelerato, dei processi sociali e produttivi; ad es., tra feudale­ simo e capitalismo, la storia della società "occidentale" non si è certo interrotta, per poi ricominciare ex novo. Tuttavia, a posteriori, è possibile individuare la discontinuità rappresentata dal passaggio dal modo di produzione feudale a quello capitalistico; anzi, più specificamente, dal sistema dei rapporti di produzione feudali a quello dei rapporti di produ­ zione capitalistici, in quanto i rapporti di produzione rappresentano il "nocciolo essenziale", la trama decisiva dello sviluppo delle forze pro­ duttive tipiche di quel particolare modo di produzione. Quando quest'ultimo si è definitivamente affermato, evidentemente deve riprodursi per tutta un"'epoca storica"; la struttura dei rapporti di produzione, cioè il sistema delle inter(rel)azioni tra le posizioni degli agenti nella produzione, è dunque caratterizzata da una modalità domi­ nante di (auto)riproduzione di detti rapporti, che costituisce l'identità

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del sistema inter(rel)azionale, cioè la sua invariante. Eppure tale invarian­ te, nella concezione di Marx, deve, nel contempo, subire una serie di, più o meno graduali, variazioni nell'ambito dei successivi cicli della sua (auto)riproduzione, poiché solo così è pensabile l'emergere di nuovi ele­ menti che condurranno alla trasformazione (transizione) da un modo di produzione ad uno successivo; trasformazione "storicamente" continua, ma di cui si possono poi (post festum) individuare le discontinuità, i salti, le cesure formali, che definiscono l'awenuto passaggio al nuovo modo di produzione, in particolare al nuovo sistema dei rapporti di produzione che lo struttura e lo riproduce per tutta una successiva epoca storica, sistema che rappresenta la nuova invariante - utilizzando una terminolo­ gia piagetiana, potremmo parlare di "permanenza dell'oggetto" - pur nella serie ricorsiva delle ripetizioni (cicli della riproduzione) differenzia­ te e differenziantisi.

11. La cosiddetta socializzazione delle forze produttive 1. Quanto detto spiega, innanzitutto, per quale motivo Marx si rifiu­ tasse di apprestare ricette per la cucina dell'avvenire. Per dare indica­ zioni men che generiche circa la strutturazione e la direzione di movi­ mento (autoriproduttivo) di un determinato organismo (sociale o biolo­ gico), è necessario che questo si sia già formato, e stabilizzato nella sua forma (nella sua identità). Ricordando l'analogia fatta da Marx, se si po­ tesse sottoporre ad indagine solo l'anatomia della scimmia, non si arri­ verebbe mai ad indicare con precisione la struttura anatomica dell'uo­ mo; il percorso dell'eventuale evoluzione dall'una all'altra può essere meglio compreso - e si è in grado di formulare varie ipotesi al riguardo solo quando l'uomo è venuto ad esistenza. Così pure, un discorso sulla transizione dal capitalismo al comuniSmo avrebbe carattere di indagine scientifica qualora disponessimo di un modo di produzione comunistico da analizzare. In mancanza di quest'ultimo, è esclusivamente possibile indicare, a grandissime linee, quali tendenze insite nel sistema autori­ produttivo del modo di produzione capitalistico aprono un certo campo di possibilità - non di necessità - per la transizione in oggetto. Ed è di queste linee di tendenza di larga massima, così come le ha ipotizzate Marx, che tratterò brevemente qui di seguito. Il meccanismo autoriproduttivo del modo di produzione capitalistico spingerebbe nella direzione sintetizzata dall'espressione: "socializzazione crescente delle forze produttive". Poiché si è chiarito che il nucleo decisivo del modo di produzione è la configurazione dei rapporti sociali - delle in­ terrelazioni tra le posizioni degli agenti della (e nella) produzione - che

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ne costituisce la tramatura, bisogna intendersi bene sul significato di questa socializzazione, per non cadere nella visione distorta di uno svi­ luppo tecnico-produttivo che spinge, di per se stesso, in direzione del superamento del capitalismo. La concorrenza intercapitalistica (tra gli agenti proprietari dei mezzi di produzione) implica due precise direzioni di movimento, e trasformazione, della struttura sociale della produzione'. Innanzitutto, si verifica un processo di mercificazione sempre più ge­ neralizzata; il che significa espansione geografica, e tendenziale mon­ dializzazione, del modo di produzione capitalistico nella sua riproduzio­ ne allargata, estensione della forma di merce e restringimento della fa­ scia di beni prodotti in mera forma di valore d'uso, creazione di sempre nuovi valori d'uso prodotti come merci (e quindi di nuovi bisogni soddi­ sfatti da queste merci e mediante l’uso della moneta necessaria al loro acquisto), fenomeni caratteristici della dinamica autoriproduttiva del capitale suddiviso in tante unità fra loro in concorrenza. La crescente mercificazione, anche se guidata dal fine capitalistico del profitto, stabi­ lisce l'interrelazione e l'interdipendenza più stretta tra le varie aree geo­ grafiche e tra i più svariati settori e unità produttivi. Tendenzialmente, non vi è più posto per l'autoproduzione e l'auto­ consumo - all'interno di porzioni, più o meno ampie o ristrette, della società mondiale - ed ognuno, che si tratti di individuo o di singoli gruppi organizzati di individui, ecc., ha bisogno di ogni altro, non può più sopravvivere se non in mutua relazione con tutti gli altri. La società nel suo complesso è insomma costituita ormai da una fitta rete di rela­ zioni di completa interdipendenza, anche se questa, sussistendo la for­ ma dei rapporti di produzione capitalistici (tra proprietari e non proprie­ tari dei mezzi di produzione), si stabilisce in quel luogo denominato mercato, in cui sussiste separatezza e conflitto interindividuali; l'inte­ grazione sociale massima è quindi mediata dal suo contrario, dalla scis­ sione ed isolamento di ogni individuo (o gruppo di individui) in lotta 1 Si legga attentamente l'ultimo paragrafo ("Tendenza storica dell'accumulazione capitali­ stica”) del cap. XXIV del 1 libro de 11Capitale, dove è mirabilmente sunteggiata l'intera con­ cezione di Marx relativamente alla trasformazione del modo di produzione capitalistico, fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, in modo di produzione caratteriz­ zato dalla proprietà e uso collettivi degli stessi e dalla crescente cooperazione di tutti i lavoratori nell'ambito del processo produttivo complessivo. Alla fine di detto paragrafo, si afferma anche che tale trasformazione sarà un processo meno difficile della transizione al modo di produzione capitalistico, poiché in quest'ultima "si trattava dell'espropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usurpatori", mentre nella trasformazione del capitalismo in comuniSmo "si tratta dell'espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa del popolo": K. Marx, Il Capitale, Einaudi, Torino 1975, libro I, pp. 937-938.

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con ogni altro. In questo senso, il sistema dei rapporti di produzione (di proprietà) capitalistici (l'"invariante" di cui ho già detto) ha sempre la dominanza nel modo di produzione corrispondente, e garantisce la riproduzione della separatezza e del conflitto; all'interno di tale movimen­ to riproduttivo si verificano, tuttavia, modificazioni incessanti della struttura interrelazionale, che stabiliscono la crescente interdipendenza dei diversi individui (e unità e settori produttivi e Paesi, ecc.). Anche all'interno dei processi espletati dalle singole unità produttive si verificano fenomeni analoghi. La cosiddetta sottomissione reale del lavoro al capitale (mediante lo sviluppo dei metodi del plusvalore relati­ vo) conduce alla più spinta divisione ("tecnica") del lavoro, allo spezzet­ tamento del processo lavorativo nei suoi elementi più semplici; per ese­ guire ogni processo occorre quindi la cooperazione di masse crescenti di lavoratori. Tale movimento interno ad ogni unità del processo della pro­ duzione sociale, unitamente alla crescente interrelazione tra le varie uni­ tà produttive - sia pure subordinata, nel modo di produzione capitalistico, alla concorrenza nel mercato tra le varie quote del capitale comples­ sivo, in mano a singoli capitalisti (proprietari) o gruppi di capitalisti configura un processo d'insieme, di tipo orizzontale, che spinge al ricono­ scimento dell'oggettiva necessità di integrare ogni singola particella del lavoro sociale in un processo coordinato di produzione globale.2 2. Accanto al processo orizzontale se ne sviluppa però uno di tipo vertica­ le. Nel mercato, cioè nell'interrelazione tra le varie quote del capitale complessivo sociale, detto movimento comporta la cosiddetta centraliz­ zazione dei capitali (della loro proprietà o potere di disposizione), con la tendenziale divisione della società in un vertice sempre più ristretto di grandi capitalisti (non più individuali evidentemente), da una parte, ed in una base di lavoratori (non proprietari, salariati), dall'altra. All'interno delle varie unità produttive - in diminuzione come numero ed in aumen­ to per quanto concerne le dimensioni tecnico-organizzative - si verifica una più complicata divisione tra i diversi gradini gerarchici del corpo la­ vorativo: dirigenti generali, dirigenti di singoli reparti, sorveglianti, ope­ rai sedicenti specializzati (sempre meno tali), operai comuni, ecc. Nei modello marxiano di modo di produzione capitalistico, tuttavia, il vero processo verticale è solo quello relativo alla centralizzazione della proprietà capitalistica; ciò che concerne il processo svolgentesi all'inter­ no di ogni singola unità produttiva implica invece la cooperazione cre­ scente di tutte le figure del lavoro collettivo, sociale, anche se esse im­ plicano ormai la stratificazione di ruoli e funzioni a più o meno alta o

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bassa qualificazione lavorativa2. L'autentica gerarchia di dominio nella società, cioè la divisione ("di classe") tra chi sta in alto e comanda e chi sta in basso ed esegue, verrebbe decisa dalla proprietà - o possesso, uso e disposizione privati (che non significa individuali) - dei mezzi di pro­ duzione, da una parte, e dallo spossessamento di questi ultimi e dalla libera disponibilità di semplice forza lavoro venduta come merce (lavoro salariato), dall'altra. In definitiva, per Marx, la divisione gerarchica del lavoro interna all'u­ nità produttiva è appiattita nella visione orizzontale del processo pro­ duttivo, dove prevale la cooperazione tra tutti coloro che vi partecipano a solo titolo di lavoratori senza proprietà. Il processo lavorativo ha subi­ to per opera del capitale un'intenso processo di divisione ("tecnica") tra diverse mansioni; ma quest'ultimo, pur negativo per un data epoca sto­ rica, essendo stato piegato al fine della valorizzazione capitalistica (sfruttamento del lavoro, estrazione di pluslavoro in forma di plusvalore a favore della proprietà capitalistica), rappresenta purtuttavia la "missione storica", e dunque per certi versi la positività, del capitale (e della bor­ ghesia), poiché consente un enorme aumento della produttività e della produzione di valori d'uso (sia pure, fin che durerà il capitalismo, in for­ ma di merci), senza la quale il comuniSmo è, per Marx, impensabile. La frammentazione del processo lavorativo esige logicamente l’enu­ clearsi di funzioni direttive che, in sé e per sé, sono indispensabili al­ l'esecuzione del lavoro in ogni data unità produttiva (di dimensioni via via crescenti), non rappresentano, per Marx, sfruttamento del lavoro al­ trui, ma possono anzi essere esse stesse sfruttate dalla proprietà capita­ listica. Il lavoro direttivo, di per se stesso, è semplicemente parte del la-2 2 "(...) con lo sviluppo della sottomissione reale del lavoro al capitale e quindi del modo di produzionejpecificamente capitalistico, il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo lavoratore, ma una forza lavoro sempre più socialmente combinala, e ie diverse forze lavoro cooperanti che formano la macchina produttiva totale partecipano in modo diverso al processo immediato di produzione delle merci o meglio, qui, dei prodotti - chi lavorando piuttosto con la mano e chi piuttosto con il cervello, chi come direttore, ingegnere, tecni­ co, ecc., chi come sorvegliante, chi come manovale o come semplice aiuto - |...| Se si considera quel lavoratore collettivo che è la fabbrica, la sua attività combinata si realizza mate­ rialmente e in modo diretto in un prodotto totale, (,..| dove è del tutto indifferente che la funzione del singolo operaio, puro e semplice membro del lavoratore collettivo, sia più lontana o più vicina al lavoro manuale in senso proprio": K. Marx, Capitolo sesto inedito, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 74 (corsivi di Marx). Sottolineo il fatto che, per Marx, è ope­ raio (lavoratore salariato in senso più lato) chiunque faccia parte del lavoratore collettivo, qualunque lavoro esegua - più o meno intellettuale o manuale, più o meno direttivo o esecutivo - purché non sia capitalista, proprietario dei mezzi di produzione.

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voro collettivo produttivo mirante al fine della produzione di valori d'uso, che diventano merci (e valori di scambio) solo perché détta pro­ prietà spezza l'unità del lavoro sociale in tante parti tra loro confliggenti (concorrenti), pur se sempre più, oggettivamente, interrelate tra loro, indispensabili ormai l'una all'attività produttiva di ogni altra.

MI. 1due stadi del comuniSmo 1. In quanto sto dicendo, lo ricordo ancora una volta, cerco di interpreta­ re Marx secondo Marx, di non aggiungere nulla di mio (per quanto è pos­ sibile farlo nell'opera di illustrazione del pensiero di un certo autore) al suo pensiero. Nel marxismo di questo secondo dopoguerra, con partico­ lare riferimento alle correnti (minoritarie) del marxismo critico, è invalso l'uso di trattare la prima fase della costruzione socialistica, successiva alle rivoluzioni "proletarie", quale "socialismo" in quanto periodo di transizione dal capitalismo al comuniSmo, in cui si manifesterebbe un ac­ canito conflitto tra vecchie e nuove forme socio-produttive ed in cui l'esito dello scontro sarebbe incerto, potendo anche ricondurre verso il capitalismo, come in Urss e via via in tutti gli altri Paesi "socialisti". Tale concezione della transizione porta ad enfatizzare l'antagonismo politico e ideologico - quello in cui si costituirebbero le "classi per sé" - mentre diventa assai più ambigua e sfumata la problematica relativa alla reale trasformazione delle strutture produttive e sociali, che avrebbe dovuto configurare l'avanzata verso il comuniSmo. È del tutto comprensibile che il problema della transizione venisse così trattato, poiché era diffusa la convinzione che, nei Paesi socialisti, non tutto fosse perduto, che si potesse reiniziare la trasformazione in direzione del comuniSmo dopo un periodo di stagnazione e arretramen­ to della rivoluzione. Oggi, dopo la sconfitta definitiva di quella che sem­ bra essere stata la prima ondata di rivoluzioni proletarie (in questa sede non mi interessa discutere se tale sensazione sia esatta), penso sia utile tornare alle idee di Marx in merito alla nuova formazione sociale che do­ veva enuclearsi a partire dalle tendenze insite nel modo di produzione capitalistico. Questo non perché sia oggi all'ordine del giorno la ripresa della lotta rivoluzionaria tesa alla trasformazione comunistica, ma per­ ché la visione marxiana al riguardo getta vivida luce sulle tendenze ipo­ tizzate come dominanti nel modo di produzione capitalistico, e consente dunque di cogliere più compiutamente l'analisi che di quest'ultimo fece Marx. Egli non parlò mai della fase di transizione nello stesso senso in cui se ne è discusso in questi ultimi decenni. Venne distinta una fase infe­

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riore ed una superiore del comuniSmo (del nuovo modo sociale di produr­ re), quella caratterizzata dal lapidario motto "a ciascuno secondo il suo lavoro" e quella contraddistinta invece da "a ciascuno secondo i suoi bi­ sogni". Se si vuole, si può denominare socialismo la prima fase, ma ri­ cordando che si tratta già di una nuova formazione sociale, di un nuovo modo di produzione, anche se non ancora compiutamente comunistico. Due sono le tendenze, immanenti nel modo di produzione capitalistico, che premono nella direzione di quello comunistico3: la centralizzazione dei capitali (favorita dal credito e dalla società per azioni) e la crescente cooperazione nel processo di lavoro tra tutti i ruoli e funzioni in esso implicati. Queste due tendenze sono aspetti concomitanti dello stesso proces­ so-, non hanno, per Marx, esistenza indipendente l'una dall'altra. La cen­ tralizzazione è considerata nel suo aspetto finanziario non meno che dal punto di vista dell'accrescimento delle dimensioni, sia tecniche che or­ ganizzative, assunte dalle unità produttive (le fabbriche) in cui si espli­ cano i processi lavorativi, processi di trasformazione di materia prima in prodotto finito (valore d'uso per soddisfare bisogni umani). Tale aumen­ to dimensionale implica l'utilizzazione di mezzi produttivi (tecnologie) sempre nuovi e più produttivi, nonché il complicarsi dell'organizzazione interna al corpo lavorativo collettivo, dove si verifica sia la stratificazione dei ruoli (dirigente, sorvegliante, manovale, ecc.), sia la parcellizzazione delle mansioni lavorative ricomposte ad unità dal coordinamento piani­ ficato della direzione. Mentre nella prima tappa dello sviluppo capitali­ stico, di prevalente concorrenza, direzione e proprietà coincidono nella figura del capitalista, la centralizzazione dei capitali tende a scinderle. Capitale come proprietà e capitale come funzione (direttiva) diventano sempre più figure sociali distinte e separate. La proprietà si ritira dai veri e propri processi produttivi (in quanto siano anche processi di lavoro, di apprestamento di valori d'uso sia pure ancora venduti in forma di valore di scambio); essa assume valenza pret­ tamente finanziaria, di possesso di moneta o di titoli di credito o anche di titoli di proprietà detta reale, ma che, di fatto, vengono tenuti e ac­ cumulati al fine di percepire dividendi più che per dirigere effettivamen­ te le unità produttive (il profitto, in quanto forma del plusvalore estorto al lavoro, diventa in realtà un interesse). La funzione direttiva dei pro­ cessi viene assunta da personale stipendiato; il dirigente, in quanto 3 Anche in questo caso, non potendo citare per esteso Marx (e singole frasi sarebbero non del tutto significative), invitiamo il lettore a leggersi l'intero capitolo XXVII del libro ili de Il Capitale, ed in particolare le pp. 606-613 della citata edizione Einaudi. Ci si accorgerà che in quanto dirò non c'è praticamente nulla di inventato o di surrettiziamente interpolato.

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funzionario del capitale, tende quindi ad assimilarsi sempre più alla fi­ gura del lavoratore salariato, sia pure ad alta qualifica (e perciò con sa­ lario più elevato della "norma"). In questo modo, va acuendosi l'antagonismo tra la proprietà capitali­ stica, sempre più parassitaria e interessata al puro rendimento finanzia­ rio della moneta, del credito e dei titoli che attribuiscono il diritto me­ ramente formale al possesso dei mezzi di produzione, e l'intero corpo la­ vorativo (pur internamente differenziato e stratificato) che agisce effetti­ vamente nei processi produttivi e controlla e dirige realmente i mezzi di produzione al vero fine cui essi sono adibiti: l'apprestamento di valori d'uso. Tale corpo lavorativo si rende vieppiù conto, e per tendenze og­ gettive, intrinseche allo sviluppo del modo di produzione capitalistico, della necessità della mutua cooperazione al fine produttivo collettivo; e ciò non soltanto aH'interno dei singoli processi lavorativi, poiché sempre più evidente appare l'intreccio generale (mondiale) dei diversi settori e unità della produzione complessiva. Poiché la centralizzazione, nel suo aspetto finanziario, pone al vertice della società pochi grandi magnati, mentre, nella sua dimensione tecno­ logica e produttiva, crea "lavoratori collettivi" sempre più ampi e fra loro cooperanti in misura crescente, diventa sempre più acuto l'antagonismo (di classe) tra capitale (proprietà) e lavoro (salariato), fino a quando la tensione si scioglie rivoluzionariamente con la soppressione della pro­ prietà privata (dei mezzi di produzione) e la sua avocazione alla colletti­ vità. Le tendenze, già sviluppatesi all'interno del modo di produzione capitalistico, matureranno a questo punto completamente e condurranno ad un più accelerato sviluppo delle forze produttive e della loro socializzazione. Abbattuto il potere della proprietà privata, siamo già entrati in una nuova epoca dello sviluppo sociale, in una nuova formazione sociale ca­ ratterizzata da (e strutturata intorno a) un nuovo modo di produzione (comunistico). Siamo però nella prima fase d'esso; rispetto alla società precedente, si sono verificati cambiamenti, ma sussistono ancora ele­ menti del capitalismo. Il mutamento di fondo - di cui Marx non sottoli­ nea certo la reversibilità (semmai il contrario) - è l'"espropriazione degli espropriatori" e il formarsi della proprietà collettiva dei mezzi di produ­ zione da parte dei corpi lavorativi cooperanti4 . Il modo di produzione è qui 4 Per Marx la proprietà collettiva non è la proprietà statale. Certamente, però, non si può parlare di tradimento di Marx da parte dei marxisti rivoluzionari successivi. Nella misura in cui si riteneva necessaria la presenza dello Stato di dittatura proletaria durante la prima fase del comuniSmo, è evidente che la proprietà da parte di un simile Stato (supposto in via di estinzione) veniva considerata quale proprietà formalmente collettiva, cui sarebbe seguita, con il deperimento dello Stato, quella realmente collettiva.

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già trasformato; non nel suo aspetto puramente tecnico-organizzativo, ma in quanto modalità sociale di cooperazione generale, con l'eliminazione di quella frattura concorrenziale (conflittuale) tra porzioni diverse del lavoro sociale complessivo, che si riteneva portato esclusivo della proprietà privata, dei suoi interessi particolari alla valorizzazione dei capitali e al­ l'acquisizione di profitti "individualmente" disponibili e utilizzabili. Altre caratteristiche del modo di produzione capitalistico non sono però ancora mutate. Innanzitutto, il suo lato tecnologico e organizzativo. La stratificazione dei ruoli - di direzione e di esecuzione, detto in termini semplificati, ma che conosce in realtà una suddivisione assai più com­ plicata - nell'ambito dei processi lavorativi in senso stretto crea in ogni caso possibilità di conflitto, pur nell'ambito della supposta tendenza ge­ nerale alla cooperazione crescente. La ricerca scientifica, in se stessa e nelle sue applicazioni tecnologiche nel processo di lavoro, continua per un certo periodo ad essere indirizzata verso la specializzazione dei com­ piti, e resta indispensabile il coordinamento - evidentemente non di­ sgiunto da comandi imperativi dei vertici direttivi - delle varie mansioni in cui è suddiviso il lavoro, in specie quello meramente esecutivo, che non riacquista certo le sue capacità di comprensione globale dei pro­ cessi lavorativi. Nella prima fase del comuniSmo, non può quindi non permanere una certa differenziazione dei livelli retributivi del lavoro cooperativo. "A cia­ scuno secondo il suo lavoro" non significa semplicemente secondo la quantità, o pesantezza, o penosità, ecc., del lavoro prestato (così come spesso è stato semplicisticamente inteso nell'opera di "costruzione del socialismo"), ma anche secondo la qualità (la "complessità" in termini marxiani) di tale lavoro, svolto con diverse funzioni e in ruoli diversi posti in gerarchia (come già detto, dirigente, sorvegliante, operaio generico, ecc.). È allora possibile dire che non si è modificato il modo di produzione nel suo senso specificamente tecnologico (e di organizzazione del lavo­ ro) né quello di distribuzione del prodotto, che resta differenziata (diseguale) per strati differenti di agenti sociali della produzione. È stato solo trasformato il modo di produzione nella sua accezione più specifi­ camente marxiana, quale modo sociale di produzione, in quanto sistema di rapporti di produzione intercorrenti tra chi ha e chi non ha la proprie­ tà dei mezzi di produzione. Tale trasformazione, in tutta evidenza, ha per Marx caratteri di irreversibilità proprio perché si è già ineluttabilmente verificata5 nell'ambito del modo di produzione capitalistico. La rivolu­

5 Questo non implica affatto il passaggio indolore, graduale e non rivoluzionario, dalla vecchia alla nuova formazione sociale. Marx afferma però più volte che la rivoluzione è la

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zione proletaria (della maggioranza costituita dai lavoratori salariati fra loro cooperanti) "registra" questo stato di cose, libera il nuovo nocciolo (modo sociale di produrre) dal vecchio involucro (rapporti di proprietà privata dei mezzi di produzione), permette lo sviluppo di nuove forze produttive che produrranno le successive trasformazioni in direzione del pieno comuniSmo. In un primo tempo, come appena detto, non vengono invece trasformati compiutamente né il modo di produzione per quanto concerne la tecnologia e l'organizzazione (divisione) del lavoro di tipo gerarchico, né il modo della distribuzione del prodotto. 2. Abbiamo comunque a che fare con lasciti della vecchia società, in via di tendenziale esaurimento. Se l'antagonismo di classe è supposto esse­ re prevalentemente legato alla separatezza delle diverse unità del pro­ cesso di lavoro sociale complessivo, separatezza (e conflittualità nel mercato) dovuta fondamentalmente alla proprietà capitalistica (cioè pri­ vata anche se non individuale), è evidente che la trasformazione di quest'ultima in proprietà collettiva darebbe libero corso alla tendenza, pre­ sunta dominante all'interno del vero e proprio processo di appronta­ mento di valori d'uso (cioè entro le fabbriche), alla cooperazione tra tutti i lavoratori, sia pure temporaneamente suddivisi in base alla gerarchia ereditata dal passato. L'aumento delle conoscenze scientifiche procede­ rebbe verso la mutua integrazione di svariati saperi, fra loro strettamen­ te correlati, fino a costituire una visione d’insieme in continua e pro­ gressiva espansione, cioè verso quello che viene definito generai intellect, alla cui formazione tutti contribuirebbero, pur se da posizioni, e con competenze, diverse. Lo sviluppo impetuoso delle forze produttive, promosso dalla cooperazione generale e da questo generai intellect, con­ sentirebbe di ridurre il lavoro prestato nella produzione di valori d’uso per soddisfare bisogni umani (in particolare quelli considerati fondamentali), con aumento del tempo libero e delle possibilità di amplia­ mento delle facoltà umane più creative e sciolte da bisogni impellenti. Tale processo evolverebbe verso l'attenuazione, se non l'esaurimen­ to, delle differenze gerarchiche e di qualità del lavoro. Permarrebbe una diversificazione di compiti, sia nella società che all'interno di singoli spezzoni del lavoro complessivo sociale - non si può tornare alla situa­ zione del singolo artigiano che attuava l'intero ciclo produttivo - ma si tratterebbe soltanto di prestazioni funzionali varie nell'ambito dell'ormai sostanziale eguaglianza dei ruoli occupati dai soggetti che le espletano.

levatrice di un parto ormai maturo in seno al modo di produzione e alla società capitali' stici.

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Tale processo di socializzazione delle forze produttive comporterebbe il loro enorme accrescimento, non più ostacolato dall'involucro proprie­ tario capitalistico; sarebbe reso così possibile il conseguimento del fine specifico della fase più avanzata del comuniSmo, in cui ognuno potrà ot­ tenere beni - non più in forma di merce e di valore di scambio - in quan­ tità tali da soddisfare pienamente i suoi bisogni. Su questo punto biso­ gna soffermarsi brevemente. 1 bisogni umani - e Marx lo ha esplicitato in modo del tutto chiaro - non hanno per nulla un contenuto primario na­ turale, ed uno secondario di carattere sociale, in un certo senso aggiun­ tivo; per cui diventerebbe possibile distinguere tra beni primari, atti a soddisfare i bisogni fondamentali, e beni secondari, che soddisferebbero bisogni meno urgenti e decisivi. I bisogni umani, dopo l'ormai lungo percorso storico compiuto dalla società, hanno contenuto eminen­ temente culturale; come disse Marx, anche un bisogno presunto natura­ le ed essenziale come l'alimentazione ha contenuti qualitativi del tutto differenti, e fra loro non paragonatili, se viene soddisfatto con carne cruda lacerata con i denti o invece con carne cotta utilizzando coltello e for­ chetta, ecc. È allora evidente che non vi è alcun limite oggettivo allo sviluppo cul­ turale dei bisogni; è perciò del tutto impensabile 1’esistenza di un limite quantitativo posto allo sviluppo delle forze produttive, raggiunto il quale tutti i bisogni sarebbero soddisfatti integralmente, senza incorrere più nei problemi, tipici deH'"economica" dominante, relativi alla scarsità. Secondo il nostro attuale orizzonte culturale, potrebbe protrarsi indefini­ tamente la rincorsa tra sviluppo produttivo e creazione di sempre nuovi bisogni; la scarsità (relativa) verrebbe sempre riproposta ad ogni gradino dello sviluppo delle forze produttive. La difficoltà di pensare diversamente nasce dal fatto che siamo immersi nella cultura di questa società a modo di produzione capitalistico, e non abbiamo la possibilità di ana­ lizzare una già costituita, e stabilizzatasi, forma di società a modo di produzione comunistico. Secondo Marx, i bisogni che nasceranno all'in­ terno di quest'ultima, al di là del loro livello quantitativo, dovranno ave­ re un contenuto determinato dalle necessità riproduttive di un sistema di rapporti sociali di produzione dominato ormai dalla cooperazione tra tutti i produttori (e dal più compiuto sviluppo del generai intellect), dall'at­ tenuazione delle forme di divisione gerarchica all'interno dei processi lavorativi (in cui vi saranno solo differenze tra varie prestazioni funzio­ nali), dalla distribuzione del prodotto non più legata alla necessità di riprodurre gerarchie tra lavori a diversa complessità, ecc. Non c'è proprio nulla di utopico in quello che dice Marx, così come troppo sovente si afferma anche da parte di pensatori ancora marxisti. Quello che va discusso è solo se Marx abbia o meno ragione quando

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individua, nell'ambito dello sviluppo stesso del modo di produzione ca­ pitalistico, le tendenze oggettive che ho succintamente delineate fin qui. Se tali tendenze esistono, non vi è alcuna utopia nell"'a ciascuno secon­ do i suoi bisogni". Il problema non è quello dell'individuazione di un li­ mite quantitativo estremo oltre il quale non avrebbe più senso la conti­ nua divaricazione tra soddisfacimento dei bisogni supposti fondamenta­ li, quelli "veramente umani" (ma chi ha la pretesa di deciderlo?), e svi­ luppo delle forze produttive; bensì quello della creazione di bisogni ormai definitivamente connotati in senso culturale e non più na­ turalistico - sostanzialmente determinata dalle necessità riproduttive di un sistema di rapporti sociali come quello capitalistico, caratterizzato dall'accentuata divisione gerarchica dei ruoli, dall'antagonismo tra capi­ tale e lavoro, dall'accesa competizione intercapitalistica, ecc., o invece dalla riproduzione dei rapporti intersoggettivi nell'ambito di una società, in cui siano pienamente maturate le tendenze immanenti nel modo di produzione capitalistico in direzione della più ampia cooperazione tra i diversi ruoli, non più gerarchizzati, occupati e le diverse funzioni espleta­ te dagli agenti del sistema. In definitiva, secondo Marx, le tendenze tipiche del capitalismo pro­ vocano innanzitutto il passaggio, provvisorio, alla prima fase del comu­ niSmo ("socialismo"), in cui è già trasformato il modo di produzione nel suo aspetto di rapporti sociali tra agenti della produzione - dall'antago­ nismo intrinseco all'organizzazione produttiva capitalistica si passa alla cooperazione crescente tra i produttori - mentre sopravvivono ancora sia il modo di produzione nel suo lato tecnologico e di organizzazione fon­ data sulle gerarchie sia, soprattutto, il modo di distribuzione del prodot­ to, differenziata a seconda della qualità (e, subordinatamente, della quantità) del lavoro prestato. Liberatasi, rivoluzionariamente, del siste­ ma di rapporti intrinseci alla proprietà capitalistica dei mezzi di produ­ zione, ormai parassitaria ed esterna ai processi di apprestamento di va­ lori d'uso, la produzione sociale si svilupperebbe pienamente nella dire­ zione del lavoro collettivo cooperativo e dell'espansione di bisogni con­ naturati alle esigenze riproduttive dei rapporti inerenti a tale nuovo tipo di lavoro sociale. Verrebbe così raggiunto, gradualmente e non più in modo rivoluzionario in questo caso, lo stadio ulteriore del comuniSmo completamente maturo. Nella nuova formazione sociale, ogni individuo - svincolatosi dalla costrizione alla competizione egoistica e prevaricatrice nei confronti dei suoi simili per merito dello sviluppo delle tendenze cooperative già im­ manenti al modo di produzione capitalistico, ma definitivamente matu­ rate nel nuovo modo di produzione - troverebbe nei rapporti con gli altri la molla per il pieno dispiegarsi delle sue facoltà, che rappresenterebbe­

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ro ormai la sua più autentica "natura", quella di ente che si sviluppereb­ be nella sua singolarità solo attraverso l'integrale conoscenza del suo essere sociale6 . Se questa sarebbe dovuta essere la "natura" umana nella nuova società, Marx non poteva pensare all'uomo (in quanto nuo­ vo essere sociale) quale rapinatore, e prepotente distruttore, della natu­ ra a lui esterna. Marx non deificava la Tecnica, ma la subordinava allo sviluppo dei rapporti costituenti l’essere sociale dell'umanità. Tale tec­ nica, di per sé, non è distruttiva o creatrice; non si può discutere d'essa solo in base al pessimismo o all'ottimismo dei punti di vista dai quali la si osserva. Nel maturare della conoscenza, e coscienza, del suo nuovo essere sociale - l'attività di appropriazione della natura di tipo inte­ gralmente cooperativo - quale sua più autentica "natura", l'uomo non avrebbe potuto non riconoscere anche le necessità di autoriproduzione delle condizioni essenziali alla sua vita nell'ambiente naturale che lo cir­ conda; l'umanizzazione di tale ambiente nulla avrebbe potuto avere a che fare con la sua distruzione, che avrebbe condotto pure all'annienta­ mento dei caratteri strutturali (cooperazione ecc.), sui quali sarebbe sta­ to fondato lo sviluppo "del nuovo essere sociale emerso dalla dinamica del modo di produzione capitalistico. Ancora una volta, si nota che Marx è assai meno utopistico sia delle correnti positiviste che di quelle nichiliste in riferimento al destino del­ l'uomo nei suoi rapporti con scienza e tecnica (con la Ragione, tanto de­ cantata o vituperata a seconda degli umori viscerali dei vari pensatori). Persino in base ai semplicistici criteri popperiani di scientificità, Marx è scienziato, ipotizza l’esistenza di determinate tendenze intrinseche al modo di produzione capitalistico; e sulla base d'esse delinea alcune (ma solo alcune!) caratteristiche assai generali del possibile modo di produ­ zione comunistico prossimo venturo. Bisogna considerare seriamente le ipotesi marxiane relative alle tendenze in questione; solo così si può di­ re qualcosa di meno confuso intorno alla prospettiva comunistica da 6 Non quindi il ri-conoscimento di una natura originaria, persa durante il lungo percorso di sviluppo storico che va dalla società primitiva al comuniSmo. Le facoltà che l'uomo dovrebbe sviluppare in quest'ultima forma di società non sono affatto contenute, sia pure allo stato solo potenziale, in una presunta natura umana, di fatto allora preesistente al suo essere sociale. Le facoltà che l'uomo dovrebbe sviluppare nel comuniSmo non sono, quindi, compiutamente immaginabili nell'attuale fase storica; esse rappresenteranno qualcosa di veramente nuovo, e si può soltanto supporre la loro "sopravvenienza" a partire dall'awenuta consapevolezza che lo sviluppo di ognuno deve armonizzarsi con quello degli altri, consapevolezza maturata, oggettivamente, nell'ambito del nuovo modo di pro­ duzione comunistico con la riproduzione dei suoi specifici rapporti sociali di tipo coope­ rativo.

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egli accennata a grandi linee. L'atteggiamento contrario è invece tipico di intellettuali poco rigorosi, caratteristico prodotto di una società che - al di là di ogni giudizio, che esporrò nei prossimi capitoli, intorno alle ipo­ tesi di Marx - contiene in sé potenzialità disgregatrici e distruttive vera­ mente considerevoli.

IV. Permanenza o estinzione di S lato e mercato 1. Non è possibile concludere qui il nostro discorso su Marx e il comuni­ Smo, poiché, soprattutto in questi ultimi tempi, altri elementi di confu­ sione sono emersi, in specie come portato del fallimento delle rivolu­ zioni sedicenti proletarie e dell'opera di costruzione "socialistica". È in­ dubbio che, per Marx, il nuovo modo di produzione comunistico, una volta che esso fosse pienamente maturato (nella sua seconda fase), avrebbe dovuto comportare l'estinzione dello Stato e l'esaurimento delle forme mercantili della produzione sociale. Si è voluto vedere anche in queste supposizioni marxiane un segno del suo utopismo, mentre si tratta in realtà di previsioni rigorosamente consequenziali rispetto alle ipotesi fatte con riguardo alle tendenze già insite nello sviluppo del modo di produzione capitalistico (centralizzazione dei capitali, coopera­ zione crescente, formazione del generai intellect, ecc.). Si tratta di comprendere i motivi di questa accusa di utopismo a Marx. Essa nasce all'interno di teorizzazioni che sono molto più tradizio­ nali ed ortodosse di quanto non sembri ad una prima analisi. Infatti, molti - alcuni ancora sinceramente marxisti - continuano a pensare che nel capitalismo (non nel modo di produzione capitalistico di cui si è di fatto perso il concetto) si vadano sviluppando proprio le tendenze gene­ rali già indicate (cooperazione, ecc.), per cui esso creerebbe nel suo se­ no le condizioni del suo superamento. Inoltre, sono andate gradualmen­ te perse tutte le acquisizioni fatte da certo marxismo critico in merito ai Paesi già "socialisti". Un tempo sembrava chiaro che queste formazioni sociali non avessero per nulla superato il modo di produzione capitali­ stico (almeno nelle sue caratteristiche più fondamentali), che la pianifi­ cazione non fosse l’esatto contraltare rispetto al mercato, che la proprie­ tà statale non fosse quella collettiva indicata da Marx, che la proprietà privata non dipendesse dal puro formalismo giuridico, ecc. In realtà, si continua a pensare che i Paesi "socialisti" non fossero co­ munque formazioni sociali a modo di produzione capitalistico, poiché non era decisiva la proprietà (giuridicamente) privata, e che l'impasse della transizione dipendesse solo dalla sospensione delle regole che consentono l'esplicarsi di una piena democrazia politica, sia nell'orga­

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nizzazione dello Stato sia nell'interrelazione tra le varie parti (unità, set­ tori, ecc.) in cui è suddivisa la produzione sociale complessiva. La teoria dell'estinzione dello Stato (ormai, del resto, del tutto abbandonata da decenni nei Paesi "socialisti'') e quella della pianificazione (promanante appunto dal vertice statale) apparivano come semplice ideologia di un gruppo di potere (pressoché assoluto), che aveva cosi sospeso ogni modalità di controllo dal basso. L’unico rimedio da proporre, per un'eventuale, futura ripresa di una prospettiva socialista, è sembrato allora quello di rivendicare la permanenza dello Stato (ma di uno Stato organizzato secondo i mo­ duli delle democrazie capitalistiche) e di forme mercantili nelle transa­ zioni intersoggettive, dando pieno credito all'ideologia liberale secondo cui tali forme sono coessenziali alla libertà individuale e alla democrazia. La transizione ad una "superiore" società (non ben definita, ma co­ munque non più capitalistica) verrebbe in ogni caso assicurata... dalla "vecchia e buona" teoria della socializzazione crescente delle forze pro­ duttive. L'importante sarebbe regolare e controllare lo sviluppo dei mer­ cati, intervenire nella costruzione - che esigerebbe la permanenza dello Stato - di normazioni giuridiche sempre più democratiche, con l’inter-' vento di tutti i cittadini (non più quindi i lavoratori o produttori). Tanto, nel tessuto sociale andrebbero affermandosi - ecco la buona e vecchia ortodossia marxista! - tendenze oggettive all'intreccio e correlazione tra i vari comparti della società, che non potranno, alla fine, non riconoscere la necessità della mutua cooperazione; la scienza e la tecnica, magari attraverso opportune critiche correttive, si svilupperebbero in direzione della più completa integrazione dei vari saperi (generai intellect). Tutto come prima insomma, come nel vecchio marxismo ortodosso, con un "piccolo" mutamento d'accento: la rivoluzione non è più neces­ saria, i pochi parassiti (una volta si diceva le tot famiglie di grandi pro­ prietari) sarebbero progressivamente isolati dalla gran massa dei citta­ dini democratici, le possibilità di controllo collettivo dell'attività sociale aumenterebbero gradualmente con gli sviluppi della scienza, soprattutto oggi che esiste l'onnivora informazione (e in tempo reale), che tutto de­ materializzerebbe, renderebbe fluido e cangiante, consentendo l'imme­ diata correlazione e integrazione collettiva delle varie attività. L'impor­ tante è non distruggere l'organo supremo (lo Stato), in cui si incontrano (e vengono sintetizzate dalla sua attività di organizzazione e normazio­ ne) le volontà dei vari individui; l'importante è che l'intreccio intersog­ gettivo venga ancora regolato con sufficienti dosi di quel "bel" meccani­

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smo flessibile che è il mercato, naturalmente controllato dallo Stato in quanto organo di un nuovo "contratto sociale" più democratico7. Dunque, vecchio marxismo (kautskiano) delle forze produttive, sotto­ stante a (ma indubbiamente coperto e oscurato da) una nuova forma della critica aH'economicismo che riprende, nella sostanza, la vecchia critica a quest’ultimo; dall'enfasi posta sulla "base economica" si passa all'altrettanto unilaterale enfatizzazione delle "sovrastrutture" politiche e ideologiche. Stato e sapere(i) diventano l'oggetto principe della critica mirante alla loro trasformazione democratica, in direzione del controllo collettivo, pensando con ciò di poter produrre una trasformazione socia­ le sufficiente a farci uscire dal capitalismo. In realtà, lo ripeto, simili convinzioni, se non sono una pia illusione campata per aria, non posso­ no che essere rette dalla concomitante certezza circa ['esistenza di cor­ renti sociali "di fondo", che spingono nella direzione della cooperazione crescente, della formazione del generai intellecl-, proprio nella direzione, cioè, che rappresenta la parte debole delle ipotesi marxiane, quella che dovrebbe essere ridiscussa (questo è il reale "revisionismo” di cui ab­ biamo oggi bisogno). Se le ipotesi in questione non sono riviste, allora va detto con decisione che Marx aveva perfettamente ragione, e non era affatto utopista, nel pensare all'esaurimento delle funzioni sia dell’or­ ganizzazione statale che del mercato. 2. È necessario che ci s'intenda sul significato di certi termini che deno­ tano storicamente specifiche organizzazioni sociali8. Non si può conti­ 7 Vogliamo dire onestamente che si tratta della riedizione del vecchio "revisionismo" (socialdemocratico) à la Kautsky, solo riciclato con terminologia completamente nuova, adatta appunto all'epoca dell'informazione, della presunta dematerializzazione del mon­ do, dell'altrettanto presunta flessibilizzazione integrale dei rapporti intersoggettivi, la quale è immediatamente tradotta in democratizzazione dei rapporti politici tra i cittadini (organizzati dallo Stato), in crescente trasparenza dei rapporti inerenti alla "vita quotidia­ na", in accrescimento della cultura e della polivalenza delle funzioni espletate dai vari individui. La forma nuova non deve ingannarci sulla sostanza vecchia, vecchissima. L'uni­ ca differenza è che oggi non si può polemizzare con queste tesi "aggiornando" la risposta leniniana a Kautsky, perché la sua debolezza (pur oscurata da altri problemi per tanti de­ cenni) è consistita nell'essere restata entro l'ambito del marxismo economicistico di que­ st'ultimo (vero fondatore del marxismo "storicamente esistito"). 8 Non è qui possibile affrontare la discussione sulle tesi althusseriane - fra le poche crea­ tive - circa gli apparati ideologici di Stato. Senza dubbio è interessante la critica di Althusser alla coppia pubblico-privato, che apparterrebbe all'ambito dell'ideologia borghese, al suo diverso modo di interpellare gli agenti sociali in quanto "soggetti” (per cui, ad es., la fa­ miglia, la stampa, ecc., ancorché enti di diritto "privato", sono considerati apparati ideo­

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nuare a chiamare Stato, in senso generale e generico, tutto ciò che at­ tiene alla forma del "pubblico" e dintorni. In questa sede, e non essendo esperto di teoria politica, mi limiterò ad accenni, che vogliono essere un invito ad altri studiosi ad approfondire un po' meglio le questioni dello Stato. Quest'ultimo, in senso generale, comprende apparati (e funzioni da essi esercitate), che è possibile suddividere in almeno tre grandi classi. Vi è lo Stato nel significato peculiare, che ad esso ha sempre attribuito il marxismo (in particolare, ma non esclusivamente, Lenin), di insieme di apparati esercitanti il potere coercitivo di una classe su altre (i leniniani "distaccamenti speciali dì uomini in armi"). Vi sono poi gli apparati di organizzazione di specifici servizi, oggi sempre più intrecciati con la rego­ lazione dei processi economici (produttivi, distributivi, ecc.). A questi ultimi Engels attribuì, certo in modo troppo restrittivo, il carattere di "amministrazione delle cose"; con tale espressione egli voleva comun­ que intendere che le loro funzioni erano radicalmente diverse da quelle esplicate dai precedenti apparati di "dominio degli uomini sugli uomini", di certe classi sociali su altre. Infine, vi sono apparati che operano me­ diazioni tra le classi (tra i vari raggruppamenti sociali), ma mediazioni tali da consentire comunque la riproduzione dei rapporti tra tali rag­ gruppamenti nella forma caratteristica di quella data "epoca storica", di quella certa formazione sociale strutturata intorno al suo "nocciolo" co­ stituito da un determinato modo di produzione con i suoi particolari rapporti (sociali) di produzione. Sia chiaro che la suddivisione fatta riguarda in realtà le funzioni espletate dagli apparati, poiché è assai più difficile distinguere, con net­ te e precise demarcazioni, l'attività di questi ultimi. Normalmente, i vari apparati esercitano un mix di tutte queste funzioni; il problema è di in­ dividuare quale tra esse è esercitata prevalentemente da questo o quel­ l'apparato. È oggi possibile ritenere che, considerando l'attività statale nel suo complesso, la funzione principale non sia quella coercitiva - che resta comunque sempre una decisiva opzione di riserva - e nemmeno quella di organizzazione dell'egemonia ideologica di una certa classe (o blocco di classi); o quanto meno diciamo che tale egemonia non viene affermata di per se stessa, mediante l'azione esercitata direttamente a logici di Stato). Non si sfugge comunque all'impressione che si possa in qualche misura offuscare il significato di specifiche funzioni statali (ad es., l'esercizio del potere coerciti­ vo) e si vada - come i'althusserismo è in definitiva andato - verso la supposizione della dominanza delle istanze politiche e ideologiche, lasciando all"'economia” (intesa, in sen­ so molto restrittivo, quale semplice produzione, distribuzione, ecc. dei beni) una generica, e di fatto inconsistente, determinazione d'ultima istanza.

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tal fine dagli apparati a predominante funzione ideologica. In senso mo­ derno, è possibile sostenere che l'attività statale più rilevante è quella di mediazione - certamente, con precise ricadute ideologiche - nella forma adeguata a consentire l"'ordinata" riproduzione della struttura fondamentale dei rapporti sociali di produzione, che costituisce l"'identità" (quella più sopra definita invariante) di una determinata forma di società, e che garantisce perciò il dominio di dati gruppi sociali su altri. Se tuttavia fossero veramente all'opera le tendenze alla cooperazio­ ne, ecc., se maturassero le condizioni proprie all'affermazione del co­ muniSmo (del suo primo e poi del suo secondo stadio), così come lo aveva pensato Marx, evidentemente il nuovo modo di produzione, una volta instauratosi, garantirebbe la riproduzione di ben differenti rapporti sociali di produzione, implicanti l'eguaglianza (reale e non meramente giuridica) degli agenti sociali; non esisterebbe quindi più il "dominio degli uomini sugli uomini", verrebbero cioè meno i "meccanismi" decisivi della riproduzione di ruoli realmente diseguali, da cui deriva la divisione della società in classi dominanti e classi dominate. In una situazione del genere, il cosiddetto Stato avrebbe solo funzioni di mediazione e di coordinamento tra agenti posti in un sistema, autoriproduttivo, di ruoli che comunque non consente già più, oggettivamente, atteggiamenti di prevaricazione, di conflitto reciproco, di dominio degli uni sugli altri, ecc. Appare evidente che uno Stato del genere non avrebbe più nulla a che vedere con quello che conosciamo, non avrebbe più funzioni di co­ ercizione (sia pure di ultima istanza) né di trasmissione di ideologie egemoniche fondate sull'eguaglianza puramente formale e per converso sulla diseguaglianza reale. Dobbiamo veramente continuare a chiamare Stato un organismo di coordinamento che ha le sue radici nell'ormai affermatasi, e stabilizza­ tasi per merito dei nuovi meccanismi autoriproduttivi della società, abi­ tudine alla mutua cooperazione, al rispetto reciproco? Mi sembra che la risposta debba essere assolutamente negativa, poiché non si possono usare gli stessi termini per indicare realtà così radicalmente differenti. Se si parla di Stato, bisogna riferirsi ad un conglomerato di apparati che, nel loro insieme, mantengono il predominio di certe classi (di ruoli) su certe altre, pur nella mediazione generale che consente la riproduzione di tale predominio; e, per mantenerlo, il conglomerato in questione deve essere sempre pronto ad utilizzare, se se ne dà il caso, gli apparati a pre­ valente coercizione, deve sempre esercitare le funzioni di egemonia ideologica, ecc. È quindi una contraddizione sostenere la sopravvivenza dello Stato nel socialismo e comuniSmo; è una contraddizione affermare l'esistenza di tendenze, insite nel capitalismo, al sempre più generale sviluppo

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dell'interdipendenza reciproca - che implicherebbero l'esaurirsi del conflitto intersoggettivo e il riconoscimento della necessità di unirsi nell'azione - nonché all'espansione delle conoscenze con integrazione dei vari saperi, per poi concludere che resta necessaria la presenza dello Stato nella sua veste tradizionale di organo, che si erge apparentemente al di sopra della società, ed impone autoritativamente il controllo sia dell'egoismo individuale, causa della lotta di ognuno contro tutti, sia soprattutto dell'antagonismo di interessi tra gruppi sociali posti in si­ tuazione di diseguaglianza quanto a potere nell'ambito della riproduzio­ ne sociale. Chi pensa quindi ad una società più democratica in senso reale (cioè costituita da raggruppamenti sociali né dominanti né dominati), o addi­ rittura ad una possibile futura società comunista, in presenza dello Sta­ to, mi sembra francamente assai più utopista di Marx. Quest'ultimo traeva dalle tendenze supposte come immanenti nel modo di produzio­ ne capitalistico la conclusione che, durante il primo stadio del comuni­ Smo, subito dopo l'abbattimento (rivoluzionario) del potere dei pochi grandi sfruttatori rimasti al vertice della società capitalistica, lo Stato sarebbe temporaneamente esistito quale organo in via di estinzione, solo in quanto il modo di distribuzione era ancora legato a criteri (diseguali) di stampo borghese, inerenti alla sussistente differenziazione dei ruoli e funzioni pur nell'ambito del lavoratore collettivo produttivo, del lavoro sociale complessivo di tipo cooperativo. Il progressivo venir meno della diseguaglianza distributiva avrebbe messo termine (e questa volta in modo graduale ed evoluzionistico) allo Stato in quanto insieme di appa­ rati dotati di autorità, di capacità di imposizione d'imperio, di coercizio­ ne, insomma di livellamento forzato, e puramente formale, delle dise­ guaglianze ancora non superate. Sarebbero certo rimasti apparati eserci­ tanti attività di servizio all' organizzazione, al coordinamento, all'interre­ lazione non più conflittuale delle varie parti del corpo sociale. Questo non è però più Stato, si deve eventualmente inventare un nuovo nome. Quello che va discusso di Marx è se veramente siano operanti, nel modo di produzione capitalistico, le tendenze che egli aveva creduto di individuare con molta precisione e certezza. Da queste tendenze deriva­ no, in modo del tutto coerente, le tesi marxiane relative ai caratteri dello Stato, nel primo stadio del comuniSmo, e alla fine dello stesso nel co­ muniSmo pienamente maturo; non si tratta però della fine di ogni tipo di organizzazione dei rapporti sociali, cosa questa mai sostenuta né da Marx né dai marxisti. Continuare a pensare l'esistenza di tali tendenze nel capitalismo - atteggiamento, fra l’altro, indispensabile per sostenere testardamente, e contro tutte le evidenze, la formazione di soggetti so­ ciali sempre più consapevoli del loro antagonismo rispetto al capitale, e

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portatori dell'evoluzione (non della rivoluzione) in direzione di una nuo­ va società - con la contemporanea, ed eterna, sussistenza dello Stato quale noi lo conosciamo, è atteggiamento incongruo, che talvolta na­ sconde probabilmente un atteggiamento di acquiescenza alle regole della democrazia capitalistica moderna, alle regole che fanno del capita­ le - in particolare della sua parte peggiore - l'arbitro della situazione po­ litica attuale. 3. Le stesse cose, più o meno, debbono essere ribadite per quanto con­ cerne la supposizione della sussistenza del mercato in una nuova, futura formazione sociale a modo di produzione non più capitalistico (o addi­ rittura comunistico). Manchiamo di nomi per denotare realtà differenti, e allora diamo lo stesso nome a realtà drasticamente diverse, combi­ nando così confusioni, teoriche e pratiche, enormi. Cominciamo col dire che lo stesso Marx, ad es., ha parlato spesso di capitale in riferimento a cose o a somme di moneta possedute da agenti sociali nell'ambito di società a modo di produzione diverso da quello capitalistico (ad esempio quello dell'antichità greca o romana, ecc.). Tut­ tavia, Marx ha polemizzato contro le genericità dell'economia politica del suo tempo (e la situazione posteriore non è migliorata), che conti­ nuava a considerare capitale qualsiasi insieme di mezzi di produzione, dalla clava degli uomini preistorici fino alle tecnologie capitalistiche. Il capitale è per Marx un preciso sistema di rapporti di produzione, "storicamente determinato", caratterizzato dalla relazione fondamentale tra proprietà e non proprietà dei mezzi di produzione, tra funzionari di tale proprietà e individui liberi che vendono come merce la loro capacità lavorativa, unica loro "proprietà". Parlando dell'accumulazione originaria, Marx non la intende, così come fece poi il marxismo economicistico di derivazione kautskiana (si ricordi del resto perfino il dibattito sviluppatosi tra i comunisti sovietici, dopo la rivoluzione, intorno ai temi dell'accumulazione originaria socialista!), quale semplice riproduzione allargata derivante dal reinvestimento del plusvalore in nuovi mezzi di produzione e in nuova forza lavoro. L'accu­ mulazione originaria è essenzialmente, nel suo preciso significato, il formarsi del nuovo sistema di rapporti di produzione aH'interno del vec­ chio modo di produzione feudale9 , è la genesi storica del capitale, è il 9 "A che cosa si riduce l'accumulazione originaria del capitale, cioè la sua genesi storica? In quanto non è trasformazione immediata di schiavi e di servi della gleba in operai salariati, cioè semplice cambiamento di forma, l'accumulazione originaria del capitale significa soltanto l'espropriazione dei produttori immediati, cioè la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale"; Marx, Il Capitale, cit., libro I, p. 934 (corsivi di Marx).

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processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo. Solo in senso molto improprio, per mancanza di altri termini, si può parlare di capitale riferendosi semplicemente a somme di moneta o a cose (mezzi di pro­ duzione) possedute da certi gruppi sociali (o dalla società nel suo com­ plesso); dobbiamo però fare molta attenzione al contesto storico­ specifico (alla struttura dei rapporti sociali che lo caratterizza), per sape­ re se si intende discutere del capitale vero e proprio o di generico possesso delle cose. Lo stesso atteggiamento deve caratterizzare la discussione della problematica relativa al mercato. Non si può confondere lo sporadico, e interstiziale, scambio di cose contro moneta con il generalizzarsi d'esso, con il suo diventare l'aspetto onnipervasivo delle relazioni intersoggetti­ ve in un ben determinato stadio di sviluppo della società. Scambi sporadici, anche se più o meno estesi, sono indubbiamente presenti in tutte le forme storiche di società (in tutte le formazioni sociali) precapitalistiche. Tali scambi non erano però decisivi nell'organizzazione dei rapporti so­ ciali; l'interruzione d'essi avrebbe causato disturbi, ma non certo l'inter­ ruzione del processo di riproduzione (dei rapporti peculiari) di quella da­ ta società. La situazione è esattamente opposta nella formazione sociale capitalistica, dove non potrebbe verificarsi alcuna riproduzione sociale senza lo scambio generale delle cose contro moneta10. Gli studiosi non marxisti hanno in genere supposto la graduale estensione degli scambi mercantili nella storia della società umana, senza individuare alcuna cesura formale (perché, come già detto, dal punto di vista più superficiale dei "fatti storici", tutto sembra verificarsi senza discontinuità troppo evidenti, senza bruschi salti di forma). Se­ condo questa angolazione, sono stati indagati i processi che hanno con­ dotto progressivamente, più o meno verso la metà dell'Ottocento, alla più ampia libertà degli scambi mercantili, prima ostacolati e imbrigliati da mille lacci e lacciuoli. Si è anche notato che, già alla fine del secolo e nel corso del Novecento, lo scambio di merci è divenuto sempre meno libero a causa della crescente presenza di elementi oligopolistici, dell'in­ tervento dello Stato, ecc. Soprattutto, secondo questa prospettiva, si può dire che l'ultima merce ad essere scambiata liberamente, senza li­ mitazioni legislative - e la cui libertà di scambio si è affermata soprattut­ 10 Da questo punto di vista, si intuisce immediatamente che i Paesi detti socialisti non avevano affatto trasformato e superato il modo di produzione capitalistico, poiché la pura soppressione del mercato (almeno per quanto concerne la circolazione dei mezzi di pro­ duzione) aveva infine condotto ad un lungo, e non più rimediabile, periodo di stagnazione produttiva e di marcescenza dei rapporti sociali, dal quale si tenta di uscire riscoprendo le presunte virtù della generalizzazione dei rapporti mercantili.

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to nei mercati nazionali, ma assai meno in quello mondiale - è stata proprio la forza lavoro" . Avrebbe allora torto Marx, secondo cui è solo quando la forza lavoro è liberamente venduta come merce dall'operaio (...) che la produzione delle merci si generalizza, diventando forma tipica della produzione; e solo a partire da quel momento ogni prodotto viene prodotto per la vendita fin da principio, e tutta la ricchezza prodotta passa per la circolazione. Solo dove il lavoro salariato costituisce il suo fonda­ mento, la produzione di merci s'impone con la forza alla società nei suo insieme1112.

Al contrario, Marx ha perfettamente ragione; egli non discute in ter­ mini di maggiore o minore libertà degli scambi mercantili, egli tratta della forma generale di merce in quanto portato di un peculiare sistema di rapporti sociali tra proprietari dei mezzi di produzione e lavoratori fon­ damentalmente liberi (non più schiavi o servi della gleba, ecc.), ma privi di altre proprietà che non siano quella della propria forza lavorativa ven­ duta dietro pagamento del salario. La generalizzazione degli scambi di cose contro moneta, la generaliz­ zazione della forma di merce del prodotto lavorativo umano, si verifica esclusivamente con l'instaurarsi del modo di produzione capitalistico, dei suoi rapporti sociali specifici; la forma (quella decisiva, caratterizzante) della società (dei suoi rapporti) decide della forma di merce assunta dai prodotti. Affinché si affermi stabilmente il modo di produzione capitali­ stico con i suoi rapporti, è tuttavia necessario che si costituisca l'eserci­ to degli espropriati (dei mezzi di produzione) in quanto venditori di forza lavoro in forma di merce. Quest'ultima è decisiva, è basilare, per la gene­ ralizzazione della produzione di merci, poiché è la più immediata espressione del formarsi dei rapporti di produzione capitalistici quale sistema autoriproduttivo. La conseguenza di quanto fin qui sostenuto è che non si può parlare di mercato in senso proprio se non quando siamo in presenza dello scambio generalizzato dei prodotti, se non quando la produzione decisi­ va per il sostentamento (e la riproduzione) della società passa per il mercato. Questo implica però 1'esistenza dei rapporti capitalistici, che comporta la divaricazione tra proprietari ed espropriati (la cui più im­ mediata manifestazione è la forma di merce della forza lavoro), il domi­ nio e lo sfruttamento dei primi a danno dei secondi. E ancora: con lo 11 Anche il mercato del lavoro sarebbe diventato del resto, nel Novecento, sempre meno libero per la presenza di strutture oligopolistiche (associazioni sindacali) e per l'intervento dello Stato (contratti collettivi di lavoro sanzionati da esso), ecc. 12 Marx, Il Capitale, cit., libro I, p. 721.

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scambio generalizzato si afferma la frammentazione della produzione sociale complessiva in tante unità separate e tra loro conflittuali. Lo spazio del mercato (generale e non più soltanto interstiziale) è il luogo della netta divisione e separatezza dei vari lavori (privati), e della loro riconduzione a porzioni interrelate del lavoro sociale complessivo at­ traverso la competizione e la sopravvivenza del più forte. La mediazione nella società è conseguente alla più radicale scissione, e contrasto insa­ nabile, tra i vari possessori di merce. In definitiva: antagonismo di classi (di ruoli dominanti e dominati) e competizione tra capitalisti sono caratteri ineliminabili del mercato ge­ nerale, in quanto espressione della riproduzione dei rapporti di produ­ zione capitalistici. Voler trasformare questi ultimi, voler superare l'anta­ gonismo e la conflittualità, in presenza del mercato, sembra francamen­ te una pura e semplice assurdità. Logicamente, diverso è il caso, se si intende parlare di mercato non generale, di sopravvivenza di scambi mercantili, più o meno estesi, ma comunque non decisivi nell’ambito della riproduzione di quei rapporti sociali cooperativi e solidaristici, sen­ za ['esistenza dei quali non si capisce in che cosa il modo di produzione comunistico - e la formazione sociale che attorno a questo si articola differisca da quello capitalistico. Il problema è dunque quello già messo in luce: manchiamo di ter­ mini diversi per indicare realtà diverse. Se siamo costretti ad usare gli stessi termini, stiamo almeno attenti ai contesti in cui li impieghiamo, e avvertiamo il lettore che ci riferiamo a queste realtà differenti. Accusare Marx di utopismo segnala una confusione teorica estrema; è del tutto corretto che egli sostenesse l’esaurimento delle forme mercantili e dello Stato nell'accezione usuale (e attuale) di queste espressioni verbali. Il problema dei problemi è invece un altro: sussistono realmente, nel­ l'ambito della dinamica riproduttiva del modo di produzione capitalistico e del sistema dei suoi rapporti specifici, le tendenze che Marx pensa­ va di aver individuato in base ad un'analisi minuziosa del funzionamento di tale modo di produzione, dando prova di estremo rigore scientifico, non di utopie da "anime belle"? È su questo punto che è necessario pro­ durre un profondo rimaneggiamento dell'apparato categoriale marxiano, pur proseguendo lungo le direttrici di analisi aperte da Marx con la for­ mulazione dei concetti di modo di produzione e di rapporti di produzione.

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I. La fase attuale: fine del comuniSmo del Novecento e transizione capitalistica 1. Viviamo, o almeno abbiamo la netta sensazione di vivere, in un'epoca di trasformazioni profonde, tanto da caratterizzare probabilmente un'epo­ ca di transizione; ma non sappiamo affatto bene a che cosa. Notiamo il massimo di disordine, ma soprattutto di frammentazione, di episodicità, di fluidità massima. Sembra che nulla di definito si possa dire. Natural­ mente, come è già successo in passato, si tende ad enfatizzare qualche elemento della trasformazione. Si parla di complessità crescente (in modo generalmente piuttosto indefinito), o di nuove tecnologie (informatiche) che dematerializzerebbero il mondo, o di sviluppo di nuovi settori che dopo il primario (agricoltura), il secondario (industria), il terziario (servizi) - andrebbero qualificati come quaternario (ma senza che se ne possa dare una qualche definizione più precisa, come nel caso degli stadi di svilup­ po precedenti). In molti casi si parla, non sapendo dare indicazioni men che generiche, di un qualche post: postmoderno, post-industriale, post­ capitalismo ecc. A me sembra che, in modo del tutto particolare, non sia oggi possibi­ le assumere posizioni decise, prò o contro qualcuno o qualcun'altro, nei vari conflitti frammentari, in genere di carattere etnico, religioso, nazio­ nalistico ecc. che sono tipici di questi ultimi anni. Si pensi - e cito a caso - alle scelte di campo che era possibile effettuare nei confronti della lot­ ta di liberazione nazionale in Algeria o in Vietnam, della guerriglia in America Latina, della rivoluzione culturale in Cina, ecc.; ed oggi, invece, nei confronti della guerra del Golfo, di quella in Bosnia, della repressio­ ne dei ceceni, ecc. Una volta si era in grado di assumere veramente una posizione a favore di qualcuno (e tali posizioni riflettevano, in modo ab­ bastanza fedele, la lotta di classe, la lotta tra capitale e lavoro, tra impe­ rialismo e popoli oppressi, in definitiva tra opposte concezioni del mon­ do, filocapitaliste o filosocialiste); oggi si può solo essere contro qual-

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cuno, in genere contro quelli che si ritengono i più forti e prepotenti, i più massacratori, e via dicendo. 1 fronti in conflitto sono del tutto tra­ sversali, non ricoprono alcuna determinata contrapposizione tra conce­ zioni del mondo, tra interessi di classe, ecc., ben definiti. Mi permetto di avanzare l'ipotesi che l'attuale fase di transizione, che sentiamo di vivere, sia stata soprattutto determinata dal definitivo crollo e fallimento dei tentativi di transizione dal capitalismo in direzione del socialismo e comuniSmo, fallimento che ha provocato anche la fine dei più radicali movimenti antimperialisti nei Paesi del fu Terzo mondo (movimenti guidati generalmente, non a caso, dai comunisti). Da molto tempo ormai, tale transizione era nel più completo vicolo cieco; i tenta­ tivi rivoluzionari erano nella sostanza abortiti e molti marxisti critici, "non ufficiali", avevano già condotto con decisione l'analisi dei motivi del fallimento. Tuttavia, solo il disfacimento finale dell'ormai putrescen­ te "campo socialista'' - e la fuga generale e disordinata degli sclerotici partiti comunisti di tutto il mondo dal loro passato comunista - hanno dato il via al tumultuoso processo attuale di "trapasso d'epoca". Del re­ sto, è sintomatico che gran parte del ceto intellettuale, che più ha diffu­ so la cultura dei vari post, è lo stesso che alla fine degli anni Sessanta era su posizioni marxiste radicali e ultrarivoluzionarie in senso anticapitalista. Il cambiamento d'epoca, quindi, mi sembra determinato da una rivo­ luzione fallita, con conseguente rimondializzazione del capitalismo, più che da effettive trasformazioni radicali di quest'ultimo, trasformazioni che lo condurrebbero verso uno stadio interamente nuovo del suo svi­ luppo. In una concezione del genere, credo ci sia proprio una distorsione ottica; abbiamo insomma a che fare con uno specchio deformante. Il capitalismo ha sempre subito modificazioni incessanti; tra quello degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento e quello del Settecento o an­ che Ottocento la differenza era senz'altro più abissale di quanto non lo sia tra quello odierno e quello di qualche decennio fa, il capitalismo ca­ ratterizzato dal taylorismo-fordismo, dal Wel/are State, ecc. Eppure, come cercherò di dimostrare, si può, anzi si deve, parlare di capitalismo in tutti questi casi, in tutti i suoi diversi stadi di sviluppo, pur così diffe­ renziati fra loro. Il capitalismo - ma bisognerebbe parlare di capitalismi, perché ve ne sono tanti in senso sincronico e diacronico, cioè in senso spaziale e temporale - è costituito da una serie di eventi disposti in strati temporali differenziati, di diversa lunghezza, ma soprattutto caratterizzati da diver­ se modalità di manifestazione. Vi sono eventi continuamente cangianti, irreversibili e irripetibili, che ci trascinano in epoche sempre nuove, non paragonabili con le precedenti, che rendono quasi sempre incomuni­ cabili fra loro i modi di vita, le abitudini, i gusti, le mode culturali, ecc.

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delle successive generazioni. Vi sono poi ripetizioni cicliche; e non mi riferisco evidentemente ai cosiddetti cicli economici, ma a formazioni culturali, a strutture sociali, a costellazioni varie di interessi, ecc. di più ampio respiro, che si ripresentano per ondate successive, anche se con caratteri nuovi (quelli dei tempi più brevi sopra indicati), che celano, rendono oscura e non facilmente decifrabile (specialmente quando si perde la memoria storica) la loro periodicità. Al di sotto di tutto questo però - e il "sotto" è una semplice metafora - non può non essere pensata (e dunque concettualmente costruita) una struttura di riproduzione di quel certo organismo societario nella sua forma generale storicamente determinata, senza la quale è inutile riferirsi ad un qualsiasi stadio (storico) di sviluppo della società, la cui visione è allora solo quella di un enorme miscuglio, di un magazzino ingombro di oggetti ammucchiati alla rinfusa, di un'accozzaglia di accadimenti senza capo né coda, insomma di una sorta di ammasso di gas ad entropia massima, con molecole che si urtano e schizzano via in tutte le direzioni. È questa struttura di fondo che costituisce, in un certo senso, l'invariante di quel certo organismo societario (ma la questione non cambia per qualsiasi altro organismo sistemico), che va visto come totalità organica, internamente differenziata, dotata di specifici meccanismi autoripro­ duttivi e della totalità e della differenziazione interna in questione. 2. Una breve digressione di carattere, diciamo così, epistemologico mi sembra necessaria. Personalmente, mi trovo su posizioni radicalmente antiempiriste e costruttiviste. Logicamente, non intendo coinvolgere Marx su questo punto; mi interessa relativamente poco dedicarmi alla ricostruzione delle sue concezioni teoriche più generali. Credo, in ogni caso, che molti si siano lasciati ingannare dalla particolare costruzione de II Capitale, dove le parti teoriche sono intervallate da considerazioni di tipo storico, da citazioni di vari documenti relativi alla rilevazione fattua­ le di determinate situazioni (ad es. di fabbrica e altre). Marx, tuttavia, non ha proprio fatto alcuna diretta ricerca "sul cam­ po", a mo' di certa sociologia odierna. Ha letto molte indagini altrui, ma le ha inserite in tutta evidenza nella generale concezione teorica che si era andata formando nel corso dei suoi studi di filosofia, economia, ecc. E mi sembra che questo sia l'atteggiamento corretto da tenere. Non si tratta, logicamente, di trascurare i fatti, cioè quella che definiamo, in senso piuttosto approssimativo, come realtà (a noi esterna), poiché essa, in tutta evidenza, non è pura proiezione dei nostri desideri. Solo una ca­ ricatura dell'antiempirismo può far pensare che esso non si interessi minimamente della cosiddetta concretezza fattuale. Il problema è un po’ più complesso. L'empirismo più radicale pensa che la teoria non sia al­

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tro che la semplice generalizzazione dei fatti rilevati, fatti che non rap­ presentano mai - non possono assolutamente rappresentare - l'intera realtà (proprio come una mappa 1:1, che non sarebbe proprio di alcuna utilità). 1 fatti sono sempre trascelti sulla base di pre-concetti, magari assai rudimentali, di cui il ricercatore empirico è spesso inconsapevole. D'altra parte, vi è un atteggiamento di critica apparentemente radica­ le deH'empirismo - nella sua versione di mera generalizzazione dei "fatti" rilevati - che rappresenta, in definitiva, l'altra faccia della medaglia di quest'ultimo. In base alla considerazione che la realtà è sempre fluida e cangiante, si ripete in forme sempre mutevoli e differenziate (e quindi individuali), si pretende di criticare ogni forma di razionalità strutturan­ te, poiché sarebbe invece necessario aderire continuamente, momento per momento, alla mutevolezza, alla ripetizione differenziale, della real­ tà. In questo modo, mi sembra che si eriga il Divenire a vero Essere, si enfatizzi la domanda rispetto alla risposta, che non può mai essere data, non deve essere data, nemmeno in via provvisoria (se non momento per momento, rimettendola in discussione non appena essa venga data). Si erige ad autentico feticcio il Problema, mentre la risoluzione appare co­ me qualcosa di assolutamente fugace, dileguantesi nel momento stesso in cui si propone. Si fa quindi sfoggio di intelligenza e problematicità non affermando mai nulla di definito; sviscerato il problema da innume­ revoli lati (che non saranno mai tutti quelli possibili), si va a letto a dormire serenamente, e ci si rialza la mattina del tutto freschi e pronti a ricominciare il giochetto. Per quanto mi riguarda, credo che la cosiddetta realtà, in effetti, non abbia proprio alcuna struttura, non contenga in sé e per sé né la deter­ minazione né la probabilità, né l'ordine né il caos, che sono concetti re­ lativi alla struttura del nostro agire conoscitivo (che è una pratica tra tan­ te altre) e alla dimensione temporale della nostra vita. Se, ad es., vives­ simo un miliardo di anni, ci apparirebbero assai poco deterministici, for­ se caotici, i movimenti degli astri. Se vivessimo un giorno, anche le pre­ visioni meteorologiche sarebbero caratterizzate in senso deterministico. Dunque, siamo noi ad attribuire struttura, e relativa stabilità, alla realtà. Eppure, questo mi appare come l'unico modo serio di porsi nel mondo e di tentare di orientarsi in esso. Dobbiamo applicare alla realtà le struttu­ re della nostra razionalità. Possiamo solo auspicare che quest'ultima non sia troppo dogmatica, non si fossilizzi, riesca a cogliere il momento in cui le tendenze, il cui verificarsi avevamo previsto in base a dati mo­ delli teorici, non si realizzano, ci lasciano spiazzati, mettono in crisi il nostro orientamento, le nostre azioni, costringendoci ad innescare ulte­ riori processi di trasformazione delle teorie, pur sempre caratterizzati pe­

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rò dalla costruzione di nuovi quadri strutturali, entro cui interpretare e prevedere la "realtà" passata, presente e futura. In questo modo, i "fatti" rientrano sempre nel nostro orizzonte, nelle nostre pratiche complessive, ma in base a interpretazioni delle di­ namiche passate e presenti e a previsioni circa le dinamiche future, in­ terpretazioni e previsioni (di carattere teorico) che sono impossibili sen­ za la temporanea "cristallizzazione" (più o meno rigida o invece flessibile in base ai vari aspetti e dimensioni temporali della "realtà") del fluire del mondo. Dobbiamo fermare T'attimo fuggente", impedire che esso si vo­ latilizzi, onde "immaginare" tendenze insite nell’ambiente in cui viviamo, in modo da poter agire, muoverci, memorizzare, trasformare, ecc., anche se sappiamo già in anticipo che saremo poi sempre obbligati, in periodi successivi, a mutare le nostre immagini, le nostre teorie, le nostre cri­ stallizzazioni. Per quanto concerne Marx, egli ha formulato una certa teoria della transizione dal modo di produzione feudale a quello capitalistico; ha teoricamente pensato 1'esistenza di dati meccanismi autoriproduttivi di quest'ultimo; ha abbozzato delle previsioni circa la trasformazione d'es­ so in modo di produzione comunistico. Sul problema della transizione, Marx ha certo sottoposto ad analisi un vasto materiale storico; mi per­ metto però di far notare che tale analisi era comunque del tutto insuffi­ ciente dal punto di vista di una ricerca di carattere specificamente stori­ co. Circa i meccanismi di riproduzione e trasformazione del modo di produzione capitalistico, ha consultato molti materiali empirici, ma non secondo modalità tali da poter dire che le sue teorie erano solo la gene­ ralizzazione delle rilevazioni descritte in detti materiali. Come sostenuto nel primo capitolo (ma ci tornerò più ampiamente in seguito), le sue previsioni di tipo comunistico erano legate ai fenomeni della centra­ lizzazione dei capitali, della scissione tra proprietà e direzione, della for­ mazione del lavoratore collettivo produttivo cooperativo, ecc. Su queste previsioni non poteva proprio raccogliere nessun vasto materiale empi­ rico, dato che si trattava di fenomeni ancora embrionali (i primi due elencati) o addirittura di un processo che non si è poi mai verificato (l'ultimo). In definitiva, credo si possa affermare con certezza che l'opera di Marx, al di là di ciò che egli ne potesse pensare, ha ben poco a che vede­ re con la mera ricerca di carattere storico o empirico. È invece la costru­ zione di un modello teorico, che fissa l'immagine dei meccanismi auto­ riproduttivi fondamentali di una determinata forma di società, che ferma il fluire, in sé non strutturato, degli eventi sociali per ipotizzarne certe dina­ miche e permettere l'orientamento e l'azione di dati "soggetti" (collettivi) in essa. Restando assodato il fatto che, quando tali orientamenti e azioni non

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producono gli effetti previsti, bisogna ripensare l'ipotesi della struttura e dinamica della società nonché l'orientamento e l'agire in questione e, di più, la stessa sussistenza dei "soggetti" di cui si era supposta la pro­ gressiva formazione in antitesi alla riproduzione del capitale. 3. Un secolo e più di storia di quello che è stato definito movimento operaio è ormai giunto alla sua definitiva conclusione. Questa è la con­ vinzione profonda che regge tutta l'impostazione del presente libro. La storia del movimento operaio è finita per quanto concerne sia le sue componenti riformiste e gradualiste (socialdemocratiche), sia quelle ri­ voluzionarie (le correnti comuniste). Le prime propugnavano, all’inizio, una pacifica e progressiva trasformazione del capitalismo in socialismo, ma hanno assai presto abbandonato tale posizione per adattarsi ad un compromesso - relativo ai modi della distribuzione: del reddito, del po­ tere, ecc. - con le classi dominanti capitalistiche. Le seconde hanno continuato assai più a lungo a propugnare il rivoluzionamento del capi­ talismo e l'avvento finale del comuniSmo, ma si sono anch'esse in defi­ nitiva adattate via via al compromesso con il capitalismo, trasformando gli iniziali intenti rivoluzionari in catechismo per i lavoratori, cioè in ideologia di legittimazione del potere di dati apparati partitici (sia quelli dominanti all'Est, sia quelli all'opposizione all’Ovest). La caduta del sedicente comuniSmo ha trascinato con sé anche il compromesso di tipo socialdemocratico. Con varie gradazioni e sfuma­ ture, oggi sono in campo solo formazioni politiche di stampo sostan­ zialmente liberale; ad es., a livello di politiche economiche, è veramente difficile capire la reale differenza tra le varie forze politiche esistenti, so­ prattutto nei Paesi capitalistici avanzati. Il sistema capitalistico può ormai ritenersi completamente rimondializzato. Non solo è caduto ogni progetto di sua trasformazione, pur blanda, ma è finita anche ogni fun­ zione progressiva delle forze nazionali (sovente guidate da partiti co­ munisti) nei Paesi del cosiddetto Terzo mondo, alcuni dei quali sono solo riusciti a mettere in moto un intenso processo di sviluppo capitali­ stico, non totalmente ma sufficientemente autoctono. Di fronte ad un così grande cataclisma, che di nuovo vede in primo piano il capitalismo, senza più avversari, è impossibile non capire che sono radicalmente fi­ niti tutti i tentativi e progetti, fin qui attuati, delia sua trasformazione. Questo fatto non ci deve condurre per nulla al rinnegamento di ciò che è stato, di ciò che ha caratterizzato l'intero Novecento; un vero e proprio "assalto al cielo", un gigantesco processo che ha mosso impo­ nenti masse popolari ed ha comunque trasformato il mondo, oltre ad avere accumulato una enorme quantità di esperienze, di cui è persino difficile fare l'adeguato bilancio (anche perché la maggior parte di coloro

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che dovrebbero compierlo è passata dall'altra parte). Dobbiamo solo avere il coraggio, per quanto triste ci appaia questo compito, di trarre la conclusione che si deve ricominciare pressoché tutto da capo, con tanta esperienza alle spalle, ma con la necessità di ricostruire praticamente ex novo una prospettiva strategica e le forze che ne possano essere le porta­ trici. Siamo confusi, incerti, lontani ancora dal capire come e dove ri­ cominciare, ma bisogna intanto dichiarare la fine integrale di un'epoca storica. La fine del movimento operaio novecentesco, in tutte le sue varianti, non può non comportare la revisione della teoria che ne ha orientato le pratiche; meno a lungo quelle riformistiche delle socialdemocrazie, fino a tempi relativamente recenti quelle dei partiti comunisti (nonché dei vari frammenti e schegge da questi staccatisi). Intendo per l'appunto ri­ ferirmi al marxismo(i). La prima affermazione che mi sento di fare con­ cerne la differenza tra questo(i) marxismo(i) e il pensiero di Marx. In­ tendiamoci bene; il marxismo novecentesco non è stato il completo tra­ visamento, e tanto meno il tradimento, di quest’ultimo, ma l'ha bensì scarnificato, semplificato in modo eccessivo; e soprattutto, come vedre­ mo fra poco, ne ha in buona parte distorto il significato più essenziale. Se­ condo me il vero fondatore del marxismo, così come lo abbiamo cono­ sciuto pressoché da sempre, è stato Kautsky (penso con qualche re­ sponsabilità di Engels).

IL La prima distorsione del pensiero di Marx da parte del marxismo 1. Schematizzando, due sono state le decisive distorsioni che il kautskismo ha prodotto nel pensiero di Marx. Con ogni probabilità, la prima è stata assai importante per introdurre il marxismo nel movimento ope­ raio, specie nelle sue organizzazioni specifiche d'ordine partitico e sin­ dacale. Il cosiddetto economicismo marxista, carattere essenziale delle formulazioni teoriche di Kautsky, è stato decisivo affinché gli operai (specie quelli d'avanguardia) acquisissero la convinzione di essere gli unici produttori dell'intera ricchezza sociale; proprio in generale, non sem­ plicemente nella sua forma capitalistica di valore (di scambio mercantile). Approfondiamo questo punto. Nella Critica al programma di Gotha, pro­ gramma fortemente influenzato dalle concezioni di Lassalle, Marx criticò aspramente, e persino ridicolizzò, l'affermazione secondo la quale il la­ voro era l’unico creatore della ricchezza nel suo reale aspetto di massa di valori d'uso prodotti, per cui la classe operaia aveva diritto alla sua inte­ ra e piena disponibilità. Riprendendo formulazioni di Smith, e di altri au­ tori ancora precedenti, Marx affermò che il lavoro era il padre della rie-

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chezza in questa sua forma, ma la natura ne era la madre. Sostenere che il lavoro era l'unico creatore della ricchezza fu ritenuto da Marx un at­ teggiamento piccolo-borghese, dipendente dalle tipiche concezioni del produttore artigiano, o del piccolo manifattore semiartigianale, convinto della sua piena (e individuale) indipendenza e autonomia nel processo di produzione di dati oggetti, frutto della sua attività e creatività. La classe operaia, in tale concezione, sembrava essere semplice somma di individui di questo tipo, di prestatori d'opera ancora in possesso di ca­ pacità (semi)artigianali. Fin dal primo capitolo de II Capitale, quello sulla merce, Marx chiarì, con forte senso critico nei confronti dei classici, che il lavoro non era semplice contenuto (sostanza) del valore dei beni prodotti, ma ne era la manifestazione in quella specifica forma (di valore di scambio delle merci) all'interno di una storicamente determinata forma di società, quella caratterizzata appunto dal modo di produzione capitalistico e dall'autoriproduzione dei suoi rapporti specifici1. Nella successiva orto­ dossia marxista, già a partire da alcune considerazioni di Engels, si è pensato al lavoro quale sostanza del valore in generale, in senso astorico, come caratteristico di ogni e qualsiasi forma di società (in tal caso, si tratterebbe della sostanza lavorativa del valore d'uso, comunque esso venga prodotto in qualsivoglia modo di produzione). Successivamente, quando appare in scena sporadicamente la forma di merce, del tutto in­ terstiziale, che - come già rilevato nel primo capitolo - non è vera merce, la sostanza acquisterebbe una sua forma specifica (il valore di scambio), che andrebbe progressivamente sviluppandosi fino alla sua generaliz­ zazione nel sistema capitalistico. Tale visione gradualista, evoluzionista, senza cesure di forma, senza discontinuità temporali, vera concezione di un progresso lineare e costante dell’umanità verso sempre superiori gradini di civiltà, non mi appare cogliere appieno i connotati di fondo del pensiero marxiano. In Marx, sostanza e forma sono assolutamente concomitanti, sono aspetti diversi di una realtà unitaria, quella rappre­ sentata dalla produzione di merci, diventata generale solo quando di-' venta merce la forza lavoro, cioè quando si passa (si "transita") alla so­ cietà il cui "nucleo centrale" è costituito dalla peculiare forma dei rap­ porti di produzione intrinseci al modo di produzione capitalistico che continua a riprodurli su scala allargata2.

1 Cfr. Il Capitale, cit., libro I, pp. 97-98 e nota 32. 2 Nei Grundrìsse ("Frammento sulle macchine"), Marx sostiene che, con lo sviluppo delle forze produttive e la formazione del generai intellect indotti dal modo di produzione capitali­ stico, il lavoro si sarebbe dimostrato una ben miserabile base di calcolo tipica dell'epoca

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C'è però ancora di più. Per Marx, il lavoro, in quanto fondamento del valore delle merci prodotte capitalisticamente, era l'intero lavoro, in senso intellettuale e manuale, direttivo ed esecutivo, era il lavoro eroga­ to nell'ambito del lavoratore collettivo produttivo, anche se, per tutta un'epoca storica dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, le potenze mentali della produzione si sarebbero sviluppate sotto l'ege­ monia del capitale e, dunque, in antitesi al lavoro degli operai. Nella successiva "vulgata" marxista, il lavoro produttore di valore è diventato praticamente solo quello degli operai, comunque quello dei lavoratori più subordinati, di tipo esecutivo. Mediante questo complesso di defor­ mazioni, il marxismo ha indicato nella classe operaia in senso stretto le cosiddette tute blu, comunque non certo il lavoratore collettivo pro­ duttivo, "dal direttore fino all'ultimo manovale" - l'autentica creatrice dell’intera ricchezza delle nazioni (non riprendo a caso il titolo dell'opera di Adam Smith). Tale distorsione del pensiero marxiano ha avuto effetti nobili ed ef­ fetti meno nobili. Senza dubbio, in sua assenza, non vi sarebbe stata quella saldatura tra marxismo e classi lavoratrici che ha contrassegnato il Novecento, con le sue grandiose lotte delle masse popolari e i vari tentativi di "assalto al cielo" da parte di queste ultime. Il marxismo è di­ ventato ideologia di legittimazione del ruolo sociale primario della clas­ se operaia, della sua fondamentale (anche se presunta) missione civiliz­ zatrice ed emancipatrice dell'intera umanità. Gli operai d'avanguardia, inquadrati nel partito (le socialdemocrazie e poi i comuniSmi), hanno potuto sentire l'orgoglio di tale missione, l'orgoglio di possedere quella che venne infine trasformata in una autentica visione del mondo antite­ tica all'ideologia borghese; causa questa, come ormai ben si sa, di una serie di gravi e del tutto negative intrusioni del marxismo nel campo delle scienze, oltre che del più completo disprezzo nei confronti di ogni forma di libertà e di democrazia, anch'esse liquidate quali pure manife­ stazioni dell'ideologia borghese. La distorsione in oggetto ha però giocato anche contro gli interessi della classe operaia, più in generale contro gli interessi delle classi su­ bordinate. Sia dove i comuniSmi presero il potere, sia dove rimasero al­ l'opposizione, l'ideologia del lavoro (solo operaio) creatore di ricchezza permise agli apparati dirigenti dei partiti (le "avanguardie" dei lavorato­ ri) di caricare la classe della cruciale funzione "nazionale" di sviluppo della ricchezza (e dell'industria, in quanto decisivo fattore propulsivo di que­ st'ultimo). E sia all'Est che all'Ovest, tale funzione si tradusse invece nel capitalistica. Questa è un'ulteriore domostrazione che, per Marx, il lavoro non era, in ge­ nerale, fondamento del valore, unità di misura d'esso.

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poderoso aiuto dato alla rivincita del capitalismo di questi ultimi anni; all'Est sotto la copertura ideologica della costruzione del socialismo, al­ l'Ovest sostenendo che lo sviluppo industriale, pur ancora diretto dagli agenti del capitale, conduceva ineluttabilmente, e pacificamente, al rove­ sciamento del potere di tali agenti; la borghesia non lo sapeva, non se ne poteva rendere conto (perché non aveva la conoscenza del "socialismo scientifico"), ma lo sviluppo in questione l'avrebbe resa obsoleta, l'avrebbe relegata tra gli arnesi vecchi della Storia (il Progresso tutto lineare di cui sopra). 2. Lo scontro tra revisionisti (Bernstein in testa) e ortodossi, e poi quello tra coloro che pensavano la transizione dal capitalismo al socialismo in termini evoluzionistici e gradualisti e coloro (soprattutto Lenin) che propugnavano invece la rottura (discontinuità) rivoluzionaria, si è svolto entro il quadro concettuale fornito dalla ortodossia kautskiana. Dire questo non significa certo mettere tutti sullo stesso piano; senza po­ termi soffermare su questo punto, per me non vi è dubbio che i rivolu­ zionari avessero ragione a sostenere la necessità di non attendere i tempi eterni della graduale fuoriuscita dal capitalismo, nel mentre que­ st'ultimo trascinava i popoli in un'intera epoca di sconvolgimenti dram­ matici e di guerre mondiali. Il problema è che, una volta fatta la rivolu­ zione (essenzialmente politica), il successivo sviluppo verso il sociali­ smo e comuniSmo è stato considerato in termini assai simili a quelli dell'ortodossia in questione. Così pure tutti i tentativi di rottura con quest'ultima, tutte le critiche portate all'economicismo marxista, che hanno condotto alla formazione di molti marxismi (alcuni di carattere prettamente accademico, senza grandi riscontri con la pratica dei movimenti operai), si sono sviluppati principalmente contro il marxismo di ascendenza kautskiana più che nei confronti del pensiero di Marx3. Tanto per fare un esempio: molto spes­ so, per criticare l'economicismo del marxismo ortodosso, si è caduti nella concezione perfettamente speculare della completa dominanza degli apparati politici e ideologici relativamente alla strutturazione dei rapporti sociali capitalistici; perfino l'althusserismo, che pure ha molti meriti, è di fatto caduto in questo trabocchetto, pur mantenendo una 3 Si pensi alle critiche di certa ecologia a Marx; quest'ultimo, con la sua teoria del valore, avrebbe tenuto conto solo della funzione del lavoro nella produzione e non anche di quella della natura. Evidentemente, non si è mai letto direttamente Marx, ma esclusivamente qualche manuale della sedicente economia marxista di derivazione kautskiana che, come già detto, poneva il problema della produzione di ricchezza in termini simili a quelli (lassalliani) criticati da Marx nella Crìtica al programma di Gotha.

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sbiadita (e non ben definita) "determinazione d'ultima istanza" da parte dell’istanza economica (ma quale? L'althusserismo, a un certo punto, non se ne interessò più). In altri casi, si è fatto sfoggio di puro ecletti­ smo, parlando di multifattorialità, mettendo cioè sullo stesso piano una congerie di fattori economici, politici, ideologici, aggiungendo de­ scrizione a descrizione, senza effettive capacità d'astrazione teorica, quelle che invece caratterizzavano il pensiero di Marx (che criticava un autore come Ricardo di difetto d'astrazione!). Si potrebbero fare anche altri esempi, ma sarebbe allora necessario un più esauriente bilancio del marxismo novecentesco, che non è il fine di questo scritto. Piuttosto, mi sembra utile una breve digressione su Lenin. Quest'ultimo fu infatti l'unico ad avere intuito una serie di limiti del marxi­ smo kautskiano, pur se non uscì mai completamente da tale quadro con­ cettuale poiché i compiti rivoluzionari immediati assorbirono la maggior parte delle sue energie. I suoi studi, le sue capacità (assolutamente genia­ li) d'analisi, le sue acute illuminazioni teoriche non vanno comunque di­ menticati. Su due punti cruciali Lenin colse i limiti intrinseci alla distor­ sione del pensiero marxiano di cui stiamo discutendo. Se il lavoro, in quanto fonte del valore della produzione nella sua forma capitalistica (e solo in questa), è il lavoro complessivo del lavoratore collettivo - nel suo aspetto di cooperazione tra i vari frammenti d'esso scissi dal movimento del capitale - la classe operaia in senso stretto, es­ sendo priva delle potenze mentali della produzione, non può esercitare l'egemonia sulla società tutta, non può possedere quella funzione civiliz­ zatrice ed emancipatrice in senso universale, che le era stata tradizio­ nalmente assegnata. Quanto detto era particolarmente valido in un pae­ se arretrato come la Russia; e per questo Lenin sperava che la rivoluzio­ ne si potesse estendere almeno ad un paese capitalistico avanzato come la Germania. Tuttavia, il problema dell'arretratezza rendeva solo meno evidente, celava in qualche misura, il limite della tradizione kautskiana. Lenin non lo colse con pieno risalto, non lo potè teorizzare, ma lo afferrò con sufficiente chiarezza a livello pratico. E fissò l'attenzione su due punti ben precisi. La classe operaia, lasciata a se stessa, era fondamentalmente una classe in sé, capace di lotte prevalentemente economiche, comunque di tipo distributivo, ma non in grado di trasformarsi in classe per sé dotata di coscienza dei compiti rivoluzionari che era necessario assolvere per trasformare radicalmente il modo di produzione capitalistico e i suoi rapporti specifici, la cui riproduzione assicurava la sua continua subor­ dinazione. La teoria del partito leninista è inscritta in questa impossibi­ lità della classe operaia di maturare nel suo seno la consapevolezza della rivoluzione. Il partito leninista è qualcosa di molto diverso, e va in­

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teso in senso assai più forte, rispetto alle concezioni di Marx ed Engels, che pure posero il problema dei famosi intellettuali borghesi, "traditori" della loro classe di appartenenza, essendo giunti alla comprensione del movimento storico complessivo. Tali intellettuali avrebbero solo dovuto, e potuto, far risaltare con maggior chiarezza e perspicuità quanto era già in maturazione nel seno stesso della classe operaia; che era comunque considerata, in prospettiva, tenuto conto delle oggettive tendenze di sviluppo del modo di produzione capitalistico, quale classe del lavoro collettivo produttivo di tipo cooperativo, ivi comprese le potenze men­ tali della produzione, il generai intellect, in via di ricongiungimento con il lavoro manuale. Il partito leninista è intreccio organico di intellettuali, rivoluzionari di professione, e di operai d'avanguardia, nel cui ambito si svolge la tra­ smissione del sapere (sulla rivoluzione e sui suoi compiti storici) sostan­ zialmente dall'alto verso il basso. L'"illuminismo" leniniano ha senza dubbio una forte componente di necessario indottrinamento degli ope­ rai da parte di chi possiede la "scienza" della rivoluzione, senza la quale i lavoratori, completamente staccati - e non solo temporaneamente, bensì finché sarebbe sussistito il modo di produzione capitalistico - dalle po­ tenze mentali della produzione, potevano semplicemente promuovere, nel migliore dei casi, ribellioni, forti tensioni sociali, ma non il completo rivolgimento del capitalismo; soltanto dopo questo evento rivoluziona­ rio, si sarebbe potuto andare progressivamente nella direzione della ri­ composizione e cooperazione dei diversi ruoli sociali e produttivi. Tuttavia, anche dopo la presa del potere da parte del partito d'avan­ guardia della classe operaia (specie in un Paese ancora arretrato e con scarsa consistenza numerica di tale classe), per un lungo periodo di tempo era indispensabile servirsi dell'attività degli agenti portatori delle potenze mentali della produzione; bisognava cioè servirsi dei tecnici e direttori di estrazione borghese, che per Lenin restavano proprio dall’al­ tra parte: erano, in sostanza, dei nemici di classe, o comunque degli "alleati" terribilmente infidi e opportunisti. L'interesse di Lenin per il taylorismofordismo non concerneva in modo speciale la divisione "scientifica" del lavo­ ro da tale corrente indagata e poi introdotta nelle fabbriche capitalistiche statunitensi; da questo punto di vista, Lenin si rendeva ben conto che si trattava di metodi di incremento inaudito dell'estrazione di plusvalore (e non solo in forma relativa). La sua ammirazione era soprattutto suscita­ ta dai metodi della direzione "scientifica", dall'integrazione e coordina­ mento dei vari reparti di fabbrica, dalla visione complessiva della pro­ duzione almeno a livello di ogni singola unità produttiva, di dimensioni tuttavia sempre maggiori.

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Di tale direzione scientifica, un Paese arretrato come l'Urss non pote­ va che avvantaggiarsi. Era però necessario non perdere di vista che i por­ tatori delle potenze mentali (direttive) della produzione non possedeva­ no affatto la visione complessiva degli interessi globali della società, dell'insieme delle classi sociali, visione che restava appannaggio dell'or­ ganismo (il partito) in cui si incarnava il punto di vista "scientifico" rela­ tivo al rivoluzionamento del modo di produzione capitalistico, da cui di­ pendeva l'emancipazione della classe operaia e, con lei, di tutto il resto della società. Il partito doveva quindi possedere le leve del potere stata­ le. E anche sullo Stato (per quanto "in via di estinzione"), la visione di Lenin è più drastica di quella di Marx. La "dittatura proletaria" è la presa d'atto che le potenze mentali della produzione sono rimaste di pertinen­ za di agenti borghesi. Gli "operai e i contadini in armi" - orientati dalla scienza della rivoluzione globale, di cui è portatore il partito - debbono controllare l'operato di tali agenti, dei direttori. Solo gradualmente, con lo sviluppo di nuovi rapporti di produzione e di nuove forze produttive, il processo sarebbe rientrato progressivamente nell'alveo previsto da Marx (e delineato nel primo capitolo). È inutile negare l'acutezza dell'intuizione leniniana, il suo giusto "di­ sincanto" rispetto a certo "romanticismo" operaista di personaggi come la Luxemburg. Lenin sapeva bene con chi aveva a che fare, si rendeva conto, nella pratica, che le previsioni marxiane relative alla formazione del lavoro collettivo cooperativo (base sociale del comuniSmo), in quan­ to portato dello sviluppo intrinseco del modo di produzione capitalistico, erano fallaci. Non ha però potuto trarne le debite conseguenze teori­ che, ed ha cercato il deus ex machina nella particolare organizzazione del partito, con tutte le varie conseguenze che ne sono derivate. Tuttavia, senza partito leninista, non sarebbe esistito il comuniSmo novecentesco, giunto oggi alla fine, ma dopo una messe di esperienze, senza le quali (senza il fallimento delle quali) saremmo ancora a discettare sulle ten­ denze intrinseche al modo di produzione capitalistico, sulla maturazione "spontanea" della coscienza della classe operaia, sul formarsi della clas­ se per sé nella mera lotta di classe contro ii capitale, ecc.

III. Modo di produzione capitalistico e teoria del valore in Marx 1. Passiamo allora alla seconda delle distorsioni cui ho fatto sopra cenno. Non credo possa esservi dubbio che il concetto centrale - e l'autentica "scoperta" - della teoria di Marx sia quello di modo di produzione, con particolare riferimento al modo di produzione capitalistico. In questo senso, come sopra ho ricordato, va ammesso il grande merito della cor­

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rente althusseriana per avere riproposto tale concetto in tutta la sua pregnanza, che era andata via via sbiadendosi nel corso dello sviluppo del marxismo novecentesco. Concentrerò la mia attenzione proprio sul modo di produzione capitalistico, poiché tutti gli altri (schiavistico, feu­ dale, ecc.) sono, in fondo, stati pensati - in modo abbastanza generico per differenza rispetto al primo, vero asse portante della teoria marxiana relativa alla moderna società. Segnalo anzitutto che modo di produzione capitalistico e capitalismo sono espressioni relative a oggetti ben differenti. Il capitalismo è l'in­ sieme delle relazioni sociali di cui si sostanzia la suddetta società mo­ derna: relazioni di carattere politico, ideologico, economico, familiare, religioso, e via dicendo; ma anche relazioni politiche di tipi diversi, rela­ zioni ideologiche o economiche, ecc. variamente caratterizzate e struttu­ rate. Va inoltre ricordato che la formazione sociale detta capitalistica eredita, e dunque contiene in sé, tutta una serie di relazioni sociali più antiche, tipiche di precedenti forme di società, anche se le subordina ai rapporti che la caratterizzano, che si sono sviluppati nell'epoca moderna. In realtà, non vi è mai un capitalismo, ma più capitalismi, sia in senso temporale, nelle varie fasi del suo sviluppo, sia in senso spaziale, nelle varie regioni e aree a differente organizzazione economica, statuale, ecc., regioni e aree più in generale contraddistinte da diverse formazioni so­ cio-culturali. Vi è invece un modo di produzione capitalistico, che contrassegna tutti i capitalismi. So che le analogie sono pericolose ma, al fine di far capire almeno intuitivamente quello che voglio dire, paragono il modo di produzione capitalistico al Dna della società moderna, alla struttura decisiva che contiene le "informazioni" necessarie alla sua autoriprodu­ zione. Il modo di produzione capitalistico è quindi, in un certo senso, il genotipo, mentre i vari capitalismi sono i fenotipi, ognuno dei quali ha evidentemente le sue proprie caratteristiche particolari. Il modo di produzione capitalistico è, in ogni caso, una struttura, det­ to meglio una configurazione - concettualmente costruita, come chiarito nel secondo paragrafo - relativamente semplice, atta a chiarire qual è, in una determinata epoca "storica” dello sviluppo societario, la forma de­ cisiva dei rapporti sociali, o meglio della loro riproduzione, quella forma che "decide del rango e dell'influenza di tutte le altre", quella "luce gene­ rale che si effonde su tutti gli altri colori modificandoli nella loro partico­ larità", quella "atmosfera particolare che determina il peso specifico di tutto quanto essa avvolge"4. Il modo di produzione capitalistico non è quindi un sistema; può semmai servire a costruire determinati sistemi 4 K. Marx, "Introduzione” del '57, in II Capitale, cit., voi. Il (Appendici al libro I), p. 1168.

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relativi a particolari (feno)tipi di capitalismo, sia in senso temporale che spaziale, dato che esso permette di pensare una più complessa totalità, internamente differenziata, le cui diverse parti sono organicamente arti­ colate intorno ai rapporti specifici di detto modo di produzione, che ne consente e influenza la riproduzione complessiva. Nel corso di quest'ultima, possono sicuramente verificarsi modificazioni e sviluppo di carat­ teri nuovi, anche se, almeno fino ad oggi, non abbiamo assistito ad al­ cuna vera "mutazione", al passaggio ad altra totalità organica articolata intorno ad un diverso modo di produzione (ad es. quello comunistico). Il modo di produzione capitalistico indica quindi la forma decisiva (e semplice) dei rapporti sociali che caratterizza la nostra epoca; esso non si limita però a segnalare soltanto la configurazione di questi rapporti, poiché in quest'ultima è immediatamente implicato anche il meccani­ smo fondamentale della sua riproduzione. Se tali rapporti decisivi ven­ gono denominati rapporti di produzione, non credo sia affatto perché la questione decisiva si pone, in generale (per quanto riguarda ogni forma di società esistita), nell'ambito dell'economia, cioè della produzione (e di­ stribuzione e scambio, ecc.) delle basi cosiddette materiali della vita umana, bensì perché in quest'ambito si situano sia le relazioni fondamentali - quelle che illuminano, danno peso specifico, ecc. a tutte le al­ tre - caratterizzanti la società detta capitalistica, sia i meccanismi ripro­ duttivi delle stesse. Nella teoria di Marx, i rapporti di produzione capitalistici sono, come ben si sa, relazioni tra proprietari dei mezzi di produzione e lavoratori salariati, e definiscono le fondamentali posizioni di dominio e di subor­ dinazione nella società moderna, posizioni che influenzano tutte le altre (di carattere politico, ideologico, familiar-sessuale, ecc.). Non solo la struttura articolata di queste posizioni (ruoli) decisive, ma la loro stessa riproduzione sono situate, nel loro aspetto più rilevante, in quella sfera della società che usiamo definire economia, cioè in quel particolare sot­ tosistema del sistema sociale complessivo in cui si esplica attività lavo­ rativa, attività (intellettuale e manuale) di trasformazione di dati "fattori" in dati "prodotti"; dove non ha alcuna importanza che i fattori e i pro­ dotti siano materiali o immateriali, distinzione, d'altronde, che mi sem­ bra sia ormai da abbandonare definitivamente, poiché dipende da un concetto dei tutto "ingenuo" di materia. Pensando allo specifico meccanismo di riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici, delle cruciali relazioni di dominio e subordina­ zione entro la sfera detta economica, Marx ha indubbiamente utilizzato la teoria del valore lavoro, mutuata dai classici, ma radicalmente tra­ sformata proprio in riferimento alia costruzione del concetto di riprodu­ zione di detti rapporti, della loro forma più generale nell'ambito della

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formazione sociale capitalistica. La teoria del valore ha collocazione del tutto subordinata, che Marx le assegnò al fine di pensare il meccanismo, non apertamente e scopertamente visibile, della riproduzione in ogget­ to, che - lo ripeto - è la riproduzione delle più fondamentali posizioni di dominio e di subordinazione nella loro forma (e struttura) specificamen­ te capitalistica, così diversa dalla forma di altri modi di produzione. 2. La teoria del valore - asse portante della cosiddetta economia marxi­ sta - non può quindi essere intesa, e indagata, se non alla luce della struttura e dinamica riproduttiva delle relazioni sociali decisive, che co­ stituiscono il "genotipo" del capitalismo (dei capitalismi). Nel suo aspet­ to più supejficiale, la sfera economica del capitalismo(i) appare come un fittissimo intrico di relazioni di scambio mercantile. In questa società, tutti i soggetti, nella loro attività di tipo economico, appaiono quali pos­ sessori di una qualche merce, non foss'altro che la loro semplice capaci­ tà lavorativa che ha ormai assunto tale forma, la sola che consenta lo scambio tra venditore e compratore, posti fra loro in posizione di fon­ damentale eguaglianza. La teoria dei prezzi, nucleo centrale delle varie economiche ufficiali (e accademiche), non è affatto errata perché scinde l'individuo concreto in tante sezioni (di comportamento), di cui analizza solo quella economica (\'homo oeconomicus). Fare appello all'inscindibile unità dell'individuo em­ pirico è solo affermazione etico-filosofica priva di qualsiasi valore per quanto concerne il tentativo di impostare scientificamente un qualsiasi ramo del sapere intorno alla società, all'azione degli individui secondo i differenti aspetti del loro atteggiarsi nel mondo, ecc. La teoria dei prezzi presenta invece caratteri mistificatori perché presuppone l'eguaglianza sostanziale di tutti i possessori di merci (di qualsiasi merce si tratti). All'inizio della scuola neoclassica, tale teoria era interessata a trovare la fondazione del prezzo nel valore utilità, che dipendeva dalla pura rela­ zione tra soggetto e beni necessari al soddisfacimento dei suoi bisogni (in sé e per sé avulsi da ogni connotazione storico-specifica). Anche in tal caso, il mercato - in quanto reticolo di relazioni decisive nel formarsi della società - veniva pensato quale mero luogo d'incontro tra soggetti eguali, portatori dei vari bisogni, ma ognuno dei quali si specializzava nella produzione di uno solo dei beni indispensabili a soddisfare detti bisogni; da qui derivava la necessità primordiale dello scambio. In segui­ to, del resto, ogni fondazione dei prezzi è stata abbandonata, e la loro formazione è stata trattata solo in termini di interdipendenza nell'ambi­ to del complessivo intersecarsi delle domande e delle offerte dei vari soggetti economici.

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È del tutto evidente che, se le cose stessero veramente in questo modo, l'eguaglianza tra i possessori di merci potrebbe venire alterata solo da elementi estranei alla pura economia. L'intervento del potere statale, la creazione di associazioni sindacali (operaie e capitalistiche), l'introduzione di elementi che contraddicono la libertà di concorrenza (la formazione di oligopoli non è mai considerata un fatto puramente eco­ nomico), ecc. possono influire negativamente sull'eguaglianza dei pos­ sessori di merci. È quindi sempre necessario intervenire - in senso semplicemente legislativo - per ripristinarla. Occorre contrastare l'inter­ vento statale, onde ridurlo alla sola creazione della cornice istituzionale entro la quale possa svilupparsi la libera concorrenza; bisogna controlla­ re l'attività delle associazioni sindacali, onde esse si facciano reciproca­ mente da contrappeso (si equilibrino, insomma); è necessario ripresen­ tare e riformulare continuamente delle leggi antitrust per controllare e ridurre il potere degli oligopoli; ecc. Questa è la visione tutta formale della politica nella società della presunta eguaglianza sostanziale tra i vari possessori di merci. La marxiana teoria del valore - opportunamente ricostruita rispetto a quella degli economisti classici al fine di evidenziare l'erogazione di pluslavoro nella forma del plusvalore - era pensata quale strumento di "discesa" al di sotto del reticolo dei prezzi e di conseguente disvelamen­ to della diseguaglianza reale di posizioni tra il possessore di quelle merci che sono i mezzi di produzione (capitalista) e il (libero) possessore della merce forza lavoro (operaio, lavoratore salariato). E poiché, secon­ do le ipotesi poste dalla teoria in questione, il plusvalore (in quanto profitto) viene riaccumulato in nuovi mezzi di produzione, mentre il sa­ lario serve solo all'acquisto dei beni di consumo necessari alla riprodu­ zione (storico-sociale) dei portatori di forza lavoro, detta teoria è altresì strumento di spiegazione della continua (auto)riproduzione del fondamentale sistema dei rapporti di produzione capitalistici. Si sosteneva che tale sistema di rapporti costituiva la cosiddetta base economica della società non nel senso della meccanicistica determinazione delle cosiddette sovrastrutture politico-ideologiche; ma nemmeno è sufficien­ te affermare che, in certe situazioni, le sovrastrutture reagiscono sulla base economica (semplice meccanicismo incrociato, mera azione e reazione, interazione d'urto tra eventi causa ed eventi effetto, che si scambiano le posizioni). I rapporti di produzione capitalistici sono base perché rappresentano il nucleo strutturale decisivo del modo di produzione capitalistico in quanto modalità dinamica di autoriproduzione dei rapporti stessi, quelli che "illuminano" e "colorano" tutti gli altri. Nelle sfere dei rapporti poli­ tici, ideologici, culturali in senso lato, si combattono certo le battaglie,

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si sviluppano i conflitti anche acuti, tra i vari raggruppamenti sociali - le cui posizioni, diseguali, sono assegnate dalla riproduzione dei rapporti di produzione - ma tali conflitti, per un'intera epoca "storicaconcernono i modi della distribuzione (del reddito, del potere, delle condizioni di vita, degli orientamenti culturali, ecc.). Solo in particolari condizioni che nella visione di Marx, come già considerato nel primo capitolo, do­ vevano maturare entro la riproduzione del modo e dei rapporti di pro­ duzione capitalistici - potrebbe avvenire la "mutazione", con conseguen­ te transizione ad un nuovo modo di produzione, ad un nuovo sistema di rapporti di produzione, ad una nuova base economica. In questo contesto, la marxiana teoria del valore lavoro voleva tra­ smetterci un fondamentale messaggio: le varie lotte condotte intorno ai modi della distribuzione, nei diversi aspetti appena sopra indicati, non mettono in discussione il modo di produzione capitalistico, il suo deci­ sivo nucleo strutturale interno (i rapporti di produzione capitalistici), le sue modalità di riproduzione di rapporti di diseguaglianza reale fra po­ sizioni sociali dominanti e dominate. Con la formulazione della "legge" relativa alla crescente centralizzazione dei capitali, Marx ci ha indicato chiaramente che si sarebbe usciti dalla forma di mercato detta di con­ correnza (più o meno pura) per andare in direzione dell'oligopolio; ma a Marx non interessava essenzialmente mettere in luce la radicale modifi­ cazione che si sarebbe così prodotta in riferimento al potere di mercato, perché tale potere concerneva comunque la distribuzione del reddito. Marx sapeva benissimo che l'intervento legislativo dello Stato, perfino quello propugnato da correnti liberali del tutto incoerenti e inconse­ guenti con i principi da esse ufficialmente dichiarati, portava a modi­ ficazioni dei rapporti di potere tra raggruppamenti sociali, quindi ancora una volta all'alterazione del "libero" scambio, ecc. Intendiamoci bene. Per Marx, tali mutamenti di posizione delle classi sociali nella distribuzione del potere non erano affatto da trascurare, quasi si trattasse di questioni inessenziali. Nella polemica con il "cittadino Weston" (contenuta in Salario, prezzo e profitto) - il quale soste­ neva la lassaliiana legge bronzea dei salari - egli aveva attribuito la massima importanza alla lotta sindacale per il salario. Questo fatto di­ mostra però anche che, per Marx, tale lotta decideva della distribuzione; e, da questo punto di vista, in certe congiunture, la classe operaia pote­ va anche vincere contro il capitale. Di conseguenza, nell'ambito della di­ stribuzione (e non solo del reddito), l'acquisizione di maggior potere può verificarsi nei due sensi, a favore delle classi dominanti o invece di quelle dominate, a favore del profitto o invece del salario, ecc. La teoria del valore lavoro, nella sua "essenza", vuole invece indicarci un fatto ben più decisivo: essa è stata pensata da Marx quale strumento, meccani­

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smo, di riproduzione del modo e dei rapporti di produzione capitalistici, quindi delle posizioni di reale diseguaglianza (di dominazione e subor­ dinazione) nella loro storicamente specifica configurazione. E questo va ben oltre il semplice mutamento - congiunturale, sviluppantesi ora in una direzione, ora in quella opposta - dei modi della distribuzione. Per tali motivi, la teoria del valore parte allora dal presupposto che i poteri (distributivi) delle due classi decisive del modo di produzione ca­ pitalistico - al di là delle fasi congiunturali appena indicate - si pareggi­ no, poiché solo così i prezzi delle merci sono, in media, eguali ai loro valori (o prezzi di produzione in quanto valori trasformati). In questo scambio di equivalenti sta tutto il senso dell'eguaglianza puramente formale - che caratterizza i rapporti sovrastrutturali: politici, ideologici, ecc. - tra i vari soggetti implicati nella rete dei rapporti sociali capitali­ stici; eguaglianza formale dietro (o sotto) la quale sta invece la reale di­ seguaglianza che investe il rapporto tra le diverse classi (di ruoli, di po­ sizioni sociali) riprodotte dal modo di produzione capitalistico, dise­ guaglianza mai alterata (poiché l'alterazione sarebbe in questo caso l'in­ versione delle posizioni di dominio e subordinazione) nel corso di tale riproduzione, almeno fino a quando non si verifichi la "mutazione" del­ l’organismo societario capitalistico, la mutazione del suo "Dna", del suo peculiare modo di produzione, cioè delle più generali modalità ripro­ duttive dei suoi decisivi rapporti di produzione.

IV. La seconda distorsione del pensiero di Mare 1. Anche su questo punto, che in Marx mi sembra esplicato e posto con grande chiarezza, il marxismo successivo, a partire da Kautsky, ha provo­ cato una distorsione piuttosto netta, che ha caratterizzato l'intero svi­ luppo di tale corrente teorica durante tutto il Novecento, sia nelle ver­ sioni ortodosse (assolutamente dominanti nei partiti comunisti) sia in quelle eretiche. Si è prodotta l'inversione della posizione reciproca tra modo di produzione capitalistico e teoria del valore. Quest'ultima ha as­ sunto posizione centrale nel marxismo, che si è di fatto trasformato in una sorta di economia marxista. La teoria economica, infatti, è diventata l'asse portante dell'intera "dottrina". Un buon marxista doveva conosce­ re innanzitutto l'economia politica. La filosofia, ad es., assumeva posi­ zione di fatto complementare; ed era soprattutto importante nel suo versante epistemologico, addirittura magari in quanto mera meto­ dologia della scienza (economica). La teoria del valore "dimostrava" - per certuni addirittura permetteva di calcolare - lo sfruttamento di cui gli operai erano oggetto. Questi ul-

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timi, oltre all'orgoglio di essere gli unici produttori della ricchezza - di cui vivevano tutti gli altri soggetti implicati nei rapporti sociali capitali­ stici - acquisivano anche completa coscienza, grazie alla teoria del valo­ re, di quanto pluslavoro veniva loro estorto, sia pure in forma di plusvalo­ re, dalla proprietà capitalistica. L'operaio assumeva realmente su di sé tutto il carico del mantenimento e della riproduzione della società capi­ talistica; era, nella sostanza, l'unico vero produttore e l'unico vero sfrut­ tato. In questo contesto, il concetto di modo di produzione capitalistico veniva completamente travisato e diventava praticamente sinonimo dei cosiddetti metodi del plusvalore relativo. In definitiva, si affermava una concezione meramente tecnico­ organizzativa del modo di produzione capitalistico; quest’ultimo era ca­ ratterizzato dalle modalità, storicamente evolventisi, secondo cui si svi­ luppavano le forze produttive. Non un modo, ma più modi di produzione hanno caratterizzato il capitalismo. Naturalmente, a seconda dei criteri che si utilizzavano, si potevano individuare fasi diverse nella scansione storica dei modi di produzione capitalistici. Una di tali scansioni potreb­ be ad es. essere, da ieri a oggi: manifattura, grande industria meccanica, taylorismo-fordismo, informatizzazione e toyotismo, ecc. Insomma, il modo di produzione capitalistico si riduce a tecnologia impiegata e ad organizzazione (e divisione) del lavoro, con particolare riferimento a quello subordinato, a quello operaio. È praticamente impossibile fare l'esposizione sistematica di tutte le varie correnti marxiste che si sono sviluppate in base a questa concezio­ ne generale. Così com'è impossibile descrivere tutti i percorsi eretici che si sono diramati a partire dalla critica dell'impostazione in questione, considerata troppo economicistica. Va rilevato, in ogni caso, che l'eco­ nomicismo è restato nella sostanza dominante nei vari partiti comunisti (perfino in quello italiano malgrado le sue tradizioni gramsciane), sia all'Est che all'Ovest, sia al potere che all'opposizione; e questo non è un caso, se si considera che la principale base sociale di tali partiti è stata a lungo la classe operaia, che in tale concezione trovava, anche se solo come ideologia e non certo come potere nel partito, la garanzia della centralità del proprio ruolo sociale. Ricordo brevemente, fra le critiche all'economicismo, innanzitutto quelle - l"'operaismo" italiano e l'"althusserismo" - che hanno conside­ rato decaduta la legge del valore lavoro (che hanno quindi criticato pro­ prio l'asse centrale dell'impostazione in oggetto) in base alle aporie della trasformazione (del valore in prezzi di produzione) e, soprattutto, alle affermazioni marxiane contenute nel "Frammento sulle macchine" (Grundrisse), che riguardano precisamente lo sviluppo delle forze produttive e del generai intellect; si è quindi trattato di una critica deH’economicismo

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che ne seguiva gli stessi criteri, gli stessi schemi teorici. Non c'è stata proprio nessuna ripresa del concetto di modo di produzione capitalistico, nessun riposizionamento di quest'ultimo al centro della teoria. Di fatto, l'enfasi è stata ancora una volta posta sulla teoria del valore, an­ che se si è trattato di enfasi in negativo, con dichiarazione della fine della sua validità, mentre il modo di produzione, come nel kautskismo, è stato interpretato quale semplice modalità (tecnica e organizzativa) dello sviluppo socializzato delle forze produttive, ricomprendendo in esse anche le potenze mentali della produzione (la cui socializzazione sareb­ be appunto la formazione del generai intellect). Ricordo ancora la "scuola della regolazione" (francese) che ha periodizzato una serie di "regimi di accumulazione" proprio in base alla suc­ cessione storica di più modi di produzione (sempre in senso tecnico e or­ ganizzativo) intrecciati a (articolati con) diverse forme politico-istituzionali, sociali e culturali, anch'esse poste in una certa scansione storica. Sia chia­ ro che si sono prodotte analisi assai interessanti, che rappresentano co­ munque acquisizioni conoscitive da non disprezzare. Il problema non è però questo. Non è mia intenzione criticare queste impostazioni o, ancor peggio, sostenere che esse hanno mistificato la realtà capitalistica. Nulla di tutto questo. Sostengo solo che, nei limiti delle nostre capacità, dobbiamo riafferrare il livello di astrazione di Marx per produrre un con­ cetto di capitale (del "genotipo" capitalistico) all'altezza di quest'ultima (in ordine di tempo) fase storica, che ha visto fallire tutti i tentativi di provocare la mutazione genetica dell'attuale sistema sociale. Penso poi alle varie tesi - da Hilferding e Lenin a Baran e Sweezy relative al capitale monopolistico, anch'esse assai interessanti e non certo da disprezzare, soprattutto nelle loro prime, e più classiche, formu­ lazioni. La trasformazione della libera concorrenza in oligopolio avrebbe condotto a distorsioni della legge del valore, con trasferimento di valore dai settori non oligopolistici (ad es. piccole imprese) a quelli oligopoli­ stici (in genere le grandi imprese). Tale schema (di "scambio ineguale") è stato poi esteso all'intero pianeta, sostenendo il trasferimento di (plus) valore dal Terzo mondo (dove prevarrebbero forme di mercato concor­ renziali, tecnologie più primitive, minori dimensioni medie d'impresa, produttività del lavoro e salari più bassi) verso i Paesi capitalistici del Primo mondo, dove prevalgono condizioni esattamente opposte,7 La po­ sizione centrale di produttore e sfruttato non sarebbe allora più quella dell'operaio del modo di produzione capitalistico, bensì spetterebbe al popolo oppresso e diseredato del Terzo mondo, secondo uno schema teorico del tutto simile, e similmente economicistico. E anche in que­ st'ambito (deH'imperialismo, della relazione tra Nord e Sud, tra sviluppo e sottosviluppo), la critica aH'economicismo si ribalta nell'affermazione

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secondo cui lo sfruttamento del Terzo mondo è essenzialmente dovuto al dominio politico, culturale e soprattutto militare del Primo mondo. Dubito comunque dell'utilità di insistere nell'analisi, necessariamen­ te sommaria, delle innumerevoli correnti marxiste di questo secolo economicistiche, non economicistiche e via dicendo - perché sarebbero necessarie centinaia di pagine, a dir poco. Penso comunque che chiun­ que abbia una conoscenza abbastanza adeguata della teoria marxista del Novecento sappia intendere il fatto da me sostenuto: il modo di produzione capitalistico è diventato concetto di supporto alla teoria del valore lavoro, sia quando questa veniva sostenuta a spada tratta, sia quando essa era considerata ormai decaduta, il fatto essenziale è che il modo di produzione capitalistico è stato interpretato solo in quanto modalità di sviluppo delle forze produttive, in quanto successione sto­ rica di differenti forme organizzative e tecniche dei processi produttivi. Solo così si possono capire alcune, fra le tante, odierne ossessioni dei marxisti, o comunque di certi critici radicali del capitalismo. La pre­ sunta dematerializzazione del mondo a causa dell'uso di tecnologie di trattamento delle informazioni (e in tempo reale!); la merce informatica o il denaro informatico; la possibilità di liberarci dal lavoro e di avere più tempo libero, come se ci liberassimo così anche dalle costrizioni relative alla riproduzione dei rapporti intrinseci al modo di produzione capitali­ stico; oppure, invece della liberazione dal lavoro, l'aumento irreversibile della disoccupazione ed emarginazione; dopo l'espropriazione delle ca­ pacità di direzionare autonomamente la propria attività di trasformazio­ ne di prodotti materiali, quella relativa alle capacità più intime del no­ stro cervello, le capacità di elaborare informazioni e creare immagini del mondo. Solo così si può capire perché, rilevato nella prassi degli ultimi de­ cenni un certo indebolimento della lotta operaia, si sia ricorsi al (puramente pensato e invocato) suo rafforzamento, affiancando ecletti­ camente ai lavoratori salariati dipendenti una congerie di "nuovi movi­ menti" del tutto eterogenei, e spesso effimeri: il femminismo (dove il problema è la differenza sessuale), i giovani (dove si tratta di differenza generazionale, sempre transeunte), gli ambientalisti (dove l'eventuale motivo d'unione, interclassista, è ancora diverso). Credo che potremmo dare prova di una qualche maggiore sobrietà, e non costruirci tanti castelli in aria, se tornassimo a riannodare daccapo i fili dispersi della ricerca marxiana intorno al modo di produzione capita­ listico in quanto modalità riproduttiva dei rapporti sociali di produzione, delle relazioni tra ruoli occupati da agenti nell'ambito di un particolare sottosistema - quello in cui si estrinseca attività lavorativa - del sistema

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sociale complessivo, sottosistema che ha assunto posizione dominante nella transizione alla società moderna5.

V. Per tornare a Marx. 1. La prima mossa è quella di smettere di accanirsi sulla teoria del valo­ re lavoro, nel suo significato prettamente quantitativo, come teoria con­ tabile dello sfruttamento. Non si deve insistere né sulla sua vigenza né sulla sua invalidazione in tal senso. Per questo propongo di mettere tra parentesi il marxismo del Novecento, nelle sue varie versioni, anche an­ titeticamente contrapposte. La sospensione (una sorta di "epoché" hus­ serliana) non significa evidentemente cancellazione, ignoranza comple­ ta, di tale marxismo(i) per riattingere ad una presunta originaria purezza del pensiero di Marx. La sospensione implica solo il tentativo di rison­ dare quest'ultimo per coglierne potenzialità e limiti che, rivisitati criti­ camente, ci permettano nuovi sviluppi teorici - nuove direttrici di tali sviluppi - atti a cogliere, in un primo momento, i caratteri decisivi del modo di produzione capitalistico, nella sua unitarietà di nucleo ripro­ duttivo dei rapporti cruciali che "illuminano", danno "peso specifico di­ verso", ecc. a tutti gli altri rapporti costitutivi del(i) capitalismo(i). Si tratta allora di tornare a Marx, pur con tutto il bagaglio teorico di oltre un secolo di sviluppo del marxismo(i). Senza però farsi appesantire da tale bagaglio, senza ritornare agli annosi dibattiti tra le varie correnti e pensatori marxisti, per dare ragione ora a questo ora a quello. Senza nemmeno però, una volta scoraggiati dall'inanità di tali tentativi di rivi­ talizzare discussioni ormai sterili6, "buttare il bambino con l'acqua spor­ ca", abbandonare il marxismo in nome di concezioni ancora più decrepi­ te, incoerenti, sclerotiche, puramente formali e "astratte" (nel senso de­ teriore di questo termine), penoso spettacolo di un pensiero che ormai si agita scompostamente nel teatro della (in)cultura, si libra in totale as­ senza di gravità, capace di dire tutto e il contrario di tutto. Tornare a Marx, tuttavia, non può nemmeno significare la dimenticanza che più di un secolo è passato; non si tratta certo di credere che egli avesse già detto tutto. Le sue affermazioni non sono solo passibili di interpreta­ 5 Per approfondire questi problemi, si veda anche il mio Dal capitalismo al capitalismo, Bibliotheca, Roma 1993. 6 Fra le quali indico, mettendole proprio in prima fila, quelle intorno al problema della trasformazione o alla cosiddetta caduta tendenziale del saggio di profitto, cavalli di battaglia dell'e­ conomicismo marxista, di quel marxismo del Novecento che abbiamo detto essere stato fondato, in realtà, da Karl Kautsky.

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zioni diverse - del resto, entro limiti ben precisi, perché non gli si può far dire ciò che si vuole, ciò che più ci aggrada - ma si può ammettere senza tante preoccupazioni che alcune di esse, e non fra le meno importanti, sono state parzialmente o totalmente falsificate dagli sviluppi "reali" successivi, e vanno quindi ripensate senza dogmatico attaccamento al Verbo del Maestro. Per tornare, nel senso appena precisato, a Marx, è innanzitutto indi­ spensabile ripristinare la centralità teorica del concetto di modo di pro­ duzione, ed in particolare di quello capitalistico. Tale concetto ha un ca­ rattere "storico" ma non storico. E si tratta innanzitutto di capire questa apparente contraddizione. Il carattere "storico" è quello tipico della strut­ tura (configurazione) generale che caratterizza la dinamica autoriprodutti­ va di un qualsiasi organismo sistemico (non solo sociale, evidentemente), appartenente alla successione - non certo deterministica, ma che co­ munque così si è concretamente verificata nel tempo - di una serie di or­ ganismi di un certo genere, ognuno dei quali è venuto ad esistenza me­ diante drastica trasformazione ("mutazione") dei meccanismi riproduttivi di organismi che l'hanno preceduto. La "storicità" del modo di produzio­ ne capitalistico, dunque, è la specifica configurazione dei suoi rapporti, nonché la dinamica autoriproduttiva degli stessi, che garantiscono l'uni­ tarietà capitalistica di differenti formazioni sociali (o socio-culturali). D'altra parte, il modo di produzione capitalistico non ha mero carat­ tere storico, perché i suoi sviluppi non implicano la graduale modifica­ zione degli elementi più generali della configurazione e della dinamica autoriproduttiva in questione. Non esistono diversi modi di produzione capitalistici, ognuno dei quali evolve dall'altro, e succede all'altro, lungo una certa linea di scorrimento temporale. Vi sono semmai differenti mo­ dalità tecniche ed organizzative, secondo le quali la configurazione e la dinamica autoriproduttiva del modo di produzione capitalistico si mani­ festano in tempi successivi, nei tempi della storia. Senza dubbio è im­ portante seguire gli sviluppi storici di tali modalità tecniche ed organiz­ zative; così come anche gli sviluppi storici delle istituzioni politiche, degli apparati ideologici, delle forme socio-culturali in generale. Anzi, a questo livello, le differenti sfere sociali - la tecnica e l'organizzazione del lavoro nella produzione, le istituzioni politiche e statuali, le ideologie, ecc. - sono poste tutte sullo stesso piano, si determinano e influenzano reciprocamente7; a volte può avere maggior peso l'una, a volte l'altra. 7Questo è, in realtà, il modo di produzione strutturato a dominante della scuola althusseriana. È logico che, in questo "oggetto teorico", le differenti istanze strutturate potesse­ ro cambiare di posto nei rapporti di supremazia di una rispetto alle altre, ferma restando quella stereotipata formuletta relativa alla determinazione d'ultima istanza da parte della

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Queste differenti sfere sociali hanno dunque una storia; sia storia parti­ colare di ognuna d'esse, sia storia della loro articolazione reciproca, con modificazione della loro struttura interrelazionale in riferimento alla dominanza ora dell'una ora dell'altra. Il modo di produzione ha, invece, "storia" solo nel senso che non de­ ve essere confuso con la cosiddetta produzione in generale, che avrebbe struttura sempre eguale dai primi uomini fino ad oggi (la clava ed il computer sarebbero comunque sempre mezzi di produzione, così come il cavernicolo e l'operaio sarebbero sempre soggetti produttori). Il modo di produzione ha insomma "storia" perché contrassegna una determinata "epoca della produzione sociale". La storia in senso proprio caratterizza però solo le sfere o istanze - economica, politica, ideologica, ecc. - che pertengono a quella data epoca, e che hanno il modo di produzione co­ me loro nucleo centrale, come forma generale del meccanismo che le riproduce secondo certe articolazioni. Detto in senso metaforico, que­ st'ultimo è sottostante alle sue manifestazioni storico-concrete, rappre­ sentate dalle diverse istanze o sfere sociali, fra loro articolate in forme mutevoli nelle differenti formazioni sociali capitalistiche, nei diversi fe­ notipi relativi al capitalismo(i). Logicamente, a seconda di come viene costruito quest'oggetto teori­ co che è il modo di produzione capitalistico, diverse possono poi essere le ricerche - che implicano comunque sempre e la teoria e la storia - in­ torno all’intreccio specifico delle diverse istanze di date formazioni so­ ciali. Compito di questo scritto è innanzitutto quello di ripristinare la centralità del concetto (costruito) di modo di produzione capitalistico nella teoria generale della società moderna. Non ho nemmeno la mini­ ma parte della forza teorica, della capacità d'astrazione, di Marx; per cui non oserò certo mettermi a riscrivere II Capitale. Mi permetterò solo di fare alcuni esempi in riferimento ai primi passi di tale opera. 2. Prendiamo in considerazione l'analisi della merce. Tale analisi (e tale modo di iniziare l'esposizione della teoria del capitale) ha elementi po­ sitivi e altri negativi. Marx indica con chiarezza - nella Prefazione al libro e nelle prime righe dello stesso - che sottopone la merce al "microscopio della ragione" poiché essa è "forma di cellula" della ricchezza prodotta capitalisticamente, che appare infatti come una enorme massa di merci. È allora del tutto evidente che Marx non dovrebbe essere frainteso. La merce è forma capitalistica, la sua analisi va compiuta poiché essa è sfera economica. Bisogna concludere che il modo di produzione capitalistico come, se­ condo la mia opinione, fu pensato da Marx non è il modo di produzione nell'accezione althusseriana del termine.

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espressione della forma dei rapporti da cui è caratterizzata la società che produce la ricchezza in quanto somma di merci. La "merce" sporadica, interstiziale, di forme di società precedenti non è vera merce, è puro scambio di cose contro altre cose o di cose contro moneta. Sarebbe ne­ cessario indicare questa "merce" con altra terminologia; ma, se non lo si fa, si indichi almeno sempre che non si tratta di vera, reale, merce, poi­ ché questa è soltanto la forma di cellula della ricchezza prodotta conte­ stualmente alla produzione e riproduzione di rapporti sociali di forma storicamente specifica, di rapporti tra il proprietario dei mezzi di produ­ zione e il (libero) proprietario di semplice capacità lavorativa che, es­ sendo appunto privato dei mezzi necessari all'estrinsecazione di questa sua capacità, la deve vendere come merce. Purtroppo, l'inizio de II Capitale con la merce ha invece consentito al marxismo (di derivazione kautskiana) di porre l'essenza del capitalismo nella produzione di merci, di fare quindi del mercato, dell'intrico fittis­ simo delle relazioni di scambio mercantile, il fulcro della riproduzione capitalistica. Da qui deriva tutta l'enfasi posta sul feticismo delle merci e sull'alienazione che ne consegue, come si trattasse di fenomeni imme­ diatamente derivati dal carattere mercantile della società capitalistica. In questo modo, l'alienazione investe tutti i "soggetti" implicati (e im­ pigliati) nel reticolo delle relazioni mercantili, senza più reali, decisive, distinzioni di classi (di ruoli). In realtà, nel modo di produzione ca­ pitalistico, non è vero che la figura centrale è quella della produzione di merci (perché allora se ne dedurrebbe che tutti i soggetti sono produt­ tori di merci), ma è semmai - nel suo aspetto "di superficie" - quella del possesso di merci. Tutti possiedono una qualche entità che vendono in qualità di merce; solo che vi sono entità come i mezzi di produzione e quell'entità particolare che è la semplice forza lavoro (privata dei mezzi di estrinsecazione della sua attività). Tutti i possessori vendono le merci di loro appartenenza, che ap­ paiono nella figura dei "fattori" della produzione; e da qui deriva la po­ tenza mistificatoria dell'economica ufficiale e accademica, che si basa su tale fatto comunque reale. Queste merci ("fattori") vengono acquistate da chi ha la moneta all'uopo necessaria; e, guarda caso, si tratta sempre di coloro che hanno la proprietà dei mezzi di produzione, per cui i capi­ talisti rappresentano una classe, i cui soggetti si scambiano fra loro, nella forma generale della merce (che è quindi vera merce, non merce interstiziale, ecc.), mezzi di produzione contro moneta (che in questo ca­ so è segno del denaro, equivalente generale delle vere merci). Questa classe, sia di possessori che di acquirenti delle merci mezzi di produzio­ ne, acquista anche - sempre dietro pagamento in moneta - la merce for­ za lavoro e la mette all'opera in processi produttivi da essa diretti. Solo a

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questo punto si ha la produzione di merci (mezzi di produzione per i ca­ pitalisti e mezzi di consumo per i possessori di forza lavoro), che - grazie alla forma particolare dei processi produttivi in questione - riproduce continuamente, e contestualmente, i rapporti di produzione capitalistici, i rapporti tra i possessori di moneta e dei mezzi di produzione (e diri­ genti dei processi produttivi) e i possessori di forza lavoro subordinati alle esigenze produttive (che implicano la valorizzazione dei capitali im­ piegati) dei primi. I capitalisti, almeno in regime di libera concorrenza, sono pur sempre subordinati alle "leggi" tipiche del caotico intreccio delle relazioni mer­ cantili, ma hanno il pieno controllo delle condizioni della produzione delle merci, mettono in atto i vari metodi di estrazione del plusvalore (specie relativo), possono ritirarsi in tempo dal mercato qualora non reggano la concorrenza, ecc. I lavoratori non solo sono subordinati al meccanismo "impersonale" del mercato del lavoro - e non possono riti­ rarsi volontariamente da esso, ma semmai ne vengono espulsi in base alle mutevoli esigenze, e congiunture, della valorizzazione capitalistica ma sono totalmente subordinati alle condizioni della produzione in pro­ cessi diretti dai capitalisti. Come ben si capisce, parlare, in termini gene­ rali, di feticismo delle merci e di alienazione dei produttori di merci, è pura e semplice mistificazione. In definitiva, l'idea che il capitalismo è essenzialmente connotato in senso mercantile produce totale appiattimento del modello teorico. Da una parte, dal punto di vista "macroeconomico", vengono in evidenza le sole relazioni di scambio tra le unità produttive. L'attenzione si accentra sulle forme di mercato; ed infatti, il marxismo novecentesco ha soprat­ tutto prodotto analisi relative al passaggio dalla prevalente concorrenza al mono(oligo)polio. Sulla base di tale trasformazione, considerata quella decisiva, si è cercato di individuare i processi che avrebbero dovuto con­ durre al superamento del capitalismo, nonché i soggetti (collettivi) attivi in questo superamento: o la classe operaia dell'industria, o le classi lavora­ trici del settore dei servizi (che si sviluppa in modo accelerato proprio nell'ambito delle forme monopolistiche), o gli emarginati, oppure i po­ poli diseredati del Terzo mondo, e via dicendo. D'altra parte, dal punto di vista "microeconomico'', vengono indagati i processi produttivi svolgentisi nelle varie unità produttive, considerate prevalentemente come "fabbriche", quali unità tecniche di trasformazione di materie prime in prodotti merce; ed in quest'ambito, non viene affatto afferrato il concet­ to di modo di produzione, bensì solo descritti i "modi di produzione" ridotti,

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come già rilevato, a mera evoluzione della tecnologia, della divisione del lavoro, dell'organizzazione e forme di sviluppo delle forze produttive8. 3. Prendiamo adesso in considerazione, come altro esempio significativo, il lavoro salariato. Anche in tal caso si è prodotto un notevole appiatti­ mento dell'analisi. Nei primi capitoli de I! Capitale, Marx afferma che il capi­ talista ha la fortuna di trovare nel mercato una merce particolare, la for­ za lavoro, capace di produrre più di quanto è necessario a riprodurre socialmente il suo portatore, l'operaio. A parte il fatto che - essendosi generalizzata la forma di merce dei prodotti - tutto si esprime in forma di valore (sia i beni prodotti dall'operaio, sia quelli che egli acquista con il suo salario e che servono a riprodurre la sua vita e, con ciò, anche la sua capacità o forza di lavoro), sembra che il plusvalore sia appunto la semplice forma di valore del pluslavoro, sia cioè soltanto la specificazio­ ne storica del fenomeno più generale che concerne ogni e qualsiasi for­ ma di società umana: l'uomo, da sempre, produce più di quanto è neces­ sario al suo sostentamento (concezione sviluppata in modo particolare da Engels, e poi da Kautsky, e posta a base dello sviluppo e del progres­ so, lineare ed irreversibile, deH'Uomo). Basta dimenticare una "piccola" questione: la cesura, la discontinui­ tà, prodotta dalla dissoluzione degli ordinamenti servili o schiavistici, la conquista della libera personalità da parte di tutti gli individui, titolari di eguali diritti, accompagnata però dalla "liberazione" della gran massa degli stessi individui prima rispetto al possesso dei mezzi di produzione (periodo della sottomissione formale del lavoro al capitale) e, successiva­ mente, anche rispetto alle potenze mentali della produzione, alla capaci­ tà di dirigere i processi della produzione sociale (sottomissione reale). Basta cioè dimenticare il mutamento formale, il passaggio dal modo di produzio­ ne feudale a quello capitalistico, con il suo caratteristico rapporto tra proprietà ed espropriazione (dei mezzi di produzione). Il lavoro salariato implica vendita della forza lavoro come merce, ma quest'ultima è sem­ plicemente l'espressione del passaggio e mutamento formale in que­ stione, della duplice liberazione dei produttori rispetto sia al servaggio che alla disponibilità dei mezzi di produzione. il plusvalore non è semplice modulazione storica, evoluzione, del fe­ nomeno generale relativo al pluslavoro. In mezzo c'è rottura, salto, pas­ saggio da un certo organismo dotato del suo specifico meccanismo au­ toriproduttivo ad altro organismo caratterizzato da un diverso tipo di au­ 8 In tali concezioni, a mio modo di vedere, anche se non posso qui dimostrarlo, sono ri­ masti sostanzialmente impigliati anche autori come Panzieri o Braverman ecc., che pure, sia chiaro, rimangono punti alti dello sviluppo del marxismo novecentesco.

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toriproduzione dei suoi più generali e decisivi rapporti sociali (quelli che illuminano tutti gli altri). Dice Marx che, solo quando la forza lavoro di­ venta merce, si generalizza la produzione di tutti i beni in forma di merce; ma la forza lavoro diventa merce solo quando si produce la "mutazione" della forma riproduttiva dei rapporti sociali di produzione, tipica del feuda­ lesimo o di altre società precapitalistiche, in altra forma riproduttiva, quella denominata capitalistica. Parliamo infine del famoso capitolo quinto del primo libro de II Capi­ tale. Il processo di produzione capitalistico è unità di processo di lavoro e di processo di valorizzazione. Il primo sarebbe la condizione generale e permanente della vita umana in quanto ricambio organico tra uomo e natura, il secondo la sua specificazione in un'epoca storica particolare, quella capitalistica. Processo di lavoro e di valorizzazione dovrebbero costituire unità inscindibile, ma invece, a partire da Kautsky (ma si potreb­ be forse dire da Engels), si va sviluppando una tesi assai diversa: sembra che ci sia un prima, generale ed eterno, ed un poi che piega il generale alla specificità della valorizzazione capitalistica. In principio c'era il valore d'uso, risultato "buono" del lavoro umano (in generale), che serve solo a soddisfare i bisogni degli uomini (tutti eguali? Anche nello schiavismo o nel feudalesimo?); poi si verifica la caduta, il peccato originale, la nascita del capitalismo, e il valor d'uso viene asservito al "cattivo" valore di scam­ bio, il lavoro umano viene piegato alla valorizzazione del capitale. In nessuna epoca "storica" della produzione (con riferimento alla "storia" di cui abbiamo già parlato) è mai esistito il lavoro in generale come puro e semplice mezzo di appropriazione della natura per soddi­ sfare bisogni generalmente (e genericamente) umani. Il lavoro è sempre stato svolto, persino in epoche preistoriche, entro strutture particolari della divisione sociale del lavoro, espressione della configurazione di quel determinato modo di produzione, cioè della modalità autoripro­ duttiva dei rapporti sociali specifici e caratterizzanti quella certa epoca "storica", quella particolare formazione sociale, il ricambio organico con la natura è contestuale alla riproduzione dei rapporti tipici di quel dato modo di produzione; anzi, di più, nessun ricambio organico sarebbe possibile senza il mantenimento dell'unità, dell'identità autoriproduttiva di quel certo organismo sociale. Ciò che caratterizza il capitalismo(i) è l'introiezione dei più decisivi rapporti sociali di dominio e di subordinazione nell’ambito dello stesso processo di estrinsecazione di attività lavorativa, dove essi assumono le figure generali (ma della generalità di un’epoca "storica") della direzione e dell'esecuzione. Tale risultato si ha però con la "mutazione" del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico. Il "codice ge­ netico" di quest'ultimo riproduce continuamente, anche se con modalità

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temporali e spaziali "fenotipicamente" differenziate, i rapporti di produ­ zione capitalistici in quanto relazioni tra (ruoli di) potere e non potere di disporre (dei mezzi di produzione) implicate nei processi di svolgimento di lavoro. Solo la divisione (verticale) di questi ruoli entro il "processo di ricambio organico con la natura" - divisione provocata dal fondamentale meccanismo riproduttivo del modo di produzione capitalistico - produce il lavoratore espropriato dei mezzi di produzione e costretto a vendere come merce l'unica proprietà che possiede, producendo così, nel con­ tempo, la generalizzazione della forma di merce di tutti i beni prodotti dal processo di lavoro capitalistico, che è per ciò stesso processo di va­ lorizzazione del capitale. Nessuna possibilità, quindi, di pensare un prima ed un poi. Il proces­ so di lavoro, nell'epoca capitalistica, è immediatamente processo di va­ lorizzazione, ma quest'ultimo non potrebbe mai verificarsi se non si svolgesse in modo tale da coadiuvare, più ancora servire, il meccanismo riproduttivo dei rapporti sociali più decisivi, intrinseci al "Dna" del modo di produzione capitalistico, che sono rappresentati dalle relazioni tra ruoli di dominio e di subordinazione (nella loro "storicamente" specifica figura della direzione e dell'esecuzione) nell'ambito del processo lavora­ tivo. Questa è la conclusione fondamentale delle mie tesi su quello che ho più volte definito capitalismo lavorativo. E, a mio avviso, si tratta già di un piccolo passo avanti rispetto alla considerazione meramente storica dei diversi "modi di produzione" in quanto evoluzione delle modalità di sviluppo delle forze produttive. Forse si può compiere un altro piccolo passo in più; e sarà tentato nel prossimo e ultimo capitolo.

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IL MODELLO DI MARX E LA SUA POSSIBILE REVISIONE

•I. La teoria generale di Marx e le mistificazioni delle ideologie correnti 1. Repetita juvant. Il modo di produzione capitalistico ha "storia" nel senso della caratterizzazione generale di una determinata epoca della produzione, con il suo peculiare sistema di rapporti sociali, decisivo al fine dell'iden­ tità autoriproduttiva dello specifico organismo societario di quella certa epoca, organismo che pure è costituito dalla complessa articolazione di rapporti socio-culturali di vario genere1. In questo senso, il modo di pro­ duzione capitalistico segnala anzitutto la produzione di rapporti sociali (di produzione) decisivi, quelli che permettono di pensare (ipotizzare) tale identità autoriproduttiva della complessiva, e più complessa, società di tipo capitalistico; in senso "logico" - poiché, dal punto di vista cronologi­ co, tout se tient, ogni produzione è contestuale all'altra - la produzione dei rapporti sociali è antecedente a, e dunque presupposto di, ogni e qual­ siasi produzione dei beni atti a soddisfare i bisogni degli uomini in so­ cietà, è presupposto del cosiddetto processo di ricambio organico tra Uomo e Natura. Entro il concetto generale di modo di produzione capitalistico, e di riproduzione dei suoi rapporti, va indagata e compresa la storia - varia­ mente scandita da eventi di differente stratificazione e ritmo temporale, in alcuni aspetti assolutamenti irripetibili e sempre mutevoli, per altri aspetti caratterizzati da ripetizioni cicliche - dei vari "modi di produzio1 Nulla di più sciocco e falso dell'affermazione secondo cui Marx avrebbe suddiviso la società capitalistica - cioè i diversi "fenotipi" relativi al "codice genetico" contenuto nel modo di produzione capitalistico - in capitalisti, da una parte, e operai (o lavoratori sala­ riati), dall'altra. Persino il marxismo novecentesco, e non solo Marx, era perfettamente consapevole della complessità (idea oggi tanto in voga) del capitalismo e dei suoi mol­ teplici rapporti sociali; penso che ormai sia ben chiara la differenza tra modo di produzio­ ne capitalistico e capitalismo(i).

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ne" (modalità tecnico-organizzative dei processi di lavoro), delle diverse istanze economiche (soprattutto forme e apparati della circolazione mer­ cantile), di quelle politiche (istituzioni statuali, organizzazioni partitiche, associazioni sindacali, e via dicendo) e ideologiche (in specie apparati massmediologici della diffusione e articolazione conflittuale delle diver­ se ideologie e culture), ecc. Nessuno vuol negare l'importanza di questa storia, anzi di queste storie variamente intrecciate fra loro, ma è comun­ que anche decisivo capire meglio il quadro generale della "storia" che le "contiene" e le informa secondo schemi teorici generali, che consentano di trattare le differenti sfere della società dal punto di vista della loro so­ stanziale unitarietà e organica coesione. Vorrei proprio non si creassero quei fraintendimenti, che impedisco­ no la comunicazione tra i vari pensieri. Non esistono base economica e sovrastrutture (politico-ideologiche), nel senso che la cosiddetta sfera dell'economia (produzione, distribuzione, scambio e consumo dei beni) determina, "in ultima istanza", le altre sfere sociali, per cui si può poi so­ stenere che in molte occasioni sono invece queste ultime ad avere un ruolo decisivo nella trasformazione della società. In questa accezione, l’economia non è base né determinazione d'ultima istanza di alcunché. Le modalità tecnico-organizzative di sviluppo delle forze produttive, gli apparati della circolazione mercantile, quelli delle istanze politiche, ideo­ logiche, culturali, ecc., hanno storie - e quindi evoluzioni e trasformazioni secondo specifici ritmi temporali - loro particolari, sia prese una per una, sia nel loro articolarsi reciproco complessivo. Il modo di produzione è qualcosa di profondamente diverso, ed è vera­ mente base e determinazione d'ultima istanza dell'organismo societario (complesso) formato dall'intreccio di molteplici relazioni sociali. Il modo di produzione è costruzione del pensiero, posta come ipotesi (quindi sempre rivedibile e ricostruibile), che cerca di disegnare la configurazione crucia­ le di quei rapporti (che "illuminano", attribuiscono "peso specifico", in­ nervano insomma tutti gli altri), attraverso la quale si intende afferrare, penetrare, la ragione essenziale dell'identità autoriproduttiva di una pe­ culiare forma di società durante tutta un’epoca "storica", mettendo nel contempo in evidenza quali tendenze dinamiche fondamentali la carat­ terizzano, quali sono le principali direttrici di sviluppo dei suoi rapporti, dei rapporti tipici delle (e fra le) differenti sfere o istanze da cui è com­ posta tale forma di società. Il modo di produzione, insomma, dovrebbe poter spiegare il carattere di totalità di un certo organismo, in quanto però totalità internamente differenziata, di cui comprendere quindi sia la struttura organicistica (olistica) sia la divisione in parti fra loro articola­ te, sia l'autoriproduzione (identitaria) complessiva sia il movimento in­ terno delle differenziazioni, che si influenzano reciprocamente, mutano le

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loro posizioni di maggiore o minore peso e importanza nelle trasforma­ zioni sociali, ma nessuna delle quali è "base" o "sovrastruttura". 2. Marx ha formulato appunto questo concetto di modo di produzione, ha tentato di impostare la teoria generale dei modi di produzione, in quanto capace di cogliere le discontinuità nella "storia" dell'umanità, la caratterizzazione delle diverse epoche di sviluppo delle differenti forma­ zioni sociali. Dall'analisi della configurazione e del movimento dei rap­ porti tipici di quello capitalistico, egli ha però avanzato alcune conclu­ sioni (previsioni), che - come già considerato, almeno parzialmente - si sono rivelate errate. Non si tratta, a mio avviso, di invalidazione genera­ le della teoria in questione, ma solo della necessità di una sua radicale revisione. E uso non a caso questo termine, così carico di significati ne­ gativi, per essere il più possibile provocatorio. C'è già stato un revisioni­ smo e, secondo me, è stato giusto polemizzare con esso e combatterlo politicamente e teoricamente all'epoca in cui tutto ciò si verificò. Quella storia di lotta tra revisionismo (riformista) e correnti marxiste rivoluzio­ narie si è tuttavia svolta entro il quadro del "marxismo storico" del No­ vecento, della formazione ideologica nella sostanza fondata da Kautsky. Ora che il comuniSmo del Novecento, e con esso tale marxismo, hanno definitivamente concluso il loro percorso storico (e su tale conclusione non accetto più alcuna discussione, che farebbe solo perdere tempo), si tratta di porre in opera un altro tipo di revisione; dobbiamo sondare nuove possibilità di ricominciamento, nuove direttrici di sviluppo del marxismo a partire dall'ammissione della falsificazione di certe ipotesi di Marx (perché erano ipotesi, non riproduzione, rispecchiamento, della realtà così com'essa è). In effetti, dichiarare conclusa un'epoca di comuniSmo e di marxismo non significa, per quanto mi riguarda, cancellare puramente e sempli­ cemente tali esperienze per accettare, nella pratica e nella teoria (che è anch'essa una pratica, peculiare dell'essere umano), l'intrascendibilità storica del capitalismo e delle sue ideologie specifiche. Quando un pro­ cesso storico dell'ampiezza e della complessità del comuniSmo novecen­ tesco giunge a conclusione, sono possibili, e veramente praticabili, sol­ tanto due atteggiamenti: quello più semplice, e di immediata applicabi­ lità (anche politica), che si limita ad abbandonare armi e bagagli sul campo e a passare dall'altra parte; e quello che, invece, si sforza di ri­ cominciare a pensare, a riflettere (soprattutto in base all'esperienza ac­ cumulata), si sforza di riformulare nuove pratiche, anche teoriche. Pro­ cesso assai più lungo, con ricadute non così immediate e immediatamente spendibili nel mercato della politica più spicciola, priva di spessore cultu­ rale. Si cerca una nuova via, e nessuno può garantire che sarà trovata. Va

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considerata, al contrario, non più lecita, e tanto meno fruttuosa in un qualsiasi senso, una "terza via", il comportamento di coloro che tentano scorciatoie, non rimettendo in discussione il vecchio apparato concet­ tuale, facendo solo rappezzature, formulando le famose ipotesi ad hoc, nel tentativo di poter riprendere presto le vecchie strade, solo interrotte da un periodo di vittoria del capitale, che si presume transitorio, una breve parentesi dopo la quale il movimento comunista potrebbe ripren­ dere la stessa direzione di marcia di prima. Certamente, bisogna riconoscere che - volendo ricominciare - l'attivi­ tà, in prevalenza teorica, ha inizialmente connotati fondamentalmente decostruttivi, anche se un marxista non è programmaticamente un decostruttivista, anzi il contrario. È però soltanto una fase transitoria, tesa a decostruire per preparare materiali atti a nuove costruzioni, che po­ tranno essere compiute da altri personaggi non più invischiati, e appe­ santiti, dalla vecchia cultura (sia pure messa tra parentesi), e soprattutto compiute in periodi successivi quando matureranno nuove condizioni sociali, precipiteranno nuovi conflitti oggi incipienti, ma di cui questa società è palesemente gravida, tanto da esserne ormai fortemente im­ barbarita. Quando si ricomincia, malgrado tutte le buone intenzioni ed una cer­ ta consapevolezza del preciso problema teorico che si deve nuovamente risolvere, delle nuove ipotesi che è necessario ricostruire, è facile essere inconseguenti e cadere nel semplice descrittivismo meramente feno­ menico; anzi, si può essere già in anticipo sicuri che ciò accadrà. In mol­ te occasioni, la semplice descrizione serve a coprire i vuoti della teoria che non si riesce a riformulare completamente. Tuttavia, c'è descrizione e descrizione; esiste anche quella che volutamente, programmaticamen­ te, vuol prendere il posto di una teoria più compiuta, fa sfoggio della propria "superficialità" come si trattasse invece di problematicità, di capa­ cità di considerare le situazioni da molti punti di vista. Tale "superficialità" si ammanta anzi di democraticità, di pluralismo. È falso. Oggi si usa, spesso a sproposito, il concetto passepartout di complessi­ tà (crescente), che ha di fatto sostituito quello di progresso, egualmente sempre crescente-, e la complessità è supposta crescente proprio con la stessa linearità e semplicità dell'usuale scorrimento temporale, che era caratteristica della nozione di progresso. In quest'accezione, la com­ plessità è solo la famosa notte in cui tutte le vacche sono nere. La socie­ tà è complessa, sempre più complessa e quindi non si potrebbero più delineare, come un tempo, degli schieramenti, dei raggruppamenti, so­ ciali fra loro demarcati. Tutto è fluido, confuso, i ruoli si scambiano fra loro, le posizioni si intersecano trasversalmente. Tanto per fare un esempio: un lavoratore salariato è anche proprietario immobiliare, è an­

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che possessore di titoli di credito, addirittura di titoli di proprietà quali le azioni, ecc.; ergo, fra un lavoratore salariato e quello che veniva detto capitalista non c'è più sostanziale differenza di ruolo ricoperto (e di fun­ zione espletata). Quindi, la proprietà di due-tre appartamenti è eguale a quella di interi quartieri, il possesso di alcune decine di milioni di Bot è come quella di decine di miliardi, il possesso di qualche migliaio di azioni di una grande corporation va assimilato a quello de! pacchetto di comando della stessa. Tutto ciò è mistificazione grossolana. In realtà, perfino il salario di un lavoratore dipendente assume connotazione (di ruolo) nettamente differenziata rispetto a quello di un manager di medio o d’alto livello. Evidentemente, il corollario di questa presunta commistione e con­ fusione di ruoli è la funzione decisiva della politica (l’"arte della scelta"), in cui ci si potrebbe permettere di disegnare le configurazioni degli inte­ ressi sociali come meglio si crede; in effetti, poi, ci si accorge che gli interessi dominanti esistono, e sono essi a demarcare, assai più "oggettivamente", i vari raggruppamenti sociali e i loro interessi conflittuali. Non riconoscerlo apertamente, e agire surrettiziamente a favore di qualcuno mentre si predica, in nome della complessità crescente, la mescolanza di tutti i ruoli, è l’atteggiamento tipico di coloro (il "Clero" di cui parla Preve) che sono al servizio degli interessi di certi gruppi sociali effettivamente do­ minanti, atteggiamento del tutto antidemocratico, oggi tipico di quasi tutte le forze politiche in campo nei paesi del capitalismo avanzato. Mol­ to più democratico è il riconoscimento di tali raggruppamenti di ruoli e di interessi, poiché solo su questa base di chiarezza e distinzione vi può essere vera discussione pluralistica tra più (reali, perché realmente diffe­ renziati) punti di vista. Se mi si permette ancora una metafora, ognuno di noi sa che la mappa di una città non è la città, con i suoi monumenti, con il brulichio della vita di tutti i giorni, ecc. Tuttavia, dotati di mappa, possiamo orien­ tarci nel dedalo delle vie, possiamo decidere dove andare. Invece, i so­ stenitori della complessità vorrebbero farci entrare nella città senza mappa, mentre un elicottero dall’alto ci orienta e ci invita ad andare di qua o di là. La mappa è la descrizione certo semplificata della realtà, che una teoria ci permette di eseguire (e ben sappiamo che la teoria non è la realtà, come la mappa non è la città), mentre l’elicottero è la politica e l’indottrinamento ideologico falsamente pluralistico diffuso (tramite i mass media) da coloro che vogliono ridurci a gregge (a "gente"). Non seguiamo quindi i consigli dei sostenitori della complessità cre­ scente. Cerchiamo di demarcare certi gruppi sociali. Sappiamo benissi­ mo che semplificheremo la "realtà" della società in cui viviamo, ma in­ tanto cominciamo ad orientarci nelle vie della "città" sociale. Ricordo

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ancora che si cadrà spesso nel descrittivismo, ma questa volta in base ad un orientamento teorico, le cui lacune e incompletezze saranno col­ mate dalla mera descrizione; comunque, non si tratterà mai di descri­ zione di complessità caotiche, confuse, totalmente fluide, sulle quali nulla può essere detto salvo ciò che decidono il politico e l'ideologo.

li. Le ipotesi di Marx sulla trasformazione sociale 1. Per quanto riguarda la descrizione in base alla teoria (di derivazione marxista), ritengo del tutto valida e condivisibile, specie per ricomincia­ re, quella fatta da Preve nel saggio contenuto in questo libro. Qui di se­ guito mi limiterò, quindi, a qualche precisazione e, soprattutto, a deli­ neare le possibili linee ricostruttive del concetto di modo di produzione capitalistico. La mossa iniziale non può essere però che la riconsidera­ zione di come Marx pensò la trasformazione sociale sulla base della sua teoria dei modi di produzione. Sarò molto sintetico e, inoltre, invertirò l'ordine di esposizione seguito da Marx nel primo libro de II Capitale, l'unico, lo si ricordi sempre bene, che Marx ha veramente scritto dal prin­ cipio alla fine (non risistemato da altri sulla base dei suoi appunti e bro­ gliacci, così come fu per tutte le sue opere successivamente pubblicate). Con atteggiamento sistematico - non con quello dello storico inte­ ressato alla molteplicità dei "fatti” sempre "singolari" - Marx sostenne che due furono le principali vie della transizione dal modo di produzione feudale a quello capitalistico2 (si ricordi sempre quanto più volte ho so­ stenuto circa lo statuto teorico del modo di produzione): una non rivo­ luzionaria, quindi incapace di innescare effettivamente e compiutamente tale transizione, l'altra invece veramente rivoluzionaria e decisiva al fine del suo definitivo successo. La prima è quella relativa allo sviluppo dei commerci all'interno della società feudale, da cui si andò enucleando una certa espansione della forma di merce e di denaro, con la nascita di istituti atti a questo tipo di commercio e al calcolo economico con que­ sto connesso. La trasformazione sociale di questo tipo porta in primo

2 Sottolineo il fatto che si tratta di transizione intermodale, non di transizione dalla com­ plessa società feudale alla complessa società capitalistica; perché, malgrado quel che pensano i sostenitori della complessità crescente, il feudalesimo non era poi tanto meno complesso del capitalismo. Così come penso sia da abbandonare infine la stucchevole storiella che la rivoluzione proletaria era più facile nella Russia zarista, società più "primitiva” (e dunque più "semplice") delle società a capitalismo avanzato; oggi ci si rende conto di quanto fosse complessa la società russa e, ancor più, quella deil'Urss.

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piano il ruolo del mercante (e del banchiere in quanto mercante di dena­ ro nelle sue varie figure di moneta). Lo sviluppo di tale forma della produzione sociale può in (buona) parte comportare la dissoluzione degli ordinamenti corporativi medie­ vali; tuttavia il mercante, più che ad esercitare in proprio la manifattura, è, almeno in una prima fase, interessato allo scambio di merci che ven­ gono prodotte da lavoratori (artigiani) a domicilio. Non semplicemente, quindi, non muta il modo di produzione nel suo significato ristretto di modalità tecnico-organizzative di sviluppo delle forze produttive, ma so­ prattutto non si creano le condizioni decisive della riproduzione, su scala allargata, dei veri rapporti di produzione capitalistici, processo che esige la formazione dei lavoro salariato, raffermarsi decisivo, e definiti­ vo, della forma di merce della capacità lavorativa umana. La centralità del ruolo del mercante, perciò, comporta non soltanto l'impossibilità di rivoluzionamento delle basi tecniche dei processi produttivi - anche per­ ché il mercante persegue il monopolio del commercio in ogni dato set­ tore di sua pertinenza, e tale monopolio è possibile ove non si allarghi­ no troppo le potenzialità della produzione di merci - bensì, soprattutto, il blocco di ogni trasformazione delle condizioni sociali che potesse condurre alla dominanza della forma capitalistica di tale produzione mer­ cantile. In mancanza di radicali rivoluzionamenti dei ruoli sociali, l’arricchi­ mento dei mercanti comporta la loro ascesa nella gerarchia sociale, ac­ compagnata però dal progressivo mutamento di ruolo di ogni genera­ zione degli stessi mediante acquisto di terre e spostamento (con matri­ moni, acquisto dei titoli nobiliari, ecc.) verso le classi "superiori" tipiche del modo di produzione feudale. Questi fenomeni arrestano più volte la transizione ad una differente forma di società e provocano processi di rifeudalizzazione, che naturalmente non si presenta più con i caratteri (feno)tipici delle fasi feudali precedenti. La vittoria del (ruolo del) mer­ cante, pur comportando senz'altro importanti modificazioni e riarticola­ zioni nella composizione sociale, nel rapporto tra città e campagna e tra produzione di autosussistenza e produzione per il mercato, ecc., conti­ nua a (rin)negare se stessa, ad annullare, almeno in buona parte, i suoi effetti di trasformazione, per cui può solo accentuare la crisi della socie­ tà, le tensioni in essa insite, ma non riesce nel compito della definitiva transizione.2 2. Completamente differente il ruolo dell'artigiano che, sciolto da vincoli corporativi, va affrancandosi dal dominio del mercante e comincia a sviluppare la sua bottega artigiana in manifattura, all'inizio di modeste

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dimensioni3. In tale manifattura dei primordi, si verifica la scissione de­ cisiva per la transizione al modo di produzione capitalistico: quella tra proprietario dell'opificio e dei mezzi di produzione ivi impiegati e i lavo­ ratori che vengono assunti dietro pagamento della loro forza lavoro in forma di merce. La scissione tra questi due ruoli è inizialmente assai po­ co accentuata. Nella piccola manifattura, il (già) capitalista sembra an­ cora un mastro artigiano, che esegue la produzione assieme a pochi la­ voratori che possiedono il suo stesso mestiere; essi lavorano tutti in­ sieme, senza divisioni troppo nette fra loro, né come attività esercitata né come autentica gerarchizzazione dei ruoli, i cui rapporti reciproci re­ stano al massimo contrassegnati (in senso negativo) da tipologie pater­ nalistiche. Tuttavia, questa scissione di ruoli è fondamentale, perché essa pone poi il suo marchio su tutto il successivo sviluppo del modo di produzio­ ne capitalistico, caratterizzato dalla polarizzazione crescente tra proprie­ tà e lavoro salariato; la proprietà assume sempre più su di sé il diritto di dirigere la produzione assegnando compiti ai salariati (di cui appunto acquista la mera forza lavorativa), che da essa dipendono, ad essa sono subordinati, anche nella fase in cui il loro lavoro non ha ancora perso le sue attitudini artigianali. È importante sottolineare la decisività di que­ sta scissione di ruoli, anche se all'inizio è ancora "ideale", poiché essa si manifesta infine in tutta la sua evidenza reale mediante la polarizzazione in questione. Ed è altrettanto importante ricordare che, per una fase storica, la proprietà ha il diritto di dirigere la produzione, ma le potenze mentali di questa non si sono ancora separate dal lavoro semplicemente manuale. La scissione tra ruolo della proprietà (ivi incorporato il diritto di dirigere) e ruolo del lavoro salariato (che, per ciò stesso, diventa mer­ ce) è all'origine della successiva scissione tra potenze mentali della pro­ duzione e semplice lavoro manuale, che è causa della completa subor­ dinazione dell'operaio alla proprietà e direzione capitalistiche (quella subordinazione denominata reale), e che prepara l'avvento della produ­ zione basata sul sistema di macchine e sullo sviluppo e impiego ge­ neralizzato della scienza nella produzione. È decisivo che la sequenza appena delineata venga comunque ricor­ data nelle sua precisa successione, altrimenti mal si comprende l'unita­ rietà del concetto di modo di produzione capitalistico nella sua accezio­ ne marxiana, che pone l'accento sulla formazione del decisivo rapporto 3 "|...|in riferimento al modo della produzione in sé, la manifattura non si distingue ai suoi inizi dalla industria artigiana delle corporazioni quasi per altro che per il maggior numero degli operai occupati contemporaneamente dallo stesso capitale. Si ha soltanto un ingrandi­ mento dell'officina del mastro artigiano": 11 Capitale, cit., libro I, p 393.

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(che "colora", ecc. tutte le altre relazioni sociali di cui sono costituiti i vari capitalismi, in senso temporale come spaziale) tra proprietà capita­ listica dei mezzi di produzione (con immediata incorporazione del diritto di dirigere i processi lavorativi) e lavoro espropriato di detti mezzi e, solo successivamente, delle potenze mentali della produzione. La costituzione di questo rapporto è il "codice genetico" del capitalismo (con "mutazione" rispetto a quello feudale) e caratterizza la dinamica autoriproduttiva del modo di produzione capitalistico; nel suo dispiegarsi, con la continua riproduzione, e su scala allargata, del rapporto in questione, essa produ­ ce e riproduce anche, sempre su scala allargata, la scissione e separatez­ za dei vari spezzoni della produzione sociale complessiva, che diventano "produttori" - complessi lavorativi costituiti da proprietari ed espropriati, sotto la direzione dei primi - di merci. Nella produzione di merci, cioè al livello del mercato in quanto reti­ colo interconnettivo tra i vari "produttori" che si fanno concorrenza reci­ proca, alcuni di questi prevalgono, altri soccombono; si sviluppa così quel processo che Marx denominò centralizzazione dei capitali. A tal pro­ posito, nel marxismo successivo, di derivazione kautskiana, si crearono molti fraintendimenti. Non vi è dubbio che la centralizzazione conduce alla deformazione del reticolo mercantile, all'alterazione del cosiddetto libero scambio, per cui si vengono affermando quelle forme di mercato dette sbrigativamente di monopolio (di concorrenza imperfetta, di oli­ gopolio, ecc.). Intorno a tale deformazione monopolistica, si sviluppò il dibattito tra coloro che sostenevano la tendenza alla creazione di unità produttive di sempre maggiori dimensioni, fino alla futura formazione di una sorta di unico grande trust capitalistico mondiale, e coloro che af­ fermavano la permanenza, o persino la posizione decisiva, delle piccole dimensioni di tali unità produttive, con ciò ritenendo invalidato il mo­ dello teorico di Marx4.

4 L'ho già detto molto spesso in mie opere precedenti, e qui mi ripeto brevemente: anche Lenin non riuscì a contrastare adeguatamente la concezione ultraimperialistica (e ultracentralizzatrice) di Kautsky. Egli sostenne che, in teoria, Kautsky aveva ragione, ma in pratica la tendenza alla formazione dell'unico trust mondiale si sarebbe sviluppata nel­ l'ambito di una accanita lotta tra i giganti monopolistici, con scoppio di violente guerre tra potenze imperialistiche che avrebbero condotto alla fine del capitalismo e alla vittoria della rivoluzione proletaria mondiale. Credo sia inutile fare commenti; per qualche de­ cennio, le previsioni leniniane potevano sembrare molto realistiche, ma oggi non lo sono più. Tutto questo dimostra ulteriormente quanto ho già ampiamente sostenuto: che il conflitto tra correnti revisioniste e rivoluzionarie fu combattuto comunque sempre all'in­ terno del marxismo fondato da Kautsky.

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Non vi è in realtà nulla in tale modello che possa far pensare alla centralizzazione completa ed esaustiva o invece alla permanenza della piccola dimensione del "produttore" di merci. Si afferma senz'altro che la funzione decisiva, nello sviluppo delle forze produttive capitalistiche, sa­ rebbe stata assunta da unità di grandi dimensioni e tecnologicamente sempre più avanzate, che avrebbero quindi impresso allo sviluppo in questione una direzione di marcia ben precisa; e sarebbe difficile soste­ nere che tale previsione marxiana sia stata smentita dai fatti. Per quanto concerne la proprietà (il diritto formale alla proprietà) di quote più o meno ampie dello stock complessivo dei mezzi di produzione, non è af­ fatto detto che la centralizzazione debba condurre alla formazione di po­ che grandi concentrazioni proprietarie, in prospettiva addirittura ad un'unica colossale proprietà capitalistica. Anzi, non vi è dubbio che, per Marx, la velocità con cui può concentrarsi la proprietà in senso formale è nettamente inferiore a quella con cui aumentano le dimensioni tecniche delle unità produttive decisive, che imprimono la direzione di marcia allo sviluppo capitalistico. Tanto è vero che egli sostiene la centralità della società per azioni, dove la proprietà formale è comunque molto frazionata, anche se certi gruppi capitalistici possiedono i pacchetti di comando; e anche con riguardo a tale centralità penso che nessuno vo­ glia sollevare dubbi circa la correttezza dell'interpretazione di Marx. 3. Il fatto è che non si può discutere rimanendo al livello delle forme di mercato o della maggiore o minore concentrazione della proprietà giu­ ridica dei mezzi di produzione. Da questo punto di vista, il possesso di frazioni minoritarie del complesso delle azioni relative alla gestione di unità produttive di grandi dimensioni, o la proprietà di unità di minori dimensioni, così come il diffondersi di iniziative "private" - e la conse­ guente dispersione e differenziazione della proprietà capitalistica - nei più svariati settori dell’attività economica in senso lato (non quindi della sola produzione nel suo significato più restrittivo), sono fenomeni rela­ tivi alla crescita dei "ceti medi", pienamente considerata anche da Marx, ma che attiene allo sviluppo "fenotipico" delle differenti formazioni so­ ciali capitalistiche nel tempo e nello spazio. Dobbiamo invece conside­ rare la questione con più stretta attinenza al modello (semplificato ma decisivo) dei rapporti implicati dalla dinamica autoriproduttiva del modo di produzione capitalistico (il "genotipo" del capitalismo). Sotto questo riguardo, la centralizzazione comporta la frattura, la scissione, tra i ruoli della mera proprietà e quelli della direzione dei pro­ cessi produttivi. Tale scissione è causata precisamente da quanto detto sopra: le dimensioni delle unità tecniche della produzione crescono con ritmo superiore rispetto a quelle della mera proprietà giuridica. Tuttavia,

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tale fenomeno provoca effetti contrari a quelli che si potrebbe immedia­ tamente supporre. Dal lato della proprietà, si creano collegamenti di va­ rio genere, tipici dell'attività finanziaria (ad es. creazione di holding, ecc.), che consentono a gruppi ristretti di proprietari (di pacchetti azio­ nari consistenti, ma esigui in relazione all'enorme sviluppo del patri­ monio azionario complessivo) di controllare, influenzare, orientare, ecc. parti sempre maggiori di tale patrimonio. Dal lato produttivo, la direzio­ ne di unità complesse di grandi dimensioni (e variamente frazionate al loro interno, con parti spesso disposte in spazi anche distanti fra loro) conduce al concomitante frazionamento della direzione stessa in gruppi manageriali, che tendono ad avvicinarsi (non in senso semplicemente spaziale) alle parti divise della grande unità produttiva. 1 ruoli della proprietà si allontanano dai processi produttivi, e si inte­ ressano prevalentemente, spesso esclusivamente, della dimensione più specificamente finanziaria dell'attività economica, mentre i ruoli della direzione si innestano più profondamente in tali processi produttivi, la risoluzione dei cui problemi assorbe sempre più la loro attenzione, le loro energie, il loro tempo di lavoro. È necessario insistere su questa scissione di ruoli (e logicamente di funzioni), esattamente come si è insi­ stito sulla scissione dei ruoli nella manifattura primordiale. Per una lun­ ga fase storica, gli stessi soggetti empirici, gli stessi individui - capitalisti o gruppi di capitalisti - possono continuare a ricoprire, almeno in preva­ lenza, entrambi i ruoli della proprietà e della direzione. La scissione implica però effetti trasformativi profondi, che tendono a far maturare infine le condizioni di una reale scissione tra raggruppamenti sociali di­ versi. Ed è proprio quanto pensava Marx, secondo cui, come abbiamo visto nel primo capitolo, alla lunga la proprietà si sarebbe compietamente estraneata dalla produzione, i proprietari sarebbero diventati puri percettori di interessi (poiché tali diventano, nella sostanza, i profitti in quanto dividendi azionari distribuiti). 1 dirigenti, al contrario, si sarebbe­ ro riavvicinati, anche se in posizione gerarchicamente superiore per un certo periodo storico (la fase inferiore del comuniSmo), al lavoro esecu­ tivo; dirigenti ed esecutori insieme avrebbero cioè finito per "fondersi" nella figura del lavoratore collettivo cooperativo, considerato quale base sociale decisiva della transizione al modo di produzione comunistico (non semplicemente al comuniSmo, o comuniSmi, ancora una volta aspetti "fenotipici" di detto modo di produzione). Da quanto ho appena detto si evince immediatamente una specifica conclusione: la direzione capitalistica dei processi produttivi è identifi­ cata con le potenze mentali della produzione, il lavoro direttivo è so­ stanzialmente quello intellettuale, quello esecutivo è di fatto assimilato a quello manuale. È questa tradizione di pensiero che si è perpetuata in

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tutto il marxismo del Novecento, anche nel migliore. Il tragitto storico presunto è il seguente5: l'artigiano era figura sociale in cui non sussiste­ va alcuna distinzione di ruolo tra lavoro intellettuale e manuale; il carat­ tere specifico del primo era l’ideazione (del bene da produrre e del proces­ so per produrlo), quello del secondo l'esecuzione, essenzialmente manua­ le, di ciò che era stato ideato. Nel processo di transizione al modo di pro­ duzione capitalistico, ideazione ed esecuzione (nel senso già visto, di la­ voro intellettuale e manuale) si scindono, ed il primo viene assunto dalla proprietà capitalistica, diventa parte integrante delle sue capacità di dirigere la produzione, sottomettendo il secondo alle necessità della valorizzazione del capitale (implicante appunto l'estrazione di pluslavoro dal lavoro esecutivo e manuale). Il "vantaggio" storico di questa scissio­ ne è che l'ideazione va assumendo connotati assai diversi, e più larghi ed espansivi, rispetto al periodo artigianale; l'ideazione rappresenta il complesso delle potenze mentali della produzione, che nell'epoca mo­ derna si intrecciano strettamente con la scienza, in specie quella appli­ cata alle tecniche produttive. In una prima fase di sviluppo del modo di produzione capitalistico, come già considerato, le potenze mentali della produzione si ergono di contro al lavoro solo manuale (esecutivo), fondano il potere del capitale su quest'ultimo. Con la centralizzazione dei capitali e la conseguente scissione tra proprietà e direzione, quest'ultima sembra incorporare - ma nel senso che sembra proprio coincidere di fatto con - l'ideazione, cioè il lavoro intellettuale, le potenze mentali della produzione, la scienza e la tecnica. È questo complesso del lavoro di tipo, diciamo così, mentale che si suppone in fase di sempre più stretto coordinamento con il lavoro manuale (esecutivo) nell'ambito del lavoratore collettivo cooperativo (come dice, appunto, Marx, "dal direttore fino all'ultimo manovale"). Que­ sta presupposizione ne implica immediatamente un'altra: l'unità produtti­ va - di dimensioni sempre maggiori, che impiega tecnologie sempre più complesse - è nella sostanza la fabbrica, l'unità tecnica di trasformazio­ ne di materie prime in prodotti, quell'entità nel cui ambito vanno diffe­ renziandosi, nel corso della storia del capitalismo(i), le modalità tecni­ co-organizzative di sviluppo delle forze produttive (i famosi "modi di produzione" come li ha intesi il marxismo del Novecento). Con la crescita del terziario (settore dei servizi) - ed oggi del cosiddetto "quaternario" - potremmo ben denotare con il termine "fabbrica” anche entità non strettamente afferenti al settore industriale. Tale "fabbrica" re­ sta pur sempre un'organizzazione "produttiva" in cui entrano e vengono 5 Questo lo si nota con evidenza solare, ad es., nel libro di H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978.

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trasformati certi input ("materie prime" in senso lato) ed escono certi output (nella forma della merce), organizzazione comunque caratterizza­ ta in senso tecnologico e in quanto peculiare struttura (e divisione) del lavoro ivi prestato. In ogni caso, non muta la concezione dell'unità pro­ duttiva (di un qualsivoglia prodotto che si presenta come merce), in cui esiste direzione (attività lavorativa incorporante l'ideazione, le potenze mentali della produzione) ed esecuzione, attività lavorativa se non pro­ prio manuale, comunque di qualità inferiore, espropriata delle capacità ideative superiori, posta in posizione subordinata rispetto all'altra. Lo schema teorico non cambia, e non muta quindi nemmeno la tesi secon­ do cui, con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, con la cen­ tralizzazione dei capitali e la scissione tra proprietà e direzione, i due tipi di attività lavorativa sarebbero andati progressivamente riawicinandosi in base a modalità di esercizio di detta attività caratterizzate dalla più stretta cooperazione. A questi sviluppi va aggiunto anche l'ulteriore fenomeno del (presunto) progressivo ricompattamento delle potenze mentali della produzione, del crescente coordinamento e cooperazione fra i differenti settori scientifici e tecnici in cui tali potenze si sono divise6. Il tutto ac­ credita l'idea non di una sempre più estesa ed esaustiva dicotomia della società moderna in classe capitalistica (proprietaria) e classe operaia questa è una caricatura del pensiero di Marx, di cui può essere forse re­ sponsabile anche qualche corrente marxista particolarmente rozza - ma certamente di una sempre più netta scissione antagonistica tra la pro­ prietà, ormai largamente parassitarla e comunque lontana dai problemi della produzione, e l'intero corpo lavorativo - però molto complesso e differenziato al suo interno - fortemente interessato a tali problemi, e sempre più proprio nel senso della produzione di valori d'uso, non es­ sendo invece assillato dalla necessità che questi ultimi si presentino nella forma della merce (del valore di scambio), indispensabile alla va­ lorizzazione del capitale.

III. La revisione del modello di Marx 1. Questo complesso teorico - che ho assai succintamente, ma penso con precisione, delineato - rimane il più potente strumento conoscitivo della società moderna. Solo in base ad esso è possibile demistificare le fumisterie ideologiche propalate a piene mani dal "Clero", in particolare 6 In questo senso va inteso il generai inteliect, in quanto insieme ormai coordinato dell'inte­ ro campo delle potenze mentali della produzione, della scienza e della tecnica.

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da quello di-sedicente sinistra, il più pericoloso (e straccione). Eppure, questo complesso teorico ha mostrato crepe non indifferenti; le previ­ sioni che si potevano trarre in base a certi suoi assunti - raffermarsi di tendenze oggettive alla trasformazione del modo di produzione capitali­ stico in modo di produzione comunistico - non si sono rivelate, dopo più di un secolo, esatte. Dobbiamo rivedere, "revisionare", tale teoria. Il pro­ blema centrale, o almeno un punto assai importante, mi appare essere la confusione tra direzione e potenze mentali della produzione; o, se si preferisce, tra queste ultime ed il lavoro intellettuale, considerato quasi sinonimo di ideazione. Non sarà facile districarsi da tale confusione, ma è necessario almeno iniziare un percorso in tale direzione. Il modo di produzione capitalistico, in quanto codice genetico del capitalismo, è basato sui meccanismo autoriproduttivo di rapporti so­ ciali di forma specifica, già più volte ricordata. Tale meccanismo di riproduzione dei rapporti comporta però, immediatamente, la contestuale riproduzione dello "spazio" sociale in cui si va svolgendo: lo spazio tra­ dizionalmente denominato mercato. Quest'ultimo deve essere inteso in senso più ampio di quello usuale, che pensa la produzione di merci (vere merci) da parte di unità produttive coincidenti con le varie porzioni in cui è suddivisa la proprietà formale, giuridica, dello stock complessivo dei mezzi di produzione7. La frammentazione e la separatezza dei vari "produttori" di merci vanno considerate non semplicemente nel loro aspetto giuridico, ma in quello tecnico-lavorativo - i differenti settori in cui si suddivide l'attività lavorativa sociale complessiva - e, soprattutto, in quello sociale, in quanto conflitto permanente (pur continuamente me­ diato da collusioni e accordi tra alcuni, ma sempre finalizzati al conflitto con altri) tra i vari "produttori" in questione. Questi ultimi non sono quindi solo organismi produttivi in quanto articolazione di proprietà capitalistica e lavoro salariato, in cui la prima ha anche il diritto di dirigere il secondo; lo spazio sociale della produ­ zione complessiva è invece frammentato in unità lavorative separate che sono complessi di attività direttive ed esecutive, dove le prime coordi­ nano le seconde in vista del conflitto (o della collusione mirante al conflitto) con altre unità dello stesso tipo8. È questo lo spazio - della 7 Sotto questo riguardo, la moneta appare quale mezzo d'acquisto (investimento) e con­ trollo (capitale di gestione, d'esercizio) dei mezzi di produzione. 8 Per comprendere meglio questo punto, sono costretto ad invitare il lettore a prendere visione di altri miei libri in cui ho sviluppato la seguente tesi: la "mutazione" che ha dato vita al modo di produzione capitalistico si ha quando il più antico rapporto di dominazio­ ne-subordinazione penetra all'interno della sfera sociale in cui viene erogata l'attività la­ vorativa (in quanto legame sociale decisivo tra gli uomini), assumendo la "storicamente"

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produzione sociale complessiva frammentata in tante unità separate e conflittuali - che il modo di produzione capitalistico deve riprodurre quale condizione basilare per riprodurre i suoi specifici rapporti sociali, che - a questo punto - vanno interpretati quali rapporti tra (ruoli di) dominazione e subordinazione nella figura "storicamente'' peculiare di (ruoli della) direzione ed esecuzione intrinseci all'attività lavorativa. In questo senso, si comprende meglio come l'elemento cruciale della transizione al capitalismo sia rappresentato dalla direzione dei processi lavorativi, anche se questa è rafforzata, protetta, dal diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione. Il mercante - che è comunque figura proprietaria delle merci, e spesso ha anche la proprietà delle materie prime da trasformare - non assume funzione sociale rivoluzionaria (del precedente modo di produzione) proprio perché, almeno in quanto mer­ cante (se è poi anche manifattore, allora muta il suo ruolo), non assume su di sé l'attività direzionale, così come accade nel caso dell'artigiano che trasforma la sua bottega nella manifattura dei primordi. La direzio­ ne, non la proprietà, è decisiva per la "mutazione" del modo di produ­ zione. Non c'è però direzione senza esecuzione; la direzione è coordina­ mento di altre attività che devono ad essa essere sottoposte. In questo senso la proprietà coadiuva fortemente la direzione, appunto la difende, ne potenzia le prerogative. Non può però garantirla in assoluto; ed è per questo che si sviluppano i metodi del pusvalore relativo, i processi di espropriazione reale del lavoro esecutivo. Anche se tali processi - pro­ prio perché lo spazio sociale in cui può riprodursi il modo di produzione capitalistico deve essere scisso in unità fra loro separate - vengono or­ ganizzati e promossi nell'ambito della conflittualità tra differenti dire­ zioni capitalistiche. La direzione è coordinamento di attività ad essa sottomesse, che per questo assumono il carattere di esecuzione (delle direttive impartite dall'alto); detto coordinamento provoca, per dirla con Marx, la sparizio­ ne da molte parti delle cosiddette potenze mentali della produzione (che sono comunque quelle degli artigiani e quindi inizialmente assai limita­ te) e la loro concentrazione nell'apparato direttivo. Tale processo avrebbe poco senso se le direzioni possedessero veramente una visione comples­ siva della produzione di ricchezza globale ("delle nazioni") in quanto semplice massa di valori d'uso. Chi dirige sottomette perciò - prima formalmente e poi realmente - altri ruoli lavorativi all'esecuzione delle specifica figura del rapporto tra direzione ed esecuzione. I libri in questione, oltre al già citato Dal capitalismo al capitalismo, sono: II capitalismo lavorativo, scritto con M. Bonzio, Angeli, Milano 1990; Oltre la gabbia d'acciaio, scritto con C. Preve, Vangelista, Milano 1994; Saggi di critica dell'economia (in specie il terzo saggio), Vangelista, Milano 1994.

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sue direttive al fine di confliggere con altre direzioni, e per prevalere in questo conflitto. Può accettare accordi - o anche fusioni di più direzioni al fine di creare complessi produttivi di maggiori dimensioni - solo per apprestare nuovi terreni di scontro a lui più favorevoli, solo per mettere in atto nuove strategie di conflitto che gli consentano di vincere (o di meglio resistere all'altrui attacco). L'attività direzionale, quindi, non può che spezzare l’unità del lavoro sociale complessivo in tante entità separate, non può che creare quello spazio sociale, costituito da! reticolo delle interazioni conflittuali tra det­ te entità, denominato mercato (e che, da adesso in poi, indicherò con "mercato", per motivi che saranno chiari fra poco). Il "mercato" è spazio che definirò, in senso metaforico, einsteiniano - creato dalle entità in lotta ("concorrenza"); ma esse esistono in quanto complessi di attività stratificate verticalmente in ruoli di direzione e di esecuzione; e tali ruoli sono continuamente riprodotti dalla dinamica del modo di produzione capitalistico, in quanto "mutazione" (vincente) che ha introiettato i ruoli del dominio e della subordinazione nel lavoro inteso come legame so­ ciale decisivo tra gli uomini. In definitiva, la dinamica autoriproduttiva specifica del modo di produzione capitalistico (riproduzione, "in vertica­ le", dei ruoli di direzione e di esecuzione) deve contestualmente ripro­ durre lo spazio sociale ("orizzontale") entro cui la riproduzione dei ruoli in oggetto possa verificarsi; tale spazio non può che presentarsi nella forma della scissione, della frammentazione, della separatezza, tra parti diverse del lavoro sociale complessivo, proprio perché esso è costruito, strutturato, dall'interazione conflittuale tra i vari complessi lavorativi in cui si articolano i suddetti ruoli della direzione e dell'esecuzione. 2. Dalle considerazioni appena fatte9 derivano conseguenze che vanno esplicitate. Intanto, le entità produttive che possano considerarsi unita­ rie - o in senso tecnico-lavorativo, ma soprattutto in quello sociale, quali articolazioni sufficientemente compatte e coordinate tra posizioni diret­ tive ed esecutive - non coincidono con l'unità della proprietà giuridica delle stesse10. Se indichiamo con impresa tale unità in senso giuridico, 9 Che possono certo apparire un po' complesse, ma solo perché la novità si paga con una certa oscurità e imprecisione di linguaggio; e soprattutto con alcune ripetizioni che non fanno apparire l'esposizione asciutta come si vorrebbe. 10 Sia chiaro che considero giuridicamente unitaria una porzione del complessivo stock dei mezzi di produzione che sia controllata da chi possiede il pacchetto azionario di co­ mando. Altrimenti tutto apparirebbe frazionato, fluido, disunito, privo di qualsiasi forma aggregativa minimamente stabile, proprio come vorrebbero i sostenitori di quella grosso­ lana mistificazione che risponde al nome di complessità crescente!

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essa è generalmente composta di tante entità produttive unitarie, sia in senso tecnico-lavorativo (diversi settori produttivi di pertinenza) sia, so­ prattutto, in quello sociale appena considerato. Per questo non esiste solo il mercato tra imprese, ma anche quello interno alle imprese, dove avvengono scambi (appunto intraimprenditoriali) sulla base del calcolo economico, dello scambio mediato da moneta (sia pure contabile). Con tale significato, ben più ampio, uso il termine "mercato" per indicare l'insieme delle relazioni, pur sempre aperte al conflitto ("concorrenza"), tra le varie entità in questione. Non a caso, tra entità interne ad una da­ ta impresa ed entità esterne (imprese esse stesse oppure interne ad al­ tre imprese) si sviluppa sovente una "concorrenza" promossa proprio, anche se con certe misure di orientamento, dalla direzione di quella da­ ta impresa. Del resto, persino il più ristretto mercato interimprenditoriale non è mai stato (ma certo non è più) caotico, cieco, intreccio di rela­ zioni conflittuali, senza orientamento e coordinamento da parte di isti­ tuzioni varie (non meramente statuali). Il mercato è quindi sempre "mercato", sia inter- che intra-imprenditoriale, costituito da relazioni conflittuali mediate da accordi e collusioni, caratte­ rizzato cioè dal più o meno caotico e imprevedibile ("irrazionale") anda­ mento della concorrenza e da tentativi più o meno efficaci di parziale coordinamento ("razionale"). Tra impresa e suo esterno c'è differenza di gra­ do, non di natura; ci può essere maggior coordinamento all'interno e minore all'esterno, non mai compattamento organico unitario di impre­ se che riversano tutta la conflittualità esclusivamente al loro esterno, nel mercato in senso ristretto. Se si pensa in questo secondo modo - tipico del marxismo "ufficiale" - se ne deve concludere poi che, in base al pre­ supposto secondo cui le imprese acquistano sempre maggiori dimen­ sioni, il coordinamento tende a prevalere sulla disorganicità, si va verso la situazione ultraimperialistica prevista da Kautsky, verso il capitalismo organizzato propugnato da Hilferding. Tale ragionamento è errato sotto molti riguardi. La proprietà giuridi­ ca (pacchetto azionario di comando), che designa l'unità delle varie im­ prese, cresce con ritmo che in certe fasi è superiore, in altre nettamente inferiore, al tasso di accrescimento del patrimonio azionario complessi­ vo. Dal punto di vista tecnico-produttivo, aumentano tendenzialmente le dimensioni e la complessità dei sistemi tecnologici, nonché il rapporto tra capitale investito (inteso solo come insieme di mezzi di produzione) e lavoratori, ma non è detto che, in ogni fase di sviluppo capitalistico, si raggruppino nella stessa impresa insiemi di reparti e organismi produt­ tivi dello stesso tipo, e soprattutto che si raggruppino in uno stesso ter­ ritorio, in un'area piuttosto ristretta e relativamente omogenea dal pun­ to di vista socio-culturale, della dotazione di infrastrutture e servizi vari,

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ecc. Vi sono periodi storici in cui si verifica non solo l'ampio decentra­ mento di spezzoni della lavorazione attinenti alla stessa entità produtti­ va (o alla stessa impresa), ma anche affidamento di questi spezzoni ad altre, in genere piccole, imprese (del cosiddetto indotto). Soprattutto, an­ cora una volta, va sostenuto che l'impresa, e tanto più quanto maggiori sono le sue dimensioni, è suddivisa in entità produttive costituite da complessi articolati di ruoli direttivi ed esecutivi, fra le quali è sempre incipiente la conflittualità e la sostanziale separatezza pur nella correla­ zione d'insieme. Il quadro teorico del marxismo ufficiale (praticamente tutto quello di derivazione kautskiana di cui abbiamo parlato) era inficiato dalla so­ stanziale identificazione di impresa e fabbrica, intesa quest’ultima come unità di trasformazione - mediante certi procedimenti tecnologici e certe organizzazioni del lavoro (tecnologia e organizzazione investite dai me­ todi del plusvalore relativo) - di materie prime in prodotti merce. L'im­ presa è invece complesso di fabbriche, di unità trasformatrici, fra cui in­ tercorrono relazioni ''mercantili" mediate dall'azione di coordinamento e orientamento complessivi, gestita da apparati che svolgono funzioni di tipo "politico", differenti anche in tal caso per grado, ma non per natura, dall’attività degli apparati - non solo quelli statali o di carattere pubblico - che indirizzano, o tentano di indirizzare, le relazioni conflittuali interimprenditoriali, onde contrastare, nella misura del possibile, la disor­ ganicità e caoticità del mercato in senso stretto. Conclusione ulteriore che va tratta è allora la seguente: le fabbriche non sono solo quelle considerate tali dal marxismo ufficiale, essenzial­ mente unità di trasformazione del settore industriale. Le "fabbriche", più in generale, producono valori d'uso, "servizi" utili (in forma di merce) alla riproduzione intersettoriale capitalistica, che è fondata sulla riproduzio­ ne dei rapporti di produzione capitalistici, delle relazioni tra ruoli della direzione e della esecuzione interni ai processi lavorativi svolti in dette "fabbriche". 1 "servizi" possono essere beni industriali (o comunque affe­ renti alla sfera economica della società), oppure beni politici o ideolo­ gici, culturali in senso lato. Tali beni - la cui distinzione in materiali o immateriali va ormai messa tra i reperti archeologici - possono essere direttamente utili alla riproduzione intersettoriale capitalistica, oppure sono consumati da individui (o gruppi di individui) al fine della loro sussistenza, pur sempre nell'ambito di questa specifica forma di società (e non certo in generale). In linea di principio, non vi è sostanziale differenza tra "produzione" trasformazione di dati input in dati output, mediante processo tecnico­ organizzativo che va dai primi ai secondi - nelle fabbriche in senso stret­ to, di tipo industriale, e quelle (le "fabbriche") inerenti alle sfere eco­

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nomiche (banca, commercio, ecc.), politiche e ideologiche. Certamente, ci sono forti differenze, fattuali e più immediate, tra una fabbrica indu­ striale e una entità produttiva delle istanze politiche (ad es. un ufficio statale) o dell'apparato scolastico, ecc. Nessuno pretende di uniformare tutto; solo va ricordato che non dovrebbe porsi più la differenza "classica", secondo cui la prima ha come fine il profitto, mentre le se­ conde mirano a produrre servizi di pubblica utilità. La tendenza fondamentale, in tutte, è l’esecuzione di processi lavorativi, nel cui ambito vengono riprodotti certi rapporti tra ruoli gerarchizzati; e perfino si af­ fermano, anche in settori non specificamente economici, tentativi di cal­ colo di costi e ricavi, problemi di economia di tempo di lavoro, ecc. 3. In conclusione, possiamo definire la caratteristica essenziale del modo di produzione capitalistico (il suo "codice genetico") quale ripro­ duzione delle relazioni tra direzione ed esecuzione all'interno dei vari settori e processi dell'attività lavorativa sociale complessiva. La specifica conformazione di tali relazioni gerarchizzate esige, contestualmente, la frammentazione dello spazio sociale in cui si verifica la loro riproduzione in entità produttive, le "fabbriche", in conflitto ("concorrenza") tra loro. Il conflitto necessita di strategie, che implicano anche momenti di accordo e dunque di coordinamento tra "fabbriche" diverse, in vista di più ampi conflitti; e il coordinamento relativamente più stretto si ha con il colle­ gamento di più "fabbriche" nell'"impresa" (intesa in senso lato, non con solo riferimento alla sfera esclusivamente economica). Naturalmente, anche il conflitto concorrenziale, più acuto, tra "imprese" è aperto all'ac­ cordo tra alcune di loro per confliggere contro altre; accordo che si sfac­ cetta in tante di quelle forme concrete che è qui inutile farne la casistica (interessante solo ad altro livello dell’analisi, "meno astratto"). La centralizzazione dei capitali implica l'unità giuridica dell'"impresa" di sempre maggiori dimensioni o anche il coordinamento, favorito da accordi (che possono avere base giuridica oppure solo di fatto) tra più "imprese", ma esse rimangono comunque costituite da insiemi, più o meno ben organizzati, di "fabbriche", poiché lo spazio sociale conforma­ to dalla riproduzione del modo di produzione capitalistico, e dei suoi rapporti decisivi al fine della differenziazione fenotipica dei diversi capi­ talismi, si configura come reticolo di flussi conflittuali, senza i quali non avrebbe senso la direzione in quanto attività cui viene subordinata l’ese­ cuzione. Da quanto ho fin qui sostenuto, credo che il lettore abbia già compreso che la direzione e l'esecuzione, di cui parlo, non possono più essere confu­ se con il lavoro intellettuale e il lavoro manuale; le potenze mentali della produzione non si separano da quest'ultimo per identificarsi con l'attività

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direttiva, a sua volta incorporata, durante la prima fase di sviluppo capi­ talistico, nella proprietà (privata) dei mezzi di produzione. Le potenze mentali si scindono in due grandi raggruppamenti. Innanzitutto, i tecni­ cismi, fortemente specializzati, di cui sono portatori agenti intellettuali nell'ambito dell'attività espletata nelle "fabbriche", attività che, con rife­ rimento analogico a quanto avviene nella sfera più specificamente eco­ nomica, potremmo considerare afferente ai settori dell'"impresa" relativi alla produzione e alla commercializzazione (dei beni, degli output pro­ dotti), e alla ricerca e sviluppo (con innovazioni di processo e di prodot­ to). Un'altra parte delle potenze mentali in questione si autonomizza" rispetto alle varie istanze della "produzione" sociale (economica, politica, ideologica) e costituisce la sfera dell'attività scientifica (la "città scientifi­ ca"), dove lo specialismo appare sempre più esasperato e le grandi sintesi più rare (e rarefatte). La direzione non va dunque confusa con le potenze mentali di cui sopra, con il lavoro intellettuale. Essa è, in prevalenza, attività politica di mediazione e coordinamento, e di analisi ed esercizio di strategie con­ flittuali. Coordinamento di "fabbriche" neH'"impresa" (organizzazione e mediazione fra i diversi dipartimenti e parti varie che la compongono) o anche di più "imprese" strette in cartelli o altre forme di più o meno ela­ stico collegamento; strategie in quanto valutazione delle proprie forze (tecnico-produttive, finanziarie, commerciali, politiche; ideologiche) e loro disposizione nello spazio della "concorrenza" con altre "imprese" o gruppi di "imprese". Potremmo anche denominare strategica tale direzione, indicando come tecnica quella attuata dagli agenti che "razionalizzano" l'organiz­ zazione della "fabbrica", cioè quella dei portatori degli specialismi tec­ nici di cui abbiamo sopra detto. Questa seconda mi sembra piuttosto vicina al concetto weberiano di razionalità strumentale (dei mezzi rispetto ai fini) - ed è quella analizzata dall'economica neoclassica in quanto miran­ te al conseguimento del massimo risultato con date risorse, o di un dato risultato con il minimo di risorse - mentre la seconda è più simile al concetto di razionalità limitata, ma soprattutto ha un carattere latamente politico, o in quanto "arte del possibile" oppure come "scienza" fondata sui giochi di strategia. Basta intendersi sulla terminologia impiegata. Soprat­ tutto, non si pensi che la visione strategica sia veramente assai più ampia1 11 Malgrado la relativa autonomia, stretti sono spesso i collegamenti tra città scientifica e sfere sociali della "produzione”; e molti processi dell'attività scientifica possono forse es­ sere assimilati alla riproduzione dei rapporti gerarchizzati di tipo capitalistico, riproduzio­ ne che costruisce il suo spazio sociale - in quanto reticolo (conflittuale) di connessione tra "fabbriche", "imprese”, ecc. - nell'ambito della suddetta città scientifica.

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(e positiva) di quella della direzione detta tecnica, poiché si tratta sem­ pre di strategie di conflitto, di frammentazione e separatezza delle varie parti del lavoro sociale complessivo, di mediazione e coordinamento che tentano di dare maggiore ordine al collegamento tra più "fabbriche" in un"'impresa", o anche tra più "imprese", ma rovesciano disordine e irra­ zionalità nelle relazioni tra i vari spezzoni della totalità lavorativa socia­ le, poiché il carattere dominante di tale attività strategica è la promo­ zione del conflitto tra di essi. Fino a quando non "muta" il "codice gene­ tico" del modo di produzione capitalistico - riproduzione della direzione e dell'esecuzione, implicante la frammentazione in parti, fra loro conflit­ tuali, dello spazio in cui può svolgersi detta riproduzione -, questa è la caratterizzazione specifica della direzione strategica. Per quanto riguarda il lavoro dei ruoli indicati come esecutivi, il di­ scorso è assai più semplice e breve. Evidentemente, non si tratta di at­ tività manuale, ma più in generale di lavoro - con forme assai differenti di intreccio tra erogazione di energie corporali e mentali - subordinato all'esecuzione di direttive, più o meno cogenti, promananti dagli agenti che occupano gli altri ruoli gerarchicamente superiori. Ci sono eviden­ temente gradi diversi della subordinazione. Vi sono forme più rigide, connesse alla razionalità detta strumentale, alla stretta organizzazione tecnica di entità produttive, assimilabili alla "fabbrica". Vi sono quelle più flessibili, che hanno maggiori collegamenti con l'organizzazione dell'"impresa", con il coordinamento dei suoi vari dipartimenti. Vi sono fasi dello sviluppo (fenotipico) capitalistico in cui prevale la rigidità, mentre in altre prevale la flessibilità, ma non è qui il caso di addentrarsi in simili considerazioni, anch'esse pertinenti a livelli d’analisi meno astratti.

IV. Ipotesi sui raggruppamenti sociali dopo la revisione 1. Cerchiamo adesso di riannodare, sinteticamente, i fili dell'argomen­ tazione fin qui svolta. Partiamo dalla scissione tra proprietà e direzione, processo solo ai suoi inizi quando ne scrisse Marx, ma da questi previsto in tutta la sua futura ampiezza. L'andamento tendenziale di tale scissio­ ne è stato però piuttosto diverso da quello indicato appunto da Marx, ma anche da quello descritto assai più tardi dai teorici della rivoluzione manageriale o dei tecnici. Innanzitutto, consideriamo le cosiddette potenze mentali della produzione. Esse non hanno certamente coinciso con l'attività direziona­ le detta strategica. Solo in parte sono divenute appannaggio della frazione direttiva denominata tecnica (all'ingrosso, diciamo quella di "fabbrica"). In

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ogni caso, anche questa parte si è ulteriormente scissa in specialismi mi­ nuti, in visioni tutt'altro che organiche; gran parte degli agenti direttivi, che compongono la frazione in oggetto, sono tecnici di singoli reparti più ancora che della "fabbrica" nel suo complesso. Un'altra parte delle potenze mentali - quella di qualità "superiore" - si è autonomizzata nella "città scientifica", anch'essa suddivisa in specialismi spesso difficilmente intercomunicanti, malgrado il tanto parlare di interdisciplinarità12. Insomma, tutto si è verificato in senso nettamente contrario al coordina­ mento d'insieme di dette potenze mentali, che avrebbe dovuto condurre a quello che Marx indicava come generai intellect; non certo nel senso della formazione di un unico ruolo del sapere complessivo, bensì come diffe­ renziazione di ruoli, tutti però fra loro strettamente collegati, intercon­ nessi, mera specificazione di diverse funzioni, armonicamente coordina­ te nell'ambito di un sapere d'insieme. La questione decisiva è però attinente alle attività direzionali deno­ minate strategiche (abbiamo già chiarito il limite di tale denominazione e ciò che essa non deve far pensare di positivo in merito a questi ruoli). La centralizzazione dei capitali non ha affatto comportato soltanto, né principalmente, l'aumento delle dimensioni delle "fabbriche", bensì la creazione della grande "impresa" moderna, in quando complesso, più o meno organico ed organizzato, di "fabbriche". La direzione strategica non ha nulla a che fare con le potenze mentali della produzione, in nes­ suno dei significati che a queste possano essere attribuiti. Si tratta di attività politiche di coordinamento in funzione del conflitto. Abbiamo a che fare con attività "intellettuali" interamente derivate dal funziona­ mento del meccanismo "genetico" del modo di produzione capitalistico, che - come ricordato più volte - crea nell'attività lavorativa la direzione e l'esecuzione, costruendo nel contempo, ai fini di tale riproduzione, lo spazio della frammentazione e separatezza delle differenti entità "produttive" in aperto conflitto fra loro (con l'eventuale accordo e collu­ sione subordinati al carattere dominante del conflitto). L'apparato direzionale di questo tipo espleta la funzione decisiva per la riproduzione del modo di produzione capitalistico, una funzione che la mera proprietà (giuridica) del capitale non potrebbe affatto esercitare. La pura proprietà, infatti, si pone sul serio all'esterno dei complessi pro­ duttivi e assume un carattere che, se agisse da sola, apparirebbe vera­ mente come parassitario. L’apparato direzionale strategico non può as­ solutamente considerarsi esterno a detti complessi produttivi - alle "imprese" o gruppi di "imprese" - poiché esso coordina le connessioni Diciamo, metaforicamente (e scherzosamente), che tale "città” invece di svilupparsi secondo organici piani regolatori, appare spesso come una città da “condono edilizio".

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interne tra parti differenziate ("fabbriche'' o "imprese" del gruppo conso­ ciato) e analizza e svolge le attività strategiche, che hanno il conflitto ("concorrenza") quale loro aspetto prevalente. Quest'ultimo, come già rilevato, non può allora che frammentare, scindere, lo spazio sociale (il "mercato" inter- e intra-imprenditoriale) entro cui si svolge la riprodu­ zione dei tipici rapporti del modo di produzione capitalistico. Nel "mercato" la connessione è assicurata da tutti quei segni che rappresenta­ no quella particolare forma di mediazione che è il denaro; abbiamo la mo­ neta di conto, le differenti monete "reali", i vari titoli (immediatamente monetizzabili nei mercati di loro pertinenza), parte dei quali sono formal­ mente di proprietà, ma hanno soprattutto la speciale funzione di parteci­ pare, prò quota, alla distribuzione di una frazione del valore complessivo delle merci prodotte (frazione costituita dal profitto distribuito agli azionisti). Debbo fare una breve digressione, che forse appesantirà il discorso, ma che d'altrondemi pare importante. Il denaro è mezzo di scambio e mezzo di accumulazione di valore oltre che, dal punto di vista di ogni singolo capitale, mezzo che consente l'inizio del processo di valorizza­ zione dello stesso. Quest'ultima funzione appare certo decisiva, ma essa non potrebbe mai attuarsi se non nello spazio economico della circola­ zione di merci, dove il denaro è semplice mezzo di scambio. Si tratta, in definitiva, dell’aspetto economico del più fondamentale, e "sottostante", movimento riproduttivo dei rapporti specifici del modo di produzione capitalistico, che comporta la cruciale scissione tra ruoli della direzione e dell'esecuzione nell'ambito dell'estrinsecazione di lavoro, ma solo co­ struendo, contestualmente, lo spazio confacente a detto movimento riproduttivo, in quanto reticolo - "mercato" inter- e intra-imprenditoriale delle interazioni conflittuali tra le varie parti in cui va frammentandosi l'attività lavorativa sociale complessiva. Dunque, il movimento verticale - scissione tra direzione ed esecuzio­ ne, con il suo aspetto economico relativo alla valorizzazione dei capitali investiti in ogni singolo spezzone dell'attività lavorativa complessiva - si manifesta, si rende visibile, come se fosse processo microeconomico e microsociale, promosso dagli agenti interni ad ognuno di questi spez­ zoni13. Sul piano macroeconomico e macrosociale, si constata la com­ 13 Questo è il fondamento - ideologico - di tutta la razionalità neoclassica e del cosiddet­ to individualismo metodologico, che prende sempre le mosse dal singolo "soggetto" e costruisce l'insieme quale semplice sistema di interrelazioni tra questi soggetti, presen­ tati come attori sociali; al massimo si arriva ad analizzare il comportamento di ognuno d'essi in interazione con il (reazione sugli attori del) risultato interrelazionale complessivo delle attività promosse dai vari attori. Viene totalmente ignorata, anzi negata, ogni dina­

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plessiva, ed orizzontale, interrelazione - più o meno stretta e cogente - tra questi vari spezzoni (ad es., fabbriche nell'impresa, imprese nei gruppi consociati, ecc.) e il loro collegamento di tipo economico attuato spesso nella forma dello scambio mediato da varie figure monetarie. Sul piano della realtà detta empirica, sembra prevalente e cruciale la dinamica orizzontale - che dipenderebbe dalle azioni interrelate di singoli "soggetti" - proprio perché quella verticale appare effettiva e reale solo nei frammenti del complesso sociale (il "genotipo" appare solo nei suoi "fenotipi"). La causa profonda viene espulsa da ogni considerazione "scientifica", che si limita alla descrizione delle svariate configurazioni, più o meno casuali, assunte dalle interazioni tra i soggetti. La moneta - le varie figure in cui si presenta, ma anche ogni forma di ricchezza immediatamente monetizzabile - appare allora importante so­ prattutto nella sua funzione di mezzo di connessione, di mediazione, perché solo in questa sua funzione sembra essere contenuta la possibili­ tà, per ogni singolo attore (l"'imprenditore"), di procurarsela per porre in essere un'attività dotata di scopo, in cui egli organizza il lavoro esecutivo (anch'esso presentantesi, in senso orizzontale, quale venditore di merce forza lavoro) con il fine - che al livello microeconomico, quello che pren­ de il davanti della scena sociale, appare dominante e decisivo - di con­ seguire profitto (espresso in moneta). Tutto dunque appare trasfigurato nelle varie configurazioni di superficie assunte dal modo di produzione capitalistico; l'economicismo è sempre in agguato, così come sempre in agguato è la lotta all'economicismo secondo modalità ancora peggiori, che pongono ogni decisione degli attori sociali sul piano politico o ideologico14. 2. La direzione detta tecnica - schematizzando, quella di "fabbrica" - po­ trebbe, in se stessa considerata, essere interessata alla produzione di mica "sottostante" ("genotipo") che ipotizzi una certa forma di identità autori produttiva dell'insieme, certo mutevole, di tali risultati ("fenotipi") derivati dall'intreccio degli scopi perseguiti dai vari "attori", che in realtà vengono agiti e si muovono e pongono i loro fini entro il quadro fissato dalla suddetta identità autoriproduttiva di quel dato organismo sociale. 14 Un "sano" economicismo, ad es., non consentirebbe oggi l'imbroglio che viene perpetra­ to sulla scena politica italiana, dove tutto sembra giocarsi in base alle decisioni e all'im­ magine (confezionata dai mass media) di guitti abietti e disgustosi, con la più completa mascheratura del fatto che le vere decisioni vengono prese dagli Agnelli, De Benedetti, Mediobanca, ecc.; cioè da quella presunta borghesia "illuminata" (in realtà parte dell'in­ ternazionale finanziaria che sta devastando e imbarbarendo tutto il mondo), di cui si è eretta paladina principale la sedicente sinistra.

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valori d’uso, alle innovazioni di prodotto e di processo miranti a miglio­ rare la qualità dei prodotti (la loro capacità di soddisfare bisogni umani storicamente determinati) e ad abbassare lo sforzo lavorativo per pro­ durli. La vera direzione, di carattere gerarchicamente superiore, è tutta­ via quella della "impresa", poiché è quest’ultima, in un certo senso, l'unità cellulare della "produzione" (in senso lato, non afferente alla sola sfera economica) di tipo capitalistico; unità spesso delimitata dalle altre in senso giuridico, con l'attribuzione di diritti inerenti alla "personalità". Tale direzione - pur scindendosi dalla proprietà nel corso del processo di centralizzazione dei capitali, come sostenne giustamente Marx - non è at­ tività connessa all'esercizio delle cosiddette potenze mentali della produ­ zione, ma è insieme di decisioni attinenti alle strategie deH'"impresa" in quanto complesso di "fabbriche"; strategie miranti al coordinamento di queste, all'eventuale accordo e collusione con altre "imprese", il tutto teso però al fine predominante del conflitto per vincere, o almeno non perde­ re, nella "concorrenza". E l'aspetto del conflitto è talmente prevalente che il cosiddetto coordinamento d'insieme delle fabbriche interne al­ l'impresa può, più spesso di quanto non si dica, contemplare la promo­ zione della competizione anche fra di esse, ove ciò favorisca la maggiore produttività (capacità di profitto nella sfera economica) dell'impresa nel suo insieme. La frammentazione (e la separatezza dei frammenti), che tali strate­ gie prevalentemente conflittuali comportano15, implica la decisiva im­ portanza delle figure monetarie in quanto forma di mediazione e con­ nessione. E tanto maggiore appare tale importanza, ove si pensi che le strategie conflittuali richiedono spesso la rapidissima movimentazione di risorse sia all'interno dell'impresa - tra i suoi vari dipartimenti o filiali esistenti, o per costituirne di nuovi - sia al suo esterno, nella forma della creazione di nuove imprese affiliate o di fusione con, o assunzione di controllo di, altre già esistenti. La movimentazione rapida esige, eviden­ temente, la forma monetaria. E se, come appena rilevato, le strategie delle direzioni sono basate anche sul controllo più o meno cogente, in­ tra- e inter-imprenditoriale, di varie entità produttive, ben si comprende come alla movimentazione di risorse monetarie si accompagnino misure di potenziamento del controllo stesso, con acquisto di quote proprietarie.

15 Lo ricordo ancora una volta: il conflitto è la manifestazione della riproduzione dei rap­ porti specifici (tra direzione ed esecuzione) inerenti al modo di produzione capitalistico, giacché lo spazio sociale più congeniale alla riproduzione in oggetto è quello costituito dal reticolo interattivo tra i vari frammenti, in cui l'attività lavorativa sociale complessiva viene, appunto, spezzata dal conflitto (tra le varie direzioni di detti frammenti).

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Sarebbe certo interessante capire meglio le differenze di fase, e le dif­ ferenze spaziali, del rapporto tra proprietà e direzioni strategiche; tutti sanno, ad es., quali caratteri prevalentemente manageriali abbia avuto il capitalismo statunitense almeno fino ad anni piuttosto recenti. Ancora una volta ricordo che non è questo lo scopo del presente scritto, inte­ ressato ad almeno delineare una teorizzazione più generale. In ogni ca­ so, al di là delle differenze "fenotipiche", è possibile affermare, in linea di principio, che la direzione strategica (implicante semplici strategie d'im­ presa, attuate cioè nell'ambito di ogni minima frazione della totalità produttiva sociale) va nettamente differenziata, come ruolo, rispetto a quella proprietà di cui parlava Marx - proprietà puramente parassitarla, classe di rentier, oligarchia finanziaria come sarebbe poi stata denomi­ nata dal marxismo - secondo il quale la sua separazione dalla direzione (di fatto identificata con le potenze mentali della produzione) avrebbe comportato la fine del modo di produzione capitalistico pur ancora al­ l'interno dello stesso, avrebbe cioè sviluppato tendenze oggettive al supe­ ramento di quest’ultimo in direzione del modo di produzione comunistico. La vera direzione d'impresa - che non è la fabbrica cui pensavano, nella sostanza, Marx e il marxismo - non è potenza mentale produttiva, ma nemmeno è parassitarla, poiché proprio il movimento autoriprodut­ tivo dei rapporti specifici del modo di produzione capitalistico la pone al vertice di singoli raggruppamenti di frammenti lavorativi, che essa co­ ordina al fine prevalente del conflitto, in esso svolgendo funzioni assimi­ labili a quelle politiche. Tale direzione impedisce quindi ogni coordinamento complessivo della totalità sociale, riproduce continuamente quello spazio sociale frammentato che è il "mercato" (inter- e intra-imprenditoriale), enfa­ tizza il ruolo della moneta nella sua figura di mediazione tra frammenti e poiché allora tutta la produzione dei frammenti lavorativi appare nella forma monetaria - utilizza parti del valore in questa sua forma (ad es. i profitti nella loro quota di dividendi non distribuiti) per potenziare il suo controllo direttivo mediante lo scudo della proprietà (azionaria). In queste condizioni, vi sono particolari fasi storiche del capitali­ smo16, in cui le direzioni strategiche si comportano con modalità simili, in senso metaforico, a quelle del mercante che acquistava terra e titoli nobiliari, innescando processi di rifeudalizzazione, comunque bloccando la trasformazione della vecchia forma di società. Le direzioni strategiche hanno insomma la tendenza a riportarsi verso la proprietà, e a svolgere una serie di giochi finanziari connessi alla creazione di nuove imprese, 6 Faccio notare al lettore che uso proprio il termine storico senza virgolette e capitalismo invece che modo di produzione capitalistico; e mi auguro che ormai si capisca che cosa ciò significhi.

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alla fusione con, o al controllo di, imprese esistenti, ecc.; con ciò provo­ cando periodi di rifinanziarizzazione del capitale, che è l'aspetto più ap­ pariscente di certe epoche quale, ad es., quella che stiamo vivendo. Per questi motivi, appare a volte così difficile districare i ruoli della proprietà e della finanza da quelli della direzione strategica d'impresa, che posso­ no essere ricoperti dagli stessi gruppi di individui. E anche quando vi è distinzione di soggetti che occupano i due diversi tipi di ruoli, l'intreccio è pur sempre stretto, i differenti interessi non facilmente individuabili (e non certo antagonistici). Si arriva così al paradosso (solo apparente) che il ceto dei rentier, dei "parassiti", dei puri percettori di (quasi) rendite, ecc. - quel ceto che, nel­ la visione del marxismo ufficiale doveva essere costituito da poche grandi famiglie di magnati, da oligarchi della pura finanza, da un pugno di individui ormai separati dalla, ed estranei alla, produzione, il cui pote­ re sarebbe stato allora facilmente abbattuto dalla stragrande maggio­ ranza del popolo, autentica produttrice di ricchezza - sembra invece for­ mato da una non piccola quantità di possessori di moneta, di titoli, di quote azionarie minoritarie, ecc., autentico "ceto medio" proprietario, contro cui si scatena ogni tanto qualche campagna che lo pone sotto ac­ cusa, tanto per distogliere l'attenzione dai veri responsabili del disordi­ ne, dell'irrazionalità, della disgregazione, ecc. che investono la società nel suo complesso, mentre si è addirittura ossessivi nel "razionalizzare" ogni sua singola, sempre più minuta, parte costituente. La vera grande proprietà e finanza si maschera dietro l'apparato dire­ zionale strategico delle (grandi) imprese, con esso si confonde (quando addirittura non si fonde occupando contemporaneamente i due tipi di ruoli), specie nel settore industriale, e appare quindi come quel ceto "illuminato" che potrebbe riorganizzare, con l'aiuto del suo "Clero" (strapagato), l'intera società. È necessario smascherare questa mistifi­ cazione, oggi sostenuta, in modo del tutto particolare, da settori politici e intellettuali autodefinentisi di sinistra, spesso i peggiori, i più elitari. Gli apparati direzionali strategici non solo tornano, con maggiore o mi­ nore intensità a seconda delle diverse fasi storiche del capitalismo, ver­ so la proprietà e la finanza17, ma sono del tutto incapaci di porsi compiti progettuali di ampio respiro, che non siano legati al rapido movimento delle risorse finanziarie, a volte per il semplice sfruttamento immediato delle occasioni di incrementarle, altre volte con finalità più intrinseche alla "produzione”, ma sempre con l'occhio rivolto al conflitto interim17 Sia chiaro che essi non sono nemmeno all'altezza delle classi mercantili responsabili delle fallite transizioni al capitalismo; non lo sono come cultura, né come autentici mece­ nati della grande arte, ecc.

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prenditoriale (o anche intraimprenditoriale) - che spezza e disorganizza il complesso dell'attività lavorativa sociale, e crea quindi irrazionalità dell'insieme - cui viene sempre subordinato ogni eventuale, e sempre parziale e spesso effimero, accordo e coordinamento di un certo gruppo di attività. L'unica capacità di vero coordinamento - addirittura allora transna­ zionale - che le direzioni strategiche dimostrano di possedere è proprio quella attinente alla difesa dei loro interessi più generali, specie quando esse si "rifeudalizzano" (rifinanziarizzano) riconfondendosi con i ruoli della proprietà. Esiste una sorta di internazionale finanziaria che tende a fissare politiche mondiali che pieghino i differenti settori capitalistici nazionali (e gli stessi governi dei diversi Paesi) a tali interessi più generali, solita­ mente perseguiti in modo miope e senza grande respiro, come dimostra lo sfrenato liberismo di questi ultimi anni, che rischia di comportare gravi conseguenze in un lasso di tempo appena più lungo. Comunque, poiché non esistono proprietà e finanza completamente staccate dalla "produzione" - ma questi ruoli capitalistici riaffermano continuamente la loro importanza (e spesso dominanza) proprio grazie all'attività delle di­ rezioni strategiche d'impresa, che sempre reinnescano, con periodi di maggiore accentuazione (come l’attuale), i processi di riavvicinamento e ricollegamento con essi - tale internazionale del capitale sta ormai co­ noscendo, come già in altre fasi storiche, l'inasprimento dei conflitti "intercapitalistici" (interimprenditoriali, tra direzioni strategiche di diffe­ renti imprese e gruppi di imprese) per la spartizione dei "mercati". 3. In definitiva, il ceto sociale che occupa i ruoli delle direzioni strategi­ che d'impresa, proprio come la classe mercantile del periodo feudale, ha sempre l’occhio rivolto al passato, è di ostacolo ad ogni possibile pro­ cesso di reale "mutazione" del modo di produzione capitalistico, accre­ sce i fenomeni di disgregazione, putrefazione e decadenza di una de­ terminata epoca "storica", acuisce il disagio (e la "malattia") sociale, esa­ spera la sensazione di irrazionalità e pazzia crescenti, favorisce la diffusio­ ne di ideologie totalmente nichiliste, che tolgono ogni senso al mondo, di cui sono portatori i "raffinati" intellettuali al suo seguito. D'altra parte, tali direzioni strategiche non sono per nulla estranee e separate rispetto alla "produzione" (sempre intesa in senso lato); i ruoli che occupano sono espressione della riproduzione dei rapporti più de­ cisivi - quelli tra direzione ed esecuzione, che illuminano, innervano il complesso degli altri rapporti di cui sono costituite le formazioni sociali capitalistiche - intrinseci al "codice genetico" del modo di produzione capitalistico. Il vecchio modello marxista (in tal caso anche marxiano) era rassicurante; la proprietà, fonte della frammentazione della produ­

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zione sodale (e della sussistenza del valore di scambio in posizione dominante rispetto a quello d'uso), si sarebbe progressivamente estraneata dai processi di lavoro. In questi poteva quindi affermarsi il ruolo dominante della direzione, che s'identificava, nella sostanza, con l'in­ sieme delle potenze mentali della produzione. Essendo ormai la proprie­ tà espulsa dalla sfera lavorativa, con raffermarsi della più spinta centra­ lizzazione dei capitali, veniva meno l'impulso alla frammentazione cre­ scente della produzione sociale complessiva, i cui vari settori andavano al contrario vieppiù coordinandosi e riconoscendo la loro intrinseca in­ terdipendenza e complementarietà. Anche i vari saperi costitutivi delle potenze mentali venivano correlandosi e intrecciandosi strettamente, formando così quel complesso organico denominato generai intellect; e quest'ultimo si riavvicinava sempre più, si socializzava in misura cre­ scente, con il lavoro esecutivo considerato nella sua veste prevalente­ mente manuale. Tutto è andato in modo diverso, proprio perché il "codice genetico" del modo di produzione capitalistico è l'autoriproduzione non di sem­ plici rapporti di proprietà e di non-proprietà (lavoro salariato) dei mezzi di produzione, bensì di quelli implicanti la direzione e l’esecuzione nel processo di lavoro, che viene così scisso, suddiviso, disperso nello spa­ zio della riproduzione dei frammenti fra loro separati e conflittuali, lo spazio del "mercato" (inter- e intra-imprenditoriale), dove la mediazione e la connessione - che si manifestano, nel loro lato meramente econo­ mico, nella forma delle varie figure di "valore", monetarie o velocemente monetizzabili - hanno come base sociale decisiva la costituzione delle direzioni strategiche d'"impresa" con i caratteri che ho già più volte con­ siderato, con la loro fisionomia reazionaria, il loro continuo negare le possibilità di trasformazione del modo di produzione capitalistico, ne­ gazione che comporta la sua degenerazione e putrefazione crescenti. In­ vece della mutazione genetica, si ha l'impazzimento delle cellule, il can­ cro che corrode l'organismo e può condurlo alla sua autodissoluzione e morte. In effetti, in tale situazione, così diversa da quella ipotizzata dallo stesso Marx, le direzioni tecniche, quelle che, in un certo senso, in­ corporano le potenze mentali della produzione, agiscono in un contesto sociale frammentato che, innanzitutto, le separa nettamente dalle loro superiori qualità intellettuali, cioè dalle scienze che vanno raggruppan­ dosi, e confinandosi, in un territorio (la città scientifica) ben definito e protetto. Inoltre, sia le scienze che, ancor più, le direzioni tecniche (data la loro contiguità con i luoghi di erogazione di lavoro) sono costrette, esse stesse, alla frammentazione crescente, allo specialismo ossessivo e minuto, a imporre metodi lavorativi che le allontanano sempre più dalle

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attività esecutive (non soltanto manuali) ad esse subordinate (malgrado tutte le chiacchiere sullo sviluppo del capitale umano, sulla collabora­ zione tra dirigenti e diretti, ecc. che servono solo a scrivere libri sul ma­ nagement "moderno", sui sistemi d'azienda "flessibili", e via dicendo)18. Le direzioni tecniche sono sottoposte da quelle strategiche ad uno stress produttivo onde creare - nella situazione della frammentazione crescente cui, come già rilevato, non mettono termine gli accordi e le collusioni, miranti solo al fine del conflitto tra strategie - sempre più co­ spicui stock di ricchezza in quella forma di valore (moneta o altre entità immediatamente monetizzabili) che è essenziale per la veloce effettua­ zione delle varie mosse inerenti alle suddette strategie conflittuali, prive di grande respiro, di progetti d'ampia portata e di lungo periodo. Non ho molto parlato in questo scritto del lavoro esecutivo e più su­ bordinato, per il semplice motivo che, nella visione marxiana, esso si sa­ rebbe infine ricongiunto alle potenze mentali della produzione (incarnate nella direzione) nell'ambito del lavoratore collettivo coopera­ tivo. Nel marxismo del Novecento questa concezione si è modificata, tramite le distorsioni del pensiero di Marx considerate nel secondo capi­ tolo, in quella della classe operaia, produttrice della ricchezza nazionale e sottoposta all'estorsione di pluslavoro - e, per queste sue caratteristi­ che, in fase di crescente omogeneizzazione pur nella differenziazione dei vari settori industriali in cui esplicava la sua attività - capace di allearsi, in posizione egemone, con le potenze mentali in questione e con altri settori sociali (piccola borghesia, contadini, ecc.)19 contro la grande proprietà monopolistica, ormai parassitaria ed estranea ai processi pro­ duttivi collettivi. Dopo la revisione qui apportata a queste impostazioni teoriche, non credo si debbano spendere altre parole per chiarire che la classe operaia non è un soggetto, addirittura dotato di una sua coscienza, nascente dal­ l'interno o portata dall’esterno, come ci si dilettava a disquisire e dibat­ 18 Logicamente, in questi libri vi sono senza dubbio ampi frammenti di "realtà"; è il quadro generale ad essere assai edulcorato. Anche perché vi sono fasi storiche diverse dello svi­ luppo capitalistico, e certe flessibilità sono indispensabili nei periodi di nuovo intenso sviluppo del policentrismo capitalistico, di accentuazione della concorrenza per i "mercati", ecc. Maggiore rigidità o maggiore flessibilità (delle gerarchie e dell'organizza­ zione lavorative) non mutano comunque né l'ossessivo specialismo che caratterizza le dirigenze tecniche (e lo sviluppo delle scienze e dei loro apparati) né la loro lontananza dal lavoro subordinato a detto specialismo. 19 Si ricordi quanto detto da Preve circa il fatto che il concetto decisivo del marxismo no­ vecentesco non è stato quello marxiano di modo di produzione capitalistico, ma quello leniniano di formazione economico-sociale.

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tere fino a una ventina d'anni fa o anche meno. Esiste il lavoro subordi­ nato, frazione maggioritaria di quello dipendente, tutt’altro che omoge­ neo, tutt'altro che dotato di coscienza trasformativa del modo di produ­ zione capitalistico, ma comunque collocato in ruoli che hanno delle somiglianze, dei collegamenti d'interesse, soprattutto però al livello dei modi della distribuzione (di tipo economico e non). Si tratta insomma di un settore di quello che Preve definisce, per analogia, come "Terzo sta­ to". Non credo però sia settore capace di reale egemonia in una eventua­ le trasformazione, che possa configurarsi quale transizione ad altra for­ ma di società strutturata attorno ad altro modo di produzione. È invece un settore sociale che, assieme a quello degli emarginati, ecc., potrà for­ se dare vita, accentuandosi l'acutezza delle contraddizioni di cui è gravi­ da l'attuale società, a forti tensioni o anche a ribellioni (sempre per analogia, a rivolte di schiavi, a jacqueries). Fenomeni, questi, da non sot­ tovalutare, di cui va dichiarata l'assoluta legittimità (in nome del saggio detto di un'altra epoca, secondo cui "laddove vi è oppressione, vi è ri­ bellione"), ma che non sono in grado di attuare la cosiddetta transizione intermodale, così com'essa non si realizzò con le rivolte di schiavi e con le jacqueries.

V. Conclusioni Non credo siano da trarre, per il momento, conclusioni troppo impe­ gnative. Quelle indicate da Preve mi trovano del tutto concorde. Nulla di assolutamente definito, e di oggettivamente necessitato, è oggi pensabi­ le. Le direzioni strategiche (i "mercanti") - i cui ruoli sono differenziati ma intrecciati strettamente con quelli della proprietà e finanza (la "Nobiltà") - rappresentano il nemico principale di ogni trasformazione anche soltanto in direzione di una minore disorganicità e putrefazione dell'attuale società capitalistica. Sul "Clero" è abbastanza superfluo dif­ fondersi, data la sua sostanziale inaffidabilità, salvo casi particolari, so­ prattutto per quanto riguarda il suo scarso rigore scientifico e i suoi continui attacchi ad ogni forma di sia pur minima razionalità. Questi raggruppamenti (di ruoli) sociali - proprio a causa del meccanismo au­ toriproduttivo dei rapporti tipici del modo di produzione capitalistico - si formano mediante un processo di frammentazione e dispersione, che investe anche i grandi aggregati sociali, in cui può essere schematica­ mente suddiviso il "Terzo stato". Quest'ultimo è comunque tanto complessamente articolato al suo interno quanto lo era il Terzo stato dell’epoca della transizione dal feu­ dalesimo al capitalismo, gruppo sociale da cui poi infatti emersero le

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varie classi e ceti, fra loro conflittuali, caratteristici dell'epoca moderna. Eppure, quel Terzo stato, così suddiviso ed eterogeneo, trovò una sua unitaria forza d'urto, non per coesione interna d'interessi, ma contro i privilegi di Nobiltà e Clero, contro il disagio e le forti tensioni sociali che questi inducevano, contro la marcescenza e il decadimento di una socie­ tà incapace di rinnovarsi sotto il tallone di questi due gruppi sociali re­ azionari. Non voglio stabilire analogie troppo forti con la situazione at­ tuale, anche perché oggi lo sfavillìo tecnologico (e scientifico) serve a mascherare in qualche misura la putrefazione morale e la disgregazione sociale. Si tratterà però sempre più di una foglia di fico di fronte alle gravi tragedie che già accadono, ma che sono nulla al confronto di ciò che ci aspetta fra quindici-venti anni al massimo (e forse meno), quando si saranno pienamente sviluppati quella lotta per i "mercati" e quel nuo­ vamente accentuato policentrismo capitalistico, su cui non mi sono po­ tuto diffondere, tutto teso com'ero a delineare, ad abbozzare, un primo schema di ricostruzione del concetto di modo di produzione capitalistico, centrale in tutta la costruzione teorica di Marx. Oggi sembra prevalere - proprio in quelle frazioni, a mio avviso deci­ sive, del "Terzo stato", che sono portatrici delle potenze mentali della produzione, purtroppo non nella versione socializzata del generai intellect il più sfrenato delirio di onnipotenza razionalistica nel particolare minu­ to, accompagnato al disincanto, alla depressione, di fronte all'insensa­ tezza del tutto. Ognuno pensa che il mondo sia dominato dalla pazzia degli altri, mentre se a lui venisse affidata la riorganizzazione complessi­ va, allora... Nulla ci assicura che sia possibile indirizzare infine l’ira del­ l'intero "Terzo stato" verso gli altri due gruppi (in specie il primo) veri re­ sponsabili dei disagi (e spesso disastri) in corso, e dei prossimi ben più gravi. E tuttavia, in un contesto assai differente, che abbisogna di nuove analisi e riflessioni del tutto diverse, della costruzione di forze politiche completamente nuove, sembra riproporsi la vecchia alternativa: "socialisme ou barbarie". Anch'io ricomincerei dalla ricostituzione di nuclei di "resistenza" per la difesa del settore sociale del lavoro dipendente. Senza trascurare, ma senza tuttavia troppo enfatizzare le differenze di livelli di reddito tra i vari gruppi che lo compongono, poiché in esso sono ricompresi i ruoli lavorativi ricoperti dagli agenti del management tecnico che, sia pure nel modo frammentato e specialistico già considerato, sono comunque por­ tatori (assieme ai "fratelli maggiori" inseriti nei rami del sapere scientifi­ co) delle potenze mentali della produzione, che appaiono decisive per qualsiasi trasformazione implicante maggiore razionalità e organizzazio­ ne della società nel suo complesso. Penso che il modo di produzione capitalistico abbia prodotto, al di là di ogni discussione intorno al con­

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cetto di progresso (che può essere posto in dubbio fin che si vuole), una radicale irreversibilità storica: l'introduzione dei rapporti di dominio e subordinazione all'interno del processo di estrinsecazione di attività la­ vorativa, in cui il legame sociale decisivo (da non confondere con la so­ cializzazione) sussiste ormai nella figura "storicamente" specifica della direzione e dell'esecuzione (con tutti i connessi problemi già ampiamen­ te considerati). Non mi convince quindi l'idea che la trasformazione del capitalismo possa venire diretta dai settori emarginati (del Primo, del Secondo - oggi imploso - o del Terzo mondo che dir si voglia)20. Nemmeno credo si possano creare delle enclaves a-capitalistiche, che resterebbero puramen­ te interstiziali, e persino effimere (della durata massima di una data fase di sviluppo storico del capitalismo), come fu dei falansteri o, assai più di recente, delle comunità hippies o altre. Anche le recenti tesi - molto lega­ te all’innamoramento dei romantici di sinistra, o ex-sinistra, per le nuo­ ve tecnologie - circa la liberazione dal lavoro, il lavorare meno per lavo­ rare tutti (ma alla fine lavorando tutti sempre di meno), mi sembrano già oggi surclassate dal più efficace e vincente slogan del grande capitale: lavorare di più a paghe più basse21. Non rimetterei perciò in discussione l’idea generale di Marx: se il modo di produzione capitalistico ha da essere superato, occorre che in esso si produca la "mutazione", magari non più per necessità intrinseche, per cogenti sviluppi di forme comunistiche nel suo stesso seno, ma co­ munque per possibilità connesse alle sue interne contraddizioni, alla di­ sgregazione e disagio di una società dove il dominio delle direzioni im­ prenditoriali produce prevalentemente conflitto e irrazionalità nel com­ plesso sociale, nel mentre le potenze mentali della produzione - sotto­ poste a stress, spinte al più esasperato tecnicismo specialistico, al fine di produrre la ricchezza nella sua forma (di valore, specie monetario o simile) più consona alle mosse strategiche di dette direzioni - restringo­ no la loro razionalità al particolare, alla cellula di un tessuto intaccato dal cancro.

20 Anche se va comunque riconosciuta pienamente, come ho detto, la legittimità delie ribellioni degli emarginati, dei diseredati, degli oppressi, ecc. 21 Non affronto qui i problemi connessi all'ecologia, non perché li valuti poco importanti ma esattamente per il motivo contrario; per discorrerne occorre spazio e maggiore compe­ tenza. Ritengo comunque che rimanga, in ogni caso, decisivo il discorso sui meccanismi della riproduzione di quel particolare organismo che è la società moderna, e dunque sul modo di produzione capitalistico che la informa, e struttura i rapporti tra quelle forze so­ ciali che possano farsi carico dei vari problemi della fase di sviluppo attuale.

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Dare forma costruttiva a queste possibilità, ampliare le forme della razionalità e progettualità, individuandone i legami con le forze sociali che possano, anche se non tanto presto, divenirne le portatrici, mi sem­ bra l'unica prospettiva praticabile nell’immediato. Sia chiaro che è al­ trettanto indispensabile cogliere con nettezza, e razionalità, senza farsi sempre ingannare dall'aspetto esteriore della "buona educazione" e cul­ tura, qual è il nemico principale e più feroce dell'umanità: il manage­ ment delle strategie (i "mercanti"), strettamente intrecciato con le posi­ zioni proprietarie e finanziarie (la "Nobiltà"), con i suoi corifei politici e ideologici, fra i quali i più pericolosi sono coloro che lo definiscono "capi­ talismo (o borghesia) illuminato(a)", rifacendogli, giorno dopo giorno, il maquillage e nascondendone le malefatte più colossali, magari attribuen­ dole alla "pazzia" o di singoli individui o di collettività etniche, religiose, nazionalistiche, ecc.

Indice dei nomi

Adorno Theodor Wiesengrund, 72, 74. Agnelli (gruppo), 196. Agostino d'ippona, 59. Althusser Louis, 43, 51, 70, 73, 75, 91, 135. Angenot Marc, 61-62.

D'Holbach Paul-Henry Dietrich, 23. De Benedetti (gruppo), 196. Debord Guy, 101. Disraeli Benjamin, 40. Dostoevskij Fedor Michajlovic, 66. Durhezil Georges, 28. Durkheim Emile,53.

Bakunin Michail Aleksandrovic, 60. Baran Paul A., 163. Benjamin Walter, 72, 88. Bernstein Eduard, 61, 152. Bettelheim Charles, 13, 68. Bismarck-Schonhausen Otto von, 40, 77. Bloch Ernst, 31, 72, 78. Bobbio Norberto, 21. Bonzio Marco, 187 n. Bordiga Amadeo, 69. Braverman Harry, 170 n, 184 n. Breznev Leonid llic, 67. Bucharin Nikolaj lvanovic, 67, 77. Bush George, 89.

Einstein Albert, 71. Eltsin Boris, 70. Engels Friedrich, 31, 33, 42, 43, 49, 5 9 ,6 3 ,6 5 ,7 4 , 149, 150, 154, 170.

Cabet Etienne, 34. Calvino Giovanni, 106. Castro Fidel, 77. Ciano Galeazzo, 77. Clinton Bill, 89. Croce Benedetto, 60.

Feuerbach Ludwig, 23. Foucault Charles, 91. Fourier Frangois Marie Charles, 33, 117. Fukuyama Francis, 10, 21. Furet Frangois, 10. Gehlen Arnold, 48. Gesù di Nazareth, 12, 26, 27, 32, 59, 66 . Giolitti Giovanni, 40. Giovanni Evangelista, 27. Gorbaciov Michail Sergejevic, 67, 69, 70. Gramsci Antonio, 59, 63, 70, 101, 112.

Grandi Dino, 77.

Hegel Georg Wihelm Friedrich. 10, 13, 20, 41, 45, 49, 52, 54, 56, 7 i , 106. Heidegger Martin, 29, 48. Hilferding Rudolf, 163, 189. Hitler Adolf, 77. Hobbes Thomas, 48, 71. Hobsbawm Eric J., 75. Kant Immanuel, 10, 13, 20, 52. Kautsky Karl, 42, 49, 63, 65, 74, 135, 149, 161, 165 n, 170, 175, 181 n, 189. Kennedy Paul, 83. Keynes John Maynard, 53. Kohl Helmut, 77. Kolakowski Leszek, 61, 72. Korsch Karl, 72. Kruscev Nikita Sergejevic, 67. Kuhn Thomas S„ 63. La Grassa Gianfranco, 12, 44. Lasch Christopher, 86. Leibniz Gottfried Wilhelm von, 11. Lenin, Nikolaj Vladimir Il'ic Ul'janov, detto, 49, 63-66, 70. 74, 90, 106, 152, 153, 154, 163. Lincoln Abraham, 110. Lukàcs Gyorgy, 43, 72- 73, 75. Lutero Martin, 106. Luxemburg Rosa, 74. Lyotard Jean-Frangois, 21, 57.

Cicchetto Achille, 70. Owen Robert, 117. Panzieri Raniero, 170 n. Paolo di Tarso,26, 27. Pareto Vilfredo, 71. Parmenide, 28, 29. Pesenti Antonio, 13. Pietro apostolo, 59. Pietro il Grande, 65. Pitagora, 28. Platone, 12, 28-30, 32, 36-37,41, 54, 75. Plechanov Georgij Valentinovic, 42, 49, 63, 65, 74, 77. Popper Karl, 36, 54, 113. Preve Costanzo, 12-13, 119, 177, 187 n, 202 n-203. Reagan Ronald, 89. Ricardo David, 20, 60, 153. Robespierre Maximilien-Frangois de, 34. Rousseau Jean-Jacques, 34, 106. Sartre Jean-Paul, 72. Schumpeter Joseph Alois, 53. Smith Adam, 20, 84, 151. Spinoza Baruch, 31, 57. Stalin, Josif Vissarionovic Dzugasvili, detto. 49, 54, 59, 67, 77. Sweezy Paul M., 163 Sylos Labini Paolo, 21.

Mably Gabriel Bonnot de, 34. Mannheim Karl, 101. Mao Zedong, 69, 77. Meslier Jean, 33. Morelly, 33, 34. Moro Tommaso, 33. Muntzer Thomas, 31, 77. Mussolini Benito, 77.

Tocqueville Charles-Alexis Clerel de, 53,60,89. Tornasi di Lampedusa Giuseppe, 71. Tommaso d'Aquino, 32, 59. Trotskij Lev Davidovic, pseud. di Lejba Bronstein, 49, 67, 69, 77, 88. Turati Filippo, 61.

Nietzsche Friedrich, 60. Nolte Ernst, 21.

Weber Max, 52, 53, 60. WolfChristian, il.

Stampato nel mese di novembre 1996 dalla Litografica Abbiatense snc Abbiategrasso (Mi)