La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali 9788858432037

Un libro che va ormai annoverato tra i classici del pensiero europeo contemporaneo. La presente edizione offre numerosi

1,374 259 5MB

Italian Pages 603 Year 2019

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali
 9788858432037

Table of contents :
Indice......Page 603
Frontespizio......Page 5
Il libro......Page 600
L’autore......Page 601
Premessa (a uso del lettore italiano) di Marcello Massenzio......Page 6
La fine del mondo......Page 13
Introduzioni......Page 14
La storia di un libro fantasma......Page 15
Le sorprese dell’archivio, la prova di un’altra lingua......Page 25
I tre tempi della ricezione francese......Page 29
Marcello Massenzio: La fine del mondo nell’opera di Ernesto De Martino......Page 38
Il «doppio sguardo» dell’etnologo......Page 39
Il dramma soteriologico nella magia e nella religione......Page 42
La morte e le sue rappresentazioni culturali......Page 45
Cristianesimo e storia......Page 46
Daniel Fabre: La controversa ricezione de «La fine del mondo»......Page 51
Anacronismi e contraddizioni......Page 53
Domande e risposte......Page 57
Preambolo......Page 64
L’edizione del testo......Page 65
Apparato critico......Page 66
Ringraziamenti......Page 68
Ouverture Domani ci sarà un mondo?......Page 69
Il problema della fine del mondo......Page 72
Apocalisse del terzo mondo e apocalisse europea......Page 79
Il progetto......Page 90
Capitolo primo. Mundus......Page 93
Il caso del contadino di Berna......Page 97
Mundus patet......Page 119
Eterno ritorno e simbolismo mitico-rituale......Page 127
Capitolo secondo. Le apocalissi psicopatologiche......Page 152
Le esperienze vissute di fine del mondo......Page 158
Occorre partire dall’ethos del trascendimento......Page 173
Sociologia, psichiatria culturale, etnopsichiatria......Page 178
A quali condizioni l’esperienza di fine del mondo può essere definita patologica?......Page 194
Il religioso e lo psicopatologico: come pensare la loro interdipendenza?......Page 204
Capitolo terzo. Il dramma dell’apocalisse cristiana......Page 232
Le esigenze della ragione storica......Page 236
L’apocalisse culturale proto-cristiana come oggetto storico......Page 247
I limiti della teologia protestante......Page 257
Dalla metastoria alla storia......Page 279
Capitolo quarto. Apocalisse e decolonizzazione......Page 292
L’umanesimo etnografico......Page 298
I movimenti profetici......Page 304
Capitolo quinto. L’apocalisse dell’Occidente......Page 323
Una apocalisse senza escaton......Page 330
Le rotture della modernità estetica......Page 340
Abbiamo perso il sole......Page 349
Il mondo è indigesto......Page 356
Il mondo è assurdo......Page 365
Il mondo mi annoia......Page 371
Il mondo è vuoto......Page 375
Capitolo sesto. Antropologia e marxismo......Page 384
L’eredità di Croce......Page 391
Presenza, vitalità, storicità......Page 395
Marxismo e religione......Page 404
Limiti del materialismo storico......Page 417
Capitolo settimo. Antropologia e filosofia......Page 439
Il progetto comunitario dell’utilizzabile......Page 445
La natura è nella cultura......Page 451
Mondo vissuto, corpo vissuto......Page 457
Letture di Martin Heidegger: la quotidianità dell’esserci, l’essere-per-la-morte......Page 477
Per un’etnologia riformata......Page 488
L’etnologo al lavoro. L’etnologo al lavoro......Page 503
Appendici......Page 515
1. Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche......Page 516
2. Tavola delle corrispondenze......Page 550
Pubblicazioni di Ernesto De Martino......Page 565
Bibliografia generale......Page 568
Indice dei nomi......Page 591

Citation preview

Indice

Copertina Frontespizio Premessa. di Marcello Massenzio La fine del mondo Introduzioni Giordana Charuty: «Tradurre» La fine del mondo La storia di un libro fantasma Le sorprese dell’archivio, la prova di un’altra lingua I tre tempi della ricezione francese Marcello Massenzio: La fine del mondo nell’opera di Ernesto De Martino Il «doppio sguardo» dell’etnologo Il dramma soteriologico nella magia e nella religione La morte e le sue rappresentazioni culturali Cristianesimo e storia Daniel Fabre: La controversa ricezione de «La fine del mondo» Anacronismi e contraddizioni Domande e risposte Preambolo L’edizione del testo Apparato critico Ringraziamenti Ouverture Domani ci sarà un mondo? Il problema della fine del mondo Apocalisse del terzo mondo e apocalisse europea Il progetto Capitolo primo. Mundus Il caso del contadino di Berna Mundus patet Eterno ritorno e simbolismo mitico-rituale Capitolo secondo. Le apocalissi psicopatologiche Le esperienze vissute di fine del mondo Occorre partire dall’ethos del trascendimento Sociologia, psichiatria culturale, etnopsichiatria A quali condizioni l’esperienza di fine del mondo può essere definita patologica? Il religioso e lo psicopatologico: come pensare la loro interdipendenza? Capitolo terzo. Il dramma dell’apocalisse cristiana Le esigenze della ragione storica L’apocalisse culturale proto-cristiana come oggetto storico I limiti della teologia protestante Dalla metastoria alla storia

Capitolo quarto. Apocalisse e decolonizzazione L’umanesimo etnografico I movimenti profetici Capitolo quinto. L’apocalisse dell’Occidente Una apocalisse senza escaton Le rotture della modernità estetica Abbiamo perso il sole Il mondo è indigesto Il mondo è assurdo Il mondo mi annoia Il mondo è vuoto Capitolo sesto. Antropologia e marxismo L’eredità di Croce Presenza, vitalità, storicità Marxismo e religione Limiti del materialismo storico Capitolo settimo. Antropologia e filosofia Il progetto comunitario dell’utilizzabile La natura è nella cultura Mondo vissuto, corpo vissuto Letture di Martin Heidegger: la quotidianità dell’esserci, l’essere-per-la-morte Per un’etnologia riformata L’etnologo al lavoro. L’etnologo al lavoro Appendici 1. Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche 2. Tavola delle corrispondenze Bibliografia Pubblicazioni di Ernesto De Martino Bibliografia generale Indice dei nomi Il libro L’autore Copyright

Ernesto De Martino

La fine del mondo Contributo all’analisi delle apocalissi culturali Nuova edizione a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio

Premessa (a uso del lettore italiano)

Il titolo La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali può generare un equivoco che occorre dissipare sul nascere: il presente volume non è la riedizione dell’opera postuma di Ernesto De Martino, pubblicata nel 1977 a cura di Clara Gallini e riproposta successivamente, nel 2002, dall’editore Einaudi. Il testo che il lettore ha davanti agli occhi presenta non pochi elementi di sostanziale novità: esso riproduce l’edizione francese dell’opus magnum demartiniano, frutto di un approfondito riesame dei materiali raccolti ed elaborati dall’Autore per tradurre in atto il vasto progetto di ricerca sulle apocalissi culturali. Progetto che il grande antropologo e storico delle religioni napoletano, prematuramente scomparso, non ha potuto portare a compimento ma che, pur nella sua incompiutezza, lascia ben scorgere la solidità dell’impianto metodologico e la ricchezza concettuale che pervade ogni sua parte. In breve, la presente pubblicazione offre al lettore italiano l’opportunità di scoprire e/o riscoprire un’opera in fieri che, a buon diritto, merita di essere annoverata tra i classici del pensiero europeo contemporaneo. Per mettere in risalto lo spirito dell’indagine dedicata alla problematica apocalittica, lascio la parola all’Autore, citando un frammento del saggio in cui Cesare Cases rievoca il dialogo intercorso con De Martino poco prima della morte di quest’ultimo; nel corso del colloquio, particolarmente toccante, nella mente di Cases s’insinua il ricordo di una sua precedente conversazione con l’autore del Mondo magico, il quale si era espresso nei seguenti termini: La fine del mondo – mi disse una volta – c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo? 1.

Si rende necessario, a questo punto, accennare alle prerogative dell’edizione francese 2, che prospetta un’inedita articolazione delle parti

costitutive dell’opera postuma, la quale obbedisce a criteri interpretativi non coincidenti con quelli adottati nell’edizione italiana; le linee-guida sono esplicitate in dettaglio nelle introduzioni dei curatori (Charuty, Fabre, Massenzio), alle quali si rimanda il lettore. In sintesi, dal lavoro collegiale di revisione critica del vasto materiale preparatorio, protrattosi per vari anni, è scaturito un testo piú snello di quello già noto in Italia, rispettoso delle intenzioni dell’Autore, teso a promuovere una conoscenza piú approfondita del suo innovativo progetto di ricerca, analizzato all’interno di un quadro di riferimenti di portata europea. A queste indicazioni di carattere generale è necessario aggiungere una breve analisi dei principali tratti caratterizzanti La fin du monde, che rendono ragione della scelta einaudiana di proporne la traduzione al pubblico italiano. Prendendo spunto dalle citate introduzioni, occorre segnalare innanzi tutto l’intenzione di far emergere in piena luce il pensiero dell’ultimo De Martino: un pensiero complesso che nell’edizione italiana appare soffocato, in diverse occasioni, sotto il peso eccessivo di citazioni di brani tratti da opere di filosofi, romanzieri, storici delle religioni, psichiatri, antropologi, ecc. con i quali De Martino si confrontava o aspirava a confrontarsi. Brani raccolti, certo, dall’Autore, ma non sempre vivificati dalle sue osservazioni critiche: da tale considerazione è scaturita la decisione di conservare soltanto i passi annotati, in rapporto ai quali De Martino ha elaborato dialetticamente il proprio itinerario speculativo, definendo tanto la personale maniera di concettualizzare il tema della «fine del mondo», quanto il peculiare metodo d’analisi comparata sotteso all’indagine in atto. Alla medesima finalità – la messa in valore dell’impianto teorico – risponde, d’altro canto, l’inserimento di una selezione degli scritti filosofici dell’Autore 3, pienamente attinenti alla problematica trattata nel volume postumo, non presenti nell’edizione italiana. In questo quadro merita di essere posta in evidenza l’ulteriore decisione collettiva tendente a conferire il massimo risalto ai nessi tra le parti costitutive dell’opera postuma: ciò ha portato a ridisegnare l’intera architettura del volume nel rispetto delle indicazioni fornite da De Martino. In tale prospettiva mi limito a segnalare l’importanza del ruolo assunto dalla lettera spedita da Angelo Brelich a Giulio Bollati in data 16 gennaio 1967, la quale illustra lo stato dei materiali preparatori e, al tempo stesso, prospetta un’articolazione dei capitoli all’interno di un preciso piano di lavoro. Brelich conclude la sua disamina caldeggiando la pubblicazione del manoscritto

incompiuto nelle edizioni scientifiche Einaudi, perché ciò avrebbe fornito ai lettori la straordinaria opportunità di accedere ai segreti del laboratorio concettuale dell’ultimo De Martino: qui risiede il fulcro della missiva, depositata negli archivi della Casa editrice Einaudi, pubblicata per la prima volta, in traduzione, nell’edizione francese. La valutazione espressa da Angelo Brelich, condivisa da Giulio Bollati, è stata determinante ai fini della pubblicazione, nel 1977, de La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini: quest’ultima ha compiuto un’impresa davvero meritoria nel trasformare in un volume organico una massa ingente di materiali, alcuni molto elaborati, altri lasciati allo stadio di abbozzo. L’edizione francese, che pure è nata da un profondo ripensamento critico di quella italiana a circa quarant’anni di distanza, non sarebbe stata possibile senza una base solida cui appoggiarsi: è noto che la ricezione di un testo – e, nel caso specifico, di un testo che è un unicum nel campo delle scienze umane – muta nel tempo, poiché risente dei cambiamenti storici, dell’affiorare di nuove sensibilità culturali, nonché della caduta di paradigmi interpretativi obsoleti. L’edizione del 1977 ha suscitato – tranne poche eccezioni – non poche perplessità in ambito antropologico – e non solo – perché presentava un De Martino distante (perlomeno in apparenza) dalla sua immagine consolidata, strettamente collegata alle ricerche etnografiche condotte nel Meridione d’Italia. Non mi dilungo: Fabre e Charuty hanno trattato l’argomento nelle loro introduzioni in modo esauriente; mi preme soltanto rilevare che la pretesa scissione tra la dimensione filosofica e quella storico-etnografica – o, in altri termini, tra paradigma ontologico e paradigma storicistico – e, di riflesso, la polarizzazione dell’interesse scientifico sulla «trilogia meridionalista» hanno condizionato, in generale, l’approccio alla produzione demartiniana e, in particolare, hanno ostacolato la comprensione dello spessore dell’opera postuma, relegandola ai margini. L’ampia prefazione di Clara Gallini risente di una simile tendenza interpretativa e, al tempo stesso, la rafforza: la studiosa, pur riconoscendo l’elevatezza di un pensiero aperto alle grandi correnti della cultura europea, ha scorto nel progetto di ricerca sulle apocalissi i segni di un sostanziale ripiegamento dell’Autore su posizioni filosofiche ritenute inattuali, dovuto all’allontanamento dalle indagini sul campo, ricche di fermenti culturali innovatori che hanno alimentato la produzione etnologica di taglio storicistico.

La presa di distanza, variamente argomentata, da un volume dirompente, ha fatto sí che La fine del mondo divenisse un «libro fantasma»; si è dovuto attendere il 2002 per vederne la ristampa, corredata da una nuova introduzione di Clara Gallini – che ha rivisto con spirito critico le proprie posizioni 4 – e del sottoscritto: l’opera postuma di De Martino è finalmente tornata in modo stabile a occupare gli scaffali delle librerie, ha ripreso a circolare fra gli studiosi e gli studenti, ha cominciato a dispiegare la ricchezza di un pensiero che, con straordinaria lungimiranza, ha saputo cogliere le tensioni e le inquietudini profonde che attraversano ancora oggi la civiltà occidentale contemporanea. Il rinnovato interesse per la ricerca sulle apocalissi ha favorito, in contrasto con il passato, la progressiva presa di coscienza dell’unitarietà della produzione di De Martino, di cui rende ragione l’edizione francese dell’opera postuma; essa affiora alla superficie se si punta lo sguardo sui fattori ricorrenti, valutati sotto il duplice profilo teorico e metodologico. Da questo punto di vista La fine del mondo può ben rappresentare il culmine di un complesso processo speculativo che ha per oggetto costante, declinato nei modi piú vari, il problema dell’esserci, teso tra il rischio della crisi radicale e la ricerca di riscatto. Crisi insita nella nozione stessa di presenza umana nel mondo che, per affermarsi come «trascendimento della situazione nel valore», è tenuta a difendersi dall’insidia permanente della sua dissoluzione, grazie all’azione protettiva esercitata, in prima istanza, dai sistemi simbolici magico-religiosi. Crisi che esplode allorché questi ultimi, caduti in desuetudine per ragioni storico-sociali, non sono sostituiti da nuove formazioni simboliche rispondenti al mutato spirito dei tempi. È in un simile «vuoto» che si materializza lo spettro della fine: qui è da ricercare, verosimilmente, la radice ultima dell’interesse di De Martino – scientifico ed etico, a un tempo – per la problematica apocalittica. Ancor prima di dare avvio alla fase ultima della sua ricerca, De Martino ha avuto modo di registrare un fenomeno che ha reso palpabile l’esaurimento della funzione salvifica propria delle istituzioni tradizionali a carattere magico-religioso: ciò è avvenuto in una data precisa – il 28 e il 29 giugno 1959 – nell’ambito dell’inchiesta etnografica dalla quale è scaturita l’operacapolavoro La terra del rimorso 5. La notorietà del tarantismo è tale da esimermi dall’obbligo di descriverlo in modo accurato: si tratta, in estrema sintesi, di un istituto mitico-rituale cui è demandato il compito fondamentale

d’incanalare e di far defluire la crisi della presenza indotta dal «veleno» iniettato nel corpo dei tarantati dal morso di un ragno mitico, la Taranta per l’appunto. Il tessuto simbolico evoca, trasfigurandola, una condizione esistenziale marcata da una forma estrema di disagio e di smarrimento, che si manifesta in concomitanza con un momento particolarmente critico del ciclo agrario. Da qui il bisogno di ricorrere al potere catartico garantito dal rituale in cui l’elemento musicale, quello coreutico e quello cromatico, fusi insieme in modo mirabile, giocano un ruolo essenziale. Nella cappella di San Paolo a Galatina De Martino ha visto svanire l’incanto del rito, assistendo al susseguirsi di scene apocalittiche che testimoniavano del tarantismo in statu moriendi, essendo deprivato dell’indispensabile corredo di musica, di danza, di colori; deprivato, quindi, della sua efficacia: ciò risultava tanto piú sconvolgente in quanto pochi giorni prima l’etnologo aveva assistito a un esorcismo domiciliare eseguito nel pieno rispetto della prassi rituale e, pertanto, risolutivo della crisi. L’Autore ci ha lasciato una descrizione vivida, di rara intensità, che lascia trasparire il turbamento generato dallo «spettacolo» che aveva avuto luogo nella cappella di San Paolo a Galatina; ne stralcio un brano pregnante: Avevamo ancora nella memoria l’esorcismo musicale visto pochi giorni prima a casa di Maria di Nardò, cosí ordinato e regolare: […] ma ora davanti ai nostri occhi non vi era che un intrecciarsi di crisi individuali senza orizzonte, il disordine e il caos. In cappella non vi erano né la musica, né i nastri colorati, né l’ambiente raccolto del domicilio, né tutto il vario simbolismo messo in moto dall’esorcismo musicale in azione: e in assenza di questo tradizionale dispositivo di evocazione e di deflusso i tarantati naufragavano. […] Le scene che vedevamo dall’alto della nostra tribuna ad audiendum sacrum ci davano l’impressione di pietruzze colorate in un caleidoscopio in frantumi: inerti abbandoni al suolo, agitazioni psicomotorie incontrollate, atteggiamenti di depressione ansiosa, scatti di furore aggressivo, e ancora archi isterici, lenti spostamenti striscianti sul dorso, abbozzi di passi di danza, tentativi di preghiere, di canti, conati di vomito 6.

Un filo sottile lega questa tragica visione, che testimonia della fine di un microcosmo culturale, all’indagine sulla fine del mondo che si segnala per la straordinaria ampiezza del respiro e per il rilevante spessore teorico. La ricerca sulle apocalissi, alla quale occorre far ritorno, non ha un carattere accademico, ma è animata dal bisogno di fare luce sul presente della civiltà

occidentale, che è attraversata da una crisi che sembra corroderne le fondamenta dall’interno, avviandola verso un probabile, irreversibile declino. Il punto di forza dell’impianto comparativo che sostiene l’analisi risiede nell’estensione del confronto critico alle apocalissi psicopatologiche che sono prive di orizzonte di riscatto proiettato nel futuro e, come tali, fungono da polo di riferimento per comprendere il tipo di orientamento che caratterizza le formazioni apocalittiche storicamente documentate: dove risiede il tratto distintivo di queste ultime? Nel documentare l’assenza di ogni prospettiva futura o, al contrario, nel mettere in risalto l’aspirazione alla palingenesi, che si materializza in un nuovo corso dell’esistenza collettiva fondata su basi radicalmente diverse dal passato? A quale delle due categorie è accostabile l’apocalittica occidentale contemporanea, della quale la letteratura, la filosofia, le arti in genere offrono copiose testimonianze? Sono questi alcuni degli interrogativi ai quali De Martino intende fornire una risposta, seguendo un percorso fondato sulla dialettica del confronto tra l’Occidente e il «culturalmente alieno», in linea con i principî costitutivi del nuovo umanesimo (o «umanesimo etnografico») teorizzato in alcune delle pagine piú dense dell’opera postuma. Lo studioso affronta una serie di nodi cruciali, a partire dal tema dello «spaesamento» radicale dell’uomo occidentale che tanta parte ha nella moderna letteratura della crisi (si pensi, ad esempio, a La nausea di Jean-Paul Sartre), indagata con l’occhio acuto dell’etnografo. La riflessione demartiniana – frutto dell’inedito intreccio di antropologia, filosofia, storia – verte, tra l’altro, sulla funzione della memoria storica; sulla nozione-cardine di «domesticità del mondo», formazione storica nella quale si sedimentano le scelte culturali individuanti una determinata civiltà: è dal suo sfaldamento che trae origine il senso di spaesamento che inibisce l’agire culturalmente orientato. Chi si accosta oggi a un’opera-laboratorio cosí impegnativa potrà trovarvi piú di un tema che lo riguarda da vicino; egli potrà aderire alle interpretazioni prospettate da De Martino oppure prendere criticamente le distanze da esse, ma è difficile che resti indifferente, che non si senta coinvolto, che non prenda atto degli stimoli a pensare disseminati nel testo. Su un punto essenziale – credo – il lettore si troverà in sintonia con l’antropologo napoletano: l’esigenza di conoscere il presente, di rischiararne le contraddizioni alla luce della ragione storica, al fine di dare un orientamento consapevole al proprio agire nel sociale, in vista della costruzione di un

progetto condiviso di futuro. MARCELLO MASSENZIO 1. C. CASES, Un colloquio con Ernesto de Martino, in ID ., Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, Einaudi, Torino 1985, p. 53. 2. La fin du monde. Essai sur les apocalypses culturelles, testo stabilito, tradotto dall’italiano e annotato sotto la direzione di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, Éditions École des hautes études en sciences sociales, Paris 2016. I vari interventi rispetto all’edizione francese hanno lo scopo di indirizzare il libro al lettore italiano. 3. E. DE MARTINO, Scritti filosofici, a cura di Roberto Pàstina, il Mulino, Bologna 2005. 4. Merita di essere segnalata l’onestà intellettuale che ha determinato la decisione di Clara Gallini di sopprimere la sua precedente introduzione. 5. E. DE MARTINO, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1961. 6. Ibid., p. 111.

LA FINE DEL MONDO

In memoria di Daniel Fabre (1947-2016)

Introduzioni

Giordana Charuty «Tradurre» La fine del mondo

Nell’ambito delle scienze umane, le imprese legate alle traduzioni comportano spesso conseguenze inattese. Dai seminari, dalle giornate di studio e dalle pubblicazioni che hanno visto la luce tra Roma e Parigi ha progressivamente preso forma una convinzione: rileggere Ernesto De Martino non era necessario soltanto al fine di aprire l’antropologia alle inquietudini che accompagnarono l’ingresso in un nuovo secolo. Bisognava anche rendere accessibile l’immensa ricchezza di quel pensiero fecondo al di là delle frontiere della sua lingua. Ma inscrivere un’opera-vita in universi culturali e intellettuali diversi da quelli che l’avevano visto nascere libera invariabilmente delle nuove potenzialità: ecco l’esperienza che anche noi abbiamo vissuto. Ma in che modo penetrare, senza perdervisi, nel laboratorio di un pensatore cosí particolare?

1. La storia di un libro fantasma. Fin dall’inizio ci risultò necessario prendere confidenza con la storia di un libro che anche in Italia era stato atteso a lungo. Che cosa accadde fra la morte di De Martino, avvenuta nel maggio del 1965, e questa pubblicazione? Qual era lo stato della ricerca al momento della scomparsa dello studioso? Perché un’attesa cosí lunga? Queste domande, alle quali la prima edizione del 1977, benché introdotte da un ampio saggio di Clara Gallini, rispondeva solo in parte 1, sorgono di nuovo nell’edizione del 2002 2. Essa ripropone lo stesso fitto insieme di frammenti redatti in una o piú versioni, di lunghezza che varia da poche righe a piú pagine, letture citate, tradotte, parafrasate, schemi progettuali, elenchi di domande e di bibliografie che ormai costituiscono il testo di riferimento, pur presentandosi in un modo diverso grazie a una nuova introduzione, cofirmata con Marcello Massenzio, che rovescia punto per punto le critiche formulate nella prima. Lunga quasi un centinaio di pagine, la strana argomentazione della prima edizione presentava l’opera ancora in fieri come una summa dei grandi temi

del pensiero demartiniano che, anticipatrice dei dibattiti sull’ideologico allorché si appropriava delle categorie gramsciane dell’egemonico e del subalterno, era diventata irrimediabilmente datata nel momento in cui faceva ritorno a Martin Heidegger. «Dobbiamo riconoscerlo: scoprire negli anni Sessanta l’ethos del trascendimento era quanto meno ignorare le nuove strade che il materialismo andava ormai aprendo sia in Italia che all’estero» 3. Si era dunque di fronte a un’impresa anacronistica. A partire dalla seconda edizione, questi dossier di lavoro, sicuramente refrattari a ogni semplificazione di lettura, vengono invece presentati come un’«opera» particolarmente innovatrice per l’epoca, e che ha conservato tutta la sua attualità. Di fatto, al di là delle infinite esegesi, nuove letture provenienti da tutti gli orizzonti disciplinari chiamati in causa da De Martino, inscrivono oggi questo «libro», inizialmente recepito da alcuni come un «non libro», nell’attualità scientifica e culturale italiana. Ma al di là di un simile rovesciamento di valutazione, che esige a sua volta di essere analizzato, nel 2002 comincia a profilarsi una genesi del volume totalmente diversa da quella proposta ai primi lettori. È questa la storia che si è dovuto innanzitutto rileggere mettendo a confronto lo studio degli archivi con le ricerche a disposizione 4. La nuova nota editoriale introdotta nel 2002 forniva, a quanto pare, tutte le informazioni necessarie per comprendere una cosí lunga gestazione 5. Essa svela la presenza di un direttore dei lavori – del quale, fino a quel momento, nulla aveva lasciato intuire l’esistenza – che si circonda di una piccola équipe di collaboratori dalle competenze differenti. Si tratta di Angelo Brelich, l’antichista di fama internazionale, che dal 1958 occupa la cattedra di Storia delle Religioni della scuola romana fondata da Raffaele Pettazzoni 6. Due mesi dopo la morte di De Martino, quest’amico di lunga data organizza una riunione con Vittoria De Palma, compagna e collaboratrice di De Martino, Clara Gallini, sua assistente a Cagliari, Giovanni Jervis, il giovane psichiatra che ha partecipato all’inchiesta sul tarantismo e al progetto sugli immaginari apocalittici, e Giancarlo Montesi, presentato come un allievo di De Martino, fra le carte del quale sono poi stati rinvenuti 22 fascicoli riguardanti quest’opera in fieri. Nella prima riunione si distribuiscono i compiti, si pianificano incontri d’aggiornamento collettivo che avrebbero scandito l’avanzare del lavoro editoriale. Sin dall’inizio s’impongono alcuni criteri: non «ricostruire» il libro secondo ipotetiche intenzioni, bensí presentare il lavoro nel suo stato originario, attraverso una «cucitura» – un montaggio

redazionale – che privilegi i frammenti autografi. Viene prevista un’introduzione generale, il cui autore sarà individuato in un secondo momento. Un anno e mezzo dopo, il 16 gennaio del 1967, Brelich invia una lunga nota a Guido Bollati, editor presso Einaudi, aggiornandolo sullo stato d’avanzamento del lavoro e sul ritiro di Jervis. La struttura del libro è a questo punto stabilita, lo stato dei materiali per ogni capitolo è noto, e i criteri dell’edizione tengono ormai conto delle loro differenti stratificazioni, in modo da rispettare le concrete modalità di lavoro dello studioso, i suoi «segreti d’officina». In quanto coordinatore, Brelich è diventato il garante di un’etica della fedeltà a un «libro in corso d’opera» che non cerca né di ritrovare l’ordine nascosto sotto il disordine, né di imporre una fissazione del senso laddove coesistono modi di pensare e di scrivere che permangono in uno stato di instabilità. Questo protocollo stabilisce tuttavia delle regole precise: il manoscritto nella sua interezza, inclusi i punti controversi, dovrà avere l’accordo di tutti e tre i curatori (Brelich, Gallini e Montesi) e della stessa Vittoria De Palma, in modo da evitare «errori, disattenzione, soggettivismo di ognuno»; termini accuratamente scelti, che sembrano riecheggiare le discussioni che dovettero costellare quell’anno e mezzo d’immersione nel cantiere de La fine del mondo. Infine, Brelich propone se stesso come autore dell’introduzione. Il contratto, firmato il 15 giugno 1967, riporta un titolo provvisorio: L’esperienza apocalittica, e continua a riconoscere tre curatori scientifici, Brelich, Gallini e Montesi; ma quest’ultimo si ritirerà a sua volta due anni piú tardi 7. Sono anche evocate le «situazioni dolorose e paralizzanti» 8 che portarono alla stipula di un nuovo contratto, il 12 marzo 1976, che riconosceva ormai in Clara Gallini l’unica curatrice scientifica. Si può tentare d’individuare alcune di queste situazioni. Oltre al ritiro di Montesi, i rapporti fra Brelich e Gallini sembrano essersi complicati dopo la pubblicazione, nel 1970, di Protesta e integrazione nella Roma antica, che suscitò fra gli antichisti numerose riserve di ordine metodologico 9. Alcuni anni dopo, il 30 settembre 1977, gravemente malato per un tumore alla gola, Brelich mette fine ai suoi giorni, senza poter vedere pubblicato La fine del mondo, che uscirà il 17 dicembre dello stesso anno. Ma altre defezioni avranno luogo, non esclusivamente riconducibili alle difficoltà insite in un’edizione postuma. Quella del neuropsichiatra romano

Bruno Callieri è soprattutto legata alla politica culturale che nei primi anni Sessanta prevaleva nella casa editrice Einaudi. La primissima forma assunta dall’inchiesta sugli immaginari apocalittici si presentava in effetti come un saggio scritto da due autori – il medico e l’antropologo – e s’intitolava L’esperienza della fine del mondo nella schizofrenia e nella vita religiosa 10. Quando, nel dicembre 1960, De Martino presenta questa collaborazione con «uno dei migliori rappresentanti della psicopatologia esistenzialista», il trentottenne Callieri, assistente in una clinica per malattie mentali dal 1956, si accinge a fare un periodo d’internato presso la clinica di Heidelberg, sotto la direzione del successore di Karl Jaspers, Kurt Schneider, di cui diventerà il traduttore per la lingua italiana. Callieri conosce Il mondo magico 11, che mette in relazione con la propria esperienza clinica. Nella sua prima versione, dopo un’introduzione firmata a quattro mani che collegava per l’appunto il nuovo saggio a quel volume, ogni autore avrebbe redatto dei capitoli distinti. Il medico avrebbe descritto, nei primi due, l’esperienza del crollo del mondo nella psicosi, in letteratura e nelle arti visive, e presentato un’interpretazione psicopatologica d’ispirazione esistenzialista. L’antropologo si sarebbe fatto carico dei tre capitoli successivi: la problematica generale dell’instabilità della relazione a sé e al mondo e delle forme culturali di restaurazione di una presenza al mondo, le rappresentazioni mitiche dell’origine e della fine del mondo proprie delle religioni escatologiche, la loro ripresa nei movimenti di liberazione del Terzo Mondo, riservandosi anche di scrivere le conclusioni. Tutte prospettive che De Martino conserverà, rielaborandole a modo suo, nei progetti successivi. Proporre il saggio a Einaudi, ci insegna Luisa Mangoni, risponde all’intento di ristabilire dei rapporti di lavoro con l’editore torinese, che si erano interrotti sul finire del 1957, dopo il fallimento del progetto della collana «Inchieste e documenti», volta a far riconoscere l’etnografia come modello d’inchiesta scientifica 12. Due anni dopo, per animare il settore «Religione e società», De Martino si era riproposto con un vasto progetto di scienze sociali in cui prevedeva di tradurre classici come Max Weber, la sociologia religiosa francese del cattolicesimo e alcuni studi dedicati ai movimenti religiosi di liberazione coloniale. Infine, nell’estate del 1962, previo cambio di titolo, La fine del mondo figura nell’elenco delle opere proposte per una collana autonoma di «Scienze religiose», concepita come seguito della defunta «Collana viola», costruita all’indomani della guerra con

Cesare Pavese. La presentazione di tale nuova collana sembra corrispondere esattamente a questa ricerca personale, di cui si ritrovano tutte le tematiche. Nell’immediato dopoguerra, spiega De Martino 13, si trattava di aprire la cultura italiana a due alterità, in ugual misura misconosciute dall’umanesimo classico: quella delle culture non occidentali, e quella, presente in ciascuno di noi, dell’attività psichica inconscia. Per lui i temi «[…] della vita religiosa, della magia, del mito, del simbolo, del sogno e dell’inconscio costituiscono in un certo senso il terreno elettivo delle battaglie perdute per una ragione che non è piú sicura di se stessa». La ricerca di una razionalità aperta a questi oggetti si è in effetti troppo spesso trasformata in una «abdicazione», ovvero in una ricerca spirituale piú o meno mascherata. D’altra parte l’analisi scientifica del religioso si è arricchita di una molteplicità di approcci: a fianco della psicoanalisi, bisogna prendere in considerazione la psichiatria esistenzialista, la psichiatria sociale e l’etnopsichiatria; la stessa analisi marxista deve ripensare la sua celebre teoria del «rispecchiamento» per sviluppare una storia e una sociologia della religione. Infine, nota De Martino, la congiuntura storica è cambiata, essendo ormai segnata dalla mobilitazione religiosa dei movimenti di liberazione anticoloniale, dagli sforzi di adattamento delle chiese cristiane alla modernità e alla costruzione delle società senza dèi e senza religione. Del resto, la collana si propone di accogliere tutte le discipline – filosofia, storia, sociologia, psicologia, psichiatria, etnologia – e tutti gli orientamenti culturali, incluso l’ateismo. A seconda dei campi, si farà riferimento a diversi specialisti, fra i quali, per quanto riguarda il mondo classico, ritroviamo Brelich. Il gesto di rifondazione disciplinare che aveva condotto nell’immediato dopoguerra a inserire Il mondo magico in una collana fatta essenzialmente di traduzioni viene dunque replicato, quindici anni dopo, presso lo stesso editore. Tuttavia, da un lato le traduzioni, proposte da De Martino, di Rudolf Otto, di Oscar Cullmann e di Rudolf Bultmann – rappresentanti di un movimento di demitologizzazione del Cristianesimo interno alle chiese – si scontrano con problemi di concorrenza per l’acquisizione dei diritti d’autore; dall’altro non c’è piú il preveggente Pavese, per resistere a quelle che egli ironicamente chiamava le «velleità marxiste dei consulenti ideologici» di Giulio Einaudi. Certo, il progetto de La fine del mondo viene accolto con entusiasmo, ma i germanisti Cesare Cases e Renato Solmi sconsigliano vivamente la collaborazione con Bruno Callieri 14. De Martino si adegua e

torna a coinvolgere Jervis, replicando la formula adottata per La terra del rimorso: l’unico autore del libro sarà lui, mentre il ruolo dello psichiatra, assicura, sarà limitato alla ricerca bibliografica, all’osservazione clinica negli ospedali romani, al controllo della lettura antropologica dei dati clinici e all’eventuale redazione di un’appendice. Nel 1964 De Martino partecipa a due convegni 15 e pubblica nella rivista «Nuovi Argomenti» 16 un articolo relativo a questa ricerca: «Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche». Nelle lunghe note bibliografiche riguardanti l’ambito psicopatologico, l’autore riconosce ampiamente il suo debito documentario nei confronti di Callieri e, ancor di piú, di Jervis. Di fatto, il fallito progetto di collaborazione con il primo rappresentò il punto di partenza di un incontro essenziale fra l’antropologo e il medico, che piú volte racconterà di un rapporto reciprocamente proficuo. Per quanto riguarda il contributo di Jervis, ben presto ritiratosi dal progetto di edizione postuma, solo l’introduzione alla prima edizione si limita a sottolineare brevemente le perplessità dello psichiatra circa l’esistenza di una categoria unificata di «esperienza vissuta di fine del mondo», facendo riferimento a un lungo rapporto, redatto su richiesta dell’antropologo, e pubblicato autonomamente dopo la morte di De Martino 17. Quest’importante articolo di De Martino permette di intravvedere come, fra il progetto iniziale e l’ultimo stadio del libro in fieri, l’autore abbia scoperto un nuovo terreno etnografico, che giustifica la presentazione della sua ricerca nella rivista dello scrittore Alberto Moravia: quello della letteratura, che doveva inizialmente essere trattato, assieme all’arte dei folli, da Callieri nella prospettiva inaugurata da Jaspers con il suo studio su August Strindberg, Vincent Van Gogh e Friedrich Hölderlin 18. Allo sguardo del clinico della cultura, diverse espressioni della letteratura coeva confermano un immaginario contemporaneo e laicizzato della fine di un mondo storico – quello della società borghese – concepito come simmetricamente opposto all’immaginario comunista. Nella prospettiva di quest’articolo, l’analisi parte dal presente occidentale decristianizzato per risalire alle società antiche e alle religioni storiche, tornando poi all’uso politico del modello millenarista cristiano da parte delle società in via di decolonizzazione. De Martino avrebbe costruito in questo modo il suo libro? Stando ai risultati del gruppo di lavoro immediatamente costituitosi dopo la sua morte nessuno potrebbe dirlo, come dimostrano i due documenti citati in precedenza, e che qui

pubblichiamo per la prima volta integralmente, eccezion fatta per le finali richieste di retribuzione di Brelich.

Verbale della riunione del 6/7/65 19. Presenti: Prof. Angelo Brelich, Prof. Clara Gallini, Dr. Giovanni Jervis, Dr. Giancarlo Montesi e Vittoria De Palma. 1.

Esposizione da parte del prof. Brelich di un piano redazionale per la pubblicazione del materiale «fine del mondo».

2.

Problema dell’ampliamento dei collaboratori. Si conviene di chiedere al Prof. Cases (Jervis) e al Prof. Cirese (Brelich).

3.

Problema dei diritti degli eredi. Il prof. Brelich parlerà loro, al fine di addivenire a un atto notarile in favore di Vittoria, riguardante gli scritti inediti, che ci riguardano piú direttamente per la «fine del mondo». Circa gli scritti editi ma «dispersi» il dr. Jervis chiederà a Einaudi circa la prassi da seguire.

4.

In rapporto al punto 1) il prof. Brelich ritiene che a) il libro non vada «ricostruito» secondo le «intenzioni» di De Martino ma che il lavoro vada «presentato» nello stato in cui è attualmente, con una cucitura redazionale che leghi insieme un minimo di citazioni di altri Autori (di Autori citati da De Martino) e un massimo di note autografe di De Martino; b) questo lavoro redazionale vada fatto in collaborazione a seconda delle rispettive competenze; gli interventi redazionali andranno ridotti al minimo.

5.

Gli interventi redazionali verranno scritti in massima parte in collaborazione da Gallini-Montesi (poi discussi, capitolo per capitolo, in gruppo, in seguito redatti in forma definitiva, poi nuovamente approvati in gruppo). Questi interventi redazionali andranno inseriti nel testo come «corsivi», e scritti come «cappelli» ai singoli capitoli. Verrà discusso in seguito il problema di chi farà l’introduzione generale al volume.

6.

Si accetta la seguente proposta di Montesi: inserire eventualmente brani scritti in passato da De Martino e aventi una attinenza indiretta con l’argomento (sempre con l’intento di dare al volume un carattere unitario).

7.

Il primo problema pratico redazionale sarà di selezionare il materiale e di dargli un ordine (Gallini-Montesi).

8.

Problema di copiare il materiale grezzo totale esistente in varie copie in modo

che ciascuno se lo possa portare in casa. Ciò potrebbe esser fatto in parte da Vittoria, in parte da Giulia Piccaluga, in parte (o totalmente) a cura di Einaudi. 9.

Il dott. Jervis oltre a collaborare alla redazione per la parte che gli compete manterrà la propria appendice al volume. Sempre in appendice si potrà pubblicare l’articolo di «Nuovi Argomenti».

10.

Eventuale collaborazione marginale non continuativa di Runcini.

Appunti presi dal dr. Jervis, letti e approvati come pro-memoria.

Schema dell’ultima opera di Ernesto de Martino 1.

Rapporti tra le esperienze apocalittiche di natura psicologica, psicopatologica e culturale.

2.

Il mundus. Analisi del sogno di un contadino svizzero, in cui la disintegrazione del cosmo prende avvio da un buco fatto nella terra. L’argomento porta l’autore a studiare il mundus nella antica religione romana. Nello stesso capitolo, oltre all’aspetto spaziale, sarebbe stato affrontato anche l’aspetto temporale della medesima esperienza; si discute del tempo profano come durata e del tempo sacro come tempo ciclico.

3.

Il dramma dell’apocalissi cristiana. Esame della letteratura neotestamentaria relativa alla fine del mondo e alla parusia. Polemica contro Cullmann e Bultmann.

4.

Apocalisse e decolonizzazione. Appunti sparsi sulle esperienze apocalittiche dei leaders dei vari movimenti di liberazione presso popoli coloniali.

5.

Il dramma dell’apocalissi marxiana. Alcuni brani, a cominciare da un «prologo crociano» trattano dell’eredità crociana e dell’ethos del trascendimento. Alcuni esaminano il rapporto tra io, corpo e mondo, attraverso la discussione delle posizioni di Janet, Bergson, Proust, Sartre, Merleau-Ponty, il «gestaltismo», ecc. Alcuni, infine, si occupano degli aspetti escatologici del marxismo e, in generale, di «marxismo e religione».

Lettera di Angelo Brelich a Guido Bollati 20 Roma, 16.1.67. Caro prof. Bollati, purtroppo la riunione di coloro che si occupano del volume postumo di Ernesto De Martino, non ha potuto aver luogo prima delle feste. L’abbiamo fatta, finalmente, ieri sera

nell’appartamento in via Caterina Fieschi 1, ultima abitazione di De Martino, dove si trovano tuttora i suoi libri e manoscritti, custoditi dalla sua compagna di vita Vittoria. Erano presenti Vittoria, la prof. Clara Gallini, ex assistente di De Martino, oggi professore incaricato all’Università di Cagliari, il dott. Giancarlo Montesi, laureato in Storia delle religioni ancora con Raffaele Pettazzoni e uno dei «fedeli» di De Martino, e io. Era assente – e sembra ormai definitivamente disinteressato al progetto – il dott. Jervis di cui possediamo un dattiloscritto di 41 cartelle che era concepito (ancora da De Martino) come appendice al volume. In base a un accurato riesame della situazione, Le posso dare ora le seguenti informazioni: Ordine dei capitoli De Martino stesso ha lasciato uno schema scritto dell’opera che si sarebbe articolata nei seguenti capitoli: Prefazione. – Introduzione. I. Mundus. – II. Il dramma dell’apocalisse cristiana – III. Apocalisse e decolonizzazione – IV. Il dramma dell’apocalisse marxiana. – Epilogo. Lo stato del materiale permette di conservare il medesimo ordine dei capitoli, salvo a trasformare l’Introduzione in un vero e proprio Capitolo I (dato che essa è una delle parti relativamente piú compiute) e a scalare la numerazione dei capitoli successivi. Stato del materiale a) In generale: Si tratta, da una parte, di una notevole massa di materiale grezzo (stralci e citazioni da opere altrui, raccolta di materiale su qualche argomento singolo, appunti bibliografici, ecc.). Parte di questo materiale grezzo è tuttavia glossata, a volte in maniera assai significativa, dall’autore. D’altra parte, esistono numerosi brani originali – alcuni in piú di una redazione – che erano destinati a far parte del testo. Quantitativamente, questi brani possono essere stimati intorno a 300-450 cartelle dattiloscritte: ma non si tratta, per lo piú, di cartelle piene. Tutti questi brani contengono discorsi continui, ma per la maggior parte sono brevi (anche da meno di una pagina a 8-10 pagine); alcuni sono piú lunghi. b) In particolare: (Do la sommaria indicazione degli argomenti dei capitoli previsti, segnalando l’approssimativa quantità delle cartelle del materiale e l’approssimativo ammontare, tra queste, dei brani originali). I.

Rapporti tra le esperienze apocalittiche di natura psicologica, psicopatologica e culturale. (Oltre 200 cartelle di cui quasi la metà di brani originali).

II.

Il mundus. Analisi del sogno di un contadino svizzero, in cui la disintegrazione

del cosmo prende avvio da un buco fatto nella terra. L’argomento porta l’autore a studiare il mundus nell’antica religione romana. Nello stesso capitolo, oltre all’aspetto spaziale, sarebbe stato affrontato anche l’aspetto temporale della medesima esperienza; si discute del tempo profano come durata e del tempo sacro come tempo ciclico. (L’insieme delle cartelle, per questo capitolo, ammonta a circa 150; l’analisi del sogno è pressoché compiuta (circa 20 pp.); per il mundus, invece, non vi è che raccolta di materiale, senza appunti originali; per il problema del tempo vi sono 20-30 cartelle originali, contenenti, tra l’altro, una critica delle concezioni di Van der Leeuw e di Eliade). III.

Il dramma dell’apocalissi cristiana. Esame della letteratura neotestamentaria relativa alla fine del mondo e alla parusia. Polemica contro Cullmann e Bultmann. (Cartelle: circa 90 di cui circa la metà di brani originali).

IV.

Apocalisse e decolonizzazione. Appunti sparsi sulle esperienze apocalittiche dei leaders dei vari movimenti di liberazione presso popoli coloniali. (Cartelle: circa 120 di cui appena 20-30 di discorso originale, contenente una polemica contro Mühlmann).

V.

Il dramma dell’apocalissi marxiana. Non si vede ancora la precisa struttura (e forse nemmeno il titolo) di questa che è una delle parti piú importanti dell’opera. Alcuni brani, a cominciare da un «prologo crociano», trattano dell’eredità crociana e dell’ethos del trascendimento. Alcuni esaminano il rapporto tra io, corpo e mondo, attraverso la discussione delle posizioni di Janet, Bergson, Proust, Sartre, Merleau-Ponty, il «gestaltismo», ecc. – Alcuni, in fine, si occupano degli aspetti escatologici del marxismo e, in generale, di «marxismo e religione». (Materiale di circa 315 cartelle di cui poco meno della metà di scrittura originale).

Vi è, infine, una certa quantità di cartelle relativa all’esperienza apocalittica nella letteratura contemporanea (a cominciare con Lawrence e Th. Mann, poi Camus, Sartre, Moravia, Pavese). Di questa parte non si vede, per ora, il posto preciso nella struttura dell’opera. Lavoro richiesto ai collaboratori: 1.

Coordinamento dei brani secondo un filo logico corrispondente – nei limiti del possibile – al modo di pensare dell’autore (tenuto conto di tutte le indicazioni che si possono ricavare dai testi stessi).

2.

Valutazione del materiale grezzo, per decidere quanto di esso debba necessariamente essere riportato nel volume (senza certe citazioni, anche lunghe, i

discorsi originali non risulterebbero comprensibili), quanto invece possa o debba essere scartato o, eventualmente, ridotto a note bibliografiche o altro. «Ricucitura» dei brani, ove sia necessario, con un minimo di indicazione del

3.

collegamento tra di essi. Il criterio emerso nelle nostre discussioni è quello di rispettare al massimo l’originale; l’ideale sarebbe, teoricamente, non aggiungervi nulla; in pratica ciò non sarà possibile, ma vorremmo contenere gli interventi inevitabili – tipograficamente ben distinti dai testi originali e dal materiale riportato – nei limiti piú stretti, per non falsare eventualmente il pensiero dell’autore, attribuendogli idee o formulazioni che non avrebbe accettate. Forme della collaborazione: La prof. Gallini e il dott. Montesi, in una prima fase, lavorerebbero indipendentemente. Successivamente confronterebbero e discuterebbero insieme i risultati raggiunti da ciascuno. Per il testo concordato e per i punti discutibili sentirebbero, infine, anche il mio parere. Questa triplice filtrazione e ridiscussione della moles indigesta del materiale darebbe, mi sembra, sufficienti garanzie contro errori, disattenzione, soggettivismi di ognuno di noi. Anche Vittoria De Martino sarebbe costantemente ascoltata. – Eventualmente – ma di questo si potrà parlare a lavoro compiuto – potrei incaricarmi io di un’Introduzione. Risultati previsti Si tratta, dunque, di un lavoro quanto mai impegnativo, complesso, faticoso e, soprattutto, delicato. Ma il risultato potrà valere gli sforzi investiti. Verrebbe fuori un volume (penso di 600-750 pagine) – frammentario, eterogeneo (tra pagine scritte di pugno dall’autore e materiale, note bibliografiche, indicazioni di collegamento, ecc.), quanto si vuole, ma vivo e ricco di pensiero, da cui emergerebbero non solo le idee e il metodo, ma anche il concreto modo di lavorare, i segreti d’officina, dell’ultimo De Martino. […] Angelo Brelich

2. Le sorprese dell’archivio, la prova di un’altra lingua. All’esame dei dossier è dunque subito emerso un piano dell’opera in gestazione che, pur lasciando sussistere alcune incertezze che sono sicuramente alla base del carattere anomalo dell’edizione postuma, un anno e mezzo di lavoro avrebbe poi confermato. A prima vista, lo schema dell’opera

individuato sembra essere stato rispettato, a parte poche eccezioni, come ad esempio la raccomandazione di rendere autonoma, assegnandole un capitolo specifico, la documentazione clinica destinata a elaborare la nozione di «apocalisse psicopatologica». Ma nell’economia generale del testo sussistono delle disparità sorprendenti: per esempio nell’analisi dei diversi modi di pensare e rilanciare il tempo, in relazione ai diversi modi di costruire un «mondo». Cosí, il pletorico capitolo «Mundus», lungo circa trecento pagine, contiene solo tre pagine e mezza di riferimenti bibliografici riguardanti un rito romano – «mundus patet» – che, pur sicuramente problematico, ha indotto l’autore a mantenere nel titolo – mundus – la realtà oggetto della sua analisi. Allo stesso modo, un lungo epilogo, di cui la curatrice stessa riconosce il carattere eterogeneo, giustappone l’identificazione di quest’apocalisse moderna senza trascendenza approfondita dall’articolo di «Nuovi Argomenti», la descrizione fenomenologica del rapporto col mondo messa a confronto con quella degli antropologi, frammenti di analisi sullo statuto dell’economico e altri, infine, dedicati alla nozione di «ethos del trascendimento». In che modo, a partire da queste prime constatazioni, si poteva proporre un’edizione il piú possibile conforme all’obiettivo di leggibilità che ci eravamo prefissi? Di certo sarebbe stato assai complicato tradurre integralmente i diversi strati di scrittura, ove la preoccupazione dell’esaustività avrebbe fatto scomparire l’architettura complessiva, e la scelta di distinguere, in modo generico, tra frammenti compiuti e note di lettura non poteva restituire i percorsi logici sottesi alla costruzione di ognuna delle diverse «apocalissi» a partire dal progressivo ampliamento del progetto. Nello stesso tempo, si poneva il problema dello squilibrio fra le analisi dei dati storici ed etnografici di diretta derivazione dal progetto annunciato, e altre, molto piú generali, di cui si faticava a riconoscere l’articolazione rispetto all’intento iniziale. Abbiamo dunque deciso di operare una scelta fra gli scritti editi, e nello stesso tempo di tornare agli archivi, divenuti oggi interamente disponibili, al fine di cogliere il laboratorio demartiniano a partire dai dati effettivi dei suoi dossier di lavoro. Ed è allora che, rendendoci conto degli scarti esistenti fra la loro attuale catalogazione e la loro organizzazione in funzione della pubblicazione, ci siamo trovati di fronte a un compito in parte analogo a quello del primo gruppo di lavoro riunito da Brelich. La ricerca ha rivelato l’esistenza di collaborazioni scientifiche insospettate, di ordinamenti

alternativi dei materiali, di dossier inediti o che erano stati oggetto di una pubblicazione ulteriore, ma anche l’assenza di altri dossier. Ovviamente, eravamo pienamente consapevoli del fatto che la catalogazione dell’archivio digitale alla quale oggi facciamo riferimento era posteriore di una ventina d’anni rispetto alla prima edizione postuma. E sapevamo che, come in tutti gli archivi scientifici, questa catalogazione aveva una storia complessa di cui conosciamo soltanto frammenti 21. Non si trattava quindi di contrapporre la «verità» dell’archivio agli «errori» dell’edizione. Ma allora, quali criteri adottare? E qui il passaggio a un’altra lingua ha avuto un effetto rivelatore, permettendo di «leggere» ciò che De Martino aveva fatto, piuttosto che ciò che si proponeva di fare. E ciò che aveva fatto assomiglia, in buona parte, a una sorta di «diario» 22, redatto seguendo il ritmo delle letture e l’attualità religiosa, politica e scientifica, al fine di porre le questioni di antropologia generale al servizio di una ridefinizione disciplinare e di un’interrogazione etica. Cosí, l’importanza attribuita alle tesi di due teologi protestanti nell’analisi della singolarità del tempo cristiano non può essere compresa se non facendo riferimento alla mobilitazione delle élites cattoliche che intendevano orientare i dibattiti del Concilio Vaticano II promuovendo, sul piano internazionale, una nuova filosofia della religione. D’altro canto, trasferire in un altro universo linguistico un «testo» composto di diversi stati relativi alla lingua, ognuno dei quali con la propria storia, poneva inevitabilmente la questione della genesi delle concettualizzazioni adottate e trasformate da De Martino. Ad esempio, lo strano lessico adottato per designare l’ambito dell’economico si spiega solo tenendo conto della storia della ricezione italiana di Heidegger e, ancor di piú, della sua traduzione. Bisognava dunque far percepire al lettore francese le determinazioni semantiche e le implicazioni intellettuali, pur affrancando il piú possibile il pensiero demartiniano dal «gergo» tecnico nel quale riflette prima di passare alla scrittura. Seguendo i diversi progetti di articolazione e di gerarchizzazione di cui i dossier recavano traccia, si dissolveva la distinzione normalizzatrice fra momenti di lettura e momenti di scrittura, mentre prendeva forma un pensiero in movimento che avanzava al ritmo della lettura e della scrittura, e che trascinava lo studioso, cosí come i suoi lettori, a elaborare proposte in direzione di un’antropologia generale riconciliata coi suoi impegni militanti.

Basti qui un solo esempio, poiché queste scelte e questi rimaneggiamenti saranno esplicitati nell’introduzione a ogni capitolo: i dossier raccolti sotto il titolo «Il dramma dell’apocalisse marxista» non specificano, come De Martino annuncia e come sarebbe lecito attendersi, le omologie sussistenti fra movimenti comunisti e religiosi. Essi rovesciano le tesi di Norman Cohn e di Wilhelm Mühlmann per affermare la necessità, non di rigettare la teoria marxista come concezione religiosa che ignora se stessa, bensí di ripensare i suoi strumenti di analisi del religioso. Il progetto iniziale – leggere l’utopia comunista alla stregua di una costruzione simbolica – cede il posto all’esigenza di forgiare degli strumenti che consentano di riconciliare l’antropologia con un materialismo non riduttivo, che chiede, per l’appunto, di ripensare l’economico come ragione pratica, al fine di conservare la nozione di cultura. Siamo a questo punto maggiormente in grado di valutare le discontinuità e le continuità esistenti tra gli orizzonti aperti dallo studioso, gli strumenti concettuali che egli metteva a disposizione di un’antropologia generale in quell’ambiente degli anni Sessanta e gli oggetti privilegiati dai diversi momenti della sua ricezione francese. Quando le edizioni Gallimard pubblicano Sud e magia, nel 1963, e La terra del rimorso, nel 1966, collocati rispettivamente nelle collane «L’Espèce humaine» diretta da Michel Leiris, e «Bibliothèque des sciences humaines» da poco fondata da Pierre Nora 23, nulla permette ai lettori francesi di immaginare a quale nuova ricerca stesse lavorando, in quel momento, Ernesto De Martino. Pochi mesi dopo la sua improvvisa scomparsa, nel maggio del 1965, la rivista «Esprit» gli rende omaggio pubblicando ampi brani di una testimonianza dell’amico Cesare Cases, commentata da Franco Fortini 24. Quelle ultime riflessioni raccolte al suo capezzale in un ospedale romano, e che recano traccia di una ricerca in corso che occupava intensamente l’antropologo, assumono una dimensione drammatica. Ma i lettori non sono in grado di collegare l’interesse di De Martino per le «apocalissi culturali» e la sua attenzione al «sedicente dialogo fra marxisti e cattolici» con le indagini nel Salento, e ancor meno con la ricerca di un altro studioso italiano, Vittorio Lanternari, che affermava la portata rivoluzionaria dei movimenti religiosi del Terzo Mondo, e che per questo era appena stato tradotto in francese per i tipi di Maspero, l’editore dei militanti di sinistra 25.

3. I tre tempi della ricezione francese. Volute da Michel Leiris e Alfred Métraux, queste prime traduzioni godono del sostegno derivante dalla solidarietà nei confronti di tutti i movimenti di liberazione coloniale, ma sono destinate a inscrivere l’etnologia demartiniana nella fase esistenzialista dell’etnologia francese che, pur valorizzando lo studio delle invenzioni culturali nate dalle violenze della storia, rinuncia agli inventari tipologici per formulare degli interrogativi di antropologia generale inerenti le condizioni dell’ibridazione culturale o la definizione della persona e le sue modalità di impegno emozionale nelle condotte rituali 26. Nell’ambito scientifico della storia delle religioni, Sud e magia viene accolto assai favorevolmente da Jean-Paul Roux, storico del mondo turcomongolo, il quale sottolinea la complessità dei rapporti fra «magia e religione» interni al cattolicesimo 27, mentre in quello della sociologia delle religioni l’opera viene recensita da Jacques Maître, che vi coglie un invito ad ampliare le domande che la modernità pone alle «diverse forme di religiosità diffusa nelle nostre società intorno al tema della fortuna» 28. Ma soprattutto La terra del rimorso, la cui pubblicazione in Italia aveva già attirato l’attenzione di Elena Cassin e di Roger Bastide, è presentato a un pubblico ben piú ampio grazie all’impegno di Georges Balandier; per l’africanista che ha introdotto le nozioni di «terzo mondo» e di «situazione coloniale», il tarantismo è «padre di tutte le commedie rituali che la possessione mistica ha provocato nelle civiltà esotiche» 29. Come vedremo tra breve, Balandier e Bastide avevano avuto l’occasione di ascoltare De Martino, qualche mese prima della sua morte, mentre esponeva a Perugia un ambizioso progetto comparativo delle cui difficoltà era palesemente consapevole 30. Eppure, per quanto prestigioso, questo primo momento di ricezione francese, che faceva implicitamente dialogare ambiti europei, africani e caraibici, non era bastato a collocare stabilmente l’autore italiano nella biblioteca degli antropologi d’Oltralpe. Bisognerà attendere gli anni Ottanta e Novanta perché la ricezione dell’opera demartiniana cominci a differenziarsi a seconda delle appartenenze disciplinari grazie all’iniziativa di alcuni storici, storici delle religioni ed etnologi europeisti che si proponevano di affrancare lo studio delle società occidentali dall’alternativa fra un approccio folclorizzante e un approccio

prettamente sociologico. Alle due opere di De Martino tradotte in francese si aggiungeva quindi un’altra inchiesta – Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria 31 – che permetteva di restituire all’etnografia l’esplorazione delle relazioni fra i vivi e i morti, che l’antropologia storica limitava piuttosto ai rapporti di potere intorno al corpo e alla memoria del defunto 32. Mentre in Italia La terra del rimorso diventava l’opera fondatrice di un’etnopsichiatria autoctona, le tre inchieste che avevano risolto in maniera assai sorprendente alcune questioni centrali per il posizionamento dell’etnologia in seno alle scienze umane divennero fonte d’ispirazione, di documentazione o di presa di distanza critica al Centre d’anthropologie des sociétés rurales di Toulouse, dove diedero vita a intensi dibattiti. La posta in gioco era, senza mezzi termini, la rifondazione degli studi di un intero ambito disciplinare. Era possibile leggere o rileggere De Martino alla luce di Claude LéviStrauss, di Michel Foucault, di Pierre Bourdieu per individuare, in campo europeo, l’esistenza di logiche di senso analoghe a quelle presenti in altre culture? In Francia, Yvonne Verdier aveva appena dimostrato, a partire dall’analisi di ruoli sociali a prima vista poco ritualizzati, che la concezione levi-straussiana del simbolico, caratterizzata dalla nozione di codice semantico, consentiva di rivelare la loro dimensione di apprendistato e di trasmissione della femminilità 33. Questo assunto strutturalista, che era appena stato messo in opera nel definire una consuetudine femminile peculiare alle nostre società rurali, era proprio cosí diverso dal «mitico-rituale» individuato dall’etnologo italiano formatosi con la storia delle religioni? Ma allora, come sfuggire alla rarefazione dell’analisi di tante ricerche che in Italia rivendicavano una doppia eredità, demartiniana e gramsciana nello stesso tempo? E nello specifico, quale spazio e quale profondità storica bisognava darsi per individuare le variazioni che, collegate fra loro, compongono una stessa configurazione simbolica? Tutte queste domande, sorte dal confronto fra diverse tradizioni nazionali d’identificazione di un’alterità interna e dal dibattito con gli storici e i sociologi – teso a ristabilire le dinamiche culturali fra mondi sociali dominanti e dominati – hanno portato ad abbandonare la categoria di «religione popolare» per spostare i «luoghi» del religioso e riconoscere in quelle società, che pure sono secolarizzate, le modalità con le quali si è affermata la «differenza» cristiana. Da religione, il Cristianesimo diventava il

sistema classificatorio specifico di una cultura a partire dal quale le società locali si distinguevano le une dalle altre tramite usi di cui nulla, a priori, lasciava presagire in che cosa essi potessero inglobare rappresentazioni religiose. È soltanto al termine dell’analisi che veniva restituita una materialità sensibile ai principali enunciati dogmatici che, all’interno e al di fuori delle chiese, sono oggetto di un duplice apprendistato formale e sperimentale – l’incarnazione, la distinzione fra corpo e anima, la redenzione – costringendoci a riconoscere l’esercizio di un pensiero «selvaggio» all’interno di una religione pur sempre preoccupata di «demitologizzarsi». Collegare il tempo biografico ai diversi cicli cerimoniali trasformava il lavoro d’identificazione e di descrizione del fare rituale, ristabilendo la complementarità fra i gesti liturgici e una molteplicità di usi che, banali o spettacolari, erano sempre tenuti a distanza in quanto devozioni o tradizioni «locali» 34. Per chi si dava come punto di partenza le crisi dell’esistenza, quest’antropologia del simbolico – costruita re-inscrivendo il cattolicesimo meridionale di De Martino nel contesto di una consuetudine cristiana occidentale – invitava dunque a de-singolarizzare la forma pugliese del «male di San Paolo» per reinserirla in uno dei tre linguaggi disponibili per trattare la sventura 35. Il che, bisogna pur dirlo, costituiva una posizione critica rispetto all’accento incantatorio che la «crisi della presenza» e l’«efficacia simbolica» potevano prendere nel momento in cui il ricorso a queste nozioni si sostituiva all’esigenza descrittiva. Questo secondo momento di ricezione dell’opera demartiniana è stato accompagnato da traduzioni puntuali, connesse al lavoro storiografico compiuto da Clara Gallini a partire dai primi anni Novanta, per documentare i metodi di lavoro del De Martino che le era piú vicino, ovvero l’etnologo di una differenza meridionale colta attraverso i conflitti di razionalità religiosa o medica, e le sue formazioni di compromesso 36. Ciò significa che la cultura francese è rimasta in gran parte all’oscuro del cantiere al quale lavorava l’ultimo De Martino che la stessa Clara Gallini aveva reso disponibile nel 1977 pubblicandone un’edizione postuma. Perché tutto ciò acquistasse senso, abbiamo dovuto a nostra volta essere messi a confronto con le stesse incertezze – per quanto riguarda la ridefinizione di una specificità disciplinare – e le stesse esigenze – per quanto riguarda l’intelligibilità delle rapide trasformazioni in atto nelle nostre società – di quelle che, appena conclusa l’inchiesta sulle commedie rituali delle spose di san Paolo, avevano portato

l’etnologo a inventare altri ambiti di ricerca. In questo senso, la «nostra» Fine del mondo si inscrive in un terzo momento della ricezione francese dell’opera demartiniana che, pur prendendo atto del lavoro di riflessione svolto in Italia sulla sua opera, se ne discosta per le proprie modalità di pensare la storia della disciplina. Ne sono testimonianza le pubblicazioni che si sono incrociate nel corso del 1999 per riportare De Martino al centro dell’attenzione. Il dossier pubblicato dalla rivista «Gradhiva» riconosce tutta l’importanza degli archivi demartiniani al fine di documentare metodi di lavoro e interrogativi che non sempre il tono profetico dell’intellettuale organico, sulla scorta di una piú vasta mobilitazione culturale, permetteva di intuire 37. La rivista «L’Homme» pubblica l’analisi di quell’«appuntamento mancato» nella quale si risolse in buona parte la ricezione degli anni Sessanta 38 – una diagnosi confermata dal ritiro dal catalogo Gallimard delle due opere all’epoca tradotte – mentre la collana dei «Cahiers de l’Homme» dà alle stampe una rilettura dei riti melanesiani attraverso le concettualizzazioni demartiniane del religioso, la cui genesi viene rintracciata all’interno della Scuola romana di storia delle religioni 39. Alcuni anni dopo, l’esigenza di reintegrare la storia dell’etnologia europea in un’antropologia delle pratiche culturali motivava la ricerca biografica che avrebbe disvelato un’inattesa costellazione di spazi sociali e di prove esistenziali, l’imprevedibile interazione di mobilitazioni politicoculturali opposte, di saperi e di tradizioni intellettuali disparati che assumono valore di apprendistato pratico in quella «sfida della ragione» che è l’indagine antropologica 40. Infine, nel 2013, la rivista «Archives de sciences sociales des religions» pubblica un dossier dedicato a Vittorio Lanternari che riserva ampio spazio alle tradizioni italiane e francesi di analisi dei messianismi, a partire dall’ultima ricerca di De Martino collocata da Daniel Fabre in un novero di opere originali molto piú familiari al pubblico francese 41. Invitare i lettori francesi a spostarsi sull’altro versante di questa traiettoria ha dunque a che fare con la stessa esigenza d’entrare nel laboratorio dello studioso, al fine di misurare l’ampiezza degli orizzonti di colui che, in Francia troppo spesso associato alla sola Italia del sud, intendeva aprirsi a un comparativismo sperimentale in cui il Cristianesimo conserva comunque tutta la sua centralità. Ecco perché sarà opportuno, a questo punto, riconoscere al lavoro che ha prodotto questa nuova edizione tutto il significato che il termine «traduzione» può ricoprire, al di là della mera operazione necessaria

a trasferire un’opera in un’altra lingua. «Tradurre» ha significato agire su ciò che essa rappresenta per ritrovare l’audacia, la vigilanza e le tensioni irrisolte che erano alla base di questo progetto. Tornare nel laboratorio dello studioso ci ha permesso di prescindere da quel senso di inattualità che si era imposto alla prima curatrice nel contesto scientifico degli anni Settanta, e di divenire piú consapevoli dei modi di lavorare, degli imprevedibili percorsi del pensiero, dell’attualità scientifica e culturale di cui tutti i quaderni recano traccia; insomma di divenire suoi contemporanei. Ospitata in un’altra lingua, l’etnologia demartiniana si è rivelata estremamente libera nel suo travalicare frontiere linguistiche e disciplinari, al fine di individuare possibilità di confronto entro la varietà di forme della vita sociale, e di interrogare ciò che costituisce la specificità della sua pratica conoscitiva. Ma questa etnologia è anche percorsa dall’ossessivo ritorno di enunciati normativi che vanno contestualizzati e tradotti, a loro volta, in un linguaggio non demartiniano, per poter cogliere in tutta la sua portata quest’esigenza di ricollocamento dell’antropologia al centro delle scienze umane. Un’esigenza, in effetti, sempre attuale. 1. E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo alle analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 1977. 2. E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo alle analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini. Introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino 2002, 2012 e 2014. 3. C. GALLINI, Introduzione, in E. DE MARTINO, La fine del mondo, 1977 cit., p. XXII . 4. Luisa Mangoni ha fornito una ricostruzione dettagliata della storia editoriale di questo progetto partendo dagli archivi della casa editrice Einaudi: Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 831-35. In quello stesso anno, Riccardo Di Donato attira l’attenzione su un precedente progetto elaborato insieme a Bruno Callieri: «Apocalissi di Ernesto de Martino», in I Greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino, Manifestolibri, Roma 1999, pp. 125-37. Ho personalmente proseguito la ricerca attingendo agli archivi demartiniani in funzione del seminario che Daniel Fabre, Marcello Massenzio e la sottoscritta abbiamo diretto all’École pratique des hautes études (2013-2014), e successivamente all’École des hautes études en sciences sociales (2014-2015), «Traduire De Martino: l’atelier conceptuel de l’anthropologie italienne»: seduta del 18 dicembre 2013. Riccardo Di Donato ha commentato uno dei due resoconti stabiliti da Giovanni Jervis: Tra rimorso e trascendimento. Ernesto De Martino 1959-1963, in «Archivio di storia della cultura. Quaderni», 5, 2014, pp. 15-27. 5. C. GALLINI, Nota redazionale, in E. DE MARTINO, La fine del mondo, 2002 cit., pp. XXVII -

XXVIII .

6. Henri-Charles Puech gli ha affidato l’introduzione generale dei tre tomi de l’Histoire des religions pubblicata nel 1970 nella Encyclopédie de la Pléiade: Prolégomènes à une histoire des religions (Gallimard, Paris 1970, tomo I, pp. 3-59). Tale saggio resta un punto di riferimento in questo campo. 7. Laureatosi con Raffaele Pettazzoni e Angelo Brelich nel 1954, con una tesi che sancisce la sua specializzazione in studi vedici, Giancarlo Montesi resta assistente di Pettazzoni fino al 1961. Con una lettera raccomandata datata 20 gennaio 1969, Brelich ricorda a Montesi le scadenze, che quest’ultimo continua a procastinare, chiedendogli di prendere una decisione definitiva (Archivio De Martino, 29). Alla sua morte la rivista «Studi e Materiali di Storia delle Religioni» gli ha reso omaggio evidenziando il suo interesse per la storia delle religioni e per il folklore: In memoriam Giancarlo Montesi, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», vol. 50 (nuova serie, vol. 8, n. 2), 1984, p. 219. 8. C. GALLINI e M. MASSENZIO, Introduzione, in E. DE MARTINO, La fine del mondo cit., p. XXIX .

9. C. GALLINI, Protesta e integrazione nella Roma antica, Laterza, Bari 1970. Una lunga recensione di Robert Turcan illustra l’interesse suscitato da questo libro, ma ristabilisce una a una le verità storiche controverse: Religion et politique dans l’affaire des Bacchanales. A propos d’un livre récent, in «Revue de l’histoire des religions», vol. 181, 1972, pp. 3-28. Il disaccordo di Brelich è stato poi evocato da Clara Gallini in un’intervista con Antonio Gnoli pubblicata in «La Repubblica», 3 novembre 2014. 10. Luisa Mangoni ha, nel 1999, reso disponibile la documentazione di queste difficoltà editoriali. Aderire in maniera acritica al giudizio di Giovanni Jervis porta Di Donato a disconoscere la posta in gioco epistemologica – lo statuto della funzione simbolica – che è l’elemento centrale dell’incontro fra De Martino e Callieri. Vedi G. CHARUTY, “Occorre ridiscendere agli inferi”. Follia e storia tra De Martino e Foucault, in «Aut Aut», n. 366, aprile-giugno 2015, pp. 15-38. Alla sua morte, sopraggiunta nel 2012, Bruno Callieri è stato unanimamente riconosciuto come il piú importante rappresentante italiano della psichiatria d’ispirazione fenomenologica fondata da Karl Jaspers. 11. E. DE MARTINO, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino 1948. 12. Fra le opere da tradurre, segnaliamo il libro dell’etnologo e psichiatra Artur Ramos, As culturas negras no novo mundo (1937) e quello di Laura Thompson, Culture in Crisis. A Study of the Hopi Indians (1950). Il primo, documentando un caso di «sincretismo fra il mondo magico e le ideologie nere da una parte, e l’ideologia popolare cristiano-cattolica dall’altra», permetterebbe di

contestualizzare il Mezzogiorno italiano nella questione generale della politica culturale della Chiesa riguardo ai mondi pagani. L’unica realizzazione di tale progetto, peraltro fallito, a quanto pare, per motivi economici, è il libro di Danilo Dolci Inchiesta a Palermo (1957), volume del quale De Martino ha riletto il manoscritto. Vedi L. MANGONI, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 831-35. 13. Cfr. E. DE MARTINO e C. PAVESE, La collana viola, a cura di Pietro Angelini, Einaudi, Torino 1991, p. 202. 14. Il giudizio di Renato Solmi, che chiede di leggere gli articoli del medico, è categorico: l’orientamento «husserliano» dello psichiatra si presta indubbiamente meglio al dialogo con lo storico delle religioni rispetto ad un orientamento biologico o organicista; ma è un orientamento «pericoloso». E soprattutto, secondo lui, questo fenomenologo è fin troppo portato al misticismo, utilizza un linguaggio filosofico confuso e intriso di insopportabili germanismi (lettera di Renato Solmi a Ernesto De Martino, 21 febbraio 1961, Archivio De Martino, 29). 15. Cfr. infra, in questo volume, il capitolo Domani ci sarà un mondo? 16. Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, in «Nuovi Argomenti» (1964), n. 69-71, pp. 105-41. 17. C. GALLINI, Introduzione cit., p. LXVIII . Sui contributi di Jervis, cfr. infra, l’introduzione al capitolo 2, nota 5. 18. K. JASPERS, Strindberg et Van Gogh, Swedenborg, Hölderlin: étude psychiatrique comparative, preceduto da un saggio di Maurice Blanchot, La folie par excellence, Les Éditions de Minuit, Paris 1953 [trad. it. Genio e follia. Strindberg e Van Gogh, con un saggio di Maurice Blanchot, Cortina, Milano 2001; trad. di Brigitte Baumbusch e Mario Gandolfi]. 19. Archivio De Martino, 29. 20. Archivio Einaudi, folio 66, fascicolo 970, Archivio di Stato, Torino. 21. Una breve descrizione, dal titolo L’archivio Ernesto De Martino. Introduzione al catalogo, è stata presentata in una brochure diffusa nel 1995 dall’Associazione internazionale Ernesto De Martino in occasione del convegno «Ernesto De Martino nella cultura europea», organizzato fra Roma e Napoli dal 29 novembre al 2 dicembre, pp. 9-24. È firmata da Eugenio Capocasale, che aveva realizzato una parziale catalogazione dell’archivio per la sua ricerca di dottorato (tutor Marcello Massenzio): Gli appunti inediti giovanili di Ernesto De Martino per un “saggio sulla religione civile”, Istituto Universitario Orientale di Napoli, 1990 (comunicazione personale, maggio 2015). Alla fine degli anni Novanta un’altra catalogazione d’insieme è stata effettuata da Roberto Pàstina, il quale ha anche realizzato una nuova e molto particolareggiata descrizione in un regesto oggi accessibile sul sito www.ernestodemartino.it. Regesto poi utilizzato per la digitalizzazione dell’archivio di cui disponiamo oggi.

22. Nel senso attribuito da Emmanuel Terray ai saggi raccolti in Combats avec Méduse, Galilée, Paris 2001, p. 9: «un diario teorico e politico». 23. E. DE MARTINO, Italie du Sud et magie, trad. di Claude Poncet, Gallimard, Paris 1963 [Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1959]; La terre du remords, trad. di Claude Poncet, Gallimard, Paris 1966 [La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1960]. 24. C. CASES e F. FORTINI, Entretien avec De Martino sur la mort, l’apocalypse et la survie. Note sur la fin d’un homme et la fin d’un monde, in «Esprit», marzo 1966, pp. 370-82 [cfr. C. CASES,

Un colloquio con Ernesto de Martino e F. FORTINI, Gli ultimi tempi, in «Quaderni

piacentini», n. 23-24, maggio/agosto 1965, pp. 4-17]. La redazione li definisce due marxisti italiani. 25. V. LANTERNARI, Les mouvements religieux de liberté et de salut des peuples opprimés, trad. di Robert Paris, Maspero, coll. «Les textes à l’appui», Paris 1962 [trad. it. Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano 1960]. 26. D. FABRE, Un rendez-vous manqué. Ernesto De Martino et sa réception en France, in «L’Homme», n. 151, 1999, pp. 207-36. 27. J.-P. ROUX, Revue de l’histoire des religions, vol. 167, 1965, n. 2, p. 243. 28. J. MAÎTRE, Archives de sociologie des religions, n. 17, 1964, pp. 174-75. 29. G. BALANDIER, Les possédés des Pouilles, in «Le Nouvel Observateur» (18-25 mai 1966), citato da Daniel Fabre in Un rendez-vous manqué cit., p. 234. 30. Cfr. infra, in questo volume, Domani ci sarà un mondo? 31. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1975 [1958]. 32. Vedi il dossier curato da D. FABRE, Le retour des morts, in «Études rurales», gennaio-giugno 1987, n. 105-6. 33. Y. VERDIER, Façons de dire, façons de faire. La laveuse, la couturière, la cuisinière, Gallimard, Paris 1979. 34. Per un bilancio di queste ricerche, vedi G. CHARUTY, Du catholicisme méridional à l’anthropologie des sociétés chrétiennes, in D. ALBERA, A. BLOK e C. BROMBERGER (a cura di), L’anthropologie de la Méditerranée, Maisonneuve et Larose, Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, Paris - Aix-en-Provence 2001, pp. 359-83. 35. L’espressione «male di san Paolo» traduce una rappresentazione cristiana del tarantismo. Le sue vittime si dichiarano essere le «spose» del santo. Vedi G. CHARUTY, Folie, mariage et mort. Pratiques chrétiennes de la folie en Europe occidentale, Seuil, Paris 1997, pp. 171-242. 36. Les funérailles de Lazzaro Boia (trad. di Giordana Charuty), in «Hésiode», La mort difficile, n. 2, 1994, pp. 243-75; Notes de voyage (trad. di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Carlo Severi), in «Gradhiva», Ernesto De Martino, “Un intellectuel de transition”, n. 26, 1999, pp. 53-67.

37. Il Dossier curato da G. CHARUTY e C. SEVERI, Ernesto De Martino. Un intellectuel de transition cit. propone una prima riflessione sulla Fine del mondo. 38. D. FABRE, Un rendez-vous manqué cit. 39. M. MASSENZIO, Sacré et identité ethnique. Frontières et ordre du monde, Éditions de l’EHESS (coll. «Cahiers de l’Homme»), Paris 1999, capitolo 1 [trad. it. Sacro e identità etnica. Senso del mondo e linea di confine, Angeli, Milano 1994]. 40. G. CHARUTY, Ernesto De Martino. Les vies antérieures d’un anthropologue, Éditions Parenthèse - Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, Marseille - Aix-en-Provence 2009 [trad. it. Ernesto De Martino. Le precedenti vite di un antropologo, Angeli, Milano 2010, trad. di Adelina Talamonti]. Mutuo l’espressione «sfida della ragione» da G. LENCLUD, L’universalisme ou le pari de la raison. Anthropologie, histoire, psychologie, Gallimard-Seuil, Paris 2013 (coll. «Hautes Études»). 41. Dossier curato da D. FABRE e M. MASSENZIO, Messianismes et anthropologie entre France et Italie, in «Archives de sciences sociales des religions», n. 16, gennaio-marzo 2013.

Marcello Massenzio La fine del mondo nell’opera di Ernesto De Martino

Malgrado lo stato frammentario nel quale ci è pervenuto, il libro incompiuto di Ernesto De Martino può essere considerato la summa del suo pensiero antropologico; un pensiero complesso, in divenire, non sempre lineare, ma indubbiamente innovatore e appassionante. Il progetto di monografia sulla fine del mondo costituisce il compimento di un ricco itinerario speculativo che va dall’inizio degli anni Quaranta del Novecento alla metà degli anni Sessanta. Ripercorrerne le tappe principali, con l’ausilio di strumenti critici e chiavi di lettura, consentirà al lettore di cogliere i nodi teorici e le questioni metodologiche che sono al cuore della sua inchiesta sulle apocalissi. In questa prospettiva, saranno privilegiati gli studi dell’autore afferenti alla storia delle religioni, data l’importanza che questa disciplina riveste nel suo pensiero; una scelta che, lungi dall’essere restrittiva, permette di toccare campi della conoscenza limitrofi, dall’etnologia alla filosofia. Ricordiamo infatti che De Martino è stato titolare della cattedra di Storia delle religioni all’Università di Cagliari, e ha contribuito in maniera decisiva alla definizione delle specificità di questa disciplina, fondata in Italia da Raffaele Pettazzoni 1. La problematica del rapporto fra religione e storia, la definizione delle caratteristiche e della funzione del simbolismo mitico-rituale, la riflessione sull’attualità o l’inattualità del ricorso alla religione, l’analisi del processo di laicizzazione in seno alla cultura occidentale moderna a cui si connette la costituzione di un apparato simbolico indipendente da qualsiasi orizzonte metastorico: queste sono alcune delle questioni che De Martino riprende qui, riannodando i fili di un discorso che si è sviluppato in un consistente numero di monografie e di articoli, di cui conviene esaminare, o riesaminare, le implicazioni. De Martino assimila la religione alle creazioni culturali storicamente determinate e ritiene che l’analisi comparata dei fenomeni religiosi obbedisca a criteri totalmente incompatibili con quelli della teologia. Ritroviamo qui i quadri teorici e metodologici della storia delle religioni che Angelo Brelich ha accuratamente definito nei suoi «Prolegomeni» 2. De Martino elabora,

inoltre, una concezione inedita della religione come «tecnica» sui generis destinata a garantire la permanenza della cultura e della storia nel momento in cui esse rischiano di scomparire. Questa tesi, che qui ci limitiamo ad accennare, è sviluppata dall’autore a partire dall’analisi delle istituzioni culturali di carattere magico: è necessario, pertanto, ripartire da Il mondo magico, divenuto un classico del pensiero contemporaneo, per esaminarlo sotto una nuova luce.

1. Il «doppio sguardo» dell’etnologo. Il mondo magico 3 si colloca al crocevia fra etnologia e storia delle religioni. Per coglierne il senso, sarà utile fare un passo indietro focalizzando lo sguardo su Naturalismo e storicismo nell’etnologia 4, l’opera in cui De Martino s’interroga sulla portata del sapere etnologico. Quest’ultimo può essere fecondo a condizione di evitare un doppio scoglio: da un lato l’eurocentrismo, che induce a estendere meccanicamente alle altre civiltà le categorie interpretative occidentali senza tener conto dei loro caratteri distintivi; dall’altro il «naturalismo», che sotto l’apparenza dell’oggettività si attiene ad analisi puramente descrittive, sul modello delle scienze naturali, senza affrontare i problemi epistemologici sollevati dalla ricerca etnologica. Il relativismo culturale rappresenta un fattore incontestabile di progresso, nella misura in cui valuta ogni civiltà in funzione delle sue caratteristiche culturali e storiche; ma la sua portata è limitata nella misura in cui ignora il ruolo che spetta alla civiltà occidentale nella dinamica del processo conoscitivo innescato dall’etnologia. Un limite sottolineato con enfasi da De Martino che fa dell’etnologia la scienza del confronto tra l’Occidente e il «culturalmente alieno». Per De Martino, l’etnologia raggiunge il suo scopo nella misura in cui la comprensione delle culture non occidentali suscita una nuova consapevolezza critica della civiltà occidentale, delle sue prerogative come dei propri limiti, nella prospettiva di superarli. In altri termini, lungi dall’essere un fine in sé, la conoscenza delle civiltà non occidentali deve stimolare il confronto critico fra «noi occidentali» e «gli altri», per far luce sulle scelte culturali che governano i percorsi storici degli uni e degli altri. De Martino resta fedele a tale approccio fondato sulla dialettica del «doppio sguardo», l’uno diretto verso

l’esterno e l’altro verso l’interno; si tratta, piuttosto, di un solo sguardo, nel quale l’interno e l’esterno, il sé e l’altro da sé, sono coesistenti e complementari 5. La fine del mondo contiene alcune pagine, in particolare quelle sull’«umanesimo etnografico», che rappresentano il punto culminante di questo sistema di pensiero. Il mondo magico traduce in atto la concezione etnologica forgiata in Naturalismo e storicismo nell’etnologia; qui De Martino, in qualità di «etnologo teorico», analizza un gran numero di documenti, riguardanti per la maggior parte pratiche rituali e narrazioni mitiche tratte da diverse monografie. Raccoglie materiali che vanno dall’Australia alla Siberia, dall’Africa all’America e alla Groenlandia, per comporre un mosaico di dati che, una volta costituitosi, fa emergere le caratteristiche del «mondo magico»; un mondo culturale e storico diverso da quello occidentale, la cui comprensione esige strumenti d’analisi ad hoc, se si vuole evitare un’interpretazione sin dall’inizio viziata dall’eurocentrismo. Le civiltà dette primitive, il cui insieme costituisce ciò che De Martino chiama «il mondo magico», sono caratterizzate dal «dramma storico» che le pervade, e che coinvolge la presenza umana, l’essere al mondo, un concetto, questo, che De Martino elabora a partire dalla nozione heideggeriana di Dasein. L’ordine culturale esiste nella misura in cui la presenza umana, in quanto soggetto, è capace di opporsi al mondo esterno, per forgiarlo. Il rischio permanente della sua scomparsa, qualora si radicalizzi, implica la disgregazione di questo legame: ciò si verifica quando la presenza umana defluisce nel mondo esterno o, al contrario, quando quest’ultimo invade la presenza. Le istituzioni magiche, nate per contrastare tale eventualità, si propongono di garantire il ruolo attivo della presenza umana, in permanente equilibrio fra esserci e non esserci; esse testimoniano dell’esigenza primaria d’impedire alla presenza, alla cultura e alla storia di sprofondare nel nulla. È in questo retroterra che affonda le radici il progetto di ricerca sulle apocalissi. La dinamica storica del mondo magico si misura al vaglio di criteri che non sono quelli dell’Occidente; essa riposa sulla tensione che oppone la ricerca della salvezza alla minaccia della caduta, la volontà di esserci della presenza al rischio di non poter essere in nessun mondo culturale possibile. Il dramma magico è contenuto interamente nel contrasto dialettico fra queste due polarità. Il mondo magico è «diverso» dal nostro, nella misura in cui non gli appartiene la «presenza che sta garantita in cospetto di un mondo

trattenuto nei suoi cardini» 6: Un’altra epoca, un mondo storico diverso dal nostro, il mondo magico, furono impegnati appunto nello sforzo di fondare la individualità, l’esserci nel mondo, la presenza, onde ciò che per noi è un dato o un fatto, in quell’epoca, in quell’età storica, stava come compito e maturava come risultato 7.

Ciò detto, l’analisi si articola su due piani convergenti: l’esame approfondito delle istituzioni culturali di tipo magico e la storicizzazione della presa di distanza dell’Occidente rispetto al mondo magico, che rappresenta, per De Martino, l’esito di un lungo processo – avviato dal pensiero greco e sviluppato dal Cristianesimo – al termine del quale la civiltà occidentale ha fatto del principio d’autonomia della persona l’elemento distintivo della propria identità culturale. La mancata comprensione di tale processo è dovuta alla polemica anti-magica che, aprioristicamente, ha negato il valore storico e culturale del mondo magico 8. Un simile orientamento, che ha punteggiato la storia della civiltà occidentale, ha alimentato e alimenta ancora l’eurocentrismo dogmatico, col conseguente rifiuto di pensare l’alterità magica in termini positivi, e dunque di rapportarsi a essa secondo le modalità del confronto critico. Da questo punto di vista, Il mondo magico segna una svolta radicale nella cultura italiana, poiché favorisce lo sviluppo di una coscienza storicoculturale in rottura col passato. Al contrario dell’antropologia ellenicocristiana che «scavò il fossato fra l’Occidente e il mondo magico», l’inchiesta svolta da De Martino promuove una presa di coscienza critica imperniata sul debito culturale che la civiltà occidentale ha contratto nei confronti delle civiltà in cui la magia assolve una funzione fondamentale, senza perdere di vista, tuttavia, le caratteristiche storiche proprie di ciascuna civiltà. In sintesi, lungi dall’esserci estraneo, il dramma del mondo magico ci rivela qualcosa di essenziale sulla presenza umana in quanto tale, poiché quest’ultima ci appare non come un dato naturale esente da sempre e per sempre dall’insorgenza della crisi, ma come un prodotto della storia, come un bene culturale la cui esistenza dev’essere costantemente difesa e riaffermata. Il nostro orizzonte culturale può allora estendersi oltre le frontiere dello storicismo tradizionale incapace di uscire dal proprio isolamento e da una Weltanschauung eurocentrica; quest’obiettivo rappresenta una delle costanti fondamentali di

tutta la produzione scientifica demartiniana: Ma appena sia vinta la limitazione inerente alla nostra attuale consapevolezza storiografica, e si scopra il mondo magico come forma di civiltà in cui l’esserci della persona emerge come risultato mediato, si produce allora un allargamento della consapevolezza e si apprende la sua precedente limitazione: l’esserci si configura ora per quel che è effettivamente, cioè come «dato a me nella storia umana», come bene culturale che si è fatto attraverso lotte, pericoli, sconfitte, compromessi, vittorie, e infine come decisione e come scelta che ancor oggi vivono in ogni nostra decisione e in ogni nostra scelta 9.

2. Il dramma soteriologico nella magia e nella religione. La pubblicazione de Il mondo magico in Italia ebbe un effetto dirompente 10; ancora oggi risuona l’eco delle reazioni dell’epoca, e la discussione su questi temi continua, alimentata dalla conoscenza di scritti inediti. Per testimoniare dell’ampiezza di questo dibattito, a partire dalla seconda edizione del 1958, De Martino aggiunse al volume le recensioni di quattro eminenti specialisti: due storici delle religioni (Raffaele Pettazzoni e Mircea Eliade) e due filosofi (Benedetto Croce ed Enzo Paci). Piú che di classiche recensioni, si tratta di saggi brevi che danno conto dell’importanza attribuita a un libro che pure suscitò piú contestazioni che consensi. Prenderemo qui in considerazione solo la recensione di Paci, che sottolinea opportunamente la dimensione soteriologica propria delle istituzioni culturali a carattere magico, uno dei temi piú fecondi dell’opera demartiniana: Il rito magico del riscatto è rito di salvezza morale, di rinascita che riscatta in un ordine il caos insorgente. Il mondo nel quale si rinasce è un mondo dominato dalla demiurgia umana, mondo nel quale la situazione iniziale di crisi si svolge in una situazione finale di redenzione, e mentre la situazione iniziale è angoscia del nulla la situazione finale è riconquista dell’essere e della legge morale 11.

Questa riflessione prefigura la contestualizzazione del pensiero demartiniano, influenzato dall’esistenzialismo e, piú precisamente, dall’esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano e di Enzo Paci 12:

I concetti usati dal De Martino, di situazione iniziale e di situazione finale, sono tipici dell’Abbagnano, dove costituiscono la fondamentale categoria della struttura nella quale lo sforzo dell’essere di conquistare se stesso come esistenza vale «non solo rispetto alla situazione iniziale (Heidegger) né solo rispetto alla situazione finale (Jaspers), ma nell’unità della situazione finale con la iniziale» 13.

Nei saggi teorici scritti durante gli anni Cinquanta, De Martino elabora una personale concezione della religione, alla quale estende la funzione soteriologica propria delle istituzioni magiche: «[…] la religione aiuta a vivere, non già nel senso generico e banale dell’espressione ma nel senso profondo che recupera e mantiene la base esistenziale della vita umana, cioè la presenza che sceglie secondo distinte potenze operative oltre il mero vitale corporeo o animale» 14. Questa concezione estende il rischio di crisi esistenziale – e di naufragio della cultura nel nulla – al di là delle frontiere del mondo magico; è nella condizione umana in sé, o piú specificamente nella relazione che l’uomo intrattiene col tempo e col suo fluire, che si trovano le radici della crisi. L’angoscia legata alla percezione del divenire è al centro della riflessione demartiniana; il divenire angoscia perché ogni momento che passa introduce un cambiamento dell’esistente al quale deve corrispondere – immediatamente – un atto volitivo della presenza umana per trascenderlo nel valore, condizione necessaria per poter continuare ad esserci. Cosí, la presenza è sottoposta a una tensione continua, che diventa insostenibile quando si presentano eventi decisivi per la sopravvivenza di una comunità data e di ognuno dei suoi membri; sono i «momenti critici dell’esistenza» che necessitano una protezione religiosa: In tutti questi momenti la storicità sporge, il ritmo del divenire si manifesta con particolare evidenza, il compito umano di «esserci» è direttamente e irrevocabilmente chiamato in causa, […] il carattere critico di tali momenti sta nel fatto che in essi il rischio di non esserci è piú intenso, e quindi piú urgente il riscatto culturale. […] il divenire angoscia, soprattutto nei momenti critici dell’esistenza: l’istituto religioso della destorificazione sottrae questi momenti alla iniziativa umana e li risolve nella iterazione dell’identico, onde si compie la cancellazione o il mascheramento della storia angosciante 15.

La destorificazione mitico-rituale, diametralmente opposta all’uscita spontanea dalla storia, è il perno sul quale riposa la concezione magicoreligiosa elaborata da De Martino 16. I dispositivi religiosi, fondati sull’iterazione rituale di un evento mitico immutabile, sono paragonabili a grandi macchine create per fermare il tempo che passa, per «dissimulare» il divenire, riducendolo alla permanenza dell’essere, e di fatto per uscire dalla storia. Le pratiche ispirate alla dinamica della destorificazione religiosa sono concentrate nella dimensione sacra della festa, al di là della quale il tempo profano, col suo succedersi di lavori e giorni, ricomincia a dispiegarsi. Qualora sia isolata dalla dialettica sacro/profano, la destorificazione perde la sua caratteristica di fenomeno culturale. Ci limitiamo a queste poche osservazioni, dal momento che De Martino in piú d’una occasione ritorna sul concetto di destorificazione istituzionale per precisare ulterioriormente la sua funzione di «difesa» della presenza umana nel mondo. Al tempo stesso, da un lato egli prende le distanze dalla corrente irrazionalista, tesa alla svalutazione della storia (di cui Eliade è il maggiore rappresentante nel campo della storia delle religioni) e, dall’altro lato, si oppone alla visione riduttiva e alla svalutazione pregiudiziale della religione propria del materialismo volgare. Il legame fra crisi della presenza umana e reintegrazione religiosa è un argomento sul quale De Martino non smette di interrogarsi, x sia da un punto di vista teorico 17, sia per elaborare il proprio metodo di ricerca. In questo quadro bisogna riservare un posto di rilievo al saggio «Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni» 18. Partendo dall’analisi di Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia di Carl Gustav Jung e Karl Kerényi 19, l’autore, al fine di arrivare a comprendere la formazione degli istituti magico-religiosi, sottolinea la necessità di mettere in relazione l’ambito della storia delle religioni, quello della psicologia e quello della psicopatologia. Il dovere fondamentale dello storico delle religioni consiste, secondo De Martino, nel ricostruire il «processo ierogenetico», che implica l’analisi del rischio di non esserci nei momenti critici del divenire: […] i modi della perdita della presenza, e le diverse inautenticità esistenziali che vi si collegano, possono essere analizzati soltanto mediante l’utilizzazione dei dati della psicopatologia. La dualità o la pluralità delle esistenze psicologiche simultanee o successive, l’esperienza di deflusso della presenza nel mondo o di irruzione del mondo nella presenza, il sentirsi «agiti da», la perdita del possesso delle proprie rappresentazioni

e del senso del reale, la mostruosa colpa immotivata della depressione melanconica […] costituiscono manifestazioni di crisi in atto che entrano come rischio nella dinamica della ierogenesi, fornendo la materia su cui si modellano le tecniche religiose di destorificazione e di reintegrazione 20.

Lo storico delle religioni non può non tener conto del potere euristico dei dati forniti dalla psicopatologia; senza di essi, non avrebbe gli strumenti critici necessari per identificare il processo che media la reintegrazione della presenza, e di conseguenza non potrebbe valutare il potere salvifico che esercitano concretamente i simboli mitico-rituali attraverso le loro manifestazioni storiche. Tuttavia, lo storico delle religioni deve essere capace di reinterpretare tali dati e di differenziare la materia della sua elaborazione culturale, distinguendo gli stati morbosi – che rientrano nel campo della psicopatologia – dalla vita religiosa, che costituisce l’oggetto della storia delle religioni. La metodologia che sottende l’opera demartiniana, e in particolare il suo progetto monografico sulla fine del mondo, si ispira a questi principî, pur ampliando considerevolmente la loro portata.

3. La morte e le sue rappresentazioni culturali. L’opera che segna il culmine della riflessione storico-religiosa sviluppata negli articoli degli anni Cinquanta è Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria 21. Questa ricerca trae le sue origini dalla percezione della morte umana come «scandalo», nella misura in cui sancisce l’irruzione della natura nella cultura. In un simile scenario, la presenza umana, che si trova messa a confronto con l’evidenza di una realtà tragica che non ha determinato, corre il rischio di dissolversi, di «morire col morto». Da qui la drammaticità della crisi del cordoglio, che è possibile risolvere opponendo alla morte naturale, che è subita passivamente, una «seconda morte», culturalmente sancita. Fra queste due polarità si sviluppa il dramma soteriologico a cui fa riferimento il binomio «morte e pianto rituale» 22. Il metodo di ricerca si fonda sull’interazione fra l’universale e il particolare, fra la dimensione antropologica e quella storica. Se l’esigenza di significare la morte è propria della cultura in quanto tale, i suoi contenuti e le sue forme dipendono dalle caratteristiche storiche di ogni civiltà, cosí come

dai cambiamenti che si producono al loro interno. Sotto questo punto di vista, De Martino s’interessa principalmente alla svolta segnata dall’espansione del Cristianesimo; in sintesi, l’affermazione dell’ideologia cristiana della morte ha avuto come corollario il radicale screditamento dell’ideologia e delle pratiche religiose preesistenti. La polemica inaugurata dai Padri della Chiesa contro il rituale dei lamenti funebri si ricollega idealmente alla polemica antimagica cui abbiamo già fatto cenno. L’ideologia cristiana tende in effetti a negare ciò che il lamento rituale sancisce, ovvero la realtà effettiva della morte, nella misura in cui assimila la morte umana a un lungo sonno che prelude al risveglio definitivo alla fine dei tempi. L’ideologia cristiana si fonda sul dramma della passione e della resurrezione del Cristo, il quale, assorbendola in sé, conferisce un orizzonte e un senso a ogni morte. Per quanto la frontiera fra il «paganesimo» e il Cristianesimo sia netta, l’uno e l’altro sono segnati dalla presenza della tecnica della destorificazione mitico-rituale che implica, in entrambi i casi, la ripetizione di modelli estranei al divenire; la discontinuità ideologica non ha tuttavia impedito l’emergere di formazioni sincretiche il cui esempio piú noto è la rappresentazione della Vergine come Mater dolorosa che conserva i tratti dell’antica «lamentatrice». La svolta che prelude all’era moderna della civiltà occidentale è altrettanto decisiva e gravida di conseguenze: essa è legata all’affermazione dell’umanesimo storicista che, essendo fondato sul riconoscimento della genesi e della destinazione integralmente umana dei prodotti culturali, esclude ogni ricorso all’orizzonte metastorico. Da qui la necessità, per quanto ci riguarda, di elaborare simbolicamente la crisi del cordoglio in termini laici 23. In generale, se è vero che determinati simboli possono diventare desueti per ragioni storiche, l’attività simbolica in quanto tale è un’esigenza permanente della cultura, poiché media fra il «furore» e il «valore», fra la crisi e la reintegrazione, fra una situazione iniziale «data» e una situazione finale culturalmente trasfigurata.

4. Cristianesimo e storia. La riflessione sul Cristianesimo, imperniata sulle caratteristiche che ne fanno una religione simile e, allo stesso tempo, dissimile dalle altre, è posta al

centro dell’ampio saggio del 1959 intitolato Mito, scienze religiose e civiltà moderna 24, indissociabile da Morte e pianto rituale. Benché accolga al suo interno l’istituto della destorificazione mitico-rituale, il Cristianesimo racchiude in sé il germe della valutazione positiva della dimensione storica. È ciò che lascia trasparire, per esempio, il simbolo che situa il mito del Cristo non nel tempo immobile delle origini sacre, ma al cuore stesso della storia umana. Ecco la conclusione alla quale perviene De Martino: Il simbolo mitico-rituale cristiano media il valore della storia umana: ma proprio questa mediazione, nel momento stesso in cui distingue il Cristianesimo fra le altre religioni, e ne fonda l’alta funzione pedagogica nella storia culturale dell’Occidente, costituisce necessariamente il principio di un’agonia religiosa, anzi il principio dell’agonizzare di tutti i simboli mitico-rituali e di tutti gli orizzonti numinosi, almeno nella misura in cui resterà operante nell’umanità la memoria della civiltà occidentale 25.

Il terzo capitolo dell’opera postuma, dedicato all’analisi del dramma dell’apocalisse cristiana, riconsidera sotto una nuova luce la relazione conflittuale che il Cristianesimo intrattiene con la storia la cui valorizzazione, al termine di un lungo processo, finisce per imporsi. Il progetto di ricerca sulle apocalissi accorda un posto di rilievo anche al tema dell’«agonia religiosa»: basti pensare, ad esempio, all’intenso monologo interiore nel quale l’autore riconosce che è divenuto ormai superfluo affidarsi all’immagine del Cristo per nutrire amore per il prossimo. Furore simbolo valore, uscito nel 1962 26, testimonia dei molteplici interessi di De Martino, costitutivi di una visione coerente del mondo. Si tratta di una raccolta di saggi – fra i quali troviamo Promesse e minacce dell’etnologia, Mito, scienze religiose e civiltà moderna – che trattano del presente della civiltà occidentale, attraversato da luci e ombre e osservato da diverse angolazioni 27. La luce è la promessa di un umanesimo laico, sostenuto dall’ethos del confronto, teso a contrastare la sindrome da spaesamento, connessa alla perdita del sentimento di appartenenza alla storia della civiltà occidentale. Le ombre rimandano alla diffusione di svariate tendenze culturali dominate dalla distruzione della ragione, dallo svilimento della storia, dalla nostalgia dell’arcaico; questo quadro diviene ancora piú cupo se vi aggiungiamo l’assenza di apparati simbolici capaci di risolvere culturalmente le crisi di cui è portatrice la modernità. In questa prospettiva

occorre segnalare il saggio intitolato Furore in Svezia 28, che si basa su un episodio isolato, dal valore modesto solo in apparenza, per proporre una riflessione di ordine generale. L’episodio si svolge a Stoccolma, nella notte del 1° gennaio 1956, e riguarda un’esplosione di violenza gratuita e devastatrice da parte di alcuni giovani nel corso delle festività del Capodanno: un residuo disarticolato, impoverito, del disordine ritualizzato caratteristico delle feste tradizionali del Capodanno, propedeutico al ripristino dell’ordine. In qualità di storico delle religioni ed etnologo, De Martino analizza quest’episodio alla luce della comparazione e vi individua il sintomo di un vuoto culturale tipico delle società moderne, generato dall’assenza di tecniche di controllo destinate a dare orizzonte al furore della gioventú. Furore simbolo valore precede di due anni Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche 29, e ci conduce alle porte dell’opera postuma. 1. Sull’orientamento scientifico e metodologico della «scuola» di storia delle religioni iniziata da Raffaele Pettazzoni, e che fra i suoi membri piú noti conta Angelo Brelich, Vittorio Lanternari, Dario Sabbatucci, Ugo Bianchi ed Ernesto De Martino, cfr. M. MASSENZIO, Sacro e identità etnica. Senso del mondo e linea di confine, Angeli, Milano 1994, pp. 23-80. 2. A. BRELICH, Prolégomènes à une histoire des religions, in H.-C. PUECH (a cura di), Histoire des religions, Gallimard (coll. «Encyclopédie de la Pléiade»), Paris 1970, tomo I, pp. 3-59. 3. E. DE MARTINO, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino 1948. 4. E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Laterza, Bari 1941, 2 a ed., Argo, Lecce 1997. 5. M. MASSENZIO, Ernesto De Martino e l’antropologia, in M. CILIBERTO (a cura di), Filosofia. Il contributo italiano alla storia del pensiero, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2012, pp. 750-58. 6. E. DE MARTINO, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Boringhieri, Torino 1997, 4 a ed., p. 151. 7. Ibid., p. 161. 8. Per quanto riguarda i diversi aspetti della polemica anti-magica, cfr. E. DE MARTINO, Magia e civiltà, Garzanti, Milano 1962. 9. E. DE MARTINO, Il mondo magico cit., p. 161. 10. Il 1948 fu segnato dalla pubblicazione selettiva dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci e de Il mondo magico: due avvenimenti rilevanti nella storia della cultura italiana, e della cultura piú in generale. Quest’accostamento non è frutto di un caso: è nota l’influenza esercitata da Gramsci sul

pensiero di De Martino, soprattutto sulla sua interpretazione della cultura magico-religiosa del Mezzogiorno italiano in termini di «visione del mondo» propria delle classi subalterne. La «trilogia meridionalista» (Sud e magia; La terra del rimorso; Morte e pianto rituale), esito di un lungo lavoro di ricerca sul campo, intende favorire la comprensione della storia religiosa del Sud e della «questione meridionale»: essa ha profondamente influenzato, foss’anche solo implicitamente, l’elaborazione del progetto di ricerca sulle apocalissi. 11. E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo, in E. DE MARTINO, Il mondo magico, 1997 [1958] cit., pp. 256-57. 12. Sul profilo intellettuale di Enzo Paci e sulle sue relazioni con De Martino, cfr. in questo volume il capitolo 7, parr. 1.1 e 1.5, nonché la relativa introduzione, curata da Giordana Charuty. 13. E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo cit., p. 261. La citazione è estratta da N. ABBAGNANO ,

La struttura dell’esistenza, Paravia, Torino 1939, p. 14.

14. E. DE MARTINO, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», n. 24-25, 1953-1954, p. 18. 15. Ibid., p. 19. 16. Sulla definizione dei criteri che permettono di distinguere la magia dalla religione, cfr. E. DE MARTINO ,

Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1998 [1959], p. 200.

17. E. DE MARTINO, Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in «Aut Aut», n. 31, 1956, pp. 17-38. 18. E. DE MARTINO, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», n. 28, 1957, pp. 89-107. 19. C. G. JUNG e K. KERÉNYI, Einführung in das Wesen der Mythologie, in Akademische Verlagsanstalt, Amsterdam-Leipzig 1941 [trad. it. Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, trad. di Angelo Brelich, Einaudi, Torino 1948]. 20. E. DE MARTINO, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni cit., pp. 105-6. 21. E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino 1958. Il titolo della seconda edizione è stato modificato su richiesta dell’autore: Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 1975. 22. Sulla tecnica dei pianti rituali, la sua efficacia nella risoluzione della crisi del lutto e la sua evoluzione storica, cfr. M. MASSENZIO, Religion et sortie de la religion, in «Gradhiva», n. 28, 2000, pp. 23-32. 23. La lettura del testo di B. CROCE, I trapassati, in Frammenti di etica, Laterza, Bari 1922, pp. 22-24, fornisce a De Martino un modello di «seconda morte» declinata in maniera laica. Il principio fondamentale si basa sul dovere etico da parte di chi resta d’interiorizzare il defunto, coltivando la

sua memoria e completando le sue opere. Dal punto di vista laico è questa l’unica forma di sopravvivenza che esclude la prospettiva metastorica dell’aldilà. 24. E. DE MARTINO, Mito, scienze religiose e civiltà moderna, in «Nuovi Argomenti», n. 37, 1959, pp. 14-48. 25. Ibid., ripubblicato in Furore Simbolo Valore, il Saggiatore, Milano 2013 [1962], pp. 62-63. 26. E. DE MARTINO, Furore simbolo valore cit. 27. M. MASSENZIO, Le volume-testament d’Ernesto De Martino, in «Gradhiva», n. 32, 2002, pp. 53-64. 28. E. DE MARTINO, Furore in Svezia, in Furore Simbolo Valore cit., pp. 183-92. 29. Questo saggio, pubblicato in «Nuovi Argomenti», n. 69-71, 1964, viene proposto nell’Appendice 1 di questo volume.

Daniel Fabre La controversa ricezione de «La fine del mondo»

Quando esce in libreria, nell’autunno del 1977, La fine del mondo è un libro molto atteso, che ben presto si rivela però molto perturbante, come se le tragiche condizioni della sua interruzione l’avessero segnato per sempre. Il mondo intellettuale italiano, ben al di là dell’ambito accademico, sapeva che Ernesto De Martino, in piena attività creatrice, aveva lasciato dietro di sé parti di un’opera monumentale alla quale stava lavorando da almeno cinque anni. All’indomani della sua morte, avvenuta nel maggio del 1965, la sua compagna Vittoria De Palma ha messo in ordine i suoi dossier e li ha consegnati, secondo il volere di De Martino, all’amico Angelo Brelich, professore di storia delle religioni a Roma. Brelich ha riunito alcuni amici competenti, ha valutato il tutto e ha inviato un rendiconto al migliore editore italiano, Einaudi, dello stato provvisorio ma sufficientemente costruito dell’opera. L’opera viene giudicata pubblicabile, e l’accordo dell’editore arriva rapidamente 1. L’attesa comincia. Giancarlo Montesi, il primo collaboratore sollecitato da Brelich, rinuncia. Sicuramente spaventato dalla mole di lavoro, impegnato nelle proprie ricerche, e travolto dalla propria «apocalisse vissuta» 2, il direttore dei lavori abbandona a sua volta. Clara Gallini, assistente di De Martino all’Università di Cagliari, decide di assumersi il compito da sola. Quando Brelich aveva iniziato a coinvolgerla, aveva poco piú di trent’anni. Nella sua recensione 3, l’etnomusicologo Diego Carpitella, collaboratore nelle indagini etnografiche nell’Italia meridionale, sottolinea l’atmosfera di invidia e di contrasti che si sviluppò intorno a questo progetto, percepito come interminabile e, come molti altri critici, lascia intendere che la complessità dell’opera in cantiere avrebbe forse dovuto mobilitare un’intera équipe, dal momento che De Martino fa ricorso a campi del sapere eterogenei, difficili da padroneggiare da una sola specialista. Ma ormai il libro è lí, imponente per volume – 728 fittissime pagine –, per il suo apparato critico erudito, e soprattutto per il suo evidente carattere di libro salvato, il cui destino naturale, in una logica universitaria fatalmente orientata al successo personale, sarebbe stato quello di finire in qualche archivio di intellettuali e scrittori, lasciando alle generazioni future l’eventuale cura di

un’esplorazione retrospettiva e di un’edizione selettiva. Certo, i dodici anni trascorsi dalla scomparsa dell’autore potevano sembrare lunghi, ma forse erano il prezzo da pagare per mantenere De Martino nel presente, come se egli stesso non avesse smesso di lavorare alla sua opera. Il fratello di Marcel Proust e Jacques Rivière avevano preso esattamente la stessa decisione davanti alla massa di quaderni lasciati dallo scrittore. «Bisogna pubblicare la seconda parte della Recherche», come se Proust fosse ancora lí – ciò che credettero del resto alcuni lettori dell’epoca! – correndo il rischio di non risolvere tutti i problemi posti da un manoscritto proliferante, affidando ai futuri curatori il compito di tornare a esplorare il magma dei testi. Cosí fu fatto, e cosí si tornerà a fare, diverse volte ancora, in futuro. Si trattava quindi di offrire a De Martino un supplemento di vita creativa facendo percepire l’evidenza della sua presenza intellettuale. Del resto, questo fu l’effetto percepito da diversi lettori e lettrici che recensirono il libro: l’intellettuale scomparso e che avevano amato veniva loro restituito dopo un lungo decennio di silenzio e di studio. Dal lavoro solitario, accurato ed estenuante di Clara Gallini è scaturito un libro difficile ma accessibile: la studiosa guida il lettore, esplicitando passo dopo passo le proprie perplessità e giustificando le scelte che ha dovuto costantemente operare. Ma qui emerge un paradosso: la curatrice avverte l’esigenza di far precedere la sua edizione da una lunga prefazione – piú di 80 pagine di rara densità – il cui intento principale è dimostrare che questo libro, che rendeva De Martino contemporaneo, era in buona parte inattuale. Detto altrimenti, il presente di De Martino, quello in cui aveva concepito il suo progetto fra il 1960 e il 1965, non era piú quello della sua curatrice e dei suoi lettori del 1977. Non soltanto il libro salvato apparteneva a un’altra epoca, ma non bisognava assolutamente attribuirgli la capacità di comprendere la situazione storica del momento. Al limite, forzando un po’, questo libro sembrava piú «utile» per le reazioni negative che avrebbe sicuramente suscitato, che per i suoi apporti positivi. La sua forza di suggestione doveva quindi essere passata al vaglio di una critica molto esigente, capace di esplicitare, attraverso le personali inclinazioni intellettuali e un contesto datato, le erranze teoriche e politiche del suo autore, e d’indicare altre strade per raggiungere altre verità. Questo atteggiamento critico non toglie nulla all’immensa ammirazione nutrita da Clara Gallini per la personalità intellettuale del suo maestro, come per numerosi brani del libro postumo di

cui lei sottolinea il potere di folgorazione e l’entusiasmante novità. Ma, di fatto, la sua prefazione è un avvertimento al lettore, un’ingiunzione a mantenere il controllo, a prendere le distanze. Sono elementi che oggi ci sembrano essenziali, nel momento in cui intendiamo illustrare la prima ricezione del libro, avvenuta fra il 1978 e il 1982, ovvero la prima ondata di riscontri e dibattiti. In effetti, i «grandi lettori» responsabili del giudizio estremamente contraddittorio sul libro non hanno potuto prescindere dalla prefazione cosí accuratamente meditata di Clara Gallini. Pur fornendo indispensabili chiavi di lettura, la Gallini l’orientava meticolosamente e obbligava a prendere posizione nei casi in cui De Martino veniva inevitabilmente messo a confronto con la sua interprete. Tornare su quest’accoglienza contrastata non risponde oggi al semplice gusto per l’erudizione storica. È interessante per il lettore di oggi sapere fino a che punto il libro che ha fra le mani sia stato materiale sconcertante e ingovernabile anche per la sua prima curatrice, il che rappresenta la migliore garanzia del fatto che quest’opera era e resta «inattuale», ma questa volta nell’accezione di Friedrich Nietzsche.

1. Anacronismi e contraddizioni. Molte delle sue note potrebbero senza fatica essere idealmente retrodatate di qualche anno, nel senso che sembrano avere come principale referente da un lato il pensiero ormai definito dello scrittore, dall’altro la nostra cultura postbellica degli anni Cinquanta, nei suoi diversi campi 4.

Ecco il leitmotiv che introduce La fine del mondo. De Martino non smetterebbe di «ripensarsi», nel senso che, lungi dall’avanzare, si sarebbe ripiegato nel suo «anacronismo drammaticamente isolato». Nello stesso tempo, i suoi strumenti intellettuali non si sono evoluti dal decennio 19451955, e sono dunque «irrimediabilmente datati». «[…] è davvero impressionante la distanza che ci separa da pagine scritte non molti anni fa da uno studioso che fu – e non sarà mai eccessivo ribadirlo – uno dei nostri maggiori uomini di cultura della passata generazione» 5. Questa faglia è senza dubbio, aggiunge Clara Gallini, la causa o l’effetto dell’oblio, della damnatio memoriae che ha colpito De Martino nel decennio che seguí la sua morte.

Nel caso de La fine del mondo, per Clara Gallini, c’è una ragione ancora piú centrale e piú evidente, una contraddizione principale che genera una valanga di contraddizioni secondarie che indeboliscono il progetto stesso dell’autore. Piú volte, nei suoi lavori precedenti, De Martino ha affermato che la sua etnologia è sempre, in qualche modo, storica: elucida situazioni caratterizzate da coordinate spazio-temporali e sociali molto precise, presta attenzione ai rapporti di contesto, pratica la comparazione all’interno di aree culturali modellate da uno stesso destino storico, ecc. Ora, nel libro postumo, si tratta di assumere a oggetto d’indagine la condizione umana in generale. Il Dasein, la presenza al mondo, è minacciato di dissoluzione per ogni uomo e ogni società, in ogni tempo e in ogni luogo. La cultura propone dei dispositivi che permettono pro tempore di «uscire dalla storia» collettivamente – attraverso il simbolismo mitico-rituale nelle società caratterizzate da un sistema di pratiche e di credenze di tipo magico e religioso, attraverso altre strade nelle società moderne – e poi di reintegrarla. Situazione storica da un lato, condizione umana dall’altro: la tensione oppone dunque storia e ontologia, e De Martino avrebbe definitivamente posto l’accento su quest’ultima. Il che autorizza a paragonare fra loro delle apocalissi culturali prive di connessioni storiche – per esempio le prime comunità cristiane e i messianismi coevi del Terzo Mondo – e soprattutto a introdurre la correlazione con le apocalissi psicopatologiche, i «deliri da fine del mondo», vissuti individualmente. Proprio quando delle analisi particolareggiate, molto sottili, a tratti brillanti, punteggiano il libro, la contraddizione principale ne intaccherebbe la coerenza destabilizzandone l’architettura. Clara Gallini puntualizza piú volte questo «difetto». Basterà offrirne tre esempi. Innanzitutto, come un rumore di fondo, la tensione irrisolta fra la decisa affermazione della ragione e il fluire vertiginoso dell’irrazionale. De Martino lo evocherebbe «per esorcizzarlo solennemente», ma resta affascinato dalla letteratura europea della crisi. Quella che comincia nel 1919 col primo volume de Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, e continua con Ludwig Klages, Ernst Jünger, Alfred Baümler, Alfred Rosenberg… A questo irrazionalismo tedesco si sarebbe opposto, negli ambienti italiani del dopoguerra, un irrazionalismo progressista, volto a valorizzare il «primitivo», attinto essenzialmente dalle opere di Lévy-Bruhl e, attraverso lui, di Henri Bergson. De Martino, pur mettendola vigorosamente in discussione, sarebbe stato captato da questa corrente di pensiero, alla quale sarebbe fra l’altro

debitore dell’intenso pathos col quale evoca le fragilità della presenza e l’angoscia di «non esserci». Clara Gallini applica sistematicamente questo ribaltamento analitico – ove la distanza critica diventa rivelatrice del fascino per l’oggetto criticato – ad altri riferimenti e ambiti privilegiati da De Martino: le teorie irrazionaliste del sacro e del religioso, le specificità del rapporto al mondo di stampo rurale, proprio delle regioni dominate del Sud, la fenomenologia imperniata sul disgusto per il mondo propagata dai filosofiromanzieri esistenzialisti… Pur tenendo consapevolmente a distanza questa letteratura, De Martino avrebbe finito «anche per riconoscere quelle che egli ritiene le sue piú valide acquisizioni teoriche» 6. Inoltre, e a un livello forse piú profondo, Clara Gallini trova in De Martino una contraddizione – che è passata inosservata – relativa alle sue utilizzazioni, numerose e cruciali, della nozione di crisi. Qui la discussione si fa piú serrata: L’analisi del rapporto fra crisi esistenziale e società […] parte di fatto piú dall’esame delle dinamiche interne alla crisi che non da quello delle strutture […] proprio di quella società che viene peraltro denunciata come generatrice di crisi 7.

Rimprovero centrale e ricorrente, quello di aver ignorato la «struttura sociale» degli antropologi britannici e i «rapporti di classe» dell’analisi marxista. Ma, piú in generale, sullo sfondo di questa critica c’è ancora una volta l’oblio della storia e l’attrazione per l’ontologia: Questo assunto legittimerà De Martino a utilizzare, in quasi tutte le sue opere, le varie descrizioni psichiatriche di stati critici […] non come documenti che descrivono forme attuali e moderne di particolari disagi, ma come esempi di crisi in assoluto 8.

Infine, terzo ambito in cui la contraddizione incrocia l’epistemologia e la politica: il posto del mondo subalterno nel progetto generale de La fine del mondo. Clara Gallini ricorda fino a che punto la lettura dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci aveva guidato il De Martino etnografo dei primi anni Cinquanta. La cultura dei dominati del Sud era al cuore del suo lavoro. Ma rifiutandosi di rinchiudere i contadini del Mezzogiorno in una sorta di recinto etnico, egli sviluppò un’analisi delle relazioni dialettiche con la cultura borghese dominante, per esempio a proposito delle configurazioni del

«malocchio». La fine del mondo segnerebbe non soltanto l’abbandono di questi interessi, ma anche una sorta di rovesciamento: la cultura dell’Occidente è identificata con la «cultura borghese»; De Martino la colloca al centro della sua indagine dandosi come oggetto di ricerca dei prodotti artistici e letterari tipici della cultura «alta». Egli invita al superamento dell’apocalissi no future che colpisce l’Occidente contemporaneo ma, si domanda Clara Gallini, bisogna veramente preoccuparsi della fine del mondo dei dominanti, arrivato al termine della sua corsa? Del resto, l’interesse per le classi popolari subalterne del Mezzogiorno rurale era presumibilmente solo un modo per mascherare la scomparsa storica dei contadini, esaltando la loro cultura ed esplicitando la loro condizione. Da questo punto di vista, il meridionalismo di De Martino sarebbe l’effetto di una moda contingente, legata alla corrente neorealista che si estingue a metà anni Cinquanta, quando il movimento operaio e le lotte di decolonizzazione del Terzo Mondo si pongono all’avanguardia del movimento storico. Intriso di contraddizioni, il progetto di De Martino rivelerebbe, in ultima istanza, la sua condizione di comunista reietto e di marxista incoerente. Sul primo punto, anche se nel 1977 l’approccio storico non era all’ordine del giorno, Clara Gallini ricorda quanto, dopo la sua adesione al partito comunista, De Martino fosse oggetto di un’attenzione critica particolarmente vigile. I suoi oggetti di ricerca – la religione, la magia – sembravano delle curiosità malsane, in ritardo rispetto all’evoluzione sociale. Inoltre, la linea nazional-popolare caldeggiata dal partito dopo la guerra poteva adattarsi all’irrazionalismo anarchico di un Carlo Levi 9, ma non a un’antropologia della crisi di un De Martino. A ciò si aggiunga che «la prudenziale linea togliattiana nei confronti delle masse cattoliche» 10 non esortava particolarmente ad approfondire l’osservazione della loro cultura dal punto di vista egemonico o subalterno. Emarginato, nel 1957 De Martino lascia il partito in maniera discreta, episodio ormai adeguatamente chiarito dalla documentazione d’archivio 11: ciò che gli consente di esprimersi liberamente ne La fine del mondo in merito alla scarsa comprensione dei fenomeni religiosi da parte del comunismo occidentale e della teoria marxista. Clara Gallini concorda con De Martino quando sostiene che la religione è, in alcune società e in certi momenti della storia, l’unico orizzonte unificatore della presenza collettiva al mondo, ma esprime sul suo marxismo un giudizio che ne evidenzia i limiti:

[…] si muove verso direzioni a dir poco cosí stravaganti, da costringerci brutalmente alla domanda di quanto in realtà De Martino, a un livello teorico piú generale, praticasse i principî piú elementari di un materialismo dialettico, peraltro ormai non del tutto estranei alla nostra cultura degli inizi degli anni Sessanta 12.

Tutta la prefazione è percorsa da condanne di questo tipo. Esse si precisano e si intensificano quando si tratta delle prospettive della «nuova etnologia», che deve guardarsi bene dal sostenere ciecamente tutte le forme di resistenza e tutte le lotte di liberazione del Terzo Mondo – tema trattato da De Martino a proposito delle apocalissi legate ai movimenti di decolonizzazione. Occorre un’analisi «corretta» per snidare in questi movimenti la riproduzione dei rapporti di dominio e l’instaurazione del neocolonialismo. Verso la fine dell’introduzione la raffica delle argomentazioni dà luogo a una constatazione che mette in dubbio il totale padroneggiamento del progetto di De Martino, lasciando intravvedere un’ossessione soggiacente: «La fine del mondo può anche essere letto come una drammatica testimonianza di una ricerca del significato della civiltà occidentale…» 13.

2. Domande e risposte. La prefazione di Clara Gallini è oggi una lettura appassionante perché, oltre ai suoi contenuti intrinseci, invita a una messa in prospettiva e a una comprensione contestuale che bisognerebbe perseguire connettendo il campo politico e il campo della conoscenza. Non è questa la sede giusta per intraprendere una simile operazione. Ci accontenteremo di reperirne gli effetti, là dove accompagnano, come spesso accade, la ricezione dell’opera postuma di De Martino. Innanzitutto, in questo sguardo critico c’è un punto cieco che il lettore di oggi può fare fatica a individuare. Qual è questo ribaltamento in virtú del quale De Martino si sarebbe visto rigettato indietro nel passato? Da dove proviene quest’improvvisa accelerazione del tempo che renderebbe obsolete interi ambiti di pensiero? *** Alle domande decisive che formulava, analizzando la difficile ricezione italiana dell’ultimo De Martino, Daniel Fabre non ha avuto la possibilità di

rispondere. Per una sorta di tragica ripetizione, lui stesso è entrato nella sua apocalisse il 23 gennaio 2016, poco prima di terminare un lavoro editoriale che ci ha tenuti occupati per tre anni. Con la sua abituale propensione all’esaustività, aveva costituito un dossier con tutti i riscontri critici, dai piú noti a quelli dimenticati dagli stessi studiosi italiani. Gli restava da trovare, cosí ci diceva, una rivista – «Testimonianze» 14 – prima di ultimare una presentazione che avrebbe contestualizzato le scelte demartiniane all’interno dei paradigmi all’epoca dominanti nell’antropologia italiana. Di questo dossier critico possiamo qui brevemente ricordare gli elementi principali. Nei mesi immediatamente successivi alla sua pubblicazione, grandi quotidiani e riviste pubblicarono delle recensioni su La fine del mondo. Per quanto rapide, le poche righe del cronista Vittorio Saltini vanno al cuore del problema – perché rimproverare a De Martino di ignorare i principî del materialismo storico, perché sospettarlo d’irrazionalismo? – mentre il grande critico letterario Pietro Citati sembra affascinato da tutte queste «ignote voci d’ombra» che raccontano di «cuori vuoti», di «foreste pietrificate» dell’esperienza schizofrenica 15. Ma saranno i due ricercatori che hanno condiviso con De Martino intense esperienze di campo, Diego Carpitella e Annabella Rossi, a sforzarsi di fare entrare il lettore in questa complessità di orizzonti disciplinari che «sconvolge la tradizione accademica» 16. Entrambi ritrovano, in questo «non libro», l’intellettuale di sinistra che sconvolgeva tutti i conformismi culturali e politici; cosí controbattono alle critiche avanzate da Clara Gallini e in parte riprese da Vittorio Lanternari. Per Carpitella le prospettive inaugurate da questa ricerca rivelano la loro assoluta attualità poiché l’etnologo dell’Italia del Sud non soltanto ha «sprovincializzato» questo sapere che in Italia è definito «demologia» ma, dopo il maggio 1968, bisogna collocare De Martino a fianco di Michel Foucault, Louis Althusser e Herbert Marcuse, se si vuole riconoscere la dimensione sovversiva della sua opera. Le prime recensioni apparse in riviste specialistiche lasciano invece intravvedere un complesso misto di ammirazione, perplessità, imbarazzo, e vivaci repliche alle obiezioni piú ricorrenti. Alfonso Di Nola parla di «un pullulare caotico di temi» causato dallo stato e dalla presentazione dei materiali e si duole, come Clara Gallini, dell’assenza di analisi delle strutture sociali 17. Lanternari riprende, ampliandolo per la rivista dell’Istituto Gramsci, un articolo apparso ne «Il Messaggero» 18. La sua perplessità si traduce

nell’estrema difficoltà che sembra provare nel caratterizzare le opzioni filosofiche di quest’impresa: «[…] con la sua tensione marxista incrostata di esistenzialismo, di storicismo postcrociano e di ontologismo psicologico […]» 19. Sarebbe tuttavia difficile rimproverare a De Martino – come fa invece la generazione dei giovani ricercatori italiani – di ignorare le esigenze di un’antropologia marxista poiché, egli ci ricorda, verso la metà degli anni Sessanta l’analisi antropologica dei modi di produzione è in Francia appena agli albori, grazie ai lavori di Claude Meillassoux, Maurice Godelier, Emmanuel Terray. Soltanto in questo senso De Martino sarebbe «un uomo di ieri». Il che significa mettere da parte la sua critica delle debolezze dell’analisi marxista del religioso che pure Lanternari condivide. Anche il suo lungo commento dedicato alla nozione di «etnocentrismo critico» è percorso da un giudizio ambivalente. Se questo presupposto metodologico ha già guidato numerosi etnologi, De Martino è il primo che ne formula una definizione cosí rigorosa; ma alimentando, in maniera paradossale, una fede incondizionata nei valori della cultura europea, questo principio non renderebbe ciechi di fronte alle invenzioni proprie di altri mondi culturali? Tuttavia, sarà una giovane rivista di storia sociale ed economica, «Quaderni Storici», la stessa che ha introdotto la microstoria, a organizzare, l’anno successivo alla pubblicazione de La fine del mondo, un importante dibattito con l’obiettivo di riflettere sull’indifferenza demartiniana riguardo agli steccati frapposti tra scuole e discipline 20. Oltre all’etnologo meridionalista Luigi Lombardi Satriani, sono invitati a discutere con la curatrice gli psichiatri Giovanni Jervis e Michele Risso, il germanista Cesare Cases, che aveva già ampiamente commentato l’itinerario intellettuale demartiniano in occasione di una riedizione de Il mondo magico 21, lo storico del Cristianesimo antico Pier Cesare Bori e Carlo Ginzburg, il cui intervento ebbe un particolare impatto. Cases, la cui ambivalenza è pari a quella di Lanternari, sottolinea: «[…] la capacità del grande pensatore di tradurre tutto in suo linguaggio, che è fatto appunto anche di traduzioni, ma di traduzioni talmente appaesate al suo stile che non si sente piú che si tratta di traduzioni […]» 22. Bori ricorda il contesto che giustifica i lunghi commenti di teologi protestanti, paradossalmente mobilitati dai cattolici progressisti nella preparazione del Concilio Vaticano II. Peraltro, resta tutta da realizzare l’analisi delle diverse letterature apocalittiche, canoniche o apocrife.

Carlo Ginzburg, che in quel momento sta lavorando al suo grande saggio di epistemologia delle scienze umane, «il paradigma indiziario» 23, sottolinea il suo disaccordo con Clara Gallini su due punti essenziali. Per quanto la Scuola di Francoforte sia assente dall’opera demartiniana, egli pensa che ci si debba interrogare sulle sue sorprendenti affinità con gli interrogativi di Theodor Adorno e di Max Horkheimer, già notate da Renato Solmi, che li ha introdotti in Italia 24. E, tornando alla prima formulazione del rapporto problematico con il mondo, propone di inserire Il mondo magico di De Martino, cosí come Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno – assieme a Paura della libertà di Carlo Levi, Apologia della storia o mestiere di storico di Marc Bloch e Una storia modello di Raymond Queneau – in una costellazione europea dei libri dell’«anno zero» scritti sotto la minaccia nazista del crollo di un mondo 25. D’altra parte, per Carlo Ginzburg non si potrebbe rimproverare a De Martino la mancata applicazione delle regole elementari del materialismo dialettico, poiché buona parte della sua riflessione concerne un rifiuto argomentato dei suoi limiti scientifici. Ma le risorse concettuali utilizzate sono di differente interesse, a seconda che seguano un’opzione idealista, o che si orientino verso un’antropologia maussiana delle forme di addomesticamento del mondo. Ad ogni modo, è evidente che «[…] una lettura storica di De Martino debba prendere in considerazione un contesto culturale non esclusivamente italiano» 26. Detto questo, sarebbe vano tentare di restituire un’analisi interrotta per sempre. Potremo tuttavia basarci su una riflessione che Daniel Fabre ha iniziato quindici anni fa, nel corso di un seminario tenutosi a Roma presso l’istituto dell’Enciclopedia italiana in occasione della seconda edizione italiana de La fine del mondo, e che ha proseguito in piú tappe, conferendole forma piú compiuta in un dossier della rivista «Archives des sciences sociales des religions», di fatto propedeutica all’edizione francese 27. Innanzitutto, Fabre ci invita a individuare una prima spiegazione della perplessità dei lettori italiani. Definire il proprio lavoro «etnologia riformata» equivale – per De Martino – a ridefinire in maniera radicale il progetto di conoscenza di questo campo del sapere: non piú soltanto lo studio delle società arcaiche, ma l’«incontro etnografico» in sé, nel contesto delle società contemporanee, «in situazione di ineguaglianza, di violenza, di dominio simbolico» 28. Quanto all’oggetto intellettuale che ne scaturiva, la sua formulazione perfezionata induce a riconoscere un progetto di «antropologia della storia» incentrato

sulla relazione fra l’Occidente e l’«alterità», piuttosto che un’antropologia della cultura con i suoi universali, come nel programma lévi-straussiano. E qui, sforzandosi a sua volta di identificare una costellazione di opere che potrebbero gettare luce sul progetto demartiniano, Daniel Fabre faceva questa proposta: A questo punto si apre il dialogo con altre opere che possiamo collocare sulla scia di Weber, un sociologo la cui opera principale è accessibile al pubblico italiano dal 1961, di cui De Martino ha incoraggiato la traduzione, ma che non cita mai […]. Eppure il suo libro postumo sui fondamenti religiosi dell’economia, e quelli di Norbert Elias sul «processo di civilizzazione», di Johan Huizinga sul gioco e la crisi delle civiltà, e quelli ancora a venire di Pierre Francastel sulle rotture nella storia dello spazio figurativo, di Philippe Ariès sulla storia del sentimento dell’infanzia e della morte, di Louis Dumont sulla genesi e sulla forma occidentale dell’individualismo, di Claude Lefort sulle democrazie e sulla reazione totalitaria, di Marcel Gauchet sulla storia occidentale del soggetto, o anche di Michel Foucault sulle genealogie europee della ragione, del sapere, del potere e dell’io mi sembrano presentare un’affinità intellettuale, un modo di scomporre gli oggetti, una cura nella ricostruzione problematizzata dello spazio e del tempo storico che, al di là di contrasti evidenti, finiscono per costituire uno stile d’analisi lontano tanto dalle prudenze dell’erudizione accademica quanto dall’improvvisazione senza fondamento di certe filosofie della storia. Ad ogni modo, la varietà dei campi dell’esperienza umana presi in considerazione, e la successione dei tempi e delle società analizzate – a cominciare da quest’«Occidente» di cui ci si tiene a sottolineare l’intrigante singolarità in seno alle civiltà del mondo – bastano per giustificare l’accostamento 29.

Ma ci sono altre ragioni che motivano il dialogo che Daniel Fabre stesso intratteneva con tutte queste opere. Il progetto demartiniano si basa su una costruzione complessa in cui si sovrappongono delle relazioni, allo stesso tempo, storicamente attestate e logicamente fondate, come in Louis Dumont. Egli sovverte l’opposizione fra individuale e collettivo, psicologico e sociologico, per legare insieme le trasformazioni della società e quelle dell’economia psichica come in Michel Foucault, come in Marcel Gauchet quando analizza la crisi dell’individuo, e come in Norbert Elias quando s’interroga sui processi di de-civilizzazione: altrettante grandi imprese intellettuali che, a eccezione di Elias, assegnano al Cristianesimo una funzione fondamentale, ma nettamente differenziata passando da un autore

all’altro. Comparare questi cristianesimi è una delle prospettive aperte da Daniel Fabre, lettore de La fine del mondo. GIORDANA CHARUTY e MARCELLO MASSENZIO 1. Cfr. supra, «Tradurre» La fine del mondo di Giordana Charuty. 2. V. LANTERNARI, L’apocalisse vissuta: Angelo Brelich, in Festa, carisma, apocalisse, Sellerio, Palermo 1983, pp. 281-88. 3. D. CARPITELLA, Ernesto De Martino ha sconvolto la tradizione accademica. La necessità dei simboli permane a lungo anche quando le strutture sociali sono radicalmente cambiate, in «Avanti!», 12 aprile 1978. 4. C. GALLINI, Introduzione, in E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. XXII . 5. Ibid., p. XXIII . 6. Ibid., p. LXI . 7. Ibid., p. LXVII . 8. Ibid., p. LXVIII . 9. C. Levi (1902-1975), pittore, giornalista e scrittore, assieme a Leone Ginzburg era responsabile del movimento Giustizia e libertà. Condannato fra il 1935 e il 1939 al confino in Lucania, durante la Grande Guerra milita nel Partito d’azione e sarà poi eletto senatore indipendente nella lista del Partito Comunista Italiano nel 1963. Tradotta in molte lingue, la sua cronaca del confino in Lucania fu fonte di ispirazione per le prime inchieste di De Martino: Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1945. 10. Ibid., p. LXXV . A partire dal 1944, Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, cercò di costruire un «partito nuovo», cioè un partito di massa che potesse far fronte alle organizzazioni cattoliche. In particolare, una modifica dello statuto autorizzava le adesioni a prescindere dalle convinzioni filosofiche e dalla «fede religiosa» di ognuno. 11. V. S. SEVERINO, Ernesto De Martino nel Pci degli anni cinquanta tra religione e politica culturale, in «Studi Storici», n. 2, 2003, pp. 527-48. 12. C. GALLINI, Introduzione cit., p. LXXVII . 13. Ibid., p. XCI . 14. Si tratta della recensione del fondatore di questa rivista cattolica di sinistra: E. BALDUCCI, La fine del mondo, in «Testimonianze», n. 207, 1978, pp. 478-89. 15. V. SALTINI, A tu per tu con il Mito, in «L’Espresso», 2 aprile 1978; P. CITATI, La schizofrenia nel libro postumo di Ernesto De Martino. Foreste pietrificate dietro la realtà, in «Corriere della Sera», 20 aprile 1978. 16. D. CARPITELLA, Ernesto De Martino ha sconvolto la tradizione accademica cit.; A. ROSSI,

L’ultimo messaggio di un grande studioso, in «L’Ora», 24 marzo 1978. 17. A. DI NOLA, Le «apocalissi» di E. De Martino, in «La Critica sociologica», n. 48, 1978, pp. 40-44. 18. V. LANTERNARI, Ernesto de Martino fra storicismo e ontologismo, in «Studi Storici», vol. 19, n. 1, gennaio-marzo 1978, pp. 187-200. Ripubblicato con un nuovo titolo, L’apocalisse come problema antropologico: Ernesto De Martino, in Festa, carisma, apocalisse, Sellerio, Palermo 1983, pp. 267-80. 19. V. LANTERNARI, Fra storicismo e ontologismo cit., p. 190. 20. La fine del mondo di Ernesto De Martino, in «Quaderni Storici», n. 40, gennaio-aprile 1979, pp. 228-48. 21. Il Mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Boringhieri, Torino 1973. 22. La fine del mondo di Ernesto De Martino, in «Quaderni Storici» cit., p. 232. 23. Spie. Radici di un paradigma indiziario è stato pubblicato per la prima volta in un volume collettaneo a cura di A. GARGANI, Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi, Torino 1979. 24. Renato Solmi ha tradotto e prefato l’opera di Theodor Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1954. Una lettera inedita di De Martino consente di far risalire la lettura di questo libro esattamente al periodo del viaggio che l’antropologo fece in Romania per documentare i lamenti funebri: «Nel corso di un interminabile viaggio in Transilvania (dove le nevi stentano a sciogliersi) ho letto finalmente Adorno e la tua prefazione: ne riparleremo a voce...» (De Martino a Renato Solmi, 11 ottobre 1955, Archivio De Martino, 29). 25. M. HORKHEIMER e T. W. ADORNO , Dialettica dell’illuminismo, trad. di Renato Solmi, Einaudi, Torino 2010 [1947]; C. LEVI, Paura della libertà, Einaudi, Torino 1946; M. BLOCH, Apologia della storia, Einaudi, Torino 1950; R. QUENEAU, Una storia modello, Fabbri, Milano 1973. 26. La fine del mondo di Ernesto De Martino cit., p. 239. Invitato a riflettere ancora su questo progetto, Carlo Ginzburg ne propone una nuova contestualizzazione, questa volta cinematografica: Genèses de «La fin du monde» d’Ernesto De Martino, in «Gradhiva», n. 23, 2016, pp. 194-212. 27. D. FABRE, Ernesto De Martino. «La fin du monde» et l’anthropologie de l’histoire, in «Messianismes et anthropologie entre France et Italie», dossier curato da D. FABRE e M. MASSENZIO ,

Archives de sciences sociales des religions, n. 161, gennaio-marzo 2013, pp. 147-62.

28. Ibid., p. 149. 29. Ibid., p. 153.

Preambolo

1. L’edizione del testo. Una prima selezione dei testi è stata effettuata a partire dall’edizione italiana de La fine del mondo, seguendo alcuni criteri: rimanere fedeli alla struttura complessiva, ma ridurre lo squilibrio prodotto dall’eterogeneità di alcuni capitoli; privilegiare i testi la cui stesura era piú compiuta, rendendo consapevole il lettore dell’andirivieni dell’autore fra letture e scrittura; non limitarsi a riprodurre le note bibliografiche, offrendone invece una rapida presentazione; ridurre le citazioni molto lunghe, pur salvaguardando la comprensione del commento. In un secondo momento il testo è stato messo a punto confrontando queste scelte con l’archivio digitalizzato, gestito da Gino Satta per l’Associazione Internazionale Ernesto De Martino. All’inizio degli anni Novanta quest’archivio è stato oggetto di una prima, parziale organizzazione da parte di Eugenio Capocasale, seguita da un nuovo lavoro di catalogazione da parte di Roberto Pàstina, che ne ha redatto l’inventario. Ciò ha consentito a Giordana Charuty di rintracciare i dossier di lavoro, individuando le lacune e stabilendo le concordanze col testo pubblicato, per procedere poi ai diversi aggiustamenti che sono risultati necessari a mano a mano che il laboratorio demartiniano ci diventava piú familiare. Abbiamo innanzitutto dato la parola all’autore, offrendo all’«ascolto» gli unici due interventi pubblici nel corso dei quali De Martino ha presentato la sua ricerca, pochi mesi prima della sua scomparsa 1. La distribuzione in capitoli fa riferimento alla descrizione stabilita da Angelo Brelich 2, ma i titoli degli ultimi due sono stati modificati in funzione del contenuto dei dossier. All’interno di ogni capitolo, il nuovo ordine dei frammenti tiene conto delle diverse classificazioni di cui l’archivio porta traccia; il che ha portato a ripensare la divisione in sezioni, che hanno nuovi titoli. Il confronto con la scrittura manoscritta o dattiloscritta ha indotto a privilegiare la continuità della riflessione sostituendo, laddove necessario, la distribuzione tipografica per paragrafi a quella per frasi, piú adatta a semplici annotazioni, e

raggruppando dei frammenti che, a volte, rimandavano semplicemente a un cambio di pagina. Abbiamo però conservato la frammentazione del testo di De Martino laddove sembrava esserci consonanza con l’oggetto della sua riflessione come nel caso della frammentazione del mondo nella letteratura moderna. E abbiamo conservato, in alcuni casi, le varianti di uno stesso testo al fine di documentare il lavoro di riscrittura. I puntini di sospensione fra parentesi quadre indicano i tagli effettuati rispetto alle precedenti edizioni. Eccezion fatta per alcune ripetizioni, che interrompevano il ritmo del pensiero, abbiamo mantenuto i titoli dei frammenti, attribuiti da De Martino o da Clara Gallini, la prima curatrice. Per non appesantire il testo, le bibliografie che a volte De Martino dava all’inizio di un frammento sono state riportate in nota, e segnalate in quanto tali. Per lo stesso motivo, abbiamo riportato una sola volta il riferimento completo del testo commentato quando la riflessione si sviluppa su diversi frammenti, o quando un frammento spostato riguarda un testo già segnalato. Le edizioni delle opere citate in nota sono quelle utilizzate da De Martino, mentre per alcune citazioni di letteratura contemporanea abbiamo indicato l’edizione piú facilmente accessibile al lettore d’oggi. Ogni capitolo è accompagnato da un’introduzione, che esplicita i criteri della sua ricomposizione rispetto alla precedente edizione italiana, restituisce le principali articolazioni sottese all’ordine dei frammenti e fornisce al lettore alcuni elementi di contestualizzazione che gli consentono di collocare l’argomentazione sviluppata nell’opera demartiniana rispetto ad altre tradizioni intellettuali o nell’attualità scientifica dell’epoca. De Martino crea il proprio linguaggio a partire da una pluralità di idiomi ciascuno dei quali ha una propria storia. Individuare il singolare processo attraverso il quale il pensiero filosofico e medico tedesco e francese si è acclimatato nella cultura italiana è necessario per capire meglio il modo in cui l’autore lo rimodula, inserendone i vocabolari tecnici in altre reti semantiche. Attraverso i frammenti, comprendiamo, quindi, la genesi delle invenzioni concettuali di De Martino e, piú in generale, il suo modo di pensare tra le lingue e tra diversi lessici filosofici.

2. Apparato critico.

L’apparato critico, realizzato da Giordana Charuty, fornisce diversi strumenti di lettura. Le note mirano a completare i riferimenti alle opere utilizzate, a documentare il corpus di autori commentati, a fare luce su alcune allusioni, alcuni riferimenti storici o elementi dell’analisi relativamente oscuri, a segnalare i rinvii fra i diversi capitoli, a indicare alcuni problemi specifici di traduzione o di scelta dell’edizione delle opere citate. Una tavola sinottica permette anche di rifarsi alla numerazione dell’edizione precedente, completata dall’edizione piú recente di inediti e, nella misura del possibile, al testo custodito nell’archivio digitale 3. Alcuni documenti, o interi dossier, non sono stati ritrovati. La bibliografia alla fine del volume aggiunge alle opere commentate dall’autore nell’insieme dei frammenti tradotti i riferimenti bibliografici forniti dai curatori nelle note e nelle introduzioni. A completamento dell’opera, è stato inserito un indice dei nomi. GIORDANA CHARUTY, DANIEL FABRE e MARCELLO MASSENZIO 1. Cfr. infra, in questo volume, Domani ci sarà un mondo? e Apocalisse del terzo mondo e apocalisse europea. 2. Cfr. supra, l’introduzione a questo volume «Tradurre» La fine del mondo di Giordana Charuty. 3. Appendice 2: Tavola delle corrispondenze.

Ringraziamenti

Ringraziamo Christophe Pourchasson e Emmanuel Désveaux che hanno accolto questa traduzione presso le edizioni dell’EHESS, cosí come la casa editrice Einaudi, che ha autorizzato questo «adattamento» dell’opera demartiniana. Clara Gallini ha generosamente incoraggiato questo ripensamento critico del progetto di un’opera che aveva dovuto portare a termine da sola. A lei, cosí come a Vittoria De Palma, compagna e collaboratrice di Ernesto De Martino, esprimiamo tutta la nostra riconoscenza. All’interno dell’Associazione Internazionale Ernesto De Martino il lavoro sull’archivio digitale è stato facilitato da Gino Satta, Roberto Pàstina, Eugenio Capocasale; Adelina Talamonti ha individuato i documenti dell’archivio demartiniano che non erano stati digitalizzati. Un seminario organizzato all’École pratique des hautes études (EPHE), poi all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS) ha accompagnato, dal 2013 al 2015, questo lavoro di edizione e di traduzione che si è avvalso dell’interesse, della competenza, delle riflessioni e degli incoraggiamenti di numerosi colleghi francesi e italiani: Vincent Barras, Cléo Marcello Carastro, Riccardo Di Donato, Claudine Gauthier i cui commenti e le cui riflessioni hanno rilanciato la nostra riflessione; Roberto Beneduce, che sa associare De Martino e Frantz Fanon; Riccardo Ciavolella, Valerio Petrarca e Giuseppe Vacca che hanno fatto dialogare De Martino e Antonio Gramsci; Dorothy Zinn traduttrice di De Martino per il mondo anglosassone. Carlo Ginzburg proiettò una nuova luce sui diversi contesti di nascita del progetto demartiniano e, cosí facendo, gli restituí una modernità inaspettata. Siamo sicuri che De Martino avrebbe sottoscritto le «politiche della trascendenza» di Emmanuel Terray, tanto quanto il dialogo fra antropologia e filosofia intrecciato da Alfred Adler, lettore africanista di Hegel. Le riflessioni di Michèle Coquet, uditrice fedele, ci sono state preziose. A tutti coloro che sono intervenuti, come a tutti i nostri uditori, esprimiamo la nostra piú sincera gratitudine. Ringraziamo Emanuelle Assaguès, François Capelani, Paula Jiménez e Milène Veyrier delle edizioni EHESS per la competenza e l’interesse mostrati.

Ouverture Domani ci sarà un mondo?

A Perugia, fra il maggio e il luglio del 1964, Ernesto De Martino partecipa a due convegni internazionali che costituiscono per lui l’occasione per esporre i grandi temi della ricerca alla quale sta lavorando sin dall’inizio degli anni Sessanta. Il primo incontro apre la serie dei convegni annuali «Il mondo di domani», organizzati dal filosofo cristiano Pietro Prini, che insegna a Perugia e che quello stesso anno ottiene la cattedra di storia della filosofia all’Università «La Sapienza» di Roma. Seguendo il modello delle conferenze internazionali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), alcuni intellettuali di diversa provenienza scientifica e artistica sono invitati a definire i contorni della civiltà contemporanea a partire dalle discipline di cui ognuno di loro è un eminente rappresentante. Per la Francia va rilevata la presenza di Paul Ricœur, Jean Wahl, Gabriel Marcel, Octave Mannoni e Pierre Schaeffer, a fianco a colleghi italiani come Guido Calogero per la filosofia e Umberto Eco per l’estetica. Quest’ultimo in tale occasione propone degli strumenti di analisi delle culture popolari contemporanee al fine di sottrarle alla diagnosi di «apocalittiche», mostrando quanto siano integrate alle risorse estetiche piú sofisticate 1. In questo dialogo tra filosofi di orientamenti diversi, psicologi, psicoanalisti, fisici, cibernetici, scrittori, architetti, e compositori, De Martino decide di intervenire in maniera provocatoria. Tre mesi piú tardi, fra il 25 luglio e il 1° agosto, un secondo convegno intitolato «La presenza dell’Africa nel mondo di domani», viene organizzato da Prini e dall’Associazione degli amici italiani di «Présence Africaine». Prefigurando gli studi post-coloniali, il movimento, fondato nel 1947 a Parigi per iniziativa di Alioune Diop, si era strutturato intorno a una rivista, una casa editrice (1949) e una libreria (1962), con lo scopo di dare voce alle diverse correnti intellettuali legate al «mondo nero» 2. Il primo congresso di scrittori e di artisti neri è organizzato a Parigi nel 1956, il secondo a Roma nel 1959. L’associazione italiana viene fondata nel 1961 per iniziativa di Marcella Glisenti. La sua prima attività è l’apertura, sempre a Roma, di una libreria specializzata sull’Africa – «Paesi nuovi» – fondata seguendo i consigli di Diop. Dopo l’apertura della libreria, la seconda realizzazione è rappresentata dall’organizzazione dell’incontro di Perugia, una novità assoluta nella cultura italiana dell’epoca, come ricorderà piú tardi Marcella Glisenti, co-organizzatrice di questo convegno che ottiene notevole risonanza 3, e al quale De Martino partecipa assieme all’amico Vittorio Lanternari 4. È stato forse organizzato a partire dal dibattito suscitato dal primo convegno? Negli atti del convegno inaugurale, pubblicati nell’ottobre dello stesso anno 5, Prini indicava come apporto principale del convegno, l’esistenza «di una nuova antropologia», ma nel riassumere gli interventi dei vari partecipanti taceva, curiosamente, proprio il nome dell’unico antropologo professionista – De Martino – presente fra i

partecipanti. Cosí come andrà notato che De Martino era l’unico intellettuale ad aver adottato una prospettiva decentrata rispetto alla cultura occidentale per porre la questione della crisi delle società colonialiste e dei movimenti terzomondisti. L’impostazione dei due interventi è molto diversa: il primo si volge a un pubblico che si suppone avere scarsa familiarità con i temi della ricerca dell’etnologia contemporanea; il secondo, presentato in un convegno al quale parteciparono Georges Balandier e Roger Bastide, consiste in una comunicazione rivolta evidentemente a dei colleghi 6. Il primo intervento è totalmente assente dalle precedenti edizioni de La fine del mondo, mentre il secondo compare solo nella seconda 7; nell’insieme i due interventi si completano l’un l’altro, andando a comporre l’unica presentazione orale dell’incompiuto progetto di ricerca di De Martino. Giordana Charuty 1. U. ECO, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 1964. Il titolo di questo volume, che è stato un grande successo editoriale, si è trasformato, nell’arco di alcuni anni, in espressione del linguaggio comune. 2. Présence africaine. Les conditions noires: une généalogie des discours, in «Gradhiva», n. 10 (numero speciale), 2009. 3. Cfr. M. GLISENTI (a cura di), Hommage à Alioune Diop, fondateur de Présence africaine, Éditions des amis italiens de «Présence africaine», Roma 1977. 4. Cfr. V. LANTERNARI, Faire alliance avec Ernesto De Martino, in «Archives de sciences sociales des religions», «Messianismes et anthropologie entre France et Italie», n. 161, 2013, pp. 124-25. [trad. fr. di V. LANTERNARI, La mia alleanza con Ernesto De Martino, in La mia alleanza con Ernesto De Martino, e altri saggi post demartiniani, Liguori, Napoli 1997, pp. 1-57]. 5. P . PRINI (a cura di), Il mondo di domani, Abete, Roma 1964. 6. Vedi la recensione di questo convegno in C. WENIN , Chronique générale, in «Revue philosophique de Louvain», vol. 64, n. 82, 1966, p. 347. 7. E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, in C. GALLINI

e M. MASSENZIO (a cura di), Einaudi, Torino 2002.

Il problema della fine del mondo 1 Quando il prof. Prini ha annunziato l’argomento di questo mio intervento si è diffusa nella sala una reazione che nei vecchi resoconti parlamentari era indicata con la parola sensazionale. Fra l’altro deve esser sembrato a molti che in un convegno sulle prospettive del mondo di domani fosse almeno impertinente (nel duplice senso di non pertinente e di monellescamente provocatorio) chiedere la parola per ricordare ai convenuti che «domani» il mondo, in quanto mondo culturale umano, può finire e che una qualsiasi risposta a come possa e debba essere «domani» il mondo comporta la domanda preliminare se «domani» vi sarà un mondo e se oggi non vi sia il rischio che almeno certe forze cospirano alla sua fine. Altri ancora fra i convenuti avranno addirittura pensato che il solo porsi un problema del genere è leggermente iettatorio, nel senso napoletano del termine: e che il portare l’attenzione su tale possibilità estrema ha l’unico effetto di deprimere gli animi con sinistre evocazioni, e di indurre a quei comportamenti di difesa tra il serio e il faceto che costituiscono gli scongiuri adoperati in questa circostanza. Debbo però invitare i presenti a superare queste reazioni immediate, rassicurandoli al tempo stesso che il mio intervento non ha nessuna intenzione di deprimere gli animi, ma, semplicemente, di portare un contributo sia pure modesto alla giusta impostazione di un problema che proprio se ignorato o leggermente accantonato può comportare soluzioni catastroficamente negative per l’intera umanità. In fondo come problema preliminare rispetto a quello del «mondo di domani» sta il rapporto uomo-mondo cosí come esso si configura nella moderna consapevolezza culturale. Io credo che questo rapporto si articola in due momenti distinti e congiunti, di cui il mondo contemporaneo mostra di avere una sensibilità particolarmente acuta. Per un verso il mondo, cioè, la società degli uomini attraversata da valori umani e operabile secondo questi valori, non deve finire, anche se – ed anzi proprio perché – i singoli individui fruiscono di una esistenza finita; per un altro verso il mondo può finire, e non

tanto nel senso naturalistico di una catastrofe cosmica che può distruggere o rendere inabitabile il pianeta terra, ma proprio nel senso che l’umana civiltà può autoannientarsi, perdere il senso dei valori intersoggettivi della vita umana, e impiegare le stesse potenze del dominio tecnico della natura secondo una modalità che è priva di senso per eccellenza, cioè per annientare la stessa possibilità della cultura. Se dovessi individuare la nostra epoca nel suo carattere fondamentale, direi che essa vive come forse non mai è accaduto nella storia nella drammatica consapevolezza di questo deve e di questo può: nell’alternativa che il mondo deve continuare ma che può finire, che la vita deve avere un senso ma che può anche perderlo per tutti e per sempre, e che l’uomo, solo l’uomo, porta intera la responsabilità di questo deve e di questo può, non essendo garantito da nessun piano della storia universale operante indipendentemente dalle decisioni reali dell’uomo in società. Senza dubbio nella coscienza culturale della nostra epoca il rapporto fra ciò che potremmo chiamare l’ethos del trascendimento della vita nei valori intersoggettivi e ciò che invece rappresenta il crollo di questo ethos con la correlativa perdita di senso e di operabilità del mondo, presenta una grande varietà di concrete manifestazioni che una ricerca sistematica dovrebbe mettere in evidenza e sottoporre al giudizio. La manifestazione estrema, in cui il rischio si palesa nel modo piú radicale, acquista aspetti nettamente psicopatologici, come per esempio nel Weltuntergangserlebnis schizofrenico: ma anche senza giungere a questi casi-limite, sfumature morbose del genere si avvertono copiose nel crollo dei linguaggi artistici, cosí come in certe correnti esistenzialiste e in certe modalità del costume. Quando Heidegger in Sein und Zeit teorizza la Geworfenheit dell’esserci, quando Sartre in La nausée illustra il mondo indigesto spalancantesi sul nulla, quando D. H. Lawrence lamenta che abbiamo perduto il sole, i pianeti, e il Signore con le sette stelle dell’orsa ricevendo in cambio il «povero, piatto, meschino mondo della scienza e della tecnica» 2, quando Moravia in La noia descrive «la malattia degli oggetti», noi ravvisiamo in queste espressioni culturali pur cosí diverse una Stimmung comune, la segnalazione di uno stesso rischio radicale, e cioè la possibilità di un mondo che crolla in quanto crolla lo stesso ethos culturale che lo condiziona e lo sostiene. D’altra parte espressioni culturali cosí eterogenee come l’istinto di morte di Freud o il crollo dell’occidente di Spengler sembrano accennare alla stessa direzione.

Non è improbabile che una cosí acuta coscienza culturale del finire del mondo nell’epoca moderna abbia tratto alimento anche dalla possibilità della guerra nucleare o dai terrificanti episodi di genocidio dei campi di morte nazisti. Ma già il fatto che abbiamo avuto bisogno dei 200 000 di Hiroshima o dei 6 000 000 di ebrei periti nei campi di sterminio ci indica quanto profonde siano le radici della nostra crisi. Dovrebbe infatti bastare l’immagine di un solo volto umano che porta i segni della violenza e della offesa subita da un altro uomo, per porre in movimento, in chi guarda quel volto, la drammatica tensione del mondo che «può» ma «non deve» finire. Che i volti perduti per colpa umana siano 200 000 o 6 000 000 non aggiunge nulla allo scandalo di quel solo volto, e non occorre altro che quel solo volto per mettere in causa il mondo e per mobilitare l’ethos culturale umano che sempre di nuovo è chiamato a rendere piú abitabile e piú familiare il pianeta terra per ciascuno e per tutti. Ma, a parte Hiroshima e i campi di sterminio, vi sono altri aspetti del mondo moderno che hanno reso particolarmente acuta la nostra sensibilità per il rischio della fine. Le rapidissime trasformazioni nei generi di vita introdotte dal diffondersi del progresso tecnico, le correnti migratorie dalla campagna alla città, da regioni sottosviluppate a regioni industriali, il salto improvviso da economie piú o meno arretrate o addirittura da società tribali a economie e società ormai inserite nel mondo occidentale, hanno condotto alla crisi un gran numero di patrie culturali tradizionali senza che tuttavia la integrazione nella nuova patria culturale avesse avuto il tempo di maturarsi. I rapidi processi di transizione, le lacerazioni e i vuoti che essi comportano, la perdita di modelli culturali in una situazione che non può piú utilizzare quelli familiari, inducono crisi vistose e ripropongono nel modo piú drammatico i problemi elementari del rapporto col mondo. Solo in questo quadro noi riusciamo a comprendere, per esempio, le riflessioni di un operaio francese come Navel, che nei suoi Travaux espone in forma autobiografica il passaggio dalla sua origine contadina alla condizione operaia esprimendo fra l’altro in modo ricorrente la riconquista del mondo e del proprio corpo che la vita di una fabbrica moderna ponevano in causa in modo radicale. A sera l’operaio Navel torna nella sua camera e si prepara la cena; ed ecco che egli si sorprende nell’atto di aprire lo sportello della credenza e di prendere la saliera per salare la minestra: La mano, sensibile alle percezioni successive del legno della credenza, del ferro della

maniglia, del vetro della saliera e del pizzico di sale, mi meraviglia: mi stupivo di trovare un tal tesoro di conoscenze nella semplice pelle delle dita. Cercavo di vivere completamente risvegliato, sempre cosciente del momento, della cosa, del gesto. L’adulto vive addormentato nelle sue abitudini. È sempre bello apprendere la vita, e tutto d’un tratto io apprendevo all’albero verde del contatto diretto. Non c’è che la vita di cui ci si meraviglia che vale la pena di essere vissuta. Mentre la mano teneva il suo pizzico di sale in minuti cristalli, io sapevo ch’essa era simile a quelle di tutte le nonne della terra quando fanno il gesto di aprire la saliera per salare la minestra, il gesto che avevo visto fare a mia madre; ed io dialogavo con lei nella rapidità del sogno: «Io salo la mia minestra, la mia mano è la tua, tu non sei morta». Ma al di là di mia madre, io entravo in rapporto con tutti i morti, tutte le presenze che mi avevano dato una mano come questa simile alle altre. L’uomo vive con le sue mani. La mia aveva appartenuto ad una generazione di servi. Aveva spesso riempito la sua solitudine sul fornello bruciante di una pipa, dopo la giornata passata sul manico di una scure nelle foreste coperte di neve. La vita è ciò che si tocca, le stesse sensazioni inducono gli stessi sogni. Boscaioli, vignaioli, contadini, dandomi la loro mano mi avevano dato anche quella che era passata nelle loro teste, rosse o bionde che fossero 3.

Mi accadde una volta, percorrendo in macchina una strada della Calabria, di chiedere a un vecchio pastore alcune indicazioni su un certo bivio di cui andavo in cerca: e poiché le sue informazioni erano poco chiare, gli proposi di accompagnarmi in macchina sino al bivio in questione, per poi riportarlo sino al punto in cui ci eravamo incontrati. Il vecchio pastore accettò con estrema diffidenza il mio invito, e durante il percorso guardava con crescente agitazione attraverso il finestrino, come per cercare qualche cosa di molto importante. D’un tratto gridò: «Dov’è il campanile di Marcellinara? Non lo vedo piú!» Effettivamente il campanile di questo villaggio era scomparso all’orizzonte, ma con ciò si era profondamente alterato il mondo familiare, lo spazio domestico, di questo arcaico pastore, il quale per tale scomparsa esperiva angosciosamente il crollo della sua angustissima patria culturale, con l’abituale paesaggio che faceva da scenario quotidiano ai suoi spostamenti col gregge. Accadde cosí che non fu possibile andar oltre in compagnia del nostro pastore, e fu necessario riportarlo indietro al punto di partenza, dove salutò con gioia il riapparire del campanile smarrito. È questo un esempio estremo, e quasi caricaturale, del legame con una patria culturale come condizione di operabilità del mondo: ma tale legame è ben noto allo studioso

delle civiltà umane, e risalta in modo particolare nelle civiltà arcaiche. Che cosa può succedere quando in una situazione coloniale una determinata corrente migratoria muta improvvisamente di habitat e passa da condizioni tribali di vita a una civiltà di tipo industriale è stato piú volte segnalato: qui ricorderò il caso di cui ha avuto occasione di occuparsi l’etnologo Rouch ad Accra, nella Costa d’Oro, quando vi era ancora il regime coloniale britannico; un caso particolarmente interessante, documentato fra l’altro anche da un documentario dello stesso Rouch, che fu proiettato alcuni anni or sono al festival internazionale del film etnografico di Firenze 4. Si tratta di una corrente migratoria dei negri Bambara dal medio Niger 5 – dove vivevano di pesca e di agricoltura – verso le molto piú civilizzate regioni della costa. I Bambara erano attratti dai favolosi guadagni che si prospettavano nella nascente civiltà industriale della costa dove trovarono di fatto condizioni materiali di vita certamente molto migliori di quelle della loro patria tribale. Senonché nella nuova sede si verificò un duplice fatto: da un lato tutto il dispositivo culturale di cui gli emigrati disponevano in patria per far fronte ai momenti critici della loro vita di agricoltori e di pescatori, cioè il loro pantheon, i loro riti, le loro cerimonie, non erano piú utilizzabili nella nuova sede, legati com’erano ad un habitat ormai abbandonato, a momenti critici che avevano perduto il loro senso, e a rapporti tribali ormai in dissoluzione; dall’altro lato i Bambara erano colpiti da una serie di episodi traumatizzanti della loro vita di emigrati. Il governatore inglese, l’esercito, la polizia, la burocrazia, le macchine, il treno, ecc., costituivano un insieme di elementi che essi non riuscivano ad inserire in nessun orizzonte culturale e che rappresentavano il risultato terminale di un processo storico a cui essi restavano sostanzialmente estranei. In questa situazione si verificarono ben presto nella comunità Bambara di Accra una serie di disordini psichici di notevole gravità, caratterizzati dall’insorgere di impulsi inconsci che non potevano essere né controllati né sublimati in determinati orizzonti culturali. La comunità di Accra fu cosí colpita da una vera epidemia di disordini psichici, che mise in allarme le autorità, tanto piú che medici e psichiatri non riuscivano ad intervenire efficacemente nella situazione, che sfuggiva ai quadri nosologici della medicina e della psichiatria europee. Riuscí invece a risolvere questa situazione un bambara, che era uomo di larga esperienza e aveva maggiori capacità degli altri emigrati. Costui prese alcuni elementi del vecchio dispositivo culturale – per esempio l’altare conico al centro di una

radura – modificandoli in funzione della nuova situazione. Divise cosí l’altare tradizionale in varie sezioni, la piú alta delle quali ospitava il governatore come nuova divinità del pantheon industriale e coloniale, e poi via via il medico, il capo della polizia, la moglie del medico, eccetera. Alla base di questo altare conico, che rappresentava in un certo senso un’immagine mitica della situazione coloniale, vi era il magazzino delle offerte sacrificali. Ma ciò che rendeva di particolare interesse questo riadattamento della religione tribale alla nuova situazione erano i riti e le cerimonie. I Bambara, mantenendo i vecchi riti di possessione caratteristici della loro tradizione magico-religiosa, si lasciavano ora possedere dalle divinità del nuovo pantheon: essi erano cosí posseduti, nel corso delle cerimonie celebrate presso l’altare, dallo spirito del governatore inglese, o del capo della polizia o del macchinista delle ferrovie, e adoperavano come formule liturgiche le formule burocratiche che costituivano un altro elemento traumatizzante della loro nuova vita cittadina. In tal modo i traumi e i conflitti accumulati quotidianamente, e che prima esplodevano in disordini psichici veri e propri, venivano ora fatti defluire nell’ordine rituale della possessione e ricevevano orizzonte in figurazioni mitiche definite. Cosí il nuovo dispositivo culturale poté assolvere una funzione riequilibratrice e reintegratrice, e i disordini psichici trovarono la loro piú appropriata modalità di controllo. Questo singolare episodio stimola alcune osservazioni. Senza dubbio la scienza e la tecnica dell’occidente, nate da un ethos culturale particolare che è frutto di una lunga storia, costituiscono valori non soltanto universali, ma universalizzabili: tuttavia sono valori universalizzabili nella misura in cui non restano un al di là rispetto ai mondi umani che entrano con un ritmo crescente nel processo di occidentalizzazione, e nella misura in cui scienza e tecnica svolgano interamente l’ethos adeguato al tipo di umanesimo integrale e di integrale democrazia che certamente scienza e tecnica racchiudono almeno potenzialmente. A questo proposito non va dimenticato che molto cammino resta ancora da fare, e che come vi è una magia nera vi è anche un modo di intendere la scienza come tecnicismo moralmente indifferente, e quindi compatibile per esempio col segreto atomico e con la guerra nucleare. Il problema centrale del mondo di oggi appare dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non piú adeguato al «campanile di Marcellinara», ma all’intero pianeta terra che ormai gli astronauti contemplano dalle solitudini cosmiche e che sta di fatto diventando, per quanto attraverso contraddizioni e

resistenze, la nostra patria culturale fondamentalmente unitaria, con tutta la ricchezza delle sue memorie e delle sue prospettive. Nella misura in cui questo nuovo ethos si renderà realmente operante e unificante, raccogliendo in una consapevole ecumenicità di valori comuni la originaria dispersione e divisione delle genti e delle culture, il mondo che «non deve» finire uscirà vittorioso dalla ricorrente tentazione del mondo che «può» finire, e la fine di «un mondo» non significherà la fine «del mondo» ma, semplicemente, «il mondo di domani». 1. E. DE MARTINO, Il problema della fine del mondo, in P. PRINI (a cura di), Il mondo di domani, Abete, Roma 1964, pp. 225-31. 2. Allusione al testo di D. H. LAWRENCE, Apocalypse. Cfr. in questo volume il cap. 5, par. 3. 3. De Martino attribuisce questa citazione a Parcours. Correggiamo: G. NAVEL, Travaux, Gallimard (coll. «Folio»), Paris 1995, p. 208. 4. J. ROUCH, Les maîtres fous, 1955, 36 minuti. Primo premio per il film documentario al festival di Venezia del 1957; partecipazione al festival dei Popoli di Firenze del 1959. 5. Non si tratta dei Bambara, ma della setta degli Haouka, nata all’interno delle popolazioni Songhaï nella metà degli anni Venti del Novecento.

Apocalisse del terzo mondo e apocalisse europea 1 Come è stato autorevolmente detto in questo convegno, i movimenti profetici africani – pur costituendo per la loro varietà di condizionamenti, di genesi, di struttura, e di funzione un argomento specialistico a sé – richiedono una piú ampia prospettiva comparativa che abbraccia i movimenti analoghi americani, oceaniani e asiatici, e ciò non soltanto perché eventi simili richiedono comparazione, ma perché, nel nostro caso, a conferire unità di prospettiva alla ricerca comparativa sta il fatto di un comune momento storico che accomuna e qualifica tutti questi movimenti, e cioè il loro non casuale fiorire e moltiplicarsi nell’epoca della crisi del colonialismo e della società che lo espresse, nell’epoca della formazione del terzo mondo. Ma la comparazione accenna a una prospettiva ancora piú ampia. Sui movimenti profetici del terzo mondo ha esercitato una influenza preminente la tradizione escatologica giudaico-cristiana, mediata durante l’epoca coloniale dall’attività missionaria soprattutto delle sette e delle Chiese protestanti: in dati casi questa filiazione è riconosciuta esplicitamente dai profetismi indigeni (si pensi in Africa al russellismo). D’altra parte per la setta dei Mormoni il rapporto è anche inverso, in quanto il mormonismo fu influenzato dal movimento indigeno della Ghost Dance, sorto fra i Piavotso ai confini del Nevada con la California. In forza di questi nessi l’analisi, che in senso etnologico tradizionale è rivolta soprattutto a misurare il grado di riplasmazione delle tradizioni culturali indigene per entro le nuove formazioni profetiche ed escatologiche, in un senso etnologico piú ampio è spinta in modo del tutto naturale verso la comparazione dei profetismi indigeni con quelli fioriti sul tronco della tradizione profetica, millenaristica ed escatologica del giudeo-Cristianesimo, tradizione che attraversa tutta la storia dell’occidente dal medioevo a oggi. Nel quadro di questa piú ampia esigenza comparativa sono da valutare alcune recenti raccolte di monografie, come i fascicoli 4 e 5 degli «Archives de Sociologie des Religions» rispettivamente del luglio-dicembre 1957 e del gennaio-giugno 1958, la

raccolta Millenial Dreams in Action 2 che riunisce i contributi di vari studiosi al symposium tenuto dalla Università di Chicago nell’aprile del 1960, il volume Religions de Salut pubblicato nel 1962 a cura dell’Istituto di Sociologia dell’Università libera di Bruxelles 3. Soprattutto nelle prime due raccolte si fa valere appunto l’esigenza di una ricerca comparativa che non si limiti ai profetismi ed escatologismi indigeni di relativamente limitata profondità diacronica e osservabili ancor oggi dall’etnografo, ma che si estenda in modo sistematico anche alla quasi bimillenaria tradizione escatologica cristiana. Sia qui consentito di osservare che questa tradizione, se da un lato alimenta la fioritura di sette e di movimenti millenaristici, fa sentire al tempo stesso la sua costante influenza sullo stesso pensiero teologico e filosofico dell’occidente, per rovesciarsi poi in termini almeno tendenzialmente secolari e civili nella filosofia marxiana e nei movimenti marxisti. L’esigenza di allargare la prospettiva comparativa in rapporto al nostro argomento è dunque già avvertita, e darà certamente buoni frutti nella misura in cui la comparazione troverà la sua interna forma di controllo in un ethos del confronto fra sviluppi storico-culturali sinora corporativi, irrelati, divergenti e dispersi, ma ora quasi costretti a entrare in confronto e a relazionarsi, sotto la spinta di una tensione ecumenicizzante che, nell’attuale momento storico dell’umanità, si è impiantata come non mai – malgrado ogni apparenza – nel cuore stesso delle cose, muovendo gli animi e riflettendosi nelle menti. Nel suo progetto di una ricerca interdisciplinare nel campo delle scienze umane Georges Gusdorf ha recentemente scritto (in «Diogène», n. 42 dell’aprile-giugno 1963) che «è venuto il tempo di passare da un confronto delle culture a una cultura del confronto» 4. Il che, se rettamente intendiamo, ci sembra voglia dire che non si tratta soltanto di far valere una generica esigenza collaborativa interdisciplinare come complementare all’esigenza specialistica, ma di esser partecipi di un ethos unificante che rapporti sempre di nuovo, e in modo deliberato e metodico, le scienze dell’uomo all’umano che noi siamo qui ed ora nell’ambito di una congiuntura storico-culturale come la nostra. Vorremmo tuttavia evitare un equivoco. Questo ethos confrontante e unificante non ci sembra possa giovarsi di un relativismo culturale senza prospettive, il cui ideale par essere talora un alquanto frivolo défilé di modelli di cultura, sospinti sulla passarella della scienza antropologica da un presentatore estetizzante, dinanzi a un pubblico

disponibile per tutti gli acquisti 5. Ancor meno può giovare al costituirsi di questo ethos quanto un po’ incautamente si è lasciato sfuggire Lévi-Strauss in una recente intervista concessa ad «Aut-Aut» (n. 77 del settembre 1963) 6, e cioè che il suo ideale di uomo di scienza è di assumere «il punto di vista di Dio», cioè «di capire gli uomini come se fosse completamente fuori gioco», anzi «come se fosse l’osservatore di un altro pianeta e avesse una prospettiva assolutamente oggettiva e completa»: di guisa che il cultore di scienze umane dovrà far sua la prospettiva dell’esteta, che esamina gli uomini «come se fossero formiche». La verità ci sembra un’altra, e cioè che il ricercatore, in quanto cresciuto ed educato nel seno della civiltà occidentale può soltanto essere disposto a mettere deliberatamente in causa i corporativismi e i feticismi che può aver assorbito da questa educazione, e ciò può e deve fare secondo le linee di sviluppo di un etnocentrismo critico, aperto, che trae alimento dall’ethos del confronto della storia culturale dell’occidente con le altre sinora irrelate, divergenti e disperse, in vista – come si è detto – di un compito di unificazione molto umilmente umano e molto storicamente determinato. Senza che ciò intenda essere una critica agli strumenti di analisi avallati dallo strutturalismo in antropologia, a noi sembra che la pretesa di «mettersi fuori gioco», di «guardar gli uomini come formiche di un altro pianeta», e di assumere «il punto di vista di Dio» espone di fatto a certe equivoche abdicazioni, delle quali del resto è traccia nella stessa or ora ricordata intervista di Lévi-Strauss, dove, fra l’altro, si legge: Io vedo evolvere l’umanità non nel senso di una liberazione, ma, direi senz’altro, d’un asservimento progressivo e sempre piú completo al determinismo naturale. Mi sembra che, sia quel che possiamo ricostruire dalle epoche antiche dell’umanità, sia quello che possiamo ancora studiare nelle società cosiddette primitive, dimostra che si tratta di società ancora largamente libere rispetto al determinismo naturale, nel senso che l’uomo e le condizioni della sua esistenza sono ancora essenzialmente determinate dai suoi sogni, dalle sue speculazioni, e che, a causa del basso livello economico, l’uomo gode rispetto alla natura di una autonomia molto piú vasta di quanto non avverrà in seguito. In seguito, infatti, assistiamo al progressivo imbrigliamento dell’umanità attraverso una serie di intermediari che sono quelli descritti dal materialismo dialettico, e mi sembra che quello che sta avvenendo e che avverrà sempre piú, è la «presa diretta» con cui l’umanità è regolata dai grandi determinismi d’ordine biologico e demografico. L’avvenire dell’umanità sarà quello d’una sempre piú completa schiavitú alle «fatalità» della natura 7.

Qui ci sembra che l’ideale scientifico di considerare gli uomini come formiche si trasformi nel messaggio profetico che l’umanità si ridurrà inevitabilmente a una sorta di formicaio: nel messaggio cioè che l’umanità avanza fatalmente verso una apocalisse senza escaton, verso il naufragio totale dell’umano, il che poi non è piú neppure un messaggio profetico, ma una fredda previsione scientifica che impone ormai di adattarsi all’evento, cosí come è d’uopo adattarsi sin dall’autunno al prossimo e inevitabile inverno. A questa profezia dell’antropologo strutturalista saremmo tentati di contrapporre la opposta e complementare profezia racchiusa in un passo delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij: [...] che cosa ci si può mai aspettare dall’uomo, se è un essere dotato di cosí strane qualità? Ma colmatelo di tutti i beni terreni, immergetelo nella felicità con tutto il capo, in modo che non vengano su altro che le bollicine in cima alla felicità, come nell’acqua; dategli una tale agiatezza economica che non gli rimanga piú nulla da fare, fuorché mangiare panforti, dormire e darsi attorno perché la storia non s’interrompa, e anche qui lui, cioè l’uomo, anche qui, per pura ingratitudine, per pura derisione, vi farà qualche porcheria. Metterà a repentaglio persino i panforti e desidererà apposta l’assurdità piú funesta, l’insensatezza piú antieconomica, per mescolare a tutta questa positiva ragionevolezza il proprio funesto elemento fantastico. Precisamente i suoi stupidissimi sogni, la sua volgarissima stupidità desidererà conservarli, unicamente per confermare a se stesso che gli uomini sono sempre ancora uomini, e non tasti di pianoforte; e benché ci suonino sopra le stesse leggi naturali, di mano propria, esse minacciano però di suonare al punto che, tranne quello che c’è nel calendario, non si possa piú voler nulla. Ma questo non basta: perfino nel caso che diventasse effettivamente un tasto di pianoforte, a dimostrarglielo persino con le scienze naturali e matematiche, anche allora non rinsavirebbe, ma, al contrario, farebbe apposta qualcosa, unicamente per pura ingratitudine; precisamente per tener duro. E nel caso che gli mancassero i mezzi, escogiterebbe la distruzione e il caos, escogiterebbe svariate sofferenze, e tuttavia terrebbe duro! Lancerebbe una maledizione per il mondo, e poiché non c’è che l’uomo che può maledire (è un suo privilegio che lo distingue in modo essenzialissimo dagli altri animali), c’è il caso che con la sola maledizione raggiunga il suo scopo, cioè si convinca che effettivamente è un uomo e non un tasto di pianoforte! Se voi direte che anche tutto questo, il caos, le tenebre, la maledizione, si può calcolare secondo la tabella sicché la sola possibilità di un calcolo preventivo fermerebbe tutto e la ragione riprenderebbe i suoi

diritti, in questo caso l’uomo diventerà pazzo, apposta per essere privo di ragione e tener duro! [...] Ecco, le formiche hanno tutt’altro gusto. Esse hanno un solo e meraviglioso edificio dello stesso genere, inalterabile in eterno: il formicaio 8.

Cosí da un discorso che sembrava avviato in senso metodologico generale, e quindi in rapporto solo indiretto col nostro tema, ci troviamo inaspettatamente ricondotti nell’ambito dell’apocalittica, ma questa volta di una apocalittica non religiosa, e senza escaton, nella quale si trova variamente coinvolta una parte non certo irrilevante della cultura occidentale. Il problema dei profetismi e degli escatologismi del terzo mondo ci porta dunque molto lontano, se nel rapporto etnologico l’etnologo occidentale è davvero disposto a mettere in causa il mondo culturale cui appartiene, cioè se l’analisi degli elementi connessi ai profetismi e agli escatologismi del terzo mondo deve necessariamente coinvolgere la presa di coscienza e la tematizzazione della stessa attuale congiuntura culturale dell’occidente. Per conoscere che cosa sono e «dove vanno» le apocalittiche del terzo mondo occorre in ultima istanza tematizzare anche le apocalittiche in cui, come occidentali, siamo coinvolti, e ciò nell’intento di raggiungere – per quanto possibile – una prospettiva piú alta, nella quale mediatamente si venga dischiudendo un essere-al-mondo e un essere-insieme progettabile per tutti. Non basterà pertanto il confronto dei movimenti profetici ed escatologici del terzo mondo con la tradizione profetica ed apocalittica giudaico-cristiana e con quanto si trova in modo piú o meno diretto nel suo solco, ma nel confronto entra necessariamente in gioco anche quella insidiosa apocalittica occidentale che è caratterizzata dalla perdita di senso e di domesticità del mondo, dal naufragio del rapporto intersoggettivo umano, dal minaccioso restringersi di qualsiasi orizzonte di un futuro operabile comunitariamente secondo umana libertà e dignità, e infine dai rischi di alienazione che si avvertono inclusi, se non nel progresso della tecnica, certamente nel tecnicismo e nella feticizzazione della tecnica. Si tratta com’è noto, di una condizione di crisi la cui genesi risale già alla seconda metà dell’Ottocento, ma che soltanto oggi, nel periodo che abbraccia i due ultimi dopoguerra, è venuta acquistando un rilievo ed una diffusione particolari. Non basta piú, ormai, il corrente riferimento a quelle filosofie della storia che racchiudono presagi di morte per l’occidente, o a certi temi dell’esistenzialismo negativo: attraverso le arti e la letteratura la tematica di una apocalittica senza escaton si manifesta con tutta l’ampiezza di

un fatto di costume, che chiede di essere analizzato. La «nausea» di Sartre, l’«assurdo» di Camus, la moraviana «malattia degli oggetti», il teatro di Beckett non riflettono soltanto questo particolare costume apocalittico della nostra epoca, ma il «successo» di questi prodotti letterari testimonia in quale misura essi trovino rispondenza nella disposizione degli animi, e quindi come sia diffusa la sensibilità cui si richiamano. Ad un altro livello culturale, la letteratura fantascientifica euroamericana, cosí ricca di oscure profezie sociali e di presagi di degenerazione e di estinzione, dell’uomo e del suo mondo, di regresso nell’informe, rende a sua volta testimonianza come il tema di una apocalittica senza escaton abbia acquistato il carattere di un orientamento in certa misura collettivo, giovantesi fra l’altro, per diffondersi, di tutta la potenza dei cosiddetti mezzi di comunicazione di massa. Soprattutto a partire dal primo dopoguerra si sono moltiplicati i tentativi, per lo piú orientati in senso sociologico o storico-culturale, di descrivere e interpretare questa apocalittica disposizione degli animi e delle menti dell’occidente contemporaneo. Per attenersi alla letteratura piú recente basterà ricordare, in via di esempio, le conferenze tenute da Emmanuel Mounier dal 1946 al 1948 in occasione dei «Rencontres internationales de Genève» e della «Semaine de sociologie» (conferenze raccolte sotto il titolo La petite peur du XX e siècle nel terzo volume delle opere del Mounier) 9; il rapporto di Franklin Le Van Baumer sulla versione dell’apocalisse nel XX secolo, pubblicato nei «Cahiers d’histoire mondiale» a cura della Commissione internazionale per una storia dello sviluppo scientifico e culturale dell’umanità, fasc. 1, 1954 10; il saggio di Franz Altheim, Apokalyptik Heute, pubblicato in «Die Neue Rundschau», fasc. 1, 1954; i lavori di Hans Sedlmayr sull’arte nel mondo moderno 11; il libro di Hellmuth Petriconi, direttore del Seminario romanico dell’Università di Amburgo, Das Reich des Untergangs: Bemerkungen über ein mythologisches Thema, 1958 12; la raccolta di articoli Apocalisse e Insecuritas, fascicolo dell’«Archivio di filosofia», diretto dal Castelli (1, 1954). È infine da segnalare, ma solo come documento del punto di vista di due sociologi sovietici sul tema apocalittico ricorrente nella fantascienza euroamericana, un saggio di E. Brandis e di V. Dmitrevskij, apparso in traduzione nell’ultimo numero della rivista «Comunicazioni di massa» (n. 4-5, 1964), edita dal Centro di sociologia delle comunicazioni di massa dell’Istituto di pedagogia

dell’Università di Roma 13. È tuttavia da osservare che il limite fondamentale di questi saggi (oltre ai limiti che possono derivare dalla loro qualità scientifica, dalla maggiore o minore ampiezza di informazione e dal particolare orientamento interpretativo con cui sono condotti) è di restare sostanzialmente chiusi nell’analisi della moderna apocalittica dell’occidente, senza apertura di confronto sistematico interculturale con le apocalissi escatologiche del terzo mondo: il che sottrae a questi saggi la possibilità di sfruttare la potenza liberatrice che nasce, in un argomento come questo, dalla comparazione di storie culturali certamente diverse, ma non irrelazionabili, anzi suscettibili di una valutazione comparativa unificante, se è vero che la tradizione apocalittico-escatologica dell’occidente ha profondamente influenzato i movimenti profetici delle culture sottoposte all’urto della colonizzazione bianca, se, d’altra parte, è vero che alla crisi di un piano provvidenziale e unitario della storia concorse il diffondersi di una tematica etnologica ormai non piú compatibile con gli schemi dell’evoluzionismo tyloriano o frazeriano, e infine se è vero che la crisi dell’epoca coloniale e della società che aveva fondato quest’epoca sta alla radice e condiziona sia l’apocalittica escatologica del terzo mondo, sia l’apocalittica senza escaton di una parte della cultura euroamericana contemporanea. Su quest’ultimo punto è da precisare che la crescente diffusione delle conquiste tecniche dell’occidente, congiunta allo sfruttamento colonialistico le cui tracce ed eredità sono ancora cosí vistosamente percepibili, hanno esposto le culture tradizionali indigene ai rischi di una catastrofe dalla quale quelle culture e quelle società si sono difese, fra l’altro, anche col mezzo dei movimenti profetici, apocalittici ed escatologici. D’altra parte nell’interno della stessa cultura occidentale il feticismo tecnicistico, complicato dalle contraddizioni interne della società borghese tradizionale, ha alimentato a sua volta rischi di alienazione e di disintegrazione dell’umano dai quali l’apocalisse senza escaton è stata se non proprio un mezzo di difesa certamente l’espressione culturale piú disperata e drammatica. Le due apocalissi, quella escatologica del terzo mondo e quella senza escaton dell’occidente in crisi, per quanto diverse possano essere nella loro qualità, nel loro condizionamento e nella loro funzione, affondano dunque la loro radice ultima in una situazione comune, cioè nella stessa minaccia di disumanizzazione dell’umano che caratterizza l’ora che volge: il che ribadisce la legittimità di una ricerca comparativa che sia l’equivalente

scientifico di quel vasto impegno di difesa e di reintegrazione dell’umano che oggi, nel nostro pianeta, con tante difficoltà cerca di farsi strada sul piano piú immediatamente sociale e politico. Ma lo studio comparato delle apocalissi culturali nell’attuale congiuntura storica può spingersi anche in un’altra direzione che ritiene a nostro avviso un notevole valore euristico. Ci riferiamo alla documentazione psicopatologica del crollo del mondo e del rapporto intersoggettivo, documentazione ormai copiosa e utilizzabile dal cultore di scienze umane soprattutto per merito della analisi esistenziale in psicopatologia. Ma, nel nostro caso, di quale valore euristico si tratta? La documentazione psicopatologica mette a nudo con particolare evidenza la catastrofe dell’umano e del mondano che si consuma nei vissuti di mutamento radicale e di spaesamento del mondo, negli stati di derealizzazione, nel delirio di negazione, nel Weltuntergangserlebnis della schizofrenia iniziale, o in determinate aure epilettiche, e infine in quello stato psicotico che lo Schiff ha chiamato «paranoia di distruzione», compiacendosi di decorarlo anche con la biblica designazione di «reazione di Sansone» 14 (noi potremmo piú attualmente, anche se meno scientificamente, chiamarlo «reazione del dottor Stranamore»). Senza dubbio le apocalissi culturali, nella misura in cui sono funzionanti in un concreto contenuto storico e sociale, cioè nella misura in cui assolvono una reale funzione reintegratrice e mediatamente produttiva di valori intersoggettivi, sono da distinguere nettamente dalle apocalissi psicopatologiche, tipicamente disintegratrici e improduttive. Tuttavia la dialettica crisi-reintegrazione nelle stesse apocalissi culturali piú chiaramente reintegratrici e produttive può notevolmente giovarsi dell’indicazione euristica che proviene dalla documentazione psicopatologica, dove si manifesta il rischio della nuda crisi senza orizzonte. D’altra parte appartiene proprio al carattere drammatico delle apocalissi religiose di potersi sbilanciare da un momento all’altro verso la nuda crisi, e si danno di fatto molte sfumature intermedie fra apocalissi religiose integratrici e apocalissi nettamente psicopatologiche, che manifestano il crollo di una società e di una cultura, o semplicemente il crollo psichico del sedicente profeta. Come ha messo in evidenza Lommel 15, gli Unambal del Kimberly (Australia del nordovest), esposti alla influenza colonizzatrice bianca che ha completamente sconvolto il loro regime economico-sociale di cacciatori seminomadi, hanno esperito un tipo di apocalisse senza escaton che riflette – insieme con molti

altri segni – un crollo psichico da valutare non soltanto sul piano storicoculturale o sociologico, ma anche etnopsichiatrico. Anche per le apocalissi dei popoli agricoltori, per lo piú orientate verso un momento escatologico culturalmente reintegratore e produttivo, occorre continuamente fare i conti con determinati rischi psicopatologici che minacciano sia la personalità del profeta sia il comportamento dei seguaci. Infine il valore euristico del documento psicopatologico si manifesta non soltanto nella valutazione delle apocalissi religiose escatologiche del terzo mondo o nelle sette millenaristiche del mondo euroamericano, ma anche nella valutazione della apocalisse senza escaton che alimenta tanta parte della vita culturale dell’occidente contemporaneo. Non è certo un caso se l’avventura psicologica del protagonista della Nausea sartriana si presta per piú rispetti a un confronto con i vissuti di spaesamento del mondo quotidiano, di perdita dell’oggetto e del proprio esserci, di un oscuro essere-agiti e di una tensione delle cose verso il deforme e il mostruoso che caratterizzano l’esperire psicotico di una catastrofe incombente dello stesso esserci-nel-mondo. Vorremmo ora precisare il senso e i limiti della presente comunicazione, necessariamente troppo breve per la complessità del problema che solleva, e perciò esposta a equivoci e fraintendimenti. E vorremmo innanzitutto chiarire che qui non si tratta che della semplice impostazione di un problema e di un progetto di possibile ricerca. Si propone cioè di considerare i movimenti profetici e apocalittici del terzo mondo nel piú ampio contesto delle apocalissi culturali nel mondo moderno e contemporaneo. Ciò comporta un confronto sistematico di tradizioni diverse, un confronto in cui l’occidente stesso entra nella comparazione, e non soltanto per quanto si riferisce alla storia della tradizione apocalittico-escatologica giudaico-cristiana, alla problematica dei rapporti fra storia ed escatologia e al rovesciamento di questa tradizione nella filosofia marxiana e nei movimenti marxisti; deve infatti entrare nella comparazione anche quella apocalittica senza escaton in cui appare coinvolta tanta parte della cultura euroamericana. È stato inoltre sottolineato che nella prospettiva di questa comparazione un notevole valore euristico spetta alla documentazione psicopatologica. Questo progetto di una piú ampia ricerca comparativa sulle apocalissi culturali costituisce un problema etnologico in senso largo – o, se si vuole, un problema di antropologia culturale. Il tema delle apocalissi culturali entra infatti in modo elettivo in una scienza del confronto della storia culturale dei

diversi etne nell’epoca in cui la diffusione delle conquiste tecniche della cultura occidentale, la crisi del colonialismo e della società che lo espresse, il formarsi del terzo mondo, l’incontrarsi e il relazionarsi di culture diverse e la prospettiva di una civiltà ecumenica rinnovano le «scienze umane» tradizionali, e in particolare la etnologia. Senza dubbio un progetto del genere richiede che l’etnologo intessa un continuo dialogo con altri specialisti; il che, del resto rientra in una esigenza sempre piú avvertita nell’attuale congiuntura culturale, che non conosce soltanto pressanti problemi di rapporto fra tradizioni culturali diverse, ma anche non meno pressanti problemi di collaborazione fra tradizioni specialistiche distinte, soprattutto quando sono toccati temi di ricerca «unificanti» che rivelano «terre di nessuno», cioè aspetti dell’umano rimasti senza statuto scientifico. È probabile che il progetto di ricerca delineato nella presente comunicazione sollevi da piú parti riserve e diffidenze per quanto concerne la legittimità del problema proposto e la metodologia da seguire. Sembrerà a taluni che i prodotti culturali introdotti nella comparazione siano troppo eterogenei perché la comparazione sia legittima e concludente; che la sforzatura è evidente nel voler comprendere nello stesso nesso comparativo le apocalissi escatologiche del terzo mondo, la tradizione apocalitticoescatologica giudaico-cristiana, l’apocalisse senza escaton della cultura occidentale in crisi e le apocalissi psicopatologiche; che dilatare sino a tal punto i compiti della ricerca etnologica significa farle perdere il solido terreno specialistico su cui si è mossa sino a oggi; che le ricerche preparatorie non sono ancora sufficienti per rendere attuale un progetto del genere; e infine che non si comprendono bene le modalità del dialogo interdisciplinare fra specialisti diversi, che la ampiezza del tema necessariamente richiede. A queste, o ad altre simili riserve e diffidenze potremmo rispondere per disteso se il tempo a disposizione ce lo consentisse. Qui, a modo di conclusione, vorremmo limitarci a impetrare ai piú severamente disposti almeno una certa indulgenza per un progetto che, malgrado tutti i pericoli e le difficoltà cui va incontro, riflette pur sempre l’esigenza di promuovere sul terreno scientifico quell’ethos dell’incontro e del confronto, del rapporto e dell’unificazione che mai forse come oggi l’umanità sta cosí drammaticamente esperendo. 1. Testo pubblicato senza note bibliografiche in appendice a La fine del mondo cit., pp. 687-96. Diversi titoli erano stati presi in considerazione. Noi abbiamo scelto qui quello citato da Vittorio Lanternari e da un riassunto presente nell’Archivio De Martino, 23.16, pp. 98-100.

2. S. L. THRUPP (a cura di), Millennial Dreams in Action. Studies in Revolutionary Religious Movements, Mouton, The Hague 1962. 3. Religions de salut, in «Annales du Centre d’étude des religions», n. 2, 1962. 4. G. GUSDORF, Projet de recherche interdisciplinaire dans les sciences humaines, in «Diogène», n. 42, 1963, pp. 128-29. 5. Ritroviamo la stessa espressione nella risposta a Camillo Pellizzi, Caproni, parrucche ed altro, in «Rassegna italiana di sociologia», settembre 1961, p. 390. 6. Intervista a Claude Lévi-Strauss con Paolo Caruso, in «Aut Aut», n. 77, 1963, pp. 27-45. 7. Ibid. 8. F. DOSTOEVSKIJ, Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino 1942, pp. 31-34. 9. E. MOUNIER, Œuvres, Seuil, Paris 1962, vol. III. 10. F. LE VAN BAUMER, Twentieth-Century Version of the Apocalypse, in «Cahiers d’histoire mondiale», n. 1, 1954. 11. Cfr. nel cap. 5, par. 2.1, le note bibliografiche 21 e 22. 12. H. PETRICONI, Das Reich des Untergangs. Bemerkungen über ein mythologisches Thema, Hoffmann u. Campe, Hamburg 1958. 13. E. BRANDIS e V. DMITREVSKIJ, Il futuro e i suoi precursori e i suoi falsi profeti, in «Comunicazioni di massa», n. 3-4, 1964. 14. P. SCHIFF, La paranoïa de destruction: réaction de Samson et phantasme de la fin du monde, in «Annales médico-psychologiques», n. 104, 1946. 15. Cfr. in questo volume il capitolo 4, parr. 2.4. e 2.5.

Il progetto L’opera vuol essere un contributo all’analisi etnologica delle apocalissi culturali, intendendo per etnologia la comparazione critica delle storie degli etne oggi viventi, a partire dalla storia della cultura occidentale come centro di riferimento e al tempo stesso come unità di misura destinata a essere messa in causa e a essere a sua volta misurata nel corso della misurazione confrontante, dando luogo in tal modo a un incremento della consapevolezza antropologica (o umanistica). L’argomento delle apocalissi culturali si presta in modo particolare a saggiare le potenze di questa «etnologia riformata» perché come occidentali e come borghesi portiamo oggi un acuto senso del «finire», e tale «finire» – quale che sia il modo col quale lo viviamo – forma documento interno attuale, nodo operativo presente e quindi stimolo alla problematizzazione deliberata mediante la ripresa sistematica della nostra storia culturale e mediante il confronto di questa storia con quella delle culture «aliene». L’opera si iscrive quindi in quel moto umanistico che, dopo l’epoca delle scoperte e della fondazione dei grandi imperi coloniali, trapassa dall’umanesimo filologico-classicistico all’umanesimo etnografico 1. Inoltre l’opera consente di riconsiderare in una piú matura prospettiva la tematica del Mondo magico 2 (il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile), di Morte e pianto rituale nel mondo antico 3 (la crisi del cordoglio nel mondo antico e nella civiltà cristiana), le ricerche etnografiche nell’Italia meridionale (il ritorno irrelato del cattivo passato in La terra del rimorso 4 e i limiti con cui Cristo è andato oltre Eboli in Sud e magia 5). Ma anche spunti e motivi di Naturalismo e storicismo nell’etnologia 6 confluiscono in quest’opera, soprattutto per quanto concerne la problematica di una etnologia che metta in causa la civiltà occidentale e che si lasci quindi guidare dal criterio fondamentale dell’etnocentrismo critico. Nell’esecuzione dell’opera si fa valere l’istanza della ricerca interdisciplinare (con una particolare formula metodologica) particolarmente in rapporto alla necessità di confrontare le apocalissi culturali con i loro rischi psicopatologici e di determinare il carattere di difesa e di reintegrazione che le apocalissi culturali rappresentano rispetto a tali rischi. A illustrare questo rapporto e questo carattere viene prescelto un documento psicopatologico della fine, in cui il contenuto del delirio si riferisce a frammenti disarticolati di configurazioni storico-religiose di civiltà cerealicole, e si analizza il diverso orientamento di queste figurazioni e di quel delirio (cap. i: Mundus). Dopo un rapido esame della tematica delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo nel quadro dell’eterno ritorno, si analizza il dramma dell’apocalisse cristiana, cercando di individuare, nel documento neotestamentario, i rischi psicopatologici della «fine» e la struttura della syntéleia tōn aiōn 7 nel quadro del piano

irreversibile della storia della salvezza (cap. ii: Il dramma dell’apocalisse cristiana). I movimenti profetici di liberazione dei popoli già coloniali nell’epoca della decolonizzazione formano oggetto del capitolo iii: e anche qui cercando di cogliere il dramma fra rischio psicopatologico (soprattutto nelle culture di cacciatori e raccoglitori) e reintegrazione culturale (cap. iii: Apocalisse e decolonizzazione). Il capitolo iv valuta l’apocalisse marxiana come proposta di demistificazione radicale delle varie immagini mitiche del «finire» e come compito operativo che tematizza il «cominciare» umano in quanto consapevole fondazione del mondo: ma, al tempo stesso, si indicano i limiti interni connessi all’apocalisse marxiana, cioè l’occultamento di quell’ethos del trascendere che sta alle radici della stessa fondazione inaugurale di un mondo economico-sociale come di tutte le altre fondazioni valorizzatrici (cap. iv: Il dramma dell’apocalisse marxiana) 8. L’epilogo si intrattiene piú distesamente sull’ethos del trascendere valorizzante, conducendo il discorso antropologico sulla base dei risultati dell’analisi etnologica. 1. Allo stesso modo, Claude Lévi-Strauss vede nell’antropologia un umanesimo generalizzato che succede all’umanesimo classico, poi esotico: «Les trois Humanismes» [1956], ripubblicato in Anthropologie structurale deux, Plon, Paris 1973, pp. 319 sgg. [trad. it. I tre umanismi, in c. lévistrauss, Antropologia strutturale due, il Saggiatore, Milano 1990, pp. 311-14]. 2. e. de martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino 1948. 3. id., Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino 1958. 4. id., La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1961. 5. id., Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1959. Allusione a Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1945. 6. id., Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Laterza, Bari 1941. 7. Formula dei testi greci che la Bibbia di Gerusalemme traduce con l’espressione «fine del mondo» (Matteo 24.3) e che ha suscitato un immenso dibattito filologico. Sulle diverse categorie temporali che il termine aiōn designa, cfr. il capitolo 3. 8. Questo piano di lavoro non prevede un capitolo specifico dedicato alle apocalissi psicopatologiche e la letteratura contemporanea non è ancora stata presa come campo di indagine per l’identificazione di un’apocalisse culturale «senza escaton». Un altro piano di lavoro prevede una prefazione (I) e un’introduzione (II) prima di questi quattro capitoli (III, IV, V, VI). Senza dubbio successivo, un altro piano distingue sette sezioni: «A. Documento psichiatrico; B. Documento etnopsichiatrico; C. Documento letterario e filosofico; D. Documento marxiano; E. Documento etnologico: popoli primitivi ed escaton; F. Documento cristiano: Cristianesimo primitivo ed escaton; G. Documento cristiano: storia dell’occidente ed escaton». Cfr. e. de martino, La fine del

mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, in c. gallini (a cura di), introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino 2002, parr. 2-3, p. 7.

Capitolo primo Mundus

Questo capitolo è articolato in tre sezioni. La prima è incentrata sul caso del contadino di Berna. Si tratta, secondo la terminologia della psichiatria fenomenologica, di un’esperienza vissuta di fine del mondo (Weltuntergangserlebnis), la piú dettagliata e complessa che De Martino abbia mai analizzato, che prende la forma di una narrazione a piú livelli e dalle numerose implicazioni simboliche. La straordinaria ricchezza dei contenuti del delirio suscita sicuramente interesse ma pone anche problemi d’interpretazione, la cui soluzione richiede l’elaborazione di nuovi criteri teorici e metodologici sui quali si fonda tutta la ricerca messa in opera dall’autore. La seconda sezione si concentra sul rituale della religione romana antica alla quale rinvierebbe l’espressione mundus patet, ovvero «il mundus è aperto». Essa solleva la questione delle fonti documentarie inerenti ai riti di fondazione di Roma e delle rappresentazioni simboliche dello spazio della città, che possono essere in contraddizione con ciò che sappiamo della concezione urbanistica romana. Il dossier ritrovato nell’archivio, uno stato dell’arte realizzato in buona parte da Gustavo Glaesser (cfr. infra) su richiesta di De Martino, comprende sia le fonti antiche sia le controverse interpretazioni del rituale che numerosi studiosi moderni hanno proposto; riportiamo qui una selezione di questo materiale. La fine del mondo come rappresentazione culturale specifica di alcune formazioni religiose costituisce l’asse principale della terza sezione. I temi, analizzati all’interno di un sistema di pensiero coerente, riguardano la ripetizione rituale del mito delle origini, l’eterno ritorno legato alla concezione ciclica del tempo, la relazione fra il tempo delle origini e la fine dei tempi, il riassorbimento periodico del divenire attraverso il simbolismo mitico-rituale. Lungi dall’essere autonome, queste tre sezioni hanno in comune un certo numero di elementi, in virtú di un metodo di ricerca fondato sull’analisi contrastiva; quest’ultima si propone di mettere in luce le specificità culturali dei diversi contesti studiati esaminando le similitudini e le differenze ricorrenti. Il delirio di fine del mondo del contadino di Berna e il rituale del mundus patet, secondo la lettura che de Martino sembra privilegiare, fanno emergere dei temi che, pur essendo strutturati in maniera diversa, sembrano presentare una matrice comune; è il caso, in particolare, della dissoluzione dell’ordine del mondo che implica fra l’altro l’abolizione delle frontiere fra lo spazio dei morti e quello dei vivi. Ma ciò che differenzia questi due documenti è l’assenza, nel primo caso, di un’alternativa alla catastrofe cosmica che, priva di ostacoli, può liberamente dispiegarsi e riapparire costantemente sotto nuove forme. Quanto al rituale di apertura del mundus, cosí come descritto da alcune fonti, è proprio la presenza di limiti – che presuppone l’esistenza di una regola – ciò che emerge in prima istanza: i tre

giorni all’anno, fissati dal calendario e accompagnati da divieti religiosi, durante i quali si apre la cavità sotterranea dedicata alle divinità infernali, limitano il ritorno dei morti tra i vivi. La chiusura di questa parentesi eccezionale prelude alla restaurazione dell’ordine che la struttura stessa del mundus simboleggia e che implica la divisione dello spazio in tre sfere (sotterranea, terrestre, celeste) il cui insieme forma il «mondo» pensato come cosmo. Questa osservazione getta un primo fascio di luce sulla funzione dell’istituzione festiva e delle pratiche rituali ispirate ai modelli mitici; nella terza sezione l’analisi passa da un caso particolare, scelto per il suo carattere paradigmatico, alla teoria. De Martino espone i punti chiave della sua concezione laica della religione e si sofferma in particolare sull’efficacia protettiva dei simboli mitico-rituali, discutendo le affermazioni di studiosi dei quali condivide gli interessi, pur criticando gli orientamenti teorici e le scelte metodologiche: Mircea Eliade, Gerardus Van der Leeuw, Rudolf Otto. La sezione intitolata Mundus patet richiede una precisazione. Sotto il titolo «Il rituale del mundus» la prima edizione presenta una nota editoriale che pone l’accento sul «livello di elaborazione molto iniziale» di questo dossier, pur sottolineando che la descrizione del rituale romano «avrebbe dovuto costituire il centro del capitolo 1» 1. In questa nota, dopo la rassegna dei momenti essenziali del rituale, si sostiene la non necessità di pubblicare sia le principali fonti antiche, già raccolte dall’autore e facilmente accessibili, sia le diverse interpretazioni fornite dagli studiosi moderni, perché prive di qualsiasi lettura critica. Dal momento che nella prima edizione la sezione relativa al rito del mundus consta soltanto di tre brani, contenuti in poche pagine, la sua funzione nell’economia dell’opera risulta alquanto opaca. L’ampiezza e la consistenza del dossier conservato nell’archivio suggeriscono, al contrario, di ristabilire, nella misura del possibile, l’importanza che De Martino gli attribuiva, prendendo in considerazione la dinamica dei rapporti che lo collegano alle altre parti. L’autore stesso ha lasciato tracce del suo particolare interesse per l’eventuale esistenza del rituale del mundus patet: tracce che possiamo seguire ripercorrendo le pagine dattiloscritte che riassumono le tesi di Henri Le Bonniec, dove delle sottolineature a matita rossa e blu, oppure delle frecce a margine, evidenziano i dati che De Martino considerava pregnanti e sui quali invita a posare il nostro sguardo. Da qui la decisione di includere in questa edizione le principali testimonianze degli autori antichi, nonché un brano significativo dell’analisi di Le Bonniec che tanto aveva colpito De Martino. I motivi posti in rilievo alludono al tema del ritorno rituale dei morti fra i vivi, nello specifico quadro del culto di Cerere, divinità agraria e infernale preposta al mundus; si tratta di un tema che è coerente con le ricerche in corso, inoltre, ampiamente trattato dagli storici delle religioni intellettualmente vicini a De Martino. Citiamo Angelo Brelich, il cui classico Tre variazioni romane sul tema delle origini 2 analizza il tema dell’invasione rituale dei morti all’interno del ciclo delle feste destinate a riattualizzare il caos in vista della rifondazione del cosmo – una rifondazione che coincide con l’inizio dell’anno fissato al 1° marzo del calendario romano arcaico. Citiamo anche Vittorio

Lanternari, autore de La grande festa 3, che prende in esame le feste di Capodanno e le loro numerose implicazioni cosmogoniche nelle civiltà non occidentali. Il tratto distintivo del Capodanno risiede nel rapporto dialettico disordine/ristabilimento dell’ordine; per quanto riguarda le feste del capodanno a carattere agrario, il disordine si configura come ritorno in massa dei morti nel mondo dei vivi, i quali sono tenuti ad accoglierli e a nutrirli con le primizie dei raccolti prima di rinviarli nelle loro sedi. È interessante osservare che De Martino, a cui dobbiamo la prefazione de La grande festa, sottolinea l’importanza del problema storico-religioso affrontato da Lanternari: il «Capodanno, – egli scrive, – è un grande istituto religioso dell’umanità» 4. Pertanto, il rituale del mundus patet sembra far parte di un sistema festivo che condivide le caratteristiche

del

capodanno

(l’evocazione

della

fondazione

della

città,

delle

origini

dell’organizzazione culturale dello spazio, ecc.): da questo punto di vista, esso si prestava bene a rappresentare un modello di «apocalisse culturale» dialetticamente opposto al modello di «apocalisse psicopatologica». Marcello Massenzio 1. E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino 2002, pp. 212-13. 2. A. BRELICH, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Ateneo, Roma 1955. 3. V. LANTERNARI, La grande festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali, il Saggiatore, Milano 1959. 4. Ibid., p. 15.

1. Il caso del contadino di Berna 1. 1.1. Verso la fine del 1947 fu ricoverato presso l’ospedale cantonale di Münsingen (Berna) un giovane contadino di ventitre anni, che presentava un caratteristico delirio schizofrenico di fine del mondo. Tema di questo delirio era un mutamento peggiorativo e minaccioso del mondo, un dissestarsi radicale dell’ordine cosmico e di quello dei rapporti comunitari. Il mondo – che il malato si rappresentava nella modalità piú prossima alla sua esperienza di contadino come ciò che l’uomo produce col suo lavoro e come ciò che la natura genera attraverso i suoi ritmi stagionali – era entrato in una crisi radicale a partire dalla precedente primavera, quando al malato era accaduto di sradicare alcuni arbusti, dando cosí, con questo suo atto colpevole, il primo avvio al processo di dissoluzione. Ma piú ancora la colpa del sinistro mutamento era da ricondurre al fatto che in autunno il padre aveva sradicato una quercia per venderla: dalla fossa rimasta nel terreno dopo lo sradicamento era sgorgata acqua che si era sparsa per la terra. Ulteriore atto colpevole che aveva dissestato il mondo, il malato riteneva fosse la rifazione della porta di ingresso alla fattoria paterna di cui era stata mutata la forma e il colore, introducendo in tal modo una rischiosa alterazione di rapporti fra la casa paterna, la porta e il resto del mondo. In particolare il sole non incontrava piú nel suo cammino diurno il vecchio portone, e ciò alterava il corso regolare del sole, il normale scorrere del giorno e illuminarsi della casa paterna. Il crollo del mondo, il franare del suo ordine, della sua domesticità e della sua abitabilità, si manifestavano altresí nel totale spaesarsi del paesaggio o nella irrespirabilità della sua aria: l’inabissamento della montagna, l’appiattimento della terra, il tramutarsi dell’aria in gas azzurro maleodorante completavano cosí il quadro catastrofico dell’arresto della vita vegetale e animale e della sospensione del lavoro produttivo umano. Questo sinistro precipitare del mondo verso il caos inoperabile coinvolgeva non soltanto il cielo e il suolo, ma anche il sottosuolo. Sempre a partire dallo sradicamento della quercia e dalla rifazione della porta della fattoria paterna,

il suolo – che una volta era stabile sostegno e fecondo alimento della vegetazione – andava sprofondando come fosse diventato in lungo e in largo cavernoso: e in questo spazio sotterraneo, raffigurato come regno dei morti, andavano precipitando i viventi, in cerca di suolo saldo sotto i loro piedi e invece sempre piú sprofondanti nel vuoto. Lo sradicamento della quercia aveva alterato anche l’ordine delle acque e dalla fossa lasciata dalla quercia sradicata defluivano acque che corrodevano il suolo e lo rendevano sempre meno stabile e andavano scavando un abisso sempre piú ampio. Su quanto avanzava di suolo saldo si muovevano dei viventi, ma erano già minoranza che diventava sempre piú esigua: la maggioranza, in continuo aumento, era ormai di sprofondati o di sprofondanti nel cavo mondo sotterraneo. La disarticolazione dell’ordine cosmico celeste, terrestre e sotterraneo si accompagnava infine a una profonda alterazione dell’ordine dei rapporti comunitari: gli uomini viventi sulla terra o sprofondati nel cavo sotterraneo, parenti o estranei, si allontanavano tutti dal malato, gli diventavano ostili e remoti, o erano addirittura designati come «popoli stranieri». Al centro di questa catastrofe stava il malato, che in parte ne partecipava come vittima e in parte ne portava la responsabilità. «Alla domanda che cosa pensa con la parola “crollo” (Untergang), il malato risponde: Quando gli uomini non sono al loro giusto posto. Ma non soltanto gli uomini ma anche gli alberi, le case, non sono al posto giusto. Si è prodotto un mutamento. Gli uomini (alludo a quelli smarriti nel cavo sotterraneo) non hanno piú le loro cose presso di loro, e ora le cercano: parlano sempre soltanto di me (come del responsabile della catastrofe), vogliono riottenere le loro cose e la loro patria. Il bel mondo non si può piú ricomporlo in modo giusto. Il mondo di prima non c’è piú, il bel mondo ordinato. La gente non è piú al giusto posto, e cosí pure le cose, le case, le strade. Il globo terrestre è rimpicciolito. I monti non ci sono piú. Gli uomini non sanno piú dove passino i confini. Il mondo si è appiattito. Gli uomini non sono piú nel loro ambiente domestico, in un mondo appaesato (die Menschen sind nicht mehr zu Hause). Anche io non sono al posto giusto, dove si è di casa (wo man zu Hause ist). (Le cose potranno andar meglio) quando gli uomini riavranno le loro cose, quando saranno di nuovo appaesati nel loro posto giusto (wenn sie wieder daheim sind am richtigen Ort). E questo gli uomini riusciranno a fare, quando avrò ritrovato il mio mondo familiare (Wenn ich wieder daheim bin)» 2.

Il malato aveva tentato di fronteggiare la catastrofe facendosi salvatore degli uomini precipitati nel cavo mondo sotterraneo. Si era provato a interrompere il disordinato afflusso di acque dalla buca rimasta dopo lo sradicamento della quercia, si era adoperato per trasportare su suolo stabile gli uomini sprofondati nel cavo e franante spazio sotterraneo. Ma poiché il salvatore non era a sua volta «su suolo saldo», l’operazione salvifera aveva conseguito risultati limitati e precari, ed era sostanzialmente fallito il proposito di porre fine al malefizio di questo risucchiante sepolcro spalancato, ricomponendo l’appaesato scenario della vita. 1.2. […] Alfred Storch 3 e Caspar Kulenkampff 4, che riferiscono il caso, delineano nel seguente modo i caratteri salienti della biografia del malato: «Questo giovane contadino, stato sempre tranquillo, solitario e un po’ primitivo, non si era mai sentito interamente a proprio agio nel mondo. Sin dall’infanzia aveva sofferto per la madre “cattiva” – che lo picchiava e che piú tardi si era data al bere – per il conflitto col padre grossolano, al quale tuttavia sembra si fosse sottomesso sin troppo arrendevolmente, per la disunione dei genitori, per il carattere pavido e per il fisico goffo, e doveva aver molto risentito per la mancanza di sufficienti legami con gli altri, piú tardi socialmente con l’altro sesso. Ciò malgrado il suo amore per la natura, il legame con essa, fecero del mondo nel quale era cresciuto il centro della sua esistenza». Questo suo mondo contadino era caratterizzato dalle concrete occorrenze naturali, come la crescita e maturazione, la vegetazione, la fecondità e la infecondità della terra, dalla luce, dal sorgere e dal tramontare del sole. La spazialità di tale mondo era determinata dalla casa e dal paesaggio in quanto sicura patria esistenziale (Heimat). Anche la temporalità della sua esistenza riceveva il suo carattere dall’immediatamente visibile, dal corso del sole che regola giorno e notte e determina il corso del mondo. Alla concreta trasparenza di questa esistenza centrata nella casa e nel focolare domestico appartiene il legame con la localizzazione degli arbusti e degli alberi, particolarmente di una quercia possente che faceva parte di questo orizzonte patrio 5. [...] 1.3. Il Weltuntergangserlebnis, il vissuto di fine del mondo, è un mutamento della forma e della struttura del Dasein nel suo complesso 6. Il vissuto di fine del mondo è immerso, come dice Wetzel, nella «concrezione di una Stimmung di Unheimlichkeit» 7, cioè una disposizione umorale di non-

domesticità sinistra, nella quale si muove in modo occulto e inesprimibile una minaccia decisiva, totale 8. Le singole immagini deliranti possono essere comprese a partire da questo vissuto fondamentale (p. 102). Nel vissuto di fine del mondo si manifesta «un essere sottratto almeno parzialmente al mondo comune e un essere immesso in un mondo privato» («eine wenigstens partielle radikale Entrückung aus der gemeinsamen in eine private Welt»): H. Kunz, Die Grenze der psychopathologischen Wahn- interpretation, in «Z. Neur.», 135, 1930, p. 602 9. Non potrebbe qui essere meglio reso il vissuto di fine del mondo come vissuto della perdita della intersoggettività dei valori che rendono un mondo possibile come mondo umano. Il segno interno della mondanità, ciò che costituisce il suo carattere fondamentale di normalità, è la sua progettabile intersoggettività, il suo appartenere a una prospettiva di operabilità socialmente e culturalmente condizionata 10: e non a caso il termine piú pertinente per designare la normalità del mondo è attinto dalla vita associata, onde il mondo normale è «domestico», «familiare», «mio» in quanto comunicabile agli «altri» (e sia pure a un gruppo soltanto di altri, socialmente e culturalmente condizionato: a quegli altri che stanno con noi nello stesso domicilio, che vivono nello stesso paesaggio, che abitano lo stesso villaggio, la stessa patria, che partecipano dello stesso gruppo, che parlano la stessa lingua o dialetto, che hanno in comune con noi memorie, istituti, costumi, sensibilità, avversioni, speranze). La perdita della «normalità» del mondo è il perdersi della sua storicità, il suo uscire dal cammino che dal «privato» porta al «pubblico»: poiché il «privato», l’intimo, il personalissimo ha un senso fisiologico quando racchiude una promessa di pubblicizzazione, quando è immesso come momento in una dinamica di valorizzazione intersoggettiva, quando diventa prima o poi parola e gesto comunicanti: l’idoleggiamento della incomunicabilità, salvo non abbia un significato polemico verso l’irrigidimento dei valori socializzati e comunemente ammessi, e non stia quale segno di un nuovo sforzo di ripresa dell’umano in vista di una piú profonda comunicazione, assume un carattere tendenzialmente morboso, di affiorante egotismo, di caduta dell’ethos della presenza, di amore che abdica ritirandosi dal suo inesauribile compito mondano; e non a torto si guarda con sospetto o con sgomento o con pietà a quanti passano i loro giorni a magnificare l’ineffabile che portano dentro, il tesoro che nascondono in petto,

e di cui son di solito avari per gli altri, salvo a rompere il riserbo e a offrire prodotti cifratissimi in fogli scritti e tele colorate e materie maneggiate. Nel vissuto di fine del mondo il perdersi del mondo comune riflette il perdersi della presentificazione, l’inversione del movimento che dal privato conduce al pubblico, la caduta del trascendimento della situazione del valore, il restringersi del margine valorizzante su tutto il fronte della valorizzazione possibile, e quindi il crollare del mondo «comune» che sempre di nuovo risulta è mantenuto e si riplasma in virtú di questo primordiale slancio «comunitario» dell’uomo. Se la perdita e la distruzione del mondo del malato, sino a ora domestico, familiare e sicuro, diventa comprensibile in virtú di fatti biografici individuabili, la individuazione di tali connessioni biografiche appare essenziale per la comprensione del tutto. «Solo che ciò non è sufficiente per rendere comprensibile il tutt’altro (Ganz-Andere) 11 che si verifica con l’irruzione della Stimmung 12 schizofrenica di fine del mondo. Questo diventa accessibile soltanto a una comprensione esistenziale» (p. 102). Non a caso i termini per designare la «normalità» del mondo sono tratti dal vocabolario della vita associata, onde il mondo «normale» è domestico, familiare mondo dei padri o patria. 1.4. Caspar Kulenkampff 13, Sono vivamente interessato alla ricerca interdisciplinare dei fenomeni storico-religiosi e in particolare alla collaborazione dello storico della cultura con lo psichiatra e con lo etnopsichiatra. Nel quadro di una ricerca sulle apocalissi culturali e sulla loro differenziazione da quelle psicopatologiche che il mio istituto sta conducendo da diversi anni con l’aiuto di psichiatri della clinica neuropsichiatrica della Università di Roma (in particolare col professor Bruno Callieri e col dottor Giovanni Jervis), la mia attenzione è caduta sul caso del contadino ventitreenne di cui Lei, in collaborazione col compianto professor Storch, ha dato notizia nel contributo apparso in «Der Nervenarzt», 81 (1950), pp. 102 sgg. Questo caso è per la nostra ricerca di notevole interesse, poiché i temi fondamentali che appaiono in esso (la fine del mondo legata allo sradicamento della quercia, l’acqua che si sparge dal foro lasciato aperto, lo sprofondare dei viventi nel regno dei morti e il venir meno di ogni vita cosmica per tale sradicamento) si richiamano esteriormente a ideologie largamente diffuse nelle culture contadine (albero del mondo,

albero della vita, fine del mondo per sradicamento della quercia cosmica, acque, accesso al regno dei morti, ecc.: si pensi al mundus romano, all’Yggdrasill 14, ecc.): questo richiamo esteriore, ma certamente non casuale, costituisce una occasione propizia per analizzare il rapporto e per definire la struttura differenziale fra apocalissi culturali e quelle psicopatologiche. Tuttavia ai fini di questo confronto il caso da Lei descritto presenta alcune lacune di informazione che forse Lei potrebbe aiutarci a colmare. Ecco le informazioni che desidereremmo: – cantone e paese di provenienza del malato; – storia economica della famiglia (si tratta come sembra di contadini piccoli proprietari?); – è possibile ottenere un disegno schematico o una pianta da cui risulti con sufficiente chiarezza la posizione della casa contadina, della quercia, e della porta esposta a mezzogiorno la cui sostituzione aveva concorso, secondo il malato, a determinare lo spostamento del sole?; – sono diffuse nel mondo contadino della regione da cui il malato proviene fiabe popolari relative all’albero del mondo, all’albero della vita, ecc.? La ringrazio vivamente, anche a nome dei miei colleghi, dell’aiuto che vorrà darci. Ernesto de Martino Titolare della cattedra di Storia delle Religioni presso l’Univ. di Cagliari.

1.5. Caso n. 1. Il nostro malato è un giovane contadino di ventitre anni con caratteri astenici, dal viso scarno, capelli ricci biondo-scuri, occhi infossati, portamento leggermente rigido. Cammina lentamente, con passo strascicato. Espressione immobile del viso. Di quando in quando solo un accenno di sorriso intorno all’angolo della bocca. Sguardo fisso. La sua espressione rigida non permette di decidere se si tratta di angoscia o di disagio. Parla poco, con lentezza, indugiando, spesso in modo tronco e scucito. Il padre è un vecchio settantenne, sposatosi tardi: è un uomo chiuso, non accessibile. La madre ha solo quarantasette anni, dedita da qualche tempo all’alcol. Litigiosa e manesca. Il paziente ha buoni rapporti col padre. Una sorella di diciotto anni e una coppia di fratelli e sorelle gemelli che hanno solo cinque anni e mezzo.

Prima breve crisi a diciannove anni, nel 1945, di nuovo malato ai principî del maggio 1947. La malattia, che lo condusse in una clinica privata, ebbe inizio quando un aereo militare precipitò in Svizzera. Egli ritenne che l’aereo fosse stato abbattuto, e si ritenne responsabile dell’abbattimento. Non poté piú dormire, andava vagando, in preda a crescente angoscia. Specialmente si angosciava della prossima fine del mondo: una fine che colpiva soprattutto la natura vegetale, lo splendore del sole, ecc. Dimesso dalla clinica dopo una cura insulinica e di elettrochoc (fine di agosto del ’47), con la diagnosi «seconda crisi catatonica in un giovane contadino debile», un anno piú tardi (fine dicembre ’48) fu di nuovo ricoverato presso l’ospedale cantonale di Münsingen presso Berna, dopo un periodo in cui aveva di nuovo lavorato come salariato, presso un contadino: ora presentava acuti sintomi catatonici. Il tema degli aerei: p. 103: «non si sono piú levati in volo aerei per fare aria»; ibid.: «I ghiacciai e i monti una volta demoliti dagli aerei non ci sono piú»; p. 404: «Gli aviatori già da tempo dicono di non poter piú volare a motivo mio. Gli aerei non possono piú volare, perché il corso del mondo non è piú regolare». «In tutte le esplorazioni condotte sul paziente il punto centrale era costituito dal mutamento del mondo, la sua rischiosità e la sua minacciosa distruzione. Il mondo è “il creatore dell’uomo, il crescere degli alberi e delle piante, e l’aria, che gli aerei hanno fatto”. Lui stesso e suo padre sono responsabili del mutamento del mondo. In primavera egli ha sradicato alcuni arbusti e se ne fa colpa. In autunno però – e ciò sta ora in primo piano – il padre ha abbattuto una grossa quercia, per venderla: non lo avrebbe dovuto fare. (Perché?) “L’ho saputo, ma me ne sono accorto”. Dal buco rimasto sul terreno cominciò a sgorgare acqua, che traboccò da un lato e si sparse sulla terra. Come ulteriore causa del crollo del mondo, descrive la rifazione di una porta di ingresso nel casale del padre. Il portone, che si trova a mezzogiorno delle case, era prima con angoli acuti e di legno, adesso lo si è rifatto quadrato e di legno giallo. Anche questo non si sarebbe dovuto fare. Infatti a motivo di questa rifazione è accaduto che il sole non può piú attraversare il portone e perciò per qualche tempo ha dovuto rimanere in un posto diverso da quello di prima». «Il sole non è piú regolare (richtig), sta sempre allo stesso posto. Il corso del mondo non è piú regolare». «Il corso del giorno non è piú regolare, ma piú lento. Il globo terrestre ha perso la sua regolarità». «Non piú laghi. Tutta l’acqua è confluita». «Il ritmo del giorno e della notte

sono mutati. Il sole a sera non ha voluto tramontare regolarmente. I picchi coperti di neve e le montagne in Svizzera, una volta sparati dagli aviatori, non ci sono piú. La terra è piatta». «Il globo terrestre è diventato piú piccolo». Non si sono piú sollevati aeroplani per produrre dell’aria. La stessa aria è mutata nella sua composizione. È diventata piú sottile, rarefatta. Egli la chiama «aria gassosa azzurra». Ha un odore sgradevole. «Tutto è azzurro nell’aria: prima non era cosí». «Non si può vivere a lungo in un’aria simile. La crescita delle piante è cessata, e cosí pure il produrre umano. Anche tutti gli edifici sono mutati». «Il mondo è diventato piú largo, ma non vi sono quasi piú case (Die Welt ist weiter, aber fast keine Häuser)». La crescita degli alberi e delle piante non può aver luogo, perché la terra è cava. Il suolo in lungo e in largo è diventato cavernoso. È cioè accaduto che gli uomini in cerca di suolo saldo sono andati scavando fosse sotto terra e continuano a scavare sotto terra nel regno dei morti, dove essi trovano soltanto morti e capi separati di vestiario. (Per quale motivo gli uomini sono sprofondati sotto terra?) «Per il crollo» (Untergang). In questo spazio sotterraneo l’acqua si è versata, proveniente dal buco della quercia che il padre ha abbattuto e venduto. Qui si può affogare e talora si è costretti a nuotare. Poiché anche gli animali sono sprofondati, gli uomini che vivono debbono patire la fame. Il paziente distingue in modo generico gli uomini viventi che si trovano sul terreno stabile e che sono la minoranza, uomini viventi che si trovano sottoterra e che rappresentano la maggioranza, e un piccolo gruppo di risorti. Gli uomini oltre di sé egli li chiama «gli altri», quelli che sono stranieri «la gente» o anche «i popoli stranieri». Egli stesso appartiene agli uomini viventi. Dal cavo spazio sotto terra egli ha ricevuto la notizia che il mondo sarebbe crollato in futuro. Questa notizia deriva da una non meglio precisata «forza cattiva». Egli sta in rapporto con gli uomini smarriti sotto terra. Mediante una stazione trasmittente essi ascoltano tutto quello che egli dice ed egli li ascolta quando gli parlano. Sono mal disposti verso di lui perché vogliono tornare a casa per riprendere le loro cose e non possono. «Gli uomini non vogliono piú riapparire, non mi vogliono piú vedere». Alla domanda che cosa pensa con la parola «crollo» (Untergang), risponde: «Quando gli uomini non sono al loro posto giusto». Ma non soltanto gli uomini non sono al loro posto giusto, ma anche gli alberi, le case – in

generale tutte le cose. Ha avuto luogo un cambiamento (Wechsel). Gli uomini non hanno piú le loro cose con sé, e ora le cercano. «Essi parlano sempre soltanto di me, vogliono riavere le loro cose e la loro patria. Il bel mondo non si può ricomporlo in modo giusto». Il mondo di prima non c’è piú, il bel mondo. (Ora com’è?) Mutato. (Che cosa è mutato?) Le case, le strade. Il globo terrestre è rimpicciolito, i monti non ci sono piú. Essi piú non sanno dove passano i confini. Il mondo è piú piatto. Gli uomini non sono piú a loro agio, sono spaesati. Anche io non sono piú al posto giusto (Quale è il posto giusto?) «Dove si è a casa» (Wo man zu Hause ist). (Quando andranno meglio le cose del mondo?) Quando essi riavranno le cose, quando saranno di nuovo a casa loro (avranno il loro ambiente domestico nel luogo giusto). Quando tutto tornerà in ordine. Scivolarsene a casa propria, in alto, nell’aria. (Come riusciranno a fare questo gli uomini laggiú?) Quando sarà di nuovo a casa. Mentre in tal modo egli stesso e ogni altra cosa non è piú al posto giusto, la propria casa paterna si è spostata molto in là. «La nostra casa non si nota piú. È molto lontana da qui. Io non so dove sia». Da ciò deriva il fatto che egli ha perduto il contatto con i suoi parenti e vicini. «Essi non mi vogliono piú vedere. Essi mi hanno perseguitato, la gente, non mi hanno piú voluto. Mio padre non ci ha creduto, a motivo del crollo del mondo. Per questo sono perseguitato». «Mi hanno mandato via. Negli ultimi tempi sono stati cattivi con me. Anch’io non li voglio piú vedere». Il paziente ha ora da parte sua impedito il crollo definitivo, allo stesso modo come prima era corresponsabile della minaccia di questo crollo. Una volta lo ha fatto in quanto ha arrestato la forza dell’acqua facendo girare un interruttore: in seguito a ciò il fluire delle acque è cessato. Un’altra volta egli ha cercato di salvare gli uomini che si trovano nello spazio sotterraneo trasportandoli su terreno stabile. Egli poté questo in quanto si trovava su terreno relativamente stabile. Ha salvato molto, ma poiché anch’egli è stato in un luogo falso, non ha potuto salvare altro. L’azione salvifera si è compiuta mediante una forza magnetica, che il paziente possiede nella regione della laringe. Cosí egli ha «stimolato in alto» (herauf-gelupft) dalla terra gli uomini, soprattutto soldati svizzeri. In connessione con la regione magnetica del collo, egli soffre di disturbi di deglutizione, sí che deve far fatica talora per inghiottire patate e legumi. È in possesso da parecchio della forza magnetica nella laringe e questa forza è sorta quando egli ha inghiottito una grossa mela con tutto il gambo e questa mela gli è rimasta nel collo

danneggiando la laringe. Da allora egli non ha potuto inghiottire bene. La regione è diventata magnetica, ed è diventata anche un luogo attraverso il quale sta in rapporto con gli uomini. «Gli aviatori hanno già da tempo detto che essi non potrebbero piú volare, a causa mia. Sono attratti giú per il magnete. Una malattia che comporta attrazione». «Gli aerei non possono piú volare bene, poiché il mondo non corre piú bene». (Gli uomini vogliono che le costruzioni tornino al loro posto giusto?) «Le case sono cosí vicine. Dovrebbero essere piú lontane. A motivo dell’acqua laggiú la terra è scivolata via, c’è stata attrazione. Essi si sono avvicinati da questa parte». Contro il mutamento dell’aria il paziente non ha intrapreso nulla. I velivoli non si sono ancora alzati di nuovo. Ora tutto è in sospeso. Il crollo del mondo è certo impedito, ma non per questo il mondo è riparato. Egli si sente solo e abbandonato. «Essi desiderano stare su un suolo fermo, questi uomini veri, il cui posto è il suolo stabile. Quelli che non lo meritano stanno giú, e prima hanno perduto la loro coscienza. Poiché la quercia e gli arbusti non stanno piú in piedi». (Ma una parte è su suolo stabile?) «I viventi, a motivo della salvezza. Io li ho salvati. Ma poiché io non ero piú nella casa paterna (nel paese natio, in patria), le cose non stavano come prima, e mio padre non ha seguito il mio consiglio, ha sradicato la quercia. A motivo del fatto che la quercia è stata segata la gente e le cose sono sprofondati. Poiché non vi erano piú arbusti (Stauden), il suolo non era piú stabile. La gente è franata giú e l’acqua è affluita. Non è piú al giusto luogo, dove era prima. Gli uomini giusti, i viventi, anche prima sono stati giú». (Anche lei c’è stato?) «Io ero sempre sopra, mai sotto, ma non su suolo saldo». (Come mai?) «Un terremoto. La gentaglia di sotto ha certo fatto un colpo. L’ho avvertito». 1.6. Il commentario di Storch e di Kulenkampff (pp. 104 sgg.) si apre con una individuazione del Dasein del malato: il giovane contadino, un po’ primitivo, solitario, tranquillo «non si era mai trovato nel mondo del tutto a proprio agio (ganz heimlich)» (p. 104). La madre manesca e ubriacona, il padre grossolano e autoritario, la disunione dei genitori, gli scarsi risultati scolastici e il senso di inferiorità verso i compagni, gli scarsi rapporti con questi e piú tardi con l’altro sesso, dànno rilievo al corso della sua vita dall’infanzia sino all’adolescenza. Il mondo naturale nel quale crebbe diventò il centro della sua esistenza, il legame fondamentale. Questo suo mondo contadino fu plasmato «da concreti fatti ed eventi naturali, crescita e vegetazione, fecondità e sterilità della terra, luce, sorgere e tramontare del

sole». La spazialità di questo suo mondo è determinata dalla casa e dal paesaggio domestici e patri. La temporalità della sua esistenza riceve del pari la sua connotazione dall’immediatamente visibile: dal corso del sole che regola il giorno e la notte e determina il corso del mondo. Questa esistenza centrata nella casa e nella patria si riflette in modo intuitivo negli alberi e negli arbusti, specialmente nella potente quercia che appartiene al suo orizzonte domestico. Attraverso l’allontanamento di questa quercia l’immagine del suo mondo ha subito una trasformazione decisiva, gravida di sventura... Quando il malato dice: «Il mondo nel quale poco prima sono stato, non c’è piú, il bel mondo», si rende manifesto che l’esistenza del nostro paziente, la modalità del suo esserci-nel-mondo ha subito nel corso della psicosi una distruzione radicale... Espressioni del malato come la terra è piú piatta, i monti sono sprofondati, i mari non ci sono piú, accennano alla perdita della molteplicità delle forme sensibili, a un generale livellamento. Il globo terrestre, mutato nella sua stessa forma, racchiude un paesaggio in cui non c’è piú differenza di monte e valle, di terra e acqua. Poiché inoltre, come il malato dice, la crescita è cessata, possiamo parlare di un processo di devastazione e di solitudine al quale è stato sacrificato tutto l’orizzonte terrestre-spaziale del suo mondo. In un siffatto mondo povero di vegetazione, simile a deserto, privo di differenze, diventa difficile trovare segni di orientamento, punti di riferimento per una partizione ordinata. In questo senso il paziente parla, quando dice di non saper piú dove passano i confini. Immiserimento livellatore e perdita di confini formano perciò unità. L’esistenza abbandonata alla mancanza di delimitazione di questa spazialità senza interni limiti di articolazione, non ritrova piú il qui e il là, il determinato luogo e posto, in cui si collocano e a cui appartengono le cose. Perciò il malato fa nelle sue espressioni continuo riferimento al fatto che la gente, le case, le cose, le vie, non sono piú «al loro giusto posto». Esse sono diventate per lui un «altrove» non familiare, estranee, straniere, strane, anche nella loro composizione e struttura. Devastazione e solitudine del mondo, e assenza di limiti vanno cosí insieme a una «perdita della domesticità», a una «estraneità» del mondo (pp. 404 sgg.). Non c’è da stupirsi se egli in un mondo come questo non si senta heimisch e in opposizione all’attuale quello precedente sia da lui indicato come «bello» (nel senso di bene ordinato) (p. 405).

L’analisi esistenziale della spazialità del malato si estende ora a un altro aspetto del suo esperire. Anche il «suolo» è distrutto. Esso non è saldo sotto i piedi, manca sotto i piedi, è vuoto, crolla o sprofonda, ecc. Uomini e cose sprofondano verso il basso per effetto del crollo del mondo, sono andati nel mondo sotterraneo. Le masse d’acqua precipitano con violenza giú, e operano scavando di sotto. Questa generale tendenza verso il basso riflette in modo chiaro che «tutto ha perduto il saldo terreno sotto i piedi». Egli stesso avverte il carattere abissale del suo mondo come «terremoto», causato dallo scontro del treno vivente di sotterra. Questo abissale sprofondarsi del suolo rappresenta effettivamente una nuova forma dell’esistenza: il suolo sotto il quale c’è il vuoto, su cui lo stare è diventato insicuro e le radici non possono trovare né presa né nutrimento, e quindi nulla può crescere, la inversione totale della direzione del vivente, dal «verso l’alto» al «verso il basso» (onde poi il carattere «cavità sotterranea» della terra, il suo essere non soltanto abisso spalancato, ma come irresistibile risucchio che minaccia di trascinare tutto nel regno dei morti), tutto ciò forma organica e unità esistenziale. Gli uomini con le loro cose, e gli animali, sono inghiottiti da questo risucchiante abisso, e altrettanto tutte le forze della vita vegetale, tutte le linfe vitali emergenti verso l’alto ed ora troncate dal basso, in un siffatto progetto del mondo 15, il divenire viene perduto su tutto il fronte del possibile: cessa ogni forma del produrre, il sole si ferma, la forza della sua luce diminuisce, ecc. Dalla perdita del divenire risulta l’irrigidirsi del cosmo (il che trova il suo equivalente espressivo nella rigidità fisionomica del paziente); e risulta altresí con la perdita del divenire il disordine caotico. Il disordine caotico – designazione con cui possono essere abbracciati tutti questi singoli stati di privazione – e la perdita del divenire che si estende su tutto il fronte della esistenza attuale o possibile si palesano qui non soltanto in stretto rapporto di appartenenza, ma come momenti strutturali di quel fondamentale Weltentwurf della risucchiante abissalità, nel quale è immerso il Dasein del nostro caso (p. 105). Un mutamento della struttura dell’esserci non si trova però soltanto nell’ambito del tellurico cioè di quanto concerne la terra, ma anche per quanto concerne la sfera eterica è intervenuta una profonda alterazione. L’aria si è mutata, è diventata piú sottile, rarefatta. Il malato indica questa aria mutata con aria gassosa blu, sgradevole e nella quale non si può vivere a lungo. Questa distruzione del mondo eterico non è una immagine delirante

casuale: vi è qui una declinazione che corrisponde a quella del mondo tellurico, il che conferma che il Dasein nella sua totalità è qui colpito. L’aria, in quanto elemento dell’eterico, con la quale noi respirando abbiamo rapporto, appartiene per sua natura al vivente pneumatico, allo spirituale. L’aria della fine del mondo è appunto un’aria cui è sottratta l’essenza pneumatico-vivente, è ridotta a gas morto (l’aria della vita decade ad aria gas) (ibid.). Ora noi comprendiamo che cosa significa per il malato lo sradicamento dell’albero. L’abbattimento della quercia segna per lui l’inizio della fine del mondo. Tutto il divenire del mondo era stato come squassato dallo sradicamento di questa quercia, e le sue radici colpite si identificano con le radici stesse della vita. L’albero come simbolo del radicamento sulla terra e dell’ascesa verso le regioni eteriche e pneumatiche, come simbolo della vita che si rinnova, ecc. (cfr. Lenau 16 e Klages, Der Geist als Widersacher der Seele, III, 2, 1932 17). Mitologicamente: l’albero cosmico, l’albero di vita, l’albero centro del mondo. Lo spazio di vita diventa il regno catatonico dei morti, l’aria di vita, il pneuma vivente si riduce a gas (ibid.). Entrando nel paesaggio schizofrenico, il malato dovette esperire nell’abbattimento e nello sradicamento della quercia «il diventar senza base e senza radici del proprio Dasein» (p. 106). Al centro di questo crollo cosmico sta il malato. Mentre gli altri, la gente, «i popoli stranieri» con le loro cose e con gli animali sprofondano negli abissi, il malato resta, punto mediano degli eventi, in solitudine in un mondo deserto, insicuro, immoto, caotico. Ciò che viene chiamato clinicamente il tratto autistico della schizofrenia, qui è vissuto come isolarsi, ed è da interpretare come una modalità «dell’esserci nel mondo». Il Dasein, distruggendosi, si viene spogliando del suo «carattere ontologico di Mitsein». La casa, il mondo domestico, è lontano, non so dov’è. Il malato perde la sua patria: Heimatlosigkeit. L’estraneità del mondo è perdita della patria. Nel Dasein senza patria il malato e le cose del mondo «non stanno piú al loro posto giusto». La gente «respinge», non soltanto si allontana ma acquista un aspetto evitante, ostile per il malato. Isolamento, perdita di confini, estraneità – cioè caotico disordine – perdita del divenire, perdita della base, della patria, ecc. (ibid.). Tendenza verso il basso, nel regno dei morti, nel

risucchiante abisso. 1.7. Come si giunge, nel nostro malato, a questa sovrapotenza del nulla, della morte e del male? – All’uomo appartengono al tempo stesso due momenti: noi siamo enti legati alla terra, alla gravità terrestre, e al tempo stesso appartenenti all’aria e alla luce. Come esistenza ascendente siamo partecipi alla libertà, respiriamo nelle possibilità del futuro. Se però l’uomo non può piú vivere questa emergente esistenza per il futuro «la vie ascentionelle et surgissante» – com’è appunto il caso del nostro malato –, allora il suo Dasein perde il saldo fondamento. L’elemento terrestre materno si mostra nel suo temibile aspetto di morte come abisso risucchiante. L’uomo cade preda dello Spirito di Pesantezza e delle Tenebre, deve precipitare, e si abbandona all’abisso del nulla. «Tout ce qui s’abaisse participe au néant». Il restar esposto ai richiami dell’abisso riesce in una perdita del «poter essere», e in un cadere in un isolamento sciolto da tutti i rapporti col mondo. Per salvarsi da questo abisso occorre una forza sovraumana. Soltanto una assoluta potenza al di là del tempo e della storia potrebbe superare questa rovina della esistenza storica e finita. L’uomo non lo può, salvo che non si arroghi un essere eguale a Dio, l’«eritis sicut Deus». Proprio questa divina onnipotenza si attribuisce il malato divenuto salvatore del mondo. Proprio questo è il senso della onnipotenza dei deliranti schizofrenici: che essa fornisce l’apparenza di stabilità nell’assoluto alla mancanza di consistenza e di presenza del suo distrutto Dasein (pp. 107 sgg.). (Storch e Kulenkampff ricordano a questo proposito l’opposizione di luce e gravità in Schelling 18, lo «steigendes und sinkendes Dasein» [«la dilatazione e il restringimento del Dasein»] di L. Binswanger 19, e G. Bachelard, L’air et les songes, Corti, Paris 1943, p. 270: la partecipazione del movimento ascensionale alla nostra libertà aerea, con la nostra perfezione e purificazione 20. Sull’aspetto mortale dell’elemento materno terrestre: E. Neumann, Ursprungsgeschichte des Bewusstseins [Storia delle origini della coscienza], Zurigo 1949. Lo spirito di pesantezza, in Nietzsche, Also sprach Zarathustra [Cosí parlò Zarathustra]. «Tout ce qui s’abaisse participe au néant»: G. Bachelard, L’Air et les songes. La perdita del potere essere, in M. Heidegger, Sein und Zeit [Essere e tempo] 21). 1. 2.

Una fine del mondo, di cui il malato si sente responsabile. La fine ha nel delirio la simbolica motivazione centrale dello

3. 4.

5. 6.

sradicamento della quercia da parte del padre, che l’abbatte e la vendetta. Il mutamento della porta. Dal foro o apertura lasciati dalla quercia sradicata sgorgò acqua che si sparse sulla terra. Il suolo è diventato non saldo, e gli uomini vanno scavando sotto terra, nel regno dei morti, alla ricerca di questo suolo saldo. In questo spazio sotterraneo l’acqua attraverso il foro della quercia sradicata irrompe. È in comunicazione con questi uomini di sotterra. Cerca di salvarli, ma poiché è anche lui su suolo non saldo, vi riesce solo in parte. L’inabissarsi dei viventi nel mondo degli inferi, il suolo non fermo, si accompagnano al mutamento di tutte le cose, che non stanno al loro giusto posto, al venir meno della crescita di tutto il vivente, piante, ecc., alla trasformazione dell’aria in un gas azzurro, all’impicciolirsi del mondo, a un suo diventare piatto, senza confini, ecc.

1.8. «Il nulla “senza fondo” non presenta un carattere solo necessariamente negativo. Nell’abisso incommensurabile illimitato del nulla si trova anche proprio l’anima che vive nella assoluta pienezza della sua essenza, in quanto nella pienezza e profondità di Dio essa anima è accolta e conservata nella abissalità incommensurabile del divino. Solo questa mancanza senza fondo del divino si trasforma per l’anima che ha perso la sua patria in Dio, in abisso annullante e inghiottente, cosí come per il Werther di Goethe si muta “lo scenario della vita infinita nell’abisso di un sepolcro eternamente aperto”. Ciò che accade al malato come perdita specifica dell’essere dello schizofrenico smarrito nella sua dissociazione ha nel nostro mondo il suo parallelo storico-culturale nel mutamento storicamente dimostrabile dell’abisso dal fondo primordiale divino nella sua incommensurabile ricchezza – l’abisso di Agostino e dei mistici – all’abisso caotico e vuoto che inghiotte, il gouffre di Pascal e di Baudelaire. In questa metamorfosi storico-culturale (Walther Rehm 22, Tiefe und Abgrund in Hölderlin Dichtung, 1947, Hölderlin. Gedenkschr. zu seinem 100. Todestag, a cura di Paul von Kluckhohn, Tübingen 1943) si mostra una specifica minaccia dell’uomo del nostro tempo, sciolto dal legame col divino e con gli altri uomini, e quindi caduto nell’isolamento» (p. 108, nota 1). Ancora una volta si mostra la connessione, che la psichiatria

esistenzialista avverte, fra la crisi e la sfera del sacro 23. Ma se è radicalmente erronea ogni prospettiva interpretativa che fosse volta a ridurre il sacro alla fenomenologia della mera crisi esistenziale è del pari radicalmente erronea la prospettiva della psichiatria esistenzialista nella misura in cui fa valere la tesi del sacro, del divino, del mitico-rituale come orizzonte culturale necessario per fronteggiare la crisi. Tale necessità è storicamente condizionata, ma oggi, «nel mondo moderno», stanno sempre piú venendo a mancare tali condizioni (l’agonia del sacro), senza che questo si leghi necessariamente a una «minaccia» che incombe sull’umanità. Ciò che importa è la «intersoggettività dei valori», il mantenere l’apertura a questa intersoggettività, la volontà sempre rinnovantesi di comunicare agli altri il nostro mondo privato e di accogliere sempre di nuovo nel nostro intimo le voci comunicanti degli altri uomini, i messaggi che essi ci inviano. Ma l’orizzonte metastorico del sacro non è, in quanto metastorico, l’orizzonte indispensabile, in tutti i tempi e i luoghi, in tutte le epoche per compiere questa pubblicizzazione di sé e questa interiorizzazione degli altri. Per «fare il bene» (cioè per volere non il privato che si chiude ma il privato che si apre al pubblico) non è necessario farlo per Cristo e per Dio: si può semplicemente farlo per gli uomini della propria epoca, senza bisogno di ricorrere al détour di raggiungerli attraverso Cristo e attraverso Dio. Oggi la via che conduce dall’uomo all’uomo sta diventando breve, mentre sempre piú appare lunga e impercorribile quella che passa attraverso il divino: i nostri padri l’hanno percorsa in passato fruttuosamente, e solo cosí, attraverso questo détour, sapevano incontrarsi. Ma ora ciò che in passato fu «via, verità, vita» si configura già come ostacolo, interruzione di rapporto, evasione e morte 24. E questa è la vera necessità, di cui dobbiamo prender coscienza per costruire in essa il nuovo regime di incontro e di comunicazione. Si dice: «Ma il criterio del bene vi è dato da Cristo e da Dio: se lo perdete perderete anche il bene da fare agli uomini». E Budda? E gli dèi dell’Olimpo? E l’essere supremo dei primitivi? Non è possibile fare il bene per loro? Non hanno realizzato altre civiltà l’incontro umano attraverso altri orizzonti del sacro? «Forse, ma il nostro orizzonte accoglie valori piú alti». E allora badiamo a questi valori in primo luogo: e se la vita simbolica ci è indispensabile per proteggerci dal rischio esistenziale, che i nostri simboli siano in pieno accordo con questi valori, ne racchiudano lo sviluppo e la dilatazione. Siano simboli in cui, in virtú di tale accordo, possiamo credere e

non già simboli che ci obbligano a dividere l’anima fra opposti padroni 25. Donde nasce la caratteristica rispondenza che esperiamo nell’incontro con la metafisica della metafisica delle immagini schizofreniche della fine del mondo? Non è soltanto a parlarci il contenuto metafisico delle immagini apocalittiche ed escatologiche, delle minacce e delle promesse del tempo ultimo e del Regno millenaristico. Proprio nel nostro caso non si perviene alla formazione di tali contenuti sopramondani, ma si resta in un ottuso e sordo affidarsi al mero evento del crollo come tale. Se in ciò un elemento umano e relativo al destino dell’uomo ci tocca profondamente, è perché immagini numinose 26, in cui si rappresentano crollo e salvezza dell’umanità, dischiudono una struttura ontologica essenziale della nostra esistenza. Dato che siamo perduti nella quotidianità del nostro fare e dei nostri interessi in tutte le sfere delle cose che ci riguardano e di cui ci occupiamo, e abbiamo dimenticato l’essere e il nulla, nell’incontro con tali malati siamo colpiti da un senso di sorpresa e di stupore. Poiché l’accadere che immerge i malati dalla sfera delle nostre possibilità in un dover essere servile, e sporge nel nulla, richiama a noi stessi per cosí dire la nostra «dimenticanza dell’essere», e ci mostra in cospetto del suo essere affidato al nulla... ecc. 27. […]

Mundus 2. 2. Nella struttura di questo capitolo l’analisi della nozione romana di mundus, nella sua duplice dimensione spaziale e temporale, seguiva lo studio del caso del contadino di Berna in virtú di un criterio metodologico esposto ne Il progetto riprodotto piú sopra: Nella esecuzione dell’opera si fa valere l’istanza della ricerca interdisciplinare (con una particolare formula metodologica) particolarmente in rapporto alla necessità di confrontare le apocalissi culturali con i loro rischi psicopatologici e di determinare il carattere di difesa e di reintegrazione che le apocalissi culturali rappresentano rispetto a tali rischi. Ad illustrare questo rapporto e questo carattere viene prescelto un documento psicopatologico della fine, in cui il contenuto del delirio si riferisce a frammenti disarticolati di configurazioni storico-religiose di civiltà cerealicole, e si analizza il diverso orientamento di queste figurazioni e di quel delirio (cap. 1, Mundus).

Ma di quali istituzioni religiose si tratta? Come rivela l’archivio, De Martino aveva incaricato Gustavo Glaesser 28 di stilare uno stato dell’arte degli studi dedicati alle realtà che il termine mundus designa nella religione romana arcaica, a partire da un insieme di fonti letterarie ed epigrafiche antiche. Il dossier, lungo un centinaio di pagine, non ha potuto essere utilizzato dall’antropologo; e sembra che Clara Gallini non fosse riuscita a identificarne l’autore. Tuttavia, esso ha un valore non trascurabile poiché, per quanto ecceda le nostre competenze, permette anche ai non specialisti di misurare le difficoltà di metodo e di documentazione con le quali De Martino non esitava a confrontarsi. E permette di capire meglio le ragioni del suo interesse, lasciandoci intravedere – pur all’interno di un perimetro ben circoscritto – un momento di un’argomentazione che altrimenti ci sfuggirebbe. «La nozione di mundus è una delle piú controverse della religione romana», dichiara Georges Dumézil nel suo importante La religion romaine archaïque. E aggiunge: «Gli autori antichi sembrano infatti aver mescolato varie tradizioni, confuso vari riti e vari luoghi, e i moderni hanno aggiunto a tutto ciò le loro scelte arbitrarie o le loro estrapolazioni» 29. Per consentire al lettore di misurare le difficoltà che portano gli studiosi odierni a scartare questo dossier, presentiamo qui le principali fonti letterarie di cui De Martino aveva stabilito l’elenco, insieme a un estratto del rapporto stilato da Gustavo Glaesser. 2.1. Con la parola mundus le fonti antiche designano almeno due tipi di realtà. La prima – una fossa totalmente chiusa riempita di primizie e di terra – è legata alla fondazione dell’Urbs da parte di Romolo e alla creazione dell’ordine mondano; per entrambe queste operazioni è necessario tracciare delle frontiere fra le diverse porzioni di spazio. L’altra – un edificio situato sotto terra eccezionalmente aperto tre volte all’anno per dare accesso al mondo sotterraneo – è posto sotto il controllo delle divinità infere. Il che ha forse portato a considerare questo dossier dalla prospettiva dei rapporti fra i vivi e i morti. 2.2. Fra gli studi riassunti da Glaesser, quello di Henri Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome 30 rappresenta meglio la complessità del dossier e propone un riordinamento non distante dagli interessi demartiniani. Stando ai brani sottolineati da De Martino, che noi riproduciamo in corsivo, ciò che attirava la sua attenzione era la realizzazione rituale del caos grazie

all’attraversamento della frontiera che separa lo spazio dei vivi da quello dei morti, e la doppia dimensione – agraria e funeraria – di Cerere. Il rituale romano del Mundus patet deriverebbe dunque da queste istituzioni religiose delle civiltà agricole abitualmente designate «feste del rinnovamento» o «feste del nuovo anno», e potenzialmente assimilabili ad apocalissi culturalmente disciplinate, nello stesso tempo opposte e complementari ai vissuti individuali di fine del mondo. 1. De Martino individua questo caso a partire da un riferimento bibliografico della relazione che Giovanni Jervis gli consegna nel luglio 1962: Archivio De Martino, 22.9, p. 45, nota 44. La sua attenzione è forse stata attirata da un’annotazione un po’ critica e un po’ ironica, che prende di mira l’orientamento esistenziale dei medici: «Il pensiero di Storch si svolge su questa linea, con una impostazione ricca di echi mistici e di colti riferimenti a religioni orientali, per cui la fine del mondo psichiatrica risuona di valenze “perenni” veramente insospettate» (p. 24). Sul ruolo d’esperto assunto da Jervis, cfr. l’introduzione del capitolo 2. 2. A. STORCH e C. KULENKAMPFF, Zum Verständnis des Weltuntergangs bei den Schizophrenen, in «Der Nervenarzt», n. 21, 1950, pp. 102-8. Salvo indicazione contraria, i riferimenti delle pagine e le citazioni che seguono in questa sezione rinviano a quest’articolo. La rivista «Der Nervenarzt» è stata fondata nel 1930 come portavoce dell’antropologia fenomenologica che si sviluppa attorno a Ludwig Binswanger. Cfr. il capitolo 2. 3. Alfred Storch (1888-1962) è uno dei primissimi psichiatri che hanno riconosciuto la portata dell’analitica heideggeriana nel campo della psicopatologia. 4. Caspar Kulenkampff (1921-2002) è una figura centrale della riforma delle istituzioni psichiatriche tedesche, che comincia a realizzare all’inizio degli anni Sessanta presso la clinica universitaria di Frankfurt am Main, poi in quella di Grafenberg a Düsseldorf. Il suo nome è legato all’inchiesta realizzata fra il 1971 e il 1973, per il ministero della Sanità, sulle disastrose condizioni degli ospedali psichiatrici. È considerato anche il promotore di una «psichiatria antropologica». 5. Frase incompleta. 6. In quanto infinito sostantivato del verbo tedesco dasein («esserci»), il termine compare nel XVII

secolo col senso di «presenza», ed è poi usato, nel secolo successivo, col senso di «esistenza».

Si tratta del concetto principale della filosofia heideggeriana. Mentre in Francia i suoi tentativi di traduzione hanno contrapposto diversi commentatori, in Italia Pietro Chiodi ha stabilito la traduzione col verbo esserci. A volte De Martino conserva il termine tedesco, ma il piú delle volte adotta la traduzione italiana. 7. L’uso che Alfred Wetzel fa di questo termine, molto frequente nella letteratura romantica tedesca, non sembra rinviare alla sua rielaborazione, operata da Sigmund Freud, per designare un

sentimento che si trasforma in angoscia. Sulle traduzioni demartiniane cfr. il capitolo 2, nota 10. 8. A. WETZEL , Das Weltuntergangserlebnis in der Schizophrenie [Il vissuto di fine del mondo in schizofrenia], in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», vol. 78, n. 1, 1922, pp. 403-28. Sul concetto di Stimmung, cfr. infra, nota 12. 9. Quest’articolo di Hans Kunz, il cui titolo può essere tradotto con I limiti dell’interpretazione psicopatologica del delirio, pubblicato in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», è un testo fondatore per l’orientamento esistenziale in psichiatria. 10. De Martino riprende il concetto heideggeriano di mondanità come struttura ontologica dei mondi del Dasein, ma lo modifica a partire da una prospettiva etnologica che sarà esplicitata nel corso di questo capitolo. Il concetto heideggeriano è commentato da M. ZARADER, Lire Être et Temps de Heidegger, Vrin, Paris 2012, cap. 3. 11. Espressione mutuata dallo storico delle religioni e teologo Rudolf Otto, che la introduce per definire l’alterità del sacro. Cfr. nota 52. 12. Derivato da Stimme, «voce», o deverbale di stimmen, «esprimere ad alta voce», Stimmung è un concetto al crocevia fra medicina, filosofia, estetica, scienze naturali, musica e poesia, considerato intraducibile. A partire da un registro metaforico musicale, rinvia, di volta in volta, a «tonalità affettiva», «umore», «disposizione», «stato d’animo», «consonanza», «principio vitale», «forza vitale», «atmosfera», «clima». Cfr. P. DAVID in B. CASSIN (a cura di), Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire des intraduisibles, Seuil - Le Robert, Paris 2004, p. 1217. L’uso heideggeriano del termine, nel senso di tonalità affettiva, modulazione dell’esserci nel mondo, permette di fare saltare la distinzione soggetto/oggetto. 13. Si tratta di una lettera non datata che De Martino prevedeva di inviare a Kulenkampff (cfr. nota 4). Non sappiamo però se gli sia mai arrivata. All’epoca insegnava all’Università di Frankfurt am Main, ma negli archivi non c’è traccia di risposta. 14. Albero cosmico della mitologia nordica. Cfr. R. BOYER e E. LOT-FALCK (a cura di), Les religions de l’Europe du Nord, Fayard-Denoël, Paris 1974. 15. Concetto introdotto da Ludwig Binswanger per indicare la strutturazione normativa soggiacente alle relazioni di senso che governano i comportamenti. 16. Nikolaus Lenau (1802-1850), scrittore austriaco post-romantico, noto soprattutto come poeta della Vergänglichkeit, il dolore di vivere, la cui opera però è segnata dall’impegno per la libertà dei popoli. Cfr. J.-P. HAMMER, Lenau, poète rebelle et libertaire, Aubier-Montaigne, Paris 1987. 17. L. KLAGES, Der Geist als Widersacher der Seele [Lo spirito come avversario dell’anima], J. A. Barth, Leipzig 1929-1937, 4 voll. Si tratta dell’elaborazione tardiva di una filosofia vitalista che vede nello spirito che «disanima» il corpo, cioè nell’intellettualità, un ostacolo alla relazione immediata che fonderebbe la polarità «corpo-anima».

18. «La forza di gravità precede la luce, come suo eternamente oscuro fondamento, il quale per se stesso non è actu e si dilegua nella notte, mentre la luce (l’esistente) sorge», F. W. J. SCHELLING, Ricerche filosofiche su la essenza della libertà umana e gli oggetti che vi si collegano, R. Carabba editore, Lanciano 1919. Destinata a pensare la libertà del bene e del male, quest’opposizione è riletta da Martin Heidegger: «Ma per Schelling gravità e luce, come pure il loro rapporto reciproco, non sono affatto una semplice immagine; gravità e luce “sono” invece, nel loro rapporto ontologico ed essenziale, ciò che all’interno della natura creata porta un’impronta determinata della compagine essenziale nell’Essere stesso, della commessura: fondamento-esistenza», M. HEIDEGGER, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, trad. di Carlo Tatasciore, Guida, Napoli 1998, p. 190. 19. L. BINSWANGER, Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins [Forme fondamentali e conoscenza dell’esistenza umana], Niehaus, Zurich 1942. 20. Trad. it. G. BACHELARD, Psicanalisi dell’aria, Red, Como 1988. 21. De Martino utilizza l’edizione tedesca: M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Halle 1935 (trad. it. Essere e tempo, Bocca, Milano-Roma 1953). Vincent Crapanzano riprende questo caso in Imaginative Horizons. An essay in Literary-philosophical Anthropology, University of Chicago Press, Chicago 2004, capitolo 7 (trad. it. Orizzonti dell’immaginario. Per un’antropologia filosofica e letteraria, Bollati Boringhieri, Torino 2007, capitolo 7). 22. Grande storico della letteratura, Walther Rehm (1901-1963) definiva la sua opera come l’analisi del «processo storico attraverso il quale il dominio della fede continua a indietreggiare, e l’inquietante pensiero del baratro, nato da ciò che Blaise Pascal e Sant’Agostino definivano l’experimentum medietatis, attraversa lo spazio letterario, lasciando profonde cicatrici». Cfr. E. OSTERKAMP ,

Geistesgeschichte [Storia delle idee] e conservatornismo culturale. L’esempio di

Walter Rehm, in «Revue germanique internationale», n. 8, 1997, pp. 117-37. 23. La questione è attentamente esaminata nel capitolo 2. 24. Quest’analisi è sviluppata nel capitolo 6. 25. La ricerca del simbolismo civile costituisce il fulcro degli articoli che De Martino ha raccolto in Furore Simbolo Valore, il Saggiatore, Milano 1962. 26. Elaborazione concettuale introdotta da Rudolf Otto per indicare l’irriducibilità dell’esperienza religiosa che mette in contatto con il «tutt’altro» rispetto alla ragione. Cfr. infra, nota 52. 27. A. WETZEL, Das Weltuntergangserlebnis in der Schizophrenie cit., p. 108. De Martino fa un’attenta lettura di quest’articolo nel capitolo 2. 28. Traduttore di Julius Evola per la rivista «Antaios», Glaesser lasciò Vienna al momento dell’occupazione nazista e si trasferí a Roma, dove era in rapporto con i ricercatori dell’Istituto

Italiano per il Medio e Estremo Oriente. Traduttore dal tedesco per Einaudi, De Martino lo propone anche per tradurre Roger Bastide. 29. G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà della vita religiosa romana. Con un’appendice sulla religione degli etruschi, BUR, Milano 2016, p. 310 [1966]. Per un’analisi problematizzata, vedi D. SABBATUCCI, La religione di Roma antica. Dal calendario festivo all’ordine cosmico, il Saggiatore, Milano 1988, pp. 287-300. Piú recente invece M. HUMM, Le mundus et le Comitium: représentations symboliques de l’espace de la cité, in «Société française d’histoire urbaine», vol. 2, n. 10, 2004, pp. 43-61, con un aggiornamento bibliografico. 30. H. LE BONNIEC, Le culte de Cérès à Rome. Des origines à la fin de la République, Klincksieck, Paris 1958.

2. Mundus patet. 2.1. Plutarco, Romolo, 11,2. Quindi fu scavato un fosso rotondo, del perimetro dell’attuale Comizio, e vi furono riposte le primizie di tutte le cose sancite dalla consuetudine come utili e dalla natura come necessarie alla vita umana. Poi ciascuno portò una manciata di terra del paese da cui proveniva, e la gettò tra le primizie, confondendole tutte assieme. Indi, presso il fosso, che designano col nome usato anche per l’universo, e cioè mundus, come centro di un cerchio, tracciarono in giro il perimetro della città. (Vite parallele, traduzione e cura di Carlo Carena, Einaudi, Torino 1958, v. I, p. 45).

Ovidio, Fasti, IV, 819-826. Si sceglie il giorno adatto per tracciare con l’aratro il solco delle mura: mancava poco alla festa di Pale e fu quello il giorno scelto per dare inizio all’impresa. Si scava una fossa fino ad arrivare alla roccia: sul fondo si gettano prodotti dei campi e terra portata dalle regioni vicine. La fossa viene riempita di terra, su di essa viene eretto un altare e si fanno scaturire le fiamme per inaugurare il nuovo focolare. Poi, facendo forza sull’aratro, Romolo traccia il solco su cui costruire le mura: il giogo è trascinato da un bue nero e da una giumenta bianca. (Fasti e frammenti, in Opere, a cura di Fabio Stok, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1999, v. IV, p. 337).

Festo, De verborum significatu, 144 L. Il mundus, come riporta Capito Ateio nel sesto libro del Diritto Pontificale, suole aprirsi tre volte all’anno, in questi giorni prestabiliti: il giorno dopo i Volcanalia, il terzo giorno prima delle none d’ottobre e il sesto giorno prima delle idi di novembre. Catone, nei suoi Commentari sul diritto civile, riporta ciò che viene cosí definito in questo modo: «Il nome mundus deriva da quel mondo (mundus) che è sopra di noi: la sua forma infatti, come

ho potuto apprendere da coloro che vi hanno avuto accesso, è simile alla forma di quello. Gli antenati ritennero che la sua parte inferiore dovesse essere chiusa per tutto il tempo, come se fosse stata consacrata agli dèi Mani, eccetto che in quei giorni che sono stati citati in precedenza. Considerarono inoltre questi giorni come permeati da uno scrupolo religioso per il fatto che, in quel periodo, le cose che erano occulte e segrete della religione degli dèi Mani, erano portate per cosí dire alla luce e apertamente palesate, e pertanto non volevano che nulla che riguardasse gli affari dello Stato venisse trattato in quel periodo. Dunque in quei giorni non si combatteva con il nemico, non si arruolava l’esercito, non si convocavano i comizi, non ci si occupava di nessuna cosa nella gestione dello Stato, che non fosse imposta dall’estrema necessità. (Testo stabilito da Wallace Martin Lindsay, Olms, Hidelsheim 1965) 1.

Macrobio, Saturnali, I, 16-18. Infatti non è lecito dar battaglia quando si proclama la solennità Laziale, cioè la ricorrenza delle feste latine […] e neppure quando è aperta la cavità infernale, rito consacrato al culto del padre Dite e di Proserpina; per cui sembrò meglio andare al combattimento mentre le fauci di Platone erano chiuse. Varrone a questo proposito scrive: «Quando la cavità è aperta, è aperta per cosí dire la porta delle divinità funeste e infernali». (Saturnali, a cura di Nino Marinone, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1977, 2 a ed. riveduta, pp. 233-35).\

2.2. Estratto dalla relazione di Gustavo Glaesser. Con ciò siamo giunti al breve sottocapitolo intitolato «Il Mundus Cereris», interamente basato sulle premesse esposte dall’autore e da noi brevemente riassunte 2. È senza dubbio il maggior pregio del suo libro di aver messo in rilievo, ampiamente documentandolo, l’aspetto ctonio-infernale, trascurato da quasi tutti i precedenti studiosi, di Cerere, divinità italica. A Cerere si offre la scrofa praesentanea e quella praecidanea, sacrificio riservato agli inferi, è Cerere, in certo qual modo divinità dei morti, che (insieme a Tellus) vigila sull’esatto compimento dei riti funerari, è Cerere, divinità del mundus, che è legata a questa bocca dell’inferno che mette il mondo dei vivi in comunicazione con i Manes. Quando gli spiriti dei morti sono irritati, essi escono da questa fossa sotto l’aspetto di larvae. L’autore non vede nessun motivo per attribuire all’influenza della Demetra greca questi tenebrosi poteri attribuiti a Cerere: secondo il suo parere si tratta di

«una antica superstizione popolare, inseparabile dalla credenza negli spettri». L’attribuzione di questa bocca dell’inferno a Cerere (Cereris qui mundus appellatur ecc., Festo, 126 L) è antichissima, secondo il Nostro, mentre secondo altri, essa sarebbe tarda e posticcia […]. Essa verrebbe confermata dalla nota iscrizione di Capua ove si legge il nome (mutilato) di una sacerdotessa di Cerere, qualificata da Mundalis, iscrizione definita litteris magnis et antiquioribus, quindi relativamente antica, anche dal Mommsen nel Corpus 3. In un altro suo brano, Festo (144 L) accozza vari ragguagli, forniti da diversi antiquari, in merito allo stesso mundus, designando peraltro gli stessi tre giorni (24 agosto, 5 ottobre, 8 novembre) come quelli in cui mundus patet. In questo secondo brano, però (basato, in parte, su un trattato di Ateius Capito, giurista dei tempi di Augusto) Cerere non viene nominata, ma questa omissione non autorizza, a credere al Nostro, di ritenere sospetta l’attribuzione del mundus a Cerere, espressamente sottolineata nel primo brano. Seguono le altre note citazioni, addotte da tutti gli autori che si sono occupati del mundus (cfr. i nostri riassunti). Non è il caso di entrare qui, un’ennesima volta, nei particolari tecnici e filologici, a scapito delle grandi linee storico-religiose. Comunque, nonostante la scarsità e, spesso, il carattere contraddittorio delle fonti antiche, l’autore crede di poterne trarre alcune conclusioni, per esempio sulla forma del mundus: esso era provvisto di una volta; la parte inferiore, nella quale, a quanto pare, non si poteva entrare, doveva consistere in una fossa scavata nel suolo, coperta di un coperchio che si alzava soltanto tre volte l’anno; i riti connessi col mundus erano intesi a stabilire un contatto diretto tra i Mani e i vivi; senza che Festo lo dica espressamente, è sottinteso che le anime dei morti potevano uscire dal mondo infero, servendosi del mundus, per spandersi nel mondo superiore: è ciò che viene suggerito dall’etimologia antica della parola manes, che gli antichi facevano derivare da manare (Festo, 115 L: Manalem lapidem putabant esse ostium Orci, per quod animae inferorum ad superos manerent, qui dicuntur manes). Comunque, l’unico rito connesso col mundus a noi conosciuto è quello dell’apertura della fossa: è evidentemente in questa occasione che si poteva penetrare nella parte superiore del mundus. È verosimile che in questa circostanza venisse offerto un sacrificio, come ritiene anche il Weinstock 4 […]. Se il mundus può essere interpretato come un luogo di culto dell’antica Cerere romana (è questa, appunto, la tesi dell’autore) la vaga indicazione di

Catone – qui intravere – non può significare altro che tale accesso era riservato al flamen Cerealis e ai suoi aiuti […]. Mancano però le relative precisazioni nelle fonti, dalle quali risulta peraltro, con tutta la chiarezza desiderabile, il carattere nettamente ctonio del culto (cfr. Macrobio, I, 16-18, passo citatissmo da tutti gli autori). L’espressione di tristes atque inferi usata da Varrone si applica bene ai di manes di Festo, ma nel suo senso generico essa può anche conglobare le altre divinità dell’inferno. La lista delle attività interdette in quei giorni concorda in due punti con quella fornita da Festo: proibizione di iniziare una battaglia e di reclutare le truppe. Varrone vi aggiunge che non si ha nemmeno il diritto di metterle in marcia, ma omette l’interdizione di tenere dei comizi. E mentre la lista di Festo si limita alle attività ufficiali, quella di Varrone proibisce anche di levare l’ancora e di sposarsi. Senonché l’espressione religiuosum est non lascia nessun dubbio che sia per Varrone che per Festo i tre giorni sono effettivamente religiosi. I due testi concordano quindi nelle cose essenziali, ma comunque le differenze sono tali che si può escludere che il testo varroniano sia stato la fonte diretta di Festo: forse questi aveva davanti a sé un testo perduto dovuto a un antiquario. Prima di addurre la predetta citazione di Varrone, Macrobio aveva dato un’indicazione interessante, peraltro senza indicarne la fonte: la legge religiosa divieta cioè di combattere durante le Ferie latine, durante i Saturnalia, allorché mundus patet: quod sacrum Diti patri et Proserpinae dicatum est, meliusque occlusa Plutonis fauce eundum ad proelium putaverunt. Esiste dunque una divergenza importante tra il primo testo di Festo, che fa di Cerere la dea del mundus, e quello di Macrobio che lo dice consacrato a Dis pater-Plutone e a Proserpina. A questo punto l’autore si pone la domanda: di quale mundus si tratta? A tale proposito, egli cita lo studio di Weinstock […] che distingue due gruppi nelle antiche testimonianze riguardanti il mundus: a) una tradizione rappresentata da Ovidio (Fast., IV, 821 sgg.) e Plutarco (Romulus, 11) che lo mette in rapporto con i riti della fondazione di Roma effettuata da Romolo; b) il resto dei testi che riguardano un altro mundus che non ha nulla in comune con il primo. Né l’uno né l’altro mundus possono essere identificati né con la Roma Quadrata né col cosiddetto mundus del Palatino […]. Le differenze sono fondamentali: il mundus connesso con la fondazione di Roma è riempito e non lo si può aprire; il mundus di Romolo sarebbe situato sul Comitium –

la localizzazione di quello di Cerere è sconosciuta, ma si può supporre che esso si trovasse nell’immediata vicinanza del tempio della dea, cioè presso il Grande Circo […]. Il famoso scolio di Berna (cfr. i nostri vari riassunti) fornisce in proposito un’interessante indicazione: Alii mundum in sacro Cereris et caelum pro mundo positum dicunt, nonché la precisazione che il mundus aveva un’apertura molto stretta, un po’ piú di 1 metro e 30 cm. D’altro canto, l’espressione in sacro Cereris conferma la testimonianza di Festo che attribuisce il mundus a Cerere. Weinstock (loc. cit.) ha voluto vedere nel sacrum «una piccola camera costruita in aggiunta alla fossa, evidentemente originaria»: il mundus apparterrebbe al tipo conosciuto di altari provvisti di «Grubenkammern», camere a fossa, ipotesi considerata dall’autore come prodotto dell’«immaginazione archeologica». Con Deubner (Mundus, in «Hermes», n. 68, p. 283, art. da noi riassunto 5), l’autore respinge l’interpretazione data dal Weinstock allo scolio in parola, pur ammettendo che da esso si possa trarre la conclusione che il mundus si fosse trovato nel «sacro recinto» di Cerere. Ma nell’insieme anche Le Bonniec si vede costretto a riconoscere che «les données sur le mundus sont trop fragmentaires et incertaines pour qu’on puisse aboutir à une solution indiscutable». Infatti, nessuna delle soluzioni proposte dai precedenti autori può essere considerata come pienamente soddisfacente. Trattasi delle interpretazioni già da noi riassunte per l’innanzi, e che quindi non è il caso di ripetere. Del resto, l’uno di questi autori è contrario all’altro, e pezzi d’appoggio per far pendere la bilancia a favore dell’uno o dell’altro non sussistono. Per quanto riguarda la tesi di Fowler 6, considerata «seducente» dal Piganiol (Recherches sur les jeux romains, 1923 7) e dal Turchi (La religione di Roma antica 8), ma rigettata dal Weinstock, nemmeno essa sembra accettabile al Nostro: infatti, nessun testo fa allusione alla supposta funzione agraria del mundus, e le testimonianze antiche lo descrivono come fossa estremamente stretta e nient’affatto come Kornkammer; inoltre, i giorni d’apertura sono religiosi, fatto che esclude ogni attività agricola, ecc. Comunque, l’autore riconosce al Fowler il merito di aver almeno tentato di spiegare la scelta di quelle tre date, ma il punto debole della sua argomentazione sarebbe l’opposizione da lui statuita tra la data della seminatura del far e quella del triticum […]. Soprattutto, la teoria fowleriana presupporrebbe che il terzo giorno di apertura del mundus, l’8 novembre, non fosse originario ma appiccicato e supplementare: infatti questa data non

poteva essere adottata che almeno tre secoli dopo le prime due, in quanto – a credere Verrio e Plinio – durante questo lungo periodo l’antico Lazio non si è nutrito che di far (ricordiamo che la seminatura del triticum doveva avvenire, per esempio secondo Virgilio e Columella, ai primi di novembre). D’altro canto, l’autore non esclude, al pari di Rose (loc. cit.) 9, che il mundus, pur non essendo necessariamente un vero ricettacolo per il grano da semenza, come lo vuole il Fowler, poteva essere destinato a determinati riti agrari, poteva contenere per esempio piccole quantità di grano non tanto come primizie bensí per essere benedette dalle potenze del mondo infero, portando cosí fortuna – secondo il principio del pars pro toto, universalmente valido nel regno della magia agraria – all’intero patrimonio cereale della comunità (Rose). L’autore è d’accordo col Rose anche su altri motivi che ci portano ad attribuire a questo rituale un significato agrario: il primo giorno d’apertura si trova alla vigilia della festa Opiconsivia del 25 agosto, il secondo all’indomani dell’ieiunium Cereris del 4 ottobre. Per la data del 24 agosto, la spiegazione proposta dal Fowler sembra accettabile all’autore, sia pure con la modifica suggerita dal Rose. Quanto al ieiunium Cereris, esso è un’istituzione tardiva appartenente al culto ellenizzato, come l’autore dimostra in altra parte della sua opera: il rito greco si sarebbe innestato sull’antico rituale dell’apertura del mundus. Tra le due feste vi sarebbe uno stretto legame: il giorno di digiuno del 4 ottobre avrebbe il significato di una purificazione normale alla vigilia di una festa religiosa, appunto quella del 5 ottobre. È naturale che giornate riservate a un rituale talmente importante fossero considerate religiose, in cui qualsiasi lavoro agricolo era escluso. […] Sempre riguardo all’interpretazione agraria del mundus, l’autore cita, criticamente, le teorie ed etimologie formulate da M. H. Wagenvoort (Initia Cereris, in Medelingen van de koninklijke Vlaamse Aacademie van België, Kl. d. Letteren, X, 4, 1948, tradotto anche in inglese nella sua raccolta Studies in Roman Literature. Culture and Religion, Leida 1956, autore che – sviluppando una etimologia proposta dal Kretschmer, secondo la quale mundus significherebbe «bocca» – ritiene che mundus Cereris doveva avere, in principio, un altro significato: quello cioè di «bocca della crescenza», dato che per questo etimologo cereris (con la minuscola!) non sarebbe altro che il genitivo di un ipotetico neutro cerus, cereris che avrebbe avuto il significato di crescenza, crescimento, cioè di «mana del suolo», di numen, oggetto di riti

magici [Wagenvoort è uno dei piú eminenti rappresentanti della interpretazione dei fatti religiosi romani in chiave «melanesiana», come gli rimproverano i suoi critici (G. Dumézil, ecc.), cioè partendo dalla nozione del numen-mana]. Lo scolio bernese conserverebbe quindi il ricordo di un rito magico avente per scopo il controllo e l’eccitamento della crescenza del suolo. Anche la parte avuta dai fanciulli nella magia antica e nelle cerimonie religiose è ben nota, e quindi la discesa di un puer nel mundus non avrebbe nulla di straordinario. Non sarebbe sorprendente nemmeno il fatto che tale magia venisse praticata proprio alla vigilia della seminatura. Ma la credenza negli spettri che escono dal mundus pur essendo antica sarebbe secondaria, perché in origine mundus cereris (sempre con la minuscola!) avrebbe avuto il significato di «the opening of growing power», l’apertura della forza di crescita, «the pito of the soil-mana», la fossa del mana del suolo, ecc. (dalla trad. inglese della predetta opera del Wagenvoort). Il Nostro non si mostra convinto né dell’esattezza dell’etimologia in parola né dalle conclusioni che il professore dell’Università di Leida ne deduce. Rimane innanzitutto problematica l’etimologia indoeuropea del Kretschmer, visto che i piú autorevoli linguisti considerano la parola mundus di origine non-indoeuropea […]. Oltre all’autorevole dizionario etimologico di Walde-Hofmann, anche quello di Ernout-Meillet 10, non meno importante, dichiara: «È ben possibile che il mundus infernale non abbia nulla in comune col mundus celeste e sia di origine etrusca» (cfr. anche A. Ernout, Philologica, p. 39 11). Inoltre la presupposta esistenza del neutro cerus, cereris è puramente ipotetica, mentre il «mana del suolo» forse non è altro che un’invenzione moderna, «primitivistica». D’altro canto, come giustamente osserva l’autore, non si comprende come, almeno alla data del 24 agosto, un rito agrario possa «stimolare o controllare la crescenza», visto che in quel momento dell’anno la raccolta è già finita mentre la seminatura non ha inizio che un mese piú tardi. Concludendo, tra le varie interpretazioni «agrarie» la piú accettabile sembra quella del Fowler, sia pure con le modifiche proposte da H. J. Rose. Per le date del 5 ottobre e dell’8 novembre, essa si accorda assai bene con le indicazioni del predetto scoliaste, ecc. Comunque – ricorda l’autore – non si dovrebbe mai perdere d’occhio il fatto che le piú attendibili e le piú antiche testimonianze descrivono il mundus come fossa infernale consacrata al culto dei Mani. È dunque soprattutto il carattere ctonio di Cerere che si manifesta

in questi riti. La dea riceveva in espiazione il sacrificio di una scrofa praecidanea, offerta dall’erede che non aveva compiuto il rito dell’inumazione: essa proteggeva dunque, accanto a Tellus, il ius manium, tanto che ogni trasgressione di questo era una offesa di Cerere. Non vi è dunque da meravigliarsi se il mundus, consacrato ai Mani, fosse designato correntemente come mundus di Cerere. L’accertata arcaicità dei sacrifizi della scrofa praesentanea e di quella praecidanea, sacrifizi che mettono la dea in rapporto diretto con i morti, induce a considerare ugualmente antico il patronato esercitato da Cerere sul mundus. […] È su questo rituale ctonio, aspetto originario del mundus che in seguito si è innestato il culto ellenizzato delle divinità infernali, Dis PaterPlutone e Proserpina-Persefone, divinità del mundus, come li chiama Macrobio. Ma questa attribuzione non può che essere tardiva, come anche il Wissowa riconosce (RuKdR, p. 194) 12. In questo nuovo ciclo, Cerere sembra spossessata a sua volta da quella coppia infernale, effetto di quella ellenizzazione accelerata del culto romano che si compie dopo i ludi Tarentini del 249 a.C. che segnano l’adozione ufficiale di Plutone e Proserpina nel pantheon romano. Considerando Proserpina come divinità del mundus, si immaginava un legame tra il mito del suo ratto e quella fossa sotterranea, connessione familiare agli scoliasti di Virgilio. Ma si tratta di combinazioni senza alcun valore storico-religioso. Come risulta dall’intera impostazione del suo lavoro, l’autore riconnette i riti del mundus al piú antico culto, a noi accessibile, della Cerere «indigena», in opposizione a Wissowa, Altheim 13, ecc. L’autore ammette senz’altro un carattere ambivalente di questo rituale già nella sua forma originaria: agrario e ctonico allo stesso tempo, cosicché l’interpretazione agraria del Fowler conserva la sua relativa consistenza, sebbene illumini soltanto l’uno dei due aspetti del mundus. Tale interpretazione agraria non è affatto incompatibile con quella che tiene conto anche del lato ctonico intimamente connesso col mundus, del culto dei Mani, ecc. È un fatto noto alla intera fenomenologia religiosa, anche quella lontana dalla romanità, che le divinità del suolo e della terra possono essere allo stesso tempo infernali e agrarie (Consus, per esempio, sembra essere stato contemporaneamente dio infernale e dio delle raccolte immagazzinate). Il culto di Cerere, connesso col mundus, vi presentava, probabilmente, lo stesso doppio carattere e la stessa ambivalenza.

3. Eterno ritorno e simbolismo mitico-rituale. 3.1. La fine dell’ordine mondano esistente può essere considerata in due sensi distinti, e cioè come tema culturale storicamente determinato, e come rischio antropologico permanente. Come tema culturale storicamente determinato essa appare nel quadro di determinate configurazioni mitiche che vi fanno esplicito riferimento: per esempio il tema delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo nel quadro del mito dell’eterno ritorno o il tema di una catastrofe terminale della storia nel quadro del suo corso unilineare e irreversibile. Come rischio antropologico permanente il finire è semplicemente il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, il perdere la possibilità di farsi presente operativamente al mondo, il restringersi – sino all’annientarsi – di qualsiasi orizzonte di operabilità mondana, la catastrofe di qualsiasi progettazione comunitaria secondo valori. La cultura umana in generale è l’esorcismo solenne contro questo rischio radicale, quale che sia – per cosí dire – la tecnica esorcistica adottata; e se il tema culturale della fine di un certo ordine mondano esistente costituisce una delle modalità storiche di ripresa e di riscatto rispetto a questo rischio anche lí dove questo tema è assente, o irrilevante, il rischio corrispondente è sempre presente e la cultura si costituisce appunto nel fronteggiarlo e nel controllarlo, quale che sia la modalità con cui la drammatica vicenda si riflette nella consapevolezza culturale storicamente determinata. 3.2. Irreversibilità, crisi, ripetizione mitico-rituale delle origini. La coscienza ciclica del tempo, quale si esprime religiosamente nella ripetizione rituale di un mito delle origini e di fondazione e cosmologicamente nella teoria dell’eterno ritorno va interpretata, nella sua stagione storico-culturale piú feconda, come un sistema protettivo per mediare la storicità del divenire umano difendendolo dal rischio, sempre presente come tentazione, di annientarlo nella grande pigrizia della ripetizione dell’identico e della pura ciclicità del tornare-a. Il simbolo miticorituale della ripetizione di un mito delle origini segna una sorta di imitatio naturae: si riprende il tornare-a, lo si riplasma culturalmente, e lo si risolve in un orizzonte che ridischiude l’esserci-nel-mondo. Il divenire umano che si estolle sulla pigrizia di quello subumano continua a essere travagliato da questa stessa pigrizia: la irreversibilità del tempo degli uomini rischia di farsi reversibile. La reversibilità ripresa e mutata di segno, ecco il simbolo mitico-

rituale della ripetizione del mito delle origini. Il dover esserci nel mondo culturale, il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile: in questa tensione vive l’ethos primordiale della presentificazione. La reversibilità del tempo come rischio di annientamento è ripresa e mutata di segno, cioè avviata di nuovo verso la irreversibilità del divenire storico-culturale aperto al dover essere valorizzante: questo è il significato della ripetizione rituale di un mito delle origini. La tradizione giudaicocristiana lascia entrare nella stessa coscienza mitico-rituale la coscienza storica del divenire irreversibile: l’accento si sposta dalla esemplarità delle origini alla esemplarità del centro del divenire, dal divino al divino incarnato (il Cristo), dalla ripetizione delle origini alla ripetizione del centro (la morte e la risurrezione di Cristo), dalla ciclicità delle catastrofi all’attesa di un termine a direzione unica (il Regno). Alla ripetizione delle origini divine della storia segue ora la ripetizione del centro divino-umano della storia col problema della salvezza individuale nel termine unico annunziato 14. Il grande problema della nostra età è quello di una salvezza dell’individuo nella società umana, nella socializzazione dell’individuo che non sia massificazione, burocratizzazione, automatizzazione, tecnicismo, statolatria, divinizzazione del capo, ecc. 3.3. Tempo ciclico. Il tempo ciclico, implicito nella iterazione liturgica di uno stesso mito di origine e di fondazione, ed esplicitato come teoria nelle metafisiche dell’eterno ritorno, è un tempo culturale nel quale viene ripreso e ridischiuso al tempo della irreversibilità valorizzante il rischio di «ritorno indietro» della crisi, con le sue caratteristiche destrutturazioni nevrotiche e psicotiche. Nel tempo ciclico di questi simbolismi mitico-rituali si imita il tempo ritornante della crisi, ma per redimerlo in tempo del trascendimento valorizzante e della presentificazione: e la redenzione ha luogo offrendo un orizzonte istituzionale nel quale ciò che rischia di tornare nella estraneità di un sintomo cifrato – cioè una situazione-limite in cui l’esserci rischia di non esserci – è cercato e fatto tornare per essere ripreso nel processo di valorizzazione e per essere cosí reintegrato nel tempo storico e culturale della decisione. Ma il tempo ciclico dei miti di origine e di fondazione non è soltanto un orizzonte di ripresa e di reintegrazione del cattivo passato che torna in modo irrelato, cifrato, irriconoscibile: esso è anche un tempo protettivo della storicità del

divenire, in quanto risolve i momenti critici dell’esistenza in soluzioni esemplari già avvenute in illo tempore, per opera di numi: onde il ripresentarsi storico di quei momenti è destorificato 15, cioè occultato nella sua storicità e nella responsabilità integralmente umana che la storicità comporta. In tal modo la decisione umana di quei momenti si svolge per entro la protezione della già avvenuta decisione sul piano mitico, il che equivale a dire che attraverso la pia fraus dello stare nella storia come se non ci si stesse viene ridischiuso lo starci effettivo della operosità profana, garantito nei suoi risultati e nelle sue prospettive dal già deciso in illo tempore. Il tempo ciclico è tempo della prevedibilità e della sicurezza: il suo modello è offerto dal ciclo astronomico e stagionale. Ma nell’ambito della storia umana questa tendenza della natura diventa un rischio, perché la storia umana è proprio ciò che non deve ripetersi e non deve tornare, essendo questo ripetersi e questo tornare la catastrofe della irreversibilità valorizzatrice. Il tempo della prevedibilità e della sicurezza è per la storia il tempo della pigrizia, il rischio della naturalizzazione della cultura. 3.4. La catastrofe del mondo e dello stesso esserci-nel-mondo, il cui rischio è tanto piú imponente quanto piú ristretto e precario è l’ambito del mondo utilizzabile e degli strumenti tecnici e mentali di utilizzazione (cioè, in ultima istanza, quanto piú è possibile esperire i limiti del cosmificato e del cosmificabile per entro un certo progetto comunitario della vita economica) trova nel simbolismo mitico-rituale il suo orizzonte di ripresa verso la valorizzazione sia economica che di altra qualità: il tutt’altro del mondo, il caotico passare degli ambiti percettivi gli uni negli altri, la inconsistenza di ciascuno di questi ambiti, l’annientarsi delle distanze, l’irrompere del cattivo passato in sintomi cifrati, il deflusso dell’io nel mondo, la pluralità delle esistenze psicologiche simultanee o successive, la inoperabilità del divenire e il rifiuto della scelta, ecc. tutto ciò trova nel simbolismo mitico-rituale il suo orizzonte di ripresa e di reintegrazione. Al rischio del tutt’altro corrisponde la configurazione numinosa e il rapporto di riappropriazione rituale, alla catastrofe del mondo l’ordine delle metamorfosi mitiche, al tornare del cattivo passato il liturgico far tornare a certe «origini», ecc. 3.5. L’orizzonte dell’eterno ritorno. Cfr. Pavese, Diario 16. La natura tende all’eterno ritorno perché è pigra, perché il tornare

dell’identico è il modo piú economico di divenire, perché è incolta. Ma con l’umanità e con la cultura, cioè col distacco dalla natura come problema, la tendenza all’eterno ritorno è diventato un rischio, il rischio che minaccia la libertà. La cultura è infatti drammatico distacco dalla pigrizia della natura, immissione in essa di una forza in cui la pura e immediata ripetizione sta ormai come l’insidia estrema: la coazione a ripetere che nella natura sta senza dramma prende il nome di regolarità (la regolarità del cielo stellato) nell’uomo sta come malattia psichica, come disarticolazione e crollo della presenza e del mondo, come istinto di morte. La cultura ha introdotto nella natura quella forza che si chiama ethos primordiale della presenza, in quanto volontà di storia umana che si oppone alla tentazione dell’eterno ritorno. Tuttavia in questa lotta che contro l’eterno ritorno è stata ingaggiata dalla cultura, l’eterno ritorno è stato riplasmato e piegato ai fini umani almeno in due sensi. Innanzitutto come simbolismo mitico-rituale, cioè come imitatio naturae. Attraverso la destorificazione religiosa ha potuto svolgersi la storia in una sorta di regime protetto, fondato appunto sul «come se» della ripetizione rituale di uno stesso mito delle origini: la cultura veniva fondata esemplarmente nell’epoca mitica, e in quest’epoca poteva continuamente essere riassorbita la proliferazione storica del divenire, mascherando la storia nella ripetizione dell’identico: ma intanto, dietro la maschera della destorificazione della storia, e proprio in virtú di cosí gigantesca ipocrisia istituzionale, poteva muovere i suoi passi nel mondo l’infante-uomo e mantenersi e crescere quell’operare che, in quanto umano e storico, non poteva essere un ripetere, ma un decidere. Si stava nella storia «come se non ci si stesse»: ma poiché questa pia fraus serviva per starci, la imitatio naturae non riproduceva l’eterno ritorno naturale ma lo riplasmava in una dinamica che liberava la coscienza della situazione umana e dischiudeva l’esserci-nelmondo. In un secondo modo è stato incorporato nella cultura l’eterno ritorno naturale, cioè con la scienza che lo controlla e lo piega ai fini umani: ma perché l’eterno ritorno naturale diventasse oggetto di esperimento e fosse riplasmato in legge operativa, occorreva che il rischio umano di essere travolto dalla pigrizia del tornare non costituisse piú il problema culturale centrale. A.

Il simbolo mitico-rituale è la coscienza della cultura come eterno

ritorno dell’identico, secondo il modello naturale. Riduzione della cultura alla natura. B. La scienza è riduzione della natura a cultura. La riduzione della storia umana all’eterno ritorno naturale ha luogo nella metastoria e d’altra parte la metastoria del mito ridischiude la storia umana, la Einmaligkeit della decisione storica. La dialettica della «coscienza religiosa». «Gli uomini fanno la lor propria storia, ma non sanno che la fanno». Questa è certamente la prospettiva per eccellenza in cui si muove la coscienza religiosa. Ma lo storico non può limitarsi a segnalare di volta in volta questa coscienza ignara, offrendo una galleria di «riflessi» in cui di volta in volta è indicato che cosa propriamente si riflette. Importante è un altro punto, e cioè determinare le ragioni storiche di quel sapere, la razionalità di quella incoerenza, la funzione esistenziale positiva di tanta apparente storditezza o smemoratezza, e in ultima istanza la carica protettiva e la forza mediatrice di «stare nella storia come se non ci stesse». La religione, il simbolismo miticorituale, è stata – e in parte ancora è – un istituto culturale che ha dischiuso l’esserci-nel-mondo per umanità minacciate dal rischio di non esserci: e d’altra parte il problema di difendersi da questo rischio non è certo escluso anche per umanità che si sforzano di assumere coscienza della integrale genesi umana di tutta la storia umana: solo che proprio questa coscienza impedisce ormai di ricorrere all’istituto culturale religioso (al simbolismo mitico-rituale) per operare una reintegrazione in buona fede. La natura tende all’eterno ritorno perché è il modo piú economico di divenire, perché è «pigra», perché lo Spirito non si è ancora distaccato da essa. Con lo Spirito, cioè con la umanità e con la cultura, la tendenza all’eterno ritorno diventa un rischio contro cui la umanità e la cultura sono chiamate a combattere. Lo Spirito è distacco dalla pigrizia della natura, immissione in essa di una forza in cui la pura e immediata ripetizione sta ormai come minaccia: di una forza che si chiama ethos primordiale della presenza, e che genera la storia umana in quanto lotta contro l’eterno ritorno. Tuttavia in tale lotta la cultura ha incorporato l’eterno ritorno riplasmandolo in prodotto culturale: è il simbolismo mitico-rituale, la imitatio naturae come protezione dall’eterno ritorno naturale – cioè dal rischio di non esserci nel mondo umano e di perdere la presenza per l’angoscia della libertà 17. Però la

imitatio naturae del simbolismo mitico-rituale è stata piegata a mediare la presa di coscienza dei valori umani e mondani; attraverso lo stare nella storia «come se non ci stesse», la storia ha cominciato ad apparire alla coscienza perché lo stesso «come se» del non starci era una decisione storica, viveva nella storia. Infine nella stessa coscienza mitico-rituale la storia ha cominciato ad apparire, il che è avvenuto in modo eminente nel simbolo cristiano. Ma con ciò ha avuto inizio l’agonia della religione, e si è venuto ponendo il problema, cosí vivo oggi, di un simbolismo che non utilizzi piú la metastoria del mito, e che si accordi con il riconoscimento che «gli uomini fanno la loro storia e ne portano intera la responsabilità». 3.6. L’identità è la nostalgia dell’identico, il tornare nell’indistinto delle origini, il resistere alla proliferazione del divenire storico, l’istinto di morte, lo scomparire nella situazione in luogo di trascenderla, l’annientarsi dell’esserci nel mondo. È il peccato originale che vulnera ed al tempo stesso dà senso all’ethos primordiale del farsi presente. Oppure, quando la nostalgia dell’identico si rende conto del vuoto che avanza, l’identità assume la forma dell’essere che si ripete, della nostalgia del divenire ciclico, a imitazione dell’ordine astronomico, della vicenda stagionale, della legge naturale. L’ordine simbolico assume questo rischio e mediatamente ridischiude l’impegno dell’esserci a trascendere le situazioni secondo valori culturali che l’uomo genera e che all’uomo sono destinati. L’ordine simbolico include, in un quadro intuitivo e altamente emozionale, origine e prospettiva: l’ordine simbolico mitico-rituale rammemora periodicamente una origine assoluta della storia e un suo assoluto compimento, l’ordine simbolico politico ricorda l’origine e la prospettiva di un’epoca cui si partecipa. 3.7. Per quanto uno psicanalista possa considerare come superficiale e sommaria la omologia istituita fra la iterazione rituale del mito nella vita religiosa e l’abreazione come momento fondamentale della terapia psicoanalitica, e per quanto l’etnologo e lo storico delle religioni, non meno dello psicologo, desidererebbero qui analisi particolari minuziose che mettessero l’accento sulle differenze oltre che sulle somiglianze, non c’è dubbio che il problema del rapporto fra nesso mitico-rituale e tecnica psicoanalitica costituisce uno dei temi piú fecondi del piú recente movimento di rinnovamento nel dominio delle scienze religiose. Del resto già possiamo giovarci delle prime analisi differenziali del genere, realizzate sul terreno che per la quantità e la qualità del materiale etnologico a disposizione si presenta

in certo senso come elettivo. Giocare, nel senso dei giochi infantili (giocare alla mamma e al bambino, alla cucina, al treno, ai ladri, agli indiani, ecc.) significa istituire col reale che ancora non si possiede un rapporto «destorificato», in virtú del quale si possiedono e si controllano tutti gli elementi, per quanto su un piano metastorico. Tale rapporto anticipa l’epoca in cui tutte le cose ora giocate diventeranno meno plastici eventi storici, non interamente dipendenti dalla propria signoria, e dotati di tutta la serietà e l’impegno e l’incertezza della dura realtà. (Il bambino reale che la madre un giorno avrà non è cosí pianificabile secondo il desiderio come lo è la bambola, o il compagno che sta al gioco, ecc. ecc.). L’urto con la realtà che si rivela viene attenuato nella sua asprezza trasportandosi in una realtà addomesticata, sognante, simbolica e soprattutto manovrabile secondo regole già note, messe in opera dal giocante via via che svolge il proprio gioco. Ciò però che nel gioco non ha rilievo è il mito, l’immagine di tempi primordiali fondatori operati da numi e ripetuti cerimonialmente: questo aspetto resta senza espressione nella levità del gioco, che è un semplice immediato abbandonarsi a un sognante rapporto demiurgico col reale. Gli animali giocano per anticipare il mondo della preda da cacciare, ma con oggetti molto piú docili e prevedibili che non la preda reale. 3.8. Il «passo indietro» dell’uomo antico. «Prima di agire l’uomo antico avrebbe fatto sempre un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortale. Egli avrebbe cercato nel passato un modello in cui immergersi come in una campana di palombaro, per affrontare cosí, in pari tempo protetto e trasfigurato, il problema del presente. La sua vita ritrovava in tal modo la propria espressione e il proprio senso. La mitologia del suo popolo non era soltanto per lui convincente, aveva cioè un senso, ma era anche chiarificatrice, vale a dire dava senso» (C. G. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino 1948, p. 18 18). Dal punto di vista dell’analisi ierogenetica questo «passo indietro» costituisce il problema centrale. Perché il «passo indietro»? Quale era propriamente la ragione che da esso procedeva un senso di sicurezza e di protezione? D’altra parte, poiché ogni uomo agisce tenendo presente modelli ispirandosi a certe tradizioni, quale è la peculiarità del modello o della tradizione mitiche? Ora il «passo indietro» mitico è una tecnica di

destorificazione, per cui l’iniziativa storica del qui e dell’ora (con la sua concreta responsabilità) veniva occultata o mascherata, e in tal modo dischiusa, come se fosse la ripetizione di una iniziativa primordiale: sul piano del rito tornava sempre lo stesso mito nel cui risultato esemplare era riassorbita la proliferazione storica del divenire. Il senso del mito è nella sicurezza che derivava dal suo tecnicismo, e cosí pure il senso delle cose che dal mito procede. Stare nella storia come se non ci si stesse, ecco che cosa esprime il passo indietro della iterazione rituale del mito. D’altra parte se il mito attenua, occulta, riduce, maschera la storicità del divenire (e quindi protegge dal tempo che avanza) esso costituisce un orizzonte di configurazione, di fermata e di ripresa rispetto al ritorno irrelativo del passato, dalla ripetizione come aspetto fondamentale della crisi della presenza. Il mito dunque assolve una duplice funzione protettiva: dalla proliferazione storica del divenire, dalla ripetizione del passato non oltrepassato, e che torna come estraneità psichica indominabile. Il mito è un modello di riassorbimento rispetto alla proliferazione storica del divenire, e un modello di ripresa rispetto al ritorno del passato non oltrepassato; attenua la storicità, la vela, e al tempo stesso riapre verso la storicità, reintegra le alienazioni operanti nell’inconscio. Di qui un duplice «mascheramento» simbolico del mito: per occultare la storicità, e come tecnica di recupero del passato non oltrepassato. Il mito è tecnica di occultamento della storicità da oltrepassare e tecnica di configurazione, di recupero di reintegrazione della storicità non oltrepassata. Il mito come esistenza protetta. 3.9. G. Van der Leeuw, Urzeit und Endzeit, in «Eranos Jahrbuch», XVII , 1949. […] pp. 50 sgg.: Tempo ciclico, tempo lineare; ma ai due occorre aggiungere il tempo etico, il tempo della presenza che sotto lo stimolo di problemi presenti ripercorre scegliendo la storia della civiltà occidentale, confronta questa storia con quella delle altre civiltà, e prospetta una proposta umana di unificazione del nostro pianeta per renderlo degno della conquista degli spazi cosmici, e della nuova storia, che ne risulterà: una proposta umana, come tutte le proposte culturali ancorché sono state consapute come divine, e che nella piena consapevolezza della sua origine e destinazione umana non può contare su nessun destino scritto nelle stelle, ma unicamente sull’uomo che vive in società.

Il mito è metastoria, orizzonte metastorico. È mito delle origini, che il rito ripete e rinnova, riassorbendo in esse la proliferazione storica del divenire mondano e ripresentando il mondo sempre di nuovo secondo la potenza esemplare della prima volta, quando il mondo ebbe inizio per la decisione inaugurale di numi: onde mantenere il mondo, sostenere la vita, significa ripetere ritualmente il suo mito di fondazione. Il mito è mito della fine annunziata come imminente o prossima o lontana, e comunque già prefigurabile e anticipabile in una esperienza rituale: una fine tuttavia che a sua volta è inizio o della ripetizione del ciclo o della liberazione dal mondano e dall’umano. Il mito infine è mito del centro, di un evento previlegiato che dà senso alla totalità della storia santa, sia nel senso del passato che dell’avvenire: onde quell’evento la storia entra nella prospettiva del finire, e nulla di decisivo può piú accadere, tranne la fine e la continua iterazione sacramentale dell’evento centrale che ha deciso una volta per sempre. Questo è il mito nella coscienza che ne hanno gli operatori mitico-rituali. Ma questa coscienza metastorica della storia sta tuttavia nella storia e cade sotto il giudizio storiografico che vi scopre il passaggio da un minimo a un massimo della consapevolezza della storia. Il minimo è certamente nel mito in quanto mito delle origini e continuo riassorbimento della proliferazione storica del divenire nell’exemplum della fondazione primordiale decisa da numi: qui l’umano decidere è consaputo come tale, per quel tanto che lo è, quasi interamente al di fuori della coscienza mitica, e in sostanziale subordinazione rispetto a essa: in generale al mito delle origini corrisponde la tendenza a «stare nella storia come se non ci si stesse», a patto di occultarla nella coscienza mitica che se ne ha. Le attività profane si svolgono d’altra parte non soltanto all’ombra di questa coscienza, ma ne sono protette e mediate e dischiuse. Già nel mito dell’eterno ritorno la storia fa la sua prima apparizione nella coscienza mitica, poiché il ritorno dei cicli è sí negazione della storia, ma il ciclo è serie temporale di eventi, età del mondo, e in ultima istanza divenire, per quanto mistificato. Nel mito del centro della storia si passa a un piú ampio riconoscimento della storicità nell’ambito della coscienza mitica: poiché vi appare un evento databile, incomparabilmente privilegiato, che ridistribuisce le fasi dal principio alla fine. Tuttavia quando nella stessa coscienza mitica appare la coscienza della storia è gettato il seme di una contraddizione insanabile che segna, col suo progresso, l’agonia della coscienza mitica e in genere del simbolismo religioso in quanto simbolismo

mitico-rituale 19. Noi siamo immersi oggi nel pieno di questa agonia, e stiamo davanti alla scelta fra metastoria e storia, fra occultamento e riconoscimento della umanità del divenire. La fine del mondo come lenta degenerazione a partire da un punto iniziale, l’aetas aurea. Molto piú caratteristica però è la concezione del tempo estremo come suo irrompere improvviso che pone fine a tutto, come spada che strappa la tessitura del tempo: tale concezione può diventare reale esperienza, il verificarsi della fine può essere atteso in un brevissimo lasso di tempo, come sappiamo dal Nuovo Testamento. Ancora nel II secolo un vescovo siriano con tutta la comunità dei fedeli, compresi i bambini, si avviò verso il deserto per «andare incontro al Signore» (H. Lietzmann, Geschichte der alten Kirche, II, Berlino 1936, p. 198 20, p. 33). Il tempo ciclico, reversibile, connesso alla iterazione rituale di una metastoria mitica, caratterizzato dal riassorbimento della proliferazione del divenire nel tempo primordiale e inaugurale, e dall’occultamento della storicità del divenire stesso; negazione del tempo vissuto. A esso si contrappone il tempo vissuto ricompreso nell’orizzonte di un inizio e di una fine assoluti: appare la irreversibilità, la processualità del tempo, ma non la infinità della storia umana. Il mondo è cominciato, finirà, la storia è storia santa, e d’altra parte si fa valere l’eterno ritorno per entro questo quadro, come eterno ritorno calendariale nell’anno liturgico (anno destorificato). Nel tempo ciclico manca, nel ciclo, un evento decisivo: ogni evento non decide nulla, ma ripete il già deciso nei primordi. Nel tempo escatologico in un determinato punto del corso temporale irrompe qualcuno che dice qualche cosa di definitivo, il giorno di Jahve, il giudizio universale, la salvazione finale, o l’ultima battaglia, come nell’Iran. Le immagini di cui ci si serve sono tutte sottratte al divenire naturale, giorno e notte, estate e inverno, ma l’ethos è però diventato altro, è stato operato un taglio, un tempus nel senso piú proprio, un taglio che rovescia tutto l’ordine esistente. Cosí il profeta Zaccaria può dire che la luce diventerà sera. Il tempo conclusivo comporta un rovesciamento del corso mondano (p. 34). [...] 3.10. Eliade Mircea, Mythes, rêves et mystères, Gallimard, Paris 1957. Non c’è motivo mitico o scenario iniziatico che non siano in un modo o nell’altro presenti anche nei sogni e nelle affabulazioni immaginarie. Negli

universi onirici dei sogni si ritrovano le immagini, le figure e gli eventi che formano le mitologie. Scoperta dovuta al genio di Freud... (p. 8). Tuttavia non è possibile spiegare i miti coi sogni, ridurre i miti a processi dell’inconscio (ibid.). Il mito «rivela» che qualche cosa si è «pienamente manifestata» e questa manifestazione è al tempo stesso creatrice ed esemplare. Tutti i miti partecipano in qualche modo al tipo del mito cosmogonico, narrano come in illo tempore il mondo è stato fondato o creato; e questa narrazione è un come che è anche un perché (p. 9). I miti rivelano storie «vere»; si riferiscono a «realtà». Ciò significa che i miti non possono essere ridotti alla vita onirica. Il sogno è particolare, privato, personale; non è vissuto dall’uomo totale, ma solo dalla coscienza onirica; manca di universalità e di esemplarità: è un simbolo chiuso, cifrato, e tale resta fin quando non se ne trovi la chiave. Il mito invece ha un valore che trascende l’individuo; è vissuto dall’uomo totale; è universale ed esemplare; è un simbolo aperto (pp. 10 sgg.). Le somiglianze sono tuttavia innegabili. Come il mito, il sogno abolisce il tempo e lo spazio (p. 11) (e molti meccanismi onirici richiamano quelli del mito; inoltre la parentela fra sogno e mito è segnalata dalla storia delle religioni, che conosce formazioni – come Alchera – che valgono insieme sogno ed epoca mitica, sogni-rivelazioni provocati – l’incubazione –, sogni interpretati sul piano della vita magico-religiosa, ecc.). Quanto all’aura religiosa di certi contenuti dell’incosciente. L’incosciente è il risultato di situazioni critiche immemoriali, il precipitato di innumerevoli situazioni limite; la religione è soluzione esemplare di ogni crisi esistenziale, è esperienza che fonda il mondo, che trae il cosmo dal caos (pp. 12 sgg.). Ora la trascendenza e la esemplarità della religione e del mito «forzano l’uomo religioso a uscire dalle situazioni personali, a oltrepassare la contingenza e il particolare, e ad accedere ai valori di ordine superiore, all’universale» (p. 13). L’esperienza religiosa è «crisi totale dell’esistenza e soluzione esemplare di tale crisi» (ibid.). La soluzione religiosa fonda un comportamento esemplare, e per conseguenza forza l’uomo a rivelare a se stesso il reale e, insieme, l’universale (p. 14). La visione religiosa del mondo e l’ideologia che ne deriva «hanno permesso all’uomo di far fruttificare la sua esperienza individuale, di “aprirla” verso l’universale» (ibid.). Esempio: L’albero del mondo è simbolo religioso collegato all’idea di rinnovamento periodico e infinito, di rigenerazione, di fonte di vita e di

giovinezza, d’immortalità e di realtà assoluta. Come ogni altro simbolo religioso esso non salva se non è sperimentato dall’uomo totale. «Emergendo dai suoi sogni, l’immagine dell’albero non ha “salvato” che in parte l’uomo dalla sua situazione individuale – permettendogli per esempio d’integrare una crisi del profondo rendendogli il suo equilibrio psichico piú o meno gravemente minacciato: ma non essendo stata assunta in quanto simbolo l’immagine dell’albero non è riuscita a rivelare l’universale, non ha quindi sospinto l’uomo sul piano dello spirito, il che la religione fa sempre, per rudimentale ch’essa sia» (p. 15). Eliade, Mythes […, op. cit.], pp. 37 sgg. (Le mythe du bon sauvage). L’aspirazione al paradiso, la nostalgia della condizione edenica, nel mito del selvaggio. Anche i selvaggi, del resto, avevano i loro miti del paradiso. Anche per i selvaggi la perfezione si ritrova alle origini (p. 43). Però esso «si ricordava periodicamente gli eventi essenziali che lo avevano messo nella condizione di uomo decaduto» (ibid.). Per il primitivo vi sono due specie di tempo, irriducibili l’una all’altra, il tempo degli eventi in illo tempore (miti cosmogonici, di origine), e da ripetere periodicamente, e quelli senza modello, che sono anche senza interesse e che sono «dimenticati» (p. 44). Esempi tratti dalla civiltà lunare di Jensen, pp. 44-46 21. Il regressus ad originem, reintegrazione nella plenitudine iniziale (p. 48). La recitazione del mito cosmogonico come mezzo terapeutico: il malato, mediante tale recitazione, torna indietro, è reso contemporaneo alla creazione: la memoria del malato non è chiamata quindi solo a conservare il ricordo delle origini, ma a proiettarsi ritualmente nel tempo mitico, quando il mondo fu formato cosí come è. Il ritorno indietro, la possibilità di disfare il tempo non appartiene solo al pensiero arcaico. La ricerca quindi si allarga. «L’importanza presa dal tempo e dalla storia nel pensiero contemporaneo, come anche le scoperte della psicologia del profondo, ci sembrano suscettibili di meglio chiarire certe posizioni spirituali della umanità arcaica» (p. 50). «Appena da cinquanta anni i problemi del tempo e della storia stanno al centro del pensiero filosofico occidentale. Proprio per questo noi comprendiamo meglio oggi che nella seconda metà del secolo XIX il comportamento dei primitivi o la struttura della filosofia indiana: in entrambi i casi la chiave è nelle loro particolari

concezioni della temporalità. Da tempo si sapeva che i primitivi, come gli indiani o gli altri popoli antichi dell’Asia anteriore, condividevano una concezione ciclica del tempo, ma ci si arrestava a questa constatazione; non si vedeva che il tempo ciclico si annulla periodicamente esso stesso, e che per conseguenza i portatori di una tale concezione del tempo manifestavano la loro volontà di resistere alla durata, il loro rifiuto di assumerla» (p. 50, nota). Per il Budda il karma è la potenza di proliferazione del divenire temporale, l’eterno ritorno all’esistenza e alla sofferenza. Il Budda annunzia il messaggio della liberazione dalla legge karmica, fine da conseguire mediante tecniche definite. Ora uno dei mezzi per bruciare i residui karmici è la tecnica del «ritorno indietro», al fine di conoscere le proprie esistenze anteriori. Tale tecnica, che è panindiana, si ritrova nello Yogasūtra (III, 18) 22 e si fonda sul «percorrere il tempo a ritroso» (pratiloma, a contro-pelo). Con tale regressus ad originem si arriva al momento in cui la prima esistenza, irrompendo nel mondo, scatenò l’onda del tempo: superata anche questa prima esistenza, ci si immerge nel senza tempo. «In altri termini, partendo da un momento qualsiasi della durata temporale, si può giungere a esaurire tale durata percorrendola a ritroso e sboccare infine nel non-tempo, nell’eternità» (p. 51), trascendendo in tal modo la condizione umana e recuperando lo stato non condizionato che ha preceduto la caduta nel tempo e la ruota delle esistenze. (La concezione della storiografia come elenco di esempi e la teoria platonica della conoscenza come anamnesi di un mondo di idee è di origine mitica: p. 53). Anche la psicanalisi come tecnica comporta un ritorno all’indietro. «Ma nell’orizzonte della spiritualità moderna, e in conformità della concezione giudaico-cristiana del tempo storico irreversibile, il primordiale non poteva essere che la prima infanzia, il solo e vero initium individuale. La psicanalisi dunque introduce il tempo storico e individuale nella terapia» (p. 55). Il malato psichico come colui che soffre in seguito a uno choc patito nella sua propria durata temporale, di un traumatismo personale sopravvenuto nell’illud tempus primordiale dell’infanzia. Traumatismo dimenticato o, piú esattamente, mai venuto alla coscienza. «La guarigione consiste appunto a “tornare indietro”, a invertire il cammino al fine di riattualizzare la crisi, a rivivere il traumatismo psichico e a reintegrarlo nella coscienza» (p. 56). In altri termini mentre il pensiero arcaico e quello indiano tornano alla

cosmogonia in virtú della loro concezione ciclica del tempo, la psicanalisi torna all’infanzia; in entrambi i casi, si ha un ritorno che guarisce (o che salva). Il paradiso psicanalitico è il periodo dallo stadio prenatale sino allo svezzamento, seguito da una rottura che è traumatica. Jung, a sua volta, scopre l’inconscio collettivo, luogo degli archetipi o strutture psichiche giammai state individuali e consapevoli (ibid.). Il comune a tutte le formule mitiche è che «l’essenziale ha avuto luogo prima di noi, e anche prima dei nostri genitori» e che noi ripetiamo il primordiale, siamo una eco continua delle origini. Per la psicanalisi l’essenziale della malattia è avvenuto nell’infanzia: la diversità è fondamentale. La psicanalisi riconosce che il sintomo è un simbolo chiuso di una crisi che torna, e opera tecnicamente per reinserire tale simbolo nella corrente della coscienza, teorizzando in tal modo esplicitamente la ripresa e la reintegrazione. La destorificazione mitico-rituale pone invece in primo piano il ritorno alle origini e lo stare nella storia come se non si stesse: la ripresa si effettua ma non è affatto teorizzata, anzi la condizione di funzionamento della tecnica mitico-rituale è che chi la opera ignori o dimentichi che si tratta di una tecnica di ripresa. 3.11. Mircea Eliade [in «Morfologia e funzione dei miti», Trattato di storia delle religioni 23, pp. 338 sgg.] ritiene «apparente» il paradosso «evento storico = ierofania» e «tempo storico = tempo mitico», e crede che a dissiparlo «basti ricollocarsi nelle condizioni particolari della mentalità primitiva» che tali equazioni ha concepito. Il primitivo si interessa alle azioni umane, le trova significative, «nella misura in cui ripetono gesti rivelati dalla divinità, dagli eroi incivilitori e dagli antenati». Ciò che non ha modello metastorico non ha importanza. Dove è da osservare che qui è eluso ogni tentativo di ricostruzione ierogenetica: capire le paradossie primitive significa semplicemente ricollocarsi nelle condizioni particolari della mentalità primitiva, ponendo accanto alla nostra concezione della storia la concezione della storia come sistema dei modelli metastorici che la storia ripete, e accanto alle serie irreversibili di eventi unici la serie reversibile di eventi che ripetono il modello metastorico. Il difetto è proprio in quell’accanto: perché il discorso comprensivo non è mai formato da discorsi che siano ammessi l’uno accanto all’altro in una sorta di indulgenza relativistica, e in un morfologico descrittivismo complicato da richiami all’immediato rivivere le parti che stanno accanto; la comprensione è in un discorso unitario, genetico, che dà

incremento a quel che noi siamo oggi, facendo risultare questo «nostro» oggi da quel che allora siamo stati. Solo nella chiarezza autobiografica riusciamo a comprendere l’altro. Dire che per il primitivo sono significativi solo gli eventi che hanno un modello metastorico (mitico), e che un evento è per il primitivo insignificante perché non ha precedente mitico (p. 339) è un enunciare che le cose stanno cosí perché stanno cosí, è un descrivere la coscienza mitica primitiva nella sua limitazione: ma il vero problema ierogenetico è di far risultare in modo necessario tale limitazione, comprendendone la funzione esistenziale, la qualità culturale. Per una comprensione del genere il punto di partenza è però quel tanto di coscienza umanistica che in ogni uomo non può mancare, per angusta che sia. La coscienza umanistica è il riconoscimento di una sfera di azioni che dipende dall’uomo, il sapere che se l’uomo non assume l’iniziativa, non elabora certe tecniche, non evita determinati ostacoli, non si ottengono i corrispondenti risultati. Nella pietra scheggiata, nelle trappole della caccia, nelle battute di caccia, nel trapianto, nella semina, nel raccolto, nel passaggio dal bastone da scavo alla zappa, o dalla zappa all’aratro è inclusa una innegabile coscienza umanistica, un ritrovarsi come persona che deve decidere su situazioni presenti, inventando tecniche e strumenti, ovvero impiegando bene le tecniche e gli strumenti della tradizione. […] Commenti. La funzione protettiva (e quindi tecnica) del nesso mitico-rituale è duplice: per un verso tale nesso protegge la presenza individuale dal ritorno irrelato delle situazioni non oltrepassate e dalla crisi attuale di alienazione; per un altro verso esso protegge la presenza dalla storicità della situazione umana. Il nesso mitico-rituale assolve a questa duplice funzione mercé la istituzione di un piano metastorico che operi come orizzonte di configurazione e di ripresa rispetto al ritorno irrelato del passato, e al tempo stesso come piano di destorificazione della proliferazione del divenire storico. Nel mito-rito come orizzonte di configurazione e di ripresa i simboli chiusi (cioè i sintomi) si riplasmano in simboli aperti (le immagini del mito), e il ritorno irrelato del passato si tramuta in un «far tornare» rituale […] La funzione protettiva del nesso mitico-rituale si esplica nella istituzione di un piano metastorico che configura, dà orizzonte e forma il ritorno irrelato del passato, e che – al tempo stesso – opera come piano di riassorbimento e di

occultamento della proliferazione storica e della storicità della condizione umana. Il simbolo mitico-rituale presenta pertanto un carattere ambivalente perché si prospetta come «l’indeciso che si decide» e al tempo stesso come «il decidibile che viene ricondotto al già deciso»: e il suo carattere è nella dinamica per cui l’indeciso è ripreso e riaperto alla decisione, e l’attualmente decidibile è risolto nella decisione esemplare dei primordi. […] L’alienazione della presenza è configurata nell’orizzonte mitico-rituale: ma ciò che in quest’orizzonte è formato come figura è la stessa presenza umana, ma non riconosciuta come umana. Nella vicenda mitica la presenza si pone come compito trascendente: ma tale compito, per trascendente che sia, invita al rapporto, a un cammino di riappropriazione, a un esito di riconoscimento e di ritrovamento di sé. Le vicende mitiche di numi narrano di numi, non di uomini: ma noi possiamo leggervi la storia di uomini che si perdono, si cercano, e drammaticamente in misura piú o meno angusta, si ritrovano (ritrovare il passo di Van der Leeuw) 24. […] 3.12. Simbolismo indiano del tempo. Mircea Eliade in Images et symboles 25, pp. 73 sgg., considera il simbolismo indiano del tempo come una «teoria» dell’eternità nata dall’angoscia della storia e dalla quale l’indiano ricaverebbe la conseguenza logica della rinuncia al mondo, e, al tempo stesso, una seconda via di salvezza, cioè «la rinunzia ai frutti dell’azione», il realizzare la propria vocazione nel mondo senza orgoglio e fatuità, il compiere il proprio dovere nel tempo storico e il conservare costantemente in ispirito le prospettive del grande tempo mediante la periodica recitazione dei miti fondatori di un certo ordine metafisico, etico e sociale. È da osservare che Mircea Eliade non ci dà che un’analisi molto generica dell’angoscia della storia, che è in realtà il rischio di perdere la presenza, con tutti i sintomi cifrati di tale perdersi. Inoltre è da osservare che le due vie, della rinuncia al mondo, e di stare nella storia come se non ci si stesse, stanno rispettivamente come pedagogia del trascendimento del valore, e della reintegrazione in esso, pedagogia che si svolge per entro l’orizzonte della trascendenza. La vita religiosa dà orizzonte metastorico alla crisi riprendendo il rischio di non esserci nella storia e mediando la reintegrazione nei valori culturali: è questo movimento reale che occorre ricostruire, pur nei suoi limiti e nelle sue contraddizioni drammatiche,

se non si vuol ripetere la esperienza religiosa in una sorta di sermone edificante. Valutando unicamente la pretesa di abbandonare il mondo, lo storico o il fenomenologo sono costretti o a riconoscere che tale pretesa è esposta allo scacco, o a non rendersi conto del fatto che la spiritualità indiana, malgrado tale pretesa, creò un mondo storico-culturale funzionante (e non l’annientamento della cultura), o, infine, ad ammettere l’una accanto all’altra «due» vie di salvezza, quella rigoristica del misticismo e quella di compromesso dello stare nella storia come se non ci si stesse. Ma quando si consideri il movimento che dalla crisi attraverso l’orizzonte mitico-rituale di destorizzazione, si ridischiude di fatto a una certa storia intessuta di certi valori (ancorché non consaputi attualmente come valori integralmente umani), crisi e slancio mistico, abbandono del mondo e vita culturale nel mondo, destorizzazione e integrazione nella storia, orizzonte trascendente e lettura che riprende in tale orizzonte i valori culturali, si compongono in una nuova coerenza, che illumina la genesi, la struttura, la funzione e il condizionamento della vita religiosa nel quadro di una civiltà o di un’epoca. Nel suo saggio sul simbolismo indiano del tempo e dell’eternità Mircea Eliade incorre nella fondamentale aporia metodologica di descrivere la pretesa metacronica della vita religiosa senza farci intendere la genesi, la funzione e il valore di tale pretesa. La evasione del tempo, cosí come è perseguita dallo yogin e come lo yogin la pratica e la esprime, viene ripetuta nella descrizione dello studioso, che vi apporta al piú maggiore ordine e coerenza, e ne rende cosciente alcune implicazioni. Come e perché nella vita culturale, nella storia delle civiltà umane, si sia costituita e mantenuta la pretesa di evadere l’ordine civile profano, e quale funzione e quale valore le spetti, forma problema per lo studioso, ma la soluzione ripete in fondo la esperienza religiosa: l’uomo aspira a evadere dalla storia, e nella esperienza religiosa si apre realmente al Grande Tempo. Ora proprio qui sta la difficoltà, e proprio qui comincia per la conoscenza storica il vero problema, che mette in forse la stessa possibilità di una storia della vita religiosa. Infatti se la pretesa di evasione dalla storia è reale nel senso che effettivamente consegue la evasione e mette in rapporto col metacronico e con il sopramondano, la storia della religione non può narrare di tale pretesa che gli aspetti relativamente secondari in cui essa inerisce alla irrealtà del mondo: la pretesa come tale sfugge al racconto storico, e al piú è possibile gareggiare con l’uomo religioso per descrivere ciò che ha vissuto. Storia della religione e

vita religiosa si confondono proprio nel momento decisivo, e un’apologetica piú o meno dissimulata svolge una azione di disturbo proprio quando piú si richiederebbe una opzione per la considerazione scientifica. I problemi genetici (ierogenetici) diventano cosí secondari, e sono trattati di contraggenio, e in ogni caso per quel tanto che occorre a lumeggiare ciò che piú interessa, e cioè il rapporto della vita religiosa con gli archetipi. 3.13. Il comportamento rituale itera il modello mitico, e per questo periodico riassorbimento del divenire sul piano esemplare della metastoria il comportamento rituale si definisce nel suo carattere. Tuttavia in quanto comportamento che ripete modelli metastorici, potrebbe apparire comportamento storico, dichiararsi come iniziativa meramente umana di ripetizione; ecco perché – per evitare ciò – il rituale è a sua volta miticamente fondato, ed è compreso nel novero degli exempla istituiti in illo tempore. Il rito non solo ripete per esempio la morte e la risurrezione di Cristo, ma la ripete in una forma, l’ultima cena, che fu fondata da Cristo stesso. In tal modo la -ritualità iterativa concerne sia l’ordine esistenziale fondato in illo tempore, sia le cerimonie che in illo tempore furono fondate per consentire agli uomini la iterazione dell’ordine mitico. Il movimento inaugurato dalla pubblicazione di Das Heilige di Rudolf Otto non nasce ovviamente dal nulla 26. Nel cinquantennio precedente al 1917 si possono ritrovare disseminati qua e là i temi preparatori, ed è possibile identificare già in atto determinati filoni culturali che dovranno poi confluire nel «movimento» in questione. Tuttavia solo con la pubblicazione di Das Heilige si inizia un periodo della storia culturale europea (o, se si vuole, euroamericana) nel quale si viene costituendo un piano di sviluppo di rapporto, di convergenza e di almeno potenziale unificazione di quanto prima o partecipava a tradizioni indipendenti o si trovava solo allo stato di accenno, di abbozzo. Questo piano è dato dal sacro, dal mito, dal rito, dal primitivo, dal magico, dalla lussureggiante varietà delle religioni dell’ecumene, viventi o scomparse che fossero. Proprio su questo piano i germi di «relativismo» culturale già presenti nell’opera di Dilthey 27 si muovono come su un terreno particolarmente adatto al loro fruttificare; l’interesse per il lato oscuro dell’uomo è qui che trova il suo ambiente in certo senso elettivo; e i fermenti irrazionalistici che nella filosofia e nella letteratura – come nelle arti figurative – avevano già da tempo dato copiose testimonianze di sé trovano ora un luogo di raccordo, di conferma, di incremento. In tutto ciò il progresso

della etnologia religiosa, e in generale, della storia delle religioni ha una parte preponderante: un Otto e un Hauer 28 sono infatti storici delle religioni, cosí come lo sono Kerényi o un Eliade. Ma anche quando a partecipare a questa Stimmung dell’epoca non sono etnologi e storici, ma sociologi come LévyBruhl, filosofi come Bergson o Jaspers, psicologi come Freud e Jung, o letterati, o artisti, o addirittura invasati nazionalsocialisti alla Rosenberg (Il mito del XX secolo) 29, le opere di storia delle religioni assolsero in un certo senso per tutti costoro la funzione del «libro galeotto» per Paolo e Francesca: furono cioè rivelazione e stimolo di qualche cosa che già si portava nel cuore. 3.14. Che cosa è il mito? Questa domanda, nata nell’interno della civiltà occidentale dapprima, al tempo di Platone e dei sofisti, come polemica della ragione filosofica, contro l’irrazionalità della mitopoiesi, e successivamente, con l’avvento della civiltà cristiana, come polemica della fede contro gli dèi falsi e bugiardi, questa domanda ha acquistato particolare rilievo nell’attuale congiuntura culturale, con ogni probabilità in rapporto alle scelte decisive in cui la nostra epoca appare impegnata. In questo rinnovato interesse a cui hanno partecipato, in varia prospettiva, oltre che storici delle religioni ed etnologi e antropologi, anche filosofi, storici e critici della letteratura contemporanea, e persino ideologi della politica come Sorel (di cui non è certamente spenta la eco sollevata dal «mito dello sciopero generale»), è accaduto che la parola «mito» sia venuta a coprire i piú diversi contenuti mentali di guisa che oggi regna in questa sfera la piú grande confusione e il piú grande pericolo di equivoci. La situazione non è priva di imbarazzo per lo storico delle religioni e per l’etnologo, per il folklorista, per l’antropologo culturale, cioè per coloro che sono chiamati sempre di nuovo ad impiegare nel corso dei loro studi questa categoria mentale e che debbono pur possedere certi criteri sia per circoscrivere i prodotti mitici nella massa dei fatti culturali, sia per individuare di questo o quel mito la genesi, la struttura, la dinamica, la varia fortuna e la funzione, sia infine per tornare a modellare la stessa categoria mentale di «mito» in base ai risultati della propria ricerca filologica o etnografica o archeologica. La domanda «che cosa è il mito» sarà quindi affrontata in rapporto soprattutto al lavoro dello storico delle religioni chiamato a riconoscere miti concreti e quindi ad affrontare «problemi di metodo» per riconoscerli, ad effettuare continue verifiche delle opinioni

correnti o delle «teorie» relative al mito. Il simbolismo mitico-rituale a.

b.

c. d.

e.

come piano di arresto e di configurazione socializzato (comunitario) rispetto ai rischi di possibili alienazioni radicali delle esistenze individuali (cioè come piano di ricerca attiva e di ripresa dei rischi inerenti al crollo della presentificazione valorizzante della vita e come piano di difesa dai rischi di recessione verso la inoperabilità totale del mondo); come piano di attenuazione e di mascheramento della totale responsabilità umana nella decisione operativa attuale (riassorbimento di tale decidere nella iterazione rituale dell’identico modello mitico di fondazione dell’ordine operativo comunitario); come piano di attiva ripresa rispetto al rischio del ritorno irrelato del passato critico, che non fu realmente oltrepassato; come piano di prefigurazione della imprevedibilità critica del futuro e quindi come attenuazione e mascheramento della storicità del possibile futuro accadere; come piano di allontanamento e spostamento del termine, in modo da dare orizzonte alla testimonianza operativa mondana.

3.15. «In origine», o piuttosto «al vertice», significa «in principio», cosí come, nelle fiabe «c’era una volta» non significa «una volta sola», ma «una volta per tutte». Il mito non è una invenzione poetica, nel senso che si dà oggi a questa parola. Al contrario, per il fatto stesso della sua universalità, il mito può essere esposto, e con uguale autenticità, secondo numerosi punti di vista diversi (Coomaraswamy, Hindouisme et bouddhisme, trad. franc., Gallimard 30, p. 19). Una volta per tutte: l’evento primordiale che accadde una volta per tutte, e che può essere ripetuto ritualmente, si manifesta come l’orizzonte di destorificazione del divenire storico, il quale è appunto caratterizzato da eventi in cui il «ciascuna volta» del loro prodursi vale per sé e non per le altre, tanto meno per tutte. Nella storia si deve ricominciare sempre di nuovo ogni volta: il mito delle origini offre un piano in cui riassorbire questo proliferante «sempre di nuovo» in una volta previlegiata, metastorica, che sta per tutte, e che destorifica il divenire nella ripetizione della stessa immutabile

permanenza metastorica. Con ciò il divenire storico è mascherato, appare anzi come maschera, apparenza, non-valore, e attraverso questa pia fraus si sta nella storia «come se» non ci si stesse: il che però non significa che non ci si sta, che cioè non si opera e si decide volta per volta (e come si potrebbe?), ma la coscienza che accompagna lo storico operare è subordinata, protetta e dischiusa dalla coscienza mitico-rituale egemonica di una opera divina già tutta compiuta, in quella volta che vale tutte le volte e che in tutte le volte è riattuabile. 3.16. La fluidità del divenire significa semplicemente che la presenza non resta senza margine di operabilità e di progettabilità del divenire stesso. Se una situazione critica resiste alla decisione della presenza, se non si sa precisamente che cosa fare per sciogliere un nodo della propria esistenza, si continua a decidere per tutte le altre situazioni e anche la situazione critica riceve in un modo o nell’altro, in un tempo piú o meno lungo, la risposta adeguata. Si consideri per esempio la crisi del cordoglio che accompagna la perdita di una persona cara: anche se, davanti alla immobile spoglia, si esperisce il tremendo evento davanti al quale non c’è nulla da fare, in realtà si continua a fare, a operare: i piú forti nel muto raccolto interiore dolore, i piú deboli nella disperazione, eseguono il lavoro del cordoglio, che segna il trapasso, lentissimo e doloroso, dalla persona viva che comunicava con noi nel dialogo delle parole e degli affetti, alla persona morta, con la quale possiamo solo monologare rammemorandone le opere e impegnandoci in determinate fedeltà verso di esse («mio padre mi ha insegnato...») Occorre andar oltre la situazione luttuosa, questo comanda il lavoro del cordoglio: che se davvero questa situazione ci fa prigionieri, e la morte della persona cara non si trasforma in una nostra scelta della sua morte, nel nostro farla morire interiormente che ne serba il meglio della sua vita, allora cominciamo a morire noi stessi con ciò che è morto e nella alternativa senza esito di rendere reversibile il tempo storico andiamo smarrendo la stessa potenza morale che, decidendo le alternative, rende possibile l’esserci-nel-mondo. Chi non oltrepassa una situazione critica ne resta prigioniero e ne subisce la tirannia: la presenza rimasta senza margine davanti alla situazione luttuosa perde la fluidità, la operabilità, la progettabilità del divenire mondano, che in ogni situazione tende a ripetere la situazione luttuosa, a diventare il morto e la nostra disperazione o il nostro terrore. I morti non fatti morire dai vivi tendono a tornare in modo irrisolvente, magari in una maschera che li rende

irriconoscibili e contaminando tutto il fronte delle situazioni possibili nella vita reale. Fine del mondo e morte. Il pensiero che l’individuo singolo finirà inevitabilmente col morire rischia di diventare un sintomo morboso nella misura in cui si isola nella coscienza e la invade paralizzandola; chi si chiude in questo pensiero per ciò stesso comincia a morire, e di una morte che è la peggiore di tutte in quanto si annunzia come vuoto del pensare, come vano fantasticare e come crescente terrore del nulla morale che avanza. Poiché proprio questa è la medicina della morte, il rinnovantesi impegno a operare secondo valori intersoggettivi, comunicare con gli altri attraverso questi valori e il trascendere in tale guisa senza sosta la mera individualità biologica, rialzandola a ogni istante verso la permanenza della vita «che vale». La morte dell’individuo è il momento strettamente privato dell’individuo stesso, il piú clamoroso segno della egoità 31: è l’incomunicabile per eccellenza, tanto che la stessa parola «morte» è l’unico suono necessario che tuttavia non ha messaggio da trasmettere, l’unico dire che raccoglie tutta la possibile insignificanza del dicibile umano. Ma l’individuo, che è uomo, si fonda e si mantiene come tale per questo emergere valorizzante della presenza, per questo dischiudersi del privato al pubblico, per questo mondo di altri in cui si ascolta e si risponde, in un discorso che conosce tregua appena nel sonno riparatore senza sogni (poiché anche nel notturno sognare il discorso continua, sebbene in una forma cifrata per la coscienza desta). In questa prospettiva e in questa dinamica la morte come condizione terminale dell’individuo biologico si tramuta in quel morire che è nascere alla intersoggettività dei valori: cioè il morire dell’individuo biologico, che in certo senso comincia con la nascita, si riplasma in un «far morire nel valore operando nella concretezza di una società storica»: il che già a suo modo sapeva il divino Platone quando affermava essere la vita di ogni istante disciplina di morte: «Muori e diventa»: non accennano queste formulazioni famose alla stessa medicina contro la morte 32? Che se invece non si riesce a far morire sempre di nuovo nel valore il privatissimo caro «io», allora davvero incombe la morte che terrorizza e sgomenta: nel recedere della presentificazione valorizzante insorge allora la tremenda esperienza di Teresa d’Ávila: «muoio perché non muoio» 33. Analisi, in questa prospettiva, della morte e del morire in psicopatologia. 1. Traduzione di Antonella Cosentino. Riprendiamo la citazione di Michel Humm nel suo studio

«Le mundus et le Comitium: représentations symboliques de l’espace de la cité», in «Histoire urbaine», vol. 2, n. 10, 2004, p. 52, nota 33. 2. Si tratta dei dati che permettono all’autore di affermare che, in quanto divinità italica, Cerere appartiene all’insieme delle divinità agrarie e ctonie. 3. Corpus Inscriptionum Latinarum [Raccolta di iscrizioni latine], sotto la responsabilità dell’Accademia delle scienze di Berlino, Reimer Verlag, Berlin 1863. 4. S. WEINSTOCK, Mundus patet, in «Mitteilungen des Deutschen Archälogischen Instituts, Römische Abteilung», n. 45, 1930, pp. 111-23. 5. L. DEUBNER, Mundus, in «Hermes», n. 68, 1933, pp. 226-87. 6. Il termine mundus indicherebbe una sorta di silos per conservare le sementi. 7. A. PIGANIOL, Recherches sur les jeux romains. Notes d’archéologie et d’histoire religieuse, Istra, Strasbourg 1923. 8. N. TURCHI, La religione di Roma antica, Cappelli, Bologna 1939. 9. H. J. ROSE, The Mundus, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», n. 7, 1931, pp. 11527. 10. A. WALDE e J. B. HOFMANN, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Winter, Heidelberg 1938; A. ERNOUT e A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris 1959 [4 a ed.]. 11. A. ERNOUT, Philologica, Klincksieck, Paris 1946-65. 12. G. WISSOWA, Religion und Kultus des Römer, Beck Verlag, München 1912 [2 a ed.]. 13. F. ALTHEIM , Terra Mater: Untersuchungen zur altitalische Religionsgeschichte, Töpelmann, Giessen 1931. 14. Cfr. capitolo 3. 15. Sulla teoria della «destorificazione religiosa» nell’opera demartiniana, cfr. M. MASSENZIO, Le volume-testament d’Ernesto De Martino, in «Gradhiva», n. 32, 2002, pp. 53-64. 16. C. PAVESE, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, a cura di Massimo Mila, Italo Calvino e Natalia Ginzburg, Einaudi, Torino 1952. 17. Tema dell’esistenzialismo kierkegardiano: «L’angoscia è la vertigine della libertà», S. KIERKEGAARD,

Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, trad. di Cornelio Fabro, Sansoni,

Firenze 1965, p. 74. 18. Questo libro è il quarto volume della «collana di studi religiosi, etnologici e psicologici», detta «Collana viola», diretta da Pavese per i tipi di Einaudi, con la collaborazione di De Martino come consulente esterno. Si tratta della traduzione, fatta da Angelo Brelich, di Einführung in das Wesen der Mythologie, Pantheon Akademische Verlagsanstalt, Amsterdam-Leipzig 1941. La citazione è tratta dal saggio introduttivo di Karl Kerényi: Introduzione. Origine e fondazione della

mitologia, pp. 11-106. Sulla tormentata storia di questa collana, cfr. C. PAVESE e E. DE MARTINO, La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di Pietro Angelini, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 19. Sul problema dell’agonia del sacro e della coscienza mitica, cfr. M. MASSENZIO, Religion et sortie de la religion. Le christianisme selon E. De Martino, in «Gradhiva», n. 28, 2000, pp. 23-31. 20. H. LIETZMANN, Geschichte der alten Kirche, II. Ecclesia catholica, W. de Gruyter, Berlin 1936. 21. A. E. JENSEN, Mythos und Kult bei Naturvölkern, F. Steiner, Wiesbaden 1951. 22. Raccolta di aforismi della filosofia indiana compilata fra il 200 a.C. e il 500 d.C. 23. Due anni dopo la traduzione de Techniques du yoga (Tecniche dello yoga, traduzione di A. Macchioro, Boringhieri, Torino 1952), la prima traduzione italiana esce con una breve prefazione di Ernesto De Martino nella «Collana viola»: Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino 1954. Sulle vicissitudini di questa ricezione italiana, cfr. P. ANGELINI , L’uomo sul tetto. Mircea Eliade e la “storia delle religioni”, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 24. Sulle relazioni fra storia delle religioni e fenomenologia della religione, di cui G. Van der Leeuw è il principale rappresentante, cfr. E. DE MARTINO, Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», n. 24-25, 1953-54, pp. 1-25. 25. M. ELIADE, Images et symboles. Essais sur le symbolisme magico-religieux, Gallimard, Paris 1952 (trad. it. Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, trad. di Massimo Giacometti, Jaka Book, Milano 1984). 26. R. OTTO, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Trewendt und Granier, Breslau 1917. La traduzione italiana è stata assicurata dal cattolico modernista E. BUONAIUTI: Il sacro: l’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Zanichelli, Bologna 1926. 27. W. DILTHEY, La dottrina delle visioni del mondo: trattati per la filosofia della filosofia, a cura di G. Magnano San Lio, Guida, Napoli 1998 [1911]. La questione del relativismo è ripresa da J. GRONDIN ,

La solution de Dilthey au problème du relativisme historique, in «Revue internationale de

philosophie», vol. 4, n. 226, 2003, pp. 467-76. 28. Jacob Wilhelm Hauer (1881-1962), indologo all’Università di Tübingen dal 1927 al 1945. Ha fondato nel 1933 il Movimento per la fede tedesca che riunisce tutti i gruppuscoli religiosi ariani. Sull’uso dei riferimenti «mitici» da parte degli ideologi del nazionalsocialismo, cfr. J.-P. SIRONNEAU ,

Sécularisation et religions politiques, Mouton, Paris 1982, pp. 281-310.

29. Le tesi profondamente antisemite sviluppate dal teorico del partito nazista, Alfred Rosenberg, in Der Mythus des zwanzigsten Jahrhunderts (1930) (trad. it. Il mito del XX secolo, Edizioni del Basilisco, Genova 1981, trad. di Paolo Castruccio) sono, pochi anni dopo, analizzate in Francia da P. GROSCLAUDE, Alfred Rosenberg et le mythe du XX e siècle, Sorlot, Paris 1938.

30. A. K. COOMARASWAMY, Hindouisme et bouddhisme, Gallimard, Paris 1949 (trad. it. di Ubaldo Zalino, Induismo e buddismo, Rusconi, Milano 1987, 2 a ed.). 31. Termine mutuato dall’analisi heideggeriana del Dasein come «essere con», e della presupposizione di ogni rapporto Io-Tu. 32. «E finché questo non è tuo | questo: muori e divieni! | sei solo un ospite scontento | sulla terra oscura», da «Beata nostalgia», in J. W. GOETHE, Il divano occidentale orientale (Libro del Cantore), Boringhieri, Torino 1959, pp. 43-44. 33. «Vivo, ma in me non vivo | E tanto è il ben che dopo morte imploro | Che mi sento morir perché non moro», da «Desiderio del cielo», in TERESA D’AVILA, Opere - Teresa di Gesú, OCD, Roma 2014, p. 1841.

Capitolo secondo Le apocalissi psicopatologiche

«Rapporti fra le esperienze apocalittiche di natura psicologica, psicopatologica e culturale»: ciò che Ernesto De Martino annunciava come un’introduzione, appare immediatamente, agli occhi di Angelo Brelich, come un capitolo a pieno titolo, e questa valutazione non sarà smentita dopo un anno e mezzo di lavoro. Scrive il curatore nel gennaio del 1967: «è una delle parti relativamente piú compiute 1» in cui, potremmo aggiungere, si trovano intrecciati buona parte dei temi della ricerca. A differenza delle precedenti edizioni, presentiamo quindi in un capitolo autonomo l’insieme dei dossier in cui De Martino persegue l’obiettivo di elaborare una nozione antropologica della follia come rovescio di una nuova definizione della cultura. Il diverso grado di elaborazione di questi scritti testimonia in primo luogo l’eterogeneità dei corpora documentari raccolti nei differenti momenti di un percorso di ricerca che ha sempre fatto dialogare l’analisi delle pratiche culturali con i diversi saperi psicologici e psichiatrici. Ma esso ha molto a che fare anche con la varietà dei livelli di analisi, di volta in volta descrittivi e teorici, sui quali si sofferma lo studioso. Come fare dunque per restituire le articolazioni del pensiero, piú che le classificazioni tematiche, che danno forma a questa totalità frammentaria? Alcune delle numerazioni consecutive di cui l’archivio reca traccia pongono senza dubbio dei problemi di attribuzione 2 . Tuttavia, seguendole si vede profilarsi una progressiva integrazione di sottoinsiemi documentari che confluiscono in una problematica unificata. Allo stesso modo, bisogna ammettere che ordinare e riordinare le sue carte – frammenti di scrittura mischiati a note di lettura, a schemi ed elenchi bibliografici – permette in maniera generale a De Martino di sperimentare il valore euristico di categorie descrittive o d’invenzioni teoriche, gerarchizzando le loro applicazioni. È questo concretissimo gesto di costruzione di un’architettura concettuale ciò che abbiamo voluto restituire, aderendo il piú possibile all’ultimo stadio attestato della sua edificazione. Adottare la postura di clinico della cultura occidentale contemporanea porta De Martino a riconsiderare gli orientamenti clinici che finora ha utilizzato. Oltre a Pierre Janet e alla scuola francese di psicologia dinamica – riesumata dall’oblio per distinguere alcuni gradi del «sentimento del reale» legati a una pluralità di «esistenze psicologiche» – De Martino all’epoca de Il mondo magico 3 aveva puntualmente guardato alla psichiatria tedesca di orientamento fenomenologico per formulare una prima concettualizzazione del binomio presenza/perdita della presenza 4. All’inizio degli anni Sessanta, malgrado tutti i moniti che gli arrivavano da parte degli intellettuali marxisti, il dialogo con clinici d’ispirazione fenomenologica e heideggeriana s’impone ormai come decisivo per fondare un’antropologia comprensiva, a partire da una singolare categoria concettuale: l’«apocalisse psicopatologica».

La corposa relazione che Giovanni Jervis gli consegna nel luglio del 1962 5 contiene un’abbondante bibliografia, che spinge De Martino a ripensare, a modo suo, una diagnosi, la sua storia e i suoi usi problematici. L’antropologo s’immerge con passione in testi di lingua tedesca, inglese e francese, conducendo parallelamente una specie d’inchiesta presso alcuni psichiatri o psicoanalisti italiani che, all’occasione, condividono con lui la propria esperienza clinica. Infatti, gli articoli del primo collaboratore sollecitato per condurre a buon fine tale ricerca, cioè Bruno Callieri, non riguardavano soltanto una forma particolare di vissuto psicotico identificata, sin dall’inizio degli anni Venti, come Weltuntergangserlebnis, «esperienza vissuta di fine del mondo» 6. Il giovane psichiatra inscriveva lo studio del crollo psichico in un piú vasto dibattito relativo allo statuto della funzione semiotica o simbolica che, oltre Karl Jaspers, invitava a rileggere Edmund Husserl, Martin Heidegger, Ludwig Binswanger, Maurice Merleau-Ponty. Tali suggestioni non potevano certo lasciare indifferente l’etnologo che poco prima, osservando i singolari aspetti del culto di san Paolo nel Salento, aveva minuziosamente descritto una particolare realizzazione di questa «tessitura simbolica» prodotta dall’attività semiotica nella sua duplice dimensione espressiva (il mito) ed emotiva (il rito). I dossier che De Martino ha messo insieme a partire dalla sua intensa attività di lettura derivano da un modus operandi e da una problematizzazione che non assoggettano in nessun modo l’antropologo al sapere medico. Certo, egli riconosce il valore di tutti quegli studi che rifiutano l’identificazione naturalista di sintomi a vantaggio di una descrizione fenomenologica di vissuti singolari, e che sospendono la distinzione fra normale e patologico al fine di ricollocare l’uomo malato nella propria presenza. Ma De Martino radicalizza la snaturalizzazione della follia operata dai suoi interlocutori fenomenologi affermando il diritto dell’etnologo all’esteriorità: egli non è un terapeuta, e del resto la stessa psichiatria occidentale è attraversata da «incoerenze logiche». D’altra parte, l’attività di traduzione alla quale si dedica pensando in diverse lingue lo porta a trasformare alcuni «intraducibili» della lingua tedesca nel luogo delle proprie creazioni concettuali. L’inchiesta parte dunque dalla psicopatologia tedesca d’ispirazione fenomenologica ed esistenzialista, che si è interrogata sulle affinità fra il «mondo» provato nei vissuti deliranti e quello proprio della «mentalità primitiva», sull’importanza dei temi religiosi nella schizofrenia e sui particolarismi culturali delle biografie dei malati. Ma alle teorie dello psichismo che, per i medici, sono messe in campo dalle concettualizzazioni intellettualistiche o affettive del delirio, l’antropologo sostituisce altre domande. La loro formulazione progressiva scaturisce innanzitutto da un modo di leggere le narrazioni cliniche opposto a quello utilizzato per il «caso» del contadino di Berna 7: De Martino le assimila, come la poetica moderna o la letteratura esistenzialista che esamina in quello stesso periodo, a una sorta di «prosa del mondo» spersonalizzata, liberata da tutti gli accidenti biografici significativi per il terapeuta, al fine di descriverle secondo i principî dell’analisi strutturale identificata da Claude Lévi-Strauss per i racconti mitici. A differenza della parola delirante che ha attirato l’attenzione degli psichiatri svizzeri e dei lamenti delle tarantate osservate a Galatina nell’estate

del 1959 8, la maggior parte di queste narrazioni in effetti non si presta a essere immediatamente trattata alla stregua di forme residuali di elaborazioni religiose scomparse. Considerate invece come una materia etnografica, distaccata dalla singolarità della voce che, in una storia individuale, fa parlare i grandi significanti dell’attesa escatologica o della catastrofe cosmica, esse invitano a ripensare le proprietà generali della funzione semantica. Può essa ridursi alle leggi universali di funzionamento dello spirito umano, alle operazioni logiche impersonali evidenziate da Lévi-Strauss? De Martino lo esclude, e comincia col collegare la funzione di simbolizzazione a una proprietà dell’uomo in società – l’ethos del trascendimento – di cui s’impegna a elaborare una prima definizione. Questo principio normativo di «valorizzazione intersoggettiva della vita», che non è lo slancio vitale bergsoniano, ma uno slancio «morale» originario, si presenta qui come soluzione alla domanda, sempre aperta, relativa all’emergenza delle attività simboliche. Ma lungi dall’essere il punto d’arrivo della ricerca, come suggeriva la precedente edizione, questa nozione è definita in maniera concomitante alla descrizione di forme alterate di attribuzione del senso, come ciò di cui la follia è il rovescio, una follia elaborata in una densissima relazione critica con i clinici eletti a interlocutori privilegiati. Da un lato De Martino fa propria la nozione di «esperienza vissuta» come fenomeno esistenziale, contro la riduzione dei sintomi a perturbazioni funzionali; dall’altro rifiuta l’assimilazione di questo vissuto all’equivalente privato di una creazione culturale: un «progetto di mondo» diceva Binswanger. Cosí, questa prima definizione argomentata di un «potere della cultura», ovvero del potere di definire una versione della realtà e il suo rovescio, il crollo e la co-costruzione di sé e del mondo, al livello speculativo in cui si situa l’analisi demartiniana, viene a sostituirsi alle teorie fenomenologiche ed esistenziali della vita psichica, poiché l’accesso al mondo, cosí come il sentimento di sé, non deriva da una percezione individuale, ma è dato a livello collettivo. Tuttavia l’antropologo non osserva mai direttamente questo potere della cultura, ma dispone solo di repertori di istituzioni e di schemi d’azione che differenziano fra di loro le forme culturali alle quali le società conformano la loro esistenza, definendo nello stesso tempo ciò che per esse costituisce l’alterità. Simile pluralità pone la questione, che diventerà centrale nell’antropologia medica, dei criteri di giudizio di normalità e di anormalità. Da qui il passaggio attraverso queste discipline ibride – psichiatria sociale e culturale, etnopsichiatria – che hanno come oggetto la descrizione delle versioni particolari dell’anomia psichica e sociale. L’attentissima lettura di autori come Georges Devereux, Erwin H. Ackerknecht, Margaret Mead, che saranno riscoperti nei dibattiti degli anni Ottanta, non si limita alla banale constatazione della relatività del normale e del patologico, ma risponde a un’inquietudine: come trasporre al campo europeo l’apporto delle ricerche dedicate alle psicologie e alle nosologie indigene senza cadere nell’impasse del relativismo culturale che minaccia questi lavori? Un passaggio che permette a De Martino di riformulare due domande comuni allo psichiatra e all’etnologo: a quali condizioni l’esperienza di fine del mondo può essere considerata patologica? E che senso dare ai significanti religiosi cosí presenti nella parola dei malati?

Le risposte a queste due domande derivano da una serie di slittamenti. Esse prendono le mosse dall’inventario di una pluralità di esperienze individuali di «fine del mondo» al fine di formulare delle affermazioni di ordine generale sulle forme di normatività specifiche della stilizzazione religiosa. Pur rilevando con grande precisione gli elementi che, nella parola dei malati occidentali del XX secolo, rimandano a frammenti del calendario cristiano del ritorno dei morti e a questo grande rito funebre che per lui è il Cristianesimo, De Martino rifiuta di identificare in alcun modo un simbolismo universale per spostare l’indagine sulle omologie strutturali e sulle interazioni dinamiche tra le esperienze della follia che ha appena descritto e il lavoro di «conversione» prodotto dall’attività religiosa, di cui sottolinea due proprietà generali: una originaria ambivalenza e l’esigenza di riconduzione rituale. Le domande poste dalla pluralità dei modi di strutturazione dell’esperienza del mondo e degli altri, di cui è testimone la diversità delle culture, ci rimandano all’efficacia di una forma simbolica il cui riconoscimento invita, cosí come fanno le fenomenologie alle quali s’ispira, a «superare» piú l’opposizione reale/fittizio che non il dualismo corpo/anima o corpo/spirito. A questo punto, l’introduzione della categoria di «apocalisse psicopatologica» implica una questione che né l’inchiesta sull’elaborazione rituale del lutto né l’inchiesta sul tarantismo avevano ancora affrontato. Al di là di una generica storicità del giudizio di follia, al di là dell’efficacia delle istituzioni culturali disponibili ai margini dei saperi medici o in conflitto con essi, è la dimensione antropologica del rischio di follia come uscita dalla storia l’obiettivo di questa analisi della modernità, l’originalità della quale risiede non tanto nell’articolazione di questi tre livelli d’analisi quanto piuttosto nel percorso intrapreso per arrivarci. Si pensi al giovane Michel Foucault che, pochi anni prima, da una stessa immersione nella psicopatologia esistenziale, aveva dedotto la necessità di un’antropologia dell’immaginazione 9. Giordana Charuty 1. Angelo Brelich al professor Bollati, 16 gennaio 1967 (Archivio De Martino, 29). Cfr. supra, Introduzioni. 2. Allo stato attuale, la storia dell’archivio demartiniano non permette di risolverli. Secondo Clara Gallini e Roberto Pàstina, queste numerazioni sarebbero da attribuire alla mano di De Martino, malgrado le differenze di grafia. D’altro canto, noi sappiamo che i primi ricercatori che vi hanno lavorato si sono basati su fotocopie dei testi originali. 3. E. DE MARTINO, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino 1948. 4. Le pagine che De Martino dedica alle similitudini e alle differenze fra il «mondo magico» e l’esperienza del mondo dello schizofrenico si fondano sui lavori di Alfred Storch, scoperti attraverso la polemica lettura che ne fa uno dei principali rappresentanti della scuola psichiatrica italiana, Enrico Morselli, in un volume dedicato alle tesi e alle pratiche freudiane: La psicanalisi. Studi e appunti critici, Bocca, Torino 1926, 2 voll.

5. Ne esistono due versioni, con titoli leggermente diversi: una versione lunga (47 pagine) intitolata Il tema della fine del mondo nelle malattie mentali, e una piú breve (lunga la metà) La fine del mondo nella psicopatologia e nella clinica, con un’importante bibliografia (Archivio De Martino, 22.9). Giovanni Jervis pubblica la prima versione con lo stesso titolo, ma apportando leggere modifiche per attenuarne la dimensione di critica ideologica, in «Psichiatria generale e dell’età evolutiva», n. 3, 1965, pp. 3-35. 6. B. CALLIERI e A. SEMERARI, Alcuni aspetti metodologici e critici dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo, in «Rassegna di Studi Psichiatrici», vol. 43, n. 1, 1954, pp. 3-25; B. CALLIERI ,

Contributo allo studio psicopatologico dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo, in

«Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria», vol. 16, n. 4-5, 1955, pp. 120-46. 7. Cfr. il capitolo I . 8. Cfr. le cure delle vittime della tarantola analizzate in E. DE MARTINO, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1961. 9. Vedi G. CHARUTY, «Occorre ridiscendere agli inferi». Follia e storia tra De Martino e Foucault, in «Aut Aut», n. 366, giugno 2015, pp. 15-37. J. -F . BETT e E. BASSO (a cura di), Foucault à Münsterlingen. À l’origine de l’“Histoire de la folie”, Éditions de l’EHESS, Paris 2015.

1. Le esperienze vissute di fine del mondo. 1.1. A. Storch, Tod und Erneuerung in der schizophrenen DaseinsUmwandlung [Morte e rinnovamento nella conversione esistenziale schizofrenica] 1, in «Archiv für Psychiatrie und Nervenkrankheiten» 2, 181 (1949), pp. 275-93. L’esperienza di essere-agito-da. Nel caso riferito alle pp. 276 sgg. una donna si sente, rispetto al proprio marito, asservita, spossessata, carpita della vita: «Essa non può piú essere in vita per forza propria», in quanto il marito (e la madre) gliela hanno sottratta (p. 278). La distruzione del proprio Dasein è vissuta sotto la specie dell’atrofizzarsi delle sue possibilità di maternità, e questo atrofizzarsi è avvertito come un Lebensraub, come un furto della vita. «Con uno sguardo possono prendersi il mio io come il mio mantello» (a proposito della energia lavorativa impiegata dalle infermiere sfruttando la sua propria) (p. 279). Gli uomini la possono usare come strumento inerte per i loro impulsi sessuali: i loro semplici «sguardi ipnotici» la costringono al commercio (p. 278). I valori affettivi naturali le sono carpiti, onde essa è «vuota e senza interessi». Il corso dei suoi pensieri è interrotto e sconvolto dalla infermiera. I suoi pensieri sono «impediti», «la conversazione la esaurisce» (p. 279). «Io mi perdo negli altri, come dovessi darmi come vittima» (ibid.). Il mondo ostile possiede su di lei una forza demoniaca perché «una parte della mia vita è troppo fortemente legata a quella degli altri». È costretta a odiare e a difendersi. Non possiede piú un essere per se stessa delimitato. «Non posso piú avere per me nessun pensiero, e nasconderlo agli altri». Gli altri «compensano» ciò che essa pensa, ascoltano e le rispondono. Storch parla di partecipazione magica in rapporto con la mutata struttura dell’esistenza. Deflusso dell’io nel mondo: essa è costretta a trasformarsi in altro: ritrova la propria esistenza «al di fuori» (di sé), negli uomini negli animali nelle cose. La sua gioia di vivere è «fuori nella vacca», e «invece dei bambini» che

avrebbe dovuto avere «di fuori corrono qua e là galletti». Questa continua proiezione in altro, cui è esposta, la svuota, e la sua esistenza vivente diventa «mera figura». «Io non sono piú una creatura completa, ma solo un minimum, interamente spossessata (spesa) a profitto di altri soggetti inutili». «Il sentimento primitivo per eccellenza del “trovarsi” è andato perduto, e al di fuori della collera l’originario sentire non esiste piú». «Io non sto piú nell’interno della vita, ma al di là». La perdita di sé, «la negazione dell’esistenza» procede nella duplice direzione di reificazione dello spirituale e di una smaterializzazione del corporeo. La reificazione vale come scissione in parti: l’io reificato è spossessato, diventa inesistente, un «conglomerato». L’unità chiusa della sua esistenza di prima è andata perduta. Anche le altre persone sono conglomerati. E come lei trapassa in parte in altro, gli altri trapassano in lei. Atomizzazione, disarticolazione del reale. Essa è una «non-cosa, ogni giorno rimodellata» (ibid.). La smaterializzante evaporazione vale come risoluzione del proprio corpo in aria, in soffio, in alcunché che ondeggia. Gli uomini sono fantasmi, i fantasmi si vedono. I fenomeni si compenetrano come soffio, quelli degli altri vanno attraverso di essa, come essa attraverso quelli. Essa è fuori nel vento. La ricostruzione magica: multipresenza, ecc. Forza, ecc. Disegni che creano: non imitazioni ma modelli del reale. Catasterismi 3 della persona (p. 283). «Ma tutti i suoi tentativi di sollevarsi corporalmente o col pensiero verso l’alto, sino al mondo delle stelle, sono esposti allo scacco. La direzione fondamentale della sua vita colpita dalla malattia precipita verso il basso. Ciò che essa pensa “verso l’alto” è di nuovo carpito, “de-pensato” (abgedanken). È tappata nel monte». In quanto esposta alla reificazione e alla ripartizione, «si indebolisce la forza delle stelle». «Il sole non riscalda piú; la luna non appare piú; l’immagine della stella, questa è la mia vita». Solo per momenti può compiere il suo conato sempre rinnovato di essere irraggiungibile alla distruzione materiale nel mondo delle stelle (ibid.). Invece di riposare in Dio essa «è sciolta nel nulla» (p. 286). Storch: «Il processo schizofrenico significa per l’esistere dell’uomo una progressiva perdita di esistenza, una “negazione di esistenza” – per parlare nel linguaggio della nostra malata, un annientamento del poter essere con se stesso e con gli altri, un decadere dal vivente divenire. Questa perdita di sé (Selbstverlust) può modellarsi in diverse forme; nel caso presente, tipico per

un determinato gruppo di schizofrenie –, l’annientamento viene esperito come distruzione che procede da un sovrapotente, ostile mondo che sta di fronte, il non-piú-possedersi come spossessamento, la impotenza come depotenziamento, l’essere esposto allo smembramento come spostamento malefico e spossessamento da quelle controforze. L’essere sottratto e strappato a sé appare qui come svuotamento, spoliazione e furto della esistenza. Gli altri uomini e il mondo materiale sono esperiti non piú come viventi, ma come morenti. L’essere insieme si risolve nell’essere l’uno contro l’altro. Il mondo umano e delle cose sono vissuti non piú come viventi ma morenti. Lo stare insieme si risolve in uno stare l’uno contro l’altro, la partecipazione dell’uno all’altro si risolve nell’uno che prende parte dell’altro. Le forze avverse hanno strappato la forza ai processi corporei e psichici. Tutto ciò significa dissociazione dell’esistere vivente, che divenuto cosa le si frantuma in parti permutabili, sottraibili, componibili in nuovi conglomerati. Ciò significa anche una svaporizzazione che scioglie il Dasein corporeo in una compenetrazione reciproca, di tipo come aria o soffio... La disarticolazione del tempo vissuto, nel senso che la continuità del divenire è frantumata nella discontinuità e nella fluidità di continue metamorfosi, nelle quali il Dasein non perviene piú a una autentica presenza, ma solo a immagini momentanee sorgenti e trapassanti senza sosta. In un tale mondo viene meno uno sviluppo vivente, storico, il Dasein ha perduto la sua storicità. Nella continua sempre di nuovo esperita perdita dell’essere, l’esserci non può diventare né futuro né passato» (pp. 286 sgg.). Per questa forma di perdita del Dasein è riconoscibile la caduta in un mondo ostile sovrapotente, una esteriorizzazione coatta, uno spossessamento del proprio: la coscienza è proiettata al di fuori. Il malato è separato da se stesso, il suo Dasein gli è sottratto e incorporato nel mondo ostile. In questa Gegenwelt è tutto ciò che della sua vita resta irrealizzato, non plasmato, il non vissuto e il fuori della vita, il rimasto-escluso dal suo Dasein. Questa esteriorizzazione si compie come dematerializzazione e svaporizzazione, come materialeggiante corporificazione e come spiritualizzazione svaporizzante (p. 287). L’irrealizzato nella sua vita storica del suo Dasein gli si contrappone dall’esterno della sua Umwelt e della sua Mitwelt 4 (ibid.). Sono le proprie interne contraddizioni che hanno distrutto originariamente l’equilibrio del suo sviluppo di vita, impedendo la possibilità dell’unità, di pervenire al proprio centro. Invano ha cercato di enucleare il centro fra

Selbstbehauptung e Selbsthingabe (ibid.). La malata si esperisce sempre di nuovo come morto, immerso nel regno dei morti e degli spiriti e di nuovo ritornante in esso. Essa vive un breve rinnovarsi terreno e un rinnovamento cosmico attraverso l’ingresso in un mondo di luce sopraterreno (pp. 289 sgg.). Questa condizione di esistenza della malata ricorda per parecchi rispetti le metamorfosi dei «misteri», le iniziazioni mistiche, in cui è vissuto un passaggio attraverso la morte, e ricorda anche le descrizioni della condizione post mortem, della condizione intermedia quale è esposta nel tibetano libro dei morti (cfr. commento di Jung) 5. Questo vale anche per le iniziazioni dei popoli cosiddetti primitivi, in cui il giovane che sta diventando uomo e deve sacrificare la sua fanciullezza, viene reso partecipe di un rinnovamento (p. 290). Ma mentre nelle iniziazioni si tratta di un evento illuminato dalla sapienza di tradizioni antichissime, un evento attraverso il quale il singolo raggiunge una vita piú larga e piú piena, nella malata le molteplici morti hanno luogo come un destino violento e coatto, il quale annienta sempre di nuovo le nuove nascite terrene e cosmiche. Invece della enucleazione di un se stesso piú atto, la malata invece di riposare in Dio piú e piú si risolve nel nulla (ibid.). La malata è come un alchimista che non può compiere il solve et coagula: la via verso il «centro» è perduta, ancorché sempre di nuovo cercata. La malata è impegnata in un agone che somiglia al processo di metamorfosi e di rinnovamento dell’alchimia: ma nella malata questo processo si ferma ai gradi intermedi e per cosí dire torna sempre indietro. Come nella situazione intermedia di cui parla il libro tibetano dei morti, nella condizione post mortem o «fra morte e nuova corporificazione», la malata non sa se è viva o morta, se tornare nel vecchio corpo o se assumerne uno nuovo. In questa condizione, nel tibetano libro dei morti, sorge a questo punto un corpo di desiderio, mentalmente plasmato, che quando non raggiunge l’ultimo fine della unione con la luce primordiale, cede il luogo a un ricadere in nuove corporificazioni «nel circolo delle nascite», nel nostro mondo apparente, e all’incontro con paurosi demoni e spiriti che debbono essere riconosciuti come realizzazione di proprie condizioni psichiche. Anche qui il richiamo alla condizione della malata è evidente (p. 291). «Non era forse la malata stessa diventata un tale demone, affamata di esistenza, svolgimento, realizzazione e luce, sempre fuori di sé e sempre affamata di sé, irresolubilmente legata a sé e tuttavia non piú in condizione di venire

realmente a sé?» (p. 292). «Fino all’esaurimento mortale ho pugnato per trattenere la vita piú alta nella fede e nella contemplazione» (Hölderlin) (p. 293) 6. 1.2. Jaspers, Vissuti deliranti primari. Varie. Karl Jaspers, Allgemeine Psychopathologie [Psicopatologia generale], Springer Verlag, Berlin-Göttingen-Heidelberg 1953, 6 a ed. (1 a ed. 1913; 5 a ed. 1946 e 6 a ed. 1953 immutate). Primäre Wahnerlebnisse, esperienze deliranti primarie, pp. 82-87 7. Jaspers parte dalla osservazione che il delirio in ogni tempo fu considerato il fenomeno fondamentale della follia, per quanto poi non è facile circoscrivere il concetto di delirio. Posto dunque che «der Wahn ist ein Urphanomen» [il delirio è un’esperienza originaria] (p. 74), e che il vissuto nell’ambito del quale ha luogo il delirio è la esperienza e il pensiero della realtà (ibid.), Jaspers analizza le due teorie interpretative del delirio, la prima delle quali – rappresentata da Westphal 8 – ritiene che non si debba parlare di una vera e propria esperienza delirante primaria, e che tutte le idee deliranti sono derivate: secondo Westphal il punto di partenza è la coscienza di un mutamento della personalità, da cui derivano secondariamente le idee deliranti: Jaspers però osserva che se questo serve a comprendere sviluppi paranoici e in generale idee deliranti secondarie, non riguarda l’essenziale del vero e proprio delirio. Altrettanto è da dirsi per la derivazione delle idee deliranti dagli affetti, per esempio dalla sfiducia. La seconda teoria interpretativa ritiene che la causa – o la condizione – del delirio è la debolezza dell’intelligenza (Intelligenzschwäche): ma Jaspers osserva che il paranoico non ha una intelligenza peggiore del sano, e il suo potere critico non è annientato, ma soltanto «messo a servizio del delirio» (p. 81). Il che significa che ancora resta da individuare che cosa sia il delirio, e in che cosa si distingua dalla mente sana. In realtà – dice Jaspers – «non già una debolezza dell’intelligenza, ma un caratteristico mutamento nelle funzioni psichiche» è alla base della convinzione delirante. Da ciò la necessità di analizzare fenomenologicamente queste esperienze deliranti primarie. Affiorano nel malato innanzitutto sensazioni, vissuti, Stimmungen, consapevolezze: «È accaduto qualche cosa, dimmi dunque che cosa», diceva al marito una malata di Sandberg 9. E alla domanda di lui, che cosa era accaduto, la ammalata congetturava: «Non lo so, ma c’è tuttavia qualche cosa». Per i malati questo è non familiare (spaesato, Unheimlich), c’è

qualcosa che li concerne, qualcosa che essi sentono. Tutto acquista un nuovo significato. Il mondo circostante è diverso, non già nel senso grossolanamente sensibile – le percezioni sono dal lato sensibile immutate –, ma piuttosto sussiste un sottile cangiamento che tutto penetra e che diffonde una colorazione incerta, spaesata. Una stanza prima indifferente o amichevole è ora dominata da una Stimmung indefinibile. Qualche cosa è nell’aria, il malato non se ne può rendere conto, una tensione riboccante di sospetto, di disagio e di spaesamento lo riempie (Sandberg)... Nella disposizione d’animo delirante vi è sempre qualche cosa che, per quanto in modo oscuro, costituisce il germe della valutazione e della importanza oggettive. Questa disposizione delirante senza contenuto determinato è assolutamente insopportabile: i malati soffrono terribilmente, e già l’ottenere una rappresentazione determinata costituisce come un sollievo. Sorge nel malato un sentimento di mancanza di sostegno e di insicurezza che lo sospinge in guisa istintiva a cercare un punto saldo, nel quale si possa sostenere e aggrapparsi. Questa integrazione, questo rafforzamento e sollievo egli li trova solo in una idea, proprio come il sano in circostanze analoghe. In tutte le situazioni della vita in cui ci sentiamo colpiti, angosciati e smarriti, l’improvvisa presa di coscienza di un chiaro sapere, sia questo in realtà vero o falso, possiede in sé già una efficacia serenatrice e il sentimento scatenato in noi da quella situazione perde ceteris paribus la sua forza già per il solo fatto che il giudizio su di essa situazione diventa chiaro: come al contrario nessuno sgomento è maggiore di quello che si scatena davanti a un pericolo indeterminato (Hagen) 10. Sorgono quindi convinzioni di determinate persecuzioni, crimini mostruosi, accuse, ovvero in una direzione delirante opposta, di età dell’oro, eredità divine, santificazioni e simili (p. 82). Cerchiamo di rappresentarci il senso psicologico di questo vissuto delirante della realtà in nuovi significati dell’Umwelt: ogni pensiero è pensiero di significati. La nostra percezione non è mai una riproduzione meccanica di stimoli sensibili, ma contemporaneamente percezione di un significato. Una casa c’è per essere abitata dall’uomo, gli uomini per la strada vanno per i loro affari. Se io vedo un coltello vedo immediatamente uno strumento per tagliare, mentre in uno strumento sconosciuto appartenente a una civiltà estranea alla mia io non vedo certo il suo significato ma un materiale foggiato per assumere un significato. Tali significati sono nelle

nostre percezioni non esplicitamente coscienti per noi, ma tuttavia presenti. Ora i vissuti deliranti primari sono analoghi a questa visione di significati. La coscienza di significato subisce una radicale trasformazione. Il sapere di significati immediatamente obbligante è il vissuto delirante primario. Se distinguo il materiale sensibile in cui esperisco questo significato, posso parlare di percezioni deliranti, di rappresentazioni, di ricordi, di coscienze deliranti. Non ci sarebbe nessun vissuto al quale far seguire la qualifica di delirante se nel rapporto binomiale del sapere relativo a oggetti la coscienza di significato non fosse diventata delirante (Kurt Schneider 11, Schmidt) (p. 83). Jaspers distingue, nei vissuti deliranti (Wahnerlebnisse), le percezioni deliranti, le rappresentazioni deliranti, le coscienze deliranti (Wahnvorstellungen, Wahnbewusstheiten). Le percezioni deliranti si estendono dai vissuti di significati oscuri sino a chiari deliri di osservazione e di rapporto. Le cose si mettono improvvisamente a significare qualcosa di improvvisamente altro. Per esempio uomini per la strada vestiti in uniforme sono «soldati spagnoli». Un’altra uniforme: «soldati turchi». Tutti i soldati affluiscono per le strade, da tutti gli eserciti. Questo delirio ha luogo durante la guerra del ’14. Un altro uomo visto per la strada, in giubba scura, è il granduca Ferdinando risuscitato. In queste percezioni pienamente normali dal lato sensibile, il significato delirante è immediatamente vissuto. In altri casi il significato delirante chiaramente espresso non è ancora presente: «Gli oggetti, le persone, gli eventi sono non familiari, spaesati (unheimlich), raccapriccianti, ovvero bizzarri, strani, misteriosi o sovrannaturali, ecc.». Oggetti ed eventi significano qualcosa ma di indeterminato: «Un cameriere va incontro a un malato in un caffè: saltella cosí rapidamente e non familiarmente presso di lui. Lo sorprende lo strano comportamento di un amico, cosí che gli è sospetto. Per la strada tutto procede altrimenti, ci doveva essere qualcosa. Un passante ha lo sguardo cosí penetrante, doveva essere un detective. Poi venne un cane, che sembrava ipnotizzato, come un cane di gomma, quando è mosso da un congegno meccanico. Alla stessa guisa apparivano molti uomini in cui si imbatteva: vi era certo qualche cosa in opera contro il malato. Tutti facevano un rumorino ritmico (tic-tac o qualcosa di simile), come se portassero dentro un apparato meccanico» (p. 84).

Ma il mutamento, nel caso precedente disforico, può assumere anche tratti euforici che si mescolano a quelli disforici. Il mutamento del mondo si manifesta nei visi piú chiari, nella eccezionale bellezza del paesaggio o del sole. Sorge una nuova età. Le luci sono stregate, non vogliono restare accese. C’è qualcosa di innaturale dietro a ciò. Il ragazzo è diventato come una scimmia. Gli uomini sono «mutati», sono «comparse», si presentano in modo innaturale. Le insegne sono oblique, di sghembo rispetto alle case, le strade si presentano come sospette. Tutto va cosí presto. Il cane raschia alla porta in modo cosí bizzarro. «Mi sorprende» è la espressione ricorrente di questi malati, che però non sanno dire perché e il che cosa della loro sorpresa (p. 84). Nel delirio di relazione, i contenuti percettivi sono vissuti in manifesto rapporto con la persona del malato, sono allusivi. Le frasi degli interlocutori, anche le piú banali, sono allusive ad altro, che riguarda il malato. Nulla è casuale ma è diretto al malato. Jaspers, Mutamenti. p. 347 12: All’inizio di una malattia psichica parecchie persone avvertono un sentimento non familiare di mutamento (ein unheimliches Gefühl der Veränderung) (come se fossero affatturati, stregati, un incremento della sessualità, ecc.) che si condensa per la coscienza come minaccia di diventare pazzi. In che cosa consiste questa coscienza non è possibile dire. È una risultante di numerosi sentimenti singoli, ma tuttavia non mero giudizio, ma un vissuto reale. Una signora malata di psicosi periodica, diceva: «La malattia non ha per me nessun carattere raccapricciante, ma solo il momento in cui sento di ammalarmi di nuovo e non so in che modo ciò si verificherà». Un altro malato – brevi psicosi ricche di vissuti – diceva: «I momenti piú spaventosi della mia vita sono il passaggio dalla condizione cosciente al disordine con il congiunto sentimento di angoscia». Lo stesso malato dice però dei fenomeni precorritori: «Il non familiare nella malattia è che chi ne è colpito non può controllare il passaggio dalla condizione di sanità a quella di malattia». Jaspers distingue l’esperienza delirante primaria, inderivabile da altri elementi psicologici, dalla percezione delirante che concerne il riconoscimento di un particolare significato del mondo. La Wahnstimmung è esperienza di un mutamento oscuro, ma radicale, che sta intervenendo nel percepire e nel percepito, la Wahrnehmung è già interpretazione del senso di

tale mutamento. L’umore delirante esperisce che «c’è qualche cosa», la percezione delirante è già orientata a fissare che cosa propriamente ci sia. Talora la prefazione non ha luogo e l’idea delirante prorompe «già armata di tutto punto»: e d’altra parte questo percepire delirante presenta aspetti e significati nosologici diversissimi, a seconda che si tratti di elaborazioni molto prossime al reale esperire, e in immediato rapporto con esso, o di «come se» metaforici in cui hanno maggiore o minore rilievo le influenze culturali, l’educazione ricevuta, l’ambiente in cui si vive, o infine la formulazione non impegnata, casuale, grossolana e fugace del discorso. Queste distinzioni, per opportune che possano essere nell’ambito della attività professionale dello psichiatra, presentano tuttavia il pericolo di perdere la connessione organica tra i fenomeni per i quali proprio tale connessione è importante quando prevalga la prospettiva storico-culturale e storico-religiosa. Mentre da un punto di vista clinico preme mettere in rilievo, a fini diagnostici e terapeutici, la differenza tra umore delirante e percezione delirante, e tra questa e quella modalità della percezione delirante (in particolare fra questa e quella modalità della «fine del mondo»), nella prospettiva analitico-esistenziale l’accento cade sulla unità genetica di tutta la fenomenologia psicopatologica, sul logico generarsi delle distinzioni in cui tale fenomenologia si articola a partire da un principio ermeneutico fondamentale, cioè la crisi della presenza e lo scacco della reintegrazione culturale. Poiché la crisi come rischio non è affatto estranea all’uomo sano, la comprensione si determina come rapporto fra il vittorioso e lo sconfitto di una stessa battaglia: e a parte il documento dell’esperienza clinica deve soccorrere, per rintracciare questa unità genetica della comprensione, il documento interno del comune dramma umano, altrimenti l’accumularsi di dati clinici risulta improduttivo per la comprensione stessa (si pensi al caos delle classificazioni psichiatriche, a quella sorta di «qualunquismo» del distinguere che cosí spesso trascura distinzioni fondamentali e unifica arbitrariamente cose diversissime!) 1.3. Oltre la fase «vaga» del mutamento di significato (c’è qualcosa), e del sentirsi spaesato in un mondo che si viene estraniando dai suoi significati domestici, che viene perdendo il fondo di «domesticità» per entro il quale è possibile affrontare anche le cose che non si sa ancora che cosa sono, si delinea logicamente il momento del mutamento percepito con i seguenti caratteri deliranti:

a.

b.

c.

d.

e.

Il mutamento ha un significato straordinariamente pregnante per chi lo esperisce, indica qualcosa che riguarda l’esperiente in modo diretto e radicale (tua res agitur) 13: il mutamento ha l’esperiente per centro. Il mutamento è percepito nel piú banale accadere quotidiano: il riflesso del sole sulla strada, alcune righe del giornale, delle sedie messe in fila, ecc. non sono piú il solito riflesso del sole, le solite righe a stampa in cui è scritto un giornale, le sedie messe in fila ecc., ma alludono-a, in modo oscuro, come per un alone semantico che le travaglia, escono dai loro limiti domestici e ovvi per farsi indici di un oltre indeterminato. E anche: le cose smarriscono la loro operabilità consueta, la loro memoria di condotte possibili per noi (il riflesso del sole sulla strada che indica i comportamenti del giorno luminoso, o delle giornate di buon tempo, o della calura fastidiosa, ecc.; le righe del giornale che vanno lette o saltate a seconda che la notizia ci interessa o meno; le sedie allineate che occorre evitare per non sbattervi contro, o che indicano una possibilità di sedersi, ecc.), e per il loro svuotarsi di questa loro operabilità quotidiana e ovvia prendono ad andar oltre in modo irrelato. Le cose sono troppo di semanticità. Il mutamento percepito nel piú banale accadere quotidiano, in quanto è perdita dell’oltre della ovvia operabilità delle cose, precisa la loro stranezza e Unheimlichkeit nel senso di un loro essere troppo poco (artificialità, teatralità, rigidezza mortale, meccanicità, inconsistenza, mollezza, perdita di quella resistenza – maneggevole e utilizzabile – che le rende operabili nell’orizzonte di possibili progetti operativi). Il mutamento percepito nell’accadere quotidiano complessivo, anche se trae spunto da un questo o quello estremamente ovvi e banali, tende ad assumere un significato cosmico, appunto perché non è in gioco il questo o il quello come tali ma il loro esser segni di un mutamento che investe tutto il percepibile mondano. «Entrai in un caffè e vi erano tre tavole bianche: mi parve che potessero significare la fine del mondo» (Mayer-Gross, Clinical Psychiatry, Cassel and Co., Londra 1958, p. 238) 14. Per il carattere catastrofico-cosmico del mutamento che investe i percepiti lungo tutto il fronte del percepibile si intende come acquistino rilievo elettivo di mutamento catastrofico i percepiti del giorno e della

notte, della terra e del cielo, del sole e del firmamento, cioè lo sfondo piú remoto della domesticità culturale (la regolarità della natura), lo sfondo per entro il quale si configurano le altre piú circoscritte domesticità (la strada, le case, la gente, la propria casa, le persone di famiglia, ecc.). La luce del giorno è sbiadita, il sole è pallido, non tramonta, le stelle precipitano dal cielo, la terra è piatta, l’aria che si respira diventa un gas irrespirabile, la vegetazione inaridisce, la pioggia è diluviale: tutto deborda dal suo ordine correndo verso la propria modalità distruttiva, incompatibile con l’esistere. f. Il troppo o il troppo poco dei percepiti lungo il fronte del percepibile fa sí che ogni percepito racchiude uno scandalo: è un irrelativo, un fuori posto, una vana ricerca di oltre nel vuoto di oltre domestico. Ogni percepito, per questa vana ricerca del suo oltre, è in tensione, il suo oscuro alone semantico è vissuto come attesa catastrofica, l’universo è un universo in tensione. Nella vana ricerca del suo oltre, ogni percepito può diventare qualsiasi cosa, è caoticamente onniallusivo: l’oltre di ogni percepito erra in cerca del suo orizzonte di percepibilità, e in questo errare si deforma nel mostruoso, si fa malignamente vivente di una vita carica di intenzioni ostili, di trame occulte, di insidie subdole, di intenzioni distruttive, in un continuo accennare al percipiente come centro cui è inesorabilmente rivolto il caotico messaggio del «finire» 15. g. Il troppo e il troppo poco dei percepiti lungo tutto il fronte del percepibile è – come si è detto – manifestazione della caduta dell’oltre: caduta che perde l’oltre domestico-culturale (onde ogni percepito è troppo poco, e malignamente debole) e chiede invano il suo oltre (onde ogni percepito è troppo, è malignamente forte). Ora la caduta dell’ethos del trascendere con le sue fedeltà e le sue iniziative culturali, col suo «sfondo» di domesticità sempre di nuovo assunta nel qui e nell’ora del decidere valorizzante, con la sua vivente intersoggettività del singolarissimo progettare, pone in rischio non solo il mondo, ma avvia all’annientamento lo stesso margine della presentificazione valorizzante: quel margine rispetto al quale un mondo è, e che costituisce l’essercinel-mondo. La catastrofe del mondo e la catastrofe dell’esserci in esso formano una sola catastrofe, che – in questa prospettiva – si manifesta innanzitutto come perdersi delle distanze rispetto all’oggetto, del restare «al di qua» come presentificazione intenzionante rispetto a un «al di là»

come oggetto intenzionato. In questo perdersi delle distanze il mondo è vissuto come troppo lontano o troppo prossimo rispetto alla presenza, perduto in una alterità radicale irraggiungibile o irrompente minacciosamente nella presenza stessa, e d’altra parte la presenza è avvertita o come staccata dal mondo, isolata, senza rapporto possibile, oppure defluente in esso senza potersi trattenere in una qualsiasi intimità. Si ripete qui, a proposito del rapporto presenza-mondo, l’antinomia troppo - troppo poco che vulnera tutto il fronte del possibile percepire intramondano, nel senso che la propria corporeità ora diventa barriera troppo rigida che separa dal mondo senza possibilità di comunicazione significante, e ora diventa una barriera troppo fragile caoticamente attraversata dal mondano, senza rispetto di una sfera intima mantenuta come tale. In altre parole: o il mondo si allontana lasciando una intimità vuota, privatissima, incomunicabile, raggelata, sprofondata in una solitudine miserabile, oppure irrompe non lasciando margine per le piú piccole possibilità di ripresa, di appropriazione, di scelta valorizzante. O ancora: la pubblicità dell’esserci-nel-mondo o si ritira tagliando i ponti dietro di sé oppure attenta la presenza nel suo ultimo frammento di intimo possedersi. h. Nell’ambito della percezione di sé o del «se stesso» la catastrofe dell’ethos del trascendimento 16 si manifesta nei sentimenti di depersonalizzazione, di perdita di intimità nel vissuto di pubblicità dei propri pensieri e moti d’animo, di spossessamento, di essere-agito-da (troppo poco) o nel vuoto proporzionare il se stesso all’ampiezza del rischio (forza magica, deliri di grandezza, ecc.) (troppo). i. Il troppo o troppo poco di semanticità che vulnera tutto il fronte del possibile percepire intramondano, il troppo o troppo poco di distanza del mondo rispetto alla presenza e della presenza rispetto al mondo, il troppo o troppo poco di semanticità della presenza e il carattere di insolubilità dell’antinomia che presiede a questa vicenda, si legano coerentemente alla sindrome di rifiuto del divenire e dell’operare (la sindrome catatonica), al paradosso del no che si contrappone a ogni sí, alla imitazione speculare, all’ecolalia, alle stereotipie. 1.4. La forza. Lévi-Strauss (nella sua introduzione che precede la raccolta di scritti di

Marcel Mauss, Sociologie et anthropologie, Puf, 1960, 2 a ed., 1 a 1950, pp. XLIX e L) accenna a una interpretazione del mana 17 e rappresentazioni piú o meno affini: «Nel suo sforzo per comprendere il mondo, l’uomo dispone sempre di una eccedenza di significazione (ch’esso ripartisce fra le cose secondo le leggi del pensiero simbolico che spetta agli etnologi e ai linguisti studiare). Questa distribuzione di una razione supplementare – se è lecito esprimersi cosí – è assolutamente necessaria affinché, nella somma totale, il significante disponibile e il significato reperito restino fra di loro nel rapporto di complementarità che è la condizione stessa dell’esercizio del pensiero simbolico. Noi riteniamo che le nozioni del tipo mana, per diverse che possano essere, ove siano considerate nella loro funzione piú generale (che... non scompare dalla nostra mentalità e nella nostra forma di società) rappresentano appunto questo significante ondeggiante, che è la servitú di ogni pensiero finito (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica ed estetica), per quanto la conoscenza scientifica sia capace, se non proprio di sopprimere, almeno di disciplinare parzialmente... In altri termini... noi scorgiamo nel mana, nel wakan, nell’orenda e altre nozioni dello stesso tipo, l’espressione cosciente di una funzione semantica, il cui ruolo è di consentire al pensiero di esercitarsi malgrado la contraddizione che gli è propria. Per questa via si spiegano le antinomie, in apparenza insolubili, connesse a tale nozione, e che hanno colpito gli etnografi e che Mauss ha messo in luce: forza e azione; qualità e stato; sostantivo, aggettivo e verbo; astratta e concreta; onnipresente e localizzata. In effetti il mana è tutte queste cose insieme, ma non forse perché non è nessuna di esse: semplice forma, o piú semplicemente simbolo allo stato puro, dunque capace di caricarsi di un qualsiasi significato simbolico? In quel sistema di simboli che costituisce ogni cosmologia, questa nozione sarebbe semplicemente un valore simbolico zero, cioè un segno che sottolinea la necessità di un contenuto simbolico supplementare oltre quello che carica già il significato; ma un segno che può essere un valore qualsiasi a condizione che continui a far parte della riserva disponibile, e non sia già, come dicono i fonologi, un termine di gruppo» 18. Questa semanticità ondeggiante che va oltre i singoli significati e che starebbe alla base delle nozioni di tipo mana, questo alone semantico del percepire al di là degli ambiti percepibili e denominabili resta tuttavia nella

interpretazione di Lévi-Strauss un semplice accertamento, o quanto meno l’analisi si ferma alla superficie. La semanticità ondeggiante, l’alone semantico, del percepito, trovano espressione nel mana; ma il mana, il wakan, l’orenda, ecc. fondano un orizzonte di possibili rappresentazioni che, per il suo carattere socializzato, interpersonale, culturalmente condizionato, aperto al valore, assolve la funzione di ripresa e di mutamento di segno rispetto all’universo in tensione della crisi. La semanticità ondeggiante del mana circoscrive un orizzonte che muta segno agli ambiti percettivi che rischiano di andar oltre il moto irrelato: l’alone semantico del mana indica il compito culturale di tramutare la crisi individuale, irrelata e incomunicabile, in una reintegrazione interpersonale e pubblica. Mediante il mana l’universo che «va oltre» viene accettato nel suo «oltre», ma questo «oltre» si dischiude a un ordine di rapporti che valga per tutti, prescrive le vie onde ristabilire l’esserci-nel-mondo. 1.5. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, pp. 235 sgg. […] Il mondo concreto dell’uomo è sempre un mondo storico (geschichtlich geworden), sta in una tradizione, sussiste in ogni tempo mediante la società e la comunità. Come l’uomo vive nel mondo e come il mondo stesso gli appare diverso è quindi da indagare in una prospettiva storico-sociologica. Vi è tutta una serie di forme che traggono la loro denominazione dalle predominanti attività dell’uomo: l’uomo vitale, l’uomo economico, l’uomo del potere, il professionista, l’operaio, il contadino, ecc. Il mondo obiettivo dello spazio, nel quale l’uomo cerca le sue vie dirette o indirette, è sempre il materiale col quale l’uomo costruisce il suo mondo. Non è compito della psicopatologia indagare questo, per quanto è essenziale per lo psicopatologo essere orientato in valutazioni del genere, ed essere informato in modo positivo sui modi concreti dai quali provengono i malati da lui osservati o di cui cerca di ricostruire la storia. Sussiste il problema se ci sono mutamenti psicopatologici del mondo, «mondi» che sono specifici delle psicosi e degli psicotici. Ovvero se tutti i mondi sono «abnormi», sono soltanto manifestazioni di particolari forme e contenuti che quanto alla loro natura sono universali, storiche, al di là del malato e del sano. Solo i modi della manifestazione, l’esclusivismo del loro predominio, la guisa con cui sono vissuti sono abnormi... Jaspers segnala l’interesse che ha lo studio di questi «mondi abnormi», e

precisamente la individuazione della loro struttura, che in modo unitario ci permette di comprendere comportamenti, azioni, modalità del sapere e opinioni che derivano da quei «mutamenti» del mondo. Tuttavia il problema genetico di tali mondi abnormi resta incompreso. Jaspers si rifà quindi al problema delle strutture dei mondi abnormi degli psicotici quale è stato delineato da von Gebsattel, E. Straus, von Bayer, L. Binswanger e Kunz. Per la parte genetico-costruttiva cfr. p. 453 19. «È d’uopo anzitutto distinguere la varietà storica dei mondi con le loro metamorfosi nel processo storico della vita spirituale e la molteplicità astorica del psicopatologicamente possibile. Serba sempre tutto il suo valore la proposizione hegeliana, ricordata da L. Binswanger, secondo cui “la individualità è ciò che è il suo mondo”. Ma questa concretezza può essere ricercata o in senso storico-spirituale o in senso psicologico-psicopatologico. La quistione se e quando immagini del mondo in sé astoricamente psicopatologiche sono diventate di rilievo in senso storico-spirituale, è un oggetto di ricerca storica per il quale non è stato sino ad ora possibile ottenere risposte univoche...» «Quando è abnorme un “mondo”?» Al mondo normale appartiene la obiettività di un che di obbligante, di un qualcosa di comune in cui ci si imbatte; inoltre il mondo normale è tale da riempire e soddisfare, è dotato di crescita, promuove lo sviluppo della vita. Possiamo invece chiamare abnorme un mondo nel quale in primo luogo la ragione del suo sorgere è un modo del divenire empiricamente conosciuto (per esempio il processo schizofrenico), anche se in questo mondo hanno luogo positive produzioni; in secondo luogo quando tale mondo separa invece di unire gli uomini; in terzo luogo quando tale mondo opera progressivamente nel senso del restringersi, atrofizzarsi, non nel senso dell’allargarsi e del crescere; in quarto luogo quando il mondo «va perduto», quando scompare il sentimento «del garantito possesso di beni spirituali o materiali, il sentimento cioè che fornisce il saldo terreno su cui può appoggiarsi, mettendovi radici, l’impulso allo sviluppo delle sue forze e alla gioia nel loro godimento» (Ideler, p. 236 20). Perché nelle schizofrenie iniziali cosí spesso – se anche in nessun modo nella maggioranza dei casi – si ha il processo di una rivelazione a carattere cosmico, religioso, metafisico? È un fatto straordinariamente significativo: questo sublime comprendere, questa musica di pianoforte che sconvolge e che mai era tenuta per possibile, questo impulso creativo (in van Gogh e in

Hölderlin 21), queste esperienze specifiche di crollo e di creazione del mondo, queste rivelazioni spirituali, e questo quotidiano serio affaticarsi nelle fasi di trapasso tra sanità e malattia. In nessun modo ciò è da comprendere partendo dal carattere della psicosi che getta colui che ne è colpito fuori del suo mondo ordinario come se un radicale evento distruttivo dell’individuo sia da questo simbolicamente oggettivato. Se si parla di un sommovimento della esistenza, dell’anima, si tratta ancora di un paragone. La intuizione del nuovo mondo che sorge nella fattispecie è tutto ciò che noi fin qui raggiungiamo.

2. Occorre partire dall’ethos del trascendimento. 2.1. Osservazioni. Nella prospettiva storico-culturale del tema della fine del mondo e dell’escaton come salvezza occorre analizzare innanzitutto il finire o crollare come rischio psicopatologico. Il documento psicopatologico della fine e del crollo ritiene unicamente il valore metodologico di mettere a nudo tale rischio nella sua forma estrema ed esasperata, di guisa che meglio risaltino per forza di contrasto e per opposizione polare quelle reintegrazioni culturali, quei simboli variamente religiosi, che hanno combattuto questo rischio e che sia pure in modi estremamente mediati hanno ridischiuso il mondo significante e operabile. Dice Ey: «Il miracolo della vita psichica è precisamente che portando in noi, al fondo di noi stessi, immanente alla nostra natura la follia, noi non ci abbandoniamo a essa» (p. 263, n. 31 elenco 22). E dice anche: «Tra il fisico e il morale c’è la vita» (p. 74); «Lo psichismo... avviluppa e contiene l’organismo da cui emana e che oltrepassa» (p. 75); «Occorre vedere nell’organismo in quanto forma della esistenza non soltanto una architettura ma un divenire, un movimento che ci fa passare dall’ordine della vitalità a quello dell’umanità» (p. 157). Altrove fa appello al concetto di tensione psicologica del Janet (pp. 179 sgg.) e definisce la psichiatria come patologia della libertà (p. 77). Ora questa tensione, questo psichismo che oltrepassa l’organico, questo movimento che dalla vitalità va all’umanità, questa forza che può venir meno (la force et la faiblesse psychologiques di Janet) non è la vita, l’élan vital, come parrebbe dedursi da alcuni passi dell’autore (tra il fisico e il morale c’è la vita, ecc.), ma l’ethos del trascendimento, il compito primordiale e inderivabile che appunto fa passare dall’ordine della vitalità a

quello dell’umanità cioè della valorizzazione intersoggettiva della vita. La vita come tale è incapace di prender distanza da se stessa oltrepassandosi nella cultura: l’energia oltrepassante che fonda l’umanità è quindi in un élan moral primordiale, senza il quale la stessa base vitale, i singoli in quanto corpi, non potrebbero sussistere indenni come singoli corpi umani. La caduta di questo slancio – quali che siano gli eventi somatici ereditari o acquisiti che possono entrare nel condizionamento quando si consideri tale caduta in una prospettiva medico-operativa – è quella patologia della libertà di cui parla Ey, cioè il recedere della potenza del trascendimento su tutto il fronte del valorizzabile, la catastrofe dello slancio valorizzatore. Gli stati psicopatologici come movimento di dissoluzione delle funzioni esistenti e come liberazione delle istanze soggiacenti (p. 161), la concezione di una «forza» o di un sistema di forze organizzatesi nel tempo che, flettendosi, comportano le varie forme di regressioni mentali (p. 170), ecc. non hanno che un apparente significato interpretativo se non si parte dall’ethos del trascendimento, da una analisi della valorizzazione intersoggettiva come costitutiva della umanità, e da un apprezzamento storico-culturale dei dominanti livelli di valorizzazione e dei corrispondenti rischi di regressione, di flessione, di caduta. Qui si manifesta l’istanza positiva rappresentata dal relativismo culturale e dalla etnopsichiatria proprio come raccomandazione di giudicare integrazione e disintegrazione nell’interno di una cultura, e non in base a un modello astratto della «natura umana» ricavato dalla civiltà occidentale contemporanea e fatto valere dogmaticamente per tutte le possibili culture. Il pericolo del concetto di struttura è che il fanciullo parigino o melanesiano o dell’antica Grecia, il primitivo adulto, il nevrotico e lo psicotico della borghesia viennese e la contadina analfabeta del Mezzogiorno d’Italia, e ancora – da Moreau a Ey – il sogno e la malattia mentale (e ancora il sognare dell’europeo colto contemporaneo e il sognare dell’Aranda australiano, ecc.) sono sottratti dal loro contesto storico-culturale, e accomunati e confusi in un’unica struttura che ci fa perdere il senso esatto dei rispettivi vissuti, il loro carattere dinamico-integratore o regressivo-morboso. Integrazione e regresso: ma rispetto a che? Per misurare l’una e l’altro occorre sia una concezione di ciò che di permanente appartiene all’uomo e alla sua potenza culturale in tutte le epoche e in tutti i luoghi, sia una valutazione delle concrete soluzioni culturali che hanno avuto luogo nella

storia umana: occorre cioè una filosofia storica della cultura. 2.2. Secondo Ey, p. 170 23, la melancolia (come la mania) costituisce un primo grado di dissoluzione della coscienza in quanto dramma della coscienza morale. Nella mia prospettiva la melancolia si determina innanzitutto come colpa mostruosa, radicale, immotivata, estendentesi lungo tutto il fronte dell’operabile, e che per questo suo estendersi converte l’operabile in inoperabile. Il problema è tuttavia questo: di che, senza saperlo, il melancolico porta colpa? L’unica risposta soddisfacente è: il melancolico porta colpa non già di questo o di quello (le motivazioni deliranti che affiorano alla coscienza sono secondarie), ma di vivere il crollo dell’ethos del trascendimento, di essere in questo crollo, di essere trascinato dal mutamento di segno del doverci essere nel mondo, di non potersi mai porre, in nessun momento del vivere, come centro di decisione e di scelta secondo valori intersoggettivi. Proprio perché il doverci-essere-nel-mondo secondo tali valori fonda sia l’esserci che il mondo, il rischio di non poterci essere in nessun mondo possibile (cioè in nessun mondo che valga) fonda la colpa radicale, necessariamente immotivata perché consiste nel non potersi dare motivazioni dischiudenti valori. Ciò significa che la coscienza melancolica è intrinsecamente destinata a non trovare che motivi fittizi della propria melancolia, proprio perché essa è, nel suo intrinseco, perdita della motivazione su tutto il fronte del motivabile: essa porta colpa di questa perdita, è questo perdersi in quanto pura colpa che coincide con la vita, che è il crollare dell’ethos del trascendimento che si dispera del proprio crollare e del non poter mai arrestare la catastrofe con il puntello di una sola motivazione autentica. Come nella melancolia si vive il crollo dell’ethos del trascendimento come colpa mostruosa e immotivata della non motivazione morale su tutto il fronte del moralmente motivabile, nei vissuti di derealizzazione sino a quelli di fine del mondo quel crollo si manifesta come catastrofe degli enti intramondani cioè come disintegrazione del progetto comunitario dell’utilizzabile. Occorre valutare mania e melancolia nel quadro della catastrofe del doverci essere, e la schizofrenia in quello della catastrofe del mondo. L’essere-agito-da e la radicale estraneità (la Unheimlichkeit, il GanzAndere 24) di ciò da cui si è agiti costituiscono i due momenti fondamentali del vissuto di alienazione. Questo vissuto riflette il crollo dell’ethos del

trascendimento valorizzante: un crollo che ha luogo su tutto il fronte del valorizzabile e che coinvolge anche quella valorizzazione inaugurale che è il progetto comunitario dell’utilizzabile (gli enti intramondani, la loro ovvia mondanità, il proprio corpo, il dispiegamento della vita psichica nei suoi affetti, volizioni, pensieri). I vissuti di derealizzazione e di depersonalizzazione germinano su questo terreno. Ma su questo terreno germinano altresí tutti gli altri vissuti morbosi: la colpa radicale di questo crollare dell’ethos e, polarmente contrapposto, il trascendimento vuoto, il secondamento della totale permissività scatenata da questo svuotarsi del trascendere: il sentirsi oggetto di complotti, macchinazioni, affatturamenti e simili, ovvero il porsi al riparo da insidie del genere mediante l’ingigantimento fittizio della persona secondo un modello di grandezza assoluta e definitiva oppure mediante il conato di sottrarsi radicalmente alla storicità del divenire e alle scelte che tale storicità comporta; ecc. 2.3. Ethos del trascendimento = doverci-essere-nel-mondo. Che il Dasein sia in-der-Welt-sein è il tema fondamentale dell’esistenzialismo heideggeriano. Ma l’esserci come esser-nel-mondo rimanda alla vera condizione trascendentale del doverci essere. Intanto è pensabile la presenza, in quanto si dispiega l’energia presentificante, l’emergere valorizzante della immediatezza della vita: il che significa che proprio questa energia, questo «oltre» costituisce la vera condizione trascendentale dell’esistenza. La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere, secondo modi distinti di progettazione e di intersoggettività. L’uomo è sempre dentro l’esigenza del trascendere, e nei modi distinti di questo trascendere, e solo per entro l’oltrepassare valorizzante l’esistenza umana si costituisce e si trova come presenza al mondo, esperisce situazioni e compiti, fonda l’ordine culturale, ne partecipa e lo modifica. All’uomo non è dato mai trascendere questa stessa energia del trascendimento, che opera in lui ne sia o non ne sia cosciente, la riconosca come tale oppur no: l’uomo non può che esercitarla ridischiudendosi sempre di nuovo al suo imperativo o patire variamente la sua crisi, sino al limite di quell’annientamento che, per l’individuo, sono la follia e la morte, e per le comunità la decadenza o il crollo della loro visione della operabilità del mondo. Ma sia che questa energia apra faticosamente il varco al suo slancio, sia che ricada su se stessa, questo suo dispiegarsi e questo rischio di caduta hanno luogo sempre dentro

di essa, fanno parte della sua interna dialettica, senza che mai possa saltare sopra se stessa e pervenire alla «natura» in sé anteriore a ogni valorizzazione umana – o al «puro spirito» secondo un trascendimento ultimo e definitivo. Questa non trascendibile energia del trascendimento valorizzante intersoggettivo è, per eccellenza, trascendentale, cioè condizione ultima e inderivabile della pensabilità e della operabilità dell’esistere: in quanto chiama sempre di nuovo ad andar oltre la immediatezza del vivere, non è élan vital, ma ethos tanto poco riducibile al dato biologico che il condizionamento biologico si fa percepibile dentro non fuori e prima, il suo dispiegarsi; d’altra parte non si esaurisce affatto nei mores storico-culturali, nei costumi, nelle singole «morali», in questa o quella etica, ma mores, costumi, singole morali, singole etiche procedono dal modo e dai limiti dentro i quali l’ethos si fa consapevole di sé e si esercita nelle morali storiche. Linguaggio, vita politica, vita morale, arte e scienza, filosofia, simbolismo mitico-rituale della vita religiosa, procedono da questo ethos: la antropologia non è che la presa di coscienza sistematica di questo ethos, la determinazione dei distinti modi del suo manifestarsi storico, la individuazione, nell’oltre del trascendere, delle coerenze che presiedono ai singoli modi dell’oltre, dell’ordine e della relazionalità dei modi fra di loro, di ciò che appartiene alla struttura universale dell’esistenza e di ciò che invece si riferisce solo a singole formazioni storico-culturali transeunti. [...] Domesticità dello sfondo, orizzonte di operabilità domesticatrice, emergenza presentificante della valorizzazione attuale iterantesi sempre di nuovo senza tuttavia esaurire mai la totalità ideale dell’essere, questi tre momenti costituiscono l’articolarsi concreto dell’ethos del trascendimento della vita. L’emergenza presentificante ha luogo nella domesticità di uno sfondo, cioè nell’assunzione di una datità ovvia, mantenuta nell’anonimato, e tuttavia senza problematicità attuale proprio perché concrezione di passati o remotissimi trascendimenti che «una volta» furono presentificazioni nella storia del singolo come in quella della umanità. In tale sfondo di presentificazione e domesticazioni culturali avvenute una volta e che ora stanno come datità ovvia, anonima, disindividuata, la presentificazione attuale secondo valore si fa margine e si dà concreto orizzonte di domesticazione operativa qualificata: emerge, cioè, secondo orientamenti di volta in volta egemonici, secondo questo o quel telos. Ora questo immenso

«affidarsi a» per «raccogliersi in» si inaugura sempre di nuovo col progetto comunitario dell’utilizzabile, in cui la stessa vita «bisognosa di...» sta come ordine umano che produce vita e bisogni e mezzi per la soddisfazione dei bisogni, e in cui la fedeltà alle domesticazioni utilizzanti già una volta avvenute fa da sfondo condizionante al concentrarsi in una certo ben determinata utilizzazione attuale, nella varia gradualità della «applicazione» piú o meno meccanica e abitudinaria, dell’adattamento di tradizioni tecniche operative, della innovazione, della invenzione, ecc.

3. Sociologia, psichiatria culturale, etnopsichiatria. 3.1. Sociologia e storia delle psicosi e delle psicopatie. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, 1953, pp. 594 sgg.: Die Abnorme Seele in Gesellschaft und Geschichte (Sociologie und Historie der Psychosen und Psychopathien). Mentre la medicina somatica si occupa dell’uomo come ente naturale, e quindi del corpo umano in quanto corpo animale, la psicopatologia deve fare i conti con il fatto che l’uomo, oltre a essere un ente naturale è anche un ente culturalmente condizionato. Senza dubbio la vita dell’uomo in quanto ente naturale eredita le sue disposizioni corporee e psichiche, ma in quanto vita piú propriamente culturale non l’eredità ma la tradizione trasmessa dalla società caratterizza la vita umana. Jaspers tuttavia osserva che la distinzione fra eredità naturale e tradizione culturale non è cosí netta come talora si suppone. In primo luogo è da osservare che la tradizione si trasmette non soltanto attraverso il linguaggio, ma tutto ha per cosí dire un linguaggio e trasmette messaggi culturali, gli strumenti che adoperiamo, la dimora, i modi di lavoro, il paesaggio, le forme di relazione sociale, i gesti, gli atteggiamenti e i comportamenti, gli usi e le costumanze, le mode, le etichette cerimoniali, ecc. Jaspers ricorda inoltre le polemiche a proposito dell’incosciente collettivo junghiano come riserva di miti e di simboli comuni al genere umano e affioranti dall’inconscio nel sogno, nelle psicosi, nelle credenze magiche e religiose. Resta estremamente ambiguo il carattere storico o biologico di questo fenomeno: se l’incosciente collettivo è un fatto storico – infatti il contenuto dei simboli ha un senso storico, rinvia a una origine umana storico-culturale – nasce la difficoltà della ereditarietà biologica dei

caratteri culturalmente e storicamente acquisiti; se invece si considera l’inconscio collettivo come fatto biologico, allora nel fissare questo patrimonio astorico e genericamente umano occorrerebbe prescindere dalla storia culturale umana: ma questo è impossibile, anche se l’operazione sembra riuscire mediante l’espediente di considerare come originario, come immagine-limite, come non nato dalla storia ciò che in realtà, in quanto ha un contenuto simbolico significante, sarà pur nato in un certo condizionamento storico-culturale. Se infine si considera l’incosciente collettivo come un nome per le necessità materiali dell’uomo, le quali in piú punti della terra possono aver dato luogo, indipendentemente da ogni trasmissione, a identiche invenzioni, strumenti, pensieri, ecc. la discussione è affidata alla polemica di ciò che apparterrebbe agli Elementargedanken e di ciò che invece è dovuto alla diffusione storica, e in ultima istanza alla polemica sulla monogenesi o sulla poligenesi della vita culturale umana sulla terra. Tuttavia, secondo Jaspers, anche se in pratica i limiti fra eredità e tradizione non sono cosí facilmente tracciabili come lo sono concettualmente, vi è una duplice influenza che l’uomo subisce, quella della eredità biologica e quella della tradizione culturale. L’ereditario si impianta nell’uomo non diversamente che nell’animale, incoscientemente e secondo necessità causale, restando talora inoperoso in mancanza di stimoli ambientali corrispondenti, ma rendendosi di nuovo visibile dopo molte generazioni quando l’ambiente lo porta in funzione (il rapporto ereditario non viene «dimenticato»). Il fondato storicamente ha invece bisogno della tradizione, di una qualsiasi appropriazione da parte della coscienza, non è universalmente umano ma solo storicamente condizionato, e quando è dimenticato e non è ricordabile attraverso tracce documentarie si trasforma ovvero è semplicemente perduto. Osservazioni su eredità e tradizione. L’uomo è distacco, dalla immediatezza del vivere, questo distaccarsi è trascendimento valorizzante e questo trascendere non è a sua volta trascendibile verso la mera naturalità del vivere (l’astratta natura senza l’umano) o verso lo Spirito ormai tutto realizzato (l’astratto essere ormai sottratto al compito di andar oltre). Ciò significa che la condizione umana è sempre nell’oltrepassare la vita nel valore, e che una di queste valorizzazioni – la prima, inaugurale valorizzazione – è quella della progettazione comunitaria dell’utilizzabile, per entro la quale si costruiscono un interno rispetto a un esterno, il proprio corpo rispetto agli altri corpi, la serie delle

resistenze e delle abilità, la esistenza singola nel quadro di un mondo comunitario, un ordine istituzionale nella produzione di beni materiali (l’ordine economico) e nella codificazione del rapporto comunitario (l’ordine sociale), e infine di una scienza della utilizzazione fondata sul principio pratico della osservazione e dell’esperimento e sul come-se della legalità assoluta della natura. In questa prospettiva l’ereditarietà è un concetto operativo pratico che accenna al momento del condizionamento naturale mentre la tradizione è un concetto operativo che accenna al condizionamento sociale e culturale e al margine di libertà, di iniziativa, di scelta, di «trascendimento» valorizzante che il tradizionale lascia al singolo. La tradizione come tutta la vita dell’uomo ha luogo nella comunità: il singolo trova la sua realizzazione, il suo appoggio, il suo senso e il suo compito attraverso la comunità in cui vive. Le sue tensioni con la comunità sono una delle cause comprensibili delle sue alterazioni psichiche. In ogni momento la comunità è per l’uomo efficacemente presente. Se la comunità si fa cosciente, razionalizzata, organizzata e plasmata si parla allora di società (p. 595). Società e cultura modellano sia la disposizione alla morbilità psichica, come anche la modalità delle singole psichi. La anamnesi sociale e culturale è ovviamente indispensabile. La ricerca dei fenomeni psicopatologici nella società e nella storia, l’analisi della importanza della anormalità psichica per la società, per i fenomeni storici di massa, per la storia della cultura, per singole personalità storiche di rilievo, ecc. Questa ricerca ha un significato per la realistica comprensione della umanità nel suo complesso, ma anche per la psicopatologia in quanto indica l’importanza delle condizioni sociali, del ciclo culturale, delle situazioni per il tipo e la insorgenza della vita psichica abnorme. L’orizzonte «storico-sociologico» (p. 597). Quanto ai metodi di tale ricerca, oltre ai metodi critici del materiale storico, vengono in considerazione i metodi comparativi di popoli, forme culturali, gruppi di popolazione. Importanza della statistica (ibid.). La ripartizione dei disordini psichici secondo: regioni, popoli, culture; classi sociali; sesso, età; città e campagna; famiglia; confessioni religiose (sette); professioni e mestieri; situazioni di contatto culturale (situazione coloniale, immigrazione, ecc.); situazioni collettive di crisi (guerre, epidemie, rivoluzioni, carestie). Le condizioni psichiche abnormi mutano secondo il modo di concepire la

vita dello spirito. Vi è grande differenza se io ritengo la mia passionalità come sottoposta alle passiones animae naturali o se interpreto il mio fare e il mio sentire come male e peccato, o se credo di essere esposto all’azione di dèi e demoni, di esserne posseduto, o se credo che altri uomini mi possono recare danno magicamente, affatturarmi, ecc. D’altra parte il significato attribuito al proprio operare culturale influisce sul modo col quale si padroneggiano i disturbi psichici, se cioè questi disturbi sono padroneggiati mediante pratiche penitenziali, autoeducazione filosofica, culturale, preghiera, iniziazione a riti di mistero, ecc. (pp. 609 sgg.). [...] Confronto fra stati psicotici attuali e mentalità arcaica o primitiva o mitica, ecc. (pp. 618 sgg.): «Il pensiero arcaico corrispondente alla condizione primitiva della coscienza è qualche cosa di essenzialmente diverso dalla malattia psichica. È il risultato di uno sviluppo collettivo e serve agli effettivi bisogni della comunità, mentre il pensiero schizofrenico dell’uomo isola e separa rispetto alla comunità. Il pensiero simbolico dei primitivi ha luogo per entro un comune orientamento spirituale che si è sviluppato solo scarsamente in senso razionale, quello dello schizofrenico ha luogo a onta delle sue attuali possibilità razionali sviluppatesi secondo la civiltà cui appartiene. Il confronto fra i tratti analoghi del pensiero schizofrenico e quello primitivo diventerebbe fruttuoso solo se si potesse scorgere e indicare ciò che è specifico non soltanto delle due condizioni, ma di ciò che caratterizza ogni atto del pensiero simbolico e il contenuto dei simboli: si riconoscerebbe allora non soltanto la eterogeneità della condizione di coscienza dello schizofrenico, del primitivo, del sognante (il che è già chiaro di per sé), ma la diversità dei contenuti e degli atti della vita psichica. A questo riguardo però non si è fatto nulla. La semplice enumerazione delle affinità diventa, dopo un senso iniziale di meraviglia, presto noiosa, tanto piú che si avverte in ogni particolarità contemporaneamente il dissimile» (p. 620). Quistioni: – I vissuti schizofrenici sono stati fonte di primitive concezioni e rappresentazioni? Non è possibile rispondere alla domanda. – Come è il pensiero dei primitivi paragonato a quello schizofrenico? Evidentemente sano, esso non ha il carattere dei vissuti primari schizofrenici, o dei processi psichici schizofrenici.

– Che cosa significa «riemergenza» di immagini, miti simboli, possibilità e forse sepolti e andati perduti nello sviluppo della civiltà? Problema di assai dubbia impostazione secondo Jaspers (ibid.). – Il psicopatologico nelle diverse culture (ibid.). 3.2. La psichiatria culturale studia i disordini mentali in rapporto al loro condizionamento socio-culturale: cioè in rapporto alla stratificazione sociale, alla occupazione, al gruppo etnico, a particolari comunità, all’influenza positiva o negativa dell’ambiente ospedaliero nei processi terapeutici. Incidentalmente, nell’ambito di questi studi, si è venuto delineando il problema del rapporto fra disordini mentali e simbolismo mitico-rituale, non già nel senso banale del resto comunemente ammesso dalla psichiatria classica – che determinati disordini psichici possono variamente combinarsi con interpretazioni magico-religiose e con ideologie mistiche – ma nel senso che al simbolismo mitico-rituale spetta in particolari condizionamenti culturali una reale funzione catartica, riequilibratrice, reintegratrice e in ultima istanza terapeutica. Mentre dunque nella psichiatria classica la vita religiosa interessava soltanto nella misura in cui determinati simbolismi mitico-rituali potevano acquistare un significato psicopatologico e valevano a caratterizzare determinati comportamenti abnormi piú o meno riducibili ai quadri nosologici di una psichiatria europeocentrica, nella psichiatria culturale ha cominciato a farsi valere l’esigenza di stabilire in quali condizioni ed entro quali limiti e soprattutto attraverso quali dinamiche, i dispositivi mitico-rituali operano in funzione normalizzatrice nel quadro di particolari culture o subculture. In questa nuova prospettiva prende rilievo tutta una serie di problemi che nella psichiatria classica erano del tutto inesistenti. In primo luogo viene rimesso in causa lo stesso concetto di normale e anormale, di ordine e disordine psichico, poiché se è vero che determinate malattie psichiche sono universalmente tali è anche vero che vi è un diverso modellamento culturale dell’anormale e che i quadri di una psichiatria europeocentrica non sono puntualmente applicabili a tutte le culture dell’ecumene; in secondo luogo si è reso sempre piú evidente il fatto che, in determinate culture extraeuropee o in alcune subculture europee, l’europeocentrismo psichiatrico rischiava di confondere nel giudizio di «anormalità» ciò che in realtà racchiudeva una dinamica dalla crisi alla reintegrazione, dall’anormale alla normalizzazione, dal disordine all’ordine, sia pure in termini di relativismo culturale. In tal modo la psichiatria culturale

ha inaugurato una revisione delle classificazioni nosografiche, un allargamento dei criteri diagnostici e un piú equo apprezzamento di efficacie terapeutiche che la psichiatria classica tendeva a negare, o almeno a trascurare, accumunandole nelle categorie di «medicina popolare», «superstizione», e simili. Ma soprattutto la psichiatria culturale ha avvertito la necessità di riproporsi – con l’aiuto dell’antropologo, dello storico della cultura e in genere dello studioso di scienze sociali – il problema della genesi, della struttura e del funzionamento del simbolismo mitico-rituale, cosí come antropologi, storici della cultura, studiosi di scienze sociali si sono resi conto di non potersi limitare, per lo studio della vita religiosa, al piano della normalità, poiché in realtà la vita religiosa assolve una funzione di «normalizzazione», e ciò comporta l’analisi dell’anormale di cui essa rappresenta appunto «un dispositivo di normalizzazione» 25. Il «disordine» psichico è caratterizzato da una dinamica disintegrativa rispetto a qualsiasi ordine culturale, a qualsiasi sistema di valori intersoggettivi. Ogni cultura è chiamata a risolvere intersoggettivamente il problema del distacco dalla natura, della protezione della vita cosciente, del dispiegamento di forme di coerenza culturale che stiano come regole di tale distacco e di tale protezione, e infine ogni cultura è tale nella misura in cui assicura la possibilità di iniziative, innovazioni, riadattamenti o riplasmazioni da parte di singoli individui piú dotati di altri. D’altra parte ogni cultura è minacciata costantemente sia nel suo complesso come in ciascuno degli individui che ne partecipano e in ogni momento dell’arco biografico di ciascun individuo, dal rischio di invertire questa dinamica, rendendosi incapace del distacco della natura, della protezione della vita cosciente, del dispiegamento delle forme di coerenza culturale, e, in ultima analisi, di una esperta intersoggettività del suo procedere nel tempo. La lotta tra questo compito e questa minaccia è appunto la cultura: quando la minaccia si isola, rompe il suo nesso dialettico col compito, e presenta il segno della negazione della cultura, si ha il «disordine» psichico. Ciò comporta: 1) che per valutare come disordinato o abnorme un comportamento occorre incompatibilità con qualsiasi cultura; 2) che tale accertamento non può prescindere dalla conoscenza dell’ambiente socioculturale in cui ha luogo il comportamento in quistione, cosí come non può prescindere dal giudizio del caso singolo in senso dinamico; 3) che non è possibile staccare il problema «diagnostico» dal problema della efficacia

reintegratrice del simbolismo mitico-rituale, cioè dal problema del condizionamento, dei limiti e del modus operandi di tale efficacia. 3.3. Esigenze. Occorre stringere in organica unità e dare discorso comune alle esigenze che recentemente si sono venute esprimendo in movimenti culturali diversi della nostra epoca di crisi: in primo luogo occorre seguire il filone esistenzialista Husserl-Heidegger-Binswanger, nel quale il concetto di «presenza» come «esserci-nel-mondo» si apre al concetto di «crisi della presenza» e al rischio di «non-esserci-in-nessun-mondo-possibile». In secondo luogo è da tener presente il problema del metodo per liberarsi dagli etnocentrismi occidentali nel giudizio che la scienza occidentale dà delle culture non occidentali, problema che affiora nella antropologia culturale, e che nella etnopsichiatria (o psichiatria comparata, o studio cross-culturally delle malattie mentali) acquista particolare rilievo per la distinzione fra anormale e normale psichico, o per la determinazione di un criterio antropologico del «rischio» psichico in qualsiasi cultura umana, e per le forme culturalmente condizionate che questo rischio assume nella storia culturale umana 26. In terzo luogo sono da porre in evidenza i temi della storia individuale messi in luce dalla psicoanalisi, quelli del condizionamento sociale e culturale di tale storia su cui insistono i culturalisti americani; in quarto luogo sono da utilizzare le ricerche sul mito, sul simbolo (con una valutazione dei limiti e delle esigenze espresse nello junghismo), sul rito, sul sacro, ecc., e infine occorre dare vigore, svolgimento e unità a tutti questi temi facendo appello a un rinnovamento della tradizione storicistica, e liberandola dai residui teologici del «piano» della storia universale. 3.4. Normale e anormale. Il giudizio di normalità o anormalità psichica è un giudizio storico. Infatti la norma o la deviazione della norma, il contatto con la realtà o la perdita di questo contatto, comportano in chi giudica una valutazione della storia dell’individuo, una conoscenza del mondo sociale e culturale in cui è inserito. Solo cosí è possibile penetrare il comportamento vissuto, la qualità dell’Erleben. Senza dubbio vi è un fondamentale criterio di giudizio, e cioè la decisione se, nel caso specifico, la presenza si muove dal rischio di crisi verso la reintegrazione nel livello di cultura che gli appartiene, e nei valori che hanno corso in questo livello (nel qual caso il comportamento è normale), o se al contrario il movimento ha il segno mutato, cioè si muove verso la crisi

della presenza, perdendo via via contatto con la propria storia individuale e di gruppo, con i valori (con la realtà) della propria società e della propria cultura. Ma per decidere di questo «segno» del movimento – se cioè si tratta di regressione o di progresso del trascendimento, di distacco dalla realtà culturale o di riscatto in questa realtà, di assolutizzazione del privato o di risoluzione del privato nella universalità dei valori comunicabili – occorre appropriarsi della storia culturale della persona sotto giudizio, e giudicare per entro questa storia la normalità o anormalità del singolo comportamento. Nella psichiatria europea tutto ciò ha luogo in modo implicito, perché in un modo o nell’altro noi sappiamo già, o crediamo di sapere, quali sono i caratteri della nostra cultura: ma senza contare che anche nella psichiatria europea il giudizio può diventare molto piú preciso quando quel sapere implicito viene sottoposto a verifica metodica, nella etnopsichiatria la mancata esplicitazione della conoscenza storica ha portato a una serie di gravi valutazioni erronee, come quando per esempio, è stato ridotto lo sciamanismo a isteria artica 27. 3.5. Tipi di problemi da tenere ben distinti: – Rapporti sulle credenze mediche non occidentali, e particolarmente primitive, con particolare riferimento alle credenze relative ai disturbi mentali. – Studi sulle malattie mentali presso popolazioni non occidentali, sui modellamenti culturali delle malattie mentali, ecc. – Studi sul rapporto malattia terapia - reintegrazione culturale mediante il simbolismo magico-religioso. 3.6. Non si tratta di «spiegare il sano con il malato»: un tentativo del genere sarebbe già malattia. Si tratta piuttosto di comprendere il sano nella sua concretezza, cioè nel suo farsi sano oltre il rischio dell’ammalarsi: in questa prospettiva acquista un valore euristico notevole la utilizzazione dei vissuti psicopatologici, che mettono a nudo il momento del rischio con evidenza particolare, in quanto nell’ammalarsi psichico ciò che nel sano sta come rischio di continuo oltrepassato si tramuta in un accadere psichico caratterizzato dal non poter oltrepassare tale rischio, e da infruttuosi conati di difesa e di reintegrazione. Tanto piú i vissuti psicopatologici acquistano valore euristico in quanto quel concreto dinamico farsi sempre di nuovo sano che caratterizza la sanità costituisce il momento piú coperto per la coscienza culturale immediatamente impegnata nel suo farsi sana: con la conseguenza

di fingersi una sanità astratta e di lasciar da parte una altrettanto astratta malattia, che interesserebbe unicamente i pazzi e i loro medici specializzati, gli psichiatri. Doppia menzogna, che introduce nella antropologia una serie di equivoci, di deformazioni e di interpretazioni errate: senza contare che tutta una serie di prodotti culturali nei quali il farsi sano appare particolarmente in rapporto col rischio di ammalarsi vengono o leggermente ridotti a manifestazioni morbose, o pericolosamente sottratti alla presa di coscienza dei momenti morbosi e di quelli sani che combattono con vario esito in essi. Cosí un tempo si tendeva a valutare gli stati mistici, le possessioni, certi aspetti della magia, in una prospettiva essenzialmente patologica (superficiale o specializzata: dal declamatorio tanto potuit religio suadere malorum 28 alle varie diagnosi di isteria dei mistici, ecc.). E d’altra parte in tutto un filone, che sembra ingrossarsi sempre piú, della vita culturale e del costume del mondo contemporaneo – la politica, la letteratura, le arti figurative, il teatro, la filosofia – i momenti morbosi non sono consaputi chiaramente come tali, mancando qualsiasi criterio per l’analisi, onde molto di morboso passa per sano e molto di sano per morboso. [...] Tuttavia la comprensione dei vissuti psicopatologici non significa qui minimamente affrontare i problemi diagnostici, eziologici e terapeutici della psichiatria. Tali problemi sono lasciati impregiudicati anche se la prospettiva filosofica e storico-culturale adottata a proposito del tema della fine del mondo non si occupa di malati da curare, ma di particolari orientamenti della cultura contemporanea i quali, anche se palesano un nesso con il patologico, sono ben lontani dal poter essere ridotti a esso. La psichiatria parte dal modello del sano per poter curare il malato: la presente ricerca si muove nell’ambito della vita culturale, e utilizza il morboso per rischiarare lo stesso processo del «farsi sano» che caratterizza la cultura, almeno sin quando essa riesce a funzionare. [...] 3.7. La fine dell’ordine mondano esistente può essere considerato come tema culturale nel quadro di determinate figurazioni mitiche che vi fanno espresso riferimento, per esempio come tema delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo nel quadro del mito dell’eterno ritorno o come tema della catastrofe terminale nel quadro dell’unilineare e irreversibile corso escatologico della storia umana. In quanto tema culturale esplicito la fine

dell’ordine mondano esistente è da considerare come un prodotto storico di varia diffusione e rilievo, e di diverso significato: un prodotto storico che la ricerca sulle apocalissi culturali ha il compito di analizzare di volta in volta nella concretezza di singole società e di particolari epoche. Ma prima ancora di affrontare qualsiasi ricerca sulle apocalissi culturali occorre in via preliminare valutare la fine dell’ordine mondano esistente nel suo significato universale di rischio antropologico permanente, cioè come rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile. Questo secondo significato della «fine» deve però ora essere giustificato e chiarito. 3.8. Danilo Cargnello 29, Dal naturalismo psicoanalitico alla fenomenologia antropologica della «Daseinanalyse», in Filosofia della alienazione e analisi esistenziale, «Archivio di filosofia», 1961, n. 3, pp. 127 sgg. p. 166: «Assunto dell’antropoanalisi è l’indagine dei modi con cui si rivela l’umana presenza nella sua inscindibile globalità, e in particolare gli aspetti costitutivi di questi modi: adunque lo studio delle diverse maniere del suo trascendersi fattuale, indipendentemente dalla considerazione che si tratti della presenza di un “sano” o di un “malato di mente”. Anzi l’antinomia sano-malato, centralmente necessaria nel campo clinico, resta del tutto estranea all’interesse dell’antropoanalista che s’interessa dell’uomo indipendentemente dal giudizio di sanità o di “morbosità”. Appunto in quanto uomo, anche lo psicotico non può non progettarsi in un mondo, resta comunque weltbildend» 30. Questo assunto dall’antropoanalisi è da respingere. La presenza è mondanizzazione, presentificazione mondanizzante, valorizzazione intersoggettiva della vita, ethos primordiale del trascendimento valorizzante. Ma questo ethos è slancio insidiato dalla caduta, cioè da una crisi radicale che lascia affiorare i modi della depresentificazione e della demondanizzazione. Solo in rapporto a un certo mondo storico-culturale, alla dinamica del suo ethos valorizzante, è possibile giudicare la tentazione annientatrice che lo travaglia, e di cui esso, in quanto mondo storico-culturale, rappresenta sempre rinnovantesi il riscatto. Pertanto l’antropoanalisi non può prescindere da valutazioni storico-culturali ed etnopsichiatriche, e non può sottrarsi al continuo impegno di decidere, di fronte a un prodotto o a un comportamento umani, se e in che misura si realizza quel «guarire» che è la valorizzazione culturale della vita, o si manifesta il «rischio» di ammalarsi.

Antropologia culturale, psicoanalisi, analisi esistenziale, psicopatologia comparata, concorrono in varia misura ad affrontare e risolvere i problemi storico-culturali e storico-religiosi inerenti al tema del «finire del mondo» sia nell’attuale congiuntura dell’occidente, sia nel protocristianesimo, sia nei movimenti messianici, apocalittici, millenaristici del terzo mondo in formazione. Se fino a oggi lo psichiatra si è occupato della mente «malata» e lo storico della cultura della mente «sana» oggi si avverte la necessità di un terreno comune di ricerca interdisciplinare, poiché ogni individuo «malato» si ammala in una società e in una cultura e nell’orizzonte di una certa storia culturale, come d’altra parte ogni mondo storico-culturale, ogni epoca e ogni civiltà lottano con varia fortuna contro rischi di crisi e chiedono pertanto allo storico una comprensione che impegna il giudizio sulla malattia e sulla sanità. La irrelata cesura di competenze, di metodi e di fini fra psicopatologo e storiografo ha trascurato il rapporto dialettico fra sanità e malattia mentale favorendo la immaginazione dualistica di due mondi, quello dei sani e quello dei malati, secondo il confine segnato degli ospedali neuropsichiatrici e nei limiti in cui ha luogo il rapporto clinico diagnostico e terapeutico fra psichiatra e malato. Ora la distinzione fra sanità e malattia, la lotta della sanità contro la malattia, la vicenda dell’ammalarsi e del guarire, non soltanto ha luogo oltre questi confini e questi limiti, ma concerne l’uomo in generale, anzi è inerente alla cultura umana come tale e investe tutti i suoi prodotti storici. Se la cultura è lotta contro la crisi radicale dell’umano – cioè contro l’ammalarsi della mente – come potrà lo storico ricostruire la vita culturale prescindendo dal significato che di volta in volta assume questa lotta e come potrà lo psicopatologo comprendere i suoi malati senza una presa di coscienza sistematica della norma culturale e della sua storia? 3.9. «Daseinanalyse» 31. Assumendo il Dasein heideggeriano come presenza che è Sein-können e Gewesen-sein, la Daseinanalyse (o antropoanalisi) intende essere l’analisi dei modi di questo Dasein «indipendentemente dalla considerazione che si tratti della presenza di un sano o di un malato». Cosí l’in-der-Welt-sein della presenza è analizzato nelle sue diverse modalità psicopatologiche, cioè nei «mondi» degli psicotici (per esempio il mondo dello schizofrenico), poiché il malato di mente, in quanto uomo, «non può non progettarsi un mondo» e resta quindi «un essere weltbildend» 32. Ora è da osservare che, per questa via, si riesce senza dubbio a ricavare dall’analisi del materiale clinico a

disposizione il mondo dello psicotico, ma la struttura che si ottiene o confonde in sé anche il mondo del primitivo, del mistico, del religioso, del mago e del poeta (o magari del fanciullo) e allora non si comprende l’utilità del quadro che si ottiene: la possibilità umana che ne risulta è del tutto indeterminata se accomuna sani e malati, uomini religiosi e fanciulli, sciamani e poeti. Oppure l’analisi si volge a sottolineare le differenze fra il mondo dei sani e quello dei malati, dei mistici e dei bambini, ecc., e allora le manca il criterio della distinzione, o dovrà prenderlo a prestito altrove, o si lascerà andare ad affermazioni gratuite e banali sulle differenze. [...] In realtà l’esserci-nel-mondo si identifica con la stessa vita della cultura e i «mondi» degli psicotici diventano relativamente comprensibili solo come rischio vissuto di non poterci essere in nessun possibile mondo culturale umano. Tali «mondi» sono antropologicamente importanti in quanto denunziano una tentazione immanente allo stesso ordine culturale, la tentazione di annientarsi: una tentazione che dà rilievo alla battaglia culturale e che definisce la stessa cultura nella sua qualità fondamentale, di esserci-nelmondo attraverso le decisioni e le scelte degli individui, delle singole «presenze». L’analisi esistenziale in psicopatologia, quale è stata teorizzata da Binswanger e da Minkowski 33, intende studiare il mondo in cui vive chi è colpito da alienazione mentale: l’esser malato diventa, in questa prospettiva, l’esser diversamente. Ma è poi legittima questa contemplazione della struttura prescindendo, sia pure temporaneamente, dai giudizi relativi alla sanità e alla malattia, alla anormalità e alla abnormalità dell’uomo? Finché si parla di un mondo storico-culturale definito interno alla storia dell’occidente, dai greci a oggi, e si cerca di individuare la Weltanschauung del Cristianesimo primitivo o dell’epoca medievale o di quella rinascimentale, il tentativo appare del tutto legittimo: e cosí pure quando – salvo le avvertenze metodologiche necessarie – l’uomo di studio occidentale cerca di ricostruire mondi culturali che non appartengono allo sviluppo della sua propria civiltà, come è il caso, per esempio, dell’India vedica o della Cina di Confucio, o del totemismo degli Aranda. Ma quando si parla, allo stesso titolo dal punto di vista strutturale, di un mondo dell’alienato, si incorre in una aporia fondamentale, e cioè che mentre i mondi del cristiano primitivo, dell’uomo medievale o rinascimentale, dell’indiano vedico, del cinese dell’epoca di Confucio e

dell’Aranda totemista costituiscono certe modalità della vita culturale umana, e sono effettivamente «mondi» in cui la comunicazione intersoggettiva e l’opera dell’uomo in società hanno avuto luogo – tanto è vero che quelle civiltà sono esistite –, il «mondo» dell’alienazione presenta carattere di non essere compatibile con nessuna vita culturale, e di segnare il crollo della stessa cultura come possibilità. Ciò vale per qualsiasi civiltà e per qualsiasi epoca, che hanno, tutte, i loro malati e che tutte combattono a loro modo contro i rischi di un esperire che si viene privatizzando all’infinito e che impedisce la comunicazione. In altri termini se l’esserci-nel-mondo costituisce la norma della presenza, la condizione del suo emergere e del suo impegnarsi sempre di nuovo nel processo di presentificazione, come potrà chiamarsi ancora «mondo» quello della presenza che rischia di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile? E come si può valutare come «un» mondo, l’esperire che nasce dall’andar perdendo il proprio mondo storico, il nesso con la propria cultura, la relazione con gli altri e col cosmo e con se stesso, il significato dell’operare, la disarticolazione della dialettica del tempo, lo spossessamento radicale dell’umano e quant’altro forma il panorama dello psicopatologico? La coerenza della mondanità è sempre nella apertura al significato intersoggettivo, alla comunicabilità, alla progettabilità: ma il processo di demondanizzazione che si instaura nel «disordine» psichico come tale ha una coerenza soltanto nel senso che i sintomi sono organicamente comprensibili una volta ammessa l’incoerenza fondamentale di non-esserci-nel-mondo, cioè una volta assunta la mondanità come punto di riferimento costante. 3.10. Che i «mondi» possano essere deliranti è un errore di interpretazione che genera molteplici equivoci. Il mondo delirante ha proprio il carattere di non essere un mondo, cioè di nascere da una fondamentale esperienza di demondanizzazione e di depresentificazione: il «mondo delirante» è delirante proprio perché manca della comunicabilità culturale, perché isola il rischio, o disarticola la dialettica rischio-reintegrazione. Esso resta definito dal senso della sua dinamica, che è recessiva: dal pubblico al privato, e via via sempre piú al privato, sino al silenzio totale e all’inconscio radicale. Il mondo delirante affonda le sue radici in una fondamentale esperienza di demondanizzazione e di depresentificazione e da un «conato autistico di reintegrazione». Il termine «conato» indica uno sforzo inautentico, destinato

al fallimento, ma il giudizio di inautenticità si riferisce al carattere autistico, privato, socialmente e culturalmente non significante del «mondo delirante». Questo giudizio di inautenticità, che è «diagnostico», non può aver luogo se non in rapporto al mondo storico-culturale cui la presenza partecipa: è per entro questo rapporto con un mondo di valori storicamente determinati che prende rilievo il senso negativo o positivo dello sforzo di mondanizzazione. In ciascun caso specifico può trattarsi di un mondo privato che acquista un senso pubblico, o di un ordine culturale pubblico che si privatizza sino al limite della totale incomunicabilità dell’angoscia isolandosi sempre piú a ogni conato di reintegrazione 34; ma quale delle due possibilità sia, nel caso specifico, reale, se si tratti per esempio di un delirio o di vita religiosa mediatrice di valori, di «fine del mondo» schizofrenica o del libro dell’Apocalisse, questo giudizio non può non essere storico-culturale, cioè formulato in connessione a parametri di una società e di un’epoca. Analisi esistenziale, etnopsichiatria, etnologia, pensiero storiografico accennano a domini del sapere che concorrono a formulare il giudizio in quistione, e il limite di ciascuno di questi domini si manifesta quando uno solo di essi pretende di giudicare come se gli altri non esistessero. In che modo è possibile distinguere il normale e l’anormale nei comportamenti umani? Per tale distinzione occorre l’analisi del «senso» del comportamento, e questa analisi non può aver luogo se non in riferimento al «senso» della cultura in universale e al «senso» della civiltà particolare in cui il comportamento in quistione è storicamente inserito. Il giudizio di normalità e di anormalità è pertanto estremamente difficile, poiché comporta in primo luogo il concetto di cultura come trascendimento della situazione, e come trascendimento secondo valori; in secondo luogo comporta l’apprezzamento dei valori operanti in una particolare civiltà storica; in terzo luogo comporta l’apprezzamento della dinamica in cui si inserisce il comportamento, e cioè se, nel quadro storico-culturale dato, esso significa regressione o progresso, sintomo cifrato o simbolo aperto, disintegrazione verso la realtà privata o reintegrazione nella realtà sociale, momento protettivo che dischiude all’opera qualificata la crisi esistenziale o conato di difesa che fallisce, slancio verso la comunicazione con gli altri o caduta in un isolamento che diventa sempre piú totale e sempre piú incomunicabile. Proprio a motivo della finezza storica del giudizio di normalità l’errore è particolarmente frequente quando l’apprezzamento concerne i comportamenti di individui

appartenenti a civiltà estranee al mondo euroamericano o occidentale che si dica: è molto facile infatti considerare per esempio gli sciamani come nevrotici o psicotici. Ma nel seno stesso della civiltà occidentale gli errori di giudizio sono frequenti fra «veri» e «falsi» mistici, fra l’estasi di santa Teresa di Avila 35 e un semplice disordine psichico variamente apprezzabile in sede medica. D’altra parte la mancata distinzione fra cultura occidentale e le sue subculture «contadine» possono indurre a valutazioni errate: si pensi per esempio al tarantismo pugliese 36. Occorre fare attenzione che, rispetto al «senso», uno stesso comportamento può apparire nello stesso individuo due volte: come sintomo di una crisi e come simbolo di reintegrazione durante il funzionamento regolare di un istituto culturale definito. 3.11. Delirio di influenza. Il carattere di non autenticità storica del delirio di influenzamento rispetto ad analoghe credenze magiche organicamente inserite in determinate civiltà primitive mi sembra evidente, e offre il criterio per distinguere la malattia dalle concrete forme di vita culturale. Quando Susanna V., Mme P., la contessa di Monté, Chaby, Victor e gli altri «influenzati» di cui fa menzione Dumas 37 parlano di elettricità, di gesuiti, di ebrei, essi utilizzano ai fini del loro delirio concetti che hanno tutt’altra storia e funzione nella società attuale: in mancanza di una tradizione che si omogenea con il loro dramma psichico, essi ricorrono a ciò che, per via di somiglianze del tutto esteriori, sembra simulare tale omogeneità. Oppure essi parlano di stregoni, di fatture, di sette di stregoni, e simili, facendo appello a ciò che, in altri tempi o in altri ambienti storici, costituisce una tradizione effettiva ancora in vita, pubblicamente accettata e accreditata: ma in questo caso la inautenticità sta nel fatto che nell’ambiente del malato stregoni, sette, fatture non formano tradizione viva, e sussiste un contrasto vivacissimo fra la realtà storica di quest’ambiente, i suoi istituti, i comportamenti che vi sono possibili, ecc. e il delirio. La «spedizione magica» presso gli Aranda è una realtà, un istituto operante: l’arungquilta è un istituto effettivo, ecc.: tutta la cultura è per cosí dire preparata a tradizionalizzare e a riscattare una certa esperienza di influenzamento. Ma se un uomo d’affari milanese, prendendo occasione di un rovescio economico, comincia a sentirsi «influenzato» per esempio dai gesuiti, e ritiene di essere vittima delle loro «spedizioni» magiche, non c’è dubbio che si tratta di un «delirio», ma perché – e solo perché – si tratta di un

dramma inattuale rispetto alla Milano storica, al mondo dei suoi industriali, ecc. Se invece una contadina lucana ritiene che il latte le è stato rubato dalla vicina o si crede vittima di malocchio e di fascinatura, ricorrendo a pratiche conformi, non si può parlare di delirio di influenza, perché la tradizione culturale del suo mondo storico è ancora preparata alla sua esperienza, serba ancora in vita istituti adeguati per combatterla 38. Proprio da questa inattualità, e quindi inautenticità, del delirio patologico nasce la «frattura» con la realtà storica, e quindi anche il carattere tendenzialmente privato, senza risonanza culturale pubblica, del delirio stesso: e proprio da ciò nasce la impossibilità di un riscatto culturale dal rischio del delirio, la sua disintegrazione rispetto all’ambiente, la impossibilità di inserirlo nella sfera di comportamenti socialmente accettabili, ecc. 3.12. L’adattamento alla realtà. Il difetto delle teorie costruite sul concetto di «adattamento alla realtà» sta nel fatto che si considera la «realtà» nel senso del realismo ingenuo, come ordine dato che l’oggetto riflette nel pensiero o nel quale il soggetto si inserisce organicamente con l’azione. Questo realismo ingenuo può certamente bastare ai fini del medico pratico, per quanto anche nella psicoterapia finisce prima o poi per accusare il suo limite. Ma appena si esce dall’ambito strettamente psichiatrico, e si cerca di porre a confronto i dati clinici con quelli storico-religiosi, la filosofia realistica piú o meno esplicitamente contenuta nella espressione «adattamento alla realtà» genera tutta una serie di confusioni, e soprattutto la impossibilità di distinguere fra deliri e formazioni culturali storicamente definite. La conseguenza assurda che ne deriva è che il normale, il sano, cosí come li consideriamo nell’uso corrente moderno, rappresentano in tutte le civiltà primitive e in tutte le grandi religioni storiche eccezioni rarissime; o addirittura non hanno luogo negli stadi piú remoti della vita culturale del genere umano. I fatti di mentalità primitiva catalogati nella vasta silloge del Lévy-Bruhl, e quelli clinici che sono registrati nei quadri nosografici delle opere di psichiatria si confondono insieme rispetto alla loro qualità psichica, onde nasce la conclusione che il razionalismo moderno, assunto come standard di sanità mentale, sarebbe sorto dai grandi deliri collettivi delle epoche trascorse, e si contrapporrebbe ai deliri attuali che governano i primitivi ancora viventi nell’ecumene. […]

Psichicamente sano è ogni comportamento adattato alla realtà storica, organicamente inserito in una tradizione pubblica viva nelle coscienze, e che assolve attualmente, per entro un dato mondo culturale, una funzione specifica. Ciò che nella Francia moderna appare, e certamente è, un delirio di influenza, rivela il suo tratto patologico non già nel semplice sentirsi «influenzato» e nel ricercare determinati influenzatori, ma perché nell’ambiente storico-culturale del malato il suo dramma non ha risonanza pubblica, largamente riconosciuta e accreditata, mancano gli istituti corrispondenti. Tuttavia non basta ricorrere al criterio della omogeneità culturale con un certo ambiente per distinguere la «credenza» magico-religiosa dal delirio. Se un industriale milanese prendendo spunto da un rovescio economico comincia a sentirsi influenzato maleficamente dalla Compagnia di Gesú, il distacco brusco dal suo ambiente culturale è certamente già da solo indice di una condizione morbosa, mentre se una contadina lucana ritiene che le sia stato rubato il latte per fattura, la partecipazione a una tradizione socialmente diffusa e la omogeneità con un certo livello culturale induce a ritenere estremamente probabile che la contadina in quistione non sia vittima di un delirio di influenza come l’industriale milanese. Ma il giudizio diagnostico di «anormalità» e di «malattia» non può ritenersi fondato se non si tien conto del «significato dinamico» che la ideologia della influenza ha nella biografia di un singolo industriale milanese o di una singola contadina lucana. Se la credenza del latte rubato diventa nella contadina lucana il centro di tutti i suoi comportamenti quotidiani, se tale credenza diventa parassitaria e invade tutta la vita psichica rompendo progressivamente il rapporto col mondo storico, se il ricorso a controfatture non ristabilisce nessun equilibrio psichico, ma anzi concorre a isolare il soggetto con l’ambiente, moltiplica i conflitti, e impedisce qualsiasi vita di rapporto, dobbiamo concludere che si tratta di un disordine psichico anche nell’ambiente lucano. Ciò significa che per giudicare della anormalità psichica occorre fare riferimento anche alla efficacia reintegratrice che di fatto esercita un dato orizzonte simbolico mitico-rituale 39.

4. A quali condizioni l’esperienza di fine del mondo può essere definita patologica?

4.1. «Può finire il mondo?»: questa domanda nella misura in cui è dominata dal terrore della fine, costituisce uno dei prodotti estremi della alienazione, e quando diventa esperienza della fine del mondo si confonde col Weltuntergangserlebnis dello schizofrenico. «Può finire il mondo?»: chi cosí chiede, e vaga col suo terrore di congettura in congettura, proprio con ciò pone il finire del mondo, si immette nel corso del finire che non si trattiene piú in nessun nuovo inizio, corre al termine sottraendosi all’unico compito che spetta all’uomo, cioè di essere l’Atlante, che col suo sforzo, sostiene il mondo e sa di sostenerlo. Certo il mondo «può» finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo. L’uomo non può recitare che questa parte, combattendo di volta in volta, fin quando può, la sua battaglia contro le diverse tentazioni di un finire che non ricomincia piú e di un cominciare che non includa la libera assunzione del finire. Il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta. I primi cristiani attendevano il Regno di Dio, ma se dalla loro attesa risultò poi la civiltà cristiana, ciò deriva dal fatto che il Cristianesimo oltre che fede e speranza fu amore, anzi – come si legge nel famoso inno della Prima lettera ai Corinzi – amore piú in alto della fede e della speranza. Oggi il pensiero della fine del mondo nei culti profetici dei popoli coloniali e semicoloniali è fecondo nella misura in cui media la fine dell’epoca del colonialismo e il processo di liberazione di nuove comunità nazionali; e infine il pensiero della fine del mondo per effetto della guerra nucleare è oggi fecondo nella misura in cui media la presa di coscienza di quella estrema forma di alienazione tecnicistica che è la fine del mondo come gesto tecnico della mano, come apocalissi premendo un bottone. «Eppure, se un giorno, per una catastrofe cosmica, nessun uomo potrà piú cominciare perché il mondo è finito?» Ebbene, che l’ultimo gesto dell’uomo, nella fine del mondo, sia un tentativo di cominciare da capo: questa morte è ben degna di lui, e vale la vita e le opere delle innumerabili generazioni umane che si sono avvicendate sul nostro pianeta. 4.2. La fine di «un» mondo non ha nulla di patologico: è anzi una esperienza salutare, connessa alla storicità della condizione umana. Finisce il mondo della infanzia e comincia quello della adolescenza; finisce il mondo

della adolescenza e comincia quello della maturità; finisce il mondo della maturità e comincia quello della vecchiaia. Con le nozze, nella nostra società, i giovani sposi abbandonano di regola il mondo delle loro famiglie e cominciano una nuova vita che comporta la nascita di un nuovo mondo: e un sentimento misto di tenerezza e di melancolia vela la felicità durante la celebrazione del nuovo vincolo e soprattutto al momento del distacco definitivo. Quando le persone che abbiamo amato e che erano parte viva e vitale del nostro mondo ci sono rapite dalla morte o si allontanano per un evento di separazione che equivale praticamente alla morte, par che non solo dileguino insieme al loro mondo, ma anche con il nostro, e immane è talora la fatica di superare la crisi del cordoglio, e di ricostituire lentamente un nuovo mondo senza di loro. Finisce un’epoca di libertà e ne comincia una di servitú: e per quanto si possa non tollerare la perdita del mondo in cui eravamo liberi e si cerchi la morte, la crisi è superata purché resti un piccolo margine di ripresa, quel piccolo impercettibile margine che poterono conservare per esempio quanti riuscirono a sopravvivere dai campi di sterminio tedeschi. La fine di «un» mondo è dunque nell’ordine della storia culturale umana: è la fine «del» mondo, in quanto esperienza attuale del finire di qualsiasi mondo possibile, che costituisce il rischio radicale. Il mondo degli animali «non può» finire, e la sua «fine» è la catastrofe della specie: l’uomo invece «passa» da un mondo all’altro, appunto perché è l’energia morale che sopravvive alle catastrofi dei suoi mondi, sempre di nuovo rigenerandone altri. Ma questa energia è sottesa dal rischio della caduta, dal vissuto della «fine del mondo» (non «di un mondo»): tale vissuto, che accenna alla fine dell’esserci, alla depresentificazione, alla demondanizzazione, alla crisi della presenza e ai modi dell’assenza, è normalmente coperto nel senso che deve essere sempre ricoperto, tale copertura costituendo la vita culturale. Lo sforzo culturale può soltanto scoprire nella riflessione la necessità di questo momento negativo, eccentrico che dà rilievo al proprio sforzarsi e che è messo a nudo dalla follia. 4.3. Momenti critici del divenire. In generale ogni momento del divenire è nuovo, e quindi critico per la presenza. Al limite, la difesa radicale da questo rischio esteso indiscriminatamente a tutti i momenti del divenire, a tutta la storia, consiste nel rifiuto di qualsiasi contenuto dell’esperienza, di qualsiasi iniziativa, di qualsiasi adattamento. È lo stupore del catatonico, la sua immobilità statuaria,

con la tensione caratteristica che la distingue. Altra difesa è la flessibilità cerea e l’imitazione speculare. Imitando specularmente ciò che accade, si esprime il tentativo di tramutare il processo del divenire nella iterazione dell’identico. Una difesa caratteristica è la stereotipia o ritualismo, cioè l’affidarsi alla ripetizione di serie identiche di atti in certo senso metastorici. In generale queste forme di difesa non sono compatibili con la civiltà, hanno un carattere spasmodico e caricaturale, appartengono cioè al dominio della psicopatologia. Le difese culturalmente significative cominciano quando la rischiosità si socializza, istituzionalizzandosi in dati momenti critici dell’esistenza, e lasciando libere, cioè profanamente operabili, parti piú o meno estese di storia. Le difese culturalmente significative cominciano dunque quando il sistema di guarentigie piú che a sopprimere radicalmente il divenire è volto piuttosto a rendere mediatamente possibile il concedersi a esso, il dischiudersi, sia pure a patto, alla storia. Certe sfere storiche della realtà sono dischiuse in quanto si entra in esse attraverso il nesso miticorituale in quanto cioè la loro storicità viene trasfigurata (in realtà permessa) attraverso la iterazione dell’identico (della prima volta, del mito delle origini). Le cosiddette piccole manie, e in generale i frammenti di ritualismo, esprimono un modo elementare di curare l’insorgenza del caos psichico, la caduta dei limiti, l’essere travolto dal divenire. L’angoscia del divenire, via via che esso scorre, si accumula, la pressione aumenta: e allora la medicina è un momento di riposo nella metastoria, un alleggerimento del divenire mercé la paradossia della soppressione del momento della novità, mercé quindi l’iterazione dell’identico o di serie identiche di atti, mercé il rito e la stereotipia. Questa iterazione dell’identico, questa uccisione momentanea della storia, questa pausa o interruzione del divenire, genera la rappresentazione e l’esperienza di un ricominciare da capo, di una storia che si rinnova, di una seconda nascita, e costituisce comunque una riparazione, un compenso, una liberazione, una distensione, onde ci si può concedere al corso ulteriore del divenire storico. Naturalmente la efficacia del rito dipende dalla sua retta esecuzione, cioè da una esatta iterazione, senza intrusione di una ancorché minima novità o alterazione. Ma la stessa paradossalità del tentativo, che non è intrinsecamente eseguibile (infatti il tentativo di uccidere la storia fa parte della storia e genera nuova storia), e la oscura coscienza che dalla storia non si può realmente uscire, producono quello scrupolo

caratteristico, quella mania di esattezza, che inducono penosamente a ripetere il rito nel timore di non averlo eseguito a dovere, di aver commesso errori, ecc., cioè di aver lasciato intrudere quel nuovo, quell’individuato, che si tenta paradossalmente di sopprimere. La eliminazione, o quanto meno la riduzione di questo scrupolo penoso – assai difficile nel caso del dramma privato dello psicopatico moderno –, si ottiene storicamente mercé determinati istituti a carattere pubblico, e la formazione di determinate tradizioni pubblicamente accreditate (per esempio il rito è compiuto da una persona ad hoc, ecc.). È noto come il bisogno ritualistico dello psicoastenico insorga spesso in connessione di determinati momenti critici, quando cioè l’evento richiede impegno e iniziativa particolari e sottolinea comunque un passaggio difficile. Negli psicoastenici l’addormentarsi, il dover sostenere esami, ecc. comportano una riacutizzazione del ritualismo. «Se tocco col piede tre volte questa pietra del selciato, tutto mi andrà bene». Cioè quel piccolo frammento rituale genera la rappresentazione e l’esperienza di una interruzione del corso del divenire, con relativa scarica dell’angoscia accumulata, con provvista di energia, ecc. [...] 4.4. Appunti alla Fine. La fine del mondo come vissuto psicopatologico è la esperienza di un rischio radicale, incompatibile con qualsiasi cultura, e cioè l’esperienza di non poter iniziare nessun mondo possibile, cioè di non poter oltrepassare la situazione nel valore. Proprio perché si-è-nel-mondo come presenze operative, si emerge e ci si mantiene in esso, nella misura in cui si esplica l’energia valorizzatrice del trascendimento della situazione, il rischio di non poter esplicare questa energia, l’esperienza della sua caduta assume la forma di rischio radicale di catastrofe ultima e definitiva: la impossibilità di curvare il significante come possibilità nel significato come realtà si traduce nel vissuto di una carica di semanticità indefinita e indefinibile, in un possibile che non trova reale, in una forza che travaglia ogni ente e che nel suo vuoto «oltre» riflette il vuoto dell’energia oltrepassante. L’universo entra in tensione, ogni suo ambito diventa un centro di dissoluzione del significato, una dissoluzione che si allarga irresistibilmente e si comunica a sempre nuovi àmbiti: è il crepitante dilagare di un incendio in una foresta e il rapido inesorabile restringersi del cerchio di fuoco intorno al viandante smarrito. Il vissuto dell’universo in agonia assume anche la forma dell’universo già

morto, in cui tutte le cose stanno immobili come in una bara, irrigidite nei loro limiti senza significato, senza oltre: nel che si riflette sempre la caduta dell’energia oltrepassante e valorizzante della presenza, caduta che il delirio rende sia in quanto esperienza di un oltre irrelato, di una forza onniallusiva, di una carica di semanticità che si allontana sempre piú dalla semantizzazione, sia in quanto esperienza di un irrigidirsi di tutti gli ambiti, di un loro perdere quell’oltre, quell’orizzonte relazionale, quella domesticità intersoggettiva che li rende ambiti di un mondo culturalmente esperibile, in cui tradizione e iniziativa, memorie e scelte si compongono in una viva dialettica. [...] Il mondo che diventa «immobile», il divenire che perde la sua «fluidità», la vita che si devalorizza costituiscono un momento vissuto dell’ethos del trascendimento che muta di segno: l’altro momento è l’universo in tensione, la onniallusività dei vari ambiti in cerca di semanticità, la forza che travaglia questi ambiti e li sospinge ad andare oltre i loro limiti in modo irrelato, e che li fa partecipare caoticamente a tutto il reale e a tutto il possibile, senza sosta e senza offrire mai un appiglio operativo efficace. La polarità di immobilità e tensione, di rigidezza e forza onniallusiva, di crollo degli appigli operativi e di irrelata scarica psicomotoria, porta il segno della alterità radicale e dell’essere-agito-da, cioè il segno dell’alienazione nel senso patologico del termine: in tutti i vissuti cui dà luogo, si manifesta infatti il diventar altro proprio di ciò che sta alla radice dell’io e del mondo, l’annientarsi dell’energia valorizzante della presenza, il non poter emergere come presenza al mondo e l’esperire la catastrofica demondanizzazione del mondo, il suo «finire». Proprio perché l’essere è sempre l’esserci del trascendimento valorizzante, il rischio di non-esserci vissuto nella sua immediatezza si polarizza nel chiudersi delle situazioni, nel loro non andare oltre se stesse, e, al tempo stesso, nel loro andare oltre in modo irrelato, come cieche forze in cerca di significato, come semanticità errante carica di tutto e di nulla, e che schiaccia per questa sua estrema sovrabbondanza fatta di estrema miseria: cosí, nell’irrigidirsi del limite e nella tensione cifrata che lo travaglia, la presenza che si perde vive il suo non poter oltrepassare il limite nel valore, vive il suo «morire». L’esperienza attuale della fine del mondo è patologica: piú esattamente è piú psicopatologico l’isolarsi di questo vissuto del totale finire suo e il

diventare un centro di disorganizzazione di tutta la vita psichica. Ciò che in tal modo si esperisce è il crollo dell’oltrepassare le situazioni, e quindi il non poter emergere da esse come presenza oltrepassante: onde poi il mondo perde significato, e gli enti mondani non si prolungano piú affettivamente in noi come enti rammemoranti condotte possibili. Gli enti mondani si irrigidiscono, si artificializzano, i loro contorni diventano troppo definitivi, senza possibile «oltre»: oppure la consistenza di questi enti si affloscia, e i loro limiti diventano troppo molli, come se il mondo diventasse di gomma. Oppure gli enti sono travagliati da un vuoto «oltre», come forza maligna di dissoluzione: il vissuto dell’universo in tensione. Le cose si scaricano le une nelle altre, diventano onniallusive, vanno oltre in modo irrelato. La catastrofe avanza e circonda da tutte le parti la sua vittima. D’altra parte anche la propria psichicità diventa una forza che si scarica, defluendo nel mondo in modo polarmente opposto all’irrompere del mondo nella psichicità. Nell’orizzonte mitico escatologico la fine del mondo muta di segno, il suo rischio si muove verso la reintegrazione. Dal vissuto attuale si passa all’imminenza o alla indeterminata prospettiva della fine, dando cosí orizzonte ai comportamenti dell’attesa: ovvero si passa al vissuto della fine già avvenuta e del nuovo mondo già iniziato, dando orizzonte ai comportamenti del rigenerato e alla testimonianza della rigenerazione resa con questi comportamenti. Quando l’universo rischia di «andare al di là», significa che l’energia del trascendimento sta venendo meno: quando non si riesce ad andare «al di là» della situazione e a esserci come presenze in virtú di questo «andare», l’universo comincia a perdere il suo carattere di situazione operabile, e il suo domestico al di qua accenna a un oltre irrelato, ganz andere 40. Per combattere questo rischio la vita religiosa configura l’al di là «orizzonte», cioè un piano socializzato per evocare, provocare e configurare l’al di là, e per riappropriarsi sotto forma di destini, di compiti, di valori positivi ciò che nella crisi sta soltanto come annientamento della presenza. Pertanto l’al di là della crisi muta di segno nell’al di là dei simboli mitico-rituali: e tali simboli, quando sono operanti, rappresentano appunto il metodo per passare dall’uno all’altro al di là, cioè dall’universo che va al di là dell’al di là che torna all’universo, dalla presenza che si perde nella situazione alla presenza che, sia pure attraverso un intricato cammino, alfine si ritrova e si ripossiede nel mondo. Cosí per esempio la crisi della pubertà trova il suo orizzonte di

evocazione, di deflusso, di recupero e di valorizzazione nel simbolismo mitico-rituale delle cerimonie di pubertà. Il totemismo come orizzonte mitico-rituale socializzato in una società di cacciatori e raccoglitori in cui la reintegrazione dalla crisi ha luogo intorno all’animale in quanto centro di tutti i piú importanti momenti critici dell’esistenza. Il Weltuntergangserlebnis, cioè l’evento della «catastrofe» (o del «crollo») del mondo in quanto esperire caratteristico, anche se non specifico, della schizofrenia iniziale, non risulta determinato né dal concetto di mondo né da quello di fine, cioè dal «contenuto» dell’esperienza ma dal modo con cui è vissuto (Callieri) 41. «È un modo di esistenza ondeggiante e sognante di un uomo strappato dal mondo domestico e sospinto in un mondo senza orizzonte e senza sostanza; di un uomo che non ha “patria” e “radici”, né per quel che concerne l’essere con gli altri né per quel che concerne l’essere in se stesso e che sperimenta la distruzione della sua esistenza storica come distruzione del suo senso della vita mondana, cioè come crollo catastrofico del mondo» (Storch) 42. Il WUE 43 ha luogo quando il Dasein, l’esserci nel mondo, è strappato «alla sua continuità storica», e non piú fondato sull’io-qui-ora, è stranamente non-sostanziale, fugace, sospeso, fluido (Callieri). L’esperienza del «finire» del mondo (dando al «finire» il significato di un «crollare», di uno «sprofondarsi», di un «annientarsi catastrofico») è patologico se riflette nell’Erlebnis il «crollare», lo «sprofondarsi», l’«annientarsi catastrofico» del «ci» dell’esserci. Il senso patologico resta definito dall’isolarsi e dal dilatarsi di questa esperienza, verso il limite di quel nulla che è il «mondo scomparso», cioè la scomparsa della stessa possibilità di far apparire un mondo, e di emergervi come presenza. Naturalmente la «fine» del mondo non è esperibile, ma solo il suo «finire», il suo recedere verso l’annientamento, il suo disfarsi che riflette la caduta della energia della presenza in quanto ethos primordiale di mondanizzazione, e in quanto primordiale volontà di storia (di significati, di valori, di operabilità secondo forme di coerenza culturale): il patologico si delinea nella misura in cui questa esperienza del correre verso una fine diventa esclusiva, indominabile, irresistibile, attuale, privata, incomunicabile, incapace di configurarsi in un sistema di segni che la esauriscono e di «mutare segno» mediando valori comunicabili e storicamente significativi di rinnovamento del mondo.

L’apocalisse culturalmente significativa si definisce invece non per l’isolarsi dell’Erlebnis del finire, ma perché il finire, mutando segno, è un cominciare storicamente significativo, integrato con la società e la storia, mediatore di valori comunicabili: nel Cristianesimo questo «mutamento di segno» si rispecchia nella tensione fra annunzio millenaristico e amore, fra Regno di Dio e Chiesa, fra esperienza del mondo che entra nel «finire» e un «finire» che comanda di «iniziare», di testimoniare, di esserci, di attendere preparando e di partecipare operando nel quadro della fede, della speranza e dell’amore. Nel WUE appare il momento dell’annientamento terrificante e quello del passaggio a un nuovo mondo, migliore, assoluto, ecc. Ma l’annichilazione costituisce il momento fondamentale, esclusivo, attuale, e il passaggio al nuovo mondo assume il carattere improprio di una esaltazione del vuoto privatissimo io, magari prendendo a prestito dalla tradizione determinante figurazioni mitiche verbalmente asserite e depauperate di tutto il loro reale valore storico e culturale. Se nel momento dell’annichilazione ciò che sta per accadere viene spesso esperito come in atto di venire incontro «privo di contenuto» e con sentimento di angoscia e di inquietudine, nel momento della pseudoreintegrazione il contenuto è fittizio proprio perché ciò che viene assolutizzato è l’io che si svuota di rapporti con la società e con la storia, e che si esaurisce nel vano conato di questa assolutizzazione del proprio vuoto. «Ogni momento sento di indovinare l’universo. Io sono sapienza incarnata di Gesú Cristo... Tutte queste cose mi sono scese nella mente... Io guidavo l’universo con la mente, perciò devo guidare le anime: ho sentito che per la volontà del Signore devo salvare tutte le anime... Devo diventare Spirito Santo e salvare tutte le anime, anche quelle dei dannati nell’inferno... Anche il Papa sa chi sono “io”», ecc. In apparenza i «contenuti» del delirio sono presi a prestito dalla tradizione cattolica, ma in realtà il conato di dilatazione dell’io non media che il vuoto, e ciò che conta è l’assolutizzazione dell’io vuoto, che ribadisce la sua incapacità a mediare valori nel momento stesso in cui estolle la sua potenza declamata. 4.5. Il vissuto di fine del mondo nella schizofrenia incipiente. [...] A proposito della fine del mondo come tema delirante la psichiatria si mantiene, e non senza ragione, estremamente cauta. Essa infatti denunzia il pericolo di unificare astrattamente, nella genericità del tema, processi di

significato clinico diverso, partecipi di dinamiche morbose distinte. La fine del mondo appare nella schizofrenia incipiente, negli stati oniroidi o confusoonirici a sfondo mistico, nel delirio cronico, nello stato allucinatorio epilettico a contenuto apocalittico, in determinati stati nevrotici, cronici a sfondo ansioso, in psicosi indotte di tipo collettivo: in ciascuno di questi quadri nosologici il tema della fine del mondo si determina in modo diverso, passando dal vissuto primario di un radicale mutamento dell’io e del mondo alla varia gamma delle interpretazioni secondarie e delle afferenze culturali, e presentano pertanto un valore diagnostico tutt’altro che univoco. Ma per quanto questa cautela sia giustificata sul piano psichiatrico, soprattutto in vista di fini diagnostici e terapeutici, resta intatta la legittimità di una analisi esistenziale rivolta a identificare il vissuto di fine del mondo come rischio trionfante nella malattia psichica e come rischio che si apre alla reintegrazione in virtú nelle escatologie, nelle apocalittiche e nei millenarismi culturalmente condizionati. La fine del mondo si definisce appartenente alla fisiologia di una data vita culturale o alla psicopatologia di una data biografia individuale per il senso del dinamismo in cui è inserita: siamo nella fisiologia della vita culturale quando «la fine del mondo» denota un orizzonte mitico-rituale per entro il quale il rischio del vissuto privato e incomunicabile, di un mondo che finisce, viene ripreso e reintegrato secondo valori intersoggettivi e comunicabili, mediando un margine operativo per l’esserci nel mondo; quando invece il dinamismo è di senso opposto, e gli orizzonti culturali si disarticolano e crollano recedendo verso il vissuto privato e incomunicabile di un «finire» senza ripresa efficace, allora siamo nella sfera psicopatologica individuale. Nel primo caso il giudizio spetta soprattutto allo storico della cultura, nel secondo essenzialmente allo psichiatra: ma per la organica connessione che sussiste tra la fine del mondo come rischio e la fine del mondo come riscatto, lo storico non può fare a meno delle indicazioni dello psichiatra, e lo psichiatra non può sottrarsi – proprio nella sua pratica professionale di diagnosticatore di morbi psichici – all’impegno di un giudizio storiografico, che restituisca l’episodio morboso alla singola biografia del malato e la biografia del malato alla concretezza di un certo contesto storico-culturale. L’esperienza del mondo che diventa tutt’altro da sé e che si demondanizza comporta un «essere-agito-da», appunto perché è colpita alle radici la presenza come agire. E questo essere-agito-da emerge anche in

primo piano come diventar tutt’altro delle stesse funzioni psichiche, come estraniarsi di sé a sé, come spossessamento del pensare, del volere, del sentire. Non soltanto il divenire mondano perde la sua fluidità, progettabilità e operabilità, ma lo stesso divenire psichico è vissuto in atto di incepparsi. Non soltanto gli ambiti percepiti entrano nella crisi del troppo o del troppo poco di semanticità, ma lo stesso pensare acquista una duplice tensione. [...]

5. Il religioso e lo psicopatologico: come pensare la loro interdipendenza? 5.1. Fine del mondo – schizofrenia e psicologia religiosa. Wetzel 1922 44. «Ovviamente i problemi di psicologia religiosa richiedono una ulteriore analisi comparativa. Il termine “comparazione” non è senza dubbio il piú adatto da impiegare per quanto concerne il rapporto con la psicologia religiosa. Non si tratta qui di confrontare orientamenti ed esperienze che, rispetto alla loro qualità e alla loro forma, in apparenza si manifestano come del tutto simili ma che in realtà, rispetto alla loro origine, sono di tipo radicalmente diverso. Ciò che nella psicologia religiosa si riferisce a particolari tonalità e sentimenti di carattere fondamentalmente euforico o disforico, a esperienze di accento apocalittico, a esperienze di grazia e di perdizione, appartiene in parte senza dubbio alle manifestazioni dell’accadere schizofrenico, a prescindere da altre connessioni psicopatologiche. D’altra parte in questo particolare ambito della ricerca si presenta il problema del perché, in linea generalissima, le esperienze e le interruzioni di rapporti che caratterizzano la schizofrenia, comportano notevoli rapporti, per quanto concerne il loro contenuto, la esplicita tendenza al religioso, al cosmico, al metafisico, ai grandi rapporti su scala universale» (p. 410, nota 3). In questo passo di Wetzel è racchiuso il problema – qui lasciato senza soluzione, e neppure esattamente formulato – che sta alla base della progettata monografia sulla «fine del mondo» come simbolo culturale. In che cosa sta quel «completamente diverso» che distingue l’esperienza apocalittica culturalmente operosa dall’esperienza schizofrenica del crollo dell’universo? Quale è il criterio per distinguere il tratto patologico dei casi clinici relativi a tale esperienza e la fine del mondo come fu vissuto dal Cristianesimo

primitivo, o da civiltà impegnate nel senso dell’orizzonte mitico dell’eterno ritorno, o dagli attuali movimenti profetici dei popoli coloniali e semicoloniali, o – infine – dalla fine del mondo come è prospettata nel libro di Günther Anders 45? A proposito del caso XV , Wetzel, pp. 246 sgg., ripropone il problema metodologico dell’influenzamento, della colorazione e della varia accentuazione delle tre tappe: esperire, introspezione successiva all’esperire, e riproduzione dell’esperito attraverso la costituzione psichica, e, insieme, attraverso le determinazioni dovute al mondo culturale di appartenenza, all’educazione, agli orientamenti di una data epoca, ecc., o infine attraverso le trasformazioni generali che caratterizzano la vita psicotica. […] «D’altra parte è anche forse possibile istituire tipi di quelle colorazioni particolari. Per esempio noi abbiamo l’impressione che proprio nelle psicosi di fine del mondo, schizofreniche o no, non soltanto per quanto riguarda il modo della esposizione ma già nel modo stesso dell’esperire si possono istituire tipi per i malati provenienti dalle parti strettamente cattoliche [...], e questi tipi differiscono in modo caratteristico da quello fornito dal distretto di Pforzheim, molto frammisto di sette protestanti, e che si differenzia dagli altri distretti, dal punto di vista etnico». Si confronti a questo proposito la nota 2 a p. 424 a proposito del caso XIII , che si riferisce all’unico esempio della raccolta che palesa di essere fortemente influenzato da un ambiente orientato verso l’attesa millenaristica (riunioni di sette). Nella stessa nota di Wetzel si accenna al fatto che sono note schizofrenie che insorgono nelle regioni protestanti durante la preghiera comune nelle sette, e nelle regioni protestanti durante le missioni. [...] Il materiale raccolto da Wetzel si riferisce per lo piú a psicosi acute e iniziali, in cui il vissuto di fine del mondo appare o in forma piú o meno protratta nel suo tempo o in modo del tutto episodico: talora però si tratta anche di crisi acute durante psicosi croniche (p. 406). Nelle fasi acute di schizofrenie iniziali il vissuto di fine del mondo appare in due tipi principali opposti: 1) Fine (crollo) del mondo come passaggio al nuovo, al piú grande. 2) Fine (crollo) del mondo come annientamento raccapricciante. Il primo tipo configura la fine non come annientamento dell’antico

mondo in quanto annientamento ma come un processo che al posto dell’antico pone un mondo nuovo, migliore, piú grande, in forme non mai conosciute. Questo primo tipo configura la fine come inaugurazione e introduzione a un mondo nuovo; come «giudizio universale» con tutte le connotazioni apocalittiche: è la forma piú frequente in cui si imbatte la psichiatria clinica. […] Il secondo tipo viene vissuto in forma pura come fine, come annientamento raccapricciante del mondo. Il suo significato è nei suoi rapporti psicologici con impressioni sensoriali e con sentimenti (p. 407). Nel vissuto disforico la percezione del mondo non risulta alterata, ogni nuova impressione è esattamente registrata sia in senso quantitativo che qualitativo, e tuttavia è cambiato, tutto è diventato cosí strano come non lo era prima. La designazione a cui il malato sempre si riferisce è che tutto è diventato non domestico, spaesato (unheimlich). Subentra una tormentosa incertezza, il sentore che qualcosa sta accadendo di radicale importanza, qualcosa di catastrofico e di raccapricciante, e che per lo piú, se anche non sempre, ha per centro il malato ed è di particolarissimo significato per la sua persona: «Tua res agitur» (Hagen) 46. [...] Atmosfera da venerdí santo, che torna nelle descrizioni dei malati. In questa atmosfera possono affiorare i temi della fine del mondo. «È come se il mondo crollasse», e, con un maggiore senso di irrealtà, «sarà a un di presso cosí quando il mondo crolla». Al «come se» segue la congettura che tutto questo raccapricciante vissuto potrebbe significare effettivamente la fine del mondo, e una reinterpretazione sempre piú specifica di tutte le impressioni in questo senso. Non si tratta di una sequenza che rappresenta il tipico sviluppo del caso singolo. Ciascuna nuance può emergere per un tempo piú lungo o solo fugacemente, e, a partire da ciascuna di queste modificazioni può seguire il passaggio alla remissione, il ripiegamento alla Verflachung, alla condizione catatonica, alla allucinosi oppure a un concreto delirio, il quale rispetto al suo contenuto rappresenta una liberazione dalla insopportabile tensione. La liberazione da un punto di vista meramente psicologico, ha luogo battendo il cammino verso il riconoscimento che il «crollo del mondo» significa l’irruzione, l’avvento di un «Nuovo Tempo». […] Il vissuto di fine del mondo nella schizofrenia può essere paragonato con (p. 410):

a.

Il vissuto euforico può essere paragonato, nei suoi temi millenaristici ed escatologici, alle estasi isteriche e a determinati stati epilettici di eccezione. b. Il vissuto disforico richiama alcuni vissuti della costituzione psicoastenica, e soprattutto il delirio nichilistico del melanconico (il mondo non c’è piú, è morto; il malato non c’è piú, è morto; ecc.). La fine del mondo, quando qui appare, è assunta come simbolo, paragone. Nelle depressioni l’annientamento presenta una tonalità diversa da quella della fine nelle schizofrenie. Non si tratta di angoscia per quanto sopravviene, di esperire una catastrofe cosmica che si sta producendo; si tratta piuttosto del raccapriccio davanti a ciò che già è, il terrore davanti al vuoto, alla consumazione, l’annientamento. Un caratteristico senso di isolamento, che incontriamo come carattere della fine del mondo schizofrenica, lo ritroviamo talora anche presso tali depressi: i malati si lamentano di essere lasciati nel deserto, nel ghiaccio e nella neve, ecc. Caso V , p. 415: «Oscurità, irrigidimento, immobilità, inerzia, sprofondarsi del suolo, terremoto: ho creduto che venisse un terremoto. Ho letto nella Bibbia che la divisione è sulla terra, e allora ho pensato che Dio sarebbe venuto sulla terra per darle una sola confessione. Ho visto che faceva buio, non c’era nessuna nuvola. E poi tutto era cosí quieto, immobile, le foglie pendevano inerti. Poi, quando esse si sono mosse, ho pensato che in qualche posto c’era stato il terremoto... Il terremoto non l’ho sentito. Già un paio di giorni prima avevo detto a mio marito che sarebbe venuto un terremoto». Fine del mondo e notte di San Silvestro. Caso IV , pp. 414 sgg.: una guardarobiera di cinquantadue anni: Quattordici giorni prima che fosse condotta in ospedale, essa aveva di notte lasciato sempre una lampada accesa, poiché si sentiva angosciata. Nella notte di San Silvestro la sua angoscia era stata particolarmente intensa, in quanto una ragazza le aveva detto che fra Natale e Capodanno il mondo sarebbe sprofondato. Il giorno successivo aveva lavorato come guardarobiera. Uscita per istrada, era cosí buio, nessuna stella brillava, nessuna campana suonava. Fu assalita dall’angoscia che il mondo sarebbe andato in rovina (die Welt würde zusammenklappen). Verso le otto si recò in chiesa, ma errò a lungo per le strade, e suonò «alle case dei ricchi». Le case erano immerse nelle tenebre. Dopo aver suonato, qua e là apparve una luce alle finestre:

contemporaneamente le stelle l’una dopo l’altra tornarono a splendere, e anche la luna. Ne fu contenta, pensando che il mondo non sarebbe crollato. Continuò a correre: «Ero come trasportata da una corrente, ero stanca morta e tuttavia dovevo sempre correre». Finalmente tornò a casa. La luna era di nuovo scomparsa, era buio, fu assalita di nuovo da grande angoscia, pensò che ora sarebbero arrivati gli aerei (per bombardare: la guerra era però finita da tempo), andò con la lampada in cantina, poi picchiò alle porte degli abitanti degli altri piani, e infine cadde al suolo e fu trasportata in ospedale. «Tutt’altro», «giudizio universale», esser sotto giudizio. «Voce dal cielo, dal tetto». Caso VI , pp. 415 sgg.: disforico-euforico, ganz andere 47, colpevolezza, isolamento: impiegata postale di ventitre anni. Il 14 luglio vede mentre dorme il Salvatore sul suo trono. Fu in sogno. Anche gli angeli dormivano. Un angelo vegliava. Esso aveva la potenza ed era all’erta. Essa vide se stessa giacere, cosí in disordine come era attualmente. Quando si svegliò, pensò che era impossibile che il Salvatore dormisse. Ma a sera alle dieci e mezzo intervenne in lei un rivolgimento totale. Da quel giorno tutto diventò scuro nel mondo. Riteneva che nessuno, tranne lei, avesse notato ciò. Stando alla finestra, vide tutto oscurarsi, la pioggia diventare tempestosa. Non era una pioggia come al solito, ma una sorta di diluvio. I bambini per le strade piangevano, avevano perduto la loro gaiezza. Un bambino del vicinato che prima soleva venire da lei con tanta gaiezza, ora si allontanò da lei, e fu da quel giorno di cattivo umore, la guardava con aria estremamente triste. In casa aveva un quadro del Signore alla parete, prima le sorrideva, ora era triste. Il fratello torna a casa, era ganz andere rispetto a prima. Anche l’altro fratello era cosí komisch (strano, sorprendente nel dialetto locale). Non poteva piú eseguire bene il suo lavoro. La gente correva per le strade con aspetto cosí tetro, e tuttavia cosí paurosamente eccitata. Le automobili andavano cosí lentamente. Il sole non era piú cosí luminoso. I colori erano come sempre, ma non vi era piú la vita di prima. Da quel giorno tutto restò cosí. Pensò di essere colpevole. Non aveva piú potuto pregare. Non sarebbe stata piú ascoltata da Dio. E tuttavia una voce le diceva sempre: puoi ancora diventare piena d’orgoglio e di felicità. Era una voce chiara. Veniva dal cielo, essa lo sapeva. Non era la voce del Salvatore e del buon Dio. Ma veniva dal cielo. Non veniva neppure dal diavolo. La voce

non sarebbe venuta neanche dal cielo, ma dal tetto. Essa era stata infelice, ma non angosciata. Non poteva avere piú angoscia perché non era piú una creatura come le altre. Si lasciò andare: tutto le era indifferente. Pensò accada quel che accada, e tuttavia essa aveva molto pianto colma di paura: non per sé, ma per i bambini che muoiono nel gelo, per la gente che morirà di fame. Caso VII, p. 417: «Tutto era cosí equivoco, come se tutto fosse radicalmente altro (ganz andere) nel mondo». Una operaia di trentotto anni. «Era come se fosse il giudizio universale». 5.2. Callieri, B., Contributo allo studio psicopatologico dell’esperienza schizofrenica della fine del mondo, in «Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria», XVI (1955), fasc. 4-5, p. 16 dell’estratto. Nel vissuto di fine del mondo è «come se» il paziente diventasse consapevole dell’angoscia, che è il modo fondamentale della nostra esistenza. «Questa ansia senza contenuto si carica di “intenzioni” di significato rivolte al mondo in cui il paziente esiste: egli, che è puro esserci-nel-mondo, che è pura “deiezione” (Geworfenheit), sente il mondo come annullamento, cioè il mondo viene per lui a non piú esistere; il nostro mondo, il mondo degli oggetti che ci circondano e che noi portiamo ogni giorno all’esistenza, “sta in bilico su un campanile”, perde il suo ordinato disporsi in un ordine di valori e di significati obiettivi. È allora terribilmente logico e comprensibile che le intenzioni di significato vengano a poggiare su complementi di significato abnormi: cioè, nel nostro caso, gli oggetti e le persone dell’ambiente (il fratello, il medico, il libro rosso, la carne e la tavola, l’armadio) si carichino di significati inadeguati, rigidi, appesantiti da una tonalità affettiva equivoca». La prospettiva ermeneutica del vissuto di fine del mondo diventa piú pertinente e piú profonda quando assume come punto di partenza la presenza come trascendimento della situazione nel valore, trascendimento che è minacciato dal non-trascendimento, e quindi dal rischio di non-esserci-nelmondo. Il «mondo» nasce e si mantiene nell’impegno del trascendere, nella presenza che «oltrepassa» la situazione, e che sta tutta in questo oltrepassare cosí come la mondanità sta tutta nel vario risultato che procede da questo movimento. Il crollo della presenza, il ricadere dell’energia del trascendere, il venir meno dell’oltrepassare come compito, è quindi il crollare del mondo: il mondo si avvia verso il finire perché si avvia verso il finire della presenza

chiamata a iniziarlo e a mantenerlo sempre di nuovo: il firmamento crolla perché Atlante piú non lo regge. Nella «caduta» del mondano la presenza vive angosciandosi il suo proprio abdicare, esperisce l’intenzionalità che non riesce piú a trovare il suo compimento. Tale «caduta» o «crollo» assume nel vissuto due aspetti polari contrapposti: per un verso l’intenzionalità vaga allo stato libero, secondo un vuoto «oltre» onniallusivo e minaccioso che travagli i singoli ambiti percettivi caricandoli di una tensione verso un vuoto «oltre» minacciosamente onniallusivo; per un altro verso il vuoto eccesso di semanticità dei singoli ambiti percettivi coinvolge, in quanto «vuoto», un difetto di semanticità, di progettabilità, di operabilità di questi stessi ambiti, che sono vissuti come «rigidi», «artificiali», «inerti», «morti», fuor d’ogni intenzionalità possibile. Da una parte sta dunque l’immagine terrificante dell’universo in tensione, nel quale ogni ambito percettivo accenna a rischiose coinonie con tutti gli altri, scaricandosi secondo somiglianze accidentali che diventano altrettante occasioni per identità sostanziali; dall’altra sta l’immagine non meno terrificante dell’universo sclerotico, i cui ambiti percettivi sono investiti da una inerzia mortale, impartecipi di qualsiasi «oltre» che li collochi in un ordine, finti e teatrali rispetto alla verità della vita, o addirittura composti in una sorta di rigidità cadaverica. In altri termini il vissuto di fine del mondo oscilla fra il «troppo» e il «troppo poco» di semanticità, secondo una ambivalenza di aspetti che non può essere decisa: e se nel vissuto emerge talora solo uno di essi (l’universo in tensione o l’universo sclerotico), l’altro è sempre pronto a subentrare, in virtú di una polarità che è giustificata dal carattere stesso di questo vissuto. D’altra parte entrambi gli aspetti comportano un fondamentale vissuto di «alterità radicale»: il mondo sta mutando o è mutato, non è piú il mondo domestico addomesticabile, qualche cosa di assolutamente nuovo sta per accadere o è già accaduto, e non già nel senso normale che il mondo muta nel tempo, e noi con esso, ma nel senso che ora il mutamento sta nell’esperire la stessa mondanità che volge alla fine, e che diventa «altra» proprio come mondanità, quindi «radicalmente altra». Il tutt’altro del mondo che si demondanizza, riflette il perdersi della funzione presentificante della presenza, il suo diventar altra (il suo «alienarsi») in luogo di mantenersi come norma dell’identica e del diverso. Il vissuto di fine del mondo riflette questo nesso in quanto il mutamento o la catastrofe del mondano è esperito come una alterazione, che ha un senso

personalissimo; qui come non mai, tua res agitur. Alcunché di radicale investe le radici stesse della persona, riguarda questa persona, allude perentoriamente a essa: ma non già nel senso generico, e del resto normale, di un certo accadimento sommamente importante per la vita della persona, ma in quello specifico di un mutamento della qualità dell’accadere come categoria del reale, onde questo accadere in luogo di assumere la forma «normale» di una domanda che lascia margine alla risposta della presentificazione, è sentito come orientato verso la modalità di un essereagito-da che toglie ogni margine nel rispondere e che ghermisce e spossessa e insidia per questa sistematica spossessione. Il divenire del mondo che finisce rischia di «rubare l’anima» a ogni momento: e infatti se il mondo che finisce riflette la caduta della presenza che sempre di nuovo è chiamata a iniziarlo, quel finire è vissuto come spossessante per eccellenza, come aggressione e come furto, come persecuzione e infine come giudizio ultimo, definitivo, sotto il quale si cade per una colpa estrema di cui si porta l’immenso carico. [...] 5.3. Fine del mondo nei disegni schizofrenici. La esperienza e la rappresentazione di sé e del mondo nei disegni schizofrenici. Volmat, pp. 155-59 48. Nei disegni spontanei dello schizofrenico si notano, dal punto di vista strutturale, i seguenti elementi: La stereotipia, cioè la ripetizione del disegno nel suo insieme: questa tendenza alla fissazione stereotipa, si congiunge alla rigidità, alla deformazione, alla semplificazione, alla meccanizzazione. Alla stereotipia sono associate le iterazioni, cioè le ripetizioni immediate d’un atto motore o verbale che, una volta terminato, è ripetuto senza utilità: nel disegno la iterazione si traduce nella serie di tratti identici piú o meno ravvicinati, cerchi o settori concentrici, zig-zag o arabeschi. L’orrore del vuoto, che rende i disegni pieni come un uovo. La utilizzazione al massimo dello spazio, la sua geometrizzazione, allo stesso modo come, avendo orrore del tempo, del divenire, dell’imprevedibile, si geometrizza il tempo mediante una pianificazione tendenzialmente totale, e una semplificazione schematica, degli atti da compiere. La tendenza al ritocco per sovrapposizione (senza cancellature, senza vere e proprie correzioni), lo scrupolo inesauribile della «rifinitura», magari del particolare minimo. Tendenza all’equilibrio e alla simmetria, al monumentale, al «perfezionamento», come geometrismo. Importanza della cornice: suo

significato di protezione della composizione dal rischio di recedere nel caos. Tendenza alla frammentarietà della composizione, allo sparpagliamento o alla dispersione dei suoi elementi: assenza di prospettiva (mondo senza «profondità», cioè senza orizzonte di agibilità dinamica, di movimento possibile), oggetti in tensione, deformati «fissati nel loro deformarsi». Superstizione della immobilità, della immutabilità, della fissità spaziotemporale. La trasparenza degli oggetti (la inconsistenza degli oggetti trova espressione nella trasparenza con cui sono disegnati); la omissione di tratti reali degli oggetti; l’aggiunta di leggende, scritte, nomi per sottolineare le rappresentazioni e per aumentare la loro potenza di convinzione; la molteplicità dei punti di vista dell’oggetto. Aderenza al modello come reazione di difesa, angosciata, di fronte alla dissoluzione della persona e alla fuga del mondo oggettivo. Convenzionalismo: oppure, ove il suo conato di aderenza morbosa fallisce, deformazione del mondo, o proiezione di sé nel mondo. La stilizzazione come risultato delle tendenze alla semplificazione (il concreto ha «troppi» particolari), alla ripetizione (il concreto ha troppi mutamenti, il divenire è insopportabile): la semplificazione geometrizzante e la ripetizione detemporalizzante come elementi della stilizzazione. Rapporto con le «tendenze ritmiche» della nostra vita psicomotrice. L’agglutinazione delle immagini (forme umano-animali, umano-vegetali, ecc.), lo spostamento e il mascheramento (sostituzione di un gruppo di immagini con un altro che lo rappresenta). La proiezione delle immagini: derivante dall’assenza di distinzione fra percezione e rappresentazione, fra me e mondo esterno, fra idea e atto, fra parola e oggetto, fra imitazione soggettiva di un evento e prodursi dell’evento (mondo «magico»). Lo spazio dello schizofrenico è la negazione di quello vissuto e la sua sostituzione con uno spazio primordiale, sacro, immutevole, invulnerato dal caos delle forme. Il tempo: mentre il maniaco tende a vivere nel presente astratto, e il melanconico nell’astratto passato (con una negazione dell’avvenire che giunge sino al suicidio), lo schizofrenico tende a «negare» il tempo, al completo arresto del suo flusso vivente, alla sua spazializzazione non già come strumento mentale di controllo pratico ma come esperienza immediata e riduzione totale: di qui la pietrificazione, la mineralizzazione, l’esperienza

di morte e di assenza di significato dinamico delle cose, la loro morte perché non indicano piú centri di azione socialmente e storicamente possibile; di qui, anche, l’esperienza di «immortalità» come interpretazione di un mondo che non può piú divenire, che si è «fermato». Se si dovesse rappresentare questo tempo secondo una immagine nello stile che le è omogeneo, si potrebbe disegnare un quadrante le cui ore sono rappresentate da dodici teste di morto rigorosamente identiche. I malati si riferiscono a un tempo sacro, mitico degli inizi, prima della apparizione della storia, cosí come si riferiscono a uno spazio mitico e sacro. Questa negazione della storia è negazione del tempo vissuto... La stereotipia, la ripetizione degli atti e delle forme, possono essere considerati come rito di abolizione periodica del tempo (pp. 168 sgg.). Assenza di movimento: rigidità del tratto; inflessibilità; frammentarismo e discontinuità; colori freddi, a larghe zone contigue, accrescono l’impressione di immobilità, di «morte delle passioni». Simbolismo dei colori. I simboli e i temi plastici: – L’albero, proiezione emozionale di sé, o dei membri della famiglia, o del rapporto di transfert; per lo piú alberi esotici, mai alberi da frutto: l’albero spoglio, morto, solitario, sradicato, pietrificato, ecc. – La via deserta, sbarrata, senza sbocco, incassata fra montagne, che sparisce sotto la vegetazione. – Barriere protettive davanti agli oggetti proiezione del me. – La montagna altra proiezione del me; desolata, immensa, lontana nelle nuvole, calvario, con una caverna, in un orizzonte piatto, immenso, sperduto. – Casa senza porte né finestre, dove non si può vivere, dove non si può entrare, senza caminetto, senza fumo; la casa dove sono morto: miserabile, in rovina. – Antiche rovine; o castello che si specchia in un lago; con stereotipia di balconi; isolate, o serrate le une sulle altre o gruppi di buildings; geometriche, ecc. – Acqua, associata talora all’albero. – Il sole. – La folgore. – Il bestiario simbolico. – L’occhio. – Le scene.

La fuga dal tempo: verso il senza tempo, verso l’illud tempus. O verso il tempo favoloso, o il passato (o il presente) esotico. Fuga nello spazio, il presente esotico. Pietrificazione dell’universo. La fuga da sé, la propria disumanizzazione: fuga nell’animale, nel vegetale, nel minerale, nell’automatico e macchinale. Maschera. Pietrificazione. 5.4. La schizofrenia è la piú filosofica delle malattie psichiche non già, ovviamente, nel senso che lo schizofrenico sia un filosofo (egli è la negazione del sapere e dell’amore, le due grandi forze che fanno l’uomo), ma nel senso che l’uomo sano, cioè capace di risanare sempre di nuovo in sé e negli altri la ferita esistenziale, può attraverso l’analisi dei vissuti schizofrenici prender coscienza di quel rischio estremo cui è esposta l’esistenza umana, la caduta dell’ethos del trascendimento. La lotta contro questo rischio individua l’uomo in quanto fondatore di vita culturale, in quanto eroe dell’opera intersoggettiva «razionale», comunicabile di fronte alle tentazioni della disgregazione e del caos: è la lotta contro questo rischio che individua l’umano in quanto movimento dal privato al pubblico, e auscultazione interiore delle pubbliche voci che risuonano nel mondo, in una data epoca storica e nel quadro di una particolare cultura: ma appunto per questo la schizofrenia, che è il mutamento di segno di tutto questo, ha un grande potere pedagogico per ogni uomo che avendo optato per la ragione combattente, intende misurare in tutta la sua ampiezza e profondità il fronte del nemico. La psicosi maniaco-depressiva ci illumina non tanto sul rompersi del rapporto col mondo, quanto piuttosto del sé che oscilla dalla colpa mostruosa all’accelerazione senza orizzonte di tutti i processi psichici: ma questa «colpa mostruosa» non è forse da interpretare come la colpa radicale di chi perde la radice stessa dello scegliere secondo valori? 5.5. Caso del letterato Reto Roos, con commento di L. Binswanger 49. Lo scrittore Reto Roos, svizzero, il cui primo romanzo guadagnò un premio letterario. Diverse volte ricoverato per fasi di grave depressione, si tolse la vita a quarantacinque anni, impiccandosi. Nella storia di questo malato troviamo molti accenni al problema della «perdita dell’oggetto» nella melancolia. [...] Secondo Binswanger nelle autodescrizioni del malato l’appoggio, il sostegno, l’oggetto a cui attaccarsi effettivamente (sich hängen) sono cercati non verso l’alto, nella direzione verticale del valore, ma verso il basso, come

«ancoraggio». Il suicidio per «impiccagione» di Reto Roos potrebbe a mio parere essere interpretato come l’unica possibilità di «legarsi verso l’alto», cioè «impiccandosi»: nel che la caduta della valorizzazione consuma il suo esito, coincidendo con un atto in cui il materiale «legarsi» verso l’alto coincide con la morte. Secondo Binswanger, questo suicidio non è da interpretarsi come «una pura e semplice bancarotta o elusione dalla vita, con una sorta di rassegnazione (ma come) un «di che» (worüber) pieno e senza possibili alternative, ultimo combustibile che può essere gettato nella fornace della vita, allorché il se stesso si è ormai spento, cancellandosi dal proprio libro delle spese domestiche», secondo una espressione dello stesso Reto Roos. Il tema suicidio è «l’ultimo e non trascendibile» di che a cui qui è possibile afferrarsi, la decisione piena e senza alternativa in cui l’esserci può costituirsi nel tempo, e ciò nel senso pieno della parola. Tale costituirsi per un di che pieno e senza alternativa ha luogo con un ultimo sforzo – come direbbe Jarg Zönd: cfr. Binswanger, Schizophrenie, I , II e III studio 50 –, e certo spesso con uno sforzo estremamente energico, anzi addirittura brutale. Autodescrizione di Reto Roos, pp. 53 sgg.: «Gli stati depressivi [Il malato parla di “stati depressivi”, non di “tristezza”] 51 hanno inizio cosí: le cose cui si attribuisce maggior valore si sottraggono alla vita affettiva, e si avverte di diventare interiormente deboli, senza appoggio (haltlos). Si cerca un appoggio qualsiasi in uomini, cose, occupazioni: se l’affettività riemerge in virtú di un dato ancoraggio, il futuro diventa piú facile, e ci si ridimentica di se stessi forse interamente. Tuttavia è come se in qualche dove restasse l’angoscia di perdere ancora una volta la affettività, e perciò non ci si affida nella misura dovuta al proprio sentire, come anche al futuro. Se non si riesce a ristabilire un vivente contatto, si combatte con la disperazione di chi è sul punto di affogare, afferrandosi a tutto ciò che sembra offrire una speranza. Si è nella condizione di Asvero, che non trova mai riposo. I pensieri corrono vuoti, vertendo sempre sulle stesse cose 52: infine interviene il completo esaurimento della affettività, e ci si spegne [Cioè: non ha piú “materiale combustibile”], il che è la cosa piú difficile a sopportare. Se ci si rassegna a vivere in una condizione simile [Ancora un “oggetto”!], allora si può andare vagando come un morto, e attendere, attendere [Cioè: vuoto intenzionale della protensione]. Si prova solo il bisogno che nulla intervenga a disturbare la pazienza della attesa [Ancora un “oggetto” o materiale combustibile]. Se

questo stato si protrae per troppo tempo, e non torna la affettività [Cioè: se non torna “la possibilità della piena struttura intenzionale della obiettività temporale”], insorge la disperazione; la vita non può essere percorsa a ritroso, anzi è ritirata via [Vuoto intenzionale della ritenzione], si vive in sospensione, e non la si può andare a riprendere [Vuoto intenzionale della protensione]. Allora ci si lascia sprofondare nell’abisso, scavando sempre piú dentro le viscere dell’anima: infatti nella affettività, nella disperazione, nella demonicità vi è almeno ancora sentimento della vita, anche se avvolgentesi in circolo [Tuttavia anche in questo corso vuoto il tormentoso disperarsi dell’anima consiste di un materiale combustibile, col quale è “appiccato il fuoco”]. L’anima si torce le mani, è occupata in questo, diventa turgida. Insorgono impulsi, si perde il governo di sé e si è trascinati [Qui troviamo per la prima volta la perdita di se stesso (Entselbstigung) e con ciò l’abbandono del se stesso a un mero accadere. Deve anzi essere a priori chiaro che “perdita dell’oggetto” e “perdita del se stesso” sono reciprocamente correlativi, si implicano a vicenda]. Se si mobilita la volontà per combattere questi impulsi, essi crescono; se si riesce per un momento ad avere la meglio, torna la speranza; riuscendo la seconda volta, la speranza cresce, anzi si estolle sino all’estasi. Poi, ancora una volta, sopravviene la ricaduta. Si è invasi dallo scoraggiamento: non è servito a nulla. Ed ecco farsi di nuovo presenti le deiezioni di prima, che col loro peso schiacciano al suolo sempre piú in basso. Si è sprofondati in se stessi, cercando rifugio ovunque lo si possa trovare con maggiore facilità e sopportabilità, sí da riottenere almeno la affettività o il riposo senza pensieri, un sogno, un velo su tutto [Pertanto non si tratta di un determinato “di che” (Worüber) o oggetto, e neppure di un tormentoso vuoto nel corso del pensiero, ma di una sorta di stadio intermedio fra entrambi, portato da una parte dal riposo, dalla calma affettività, dall’altra però velato di sogno, o meglio dal sognare]... (segue una digressione contenente tentativi di interpretazione psicologica e psicoanalitica del suicidio: il malato aveva infatti iniziato una cura psicoanalitica, poi presto abbandonata a motivo del sentimento, rafforzato dall’analista, che la cura in quistione avrebbe sottratto al paziente le sue capacità artistiche)... Quando poi non si ha piú nulla al mondo [Cioè: nessun “di che” (Worüber) a cui potersi appoggiare, tenersi, ancorare], e l’angoscia torna a sovrastare, quando a tal punto si rinunzia a se stesso e ci si cancella dal proprio libro delle spese domestiche (und auslösche aus seinem Haushaitungsbuch), allora si giunge

di fatto, in modo pieno e senza possibile alternativa, alla decisione del suicidio». 5.6. La crisi di oggettivazione. La crisi della potenza di oggettivazione secondo valori ha necessariamente un duplice aspetto: la crisi dell’oggetto e quella del soggetto. La crisi dell’oggetto significa il venir meno della stessa possibilità di costruire un mondo di oggetti, cioè di ordinare la situazione in un mondo di valori. La situazione che non riesce a oggettivarsi per la carenza della stessa fondamentale funzione oggettivante si traduce necessariamente sul piano della presenza in crisi in determinate esperienze che, da un punto di vista clinico, sono sintomi della malattia: l’esperienza fondamentale è che tutto ciò che accade rivela intenzioni ostili concernenti il soggetto, e che ogni ambito del reale diventa onniallusivo di tutti gli altri, senza poter mai definire in modo soddisfacente il conato onniallusivo. Ogni cosa allude alle altre, in un processo di identificazione passiva e automatica che approfitta di esteriori somiglianze di attributi o di semplici omonimie verbali per instaurare identità labili provvisorie, nelle quali tuttavia il processo onniallusivo si riapre. Il mondo si popola di «intenzioni», di atti responsabili, e tutte le intenzioni e le responsabilità accennano nella loro indefinita vicenda al soggetto come vittima, a un disegno oscuramente perverso, a una macchinazione subdola. In questo momento della crisi ciò che si oggettiva è la stessa responsabilità umana della scelta, onde invece di fissare l’altro da sé in modo fisiologico, come scelta, diventa altra, si aliena la stessa potenza di scelta. Si comprende benissimo perché tale momento può legarsi a una esperienza di estraneità radicale dell’oggetto, all’angoscia del radicalmente altro, poiché ciò che qui si aliena è la presenza, e l’inalienabile presenza rischia di diventare oggetto, cioè di perdersi. La crisi del soggetto comporta fondamentalmente un sentirsi estraneo, artificiale, meccanico con tutta una serie di sfumature nella esperienza della inefficienza del sé, sino al senso di una colpa mostruosa quanto immotivata, e di una equazione tra il fare e l’essere in colpa: tutto ciò che si fa è colpa. Anche qui la radicalità e la immotivazione della colpa sono spiegabili, perché si tratta della colpa davvero radicale di non poter dare una motivazione all’agire, di non poter scegliere un mondo di oggetti secondo valori. Il congiurare di questa duplice causalità della crisi (ogni cosa è una causa «intentata» al soggetto come vittima, ogni azione è colpa) dischiude la «reazione» difensiva impropria dello stupor catatonico.

5.7. Catatonia e ritualismo. La pura angoscia del divenire costituisce un vissuto psicopatologico che coinvolge tutti i momenti del divenire stesso, indipendentemente dal loro contenuto. La difesa estrema da tale pura angoscia è il rifiuto di qualsiasi rapporto col mondo, e quindi – al limite – la immobilità dello stupore catatonico, con la sua caratteristica tensione. Ne nasce una paradossia, un conato contraddittorio per eccellenza, votato alla inanità: il sistematico rifiuto di ogni rapporto col mondo lascia infatti trasparire un rifiutare che è insopprimibilmente inserito nel mondo. Proprio nella misura in cui la difesa si radicalizza, si accentua la paradossia sino al punto di rottura, che se per un verso è il rischio del ristabilirsi del rapporto mondano, per l’altro verso l’irrompere di un cieco furore rivolto a sopprimere quel rapporto mediante l’aggressione e la distruzione materiale. La difesa tuttavia, malgrado questa paradossia, la difesa catatonica rivela la sua relativa coerenza esistenziale una volta che si assuma come punto di partenza la crisi dell’angoscia del divenire e la esperienza di una difesa. Per quel che ha di specificamente umano, il divenire è irreversibile esperire di situazioni sempre nuove, nelle quali le memorie di situazioni analoghe già esperite e di comportamenti corrispondenti già utilizzati non annulla mai il carattere di novità delle situazioni stesse, e l’impegno di trascenderle con iniziative originali, con decisioni «uniche» integrate nella società e nella storia. Ora il rischio di non mantenersi come presenza nel divenire e di essere travolto dal flusso storico delle situazioni, si esprime nella difesa catatonica come conato protettivo di ridurre il divenire all’essere, secondo la destorificazione radicale racchiusa nel rifiuto di qualsiasi rapporto col mondo. Questo stesso conato si esprime con rigorosa coerenza nella «flessibilità cerea»: i mutamenti imposti al corpo dall’esterno si tramutano in permanenze indefinitamente protratte, cioè ogni nuova posizione del corpo e delle sue membra viene subito isolata dal divenire e mantenuta, cioè cancellata nel suo carattere di un inizio cui segue qualcosa, o di una domanda cui segue risposta, o di novità che manifesta nel modo piú elementare e piú perentorio la storicità della situazione umana. Quando il mutamento concerne invece non il proprio corpo, ma il mondo esterno, e si manifesti non alla cenestesia ma alla vista e all’udito, la riduzione del divenire alla permanenza dell’essere assume altre forme. Quanto alla vista, il mondo si denunzia come una molteplicità di ambiti sensibili, la difesa della polarizzazione isola uno di questi ambiti, anche

minuto o irrilevante, e vi si immerge come se il mondo si riducesse a esso; ciò esprime la riduzione materiale della molteplicità sensibile alla unità di un singolo sentito e il rifugiarsi in questa unità come in una munita rocca della permanenza. Come il mutamento introdotto nella posizione del proprio corpo viene isolato e indefinitamente mantenuto, cosí il mutamento che appare alla vista come molteplicità di ambiti possibili non è accettato come tale, ma viene ridotto a un sentito isolato, nel quale ci si immerge in un conato di permanenza. La riduzione del mutamento visto o udito alla permanenza dell’essere si manifesta anche nella imitazione speculare: qui il rifiuto della domanda dà luogo alla semplice ripetizione della domanda stessa, nel senso che il mutamento visto o udito non è occasione di una risposta ma stimolo di una ripetizione mimica o fonica, che isola subito questo mutamento e ne soffoca la tentazione al divenire mediante l’inerzia del ripetere: in tal modo il mutamento viene cancellato con una risposta che ripete la domanda, e la minaccia di un inizio che potrebbe ridischiudere il divenire subisce l’esorcismo dell’inizio che non inizia nulla, tranne l’imitazione o la eco che lo ripete, risolvendolo in permanenza. La catatonia, col suo estremo radicalismo, potrebbe essere assimilata alla difesa dell’assediato che si ripara dietro l’ultima barricata su cui tuttavia l’avversario continua a premere aprendo qua e là delle brecce pericolose: la flessibilità cerea, la polarizzazione e la imitazione speculare si configurano – per mantenere il paragone – quali conati per chiudere queste brecce o per istituire difese di fortuna. Ma se ora ci volgiamo alle stereotipie, l’immagine piú adeguata sembra essere quella dell’assediato che tenta una sortita, e che si caccia in mezzo al nemico, ma protetto per quanto possibile dai suoi colpi mortali. Le stereotipie infatti concedono qualche cosa al mutamento, al mondo, ma d’altra parte riplasmano il comportamento introducendovi un segno di isolamento e di impartecipazione. Si atteggia il volto o il capo in modo che scolpisca qualche visibile immutevolezza e si attraversa il mutare dentro questa armatura che separa e protegge. Se l’esser scolpito in qualche segno del permanere non può esser mantenuto con tutto il rigore possibile, se la demonicità del mutare lambisce e si insinua, allora il mutare viene finalmente accolto, ma ridotto alla ripetizione dell’identico, cioè a un mutare che è tale solo in apparenza, perché in effetti è «eterno ritorno» della identica serie di mutamenti successivi, un iniziare e un seguire che sistematicamente

si annullano attraverso il ritorno allo stesso identico inizio. Per quanto il divenire, possa accumulare domande su domande ed esigere risposte su risposte, sempre diverse in rapporto alle sempre diverse domande, la stereotipia come difesa contrappone una unica risposta, che rigorosamente si ripete: una risposta che in effetti non risponde al mondo, ma unicamente all’esigenza di attraversarlo senza esserne lambito. Qui noi tocchiamo un momento importante della funzione del ritualismo. Proprio perché dominato da quella forma di permanenza che è la ripetizione rigorosa di uno stesso ciclo di atti, e proprio perché in questo ripetere è efficace non tanto la qualità del ripetuto quanto la forma della ripetizione destorificatrice, il ritualismo racchiude in germe un momento di separazione protettivo dal mondo, di fuga ristoratrice dal divenire: nell’angoscia della storia che non si ripete (e che proprio perché non si ripete angoscia) ci si ritira nella munitissima rocca della metastoria che si ripete (e che ristora proprio perché è il regno della ripetizione, divenire apparente, ritorno dell’identico, inizio e successione che si annullano riproducendo sempre di nuovo l’inizio). D’altra parte poiché il ritualismo separa dal divenire, è essenzialmente azione separata, al riparo da qualsiasi contaminazione del mutare, dell’innovare, dell’alterare. La paradossia del ritualismo sta appunto qui, e riproduce quella della catatonia, della polarizzazione, della flessibilità cerea e della imitazione speculare: infatti al ritualismo si accompagna la oscura coscienza che il divenire minaccia il cuore stesso del comportamento ritualistico, e che il tentativo di evadere nella metastoria della ripetizione facendo parte della storia che non si ripete non sia sottratto alla novità e alla iniziativa. Di qui nasce lo scrupolo caratteristico della esatta iterazione, la mania di esattezza, il dubbio dell’errore nella esecuzione, la necessità di riprodurre il comportamento ritualistico nel timore di aver lasciato intrudere qualche novità denunziante il divenire e di esser venuti a patti col mondo per un attimo solo: quell’attimo che facendo breccia nella barricata della ripetizione, rischia di farla crollare lungo tutto il suo fronte! 5.8. Ambivalenza. Kranz in «Studium Generale», VIII (1955), H. 6, pp. 373 sgg. 53, accenna alla polarità di significato e alla polivalenza di figure mitiche in rapporto con l’ambivalenza schizofrenica. A proposito di quest’ultima ricorda il passo del Gruhle: «(uno dei piú importanti tratti dell’esperire schizofrenico è) il contemporaneo porsi di sí e di no, si tratti di

un processo motorio o di un sentimento o di una decisione» 54. L’ambivalenza schizofrenica appartiene, secondo Storch, alla «perdita della costanza e della determinatezza delle strutture delle cose», il che ha il suo parallelo nel pensiero e nell’esperire prelogici dei primitivi 55. La somiglianza fra l’ambivalenza dell’esperire schizofrenico e l’ambivalenza del numinoso o del mito non è senza dubbio da risolvere in una identità. D’altra parte tale «somiglianza» pone una serie di problemi, perché non è «casuale». In primo luogo c’è da chiedersi perché una psicosi (o una nevrosi) somiglia in alcuni suoi tratti al numinoso e al simbolismo mitico-rituale, in secondo luogo perché il numinoso e il simbolismo miticorituale presenta tratti che somigliano a una psicosi (o a una nevrosi). In secondo luogo sussiste il problema di distinguere il malato dal sano, la psicosi (o la nevrosi) da tutto il complesso degli istituti magico-religiosi regolarmente funzionanti nelle società storiche e nelle diverse epoche di tali società. Le due quistioni formano una unità, e non è possibile risolvere l’una senza risolvere l’altra. A proposito dell’ambivalenza psicotica e di quella del numinoso e del simbolismo mitico-rituale è da osservare che la prima sta come rischio mentre la seconda sta come risoluzione di questo rischio. La presenza è decisione, trascendimento della situazione secondo valori intersoggettivi: è quindi del tutto comprensibile che il rischio di perdere la presenza si manifesta, in uno dei suoi episodi limiti, come ambivalenza, urto irrisolvente tra sí e no, che dilaga in tutta la vita psichica, e investe l’intero fronte dei possibili trascendimenti: un urto che ha la sua espressione piú drammatica nella tensione dello stupore catatonico, cioè nella sistematica contrapposizione di un «no» a ogni possibile «sí». L’orizzonte del numinoso, del «tutt’altro», del simbolismo mitico-rituale in atto di funzionare in una cultura definita riprendono questo rischio e lo avviano a una soluzione culturale. In quanto lo riprendono somigliano al ripreso, ma in quanto lo risolvono non gli somigliano affatto: cosí, per quel che concerne l’ambivalenza, mentre nelle psicosi e nelle nevrosi essa presenta il segno negativo del tendere all’urto irrisolvente, che non ha esito perché ogni conato di uscirne isola sempre piú dalla decisione ispirata dal rapporto comunicabile e intersoggettivo, accade invece nella sfera della vita magico-religiosa che l’ambivalenza è appena il momento iniziale di un dinamismo che si apre alla progressiva distinzione delle valenze, e che recuperando il tutt’altro dischiude valori comunicabili e intersoggettivi, socialmente circolabili, culturalmente

condizionati, orientati nel senso di un mondo in qualche modo «operabile» e «progettabile» insieme agli altri. Ciò significa che le concordanze fra psicosi e vita magico-religiosa (o mentalità mitica o arcaica o prelogica o come altro si voglia piú o meno opportunamente chiamare) nascono da un paragone astratto fra un malato che, in quanto malato, si va astraendo dal mondo con diverse modalità sintomatiche e secondo diversi quadri nosologici, e un istituto che, in quanto strumento di vita normale di una data cultura, è orientato a reintegrare da questo rischio di astrazione. Si paragonano cosí due dinamiche opposte: in ciò sta la legittimità e al tempo stesso il limite del paragone. Senza dubbio l’analisi dello psichicamente malato ha metodologicamente la grande importanza di mettere a nudo il momento del rischio contro cui combattono il numinoso, il sacro, il magico-religioso, il simbolismo mitico-rituale: ma mentre nella vita magico-religiosa quel rischio sta come momento di una dinamica di ripresa e di reintegrazione, nella malattia psichica esso si viene sempre piú isolando come nudo rischio, senza ripresa e reintegrazione efficaci. Chi sale e chi scende una rampa di scale si incontrano necessariamente su un certo gradino: ma quel loro incontrarsi non significa che, nel momento in cui poggiano il piede sullo stesso gradino, le istantanee relative della loro identica posizione hanno lo stesso significato dinamico, poiché l’uno sale e l’altro scende. Sia che si riduca la vita magico-religiosa a malattia psichica, sia che se ne postuli la differenza ma si insista unicamente sulle concordanze senza offrire nessun criterio valido per distinguere l’una dall’altra, sia infine che si assuma la vita magico-religiosa come assolutamente indipendente dal rischio psicopatologico o con rapporti meramente casuali con esso, si incorre in ciascuno di questi casi in una interpretazione arbitraria della struttura e della funzione del simbolismo mitico-rituale in quanto fenomeno di cultura, e al tempo stesso ci si preclude anche la comprensione del significato esistenziale della malattia psichica. Kranz, a proposito del rapporto fra «mito» e «psicosi»: «Sarebbe in ogni caso temerario se si volesse ridurre l’esperire dello schizofrenico nella semplice attivazione incontrollata dell’esperire arcaico-mitologico. Il materiale archetipico tratto dai sogni e dalle fantasie si trova non soltanto negli psicotici e nei nevrotici, ma anche nei sani. Con ciò però non è dimostrato ancora che l’irruzione del numinoso equivale a una psicosi. Noi riteniamo piuttosto che attraverso il processo psicotico sconosciuto possono

emergere il numinoso ovvero le tendenze laceratrici che appartengono all’uomo da sempre, e ciò allo stesso modo come nella depressione ciclotimica risultano scoperte le angosce originarie dell’uomo, senza che tuttavia la loro irruzione generi la psicosi, o la psicosi le produca o che esse siano la psicosi» (p. 374 56). Il problema, per quanto oscuramente posto, affiora qui nel discorso dello psichiatra. Il numinoso non è una psicosi (cfr. G. Adler, Zur analytischer Psychologie, Zürich 1952), ma costituisce una difesa culturale, storicamente condizionata, dal rischio della crisi esistenziale. Proprio per questa sua funzione che si innesta nel vivo delle concrete possibilità di crisi, dischiudendole verso la reintegrazione, il numinoso (il sacro, la vita magicoreligiosa, il simbolismo mitico-rituale) presenta somiglianze non accidentali con la fenomenologia psicopatologica, in quanto le forze modellatrici e reintegratrici che esso mette in movimento sono necessariamente ricalcate sul carattere di quei possibili episodi critici di cui rappresenta la ripresa e il mutamento di segno. D’altra parte proprio questa ripresa e questo mutamento di segno che il numinoso opera nel cuore della crisi esistenziale consentono di distinguere nettamente i casi in cui il dispositivo è efficace da quelli in cui non lo è, cioè da quelli che, malgrado astratte apparenze comparative, presentano il segno negativo della crisi senza orizzonte. Questa interpretazione del rapporto malattia psichica - numinoso porge un criterio sicuro per non confondere i due termini del rapporto stesso: una pratica magica, una forma di vita religiosa, un dato simbolismo mitico-rituale sono tali quando lo storico della cultura è in grado di mostrare per una civiltà o per un’epoca o per una circoscritta manifestazione del sacro o per un dato personaggio (un fondatore di religione, un profeta, un mistico) il dinamismo positivo che conduce dalla crisi alla reintegrazione, dall’ineffabile e dal privato al mondo comunicabile dei valori intersoggettivi, dall’angoscia della storia al mondo operabile e progettarle insieme agli altri, dall’essere-agito-da alla esplicazione attiva delle forme di coerenza culturale, dal «tutt’altro» che sgomenta al processo di riappropriazione mediatore di opere mondane. Da ciò deriva una serie di nuovi compiti per lo studioso di storiografia religiosa. Innanzitutto la fenomenologia della crisi costituisce per questo dominio della conoscenza storiografica un campo di ricerche e di analisi che interessano in modo diretto: il soccorso della analisi esistenziale in psicopatologia e dei reperti della etnopsichiatria hanno qui tanta importanza quanto le tecniche

filologiche cui la storiografia è cosí strettamente legata e le tecniche di lavoro sul campo indirizzate a sorprendere in vivo e ad analizzare gli istituti funzionanti. Una volta identificato un certo simbolismo mitico-rituale, la comprensione storiografica piena richiede che se ne siano individuati i momenti critici della esistenza cui quel dinamismo funge da orizzonte di ripresa e di reintegrazione: il che lo storiografo non può fare senza ricorso alla fenomenologia psicopatologica. La ricostruzione si deve quindi volgere a precisare il modo di operare di tale orizzonte, l’apertura verso i valori che esso consente, il dinamismo culturale che ne risulta, i limiti di questo dinamismo, gli incidenti cui la storia lo espone, il vario condizionamento per entro il quale il dispositivo si è mantenuto (o si mantiene) efficace ovvero va in rovina sostituito da un altro. In secondo luogo, poiché la carica di intersoggettività e di comunicabilità individua la efficacia dei simboli miticorituali rispetto alla crisi che isola e chiude, disgrega e annienta, la storiografia della vita religiosa comporta sempre una dimensione sociologica della valutazione: un simbolo mitico-rituale è elemento coesivo dotato di forza espansiva, che si estende al gruppo tribale, alla nazione o a civiltà plurinazionali, e che si ripartisce in vario modo per sessi, per età, per classi, dando vita a raggruppamenti specificamente sacrali, quali le società iniziatiche, le sette, i sacerdozi, le chiese, gli ordini religiosi, le missioni. La dimensione psicopatologica e quella sociologica acquistano dunque particolare rilievo in questa prospettiva totale e dinamica della ricerca storicoreligiosa. 1. Il concetto di Daseins-Umwandlung, forgiato a partire dalla nozione heideggeriana di Umwandlung des Daseins, è introdotto da Alfred Stoch in quest’articolo. È utilizzato dagli psichiatri tedeschi di orientamento esistenziale almeno fino agli anni Sessanta. Ringrazio Vincent Barras per questi chiarimenti. Sul percorso di questo medico di origine ebraica che organizza seminari teologici con Martin Buber e Paul Tillich presso la clinica di Tübingen prima di emigrare in Svizzera nel 1933, cfr. M. GRIMM, Alfred Storch (1888-1962). Daseinanalyse und anthropologische Psychiatrie, Schmitz, Gießen 2004. 2. Nel nome della rivista è stato corretto «Neurologie» con «Nervenkrankheiten». 3. Nella mitologia greca, metamorfosi di una cosa, di una persona o di un eroe in costellazione, oppure trasporto dell’anima in cielo o fra le stelle. Cfr. J.-P. MARTIN, Sur le sens réel des mots ‘catastérisme’ et ‘catastériser’, Pallas, in «Palladio Magistro: mélanges Jean Soubiran», n. 59, 2002, pp. 17-26.

4. Queste categorie sono trasposte dalla filosofia heideggeriana alla clinica da Ludwig Binswanger, che vi aggiunge una terza dimensione: l’Eigenwelt, ovvero la dimensione privata della relazione a sé. 5. Il Commentaire psychologique du Bardo-Thödol di Carl Gustav Jung è pubblicato come postfazione alla traduzione francese: Bardo-Thödol, Le livre des morts tibétain ou les expériences d’après la mort dans le plan du Bardo, suivant la version anglaise du lama Kazi dawa Samdup, a cura di Dr. W. Y. Evans Wentz, prefazione di J. Bacot, Maisonneuve, Paris 1933. Destinato a tradurre per gli occidentali la metafisica orientale, opera uno slittamento delle rappresentazioni del divenire post mortem verso un’interrogazione sulla vita pre-uterina, in complementarietà con la teoria freudiana. L’uso che Storch fa di questa collazione di testi, segnata dagli interessi teosofici del suo primo editore, partecipa delle reincarnazioni successive del piú celebre «tesoro spirituale» in Occidente. Cfr. D. S. LOPEZ JR, The Tibetan Book of the Dead. A Biography, Princeton University Press, Princeton 2011. 6. Storch cita Hölderlin a partire da W. REHM, Tiefe und Abgrund in Hölderlins Dichtung [Profondità e abisso nella poesia di Hölderlin], Zurich 1947. Devo quest’informazione a Vincent Barras. 7. Fra la prima e l’ultima edizione tedesca, il volume di questo trattato è raddoppiato. È solo nel 1964 che esce la prima traduzione italiana, Psicopatologia generale, traduzione dalla settima edizione tedesca a cura di Romolo Priori, Il pensiero scientifico, Roma 1964; essa è preceduta da Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950 (Psychologie der Weltanschauungen, 1919). In compenso, la ricezione del filosofo esistenzialista fu rapidamente assicurata dalla scuola milanese di Antonio Banfi: La filosofia dell’esistenza, traduzione di Enzo Paci, Bocca, Milano 1942 (Vernunft und Existenz, 1935); La mia filosofia, Einaudi, Torino 1948 (Der philosophische Glaube, 1948); Introduzione alla filosofia, con prefazione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1959. 8. Carl Westphal (1833-1890), neurologo, neuroanatomista e psichiatra rappresentante della teoria intellettualista interna alla scuola tedesca; gli si deve la prima descrizione dell’agorafobia nel 1871. 9. R. SANDBERG, Zur Psychopathologie der chronischen Paranoia, in «Allgemeine. Zeitschrift für Psychiatrie», tomo LII, 3H, 1895, p. 619. Quest’analisi è stata a lungo al centro dell’attenzione degli alienisti francesi che si opponevano alla teoria della degenerazione. 10. Friedrich Wilhelm Hagen (1814-1889) è uno psichiatra tedesco cui fa riferimento Jaspers: cfr. infra, nota 46. Da «Affiorano nel malato innanzitutto…» De Martino riprende il testo di Jaspers parzialmente tradotto e citato da Jervis fra virgolette nella sua relazione del luglio 1962. Le differenze di traduzione sono significative dell’attenzione che l’antropologo rivolgeva alle costellazioni di senso proprie di una lingua. Cosí, sin dal 1919 il termine unheimlich, nella sua

accezione freudiana, è tradotto in italiano con l’espressione «il perturbante». Tuttavia, Jervis traduce l’aggettivo unheimlich col termine «spiacevole». De Martino, da parte sua, riconosce una dimensione di «intraducibile» che richiese di far ricorso a due termini: in questo caso, «non familiare», «spaesato»; altrove invece tradurrà con «alterità», «stranezza». Il che lo porterà a forgiare la sua nozione di «spaesamento». Cfr. capitolo 5: «Il campanile di Marcellinara». 11. Allievo di Karl Jaspers, Kurt Schneider (1897-1967) descrive, nel 1955, i «sintomi principali» che devono facilitare la diagnosi di schizofrenia. 12. K. JASPERS, Allgemeine Psychopathologie cit. 13. Cfr. infra, nota 46. 14. W. MAYER-GROSS , E. SLATER e M. ROTH, Clinical Psychiatry, Cassel and Co., London 1958 [1954]. Psichiatra tedesco di origine ebraica, Wilhelm Mayer-Gross (1889-1961) fa parte, negli anni 1920-1930, del piccolo gruppo di fenomenologi che costituiscono la scuola di Heidelberg, con Karl Jaspers, Hans Walter Gruhle (1880-1958) e Kurt Beringer (1893-1949). Emigrato in Inghilterra, prosegue le sue ricerche presso il Maudsley Hospital di Londra. Il suo manuale di psichiatria clinica, utilizzato da De Martino, ha formato intere generazioni di medici. 15. L’uso del verbo «finire», piuttosto che del sostantivo «fine» tiene conto di un’osservazione riguardante la traduzione di Weltuntergangserlebnis contenuta in uno degli articoli che motivavano la collaborazione con lo psichiatra Bruno Callieri: «La parola tedesca “Untergang” non possiede qui il preciso significato di “fine” (“Ende”); questo è il termine fisso, inteso nella sua irrevocabile staticità, quella invece indica l’andar sotto, l’annientamento, il crollo, lo “sprofondarsi”, in tutta la sua dinamica»: B. CALLIERI e A. SEMERARI, Alcuni aspetti metodologici e critici dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo, in «Rassegna di Studi Psichiatrici», vol. 43, n. 1, 1954, p. 55, nota 2. 16. Qui l’ethos del trascendimento sottende il lavoro di rielaborazione che agisce in ogni cultura. Non è soltanto l’ethos che l’umanesimo attuale deve forgiarsi per sfuggire all’apocalisse no future del vuoto di ogni trascendenza e ritrovare «la scelta creatrice di valori». Cfr. E. TERRAY, Combats avec Méduse, Galilée, Paris 2011, cap. 3, in «Politiques de la transcendance». 17. Concetto religioso dell’Est melanesiano che è diventato, fra gli anni Ottanta dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento, con Claude Lévi-Strauss, una categoria antropologica centrale nei dibattiti sulla religione, la magia e l’efficacia simbolica. La trasformazione delle narrazioni cliniche in materia etnografica richiede la rilettura critica della nozione di «significato fluttuante» proposta da Claude Lévi-Strauss. 18. Impegnato, negli anni Quaranta, in un progetto di «storia del magismo», De Martino ha rivolto un’attenzione minuziosa a tutti gli usi di nozioni come il mana, per arrivare alla conclusione non di un significato fluttuante, ma di un «concetto vuoto». Cfr. G. CHARUTY, Ernesto De Martino.

Le precedenti vite di un antropologo, Franco Angeli, Milano 2010 [2009], pp. 238-40. 19. Dell’edizione tedesca. Assieme a Eugène Minkowski, Victor Emil von Gebsattel e Erwin Straus compongono la cerchia di psichiatri personalmente legati a Ludwig Binswanger. Di von Gebsattel – esperto di storia dell’arte e amico di Henri Matisse, Auguste Rodin, Rainer Maria Rilke – De Martino legge i Prolegomena einer Medizinischen Anthropologie [Prolegomeni a un’antropologia medica], Springer, Berlin 1954. È interessato all’ipotesi di una «presenza non cosciente» della totalità del mondo soggiacente a ogni specifico vissuto percettivo per differenziare le forme normali di «derealizzazione» del mondo – camminare in un bosco immerso nei propri pensieri – dai vissuti patologici (La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino 2002, pp. 106-7). 20. Dell’edizione tedesca. Karl Wilhelm Ideler è un rappresentante della psichiatria romantica tedesca che introduce la distinzione fra disturbi che colpiscono l’affettività (mania, melancolia) e disturbi che colpiscono il pensiero (paranoia), e si interessa piú particolarmente ai «deliri religiosi». 21. Karl Jaspers dedica a ciascuno di loro una monografia in una raccolta di psichiatria applicata: Strindberg und Van Gogh. Versuch einer pathographischen Analyse unter vergleichender Heranziehung von Swedenborg und Hölderlin, E. Bircher, Bern 1922 [trad. it. K. JASPERS, Genio e follia: Strindberg e Van Gogh, R. Cortina, Milano 2005]. 22. H. EY, Études psychiatriques, Desclée de Brower, Paris 1954, vol. 3. I riferimenti delle pagine, e le citazioni che seguono in questa sezione rimandano a quest’opera. Dell’attenzione che De Martino riserva a Henri Ey (1900-1977) testimoniano le numerose note di lettura dedicate a questo terzo volume dei suoi Études psychiatriques (parr. 10, 24, 58, 61, 63, 63.1, 75 de La fine del mondo cit.). Partendo da John H. Jackson e da Pierre Janet, lo psichiatra francese fa proprie le nozioni fenomenologiche dell’intenzionalità e l’analisi esistenziale di Binswanger per elaborare una teoria originale della strutturazione e destrutturazione della coscienza. Cfr. E. DELILLE, L’organodynamisme d’Henri Ey: l’oubli d’une théorie de la conscience considéré dans ses relations avec l’analyse existentielle, in «L’homme et la société», n. 167-69, 2008, pp. 203-19. 23. H. EY, Études psychiatriques cit. 24. Cfr. il capitolo 1, note 7 e 11. La sensazione di «essere agito da» caratterizza anche la crisi del lutto descritta in Perdita della presenza e crisi del cordoglio, in «Nuovi Argomenti», n. 30, 1958, pp. 49-92, e il lavoro alienato: cfr. capitolo 6. 25. Emil Kraepelin ha introdotto l’espressione Vergleichende Psychiatrie, psichiatria comparata, titolo di un articolo del 1904 dedicato alle differenze di sintomi clinici di disordini mentali osservati durante un viaggio di studi a Giava. Sotto la generica etichetta di «psichiatria generale» De Martino riunisce diverse problematiche sorte dal confronto fra psichiatri e antropologi, cominciato già negli anni Quaranta. La bibliografia costituita con l’aiuto di Jervis contempla autori che diventeranno

riferimenti classici nel dibattito lanciato da Marc Augé sull’antropologia medica americana degli anni Ottanta: Clyde Kluckhohn, Margaret Mead, Erwin H. Ackerknecht, Georges Devereux. Sono presenti anche studi molto specialistici su diversi casi di culture bound syndromes, ovvero delle malattie mentali specifiche di determinate culture. Quest’espressione è stata introdotta nel 1951 da Pow Mer Yap a partire dal suo lavoro a Hong Kong (l’esplosione di violenza dell’amok nel Sud Est asiatico, l’ansia femminile del latah malese, la pulsione cannibalica del windigo presso gli Algonchini). Per una prospettiva storica su questi temi, cfr. R. BENEDUCE, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Carocci, Roma 2007. 26. Le numerose letture documentate dalle note bibliografiche dedicate ai principali studi transculturali dei disordini mentali e alla scuola «Culture and Personality» danno vita, in De Martino, a una serie di domande: nelle società primitive esistono le malattie mentali? Sono piú o meno frequenti? Le forme occidentali di patologia mentale sono presenti altrove? Esistono grandi processi patologici invarianti e delle sintomatologie culturalmente differenziate? L’acculturazione o il progresso della civiltà hanno un’incidenza sui disordini mentali? (La fine del mondo cit., pp. 18691). 27. Avanzata sin dagli anni Sessanta dell’Ottocento, la tesi di una dimensione psicopatologica dello sciamanismo artico è riformulata nel 1939 dallo svedese Ake Ohlmarks, poi discussa da M. ELIADE ,

Le problème du chamanisme, in «Revue de l’histoire des religions», vol. 131, n. 1-3, 1946,

pp. 5-52. Per un piú recente bilancio della questione, cfr. P. MITRANI, Aperçu critique des approches psychiatriques du chamanisme, in «L’Ethnographie», numero speciale «Voyages chamaniques. Deux», n. 87-88, 1982, pp. 241-57. 28. «Assai spesso proprio essa, la religione, cagionò azioni scellerate ed empie»: Lucrezio, De rerum natura, libro I, verso 101. 29.29 Danilo Cargnello (1911-1998) introduce in Italia la psicopatologia fenomenologica di lingua tedesca, e piú in particolare la Daseinanalyse di Binswanger, che traduce e alla quale dedica studi piú volte ripubblicati: Alterità e alienità. Introduzione alla fenomenologia antropoanalitica, Feltrinelli, Milano 1966. Il termine «antropoanalisi», come equivalente di Daseinanalyse, è rimasto nella cultura italiana, sebbene lo stesso autore l’abbia successivamente scartato per evitare che se ne appropriassero, manipolandolo, gli universitari cattolici. Agli inizi degli anni Novanta, sicuramente influenzato dal pensiero demartiniano, ha adottato l’espressione «analisi della presenza». I due si sono incontrati nel 1961, quando Cargnello era direttore dell’ospedale psichiatrico di Sondrio. 30. Espressione ripresa da Martin Heidegger per pensare la differenza con l’animalità: «L’uomo configuratore di mondo»: M. HEIDEGGER, Kant e il problema della metafisica, trad. di Maria Elena Reina, Silva, Milano 1962. 31.31 Dopo aver pensato all’espressione «antropologia fenomenologica» in opposizione ad

«antropologia filosofica», questo termine è adottato da Binswanger negli anni Quaranta per designare un sapere originale dell’«essere uomo» che, ispirandosi e allo stesso tempo criticando il pensiero freudiano, husserliano e heideggeriano, permette di rifondare la psichiatria a partire da un’analisi delle strutture dell’esistenza. 32. Cfr. supra, nota 30. Sulla critica di De Martino a Binswanger cfr. P. CHERCHI, Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto De Martino, Liguori, Napoli 1994, pp. 63-123. 33. Eugène Minkowski (1885-1972). Ebreo polacco, nel 1913-1914 è stato assistente di Eugen Bleuler alla clinica Burghozli a Zurigo, dove ha incontrato Husserl e Binswanger. Ha introdotto la nozione di struttura nella psichiatria francese, e il suo libro Le temps vécu. Étude phénoménologique et psychopathologique, Delachaux, Paris 1933 [trad. it. Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, prefazione di Enzo Paci, trad. di Giuliana Terzian, Einaudi, Torino 1968] è stato recensito da Jacques Lacan in «Recherches philosophiques», n. 5, 1935-1936, pp. 424-31. I principi dell’analisi

esistenziale

sono

esposti

in

Phénoménologie

et

analyse

existentielle

en

psychopathologie, in «L’Évolution psychiatrique», n. 3, 1948, pp. 137-85. 34. In questa opposizione pubblico/privato De Martino riformula i temi heideggeriani della quotidianità dell’esserci nel mondo e dell’essere gettati nella pubblicità del «si». Cfr. infra, capitolo 7, Letture di Martin Heidegger: la quotidianità dell’esserci, l’essere-per-la-morte. 35.35 In Janet è frequente il riferimento a Teresa d’Avila a proposito della medicalizzazione dell’estasi religiosa nella patologia nevrotica. Sul contesto in cui è nata la categoria di «delirio mistico» e sui suoi usi sociali cfr. G. CHARUTY, Le couvent des fous, Flammarion (coll. «Nouvelle bibliothèque scientifique»), Paris 1987. 36. La confutazione delle diverse interpretazioni «naturaliste» del tarantismo è presente lungo tutta l’inchiesta etnologica (E. DE MARTINO, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1960). 37. G. DUMAS, Le surnaturel et les dieux d’après les maladies mentales, Puf, Paris 1946. 38. Questi temi sono stati l’oggetto della prima inchiesta collettiva in Lucania, realizzata dal 30 settembre al 31 ottobre 1952, i cui risultati sono stati pubblicati in Sud e magia (Feltrinelli, Milano 1959). Il volume è stato tradotto in francese: Italie du Sud et magie, Gallimard (coll. «L’espèce humaine»), Paris 1963. La fascinazione del latte materno è descritta nel capitolo 5. I diari di questa ricerca sono poi stati pubblicati: E. DE MARTINO, Note di campo. Spedizione in Lucania, 30 settembre-31 ottobre 1952, a cura di Clara Gallini, Argo, Lecce 1995. Sulla sua storia e sulle fasi di elaborazione dei dati etnografici cfr. invece E. DE MARTINO, L’Opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla «Spedizione etnologica» in Lucania, a cura di Clara Gallini, Argo, Lecce 1996. 39. Per una critica contemporanea degli usi reificati dell’etnopsichiatria, che non tengono conto delle esperienze storiche, cfr. R. BENEDUCE, Etnopsichiatria cit.

40. «Tutt’altro». Cfr. capitolo 1, nota 11. 41. B. CALLIERI, Contributo allo studio psicopatologico dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo, in «Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria», n. 4-5, 1955. 42. A. STORCH, Tod und Erneuerung in der schizophrenen Daseins-Umwandlung, in «Archiv für Psychiatrie und Nervenkrankheiten», vol. 181, 3, 1949. 43. Weltuntergangserlebnis. L’uso di questa sigla si è imposto in psichiatria per indicare la sindrome da «vissuto di fine del mondo». 44. A. WETZEL, Das Weltuntergangserlebnis in der Schizophrenie [Il vissuto di fine del mondo nella schizofrenia], in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», vol. 78, n. 1, 1922, pp. 403-28. Si tratta dell’articolo in cui fu identificata per la prima volta questa sindrome. I riferimenti alle pagine e le citazioni in questa sezione rimandano a quest’articolo. 45. G. ANDERS , Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961 (trad. it. di Der Mann auf der Brücke. Tagebuch aus Hiroshima und Nagasaki, C. H. Beck, Münich 1959). Secondo l’autore, l’esplosione della bomba atomica del 6 agosto 1945 inaugura una nuova era, nella quale la possibilità di autodistruzione dell’umanità può avere fine soltanto con la sua scomparsa, e siamo incapaci di rappresentare a noi stessi il pericolo apocalittico che abbiamo prodotto. Cfr. anche L’uomo è antiquato, il Saggiatore, Milano 1963 (trad. it. di Die Antiquiertheit des Menchen, 1. Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, C. H. Beck, Münich 1956). Cfr. capitolo 5, nota 10. 46. Allusione all’uso di questa locuzione latina da parte dello psichiatra tedesco Friedrich Wilhelm Hagen, in uno studio sulle «idee fisse»: Studien auf dem Gebiete der ärtzlichen Seelenkunde [Studi di psicologia medica], Gemeinfassliche Vortraege Besold, Erlangen 1870, pp. 39-85. Da paragonare all’uso che ne fa J. LACAN, Scritti, a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino 1974, vol. II, p. 817. 47. Cfr. il capitolo 1, nota 11. 48. R. VOLMAT, L’art psychopathologique, Puf, Paris 1956. In bibliografia De Martino segnala alcune opere di Gaston Ferdière, medico dell’asilo di Rodez, che curò Antonin Artaud: Le dessinateur schizophrène, in «L’Évolution psychiatrique», n. 2, 1951, pp. 215-30; L’aliénation créatrice. Conférence au centre psychiatrique Sainte-Anne, 15 février 1946, in «Folia psychiatrica Neurologica et Neuro-chirurgica Neerlandica», n. 51, 1948, pp. 15-30; “Art et épilepsie”, in «Progrès médical», n. 74, 1948, pp. 88-91; Les dessins schizophréniques: leurs stéréotypies vraies ou fausses, in «Annales médico-psychologiques», vol. 105, n. 1, 1947, pp. 95-100; Introduction à la recherche d’un style dans le dessin des schizophrènes, in «Annales médico-psychologiques», vol. 105, n. 2, 1947, pp. 35-43; Le dessinateur schizophrène au travail. Conférence inédite à la Société française d’esthétique, 13 mars 1948; Le style des dessins schizophéniques: ils sont bourrés, in

«Annales médico-psychologiques», vol. 106, n. 1, 1948, pp. 430-34; Le style des dessins schizophréniques: la symétrie et l’équilibre, in «Annales médico-psychologiques», vol. 106, n. 1, 1948, pp. 434-37; La main du dessinateur schizophrène, in «I er Congrès mondial de psychiatrie», n. 3, 1950. 49. L. BINSWANGER, Melancholie und Manie. Phänomenologische Studien, Gunther Neske, Pfullingen 1960, pp. 52-55 [trad. it. Melanconia e mania: studi fenomenologici, Boringhieri, Torino 1971, pp. 55-58]. 50. L. BINSWANGER, Schizophrenie, Gunther Neske, Pfullingen 1957 [trad. it. di Giorgio Giacometti, Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia, a cura di Eugenio Borgna e Mario Galzigna, Marsilio, Venezia 1994]. 51. In questo paragrafo le virgolette, le parentesi e i corsivi sono di Binswanger. 52. «Q uesto corso vuoto non è dunque un binario sul quale non viaggia in generale piú nulla, ma è tale che esso porta sempre le stesse cose, il che significa che nulla di “nuovo” viene pensato, e che ha luogo un corso vuoto di pensiero» [nota di Binswanger nella traduzione di De Martino]. «Questo scorrere vuoto non è dunque “un binario su cui non passa nulla”, ma un binario sul quale corrono sempre soltanto “le stesse cose”; cioè non si pensa piú a nulla di nuovo, è il cosiddetto “scorrere vuoto del pensiero”»: L. BINSWANGER, Melanconia e mania cit., nota 1, p. 57 [nota di Binswanger nella traduzione Boringhieri]. 53. H. KRANZ, Mythos und Psychose, in «Studium Generale. Zeitschrift für die Einheit der Wissenschaften in Zusammenhang ihrer Begriffsbildungen und Forschungsmethoden», n. 8, 1955, pp. 370-78. 54. H. W. GRUHLE, Selbstschilderung und Einfühlung [Autorappresentazione e empatia], in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», n. 28, 1915. 55. A. STORCH, Die Welt der beginnenden Schizophrenie und die archaische Welt. Ein existential-analytischer Versuch [Il mondo della schizofrenia incipiente e il mondo arcaico. Saggio di analisi esistenziale], in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», vol. 127, 1, 1930, pp. 799-810. Già letto, negli anni Quaranta, per l’analisi della labilità della presenza propria al «mondo magico», De Martino ha lungamente chiosato quest’articolo (La fine del mondo cit., pp. 4145) che riassume uno studio precedente di Storch: Das Archaisch-Primitive Erleben und Denken der Schizophrenen [Il vissuto arcaico e primitivo, e il pensiero dello schizofrenico], Springer, Berlin 1922. 56. H. KRANZ, Mythos und Psychose cit.

Capitolo terzo Il dramma dell’apocalisse cristiana

Il rapporto fra religione cristiana e storia, esaminato da diversi punti di vista, costituisce il filo conduttore di questo capitolo. Ernesto De Martino s’interroga sulle ragioni che permettono di individuare, all’interno del Cristianesimo, il germe della coscienza storica; in questa prospettiva, la sua analisi esplora diverse tematiche intimamente legate fra di loro, quali la definizione della nozione di storia, la valutazione del ruolo dello storicismo nello studio dei fatti religiosi, l’analisi della relazione fra simbolismo mitico-rituale e divenire umano. Questo capitolo è composto di quattro sezioni, ognuna corrispondente a un aspetto della questione centrale, ed è frutto di un montaggio dei documenti piú fedele all’ordine dei dossier d’archivio, che mira a fare luce sulla complessità della riflessione antropologica proposta da De Martino. Nella prima sezione, intitolata «Le esigenze della ragione storica» De Martino affronta il noto stereotipo che fa della religione un fenomeno intrinsecamente irrazionale, e dimostra come questa concezione erronea dipenda dall’irrazionalità, e dunque dalla totale inadeguatezza degli strumenti concettuali sui quali si fonda l’analisi. Partendo da questa constatazione, l’autore definisce i criteri che permettono di identificare la dinamica culturale della religione, che testimonia della razionalità e della funzione che le sono proprie. Per fare ciò, De Martino si ricollega ai principî teorici e al metodo elaborati nel capitolo 1, e pone al centro del suo discorso il tema della destorificazione mitico-rituale; quest’ultima implica l’occultamento istituzionale del divenire umano, reso necessario per fronteggiare la crisi che si manifesta in tutta la sua intensità nelle fasi di transizione, allorché la stessa sopravvivenza della collettività è in pericolo. Lo storico delle religioni non può sottrarsi all’esigenza di rendere conto delle motivazioni, coscienti o meno, che determinano il ricorso al travestimento mitico posto in opera in alcuni contesti socioculturali. Quest’ultimo tende a negare la storia in diversi modi ma, nello stesso tempo, predispone le condizioni della sua riaffermazione; una simile tensione dialettica costituisce la ragion d’essere delle pratiche religiose ispirate ai paradigmi mitici. La destorificazione istituzionale appartiene anche al Cristianesimo e tuttavia il simbolo mitico-rituale cristiano ha un valore specifico, inesistente altrove, nella misura in cui media il valore della storia umana. Nella seconda sezione, «L’apocalisse culturale protocristiana come oggetto storico», l’autore si propone di far luce sui tratti distintivi del Cristianesimo adottando un punto di vista nuovo. A tale scopo analizza la dinamica storica dell’apocalisse cristiana attraverso il passaggio cruciale dalla predicazione di Gesú sull’imminenza del Regno alla progressiva formazione di un diverso orientamento culturale, fondato sul differimento e l’indeterminatezza della fine dei tempi. Il rinvio della seconda parusia,

associato al mistero che lo circonda, permette al tempo intermedio di emergere e di prendere consistenza. Posto fra l’avvenimento centrale dell’incarnazione del Cristo, ancorato nel passato, e l’avvenimento futuro che vedrà realizzata la promessa della nuova venuta del Cristo, questo tempo intermedio si dilata progressivamente poiché risponde in prima istanza all’impegno apostolico destinato a porre in atto il piano divino della diffusione universale del messaggio evangelico. All’ombra di questo dovere, che per concretizzarsi richiede il dispiegamento del tempo della storia, si sviluppa il progressivo riconoscimento del valore della storia e dell’opera umana che in essa si compie. La prospettiva del differimento sine die della fine dei tempi si impone sull’idea di vicinanza del Regno, che cela in sé il rischio antropologico radicale del Weltuntergangserlebnis, nella misura in cui essa implica il distacco dal mondo e di conseguenza priva di senso l’impegno a operare nel mondo. Il contrasto fra queste due polarità costituisce il tratto distintivo del dramma dell’apocalisse cristiana; un dramma storico che si snoda nel tempo e di cui bisogna ricostruire la genesi e delineare lo sviluppo. L’atto finale – ovvero lo spostamento dell’avvenimento escatologico dal futuro al passato e la concomitante concezione del Regno, già inaugurato dalla morte e dalla resurrezione del Cristo ma non ancora pervenuto al suo telos – è valutato da De Martino come l’esito di un processo di lunga durata che ha avuto luogo nella storia. Nella terza sezione, «I limiti della teologia protestante», De Martino si confronta criticamente con due grandi specialisti dell’escatologia cristiana, Oscar Cullmann e Rudolph Bultmann, le cui opere, sicuramente pregevoli, appaiono problematiche agli occhi dello storico. Per Cullmann la concezione protocristiana del Regno, orientata fra il «già avvenuto» e il «non ancora compiuto», si configura come un’essenza atemporale il cui processo di formazione è lasciato nell’ombra, secondo una tendenza propria della teologia protestante. Quanto a Bultmann, la sua analisi del rapporto fra escatologia e storia manca, secondo De Martino, di una rigorosa distinzione fra il dovere dello storico e l’esigenza del credente di «sottrarre dalla storicizzazione integrale un certo nucleo di fede religiosa». Nell’ultima sezione, «Dalla metastoria alla storia», De Martino affronta una serie di tematiche centrali che emergono in diverse fasi della sua ricerca. Anzitutto egli riflette sulla crisi che ha investito la concezione cristiana del piano universale della storia umana: una crisi dagli esiti molteplici. In seguito si sofferma principalmente sulla tendenza al relativismo – valutandone le diverse matrici – che teorizza la dispersione delle civiltà e delle culture. De Martino s’interroga infine sulla possibilità di contrastare questa tendenza al fine di recuperare, su un piano laico, il senso dell’unità della storia; l’unificazione è qui concepita come un dovere storico da realizzare e non come risultato di un disegno metastorico. In questo vasto quadro di pensiero l’autore valuta il ruolo che può e deve svolgere l’etnologia la quale, in quanto scienza del confronto interculturale nata in Occidente, obbedisce a una pulsione unificatrice. Queste considerazioni preludono a uno dei maggiori sviluppi del pensiero demartiniano, che si concretizza nella teoria dell’umanesimo etnografico. La crisi dell’orizzonte religioso favorisce la nascita dell’umanesimo integrale, fondato sul

riconoscimento della genesi storica e del destino integralmente umano dei prodotti culturali; in tal modo la destorificazione dissimulatrice del divenire raggiunge il limite della sua attualità. Marcello Massenzio

1. Le esigenze della ragione storica. 1.1. Quando si dice che l’uomo «è nella storia» occorre fare attenzione a che cosa si intende per «storia». Anzitutto occorre distinguere nella parola storia un triplice senso: di res gestae, di historia rerum gestarum, e di res gerendae 1. Questi tre sensi non sono fra di loro irrelati, perché la «storia» umana si articola sempre nei tre momenti delle res gestae condizionanti, della attuale memoria del passato e del compito consapevole di storia condenda. In secondo luogo occorre chiarire il rapporto fra storia e consapevolezza, fra storia e razionalità, fra storia e valori intersoggettivi. Gli uomini fanno la storia (res gestae) ma la coscienza che hanno di questo loro fare coincide solo entro certi limiti con ciò che essi realmente fanno 2. Vi sono motivazioni inconscie e finalità inconscie dell’agire umano, non presenti attualmente negli operatori ma ricavabili dall’analisi del loro operare nella prospettiva di un «altro» osservatore contemporaneo o nella rammemorazione storiografica dei posteri. Inoltre è da osservare che, se integrati con le motivazioni e le finalità inconscie, i comportamenti storici umani sono sempre «razionali», cioè interpretabili secondo «coerenze» definite: la loro irrazionalità nasce soltanto perché non se ne vedono, nel rapporto interumano quotidiano, le motivazioni e le finalità inconscie, o perché, nella prospettiva delle res gerendae, è inevitabile «scegliere» per il «piú razionale» contro il «meno razionale» o «irrazionale». Quanto poi ai valori intersoggettivi, la storia ne è dominata dall’interno, nel senso che essa è appunto il movimento di intersoggettività valorizzante: lo è nelle res gestae in quanto produzione passata di modi cooperativi di esserci al mondo, lo è nella historia rerum gestarum in quanto memoria ricostruttiva di tale produttività e lo è infine nelle res gerendae in quanto attuale decisione secondo valore. Ciò posto il principio che l’uomo è nella storia significa che gli uomini generano tutti i loro beni culturali, anche quelli che sono accompagnati dalla

coscienza di una loro fondazione divina. Il problema della storia costituisce uno dei temi piú caratteristici dell’attuale congiuntura culturale. La civiltà occidentale è venuta prendendo sempre piú chiaramente coscienza che il «senso della storia» la individua fra tutte le altre, prendendo rilievo per entro la stessa tradizione giudaicocristiana: in questa prospettiva va segnalata l’importanza dell’opera di Cullmann 3: d’altra parte la esigenza di riadattare il Cristianesimo a questo senso dell’esistenza storica, senza tuttavia dissolvere il messaggio cristiano, sta al centro del problema della demitizzazione del Nuovo Testamento 4. Oltre questi rapporti fra storia e vita religiosa, storia e Cristianesimo, storia e mito, vi sono poi le quistioni piú strettamente connesse alla metodologia della ricerca storiografica, e al significato e al valore della storia nel quadro delle scienze umane. Questa riconsiderazione del problema della storia è stata largamente influenzata dalla crisi di uno storicismo angustamente europeocentrico, e dalla immediata assunzione della storia dell’occidente come modello della storia umana; dalla crisi del concetto di «progresso» unilineare promossa dalla etnologia e dalla orientalistica; dal costituirsi di fatto, sulle rovine dell’epoca coloniale, di una «terza forza» di nazioni e di civiltà la cui storia è certo impartecipe alle esperienze storiche dell’occidente (mondo classico, Cristianesimo delle origini e medievale, umanesimo e rinascimento, riforma, nascita della nuova scienza e illuminismo, romanticismo e positivismo, ecc.), ma è tuttavia partecipe ad altri sviluppi storici che non possono in alcun modo essere valutati come «fasi attardate» o «deviazioni» dello sviluppo occidentale. Altri problemi di rilievo si riferiscono ai rapporti fra la ricerca storica e l’etnologia, la antropologia, la sociologia, la psicologia, l’etnopsichiatria, ecc. come anche al posto della ricerca storica nelle ricerche interdisciplinari concernenti determinati fenomeni culturali. [Autori da studiare:] O. Cullmann. R. Bultmann, Geschichte und Eschatologie, 1958. Jaspers-Bultmann 5. 1.2. Dice Eliade (Images et symboles, 1952, p. 44 6) che l’uomo si oppone alla storia anche quando pretende di non esser altro che storia. Ma è da osservare che si potrebbe anche dire, antiteticamente, che l’uomo è nella storia anche quando pretende di uscirne con comportamento mitico-rituale. E

si potrebbe proseguire l’antitesi: adottando infatti il primo criterio lo storico non potrà esserlo che fino a un certo punto, cioè sino al punto in cui s’imbatte in situazioni limite in cui si manifesta il suo destino metastorico, il suo significato oltre la storia: giunto a questo punto lo storico deve limitarsi a indicarle assumendole come rivelazioni ulteriormente inderivabili, cioè come contenuti-archetipi che in ultima istanza conferiscono senso e ragione alla verità dei modellamenti storico-religiosi. Adottando invece il secondo criterio la ricostruzione storica non riconosce contenuti di coscienza (miti, riti, simboli) che non siano generati da situazioni storiche, secondo ragioni e finalità – consapevoli o inconsapevoli – interamente riconducibili al carattere situazionale della esistenza umana, cioè che l’uomo è nel mondo e che il mondo è la valorizzazione intersoggettiva umana della vita. Il primo criterio concepisce il mestiere dello storico come un corso provvisorio che mette capo alla testimonianza religiosa: qui lo storico è famulus del sapere teologico. Il secondo criterio racchiude una istanza critica di tutte le pretese religiose in quanto pretese di un destino metastorico dell’uomo, e si orienta sempre di nuovo a riconvertire in termini umani, mondani, terreni ciò che nelle singole testimonianze storico-religiose sta come rapporto con l’al di là della storia umana, mondana, terrena, «profana». «Quando il figlio di Dio si incarnò e divenne Cristo, dovette parlare l’aramaico, ecc.» (Mircea Eliade 7). La storicità del fenomeno religioso non concerne soltanto il fatto che «quando il figlio di Dio si incarnò dovette parlare l’aramaico», ma lo stesso simbolo del figlio di Dio, nel senso che il simbolo di Cristo è comprensibile «per entro» una certa storia culturale. La storia è dialettica di crisi (rischio di perdere la presenza), simbolo (strumento tecnico di ripresa) e valore (potenza unificatrice dell’opera cosciente qualificata). Il senso della storia sta nel passaggio dai simboli mitico-rituali della religione ai simboli mondani (etico-politici, poetici, scientifici). L’equivoco di M. Eliade sta nell’identificare il concetto di storia con quello di «essere in situazione». Ora la situazione, il qui e l’ora puntuali dell’esistenza individuale, è un’astrazione, e in un certo senso l’uomo storico non è mai in situazione, ma sempre, e comunque in atto di trascenderla verso il valore. La coscienza si inscrive soltanto nel margine che la presenza mantiene rispetto alla situazione, cioè nel margine per cui la situazione acquista un significato, si apre a una permanenza culturale, a un’opera che vince il divenire e la morte.

Se davvero i termini di storia e di situazione puntuale dell’individuo si identificassero, la storia sarebbe sinonimo di ottusità e di mediocrità, poiché nulla vi è di piú ottuso e mediocre del piccolo mondo situazionale dal quale ci lasciamo vivere o morire. Mircea Eliade ha ragione quando pone in evidenza che l’uomo cerca di evadere sempre dalla situazione in cui si trova, ma il punto è che tale evasione non si compie dal «mondo» dei valori umani, ma dalla servitú della situazione, in virtú di opere qualificate. 1.3. Locke in Essays on the Law, p. 277 (Viano 8, p. 236), esprime a proposito della religione la tipica posizione illuministica, della superstizione come credenza stravagante e come follia. In realtà il compito della coscienza storico-religiosa è di ricondurre la vita religiosa, anche nel suo aspetto che si suole designare come «superstizioso», a una forma particolare di coerenza e di razionalità, almeno nei limiti di certe condizioni storiche. La ragione storica ha il compito di cercare le ragioni dei comportamenti umani. Pertanto o la religione è irrazionale, e allora non è possibile ovviamente trovarne le ragioni storiche, oppure è una razionalità storicamente condizionata, e allora soltanto è possibile trovarne le ragioni storiche. Per riguadagnare la razionalità della religione occorre eseguire una serie di integrazioni. In primo luogo il simbolo mitico-rituale manifesta la sua razionalità se si tien conto non soltanto della sfera conscia ma anche di quella dell’inconscio. In secondo luogo se si individuano i momenti critici cui fa da orizzonte, i valori profani e mondani che ridischiude e protegge. In terzo luogo se si riesce a stabilire la sua dimensione sociologica, cioè il suo modo di operare nei gruppi umani che compongono una determinata società. La religione appare come irrazionale semplicemente perché sono irrazionali gli strumenti con cui la analizziamo, cioè inadeguati all’oggetto: ogni volta che appare un residuo irrazionale nella vita religiosa è segno che vi è un residuo irrazionale nella metodologia storico-religiosa 9. 1.4. Ricostruire storicamente una religione a partire dalle sue tradizioni orali e scritte significa, innanzitutto, raggiungere e identificare le motivazioni umane (consapevoli o inconsapevoli) e le finalità umane (consapevoli o inconsapevoli) che generarono quelle tradizioni e le loro modificazioni nel tempo: ma – ed è questo un punto di importanza decisiva – non è possibile limitarsi a questa riduzione della coscienza mitica della storia, quasi che il compito dello storiografo fosse soltanto quello di «smascherare» il mito. Un momento fondamentale della ricerca sta infatti nel giustificare quali furono le

ragioni di un certo mascheramento mitico della storia, perché certe motivazioni affiorarono nella coscienza mentre altre vi entrarono con la maschera mitica, e perché certe finalità da raggiungere furono consapevoli mentre altre appaiono miticamente elaborate, cioè, appunto, anch’esse mascherate. Nella ricerca storiografico-religiosa non si tratta di «smascherare» miti, ma di giustificare la funzione storica dei mascheramenti mitici, e ciò in guisa da mostrare che solo attraverso una presa di coscienza miticamente modellata secondo le particolarità attestate dal documento fu possibile, per una data società e una data epoca, attraversare la storia senza esserne travolta e distrutta. Fare la storia della coscienza mitica della storia significa ricostruire la coerenza che presiede al suo formarsi e funzionare: e questa ricostruzione comporta non soltanto una catabasi verso le motivazioni e le intenzioni inconsapevoli, ma anche una anabasi verso la modalità consapevole di motivazioni e intenzioni che nel mito si manifesta. Ricerca storiografico-religiosa significa rendere esplicita la coerenza implicita del comportamento religioso: sottrarre il mito alla sua apparenza irrazionale, impedirsi di «ripeterlo» tal quale è, restandone prigionieri: ma questo può farsi solo ricomponendo la coscienza attuale di un certo simbolo mitico con ciò che sta al di qua di esso (le motivazioni inconsce) come con ciò che sta al di là (le inconsce intenzionalità o finalità). In virtú di tale ricomposizione il mito riguadagna la sua coerenza, la sua funzione, e la sua rigorosa necessità storicamente determinate: la ragione lo comprende, anche se, proprio per questo suo comprenderlo, non potrà piú adottarlo in prima persona, non potrà piú credervi. 1.5. L’esperienza della storia, cioè l’apprendersi come una presenza chiamata a oltrepassare la situazione mediante un’opera dotata di valore mondano, è la esperienza costitutiva dell’uomo: proprio tale esperienza, infatti, fonda la coscienza, che è integralmente nel margine operativo lasciato dai momenti critici dell’esistenza. Ma costituisce l’uomo anche il rischio di perdere la presenza, di restare prigioniero della situazione, senza margine operativo. La destorificazione mitico-rituale è una fictio tecnica mediante la quale la storicità dell’esistenza umana, cioè la tensione fra crisi e valore operativo, viene occultata, e si sta nella storia come se non ci si stesse. 1.6. Storia, ecco un termine equivoco sino a che non se ne distinguono i diversi sensi. Storia può semplicemente indicare l’immediata esperienza che l’uomo ha di essere centro di operatività mondana secondo valori comunitari:

l’esperienza cioè di una origine e di una destinazione umana dell’operare culturale in quanto operare che oltrepassa sempre di nuovo la situazione. Questa esperienza sta alla radice di ogni forma di vita culturale anzi è la stessa possibilità di una vita culturale in genere. Ma «storia» può significare anche un particolare bene culturale nella sua specificità, cioè la ricostruzione del fare umano immediato indagando le ragioni e le finalità umane che realmente lo promuovono, al di là dei limiti soggettivi con cui è immediatamente vissuto dagli operatori e dai protagonisti: in questo senso la parola «storia» accenna al ritorno della memoria sull’ac-cadere umano, onde stabilire che cosa l’uomo ha propriamente fatto, e perché nel farlo pretendeva di fare altro da ciò che poi ne risultò. Mentre nella prima accezione «storia» significa soltanto immediata coscienza dell’umanità dell’operare e della mondanità della operazione, nella seconda accezione significa invece conoscenza storiografica, ritorno consapevole della memoria sul fare umano e consapevole rigenerazione di esso nel pensiero qualificante. In un terzo senso, infine, storia significa storicismo, cioè una visione particolare della vita e del mondo, per cui si afferma in modo esplicito e impegnato che il reale è percepibile nella valorizzazione culturale umana, che tale valorizzazione comporta una origine e una destinazione integralmente umane dell’operare, e che non esiste prodotto culturale umano che non si possa integralmente ricondurre all’umanità dell’operare, sia poi tale integrale umanità non consapevole per gli operatori, i quali anzi credono a vario titolo di esser mossi da dèi, da forze sovrumane o subumane, dalla materia o dalla natura, dall’inconscio e da quant’altro si pone come «al di là» dell’uomo reale vivente in società. 1.7. Il primo compito dello storico è di accertare la coscienza che gli operatori storici contemporanei ebbero di un fenomeno (di un istituto, di prodotto artistico di un mito, di una liturgia, di una teoria scientifica o filosofica, di un’epoca, ecc.). Ma con ciò il suo compito è tutt’altro che esaurito perché la conoscenza storiografica non consiste nel ripetere il vissuto consapevole che accompagna un fenomeno culturale, ma nel situare questo vissuto in una rete di condizioni e di risultati che non appartengono ovviamente alla coscienza contemporanea e che tuttavia conferiscono a quel vissuto la sua realtà e verità, il suo «significato» e la sua «importanza». Senza dubbio il pericolo polarmente opposto a quello di una semplice «ripetizione» della coscienza contemporanea sta nell’attribuire a questa stessa coscienza

ciò che in realtà appartiene alla sfera delle condizioni inconsapevoli o ai risultati percepibili solo in una prospettiva maturatasi successivamente: la storiografia idealistica si è macchiata spesso di tale arbitrio. Ma purché risulti nel discorso storiografico che cosa appartiene all’accertata coscienza dei contemporanei e che cosa alle condizioni inconsapevoli che l’analisi storiografica mette in luce e che cosa ancora ai risultati che matureranno piú tardi e che lo storiografo identifica con la prospettiva piú ampia di cui si giova, il processo alle intenzioni è di regola nella ricerca storiografica, anzi la coscienza limitata dei «contemporanei» emerge proprio per entro una ricostruzione dinamica che abbraccia condizioni e risultati inconsapevoli. Buon lavoro storiografico è quello in cui, in primo luogo, il lettore è messo in condizione di sapere, rigo per rigo, a che cosa si riferisce il discorso: se alla coscienza degli operatori storici, o alle condizioni e motivazioni inconsapevoli a essi, o ai mediati risultati che fecero maturare un fenomeno oltre la coscienza dei suoi contemporanei. In una monografia storica il lettore deve poter controllare, proposizione per proposizione, quando il discorso dello storiografo descrive la coscienza che gli operatori storici ebbero del fenomeno culturale in quistione, e quando invece è inteso a ricostruire le condizioni e motivazioni inconsapevoli del loro operare e i mediati risultati che da tale operare ebbero successivamente origine. L’affermazione: «Gli uomini fanno la loro propria storia ma non sanno di farla» significa appunto questo, che la coscienza che negli operatori storici accompagna un certo fare culturale nella ricostruzione storiografica è rigenerata in una piú ampia coscienza, che assumendo il punto di partenza della coscienza degli operatori storici si innesta in una dinamica in cui l’inconsapevole, come condizione e come risultato, viene continuamente messo in causa. La riduzione di un fenomeno culturale alle sue motivazioni o ai suoi risultati non presenti alla coscienza degli operatori, cosí come la sua riduzione a una semplice ripetizione descrittiva di questa coscienza, danno luogo a gravi fraintendimenti del compito storiografico: ma appunto per questo la responsabilità dello storico è chiamata a comporre un discorso articolato in cui il senso complessivo del fenomeno culturale in quistione nasca dalle condizioni non consapute, da quanto si pretese di fare nella attualità della coscienza e da quanto si fece realmente e maturò in seguito, al di là delle pretese e delle intenzioni. La vita religiosa di un’epoca non è né nelle motivazioni inconsce, né nella

coscienza attuale che se ne ebbe, né da ciò che effettivamente risultò da essa, ma dal processo unitario che ha luogo attraverso questi diversi momenti. Una storiografia religiosa che si limita a «rivivere» e a «descrivere» la limitazione di una certa coscienza religiosa finisce col ripetere tale coscienza, col gareggiare con essa, col mitsingen che è verboten; cade cioè nell’irrazionalismo storiografico, per cui il discorso dello storiografo acquista i toni di un sermone edificante, piú o meno infarcito di citazioni erudite. Ma quando tutto viene ridotto alle «cause» inconsapevoli o ai risultati solo piú tardi raggiunti dalla coscienza cioè quando si passa sopra al momento della coscienza attuale, in luogo della ricostruzione storiografica si ottiene un astratto giudizio razionalistico, che falsifica i documenti non meno del precedente sermone edificante. L’oggettivismo, il neutralismo, il tecnicismo sono incompatibili con la ricerca storiografica, ancorché la storiografia è scienza oggettiva, che comporta una assidua catarsi mentale dal mondo immediato delle passioni, e ancorché si avvalga di tecniche diverse di analisi (etnografica, archeologica, filologica, psicologica, psichiatrica). La identità di storiografia e di «visione della vita e del mondo», e la contemporaneità di ogni ricerca storiografica, nel senso che essa nasce sempre come momento di controllo teoretico e di elucidazione mentale di un problema di storia condenda, costituiscono due caratteri fondamentali della struttura della scienza storiografica. Lo storico non può mai pretendere di mettersi al di sopra della mischia, e di identificarsi a un dio, ma è uomo fra gli uomini, in tempi e in luoghi definiti, membro di una certa società storica, erede di una certa cultura: ciò che lo rende storico è soltanto la piú larga presa di coscienza del divenire culturale in cui è inserito come uomo, il che comporta però una scelta culturale ancor piú impegnata di ciò che non accada di solito alla grande maggioranza degli operatori culturali della storia. Non esiste una storia senza opzioni filosofiche, e chi la difende cade poi di fatto sotto la legge comune, producendo o raccolte e sistemazioni di materiali, o storie che includono una filosofia di cui non si è consapevoli, assumendo per «oggettività assoluta» questa inconsapevole visione della vita e del mondo che con maggiore o minore coerenza guida la scelta dei materiali, l’interpretazione, il giudizio. L’uomo è nella storia. Ma lo «storicismo» 10 non si limita a questa affermazione, e ancor meno intende per storia il puntuale «qui» e «ora» dell’uomo immerso nel tempo. Un gran numero di equivoci sullo storicismo

nasce da questa riduzione – e decurtazione – della storia alla temporalità, al mero divenire, laddove per storia lo storicismo intende l’uomo in quanto produttore di valori culturali, cioè in atto di trascendere il qui e l’ora del divenire e di sollevarsi alle permanenze idealmente immortali dell’opera umana qualificata secondo determinati valori. Quando si dice al compagno di viaggio terreno la «buona parola», o quando con slancio cordiale gli si dà la mano per aiutarlo a non naufragare, il qui e l’ora del divenire sono oltrepassati e viene fondata un’opera che per il fatto stesso di andar oltre la mera individualità biologica è destinata a non perire mai piú. La stessa opera economica misurata col criterio del distacco dalla natura e degli strumenti materiali e mentali per rendere piú umano un genere di vita è trascendimento del momento puntuale, istantaneo, della storia, iscrivendosi con ciò nella permanenza che vince il tempo. Senza dubbio gli individui in senso biologico muoiono. Le loro opere possono nel tempo cronologicamente misurabile essere dimenticate, le civiltà scomparire, e persino l’umanità tutta soccombere in una catastrofe cosmica: ma la permanenza di cui si parla non appartiene all’ordine del tempo misurabile, e dello spazio visibile, ma è conquistata per sempre nella attualità dell’opera qualificata secondo valore. E se anche nell’ordine dell’ordine del tempo misurabile e della spazialità visibile scomparissero l’operatore e l’umanità tutta un istante dopo che l’opera è stata compiuta, nulla può questa immane catastrofe materiale contro la permanenza che l’opera secondo valore fondò sulla roccia: l’attualità dell’operare ha sperimentato l’interiormente eterno, ha trasceso il qui e l’ora, e senza evadere dal mondo ha reso immortale il mondo al di là di ogni possibile catastrofe cosmica. In date condizioni storiche ciò ha avuto bisogno del simbolo protettivo della immortalità individuale, e di una metastoria mitica in cui fossero salve tutte le permanenze: ma ciò è in rapporto alla estrema maturità culturale che si richiede per operare secondo valore restando paghi della inattaccabile eternità inaugurata dalla attualità dell’opera. 1.8. Se analizziamo in concreto l’atteggiamento dell’Eliade in Symbolisme religieux et valorisation de l’angoisse (1954) 11 risulta in modo palese a quale patto la sua pretesa assurda mantiene una apparenza di eseguibilità. Innanzitutto l’Eliade non «decide» le varie quistioni, ma «descrive» l’uno accanto all’altro i diversi temi culturali, e stabilisce alcuni raccordi esterni. Dopo aver indicato la scoperta «occidentale» della storicità della condizione umana e aver sottolineato che, per l’indiano, l’equivalente di

tale scoperta – il velo della Mâyâ 12 – trova la sua integrazione nello sforzo di liberarsi da questa illusione, l’Eliade aggiunge: «Il ne nous incombe pas de discuter le pourquoi de cette situation de la pensée européenne» (p. 72), e si limita a sottoporre al pensiero indiano la posizione storicista del pensiero europeo. Subito dopo (p. 73) l’Eliade si prova a presentare la possibile obiezione europea alla immaginaria critica indiana, aggiungendo: «Il n’est dans notre propos de discuter ces positions philosophiques européennes». Piú avanti (pp. 76 sgg.) indica come una delle fonti della angoscia moderna il presentimento oscuro della fine del mondo, o, piú esattamente, il presentimento della fine del nostro mondo, della nostra civiltà. Ma, ancora una volta, dichiara: «Nous ne discutons pas le bien-fondé de cette peur: il nous suffit de rappeler qu’elle est loin d’être une découverte moderne». Riferisce infine la storia del rabbino Eisik di Cracovia, tratta dai Chassidische Bücher di Martin Buber, e riporta il commento di Heinrich Zimmer 13 sul «fatto strano e costante» che soltanto dopo un pio viaggio in una regione lontana, in un paese straniero, in una terra nuova, si rivela a noi il significato esatto di quella vicinissima verità umana che portiamo dentro di noi, nel profondo del nostro essere. Ma questo soltanto per dire, nella conclusione del saggio, che questa via dei viaggi in regioni lontane, degli incontri con umanità diverse dalla nostra e dei ritrovamenti interiori «pourrait constituer le point de départ d’un nouvel humanisme, à l’échelle mondiale» (p. 79). Ora viene fatto di chiedersi: ma che cosa pensa Eliade? È lecito trattare le civiltà come cristalli e ridurre il compito dell’uomo di scienza a quello di espositore di sistemi di cristallizzazione? Eliade omologa i seguenti cristalli culturali: a) la credenza religiosa che prima della morte l’uomo ricapitola la storia della propria vita; b) la passione moderna per la storiografia come rivelatrice del simbolismo arcaico della morte; c) l’angoscia dell’uomo moderno per la storicità della condizione umana; d) l’«iniziazione» e le sue prove nelle civiltà arcaiche; e) la valorizzazione del nulla nelle religioni e nelle metafisiche dell’India. Che cosa «direbbe» un primitivo della angoscia occidentale davanti alla storicità della situazione umana? «Direbbe» che «il mondo moderno è nella situazione di un uomo inghiottito da un mostro e che si dibatte nelle tenebre del suo ventre», direbbe che si è perduto nella foresta o nel labirinto, che si crede già morto o sul punto di morire (p. 68). Dove è da osservare: a) che questa «immaginaria» valutazione del primitivo è in realtà un modo coperto

col quale Mircea Eliade valuta negativamente lo storicismo occidentale; b) che l’equivoco sta nel concetto di storia e di storicismo, perché la storia angoscia nella misura in cui non è ancora umanizzata: il riconoscimento di un divenire plasmato dall’uomo secondo valori umani non angoscia, ma guarisce dall’angoscia. 1.9. Uno studioso europeo della vita religiosa si è proposto alcuni anni fa di collocarsi al di fuori della civiltà europea e di giudicare tale civiltà alla stregua della scala di valori di una civiltà non europea. A giustificazione di siffatto proposito lo studioso ricordava che il momento storico attuale è caratterizzato dal fatto che ormai l’Europa non è piú sola a fare la storia e che i valori europei stanno perdendo la loro posizione di privilegio culturale. Ora è da osservare che una pretesa del genere è ineseguibile: lo stesso relativismo culturale su cui si fonda è un pensiero nato dalla cosiddetta crisi dello storicismo, cioè costituisce ancora un fenomeno culturale europeo, di cui si potrebbero indicare i tempi di origine e di sviluppo in Germania, nella prima metà di questo secolo. Non è possibile rendersi esterno alla civiltà di cui si fa parte, e volta a volta giudicare tutte le civiltà umane, la propria compresa, ponendosi in una prospettiva che diremmo divina se non fosse semplicemente un tardo surrogato dell’orientamento mitico della religione. Per l’europeo la sua civiltà è il suo stesso pensiero, ed è qualche cosa di piú: un bene da difendere, da accrescere, da dilatare. Si può continuare a pensare scegliendo i propri problemi dentro le grandi alternative che la propria civiltà pone, ma non si può porre la propria civiltà accanto alle altre, e tutte considerarle come prospettive alla pari, da scegliere alla pari come punti di vista giudicanti. Non si vince cosí il «provincialismo» culturale: si deve dialogare col mondo, ma la propria parte bisogna conoscerla bene, altrimenti si rischia di cadere in un enorme pettegolezzo, in un chiacchierare ambiguo e sciocco, in un camaleontismo che simula l’apertura e la varietà di interessi, ma che è soltanto la maschera di una abdicazione senza limiti. Del resto dov’è mai questo crollo dei valori europei? Se per Europa si intende non già una designazione geografica, ma un orientamento della vita culturale, ciò che di impegnativo e di decisivo è oggi nel mondo si chiama Europa. Europa è la cultura americana, europeo è il marxismo che ha alimentato la rivoluzione russa e quella cinese, europeo è il Cristianesimo, europea è la scienza che ha condotto all’era atomica. Noi siamo chiamati a decidere dentro questo mondo culturale, e a giudicare secondo il metro che esso ci offre. È in questa fortezza

che dobbiamo scegliere il nostro posto di combattimento. 1.10. Che cosa direbbe un primitivo della angoscia occidentale davanti alla storicità della situazione umana? Direbbe, secondo Eliade, «che il mondo moderno è nella situazione di un uomo inghiottito da un mostro e che si dibatte nelle tenebre del suo ventre, direbbe che si è perduto nella foresta o nel labirinto, che si crede già morto o sul punto di morire» (p. 68 14). Ora senza dubbio è vero che la storia umana racchiude un momento inesauribile di angosciosità proprio perché essa non è mai completamente umanizzabile nel senso di una soppressione di tutte le sue contraddizioni, di tutti i suoi elementi negativi. Ma il punto è se tale angosciosità della storia umana comporta necessariamente salvezza metastorica o se la storia, una volta pervenuta alla coscienza della sua integrale umanità, racchiude in se stessa la sua naturale medicina, cioè la coscienza che solo l’ethos della valorizzazione, di cui l’uomo porta intera la responsabilità, può salvare non dalla storia ma dall’angoscia. Il «primitivo» direbbe forse ciò che Eliade immagina che dica; ma anche il primitivo tutto ciò che fa lo fa in forza dell’ethos che lo sostiene, e anche le sue religioni nascono da quest’ethos, per quanto non riconosciuto come tale. Noi poi – questo è certo – non possiamo rispondere in buona fede come il primitivo: e non ci resta che riconoscere ciò che il primitivo non riconosce, ed edificare la nostra storia su tale riconoscimento 15.

2. L’apocalisse culturale proto-cristiana come oggetto storico. 2.1. L’apocalittica culturale protocristiana, in quanto apocalittica operante nella storia, forma problema per lo storiografo e per l’antropologo nella misura in cui è possibile individuare in essa una dinamica interna che di volta in volta, cioè in occasione dei diversi momenti critici del divenire storico, dischiude un orizzonte di testimoniante operabilità mondana fondatrice di mores, di istituti, di valorizzazioni intersoggettive della vita, di modi concreti di esserci al mondo comunitariamente. Vi è una apocalittica di Gesú predicante e dei discepoli che lo ascoltavano, e vi è una apocalittica dopo la morte di Gesú e cioè degli apostoli e dei discepoli che hanno esperito tale evento e che drammaticamente, ma vittoriosamente, ne hanno oltrepassato la crisi.

Per impostare in modo giusto il problema storiografico-antropologico della apocalisse protocristiana occorre che gli incidenti a cui essa fu esposta – e soprattutto quell’incidente centrale che fu la morte di Gesú – siano ricostruiti come momenti critici interni allo sviluppo del tema apocalittico protocristiano da Gesú a Paolo e Giovanni; e occorre altresí che tali momenti critici siano interpretati come rischi psicopatologici incompatibili con qualsiasi risoluzione culturale, e quindi come rischi ripresi e riplasmati, di volta in volta, dai successivi modellamenti della apocalittica cristiana. Il simbolo del Regno ha un condizionamento, una genesi, un dinamismo strutturale e una destinazione che non possono in alcun modo e in nessun momento uscire dalla storia che gli uomini fanno: questo è il principio inerente al mestiere dello storiografo, principio al quale non può contravvenire senza contraddire la logica interna di tale mestiere. 2.2. […] Il simbolo è un ponte lanciato fra origine e termine, è ripresa rammemorante e anticipazione prefigurante, che toglie al qui e all’ora il suo rischio dispersivo e annientante, sollevandolo ai compiti della valorizzazione comunitaria della vita. Attraverso il simbolo il qui e l’ora è sottratto all’inerte passare con ciò che passa, e alla perdita di ogni orizzonte di operabilità che dischiude il significante futuro: attraverso il simbolo il mero istante presente si costituisce come presenza presentificante, diventando momento propizio per qualche cosa, richiamo vibrante alla prassi culturale: «è tempo di...» 2.3. Quistioni metodologiche 16. 1.

La storia del protocristianesimo, in quanto ricerca storiografica del generarsi, dello strutturarsi e del vario operare di una manifestazione culturale umana, si propone necessariamente il compito di analizzare le ragioni umane, consapevoli e inconsapevoli, che stanno alla base, di volta in volta e nel complesso, della dinamica temporale di questa manifestazione culturale: tale analisi comporta – almeno rispetto al principio metodologico generale – il riassorbimento dei fatti nella coerenza – consapevole e inconsapevole – delle loro ragioni integralmente umane, senza mai – almeno rispetto all’impegno della ricerca – far intervenire esplicitamente le ragioni divine, e senza per quanto possibile affidare a esse, anche soltanto implicitamente, la piú piccola e parziale funzione di giustificazione dell’accadere. È infatti costitutivo della ricerca storiografica nell’ambito della vita religiosa il

risolvere integralmente, nel loro umano farsi ed essere motivate, ciò che agli operatori religiosi apparve come ragioni extraumane o divine, cosí come, al tempo stesso, è costitutivo della ricerca storiografico-religiosa il mostrare il carattere non secondario e accidentale, ma storicamente necessario e culturalmente funzionale e produttivo, dell’apparire divino – nella consapevolezza degli operatori storici – nelle inconsapevoli motivazioni umane che lo storiografo invece raggiunge e dichiara. 2. La storia del protocristianesimo non può nascere che come rischiaramento di problemi operativi «presenti», cioè di problemi dell’uomo occidentale impegnato oggi nella decisione del vivere culturale comunitario e del suo proprio vivere da uomo in una comunità umana: l’essere del protocristianesimo e il dover essere dell’occidente contemporaneo sono dialetticamente congiunti, e la loro autonomia si costituisce in questa relazione. 3. Il documento fondamentale di cui disponiamo per una storia del Cristianesimo primitivo è il Nuovo Testamento. Ciò significa che la storia da ricostruire attraverso tale documento è quella della comunità cristiana, della Chiesa. Gesú giunge sino a noi mai da solo e direttamente, ma attraverso la comunità ascoltante e reagente e variamente testimoniante: d’altra parte ci giunge secondo un ricordo che condensa in una unità dinamica vari momenti di reazione, come il ricordo di Gesú parlante, e, al tempo stesso, la elaborazione e la reinterpretazione di quel ricordo secondo le reazioni comunitarie dopo la morte violenta patita dal maestro e sotto la necessità di accordare questa morte con quel ricordo. Ciò significa che il vero soggetto della storia protocristiana è la comunità rammemorante, nella dinamica del suo rammemorare, e con l’avvertenza che tale rammemorazione non coincide con gli interessi della ricostruzione storica dell’accaduto ma con la effettiva costruzione di quell’accadere religioso che si chiama appunto protocristianesimo: chi si pone pertanto davanti al Nuovo Testamento con un interesse storiografico non può per definizione in nessun momento autenticare passivamente dati della memoria neotestamentaria, ma si sottopone all’obbligo di condurre ogni momento e aspetto e modalità di questa memoria davanti al tribunale della memoria e storiografia effettiva. 4. La storia del protocristianesimo come storia della memoria

neotestamentaria di Gesú non deve dimenticare i seguenti canoni ermeneutici: a) La memoria neotestamentaria costituisce una unità organica, cioè uno svolgimento coerente che attraverso diversi momenti di costruzione si compone in una totalità significante, di guisa che la totalità che ne risulta verifica ciascun momento, e ciascun momento accenna alla totalità. b) La memoria neotestamentaria costituisce una unità dinamica, diacronicamente risolubile nella sua genesi reale da parte dello storico. c) Per quanto importanti possano essere in questa dinamica determinati incidenti storici (la morte violenta di Gesú, il rinvio del compimento della promessa del Regno), tali incidenti non ne spiegano il suo atteggiarsi e modellarsi e non possono essere assunti come cause naturalistiche e meccaniche del suo sviluppo. Piuttosto la qualità di tale memoria deve risultare proprio dalla sua capacità di oltrepassare, riplasmandoli, incidenti che – come appunto la morte di Gesú e il rinvio della parusia 17 – potevano in astratto anche disperdere la comunità. Se quegli incidenti furono invece elaborati e riplasmati in un discorso unitario, ciò significa che già sin dall’inizio il discorso racchiudeva germi atti ad aver ragione di quegli incidenti, e già sin dall’inizio accoglieva potenze di recupero per le quali incidenti del genere diventavano argomento e verifica di nuova vitalità storico-culturale. 2.4. Ipotesi di lavoro. Il movimento interno del simbolo cristiano della fine comporta: a.

Un progressivo estendersi dell’orizzonte lasciato alla operabilità del mondo, progressivo estendersi caratterizzato dalla indeterminazione del quando e del dove della fine e dallo spostarsi di questa fine dalla imminenza alla lontananza. b. Una legittimazione e qualificazione della operabilità cosí dischiusa, legittimazione e qualificazione ottenute mediante la immagine della repentinità della fine, del suo carattere di tribunale estremo e definitivo dell’operare dei singoli, e della conseguente vigilanza testimoniante che

essa impone al singolo e alla comunità dei singoli. c. Uno spostarsi di accento del qui e dell’ora del decidere operativo intramondano per cui da un qui e da un ora prevalentemente orientati verso la speranza futura si passa a un qui e a un ora prevalentemente orientati, verso la garanzia assoluta di un evento decisivo passato, al centro di tutto il divenire temporale, a partire dal quale tutti i qui e tutti gli ora dei singoli già partecipano della promessa escatologica, già cominciano a pregustare i giorni del Signore, già ne anticipano il certissimo approssimarsi (per quanto indeterminato nel quando e nel dove): su questa linea si muove il passaggio dalla predicazione di Gesú sulla imminenza del Regno (quale poté viverla la comunità cristiana prima della morte di Gesú) alla fede nel Risorto che tornerà (quale si venne costituendo nella comunità dopo la morte di Cristo). Su questa stessa linea di sviluppo si muove il passaggio dall’epoca di Gesú predicante ai discepoli all’epoca del Paracleto 18 dischiuso dalla Pentecoste, che è anche l’epoca della Chiesa operante nel mondo e dei sacramenti che la Chiesa amministra. d. Una vibrante qualificazione operativa della testimonianza da rendere da uomo a uomo per anticipare e affrettare il compimento della promessa: l’amore e la predicazione missionaria del Vangelo. 2.5. Ipotesi di lavoro sulla apocalisse culturale cristiana. Dall’inizio della predicazione sino all’Ascensione è l’arco della storia della salvezza narrato nei Vangeli sinottici: gli Atti iniziano appunto dalla Ascensione e dalla Pentecoste e coprono i primi passi della Chiesa nascente, sino alla prigionia di san Paolo a Roma. Il racconto degli Atti comincia con le apparizioni di Gesú agli apostoli, per quaranta giorni dopo la sua morte. Questo ritorno del morto, riplasmato come ritorno del risorto, dovette dar luogo anche ad attese e speranze della seconda parusia. E tuttavia quell’attesa e quella speranza appare negli Atti riplasmata e chiarita nel senso di una nuova epoca della storia della salvezza, iniziantesi con la discesa dello Spirito Santo. Tale drammatico processo reale di plasmazione e di chiarimento si riflette in I .3-11 19, dove l’annunzio del «battesimo nello Spirito Santo» – il secondo battesimo dopo quello di Giovanni –, è dai discepoli interpretato in senso apocalittico: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno

di Israele?» Ma la risposta di Gesú riplasma l’attesa spostandone l’accento dalla «data», dal «giorno», del suo compimento (e quindi dalla inerzia che rischierebbe di derivarne) all’opera da compiere, mercé dello Spirito Santo e della dynamis della testimonianza che tale discesa conferisce. Il secondo battesimo non è dunque il Regno millenaristico di Israele, secondo un quando databile o una prossimità immediata: ma è l’inizio dell’epoca storica dell’apostolato «in tutta la Giudea, nella Samaria e sino agli estremi confini della terra», l’inizio dell’epoca storica della Chiesa, corpo del Cristo ricolmo di Spirito Santo. La riplasmazione dell’attesa apocalittica immediata in orizzonte di attese che ridischiude l’operabilità testimoniante, si riflette altresí in 1.9-11, dove vien messo termine, mediante l’Ascensione, al mistico rapporto visionario dei quaranta giorni di ritorni e di apparizioni, e dove mentre Gesú si allontana agli occhi dei discepoli due uomini in bianche vesti chiedono: «Uomini di Galilea perché state guardando verso il cielo?», come a ricondurre i discepoli dall’attesa di nuove apparizioni – e dalla speranza che una di esse segnasse la seconda parusia – alla testimonianza operativa per entro la promessa del ritorno indeterminato ma certissimo di colui che asceso al cielo allo stesso modo dal cielo tornerà. L’orizzonte operativo testimoniante, che nell’attesa minacciava di restringersi sino ad annullarsi in una inazione incompatibile con qualsiasi vita culturale, viene ridischiuso mediante questo processo riplasmatore che differisce e indetermina il quando e al tempo stesso pone l’accento sul già (Gesú è già venuto una volta e garantisce la seconda e definitiva; il Regno già comincia e si compirà; attraverso lo Spirito Santo e la Chiesa si compirà la promessa). Ma ciò che in questa riplasmazione appare di particolare rilievo è il tema di un «già» (il Cristo morto e risorto) che comanda una maturazione e un compimento, di un «già» che chiede la testimonianza nel tempo per maturarsi e compiersi, di un «già» che ha valore soterico nella misura in cui è «non ancora»; di un «già» che, per essere paradossalmente «non ancora», comporta necessariamente l’apostolato sino ai confini della terra, e dispiega il compito della Chiesa nel mondo. È da osservare a questo proposito che come il quando databile dell’evento apocalittico racchiude un rischio di inerte attesa incompatibile con qualsiasi vita culturale, cosí il già racchiude un analogo rischio quando sia vissuto come compimento già attuale, come maturazione già avvenuta; questo quando e questo già segnano entrambi la fine della testimonianza operativa mondana, il quando perché verrà il tal giorno databile e ora non

c’è che da attenderlo con lo sguardo al cielo consumandosi in una esplorazione di segni, e ciò perché il compimento essendo avvenuto, ora non c’è che da goderlo nella orgogliosa e isolante partecipazione immediata al maturato una volta per sempre. Ma ciò che fece del Cristianesimo una religione fondatrice di civiltà, ciò che in esso dischiuse la storia, fu appunto questa paradossale tensione fra già e non ancora, questo stare permanentemente in tensione vigilante fra l’uno e l’altro, questo sentirsi garantito dal primo e sospinto verso il secondo, questo viversi di ciascuno nell’epoca dello Spirito Santo, della Chiesa, dell’apostolato, della testimonianza sino ai confini della terra, della buona novella da diffondere tra le genti in un rapporto dominato dall’agape. È appunto questa la forma cristiana, storicamente definita, dell’ethos che regge il mondo. Ma questo ora fra già e non ancora, se è la grandezza civile del Cristianesimo, costituisce anche il suo travaglio: il già ora che oscura il non ancora e il non ancora che perde il già costituiscono due forze eccentriche che manifestavano il venir meno di quell’agape che Paolo poneva al di sopra della pistis e dell’elpis 20. La discesa dello Spirito Santo (suono come di vento che soffia impetuoso, fiammelle che si depongono su ciascuno degli apostoli, glossolalia) porta i segni esteriori di una crisi allucinatoria e di tumultuose emergenze dall’inconscio sotto forma di linguaggi «stranieri» (2.1-4). Ma la interpretazione degli Atti è che tale discesa, attraverso la xenoglossia, prefigura e anticipa l’annunzio del Vangelo a tutte le genti (2.5-11) e prefigura e anticipa altresí gli ultimi giorni, quando si produrranno segni di catastrofe cosmica in cielo e in terra, sangue, fuoco, vapor di fumo, oscuramento del sole e la luna rossa come sangue, e moltiplicarsi di profezie e di segni, e tutti saranno riempiti di Spirito Santo (2.17-21) (Gioele, 3.1-5). Ciò significa che la fine del mondo, gli ultimi giorni, sono – attraverso la riplasmazione culturale di quanto avvenne fra gli apostoli nel giorno di Pentecoste sul monte dell’Oliveto – tramutati nella anticipazione prefigurante della discesa dello Spirito negli ultimi giorni e della predicazione del Vangelo a tutte le genti, sino agli estremi limiti della terra: ma, intanto, la predicazione si apre come compito, come prospettiva, e quindi come periodo del compimento e della maturazione della promessa iscrittasi nel tempo mediante la prima parusia, dalla predicazione alla passione morte e risurrezione di Cristo. Ora sta davanti agli apostoli, non già la fine in modo immediato, ma

appunto questo periodo che deve essere attraversato prima che la fine sopraggiunga: ed è questo «deve» che caratterizza e dà un senso culturale preciso al Cristianesimo, lo individua come fenomeno storico e gli conferisce la potenza fondatrice di una «civiltà cristiana». È il discorso di Pietro (Atti, 2.16 sgg.) che illustra questo significato: altrimenti non si sarebbe trattato che di una crisi senza telos («tí télei touto einai?»), e che avrebbe potuto anche sembrare ubriachezza. (Il discorso di Pietro è da ricollegare con la polemica paolina contro l’abuso dei carismi nella Prima lettera ai Corinzi 21: e, in linea di interpretazione strutturale della esperienza religiosa, è da istituire un paragone con la «mania telestica» di cui parla Platone e su cui recentemente Linforth e Dodds hanno richiamato l’attenzione a proposito dei culti orgiastici dell’antichità e in particolare del culto coribantico 22). L’Ascensione e la Pentecoste mettono fine al periodo di crisi della comunità protocristiana dopo la morte di Gesú. Il «ritorno» di Cristo, in questo periodo sembra assumere la modalità caratteristica del ritorno del morto: le apparizioni si moltiplicano: alle donne al sepolcro e mentre tornavano, a Pietro, ai due di Emmaus, ai gerosolimitani, al lago Tiberiade, al monte di Galilea, a mensa per l’ultima volta. Questi ritorni del morto possono valere come testimonianza della crisi del cordoglio alla morte di Gesú: ma, al tempo stesso, essi appaiono nel Vangelo già orientati secondo due grandi temi risolutivi, e cioè come testimonianze della Risurrezione e come presenza del Cristo morto e risorto nella sua Chiesa sino al compimento del piano temporale della salvezza con la seconda parusia («syntéleia tou aiónos» 23): compimento che comporta un crescere e dilatarsi del Regno mediante la predicazione del vangelo a tutte le genti. Le apparizioni di Gesú, da quella alle donne presso il sepolcro sino a quella dell’ultima volta a mensa, e sino all’Ascensione che chiude il ciclo protocristiano dell’apparir di Gesú, scandiscono nel Vangelo i tempi di una grande liturgia funeraria che fornisce il modello di come oltrepassare la morte e la crisi del cordoglio che la accompagna: l’arco narrativo paradigmatico si compie, dopo il distacco dell’Ascensione, con la discesa dello Spirito Santo che inaugura l’epoca in cui il morto-risorto sarà con i suoi credenti tutti i giorni sino alla fine del mondo e darà loro la dynamis missionaria che caratterizza tale epoca. È dunque possibile interpretare la genesi del protocristianesimo come la esemplarizzazione di una storica risoluzione di una crisi del cordoglio: risoluzione che trasforma Gesú morto nel Cristo risorto, e il morto-che-torna

della crisi nel morto-risorto presente nella Chiesa e per eccellenza nel banchetto eucaristico, sino a quando il già accaduto della promessa sarà compiuto mediante lo slancio missionario. Ciò suggerisce un approfondimento ulteriore della tesi di Morte e pianto rituale nel mondo antico e autorizza a interpretare il Cristianesimo come un grande rituale funerario per una morte esemplarmente risolutiva del vario morire storico e come pedagogia del distacco e del trascendimento rispetto a ciò che muore 24. (Il che poteva aver luogo solo in quanto il morto era l’unto dell’uomo-Dio). Questa vicenda si riproduceva anche nei rituali funerari del mondo antico, ma attraverso un dispositivo risolutore diverso: poiché in essi mancava appunto ciò che sta al centro del Cristianesimo, l’esemplarità storica di un passaggio dalla crisi di un morto-che-torna alla fede in un morto-risorto, dalla fede in un morto-risorto alla presenza di esso nella comunità dei fedeli, e dalla sua presenza nella comunità dei fedeli al compito di testimoniare ardentemente per lui in una vita cristiana racchiusa nell’orizzonte della sua promessa. 2.6. Il Weltuntergangserlebnis 25 [«l’esperienza vissuta di fine del mondo»] come rischio esistenziale antropologico trova nel simbolo miticorituale del Regno il suo orizzonte di reintegrazione, orizzonte che in modo mediato ridischiude l’esserci nel mondo per entro tale coscienza miticorituale dell’esserci. Nell’eucaristia la comunità dei fedeli partecipa, in virtú del simbolo eucaristico, a un orizzonte retrospettivo e prospettico: tale orizzonte è retrospettivo in quanto il banchetto ripresenta l’evento «passato» del Cristo al centro del piano temporale di salvezza; è prospettico in quanto anticipa e prefigura il banchetto dei tempi estremi, quando avrà luogo la seconda definitiva parusia. Ma appunto perché retrospettivo e prospettico l’orizzonte simbolico eucaristico ridischiude le dimensioni del presente (e della presenza nel mondo, dell’esserci), inserendolo nel tempo e togliendolo da quell’isolamento che equivale a perderne la possibilità, e a esperire hic et nunc la catastrofe del mondo. Il rischioso puntualizzarsi della catastrofe, incompatibile con qualsiasi vita culturale, anzi «sintomo» della catastrofe della stessa possibilità della cultura umana, viene ora mediatamente oltrepassato: con il Cristo il mondo ha cominciato a finire, in passato, nel punto centrale del piano divino di salvezza; con il Cristo, sempre in passato, è stata data la promessa dei tempi estremi futuri; e infine con il Cristo reso presente nella iterazione del banchetto eucaristico, è possibile sperimentare nel qui e nell’ora non già l’attuale immediato crollare del mondo, ma la

promessa passata e l’attesa futura del finire vivendo qui e ora non già i tempi estremi, ma la promessa del passato e l’attesa del futuro, e quindi la prefigurazione, l’anticipo, il pegno della seconda parusia che certamente avrà luogo, poiché già ha avuto luogo con la prima. Proprio questo già e questo non ancora danno orizzonte al Weltuntergangserlebnis, sottraendolo all’esperire attuale, puntuale, catastrofico, senza compenso, irrelato del mondo che crolla: il rischio è ripreso e riplasmato dal simbolo, che per tale riplasmazione fa mutare di segno alla catastrofe. D’altra parte la catastrofe del Weltuntergangserlebnis acquista orizzonte e mutamento di segno non soltanto attraverso l’orizzonte del Regno di Dio, ma anche per quello del rito eucaristico. L’eucaristia è celebrazione socializzata, istituzionalizzata, calendarizzata dell’ultima cena, del banchetto eucaristico e di quello dei giorni estremi: cioè di un passato e di un avvenire che il rito presentifica: ogni volta che cade calendarialmente il giorno del Signore la comunità si raccoglie per la celebrazione. Ma già l’istituto di limitare la celebrazione della catastrofe riplasmata a momenti calendariali ricorrenti del tempo (i giorni del Signore) rende disponibile per l’esserci-nel-mondo i periodi intercorrenti fra le successive celebrazioni, li libera di fatto per questo esserci, rendendo cosí possibile la varia vita culturale che senza dubbio trae alimento dai comportamenti liturgici domenicali, ma che non si riduce in nessun modo a essi. La catastrofe della fine muta qui di segno una seconda volta, se in quanto mito del Regno il mutamento di segno sta nel ridischiudere l’angosciante attuale e puntuale finire a un finire che è già cominciato e che al tempo stesso maturerà come fine, secondo un piano di salvezza, nel rito dell’Eucaristia il mutamento di segno sta nell’introdurre nel tempo storico un rito periodico calendarizzato, di guisa che all’esserci-nelmondo viene reso disponibile il tempo intercorrente fra celebrazione e celebrazione: il che significa che di fatto, tale tempo è ridischiuso all’operare mondano. Se fra il «non ancora» e il «già» del simbolo mitico-rituale cristiano la presenza prende respiro ed è messa in condizione di dispiegare le sue potenze, la concentrazione calendariale periodica del comportamento liturgico libera il tempo per gli altri comportamenti culturali. Attraverso questo duplice orizzonte guadagnato rispetto alla irrelata puntualità del Weltuntergangserlebnis è possibile liberare infine, proprio in questo orizzonte «anastrofale», i comportamenti dell’esserci-nel-mondo. Senza dubbio tali comportamenti sono mediati e dischiusi per entro la

giustificazione simbolica cristiana: proprio perché la puntualità del Weltuntergangserlebnis, del crollare qui e ora del mondo, trova il suo riscatto nel tempo ridischiuso del Regno che è già e che non è ancora e del rito che qui e ora rende partecipi del piano divino di salvezza restituendo al mondano l’operare extraliturgico, è reso possibile il grande compito dell’amore, che sta al di sopra della fede e della speranza, e che vale piú del dono delle lingue: l’agape, il banchetto, si effonde come amore oltre l’esperire liturgico, è amore testimoniato dagli uomini a tutti gli uomini. All’ombra del Regno creduto e sperato secondo il modello del Cristo, è mediato l’amore fra gli uomini, l’amore che in questa prospettiva rovesciata fa crescere il Regno, ne segna l’approssimarsi nel tempo e il dilatarsi nello spazio. Qui il Weltuntergangserlebnis subisce il terzo mutamento di segno, il suo ridischiudere quell’amare che nel Weltuntergangserlebnis era assolutamente spento nel momento stesso in cui un atroce egoismo chiudeva l’individuo in sé e lo distruggeva come presenza.

3. I limiti della teologia protestante. 3.1. Oscar Cullmann, Christus und die Zeit. Die urchristliche Zeit und Geschichtsaufassung, Evangelischer Verlag A. G., Zollikon-Zürich, 1945 1 a ed., 1948 2 a ed., p. 224 26. Fino al secolo XVIII valevano due modi di calcolare il tempo, uno «dopo» di Cristo, fondato sulla successione degli anni a partire dalla sua nascita (A.D.), e uno prima di tale nascita, fondato sugli anni successivi alla creazione del mondo. Ma dal Settecento in poi prevale un modo di calcolare il tempo che assume la nascita del Cristo come evento centrale a partire dal quale si calcolano gli anni «prima» e «dopo» tale nascita. Il problema che si pone O. Cullmann, se il centro del Cristianesimo primitivo sia o meno la storia della salvezza ridistribuita rispetto all’evento storico di Cristo-Dio, non è un problema storiografico. Sia pure accertato che, per il Cristianesimo primitivo, valesse questa visione salvifera della storia come nucleo centrale: per lo storico non basta identificare l’essenza del Cristianesimo primitivo, ma occorre individuare le ragioni umane (consapevoli e inconsapevoli) di questa particolare coscienza del divenire

storico, e gli umani valori che (consapevolmente o inconsapevolmente) ne vennero mediati (per esempio l’amore). Non si tratta di identificare l’essenza del Cristianesimo primitivo, cioè dove batteva l’accento della sfera cosciente, ma di ricostruire un movimento di cui la coscienza della storia della salvezza mediante Cristo al centro del divenire storico sta come risultato. Secondo Cullmann, pp. 41 sgg., aión nel primitivo Cristianesimo si articola nei seguenti distinti significati: a.

il tempo illimitato, senza principio né fine, e quindi propriamente infinito, eterno: come tempo di Dio tende a perdere ogni significato temporale concreto; b. il tempo limitato compreso fra creazione e fine del mondo; c. il tempo illimitato quanto al principio e limitato quanto alla fine: cioè il tempo «prima» della creazione; d. il tempo limitato quanto al principio ma illimitato quanto alla fine: cioè il tempo «dopo» la fine del mondo. Questa economia del tempo neotestamentario è governata dal «piano divino» che determina i kairói – i momenti adatti – di questa successione rettilinea di aiónes: il Cristo sta al centro del processo, nel senso che la data del suo evento e della sua opera manifesta agli uomini la totale economia del tempo, mediando agli uomini – una volta per sempre – il piano divino di salvezza. La tesi di Cullmann ha il limite di presentare la concezione protocristiana del tempo come una totalità statica, senza sviluppo, come una essenza. L’autore coglie senza dubbio molto bene la distinzione fra tale concezione e quella antico testamentaria o greca o iranica (e si potrebbe aggiungere indiana), ma non ci espone le fasi distinte, le accentuazioni diverse, che per entro la stessa storia del Cristianesimo primitivo dagli antecedenti giudaici della predicazione di Cristo, da questa sino alla morte di Gesú, dalla morte di Gesú sino a Paolo e a Giovanni subirono i temi dell’aión, del kairós, del Regno, della parusia, e di quant’altro ha attinenza con la fine del mondo e con l’escatologia, con il divenire cosmico e con la storia della salvezza. Il Cristianesimo primitivo viene offerto qui come un blocco monolitico, caduto dal cielo, e quindi senza storia in se stesso, e che la ellenizzazione doveva poi scalfire o addirittura spezzare (gnosticismo). Ma c’è da chiedersi, a proposito

del tempo, se la fine del mondo, l’attesa del Regno, ecc. si configurarono con accento diverso in Gesú e dopo la morte di Gesú, nei Vangeli sinottici e in Paolo, nel quarto Vangelo e nell’Apocalissi. Proprio la storia di questa diversa accentuazione forma problema onde occorre sciogliere il rapporto Christus und die Zeit negli altri: Gesú e il tempo; i sinottici e il tempo; Paolo e il tempo; il quarto Vangelo e il tempo; l’Apocalisse e il tempo. I limiti del lavoro di Cullmann sono in fondo quelli del protestantesimo, cioè di una ricerca orientata verso una essenza del Cristianesimo che è stata tradita e che occorre riguadagnare. Tempi ultimi, Spirito Santo, Chiesa, eucaristia. [...] La struttura del Regno è irta di contraddizioni, astrattamente se misurata da un punto di vista filosofico moderno. Ma il problema che sta davanti allo storico è un altro: si tratta di comprendere perché alla coscienza protocristiana non affiorarono le contraddizioni del Regno, per esempio la incoerenza fra una storia della salvezza già tutta pianificata da Dio e il merito del salvarsi nella prospettiva umana. Ora proprio quando lo storico si pone questo problema, e per risolverlo fa appello alle ragioni che inconsapevolmente trattenevano a orientarsi verso la presa di coscienza di quelle contraddizioni, allora le incoerenze racchiuse nella coscienza attuale che il Cristianesimo primitivo ebbe del Regno mostrano la loro necessità: le inconsapevoli ragioni della incoerenza del Regno ne ristabiliscono la coerenza storicamente condizionata. Una incoerenza necessaria non si converte forse in coerenza? E una incoerenza anzi di cui si riesce a stabilire che la coscienza attuale non poteva e non doveva, per determinate ragioni, riconoscere, non viene forse reintegrata nella razionalità, e con ciò non è forse storiograficamente «compresa»? La struttura del Regno, astrattamente considerata, è certamente irrazionale: ma lo storico è impegnato a mostrare che nelle varie parti di quella struttura nulla è affidato al caso, e che dati certi problemi esistenziali dell’epoca, la loro coerente soluzione non poteva essere raggiunta che attraverso quell’organico sistema di incoerenze non riconosciute che è appunto il Regno. […] Giudaismo e Cristianesimo hanno una diversa prospettiva del tempo: entrambi lo dividono nella tripartizione di tempo prima della creazione, tempo compreso dalla creazione al Regno, e tempo del Regno. Ma il tempo mondano, quello tra creazione e Regno, nel giudaismo è vissuto nella

prospettiva di un evento centrale futuro, la venuta del Messia; nel Cristianesimo, invece, il centro è retrocesso dal futuro al passato, onde dopo questo centro «il Regno già comincia». L’emergenza della storia per entro il simbolo cristiano si compie attraverso questa retrocessione del termine (la parusia) al centro (il Cristo) dell’aión presente, mantenendo tuttavia il termine come compimento e come seconda parusia: onde dalla prima alla seconda parusia il Regno, che nella concezione giudaica è soltanto una promessa del futuro, si inizia e cresce e si compie già qui e ora, nella celebrazione liturgica dell’agape, e nella espansione mondana di questa stessa agape di cui si è fatta provvista nel rito eucaristico. La eucaristia acquista dunque il significato di ripresentare sempre il centro «passato» della storia della salvezza, cioè la prima parusia, via via che il tempo presente passa: e per questa ripresentazione del centro passato, che è origine della nuova epoca, il presente viene di volta in volta riassorbito nel piano escatologico, entrando in partecipazione con i tempi estremi della seconda parusia. Ma questo simbolo cristiano a sua volta ha una storia interna di formazione: poiché se Cristo per i cristiani è un evento passato, Gesú in vita non poteva ovviamente rivivere il Cristo crocifisso e risorto come un «passato», ma in Lui doveva porsi in primo piano l’accento sul termine ultimo, sulla fine del mondo e sull’avvento del Regno: Gesú stava in prossimità dei tempi estremi, toccava il margine di una storia giunta al suo termine. Per lo storico sta dunque in primo piano il problema di questo continuo spostamento di accenti nella storia protocristiana, per cui alla prospettiva estrema della predicazione di Gesú si venne sostituendo la prospettiva del Cristo morto e risorto come evento centrale passato della storia della salvezza: la prospettiva di un Regno già cominciato con quella morte e risurrezione, e tuttavia ancora da compiersi con la seconda parusia. [...] Qui – pp. 75-80 – è possibile ravvisare il limite caratteristico della prospettiva di Cullmann. Il fatto che nel Nuovo Testamento le espressioni impiegate battono l’accento ora sulla «imminenza», ora sul carattere «futuro» ora sulla «indeterminatezza cronologica» del Regno, e ora sul tema del Regno che «già» è cominciato e cresce e si dilata sino al giorno del suo definitivo compimento, viene rimandato a «cause psicologiche» secondarie per la considerazione teologica: per la quale tutte queste determinazioni stanno

organicamente insieme in una essenza data tutta in una volta, e cioè lo spostamento del centro dal futuro al passato, col conseguente mutamento di prospettiva della storia della salvezza: il giudaismo appartiene all’epoca in cui la parusia sarà, il Cristianesimo all’epoca compresa fra la prima e la seconda parusia, fra l’inizio del Regno e il suo compimento, fra la promessa già fatta e il compimento futuro della promessa stessa. Ma da un punto di vista storico proprio ciò che Cullmann chiama «motivazioni psicologiche» prende un rilievo di primo piano. Il Regno predicato da Gesú, quello dei Vangeli sinottici scritti dopo la morte di Gesú, quello della cristologia paolina, quello del quarto Vangelo e quello dell’Apocalisse partecipano di un movimento storico in cui gli accenti si spostano in un certo modo e secondo una certa coerenza e necessità, che la ricerca storiografica deve ricostruire e comprendere. Ciò che nel Nuovo Testamento appare, per il credente, sullo stesso piano, cioè come dato tutto in una volta con i suoi vari accenti, per lo storico manifesta una successione di momenti di sviluppo: per il credente il Regno comincia con la predicazione di Cristo, per lo storico esso comincia con la predicazione di Gesú di Nazareth e si viene modificando come prodotto storico in una mutazione di accenti che non è secondaria o meramente psicologica, ma primaria per la comprensione. Per il credente il Regno appare in primo luogo come una nuova prospettiva della salvezza realizzantesi nel tempo: per lo storico la coscienza protocristiana del tempo diventa problema, sia nel senso che questa coscienza non si mantiene astrattamente identica ma presenta piani e momenti di sviluppo, sia nel senso che oltre questa coscienza si distende la sfera delle motivazioni inconsapevoli o dei risultati che solo piú tardi maturarono, sia infine nel senso fondamentale che, per lo storico, il Regno non può non essere opera culturale umana non consaputa come tale (gli uomini fanno la storia ma non sanno di farla), e pertanto spetta allo storico rintracciare sia le motivazioni umane non consapute come tali, sia la necessità storica e la storica funzione di questo non-sapere (o di questo sapere mitico). Nella prospettiva di Cullmann (l’essenza del Cristianesimo primitivo) opera invece ancora la preoccupazione religiosa immediata, mascherata nel proposito di ripetere la sola coscienza protocristiana del tempo, senza nessun riferimento al suo movimento storico e alle sue storiche motivazioni «umane». [...] Senza dubbio quando ci poniamo il problema della coscienza che il

Cristianesimo primitivo ebbe del tempo non possiamo in alcun modo far operare la nostra coscienza della distinzione fra mito e storia come se fosse presente alla coscienza protocristiana. Effettivamente per la coscienza cristiana Adamo come mito, Gesú di Nazareth come personaggio storico e il Cristo come mito non si distinguono secondo le nostre categorie di mito e storia. Ma lo storico non esaurisce il suo compito nel determinare in che misura il suo concetto di storia non appartiene alla coscienza degli operatori storici di cui si occupa, e, via positiva, come si riflette nella coscienza di questi operatori la storia di cui sono protagonisti. Compito dello storico del protocristianesimo è di ricostruire le motivazioni umane (consapevoli o inconsapevoli) e le condizioni culturali complessive per cui ebbe luogo la coscienza cristiana della storia, cioè per cui nacque il Vangelo come «buona novella» e non come serie di dati biografici accuratamente raccolti e commentati dagli storiografi Matteo, Luca, Marco e Giovanni. [...] A proposito di quanto afferma Cullmann, pp. 84 sgg., è da osservare: che le scritture non siano libri di storiografia sembra sin troppo ovvio: ma ciò non ha nulla da vedere col fatto che non siano libri «storici», cioè prodotti culturali umani: è questa necessariamente la prospettiva dello storiografo che si accosta a essi come documenti. In quanto non sono libri storiografici – scritti cioè nell’intento di raccontare il corso di eventi umani e consaputi come tali – essi racchiudono affermazioni di fede, come per esempio che Gesú è figlio di Dio o che la sua nascita è virginale, ecc. ecc.; ma in quanto libri storici a cui lo storiografo si avvicina, anche le affermazioni di fede appartengono senza residuo alla storia umana e pongono allo storiografo il problema del come e del perché della storia si venne formando quella coscienza non certamente storiografica, ma mitica, che caratterizza il protocristianesimo. Insomma lo storiografo se ha il compito di ricostruire la genesi umana dei prodotti culturali non può arrestarsi come incompetente davanti ai prodotti culturali che racchiudono una coscienza non storiografica, ma è chiamato a rigenerare storicamente nelle sue motivazioni, nella sua struttura e nella funzione la coscienza mitica della storia umana. O una storiografia del Cristianesimo è possibile, e allora lo è assumendo il principio inerente alla ricerca storiografica, e cioè che il Cristianesimo è un prodotto culturale umano, che in tutte le sue parti, nessuna esclusa, può essere ricondotto alle ragioni umane che lo produssero: o non è possibile, e allora è

impossibile integralmente, in quanto lo storico cerca umane genesi umanamente motivate e il Cristianesimo presenta invece eventi che rientrano in un piano di operazioni divine. Siamo qui di fronte a un aut-aut, a una scelta, e ogni tentativo di compromesso dà luogo a contraddizioni insanabili. Tale contraddizione è occultata quando ci si limita a descrivere la coscienza cristiana della storia: ma l’occultamento è ottenuto a prezzo di proibirsi di raccontare come questa coscienza si è formata e quale funzione ha assolto, cioè è ottenuto sospendendo nell’essenziale il compito dello storiografo, o limitandolo arbitrariamente solo a certi documenti o a certi aspetti di essi, e sottraendone altri per principio all’esame storiografico, poiché sarebbero di pertinenza esclusiva del teologo. 3.2. Christus und die Zeit. Osservazioni in margine. L’esistenza storica è sempre, in quanto esistenza culturalmente determinata, un orizzonte particolare di trascendimento dei momenti critici secondo valori intersoggettivi. Le diverse culture si individuano appunto secondo il numero, la qualità, la frequenza dei rischi di crisi radicale e il carattere del dispositivo di valorizzazione reintegratrice. Vi sono tre grandi dispositivi di reintegrazione rispetto alla crisi radicale: primo dispositivo è il seguente: occultamento della storicità della condizione umana mediante la riduzione del presente critico e del futuro incerto a modelli mistici di fondazione e di risoluzione: l’iniziativa, la scelta, la decisione responsabile non possono ancora prodursi accompagnati dalla coscienza di una origine e destinazione integralmente umana dell’operare e si proteggono in un «come se» caratteristico: si opera ripetendo modelli metastorici di comportamento, la proliferazione del divenire è sistematicamente riassorbita nella coscienza egemonica della iterazione rituale di sempre identiche origini mitiche. Il secondo dispositivo è il seguente: la storia, che nel precedente modello veniva continuamente riassorbita nelle origini mitiche, qui invece manifesta alla coscienza culturale egemonica la dimensione del futuro nel senso di un percorso finito verso un termine ultimo, mitico anch’esso, di carattere escatologico. È la prospettiva giudaica: si opera per entro l’orizzonte di una storia compresa fra origine e termine, fra creazione, patto e attesa dei giorni di Jahve; si opera spiando i segni del favore o della collera divina e interpretando tutta la storia, dalla origine al termine escatologico, come storia santa del popolo speciale. Terzo dispositivo, quello cristiano. L’evento escatologico non è collocato al termine

della storia, ma al centro, a partire dal quale comincia la fine 27 […] L’eterno ritorno come immagine del tempo si collega al simbolismo mitico-rituale delle forme di vita religiosa indipendenti dalla tradizione giudaico-cristiana. Il simbolismo mitico-rituale di tali forme mistifica il divenire storico – lo occulta ad una possibile coscienza integrale di esso – mediante l’articolazione del divenire in «momenti critici tipici dell’esistenza», mediante il riassorbimento di questi momenti critici tipizzati in un modello metastorico di fondazione e di risoluzione in illo tempore: di guisa che ripetendo ritualmente il modello delle «origini» ogni «ora» e ogni «domani» critici sono ricondotti a un «già» operato da numi, una volta per tutte le volte. Il modello del centro della storia umana fra origine e termine appartiene invece al Cristianesimo: centro che, in quanto evento decisivo, da senso al divenire mondano, e assegna alle singole epoche della salvezza un posto univoco nel «prima» e nel «poi» e nell’intero «piano» che si dispiega dalle origini al termine. La ripetizione, in questo nuovo orizzonte, non concerne piú le origini (la fondazione originaria), ma lo stesso evento centrale: il tempo naturale e mondano, gli anni astronomici, vengono riassorbiti ciascuno nello stesso anno liturgico, e l’anno liturgico che si ripete ogni anno ripete a sua volta il tempo dell’evento centrale col suo vertice nella Pasqua di Risurrezione. L’immagine dell’anno liturgico racchiude quindi, come limite ideale, la completa destorificazione del tempo: come in una caverna dominata dall’eco, il Cristo vi è infinitamente ripetuto, anche se il suono ha diversi gradi di altezza. Ogni messa ripete l’evento centrale, ma la messa di Natale e soprattutto quella di Pasqua si richiamano con maggiore pregnanza a esso: ogni mese, ogni giorno, ogni ora, ogni istante possiede – sempre come limite ideale – il suo significato ripetitivo, la sua possibilità calendariale di essere riassorbito e santificato nella direzione del centro. Ogni giorno ha il suo santo, ogni ora la sua preghiera e ogni mese, la sua festa. Tuttavia, proprio perché viene ripetuto non un mito delle origini ma un evento centrale della storia della salvezza, la paradossia cristiana del tempo esplode in tutta la sua drammaticità: mentre la ripetizione del Cristo accenna a una destorificazione radicale, la ripetizione dell’evento centrale che dà senso alla storia umana fa apparire e crescere la coscienza della storia per entro la stessa coscienza ripetitiva mitico-rituale. Appaiono cioè il «processo irreversibile», il differimento degli ultimi giorni e il Regno che già è cominciato e si dilata, lo Spirito Santo dal Cristo agli uomini del periodo

dalla prima alla seconda parusia, la testimonianza umana capace di affrettare il Regno, l’amore al di sopra della fede e della speranza, il tempo che ancora deve scorrere dopo l’evento centrale affinché il Vangelo sia predicato a tutte le genti e il maggior numero possibile si salvi: tutti momenti che accennano alla responsabilità della decisione individuale nel qui e nell’ora, a una responsabilità che in ultima istanza non ha nulla di ripetitivo. Il simbolismo mitico-rituale riassorbe nella ripetizione rituale della fondazione mitica la proliferazione storica del divenire, la mistifica, la occulta, e con questa mistificazione e occultazione protegge l’operare civile della crisi esistenziale. Ma quando, col Cristianesimo, la coscienza della storia è cominciata ad apparire per entro la stessa coscienza mitica, quando, col Cristo, il tema della ripetizione delle origini è stato sostituito con quello della ripetizione del centro del corso storico, e il divenire fu vissuto come epoche della salvezza alle quali tutte, passate, presenti e future, quel centro dava significato di «piano» da una origine a un termine, tutto l’antico simbolismo mitico-rituale accolse nel suo seno una profonda paradossia. L’esigenza di un orizzonte simbolico della crisi tuttavia resta: di un orizzonte che abbracci un evento fondatore e una meta prospettica, e che dia senso alla vita comunitaria, nella unità di un’epoca. Gli anni 1-30 sono decisivi per il cristiano in quanto anni della nascita, della predicazione, della passione, della morte e della risurrezione di Cristo: e per quasi duemila anni una civiltà è vissuta nella memoria di quegli anni e nell’anticipazione degli ultimi giorni di cui quegli anni segnavano l’annunzio e la garanzia. Ma una volta che il simbolismo cristiano ha liberato il senso della storia non è piú possibile in buona fede credere al carattere decisivo di quegli anni in quanto anni della incarnazione del logos nella persona di Gesú di Nazareth. Occorre ricomporre il nostro simbolismo su un piano esclusivamente civile, partecipando a un orizzonte epocale determinato, con un inizio e una meta non assoluti, ma relativi a questa epoca, e non affidati a numi ma interamente a uomini e ai loro istituti. Un evento iniziale e fondatore impiantato nel cuore della storia, interamente operato da uomini e destinato a uomini, un nuovo corso in svolgimento, una meta in prospettiva; questo non può essere che una rivoluzione, i dieci giorni che sconvolsero il mondo. (Cullmann, p. 109). Ci separano duemila anni dai giorni di Cristo, e anche una distanza spaziale: la Terra Santa. Ma alla comunità cristiana primitiva lo scandalo, la follia della croce doveva apparire molto maggiore che a noi,

poiché in un villaggio ben noto, un uomo fra gli altri si era proclamato figlio di Dio ed era stato condannato a morte come un delinquente. Se la fine incombe, e se questo incombere è vissuto come prossimità e radicalità angoscianti, oppure se la fine è sperimentata come già avvenuta, di guisa che ormai è iniziata un’epoca di disfacimento e di crollo che corre rapidamente verso la catastrofe, allora il mondo, la storia, non sono piú operabili e ogni margine per la vita culturale si restringe e si annienta: ma la fine di cui parla il Nuovo Testamento non è questa, per quanto vi appaia come momento ripreso e riscattato. Vi appare il momento della prossimità incombente, soprattutto nell’epoca della predicazione di Gesú, ma si tratta di una prossimità che non si concentra nel dove e nel quando, che ricaccia anzi questo dove e questo quando per dare orizzonte ai temi della metanoia, della testimonianza, della preparazione, della vigilanza, dell’amore, di una estrema tensione dell’operare comunitario. Dopo la morte di Gesú questo margine si allarga, la cristologia indica nella croce una fine che appartiene al passato e che è garanzia della seconda parusia: la Pentecoste ridischiude il futuro, cioè l’epoca compresa fra le due parusíe, e quest’epoca non è soltanto operabile per coloro che hanno ricevuto lo Spirito Santo, ma si configura un programma di vita cristiana che può affrettare, far crescere, il Regno. Sorge la Chiesa, i sacramenti sono istituzionalizzati e attraverso l’eucaristia la morte e la risurrezione di Cristo diventano principio di vita comunitaria, momento calendariale di concentrazione e di diffusione di energie operative per la vita di ogni giorno, nella prospettiva degli ultimi giorni sempre piú allontanantesi e sempre di nuovo differita. Fede nell’evento di salvezza già avvenuto come surrogato dell’aspettativa ancora incompiuta del Regno di Dio; oppure: fede nell’evento di salvezza già avvenuto come fondamento dell’attesa della seconda parusia. Questa alternativa ermeneutica è da respingere. Il «già avvenuto» come surrogato psicologico del «non ancora avvenuto» è criterio interpretativo insufficiente: si deve piuttosto parlare di una dinamica dell’imminenza del Regno futuro alla attualità del Regno che già comincia, dall’attesa degli ultimi giorni alla anticipazione mediatrice della testimonianza delle opere, dalla fine prossima all’evento decisivo già accaduto e al presente riscattato per questa apertura. L’escaton si affina nel principio etico: «agisci come se la tua decisione fosse l’ultima possibile e quindi non correggibile da una ulteriore decisione: come se si trattasse di una decisione di risonanza cosmica e definitiva; come

se tu fossi in punto di morte e dettassi le ultime volontà». Ma non è questo l’escaton protocristiano anche se esso può mediare, e ha mediato di fatto, il senso di una suprema responsabilità umana nell’accadere terreno. Secondo Cullmann (pp. 194 sgg.) la concezione lineare del tempo propria del Cristianesimo evita il fraintendimento «mistico» dei contenuti evangelici. Tale fraintendimento può essere evitato solo in virtú della temporalità della storia della salvezza: «La partecipazione a un mito intemporale porta con sé necessariamente un carattere mistico, quale possiamo ravvisare nelle religioni di mistero dell’età ellenistica. A un evento temporale del passato, quando questo passato sia preso seriamente come tale, può aver luogo solo una partecipazione che sia fondata sulla fede nel significato di salvezza di questo fatto del passato». Cullmann pertanto polemizza (p. 149) con l’interpretazione della «ripresentazione» (Wergegenwartigung) dell’evento decisivo del passato: «Teologi cattolici di primo piano hanno certo sempre di nuovo protestato, forse non a torto, contro l’interpretazione protestante della messa, secondo la quale nella messa il sacrificio del Golgota verrebbe “ripetuto”. In realtà non si tratta di una ripetizione ma di una ripresentazione dell’evento prodottosi una sola volta. Ma dal punto di vista della concezione cristiana del tempo anche questo concetto della “ripresentazione” non sembra congruente con l’ephapax 28. Anche io metto con forza l’accento sul fatto che il culto protocristiano – che sta nell’eucaristia come suo vertice assoluto – rinvia, verso il passato, al crocifisso e al risorto e, verso l’avvenire, a colui che tornerà alla fine. Ma chi appare ora alla comunità raccolta appare appunto non già come colui che viene crocifisso e che risorge, altrettanto poco come il ritornante nella parusia escatologica, ma come colui che siede alla destra di Dio, come colui che è stato crocifisso ed è risorto e come colui che ritornerà. Come tale egli offre attualmente la remissione dei peccati da lui conseguita, e promette il compimento futuro. Se Kierkegaard (col suo concetto di “contemporaneità”) salta indietro per cosí dire nel tempo dal presente sino all’evento mediano 29 del Cristo, nel cattolicesimo al contrario si salta in avanti, dall’evento del Cristo al presente. E se Kierkegaard sottovaluta il presente nel suo proprio significato soteriologico, nel cattolicesimo invece tale presente è sopravvalutato rispetto a quell’evento centrale passato». L’imminenza del Regno, l’attesa del suo prossimo avvento, ha, secondo Cullmann, la sua radice nella fede che l’evento di salvezza è già accaduto, si è già prodotto. Non è dunque da dire – sempre secondo Cullmann – che la

fede nel Salvatore che ha «già» salvato sia un surrogato della delusa attesa del prossimo avvento del Regno, ma, al contrario, proprio questa fede ha generato l’attesa prossima. L’essenziale nell’annunzio «Il regno è prossimo» concerne certamente la cronologia, ma in strettissima connessione con il sapere di una decisione già intervenuta. Concerne dunque non già in prima linea la delimitazione della prossimità della fine a una generazione, anche se questa delimitazione si trova certamente nel Vangelo. Il tratto teologicamente importante nella predicazione della prossimità del Regno di Dio non è questo, ma l’affermazione implicita che noi da Cristo in poi già siamo in una nuova epoca temporale e che perciò la fine è ormai prossima. Il protocristianesimo ha certamente rappresentato questa prossimità al piú in decenni, non in secoli o in millenni: ma questo errore di prospettiva, che è stato corretto nello stesso Nuovo Testamento in Seconda lettera di Pietro, 3.8, non incide sul contenuto teologico dell’ēggiken ē basileía. Questo annunzio non si riferisce primariamente ad una determinazione di data o a una limitazione cronologica, ma ad una partizione del tempo: l’errore (di una prossimità di una generazione invece che di millenni) si spiega psicologicamente allo stesso modo con cui si spiegano le anticipate predizioni della fine di una guerra quando si sia convinti che la battaglia decisiva ha già avuto luogo. [...] Cullmann, pp. 131 sgg.: alla domanda se Gesú stesso credesse in un intervallo fra la sua morte e la parusia, è da dare risposta affermativa. Che poi Gesú, come la comunità cristiana primitiva, misurasse questo intervallo non a secoli e millenni, ma molto piú probabilmente a decenni, ha importanza secondaria. In ogni caso per la comunità cristiana primitiva il presente della storia della salvezza è il tempo della Chiesa, del corpo terreno di Cristo. La comunità primitiva ha fin dalle prime ore della morte e risurrezione di Cristo creduto di vivere nell’intervallo compreso fra ascensione e seconda parusia. Il Regno di Cristo, del cui corpo visibile è erede la Chiesa, prepara il Regno di Dio. Il Regno di Cristo, cioè il Regno della Chiesa, ha un principio e una fine. [...] Nel Nuovo Testamento si manifesta una solidarietà fra l’uomo e la creazione nella sua totalità. Tracce di tale solidarietà si ritrovano anche nell’Antico Testamento, almeno nel senso che il peccato è considerato come origine della maledizione che pesa sul mondo, e altresí nel passaggio del Mar Rosso (Salmo 74.13) e nella apocalittica (nuova creazione e salvezza del

popolo di Israele). Ma nell’Antico Testamento tale solidarietà non è ancorata ad una linea del tempo il cui centro sia un fatto storico. In Matteo, 27.51 e Luca, 23.45 si legge che nel momento in cui Cristo è crocifisso, il sole si oscura e la terra trema. La solidarietà fra uomo e creazione non si limita al mito delle origini e al peccato, ma si concentra in un atto storico; in Lettera ai Colossesi, 1.19 30 si legge che Dio si è compiaciuto di riconciliare con sé, attraverso il Cristo, tutto ciò che esiste sulla terra e nei cieli. Nel Nuovo Testamento si può parlare di una «magia del Venerdí Santo». Ora l’intera creazione partecipa alla particolare situazione del momento presente rispetto al periodo compreso fra Risurrezione e Ritorno. Questo momento presente è già momento finale, per quanto appartenga ancora all’antico eone 31: lo Spirito Santo è già all’opera; la morte e il peccato vinti ma non eliminati. È il tempo in cui si attende ancora e, al tempo stesso, in cui si attende il già. E l’intera creazione è ricompresa in questo «ancora» - «già». «La creazione attende con gran desiderio la glorificazione dei figli di Dio. La creazione, infatti è stata sottoposta alla vanità: non di sua propria inclinazione, ma per volontà di Colui che ve l’ha assoggettata, con la speranza che la creazione stessa un giorno sarà liberata dalla servitú della corruzione, per aver parte alla libertà della gloria dei figli di Dio. Noi sappiamo infatti che fino a ora tutta quanta la natura insieme sospira e soffre le doglie del parto; anzi non soltanto essa, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, noi pure sospiriamo in noi stessi, aspettando il compimento dell’adozione, che è la glorificazione del nostro corpo» 32 (Lettera ai Romani, 8.19 sgg.) (Cullmann, pp. 88 sgg.). Cullmann, p. 138: il tratto non cristiano della valutazione apocalittica di eventi temporali, quali troviamo nelle sette apocalittiche posteriori sino ai giorni nostri, non è propriamente il fatto che tali eventi sono comunque interpretati come presagi, ma che da essi venga calcolata la fine. Un calcolo del genere contrasta con la fede protocristiana secondo la quale la determinazione dei kairói appartiene solo all’onnipotenza divina e neanche col loro sapere gli uomini dispongono di essi. Da questo punto di vista non costituisce di per sé una degenerazione dell’orientamento protocristiano quando, nel corso dei secoli, questo o quell’evento torna sempre di nuovo a essere giudicato come manifestazione dell’Anticristo, ma lo costituisce certamente quando essa è considerata come manifestazione ultima e terminale, calcolando da ciò la data della fine.

Imminenza e prossimità degli ultimi giorni come esperienza egemonica non è il senso del movimento di formazione del Cristianesimo primitivo. Al contrario, tale senso consiste nel progressivo allargarsi dell’orizzonte operativo presente e nel continuo differimento e nella indeterminazione cronologica della prospettiva della fine. Proprio per questo la calcolabilità del «quando», la «data» della fine, non appartengono alla linea maestra della vita culturale cristiana, e se mai ne rappresentano un rischio, una tentazione, una «eresia». Una fine di cui «si sa» la data esprime infatti in termini di rappresentazione mentale il «sintomo» del vanificarsi del futuro come orizzonte della decisione e della responsabilità umane: esprime l’annientarsi del senso del possibile e dell’operabile secondo umane valorizzazioni, il crollo dell’ethos della presentificazione, il ritorno irrelato del passato, il disfarsi della comunicabilità intersoggettiva, la recessione verso il caos. Chi fa centro sul calcolo del quando della fine, e sul «sapere» che ne deriva, è già perduto per qualsiasi inizio, anzi manifesta la caduta di qualsiasi iniziativa valorizzatrice, e proprio per questa mortale inerzia che lo ghermisce si concentra nel calcolo del finire e nell’attesa angosciosa della data tremenda. Cullmann, pp. 122 sgg. (cfr. pp. 62, 72) mette in evidenza come il «futuro» per il protocristianesimo non è, come nel giudaismo, ciò che dà significato alla storia della salvezza: il telos cristiano è già avvenuto, è l’ephápax del Cristo, e il futuro, in questa prospettiva del centro, diventa soltanto il compimento del telos. Mentre l’escatologia giudaica si distende fra patto e giorno di Jahve, l’escatologia cristiana assegna all’evento del Cristo il carattere di un inizio storico decisivo di ciò che si compirà con la seconda parusia. Se il giudaismo vive dell’attesa del telos futuro, il Cristianesimo vive invece dell’attesa del compimento del telos già raggiunto nell’evento centrale della storia della salvezza. Ma questa contrapposizione è tipologica, schematica, per «essenze», non genetica, propriamente storiografica. Riproduce il risultato di un processo che certamente ha avuto luogo nel Cristianesimo primitivo, ma come se questo risultato fosse già tutto dato sin dalla predicazione di Gesú, e come se la sua morte non avesse introdotto modifiche sostanziali nel processo. Il passaggio dalla imminenza del Regno predicato da Gesú al tema cristologico del significato della croce nella economia della salvezza non costituisce problema per Cullmann: il teologo di Basilea non fa distinzione fra il documento cristiano elaborato dopo la morte di Cristo e la predicazione di

Gesú prima della sua morte, e ripete la prospettiva neotestamentaria post mortem senza generarla storicamente dalla prospettiva ante mortem di Gesú e dei suoi discepoli. Lo spostamento di accento dall’imminenza degli ultimi giorni agli ultimi giorni già iniziati e avviati al compimento in virtú della morte e della risurrezione di Cristo, esula dalla interpretazione di Cullmann. In realtà lo storico non è formulatore di «essenze»: una «essenza» del Cristianesimo primitivo staticamente concepito riecheggia tradizionali motivi della teologia protestante, ma è estranea al pensiero storico. Occorre individuare la «crisi» della fine e il riscatto culturale operato dal Cristianesimo mediante il ridischiudersi dell’orizzonte della storia operabile, del futuro significante. Occorre intendere il generarsi della prospettiva del Victory Day 33, e comprendere come, attraverso il «già» e il «non ancora», la prima e la seconda parusia, l’inizio e il compimento, si dischiude il tempo operabile cristiano, in una caratteristica tensione che evita i tempi non operabili sia della imminenza della catastrofe sia della catastrofe già avvenuta (ancora una volta perché operare?) Il senso del tempo cristiano va dall’immenso della catastrofe al compimento di una promessa. Sulla quistione della «affermazione» o «negazione» del mondo alla luce della storia neotestamentaria della salvezza, O. Cullmann dedica in Christus und die Zeit alcune pagine (186-189). La formula «negazione del mondo» come interpretazione dell’orientamento dei primi cristiani è semplicistica. «Solo lí dove realmente il Cristianesimo retrocedeva alla prospettiva della apocalittica giudaica, nella quale l’estrema speranza ondeggia nell’aria e non è ancorata nella fede nel già avvenuto, il mondo è effettivamente negato come è accaduto e accade nei movimenti e nelle fantasticherie apocalittiche di tutti i tempi. Già nell’epoca neotestamentaria incontriamo questa speranza malata, perché isolata e disciolta dal piano cristiano della salvezza: per esempio in Tessalonica dove la gente in connessione con questa falsa speranza (Seconda lettera ai Tessalonicesi, 3.10) sospendeva il lavoro. Questa non è escatologia nel quadro della storia della salvezza, ma febbre escatologica. È possibile provare sulla base di esempi che a una falsa speranza, cioè isolata dalla storia della salvezza, corrisponde regolarmente una falsa etica, cioè un’etica ascetica. Ma l’etica neotestamentaria rischia di essere fraintesa asceticamente anche ogni volta che la speranza è vista come centro della linea protocristiana della salvezza e in seguito a ciò non è riconosciuto il significato e l’importanza che rispetto alla salvezza compete al

presente» (p. 187). «Praeterit enim figura huius mundi» 34. Tua res agitur 35: la storia della salvezza concerne in modo diretto il cristiano, lo coinvolge nella totalità della sua persona, punta il suo indice su ciascun individuo (cfr. p. 193). Il famoso passo della Prima lettera ai Corinzi, 7.30 36 sgg. («questo vi dico, fratelli: breve è il tempo propizio, e quindi d’ora in poi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero, e quelli che piangono come se non piangessero... ecc.»). È da osservare come qui, in questo «come se», il mondo viene ridischiuso, e al tempo stesso oltrepassato: anzi è ridischiuso, permesso, proprio perché vissuto dal cristiano in una prospettiva che lo oltrepassa e in un’epoca in cui questa prospettiva è stata fondata dalla prima parusia e si compirà con la seconda. L’apostolo dunque raccomanda di non chiudersi nel mondano, in questa o quella cura terrena, ma di guardar oltre al Regno promesso e già iniziato: ma la sua raccomandazione significa anche che, proprio in virtú di tale promessa che ora lo attraversa, il mondo non va immediatamente negato sotto tutti i rispetti e in tutte le condizioni. Viene cosí giustificata una società cristiana in cui ha il suo pregio la verginità in una ripartizione gerarchica di funzioni e di compiti che corrisponde all’eone nel quale la battaglia decisiva ha avuto luogo e la vittoria definitiva sopraggiungerà, e nel quale si va incontro allo sposo. 3.3. Non certo come giudizi interpretativi, ma come semplici ipotesi di lavoro da provare e riprovare in sede etnologica, storico-religiosa e storicoculturale, valgono le seguenti considerazioni: La destorificazione del negativo (passato, attuale, possibile) mediante la destorificazione mitico-rituale che riassorbe la proliferazione del divenire umano, con i suoi momenti di incertezza, di precarietà, di conflitto irrisolvente, nella iterazione rituale di un identico atto di fondazione mitica paradigmatica operato sul piano metastorico. «Si sta nella storia come se non ci si stesse», nel senso che i momenti critici di un determinato regime di esistenza, cioè la storicità di tale regime, le scelte culturali e le iniziative che comporta, vengono occultati alla coscienza, non riconosciuti, e sempre di nuovo ricondotti nella sfera di comportamenti archetipi consumati una volta per tutti in illo tempore, con tutta la potenza esemplare degli operatori mitici. In prospettiva nasce un regime protetto per quel tanto di iniziativa, di innovazione, di decisione irripetibile e di scelta che ogni vita culturale

richiede. Sempre in questa prospettiva, fuori di questa possibilità e di questo obbligo religioso di ripeterlo secondo il suo statuto di fondazione delle origini mitiche, il mondo crolla, perde la sua operabilità di fatto proprio perché la storicità perde la sua maschera protettiva destorificatrice, e perdendola si disgrega, in un caos di momenti critici non oltrepassabili. Insediamento, agricoltura, allevamento del bestiame, lavoro artigiano, commercio, stratificazione sociale, burocrazia statale, ecc. nella misura in cui dilatano le potenze civili dell’uomo fanno emergere nella coscienza culturale il senso del tempo, quel muoversi instancabile verso il futuro che caratterizza tale coscienza. Cosí entra nel mito il futuro, sotto forma di destorificazione del futuro nell’escaton. Al riassorbimento del presente nel passato mitico si collega la prefigurazione presente del termine futuro, il profetismo, il millenarismo, l’escatologismo. Di contro al tempo ciclico dei greci e di contro ogni metafisica, per cui la salvezza è sempre disponibile nell’«al di là», il tempo del Nuovo Testamento è concepito come sviluppo rigorosamente unilineare della Rivelazione e della Salvezza: e tale sviluppo riceve senso da un evento storico centrale decisivo, la morte e la risurrezione di Cristo, di guisa che tutti i punti della retta del tempo, tutte le sue divisioni particolari, sono valutabili a partire da questo evento storico centrale decisivo, serbando tuttavia il loro peculiare significato temporale. È questa ciò che il Nuovo Testamento designa come oἰxoνoμία (Lettera agli Efesini, 1.1o; 3.2; Lettera ai Colossesi, 1.25; Lettera agli Efesini, 3.9), cioè il complessivo piano divino della salvezza, e ἐϕάπαξ (Lettera ai Romani, 6.10; Lettera agli Ebrei, 7.27; 9.12; 10.10), cioè la irripetibilità, la unicità storica, l’importanza decisiva dell’evento di salvezza. La fede e il pensiero protocristiani non partono da una opposizione spaziale di «al di qua» e di «al di là», ma dalla distinzione temporale di «prima», «ora», «dopo». Senza dubbio nel Nuovo Testamento sussiste anche la opposizione spaziale di visibile e invisibile, di un cielo invisibile e di una terra visibile, di invisibili forze potenze in azione e di operazioni visibili compiute dall’uomo attraverso i suoi organi visibili. Ma ciò che è spazialmente invisibile, che è «al di là», non soggiace interamente al corso del tempo, e l’essenziale non è la opposizione spaziale ma la distinzione dei tempi secondo la fede. L’accentuazione temporale di tutte le espressioni della fede ricollega il Nuovo Testamento alla valorizzazione giudaica del tempo (cfr. G. Delling,

Das Zeitverständnis des Neuen Testaments, 1956), la quale a sua volta rinvia al Parsismo 37. Di ciò rende testimonianza l’impiego continuo, nel Nuovo Testamento, di espressioni temporali di valore decisivo, come ἡμέρα (giorno) ὥρα (ora) xαιρός (momento) χρόνoς (tempo) αἰών (epoca del mondo) αἰῶνϵς (eterne epoche del mondo) νῦν (ora) e σήμϵρoν (oggi): termini per i quali si potrà utilmente consultare il lessico del Kittel 38. Kairós è in generale un punto del tempo particolare rispetto al contenuto (cosí come aión è invece una limitata o illimitata durata di tempo). Nel suo uso profano kairós indica la occasione temporalmente di particolare favore per una intrapresa, il punto di tempo di cui si parla già molto prima senza conoscerne la data precisa, qualche cosa come l’ora X . Il momento piú opportuno per condurre determinate azioni umane: questo è il kairós in senso profano. Nel quadro della storia della salvezza cosí come il Nuovo Testamento la intende, kairós ha lo stesso senso, salvo che si tratta non di azioni e di propositi umani, ma di decisioni divine le quali innalzano una certa data, questa o quella data, a un kairós, cioè in vista della esecuzione di un piano divino di salvezza. La storia è storia della salvezza, storia del piano divino della salvezza, in quanto la esecuzione di tale piano si lega a determinati kairói, cioè momenti del tempo prescelti da Dio come i piú adatti: ed è proprio l’ordine complessivo di questi kairói, e non già la mera successione di tutti i momenti del tempo, che costituisce la storia sacra in senso stretto. Dal punto di vista della storia umana la scelta di questi kairói che formano la storia della salvezza è arbitraria: essa è da attribuire alla onnipotenza divina: cfr. Atti, 1.7. Il tempo della seconda parusia è appunto un kairós di cui non si può sapere la data, e che irrompe d’improvviso come un ladro (Prima lettera ai Tessalonicesi, 5.1 sgg.). Anche l’Apocalisse di Giovanni, 1.3 e 11.18 designa l’evento finale come un kairós, e lo dice «prossimo» nello stesso senso in cui i sinottici dicono che è prossimo il Regno di Dio. Beato chi legge e ascolta le parole di questa profezia e ha cura delle parole che vi sono scritte; perché il tempo è vicino (ὁ γὰρ xαιρὸς ἐγγύς): Apocalisse, 1.3. Guardate di non lasciarvi sedurre, perché molti verranno in nome mio, dicendo: Sono io, e il tempo si avvicina (ὁ xαιρὸς ἤγγυxϵν). Voi non seguiteli. Quando sentirete parlare di guerra e di sollevazione, non

sgomentatevi, perché bisogna che prima questo accada, ma la fine non verrà cosí presto (ἄλλ’oὐx ϵὐδέως τὸ τέλoς) 39. L’anno liturgico cristiano è un dispositivo culturale per la completa destorificazione del tempo: il Cristo vi è infinitamente ripetuto come una stessa voce in una caverna dominata dall’eco. E tuttavia il calendario delle celebrazioni se riassorbe in un anno metastorico gli anni storici del tempo, li ridischiude uno per uno, nei loro concretissimi mesi, giorni, ore e istanti, raggiungendo cosí quel decidere operativo secondo valori a cui l’uomo, finché è uomo, non può sottrarsi per la piú piccola frazione di tempo. 3.4. Storia ed escatologia. L’interesse per R. Bultmann nella cultura italiana è un fatto relativamente recente 40 […]. Il problema del rapporto fra divenire storico e momento escatologico si configura in Bultmann nei limiti circoscritti di una operazione di identificazione e di salvataggio di un nucleo della fede religiosa cristiana che sia compatibile con la civiltà moderna e in particolare con quel senso della storicità della condizione umana che proprio il Cristianesimo ha concorso a mediare nella attuale nostra consapevolezza culturale. Dentro questi limiti il Bultmann prova a tracciare un disegno storico del tema escatologico nella civiltà occidentale. La comunità cristiana primitiva attendeva la fine del mondo e la seconda parusia del Cristo in una temperie di attesa che non dava orizzonte alla storia se non nel senso della imminente catastrofe dell’ordine mondano. I rischi e le delusioni a cui era necessariamente esposta questa attesa furono evitati mediante il differimento indefinito della seconda parusia e la concentrazione dell’esperienza cristiana nella «fine» già avvenuta col sacrificio del Dio-Uomo (Paolo), nella fede attuale del Cristo morto e risorto (Giovanni), e nella possibilità per il cristiano di partecipare attualmente, attraverso i sacramenti amministrati dalla Chiesa, alle efficacie soprannaturali procedenti dall’evento centrale del Golgota, fondamentale unità di misura escatologica di un prima e di un poi assoluti nel piano della storia della salvezza. La secolarizzazione del tema escatologico cristiano ebbe luogo soprattutto con l’idealismo, con il materialismo e con l’ideologia positivistica del progresso, finché entrò in crisi la stessa idea di un piano unitario della storia umana nella sua totalità, con la minaccia di un relativismo senza orizzonte (si pensi in particolare al relativismo naturalistico e pessimistico di uno Spengler). Il Bultmann intende esorcizzare la minaccia di questo

relativismo ricollegandosi al concetto di storicità elaborata dal Croce e dal Collingwood 41: il senso della storicità dell’uomo non sta nel passato e neppure in escaton futuro a cui necessariamente conduce il corso degli eventi, ma si raccoglie interamente nell’istante presente, non in quello irrelato e dispersivo di una semplice misurazione del tempo, ma in quello di una decisione attuale sempre rinnovata che sceglie attivamente il proprio passato da individuare e da conoscere e che assume deliberatamente, accettandone il rischio, la propria responsabilità verso il futuro. In questo senso ogni istante racchiude una possibilità escatologica, insidiata dalla pigrizia morale di lasciarsi vivere passivamente dalla storia passata e di lasciarsi sorprendere senza preparazione dall’incalzante futuro. Ora, secondo Bultmann, la possibilità escatologica di ogni istante è realizzata dalla fede cristiana in modo esemplare, innanzitutto perché essa riconosce la storicità della condizione umana e in secondo luogo perché il momento escatologico del Cristianesimo non è una incombente catastrofe cosmica o una metastoria mitica in cui riassorbire col rito e col culto l’angosciante proliferazione storica del divenire umano, ma l’evento storico del Cristo: evento che, nella decisione della fede, si ripropone sempre di nuovo all’hic et nunc della mia storicità, dischiudendomi al tempo stesso a quella libertà come dono della grazia divina che, attraverso il Cristo, mi appartiene non come possesso ma come compito della predicazione e dell’amore. Con ciò sembra al Bultmann di aver fornito all’heideggeriano «esser gettati nel mondo» il complemento e coronamento religiosi che richiede a gran voce per sottrarsi alla sua possibile nota di disperazione atea 42. Occorre subito dire che questa tematica bultmanniana dei rapporti fra storia ed escatologia intreccia di continuo interpretazioni storiografiche e spunti edificanti, di guisa che può essere valutata al tempo stesso come contributo storico-religioso e come documento di vita religiosa in atto: il che suscita un certo imbarazzo nel lettore, che rischia di non sapere mai con esattezza di che cosa si tratta, e cioè se nell’opera che legge è in gioco un interesse fondamentale di ricostruzione storica disposto a investire lo stesso nucleo della fede, ovvero se sta in primo piano e regge le fila del discorso la sollecitudine del credente che intende sottrarre dalla storicizzazione integrale proprio un certo nucleo di fede religiosa 43. D’altra parte per la sostanziale ambiguità del testo il lettore che voglia mantenersi fedele alla coerenza del pensiero storiografico resterà insoddisfatto dell’uso che il Bultmann fa di categorie interpretative come

«storia» e «mito» 44, e gli parrà che, di conseguenza, molteplici siano i limiti della sua ricostruzione storiografica: il lettore invece che sia mosso da preoccupazioni religiose troverà che il nucleo di fede salvato – la libertà come dono della grazia divina attraverso il Cristo – è ancora troppo poco, e gli parrà che, concesso questo punto, non vi è proprio nessuna ragione che anche tutti gli altri non siano concessi alla sua decisione e cioè il simbolo trinitario, il culto della Madonna e dei Santi, la Chiesa e i suoi sacramenti e quant’altro parla al cuore e all’immaginazione nel Cristianesimo cattolico. Ma esaminiamo piú da vicino i limiti della tematica bultmanniana scegliendo come prospettiva di valutazione quella del pensiero storiografico. È certamente vero che il tema della storicità della condizione umana si fece consapevolezza culturale egemonica attraverso la civiltà cristiana. Ma in che senso questa proposizione è vera? Nel senso che mentre le tradizioni religiose non cristiane sono dominate dal simbolismo mitico-rituale del riassorbimento della angosciante proliferazione del divenire nella metastoria esemplare delle origini (si veda a questo proposito Le mythe de l’éternel retour di Mircea Eliade 45), la tradizione cristiana accetta questa proliferazione ma immettendo nel corso del tempo un evento centrale, il Cristo, che conferisce al divenire un significato escatologico. Nelle tradizioni religiose non cristiane il divenire umano, in quanto negatività insopportabile e angosciante viene variamente respinto dalla consapevolezza culturale, che orienta il suo simbolismo mitico-rituale verso la celebrazione di eventi risolutivi esemplari prodottisi una volta per sempre nella metastoria delle origini. Nella tradizione cristiana attraverso l’evento centrale del Cristo la storia umana comincia ad apparire nella stessa coscienza mitica e vi appare con un sigillo positivo, cioè come storia della salvezza. Con ciò fu dato l’avvio al tema di una storicità come trascendimento della situazione nei valori culturali intersoggettivi e quindi al tema umanistico di una storicità che per quanto travagliata dal rischio del negativo racchiude in se stessa la possibilità di una decisione valorizzante integralmente umana nella sua genesi, nella sua destinazione e nella qualità del valore prodotto. La progressiva secolarizzazione dell’escaton, la consapevolezza culturale che il momento escatologico non è nel ritorno al paradiso delle origini o nell’imminenza di una catastrofe dell’ordine mondano, ma nell’attualità di una decisione secondo valori intersoggettivi, tutto ciò accenna al fatto che per entro il messaggio cristiano si muove il lievito umanistico della positività

della storia nel suo duplice aspetto di res gestae e di historia rerum gestarum: un lievito destinato a rompere l’involucro mitico, variamente protettivo, di una irruzione della metastoria nella storia in un momento previlegiato al centro della storia universale (il Cristo). Ora il limite della posizione del Bultmann è che per un verso essa riconosce il raccogliersi dell’escaton nella attualità della decisione umana valorizzatrice, nel trascendimento della situazione secondo valori intersoggettivi, ma poi alla base di questo decidere mantiene la decisione fondamentale della fede, cioè la libertà come dono della grazia divina mediante il Cristo e la congiunta esperienza di una storicità della condizione umana come di un «negativo» che le forze umane in quanto tali non possono oltrepassare. Da ciò deriva il carattere ambiguo del pensiero del Bultmann, che resta ancora inconsapevolmente prigioniero del «mito», sia pure nella forma attenuata di una decisione per Cristo che dischiude al compito della predicazione e dell’amore: una ambiguità destinata fra l’altro a scontentare tutti, teisti e umanisti, i primi perché vi troveranno troppo poco mito e i secondi perché ve ne troveranno ancora troppo. Un altro rilievo da muovere alla tematica bultmanniana dei rapporti fra storia ed escatologia è che il Bultmann accoglie dal pensiero moderno la crisi del «piano della storia universale», cioè di un processo unilineare dell’umanità da una origine a un termine: ma tale accoglimento acquista in Bultmann il significato di una prova che la «storicità della condizione umana», affidata unicamente a se stessa, conduce a un relativismo culturale senza orizzonte, manifestando anche per questa via la sua riduzione all’assurdo e quindi l’esigenza della decisione della fede cristiana, che meglio di tutte le altre rende conto del «negativo» inerente a quella storicità e, al tempo stesso, del positivo della decisione personale – continuamente rinnovata della grazia mediante il Cristo. In realtà fra la mitica storia universale come «piano» piú o meno divino o piú o meno secolarizzato e il relativismo culturale nella forma rozza in cui si ritrova per esempio in Patterns of Culture della Benedict 46, vi è una terza possibilità, e cioè il riconoscimento di una dispersione delle genti e delle culture e, al tempo stesso, la unificazione come compito concreto. In particolare l’umanista può muovere al Bultmann una obiezione di fondo. Perché dovrei avere bisogno oggi, nella mia posizione storica di europeo moderno, della opzione a favore della immagine del Dio-Uomo per amare gli uomini e per mettere me stesso in causa davanti ai loro dolori e alle

loro miserie? Perché questa necessità del «mediatore» per impegnarmi verso la gente che vive intorno a me e che incontro nella concretezza di volti individuati rammemoranti hic et nunc biografie personali che non debbono lasciarmi indifferente? Questi volti chiedono a me, qui e ora, decisioni in loro nome e non in nome di Cristo, e già la sensibilità moderna avverte un principio di offesa recata all’altro il dover ricorrere al détour, all’Umweg della decisione a favore di Cristo per individuare questo altro nella folla, nel vicinato, nella fabbrica, nella scuola, nella famiglia e per ristabilire con questo altro il vivente circuito della operosità sociale. [...] Il riconoscimento che le genti e le culture del nostro pianeta sono «disperse», non componibili nelle loro storie passate secondo l’unità di un piano provvidenziale, si pone oggi, nella presente congiuntura culturale dell’occidente, come compito di unificazione secondo le linee di sviluppo di un etnocentrismo critico che pone in causa il proprio etnos nel confronto con gli altri etne, e che si apre alla prospettiva di un umanesimo molto piú ampio di quello tradizionale (in ciò il significato che la etnologia è venuta assumendo nella civiltà moderna). Ma il Bultmann ci sembra estraneo a questo piú ampio interesse umanistico: egli si muove nel solco di un rigoroso etnocentrismo dogmatico, e piú precisamente nei limiti di un europeocentrismo che, nella misura in cui fa appello al previlegio di un rapporto eccezionale col divino, esclude il confronto tra le umanità e compromette la lotta contro la dispersione delle genti e la molteplicità irrelata delle loro storie corporative.

4. Dalla metastoria alla storia. 4.1. Si danno tre immagini fondamentali del divenire storico: l’eterno ritorno dell’identico, la unilinearità dello sviluppo da un’arché a un escaton e la frantumazione dell’accadere nel relativismo delle culture e delle epoche. L’eterno ritorno dell’identico fu il tardo erede speculativo della destorificazione mitico-rituale delle religioni estranee alla tradizione giudaico-cristiana: al periodico riassorbimento della proliferazione storica del divenire nella esemplarità di un mito di fondazione nell’illud tempus delle origini corrisponde, nella riflessione speculativa, la teoria delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo. La unilinearità dello sviluppo da

un’arché a un escaton fu inaugurata nella tradizione religiosa giudaicocristiana, riplasmandosi in particolare nel Cristianesimo in un evento centrale decisivo, per cui tra la fondazione divina del mondo e il suo irreversibile processo di ritorno a Dio si inseriva un momento previlegiato del tempo, l’incarnazione, scandente il corso dall’arché all’escaton in due fasi, nel prima e nel poi della promessa. Questa immagine della storia si fondava sulla fede nel Cristo, e fuor di quella fede non aveva nessun senso: col venir meno di questa fede nell’evento centrale furono tentate due vie: quella di una unilinearità interamente mondana della storia (il progresso della scienza nell’epoca positivistica; il progresso dell’idea nella speculazione idealistica; il rovesciamento di questo progresso nella dialettica marxiana) e quella della frantumazione relativistica, ora biologizzante alla Spengler 47, ora variamente congiunta ai vari esistenzialismi negativi, ora – sotto coverta di un nuovo scientifismo – riplasmatesi nella contemplazione della molteplicità irrelata delle culture umane. Contro queste immagini della storia è oggi da far valere: a.

Il riconoscimento della reale dispersione attuale delle genti, delle culture e delle storie, cioè la liquidazione definitiva della duplice eredità mitica di un eterno ritorno dell’identico come di un piano unitario della storia universale. b. Il riconoscimento di un dover relazionare (confrontare) l’attuale molteplicità delle genti, delle culture, delle storie nella prospettiva di un comprendere e di un operare che unifichi l’umanità dispersa: unificazione che sta però come compito davanti a «noi», e non come piano prestabilito da Dio o dalla Materia (il che equivale a dire che «noi» in quanto uomini dobbiamo costituirci, qui e ora, come datori di senso di un’epoca della storia umana, senza mai ricorrere al pigro presupposto che la storia questo senso lo abbia da sé, indipendentemente da noi. Senza dubbio vi è una rosa di condizioni che delimita la possibilità dei conferimenti di senso, ma la storia rischia sempre di nuovo di perdere qualsiasi senso, malgrado tutte le condizioni affinché ne abbia uno). c. Il riconoscimento che al centro dell’impulso confrontante, unificante e pianificante siamo «noi» in quanto occidentali, cioè in quanto depositari dell’unica cultura umana che, a capo di un lungo corso

storico, ha prodotto la scienza del confronto di sé con le altre culture: la etnologia. d. Il riconoscimento che nel confronto non si tratta di liquidare l’occidente, ma di metterlo in causa, di assumere coscienza dei limiti del suo umanesimo fin’oggi corporativo, e di restituirgli la potenza egemonica compromessa: il che sarà possibile se verrà dato un significato integralmente mondano e umano all’omnia omnibus factus sum ut omnes facerem salvos di Paolo (etnocentrismo critico) 48. e. La risoluzione della filosofia in antropologia quale risultato dell’umanesimo promosso dalla scienza del confronto degli etne, a partire dall’occidentale e dalla sua storia come centro operativo confrontante e unificante. L’uomo è sempre vissuto nella storia, cioè nella produzione attiva della vita e dei valori comunitari che la rendono possibile come vita umana. Ma se si prescinde dalla cultura occidentale e dalla tradizione giudaico-cristiana, l’uomo ha respinto la presa di coscienza culturale di questa genesi e destinazione integralmente umane di tale produrre, istituendo valori egemonici consapevoli nei quali si esprimeva in modo sistematico e organico il mascheramento della storicità della esistenza umana. Senza dubbio la storia ha avuto sempre di nuovo ragione di questa pretesa, obbligando società ed epoche e singoli individui a mutare di maschera destorificatrice, o a modificarla via via nel tempo, una volta che ne avesse adottata una: ma sia che mutasse di maschera, sia che ne modificasse nel tempo i tratti della maschera adottata, l’uomo – sempre nelle culture extraoccidentali – non attribuiva mai il mutamento o la modificazione a operazioni integralmente e consapevolmente umane, ma l’uno e l’altra o restavano non percepiti dalla coscienza, o erano attribuiti a interventi extraumani, a rivelazioni, a vicende di demoni, di eroi, di numi operanti su un piano metastorico, mitico, alle «origini», in illo tempore. In tal guisa la storicità era doppiamente esorcizzata rispetto alla coscienza: attraverso la maschera che la occultava, e attraverso l’occultamento di quel divenire storico che investiva la stessa mascheratrice. Il rigido principio a cui si ispirava questo orientamento era di riassorbire la proliferazione storica del divenire nella iterazione di uno stesso mito di fondazione dell’ordine, ovvero, allorché non era possibile altrimenti, di ridurre il mutamento alla irruzione dell’extraumano nell’umano (sogni,

visioni, rivelazioni, potenza della parola e del gesto rituali, ecc.). La tradizione giudaico-cristiana segna in un’area della terra e in un’epoca della storia la prima apparizione della storia per entro la stessa coscienza destorificatrice in atto (cioè per entro il simbolismo mitico-rituale) sia pure come storia della salvezza, come patto di Dio con il popolo eletto, come predicazione di Gesú del Regno sopravveniente, come cristologia e come dottrina del Paracleto 49 fra le due parusíe, la storia fa breccia nella coscienza mitico-rituale in una misura sconosciuta a tutte le altre culture dell’ecumene. In seguito, nel mondo moderno – cioè a partire dall’umanesimo e dal rinascimento –, la storicità si è sempre piú allargata nella coscienza culturale, fino a reclamare tutta per sé la coscienza, e riplasmandosi come umanesimo integrale, o, se si vuole, come religione dell’uomo. Ma ora c’è da chiedersi: che cosa significa questo? Ove mai il destino dell’uomo fosse quello di star mascherato nell’esistenza o di perire, significa questo umanesimo semplicemente la sconfitta dell’uomo o almeno dell’uomo occidentale? E ancora: dato che non possiamo neppure cambiar maschera in quanto ora non potremmo farlo che per gioco carnevalesco e qui non si tratta di far carnevale, ma di esistere come uomini in società – questo non poter cambiar maschera non equivale forse a una sentenza di morte? Il sillogismo sarebbe tremendo: l’uomo può vivere nella storia solo mascherandola, la vita culturale è questa maschera, ma d’altra parte l’uomo che sappia questo non può assumere piú nessuna maschera, e quindi – tale è questo «sillogismo» – l’uomo (e sia pure l’uomo che ha espresso la civiltà occidentale) è destinato a perire nella misura in cui demistifica la storia. 4.2. L’uomo è sempre vissuto nella storia, ma tutte le culture umane, salvo quella occidentale, hanno speso tesori di energia creativa per mascherare la storicità della esistenza. Si potrebbe dire che la storia culturale umana è la storia dei mascheramenti della storicità dell’esistenza, la storia dei modi con cui l’uomo si è finto di stare nella storia come se non ci stesse. Ma occorrerebbe subito aggiungere che questi mascheramenti ricevono il loro senso nella misura in cui la storia ha sempre di nuovo vinto, obbligando o a cambiar maschera destorificatrice, ovvero – com’è stato il caso della tradizione giudaico-cristiana e della cultura che ha alimentato – apparendo in prima persona nella stessa coscienza mitico-rituale per liberarsi infine di questa stessa coscienza drammatica e ambigua, e per chiedere a gran voce di coincidere senza residuo con la coscienza culturale egemonica. Che cosa

significa questa paradossale avventura dell’uomo come maschera della sua propria storicità, e che cosa significa la sconfitta del suo proposito mascherante? Significa per caso la sconfitta dell’uomo, ove mai fosse vero che nell’esistenza si sta mascherati o si muore? E come si potrebbe, se cosí fosse, cambiar maschera, una volta guadagnata la mortale consapevolezza che si tratta sempre di maschera e che dietro di esse c’è il volto? E infine: non equivarrebbe, questa situazione, a una sentenza di morte, visto che una esistenza sotto il segno della ipocrisia della maschera è insostenibile, che non è possibile abbassare il mascheramento esistenziale a una festa di carnevale, e che d’altra parte la nuda storicità del volto scoperto è destinata a produrre prima o poi la rigidità del volto di un cadavere? La cultura religiosa come maschera della storicità dell’esistenza ha assolto – e in parte assolve ancora in quest’epoca di transizione – una funzione positiva. Il simbolismo mitico-rituale ha protetto dalla crisi esistenziale nella misura in cui ridischiudeva di fatto la operabilità comunitaria del mondo. In società e in epoche in cui il distacco della cultura dalla natura correva sempre il rischio di fallire, occorreva destorificare la storia per consentirsela e reprimere la coscienza egemonica della storicità per mantenersi nel mondo quali uomini. Al tempo stesso le immense alienazioni connesse ai momenti critici dell’esistere erano riprese e mutate di segno sul piano della coscienza mitico-rituale, che per vie mediate e con tecniche appropriate le rendeva di nuovo cospiranti col vivere mondano, con il decidere e con l’operare nel quadro di una comunità di viventi. Il simbolismo mitico-rituale delle religioni tradizionali mascherava l’asprezza della storicità, e aiutava a riplasmare la crisi di alienazione secondo modelli di riappropriazione del rischio di alienarsi radicalmente e senza compenso. Ma con l’apparire della storia nella stessa coscienza mitica (il Dio-Uomo, l’irreversibile piano divino, ecc.) fu gettato il germe della dissoluzione per l’efficacia della protezione mitico-rituale. Da allora la storia prese a crescere, e il simbolismo mitico-rituale a declinare. Al tempo stesso la consapevolezza di ciò che l’uomo può fare col proprio lavoro e con la propria iniziativa rese meno rischiosa la crisi esistenziale. 4.3. L’alternativa è chiara: o si accetta o non si accetta la realtà della condizione umana, che è limite e iniziativa che oltrepassa il limite, situazione e valore che trascende la situazione, morte e opera che sopravvive alla morte. Se non si accetta questa condizione, perché l’accettarla comporterebbe

l’annientamento dello stesso coraggio civile creatore di civiltà e di storia, allora non resta che negare realtà a questa condizione, e occultarla e mascherarla nei grandi temi protettivi della vita religiosa, del mito e del rito, della teologia e della metafisica, della magia e della mistica. Non resta cioè che svalutare a mondo di segni e di simboli i ritmi dell’opera quotidiana, e svolgere all’ombra di un ordine già istituito in illo tempore il compito di istituire, qui e ora, un ordine nuovo. Il fare sarà allora mascherato nel ripetere e nell’imitare, lo star desto sarà ricompreso in un sognare, e nella storia si starà come se non ci si stesse, perché si è già fuori; ma intanto, per questa pia fraus, si opererà e si creerà, e si innalzerà l’edificio della civiltà. Se invece si accetta la condizione umana, e si riconosce senza scandalo che essa ha un limite che l’opera è chiamata senza sosta a valicare, e si scorge nell’al di là dell’opera dotata di valore l’unico modo di distaccare l’uomo dalla natura e di avviarlo dal transeunte al permanente; se si ha coraggio e forza di creare opere di poesia e di scienza, di economia e di vita morale senza bisogno del sistema tecnico-protettivo di una vera patria in cui è tutto già al suo posto, e nella quale saremo alfine reintegrati: allora si batte la via dell’umanesimo storicistico, della civiltà moderna, della coscienza che i beni culturali hanno integralmente origine e destinazione umana, sono fatti dall’uomo per l’uomo, e chiamano al giudizio e all’opera secondo questo criterio fondamentale. L’alternativa è chiara: ma la prima delle due resterà in piedi sempre che la rete di limiti dentro la quale siamo chiamati a operare sia troppo fitta e tenace perché ci sia dato districarcene senza fare appello a un mondo metastorico già fatto, a una civiltà divina, che rassicuri il fanciullino di Cebete; e la seconda alternativa resta un compito da realizzare, e una dignità da proteggere dall’insidia rinascente della prima opzione, che sospinge verso la magia e la religione. Se dovessimo definire la nostra epoca, e noi stessi in essa, dovremmo dire che noi siamo attualmente impegnati proprio nell’alternativa, e la stiamo decidendo con pena e tormento: alla mente abbiamo già davanti il quadro di un umanesimo integrale, ma in noi e intorno a noi c’è l’insidia dell’angoscia e il bisogno del porto sicuro. 4.4. Perché io dovrei avere bisogno dell’immagine di Cristo per amare gli uomini, e per mettere in causa me stesso davanti ai loro dolori e alle loro miserie? Perché questa necessità del «mediatore» per aprirmi e impegnarmi verso la gente che vive intorno a me e che incontro nella concretezza di volti che riflettono biografie personali e chiedono a me, qui e ora, decisioni in loro

nome e non in nome di Cristo? Certo, posso aver bisogno di stimolanti per aprirmi e per mettermi in causa davanti alla gente concreta: e posso anche ricorrere al buon vino per ristabilire col mondo degli uomini un rapporto che si è venuto inaridendo. Ma il valore non sta nello stimolante, poiché vi è anche una ubriachezza tetra, che chiude invece di aprire, immergendo in una disperata melancolia che è la negazione dell’amore: il valore sta in ciò che è stimolato, cioè, in ultima istanza, nella qualità della testimonianza resa agli altri, e quindi in una ebrietà che non ci sceglie, ma che noi scegliamo lucidamente approfittando di certe agevolezze concesse alla comunicazione quando qualche calice sia stato svuotato in compagnia. Comunque sia costituisce un segno di debolezza e di fragilità, una improprietà e una carenza l’aver bisogno di un mediatore – il Cristo, il calice della mensa eucaristica o quello della mensa profana – per riscoprire il vivo dei volti umani e per ristabilire nelle folle anonime, nei vicinati, nelle famiglie il circuito di una comunicante operosità sociale: infatti il volto umano come tale, senz’altro stimolante che la sua stessa immagine, racchiude in potenza quanto occorre per spingerci, se lo vogliamo, alla grande avventura di un incontro trasformatore. Senza dubbio possiamo non volere, anzi per lo piú non vogliamo quest’incontro: e allora ricorriamo al mediatore: ma se è vero che dobbiamo a questo proposito essere indulgenti con noi stessi, e accogliere la politica dei simboli stimolanti, è anche vero che, in una prospettiva di rigorismo estremo, già cominciamo a offendere l’altro quando, per raggiungerlo, abbiamo bisogno di un détour, di un Umweg (come diceva Marx). Noi oggi abbiamo sempre meno bisogno della Madonna per offrire un modello culturale di plasmazione e di condotta nei rapporti fra i due sessi nella società. Sempre di piú per sapere ciò che una donna deve fare verso un dato uomo, o ciò che un uomo deve fare verso una data donna prevalgono le memorie di volti di uomini e di donne in carne e ossa, le memorie-modello che ciascuno di noi porta con sé, e che costituiscono il patrimonio piú prezioso del suo capitale simbolico. 4.5. Osservazioni sulla libertà religiosa. Se la vita religiosa è un sistema tecnico che protegge dal rischio di non poterci essere in nessuna possibile storia civile e che ridischiude in vario operare umano che una crisi senza orizzonte comprometterebbe, la libertà religiosa risulta saldamente fondata nella società in cui si articola la civiltà

moderna. Chi spezzerebbe le grucce a uno zoppo con l’argomento che il normale camminare non ha bisogno di grucce? Ciò che occorre è ridurre per quanto possibile gli incidenti e le malattie per cui il numero degli zoppi è cosí elevato da rendere inevitabile la richiesta o l’utilizzazione di grucce: ovvero il problema può essere di sostituire il mezzo delle grucce con una tecnica ortopedica piú efficace. Fuor di metafora, il problema è unicamente quello di una maggiore potenza di espansione dell’umanesimo moderno, e di una riplasmazione della società e dello stato che consenta una maggiore sicurezza esistenziale e una piú saldamente fondata confidenza nella potenza dell’opera umana. Ciò significa che la libertà religiosa deve essere salvaguardata dallo stato nella misura in cui lo stato salvaguarda la sua propria libertà di dilatare e umanizzare la civitas humana (non diaboli!) a cui è preposto. L’uso della forza contro la Chiesa (e intendiamo di quella vera forza che è il diritto) non può andare oltre la difesa dalle usurpazioni della civitas dei nella sfera della civitas humana presieduta dallo Stato. Ma la persecuzione religiosa come tale è una prevaricazione con la quale lo Stato, in luogo di assolvere al suo compito di rendere sempre meno teogenetico un certo regime esistenziale, pretende di colpire direttamente il sistema protettivo che, finché è richiesto, sta a testimoniare appunto che il suo compito non è stato assolto: pericolosa prevaricazione, che o disgrega la società o prepara, con le persecuzioni e le violenze, una piú vigorosa ripresa del bisogno del divino. Perseguitando una religione che è ancora nei cuori si suscitano soltanto dei «martiri», tanto piú se la lotta non si compie in nome di una religione piú elevata, ma in nome di un umanesimo integrale che richiede una forza morale ancora inattuale rispetto al reale regime di esistenza. 1. De Martino eredita l’uso di questi termini dalla riflessione di Benedetto Croce sulla storia, soprattutto quella espressa in Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari 1941, 4 a ed. [1917]; di poco posteriore, lo studio che Delio Cantimori ha dedicato a Croce individua nella distinzione fra res gestae e historia rerum la parte viva dell’insegnamento del Croce storico: Storia e storiografia in Benedetto Croce, in «Terzo Programma», n. 2, 1966, pp. 21-24. 2. La genealogia dell’idea che «gli uomini fanno la storia» è fissata da Reinhart Koselleck: Sulla disponibilità della storia, in Futuro passato: per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986, pp. 223-38. 3. Oscar Cullmann (1902-1999) è uno storico, teologo ed esegeta biblico protestante, specialista del Nuovo Testamento e della storia della salvezza. Professore di storia antica della Chiesa a Basilea dal 1938 al 1972, insegna contemporaneamente in diverse facoltà di teologia protestante

(Strasburgo, Parigi, Roma) ed è docente di «Origini del Cristianesimo» all’École pratique des hautes études (1949-1972). Membro del consiglio ecumenico delle Chiese, è osservatore ufficiale durante il Concilio Vaticano II, dal 1962 al 1965, su richiesta di Giovanni XXIII. Il suo libro Christus und Zeit. Die urchristliche Zeit und Geschichtauffassung, Evangelisher Verlag, Zurich 1946 [trad. it. Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo, il Mulino, Bologna 1965] è un’analisi del trattamento paradossale del tempo inventato dal Cristianesimo primitivo. Ha innescato un lungo dibattito fra i teologi protestanti di lingua tedesca, in particolare con Rudolf Bultmann, sostenendo la tesi che il Nuovo Testamento pone il Cristo «al centro del tempo». Questa interpretazione teologica è lungamente discussa da De Martino. Cfr. infra, par. 3.4. 4. Allusione al programma di esegesi del teologo di Marburg, Rudolf Bultmann (1884-1976), che definisce la «demitizzazione» come prima tappa per risolvere il problema teologico di una traduzione del messaggio cristiano adattato alla modernità. Cfr. piú avanti. 5. Una controversia oppone il filosofo e il teologo, negli anni 1953-1954, a proposito della «demitizzazione»: K. JASPERS e R. BULTMANN, Die Frage der Entmythologisierung, Piper, Münich 1954 [trad. it. Il problema della demitizzazione, cura e trad. di Roberto Celada Ballant, Morcelliana, Brescia 1995]. 6. M. ELIADE, Images et symboles. Essais sur le symbolisme magico-religieux, Gallimard, Paris (coll. «Les Essais»), 1952; riedito con una nuova prefazione di Georges Dumézil (coll. «Tel»), 1980 [trad. it. Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaka Book, 1980, trad. di Massimo Giacometti; riedito con la prefazione di Georges Dumézil, TEA, Milano 1993]. 7. Ibid. 8. C. A. VIANO, John Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, Einaudi, Torino 1960. 9. Questo paragrafo si chiude sull’incipit di una frase: «Se, per esempio, si…» 10. Il termine «storicismo» ha due grandi accezioni. 1) Rinvia a un periodo della storiografia tedesca che ha dominato la seconda metà del XIX secolo: definire le regole del metodo storico per farne una scienza rigorosa. 2) L’affermazione che tutte le produzioni umane sono il risultato di un processo storico; accezione che, sotto il termine «storicismo relativista», predomina durante il XX secolo. In Italia il dibattito del secondo dopoguerra è segnato dalla valutazione critica della nozione di «storicismo assoluto» introdotta da Croce durante gli anni Quaranta, quando aveva fortemente criticato gli storici tedeschi per risolvere la tensione tra filosofia e storia. Quest’espressione equivale a ciò che si potrebbe chiamare una filosofia dell’immanenza. È parte di questo dibattito la discussione che oppone Croce a De Martino dopo la pubblicazione de Il mondo magico. Cfr. R. SOLMI ,

Ernesto De Martino e il problema delle categorie, in «Il Mulino», vol. 1, n. 7, maggio 1952,

pp. 315-27. Poi incluso in Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Varbatim-Quodlibet, Macerata 2007, pp. 51-61.

11. M. ELIADE, Symbolisme religieux et valorisation de l’angoisse, in L’angoisse du temps présent et les devoirs de l’esprit, «Rencontres internationales de Genève», Éditions de la Baconnière, Neuchâtel 1953. I riferimenti bibliografici, alle pagine e le citazioni che seguono in questa sezione rinviano a questo volume. 12. M. Eliade fa propria la fantasiosa formula di «illusione cosmica» utilizzata, nella filosofia speculativa vedica, per qualificare l’irrealtà ontologica del mondo e di ogni esperienza umana, entrambe sottoposte al divenire universale. 13. Mircea Eliade prende in prestito questa storia chassidica, variante del controtipo 1645 B Il sogno del tesoro sul ponte, pubblicato da Martin Buber in «Die chassidischen Bucher» [Storie chassidiche], J. Hegner, Hellerau 1928, dall’indianista Heinrich Zimmer (1890-1943), senza riferimento bibliografico. 14. M. ELIADE, Symbolisme religieux et valorisation de l’angoisse cit. 15. Carlo Ginzburg mette in evidenza la dimensione implicitamente antisemita della teorizzazione della fuga dalla storia in M. ELIADE, Mircea Eliade’s Ambivalent Legacy, in CH. K. WEDEMEYER

e W. DONIGER (a cura di), Hermeneutics, Politics, and The Contested Legacies of

Joachim Wach and Mircea Eliade, Oxford University Press, Oxford 2010, pp. 307-23. 16. Per i problemi epistemologici propri della storia delle religioni, cfr. E. DE MARTINO, Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», vol. 28, n. 1, 1957, pp. 89-107. 17. Termine basato sul greco antico parousia che designa, nel mondo greco-romano, la visita ufficiale di un principe. Per i teologi questo termine designa il ritorno del Cristo alla fine dei tempi. 18. Basato sul greco paracletos, «colui che si chiama in aiuto», il termine indica la funzione di intercessione che nella tradizione cristiana è assunta dallo Spirito Santo. 19. Atti degli Apostoli, in La Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane, Bologna 1995, p. 2323. 20. I due poli del «già» e del «non ancora» sono il nucleo centrale della teologia di Cullmann, qui affrontata da De Martino. Pistis, elpis e agape designano le tre virtú teologali fede, speranza e carità. 21. Prima lettera ai Corinzi, in La Bibbia di Gerusalemme cit., p. 2527. 22. I. M. LINFORTH, The Arts of Orpheus, University of California Press, Berkeley 1941; E. DODDS,

The Greeks and the irrational, University of California Press, Berkeley 1951 [nuova ed. it.

a cura di Riccardo Di Donato, con introduzione di Maurizio Bettini e presentazione di Arnaldo Momigliano: I greci e l’irrazionale, BUR, Milano 2015]. I Coribanti sono i seguaci della dea Cibele. 23. «La fine dei tempi»: espressione della letteratura apocalittica la cui interpretazione ha dato vita a numerosi dibattiti.

24. In Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria (Einaudi, Torino 1958), ripubblicato sotto il titolo Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (Bollati Boringhieri, Torino 1975), De Martino analizzava esclusivamente la cristianizzazione dei lamenti funebri attraverso il tema culturale della Mater dolorosa e dei lamenti della Vergine. Il tema del «ritorno del morto» è documentato dall’etnografia in tutta l’Europa cristiana. La sua analisi è stata rinnovata dall’antropologia della morte, che si è sviluppata negli anni Ottanta riprendendo la problematica demartiniana sulle componenti della persona. 25. De Martino riprende il termine che si è imposto nella psichiatria tedesca per designare, il piú delle volte, un sintomo della schizofrenia: cfr. capitolo 2. 26. De Martino ha suggerito una traduzione italiana di questo libro, nonché del dibattito JaspersBultmann (cfr. supra, nota 5) per la nuova collana di «Scienze religiose» proposta a Einaudi agli inizi degli anni Sessanta. In una lettera dell’11 ottobre 1962 (Archivio De Martino, 29) Renato Solmi lo informa che Einaudi ha ottenuto un’opzione sui diritti di traduzione. Ma questa uscirà invece per i tipi de il Mulino a Bologna, nel 1965, col titolo: Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo. 27. Frase incompleta. 28. Nozione centrale in Cullmann, questo termine, che si potrebbe tradurre con «una volta per tutte», designa qualsiasi evento a carattere salvifico. 29. La tesi secondo la quale, attraverso l’imitazione, ogni fedele diventa un contemporaneo di Cristo, è esposta in S. KIERKEGAARD, Scuola di cristianesimo, trad. di A. Miggiano e K. Montanari Gulbrandsen, Edizioni di Comunità, Milano 1950 [1850]. 30. Il testo di Lettera ai Colossesi, 1.19, dice soltanto che Dio ha deciso di essere completamente presente [in suo figlio]. Il brano a cui si riferisce qui De Martino corrisponde piuttosto a Lettera ai Colossesi, 1.16 [Nota del traduttore francese]. 31. Intervallo di tempo geocronologico. 32. Il testo neotestamentario dice: «L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitú della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino a oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» [Nota del traduttore francese]. 33. Espressione usata da Cullmann, che lo spiega cosí nella sua prefazione alla terza edizione: «Illustravo questa tensione con un’immagine particolarmente attuale negli anni 1944-1945: quella

della battaglia decisiva già combattuta e del Victory Day non ancora sopraggiunto»: Cristo e il tempo cit. [1967], p. 15. 34. «Perché l’immagine di questo mondo passa», Prima lettera ai Corinzi, 7.31. 35. Questa formula proverbiale di Orazio, che si può tradurre con l’espressione «sono affari tuoi», è a volte associata alla Prima lettera ai Corinzi, 6. Cfr. il capitolo 2, nota 52. 36. La citazione di De Martino comincia in 7.29, e parla della brevità del tempo propizio: «breve è il tempo propizio». 37. Il termine oggi utilizzato è «zoroastrismo» [Nota del traduttore francese]. 38. G. KITTEL, Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Kohlhammer, Stuttgart 1935, 10 voll. [trad. it. Grande lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1965-1992, 16 voll.]. 39. Luca 21.8-11; cfr. anche Matteo 24.5 e Marco 13.5-7. 40. Ne rende conto soprattutto la traduzione italiana del saggio di R. MARLÉ, Bultmann e l’interpretazione del Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia 1958; il saggio di G. MIEGGE, L’Evangelo e il mito nel pensiero di Rudolf Bultmann, Milano 1956; alcune monografie di Franco Bianco in Archivio di filosofia del 1956 e 1957; e infine il numero di Archivio di filosofia dedicato al problema della demitizzazione (1957) sotto il titolo «Storia ed escatologia». L’anno scorso l’editore Bompiani ha pubblicato la traduzione italiana delle Gifford Lectures date da Bultmann a Edimburgo dal 7 febbraio al 2 marzo 1952 (History and Eschatology, Edimburgh University Press, 1957) e già tradotte in tedesco (Geschichte und Eschatologie) Tubingen 1958 [trad. it. Storia ed escatologia, Bompiani, Milano 1962] [Nota di De Martino]. De Martino dà questi riferimenti bibliografici all’inizio di questo brano che ha pubblicato come nota di lettura di Storia ed escatologia nella rivista dell’Istituto di filosofia (Università di Roma) «De Homine», 1962, nn. 9-10, pp. 218-22. A partire dal 1962 Enrico Castelli, direttore della rivista romana «Archivio di filosofia», che si specializza in filosofia della religione, organizza dei convegni annuali sul problema della «demitizzazione» ai quali partecipano Rudolf Bultmann, Paul Ricœur, Hans-Georg Gadamer che preparano la riforma teologica del Concilio Vaticano II. 41. R. G. COLLINGWOOD, The idea of History, Clarenton Press, Oxford 1946 [trad. it. Il concetto di storia, a cura di D. Pesce, Fabbri, Milano 1966]. 42. In senso inverso, l’interesse nei confronti di Martin Heidegger permette di rinnovare la teologia protestante. Negli anni Venti Bultmann si ispira all’analisi esistenzialista di Essere e Tempo per ridefinire un’ontologia suscettibile di sostituirsi a quella, inadatta, dell’aristotelismo. La fenomenologia della vita religiosa proposta da Heidegger, col quale ha tenuto un seminario a Marburgo, offre un miglior approccio per descrivere l’esistenza umana in termini di decisione, di cura, di autenticità, e per mettere in evidenza l’autonomia del vissuto religioso. Cfr. M. HEIDEGGER, Fenomenologia della vita religiosa, trad. di Giovanni Gurisatti, Adelphi, Milano 2003.

43. Da comparare con questo giudizio di Pierre Hadot: «Il dramma di Bultmann sta nel fatto che combatte su due fronti e contro avversari che gli sono esterni. Esegeta, vuole “comprendere” utilizzando la critica piú radicale, ma sa che ciò non è vincolante. Teologo, vuole “tradurre” in linguaggio moderno questo messaggio, già conosciuto tramite la critica, ma sente la rottura fra il dato e la sua traduzione» (recensione di R. MARLÉ, Bultmann et l’interprétation du Nouveau Testament, Aubier, Paris 1956, in «Revue de l’histoire des religions», n. 150, 1956, p. 227). 44. Questa critica si allinea con quella del gesuita René Marlé, che sottolinea il carattere «superato» delle nozioni di «mito» e di «mentalità prelogica» utilizzate da Bultmann: R. MARLÉ , Bultmann e l’interpretazione del Nuovo Testamento cit. Come nota De Martino, quest’opera prodotta da un teologo cattolico e tradotta due anni dopo in italiano, ha molto contribuito alla diffusione delle tesi del teologo protestante. Cfr. supra, nota 40. 45.45 M. ELIADE, Le mythe de l’éternel retour. Archétypes et répétition, Gallimard, Paris (coll. Les «Essais»), 1949, riedizione rivista e accresciuta (coll. «Idées»), 1969. La traduzione italiana è piú tardiva: Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizione, Borla, Torino 1968. 46. R. BENEDICT, Patterns of culture, Houghton Mifflin, New York, 1934 [trad. it. Modelli di cultura, Laterza, Roma-Bari 2010]. Sulla portata del relativismo culturale nella definizione del normale e del patologico, cfr. il capitolo 2, pp. 195-98. 47. O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Longanesi, Milano 1957 [1 a ed. ted. 1918-1923]. 48. «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (Prima lettera ai Corinzi, 9.22). Sulla nozione di «etnocentrismo critico» cfr. G. SAUNDERS, “Critical Ethnocentrism” and the Ethnology of Ernesto De Martino, in «American Anthropologist, New Series», vol. 95, n. 4, 1993, pp. 875-93 [trad. it. L’“etnocentrismo critico” e l’etnologia di Ernesto de Martino, in «Ossimori», n. 7, 1995, pp. 59-92]; P. CHERCHI, Il peso dell’ombra. L’etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema dell’autocoscienza culturale, Liguori, Napoli 1996. 49. Cfr. supra, nota 18.

Capitolo quarto Apocalisse e decolonizzazione

L’opera progettata da Ernesto De Martino adotta una prospettiva che mostra il tema della fine del mondo in tre situazioni estremamente diverse e lontane fra loro, in modo tale che dal loro confronto risulti in tutta la sua evidenza l’enigma antropologico che lo interessa. Esse corrispondono ai primi capitoli, che attingono il loro materiale rispettivamente dalla psichiatria, dalla storia e dalla teologia degli inizi del Cristianesimo, e dall’etnologia coeva dei movimenti millenaristi. Nata nel 1896 con la grande monografia di James Mooney sulla ghost dance degli indiani delle pianure 1, questa branca dell’antropologia si è sviluppata costantemente a partire dagli anni Trenta, per rafforzarsi ulteriormente verso la metà del secolo. La sua grande originalità sta nel costruire una tematica che è allo stesso tempo congiunturale e universale. Si tratta di fare l’etnografia delle situazioni di rivolta nate di fronte all’irruzione del mondo bianco nelle società dette primitive. Il fatto centrale che, al di là di una grande diversità locale, attira l’attenzione dell’antropologo è la generalità del fenomeno e la ricorrenza delle forme della ribellione: il tempo in cui l’indigeno è dominato deve finire, e l’egemonia sconfitta dei bianchi cederà il posto a un mondo di pace, di armonia e di abbondanza. Per annunciare questo futuro, alcuni profeti decretano quali sono le lotte, le credenze e le azioni simboliche suscettibili di aiutare ad abbattere l’ordine antico e a far emergere il nuovo ordine. Questi movimenti sono dunque indissolubilmente religiosi e politici, nel senso piú ampio di quest’ultimo termine. Breve, denso, quanto doveva costituire un terzo capitolo, nella forma in cui viene pubblicato nella prima edizione italiana, lascia un’impressione di sospensione e di incompiutezza. In realtà, i primi documenti che descrivono il materiale d’archivio del progetto demartiniano segnalavano la presenza di un ricco dossier (120 fogli) che comunque Angelo Brelich considerava privo di unitarietà («appunti sparsi»). Di queste fonti primarie non resta che un insieme schematico, di cui qui riproduciamo l’essenziale. Una situazione abbastanza paradossale, se consideriamo la massa di lavori storici ed etnologici esistenti su questi movimenti la cui effervescenza contemporanea attirava in quel periodo sia in Europa sia negli Stati Uniti degli studiosi di alto livello. Ciò dipende in larga misura dal fatto che la prima edizione ha trascurato il lavoro che ha aperto a De Martino questo campo di ricerca: il volume del suo amico Vittorio Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, pubblicato nel 1960, cosí come i vivaci dibattiti e le reiterate puntualizzazioni che fino al 1966 sono seguiti alla sua pubblicazione in Italia e in Francia 2. Il fatto che il nome di Lanternari sia poco citato nelle note pubblicate non deve far pensare a ignoranza o a negligenza: De Martino era convinto di conoscere a fondo la questione, e quindi rimandava a piú tardi la sua trattazione esaustiva, accontentandosi di tener conto solo di alcuni elementi che orientavano il cospicuo materiale, raccolto da

Lanternari e da altri studiosi, nella direzione della problematica che gli era propria. È in nome di quest’ultima che egli ha riletto alcuni resoconti etnografici che Lanternari conosceva bene, che cita al momento giusto nei suoi lavori, ma che commenta in un quadro concettuale assai diverso. Il dossier rimasto nel suo archivio riguardante questo capitolo comprende due insiemi difficili da distinguere. Il primo, molto breve, contiene delle note su alcune «ipotesi di lavoro», l’altro delle «letture critiche». È preceduto da una messa a punto della nozione, fondamentale per De Martino, di «umanesimo etnografico». Clara Gallini, per compensare l’esiguità del dossier, aveva pensato di introdurre una serie di note sui rapporti fra antropologia e storia in Claude Lévi-Strauss, che sembravano essere evocate dal tema dell’umanesimo il quale, negli anni Cinquanta, era stato oggetto di riflessione da parte dell’antropologo francese 3. Il nesso ci è sembrato troppo labile. Se vogliamo attenerci all’incontestabile nucleo del quarto capitolo, quali sono gli aspetti che, a questo stadio della sua riflessione, sembrano essenziali per De Martino? Il primo, che enuncia con discrezione il suo debito nei confronti di Lanternari, si occupa specificatamente di una questione di lessico. Come sappiamo, la denominazione da parte delle nascenti scienze dell’uomo delle società «altre», che hanno a lungo vissuto ai margini dell’Occidente in una condizione di reciproca ignoranza, sono state, sin dal XVIII secolo, oggetto di costante imbarazzo. Il termine «primitivo», impiegato dai fondatori dell’antropologia quali Lewis Henry Morgan ed Edward Tylor, poteva, alla loro epoca, essere considerato un sostituto positivo del termine «selvaggio». D’altro canto, nei due studiosi citati l’evoluzionismo culturale portava a organizzare un percorso obbligato delle società umane attraverso degli «stadi» successivi – stato selvaggio, barbarie, civiltà, ecc. – la cui denominazione aveva ai loro occhi una funzione puramente descrittiva, andata ben presto perduta nell’uso corrente. Alla soluzione francese che consiste nell’introdurre l’espressione attenuante «società dette primitive», oppure le definizioni privative («società senza… scrittura, Stato, classi, ecc.») corrisponde in italiano l’espressione «società di interesse etnologico» che è forse ancora meno soddisfacente. L’emergenza dei movimenti di resistenza all’egemonia occidentale e, soprattutto, la loro identificazione come rivolte anticoloniali permette di definire queste società in termini di «popoli oppressi (o colonizzati)» e poi di riunire la loro enorme varietà sotto la denominazione politicoeconomica di «Terzo Mondo». Lanternari ha fatto decisamente questa scelta. E tutto fa pensare che De Martino l’avrebbe seguito piú sistematicamente se avesse potuto portare a termine la sua opera. A ogni modo, in un testo pubblicato nel 1962, egli precisava che i movimenti di rivolta millenaristi del Terzo Mondo introducevano nella coscienza dell’Occidente un evento considerevole: «[…] i “fratelli minori” si stanno emancipando, e nel corso del processo di emancipazione hanno innestato nei temi tradizionali della loro vita culturale un discorso che ha per argomento proprio i “limiti” dei “fratelli maggiori” e della loro cultura. È nata cosí per l’uomo occidentale una possibilità di riflettersi in un’immagine di sé

del tutto desueta, e di tornare su se stesso per vie non ancora percorse dalla sua coscienza» 4. Poche righe che rivelano tutta una concezione dell’etnologia. Essa fonda e giustifica lo sviluppo introduttivo di questo capitolo, secondo il quale dall’incontro etnografico deve scaturire una conoscenza che, al termine di ciò che Georges Balandier chiamerà piú tardi il détour 5, torna verso l’Occidente da cui è partito, fa luce sulle sue insospettabili risorse, e reintegra in un continuum l’altro e l’altrove che erano stati messi a distanza. L’accoglienza che De Martino riserva a questo nuovo campo dell’antropologia evidenzia alcuni problemi che rimandano direttamente alla costruzione dell’opera in corso. Si tratta di considerare i risultati dell’etnografia dei movimenti messianici nel Terzo Mondo alla luce del contenuto dei primi capitoli e come preambolo dell’analisi dell’apocalisse che mina l’Occidente contemporaneo. Potremmo perfino ipotizzare che la versione finale dalla quale quanto andiamo a pubblicare è evidentemente ben lontano, avrebbe concentrato la sua attenzione su questi temi fondamentali. Allo stato attuale delle cose mettere in relazione questo capitolo con i due precedenti fa emergere due questioni di portata notevolmente diversa. La prima riguarda la validità di una diagnosi psichiatrica relativa ai leader delle rivolte. L’altra, molto piú ampia, s’interroga sul ruolo che ha avuto, nella formazione dei movimenti profetici, l’incontro con i colonizzatori e col Cristianesimo. Esaminiamo qui rapidamente l’orientamento proposto dalle note di De Martino su questi temi. Sul primo tema si accende una discussione dai toni piuttosto decisi con Wilhelm Mühlmann, lo studioso tedesco (1904-1988) che considerava malati mentali, o piú precisamente schizofrenici, i profeti e il Messia 6. De Martino rifiuta decisamente questa diagnosi, presentata come «un’evidenza», che gli sembra derivare da un etnocentrismo acritico. E in effetti, questa dottrina positivistica potrebbe essere applicata a tutti i fondatori di religioni. Riguardo al secondo tema la risposta è molto meno netta. Il problema indubbiamente si pone: davvero tutti i movimenti profetici e millenaristi che annunciano una fine e un rinnovamento del mondo sono nati a contatto con i cristianesimi missionari, dei quali hanno adottato le nozioni di fine del mondo, di escaton e la particolare concezione di «carisma elettivo»? È una questione che ha appassionato De Martino. Generalmente essa è messa in luce, nel solco dei lavori di Alfred Métraux, dall’analisi dei movimenti millenaristi precolombiani che, per esempio, spingevano i guaraní delle regioni amazzoniche, ancora ignari del Cristianesimo, alla ricerca della «terra senza male» 7. Ma, come dimostravano diversi esempi sviluppati da Lanternari, l’impronta del Cristianesimo può essere straordinariamente forte, poiché molti profeti leader, nella pianura nord-americana cosí come in Africa nera, sono cresciuti nell’orbita delle missioni, e riprendono sia tematiche bibliche sia forme di organizzazione ecclesiale. Dalle note di De Martino emerge una tesi che riformula la questione, spostandola. Innanzitutto, in linea col capitolo precedente, che sottolineava il ruolo del Cristianesimo nella fondazione di una nuova forma di temporalità lineare e orientata, egli mette a punto un’opposizione fra i cacciatori-raccoglitori, poco inclini alla visione prospettica – eccezion fatta, si direbbe oggi, per i praticanti dello stoccaggio di prodotti cacciati e pescati 8 – e gli agricoltori-allevatori

che non possono organizzare la loro produzione se non padroneggiando il futuro. Questi ultimi sarebbero a priori meglio attrezzati per elaborare o adottare delle rappresentazioni della fine del mondo. Successivamente, forse seguendo le indicazioni di Lanternari, De Martino decide di approfondire la sua ipotesi sui ricchissimi materiali etnografici di Andreas Lommel sugli Unambal australiani, che sono originariamente dei cacciatori nomadi 9. Al centro di questa ricerca vi è la comparazione tra diversi gruppi, alcuni dei quali sono passati totalmente dalla parte dei bianchi integrandosi nelle loro grandi aziende agricole e nelle loro missioni, e adottando il nuovo modo di vita, mentre altri conservano quasi integralmente gli usi e i costumi ancestrali. Fra questi due gruppi si trovano coloro che adottano entrambi i modi di vita. Gli Unambal costituiscono il secondo gruppo, e hanno sviluppato una ricca mitologia della fine dei tempi legata alla circolazione di tavolette sacre che sembrano tanto mobili quanto i culti che vi fanno riferimento, e si diffondono assai rapidamente da una tribú all’altra. La mitologia Unambal sembra dunque anticipare il cambiamento di mondo provocato inevitabilmente dalla loro inclusione nello spazio dominato dai bianchi. Questi elementi, e altri che il lettore scoprirà nelle pagine che seguono, ci inducono a formulare una risposta complessa alla domanda che è stata posta. Le condizioni instaurate dalla rivoluzione neolitica possono bastare a introdurre il tempo orientato e la possibilità di un’escatologia della fine del mondo. L’arrivo dei Bianchi di religione cristiana scatena o imprime una straordinaria accelerazione a questo processo, generando modalità di adesione differenziate nelle società locali. In compenso, la matrice cristiana è capace, in se stessa e nelle aree della sua prima espansione, di generare millenarismi dissidenti, proprio quando la prossimità della fine dei tempi e della parusia non fa piú parte, già da molto tempo, degli insegnamenti canonici della Chiesa 10. La questione della persistenza di questi movimenti nella storia occidentale – tema che affiora nel capitolo sul marxismo 11 – pone a sua volta la questione della loro conversione politica. Di fatto, nel 1962 De Martino abbozzava il quadro di una storia a due livelli. La nascita dei millenarismi è possibile tra l’inizio nel neolitico e la piena società industriale; non riguarda dunque né i cacciatori-raccoglitori né il proletariato operaio. Ma, all’interno di quest’ampio arco temporale, il Cristianesimo, entro i suoi margini e nel movimento di conquista del mondo che lo caratterizza, è senza dubbio, e suo malgrado, il focolaio di molteplici reviviscenze, delle quali le rivolte «religiose» del Terzo Mondo sono l’espressione contemporanea. Non sono sicuro che la seconda frontiera, quella della coscienza di classe e della lotta politica che definirebbero il proletariato, sia tracciata cosí chiaramente ne La fine del mondo. Tema che ritroviamo fra gli argomenti del capitolo sul messianismo marxista. Daniel Fabre 1. J. MOONEY, The Ghost-dance Religion, Bureau of American Ethnology, Washington 1896. 2. La prima edizione dell’opera di Vittorio Lanternari è tradotta in francese da Robert Paris (esperto di Antonio Gramsci) e pubblicata da Maspero col titolo Les mouvements religieux de liberté

et de salut des peuples opprimés. Sul destino di questo libro, cfr. D. FABRE e M. MASSENZIO, Préface: l’anthropologie des messianismes entre France et Italie, in «Archives de sciences sociales des religions», n. 161, gennaio-marzo 2013, pp. 11-24. 3. Cfr. C. LÉVI-STRAUSS , I tre umanismi, in Antropologia strutturale due, il Saggiatore, Milano 1990, pp. 311-14; (1 a ed., «Demain», n. 35, 1956, p. 16). Questi appunti sono rimasti introvabili nell’archivio, ma sembrano essere piuttosto collegati a un altro dossier importante dedicato al posto occupato dalle scienze storiche all’interno delle scienze sociali (Archivio De Martino, 24.4). 4. E. DE MARTINO, Promesse e minacce dell’etnologia, in Furore simbolo valore, Feltrinelli, Milano 2002 [1962], p. 108. 5. G. BALANDIER, Le détour. Pouvoir et modernité, Fayard, Paris 1985. 6. Nei suoi resoconti Angelo Brelich riserva una particolare attenzione a questi temi. Cfr. l’introduzione del presente volume, «Tradurre» La fine del mondo di Giordana Charuty. 7. Su quest’argomento cfr. il volume dell’allieva di Métraux: H. CLASTRES, La terre sans mal. Le prophétisme tupi-guarani, Seuil, Paris 1975 [trad. it. La terra senza il male. Il profetismo tupiguaraní, Mimesis, Milano 2016, traduzione e cura di Francesco Boccolari]. 8. Cfr. a questo proposito A. TESTART, Les chasseurs-cueilleurs ou l’origine des inégalités, Société d’ethnographie, Paris 1982. 9. Per uno sguardo successivo su quest’analisi, vedi M. MASSENZIO, Kurangara. Una apocalisse australiana, Bulzoni, Roma 1976. 10. Era questa la principale critica che De Martino muoveva a Lanternari: «Viene spontaneo il paragone – e il Lanternari lo istituisce – fra l’attuale millenarismo e la diffusione del Cristianesimo primitivo: “Come già per i primitivi cristiani del Vicino Oriente e dell’antica Roma, cosí per i gruppi indigeni africani, asiatici, oceaniani, americani si fa sentire una duplice oppressione: del sacerdotalismo militante delle missioni e dello statalismo invadente e autoritario dei governi coloniali”. Tuttavia il paragone ha un limite profondo, che non mi sembra sia stato sufficientemente messo in luce dall’autore: il millenarismo cristiano rappresentò la nascita di una nuova civiltà, soprattutto nella misura in cui il tema apocalittico cede il luogo al Regno già iniziato nell’attualità della Chiesa, operante come istituto […] e al quale era possibile partecipare in anticipo attraverso l’amministrazione del sacramento eucaristico»: E. DE MARTINO, Promesse e minacce dell’etnologia cit., p. 109. Per De Martino, in effetti, era indispensabile praticare una comparazione contrastiva fra le grandi esperienze apocalittiche messe a confronto. 11. Cfr. il capitolo 6.

1. L’umanesimo etnografico. 1.1. Una etnologia adeguata alle esigenze dell’umanesimo moderno deve prender coscienza che il suo oggetto non è semplicemente la scienza delle culture a basso livello tecnico, o non-letterate o «cosiddette primitive», ma piuttosto la scienza del loro rapporto con la cultura occidentale, a partire dall’incontro etnografico in quanto tematizzazione di tale rapporto. […] Il concetto di incontro etnografico come tematizzazione del nostro e dell’alieno nel senso or ora dichiarato comporta una interna paradossia dalla cui analisi dipende la formulazione di una metodologia etnologica adeguata. Di solito viene raccomandato all’etnografo di osservare senza preconcetti i fatti etnografici e di descriverli con esattezza. Ma tale raccomandazione, proprio in ragione della sua ovvietà, dice molto poco quando si ritiene di aver dato con essa il fondamento della ricerca etnologica: in realtà proprio questo «fondamento» chiede di essere «fondato». Quando l’etnografo osserva fenomeni culturali alieni, cioè impartecipi al corso storico attraverso il quale si è venuta formando la cultura cui l’etnografo appartiene (cioè la cultura occidentale che non a caso è l’unica ad aver posto il problema «scientifico» dell’incontro etnografico), l’osservare è reso possibile da particolari categorie di osservazione, senza le quali il fenomeno non è osservabile. Queste categorie, che entrano in azione nell’atto di sorprendere in vivo un fenomeno culturale alieno e nel discorso etnografico che lo descrive, sono molteplici; natura e cultura, normale e anormale, psiche sana e psiche malata, conscio e inconscio, io e mondo, individuo e società, male e bene, dannoso e utile, brutto e bello, vero e falso, linguaggio, economia, tecnica, razionale e irrazionale, conscio e inconscio, spazio, tempo, sostanza, causa, fine. Ora già soltanto l’impiego di queste categorie nella osservazione etnografica delle culture aliene (e non impiegarle equivarrebbe a non poter osservare e descrivere nessun dato etnografico) trascina inconsapevolmente con sé l’intera storia della cultura occidentale, le sue decisioni e le sue scelte, le sue polemiche e le sue distinzioni, senza che l’etnografo sia minimamente

garantito, finché dura tale inconsapevolezza, dal proiettare arbitrariamente quelle decisioni e quelle scelte, quelle polemiche e quelle distinzioni, nella cultura aliena che ne è invece impartecipe o partecipe secondo modalità storiche diverse. Cosí per esempio se noi impieghiamo la categoria «magia» nella osservazione dei fatti etnografici, un grande corso storico dell’occidente entra in causa, e cioè la polemica cristiana contro il magico come usurpazione demoniaca, la polemica della magia naturale contro la bassa magia cerimoniale, la polemica della nuova scienza contro la magia cerimoniale e naturale, la varia crisi dello scientismo positivistico che si consuma nell’epoca moderna e contemporanea, la rivalutazione del magico da parte di artisti e di letterati, il magico del fanciullo nella prospettiva della psicologia evolutiva e il magico dello schizofrenico nella prospettiva della psicopatologia, e infine i dibattiti sulle attitudini paranormali e in particolare sulla cosiddetta percezione extrasensoriale. In modo confuso, frammentario, piú o meno inconsapevole in rapporto alla educazione ricevuta e alle letture fatte – l’etnografo fa rifluire immediatamente questa storia nel momento stesso in cui impiega la categoria di «magia» come predicato del giudizio etnografico: ma appunto perché confusa, frammentaria, inconsapevole questa storia culturale è esposta al pericolo di trapassare in modo immediato, acritico, dogmatico nella osservazione e nella interpretazione del fenomeno culturale alieno designato come «magia». (In nota: altro esempio: normale e anormale, psiche sana e psiche malata). Si profila cosí il caratteristico paradosso dell’incontro etnografico: o l’etnografo tenta di prescindere totalmente dalla propria storia culturale nella pretesa di farsi «nudo come un verme» di fronte ai fenomeni culturali da osservare, e allora diventa cieco e muto davanti ai fatti etnografici e perde, con i fatti da osservare e da descrivere, la propria vocazione specialistica; ovvero si affida ad alcune «ovvie» categorie antropologiche, assunte magari in un loro preteso significato «medio» o «minimo» o «di buon senso», e allora si espone senza possibilità di controllo al rischio di immediate valutazioni etnocentriche a partire dallo stesso livello della piú elementare osservazione (cioè la sua vocazione specialistica viene questa volta compromessa dalla impossibilità di una osservazione «oggettiva»). L’unico modo di risolvere questo paradosso è racchiuso nello stesso concetto dell’incontro etnografico come duplice tematizzazione, del «proprio» e dell’«alieno». L’etnografo è chiamato cioè a esercitare una epoché etnografica che consiste nell’inaugurare, sotto lo

stimolo dell’incontro con determinati comportamenti culturali alieni, un confronto sistematico ed esplicito fra la storia di cui questi comportamenti sono documento e la storia culturale occidentale che è sedimentata nelle categorie dell’etnografo impiegato per osservarli, descriverli e interpretarli: questa duplice tematizzazione della storia propria e della storia aliena è condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il «proprio» e l’«alieno» sono sorpresi come due possibilità storiche di essere uomo, quel fondo, dunque, a partire dal quale anche «noi» avremmo potuto imbroccare la strada che conduce alla umanità aliena che ci sta davanti nello scandalo iniziale dell’incontro etnografico. In questo senso l’incontro etnografico costituisce l’occasione per il piú radicale esame di coscienza che sia possibile all’uomo occidentale; un esame il cui esito media una riforma del sapere antropologico e delle sue categorie valutative, una verifica delle dimensioni umane oltre la consapevolezza che dell’esser uomo ha avuto l’occidente. Ricerca interdisciplinare. La etnologia come scienza che nasce dal confronto del proprio con l’alieno (con il piú alieno in quanto alieno etnografico) si palesa pertanto come riconoscimento della attuale dispersione degli etne e delle loro culture e come confrontante evocazione di quelle storie irrelate nell’incontro etnografico che stanno inizialmente in un reciproco scandalo. L’unità dell’umano non sta quindi come presupposto speculativo secondo l’immagine di un «piano»: il suo ideale e il suo compito è l’unificazione dell’umano, ma attraverso l’efficacia mediatrice di un incontro sul terreno con umanità aliene e di una sempre rinnovata tematizzazione di questo incontro. (L’unità dell’umano si configura dunque nella prospettiva etnologica non come un presupposto ma come un compito, cioè come ideale dell’unificazione, da attuare sempre di nuovo mediante la ricerca e il confronto, a partire dal riconoscimento iniziale di una dispersione e di una alienità fra le umanità viventi e istituendo come centro del processo euristico e confrontante l’umanità occidentale in quanto «propria». Non dunque un europeocentrismo dogmatico, e neppure un irrelato relativismo culturale formano la base della ricerca etnologica, ma un europeocentrismo critico, elettivamente disposto al reale incremento della coscienza umanistica). 1.2. […] In tal modo si è venuta raccorciando la distanza che separava le forme culturali subalterne interne alla civiltà occidentale e le culture indigene dell’epoca coloniale: la differenza fra le une e le altre appare sempre piú esser

di misura e non di qualità, e sempre meno appare giustificabile una distinzione rigorosa dell’oggetto della etnologia da quello delle tradizioni popolari, poiché in entrambi i casi oggi stanno davanti a noi sincretismi interculturali, rapporti fra livelli diversi di cultura, dinamiche messe in movimento da questi rapporti. Ma vi è qualche cosa di piú. Non soltanto l’etnologia intesa come scienza delle civiltà primitive rischia di perdere l’oggetto della sua ricerca, ma nell’interno della cultura europea l’influenza della cultura extraoccidentale ha concorso a mediare una varia presa di coscienza dell’importanza, anche per l’occidente di oggi, dell’arcaico, del mitico, dell’inconscio, e non già come «fase» superata di una immaginaria storia umana unilinearmente percorrente il suo cammino trionfale, ma come dimensione antropologica permanente che l’occidente avrebbe malamente repressa. Questo orientamento si manifesta in modo piú immediato nell’arte e nella letteratura moderna, nella psicoanalisi e nella teoria junghiana degli archetipi, nella ripresa di impegno speculativo sul mitico, in ideologiche politiche idoleggiatrici dell’Ur 1, nel costume e in certa disperata sensibilità di protesta e di evasione. [...] Vive proprio come «colpa» il dato iniziale classificatorio di due umanità, quello di cui l’etnografo porta il documento interno e quello testimoniato dalla cultura aliena, che stanno l’una di fronte all’altra nello scandalo della incomprensione reciproca, nella estrema indigenza di memorie comuni, ovvero nel tremendo reciproco giudizio per cui i rappresentanti delle culture aliene piú lontane scambiano l’uomo bianco come uno spettro che torna dal mondo dei morti e l’uomo bianco inclina istintivamente a ravvisare in essi gli sconcertanti esemplari del genus brutorum hominum. Senza questa ricerca della sfida del culturalmente alieno, senza questa pungente esperienza dello scandalo sollevato dall’incontro con umanità cifrate, e soprattutto senza questa colpa e questo rimorso davanti al «fratello separato» e alla dispersione irrelata delle culture sul nostro pianeta, l’ethos umanistico dell’incontro etnografico è colpito alle radici e viene a mancare la stessa condizione fondamentale che inaugura il compito piú appariscente della ricerca etnologica, cioè il minuto e faticoso interrogare e interrogarsi circa il carattere e le ragioni, circa la genesi, la struttura e la funzione del comportamento culturale alieno che l’etnografo intende tematizzare. L’«umanesimo etnografico» è in un certo senso la via difficile dell’umanesimo moderno, quella che assume come punto di partenza l’umanamente piú lontano e che,

mediante l’incontro sul terreno con umanità viventi, si espone deliberatamente all’oltraggio alle memorie culturali piú care: chi non sopporta quest’oltraggio e non è capace di convertirlo in esame di coscienza, non è adatto alla ricerca etnologica, e miglior prova di sé potrà eventualmente dare nell’ambito dell’umanesimo filologico e classicistico, che è pur sempre, malgrado tutto, un dialogo in famiglia 2. Senza dubbio non occorre andare molto lontano nello spazio per esperire comportamenti cifrati: il nostro vicino di casa o gli stessi nostri congiunti ne possono dar prova quotidianamente 3, e noi reagiamo volta a volta a questa incomprensibilità con l’indifferenza o con la curiosità, con lo stupore o col rammarico o con l’ira, o infine con uno sforzo di ricostruzione e di comprensione: l’incontro etnografico tematizza questo vario rapporto con l’altro nella situazione piú sfavorevole, eleggendo ad argomento di ricerca il culturalmente alieno per eccellenza, vietando l’indifferenza e allenando sistematicamente a una ascesi che reprime ogni sdegno per dischiudere la comprensione nelle condizioni peggiori, quando tutta la nostra storia culturale, il mondo nel quale siamo nati e cresciuti, è messo in causa. Questo umanesimo etnologico, le cui condizioni sono state poste dall’epoca delle scoperte geografiche, può maturare solo ora, nell’epoca che vive la crisi del rapporto coloniale e della società che lo espresse, e che vede non soltanto moltiplicarsi i rapporti interculturali, ma è impegnata come non mai a fondare una nuova solidarietà dei rapporti umani sul nostro pianeta: «Il mondo è poco». Ma la ricerca etnologica esprime questa esigenza e vi collabora per la parte che le spetta non soltanto perché elettivamente disposta a tematizzare il «nostro» e l’«alieno» sul piano interculturale, ma anche in altro senso: 4 [...] 1.3. Umanesimo filologico-classicistico e umanesimo etnografico Con l’epoca delle scoperte geografiche e della fondazione dei grandi imperi coloniali fu gettato il primo seme di un nuovo possibile umanesimo, che appena oggi, nell’epoca della decolonizzazione, si appresta a dare i suoi frutti. Sino al Cinquecento l’umanesimo fu la presa di coscienza dell’umano mediata attraverso un ritorno diacronico dell’antichità classica: fu rammemorazione di un passato illustre attraverso la quale si espresse l’esigenza di allargare la consapevolezza dell’umano oltre i limiti della memoria cristiano-medievale. Tuttavia la memoria umanistica del Trecento e del Quattrocento costituiva pur sempre un allargamento interno della

consapevolezza culturale dell’occidente, un pietoso riconoscimento dei propri padri che valeva a riplasmare la stessa consapevolezza biografica dei figli attraverso i modelli da imitare o con cui gareggiare. Ma a partire dall’epoca delle scoperte si venne determinando una nuova situazione che racchiudeva la maturazione di una nuova dimensione umanistica. La scoperta delle genti transoceaniche – sia pure nel quadro di interessi coloniali e missionari – poneva in primo piano una nuova modalità di rapporto con l’umano: la modalità dell’incontro sincronico con umanità aliene rispetto alla storia dell’occidente, e quindi anche la modalità dello scandalo e la sfida di tale alienità. Non si trattava piú di una rammemorazione interna e piú estesa della propria ascendenza culturale, da ripercorrere facendo rivivere nel tempo e attraverso la lettura di testi un mondo scomparso per sempre: si trattava invece della scoperta di collaterali viventi, umanamente cifrati dinanzi ai quali tuttavia non si poteva non reagire con l’impegno conoscitivo poiché la fondazione dei grandi imperi coloniali e l’attività missionaria erano comunque fondate sulla prassi del rapporto attuale, e sia pure sulla prassi del signoreggiamento o della conversione. Questo nascente umanesimo etnografico, anche se fece appello all’immagine del genus brutorum hominum 5, o alla testimonianza del peccato originale, o al paragone con il modello classico, o al mito del «buon selvaggio», introduceva potenzialmente una nuova dimensione valutativa: la dimensione del confronto non piú soltanto interno e diacronico fra epoche successive della storia culturale dell’occidente, ma esterno e sincronico con umanità aliene rispetto alla totalità di tale storia e alla successione delle sue epoche. Con ciò la storia dell’occidente guadagnava potenzialmente una nuova possibilità umanistica: quella di mettere in causa se stessa, di problematizzare il proprio corso, di uscire dal suo isolamento corporativo e dal suo etnocentrismo dogmatico, e di attingere un nuovo orizzonte antropologico mediante la confrontante misurazione di sé con altri modi di essere uomini in società. Questo tema tuttavia non poté dispiegarsi in tutta la sua ampiezza e complessità sin quando non maturarono alcune condizioni. Il limite dell’umanesimo etnografico durante l’epoca del colonialismo e dell’attività missionaria fu il limite stesso del colonialismo e dell’attività missionaria: senza dubbio l’espansione della borghesia europea, lo sfruttamento delle terre transoceaniche, la protezione dei nuovi mercati, il rapporto amministrativo con la «gente di colore», lo sforzo drammatico connesso alla

cristianizzazione dei pagani, furono condizioni per il primo configurarsi dell’umanesimo etnografico, ma solo nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, della diffusione ecumenica della tecnica e del tramonto del colonialismo, poteva essere oltrepassato il limite inerente a un rapporto pratico fondato in ultima istanza su ragioni strumentali di potenza. Il pericolo dell’umanesimo etnografico dispiegantesi nell’epoca della seconda rivoluzione industriale e della decolonizzazione è il relativismo culturale. Solo l’occidente ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico, nel senso largo di una esigenza di confrontare sistematicamente la propria cultura con le altre sincroniche e aliene: ma questo confronto non può esser condotto che nella prospettiva di un etnocentrismo critico, nel quale l’etnologo occidentale (o occidentalizzato) assume la storia della propria cultura come unità di misura delle storie culturali aliene, ma, al tempo stesso, nell’atto del misurare guadagna coscienza della prigione storica e dei limiti di impiego del proprio sistema di misura e si apre al compito di una riforma, di una riforma delle stesse categorie di osservazione di cui dispone all’inizio della ricerca. Solo ponendo in modo critico e deliberato la storia dell’occidente al centro della ricerca confrontante, l’etnologo potrà concorrere a inaugurare una consapevolezza antropologica piú ampia di quella racchiusa nell’etnocentrismo dogmatico.

2. I movimenti profetici. 2.1. Movimenti chiliastici e psicopatologia (da Mühlmann 6). Mühlmann, pp. 256-60, nell’analizzare il problema dei rapporti fra movimenti chiliastici e personalità che vi sono coinvolte sia come inauguratori (profeti, messia), sia come seguaci, riconosce il rapporto fra personalità carismatica e tratti psicopatologici (isteroidi, paranoidi, schizoidi), la possibilità che determinati profeti siano semplicemente degli psicotici, o dotati di un bassissimo livello di intelligenza, o temporaneamente esposti a disturbi psichici di varia natura, ecc. In particolare afferma che vi sono «evidenti relazioni» fra l’esperire escatologico e il vissuto schizofrenico della fine del mondo (si richiama in ciò a Jaspers, pp. 247 sgg. 7 dove a proposito delle Weltanschauungen specifiche di malati si ricorda il kosmische Erleben dello schizofrenico). Al tempo stesso, Mühlmann sottolinea proprio come i

tratti psicopatologici possono essere valorizzati culturalmente nello sviluppo del movimento, di guisa che i chiliasmi presentano una «miscela» (Legierung) di normalità e anormalità, di morboso e di sano. È però da osservare che queste valutazioni del Mühlmann restano superficiali e confuse. Quando per esempio si dice che vi sono «evidenti relazioni» (unverkennbare Beziehungen) fra esperire escatologico del mondo e vissuto schizofrenico della fine del mondo, il problema è nascosto proprio dall’aggettivo «evidente». Ci si limita a dire che vi sono «evidenti» relazioni tra personalità carismatiche e personalità psicopatiche, cosí come si dirà che vi è una «evidente distinzione» tra la predicazione escatologica di Gesú e il comportamento di uno psicopatico: ma il problema si cela proprio in quella pretesa «evidenza» che tale non è sin quando non si trasforma appunto in «problema», in «tema» che sottopone a riesame tutte le pretese «ovvietà». Né è lecito credere di aver impostato esattamente il problema e di averlo avviato a soluzione quando si dice che taluni profeti presentano tratti psicotici, o sono senz’altro psicotici, o quando si afferma che vi può essere l’utilizzazione culturale di stati psichici morbosi, ecc. In fondo la tematizzazione del rapporto fra psicotico e culturale nella vita religiosa in genere, e in particolare nella sfera della apocalittica, resta qui esclusa dalla considerazione sistematica. La rozzezza estrema della impostazione del Mühlmann si manifesta nel concetto di miscela (Legierung) di tratti psicopatologici e sani nella escatologia. Si tratta invece di considerare il nesso organico che le apocalittiche culturali manifestano tra rischio psicopatologico e reintegrazione operativa secondo valorizzazioni comunitarie della vita umana. Mühlmann, p. 257 (a proposito dei possibili tratti psicopatologici delle singole personalità dei profeti): «Sfortunatamente le relazioni di cui disponiamo relative ai movimenti nativistici non ci dicono molto circa le personalità che vi prendono parte, i profeti (o le profetesse), gli inauguratori. Gli elaboratori di tali relazioni sono per lo piú etnografi e missionari, ai quali manca l’interesse e la competenza del medico. Solo in modo indiretto e senza sicurezza è possibile dedurre dalle descrizioni che in parecchi casi si tratta di personalità aberranti. Spesso si avvertono comportamenti che richiamano la Pseudologia phantastica 8 isteroide, in altri casi – specialmente quando si tratta di persecuzioni nel quadro dei tormenti messianici – riecheggia il tratto paranoide o

schizofrenico, senza naturalmente poter di volta in volta azzardare una diagnosi clinica rigorosa. Altro ancora dà l’impressione di esser già largamente smussato e attenuato nelle sue apparenze, visibilmente ridotto dal normale uomo medio a quella base di comprensione comune che lascia al patologico abbastanza fascinans per esercitare una efficacia di attrazione, ma non tanto da respingere: la base, in breve, che crea quella miscela (di tratti morbosi e normali) cui si è accennato piú sopra e che caratterizza le immagini e le fantasie escatologiche: immaginazioni e fantasie per la ragione normale, ma non necessariamente immagini deliranti in un senso clinicamente definibile. Tuttavia notevole è il fatto che gli stessi missionari in quanto relatori accertano che i movimenti prendono le mosse da indigeni cristianizzati che palesano una certa devozione, esasperata. Visibilmente in casi come questi la sensibilità per il morbido non è affatto alterata. Anche l’uomo religiosamente sensibile, anzi forse proprio questi, può spaventarsi di un eccesso in devozione e bigotteria: ed è proprio questo che ha luogo qui. Non hanno forse i praticanti una religione spesso ammonito sugli eccessi devozionali e in genere nelle cose religiose? Proprio questo carattere eccessivo, esasperato, è però da notare nelle fasi chiliastiche della produttività religiosa: esso opera in modo repulsivo sull’osservatore normale, ma razionalmente orientato – anche sul missionario cristiano». 2.2. Istituzionalizzazione e controllo dei rischi psicopatologici nei movimenti chiliastici. La istituzionalizzazione è un tratto fondamentale della apocalisse culturale, nel senso che i comportamenti sintomatici della crisi della presenza sono nella apocalisse culturale tendenzialmente sottratti dalla anarchia individuale del loro prodursi e incanalati in esperienze e riti comunitari di «sette» o di «chiese». La varia agitazione psicomotoria e il vario emergere sintomatico di impulsi inconsci sono, mediante tale istituzionalizzazione rituale, unificati secondo modelli socializzati di comportamento, ricevendo una calendarizzazione che li disciplina rispetto al «quando» e alla «durata» dell’esecuzione (il quando e la durata del rito) come anche rispetto al come e al perché della esecuzione stessa (il «come» subisce una certa moderazione in rapporto all’anarchia della crisi individuale e il «perché» è determinato dal significato escatologico complessivo del movimento e dai miti che ne formano l’orizzonte). La crisi è in tal guisa ripresa e controllata in senso socio-culturale, si dispone in un quadro tendenzialmente telestico. Invece di

esplodere nell’anarchia delle biografie individuali e nella insignificanza culturale del sintomo nevrotico o psicotico, la crisi riceve data, durata, modo e senso (cioè il quando, il sino a quando, il come e il perché del rito), col duplice risultato di ridischiudere il «tempo libero» dalla crisi, e di far defluire la crisi secondo un piano socialmente e culturalmente significativo (il che rappresenta il valore catartico del rito stesso). Trance, tremolio, glossolalia, ecolalia, ecomimia, digrignar i denti, visioni, in quanto pianificati ritualmente, guidati, ecc. combattono il rischio dello psicopatologico. Dice Mühlmann: «Il culturalizzarsi di manifestazioni in origine largamente psicopatologiche, significa al tempo stesso una certa attenuazione della loro pericolosità, una neutralizzazione dell’atto originariamente individuale e spontaneo... in quanto la imitazione dei membri della comunità accoglie l’atto demonico individuale, lo standardizza e lo tipizza, gli dà il suo placet, lo svelena e gli conferisce l’equilibrio dell’atto culturale-collettivo, unitariamente strutturato, corrente per tutti nel cui decorso ogni volta iterato è già previsto l’esito conclusivo in quanto ritorno al normale» (pp. 278 sgg.). Cfr. a questo proposito H. G. Barnett, Innovation. The Basis of Cultural Change, New York 1953, pp. 110 sgg. e Indian Shakers: A Messianic Cult of the Pacific Northwest, Carbondale 1957. 2.3. L’apocalittica formicola di contraddizioni. Si annunzia prossima la fine del mondo e tuttavia l’attesa non è mai totalmente passiva nella disperazione o nella gioia, ma consente di fatto e talora alimenta orizzonti operativi mondani piú o meno estesi tali da essere in una misura o nell’altra compatibili con la prosecuzione della vita culturale comunitaria nel suo complesso. Si considera l’escaton come soppressione del negativo, come trionfo assoluto del valore, ma non ci si rende conto che ogni valore trae la sua qualifica dalla sua lotta attuale contro la possibilità del corrispondente disvalore, la sazietà contro la fame, la ricchezza contro la povertà, l’amore contro l’odio, la pace contro la guerra, e ancora la bellezza contro il brutto, la verità contro l’errore, il bene contro il male. La fine viene prospettata in un quando piú o meno prossimo e determinato: ma ogni volta che le scadenze restano senza esito la apocalittica si difende dal trarre la logica conseguenza dell’insuccesso della previsione, e ora cerca ragioni che giustificano tale insuccesso, ora ricorre a spostamenti e a rinvii e ora infine riplasma se stessa ritessendo la stessa crisi nella nuova riplasmazione. Queste sono soltanto alcune delle piú vistose contraddizioni in cui resta impigliata la apocalittica,

in cui anzi necessariamente essa si impiglia per mantenersi come tale. Ma se tali «contraddizioni» sono inevitabili, significa che spetta all’etnologo e all’antropologo di rintracciare la logica che mantiene nascoste contraddizioni, che obbliga gli operatori apocalittici a non cavare tutte le conseguenze dagli scacchi profetici e chiliastici. Si tratterà dunque di ristabilire la coerenza storico-culturale di una certa logica operativa implicita nel vario comportamento apocalittico: e questa logica potrà essere raggiunta ricomprendendo nella valutazione tutto ciò che non appare alla consapevolezza degli operatori apocalittici, cioè le motivazioni inconscie, gli inconsci rischi, le inconsce finalità reintegratrici. 2.4. Andreas Lommel, Modern Culture Influences on the Aborigines, in «Oceania», 21 (1950), pp. 14-24 (e, dello stesso, Die Unambal 9, Hamburg 1952, pp. 82 sgg.). Spedizione del Frobenius Institut nel Nord-Est dell’Australia nell’anno 1938, diretta da H. Petri e di cui gli altri componenti erano Agnes Schetz, Gerta Beck-Kleist di Frankfurt am Main e D. C. Fox di New York, Patrick Pentony di Perth (Australia orientale) e Andreas Lommel 10. Le tribú esplorate furono quelle degli Ungarinyin, dei Worora e degli Unambal: la prima già in parte studiata da Elkin 11, la seconda dal missionario Lowe. Petri e Fox si occuparono soprattutto degli Ungarinyin, Lommel degli Unambal. Il rapporto con la cultura occidentale è diversamente graduato per i diversi gruppi. Lommel ne distingue tre fondamentali: a.

Aborigeni viventi in contatto permanente con la cultura occidentale nella fattoria, nella missione e nella stazione governativa. Questi membri hanno adottato vesti, cibi, lingue europei. b. Lavoratori temporanei alla stazione, viventi per metà anno come cacciatori nomadi, al modo dei loro antenati. c. Gruppi ristretti, per lo piú di vecchi, viventi nel retroterra secondo i mores tradizionali ed evitanti il contatto con la cultura bianca. I meno influenzati dal contatto erano gli Unambal, ai quali appartenevano esclusivamente quelli del terzo gruppo. Declino demografico, alterazione dell’equilibrio psichico, disintegrazione dell’organizzazione sociale come risultati del contatto con la cultura bianca. Altro risultato, un nuovo culto, Kuràngara, che si diffondeva rapidamente provenendo da sud. A questo culto

gli Ungarinyin e la maggior parte dei Worora erano stati già iniziati, mentre altri Worora e la maggior parte degli Unambal attendevano ancora di essere ammessi 12. Si trattava di tavolette di legno, a forma di rozzi Tijuringa 13, cariche di potere di cui l’iniziando si appropriava mediante sfregamento su tavolette di dimensioni piú piccole se non voleva soccombere al loro potere: dopo la iniziazione doveva accuratamente purificarsi per evitare che il potere irraggiato dalla sua persona non uccidesse tutti coloro che non appartenevano al gruppo degli iniziati. Petri aveva studiato il Kuràngara nel territorio degli Ungarinyin, dove era già in pieno sviluppo 14; Lommel lo studiò nella sua fase iniziale presso gli Unambal, e quindi in un piú visibile rapporto col culto precedente. Nel vecchio culto, ormai caduto in disuso da almeno una generazione, le tavolette provenivano dalla patria di uno spirito del Nord, chiamato Nguniai, eroe civilizzatore della tribú, inventore di strumenti e leggi, della circoncisione. L’eroe Nguniai aveva foggiato le tavolette di legno, e le aveva ornate. Vaybalma ruba le tavolette e inutilmente inseguito da Nguniai dà le tavolette agli uomini. Nel nuovo mito, le tavolette sono preparate da Tjanba, figlio di Nguniai. Egli migra da nord verso sud, e si ritiene che oggi viva nel deserto a sud, da dove le tavolette Kuràngara stanno venendo. Le tavolette seguono dunque lo stesso cammino di quelle del vecchio culto, ma in una direzione opposta, da sud verso nord. In questo loro cammino raggiungeranno un giorno la regione abitata da Nguniai. Nel momento in cui Nguniai vedrà la prima delle tavolette di suo figlio, cesserà di produrle egli stesso, e allora conclude il mito, la vita sulla terra avrà fine. Il mito Unambal collegato al culto Kuràngara è piú diffusamente illustrato dal Lommel in Die Unambal, ein Stamm in Nordwest-Australien, Hamburg 1952, pp. 82 sgg. Le tavolette Kuràngara sono fabbricate da uno spirito chiamato Tjanba, figlio di Nguniai. Nel tempo mitico, il figlio lasciò il padre e migrò verso sud (o sud-est), finché pervenne nel mitico paese di Warmala. Dal padre il figlio aveva appreso a foggiare tavolette cariche di forza magica e dal padre aveva ricevuto una bacchetta appuntita, chiamata Jinbal, per le pratiche di magia nera. Tjanba, con altri spiriti similari, fabbricano continuamente tavolette Kuràngara, e in parte le inviano agli uomini servendosi di moderni mezzi di trasporto, battelli a vapore, aerei, automobili e treni, in parte gli uomini stessi se li debbono andare a prendere,

organizzando una spedizione che si conclude con un colpo di mano e con il furto delle tavolette. I ladri però hanno cura di lasciare i legni Kuràngara femminili: i quali però, ciò malgrado, raggiungeranno un giorno gli uomini. Quando il Tjanba invierà agli uomini tavolette femminili, sarà questo il segno che la fine del mondo non sarà piú lontana. Subentrerà una nuova legge, le donne avranno tutto il potere, gli uomini dovranno esercitare le occupazioni delle donne, i rapporti sessuali diventeranno rari e solo a discrezione delle donne, e diventeranno rischiosi a causa della potenza magica conferita alle donne dalle tavolette. Proprio per evitare ciò gli uomini non prendono le tavolette femminili. Tjanba si accorge del furto e li insegue senza successo. Secondo altre versioni è lo stesso Tjanba a inviare le tavolette e a diffonderle tra gli uomini. La diffusione avviene da sud verso nord, e quindi inevitabilmente le tavolette raggiungeranno la sede del padre di Tjanba, cioè Nguniai. Quando il primo Kuràngara giunge nella regione di Nguniai, il piú prossimo vicino di Nguniai lo prende e lo sotterra in una regione solitaria, dove però Nguniai lo trova andando a caccia. Il Kuràngara è per Nguniai come una bacchetta-messaggio del figlio. Nguniai palpa la tavoletta e «comprende» ciò che significano i suoi ornamenti: da quel momento né il padre né il figlio fabbricheranno piú tavolette: la fine del mondo e della vita sopraggiunge da quel momento, tutto cessa. Da osservare d’altra parte che Tjanba viene raffigurata come di pelle chiara, simile a quella dei bianchi, sulla testa ha corna come un toro, vive in una casa sul tipo di una stazione dei bianchi. A caccia usa legni Kuràngara come arma: li appoggia sulla spalla, punta sulla preda, lampeggia e tuona, la terra trema, e molti canguri cadono morti al suolo. I Tjanba gradiscono farina, zucchero, tè, e attraverso i loro Jinbal, trasmettono malattie come la lebbra e la sifilide, che deriverebbero da erbe velenose che crescono intorno alle case dei Tjanba. Il culto richiede esuberanti banchetti con tè, zucchero, farina, carne (ma non di animali indigeni). «Modern culture is received by these primitives as something real but as a mythical ghost or a figure. This figure is a personification of all the factures of modern culture known to the aborigines. At the same time it retains features of the old mythical ghosts. Thus modern culture is assimilated to a certain extent to the old ideas in imagination», Lommel, in «Oceania», 21, 1950, p. 21.

Il culto è diretto da un capo (boss), le tavolette sono conservate da un chierico (clerk), sono annunziate da un postino (mailman), e l’ordine e la disciplina durante le cerimonie sono custoditi da un pyckybas (police-boy). L’assegnazione di «sogni di bambini». Serpente mitico Ungud, da cui Wondjna = pioggia e fertilità, Ungud e Wondjna creano spiriti di bambini, che sono poi ritrovati nel sogno e comunicati alla moglie: ma ora i sogni non vengono piú, il sonno dopo la fatica a servizio dei bianchi è troppo pesante, le apparizioni dell’uomo bianco, di aeroplani e navi turba l’equilibrio psichico degli aborigeni (p. 17). 2.5. Andreas Lommel, Die Unambal, Hamburg 1952, p. 86. Una determinata danza, chiamata maui, riflette un ulteriore grado di sviluppo del mito, nel quadro del mito di Tjanba. «Maui è già un primo apparire del leggendario predominio delle donne, che nel mito di Tjanba subentra poco prima della fine del mondo». La danza, eseguita da donne ma a cui debbono partecipare anche uomini, diffonde fra gli uomini ancora ulteriormente il «veleno» che appartiene al Kuràngara. Per quanto la danza maui non sia ancora praticata dagli Unambal, tuttavia essa è già narrata e indigeni che hanno viaggiato verso il sud affermano di avervi preso parte. Lommel, in «Oceania», 21, 1950, p. 24: «Kuràngara e l’avvicinarsi del culto Maui sono considerati come dannosi e concentrano gli aborigeni sull’imminente futuro ritenuto come la fine di ogni cosa vivente». Può darsi che un mito escatologico abbia fatto parte delle tradizioni aborigene, ma ora «the approach of modern culture with so many fateful elements accompanying it certainly makes the aborigines concentrate on the end of the world» 15. Sempre in «Oceania», p. 24: «Gli informatori Unambal, che erano profondamente impressionati dell’avvicinarsi della fine del mondo, mi dissero che essa sarebbe stata annunziata dall’arrivo di diverse tavolette Kuràngara inviate dalla moglie di Tjanba...» (ne sarebbe seguito un rovesciamento dell’ordine sociale dei due sessi). «I miei informatori usavano parlare di questi inevitabili eventi con seria apprensione, e collegavano ciò con l’arrivo di un culto che stava per giungere da nord, ma che alcuni già dicevano di conoscere nei suoi tratti essenziali». Il senso della fine come perdita di un certo sistema di valorizzazione del mondo sotto la spinta del rapporto con la cultura occidentale si riflette nei seguenti tratti:

1) Gli uomini bianchi, e la loro cultura, sono miticamente riplasmati nella figura di Tjanba, e della sua comitiva di spiriti. Tjanba è ricalcato sulla figura dell’eroe incivilitore tradizionale, Nguniai, appreso nel mito come suo figlio. Ma Tjanba è un Nguniai di segno mutato, e di segno mutato appaiono i caratteri mitici corrispondenti: – Nguniai padre - Tjanba figlio; – Nguniai nord - Tjanba, sud, zone desertiche; – Magia - magia distruttiva, potere di morte, di cui ci si può tuttavia impadronire. – Tavolette di Nguniai viaggianti da nord verso sud. – Tavolette di Tjanba viaggianti da sud verso nord, e fine del mondo quando il circuito sarà compiuto. 2) La catastrofe ancora evitata nel mito Kuràngara della diffusione delle tavolette femminili, avanza col culto Maui. 2.6. Rinvio, spostamento, ritardo della parusia. Scacchi degli annunzi apocalittici. Da Mühlmann, 1964 16, pp. 275 sgg. Le profezie chiliastiche fallite non costituiscono la fine del movimento profetico. Ronald Knox (Christliches Schwärmertum, trad. dall’inglese di P. Havelaar e A. Schorn, Köln 1957), p. 132, ritiene addirittura che «tutti i movimenti chiliastici sono sopravvissuti alla non realizzazione delle loro profezie». Mühlmann osserva che l’affermazione di Knox è da correggere in due sensi, e cioè nel senso che non tutti ma la maggior parte dei movimenti sopravvivono alla delusione che accompagna la profezia non realizzata, e anche nel senso che tale sopravvivenza avvia il movimento a una trasformazione in setta o Chiesa istituzionalizzata. Ciò sembra provato anche da una ricerca sperimentale di psicologi e sociologi americani a proposito dei Seekers (si veda la ricerca di Festinger, Riecken e Schachter 17). La reazione del credo quia absurdum permette al gruppo di sopravvivere e di consolidarsi o addirittura di espandersi, ma mercé una istituzionalizzazione che tende a irrigidire la vita religiosa immediata, nel suo aspetto piú vibrante. Mühlmann ricorda inoltre, a ulteriore conferma di questa tesi, come le origini del Cristianesimo e dell’Islam furono chiliastiche, ma poi le due religioni si costituirono in saldi sistemi istituzionali, mentre l’elemento chiliastico operò sempre di nuovo come fermento periodicamente affiorante. E aggiunge: «In quale modo si vengono aggiustando al rinvio della parusia le comunità che vivono ancora

nella condizione dell’attesa della fine non è stato ancora sufficientemente studiato per quanto concerne la sua importanza in vista della crescente istituzionalizzazione» (p. 276 18). La Roma pagana proibí gli scritti sibillini profetanti la fine dell’impero romano, il Cristianesimo, che in Seconda lettera ai Tessalonicesi, 2.8 e ancora con Lattanzio, considerava Roma come forza che trattiene la parusia, assumerà come simbolo proprio Roma, la Roma papale: la quale proibí gli scritti di Lattanzio. Commenta Mühlmann: «Non si potrebbe indicare in modo piú chiaro la vittoria della istituzione sul contenuto chiliastico elementare» (p. 277 19). Osservazioni. Si ravvisa in questa tesi del Mühlmann la ricorrente improprietà degli schemi sociologici quando non siano consapevoli dei loro limiti di impiego. Si avverte la mancanza di analisi che sorprendano le apocalissi culturali in atto di difendersi dal rischio delle apocalissi psicopatologiche; sembra tuttavia che Mühlmann intravveda il problema (come le comunità superano lo choc del fallimento profetico?), ma occorre avvertire che il problema non è esattamente impostato, perché si tratta sempre di una attesa operativa, che dischiude un certo orizzonte operativo mondano, almeno nella misura in cui è combattuta la recessione psicopatologica. 2.7. Ipotesi di lavoro. Il crollo del mondo nel mondo primitivo assume il carattere di una minaccia o di una punizione per qualche alterazione introdotta dagli uomini nella rigorosa ripetizione dell’ordine fondato nelle origini mitiche. Lí dove la coscienza culturale si orienta verso il riassorbimento della proliferazione del divenire in una identità fondatrice che il rito come il costume iterano indefinitamente, il mondo crolla come minaccia e come punizione perché tale riassorbimento non ha avuto luogo. Quando la trasgressione dell’ordine, come nel caso della colonizzazione bianca o della deportazione degli schiavi dall’Africa in America, investe i singoli o i gruppi, l’esperienza del crollo o la profezia di una imminente catastrofe fanno la loro comparsa. Il mondo primitivo si mantiene, è operabile, in quanto è vissuto dalla coscienza culturale come un mondo delle origini che si ripetono cerimonialmente; il mondo è stato fondato «una volta» e il rito sempre di nuovo lo riconduce e lo trattiene in quell’ordine di fondazione. In tal modo il divenire è occultato, appartiene non alla coscienza culturale egemonica, ma piuttosto alla coscienza subalterna, che intanto «sta nella storia» (e quindi innova, decide,

si adatta alla mutevole realtà esistenziale) in quanto vela la storicità nella metastoria mitica. La inalterabilità dell’ordine del «mondo», il mondo che non tollera innovazioni, iniziative, modifiche umane perché innovazioni, iniziative, modifiche della tradizione farebbero crollare il mondo, il suo ordine. Ciò ovviamente non significa che innovazioni, iniziative, modifiche non avvengono, ma significa soltanto che esse possono aver luogo solo se mascherate nella loro storicità. Nulla è piú estraneo al pensiero mitico della teorizzazione della Einmaligkeit storica: la Einmaligkeit mitica è metastoria fondatrice, esemplare, e alla sua ombra protettiva può essere attraversata la Einmaligkeit storica. Solo con la rottura di questa campana di palombaro in cui il primitivo è immerso nell’oceano della vita, il futuro diventa tema culturale: ma per dar luogo all’annunzio della catastrofe e per trasformare lo stregone in «profeta» o in «messia». Le scienze religiose hanno variamente messo l’accento da tempo sul tema delle origini nella coscienza mitico-rituale, cioè sul tema di un’epoca primordiale e inaugurale, in cui enti numinosi variamente qualificati (esseri supremi, dèi, eroi, culturali, Heilbringer) hanno fondato l’ordine naturale, sociale e rituale vigente, il quale poi intanto si mantiene nel tempo concreto in quanto l’epoca primordiale di fondazione è sempre di nuovo riattualizzata da operatori rituali che ripetono i gesti inauguratori, fondatori e ordinatori degli operatori mitici delle origini. [...] Il problema si pone nei seguenti termini: nelle società tradizionali, nelle quali il lavoro risulta diviso per sessi e per età (maschio-femmina, giovaneanziano), l’autonomia dalla condizione naturale nella produzione dei beni economici non va oltre le tecniche della raccolta e della caccia, della pastorizia nomade, dell’agricoltura primitiva, la storicità del divenire, l’iniziativa individuale, il mutamento, l’innovazione debbono essere occultati alla coscienza, e ridischiusi attraverso tale occultamento. Si «può» stare nella storia come se non ci si stesse, cioè i comportamenti sono appresi nella coscienza culturale egemonica come ripetizione cerimoniale di un ordine paradigmatico fondato una volta per sempre in illo tempore. Lo stesso futuro è riassorbito, attraverso la divinazione, in modelli mitici dell’accadere. La fine del mondo appare, in questa prospettiva, unicamente come crollo di tale regime protetto (colpe rituali, infrazioni di tabú, impossibilità di riattualizzare sempre di nuovo nelle cerimonie i simboli mitici di origine e di fondazione).

Ma nella misura in cui con lo sviluppo dell’agricoltura, con l’insediamento, con la differenziazione delle classi sociali, con la nascita delle città e con il complicarsi dell’organizzazione statale, appare nella coscienza culturale egemonica il senso del futuro, l’orizzonte di ciò che accadrà. Nelle civiltà agricolo-pastorali già si delinea una sfera della pianificazione umana che, conquistata nel lavoro (per esempio l’anno agricolo), non può essere occultata alla coscienza. Il riassorbimento del divenire nelle origini mitiche non basta piú, e la storia entra come «escaton» nella stessa coscienza mitico-rituale. 2.8. Storia senza opzioni filosofiche. Che il Guariglia 20 appartenga a una sua propria «corrente di pensiero» e che questa corrente reagisca variamente nella sua ricerca etnologica, in modo esplicito o implicito, tacito o dichiarato, questo è del tutto naturale: e che questa corrente di pensiero sia la Weltanschauung cattolica non pare che possano esserci dubbi. D’altra parte che il Lanternari appartenga a un’altra corrente di pensiero, e la faccia reagire a sua volta nella sua attività di cultore di etnologia religiosa, anche questo mi sembra pacifico. Ogni etnologo, come ogni studioso di scienze sociali, non si sottrae da reazioni del genere, lo sappia o non lo sappia, lo ammetta o lo neghi. Ora, ciò premesso, tutte le polemiche di merito sono legittime, tranne una: quella che fondandosi sulla assurda pretesa di una etnologia al riparo da qualsiasi opzione filosofica, oggettiva o scientifica in quanto cosí riparata, esibisca il merito di oggettività e di scientificità di una data ricerca etnologica perché priva di opzioni filosofiche, e neghi oggettività e scientificità a un’altra ricerca scientifica per il semplice fatto che racchiude tale opzione. È estremamente facile mostrare che, in tutti i casi (nessuno escluso) chi esibisce come oggettiva e scientifica la propria ricerca nel senso dichiarato di ritenerla indenne da qualsiasi opzione filosofica, e rimprovera alla ricerca altrui di essere variamente guastata dalla filosofia, cioè dal vario reagire nel corso della ricerca stessa, da una determinata concezione della vita e del mondo, in realtà è semplicemente inconsapevole di aver fatto reagire nella propria ricerca un certo orientamento di pensiero, scambiando per oggettività e scientificità tale inconsapevole accettazione di criteri filosofici di scelta: cioè, per dire la stessa cosa in parole piú povere, scambiando per oggettività e scientificità ciò che nel migliore dei casi è ignoranza e, nel peggiore, una palese slealtà e una palese ipocrisia (infatti, in dati casi, appare molto duro concedere che la persona in quistione

«non sappia» di usare criteri filosofici, ed è legittimo il sospetto che finga, per ragioni di comodo, di «non saperlo»). 2.9. Helmut Petri, Der australische Medizinmann, in «Annali Lateranensi», XVI , 1952, pp. 159-317 21. Profezie di fine del mondo presso gli yualayi del N. S. Wales, nazione dei Kamilaroi. Mrs Langloh-Parker, a proposito degli stregoni Yualayi (o Euahlayi secondo che scrive Langloh-Parker) – si tratta di una delle tribú della grande nazione dei Kamilaroi – riferisce nella sua monografia Euahlayi-Tribe 22 che tra le loro visioni concernenti il futuro ve ne sono alcune terrorizzanti. Nelle loro pietre magiche essi vedono i neri diventare nel progresso del tempo sempre piú pallidi. Infine appaiono solo i volti imbiancati dei Wundah, i demoni bianchi, e ciò a significare che un giorno sulla terra non vi saranno piú uomini neri. La ragione di questo tragico destino futuro del loro popolo era, secondo i vecchi wirreenun (stregoni) che la tribú si era distaccata dai riti Bora provocando l’ira di Baiame, la divinità del cielo, che furente si era alzato dal suo trono di cristallo sito in Bullimah (= cielo). Baiame avrebbe una volta reso noto che fino a quando gli uomini avessero seguito le sue norme consacrate egli sarebbe rimasto sul suo trono di cristallo e cosí pure i neri sulla terra, e tutto sarebbe stato in ordine. Se però fosse accaduto che gli uomini avessero trascurato i riti Bora, egli se ne sarebbe andato via e questo avrebbe significato la fine. L’umanità sarebbe finita per far posto ai Wundah. Risultato di questa profezia di un prossimo crollo del mondo sarebbe stato che ai tempi di Mrs Parker numerosi neonati meticci furono uccisi, perché in essi i vecchi wirreenun (stregoni-profeti) avevano ravvisato un presagio della prossima fine (p. 315). Petri commenta questi dati ricordando come indipendentemente dalla figura dello stregone e dalla sua illuminazione interiore, «alle tradizioni mitiche di numerose tribú australiane apparteneva o appartiene la convinzione che il mondo permarrà e la vita proseguirà sino a che l’umanità nera seguirà le norme consacrate del tempo mitico» (p. 315). Una persuasione del genere – osserva Petri – si ritrova in questa o quella forma diffusa in tutto il mondo e attraverso tutti i tempi. Ma il particolare modellamento apocalittico che assume tale persuasione in un caso come quello documentato da Mrs Langloh-Parker dipende da una circostanza che è in rapporto con la

colonizzazione bianca. «Poiché dal tempo dell’insediamento dei bianchi in Australia le antiche culture indigene andarono in rovina in maggioranza, e quelle che si potettero ancora mantenere andranno in rovina in un tempo piú o meno breve, non è da stupire se visioni apocalittiche trovarono accesso nel cuore degli indigeni» (pp. 315 sgg.). L’indigeno – prosegue Petri – «è costretto a vedere ogni giorno come i suoi compagni piú giovani e piú anziani del clan o della tribú si distaccano dagli insegnamenti e dalle tradizioni degli antenati per adottare i modi di vita dei bianchi. Egli si rende inoltre conto che la civiltà occidentale non gli porta nessuna salvezza, in quanto non è capace di dargli nessun sostituto per ciò che ha perduto. Egli vede lo stato di disperazione che ne risulta per il suo popolo, il lento ma continuo crollo di ogni impulso alla vita e di ogni volontà di affermazione. Egli vede infine la ininterrotta decadenza fisica della sua razza, che forse è in rapporto causale con la disposizione d’animo generalmente pessimistica. Sempre meno giovani potranno essere resi partecipi negli insegnamenti segreti e sacri del passato mitico, i quali assicurano la continuità della natura e della esistenza umana. Deve cosí necessariamente consolidarsi nel mondo mentale dei neri la certezza che il primordiale avvertimento di un crollo nel caso di un distacco dalla blackfellow-law va ormai incontro al suo compimento. I pallidi spiriti Wundah popoleranno la terra dopo la fine. Una consimile fosca visione del futuro abbiamo imparato a conoscere all’inizio del nostro studio a proposito delle tribú del Kimberley: dopo la scomparsa delle antiche forze Ungud e Wondjna, dispensatrici di vita, gli spiriti Tjanba, stranieri e simili a scheletri, provenienti dal deserto, peregrineranno per la terra morta con i loro passi che non hanno mai riposo. Visioni apocalittiche simili e diversamente elaborate di diverse tribú australiane potrebbero qui essere riportate, ma non intendiamo allontanarci troppo dal nostro tema» (p. 316). Nel territorio settentrionale del Kimberley, Australia del Nord-Ovest – territorio esteso ancora poco aperto alla civiltà bianca, e che ha i suoi confini approssimativi a occidente nei Walcott e King Leopoldo Ranges, a sud nell’altipiano Mount Anges e Mount Hann, a oriente nel Drysdale River e a nord nel Tmor See – vivono le tribú una volta molto forti dei Worora, Ungarinyin e Unambal. A proposito degli Ungarinyin di Walcott-River, Petri riferisce della loro credenza in Ungud (p. 163). Ungud, mitico serpente-arcobaleno, ha il suo camp nella terra o nel

profondo di cave d’acqua. Creatrice del mondo, origine di tutto ciò che sulla terra vive e cresce, essenza numinosa 23 unitaria che all’inizio dei tempi fece sorgere il mondo dal caos originario, trasse dalla terra gli esseri viventi ovvero con la pioggia li inviò sulla terra. Contemporaneamente nome collettivo di numerosi serpenti-arcobaleno Ungud che popolano il sottosuolo, le profondità delle cave d’acqua e il cielo. «Forse dovremo intendere Ungud come personificazioni delle forze locali efficaci della generazione e della fecondità»: ogni singolo Ungud nel territorio clanico che comporta la moltiplicazione degli animali e delle piante, fa le fonti, e ogni Ungud al tempo della pioggia fa fluire l’acqua nell’alveo dei fiumi e nei creeks. Si erge al cielo come serpente-arcobaleno colorato per divorare le piogge, cioè farle finire. Da Ungud procedono i preesistenti bambini-spiriti degli uomini e degli animali, che secondo le teorie concezionali degli indigeni sono trovati da un padre in sogno o in trance ed entrano nel corpo della madre per poi nascere come esseri in carne e ossa. «Tutti gli indigeni sentono Ungud come una forza dell’al di là operante per il bene (fatta astrazione di alcune Ungud locali considerate “cattive”). Soprattutto gli indigeni sanno che da lei dipende il divenire nella natura come anche l’esistenza dell’individuo e della comunità. Ungud conserva il regolare corso dell’esistenza, tuttavia solo sino a quando gli uomini vivono secondo le sue norme cioè finché eseguono ogni anno i riti di moltiplicazione e finché osservano i tabú (nota). Se ciò non avviene allora Ungud manda tutte le catastrofi distruttive delle inondazioni e della pioggia. Può anche accadere il contrario: Ungud muore e abbandona la regione, con la conseguenza che le pitture in roccia si sbiadiscono, le acque si esauriscono, uomini e animali vanno deperendo ogni giorno di piú, le piante si seccano e tutto si trasforma in deserto. Sopravviene un mondo nel quale solo i pallidi spiriti dei morti, tutti ossa, conducono la loro esistenza eternamente inquieta. Se noi consideriamo questo contenuto della credenza nel suo complesso, possiamo stabilire che nel pensiero degli indigeni natura e società umana da una parte, e dall’altra la forza della mitica serpe-arcobaleno Ungud fonte di vita e di fecondità (nel suo duplice aspetto di essenza unitaria e di molteplicità di essenze) sono messi fra di loro in un rapporto di reciproca dipendenza» (p. 165). Ibid., nota 8: la moltiplicazione rituale delle specie, in una forma o nell’altra diffusa in tutta l’Australia, presso gli Ungarinyin e i Worora

consiste prevalentemente in un regolare «ritocco» delle «gallerie» di pitture in roccia, che sono da considerare come veri e propri centri totemistici locali consacrati. Il ritocco si effettua all’inizio della stagione delle piogge, e consiste nell’apporto di nuovo colore fresco alle immagini di Ungud, Wondjna, e alle rappresentazioni delle specie totemiche locali (piante, animali, fenomeni naturali, ecc.). Il ritocco è talora eseguito dal d’òingari (capo) di una band’a-èdin (galleria di immagini). Presso gli Unambal prevalgono gruppi di pietre (d’àla-lo) prevalenti come centri di moltiplicazioni e totemici. È il Talu-Typus di Elkin, diffuso in tutta l’Australia del Nord, e che si trova anche presso gli Ungarinyin, sostenendovi tuttavia un ruolo secondario rispetto al «ritocco» delle gallerie di pitture in roccia. pp. 165 sgg., nota 9: Lo stretto legame fra natura, vita sociale e vita spirituale deve essere considerato come un fenomeno generalmente australiano e come il caratteristico fondamento della concezione totemistica del mondo presso gli australiani. Osservazioni a Petri. Dal modo come si innesta la fine del mondo nella ideologia Kamilaroi sembra poter avanzare le seguenti ipotesi di lavoro: Il «mondo» è, innanzitutto, «ordine», cioè orizzonte operativo possibile del gruppo sociale. Per una collettività che vive di caccia e di raccolta, in un paese in cui i mezzi di sussistenza dipendono in larga misura dalla stagione delle piogge e dal rapido riapparire della vegetazione dopo un lungo periodo di siccità, in un regime di esistenza, in cui l’acqua, sia come pioggia fecondante che come fonte dissetante, sta al centro delle possibilità esistenziali, si comprende come l’ordine sia rappresentato dal serpentearcobaleno: una immagine che unisce in un nodo emozionale altamente pregnante il cielo da cui cade la pioggia e la terra nel momento in cui la pioggia cessa e la vegetazione si appresta a esplodere. Questa immagine esclude, cioè rinvia nel disordine, sia la siccità che l’inondazione: e opera questa esclusione in quanto è un ordine metastorico, fondato in illo tempore e garantito da una forza che, al tempo stesso, siede nel cristallo del cielo e si ripartisce e particolarizza nei vari territori clanici. Senza dubbio l’ordine storico è molto piú problematico, vi può essere siccità o inondazione, le piante possono inaridirsi e gli animali essere in penuria oltre il limite stagionale: ma questa vicenda reale diventa sopportabile e attraversabile nella

misura in cui la storicità è occultata, mascherata, esclusa dalla coscienza culturale dominante. I riti sostengono l’ordine immutabile, ne rinnovano il modello archetipico, ecc. Se i riti non sono celebrati, se Ungud abbandona la sua sede celeste, l’ordine crolla. Il mondo è sostenuto da questa esemplarità di comportamenti che lo riconduce sempre al suo ordine archetipico: il che consente di velare il disordine possibile, mediante un fare rituale che riassorbe sempre di nuovo l’accadere nel suo modello mitico di fondazione normativa. Il rito è il comportamento che riconduce sempre di nuovo il «questa volta» storico a «una volta» metastorica, che è anche «una volta per sempre». Il rito è la forma del comportarsi piú prossima all’ordine immutabile del mito, piú lontana alla mutevolezza del divenire, alla sua novità, imprevedibilità, negatività: infatti il divenire vi appare ridotto al minimo della ripetizione dell’identico: a ogni stagione della pioggia (il «questa volta») si ritoccano le gallerie di immagini rupestri (si riporta il «questa volta» alla «una volta per sempredella fondazione normativa). Questa tematica è molto importante sia per intendere il carattere dell’essere supremo dei primitivi, sia per rendersi conto dello sviluppo delle figurazioni di «fine del mondo» quando l’urto con la civiltà bianca porta con sé la distruzione o la decadenza del tradizionale comportamento mitico-rituale di corrobori 24 del mondo. 1. In tedesco questo prefisso, unito a un sostantivo, lo connota come «originario». 2. Cfr. supra, ne Il progetto, la nota 1. 3. Questa riflessione può valere per De Martino giovane, posto di fronte alle pratiche divinatorie di suo suocero, l’archeologo Vittorio Macchioro. Cfr. G. CHARUTY, Ernesto de Martino. Le precedenti vite di un antropologo, trad. di Adelina Talamonti, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 171214. 4. Frase incompleta. 5. Nell’esegesi biblica medievale, «la razza degli uomini bruti». 6. W. E. MÜHLMANN, Chiliasmus und Nativismus. Studien zur Psychologie, Soziologie und Kasuistik der Umsturzbewegungen [Chiliasmo e nativismo. Contributi per lo studio psicologico, sociologico e storico dei movimenti di rivolta], Dietrich Reiner, Berlin 1961. I riferimenti alle pagine e le citazioni che seguono in questa sezione rimandano a quest’opera. In Francia è stata pubblicata una versione ridotta: Messianismes révolutionnaires du tiers-monde, trad. di Jean Baudrillard, Gallimard, Paris 1968. In quel periodo Mühlmann dirige, dal 1960, il nuovo istituto di sociologia e di etnologia di Heidelberg. Sulla sua adesione alle istituzioni naziste cfr. U. MICHEL,

Wilhelm Emil Mühlmann (1904-1988). Ein deutcher Professor. Amnesie und Amnestie: Zum Verhältnis

von

Ethnologie

und

Politik

im

Nationalsozialismus,

in

«Jahrbuch

für

Soziologiegeschichte», 1991, pp. 69-117. 7. K. JASPERS, Allgemeine Psychopathologie cit. 8. «Menzogna patologica», oppure mitomania. Quest’espressione è introdotta all’inizio del XX secolo dall’alienista Ernest Dupré per descrivere uno dei tratti dell’isteria. 9. A. LOMMEL, Die Unambal. Ein Stamm in Nordwest-Australien [Gli Unambal. Una tribú del Nord-Ovest australiano], Museum für Völkerkunde, Hambourg 1952. 10. Si tratta di una delle prime e piú vaste spedizioni etnografiche nel Nord-Ovest australiano. Uno degli obiettivi era quello di documentare la cultura materiale e le forme d’arte che permettono di stabilire un legame con le pitture rupestri della regione. 11. A. P. ELKIN, The Australian Aborigines. How to Understand Them, Angus and Robertson, Sidney 1938 (trad. it. Gli aborigeni australiani, Einaudi, Torino 1956). 12. Vittorio Lanternari dedica diverse pagine a questo culto, in quanto effetto del «contatto culturale euro-australiano», alla sua tolleranza da parte dei missionari e all’assenza di profetismo locale nelle società di cacciatori: Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano, Feltrinelli, 1960, pp. 217-22. 13. Oggetti cultuali in legno o in pietra, ornati con motivi incisi non figurativi, dei popoli aborigeni del deserto centrale australiano. Materializzano il legame fra individuo e antenati totemici, fra un gruppo locale e il suo territorio. Lévi-Strauss li ha paragonati ai nostri archivi storici. 14. H. PETRI, Kuràngara: Neue magische Kulte in Nordwest-Australien [I Kuràngara: un nuovo culto magico nel Nord-Ovest australiano], in «Zeitschrift für Ethnologie», n. 75, 1950, pp. 43-51. 15. Vittorio Lanternari raccoglie diverse testimonianze di un racconto escatologico precedente il contatto europeo: Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi cit., p. 326, nota 106. 16. W. E. MÜHLMANN, Chiliasmus und Nativismus cit. 17. L. FESTINGER, H. RIECKEN e S. SCHACHTER, When Prophecy Fails. A Social Modern Group That Predicted the Destruction of the World, University of Minnesota Press, Minneapolis 1956 [trad. it. Quando la profezia non si avvera, il Mulino, Bologna 2012]. Cfr. l’analisi di J. FAVRETSAADA ,

Lire «L’échec d’une prophétie», in «Raisons politiques», n. 48, 2012, pp. 13-32.

18. W. E. MÜHLMANN, Chiliasmus und Nativismus cit. 19. Ibid. 20. Allusione alla polemica fra Guglielmo Guariglia, prete cattolico legato alla scuola storicoculturale di Vienna, e Vittorio Lanternari, a proposito di Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi cit. Cfr. D. FABRE e M. MASSENZIO, Préface: l’anthropologie des messianismes

entre France et Italie, in «Archives des sciences sociales des religions», n. 161, gennaio-marzo 2013, pp. 11-24. 21. I riferimenti delle pagine e le citazioni che seguono in questa sezione rimandano a quest’articolo. 22. C. LANGLOH-PARKER , The Euahlayi-Tribe. A Study of Aboriginal Life in Australia, Constable, London 1905. Figlia di un pastore, l’autrice ha vissuto nel Nuovo Galles del Sud, alla fine del XIX secolo. 23. Cfr. capitolo 1, note 11 e 26. 24. Celebrazioni notturne contraddistinte da danze guerriere ed espiatorie.

Capitolo quinto L’apocalisse dell’Occidente

Vi è, infine, una certa quantità di cartelle relative all’esperienza apocalittica nella letteratura contemporanea (a cominciare da Lawrence e Th. Mann, poi Camus, Sartre, Moravia, Pavese). Di questa parte non si vede, per ora, il posto preciso nella struttura dell’opera.

È con questa frase, quanto mai carica di dubbio e di indecisione, che Angelo Brelich conclude nella sua lettera del 16 gennaio 1967 1 la descrizione dei manoscritti de La fine del mondo. Nell’edizione da lei curata, Clara Gallini ha scelto di riunire in un enorme «Epilogo» la massa erratica di questi, e di molti altri appunti inerenti all’antropologia e alla filosofia. Eppure l’unico testo pubblicato da Ernesto De Martino mentre stava attendendo al volume, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, pubblicato nel 1964 nella rivista marxista d’avanguardia «Nuovi Argomenti» e riportato in appendice a questo volume, assegna a questa materia squisitamente letteraria una funzione molto precisa. […] viene innanzi tutto in considerazione ciò che abbiamo chiamato la apocalittica moderna e contemporanea della società borghese in crisi. La elettività di questo punto di partenza, nel quadro di una piú vasta ricerca comparativa, è in rapporto al fatto che della apocalittica d’oggi possiamo parlare in prima persona, cioè in quanto occidentali e in quanto «borghesi» che vivono e combattono i rischi della loro epoca e che sono partecipi di una storia culturale che quei rischi ha maturati. Ciò comporta la possibilità di utilizzare un documento interno di comprensione che soltanto con minore immediatezza è raggiungibile a proposito di altre apocalittiche culturali, come per esempio quella del protocristianesimo o quelle delle grandi religioni storiche o dei popoli cosiddetti primitivi 2.

Ora, la crisi apocalittica della «società borghese» che De Martino identifica in generale con l’Occidente è riscontrabile nelle produzioni contemporanee dell’arte e della letteratura, e piú precisamente nei movimenti

della «modernità», nel senso baudelairiano del termine, sin dalla metà del XIX secolo. Stando alla citazione precedente, lo studio di quest’apocalisse attraverso le opere che ne recano testimonianza dovrebbe venire non alla fine della dimostrazione, ma al suo inizio. È la soluzione adottata da De Martino nell’articolo già citato, quando si accinge d’emblée all’analisi de La nausea, il romanzo di Jean-Paul Sartre. Ma pare che questa scelta susciti presto in lui una forte reticenza, di cui reca traccia la nota 8 dell’articolo: Senza dubbio questo «documento interno», per la sua immediatezza, può esporre al pericolo di incaute generalizzazioni antropologiche e di arbitrarie interpretazioni; ma appunto per questo lo studio delle apocalissi culturali della società borghese in crisi dovrà, nell’ulteriore sviluppo del progetto di ricerca, essere integrato in una piú vasta prospettiva di controllo e di confronto che abbracci le altre apocalissi storico-culturali e i loro corrispondenti rischi psicopatologici 3.

È dunque quasi certo che De Martino abbia seriamente preso in considerazione l’idea di cominciare il suo libro, in un certo senso, in medias res, immergendo il suo lettore nelle espressioni piú moderne e piú note dell’alta cultura occidentale, per poi rinunciarvi adottando il piano dell’opera che noi conosciamo. La ragione di questa rinuncia non è chiara, come non lo era neanche e innanzitutto a De Martino: per questo si dovrà a ogni costo provare a esplicitarla. Al contempo, ci è parso impossibile non conservare l’unità di questo dossier, dato che De Martino vi svolge la sua ricognizione e interpretazione dell’espressione apocalittica occidentale, ovvero lo scopo principale e ultimo di tutto il suo progetto. Cosa contiene questo dossier, al quale abbiamo restituito la natura di capitolo organico? Esso è costituito innanzitutto da una riflessione generale sulla situazione di «crisi» che la cultura occidentale vive ed esprime, soprattutto all’indomani delle catastrofi autodistruttive del XX secolo (Auschwitz, e ancor di piú Hiroshima), che conferiscono a questo malessere la dimensione concreta di una fine del mondo davvero possibile, che la stessa umanità potrebbe provocare. Si tratta ovviamente di una fine totale e definitiva, del tutto estranea all’universo religioso; senza riscatto, senza rifondazione, senza escaton. Questa constatazione non viene solo a De Martino, che su questo argomento concorda con alcuni grandi intellettuali

dell’epoca di cui ha studiato l’opera: Günther Anders, e soprattutto Emmanuel Mounier, ma non Hannah Arendt, che avrebbe potuto ispirarlo altrettanto. Egli conferma questa diagnosi con la nozione, per lui essenziale, di «patria culturale», che esplicita a contrario attraverso due esempi che ben evidenziano le conseguenze distruttrici della sua perdita: il primo è ispirato all’amato poeta meridionale Albino Pierro 4, autore di un poema dell’esilio; l’altro rimanda alla narrazione di un’esperienza vissuta sul campo, in Calabria, alla quale dà la forma letteraria di un apologo – «Il campanile di Marcellinara» – al quale ha lavorato a lungo. Tutto il resto del capitolo si propone di supportare il suo proposito generale attraverso l’analisi di opere specifiche, a volte accompagnate da analisi che ne rivelano e fondano le dimensioni da De Martino definite apocalittiche. Questa esplorazione è il risultato di una scelta che non sappiamo se sarebbe stata confermata fino al compimento dell’opera: privilegiare la letteratura rispetto alle arti plastiche e visive – la pittura, la fotografia e il cinema – riguardo alle quali noi sappiamo sino a che punto la loro rinascita nel dopoguerra aveva interessato De Martino 5. Se sul versante plastico egli si limita a un riferimento al lavoro critico di Hans Sedlmayr, la sua esplorazione della letteratura poggia su un apparato critico solido che gli permette di sviluppare molto piú ampiamente il suo oggetto sul piano storico. De Martino deve soprattutto a Hugo Friedrich e al suo Structure de la poésie moderne (1956) l’identificazione del momento inaugurale della crisi dell’Occidente, ossia la negazione e il compimento del romanticismo realizzati da Charles Baudelaire, Arthur Rimbaud e Stéphane Mallarmé, e, inoltre, l’identificazione dei tre punti di rottura che segnano l’ingresso nella modernità – la dittatura dell’immaginario, la de-personalizzazione (o disumanizzazione), la trascendenza vuota – che esprimono delle forme volte sistematicamente alla rottura: «disintegrazione dei rapporti spazio-temporali, dissoluzione dei legami logici, ricerca cosciente della polisemia e dell’ambiguità, ecc.» 6. Il seguito del capitolo propone degli appunti personali su narrazioni e saggi interpretati come prolungamento o approfondimento di questi concetti: Morte a Venezia di Thomas Mann, Apocalisse di David Herbert Lawrence, La nausea di Jean-Paul Sartre e Lo straniero di Albert Camus, letto attraverso la critica proposta da Sartre, Il mito di Sisifo di Camus, Gli indifferenti, La noia e La disubbidienza di Alberto Moravia, Aspettando Godot di Samuel Beckett, la cui lettura è corroborata dai

riferimenti ad Alain Robbe-Grillet. Nell’insieme, le riflessioni su Lawrence e Sartre sono quelle che occupano piú spazio, ma le opere commentate piú sinteticamente danno comunque luogo a riflessioni acute e pertinenti riguardo all’intento generale del capitolo. Complessivamente, dunque, lungi dall’avere a che fare con un ammasso di appunti privi di una qualche unitarietà, come avrebbe potuto lasciare intendere la descrizione di Brelich, ci troviamo di fronte a un’organizzazione del lavoro già ben articolata. Ma se le cose stanno cosí, perché rinunciare a fare di questo capitolo cosí meditato l’apertura del suo libro? Oggi possiamo probabilmente rispondere, pur con qualche prudenza, che De Martino era di certo consapevole del fatto che la sua scelta di trattare in maniera sintomatica la letteratura lo metteva in una posizione assai instabile, per non dire assolutamente rischiosa. L’apocalisse dell’Occidente si rivela in tutte le sue sfumature nei deliri di fine del mondo che la clinica psichiatrica ha perfettamente identificato. Essa vi appare anzi carica di una memoria culturale di lunga durata, essenzialmente religiosa, come mostra il grande capitolo che egli dedica alla psicopatologia 7. È possibile leggere le produzioni della modernità artistica e letteraria attraverso questa griglia, poiché emergono dei punti comuni. Questo approccio si addice del tutto a Rimbaud, Lawrence o Sartre? Evidentemente no. Se essi danno una forma assai personale a un’esperienza collettiva, non possono per questo essere considerati malati deliranti. Il già citato articolo di «Nuovi Argomenti» torna diverse volte sull’impossibilità di una semplice equivalenza: Manca tuttavia un confronto sistematico e metodologicamente fondato tra le diverse manifestazioni della apocalittica di oggi – non solo nell’arte, ma nella musica, nella poesia, nel romanzo, nel teatro, nella filosofia, nel costume – e la corrispondente documentazione psicopatologica, cosí come manca, in un argomento cosí tipicamente interdisciplinare, l’impiego di chiare formule metodologiche di collaborazione interdisciplinare fra lo storico della cultura e l’antropologo da una parte e lo psichiatra dall’altra 8.

Queste distanze metodologiche ci rammentano che la lettura psicopatologica delle opere letterarie, che va di pari passo con lo sviluppo dell’alienismo e della psichiatria, era di recente giunta a una patologizzazione integrale della condizione del creatore, il piú delle volte legata all’idea di

degenerazione, e che questa identificazione ha portato alla censura e alla repressione 9. Il punto di vista critico sulla modernità artistica e letteraria, brillantemente espresso da Sedlmayr – che fu un protagonista intellettuale del nazismo – o da Friedrich – conservatore dichiarato sul piano estetico – alimenta di certo la lettura clinica delle creazioni culturali dell’Occidente, ma non può portare a confondere creazione e patologia mentale 10. È probabilmente per affermare questa distanza ed eludere il rischio di una confusione 11 che alla fine De Martino ha preferito separare, nell’economia generale del suo libro, i due capitoli che pure gettano luce, entrambi, sull’apocalisse moderna dell’Occidente. Daniel Fabre 1. Lettera indirizzata al professor Bollati. Riprodotta nell’introduzione di questo volume «Tradurre» La fine del mondo di Giordana Charuty. 2. E. DE MARTINO, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche cit., p. 114. 3. Ibid. 4. Uno dei primi testi pubblicati dopo la morte di De Martino è la sua prefazione all’antologia di A. PIERRO,

L’etnologo e il poeta, in Appuntamento (1946-1967), Laterza, Bari 1967, pp. 147-52.

Cfr. anche U. BOSCO, Testimonianze su Pierro, Laterza, Bari 1969. 5. Cfr. G. CHARUTY, Le moment néoréaliste de l’anthropologie démartinienne, in «L’Homme», n. 195-96, 2010, pp. 247-81. 6. Sintesi proposta da Max Milner nel suo prezioso commento dell’opera di Friedrich pubblicato in «Romantisme», n. 16, 1977, pp. 125-26. 7. Cfr. capitolo 2. 8. E. DE MARTINO, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche cit., p. 115. 9. Il tema della degenerazione dell’arte e della letteratura è stato sistematizzato da Max Nordau (1849-1923), autore di Entartung [trad. it. Degenerazione, Piano B, Prato 2009], nonché leader sionista. Evidentemente De Martino conosceva i testi di Cesare Lombroso che portavano nella stessa direzione, in particolare Genio e follia, Hoepli, Milano 1877. 10. Sulla storia di questo rapporto nel XIX secolo, vedi F. GROS, Création et folie, une histoire du jugement psychiatrique, Puf, Paris 1997. 11. Che Gilles Deleuze esplicita chiaramente nel preambolo di Critique et clinique (Les Éditions de Minuit, Paris 1993: «[lo scrittore] trascina la lingua fuori dai solchi abituali, la fa delirare. […] Ma quando il delirio ricade allo stato clinico, le parole non sboccano piú su nulla, non si sente e non si vede piú nulla attraverso di loro, tranne una notte che ha perso la sua storia, i suoi colori e i suoi canti. La letteratura è salute»: G. DELEUZE, Critica e clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano

1996, p. 11.

1. Una apocalisse senza escaton. 1.1. Nella vita religiosa dell’umanità il tema della fine del mondo appare in un contesto variamente escatologico, e cioè o come periodica palingenesi cosmica o come riscatto definitivo dei mali inerenti alla esistenza mondana: si pensi per esempio al Capodanno delle civiltà agricole 1, ai movimenti apocalittici dei popoli coloniali nel secolo XIX e nel XX 2, al piano della storia della salvezza nella tradizione giudaico-cristiana, ai molteplici millenarismi di cui è disseminata la storia religiosa dell’occidente 3. In contrasto con questa prospettiva escatologica, l’attuale congiuntura culturale dell’occidente conosce il tema della fine al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile: una catastrofe, che narra con meticolosa e talora ossessiva accuratezza il disfarsi del configurato, l’estraniarsi del domestico, lo spaesarsi dell’appaesato, il perder di senso del significante, l’inoperabilità dell’operabile. Senza dubbio l’attuale congiuntura culturale dell’occidente non si esaurisce in questo tema disperante e disperato, e anche quando se ne lascia sfiorare o toccare o addirittura investire con soffio di tempesta reagisce variamente al suo mortale richiamo: tuttavia il momento dell’abbandonarsi senza compenso al vissuto del finire costituisce innegabilmente una disposizione elettiva della nostra epoca, del che possono testimoniare molteplici documenti tratti dal costume, dalla letteratura, dalle arti figurative, dalla musica, infine dalla stessa filosofia. D’altra parte il semplice fatto che la catastrofe atomica abbia potuto acquistare ai nostri giorni un rilievo concreto, alimentando il correlativo terrore, mostra come il rischio della fine, molto prima di diventare possibilità di autodistruzione materiale mediante l’impiego della potenza tecnica dell’uomo, affonda le sue radici negli animi, accennando a una catastrofe molto piú segreta, profonda e invisibile di quella di cui il fungo di Hiroshima ha offerto in scala ridottissima l’immagine reale. Sarebbe certamente

altamente desiderabile che di questa piú intima catastrofe dell’occidente moderno e contemporaneo qualcuno si decidesse a offrire il panorama in una prospettiva rigorosamente diagnostico-culturale, atta a individuare l’esatto significato dei sintomi, l’estensione del contagio, il condizionamento della malattia, le forze della guarigione. Un progetto del genere non potrebbe trovare esecuzione senza un continuo confronto tra il tema della fine nell’attuale congiuntura culturale e il tema della fine in prospettiva escatologica, cioè tra un finire vissuto come catastrofe in atto e un finire culturalmente riscattato come annunzio di una palingenesi dell’esistenza. 1.2. Se si vuole illustrare attraverso un esempio il valore euristico che spetta alle apocalissi psicopatologiche nello studio storico e antropologico delle apocalissi culturali, viene innanzitutto in considerazione ciò che abbiamo chiamato l’apocalisse senza escaton dell’occidente moderno e contemporaneo. Già il solo fatto che la Stimmung 4 apocalittica sia polemicamente caratterizzata «senza escaton» denota quanto essa appaia nuda crisi e quanto perciò sia elettivamente preparata a essere illuminata dal documento psicopatologico. Proprio perché fra tutte le apocalissi culturali essa appare piú di tutte le altre rischiosamente prossima alla crisi radicale dell’umano, la apocalisse senza escaton dell’occidente si presta in modo elettivo a illustrare il valore euristico del documento psicopatologico. 1.3. La letteratura moderna è variamente dominata dal tema apocalittico. Ora questo tema può interessare in una prospettiva critica o scientifica da diversi punti di vista, ma qui a noi interessa unicamente come documento di costume e come sintomo di crisi. La nausea o la noia o l’assurdo o l’incomunicabilità, la catastrofe della figura o della melodia a noi interessa soltanto come clinici della cultura, che intendono partecipare a un consulto decisivo. Senza dubbio non si tratta della concezione oggettivistica della malattia, che da una parte pone il medico sano e, dall’altra, il malato: qui il medico che lotta contro il morbo lo deve vincere prima di tutto in se stesso, e il malato è anche colui che deve guarire e che accoglie in sé forze guaritrici in atto. Il mondo in quanto sfondo familiare, domestico, appaesato, ovvio, normale, abitudinario sta come indice di possibili percorsi operativi in cui vivono la operosità umana di millenni, le plasmazioni utilizzatrici maturatesi in evi di tradizioni, e infine la biografia del singolo sino alla situazione presente: per questa multanime e corale risonanza di sforzi comunitari

tradizionalizzati e trasmessi il mondo acquista inauguralmente un fondamentale senso di operabilità, e il familiare, il domestico, ecc. non vogliono altro dire che questo: avanti, non sei solo, non sei il primo, non sei l’unico, ma stai in una immensa schiera che marcia, e che solo per una parte infinitamente piccola è composta attualmente di viventi 5. 1.4. La «crisi» nelle arti figurative, nella musica, nella narrativa, nella poesia, nel teatro, nella filosofia e nella vita etico-politica dell’occidente è crisi nella misura in cui la rottura con un piano teologico della storia e con il senso che ne derivava (piano della provvidenza, piano dell’evoluzione, piano dialettico dell’idea) diventa non già stimolo per un nuovo sforzo di discesa nel caos e di anabasi verso l’ordine, ma caduta negli inferi, senza ritorno, e idoleggiamento del contingente, del privo di senso, del mero possibile, del relativo, dell’irrelato, dell’irriflesso, dell’immediatamente vissuto, dell’incomunicabile, del solipsistico, ecc. Che l’occidente senta una profonda esigenza di un bagno nella vita e che questa esigenza testimoni del suo tentativo di riabbracciare una vitalità che gli sfugge, è comprensibile in un’epoca di crisi, di senilità, di smarrimento. Ma se non si può prescrivere in astratto di quanto occorra perdere il mondo ordinato per ricondurlo di nuovo all’ordine, ciò che importa è che la ripresa avvenga, quale che sia il livello cui si deve scendere per tale riprendere: avvenga, cioè, la ripresa verso la forma, verso i valori, verso l’ordine intersoggettivo, comunicabile, umano. Sussiste tuttavia il pericolo, nell’attuale congiuntura culturale, di molte catabasi senza anabasi 6: e questo è certamente malattia. 1.5. [Ci si riferisce] «alle cose stesse», alla immediatezza della vita, ai momenti zen, all’attività miocinetica, ecc. ecc. ma questa disperata nostalgia delle cose stesse che altro esprime se non quella malattia degli oggetti 7, anzi della stessa oggettivazione, che è la fine del mondo? Ed è di questa malattia che dobbiamo innanzitutto parlare. L’arte è un modo di recuperare gli eventi minacciati dall’irrigidimento e dal caos, ed è quindi un modo di curare e di guarire il sempre possibile ammalarsi degli oggetti. Ma questo recupero, secondo le varie temperie storiche e secondo le varie congiunture culturali, si compie a vari livelli: se nell’arte vi è sempre un momento di discesa agli inferi, cioè sino al piano in cui l’oggetto è in crisi, non può essere stabilito una volta per sempre di quanti gradini è lecito scendere per compiere poi la anabasi. Ciò che importa è che il piano sia raggiunto e che l’anabasi si compia (sia comunicabile,

intersoggettiva, reintegratrice), di guisa che l’opera singola consenta di leggere questa vicenda. Ciò che importa è che il momento della discesa non sia scambiato con la liberazione, e che la caccia spietata alla «malattia degli oggetti», non sia esibita come guarigione o idealeggiata proprio in quanto malattia. In questa prospettiva è possibile giudicare la cosiddetta «arte contemporanea», che non è da condannare perché si è allontanata dal naturalismo e ha consumato la catastrofe della figura. Questi son giudizi di estrema rozzezza: in realtà l’arte figurativa del rinascimento non aveva bisogno di scendere molto in basso per recuperare oggetti ed eventi, e per compiere l’anabasi verso la forma, mentre l’arte contemporanea deve raggiungere livelli molto piú profondi per tentare la catarsi. D’altra parte questo carattere dell’arte contemporanea costituisce un documento di quanto profonde siano le radici del male, di quanto grave sia il pericolo della fine del mondo. Il disordine, la indeterminazione, la complementarità, la probabilità, la casualità, il relativismo culturale; questo e altro segnano la fine di un certo concetto di ordine mutuato alla teologia, e da questo passato all’idealismo e allo scientismo positivista (riflettendosi anche sul marxismo soprattutto attraverso la mediazione engelsiana). Ma la cultura è ethos ordinante: e il disordine, la indeterminazione, ecc. stanno non come ideale ma come limite interno e come ironia di ogni progetto culturale di unificazione del mondo, limite e ironia che garantiscono la storia, cioè la inesauribilità della progettazione ordinatrice. Neugier, brama insaziata e insaziabile del nuovo, curiosità pettegola e struggente, delirante ricerca di una «comodità» che vinca per sempre lo stato di disagio, tempo fragoroso della tecnica feticizzata a cui segue il vuoto incolmabile del tempo libero e dei «passatempi», continua generazione e distruzione dei piccoli paradisi artificiali della moda, spasmo del successo e del prestigio, stolido senso di esser-gettati-nel-mondo, romanzi gialli, folle sportive, arte «moderna»: «Verse-nous ton poison pour qu’il nous reconforte | nous voulons, tant ce feu nous brûle le cerveau, | plonger au fond du gouffre, Ciel, Enfer qu’importe, | au fond de l’inconnu pour trouver du nouveau!» 8. La lotta contro il «normale», il «domestico», il «familiare», l’«abituale» caratterizza in modo eminente la congiuntura culturale moderna e contemporanea manifestandosi nell’arte, nella poesia, nella filosofia, nel costume. L’anormale, lo spaesato, l’estraneo, il mostruoso, il gratuito senza

senso attuale, il convenzionale e il meccanico stanno come argomento centrale della cultura in tutte le sue manifestazioni. Ma occorre ricordare che la quotidianità non è necessariamente volgare, ma lo diventa soltanto se norme, atmosfere domestiche e familiari, abitudini vengono perdendo la segreta carica affettiva di fedeltà a concrete valorizzazioni del mondo comunitariamente raggiunte e trasmesse nel corso delle generazioni e degli evi. 1.6. Due antinomici terrori governano l’epoca in cui viviamo: quello di «perdere il mondo» e quello di «essere perduti nel mondo». Per un verso si teme di perdere, non tanto con la morte ma nel corso stesso della esistenza, lo splendore e la gioia della vita mondana, l’energia che sospinge verso i progetti comunitari della vita civile, verso la tecnica e la scienza, la solidarietà morale e la giustizia sociale, la poesia e la filosofia; per un altro verso si considera il mondo come pericolo che insidia il piú autentico destino umano, e quindi come tentazione da cui salvarsi. Da una parte il mondo appare come un paradiso perduto di partecipazioni vissute, e si maledice la tecnica e la scienza che ci hanno dato in cambio di Helios lo stupido sole dell’astronomia 9, dall’altra la catastrofe appare proprio nel volersi chiudere nell’orizzonte mondano, senza presentimento o speranza o fede in un «altro» mondo; chiusura e angustia per cui anche il mondo della terrena esistenza è destinato a sprofondarsi, esaurendo nel nulla il suo dissennato slancio prometeico. E ancora: la «fine del mondo» ora si ricollega alla tradizione giudaico-cristiana della fine di questo mondo e dell’avvento del Regno, ora si presenta nei termini laici e mondani della fine di un certo particolare mondo storico (la fine della civiltà borghese), e ora infine si orienta verso un nullismo piú o meno disperato che, nelle sue forme estreme, quasi sembra toccare i confini della psicopatologia. 1.7. Hiroshima, duecentomila morti in un istante, per opera di un solo uomo, Eatherly. Sei milioni di ebrei assassinati secondo un piano amministrativo, di cui Eichmann era il ragioniere. Günther Anders dice che eventi simili sono inimmaginabili, e non consentono perciò il pentimento, la riparazione morale 10. Infatti Eichmann continua i suoi compiti, come allora, anche se adesso per difendersi in un tribunale; e Eatherly ne è uscito con la mente sconvolta. Una volta nella storia fu possibile immaginare il dolore non di duecentomila o di sei milioni di persone, ma di tutti gli uomini nel passato, nel presente e nel futuro, e questa immagine si chiamò Cristo: patí per tutti e

rigenerò tutti sulla croce, ma come Uomo-Dio, non come solo uomo. Ora c’è da chiedersi se occorre proprio l’immagine del Dio-Uomo per immaginare in modo adeguato la condizione umana e le tentazioni subumane che la travagliano, e se non è giunta l’epoca in cui basta l’immagine reale di un solo volto umano in sofferenza, non di duecentomila o di sei milioni di volti umani, per illuminare il senso preciso del nostro semplice dovere e per arrestare il dito che preme il bottone. Quando la tentazione vi prende di premere quel bottone – e si cade nella tentazione anche ammettendo che qualche altro un giorno dovrà premerlo «se necessario» –, quando siete vittima di questa tentazione ricordate non i duecentomila di Hiroshima o i sei milioni di ebrei, ma un solo volto umano in dolore, qualche volto concreto di persona che avete amato e avete visto soffrire, qualche bambina lacera e piangente che avete incontrato per via, una volta, il tal mese, il tal giorno della vostra vita: ricordate – non «immaginate» – questo episodio minuto, irrilevante, che altre volte vi è sembrato «sentimentale», e di cui avete magari provato «vergogna» come di una «debolezza»; e se non vedete in quel volto tutti i volti, e il vostro stesso, o se avete bisogno ancora di Cristo per questo ricordo, o se addirittura non ricorderete nulla, o se direte che è segno di virilità non ricordare in questo momento, allora qualcuno oggi o domani, forse voi stessi, premerà il bottone 11. La «guerra nucleare» è una breve catena di delitti veramente perfetti, che nessuno scoprirà mai per la semplice ragione che nessuno resterà per scoprirli, o nessuno potrà farsene giudice, scagliando la prima pietra. «Io non sono un uomo, sono una dinamite». La guerra nucleare è la fine del mondo non come rischio o come simbolo mitico-rituale di reintegrazione, ma come gesto tecnico della mano, lucidamente preparato dalla mobilitazione di tutte le risorse della scienza nel quadro di una politica che coincide con l’istinto di morte. 1.8. Le patrie culturali. La natura in sé. Il mondo moderno è diventato particolarmente sensibile ai problemi sollevati dalle diverse patrie culturali e dai loro rapporti proprio perché viviamo in un’epoca di migrazioni, di incontri e di confronti, e quindi anche di patrie culturali, esposta improvvisamente alla dura prova cui accenna il mito Aranda e che i gruppi Bambara vissero nei sobborghi di Accra 12. Fra le poesie che Albino Pierro, poeta lucano di Tursi, ha recentemente pubblicato a

Roma, dove egli conduce da alcuni anni la spaesata esistenza di emigrato, ve n’è una che tradotta dal natio dialetto in italiano suona press’a poco cosí: «Lo porto scritto in faccia come brucio dentro. Come debbo fare, Madonna mia, come debbo fare? Ho lasciato il paese che mi dava il respiro del cielo e adesso, in questa città, mi sbattono sul muso soltanto i muri, m’infestano brulicando le cose e tante grida come un vermicaio. Io quasi quasi mi spauro se mi volto intorno: mi pare che gli occhi della gente mi colpiscano a pietrate e quando si fa giorno mi s’imbrogliano i piedi in una fune che stringe piú forte di una mano. Come debbo fare, Madonna mia, come debbo fare? Adesso manca il respiro a questo povero cuore spaurito e pesa piú del mondo la maschera che mi metto per non sembrare piú agli altri una rovina» 13. Ma è poi la crisi delle patrie culturali un fenomeno che riguarda soltanto i non occidentali o i non sufficientemente occidentalizzati, i primitivi, gli emigranti provenienti da zone sottosviluppate, insomma sempre gli altri e mai noi? Basterebbe pensare a certi temi ricorrenti nella varia letteratura esistenzialistica per esempio alla «nausea» di Sartre o alla «malattia degli oggetti» di cui parla Moravia nella Noia per rendersi conto come spaesamento e inoperabilità del mondo costituiscono rischi che minacciano anche la nostra patria culturale, cosí come anche nostro in misura forse mai avvertita come oggi è il compito di rimodellare questa nostra patria in modo da rendere il mondo significante e abitabile. Cesare Pavese senza essere un meridionale immigrato a Torino portava con sé il fantasma della sua infanzia di Santo Stefano Belbo, e proprio per questa ininterrotta e rigerminante memoria si volse a un certo momento alla lettura di libri etnologici e finché resse alla prova ne trasse argomento di poesia 14. Il punto centrale resta tuttavia questo, di reggere alla prova, di rimodellare sempre di nuovo, con l’opera valorizzatrice, la domesticità del mondo. Qui ci sembra che l’ideale scientifico di considerare gli uomini come formiche si trasformi nel messaggio profetico di una umanità che si ridurrà inevitabilmente a una sorta di formicaio; nel miraggio cioè, di una umanità che avanza fatalmente verso una apocalisse, senza escaton, del mondano e dell’umano. Da un discorso che sembrava diventato esclusivamente metodologico siamo cosí inaspettatamente ricondotti al terreno della apocalittica, ma questa volta di una apocalittica non religiosa nella quale si trova insidiosamente coinvolta una parte non certo irrilevante della cultura occidentale. Il problema dei profetismi e degli escatologismi del terzo mondo

ci porta dunque molto lontano se siamo veramente disposti a una ricerca che metta in causa noi stessi in quanto ricercatori occidentali 15. Non basterà quindi il confronto dei movimenti profetici ed escatologici del terzo mondo con la grande tradizione apocalittico-escatologica giudaico-cristiana, poiché entra in gioco anche il confronto con quella insidiosa apocalittica occidentale che è caratterizzata dalla perdita di domesticità e di senso del mondo, dal naufragio del rapporto intersoggettivo, e dal minaccioso restringersi di qualsiasi orizzonte di un futuro operabile comunitariamente secondo umana libertà e dignità. 1.9. Il campanile di Marcellinara 16. Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada calabrese. Non eravamo sicuri della giustezza del nostro itinerario, e fu per noi di sollievo imbatterci in un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, ma le sue indicazioni erano cosí confuse che lo pregammo di salire in auto e di accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: lo avremmo compensato per il disturbo. Accolse con qualche diffidenza la nostra preghiera, come temesse un’insidia oscura, una trama ordita ai suoi danni: forse lontani ricordi di episodi di brigantaggio dovevano affacciarsi nella sua immaginazione. Lungo il breve percorso la sua diffidenza aumentò, e si andò tramutando in vera e propria angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista familiare del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo minuscolo spazio esistenziale. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e a tal punto si andò agitando mostrando i segni della disperazione e del terrore, che decidemmo di riportarlo indietro, al punto dove ci eravamo incontrati. Sulla via del ritorno stava con la testa sempre fuori del finestrino, spiando ansiosamente l’orizzonte per vedervi riapparire il domestico campanile: finché quando finalmente lo rivide, il suo volto si distese, il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta. Giunti al punto dell’incontro, ci fece fretta di aprirgli lo sportello, e si precipitò fuori dell’auto prima che fosse completamente ferma, selvaggiamente scomparendo in una macchia, senza rispondere ai nostri saluti, quasi fuggisse da un incubo intollerabile, da una sinistra avventura che aveva minacciato di strapparlo dal suo Lebensraum 17, dalla sua unica Umwelt possibile, precipitandolo nel caos 18. Anche gli astronauti, da quel che se ne dice,

possono patire di angoscia quando viaggiano nel silenzio e nella solitudine degli spazi cosmici, lontanissimi da quel «campanile di Marcellinara» che è il pianeta terra: e parlano e parlano senza interruzione con i terricoli non soltanto per informarli del loro viaggio, ma anche per aiutarsi a non perdere «la loro terra». Ciò significa che la presenza entra in rischio quando tocca i confini della sua patria esistenziale, quando non vede piú «il campanile di Marcellinara», quando perde l’orizzonte culturalizzato oltre il quale non può andare e dentro il quale consuma i suoi «oltre» operativi: quando cioè si affaccia sul nulla. 1.10. Mounier. La tesi fondamentale di Mounier 19 è che l’apocalisse moderna, a differenza di quella cristiana, sia dell’età apostolica sia dell’anno 1000, è «torturante» senza orizzonte, morbosa, un vero e proprio mal du siècle. È il rovescio del prodigioso tecnicismo contemporaneo, le cui costruzioni sono apprese come poggiantisi sull’abisso, e sono avvertite come estremamente fragili. L’apocalisse moderna «ne naît pas d’une prophétie profondément optimiste, mais d’un désarroi général des croyances et des structures» (p. 350). La apocalisse moderna nasce dal crollo «delle due grandi religioni del mondo moderno, il Cristianesimo e il razionalismo» (ibid.). «Senza entrare in merito circa il valore e la durata di questo crollo, mi limito a constatarne la estensione sociologica. Dove, appena un secolo fa, su cento uomini la maggioranza professava la verità cristiana, e la maggior parte degli altri credenti credevano fermamente nell’infallibilità senza limiti della ragione sostenuta dalla scienza, oggi è possibile contare un dieci per cento di credenti cristiani, e non so se la proporzione dei razionalisti convinti sia molto piú alta. D’altra parte le nostre strutture economiche e i nostri quadri sociali denunziano ogni giorno il loro anacronismo, la loro impotenza, l’assurdità della loro persistenza. Disorientato in questo campo, senza appoggio, l’uomo del XX secolo, si sente nei due sensi della parola perduto in un universo che ogni giorno diventa nello stesso tempo sempre piú distruttivo e sempre piú insignificante. Di qui tutte quelle descrizioni che i filosofi mettono in forma senza poter far a meno, per esprimere il nuovo terrore, di alcune formule che somigliano a gridi piú che a elucidazioni: l’uomo è solo, deietto, per nulla, in un mondo assurdo, sans rime ni raison. Esso è di troppo, tutto è di troppo, e vi dà la nausea» (Il est de trop, tout est de trop, à vous

donner la nausée» (ibid.). Esso ha certo la vocazione di diventare un dio, ma gli è irrevocabilmente interdetto di riuscirvi, il che trasforma questa aspirazione in una nuova fonte di disperazione, di grottesco (pp. 350 sgg.). Il mondo moderno è nato come rottura dell’universo circolare, chiuso: ma l’immagine moderna di un universo «aperto su una avventura irreversibile è l’apporto specifico del Cristianesimo» (p. 354). Il nostro piano è quello dei cabotatori gettati all’improvviso in alto mare. I nostri artifici si sono sviluppati a un ritmo che si è rivelato piú rapido del nostro ritmo di assimilazione (p. 355). Ciò che non possiamo padroneggiare con la mano, cominciamo anche a non poterlo racchiudere nello spirito (p. 356). L’umanità è oggi tanto poco condannata al suo avvenire, che essa lo deve scegliere: il significato della bomba atomica è in questa reale possibilità di scelta fra la vita e il suicidio. Si può dire che la sua maturità comincia ora (p. 357). L’apocalisse cristiana non è il chiudersi nel vissuto attuale della fine, o nell’attesa di una fine databile in un momento del futuro piú o meno prossimo. Non è neanche il terrore di una fine indeterminata che grava su tutti i momenti del tempo, togliendo a ciascuno di essi il suo respiro. L’apocalisse cristiana è movimento storico che si solleva dal vissuto del mondo già finito, o dall’attesa di un finire databile, o dal nichilismo di una fine indeterminata sempre incombente, e dischiude un testimoniare operoso, un mondano testimoniare per la fine del mondo, un preparare il giorno del Signore, un progressivo instaurare il mondo cristiano. L’apocalisse cristiana è movimento che fonda un mondo, crea una civiltà, e che riplasma il finire come crisi, e il terrore di ogni mondano inizio, a orizzonte protettivo giustificativo del dispiegarsi delle virtú cristiane: e per questa riplasmazione culturale il finire come crisi viene ripreso, oltrepassato, nel finire come escaton sprigionando fra l’uno e l’altro il margine di un mondo cristiano in espansione. Anche nel corso della stessa predicazione di Gesú, la prossimità del Regno non è mai soffocante, ma si illumina del sermone del monte, e del progetto di vita in comune che esso fonda; e nel movimento della storia dell’età apostolica l’accento si sposta sempre piú dall’annunzio del Regno e dalla metanoia che comporta al Regno che è già cominciato con la morte e la risurrezione di Cristo: ma «è già cominciato» nel senso che se ne sperimenta sacramentalmente – nell’Eucaristia – l’avvenuto inizio, e se ne anticipa il suo compimento nella Chiesa e nel suo magistero, di guisa che per questo

dilatantesi inizio il cristiano si sente chiamato a testimoniare nel mondo con opere civili, giorno per giorno 20.

2. Le rotture della modernità estetica. 2.1. Hans Sedlmayr, Verlust der Mitte 21, Salisburgo 1948, 1953 6 a ed., ed. tasc. 1955. Hans Sedlmayr è nato il 18 gennaio 1896 a Hohenstein nel Burgenland, al confine austro-ungherese. Frequentò il ginnasio a Vienna-Döhling dal 1907 al 1915. Partecipò alla Prima guerra mondiale, e fu nell’esercito austriaco d’oriente. Finita la guerra, nel 1918 fu alla Technische Hochschule di Vienna e il suo passaggio dall’architettura alla storia dell’arte ebbe luogo nel 1920, sotto l’influenza delle lezioni e della personalità di Max Dvořák. Nel 1933 libero docente presso la Technische Hochschule e nel 1934 presso l’Università di Vienna. Dal 1936 successore di Schlosser alla cattedra viennese. Dal 1951 all’Università di Monaco. Dal 1941 membro ordinario della Wiener Akademie der Wissenschaften, nello stesso anno membro dell’Accademia scientifica di Erfurt e nel 1955 membro effettivo della Bayerische Akademie der Wissenschaften. Sedlmayr si propone di analizzare nell’arte moderna i sintomi della crisi del nostro tempo 22 tentando per tale via la diagnosi e la prognosi della malattia che travaglia la civiltà moderna. Come in una prospettiva individuale la terapia psicoanalitica attraverso la presa di coscienza vissuta dei conflitti inconsci, aiuta a risolverli, cosí in una prospettiva collettiva la presa di coscienza di ciò che inconsapevolmente si esprime nell’arte moderna può contribuire in qualche misura alla risoluzione della crisi. La scelta dell’arte, piuttosto che di altri prodotti della vita culturale, si richiama al principio che l’arte, per la storia delle società umane, è ciò che rappresenta il sogno dell’individuo per lo psichiatra (René Huyghe, 1939 23), quindi in questa sfera si rivela qui piú facilmente che in altri prodotti della vita culturale, in quanto attinge la sfera della immediata sensibilità, delle Stimmungen vissute e della possessione. A questo riguardo interessa proprio ciò che di piú insensato, assurdo, stravagante vi è nell’arte moderna, poiché insensato, assurdo, stravagante non significa affatto privo di senso nella prospettiva diagnostica prescelta, ma proprio quel non-senso forma qui problema di indagine

«clinica», stimola a riguadagnare le «ragioni» dell’insensato. «Ce sont les abus qui caractérisent le mieux les tendances», ebbe a scrivere una volta lo storico francese dell’architettura Auguste Choisy, e un abus sul tipo della sfera come abitazione rivela meglio certi sintomi della crisi che non altre meno stravaganti pretese architettoniche. «Qui è raggiunta la sfera dell’inconscio, in quanto il senso esatto di tali forme è ignoto a chi le produce, il quale, se viene interrogato su di esse, ne offre giustificazioni spesso completamente diverse, visibilmente insufficienti» (p. 9 24). Una critica dello spirito del mondo moderno a partire dall’arte, nella prospettiva dell’arte, secondo quanto si manifesta nel documento artistico, questo è il compito che si propone Sedlmayr. Non è quindi una storia dell’arte moderna, delle opere d’arte, quanto piuttosto dei pericoli che si manifestano nell’epoca e che offrono testimonianza di sé nei prodotti artistici riusciti o falliti. [...] 2.2. La lirica moderna. In margine a Hugo Friedrich, Die Struktur der modernen Lirik, 1956 25. Il rapporto della lirica moderna con la realtà: non quello della descrizione o del calore familiare, ma quello della deformazione, della estraneazione, del non-familiare. Inimicizia verso il sentimento in quanto mondo di emozioni comunitarie, domestiche, appaesate. Il lettore di questa lirica è colpito da choc, si sente immesso in un mondo senza sicurezza, allarmante, e tuttavia cattivante. Sorpresa, stupore, mezzi «anormali» che rendono questa lirica non assimilabile da un vasto pubblico. Questa lirica lotta contro le abitudini del lettore, e sotto questo rispetto è una fiera della «anormalità». Schivare l’opprimente realtà, dominata dalla tecnica, dal «tempo dell’orologio», ecc. «Alla magia linguistica spetta il compito di frantumare il mondo a servizio dell’incantesimo: io vorrei quasi dire che il caos deve trasparire in ogni poesia, diceva Novalis» (p. 28). Il mondo «consueto» soffre di una «troppo grande chiarezza». Neutrale intimità, invece di sentimento, fantasia invece di realtà, frammenti del mondo invece di unità del mondo, mescolanza di ciò che è eterogeneo, caos, fascinazione per mezzo di oscurità e di magia linguistica, ma anche un freddo operare di chi ubbidisce a leggi analoghe a quella della matematica e che evita il consueto: la teoria poetica di Baudelaire, la lirica di Rimbaud, di Mallarmé e dei contemporanei. Amarezza, gusto di cenere, malincolia e dolore cosmico, malincolia senza

oggetto, interesse per il distruttivo, il morboso, il criminale. Slancio e caduta: tentativo di evasione nel mondo della metropoli; tentativo di evadere nel paradiso dell’arte; e, infine, la fascinazione del distruttivo e la sarcastica ribellione contro Dio; la pace della morte. Schema di Les Fleurs du mal. Il misero, il decadente, il cattivo, il notturno, l’artificiale come materia stimolante di poesia. Irritazione contro il banale e il tradizionale, deformazione del banale nel bizzarro, nella fusione dello spaventoso col pazzesco. L’assurdo come grottesco in cui l’idealità si scontra col diabolico e in cui il caotico si palesa come ironia interna all’ideale. Fuga dal mondo banale; il nuovo come indefinibile, come vuoto contrapposto alla desolazione del reale. Trascendenza vuota. Il sogno come capacità produttiva, dotato di una sua rigorosa coerenza, messo in movimento da stupefacenti e droghe, ovvero da condizioni psicopatiche. L’inizio dell’atto artistico come «decomposizione», «distruzione», «deformazione» dell’angusta realtà, «allontanamento deliberato» da essa, «srealizzazione». Ma che cosa si intende qui, nella temperie della decadenza, per «realtà» da «srealizzare»? La «realtà» di cui si parla è l’universo della scienza e della tecnica nel quadro della società borghese, e – sempre in questo quadro – la quotidianità del burocrate, dell’impiegato, o anche di colui che fruisce di una società affluente e che è immesso unicamente nella spirale dei bisogni, delle comodità, delle mode, della pubblicità, delle merci. La realtà di cui qui si parla è ancora quella delle abitudini, delle norme, delle etichette e anche delle emozioni a cui non si partecipa piú in modo autenticamente comunitario, e ciò perché sono entrati in crisi gli istituti sociali in cui sono incorporate. La realtà di cui qui si parla è il mondo dell’utilizzabile, l’orizzonte della operabilità utilizzante, di cui si avverte ormai solo la servitú che ne deriva, la sostanziale estraneità all’uomo. 2.3. Rimbaud. Jean-Arthur Rimbaud (1854-91), Œuvres, vers et proses, Mercure de France, Paris 1912 26. La sua stagione poetica si limitò dal 1870 al 1875: poi lasciò completamente la letteratura per gli affari e le avventure piú diverse nelle piú diverse parti del mondo. Per quel tema della storia del costume che

è «il finire del mondo» nella crisi della civiltà occidentale, interessa in modo particolare la sua teoria del veggente (lettera a G. Izambard, 7 maggio 1871 e lettera a P. Demeny del 15 maggio 1871), applicata poi nella sua opera Illuminations. Il poeta deve farsi veggente «con un lungo immenso e ragionato disordine di tutti i sensi, onde scorgere e rivelare, al di là del mondo fallace della realtà, l’inaudito e l’invisibile». Ma dopo l’abbandono alla visione, Rimbaud ne riconosce la vanità e l’impossibilità, e ritorna a quella realtà «rugosa» che aveva creduto di superare, e che ora l’accoglie desolante e brutale. Di questa sofferta smentita è testimonianza Une saison en enfer: il poeta abbandona le lettere per la vita quotidiana. Poco prima della morte si convertí al cattolicesimo 27. J. Rivière, Rimbaud, Paris 1930, citato in H. Friedrich, Die Struktur der modernen Lyrik, 1956, p. 108 della trad. it. Garzanti, 1961, scrive a proposito di Rimbaud: «L’aiuto che egli ci offre consiste nel fatto che egli ci rende impossibile il soggiorno fra ciò che è terreno... Il mondo sprofonda nel suo caos originario, le cose risaltano di nuovo con quella terribile libertà che possedevano quando ancora non servivano a nessuno». E Friedrich aggiunge dal canto suo (p. 108) che Rimbaud naufragando di fronte all’Ignoto chiamò il caos a sostituirlo, cercando un linguaggio adatto a esprimere questo transito verso il caotico. Poi, quando giunse ad un punto in cui il caotico sommergeva il suo stesso linguaggio poetico, «ebbe abbastanza carattere» per tacere come poeta e, la libertà della poesia, divenuta ormai rischiosa, tramutò in libertà dalla poesia, volgendosi alla rugosa realtà delle avventure esterne, dei viaggi e degli affari, nello sfondo di una noia che l’agitazione pratica non riesce a stordire. A proposito delle cose raggiunte nella «terribile libertà» che possedevano «quando ancora non servivano a nessuno» occorre notare che la pretesa di questo raggiungimento è assurda perché le cose, se sono tali – se cioè appartengono a un mondo – appartengono sempre alla storia culturale, e quindi, in primo luogo, alla sfera della utilizzazione, al progetto comunitario dell’utilizzabile. La stessa pretesa di raggiungerle «quando non servivano ancora a nessuno» è culturalmente condizionata; nel caso di Rimbaud essa riflette la crisi dell’utilizzazione borghese del mondo, lo spaesarsi di tutti i rapporti sino a quel rapporto inaugurale che è la valorizzazione utilizzante. In Rimbaud lo stesso ethos del trascendimento della vita nelle distinte

valorizzazioni comunitarie, lo stesso doverci essere nel mondo, recede davanti al rischio del non esserci, muta di segno, si viene disarticolando e isolando nell’idoleggiamento del rischio stesso, si prova contraddittoriamente a istituire un linguaggio che narri la non-storia di una caduta sempre piú in basso, fino al silenzio. Nel quadro di una storia del costume europeo degli ultimi cento anni questo ragioniere della dissipazione è altamente significativo: ma alla poesia egli resta sostanzialmente estraneo, perché la poesia è vaticinio che oltrepassa determinati ambiti storici dell’utilizzazione, ma non può mai proporsi di distruggere la utilizzazione come tale. Rimbaud: la rivolta contro lo scientifismo in quanto pretesa della totale spiegabilità scientifica dell’universo e dell’uomo; il caos irreale come redenzione della realtà opprimente; la «esplosione» dell’ordine mondano. Trascendenza vuota, contrapposta all’usuale e al reale, l’alterità come tale, senza contenuto. Realtà coscientemente frantumata. Accentuazione della passività, dell’inconscio, ecc.: «mi si pensa», «Io è un altro», essere agiti da. Potenza coattiva del prepersonale, sopraffazione dal basso. Il caos dell’inconscio e le nuove esperienze che impone. «Lavorare» significa pianificare questa dissoluzione, appropriarsene ragionatamente: il lungo immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Autolesionismo, volontario imbruttimento dell’anima. L’anormalità come esilio deliberato. Operaio dell’annientamento, colui che lavora all’esplosione del mondo. Distruzione del Museo del Louvre, incendio della Biblioteca Nazionale. Distacco totale dal passato. Frantumazione di ciò che è dato. Lasciare il continente, andarsene via dalle paludi occidentali. Fuggire dall’Europa, abbracciare la rugosa realtà, stordirsi nelle occupazioni pratiche. Dalla dannazione al caos, dal caos al silenzio. Restò muto di fronte al mondo che aveva frantumato. Spaesamento, odio per gli slanci comuni, per il cuore, disumanizzazione. [...] La rivolta si rivolta contro se stessa. Solo la chiusa trascina tutto ciò in una fine, nell’addio a ogni esistenza spirituale. Movimento dalla chiarità alle tenebre: Le dormeur du val. Una tempesta apre brecce nelle pareti... disperde i limiti tra gli appartamenti. L’atto che dissolve i confini mediante l’irruzione di burrascose lontananze. (Universo in tensione: diffondersi del contagio distruttivo a partire da un centro epidemico del reale: Larme). La distruttiva libertà di un uomo solitario e naufrago in Le bateau ivre: repulsione e rivolta, fuga nel sovradimensionale, sprofondamento nella quiete dell’annientamento.

Al termine della catena è il Nulla. L’ignoto, che la fede, la filosofia o il mito piú non riempiono, diventa vuota trascendenza. La passione per la trascendenza vuota diventa una distruzione senza scopo della realtà. Acqua e vento si dilatano a potenze diluviali. Le tensioni sovraoggettive degli oggetti; il brutto; bellezza magica = annientamento. Le cose sottratte al reale. Frantumare l’usuale, il comodo, l’abitudinario, il naturale, ecc. Inorganico, il minerale, come segno dell’irrealtà. Sbriciolare il mondo. Il fondersi delle cose le une con le altre: annullamento delle loro reciproche distinzioni. [...] «Le poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens» (lettera a Paul Demeny del 15 maggio 1871). «Travailler maintenant, jamais, jamais; je suis en grève. Maintenant, je m’encrapule le plus possible. Pourquoi? Je veux être poète et je travaille à me rendre voyant: vous ne comprenez pas du tout, et je ne saurais presque vous expliquer. Il s’agit d’arriver à l’inconnu par le dérèglement de tous les sens» (lettera a Georges Izambard del 13 maggio 1871). «Qu’est-ce pour nous, mon cœur», p. 171, Œuvres. La settimana di sangue della Comune è diventata in questo poema la celebrazione dell’annientamento di qualsiasi ordine. Il momento della riduzione a zero, della distruzione, si isola senza ripresa e senza prospettiva, coinvolgendo non soltanto l’ordine borghese, ma la storia tutta («puissance, justice, histoire: à bas!») ma lo stesso ordine cosmico, e gli stessi protagonisti dell’apocalisse comunarda («Europe, Asie, Amérique, disparaissez | Notre marche vengeresse a tout occupé, | Cités et campagnes! – Nous serons écrasés! | Les volcans sauteront! Et l’Océan frappé |... La terre fond»). In questa vertigine di distruzione il «veggente» si associa ai romantici amici della Comune, ma li associa nel delirio, e quindi non senza una punta di ironico scetticismo su coloro ch’egli immagina fratelli («Qui remuerait les tourbillons de feu furieux, | Que nous et ceux que nous nous imaginons frères?»): salvo poi a gratificare di certissimi fratelli questi «neri sconosciuti» se si uniranno al veggente nell’opera di distruzione. Segue nell’ultimo verso il «risveglio», altrettanto disperato nella sua solitudine esistenziale quanto è stata vuota l’orgia distruttiva velleitariamente corale e comunitaria: «Ce n’est rien! j’y suis! j’y suis toujours». Nella lettera a P. Demeny la distruzione coinvolge tutta la poesia dell’occidente, dai greci sino ai romantici: «De la Grèce au mouvement romantique, – moyen âge, – il y a des lettrés, des versificateurs... Racine est le pur, le fort, le grand».

Il poeta come grande malato, grande criminale, grande maledetto, e tuttavia come anarchico sistematico, che della malattia, del crimine, della maledizione, dello sregolamento di tutti i sensi, introduce lo spirito di sistema, metodo rigoroso, pianificazione ragionata. Le droghe che aboliscono le categorie di spazio e di tempo e introducono nei paradisi artificiali («Nous t’affirmons, méthode! Nous avons foi au poison»); il digiuno, il lavoro notturno, l’abuso della vita sessuale e la pederastia; il grande sogno di evadere dalla realtà, la ricerca di poteri magici, di segreti per mutare la vita, il ritrovarsi ostinato con «la réalité rugueuse à étreindre», l’abbandono della rivolta anarchica per una vita di esterne avventure e di «affari» nello sfondo di una immensa noia, e infine, sul letto di morte, il cosiddetto ritorno in ogni caso equivoco, alla religione (ma non si sa neppure bene a quale, poiché durante la sua agonia invocava Allah!) 2.4. Thomas Mann, La morte a Venezia. La apparizione dello straniero giramondo e il subitaneo impulso verso esotiche esperienze del primordiale. «Impulso alla fuga era, ed egli se lo confessò, anelito verso cose nuove e lontane, desiderio smanioso di liberazione, di sgravio e di oblio – fuga dall’opera, dal luogo giornaliero di un servizio rigido freddo benché appassionato»... «Gli faceva paura l’estate in campagna, solo nella piccola casa con la fantesca che gli preparava il pranzo e col domestico che glielo serviva, gli faceva paura l’aspetto familiare delle vette e delle pareti montane che avrebbero di nuovo circondato la sua malcontenta lentezza. E dunque era necessaria un’interruzione, un periodo di vita nomade, scioperatezza, aria di paesi lontani e acquisizione di sangue nuovo, affinché l’estate diventasse sopportabile e proficua. Viaggiare, dunque, vi acconsentiva. Non troppo lontano, non proprio fra le tigri» 28. Tipico rappresentante dell’ordine borghese, della coscienziosità e del controllo, della forma e dell’equilibrio, della accanita ed eroica resistenza al negativo della vita: «Gustav Aschenbach era il poeta di tutti coloro che lavorano all’orlo dello sfinimento, gli oppressi da carico soverchio, già estenuati eppure ancora in piedi, questi moralisti della produzione che, esili di corporatura e scarsi di mezzi, con l’estasi della volontà e la saggia amministrazione ottengono almeno per un periodo di tempo i risultati della grandezza. Costoro sono in molti, sono essi gli eroi del nostro tempo. E tutti si riconoscevano nella sua opera, vi si vedevano confermati, esaltati, celebrati, gli erano riconoscenti ed esaltavano il suo nome».

Tuttavia Aschenbach sceglie come meta Venezia, e già questa scelta è significativa. Città vivente e morta al tempo stesso, la laguna, i canali putrescenti, le architetture rammemoranti una gloria storica ormai sepolta, e soprattutto le gondole: «Chi non deve reprimere un brivido fugace, una segreta timidezza e angoscia, quando sale per la prima volta o dopo lunga dissuetudine su una gondola veneziana? La singolare imbarcazione, tramandata tale e quale dai tempi delle ballate e cosí inusitatamente nera come di tutti gli oggetti di questo mondo sono soltanto le bare, fa pensare a tacite e criminose avventure fra lo sciacquio notturno dei canali, e ancor piú alla morte stessa, a feretri, a tenebrose esequie, all’ultimo silenzioso viaggio. E si è osservato che il sedile di una tal barca, quel divano laccato di un nero funereo e rivestito di luttuose gramaglie, è il piú morbido, il piú voluttuoso, il piú sfibrante sedile del mondo?... La traversata sarà breve, – egli pensò, – potesse durare sempre!» «Egli amava il mare con ragioni profonde: il bisogno di riposo dell’artista costretto a una dura fatica, che davanti all’esigente proteismo dei fenomeni cerca rifugio nel seno della semplicità dell’immensità; la tendenza vietata, in netto contrasto con la sua missione e appunto per questo cosí irresistibile, all’inarticolato, l’incommensurabile, l’eterno, il nulla. Riposare nella perfezione è il sogno di chi s’affatica per giungere all’eccellenza; e il nulla non è una forma della perfezione. Ora mentre egli lasciava che il suo sogno s’immergesse cosí nel vuoto, la linea orizzontale della riva fu tagliata all’improvviso da una forma umana, e quando egli raggiunse e ricondusse il suo sguardo dall’infinito vide il bel fanciullo che venendo da sinistra gli passava davanti sulla sabbia». L’atmosfera della città, «quell’odore un po’ marcio d’acqua stagnante». Ma la città cosí fasciata di morbide allusioni alla morte, è anche oggettivamente vulnerata dalla malattia: grava su di essa la minaccia di una epidemia di colera. La minaccia è tenuta nascosta dalle autorità, per non danneggiare il turismo. Anche Aschenbach, che teme la partenza di Tadzio e la fine del suo sogno, si fa complice del silenzio: «Bisogna nascondere la realtà! – Pensò Aschenbach agitato, gettando i giornali sul tavolo. – La consegna è di tacere». Ma nello stesso tempo il suo cuore si rallegrava dell’avventura in cui il mondo stava per incappare. Perché alla passione, come al delitto, non s’addice l’ordine e il benessere normale, e ogni tentennamento della compagine civile, ogni turbamento e flagello del mondo

le torna gradito perché può sperare vagamente di trarne vantaggio. Cosí Aschenbach provava una oscura contentezza per quello che accadeva sotto il complice mantello delle autorità nei vicoli sporchi di Venezia – tristo segreto della città che si confondeva con il segreto del suo cuore, e di cui anch’egli paventava la scoperta. La città era ammalata e lo teneva nascosto per sete di guadagno. «Bisogna tacere, – sussurrò con energia. – E io tacerò. La coscienza della sua complicità, della sua connivenza lo inebriava come piccole quantità di vino inebriano un cervello già stanco... Che cosa potevano essere per lui arte e virtú di fronte ai vantaggi del caos?» Questa sinistra complicità di passione e di morte impedisce ad Aschenbach di compiere l’azione «onesta e purificatrice» di avvertire la famiglia di Tadzio della verità che l’egoismo di tutti manteneva celata: «C’è il colera a Venezia». Certo quel passo lo avrebbe ricondotto indietro e restituito a se stesso: «ma chi è fuori di sé nulla teme quanto il rientrare in sé». «Bisogna tacere, – sussurrò con energia, – e io tacerò». Il sogno di Aschenbach, l’atroce irrompere del baccanale devastatore del dio straniero, in un paesaggio alpestre e boschivo. «Grande era la sua ripugnanza, grande il suo terrore, sincera la sua volontà di difendere sino all’ultimo ciò che era suo contro lo straniero, il nemico dello spirito fermo e dignitoso»: tuttavia «ai colpi di timpano il suo cuore rimbombava, la sua testa girava, lo assalivano cieco furore, voluttà inebriante e la sua anima desiderava di unirsi al baccanale del dio». Infine «la sua anima conobbe il gusto della lussuria e la follia della perdizione». «Sui passi del bel giovinetto, Aschenbach si è smarrito un giorno nella città malata...» Il racconto si chiude con la scena di Aschenbach morente, in atto di cogliere un cenno di aerea promessa da parte del bel giovinetto, mentre tutt’intorno si indovina l’affanno della città malata, e la fuga dei villeggianti e dei turisti per la verità mortale ormai resa di pubblica ragione. Gustav von Aschenbach, il cui stesso nome accoglie l’immagine di liquida corsa e di fuoco spento («rivo delle ceneri»), compie cosí il suo destino: l’evasione dalla forma e dal valore, la fuga dall’opera dello spirito fermo e dignitoso, il disperato amore per l’immagine del bel giovinetto, la lotta devastatrice contro il tempo e la vecchiezza, l’insidia del dio straniero e la tentazione del caos, e infine la morte davanti all’ultima immagine del bel giovinetto, nello sfondo di una città malata che ha anch’essa preso coscienza della mortale insidia che

covava nel suo seno.

3. Abbiamo perso il sole. 3.1. David Herbert Lawrence, 1883-1930. Nacque a Eastwood, nel Nottinghamshire, l’11 settembre 1885. La sua opera si stende dal 1912 al 1930 29. Frazer, Frobenius 30 e Freud furono autori dai quali trasse alcuni dei temi che ricorrono nel suo etnologismo letterario. «Our science is a science of a dead world» 31. I temi di Lawrence: polemica contro lo scientifismo, contro la riduzione del conoscere, del vero conoscere, alla scienza; epoca umana di partecipazione cosmica, di vita simbolica, di sapienza esoterica, prolungatasi sino agli egiziani e ai greci, poi perduta nella tradizione giudaico-cristiana denegatrice del mondo, della carne; degenerazione magica, divinatoria, di questa antica sapienza esoterica; polemica contro l’Urdummheit, la svalutazione del mondo pagano; svalutazione della civiltà occidentale, che ha messo capo al macchinismo, al tecnicismo; antistoricismo, antievoluzionismo, eterno ritorno; tema della fine del mondo. Molti temi importanti e indicativi si ritrovano in Lawrence: la nostalgia del paganesimo, la diffidenza verso la tradizione intellettualistica che ha spezzato i legami col cosmo, l’evasione della civiltà occidentale, l’etnologismo, il senso della «fine» del nostro mondo per la fine della comunione col cosmo e per la morte della partecipazione. [...] «Noi abbiamo smarrito il sole e i pianeti e il Signore con le sette stelle dell’Orsa nella mano destra. Povero, meschino, piatto, piccolo mondo, quello in cui viviamo: persino le chiavi dell’Ade sono perse. In che ristrettezza ci siamo rinchiusi! Mentre tutto ciò che possiamo fare, con il nostro amore fraterno, non è che un rinchiudersi l’un l’altro maggiormente. Ognuno di noi oggi non è che un povero piccolo bolscevico deciso a non permettere che alcun uomo splenda come il sole in tutta la sua forza, per timore di esserne abbagliato». «All’improvviso intravediamo un po’ dell’antico splendore pagano, compiacimento di splendore e di magnificenza dell’uomo che splendeva come una stella nel cosmo. Improvvisamente sentiamo ridestarsi nostalgia

per l’antico mondo pagano, molto anteriore ai tempi di Giovanni, e una immensa brama di liberarci dalle pastoie di questa misera, personalistica, debole vita per ritornare verso l’antico mondo in cui gli uomini non avevano “paura”. Abbiamo bisogno di liberarci dal nostro stretto e piccolo universo, automatico, per tornare al grande cosmo vivente delle “tenebre” del paganesimo. Forse la piú grande differenza tra noi e i pagani sta nella diversità di rapporti col cosmo. Per noi tutto è personale. Il panorama che possiamo contemplare e il cielo non ci servono che da delizioso sfondo per la nostra vita personale. Persino l’universo della scienza si riduce a noi a poco piú che una mera estensione della nostra personalità. Per il pagano il paesaggio e lo sfondo personale erano dopo tutto indifferenti, ciò che era invece reale era il cosmo. L’uomo viveva nel cosmo, consapevole della maggior grandezza del cosmo nei suoi confronti». «È mera presunzione credere che noi vediamo il sole cosí come lo vedevano le antiche civiltà. Tutto ciò che vediamo al posto del sole è un piccolo corpo di luce fisica, un globo di gas ardente. Nei secoli prima di Ezechiele e di Giovanni, il sole era sublime realtà, si attingeva da lui energia e luce, e gli si restituivano in compenso venerazione, offerte e azioni di grazie. Ma in noi ogni legame è spezzato, le facoltà responsive sono morte. Il nostro sole è cosa assai diversa dal sole cosmico degli antichi, è qualcosa di molto piú banale. Noi possiamo vedere ciò che chiamiamo sole, ma abbiamo perso per sempre Helios e ancor piú il grande disco dei Caldei. Abbiamo perduto il cosmo, allorché siamo usciti dalla corrispondente comunione con esso. Questa è la nostra principale tragedia. Che cos’è il nostro meschino amore per la natura – la natura cui ci si rivolge come a una persona – al paragone di quel sublime vivere-col-cosmo ed essere-onorati-dal-cosmo!» (Apocalisse, pp. 78-79 sgg.) 32. [...] «Ai tempi di Giovanni di Patmos, gli uomini, soprattutto le persone colte, avevano già quasi perso il cosmo: il sole, la luna, i pianeti, invece di esserci in comunione come datori di vita, splendidi e terribili, eran decaduti in una specie di morte, quasi meccanici facitori di fato e di destino. Ai tempi di Gesú, gli uomini avevano mutato il cielo in un meccanismo di fato e destino, una prigione. I cristiani sfuggirono a questa prigione negando il corpo. Ma ahimè, quanto misere queste evasioni, specie se a base di rinnegamenti! Sono sempre le piú fatali. Il Cristianesimo e il nostro ideale di civilizzazione non

sono stati che una prolungata evasione, che ha causato menzogne e miserie come quelle che la gente oggi conosce, non miserie fisiche, ma grave mancanza di qualcosa di vitale. Meglio sarebbe mancare di pane, che mancare di vita. Oh la lunga evasione, il cui solo frutto è stato la macchina! Abbiamo perso il cosmo. Né il sole né la luna ci comunicano piú la loro energia. In linguaggio mistico: la luna s’è oscurata per noi e il sole s’è velato. Ora bisogna che noi ritorniamo al cosmo, ma ciò non può esser fatto con un colpo di bacchetta fatale. Tutta la catena delle nostre possibilità recettive che si sono atrofizzate, deve essere riportata in vita. Ci sono voluti duemila anni perché l’opera di atrofizzazione fosse compiuta: chissà quanti ce ne vorranno per farla rivivere. Quando odo le persone moderne lamentarsi di sentirsi sole, io so che cosa è successo. Esse hanno perso il cosmo. Non è che manchi qualcosa di umano e di personale. Quel che manca è la vita cosmica: mancano il sole e la luna in noi. È impossibile prendere il sole in noi giacendo nudi come maiali su di una spiaggia... Il solo modo per prendere il sole in noi è una specie di culto del sole: ma un culto che sia sentito nell’intimo del sangue. Ogni altro mezzo ciarlatanesco non fa che peggiorare la situazione» (pp. 83 sgg.). Kerényi, in Figlie del sole, trad. it., p. 27 33: «Oltreché descriverci la situazione odierna queste parole contengono una teoria, la quale merita attenzione perché scaturisce dalla spontaneità di un grande poeta». «È la teoria della little blazing consciousness che ci rende partecipi della great blazing consciousness del sole. La nostra “solare intimità”. La personale, nervosa coscienza in noi “come qualcosa di accessorio”: i sentimenti e le idee personali». Le radici letterarie del relativismo culturale: «La prassi istintivamente adottata dai cristiani verso ogni confessata evidenza di paganesimo è stata ed è tutt’ora sopprimere, distruggere, negare. Simile disonestà ha guastato il pensiero cristiano sin dalle origini. Essa ha corrotto a questo modo persino il pensiero scientifico etnologico. È abbastanza curioso che non consideriamo i greci e i romani del 600 circa d. C. come veri pagani, alla stessa stregua degli indú, dei persiani, dei babilonesi o degli egiziani o persino dei cretesi. Accettiamo i greci e i romani come gli iniziatori della nostra civiltà politica e intellettuale e gli ebrei come padri della nostra civiltà morale e religiosa, li consideriamo come “dei nostri”, mentre tutti gli altri per noi non sono nulla, quasi solo degli idioti.

Tutto ciò che può essere attribuito ai barbari al di là dei limiti della Grecia (minoici, etruschi, egiziani, caldei, persiani, indú) è secondo la famosa frase di un celebre professore tedesco, l’Urdummheit, ossia stupidità delle origini: ecco come giudichiamo lo stato dell’umanità prima del prezioso Omero e in ogni razza, salvo i greci, gli ebrei, i romani e... noi stessi...» (pp. 100 sgg. 34). «La cultura e la civiltà sono testimoniate da una coscienza vitale. La possediamo noi piú di un qualsiasi egiziano di tre millenni a. C.? Forse meno, poiché se è vero che la nostra coscienza si è estesa vastamente è altrettanto vero che è poco profonda, sottile come un foglio di carta. Noi non abbiamo profondità nella nostra coscienza» (p. 106). «I nostri calvi processi di pensiero sono senza vita per noi. L’enigma della Sfinge intorno all’uomo è altrettanto terrificante per noi oggi quanto doveva esserlo ai tempi di Edipo; anzi oggi piú ancora, perché oggi è l’enigma di un uomo morto sebbene ancor vivo, il che non fu mai nella storia» (p. 109). [...] «Con la venuta di Socrate e dello spirito, il cosmo morí. Per duemila anni gli uomini hanno vissuto in un cosmo morto o morente, sperando in un cielo per la vita avvenire. E tutte le religioni sono state religioni di morte corporale, di ricompense nell’al di là, escatologiche per usare la parola favorita dai filosofi» (p. 113). [...] «La grande Madre del cosmo è sparita, con la corona delle dodici grandi stelle dello zodiaco. Essa è cacciata nel deserto, e il drago del caos delle acque riversa su di lei i suoi flutti, e la grande donna alata, per volare come un’aquila, è condannata a rimanere nel deserto per un tempo, i tempi, e la metà di un tempo. Il che significa per tre giorni e mezzo (o anni, secondo altri passi dell’Apocalisse) il che sta a indicare la metà di un periodo di tempo. È questa l’ultima visione che possiamo avere di lei. Da allora ella è rimasta nel deserto, la grande cosmica madre di tutti i segni dello zodiaco. Da quando volò via, abbiamo piú che vergini e meretrici, mezze donne: le mezze donne dell’era cristiana. Poiché la grande donna del cosmo pagano fu cacciata nel deserto alla fine della vecchia era, e da allora non è piú stata rievocata» (p. 155). La catastrofe della donna antica è qui vissuta con una sensibilità rivelatrice. Certo noi oggi non abbiamo bisogno della Madonna per dischiuderci al rispetto della donna: ci basta per questo qualche concreta

figura femminile che abbiamo amato, e verso cui abbiamo contratto un debito che ci sembra di non poter pagare mai; una figura reale, la cui memoria ci accompagna e che ci serve di regola ogni volta che siamo chiamati a decidere ciò che si deve fare o non fare con una donna. Ma la sensibilità di Lawrence non passa dalla Madonna cristiana alla donna reale: torna alla Magna Mater pagana, e tenta di rivivere il fascino in modo immediato, come se (si badi: «come se») oggi questo fosse autenticamente possibile. Lo sfogo di Lawrence manifesta soltanto un odio per l’ordine cristiano, un odio che giunge sino alla volgarità e al turpiloquio. Egli non vuole passare dalla Madonna alla donna, vuole una mistificazione della donna che si adatti meglio al libertinaggio mentale di cui si compiace. Santa Teresa era dunque una mezza donna! Nel mondo umano il sesso-natura è sempre culturalmente riplasmato, e se la riplasmazione cristiana è diventata oggi non piú rispondente alle forme della società, ancor meno lo è la riplasmazione «pagana» (ammesso che la categoria «paganesimo» sia valida). [...] «Le potenze del vecchio cosmo superate diventano demoniache e dannose per la nuova creazione... Per questo l’intero cosmo ha il suo malefico aspetto, il sole, il grande sole, appunto perché è il vecchio sole di un superato giorno cosmico, è nemico e nocivo alla tenera nuova creatura rinata che io sono. Egli mi è dannoso, nel mio intimo travaglio, perché ha ancora potere sul mio vecchio io e mi è ostile. Allo stesso modo le acque del cosmo nella loro vecchiezza, nella loro natura superata, abissale, sono nocive alla vita, specialmente a quella dell’uomo. La grande luna, la madre delle mie interne correnti acquose, finché essa è vecchia, morta luna, mi è ostile, nemica e nociva alla mia carne; poiché ha ancora potere sulla mia vecchia carne» (pp. 136 sgg.). [...] «Mosè innalzò il serpente di rame nel deserto (sostituendo in tal modo) il potere del drago benefico all’aculeo del drago malefico o dei serpenti... Il grande problema, nel passato, era la conquista del serpente nemico e la liberazione nell’intimo dell’io del risplendente, lucente, serpente d’oro, di fluida e aurea vita entro il corpo, il sorgere del divino drago nell’intimo di un uomo o di una donna. Ciò che forma oggi la sofferenza degli uomini è che migliaia di piccoli serpenti li pungono e li avvelenano di continuo, mentre il grande drago divino

rimane inerte. Oggi non siamo piú capaci di ridestarlo a vita. Si risveglia a volte nelle piú basse sfere di vita, e per breve tempo, in uomini come Lindbergh l’aviatore, o Dempsey il pugile. È il piccolo serpente d’oro che innalza per un certo tempo questi uomini a un certo livello di eroismo. Ma nei piani superiori della vita, non c’è piú cenno o segno di grande drago» (p. 159). «Oggi nell’epoca del bianco sudicio, del logos e dell’acciaio, i socialisti hanno ripreso il piú vecchio dei colori della vita, e il mondo intero trema al solo pensiero del vermiglio... I rossi e aurei draghi dell’età dell’oro, e dell’età dell’argento, il drago verde dell’età del bronzo, il bianco dell’età del ferro, il drago bianco sporco o grigio dell’età dell’acciaio, e quindi un ritorno al primitivo brillante drago rosso...» (Nell’Apocalisse rosso e purpureo sono anatema: ogni epoca eroica torna istintivamente al rosso o all’oro) (p. 167). [...] Prefazione di Lawrence al Drago dell’Apocalisse di Frederick Carter 35. Tema del mito come esperienza non mai esaurita e che mai lo sarà. I simboli sono complessi di esperienza emotiva: il simbolo solleva questi complessi. «Molte epoche di accumulata esperienza palpitano ancora nell’intimo di un simbolo» (p. 208). Nessun uomo può inventare un simbolo: «ci vogliono secoli per creare un vero simbolo». Alcune immagini, nel corso di varie generazioni, possono diventare simboli, incastonati nell’anima e pronti a reagire come vivi al primo tocco serbato nell’intimo della coscienza umana per secoli. E poi quando l’uomo diventa insensibile e mezzo morto, il simbolo muore (ibid.). «Mi piacerebbe poter tornare a conoscere le stelle come le conoscevano i caldei duemila anni prima di Cristo. Vorrei essere capace di porre il mio Ego nel sole, la personalità nella luna, il carattere nei pianeti e vivere della vita dei cieli come i primitivi caldei... In qualche parte di noi vive ancora la vecchia esperienza dell’Eufrate e della Mesopotamia», ecc. (p. 211). [...] «Credete voi davvero di potervi liberare dall’universo sistemando una massa morta qua, un globo di gas là, un po’ di vapore dall’altra parte? Che puerilità! Come se l’universo non fosse che il cortile di una fabbrica di prodotti chimici! Quanto sciocco diventa l’uomo quando crede di essere variamente sapiente e di poter formulare le ultime e conclusive definizioni dell’universo! Non si accorge dunque che non fa che descrivere se stesso e

che la descrizione che egli dà di se stesso non è che quella di uno dei piú morti e lugubri stati in cui l’uomo possa esistere?... È la nostra descrizione vera? No, nemmeno per un istante, non appena si muti lo stato della nostra mente e della nostra anima. È vera per l’attuale stato di morte della nostra mente. Ma il nostro stato mentale sta diventando insopportabile e dovremo cambiarlo. Quando l’avremo cambiato, cambieremo anche tutta la nostra descrizione dell’universo. Non torneremo a chiamare la luna Artemide, ma il nuovo nome sarà molto piú vicino ad Artemide che a quello di una massa morta o di un mondo estinto. Non torneremo alla visione caldaica dei cieli viventi, ma i cieli riprenderanno vita per noi e quella visione esprimerà anche il nostro rinnovamento di uomini. Per questo hanno valore questi studi sull’apocalisse. Essi risvegliano l’immaginazione e ci danno, a momenti, un nuovo universo in cui vivere. Ci parrà forse che sia il vecchio cosmo dei babilonesi, ma non lo sarà. Non è possibile richiamare a vita una vecchia visione quando è stata soppiantata. Ma ciò che possiamo fare è scoprire una nuova visione in armonia con le memorie delle antiche antichissime esperienze che giacciono nel nostro intimo. Finché non siamo completamente morti e degenerati, le memorie dell’esperienza caldaica vivono ancora nel nostro intimo, a grande profondità, ecc. (pp. 214 sgg.)». Lawrence, come altre voci della letteratura della crisi, è un documento per apprezzare il carattere della crisi stessa, per misurarne l’ampiezza e le motivazioni, e per rischiarare la prognosi e la terapia, nei limiti in cui può muoversi un’analisi storico-culturale. Lawrence racchiude una protesta vibrante contro il naturalismo che si dà come visione della vita e del mondo, ma i limiti di consapevolezza in cui si muove questa sua protesta mostrano come egli si dibatte in pieno nella crisi. Senza dubbio quando la coscienza che la ragione ha di se stessa coincide con la coscienza dell’intelletto e delle operazioni che gli sono proprie, ha inizio quel decurtamento dell’uomo che mette capo a quel mondo di quasi morti cui tante volte fa riferimento Lawrence. L’ethos del trascendimento, l’andar oltre la situazione, coincide con questa piú ampia ragione che oltre la coerenza della coscienza scopre la coerenza dell’inconscio e che oltre la potenza operativa dell’intelletto scopre le altre potenze della vita culturale, ciascuna dotata della coerenza sua propria. Ciò che non può essere trasceso è proprio questo ethos del trascendimento, questa razionalità articolatrice e legittimatrice di coerenze

culturali: e non può esserlo proprio perché è la regola interna, e la suprema custode, del trascendere, dei modi di presentificazione e dell’ordine che insieme li compone nelle varie epoche e nelle diverse culture. L’ethos del trascendimento, la ragione dispiegantesi nella distinzione delle potenze operative e che promuove, sorveglia, controlla tale dispiegamento, è davvero l’ultima Thule, il tetto del mondo, l’Atlante che lo sorregge: e questa forza integralmente umana non può avere fondamento che in se stessa: ogni nostra valutazione, ogni nostra azione, ogni nostro istituto culturale, ogni nostro simbolo è dentro questa energia primordiale umana, e il piú alto sforzo possibile che le è consentito è di riconoscere esplicitamente se stessa, e di crescere e purificarsi attraverso questo riconoscimento. Ora il «naturalismo» delle scienze è una potenza positiva liberata dalla ragione: la crisi comincia quando, sotto la spinta dei successi di questa potenza, la ragione limita la coscienza di se stessa a questa sola potenza, come accade nello scientifismo positivistico e nel tecnicismo contemporaneo, mortificando qualsiasi oltre rispetto all’intelletto (ma non rispetto alla ragione!)

4. Il mondo è indigesto. 4.1. Sartre. [...] La nausea di Sartre 36 è mondo indigesto e il vomito è il simbolo di questo mondo che resta sullo stomaco per digestione impossibile. («L’esistenza non è qualcosa che si lasci pensare da lontano: bisogna che v’invada bruscamente, che si fermi su di voi – que ça pèse lourde sur votre cœur –, che vi pesi greve sullo stomaco come una grossa bestia immobile – oppure non c’è assolutamente nulla»: La nausée, p. 143, trad. it., p. 167). Il ciottolo, il bicchiere di birra del caffè Mably, le bretelle di Adolfo, le radici del castagno nel giardino pubblico, sono, come nude esistenze, indigeribili: restano sullo stomaco, scatenano la nausea. Ma che cosa vuole dire propriamente il mondo che diventa indigesto? Semplicemente il mondo che non è piú incluso nel trascendimento, cioè in quella gerarchia storica di presentificazioni valorizzanti che si è consumata nella storia della società umana cui appartengo, e che pone le singole persone storiche che la compongono, e me fra esse, in un mondo «appaesato», domestico, familiare, nel quale posso

ancora poter decidere qualcosa, senza partire dalla esperienza zero della deiezione. Il mondo è, innanzitutto, l’orizzonte dei segni del lavoro umano, di decisioni altrui assunte e riconosciute: esso è familiare perché la famiglia culturale umana vi ha lasciato traccia di sé, vi documenta la sua storia. Il mondo è la storia vivente degli altri in noi, e non importa se questa vita si muove ora in noi come abitudine, come continua evocazione di gesti tecnici meccanicamente compiuti, come un ovvio adoperare e utilizzare questo o quello, come un anonimo «si fa cosí» operante ai margini della consapevolezza: in questo sistema di opache fedeltà ha pur sempre luogo una appropriazione dell’umano, una sua messa in causa, sia pure nella forma del riadattamento alla situazione del singolo, che certamente è sempre nuova, e in qualche misura senza «modello». D’altra parte l’esserci in un mondo familiare nella modalità dell’abitudinario, dell’ovvio, dell’anonimo consente la disponibilità per le iniziative piú nostre, per le decisioni piú personali, per i trascendimenti piú impegnati: ma anche qui non siamo mai del tutto soli, e il mondo appare ancora nella sua storia nel senso che la nostra scelta sceglie ancora e prima di tutto un mondo di memorie culturali operative non soltanto nostre da versare nell’azione nostra. L’uomo è sempre nel trascendimento: ma appunto per questo non trascende mai lo zero, ma la multanime mondanizzazione culturale che ci condiziona nel trascendere. Quando l’uomo esperisce davvero il limite del suo mondo e si affaccia sul nulla perché non sa piú trascenderlo (il campanile di Marcellinara 37), quando l’ordine delle sue memorie culturali dilegua, è il mondo che sprofonda: e tanto poco questo esperire può venir celebrato come libertà, che si tratta di una estrema servitú, di una catastrofe dell’esistenza e dell’esistente: la nuda esistenza, nuda cioè di storia umana, è assenza totale, annientamento di sé e del mondo, infedeltà radicale alla vera condizione umana. Certo la nausea di Sartre circoscrive un rischio reale: ma questa nausea deve essere coperta, e proprio questa doverosa copertura fonda le umane civiltà, i mondi culturali concreti nei quali vivere e compiere, se storicamente necessario, i mutamenti piú radicali. Non si tratta di «mascherare» la nausea, ma, al contrario, di «smascherarla», sottraendole i prestigi religiosi che ancora la rivestono di tragici splendori: che cosa essa sia propriamente al di là delle mistificazioni della crisi ce lo può indicare l’analisi della nausea, dell’angoscia, della depersonalizzazione, della fine del mondo in psicopatologia. La nausea è il rischio della nuda esistenza, spogliata della

presentificazione valorizzante umana, di tutte le memorie operative della cultura, di tutti i nomi evocanti queste memorie, di tutti gli abiti che rendono familiare il mondo: è quindi il rischio del nulla, della fine del mondo, dell’annientarsi di qualsiasi margine rispetto al mondo. Infatti l’esistenza non può essere nuda, e non può perché non deve, e non deve perché essa deve essere ethos del trascendimento intersoggettivo. La nausea è mondo indigesto, e il vomito è la componente somatica di questa indigestione, il «sintomo» del mondo che invade bruscamente e «pèse lourde sur votre cœur». Il ciottolo, il bicchiere di birra del caffè Mably, le bretelle di Adolfo, le radici del castagno del giardino pubblico sono minute occasioni esistenziali, futili pretesti, per scatenare la nausea: infatti un mondo che in fondo già è intimamente crollante può segnalare il suo sprofondarsi nel nulla attraverso l’occasione piú minuta e il pretesto piú futile: bastano un ciottolo, un bicchiere di birra, un paio di bretelle, una radice di castagno per dare l’avvio al contagio cosmico della nientificazione. Perché proprio un ciottolo? E d’altra parte: perché un’altra cosa? La scelta della cosa che crolla è irrilevante quando il suo crollare è il crollo del mondo. Ma la lezione che si ricava dal tema sartriano della nausea è importante: se il mondo si costituisce, si mantiene, si rinnova per un continuo trascendimento del nulla nell’essere dei valori, se questo trascendimento è ethos primordiale della cultura e della storia, il mutamento di segno di questo ethos si manifesta come spalancarsi del nulla e come degradazione somatica del trascendere nel vomitare: si vomita come cibo indigesto quel mondo che la caduta del trascendimento valorizzante viene demondizzando e annientando, quel mondo che, per tale caduta, non può convertirsi in nutrimento, e perciò non è piú «mondo». La esperienza della «nausea» sta come sintomo dello scacco del trascendimento. Senso che «qualcosa è mutato». Perdita del familiare, dell’abitudinario, essere-agito-da: «M’è accaduto qualcosa, non posso piú dubitare. È sorta in me come una malattia, non come una certezza ordinaria, non come una evidenza. S’è insinuata subdolamente, a poco a poco; mi son sentito un po’ strano, un po’ impacciato, ecco tutto. Una volta installata non s’è piú mossa, è rimasta cheta, ed io ho potuto persuadermi che non avevo nulla, ch’era un falso allarme. Ma ecco che ora si espande». Antonio Roquentin avverte che c’è qualcosa di nuovo nei suoi atti piú abitudinari, per esempio nel prender la pipa o una forchetta. La maniglia della

porta, afferrata dalla mano, attira la sua attenzione denunziandosi come oggetto freddo nella mano, come oggetto dotato di personalità. L’usciere della biblioteca di Bouville, figura familiare, diventa riconoscibile nella sua identità solo con un certo ritardo, anche se di dieci secondi soltanto. «Vedevo un volto sconosciuto, semplicemente un volto». La sua mano, nella stretta consueta del saluto, gli appare estranea, distaccata, rispetto all’unità familiare in cui è integrata, e per questa estraneità e per questo distacco tutto il braccio acquista un che di sospetto, di deforme: «un grosso verme bianco». Nelle strade, rumori sospetti, che strisciano. Dove ha avuto luogo il cambiamento? È cambiato lui, Antonio Roquentin, o il mondo che lo circonda? «Bisogna scegliere». «È un cambiamento astratto che posa sul nulla». Il bicchiere di birra, uno fra altri. Eppure in questo bicchiere di birra c’è dell’altro. «Un niente». Paura. Cerca di raccogliere una carta per terra senza riuscirvi, gli viene l’idea ossessiva di non essere libero. «Gli oggetti son cose che non dovrebbero commuovere, poiché non son vive. Ci se ne serve, li si rimette a posto, si vive in mezzo a essi: sono utili, niente di piú. E a me, mi commuovono, è insopportabile. Ho paura di venire in contatto con essi proprio come se fossero bestie vive». Il mondo dell’utilizzabile, del maneggevole, dello strumentale, è un orizzonte culturale sottratto al «commuoversi», in quanto è deciso nel senso della utilizzazione, della manipolazione, della strumentalizzazione. Tale decidere materializzante ha non soltanto il suo eroismo, ma rappresenta il valore inaugurale della presentificazione, la prima testimonianza di distacco e di trascendimento: per esserci occorre infatti circoscrivere senza posa la presenza rispetto a un mondo resistente, inerte, di corpi-strumenti, a cominciare dal proprio corpo, e rispetto a un ordine di collaborazioni sociali condizionanti l’utilizzare. Se non si è fedeli a una certa sfera dell’inerte, del trattabile come «cosa» o dell’adoperabile come «materia», e se questa fedeltà non tiene conto di tutto l’ordine dei «trattanti» o degli «adoperanti» in una data società, viene meno ogni altra possibilità di trascendimento e di presentificazione. L’immagine di un «primitivo» interamente immerso nelle partecipazioni commoventi, la Sehnsucht di epoche eminentemente creatrici non ancora sciupate dalla fase della utilizzazione, e che sarebbero vissute senza residuo in una felice coinonia con gli astri, con le piante, con gli animali e col cosmo

tutto, hanno certo la loro motivazione e le loro ragioni: ma in sostanza sono espressioni di letteratura della crisi, sia essa etnologica, o filosofica, o saggistica, o narrativa o poetica. [...] Quando l’ethos del trascendimento «muta di segno», cioè nella sua totalità fa ricadere il suo slancio cedendo al rischio radicale di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, proprio il mondo dell’utilizzabile (del «familiare») è colpito dalla crisi appunto perché costituisce la testimonianza fondamentale dell’esserci-nel-mondo: ed ecco che la pipa o la forchetta o la maniglia della porta o il bicchiere di birra diventano un problema, cioè smarriscono il loro significato di soluzioni culturali dell’utilizzabile, e si spalancano per cosí dire sul «nulla». Anche la strumentalità del proprio corpo si problematizza, nel senso che si spoglia di quel suo carattere strumentale, per cui ci appropriamo continuamente delle nostre membra e dei nostri organi secondo una tradizione culturale mimicooperativa che viene ridecisa di continuo non partendo mai dallo zero, e aggiungendo sempre qualcosa oltre lo zero (ogni decisione mimico-operativa ha qualche frangia di novità, per abitudinaria che sia). Ed ecco che il chinarsi per raccogliere una carta senza riuscirvi è un atto che tende a staccarsi dal processo continuo di appropriazione corporea, e a essere avvertito come servile esser-agito-da: il piccolo insuccesso operativo dà inizio a un vissuto di spossessamento che si traduce nel pensiero ossessivo di non essere piú libero. Insomma ci si mette, anche nella sfera mimico-operativa, non piú al di qua dell’appropriazione, ma al di là della resistenza, spogliandosi dell’appropriarsi. Quanto agli «altri», nella misura in cui gli «altri» sono inclusi nel mondo dell’utilizzabile (l’utilizzabile custode della biblioteca di Bouville, il cui volto è familiare per Roquentin unicamente nella prospettiva di tale utilizzabilità), perdono anch’essi la loro rammemorabilità, il loro esser notoriamente progettabili per il nostro uso, il loro coefficiente di riconoscibilità sociale: onde la mano e il braccio del custode appaiono, in occasione della stretta di mano, come impartecipi dell’unità d’uso in cui erano «normalmente» integrati, cosí come il suo volto era semplicemente «un» volto. Il «commuovere» di cui parla Roquentin è dunque una esperienza «insopportabile», è l’esperienza del «nulla»: ma non già il salutare senso di non-essere che stimola ogni essere-per-il-valore, ogni concreto sforzo di

presentificazione, ma il non essere del valore che si trasforma in cieco stimolo di se stesso e che colpisce la sfera inaugurale della valorizzazione, cioè il mondo – culturalmente determinato e determinabile – della utilizzazione, e che al limite non lascia alcun margine per un mondo utilizzabile in cui esserci. Lo spalancarsi sul nulla da parte degli oggetti progettabili e da parte delle operazioni progettanti è l’annientarsi della presentificazione. I corpi sono ciò che se ne può fare, secondo memorie operative culturali di volta in volta evocate, messe alla prova, riadattate e modificate secondo livelli di consapevolezza che vanno dalle buone abitudini quotidiane alle invenzioni tecniche geniali: il crollo totale della presentificazione perde la storicità di queste memorie, esperendo con ciò l’annientarsi dell’esserci-nel-mondo, e paventando l’esperienza-zero che avanza. Ma poiché l’esperienza-zero è l’annientarsi dell’ethos della presentificazione, questo annientarsi non è in sé zero, anche se fa avanzare lo zero: è un annientarsi in cui si configura il sospetto, la mostruosità («Nelle strade rumorosi sospetti che strisciano»; il braccio del custode che diventa «un grosso verme bianco»), e in genere una intenzionalità rovesciata carica di estraneità distruttiva, cioè il perdersi della presentificazione intenzionante, sotto la specie dell’essere-agito, della trama occulta, della allusività sospetta, e infine della mostruosità figurativa. «Sto facendo la mia pesante digestione accanto al calorifero, so già che la giornata è perduta. Non concluderò nulla di buono, salvo, forse, a notte fatta. È per via del sole, indora vagamente sudice brume biancastre, sospese nell’aria sopra il cantiere, cola nella mia stanza, biondissimo, pallidissimo, distende sul mio tavolo quattro riflessi sbiaditi e falsi. La mia pipa è tinta d’una vernice dorata che a tutta prima attrae lo sguardo con un’apparenza di gaiezza: ma appena la si guarda la vernice fonde, non rimane che una grande stria pallida su un pezzo di legno... Mi muovo di questa luce pallida; la vedo cambiare sulle mie mani e sulle maniche della mia giacca: non so dire quanto mi disgusti. Sbadiglio. Accendo la lampada sul tavolo: magari la sua luce potrà combattere quella del giorno. Ma no: la lampada fa una pozza pietosa tutt’intorno al suo piede. Spengo, mi alzo. Sul muro v’è un buco bianco, lo specchio. È una trappola. So che sto per lasciarmi prendere. Ci siamo. La cosa grigia è apparsa allo specchio. Mi avvicino e la guardo, non posso piú andarmene. È il riflesso del mio volto. Spesso in queste giornate perdute, rimango a contemplarlo. Non ci capisco nulla di questo volto. Quello degli

altri ha un senso. Ma non il mio... Quand’ero piccolo mia zia Bigeois mi diceva: “Se ti guardi troppo allo specchio, ci vedrai una scimmia”. Io debbo essermici guardato anche piú a lungo: ciò che vedo è ben al di sotto della scimmia, al confine col mondo vegetale, al livello dei polipi... Forse è impossibile comprendere il proprio viso. O forse è perché io sono solo? Le persone che vivono in società hanno imparato a vedersi, negli specchi, esattamente come appaiono ai loro amici. Io non ho amici: che sia per questo che la mia carne è cosí nuda? Si direbbe... sí, si direbbe la natura senza gli uomini». «Quando la padrona va a far commissioni, il cugino la sostituisce alla cassa. Si chiama Adolfo. Ho cominciato a guardarlo, sedendomi, e ho continuato perché non poteva voltare la testa». Si ricordi il bicchiere di birra che Roquentin non poteva guardare, perché era travagliato dal nulla: «c’è dell’altro. Un niente». (Qui invece non può non guardare Adolfo). «È in maniche di camicia, e ha un paio di bretelle color malva: s’è arrotolato le maniche fin sopra il gomito. Le bretelle si vedono appena sulla camicia azzurra, son cancellate, nascoste nell’azzurro ma è una falsa umiltà, in realtà non si lasciano dimenticare, mi irritano con la loro testardaggine di montoni, come se, partite per diventar viola, si fossero arrestate a mezza strada senza rinunciare alla loro pretesa. Verrebbe voglia di dir loro: “Avanti diventate viola e non se ne parli piú”. Ma no restano in sospeso, ostinate nel loro sforzo incompiuto. Talvolta l’azzurro che le circonda scivola su di esse e le ricopre completamente: non le vedo piú per un istante. Ma non è che un’onda, ben presto l’azzurro impallidisce, qua e là, e vedo apparire gli isolotti di una malva incostante, che s’allargano e si riuniscono e ricostituiscono le bretelle». I giocatori di carte del caffè Mably: «... Che curiosa occupazione, non sembra né un gioco, né un rito, né un’abitudine. Credo ch’essi lo facciano per occupare il tempo, semplicemente. Ma il tempo è troppo vasto, non si lascia riempire. Tutto ciò che uno vi getta s’ammollisce e si stira. Per esempio questo gesto della mano rossa, che raccoglie le carte incespicando, è fiacco. Bisognerebbe scucirlo e tagliarlo dentro». Al caffè Mably. Il pensiero improvviso della morte del signor Fasquelle. L’uovo alla russa sul giallo della maionese che diventa sangue. La visione. «In fondo non credevo troppo alla sua morte ed era proprio questo che mi

turbava: era un’idea vaga della quale non potevo né persuadermi, né disfarmi». La inconsistenza degli oggetti. La biblioteca con la sua stufa, con i suoi scaffali, ecc. «finché si resta fra queste mura, tutto ciò che dovrà capitare capiterà a destra o a sinistra della stufa». I libri «tozzi e pesanti», con la stufa, ecc. «di solito... arginano l’avvenire». Fissavano «i limiti del verosimile». «Ebbene, oggi, non fissavano proprio niente: sembrava che la loro stessa esistenza fosse discutibile e che facessero la piú gran fatica a passare da un istante all’altro. Stringevo con forza, tra le mani, il volume che stavo leggendo: ma anche le sensazioni piú violente erano smussate. Niente pareva reale: mi sentivo circondato da uno scenario di cartone che poteva essere smontato da un momento all’altro. Il mondo aspettava, trattenendo il respiro, aspettava la sua crisi, la sua nausea... Mi sono alzato. Non potevo piú star fermo in mezzo a quegli oggetti indeboliti. Sono andato alla finestra, a gettare un’occhiata al cranio d’Impétraz. Mormoravo: Tutto può accadere, tutto... Guardavo con terrore quegli esseri instabili che forse tra un’ora, tra un minuto, sarebbero crollati. Ebbene, sí, ero lí, in mezzo a quei libri di scienza pieni di scienza, alcuni dei quali descrivevano le forme immutabili delle specie animali, altri spiegavano la quantità di energia che si conserva integralmente nell’universo; ero lí, davanti a una finestra i cui vetri avevano un determinato indice di rifrazione. Ma che deboli barriere! Immagino sia per pigrizia che il mondo si rassomigli tutti i giorni. Oggi aveva l’aria di voler cambiare. E allora tutto, tutto poteva succedere». Roquentin sente che all’origine del suo turbamento c’era la storia del caffè Mably, il pensiero che Fasquelle fosse morto. Panico. Corsa lungo i docks. «Mi ripetevo con angoscia: dove andare? Dove andare? Tutto può accadere. Di tanto in tanto, col cuore che mi batteva, mi voltavo bruscamente: che cosa avveniva alle mie spalle? Magari poteva cominciare dietro di me, e poi, quando d’un tratto mi fossi voltato, sarebbe stato troppo tardi. Fin tanto che potrò fissare gli oggetti, non accadrà niente. Ne guardavo piú che potevo, il selciato, le case, i fanali a gas; i miei occhi andavano rapidamente dagli uni agli altri per coglierli di sorpresa e arrestarli nel mezzo delle loro trasformazioni. Non avevano un’aria troppo naturale, ma io continuavo a dirmi con forza, è un fanale a gas, è una fontanella, e con la potenza dello

sguardo cercavo di ridurli al loro aspetto quotidiano. Piú volte ho incontrato dei bar sulla mia strada: il caffè dei Bretoni, il bar della Marna. Mi fermavo, esitavo un poco dinanzi alle tendine di tulle rosa: forse questi caffè ben tappati erano stati risparmiati, forse racchiudevano ancora una particella del mondo di ieri, isolata, dimenticata». La crisi di presentificazione che investe il mondano del suo orizzonte familiare, domestico, di utilizzabilità, può tradursi in diversi vissuti che non sono semplicemente enumerabili nella loro casualità, ma che sono comprensibili unitariamente come variazioni di uno stesso vissuto fondamentale, come modi limitati in cui alla coscienza può emergere tale vissuto fondamentale, il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile. Questi modi sono: a) il vissuto di mutamento; b) di estraneità radicale; c) di spossessamento, di essere-agito-da; d) di troppo poco o di troppo, di semanticità, di «debolezza» o di «forza» semantica; e) di fissità o artificio o di caotica onniallusività (può accadere tutto); di sospetto, di trame, di mostruosità figurativa, di intenzionalità rovesciata; di catastrofe cosmica; e altri ancora. Il vissuto di difetto semantico. Inconsistenza degli oggetti. Oggetti «indeboliti». Oggetti irreali. Oggetti artificiali, di cartone, da scenario, teatrali. Afflosciamento degli oggetti. Tutti questi vissuti sono da interpretare come mancanza di «oltre» degli oggetti, perdita della loro progettabilità operativa: mancanza e perdita che riflettono la crisi del trascendimento, la caduta dell’energia di presentificazione, il dileguarsi del possibile «andar oltre» della utilizzazione, con le relative memorie culturali accumulate nell’abitudine, nell’educazione, nelle nozioni tecniche. Il vissuto di eccesso semantico si contrappone polarmente a quello di difetto, secondo un passaggio antinomico dal troppo poco al troppo. Gli oggetti accennano oscuramente oltre i loro limiti, sono forti, onniallusivi, ma il loro vuoto oltre si cerca inutilmente nel deforme, nella fluidità mostruosa, carica di intenzionalità rovesciata. L’altro diventa il tutt’altro che tuttavia ci riguarda nel modo piú prossimo, immediato, perentorio, intimo, diretto e tuttavia in senso ostile, demoniaco, attentatore, spossessante, tramante e distruttivo. Anche questo vissuto del semantico per eccesso, al pari di quello del semantico per difetto, riflette la crisi dell’energia del trascendimento: proprio perché recede l’oltre della valorizzazione, il mondo dell’utilizzabile è colpito da eccentricità semantica, palesando una forza che asservisce e

distrugge, cioè l’errare senza meta e senza sosta della stessa potenza dell’oltre 38. L’antinomia fra difetto ed eccesso semantico dell’utilizzabile è senza soluzione fin quando l’ethos della presentificazione non riacquista il suo segno positivo: non vi è proprio nessuna ragione per scegliere l’eccesso o il difetto come tali, l’uno rinvia all’altro, l’uno non è senza frangia dell’altro, anche se in concreto si può essere scelti da una delle due servitú, cioè da un modo o dall’altro di esser prevalentemente malati. Altrettanto è da dirsi circa l’antinomia «è mutato il mondo» – «sono mutato io stesso», e per tutti gli altri interrogativi insolubili in cui è irretita la crisi: infatti tutte queste antinomie della crisi nascono per il flettersi della potenza del decidere secondo valori, sono il segno di tale flettersi, e del correlativo instaurarsi del regno dell’antinomia senza soluzione, dell’ambivalente senza valore, dell’ambiguo senza norma dell’ethos e del logos.

5. Il mondo è assurdo. 5.1. Sartre, Explication de «L’Étranger», 1947, in Situations I, pp. 99 sgg. 39. Assurdo è il rapporto dell’uomo col mondo: divorzio fra le aspirazioni dell’uomo verso l’unità e il dualismo insormontabile dello «spirito» e della «natura», fra lo slancio umano verso l’eterno e il carattere finito della sua esistenza, fra la «cura» che costituisce l’essenza dell’uomo e la vanità dei suoi sforzi. L’assurdo è la stessa condizione umana, l’essere-nel-mondo. «Lever, tramway, quatre heures de bureau ou d’usine, repas, tramway, quatre heures de travail, repas, sommeil, et lundi, mardi, mercredi, jeudi, vendredi, samedi sur le même rythme», poi d’un tratto gli scenari crollano e noi accediamo a una lucidità senza speranza. In questo crollo, se – dice Camus – sappiamo rifiutare i soccorsi ingannevoli delle religioni e delle filosofie esistenzialiste, ci restano alcune evidenze essenziali: e cioè che il mondo è un caos, una «divine équivalence qui naît de l’anarchie». «Dans un univers soudain privé d’illusions et de lumières, l’homme se sent un étranger». Assenza di ricordi di un paradiso perduto, e di speranze di una terra promessa. Poter essere albero, cielo, stelle e tutte le cose del mondo! Ma no: la

coscienza mi oppone al mondo: «Cette raison si dérisoire, c’est elle qui m’oppose à toute la création». Da questi passi di Le mythe de Sisyphe si comprende il tema de L’Étranger: come dice Sartre, «l’étranger, c’est l’homme en face du monde». Ma «lo straniero» è anche l’uomo fra gli uomini (nel duplice senso della estraneità degli altri a me e di me agli altri), e me rispetto a me stesso; «L’étranger qui, à certaines secondes, vient à notre rencontre dans une glace». Ma lo straniero è anche «passione dell’assurdo»: l’uomo assurdo non si suicida, vuol vivere senza speranza, senza illusione, senza rassegnazione, in rivolta. Condannato a morte, senza domani, senza Dio, tutte le esperienze gli sono equivalenti, e tutte meritano di essere vissute nella loro atomica istantaneità. «Il presente e la successione dei presenti diventa un’anima senza sosta cosciente, questo è l’ideale dell’uomo assurdo». Tutti i valori crollano in questa etica delle quantità, che accumula la piú grande quantità di esperienze. L’uomo assurdo «gettato nel mondo», in stato di rivolta, irresponsabile, innocente, colui a cui tutto è permesso, un «idiota», colui che vive in un perpetuo presente «sfumato di sorrisi e di indifferenza» come il principe Muichkin 40. L’Étranger si apre intenzionalmente con una scena da choc: «Aujourd’hui, maman est morte. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dell’asilo: Mamma morta. Sepoltura domani. Distinti saluti. Questo non vuol dir nulla. Forse è stato ieri... J’ai pensé que c’était toujours un dimanche de tiré, que j’allais reprendre mon travail et que, somme toute, il n’y avait rien de changé». Non la rassegnazione, ma il riconoscimento in rivolta dei limiti del pensiero umano. Di qui la gratuità del «romanzo». Il senso della contingenza coinvolge la stessa opera che descrive il contingente: ne diventa il tema al punto che, intenzionalmente, L’Étranger è costruito stilisticamente in modo da dare al lettore il senso che poteva essere anche non scritto. Si realizza cosí una comunione fra autore e lettore, «nell’assurdo, al di là delle ragioni». Sartre, p. 108: «Je ne pense pas toujours à ce que j’aime, mais je prétends que je les aime, même lorsque je n’y pense pas – et je serais capable de compromettre ma tranquillité au nom d’un sentiment abstrait, en l’absence de toute émotion réellement instantanée. Meurseult pense et agît différemment: il ne peut connaître ces grands sentiments continus et tous semblables; pour lui l’amour n’existe pas, ni même les amours. Seul le présent compte, le

concret. Il va voir sa mère quand il en a envie, voilà tout». Lo straniero vuole ispirare il «sentimento» dell’assurdo: esso è il romanzo del décalage, del divorzio, dello spaesamento, della Unheimlichkeit: l’assurdità come «troppo poco» (stranezza, estraneità, assurdità, descrittivismo ironico, teatralità, artificialità, fatticità, contingenza, meccanicità, disordine meccanico, insignificanza) cosí come in Kafka predomina l’assurdità del «troppo», dei «segni» e delle «allusioni» di cui l’universo è carico senza che noi possiamo comprenderli e che sono ambigui, cifrati, inquietanti. Lo straniero è tranquillo nel cuore del disordine. «Anche gli uomini secernono dell’inumano. In certe ore di lucidità l’aspetto meccanico dei loro gesti, le loro pantomime prive di senso rendono stupido tutto ciò che li circonda» (Le mythe de Sisyphe). «Un uomo parla al telefono dietro il vetro di una cabina, non lo si sente, ma se ne vede la mimica senza significato: ci si domanda perché vive». Camus inserisce fra i personaggi di cui parla e il lettore una cabina vetrata: ne risulta una trasparenza alle cose e una opacità ai significati. Di qui un descrittivismo ironico: qualche cosa di simile, tranne – s’intende – l’intenzione, al descrittivismo degli etnologi dell’epoca positivistica che descrivevano minutamente i fatti del costume primitivo, e ne ottenevano una immagine involontariamente ridicola, come i gesti tecnici del nuotare ripetuti da chi è fuori dell’acqua. L’ironico nasce dal fatto che non si tratta dei popoli primitivi, ma di noi europei, del nostro mondo, dei nostri corpi, ecc. e che non si tratta di una descrizione casuale, ma guidata proprio a questo fine, in virtú di una vissuta esperienza dell’assurdo, e di una passione letteraria di rappresentarlo. La nostra vita senza domani, mera successione di presenti, di istanti, onde nel contesto letterario ogni frase costituisce un’isola, e l’arcipelago di isole semantiche affiora dall’oceano del nulla per poi inabissarvisi. «Fra ogni frase e la seguente il mondo si annienta e rinasce» in un tempo «senza durata». «La gallina depone le uova?» «Vi è la gallina e depone le uova». Commenta Sartre (p. 119): «Camus e molti altri scrittori contemporanei amano le cose per se stesse, non vogliono diluirle nel flusso della durata. “Vi è acqua”: ecco un piccolo brandello di eternità, passivo, impenetrabile, incommensurabile, rutilante: quale gioia sessuale se si può toccarlo! Per l’uomo assurdo è l’unico bene di questo mondo. Ecco perché il romanziere preferisce a un brano organizzato, questo scintillio di piccoli scoppi senza

domani, ciascuno dei quali è una voluttà». La melopea monotona snodantesi come il canto nasale di un arabo. Lo straniero è un’opera classica, un’opera di ordine, composta a proposito dell’assurdo e contro di esso: questa è almeno l’impressione che fa sul lettore. 5.2. Albert Camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1962 (1 a ed. 1942). L’argomento di questo essai è la sensibilità assurda sparsa nel nostro secolo: tale sensibilità è assunta come punto di partenza, e se ne dà soltanto la descrizione allo stato puro, in quanto «male dello spirito». Nessuna metafisica, nessuna credenza vi si mescolano per il momento. In che cosa consiste, descrittivamente, questa sensibilità assurda? È innanzitutto la crisi del mondo familiare, «abitudinario», e l’esperire un universo «privo di illusioni e di lumi», in cui ci si sente stranieri. È il sentirsi esiliato nel modo piú radicale, senza ricordo di una patria perduta o speranza di una terra promessa (p. 18 41). È l’aspirazione al nulla (p. 19). È il senso della impossibilità di costituire il mondo in unità, il giungere a quei confini del pensiero che si manifestano come luoghi deserti e senza acqua (pp. 22 sgg.). Questo sentimento dell’assurdo, che sorprende all’improvviso («le sentiment de l’absurdité au détour de n’importe quelle rue peut frapper à la face de n’importe quel homme»: p. 24), è nella sua nudità desolante e nella luce senza irraggiamento, inafferrabile (pp. 24 sgg.). Ha un inizio «dérisoire» (p. 26) è un «nulla» vissuto che costituisce il primo segno dell’assurdità: è uno stato d’animo singolare in cui il vuoto diventa eloquente, e in cui la catena dei gesti quotidiani è rotta, in cui il cuore cerca invano l’anello che la riannodi: «Il arrive que les décors s’écroulent. Lever, tramway, quatre heures de bureau ou d’usine, repas, tramway, quatre heures de travail, repas, sommeil et lundi mardi mercredi jeudi vendredi et samedi sur le même rythme, cette route se suit aisément la plupart du temps. Un jour seulement, le pourquoi s’élève et tout commence dans cette lassitude teintée d’étonnement. “Commence”, ceci est important. La lassitude est à la fin des actes d’une vie machinale, mais elle inaugure en même temps le mouvement de la conscience» (p. 27). Il sentimento dell’assurdo è sentimento di estraneità. Ci si rende conto che il mondo è «spesso», intravvedere sino a che punto una pietra è estranea

(si confronti col sassolino di Roquentin nella Nausea!), ci è irriducibile, con quale intensità la natura, un paesaggio possono negarsi (p. 28). Il piú bel paesaggio secerne nel suo fondo qualcosa di inumano: le sue colline, la dolcezza del cielo, le configurazioni arboree e vegetali «voici qu’à la minute même, ils perdent le sens illusoire dont nous les revêtions, désormais plus lointains qu’un paradis perdu» (ibid.). «L’hostilité primitive du monde, à travers les millénaires, remonte vers nous» (ibid.). «Per un secondo» il mondo ci diventa incomprensibile «puisque pendant des siècles nous n’avons compris en lui que les figures et les dessins que préalablement nous y mettions, puisque désormais les forces nous manquent pour user de cet artifice. Le monde nous échappe puisqu’il redevient lui-même. Ces décors masqués par l’habitude redeviennent ce qu’ils sont. Ils s’éloignent de nous... Cette épaisseur et cette étrangeté du monde, c’est l’absurde» (pp. 28 sgg.). Ma anche gli uomini «secernono l’inumano: l’aspetto meccanico dei loro gesti, la loro pantomima priva di senso istupidisce tutto quanto li circonda. È come se vedessimo un uomo che telefona in una cabina vetrata: non se ne sentono le parole, ma si vede la sua mimica che non significa nulla e ci si chiede perché quell’uomo vive. Siamo cosí presi da un malessere davanti l’inumanità dell’uomo stesso, e ha luogo una «incalcolabile caduta» davanti alla immagine che noi siamo, una nausea: questo è anche l’assurdo. E infine: l’assurdo, il sentimento dell’assurdo, può colpire noi rispetto a noi stessi: «De même l’étranger qui, à certaines secondes, vient à notre rencontre dans une glace, le frère familier et pourtant inquiétant que nous retrouvons dans nos propres photographies, c’est encore l’absurde» (p. 29). Il sentimento dell’assurdo prende ancora davanti a un cadavere: «Ce côte élémentaire et définitif de l’aventure fait le contenu du sentiment absurde» (p. 30). «Sous l’éclairage mortel de cette destinée, l’inutilité apparaît» (ibid.). E «nessuna morale e nessuno sforzo sono a priori giustificabili davanti le sanguinose matematiche che ordinano la nostra condizione» (ibid.). Ciò che è assurdo è il confronto fra l’irrazionale e il desiderio di ordine razionale il cui richiamo risuona nel profondo dell’uomo (p. 37). Dal momento in cui è riconosciuto, l’assurdo è una passione, la piú lacerante di tutte. Da Jaspers a Heidegger, da Kierkegaard a Chestov, dai fenomenologi a Scheler 42, sul piano logico e su quello morale, tutta una famiglia di spiriti, apparentati per la loro nostalgia, opposti nei loro metodi e nei loro fini, si sono ostinati a sbarrare la via reale della ragione e a ritrovare il giusto cammino della

verità... Quali che siano o siano state le loro ambizioni, tutti sono partiti da questo universo indicibile in cui regnano la contraddizione, l’antinomia, l’angoscia e l’impotenza (p. 39). Tutti costoro sono stretti da una comune parentela, si raggruppano «intorno a un luogo previlegiato e amaro in cui la speranza non ha piú posto». Costoro proclamano che «nulla è chiaro e tutto è caos, che l’uomo conserva solo la sua chiaroveggenza e la conoscenza precisa dei muri che lo circondano» (p. 44). Il sentimento dell’assurdo non è la nozione dell’assurdo: la fonda, manifestandosi nel breve istante in cui porta il suo giudizio sull’universo (p. 46). L’assurdo non è nell’uomo né nel mondo, ma nel loro rapporto (p. 48). L’assurdo che hanno riconosciuto, il «clima assurdo» dell’esistenza umana: ne propongono tutti, senza eccezione, l’evasione. «Ils divinisent ce qui les écrase et trouvent une raison d’espérer dans ce qui les démunit. Cet espoir forcé est chez tous d’essence religieuse» (p. 51). L’assurdo diventa Dio e l’impotenza a comprendere l’essere che illumina tutto. È un salto che qui si compie, e che si richiama al misticismo (p. 52). Ci si rivolge verso Dio, diceva Chestov, per ottenere l’impossibile: quanto al possibile, gli uomini bastano. Chestov invece di dire: ecco l’assurdo, dice: ecco Dio: magari un dio geloso e odioso, incomprensibile e contraddittorio, ma proprio per questo «potente» (p. 53). Nelle religioni, l’uomo integra l’assurdo (p. 54). Quando Kierkegaard fa dell’antinomia e del paradossale il criterio del religioso, fa dell’assurdo il criterio dell’altro mondo mentre è soltanto un residuo della esperienza di questo mondo (p. 57). La «passione dell’assurdo» in Camus consiste nel proposito di mantenersi in bilico nella polarità della condizione umana, cioè da una parte il desiderio di unità, l’appetito della soluzione, la esigenza della chiarezza e della coesione, e dall’altra parte il caos irriducibile della mondanità, la sovrana contingenza delle situazioni, «la divina equivalenza che nasce dall’anarchia». Ma questo mantenersi in bilico, questa «arrête vertigineuse» qualificata come «honnêteté» di fronte ai vari sotterfugi squilibratori, è una costruzione intellettualistica nata sul tronco di una sensibilità morbosa. Si tratta di una «onestà» tutta letteraria, tutta velleitaria, tutta retorica, tutta ipocrita: poiché, per fortuna, la situazione reale dell’uomo è quella di essere «disonesto» cioè di non «poter mai stare in bilico», nel punto zero della tensione paradossale dell’esistenza, ma di sbilanciarsi o verso la scelta concreta di una certa chiarezza, di un progetto operativo pieno di senso, o verso la caduta nel caos

e nei «puri» vissuti della follia. Il puro sentimento dell’assurdo in Camus – come la nausea di Sartre o la noia di Moravia – non è in realtà puro: nella sua purezza, cioè colto in ciò che esso significa, occorre cercarlo nelle descrizioni di Les obsessions et la psychasthénie del grande Janet 43, e in genere nei testi psichiatrici.

6. Il mondo mi annoia. 6.1. Alberto Moravia, nato a Roma nel 1907 44. Gli indifferenti (la figura di Michele): la crisi dei valori morali, la distruzione dei mezzi e delle ragioni di agire, la disperazione, la nuda premorale esistenza. Il rischio della solitudine. L’indifferenza. Il rischio del conformismo. Il sesso mediatore di una presa di contatto con la realtà. «Nessuna delle dimore moraviane dà l’impressione di un luogo veramente abitabile, le stanze sono sempre troppo grandi, troppo vuote, piene di spazi troppo nudi e scoraggianti, talvolta ingombre di mobilio antico e stravagante. L’impossibilità di rapporto col mondo è espressa in maniera mirabile da questa fondamentale inadeguatezza dell’abitazione all’abitante. L’uomo resta un estraneo in mezzo alle cose che lo circondano. Gli unici oggetti ad avere un ruolo utile sono i vestiti», soprattutto gli indumenti intimi. Fernandez Dominique, Il romanzo italiano, trad. it. Lerici, Milano 1960, p. 51. Sulla natura cfr. p. 50. Fernandez, p. 52: «L’indagine di Moravia sulle possibilità del cuore umano e le opportunità di ritrovare un mondo coerente e armonico doveva condurlo al riconoscimento senza riserve e unico del fatto sessuale. Il fatto sessuale ha questo vantaggio inestimabile, in un mondo in decomposizione, in cui i valori morali sono crollati fragorosamente nell’odio, la collera e il disprezzo, o lentamente nell’indifferenza e il conformismo: di essere lui stesso una verità indecomponibile, il residuo puro e incorruttibile di un’analisi esauriente... Il sesso è la scoperta dell’irrefutabile, a un tempo appassionata e paziente, che dà allo spirito la certezza che gli mancava». p. 55: la sessualizzazione generale dell’universo. Che gli oggetti abbiano la stessa intensa presenza degli oggetti sessuali. La rigenerazione mediante il sesso. Strumento di rapporto col mondo, è ciò che permette all’uomo di

entrare in contatto con gli altri e con le cose, e di scoprire, al di là della solitudine morale e intellettuale, una possibile fraternità, una partecipazione comune a un bene e a un bello che redimono (pp. 56 sgg.). Esaltazione della prostituta: si entra in rapporto col mondo, un modo di uscire dal rapporto fra creature isolate (i fidanzati dei casti amori tradizionali) (pp. 57 sgg.). La trasformazione del familiare nell’ostile nel delirio di Luca, rifiuto radicale del mondo, trasformato dall’infermiera in dolce accettazione (p. 63) in La disubbidienza. Il sesso come «natura» è ovviamente incapace di ridischiudere il «mondo». La maturazione sessuale ha tanta importanza nell’esistenza umana perché essa è sempre inclusa nell’oltre della socializzazione e della culturalizzazione, e perché le regole sociali e culturali relative al sesso costituiscono nella storia degli individui il primo accesso a un mondo di valori, la prima occasione a scelta secondo modelli (e quindi il terreno elettivo dei conflitti e delle crisi). Le condotte umane cominciano come condotte rispetto ai familiari, le condotte familiari modellanti la maturazione sessuale dipendono dalle scelte culturali degli adulti, le scelte culturali degli adulti sono strettamente collegate alle loro scelte economicosociali, e d’altra parte le scelte economico-sociali e culturali degli adulti debbono fare i conti con i conflitti e le crisi della loro maturazione sessuale in famiglia, secondo una interazione che non può essere risolta nel primato assoluto della libido (materialismo individualistico), della società (materialismo storico), degli astratti valori (idealismo). L’unico primato spetta all’ethos del trascendimento, all’oltrepassare le situazioni nei valori culturali categoriali. 6.2. Alberto Moravia, La noia, 1960 45. «La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, a un dormiente, in una notte d’inverno: la tiri sui piedi e ha freddo al petto, la tiri sul petto e ha freddo ai piedi; e cosí non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, lí i divani, piú in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, le porte: un momento dopo non c’è piú che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un

avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina: come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere. Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. Per esempio, può accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza, e in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho alcun rapporto, cioè, in una parola, mi appaia un oggetto assurdo, e allora da questa assurdità scaturirà la noia la quale, in fin dei conti, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi che, pur non avendo rapporti con il bicchiere, potrei forse averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di essere oggetti. Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo» (pp. 7 sgg.). Quando era bambino ne soffriva spesso: «Mi avveniva, in quegli anni, di cessare improvvisamente di giocare e di restare ore intere, immobile, come attonito, sopraffatto in realtà dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia l’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto. Se in quei momenti mia madre entrava nella stanza e vedendomi muto, inerte e pallido per la sofferenza, mi domandava che cosa avessi, rispondevo invariabilmente: “mi annoio”, spiegando cosí, con una parola di significato chiaro e angusto, uno stato d’animo vasto e oscuro» (p. 9). La madre lo abbracciava e gli prometteva di condurlo al cinema: ma «anche con le sue labbra, con le sue braccia, con il cinema, io non avevo alcun rapporto in quel momento» (ibid.). pp. 21 sgg.: «Ciò che colpiva, soprattutto, era che non volevo fare assolutamente niente, pur desiderando ardentemente fare qualche cosa. Qualsiasi cosa volessi fare mi si presentava accoppiata come un fratello siamese al suo fratello, al suo contrario, che parimenti, non volevo fare.

Dunque, io sentivo che non volevo veder gente ma neppure rimanere solo: che non volevo restare in casa ma neppure uscire; che non volevo viaggiare ma neppure continuare a vivere a Roma; che non volevo dipingere ma neppure non dipingere; che non volevo stare sveglio, ma neppure dormire; che non volevo fare l’amore ma neppure non farlo; e cosí via. Dico sentivo, ma dovrei dire piuttosto che provavo ripugnanza, ribrezzo, orrore. Ogni tanto, tra queste frenesie della noia, mi domandavo se per caso non desiderassi morire; era una domanda ragionevole visto che vivere mi dispiaceva tanto. Ma allora, con stupore, mi accorgevo che sebbene non mi piacesse vivere, non volevo neppure morire. Cosí le alternative accoppiate che, come in un funesto balletto, mi sfilavano nella mente, non si fermavano neppure nella scelta estrema fra la vita e la morte. In realtà, come pensavo qualche volta, io non volevo tanto morire quanto non continuare a vivere in questo modo». Poco prima Moravia accenna a impulsi aggressivi e distruttivi che rompevano queste alternative irrisolventi, antinomiche: «Prendevo un libro... ma ben presto lo lasciavo cadere... oppure in un impulso di furore lo scagliavo in un angolo e ricorrevo alla musica. Ma chi mai disse che la musica agisce in qualsiasi modo, cioè si fa ascoltare, per cosí dire, per forza, anche dalla persona piú distratta?» p. 70: «La noia, per me, era simile a una specie di nebbia nella quale il mio pensiero si smarriva continuamente, intravvedendo soltanto a intervalli qualche particolare della realtà; proprio come si trovi in un denso nebbione e intravveda ora un angolo di casa, ora la figura di un passante, ora qualche altro oggetto, ma solo per un istante e l’istante dopo sono già scomparsi». Alberto Moravia, La disubbidienza, 1948 46. [...] Ha cosí inizio la crisi decisiva di Luca, cioè quel cosí pieno votarsi al morire, da non desiderare piú nemmeno la morte, essendo ormai interamente incorporato al morire: una crisi che Moravia rappresenta come febbre del corpo, senza nessuna determinazione sulla qualità della malattia, e letterariamente ha ragione di tacerla, perché si tratta solo di giustificare, attraverso la febbre, un delirio di fine del mondo, una catastrofe degli oggetti, legata alla morte dell’adolescenza e al distacco dal «mondo dei genitori»: gli oggetti si disfanno in figurazioni sinistre e la camera si popola di presenze mostruose: «ma per tutto il tempo, pur soggiacendo agli incubi del delirio, aveva la sensazione di farsi strada tra le allucinazioni, come un viandante tra i

tronchi e le tenebre di una foresta, verso un’apertura che non poteva mancare» (p. 129). L’esito è rappresentato da una figura reale di donna, l’infermiera, che Luca vide un giorno accanto al suo letto, in atto di sostenergli la fronte con una mano e con l’altra di imboccarlo: e attraverso questa figura di donna si ristabilisce il contatto con la realtà, il caos si riordina in cosmo. «L’infermiera con tutto che fosse matura e disfatta, la camera che un tempo aveva odiato, e ogni oggetto, insomma, gli apparivano in una luce nuova, serena, pulita, familiare, amabile, e per cosí dire, appetitosa. Con sorpresa si rese conto che non tanto guardava alle cose quanto si lanciava ghiottamente su di esse, come si slancia la bestia affamata sul cibo dopo un lungo digiuno. Ecco, per esempio, il comodino con tutte quelle fiale e quei flaconi tra i quali, durante il delirio, gli era sembrato di veder rincorrersi i sudici omiciattoli. Adesso gli apparivano oneste, semplici bottiglie di vetro diversamente colorato o trasparente, chiuse con tappi di sughero o con coperchi svitabili di latta, ornate di etichette sulle quali le stesse calligrafie corsive e frettolose dei farmacisti vi avevano scritto le prescrizioni, apparivano rassicuranti e affettuose... Volse gli occhi all’attaccapanni che durante il delirio aveva visto, cambiato in lucertola, correre su e giú per i muri, e vide che era proprio un semplice attaccapanni a tre braccia e fu contento di vedervi appese una gonnellina e una camicia dell’infermiera e fu pure contento di notare che erano panni senza pretese, di persona povera. Tutte le cose insomma, in questo nuovo sguardo, parevano avere un senso: molto dimesso e umile, è vero, ma concreto. Alla benevolenza che tingeva tutta la realtà di simpatia, si aggiungeva d’altra parte il senso di un ordine modesto ma necessario in cui nulla piú appariva, come un tempo, assurdo e privo di funzione. Quelle bottiglie erano proprio bottiglie, quell’attaccapanni era proprio un attaccapanni; né c’era piú il pericolo di vedere spuntare dalle prime le teste degli omiciattoli o di vedere correre il secondo su per la parete» (pp. 131 sgg.).

7. Il mondo è vuoto. Samuel Beckett, En attendant Godot, rappresentata per la prima volta a Parigi nel 1953, personaggi Estragone, Vladimiro, Lucky, Pozzo, Ragazzo.

Che cosa significhi «presenza» (esserci) nel teatro di Beckett è illustrato da En attendant Godot. Si aspetta Godot, che non viene mai; lo si aspetta senza poter abbandonar la scena, senza speranza, senza angoscia e senza disperazione: lo si aspetta in una situazione strutturata di nulla, di inutilità, di pettegolezzi, di smemoratezza e di ripetizione. Il ritornello è: «Andiamocene. Non si può. Perché? Aspettiamo Godot». L’attesa di Godot è l’attesa del Regno ma vissuta nella coscienza lucidissima che la condizione umana è presenza al nulla, al pettegolezzo, alla insignificanza, all’istantaneo: è l’attesa senza testimonianza, senza decisione, senza passione per la vita, l’attesa di chi è già culturalmente morto o moribondo. È l’attesa il cui tempo può essere riempito da mille futilità, da gesti da clown, da una continua agitazione, da una miriade di equivoci della comunicazione verbale, dallo spirito del pettegolezzo e della chiacchiera, senza che intervenga mai la progettabilità di un valore, la realizzazione di un’opera, l’orizzonte di una convivenza umana, lo slancio verso l’universalizzazione del privato sentire: al contrario tutto regredisce, si restringe, si larvifica indefinitamente, di male in peggio. È un continuo cadere, addormentarsi, perdere le potenze dei sensi: i personaggi non stanno bene in piedi, lottano contro il sonno, perdono la vista o l’udito, di male in peggio, nell’attesa di Godot che non arriva mai. Ecco cosa diventa il grande tema escatologico cristiano: «Considerata l’esistenza cosí come traspare dai recenti lavori pubblici di Poinçon e Wattmann di un Dio personale quaquaquaqua dalla barba bianca quaqua fuori del tempo dello spazio il quale dall’alto della sua divina apatia sua divina atimbia sua divina afasia ci vuol tanto bene salvo le debite eccezioni non si sa perché verrà fuori ma prima o poi verrà fuori e a somiglianza della divina Miranda soffre con quanti si trovano non si sa perché ma c’è tutto il tempo nel tormento del fuoco...» (ed. it. p. 42 47). Nel secondo atto Pozzo chiede aiuto a Dodo e Didi, il che dà occasione alla seguente uscita di Didi: «Non perdiamo tempo in chiacchiere inutili. Facciamo qualcosa mentre l’occasione si presenta! Non succede tutti i giorni che qualcuno abbia bisogno di noi. A dire il vero, non è che abbia bisogno precisamente di noi. Chiunque altro andrebbe bene per lui, se non meglio. L’invocazione che abbiamo sentito è rivolta piuttosto all’intera umanità. Ma qui, in questo momento, l’umanità siamo noi, ci piaccia o non ci piaccia. Approfittiamone, prima che sia troppo tardi. Rappresentiamo degnamente

una volta tanto quella sporca razza in cui ci ha cacciati la sfortuna. Che ne dici?» Sono le uniche parole sanamente umane, normali, dell’opera: ma subito Estragone risponde: «Non ho sentito» 48 e del resto Vladimiro stesso riconosce che il fatto stesso di soppesare a braccia incrociate il pro e contro «fa onore» alla condizione umana, rivelando qualche cosa di anormale nella stessa apparenza di normalità. La scelta è soffocata dal «problema» dell’esistenza, della condizione umana. «Sí in questa immensa confusione una sola cosa è chiara. Noi aspettiamo che venga Godot». «O che cada la notte». Un rigo prima aveva detto: «Che stiamo a fare qui, ecco ciò che dobbiamo chiederci. Abbiamo la fortuna di saperlo». Del resto il conato di soccorso fallirà, e i quattro rovineranno tutti al suolo. (Pozzo: Aiuto. Vladimiro: Siamo qui. Pozzo: Chi siete? Vladimiro: Siamo uomini) (pp. 85, 87). Vladimiro: «Una cosa è certa, però: il tempo è lungo, in queste condizioni, e ci spinge a popolarlo di movimenti che, come dire, che possano a prima vista sembrare ragionevoli, ma ai quali noi siamo abituati. Tu mi dirai che è per impedire alla nostra ragione di colare a picco. D’accordo. Ma non sta forse già vagolando nella notte assoluta dei grandi abissi, è questo che mi chiedo talvolta. Mi segui? Estragone: Si nasce tutti pazzi. Alcuni lo restano» (pp. 85 sgg.). «Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte» (p. 97). La presenza istantanea, senza tempo, smemorata, sognante variamente eccitata dalla vita pettegola, dalla chiacchiera, dal movimento, individuo solitario, per cui l’altro è sempre un tale cui puzza il fiato o che quando si decide a dar soccorso a un altro, al piú riesce a essere trascinato nella sua rovina: e tutto questo aspettando Godot, che non verrà mai. Ecco la condizione umana com’è intesa da questo esistenzialismo. Alain Robbe-Grillet, Samuel Beckett o la presenza sulla scena, in Una via per il romanzo futuro, Rusconi e Paolazzi, Milano 1961, pp. 113 sgg. La condizione dell’uomo come esserci, il personaggio di teatro è in scena, «vi è». Già nei racconti l’uomo di Beckett si viene via via degradando: Murphy, Molloy, Malone, Mahood, Worm. Ma Aspettando Godot e Finale di partita che rappresentano uno spettacolo deliberatamente fatto di vuoto con personaggi che non fanno nulla, «che non hanno nessuna qualità oltre quella di essere presenti», secondo una sequenza che non ha né principio né fine. Si

assiste «a una specie di regressione al di là del nulla», una regressione in cui quel poco carico di zero che viene offerto all’inizio volge di degradazione in degradazione allo zero: Pozzo torna cieco, la carota del primo atto diventa una rapa. Ripetizione e degradazione sono le due forme dell’accadere unicamente ammesse, con una marcia forzata verso l’insignificante, del quale come per una sorta di rovesciato itinerarium mentis ad deum 49 si lascia intendere il continuo «non ancora abbastanza». Si aspetta Godot, che non giunge mai, ecco il tema e, insieme, il «ritornello»: si aspetta senza poter abbandonar la scena, senza speranza, senza angoscia, senza disperazione. Il punto culminante di questa «disgregazione generale», il precipitare dei tre nella segreta («Siamo uomini»). «Soli in scena, in piedi, inutili, senza avventure e senza passato, irrimediabilmente presenti»: se questo è il sinistro messaggio di Aspettando Godot, in Finale di partita («vecchia fine di partita perduta») anche gli uomini si disgregano. Un paralizzato cieco in poltrona assistito da un infermiere semimpotente, che assolve la sua opera trascinando la poltrona lungo i muri alti e nudi che imprigionano la scena. Il paralitico cieco prigioniero percorre la parabola verso la solitudine e l’immobilità assoluta, in compagnia di uno straccio che gli copre la bocca, dopo aver rinunciato di parlare. «Senza passato, senza possibilità di essere altrove, senza altro avvenire che la morte, l’universo cosí definito è necessariamente privato di senso. Nelle due accezioni del termine: esso esclude allo stesso modo ogni idea di progresso come un qualunque significato... La scena teatrale, luogo privilegiato della presenza, non ha resistito a lungo al contagio... Non ci sono mai stato, dice Hamm, e davanti a questa confessione non c’è piú nulla che conti poiché è impossibile di intenderla se non nella sua forma piú generale: Non c’è mai stato nessuno». La possibilità di «toccare il mondo» nel suo «essere in sé», nel suo essere «in carne e ossa», la possibilità di «presentificarsi», di «partecipare», si ottiene «sospendendo» il mondo solo nel senso di «metterlo in causa» attraverso il confronto, sotto lo stimolo di una concreta situazione di rapporto con l’altro 50. Piú precisamente ciò che viene messo in causa, deliberatamente assunto e ripercorso, rideciso e riformato, non è il mondo in generale, ma la storia della civiltà occidentale, dai greci a oggi: assunzione, ripercorrimento, ridecisione e riforma che è mediata dall’umanesimo etnologico, dal confronto

con tutti gli altri etne, nella prospettiva di una unificazione culturale del nostro pianeta storicamente determinata, compito fondamentale della nostra epoca. 1. Allusione al lavoro di V. LANTERNARI, La grande festa. Storia del Capodanno nelle civiltà primitive, il Saggiatore, Milano 1959. 2. V. LANTERNARI, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano 1960. 3. N. COHN, The Pursuit of the Millennium. Revolutionary Messianism in the Middle Age and its Bearing on Modern Totalitarian Movements, Mercury Books, London 1962 [1957] [trad. it. I fanatici dell’Apocalisse, Edizioni di Comunità, Milano 1965]. 4. Cfr. capitolo 1, nota 12. 5. Riflessione ripresa e sviluppata a partire dai riferimenti antropologici e filosofici in «Mondo vissuto, corpo vissuto», capitolo 7. 6. Termini di origine greca passati nel vocabolario tecnico della storia comparata delle religioni e dell’esoterismo per designare da un lato la discesa dell’eroe nel mondo sotterraneo, gli inferi, il regno dei morti; e dall’altro il ritorno terreno e poi l’ascesa rituale o mentale dello spirito verso il mondo celeste. 7. Espressione mutuata da Alberto Moravia; cfr. infra, par. 6.2. 8. Tutto questo paragrafo, in francese nel testo, traspone ironicamente a Baudelaire e Rimbaud, con lo stile di una diagnosi clinica, l’analisi heideggeriana della «curiosità» (Neugier) come «essereovunque-ed-in-nessun-luogo». Cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo cit., par. 36, pp. 184-86. 9. Cfr. piú avanti l’analisi dell’opera di D. H. Lawrence. 10. Mentre Adolf Eichmann viene giudicato a Gerusalemme (aprile-dicembre 1961), Günther Anders costruisce la figura di Claude Eatherly come sua antitesi ideale a partire dalla corrispondenza intercorsa fra il 1959 e il 1961 col pilota dell’aereo da ricognizione che assistette allo sgancio della bomba atomica su Hiroshima. Cfr. G. ANDERS e C. EATHERLY, La coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherly con Günther Anders, Einaudi, Torino 1962. 11. Da comparare con la metafora del «viso» come esperienza etica dell’altro che rimanda alla «responsabilità-per-l’altro» in Emmanuel Lévinas. 12. Allusione al film di Jean Rouch Les maîtres fous (1955) sui riti di possessione degli Haouka ad Accra (Ghana). Il film è stato premiato al festival di Venezia nel 1957. 13. A. PIERRO, Le porte scritte nfàcce | Lo porto scritto in faccia, in A’ terra d’u ricorde, Il Nuovo Belli, Roma 1960. Albino Pierro è nato a Tursi, in Lucania, nel 1916. Si trasferisce a Roma nel 1939 ed entra nel mondo letterario dopo una laurea in filosofia. Arriva alla fama quando, nel 1959, sceglie il dialetto di Tursi, che lui stesso traduce in italiano, in francese e in inglese, per

evocare la sua infanzia e i personaggi della vita di paese. La ricezione internazionale della sua opera poetica lo porta per ben due volte alla candidatura al Premio Nobel per la letteratura, nel 1986 e nel 1988. Muore a Roma nel 1995. 14. Il suicidio di Cesare Pavese nel 1950 a Torino è interpretato da De Martino come la tragica conseguenza di uno spaesamento irrisolto. 15. Cfr. il capitolo 4. 16. Paesino della provincia di Catanzaro. Questa forma di spaesamento rielabora, in termini culturali, la nozione heideggeriana di «essere fuori di sé» espressa dalla parola Unheimlichkeit. Cfr. capitolo 2, nota 10. 17. Nozione introdotta dal geografo tedesco Friedrich Ratzel, alla fine del XIX secolo, e trasformata in slogan per giustificare la politica espansionista della Germania nazista. 18. A questo proposito notiamo una sorprendente coincidenza col racconto di Piero Chiara «Fine a mezzanotte», pubblicato prima in rivista e poi, nel 1963, nella raccolta Mi fo coraggio da me, All’insegna del pesce d’oro, Milano, pp. 21-31. Stando al padre dello scrittore, che ha vissuto l’esperienza in un paesino siciliano, il 31 dicembre 1875, gli abitanti, convinti che la fine del mondo stesse per arrivare, si sono recati nei campi a fare baldoria. Ad eccezione però dei giovani, che sono rimasti a sorvegliare il campanile, senza distogliere lo sguardo, fino all’ultimo rintocco della mezzanotte. 19. Appena dopo la Seconda guerra mondiale, in occasione di una seduta dell’Unesco a Parigi dei «Rencontres internationales» de Genève e della «Semaine de sociologie» – dal 1946 al 1948 – Emmanuel Mounier tenne una serie di conferenze: Pour un temps d’apocalypse, La machine en accusation, Le Christianisme et la notion de progrès che furono poi raccolte e pubblicate nel 1949 col titolo complessivo La Petite Peur du XX siècle (Neuchâtel, La Baconnière; Paris, Éd. du Seuil, coll. «Les Cahiers du Rhône»). Ripubblicate in Œuvres, Éd. du Seuil, Paris 1962, III, pp. 341-423 (Pour un temps d’apocalypse, pp. 341-60; La machine en accusation, pp. 361-90; Le Christianisme et la notion de progrès, pp. 391-423) [Nota di De Martino]. 20. Quest’analisi è approfondita nel capitolo 3. 21. H. SEDLMAYR, Verlust der Mitte. Die bildende Kunst des 19. und 20. Jahrhunderts als Symptom und Symbol der Zeit, Otto Müller, Salzburg 1948 [trad. it. Perdita del centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca, Borla, Torino 1967, trad. di Marola Guarducci]. Membro del partito nazista fra il 1930 e il 1932, poi fra il 1938 e il 1942, Hans Sedlmayr viene espulso dall’università austriaca dopo la Seconda guerra mondiale e lavora in Baviera alla rivista cattolica «Wort und Wahrheit». 22. Nella prospettiva della apocalisse senza escaton dell’occidente contemporaneo quale si manifesta nel dominio dell’arte sono da vedere soprattutto – oltre a Verlust der Mitte cit. –, i

seguenti saggi: Die Kugel als Gebände oder: das Bodenlose, in «Das Werk des Künstlers», 1939, pp. 278 sgg.; Ueber Sous- und Surrealismus, oder Breton und Plotin, in «Wort und Wahrheit», 1948, fasc. 2; Verlust der Mitte, eine Formel und ihr Sinn, in «Mitteilungen der Gesellschaft f. vergleichenden Kunstforschung», Wien 1950, n. 2; Art du démoniaque et démonie de l’art, in AA . VV .,

Cristianesimo e ragion di stato, Roma-Milano 1952; Vero e falso presente, in «Archivio di

filosofia», 1953 (e in «Merkur», 1955, fasc. di maggio); Die Revolution der modernen Kunst, Hambourg 1955; La rivoluzione dell’arte moderna, Milano 1961 [Nota di E. De Martino]. 23. R. HUYGHE, Histoire de l’art contemporain, Alcan, Paris 1935. 24. H. SEDLMAYR, Verlust der Mitte cit. 25. Allievo di Karl Jaspers e di Ernst Robert Curtius, Hugo Friedrich (1904-1978) è uno studioso di lingue romanze e teorico della letteratura. Il suo lavoro sulla modernità poetica fu rapidamente tradotto in italiano: La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano 1958. 26. Trad. it. Opere complete, Einaudi-Gallimard, Torino 1992. 27. Si veda Croce, in «Critica», 1918, n. 4; M. MATUCCI, Introduzione e Appendice a Illuminations, Firenze 1932. Si veda B. CROCE [L’Italia dal 1914 al 1918] Pagine sulla guerra, [Bari, 1928] 2 a ed. [Nota di E. De Martino]. Oggi sappiamo che la conversione al cattolicesimo di Rimbaud è stata una creazione della sorella Isabelle e di suo marito Paterne Berrichon, curatori dell’edizione delle Œuvres che De Martino cita (cfr. piú avanti). 28. T. MANN, La morte a Venezia, Einaudi, Torino 2015, trad. di Anita Rho. 29. Date delle sue opere piú importanti: The Rainbow, 1915; Women in Love, 1921; Psychoanalysis and the Unconscious, 1921; Fantasia of the Unconscious, 1922; Kangoroo, 1923; The Plumed Serpent, 1926; Mornings in Mexico, 1927; Lady Chatterley’s Lover, 1928; Apocalypse, 1931 [Nota di E. De Martino]. 30. Lawrence era un gran lettore di J. G. FRAZER, The golden Bough. A Study in Comparative Religion, Macmillan, London 1911, 12 voll. [trad. it. Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Newton Compton, Roma 2016]. Leo Frobenius (1873-1938), etnologo e archeologo che operava ai margini dell’accademia tedesca, è uno dei grandi scopritori dell’Africa: Storia della civiltà africana: prolegomeni di una morfologia storica, trad. di Clara Bovero, Einaudi, Torino 1950 [ed. orig. Kulturgeschichte Afrikas, Prolegomena zu einer historischen Gestaltlehre, Phaidon Verlag, Zürich 1933]. 31. «La nostra scienza è la scienza di un mondo morto». 32. La prima edizione postuma di Apocalypse è pubblicata in inglese dal libraio-editore fiorentino Orioli, nel 1931. Si deve a Piero Nardi la ricezione italiana di D. H. Lawrence con la pubblicazione delle sue opere complete: Tutte le opere, Mondadori, Milano 1947-1975. In Francia,

Apocalypse sarà scrupolosamente commentato da Gilles Deleuze: Nietzsche et Saint Paul, Lawrence et Jean de Patmos, in Critique et clinique, Les Éditions de Minuit, Paris 1993, pp. 50-70. 33. K. KERÉNYI, Le figlie del sole, trad. di Francesco Barberi, Einaudi, Torino 1948 [ed. orig. Töchter der Sonne. Betrachtungen über griechische Gottheiten, 1944]. Si tratta del sesto volume della Collana di studi religiosi, etnologici e psicologici, detta «Collana viola». 34. D. H. LAWRENCE, Apocalypse cit. 35. In quel periodo Lawrence si trova nel New Mexico, e riceve nel 1923 il manoscritto e i disegni del pittore e illustratore Frederick Carter dedicati a un’interpretazione astrologica dell’Apocalisse. Nel 1929 lo scrittore, che sta soggiornando a Bandol, comincia a scrivere un’introduzione per un nuovo libro di Carter, che costituirà il punto di partenza del testo dell’Apocalypse, pubblicato poi postumo. Questa prefazione è pubblicata con la prima edizione italiana autorizzata: Apocalisse, trad. di Ernesto Ayassot, Mondadori, Milano 1947. I riferimenti alle pagine, e le citazioni che seguono, si riferiscono a questa edizione. 36. J.-P. SARTRE, La nausée, Gallimard, Paris 1938 [trad. it. La nausea, Einaudi, Torino 1948]. 37. Cfr. supra, par. 1.9. 38. De Martino traspone al testo letterario l’analisi che ha elaborato a partire da storie cliniche; cfr. il capitolo 2, par. 1.3. 39. J.-P. SARTRE, Situations I, Gallimard (coll. «NRF»), Paris 2010, pp. 126 sgg. Tutto ciò che segue è composto da citazioni di Sartre che commenta L’Étranger e Le mythe de Sisyphe, a volte leggermente modificato. Le virgolette corrispondono a quelle che lo stesso Sartre usa quando cita Camus. 40. Allusione al romanzo di Fëdor Dostoevskij, L’idiota (1868). 41. I riferimenti delle pagine e le citazioni che seguono in questa sezione rimandano all’edizione del 1962. 42. L’opera di Léon Chestov (1866-1938), intellettuale russo esiliato in Francia, si colloca ai margini della letteratura, della filosofia e della mistica, all’interno dell’esistenzialismo cristiano. Cfr. il suo Kierkegaard et la philosophie de la littérature existentielle. Vox clamantis in deserto, Vrin, Paris 1998. Albert Camus fu un suo lettore attento. Generalmente associato alla corrente «personalista» di ispirazione cristiana, Max Scheler (1874-1928) orienta la fenomenologia verso l’analisi dei valori e dell’affettività. 43. P. JANET e F. RAYMOND, Les obsessions et la psychasténie, Alcan, Paris 1903, 2 voll. 44. Gli indifferenti, Ed. Alpes, Milano 1929; Bompiani, Milano 1949; Agostino, Bompiani, Milano 1945; La disubbidienza, Bompiani, Milano 1948 [Nota di E. De Martino]. 45. A. MORAVIA, La noia, Bompiani, Milano 1960. 46. A. MORAVIA, La disubbidienza cit.

47. S. BECKETT, Aspettando Godot, a cura di Carlo Fruttero, Einaudi, Torino 2018. 48. Questa risposta non esiste. Beckett nota semplicemente, in una didascalia: «(Estragon non dice nulla)» [Nota del traduttore francese]. 49. Titolo di un’opera mistica di San Bonaventura (1259). 50. Questa ridefinizione antropologica dell’epoché husserliana viene sviluppata nel capitolo 7.

Capitolo sesto Antropologia e marxismo

In tutti i piani abbozzati da De Martino per La fine del mondo era previsto un capitolo dedicato al «dramma dell’apocalisse marxiana». Questo capitolo è stato individuato anche da Angelo Brelich, che ne sottolinea l’importanza e le incertezze legate alla sua organizzazione complessiva: «Non si vede ancora la precisa struttura (e forse nemmeno il titolo) di questa che è una delle parti piú importanti dell’opera» 1. Di fatto, né il capitolo nella forma che ha assunto nell’edizione precedente, né quello qui ricostruito giustificano il titolo, o almeno ciò che l’espressione «apocalisse marxiana» potrebbe subito evocare nel lettore contemporaneo, per il quale l’analisi del movimento comunista in termini di religione secolare rimanda inevitabilmente ai frequenti dibattiti sulle relazioni che intercorrono fra la sfera religiosa e la sfera politica. Stando alla descrizione fatta da Angelo Brelich, e che ritroviamo nella catalogazione degli archivi, questo capitolo si apriva col dossier «L’eredità di Croce», e continuava con alcuni approfondimenti sulla «vitalità» che, alla prima curatrice, sono verosimilmente sembrati estranei a un progetto di studio del millenarismo marxista. Il primo dossier è rimasto fino a oggi inedito; gli altri materiali sono stati inseriti nel voluminoso e problematico «Epilogo» 2. Eppure, letti insieme, questi documenti pongono una domanda e abbozzano una prima risposta che getta luce sull’inatteso capovolgimento al quale ci troviamo di fronte nell’esame delle relazioni che intercorrono fra marxismo e religione, che l’edizione italiana poneva nell’ultima sezione di questo capitolo, e al quale noi invece restituiamo il suo posto centrale. Inserire Benedetto Croce come figura tutelare di un esame della teoria marxista, rifarsi nuovamente all’eredità crociana all’inizio degli anni Sessanta significa forse tornare al «brillante tour de main idealistico» del maestro, come già dieci anni prima si chiedeva Renato Solmi nel leggere la prefazione demartiniana alla raccolta di saggi Le origini dei poteri magici di Émile Durkheim, Henri Hubert e Marcel Mauss 3, nella quale De Martino sembrava rinnegare le audacie concettuali della propria analisi del Mondo magico? Per il momento, limitiamoci a rilevare che questo commovente ritratto del tragico guardiano dei valori che chiama a combattere l’«Anticristo» che è in noi rivendica la fondatezza di una distinzione: separare l’uomo politico – l’animatore del Partito liberale che lo stesso De Martino in quanto dirigente politico ha combattuto – dal filosofo al quale il Gramsci dei Quaderni del carcere opponeva le esigenze del materialismo storico, e che negli ultimi anni della sua vita ripensava il suo sistema di spiegazione del mondo a partire da una posizione vitalista. Ma non è una preoccupazione esclusivamente filosofica quella che porta De Martino a identificare le forme di compatibilità e d’incompatibilità di quest’ultimo stadio del pensiero crociano con ciò che l’antropologia ci insegna

della vita in società. L’obiettivo, che sarà poi ripreso nell’ultimo capitolo, consiste in una ridefinizione, operata a partire dalla diversità dei regimi di produzione materiale attestati dall’etnologia, di ciò che bisogna intendere per «economico», in rapporto dialettico con la revisione della teoria marxista della religione. Diverse erano le ragioni che potevano indurre De Martino a leggere i movimenti comunisti in chiave religiosa. L’esperienza vissuta del fascismo sognato come religione civile e poi l’entrata nella resistenza in nome della «religione della libertà» gli hanno progressivamente fatto provare e teorizzare diverse forme di reversibilità del religioso e del politico, di cui ancora giovanissimo si era proposto di scrivere la storia all’interno della cultura europea occidentale. Egli poteva in effetti accettare di buon grado l’analisi già formulata da Eric Voegelin 4 e da Karl Löwith sui presupposti teologici delle filosofie della fine della storia. Ma ritrovando tale analisi in Norman Cohn, Wilhelm Mühlmann e Mircea Eliade 5, De Martino si rende conto che il riconoscimento di una dimensione religiosa insita negli ideali comunisti è per questi autori un ulteriore motivo di rifiuto politico della teoria marxista 6. Ed è qui che, senza attardarsi a discutere questa lettura e rinunciando a qualsiasi precauzione oratoria, la riflessione demartiniana inverte bruscamente la prospettiva: sono le insufficienze dell’analisi marxista del religioso che bisogna individuare e comprendere. «La storiografia religiosa marxista è innegabilmente infantile». Questo giudizio severo, ripetutamente argomentato nei frammenti di questo capitolo, De Martino lo aveva già esposto nella prefazione a una sorprendente antologia di testi su La religione nell’U.R.S.S. pubblicata nel 1961 per i tipi di Feltrinelli, a cura di uno degli storici delle religioni della scuola romana, l’islamologo Alessandro Bausani, vicino a Brelich e allo stesso De Martino. Di fatto, soltanto tenendo conto di tale prefazione e di alcune recensioni che hanno accompagnato tale pubblicazione, possiamo, a mio giudizio, intravedere la natura del «dramma» su cui De Martino intendeva lavorare. Questa iniziativa editoriale, di cui Brelich, Bausani e De Martino discussero sicuramente a lungo, era destinata a produrre uno choc fra i lettori italiani: si trattava di misurare lo stato di «arretratezza» delle scienze religiose sovietiche a partire dalla lettura di articoli comparsi ne La grande enciclopedia sovietica fra il 1948 e il 1958, corredati da alcune monografie di ricercatori sovietici 7. La prefazione si apre con l’osservazione di un’analogia formale fra il discorso fatto in nome della «scienza» e quello del cerimoniale religioso. Mentre non si tratta affatto di confrontare la definizione di religione come «riflesso deformato» del mondo reale partendo da situazioni storiche accuratamente documentate, sostiene De Martino, queste stesse situazioni si trasformano in eventi cerimoniali che esigono la ripetizione liturgica di una formula canonica: «[…] e come tutte le messe sono eguali, cioè ripetono egualmente lo stesso mito di Cristo, riassorbendo in quell’orizzonte sempre identico la varietà dei concreti drammi storici dei fedeli che assistono alla liturgia, cosí le scritture degli studiosi sovietici in materia religiosa, per disparati che siano gli argomenti storico-religiosi trattati, assumono l’andamento fisso e prevedibile di una messa» 8. Tuttavia, questa lettura metaforica cede subito il passo a un’altra

diagnosi che identifica, non piú una postura religiosa, ma un caso particolare di scienza traviata in ideologia che, come per le altre «scienze» marxiste, esige di identificare «[…] i pericoli in cui ogni metodologia si espone quando da strumento di analisi e da momento teorico autonomo di una prassi trasformatrice della realtà si converte in strumento immediato di lotta politica e si confonde totalmente con la propaganda di partito e con i compiti che di volta in volta il partito si pone» 9. Ma non è tutto. Bisogna capire le ragioni storiche di questo travisamento per aiutare i ricercatori sovietici a ristabilire delle esigenze scientifiche, in materia di scienze religiose, che siano omologhe a quelle degli studiosi occidentali. Cosí facendo sarà anche possibile comprendere la crisi che colpisce la società sovietica coeva, come attestato dal dibattito avviato sul finire del 1959 dal grande quotidiano russo «Izvestija». Questo dibattito, apertosi con una lettera, attribuita a un certo Usakowski, operaio delle fabbriche automobilistiche di Mosca – documento riprodotto integralmente da De Martino - verte sulla carenza di riti biografici e di simbolismo civile e fa appello alla creatività culturale per far conoscere e proporre nuove forme rituali. Simili preoccupazioni non sono nuove e non riguardano soltanto la società sovietica. Nella sua recensione a un’edizione italiana di tre testi di Friedrich Engels sul Cristianesimo primitivo pubblicata nel 1953 nella rivista «Società» 10, De Martino attaccava duramente l’autore della prefazione, lo storico marxista Ambrogio Donini, il quale non esitava a presentare i tre saggi (pubblicati tra il 1882 e il 1895) come il frutto di cinquant’anni di una ricerca che avrebbe trovato totale conferma tra gli specialisti contemporanei: «Non vorremmo che questa prefazione alimentasse il pregiudizio che su tutti i problemi, e quindi anche sulla storia delle origini cristiane, tutto si trovi già risolto a suo tempo e a suo luogo dai fondatori del socialismo scientifico, in modo che per tutti i problemi, e quindi anche per la storia del Cristianesimo primitivo, non resterebbe che “applicare” le loro “formule”, e trovare “conferme”, del resto già scontate in precedenza» 11. Per De Martino, sarebbe necessario far conoscere al pubblico occidentale le ricerche sovietiche citate dallo storico italiano come testi di riferimento. Con accentuazioni diverse, tali temi sono ripresi negli articoli pubblicati su riviste culturali e scientifiche con i quali De Martino accompagna l’uscita dell’antologia di Bausani che, alcuni anni dopo, risponde a suo modo a questo vuoto documentario 12. Poiché è evidente che non sono solo gli studiosi sovietici che devono fare ammenda; quanto all’analisi delle formazioni religiose, anche gli intellettuali italiani, marxisti o meno, hanno molto da imparare. Dunque, i numerosi frammenti del sesto capitolo, che riprendono, approfondendole, queste argomentazioni, attestano tutta l’importanza attribuita da De Martino alla necessità di tornare ai fondatori del materialismo storico per identificare ciò che, nel linguaggio che avevano forgiato, nelle prospettive che avevano aperto e nelle analisi che avevano tratteggiato, doveva essere ripensato in modo da rendere comparabili, una volta riconosciuta la loro diversità, i «sistemi di scelte culturali», liberandoli dalla prospettiva metafisica di un piano della storia universale. A ogni modo, ciò che lo interessa sono le prime elaborazioni concettuali, e non i loro usi politici, poiché si tratta di riaffermare

un’esigenza d’immanenza all’interno dell’antropologia che lui stesso pratica, quella che riconosce l’efficacia delle logiche simboliche e che distingue accuratamente i simbolismi mitico-rituali dai simbolismi civili, qui rapidamente evocati attraverso la riflessione, di stampo sorelliano, sul grande sciopero dei minatori francesi del marzo 1963. I lettori saranno sicuramente sorpresi dall’esigua presenza della grande figura italiana del rinnovamento dell’analisi marxista che ha permesso a De Martino, all’indomani della Seconda guerra mondiale, di trasferire l’inchiesta etnografica dai mondi lontani alla penisola italiana. Presenza cosí ridotta da indurre la stessa Clara Gallini a esprimere il proprio rammarico nel vedere De Martino abbandonare Antonio Gramsci orientandosi invece verso Martin Heidegger 13. Appare invece evidente che le analisi gramsciane sulla diversità dei cattolicesimi e sul ruolo del clero come intellettuale collettivo siano un dato di fatto per l’etnologo meridionalista 14, ma che il livello speculativo sul quale l’antropologo situa la questione della divisione fra natura e cultura imponga un ritorno al giovane Karl Marx. E si capisce meglio la sua ostinazione nel definire il lavoro mitico-rituale della religione, non come una logica che rinvia, a scadenza, ad aspetti universali legati alle leggi dell’attività inconscia dello spirito – insomma un soggetto kantiano alla maniera di Lévi-Strauss – ma come un processo di destorificazione: questo sembrerebbe essere l’unico modo per riconciliare l’antropologia e la teoria che, in quel periodo, rappresenta lo sforzo piú radicale per affermare la storicità della condizione umana. Cosí come fa nello stesso momento Louis Althusser, De Martino percepisce nello statuto dell’economico la questione centrale da ripensare per sfuggire alle interpretazioni economiciste del materialismo volgare e per liberare l’analisi da qualsiasi forma di teleologia 15. Ma mentre in Francia gli antropologi marxisti forgeranno la nozione di «modo di produzione» per distinguere i vari tipi di società, superando l’opposizione fra società occidentali e società primitive, vediamo qui comparire la strana formulazione di «progetto comunitario dell’utilizzabile», la genesi del quale si chiarirà nel capitolo 7. Giordana Charuty 1. Lettera del 16 gennaio 1967 indirizzata al professor Bollati (cfr. supra, l’introduzione a questo volume «Tradurre» La fine del mondo di Giordana Charuty). 2. Si tratta di frammenti raccolti, nell’edizione italiana, nella sezione 5.3.3. «Vitale, economico, utile, valore, presenza» (E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino 2002, pp. 653-68). 3. R. SOLMI, Ernesto De Martino e il problema delle categorie, in «Il Mulino», n. 5, maggio 1952, pp. 315-27. Ripubblicato in R. SOLMI, Autobiografia documentaria, Scritti 1950-2004, Verbarium-Quodlibet, Macerata 2007, pp. 51-61. La prefazione commentata presenta la traduzione italiana di un volume della «Collana viola»: É. DURKHEIM, H. HUBERT e M. MAUSS, Le origini dei poteri magici, Einaudi, Torino 1951.

4. E. VOEGELIN, Die politischen Religionen, Bermann-Fischer, Wien 1938 [trad. it. La politica: dai simboli alle esperienze, a cura di Sandro Chignola, Giuffrè, Milano 1993]. 5. M. ELIADE, Mythes, rêves et mystères, Gallimard, Paris 1957, pp. 20 sgg. [trad. it. di Giovanni Cantoni, Miti, sogni e misteri, Rusconi, Milano 1976]. 6. Poneva la questione del «mito marxista» in questo senso già nel 1948 nel giornale socialista «Avanti!» per attribuire, nel solco di Antonio Gramsci, questi «riflessi mitologici, metafisici, millenaristici» alla frattura culturale attestata sin dal Rinascimento fra le élites e il popolo (Il mito marxista, in «Avanti!», 29 agosto 1948, n. 204). 7. Questa selezione è organizzata in sei parti: questioni generali, autori e scuole, Cristianesimo, aspetti russi del Cristianesimo, religioni non cristiane, saggi e recensioni. 8. Ernesto De Martino in A. BAUSANI, La religione nell’U.R.S.S., Feltrinelli, Milano 1961, p. IX . 9. Ibid., p. XII . 10. F. ENGELS, Sulle origini del cristianesimo, Rinascita, Roma 1953, in «Società», vol. 9, n. 4, dicembre 1953, pp. 1-2. 11. Ibid., p. 1. 12. Il palazzo delle nozze. Nuovi simboli e antichi pregiudizi nella Russia sovietica, in «L’Espresso mese», vol. 2, n. 3, marzo 1961, pp. 58-67; Caproni, parrucche ed altro (risposta a C. Pellizzi), in «Rassegna italiana di sociologia», vol. 2, n. 3, luglio-settembre 1961, pp. 389-99; Postilla a Scarcia, in «Nuovi Argomenti», n. 59-60, novembre 1962 - febbraio 1963, pp. 57-62. 13. Cfr. nell’introduzione a questo volume La controversa ricezione de «La fine del mondo» di Daniel Fabre. 14. In Italia, i rapporti fra Gramsci e De Martino sono periodicamente oggetto di una revisione critica. Sulla prima lettura demartiniana di Gramsci, vedi G. CHARUTY, Ernesto De Martino. Les vies antérieures d’un anthropologue, Éditions Parenthèse - Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, Marseille 2009, pp. 296-308 [trad. it. Ernesto De Martino. Le precedenti vite di un antropologo, Angeli, Milano 2010, pp. 285-97]. L’analisi è ripresa da Giovanni Pizza, che apre nuove prospettive: Gramsci e De Martino. Appunti per una riflessione, in «Quaderni di teoria sociale», n. 13, 2013, pp. 77-112. Carlo Ginzburg invece interroga, sul piano concettuale, la presenza sotterranea di Giovanni Gentile: De Martino, Gentile, Croce. Su una pagina de «Il mondo magico», in «La Ricerca Folklorica», n. 67-68, 2013, pp. 13-20. 15. Emmanuel Terray ha formulato in maniera brillante l’importanza di Althusser per gli antropologi: «Per Althusser la struttura del tutto è “a dominante”: ciò significa che in ogni tipo di società, una sfera della vita sociale – che può essere tanto la politica quanto la religione o l’economia – domina le altre. Ogni volta si tratta della sfera nella quale è in gioco la riproduzione della totalità sociale considerata. Quanto alla determinazione finale da parte dell’economia,

Althusser la conserva sotto una forma del tutto modificata: l’economia è determinante nella misura in cui decide l’identità della sfera dominante»: E. TERRAY, Anthropologie et marxisme: années 1950-70. L’Afrique, miroir du contemporain, Journée d’études de l’Institut interdisciplinaire d’anthropologie du contemporain (IIAC-CNRS-EHESS), Paris, giugno 2007, disponibile online: https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00207614 (consultato nell’ottobre 2016).

1. L’eredità di Croce 1. 1.1. La polemica del Croce contro il morboso, contro la disgregazione della «vita spirituale», contro il crollo dell’ethos che sostiene l’esistenza umana fu continua in tutta la sua opera: decadentismo, attivismo, esistenzialismo furono il bersaglio della sua critica proprio perché, in un modo o nell’altro, testimoniavano di ciò in varia guisa. La sua «filosofia dello spirito» è in fondo un progetto di vita umana armonica, sana, equilibrata, in cui predominano i temi della chiarezza, della serenità, della tenace fedeltà a ciò che «vale». Ma ora, dopo di lui, occorre ridiscendere agli inferi, non certo per farne la nostra dimora, ma per comprendere meglio di quanto a lui non fu possibile i rischi e le tentazioni che minacciano l’umano e per rendere piú efficace quel progetto di «vita sana» che gli stette tanto a cuore. Croce non ignorava affatto la drammatica esperienza della «disgregazione», come quando giovinetto coltivò per qualche tempo propositi suicidi o uomo maturo patí sino al limite della follia la perdita di una creatura teneramente amata: ma quanto di piú «privato» vi fu in questo esperire ci resta nascosto, e solo ne avanzano testimonianze quasi sempre indirette, risolte nella pubblicità di un problema, come quando scrisse il brano sui «trapassati» 2. Oggi noi gli siamo grati di questa riservatezza, che sola poteva farci intendere lo slancio della valorizzazione, l’ethos del trascendimento che, vero Atlante, sorregge il mondo: ma proprio perché questo intendere non vada smarrito, bisogna pure che qualcuno renda testimonianza anche di quel peggio, di fronte al quale il filosofo, per una sorta di carità mascherata di insensibilità, preferí tacere, o, per i compiti che scelse come suoi, impiegò l’arma dell’ironia, del motteggio o della critica rigorosa e spietata. Ma a noi tocca ridiscendere agli inferi, se nell’ora che volge vogliamo consolidare il potere dei superi. 1.2. Testimonianze autobiografiche. Fausto Nicolini, Croce [Unione tipografico-editrice torinese], Torino 1962. Croce giovinetto: «Lo stato morboso del mio organismo che non pativa di

alcuna malattia e sembrava patir di tutte, la mancanza di chiarezza in me stesso e sulla via da perorrere, gl’incerti concetti sui fini e sul significato del vivere, e le altre congiunte ansie giovanili, mi toglievano ogni lietezza di speranza e m’inchinavano a considerarmi avvizzito prima di fiorire, vecchio prima che giovane. Quegli anni furono i miei piú dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti pensieri di suicidio» (p. 71). (Negli anni immediati che seguirono quello sciagurato 1881, quando perse nel terremoto di Casamicciola i genitori e la sorella). «Nel suo primo stadio, il dolore è follia o quasi, ecc.» (Croce che perde la donna amata). Croce a Renato Serra (1913): «Mi permetta, caro Serra, di raccomandare a Lei, a Lei che ha il cuore buono, di raccomandarle, in questa ora in cui il dolore mi strazia e mi sconvolge, la serietà della vita. Non possiamo vivere di affetti per cose o persone: dobbiamo amare e legarci, ma dobbiamo essere pronti a distaccarci senza cadere. E, per non cadere, non c’è altro modo che svolgere in sé il senso dei doveri verso la vita. Altrimenti, che cosa resta? Il lurido suicidio e il lurido manicomio». Il generale Gandolfi a Croce, narrandogli le impressioni del primo combattimento: «In quel fischiare di palle, in quel trambusto, io non sentivo altro bisogno che di muovermi, di fare anch’io qualcosa; e, facendo, ritrovai me stesso e superai lo smarrimento». E Croce, che riferiva l’aneddoto nel 1939, commenta: «Certo il Gandolfi non pensava di fornirmi un viatico; e nondimeno me lo forní quella sera. Io non so quante volte ho ripensato, e quante volte ancora ripenso, al suo detto, e ne ho tratto e ne traggo forza. Nei maggiori travagli, nei piú sfiduciati abbattimenti che ho sofferti e soffro, una voce mi risuona di dentro: Fate qualche cosa. Ed ecco torno tenacemente a fare quel che m’è dato di fare, ciò che le attitudini e l’educazione che mi sono data mi hanno preparato a fare; e mi conforto e mi rassereno in quell’atto. E “fare qualche cosa” è il consiglio che do, o piuttosto, trasmetto, perché cosí operando, si vive e si riaccende vita nel mondo, che, nei nostri momenti di sfiducia e di depressione, a noi par che vada in rovina, e che a rovina non vuole e non può andare e, per mantenersi saldo, richiede e comanda il nostro “fare qualcosa”, l’opera nostra» (pp. 474 sgg.). […] 1.3. Croce e l’apocalissi (capitolo recensione a Splenger; capitolo

Mounier). Dal 1946 al 1948 il Croce scrisse alcune note di comune ispirazione: «La fine della civiltà», «L’anticristo che è in noi», «Il progresso come stato d’animo e il progresso come concetto filosofico», «Esperienze storiche attuali e conclusioni per la storiografia», raccolte poi sotto il titolo complessivo di «Verità ed errore delle previsioni pessimistiche» in Filosofia e storiografia, pp. 302 sgg. 3. Lo stimolo immediato sotto cui furono scritte queste pagine appare lo smarrimento degli animi nel secondo dopoguerra, reso piú profondo dal riaffiorare di antiche flessioni dell’energia morale della civiltà europea, dalla pratica dei regimi totalitari e dall’imbarbarimento bellico: ma piú ancora lo stimolo di questi scritti appare essere lo spettro del comunismo, e lo stato di allarme in cui visse l’Italia sino al 18 aprile 4. Ma al di là di questa immediata motivazione polemica, che negli scritti di Croce va sempre accuratamente segnalata – quelli di questo periodo, come per esempio lo scritto su «L’umanità e la natura» (pp. 247 sgg.), con la distinzione di fatto tra «uomini che (nella storia) sono attori e uomini che nella storia stanno come passivi, ecc.» –, vi sono alcuni temi di pensiero che vanno ritenuti perché a lor volta possono servire da stimolo per noi, dopo quasi vent’anni da allora. Il Croce osservava che l’inquietudine per una fine che si verrebbe preparando della civiltà o della civiltà europea, dopo aver dato già segno di sé nel primo dopoguerra ora, nel secondo, si è convertita in un «sentimento largamente diffuso». E segnalava che, «in questa forma e in questa estensione» era sentimento «nuovo nei secoli della storia europea», perché l’apocalittica medievale era avvivata dalla speranza cristiana, e le età successive, l’Umanesimo e il Rinascimento, l’Illuminismo, l’età liberale ebbero ciascuna a suo modo la confidente certezza nella vita della cultura; «ma ora – dice Croce – gli animi sono pervasi dalla tristezza, le menti dalla previsione del peggio, e l’impeto fidente, che il buon lavoro richiede, manca» (p. 304). E lamentando che «la fine della civiltà, di cui si discorre, della civiltà in universale, (fosse) non l’elevamento, ma la rottura della tradizione, l’instaurazione della barbarie», contrapponeva che certamente «le sorti della vita morale sono sempre in pericolo» (p. 308) e che il tesoro della tradizione culturale europea poteva andare perduto (p. 307), ma che a voler comprendere ciò con la mente e a voler fronteggiare i pericoli con la volontà occorreva rifarsi alla dialettica di vitalità e moralità, di fortuna e virtú,

precludendosi l’inorridimento e la cupa melanconia che infiacchiscono l’azione, ma educandola altresí col vigile senso di ciò che può andare perduto (pp. 308 sgg.). Nell’Anticristo che è in noi che cosa propriamente costituisca l’insidia è cosí chiarito: «... L’Anticristo di cui discorriamo, non è semplicemente l’umana peccaminosità, l’abbandonarsi al male con l’interferente coscienza che quello è male, con la limpidezza di concetti morali che molte volte è stata con meraviglia osservata persino in uomini delittuosi i quali alle verità morali fanno ossequio, pur consapevoli che stanno sopra di loro come un cielo da loro inattingibile e perciò rinunziando a tentarne l’attuazione. Il vero Anticristo sta nel disconoscimento, nella negazione, nell’oltraggio, nella irrisione dei valori stessi, dichiarati parole vuote, fandonie, o, peggio ancora, inganni ipocriti per nascondere e far passare piú agevolmente agli occhi abbagliati dei creduli e degli stolti l’unica realtà che è la brama e cupidigia personale, indirizzata tutta al piacere e al comodo. Questo è veramente l’Anticristo, opposto al Cristo: l’Anticristo distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non potere costruire altro che non sia il processo sempre piú vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuole comportarsi come positivo ed essere come tale non piú creazione ma, se cosí si potesse dire, discreazione» (pp. 314 sgg.). «Che la minaccia dell’Anticristo contro Cristo si sia levata sembra indubbio» (p. 316). E [Croce] accomunava nella stessa condanna gli stessi sedicenti fronteggiatori dell’Anticristo, quasi che il Maligno avesse guadagnato le loro stesse fila. Egli tuttavia aveva soprattutto in mente il marxismo, e le rapide conversioni di intellettuali a esso, che gli sembrava indebolire il fronte della resistenza: ma nella nostra prospettiva non è questo elemento occasionale e contingente, per quanto importante possa essere nel decidere del Croce come politico, che ci interessa. […] Ritornando sull’argomento in «Esperienze storiche attuali e conclusioni per la storiografia», il Croce chiariva dove si appuntava il suo pensiero circa l’Anticristo in noi: «... la teoria formulata nel materialismo storico non avrebbe avuta l’accettazione e divulgazione che ha avuto e ha ancora, se non si fosse incontrata con una condizione di animo formatasi nel mondo odierno e che sarebbe assai lungo descrivere, nata dal romanticismo deteriore e sensuale, nella quale è scaduto e si [è] ottuso il sentimento della libertà e dignità umana, e l’elevatezza del pensiero e la sua religiosità, di che è specchio l’odierna letteratura e l’odierna pseudopoesia e le decadenti e

ottuse filosofie di moda; donde non solo l’indifferenza verso i sempre venerati valori umani […] ma una sorta di allegria di distruzione, che tiene del diabolico» (p. 332). Né esitava a confessare che «gli uomini della vecchia generazione, che vissero nei primi decenni seguiti al Risorgimento italiano, e in un’Europa liberale, si domandano stupiti donde siano sbucate coteste nuove genti (nei cui volti c’è chi perfino ha travisto come un segno di riprovazione impresso da Dio), e si domanda donde esse attingano vigore e gusto del vivere nel deserto che hanno creato in se stessi e in cui procurano tirare gli uomini tutti» (pp. 332 sgg.). Senza dubbio in tutte le età è stata combattuta la lotta fra una forma alta e una bassa di umanità, come la lotta tra laicismo e oppressione ecclesiastica, tra libertà e monarchie assolute, tra libertà storicamente concreta e fanatismo illuministico: ma in quelle forme basse contro cui le forme alte si levavano combattendo racchiudevano a lor modo «vecchi e astratti ideali morali», che a suo tempo avevano positivamente operato nella storia: mentre nell’epoca attuale si viene consumando una vera e propria «negazione delle radici stesse dell’uomo» (p. 333), che la caratterizza rispetto a tutte le altre. Almeno nel Medioevo «vi fu la luce non del tutto spenta della romanità e il calore della nuova fede cristiana»: ma sussiste il pericolo per l’epoca nostra se non della fine dell’umano, di un troppo lungo periodo di decadentistica barbarie o semibarbarie nel corso della quale «sarà fiaccata, come non fu mai, la tradizione della storia europea» (p. 333); sarà fiaccata non da una barbarie primitiva e generosa, ma da una «barbarie della riflessione» (p. 334). Sulle apocalissi vedi anche «Il carattere della filosofia moderna» (pp. 199 sgg.) che però si riferisce ad altre preoccupazioni intorno al 1940, e nel quale ancora il marxismo, come il mazzinianesimo 5 erano considerate apocalissi laiche, animate al pari delle altre da «sostanza di cose sperate», e immaginose figurazioni e ipostasi di aspirazioni dell’anima umana alla purità, alla giustizia, alla bontà.

2. Presenza, vitalità, storicità. 2.1. La vitalità umana non è la vitalità «cruda e verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore» 6. Questa è la vitalità della pianta o dell’animale, non dell’uomo. La vitalità umana è la presenza, cioè la vita che

si fa presente a se stessa e che si fa centro di energia sintetica secondo distinte potenze operative. È l’unità che condiziona la distinzione delle forme culturali, ed è al tempo stesso la molla dell’opposizione per entro ciascuna di queste forme. È il dominio tecnico della natura, la fabbricazione di strumenti, il regime di produzione dei beni economici, l’organizzazione sociale, giuridica e politica dei gruppi umani, la lotta per la potenza e l’egemonia degli individui e dei gruppi. Ed è quella stessa unità dialettica che per essere appunto la potenza di tutte le forme, va oltre l’utile e l’economico, distendendosi nel divenire culturale completo, nell’ethos, nell’arte, nel logos. O è la vitalità dell’uomo, ma in quanto essere naturale, in quanto organismo corporeo, e cioè non in quanto uomo. Ma la vitalità umana presenta già questa «educazione ulteriore», cioè la vitalità che si fa presente a se stessa, che si contrappone al vitale meramente biologico in sé indiviso e cieco. La vitalità umana è dunque la presenza come centro di energia sintetica secondo distinte forme operative. La natura è incapace di cultura, appunto perché in essa non ha luogo la presenza che fa prorompere da sé le opere e i giorni dell’umana civiltà. D’altra parte la presenza non coincide con la forma economica, poiché questa forma è una distinta potenza del fare che comporta il dominio tecnico della natura mentre la presenza è, come si è detto, la potenza sintetica che condiziona tutte le singole forme della vita culturale, cosí ogni singola forma è condizionata, per potersi esplicare, dalla integrità della potenza sintetica della presenza. Il dominio tecnico della natura non ha luogo in seno alla stessa natura, ma solo attraverso la forma economica della vita culturale; la natura non sa di regimi economici, di strumenti materiali e mentali di lavoro, di società e di stato e di norma giuridica, e di quant’altro presuppone una costruzione sintetica della presenza, una iniziativa determinata secondo la particolare coerenza che è propria dell’utile e del calcolo utilitario: tutto ciò è reso possibile solo dalla presenza. 2.2. La forma della praxis «piú elementare» è, per il Croce, quella vitale edonistica utilitaria o economica, ed è contraddistinta dalla dialettica del piacere e del dolore. Ora a me sembra che la dialettica del piacere e del dolore appartiene senza dubbio alla vitalità biologica (e alla nostra vitalità corporea) ma non può ridursi a questa dialettica anche la vita economica. L’utile economico non è soltanto il piacere, ma un calcolo di piaceri, una scelta e una creazione istituzionale di strumenti pratici (materiali e mentali)

per controllare tecnicamente la natura e piegarla ai fini umani. Dall’utile economico procedono i regimi di produzione dei beni, la società e lo stato, le scienze naturali e le matematiche, mentre dal piacere e dal dolore che ci accomuna al mondo animale tutte queste cose non possono essere dedotte (e di fatto nel mondo animale non ci sono). L’utile ha già in sé, per potersi esplicare, il principio della sintesi autonoma, laddove piacere e dolore, impulso e istinto, soddisfazione e sazietà sono al di fuori della sintesi autonoma e della creazione culturale utilitaria (cfr. Ultimi saggi, 1935 [lo scritto è del 1933], p. 190, nota). [...] Occorre provarsi a pensare l’economico come valore della securitas, e quindi come valore inaugurale in cui deve attuarsi l’ethos del trascendimento della vita. L’economico è l’orizzonte del domestico, della datità utilizzabile, di un mondo di «cose» e di «nomi» relazionato secondo un progetto comunitario della utilizzazione possibile o attuale; un mondo che appunto perché dato se ne può fare qualcosa per l’utile, e che anzi indica nella sua datità il suo carattere di resistenza operabile. Per questo orizzonte del domestico l’esserci innanzitutto si trova come centro di operabilità utilitaria in esso, come centro di fedeltà alle sicurezze passate convertite in agevoli abitudini e come centro di iniziativa per istituire, qui e ora, la sicurezza preminente di cui abbisogna: e per questo trovarsi e porsi e poi ancora trovarsi e poi ancora porsi «al sicuro», l’esserci emerge inauguralmente dalla vita, si genera e si rigenera innanzitutto, gettando la prima base della sua vita culturale. In questa fungente dialettica dell’essere al sicuro e dell’assicurarsi sempre di nuovo, in questo esserci inaugurale economico-sociale, in questa storia dell’utilizzabile come nesso di fedeltà intersoggettive sfumanti nell’anonimo e nell’abitudinario e di iniziativa liberale che riadattano e accrescono il patrimonio comune di «utilizzabili», l’esserci per il valore fa la sua prima prova: e la fa proprio in quel dominio del vitale che parrebbe il regno sovrano della piú solitaria individualità chiusa del piacere e del dolore, del bisogno e della soddisfazione. Solo sulla base di questo dominio intersoggettivo della «sicurezza» – sempre rimesso in causa e sempre accresciuto nella storia, sempre «dato» e sempre «dabile» – si possono costituire gli altri orizzonti di valorizzazione del mondo. L’economico non può essere l’unico valore perché l’ethos del trascendimento non può esaurirsi in un valore particolare: anzi assolve alla sua funzione valorizzatrice solo

quando non soffoca tutte le altre valorizzazioni, non si sostituisce a esse, non pretende di esaurire l’esserci (il doverci essere). 2.3. Qual è l’origine della dialettica? [...] Il non essere della presenza, cioè il crollo della possibilità di andar oltre il vitale biologico dischiudendosi alla distinzione dell’utile, del morale, dell’arte e del logos è anch’esso un non essere relativo, non assoluto: è tanto poco il nulla che esso è il vitale biologico, in se stesso indiscriminato e indistinto, la «vitalità cruda e verde», senza educazione ulteriore, la «natura», gli istinti, l’inconscio o come altro si voglia dire, ma sempre un positivo 7. Se come nulla è sperimentato, se anzi esso appare come il nulla per eccellenza, se lo spasimo dell’angoscia ce lo denunzia come il rischio estremo, ciò accade sempre perché qui la polemica culturale si radicalizza su posizioni estreme, in quanto entra in crisi la possibilità stessa di una vita culturale qualsiasi. Se il nulla di una singola forma culturale è un’altra forma culturale che si confonde con essa, l’annientarsi della presenza è la perdita della cultura, è il risommergersi nella natura nel completo naufragio dell’umano. O anche: è il non esserci piú in una storia umana, è la follia. Presenza, esserci nel mondo, esserci nella storia sono espressioni equivalenti per designare la vitalità umana in atto di distinguersi dal vitale biologico e di aprirsi alla distinzione delle distinte potenze operative creatrici di cultura e di storia: l’utile, la vita morale, l’arte, il logos. Il concetto della presenza come l’unità sintetica delle singole possibilità operative e come la condizione dinamica per il loro esplicarsi pone il problema del rapporto fra presenza vitalità e utilità. In quale nesso stanno fra di loro questi concetti? È evidente che la presenza non può identificarsi con la mera vitalità biologica, in sé cieca e indivisa, incapace di contrapporsi autonomamente a se stessa e di decidersi con una scelta deliberata. La vitalità biologica o naturale che si dica è «cruda e verde, senza educazione ulteriore», incapace anzi a entrare nel processo dell’«educazione», e solo per un gioco dell’immaginazione possiamo attribuire alla natura l’attitudine a farsi presente a se stessa, a scegliere e a deliberare secondo forme culturali distinte. Questo gioco dell’immaginazione conduce all’animismo e al panpsichismo, ovvero alla fantasticheria sulla «spiritualità della natura», che sarebbe capace a suo modo di memoria e di giudizio, di passione e di conto, di sacrificio morale e di calcolo economico: salvo poi ad aggiungere, per una

sorta di pudicizia, che tutto ciò la natura lo realizza a suo modo, lasciando intendere che sarebbe indiscreto saperne di piú. 2.4. Valore. Il distacco dalla vitalità naturale come cultura. Il distacco dalla mera naturalità del vivere per aprirsi verso il mondo dei valori costituisce la cultura. Tale distacco può essere narrato, ma l’esigenza fondamentale che lo promuove ne è il presupposto inderivabile. La storiografia della vita culturale non può mai narrare come partendo da un naturale senza l’umano, si passa all’umano e al culturale, ma soltanto come l’umano si solleva dalla naturalità. Il mondano umano è l’ordine dell’operare significativo che produce valori e che oltrepassa le situazioni, e la negatività che le vulnera, mediante la permanenza storicamente condizionata dei valori. Il distacco dalla naturalità del vivere si compie intercalando l’ordine degli strumenti materiali e dei regimi di produzione dei beni economici, l’ordine degli strumenti mentali per piegare la natura alle esigenze degli individui e dei gruppi, l’ordine delle regole sociali per disciplinare la divisione del lavoro e i rapporti fra le persone e i gruppi, l’ordine delle regole morali per educare l’individuo ad andare oltre la «libido» e per dare orizzonte a sentimenti che accennino alla riconoscenza e all’amore, l’ordine della catarsi estetica e della autocoscienza dell’umano operare e produrre e innalzarsi sulla natura. La cultura è questa energia morale del distacco dalla natura per fondare un mondo umano: e l’uomo piú rozzo sa che non è chiamato a vivere come una bestia, come lo sa il poeta: «fatti non siamo a viver come bruti...» 8. Come si inserisce in questo sistema di valori mondani e di coerenze dell’operare la vita religiosa? In che cosa consiste la sua coerenza, cioè la sua genesi, la sua struttura e la sua funzione? E innanzitutto: si può parlare di una vita religiosa che sia un valore alla pari degli altri valori mondani e profani, o addirittura al di sopra di essi? Una semplice osservazione mette sull’avviso che non può per la vita religiosa condursi lo stesso discorso che per i valori mondani. Le pretese incluse in questi valori sono infatti eseguibili, hanno luogo nella storia sotto forma di opere umane, di monumenti e di documenti dell’umano operare: l’economia della raccolta e della caccia, o dell’agricoltura primitiva o dell’agricoltura cerealicola, o della pastorizia, o della civiltà industriale costituiscono altrettante «opere» economiche che ci stanno davanti, piene di realtà; i sistemi classificatori di parentela, la discendenza matrilineare o patrilineare, la famiglia monogamica sono opere sociali anch’esse piene di realtà: la

pretesa di elaborare sistemi di strumenti mentali per il controllo della natura trova riscontro nelle scoperte e nelle invenzioni che riempiono di fragore e di luci le nostre città, manifestandosi già nell’amigdale o nella trappola dei popoli raccoglitori e cacciatori; la pretesa di liberarsi nella creazione artistica e poetica, si realizza in figure, in melodie, in fiabe, in sculture e architetture, in danze, in poemi epici, in drammi, in liriche, e piú recentemente in alcune poche produzioni cinematografiche, e cosí via. Ma la pretesa religiosa di entrare in rapporto con la metastoria non può in quanto tale vantare una sola opera, poiché operare è possibile solo nella storia e mediante valori mondani, e il conato di uscire dal mondo resta conato nel mondo. La pretesa religiosa, a differenza dei valori mondani, non ha lasciato un solo documento per lo storico: noi possiamo nei nostri musei etnografici vedere demoni e numi e oggetti sacri, e apprendere dai rapporti o per nostra diretta testimonianza miti e riti dei cosiddetti primitivi; possiamo informarci delle grandi religioni viventi o scomparse, leggere testi religiosi e di mistica, e nella nostra stessa civiltà scorgere infinite testimonianze del genere nelle chiese, nei riti che vi si celebrano, nel solenne dispiegarsi del ciclo liturgico dell’anno: ma si tratta di testimonianze che si riferiscono non già alla realizzazione della pretesa religiosa, ma soltanto al conato ineseguibile che essa racchiude per chi vi è impegnato, il conato di entrare in rapporto con la metastoria. In questo senso la storia delle religioni si trova nella stranissima condizione di essere una storia di un conato che, per definizione, non mette mai capo all’opera, e di una pretesa che non lascia mai il piú piccolo documento della propria eseguibilità. 2.5. La condizione umana è caratterizzata dalla risoluzione di ciò che diviene nella permanenza di ciò che vale, nella dialetticità del rapporto fra divenire e valore, fra il passare e il far passare secondo una regola. La condizione umana è natura che, mediante l’ethos della presenza, si solleva alla cultura. Questa risoluzione, questa dialetticità, questo far passare, questo innalzarsi è la condizione umana, che può essere perduta nel senso del naufragio della presenza (psicosi e nevrosi), ma non mai oltrepassata, come pretendono magia e religione. La pretesa di oltrepassare la condizione umana come tale, cioè la storicità, è tanto poco eseguibile che lo storiografo la riconduce nella storia e qui non rinviene nessun documento a favore di una evasione riuscita, per la semplice ragione che un documento del genere non può esistere. Finché i mistici parlano, o comunque documentano di sé,

rendono in effetti testimonianza o del perdersi della presenza o della sua reintegrazione: e se questo reintegrarsi passa per l’orizzonte tecnico della metastoria mitico-rituale, tale orizzonte metastorico fa parte, in quanto tecnico protettivo, della storia e della cultura. Quando i mistici tacciono, il loro tutto ineffabile è alle soglie del nulla. La condizione umana, come energia che oltrepassa la situazione nel valore, può essere perduta, ma non mai «oltrepassata». La pretesa magicoreligiosa di oltrepassare non già le situazioni nei valori mondani, ma la stessa condizione umana nella metastoria mitico-rituale, è un orizzonte tecnico dell’alienarsi della presenza come centro operativo della società e della storia. Questo alienarsi è un annientarsi, un naufragare: l’orizzonte mitico-rituale ferma, configura, recupera l’alienazione, e la ridischiude ai valori mondani compromessi dalla crisi; partecipa pertanto della storia umana come orizzonte tecnico di segnalazione e di reintegrazione, non come impossibile pretesa di evasione dalla storia. La articolazione del divenire in un sistema di momenti critici definiti (la caccia, la guerra, le fasi del lavoro agricolo, la nascita, le nozze, la morte...) in cui sporge la storicità, cioè si manifesta il passaggio da una situazione a un’altra, e al tempo stesso il limite di una regola umana del passare. La risoluzione della onniallusività caotica del divenire in un sistema socializzato e tradizionalizzato di simboli: al «tutto può alludere a tutto» si sostituisce «questo è il simbolo di quello», donde una serie di ambiti simbolici, di realtà separate («sacre») e di comportamenti negativi o positivi definiti. Ciò che rischia di perdere la presenza è il manifestarsi della storicità della condizione umana, lo sporgere di tale storicità nei momenti critici dell’esistenza. Al limite, ogni esperienza di una situazione «nuova» è critica, ed è nuova ogni situazione che, in una società data, pone in essere per la coscienza la distanza fra l’accadere in senso naturale (che è o può essere contrario all’uomo) e il far accadere in senso culturale (che tende a decidere le situazioni secondo valori umani, secondo iniziative innestate in tradizioni dell’operare). Quando una situazione ha luogo nel vuoto di qualsiasi tradizione culturale del comportarsi realisticamente efficace (come nelle grandi catastrofi naturali, nelle malattie mortali e nella morte), è la stessa presenza che si perde, che resta senza margine dell’operare, e dilegua. La presenza è comportamento culturale realisticamente efficace, distacco dalla condizione naturale mediante l’opera dotata di valore umano: per

esempio la fabbricazione di strumenti, la istituzione di regimi economicosociali, di rapporti morali, giuridici e politici, l’opera poetica, le scienze della natura e dell’uomo, sono valori mondani, laici, realisticamente orientati, nel senso che realmente attraverso di essi si compie il distacco dalla naturalità e viene fondata la cultura. La vita religiosa è la mediazione tecnica di tale distacco: protegge la presenza dal rischio di «passare con ciò che passa» nelle condizioni storiche in cui questo rischio è imponente e le potenze culturali dell’operare mondano sono a vario titolo anguste, e non ancora mature per l’autocoscienza della loro origine e destinazione umana. Per questa mediazione tecnica dei valori mondani compromessi dalla crisi, e per la particolare natura di tale mediazione (cioè il nesso mitico-rituale), magia e religione si iscrivono nella vita culturale e ne costituiscono un momento che, a seconda delle civiltà, delle epoche e degli ambienti sociali, acquista maggiore o minore rilievo. 2.6. Vitalità animale.

Il rischio di perdere la presenza ha luogo nei momenti critici dell’esistenza quando sporge la naturalità di ciò che passa senza e contro di noi. La religione è una tecnica: a) di destorificazione del passaggio critico; b) di ripresa delle realtà psichiche alienate; c) di ritorno alla storicità dell’esistere. [...] La destorificazione cioè l’occultamento della storicità del passaggio critico, si ottiene mediante il ritualismo dell’agire: si passa ritualmente cioè ripetendo ciò che il nume ha già fatto nella metastoria. Lo storico è risolto come un identico metastorico che si itera. La storicità del passaggio è

occultata. La alienazione della presenza. a.

La presenza che si «aliena» nel tutt’altro è ripresa nella rappresentazione del tutt’altro come nume col quale si deve entrare in rapporto. La religione offre modelli culturali di queste rappresentazioni in cui effettuare la ripresa. b. La presenza che corre il rischio della crisi durante il passaggio critico lo occulta risolvendolo nella iterazione. c. La destorificazione rituale come modelli culturali tecnici, attenuazione della storicità del passare e come istituzione di una presenza operante in regime di risparmio, cioè come iteratrice di modelli rigidi di comportamento. d. La destorificazione rituale come ripresa dell’alienazione della presenza. 3. Marxismo e religione. 3.1. Apocalisse marxista. La prosecuzione della tematica apocalittica in nuove forme: Mühlmann, pp. 418 sgg. 9. «L’errore di continuare a seguire fenomeni una volta importanti secondo linee diventate antiquate è commesso anche dal primo storico del chiliasmo, lo svizzero Corrodi nella sua opera Kritische Geschichte des Chiliasmus, 4 voll., pp. 178-83 10. Egli distingue molto utilmente un’epoca giudaica e un’epoca giudaico-cristiana, tratta poi gli anabattisti, i quaccheri e altri entusiasti, per poi – nella misura in cui si approssima ai suoi tempi – smarrirsi nelle minuzie senza importanza di oscuri profeti locali, di apocalittici e di fondatori di sette del tutto trascurabili. Si vede chiaramente come gli sfugge il fenomeno nella sua reale qualità e dimensione, e come per l’ossessione della compiutezza della casistica, riesca soltanto ad accumulare minuzie che – ove le fonti lo consentano – possono offrire ancora qualche utilità dal punto di vista sociale e psicologico, ma posseggono ormai scarsa rilevanza storica. La linea di sviluppo continua in realtà a correre non piú nella storia delle sette, ma nelle utopie politiche, e al tempo di Corrodi (o poco piú tardi) il chiliasmo

attivistico sarebbe da ricercare innanzitutto presso i giacobini, il cui in sostanza «religioso fanatismo» si adatta meglio alla definizione di Corrodi che non gli oscuri fondatori di sette del secolo XVIII . Lo stesso fenomeno si ripete per le utopie. È possibile seguirle, in quanto genere letterario dallo Stato di Platone sino alla science fiction del presente, ovvero si può anche analizzare le loro realizzazioni, per esempio nella fondazione di colonie da parte di sette pietistiche, o (con carattere anarchico piú accentuato) da parte di un John Ruskin o di altri sognatori. Il problema è però se anche qui le linee di sviluppo storicamente importanti non proseguano il loro corso in certo modo sotterraneo in luoghi affatto diversi, come nella fondazione sionistica dello stato di Israele, oppure – con tutt’altri caratteri – nelle dittature di salvatori, di un Lenin o di un Hitler, o – con altri caratteri ancora – nello stato del benessere... Religione secolarizzata non vuol significare un rattrappirsi delle energie religiose, può anche significare che queste energie si presentano oggi sotto altre cifre simboliche, per esempio la quistione, volentieri dibattuta, se la Chiesa ortodossa nell’Unione Sovietica sia ancora vitale, se possa svolgere una sua efficacia, se il suo culto sia poco o molto frequentato, ha a nostro avviso un valore secondario rispetto alla determinazione del fatto che lo stesso comunismo sovietico è una nuova religione, professata da milioni di uomini... Quando l’autore della presente opera circa dieci anni fa trattò a un congresso di storia delle religioni il comunismo come «nuova religione», si trovò in ciò una interessante analogia, ma non si comprese che la tesi esposta doveva esser presa in tutta serietà. Nei nostri manuali di storia comparata delle religioni il moderno comunismo ovviamente non appare, ma proprio perché manca il senso per la trasformazione delle cifre simboliche» (pp. 419 sgg.). Il comunismo, certo, osserva Mühlmann, nega di essere una religione fra le altre: ma nessuna religione è sorta riconoscendo questo nella sostanza, ma affermando di essere «la verità». D’altra parte dal tempo dell’Aufklärung in poi la verità si presenta nei panni della «scienza», trasformando il credere in un sapere che pretende di essere conoscenza scientifica. La religione comunistica si presenta perciò come «socialismo scientifico», «materialismo dialettico». Come dice Löwith il materialismo storico è storia della salvezza in termini di economia nazionale 11. Nel materialismo dialettico ha luogo una riplasmazione moderna di un dualismo gnostico: si tratta del dualismo dei

manichei e dei bogomili 12, ma rovesciato (ibid.). «Si è voluto caratterizzare gli antico-credenti russi affermando che lo sforzo per la realizzazione dell’assoluto cristiano sulla terra sarebbe una tendenza caratteristica dell’anima russa. Noi preferiremmo dire che questo sforzo verso l’assoluto e verso la perfezione è una delle caratteristiche del pensiero chiliastico, ed è una caratteristica russa in quanto nel carattere russo è ravvisabile una certa inclinazione al chiliasmo: ma ciò, a sua volta, non per una misteriosa, mistica disposizione di quel popolo, ma perché la struttura spirituale del popolo russo ha conservato talune disposizioni medievali, che nel resto dell’Europa – nell’Europa centrale e occidentale – è stata ricacciata ai margini a opera del rinascimento e del barocco, a cui la Russia non ha partecipato» (p. 322). A proposito della «linea slava dell’escatologia»: influenza dell’antiistituzionalismo «sul pietismo protestante, su Leibniz, Herder, Schelling e i romantici, su Hegel, attraverso Schelling di nuovo sulla Russia, attraverso Hegel su Marx, e attraverso Marx a sua volta sul bolscevismo russo». E che per esempio la marxiana idea del morire dello stato nel periodo finale risale in modo netto alla radice escatologica dell’anti-istituzionalismo. «L’impiego attivistico di tale dottrina è la dottrina della necessaria distruzione dello stato presso i sindacalisti». L’anti-istituzionalismo di Weitling proveniente da un ambiente di settari della Sassonia orientale, e che aveva subito influenze hussito-taborite e anabattistiche (p. 289) 13. 3.2. L’opera di Norman Cohn, The Pursuit of the Millennium, London, Mercury Books, 1962 (pubblicata in prima edizione nel 1957 presso Martin Seeker and Warburg, Ltd.) 14 intende essere, come è detto nello stesso sottotitolo, un panorama del messianismo rivoluzionario dalla fine del secolo XI alla prima metà del secolo XVI : un panorama delineato nella prospettiva del rapporto fra tale messianismo e i moderni movimenti totalitari quali il nazismo tedesco e il comunismo sovietico. Questa prospettiva utilizzata dall’autore chiarisce il suo proprio senso soprattutto nella conclusione (pp. 307-19). Nel messianismo rivoluzionario affiorano i temi di una salvezza terrestre e collettiva, dell’avvento di una città celeste sulla terra, del popolo eletto che bandisce e affretta questo avvento, dell’Anticristo e della battaglia finale, cataclismatica e decisiva, dopo la quale il mondo sarebbe emerso totalmente trasformato e redento, senza piú il negativo, i conflitti, le tensioni

che caratterizzano il mondo attuale. Ma i due grandi movimenti totalitari del nostro tempo, comunismo e nazismo, hanno mantenuto questi temi fondamentali, sia pure in altra forma: di guisa che la storia del messianismo rivoluzionario dalla fine del 1100 alla prima metà del 1500 può essere considerata «as a prologue to the vast revolutionary upheavals of the present century» (p. 309). La dimostrazione che di questo nesso dà il Cohn si limita ad alcune indicazioni essenziali. Per quanto concerne il nazismo, Rosenberg dedica un capitolo del suo Mito del XX secolo 15 a una entusiastica e fantasiosa esposizione del misticismo eterodosso tedesco del secolo XIV ; e uno storico del regime dedicò un intero volume a interpretare il messaggio dei rivoluzionari del Reno superiore. I comunisti dal canto loro continuano a elaborare un volume dopo l’altro quel culto per Thomas Müntzer che fu già inaugurato da Engels 16. Questi richiami di nazisti e comunisti ai messianismi rivoluzionari, quale che sia la valutazione che nazisti e comunisti danno di tali movimenti, ha secondo Cohn un senso preciso; comunismo e nazismo sono stati ispirati da fantasie arcaiche di tipo chiliastico-rivoluzionario. Vero è che quei messianismi tradizionali sono religiosi, mentre il nuovo escatologismo sociale si dichiarò «scientifico» e sostituí alla «volontà di Dio» i «fini della storia». Ma pur attraverso tale secolarizzazione restò la tematica apocalittica in quanto prospettiva di un mondo da purificare dagli agenti corruttori, dalle tensioni e dai conflitti. La identificazione sociale di tali agenti (i grandi, gli ebrei, il clero, la borghesia) può variare: ma l’orientamento fondamentale resta. E altresí resta il quadro finale di una società resa unanime nelle sue credenze ed esente da conflitti (pp. 309 sgg.). Chi non ricorda come l’idea di una cospirazione internazionale del giudaismo è un relitto di demonologia medievale, e ricorda in proposito il linguaggio ispirato di Rosenberg nel suo commento ai Protocolli dei savi di Sion e di Hitler in Mein Kampf (dove il popolo eletto che libera l’umanità dal polipo giudeo suggente sangue e denaro alle nazioni si carica di una missione liberatrice universale, il cui fallimento segnerebbe la fine del mondo) 17. L’animo di Cohn verso il marxismo e il comunismo si dichiara nel seguente passo (pp. 311 sgg.): «Comunisti e nazisti hanno in comune l’odio sanguinario per liberali e socialisti e riformatori d’ogni sorta, e la ragione di ciò è che i comunisti non meno dei nazisti sono stati ossessionati dalla visione di una prodigiosa “battaglia finale decisiva” nella quale un “popolo

eletto” distruggerà una tirannia che opprime il mondo, inaugurando una nuova epoca nella storia umana. Come nella apocalisse nazista “la razza ariana” doveva purificare la terra distruggendo “la razza ebrea”, cosí nella apocalisse comunista la “borghesia” deve essere sterminata dal proletariato. Ancora una volta, ci troviamo di fronte a una versione secolarizzata di una fantasia antica di molti secoli. Ciò che di Marx è passato nel comunismo di oggi non è il frutto dei suoi lunghi anni di studio nel campo della economia e della sociologia, ma una fantasia quasi apocalittica che da giovane quasi inconsapevolmente egli aveva assimilato da una schiera di oscuri scrittori e giornalisti. Il capitalismo come un vero e proprio inferno nel quale un sempre piú piccolo numero di uomini prodigiosamente ricchi sfruttano spietatamente e tirannizzano una massa sempre piú estesa di operai sempre piú poveri, il capitalismo come mostruoso regno i cui signori hanno la crudeltà e la ipocrisia dell’Anticristo, il capitalismo come Babilonia, in procinto di essere sommerso in un mare di fuoco e di sangue di guisa che la strada sarà preparata per il millennio equalitario – questa visione era molto familiare agli intellettuali radicali di Francia e di Germania intorno al 1840...» (Lamennais, Weitling) (pp. 311 sgg.). Secondo Cohn, Marx avrebbe secolarizzato l’apocalittica, inserendone i temi in una onnicomprensiva filosofia della storia: in tal modo ne avrebbe garantito la sopravvivenza nel secolo attuale, per quanto in circostanze diverse da quelle da lui previste. Infatti non gli operai dei paesi capitalistici piú avanzati, ma regioni economicamente piú arretrate, quali la Russia e la Cina, volsero la tematica in termini di effettiva rivoluzione (p. 312). «Per quanto moderna la loro terminologia, e realistica la loro tattica, gli atteggiamenti di fondo del comunismo e del nazismo seguono un’antica tradizione e disturbano la nostra quiete (“are baffling to the rest of us”) a motivo di quei caratteri che sarebbero stati familiari a un profeta chiliastico del medioevo» (p. 313). Eccesso di popolazione, guerre, epidemie, carestie, ecc. favoriscono i chiliasmi, ecc. 18. 3.3. La storiografia religiosa marxista è innegabilmente infantile. Di tale infantilismo noi dobbiamo innanzitutto spiegarci le ragioni storiche, poiché la comprensione di tali ragioni costituisce anche il mezzo migliore per aiutare l’infante a diventare adolescente, e infine – superata la crisi della pubertà – a farsi adulto. Innanzitutto non va dimenticato che il materialismo storico

nacque in aspra polemica non soltanto verso Hegel, ma anche verso l’idealismo dei giovani hegeliani, e segnatamente di Bauer, Strauss, e di Stirner 19: in questa polemica la religione, e in particolare la storia idealistica della religione, avevano una parte notevole, di guisa che nascita del materialismo storico e polemica contro la visione religiosa del mondo (esplicita nelle religioni storiche e camuffata nell’idealismo) finiscono col fondersi e col confondersi. In secondo luogo non fu certo una fortuna per lo sviluppo del marxismo il suo imbarbarimento positivistico, del che fu principalmente responsabile Friedrich Engels: i germi piú fecondi racchiusi nelle opere giovanili di Marx, andarono cosí progressivamente soffocati, a tutto vantaggio del materialismo volgare. D’altra parte toccò proprio a Engels il compito di orientare le prime ricerche di storiografia religiosa in senso marxista, di guisa che i marxisti da allora in poi ebbero come modello quelle ricerche e vi si ispirarono, con tanto maggiore facilità in quanto, oltre a essere le uniche circonfuse dell’autorità dei due fondatori del materialismo storico, erano anche per la loro rozza semplificazione dei problemi le piú accessibili a cervelli di media levatura scientifica, e le piú promettenti per metter in condizione di discettare con poca fatica sulla vita religiosa dell’umanità. Accadde cosí che l’interpretazione engelsiana del marxismo, e quel tanto di effettivo lavoro storiografico che vi si lega in rapporto alla religione, passarono per teoria marxista della religione e per metodologia marxista di una storiografia della vita religiosa, operando una selezione a rovescio fra le intelligenze storiche, nel senso che le migliori fra esse si resero conto che con quegli strumenti non si poteva lavorare, e che solo le piú pigre e le piú superficiali vi trovarono la loro chiave per aprire tutte le serrature, per fare una storiografia religiosa a buon mercato 20. In terzo luogo è da osservare che il marxismo in quanto teoria rivoluzionaria destinata a trasformare la realtà sociale, in quanto arma di lotta di masse e in quanto ideologia di partiti operai, si trovò a combattere la alleanza delle Chiese con la borghesia in un’epoca in cui effettivamente la religione andava esaurendo le sue funzioni storiche e si andava sempre piú palesando come «oppio» reazionario e conservatore: e non fu certo un ambiente propizio per il progresso degli studi storico-religiosi quello che si determinò in Russia all’indomani della rivoluzione. Tra la tesi del «valore eterno» della vita religiosa tradizionale e quella opposta della religione come «fattore di ritardo» della realtà sociale, come «illusione», «stupidità», «stravaganza», «riflesso», ecc. vi è la tesi della

religione come istituto storico, che in date condizioni dello sviluppo sociale ed economico assolve una funzione positiva di reintegrazione e di mediazione dei valori culturali (mentre oggi, nella fase attuale della storia dell’occidente, è entrata in crisi se non come religione sic et simpliciter certamente come contenuto tradizionalmente religioso di un al di là dell’umano e dello storico. Al di là dell’umano e dello storico come contenuto della religione è possibile sostituire la consapevolezza dell’umano e dello storico come continuo «andare al di là valorizzante» della vita materiale?) 3.4. «La critica ha spogliato la catena dei fiori immaginari che la ricoprivano non perché l’uomo porti catene senza fantasia, disperate, ma perché esso respinga la catena e colga i fiori viventi». Nel contesto dello scritto del ’44 21 questo passo sottolinea in modo esemplare i limiti di ogni critica della vita religiosa che non sia anche teoria rivoluzionaria della realtà giuridica, politica, economica – sociale – che genera religioni: che non sia anche critica delle società ierogoniche, tali cioè che le contraddizioni del loro orizzonte umano e mondano abbisognano necessariamente di un complemento compensatorio e reintegratore variamente metastorico. Ma questo passo è interessante anche perché segnala implicitamente il pericolo della mera critica irreligiosa, e dell’esito scettico che ne deriva, quando poi vengono lasciati intatti i caratteri ierogonici della esistenza sociale: in questo caso le «catene» restano, ma senza fantasia, senza «speranza», il che esaspera la crisi esistenziale, scatena angosce senza orizzonte, sospinge il bisogno religioso verso irrisolvente nostalgia o verso miserabili surrogati, ovvero prepara piú o meno inautentiche restaurazioni. D’altra parte è da osservare come in questo passo (e nei precedenti) non viene sufficientemente esplicitata la necessità del «riflesso» religioso nelle società ierogoniche: l’analisi si dirige sui tratti ierogonici da sopprimere e non sulla funzione reintegratrice positiva dell’orizzonte metastorico (del simbolismo mitico-rituale) nelle società ierogoniche. Per questa direzione dell’analisi una ricostruzione storiografica della coerenza e della razionalità della vita religiosa nel contesto di una certa società ierogonica rischia di restare fuori da qualsiasi possibile prospettiva di ricerca scientifica: la religione tende a configurarsi come un negativo – come un elemento di ritardo, ecc. – in qualsiasi società storica, in qualsiasi epoca umana, e nella misura in cui non può venir ridotta alla realtà economico-sociale si atteggia a stupidità, a

proliferazione gratuita della immaginazione, anzi a una sorta di cancro della immaginazione stessa. Non si tratta piú di polemizzare contro l’idea teologica e di origine confessionale di una storiografia religiosa autonoma, in cui le idee religiose nascono da altre idee e producono ancora idee, senza mai metter in rapporto queste idee con la concreta esistenza sociale, con gli uomini in quanto nel mondo e in società oltrepassano l’immediatezza del vivere secondo modi cosí e cosí determinati: si profila il pericolo di un totale disinteresse per la funzione storicamente circoscritta di tali idee, abbassate ormai a immaginazioni vane, illusioni, ecc. Invece di determinare volta a volta, come, nelle società ierogoniche, sia percorso attraverso la religione il cammino verso il riconoscimento parziale dell’uomo, e invece di mettere in evidenza, insieme al limite di tale riconoscimento, la necessità e la coerenza del cammino allungato dall’alienazione religiosa e la funzione reintegratice, nelle condizioni date, di quel cammino «lungo», si corre il rischio di incorrere in una specie di corto circuito del giudizio storiografico; avendo individuato giustamente il processo per cui nella società borghese in crisi e nella società socialista che ne è l’erede la religione viene perdendo la sua funzione, la sua necessità storico-culturale, il suo rapporto con corrispondenti particolarità ierogoniche dell’esistenza, ecc. si rischia di proiettare acriticamente questa valutazione anche per civiltà, per epoche storiche, in cui invece la vita religiosa fece effettivamente da ponte fra la crisi esistenziale senza orizzonte, culturalmente sterile, e la reintegrazione operativa nel mondo degli uomini, per il mondo degli uomini. Ma vi è un’ultima osservazione. Una società socialistica o comunistica non sopprime il negativo dall’esistenza, non sopprime la storia: non elimina la morte, il dolore fisico, la lotta ma li amputa del loro tratto ierogonico in quanto ricomprende il singolo in una società interamente destinata ai singoli e mobilitata per la singolarizzazione dei singoli, senza previlegi di gruppi. Ma, in primo luogo, occorre chiedersi sempre di nuovo se la edificazione socialista non comporti, sia pure temporaneamente, nuovi tratti ierogonici (culto della personalità, burocrazia, ecc.): e, in secondo luogo, se la soppressione dei tratti ierogonici della società borghese non significhi mai soppressione della crisi esistenziale, e quindi esigenza di una reintegrazione simbolica, sia pure orientata ora verso un simbolismo mondano, umanistico, storico, civile. 3.5. Marxismo e religione (2 a red.) 22. «Die Religion ist (...) die Anerkennung des Menschen auf einem Umweg,

durch einen Mittler». Marx, Zur Judenfrage, in Historisch-kritische Gesamtausgabe, Frankfurt am Main 1927, I, 1 , 1, p. 583 [K. Marx, La questione ebraica. Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, Editori Riuniti, Roma 1996]. La religione come «via indiretta e allungata» per il riconoscimento dell’uomo racchiude una profonda verità, e al tempo stesso, la possibilità di un grave equivoco. Infatti l’immagine di un cammino «indiretto e allungato» suggerisce l’altra di una «perdita di tempo che poteva essere evitata», e quindi avalla il giudizio sommario sulla religione come «fattore di ritardo» nello sviluppo della civiltà, in qualunque epoca e in qualunque condizionamento sociale. Ora è da osservare che la religione tradizionale – cioè fondata su simboli mitico-rituali – costituisce una mediazione storicamente necessaria nelle società preclassiste e in quelle classiste, e rappresenta tanto poco un cammino «allungato e indiretto» (nel senso di una «perdita di tempo» e di un «fattore di ritardo») che in quel dato condizionamento storico e sociale costituisce l’unico cammino possibile per proteggere i gruppi umani dalla crisi esistenziale e per ridischiudere una determinata coscienza dell’umano e una determinata operatività secondo valori mondani. Se nella civiltà moderna si è aperta effettivamente l’alternativa per un riconoscimento dell’umano che faccia a meno del détour mitico-religioso, questo significa soltanto che il mitico-religioso sta diventando per la civiltà moderna un détour non percorribile senza «perdita di tempo», e ciò appunto perché, nella civiltà moderna, è insorta una perentoria antinomia fra coscienza dell’umano che riassorbe in sé il divino e coscienza religiosa tradizionale chiusa nell’orizzonte divino dell’umano. Ma lo storico deve esser preparato a render giustizia a civiltà e a epoche in cui ciò che per noi sta come «via che allunga il cammino» costituiva invece la via necessaria per essere nel mondo: ed è antistorico giudicare quelle civiltà e quelle epoche facendo immediatamente valere la prospettiva di una scorciatoia verso l’umano che appena ai nostri giorni e con tanta fatica ci stiamo guadagnando. Tale prospettiva non resta senza dubbio inerte rispetto al compito storiografico, ma deve farsi valere mediatamente nell’assolvimento di questo compito: lo storico deve cioè di volta in volta ricostruire la concreta dinamica che conduce dai momenti critici dell’esistenza alla destorificazione mitico-

religiosa, e quindi al ridischiudersi di una certa consapevolezza dell’umano e del mondano mediante la via religiosa: nel che la via religiosa appare come via e non come Umweg, per raggiungere, dentro certi limiti, quella consapevolezza. 3.6. Nella lettera di Engels a Corrado Schmidt del 27 ottobre 1890 23 si accenna a proposito delle religioni naturali – cioè anteriori alla divisione della società in classi – alla «pedanteria» di voler ricercare «cause economiche» alla «stupidità» primitiva. Ciò significa in pratica che ogni volta che non si riesce a ricondurre le «false rappresentazioni» delle cosiddette religioni naturali a cause economiche, si tratta di «stupidità primitiva»: criterio estremamente pericoloso, perché la stupida proliferazione delle immaginazioni rischia, appunto perché stupida, di essere abbandonata a se stessa come irrilevante per lo storico, e di non meritare la fatica di una spiegazione che non sia quella della stupidità: eccellente sistema per liberarsi di quanto dà imbarazzo alla teoria interpretativa, per farla «quadrare» sempre, e per impedire che si rinnovi e si modifichi nel concreto esercizio interpretativo. Ora accade che proprio in questa sfera della «stupidità» primitiva si racchiudono istituti di notevole significato antropologico, per i quali il debole sviluppo economico, le rappresentazioni false della natura e le immaginazioni dovute all’ignoranza giovano assai poco per la comprensione: si tratta di istituti che, in quelle date condizioni dello sviluppo economico, assolvono una funzione positiva di protezione e di reintegrazione dell’umano, operando come dispositivi forniti di una lor propria coerenza interna ai fini di render possibile una data attività intersoggettiva in senso economico, sociale, giuridico, artistico, elementarmente conoscitivo, ecc. 24. La religione è certamente riconoscimento dell’uomo auf einem Umweg: ma questo Umweg, se consente un sia pur estremamente limitato riconoscimento dell’uomo, impone allo storico il compito di comprendere in quali condizioni, e attraverso quali «coerenze», opera l’Umweg religioso, cioè il simbolismo mitico-rituale. Il che significa che, da un punto di vista metodologico, occorre fare il minor ricorso possibile alla «stupidità umana» come spiegazione; gli uomini appaiono spesso «stupidi» quando sono insufficienti i dati e gli strumenti di analisi di cui si dispone per valutare i loro comportamenti, e la loro stupidità pone sempre in causa i limiti della nostra saggezza di interpreti. 3.7. Nel suo discorso sulla tomba di Marx, in questo modo Engels riassume il pensiero di Marx: «Come Darwin ha scoperto la legge dello

sviluppo del mondo organico, cosí Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana, cioè il fatto elementare, semplice, sino a oggi velato da schermi ideologici, che gli uomini prima di occuparsi di politica, di scienza, di arte, di religione, ecc. debbono prima di tutto mangiare, bere, vestirsi e trovare alloggio; e che, di conseguenza, la produzione dei mezzi materiali di esistenza, e con ciò il grado di sviluppo economico di un popolo o di un’epoca, costituiscono (e non inversamente come si riteneva sino a oggi) tutte le istituzioni statali, le concezioni giuridiche, l’arte e le stesse idee religiose dell’uomo» 25. E tuttavia «mangiare, bere, vestirsi e alloggiare», o «la produzione dei mezzi materiali di esistenza» o «il grado di sviluppo economico di un popolo o di un’epoca» sono a loro volta testimonianza di un ethos primordiale di farsi presente al mondo da uomini, cioè dell’ethos della presenza come energia di presentificazione secondo valori intersoggettivi: infatti un determinato regime economico comporta una scelta socializzata, una volontà di emergere dalle condizioni naturali mediante una ripartizione di compiti produttivi, una fedeltà al regime prescelto che obbliga a rispettare nelle operazioni economiche determinati condizionamenti oggettivi, e al tempo stesso un margine di iniziativa che si esprime in invenzioni tecniche, in riplasmazioni e ridistribuzioni dello stesso ordine economico e sociale. Ora tutto questo è già ethos che va oltre la mera individualità naturale, e se questo ethos viene meno, la stessa pietra scheggiata del paleolitico, la stessa divisione del lavoro fra caccia (affidata agli uomini) e raccolta (affidata alle donne e al loro bastone da scavo) sarebbero stati impossibili. L’economicità è già un valore intersoggettivo, ancorché si proponga la sussistenza materiale dei gruppi umani: e in quanto intersoggettivo presuppone una volontà di storia, un trascendere la mera individualità per stare con gli altri nel mondo, e quindi una energia di trascendimento e una presentificazione che in ultima istanza non deriva dall’ordine socio-economico ma lo condiziona alla radice. La società può offrire migliori condizioni di esistenza, lavoro senza sfruttamento, sicurezza del domani, ferie pagate, possibilità di scegliere la occupazione piú congeniale, medicine e medici gratuiti; ma se l’ethos primordiale della presenza viene meno non si profitterà di tutte queste possibilità, anzi verrà meno la volontà stessa di «mangiare, bere, vestire, alloggiare» in un mondo che viene perdendo ogni prospettiva umana per essere degno di essere vissuto.

L’idea che la religione della natura scompare davanti alle scienze della natura, e che la religione in quanto riflesso delle contraddizioni della società divisa in classi scomparirà quando la società sarà trasformata in società senza classi manifesta un limite interno del marxismo. La trasformazione socialista della società è senza dubbio una condizione fondamentale per il deperimento, l’agonia e infine la morte del sacro in quanto simbolismo mitico-rituale, ma questa trasformazione non è possibile senza l’energia morale del trasformare socialisticamente il mondo, energia di cui il marxismo stesso è un prodotto, sia che lo si consideri come teoria marxista che come particolare fase del movimento operaio. L’energia morale di trasformazione socialista del mondo non cade certo dal cielo, ma è possibile a sua volta nella concretezza della società capitalistica impigliata nelle sue contraddizioni, e destinata a esserne lacerata sempre piú per la sua intrinseca logica del suo sviluppo: tuttavia ciò che sta alla base di tutti i regimi economici è appunto questa energia non economica che li produce, cosí come produce tutte le altre forme di coerenza culturale. L’aver trascurato questo ethos fondamentale è il limite del marxismo, la ragione di tutte le sue insufficienze analitiche, come lo scarso rilievo alla funzione positiva del simbolismo mitico-rituale, nelle società divise in classi, la incomprensione della funzione permanente della vita simbolica (anche nella società socialista), e infine il credere che una scienza della natura e una scienza della società possano come tali «sostituire» la religione, una volta che la società senza classi sia stata realizzata. 3.8. La storiografia, come scienza critica della operosità culturale umana, è misurazione delle pretese operative umane, passaggio da ciò che l’uomo crede di fare a ciò che esso fa realmente, analisi quindi delle motivazioni inconscie e degli inconsci risultati di un certo operare. Ma ciò che l’uomo crede di fare non è accidentale rispetto a ciò che esso realmente fa, e cattiva storiografia è quella che si limita a ridurre tutte le pretese umane alla loro effettiva realtà, poiché in tal modo resta nell’oscurità l’altro momento importante della ricerca storiografica, cioè la ricostruzione della necessità storica del mondo delle pretese, e la funzione in parte certamente positiva – sia pure in rapporto a un’epoca, a una civiltà, ecc. – di quella presa di coscienza secondo pretesa. Il sacro, il simbolismo mitico-rituale, comportano per esempio una serie di pretese: ma ove si ritenesse di aver assolto il proprio compito storiografico limitandosi a ridurre quel simbolismo «a ciò che gli uomini realmente fanno», cadrebbero tutta una serie di problemi di

fondamentale importanza storiografica, e cioè la genesi, la struttura e la funzione del simbolismo mitico-rituale e il suo vario connettersi alla totalità della vita culturale. Non basta leggere in un simbolo mitico-rituale le condizioni di esistenza di cui rappresenta l’immagine rovesciata; occorre stabilire la dinamica di tale «rovesciamento» e il suo mediare una forma di reintegrazione culturale storicamente condizionata di fronte ai rischi estremi del non poterci essere in nessun mondo possibile. La storia della natura è un momento della storia della cultura nel senso che sia il concetto di natura che quello di storia sono prodotti culturali storicamente condizionati, conquistati dall’occidente soprattutto dagli inizi dell’età moderna in poi, ecc. (Rimettere la coscienza mitico-religiosa sui suoi piedi, rovesciare il rovesciamento mitico-religioso, significa già «camminare sui piedi» e impedirsi di «camminare sulla testa»). 3.9. Che la religione in quanto mito stia diventando un Umweg non piú autenticamente percorribile dall’uomo, non significa che sia stata sempre tale. Nella storiografia religiosa marxista grava il pericolo di un continuo scambio fra la presa di coscienza rivoluzionaria dell’agonia del divino nella nostra civiltà e il criterio di interpretazione della vita religiosa nelle umane civiltà, fra la lotta attuale contro la religione diventata Umweg e la comprensione dei Wege religiosi in civiltà per le quali mancavano tutte le condizioni per la nostra attuale consapevolezza della religione come détour. Dentro certi limiti vale qui un paragone efficace: nel quadro di una trasformazione industriale dell’agricoltura il vecchio aratro a chiodo è un’arretratezza rispetto all’aratura meccanica, ma per lo storico di civiltà agricole che usano l’aratro a chiodo non ha senso far valere in modo immediato giudizi che stanno al loro posto solo nella prospettiva di chi oggi conduce una azienda agricola nella pianura padana (o di un uomo politico della repubblica italiana che si pone il problema della industrializzazione del Mezzogiorno). 3.10. Per la Critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, in Annales franco-allemandes, Paris 1844. [...] Le previsioni di Marx sulla emancipazione tedesca, sulla unione della filosofia col proletariato, sulla maturazione ormai compiuta della «filosofia tedesca» come critica della religione e sul proletariato come classe stretta da catene radicali, dissoluzione di tutti i gruppi, vittima di una ingiustizia in sé,

perdita totale dell’uomo che riconquistando se stesso riconquista l’uomo nella sua totalità, ecc.: fallimento di queste previsioni. Vi è da chiedersi se solo in apparenza Marx tenta una analisi delle condizioni per le quali il proletariato tedesco avrebbe sostenuto una parte inaugurale nella emancipazione della umanità intera, e se invece non faccia appello a temi etici, quali la classe che esprime la miseria radicale dell’uomo in un mondo culturale in cui il pensiero ha toccato la vetta piú alta, e lo slancio che deriva proprio dalle condizioni di questa immensa distanza fra idea astratta dell’uomo nella coscienza e la miseria reale dell’uomo in una forza particolare della società concreta. Le condizioni sono necessarie ma non sufficienti: occorrono, ma non bastano. E che cosa le rende sufficienti, e le fa bastare? L’ethos del trascendimento della situazione nella valorizzazione intersoggettiva. 3.11. Che la coscienza religiosa teistica sia coscienza alienata di un mondo capovolto, nel quale l’uomo ha perso o non ha ancora trovato se stesso, è un tema marxiano molto importante che occorre approfondire. Nella misura in cui l’individuo si astrae dalla società – e questa astrazione è inevitabile nella misura in cui la società non è fatta per l’uomo – l’individuo si sente a vario titolo «miserabile», «limitato», «destinato alla fine», «esposto a momenti critici in cui non c’è nulla da fare». Lo stesso «andar oltre» la situazione è colpito alle radici, e diventa il rischio di diventar altro, perdendosi come centro attivo di decisione e di scelta secondo valori operativi comunitari. Questo perdersi radicale costituisce il rischio radicale di alienazione, l’annientamento totale dell’umano e contro tale rischio la alienazione religiosa costituisce un piano istituzionale di arresto, di configurazione e di ripresa dell’alienarsi in quanto mera crisi. In tal guisa la «trascendenza» religiosa costituisce un piano di difesa culturale dalla crisi del trascendimento della situazione nella valorizzazione intersoggettiva: l’altro radicalmente altro in cui si rischia di smarrirsi muta di segno diventando l’altro mitico aperto alla riappropriazione rituale, richiamato variamente a cospirare con l’umano, e ridischiudendo infine il processo di valorizzazione minacciato dalla crisi.

4. Limiti del materialismo storico.

4.1. In margine a Marx. [...] «Il principale difetto di tutto il materialismo passato [...] sta nel fatto che l’oggetto, la realtà, e il mondo sensibile vi sono considerati solo nella forma di “oggetto” e di intuizione, ma non in quanto attività umana concreta, non in quanto praxis, non in maniera soggettiva» 26. L’ethos inaugurale della utilizzazione rende possibile il mondo. Solo per entro un progetto comunitario dell’utilizzabile prende rilievo un «mondo», si articola e distende un ordine di enti intramondani col loro orizzonte complessivo 27. La «natura esterna resistente» non è un in-sé indipendente in cui si innesta il lavoro umano, ma, al contrario, esteriorità e resistenza sono possibili solo in quanto emerge un compito di valorizzazione utilizzatrice intersoggettiva, e in quanto la vita deve innanzitutto manifestarsi nella prospettiva e nei limiti di questo «utilizzante sapere». Ciò che l’uomo produce col suo lavoro, la sfera di controllo che l’uomo racchiude nel suo lavorare, costituiscono il centro di relazione e di riferimento della addomesticazione del mondo: e anche il «sole» o la «luna» o il «cielo» sono «normali», appaesati, domestici nella misura in cui sono stati «lavorati» dall’uomo, e si presentano con tutte le tracce di appaesamento che questo lavoro vi ha immesso. È il lavoro umano che «fa mondo», e che fonda esteriorità e resistenza come vissuti interni al lavorare: il realismo ingenuo e il materialismo volgare non sono altro che l’assolutizzazione di una prospettiva che appartiene unicamente al «dovere» di lavorare per utilizzare (cosí come l’idealismo assolutizza nell’idea – e in essa capovolge – il reale inesauribile processo del trascendimento). La possibilità di un mondo, e quindi di enti intramondani, è racchiusa nel trascendimento inaugurale che l’ethos trascendentale del trascendimento della vita nel valore compie mercé quella particolare valorizzazione della vita che è il progetto comunitario dell’utilizzabile. Gli enti intramondani sono, innanzitutto, il segno di ciò che noi possiamo fare per la utilizzazione della vita e delle resistenze e dei limiti del nostro poter fare utilizzante: delimitano in modo sensibile il nostro abbisognare possibile e il nostro possibile soddisfare i bisogni in certi modi, e i condizionamenti cui deve sottoporsi l’indefinita proliferazione dell’abbisognare e delle nuove utilizzazioni, delle nuove tecniche utilizzanti. 4.2. Mondo sensibile e produzione materiale della vita, carattere

inaugurale del produrre materiale e del distacco utilizzante dalla natura, natura e cultura, socialità del mondo sensibile, mondo sensibile e produzione sociale della vita materiale [...] Il mondo sensibile – il mondo, come diremmo noi oggi, della percezione quotidiana – è inteso da Marx come l’insieme dell’attività sensibile vivente degli uomini che lo formano, nella successione delle generazioni il mondo dato, il mondo nel quale veniamo a trovarci, è l’appaesamento risultante dall’attività sensibile nella sua storia, l’indice di comportamenti possibili che rimanda a concreti capitoli operativi, e, al tempo stesso, lo sfondo domestico su cui si staglia con vario risalto il particolarissimo capitolo operativo che richiede, qui e ora, di essere continuato con la nostra iniziativa. Ma è anche un mondo di «limiti», di percorsi nell’esteriorità e di corpi resistenti, che dettano le condizioni al potere o al non-potere utilizzare, anche qui secondo un nesso che, attraverso la nostra biografia personale, l’educazione ricevuta, e le abilità acquisite ci ricollega alla società vivente, alla catena delle generazioni, infine all’intera storia dell’uomo e dell’universo. Questa attività sensibile, sedimentata negli «oggetti» utilizzabili, questa odologia 28 vivente della utilizzazione racchiusa nel mondo dei corpi esterni e delle loro proprietà non concerne soltanto gli oggetti fabbricati dall’uomo, i prodotti della industria umana, poiché anche la cosiddetta «natura vergine» e anche gli astri del cielo, e in genere tutto il percepibile «naturale» o «artificiale» che sia vive per entro un legame sociale, sedimentandosi nella catena delle generazioni; un legame intessuto di sforzi di vario adattamento utilizzante, di memorie di ciò che se ne può temere o ottenere, e di comportamenti conformi. D’altra parte non soltanto il confine fra il naturale e l’artificiale è mobile in rapporto all’attività sensibile e alla «produzione materiale della vita» nelle diverse civiltà, epoche o addirittura classi sociali, occupazioni, mestieri, abilità, ecc., ma, in generale, l’estensione della «produzione materiale della vita» riplasma e configura anche ciò che da tale plasmazione appare piú lontano, o ne segna polemicamente il limite (ma che in realtà non è mai senza nessuna plasmazione). Ma Marx sembra dire qualche cosa di piú: che la stessa scienza della natura è condizionata da un certo grado di sviluppo della «produzione materiale della vita», e che quindi nessun argomento a favore della «natura in sé», «prima dell’uomo e senza di esso» è ricavabile dalla fisica o dalla chimica o dalla astronomia, ecc., poiché

la «natura» è inclusa nell’attività sensibile in guisa tale che sottraendo alla natura la storia della produzione materiale della vita si dissolve con la società umana anche la natura 29. Occorre tuttavia mettere in rilievo che nell’impostazione marxiana si rileva una certa oscillazione di concetti, per cui la risoluzione della natura nell’attività sensibile e nella produzione materiale della vita è accompagnata ancora almeno dall’ombra della «natura in sé»: si veda Ideologia tedesca, p. 41 30: «... (la) natura che precede la storia umana... oggi non esiste piú in nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione». Cfr. p. 27 31: «Il comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il comportamento limitato fra uomini e uomini, e il comportamento limitato fra uomini e uomini condiziona i loro rapporti limitati con la stessa natura appunto perché la natura non è stata quasi ancora modificata storicamente». La natura che «precede» la storia umana, o non ancora modificata dall’uomo, riappare qui con tutta la sua portata metafisica; sono racchiusi qui in germe i temi positivistici e scientifistici che travaglieranno in seguito il marxismo, dando luogo al filone del «materialismo dialettico», alla «dialettica della natura», ecc. 4.3. Il materialismo marxista come ethos del trascendimento che ha vergogna di sé. «Die Menschen haben Geschichte, weil sie ihr Leben produzieren müssen, und zwar müssen auf bestimmte Weise: dies müssen durch ihre physische Organisation gegeben; ebenso wie ihr Bewusstsein» (Deutsche Ideologie, Gesamtausgabe, sez. I, vol. V, p. 19, nota di Marx). «Gli uomini hanno una storia perché devono produrre la loro vita, e la debbono, precisamente, in una maniera determinata: dato, questo dovere, dalla loro organizzazione fisica, cosí come la loro coscienza» (trad. it. Editori Riuniti, Roma 1958, p. 26, nota). Il principio che rende intellegibile il distacco del culturale dal naturale, innanzitutto nel trascendimento inaugurale della produzione della vita materiale e nelle concrete modalità storiche di tale trascendimento, e quindi nel trascendimento del progetto comunitario dell’utilizzabile mediante altri trascendimenti culturali (diritto, politica, morale, arte, religione, filosofia, scienza...) resta qui, in questa nota di Marx occultato e perduto. Il produzieren sta in primo piano: il dovere è inteso come un ovvio essere

obbligato in virtú della organizzazione fisica. Ma in realtà il müssen è un sollen trascendentale, e senza questo ethos trascendentale del trascendimento, senza questo principio di intellegibilità, il distacco del «culturale» dal «naturale» – e quindi la storia – restano in generale un mistero, e in particolare la stessa produzione inaugurale della vita in una modalità determinata. Tanto poco Marx può fare a meno della attività di questo sollen, che lo stesso marxismo diventa comprensibile, in ultima istanza, come sollen mascherato a se stesso e non riconosciuto: mascherato per ragioni polemiche verso gli idealismi, i teologismi, gli utopismi, i moralismi, i «dover essere» astratti del suo tempo. 4.4. «Deutsche Ideologie», «Gesamtausgabe». La produzione della vita materiale, sia della propria mediante il lavoro che dell’altrui mediante la procreazione, non ripete mai, nella storia umana, la condizione naturale, ma si innesta in essa come scelta culturale di un certo regime di produzione e di procreazione, scelta culturale che modella sia l’estensione e i modi della utilizzabilità della vita, sia la forma della cooperazione utilizzante e l’articolazione della società. Ma questo nonripetere, questo oltrepassare la mera vitalità, questo modellamento che trascende, nella stessa utilizzazione, l’ordine fisiologico, diventa inintelligibile proprio nella sua storia piú specificamente umana senza il presupposto di una attività etica trascendentale che fonda e regola i trascendimenti valorizzanti. p. 34 32: «Questa concezione della storia (cioè la concezione marxiana) mostra che essa non finisce col risolversi nella “autocoscienza”, come “spirito dello spirito”, ma che in essa a ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storico prodotto con la natura e degli individui fra di loro, che a ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che dall’altra parte impone a essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere...» p. 35: «Questa somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova come qualcosa di dato, è la base reale... di ciò che (i filosofi) hanno divinizzato e combattuto, una base reale che non è minimamente disturbata, nei suoi effetti e nei suoi influssi sulla evoluzione degli uomini, dal fatto che questi filosofi, in quanto

“autocoscienza” e “unico”, si ribellano a essa... Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia oppure l’ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori: la produzione reale della vita appare come qualche cosa di preistorico, mentre ciò che è storico, inteso come qualche cosa che è separato dalla vita comune, appare come extra e sovramondano. Il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l’antagonismo fra natura e storia. Questa concezione quindi ha visto nella storia soltanto azioni di capi di Stato e lotte religiose e in genere teoriche, e in ogni epoca, in particolare, ha dovuto condividere l’illusione dell’epoca stessa». p. 36: «Mentre i francesi e gli inglesi per lo meno si fermano all’illusione politica, che è ancora la piú vicina alla realtà, i tedeschi si muovono nel campo del puro spirito, e fanno della illusione religiosa la forza motrice della storia». Osservazioni critiche alle pp. 34 sgg.: Questi passi raccolgono insieme il grande motivo di vero, e insieme i limiti, della filosofia marxiana. Piú avanti (p. 46) Marx, sempre in polemica con la «ideologia tedesca», osserva che «mentre nella vita ordinaria qualsiasi bottegaio (shopkeeper) sa distinguere benissimo fra ciò che ciascuno pretende di essere e ciò che realmente è, la nostra storiografia non è ancora arrivata a questa ovvia conoscenza. Essa crede sulla parola ciò che ogni epoca dice e immagina di se stessa». Da sottoscrivere in pieno, anche se la storiografia, dai tempi di Marx e per influenza del suo pensiero, è venuta acquistando la necessaria «malizia» nell’analisi dei prodotti culturali di questa o quell’epoca. In particolare per quanto concerne la «religione» la ingenuità storiografica contro cui polemizzava Marx si mostra ancora molto tenace, e il problema di rimettere le religioni «sui piedi» è ancora pienamente attuale quando si pensa l’influenza di un Rudolf Otto, di un Mircea Eliade, di un Walter Otto, di uno Jung o di un Kerényi nel campo delle «scienze religiose». Ma, detto questo, cominciano le riserve. Un simbolo religioso come «il Regno di Dio» è per Marx una stravaganza (p. 36), e il compito della storiografia sta nello spiegare questa stravaganza di questo castello in aria teorico, mostrando come sia sorto dalla situazione terrena reale: spiegazione che poi non sembra neppure di grande momento (Marx la chiama «passatempo scientifico», e

aggiunge: «che piú di tanto non è»: p. 36). Rispetto all’unica base reale, la produzione materiale della vita, i riflessi spirituali, le idee, ecc. si dispongono in una serie di crescente distanza dalla realtà: e se nella «politica» il riflesso è piú vicino alla realtà, nella religione raggiunge la distanza massima, e quindi anche il massimo «arbitrio» (stravaganza, ecc.). Per questa via si dissolve non soltanto una storiografia religiosa che condivida l’immagine che l’uomo religioso ha di sé e del mondo e delle ragioni del proprio credere, ma qualsiasi comprensione storica della vita religiosa. La religione è una «stravaganza», un «castello in aria»: lo storico può, dentro certi limiti, spiegare questa stravaganza mostrandone il legame con la base reale, riducendola a questa base reale; ma ciò non toglie che resta in ultima istanza una stoltezza, un Umweg, un détour, una perdita di tempo, un fattore di ritardo, un elemento negativo, un vuoto e una improprietà. 4.5. Tesi su Feuerbach, 1845. L’oggetto, il reale, il sensibile è l’attività sensibile umana, e l’oggettività, viene decisa praticamente, mediante l’azione efficace mondana (1 a tesi, 2 a tesi): ma l’uomo di cui qui si parla non è l’individuo astratto, isolato, e neppure la specie umana naturalisticamente concepita come mera molteplicità di individui, ma l’uomo concreto, storico, cioè innestato in una certa serie di rapporti sociali in movimento (6 a tesi), e d’altra parte l’attività pratica cui qui ci si riferisce è innanzitutto l’attività economica, cioè il distacco inaugurale della «natura» mercé una modalità definita della produzione sociale di beni materiali. Circa il senso preciso da dare a questa attività sensibile pratica, è di particolare importanza il seguente passo della Deutsche Ideologie: «Questa attività, questo continuo lavorare e produrre sensibile, in breve questa produzione, è tanto la base di tutto il mondo sensibile come esiste oggi, che se venisse interrotto anche solo per un anno, non solo Feuerbach troverebbe un enorme cambiamento nel mondo naturale, ma molto presto tutto il mondo umano e la stessa facoltà personale di intuire di Feuerbach, anzi la sua propria esistenza, verrebbe a mancare». Sempre nello stesso contesto polemico Marx rimprovera a Feuerbach di non concepire il mondo sensibile «come l’intera attività sensibile vivente degli individui che lo costituiscono»: onde Feuerbach non vede che «il mondo sensibile che lo circonda non è una cosa immediatamente data dall’eternità, costantemente uguale a se stessa, ma il prodotto dell’industria e delle condizioni della società e, cioè, nel senso che

esso è un prodotto storico, il risultato dell’attività di tutta una serie di generazioni, di cui ciascuna stava sulle spalle della precedente, sviluppava ulteriormente la sua industria e il suo commercio, modificava il suo ordinamento sociale conformemente ai bisogni mutati». L’uomo ha sempre davanti a sé «una natura storica e una storia naturale», senza mai imbattersi in una natura in sé, o in una storia umana che non comprenda la natura; e la stessa scienza della natura è condizionata dal commercio e dall’industria: «Persino (la) “pura” scienza della natura riceve, anzi, tanto il suo fine quanto il suo materiale solo attraverso il commercio e l’industria, attraverso l’attività sensibile degli uomini». La «intera attività sensibile vivente» dell’uomo in società come fondazione inaugurale del «mondo» è la progettante utilizzazione comunitaria della vita: ma questa energia di distacco dell’umano dal naturale, fondante sempre di nuovo la distinzione del distaccato dal distaccantesi non è né mera energia vitale né utilizzazione della vita, ma ethos trascendentale del trascendimento della vita nelle distinte valorizzazioni umane, cioè nelle distinte progettazioni intersoggettive, ethos capace sia del trascendimento inaugurale dell’utilizzabile, sia del trascendimento dell’utilizzabile nelle altre valorizzazioni. Proprio perché ethos, cioè principio condizionante e compito senza sosta rinnovantesi, il suo in-der-Welt-sein-sollen è esposto a un rischio estremo, alla possibilità della «caduta» della sua tensione, fino a coinvolgere lo stesso mondo utilizzabile: l’individuo rischia di diventare «realmente» astratto separandosi dalla «intera attività sensibile» delle generazioni e perdendo quindi il mondo che ne risulta, la percepibilità di tale mondo, l’esperire della propria corporeità, la padronanza dei propri pensieri e delle proprie azioni, secondo una progressiva destrutturazione. Occorre ripensare e approfondire questa tematica marxiana del mondo come «intera attività sensibile» dell’uomo concreto e vivente, confrontandola sia con le ricerche della moderna psicologia (psicoanalitica, gestaltista, evolutiva), sia con il piú recente sapere etnologico, sia infine con la tematica fenomenologica ed esistenzialistica. Nel commentare le tesi su Feuerbach, Auguste Cornu 33 (K. Marx, trad. it. Milano 1946, pp. 357 sgg.) pone in particolare rilievo la polemica con il materialismo tradizionale, che non andrebbe oltre l’interpretazione del «mondo sensibile», della realtà, come oggetto della conoscenza umana, e la polemica contro l’idealismo, che invece concepirebbe lo Spirito come attività

non sensibile, nella quale il mondo si riduce al pensiero. Marx, facendo centro sull’attività pratica sensibile, oggettiva, fa giustizia del soggetto astratto, dell’individuo «isolato», e parla dell’uomo concreto, cioè integrato nella società, nella vita sociale, la quale è appunto pratica unione del naturale e dell’umano realizzantesi «nell’attività umana e particolarmente nell’attività economica» (op. cit., p. 359). Ora è da osservare – a proposito delle tesi su Feuerbach della esposizione di Cornu – che la difficoltà del materialismo storico sta tutta in quel «particolarmente» e nelle sue possibili interpretazioni. Vi è un’attività umana in senso trascendentale cioè come principio che rende intellegibile qualsiasi attività mondana e concreta, sia essa rivolta all’utilizzazione della natura sia orientata verso altre valorizzazioni: ma quest’attività in senso trascendentale, come principio di intellegibilità, è l’ethos del trascendimento valorizzante. Che poi la realizzazione di questo principio cominci necessariamente con un progetto comunitario dell’utilizzabile, che questo progetto stia alla base degli ulteriori trascendimenti, e che esso costituisca un documento indispensabile per misurare in tutti i campi della vita culturale la distanza fra ciò che gli uomini credono di fare e ciò che essi fanno realmente, tutto ciò non significa che le «soprastrutture» siano da ridursi alle «strutture», e che tutti i valori culturali siano «maschere» dell’economico (come la degenerazione positivistica del marxismo – il materialismo dialettico – ha equivocamente teorizzato). L’ethos del trascendimento della vita – o della «natura» – nel valore è trascendentale nel duplice senso di principio di intellegibilità della realtà umana, storica, culturale, e di ideale regolativo di inesauribilità del processo di trascendimento e di valorizzazione. Come principio trascendentale e come ideale regolativo questo ethos opera anche se non riconosciuto, anche se accompagnato da una consapevolezza contraddittoria, limitata, confusa del suo carattere, e infine anche se polemicamente negato in religioni, teologie, filosofie. In generale una civiltà, un’epoca, un mondo storico, attraverso il vario operare valorizzante umano giungono a una determinata consapevolezza di tale ethos; vi giungono testimoniando di esso innanzitutto con l’ordine sociale-economico, e quindi con le forme della vita politica e giuridica, con le arti, con la poesia e con la scienza, con i vari simbolismi che riprendono la crisi esistenziale e la ridischiudono verso il compito della operatività valorizzante. E se le rivoluzioni sono condizionate dalla maturazione delle forze economiche e sociali chiamate a compierle, il

mutamento effettivo della «base» economico-sociale non è automaticamente prodotto, non è scritto in nessun cielo e in nessuna terra, ma resta soltanto una possibilità concreta, di cui l’ethos, se è esso maturato, profitterà (ma può anche non profittare). L’ethos del trascendimento è attività in duplice senso: racchiude nel suo stesso principio lo slancio verso l’attuazione (come il rischio della propria caduta) e d’altra parte non è velleitarismo, predica moralistica, utopia, poiché si attua secondo concrete testimonianze, secondo un calvario che non può risparmiare nessuna delle sue dolorose stazioni. L’ethos del trascendimento si misura dalle condizioni che ha saputo creare al suo esplicarsi e dall’impeto con il quale compie l’ulteriore passo innanzi: le condizioni senza impeto e l’impeto senza condizioni testimoniano soltanto della sua caduta, della sua pigrizia, e della sua stanchezza. 4.6. Perdita dell’oggetto e dell’attività sensibile. Alienazione. L’antica ideologia dell’alienazione è sostanzialmente mitico-religiosa: narra il distacco dell’uomo dall’essere assoluto e la successiva reintegrazione umana in esso. Nella tradizione giudaico-cristiana questa narrazione si articola nei tempi della creazione, della caduta, della incarnazione e della seconda parusia, in Hegel assume la forma idealistica e immanentistica 34 dell’idea, dell’alienazione dell’idea nella natura, e della progressiva realizzazione dell’idea nel corso della storia umana. Feuerbach assegna invece all’alienazione un significato rovesciato: Dio che si aliena nel mondo o l’idea che si aliena nella natura diventano qui l’uomo che per ragioni pratiche di protezione e di conforto aliena la propria essenza in Dio, immaginandosi un essere in cui proietta le sue qualità piú alte e a cui attribuisce, rovesciando i termini reali, la creazione della natura e dell’uomo. Marx, con la mediazione di Hess 35, assegna all’alienazione economicosociale la radice dell’alienazione religiosa: la perdita di essenza che si manifesta nell’alienazione religiosa dipende in ultima istanza dalla perdita di attività umana che ha luogo nel lavoro alienato delle società divise in classi e soprattutto nella società capitalistica, la quale conduce la contraddizione del lavoro alienato al punto di soluzione definitiva. Infatti per la sua dialettica interna tale società comporta lo sviluppo del proletariato, cioè di una classe in cui l’alienazione si esaspera sino al punto della coscienza rivoluzionaria, e in cui la contraddizione fra il carattere «universale» della produzione e quello

«individuale» della «appropriazione» acquista, attraverso il proletariato e i suoi ideologi, il movimento risolutivo verso la società comunista. L’alienazione ha per Marx due significati distinti o connessi: è la perdita del prodotto del lavoro, che diventa estraneo rispetto al lavoratore e a esso ostile, ed è la perdita del lavoro, dell’attività lavoratrice, che non appartiene al lavoratore, ma a un altro, di guisa che l’uomo, in quanto manifestantesi nella sua essenza – cioè come attività lavoratrice – non appartiene a sé ma a un altro. L’alienazione racchiude dunque una duplice perdita, nel senso di un duplice spossessamento (o di una duplice espropriazione). D’altra parte la perdita del prodotto del lavoro, e della stessa spontanea attività del produrre, non soltanto estranea l’uomo a se stesso, ma anche l’uomo rispetto all’altro uomo: che l’uomo sia alienato nella sua essenza per il duplice spossessamento che si è detto significa che gli uomini sono alienati gli uni rispetto agli altri, e in concreto significa che una classe di uomini è spossessata della sua attività lavorativa da un’altra classe di uomini, che sfrutta quell’attività e ne gode i frutti. Questa teoria marxiana dell’alienazione riposa su un concetto dell’essenza umana come attività sensibile, oggettiva: cioè come attivo andar oltre la natura e la immediata vita della natura. Nei Manoscritti del 1844 36 si legge: «Che l’uomo vive della natura significa: che la natura è il suo corpo, rispetto al quale egli deve rimanere in continuo progresso per non morire». Per questo progresso (distacco, trascendimento) l’uomo «si sdoppia attivamente, realmente e vede se stesso in un mondo fatto da lui»: pertanto quando, in regime di lavoro alienato, viene sottratto all’uomo l’oggetto della produzione, gli viene sottratto il suo principio costitutivo fondamentale, la sua essenza, la sua oggettiva spontaneità mondificante, e allo sdoppiamento attivo del lavorare subentra lo sdoppiamento servile dell’alienazione spossessante, del lavorare per un padrone. La verità della teoria marxiana dell’essenza dell’uomo e della alienazione di questa essenza è certamente da rintracciare innanzitutto nel concetto dell’essenza dell’uomo come attività, come «andar oltre»: ma questo andar oltre fondante tutti i possibili trascendimenti non si identifica con l’utilizzazione, sia perché l’utilizzazione come progetto comunitario dell’utilizzabile comporta una fedeltà e una iniziativa, una disciplina e un coraggio, una volontà di relazione e di coerenza che vanno oltre la semplice soddisfazione del bisogno, la mera «vitalità», sia perché oltre la coerenza

operativa dell’utilizzazione si dispiegano altre progettazioni comunitarie del valore, altre valorizzazioni della vita. Vi è dunque un principio trascendentale che rende intellegibile l’utilizzazione e le altre valorizzazioni, e questo principio è l’ethos trascendentale del trascendimento della vita nel valore: attività dunque, ma ethos, dover-essere-nel-mondo per il valore, per la valorizzante attività che fa mondo il mondo, e lo fonda e lo sostiene. La riduzione dell’attività essenziale dell’uomo alla soggettività economica costituisce il limite del materialismo storico, mentre è da dire che la stessa dottrina marxiana non sarebbe stata possibile senza l’ethos che l’attraversa e la sostiene, anche se si tratta di un ethos vergognoso di sé, e che non si riconosce come fondamento trascendentale della stessa presa di coscienza rivoluzionaria e della stessa praxis che trasforma il mondo «borghese» in mondo «migliore». Il secondo motivo di vero della teoria marxiana è racchiuso nella posizione previlegiata che vi assume l’attività economica, il progetto comunitario dell’utilizzabile. In effetti la testimonianza inaugurale con cui il doverci-essere-nel-mondo si manifesta (il testimoniare in concreto appartiene allo stesso ethos trascendentale del trascendimento della vita nel valore) è costituito dal modo di produzione dei beni materiali e dalla forma della società: il progetto comunitario dell’utilizzabile, in quanto inaugurale distacco dell’umano dal naturale, segna il limite per entro il quale potranno aver luogo gli altri trascendimenti valorizzanti, e le stesse influenze che questi altri trascendimenti esercitano sul regime di produzione di beni materiali e sulla forma della società 37. Ciò ha un significato particolare per la interpretazione storiografica di epoche e di civiltà e per la trasformazione attuale del mondo nel quale viviamo. Per la interpretazione storiografica ciò significa un’avvertenza metodologica precisa: di non dimenticare mai di confrontare quanto gli uomini credono di fare con quanto essi fanno realmente, e di leggere quanto essi fanno realmente tenendo presente i loro reali rapporti economici e sociali. Per la trasformazione attuale del mondo ciò significa che ogni trasformazione rivoluzionaria deve cominciare col testimoniare di sé attraverso la trasformazione della base economico-sociale, e che tale trasformazione non è possibile se non sono venute maturando le forze produttive reali per promuoverla. 4.7. Che cosa può significare oggi, per l’uomo di oggi, il «materialismo storico»? In sede di metodologia della storiografia esso significa la

storicizzazione delle forme economiche e sociali, e particolarmente di quella forma economica e sociale fondata sulla proprietà privata, sulla divisione della società in classi e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che, nella prospettiva borghese, tendeva ad assumere il carattere di una materia sottratta alla storia, di una natura essenziale all’uomo, di una categoria immutabile della vita comunitaria. In sede di ideale politico esso significa la presa di coscienza da parte di definite forze produttive che l’ordinamento economico e sociale deve essere un progetto comunitario dell’utilizzabile in cui l’uomo sta come centro utilizzante e non come mero strumento utilizzato, come oggetto, come cosa, come entità naturale, come macchina. E infine, in sede di conoscenza scientifica e di prassi, cioè di visione della vita e del mondo, esso significa, l’istanza, conoscitiva e insieme operativa, che la società nella quale viviamo oggi, nell’attuale congiuntura culturale deve essere analizzata e trasformata nelle sue forme in base al criterio fondamentale di un ethos che trascende la vita per valorizzarla secondo determinati valori intersoggettivi, a cominciare dalla valorizzazione intersoggettiva della stessa vita economica e sociale. 4.8. Lo sciopero (in occasione dello sciopero dei minatori francesi contro De Gaulle 38). Grande forza umana è lo sciopero, totale demistificazione del giorno del giudizio, misurazione concreta, intima, solenne e collettiva della potenza dell’uomo di trasformare la sua società e di plasmarla secondo giustizia. Lo sciopero non è «violenza»: quanto piú esso è se stesso, responsabile, disciplinato, esteso a centinaia di migliaia di operai, tanto meno esso ha bisogno di picchettaggio, di episodi di violenza e di ribellioni alla polizia e tanto piú esso si svolge in una calma tremenda, che non raccoglie provocazioni, che è sicura di sé e della propria illimitata potenza, e che è serena per la coscienza di non abusare del potere di cui dispone. Il fine ideale a cui tende lo sciopero è questa atmosfera, questo ethos: al limite lo sciopero è pura irresistibile forza morale e materiale insieme, che suscita ondate di crescente solidarietà, e contro cui la forza-violenza non può nulla. Basta un carro armato per battere decine di migliaia di operai decisi alla violenza materiale, ma non basta tutta la potenza nucleare di cui dispongono gli stati moderni per costringere un solo operaio a capitolare. Lo «sciopero» è l’arma del mondo nuovo, l’arma che gli apre il varco. 4.9. In L. Feuerbach e la filosofia tedesca 39 Engels, narrando la

formazione della sinistra hegeliana verso la fine del decennio 1830-40, accenna all’importanza decisiva che vi ebbe la distruzione della religione tradizionale e dello Stato esistente (cioè la lotta contro la bigotteria ortodossa e la reazione feudale di Federico Guglielmo IV), e precisa che: «poiché la politica era, a quell’epoca, un dominio spinosissimo, la lotta principale fu condotta contro la religione». Strauss, Bruno Bauer e Stirner si collocano lungo questa linea 40. In questa lotta contro la religione, la maggior parte dei giovani hegeliani piú decisi furono condotti, dalle necessità pratiche di tale lotta, al materialismo anglo-francese, entrando in tal modo in conflitto col sistema hegeliano, con l’idealismo. Apparve cosí l’essenza del Cristianesimo di Feuerbach, che ruppe il «sistema», rovesciandolo. «L’entusiasmo fu generale e fummo tutti momentaneamente dei feuerbachiani», dice Engels, che ricorda altresí La Sacra Famiglia 41 per mostrare l’influenza di questo libro su Marx. Al feuerbachismo si ricollegò il socialismo vero per esempio di un Karl Grün 42, e – attraverso le Tesi – il socialismo scientifico di Marx. Questa genesi del marxismo – o piú esattamente: l’importanza di questo filone nella genesi del marxismo – va approfondita. Ma, intanto, non sarà mai abbastanza sottolineato il fatto che il marxismo nacque in un’atmosfera satura di polemiche religiose e storico-religiose, e che in fondo è rimasto sempre al livello di quelle polemiche, che non furono piú rinnovate, non si mantennero a contatto con lo sviluppo storico, persero il mordente della temperie storica che le produsse e si vennero riducendo a formule da applicare. 4.10. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Einaudi, Torino 1948 43. p. 160: «È evidente che per la filosofia della prassi la materia non deve essere intesa né nel significato quale risulta dalle scienze naturali (fisica, chimica, meccanica, ecc. e questi significati sono da registrare e da studiare nel loro sviluppo storico) né nei suoi significati quali risultano dalle diverse metafisiche materialistiche. Le diverse proprietà fisiche (chimiche, meccaniche, ecc.) della materia, che nel loro insieme costituiscono la materia stessa (a meno che non si ricada in una concezione del noumeno kantiano), sono considerate, ma solo in quanto diventano elemento economico produttivo. La materia non è quindi da considerare come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata per la produzione e quindi la scienza naturale come essenzialmente una categoria storica, un rapporto umano». p. 161: «L’elettricità è storicamente attiva, non come mera forza naturale

(come scarica elettrica che provoca incendi, per esempio) ma come un elemento di produzione dominato dall’uomo e incorporato nell’insieme delle forze materiali di produzione, oggetto di proprietà privata. Come forza naturale astratta, l’elettricità esisteva anche prima della sua riduzione, ma non operava nella storia, ed era un argomento di ipotesi nella storia naturale (e prima era il nulla storico, perché nessuno se ne occupava e anzi tutti la ignoravano)». Oggettivo significa umanamente e socialmente progettantesi per l’utilizzabile. p. 56: «Anche nella scienza, cercare la realtà fuori degli uomini, inteso ciò nel senso religioso e metafisico, appare nient’altro che un paradosso. Senza l’uomo, cosa significherebbe la realtà dell’universo? Tutta la scienza è legata ai bisogni, alla vita, all’attività dell’uomo. Senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i valori, anche scientifici, cosa sarebbe l’oggettività? Un caos, cioè niente, il vuoto, se pure cosí si può dire, perché realmente, se si immagina che non esiste l’uomo, non si può immaginare la lingua e il pensiero. Per la filosofia della prassi l’essere non può essere disgiunto dal pensare, l’uomo dalla natura, l’attività dalla materia, il soggetto dall’oggetto: se si fa questo distacco si cade in una delle tante forme di religione o nell’astrazione senza senso». p. 142: «C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l’unificazione del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano Spirito non è un punto di partenza ma d’arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e non già un presupposto unitario, ecc.». p. 143: «Noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo e siccome l’uomo è divenire storico, anche la conoscenza e la realtà sono un divenire, anche l’oggettività è un divenire, ecc.». p. 142: «Questo processo di unificazione avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società». Una «materia» dunque, ma organizzata, storicizzata, antropologizzata mediante l’attività sensibile umana: legame con i Manoscritti economicofilosofici del ’44 e le tesi su Feuerbach. È molto importante in Gramsci questa ripresa dei motivi del giovane Marx, sotto il triplice stimolo dell’imbarbarimento positivistico del marxismo (Engels), della sua mitologizzazione in quanto energia rivoluzionaria

concretamente operante in un paese determinato, fra masse in movimento e in un ambiente culturale definito (Lenin, Stalin), e del rinnovato esorcismo idealistico che in Italia porta il nome di Croce. Gramsci inizia effettivamente l’ulteriore approfondimento e sviluppo del marxismo e la sua «attualità» è destinata a crescere sempre di piú anche se per il momento la sua influenza nella cultura italiana (e ancor piú in quella mondiale) è relativamente modesta o non quale meriterebbe di essere. Contro l’imbarbarimento positivistico del marxismo Gramsci restituiva alla «materia», il suo significato storico di un risultato – in continuo divenire – dell’attività sensibile dell’uomo in società; onde questa attività, sempre di nuovo condizionata e modificata e sempre di nuovo condizionante e modificante, è per un verso «oggettivazione» come «percezione di oggetti» e per un altro verso «oggettivazione» come trasformazione di situazioni (ma l’attuale «percezione di oggetti» è sempre presa di possesso di precedenti storiche «trasformazioni», e l’attuale trasformazione è istituzione di nuove condizioni percettive e operative per il futuro), senza che mai sia possibile incontrare l’oggetto in sé, la natura in sé, ecc., o lo Spirito assoluto. Ma questa «prassi» storica resta in Gramsci senza principio trascendentale di intellegibilità, cioè senza ulteriore qualificazione della interna forza di organizzazione dialettica che distacca sempre di nuovo l’umano dal naturale, secondo una prassi che si inaugura con l’attività sensibile, con la produzione materiale della vita, ma che non soltanto non esaurisce mai tale attività (come si figura il mito di una natura interamente sottomessa dall’uomo) ma che non si esaurisce neanche come attività sensibile e produzione materiale della vita in quanto su tale attività valorizzatrice si innesta tutta una serie di valorizzazioni non riducibili al progetto comunitario dell’utilizzabile, e a loro volta reagenti variamente su esso. La «prassi» di Gramsci (come del resto l’attività sensibile del giovane Marx) è un semplice presupposto (che è cosí perché è cosí), senza raggiungere il principio interno intellegibile del suo movimento dialettico oltre la natura nell’economico e «oltre» l’economico nelle altre valorizzazioni: questo principio che è l’ethos trascendentale del trascendimento della vita nelle attività intersoggettive (sociali) valorizzatrici, non trova posto in Gramsci (le ragioni storiche di ciò sono trasparenti: in Gramsci operano ancora, in modo immediato, come già nel giovane Marx, le ragioni polemiche contro lo «Spirito» idealistico, e queste ragioni mascherano a lui, come già a Marx, non già l’astrazione dello spirito, ma la

potenza che condiziona ogni astrazione e ogni ritorno al concreto, cioè appunto l’ethos del trascendimento). Questo mancato riconoscimento dell’ethos del trascendimento è responsabile in Gramsci di alcune ombre mitologizzanti che ancora gravano sul suo marxismo riformato: quando Gramsci parla di un processo di unificazione del genere umano che mette capo alla «sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società», o di una «lotta per l’oggettività» come punto di arrivo raggiunto il quale si potrà anche riparlare di Spirito, rispunta il tema – di derivazione religiosa, teologica, idealistico-hegeliana – di un processo a termine, e della esauribilità storica della lotta per la oggettività; che la «società borghese» racchiude delle contraddizioni, che queste contraddizioni si vengano maturando in condizioni per l’avvento della società socialista, che fra queste condizioni vi sono le nuove forze storiche che possono operare tale avvento, che ogni uomo deve oggi lavorare, come meglio sa e può, per sopprimere le contraddizioni della società borghese, tutto ciò non significa che la società socialista (e comunista) sopprimerà una volta per sempre «tutte» le possibili contraddizioni sociali, e che non se ne genereranno di nuove mai esperite nella storia umana, e che non si dovrà prendere coscienza di esser e lottare per la loro soppressione. Né d’altra parte ciò significa che, attraverso la pianificazione socialistica del dominio tecnico della natura il distacco dell’umano dal naturale cesserà di essere un problema, e la natura sarà interamente «asservita» all’uomo e lo «spirito» sarà liberato una volta per sempre (tutte frasi che possono anche, nell’emozione dell’azione rivoluzionaria, ritenere un significato propulsivo, ma nelle quali in ultima istanza non si pensa affatto ciò che dicono, perché ciò che dicono è nulla, e si pensa in realtà soltanto qualcosa di molto storicamente determinato; si pensa cioè che le contraddizioni della società borghese «debbono» essere soppresse e che il contraddittorio deve essere spostato a un livello piú umano, cioè piú omogeneo al reale sviluppo raggiunto dall’umanità). 4.11. Marx e Merleau-Ponty. [...] Nella 1 a tesi su Feuerbach si legge: «Il principale difetto di tutto il materialismo passato [...] sta nel fatto che l’oggetto, la realtà e il mondo vi sono considerati solo nella forma di oggetto e di intuizione, ma non in quanto attività umana concreta, non in quanto pratica, non in maniera soggettiva». Con ciò viene dischiusa una concezione della praxis che non ha piú il suo

supporto in un processo che conduce necessariamente ad una sintesi finale (come nella tradizione giudaico-cristiana e nello stesso Hegel), ma che ha la sua unica risorsa in una presa di coscienza che decide dell’uomo e del mondo: in una presa di coscienza esposta in concreto a infinite peripezie, a infinite insidie, e che «può» anche oscurarsi e annientarsi, maturando non la «rivoluzione» ma il caos. Quando Merleau-Ponty dice che il marxismo carica l’uomo di una immensa responsabilità (Sens et non-sens, Nagel, Paris 1948; trad. it. presso il Saggiatore, 1962, p. 105) è certamente nel giusto: è proprio per il terrore di questa responsabilità, cioè per lo sforzo estremo che il marxismo richiede alla praxis e al suo ethos, che l’antica metafisica della necessità e del materialismo volgare travaglia la storia dello stesso marxismo, e che, per un altro verso, tanta parte dell’umanità si abbraccia disperatamente al vecchio Dio con l’agonia del quale sembra debba non già crescere l’uomo ma rovinare il mondo. [...] «La religione è qualcosa di piú che una vuota apparenza, è un fenomeno fondato sulle relazioni interumane» (Merleau-Ponty, p. 151). Giusto: ma la religione non ha realtà soltanto come «realizzazione fantastica dell’essenza umana» secondo che si legge nella Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel, o come «espressione simbolica del dramma sociale e umano» (ibid.), ma come orizzonte di reintegrazione dell’umano rispetto al rischio di alienazione in civiltà e in epoche in cui il détour religioso era l’unica via possibile. Solo con la civiltà moderna, cioè con la presa di coscienza che la via religiosa è un détour, quella via sta diventando autenticamente impercorribile, appunto perché è entrata in conflitto con la coscienza di un détour per raggiungere l’umano, di una «via lunga» contrapposta alla «via breve»: e la mistificazione nasce per l’ostinarsi alla «via lunga» quando l’esplorante coscienza della vita ha scoperto la «via breve», e non può autenticamente percorrerle entrambe. Le orme dei passi umani cominciano a cancellarsi lungo l’aspro e tortuoso sentiero di montagna, e le erbe lo vanno ricoprendo, ora che l’ampia strada diretta solca la vallata, e attraversa in galleria le catene montane piú impervie: ma quando questa strada non era stata ancora costruita, valeva come unica via di comunicazione il sentiero oggi abbandonato. D’altra parte si tratta appena di un paragone: sia perché la strada a valle la stiamo ancora costruendo e molti praticano ancora il vecchio sentiero, sia perché quando l’avremo costruita

dovremo pur sempre proteggerla dall’usura del tempo, e potremo anche abbandonarla per un percorso piú agevole e migliore; infatti la viabilità della comunicazione umana non conosce soluzioni definitive. [...] 1. I frammenti raccolti in questa sezione provengono da un fascicolo inedito: Archivio De Martino, 22.6. 2. B. CROCE, Frammenti di etica, Laterza, Bari 1922, pp. 22-24. Si tratta di un testo sulla necessità di dimenticare i morti, di «far morire i morti in noi», commenta De Martino nell’introduzione a Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1975, p. 4. 3. B. CROCE, Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1949. 4. Data delle elezioni che si chiusero con la vittoria schiacciante della Democrazia Cristiana, opposta al Fronte democratico popolare. 5. Con questo termine si indica una sorta di religione secolare della Patria legata agli ideali politici di Giuseppe Mazzini (1805-1872). 6. Espressione di Benedetto Croce che è stata ampiamente commentata: Del nesso tra la vitalità e la dialettica, in Indagini su Hegel, e schiarimenti filosofici, Bibliopolis, Napoli 1998 [1952], p. 35. 7. Cfr. la nota precedente. 8. D. ALIGHIERI , La Divina Commedia, canto XXVI, verso 119: «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». 9. W. E. MÜHLMANN, Chiliasmus und Nativismus: Studien zur Psychologie, Soziologie und historischen Kasuistik der Umsturzbewegungen, Dietrich Reimer, Berlin 1962. 10. H. CORRODI, Kritische Geschichte des Chiliasmus, oder der Meynungen über das tausendjärige Reich Christi, Frankfurt am Main 1781-94, 4 voll. 11. Le trasposizioni secolarizzate dell’escatologia cristiana, cosí come le aporie della nostra coscienza moderna della storia sono analizzate da Karl Löwith in Storia e fede, Laterza, Bari 1985 [1 a ed. ingl. 1949]. 12. Il primo di questi movimenti religiosi è stato fondato nel III secolo da Mani, nel Vicino Oriente, e il secondo nel X secolo in Bulgaria. Entrambi sostengono un sistema dualista fondato sull’opposizione fra la luce e le tenebre come equivalente dell’opposizione fra il Bene e il Male. 13. Wilhelm Weitling (1808-1871), sarto immigrato in Francia, è il fondatore e il maggior teorico della Lega dei Giusti (1836) che definisce un sistema comunista di ispirazione religiosa. L’hussitismo è un movimento sociale e religioso ispirato alle dottrine del riformatore ceco Jean Hus (1369-1415 ca) che si sviluppa in Boemia nella prima metà del XV secolo. I taboriti costituiscono l’ala di sinistra di questo movimento proto-protestante.

14. Trad. it. di N. COHN, I fanatici dell’Apocalisse cit. I riferimenti delle pagine e le citazioni che seguono in questa sezione rinviano all’edizione inglese. 15. Su questo libro dell’ideologo nazista cfr. il capitolo 1, nota 55. 16. Thomas Müntzer (1489-1525), predicatore inizialmente schierato con Martin Lutero, diventa il capo religioso di una rivolta armata di contadini e operai contro il clero e i signori, che attraversa la Germania nel 1525. Rimasta nella storia col nome di «Guerra dei contadini», questo movimento e la figura del teologo rivoluzionario sono stati oggetto di numerose letture militanti, fra le quali si ricorda quella di Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania, trad. di Giovanni De Caria, Roma, Editori Riuniti, 1976 [ed. orig. 1850] e di Ernst Bloch, Thomas Müntzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano 2010 [ed. orig. 1921]. Oggi per gli storici è sia l’ultimo grande rappresentante del messianismo cristiano di tipo medievale, sia colui che ha introdotto l’esigenza moderna di trasformazione dei rapporti sociali e politici. 17. Analisi sviluppata da Norman Cohn in un libro successivo: Licenza per un genocidio. «I Protocolli degli anziani di Sion»: storia di un falso, Einaudi, Torino 1969. 18. Bisogna aspettare la metà degli anni Ottanta perché Emmanuel Terray interroghi, in qualità di antropologo, l’attrazione reciproca del religioso e del politico, comparando strutturalmente tre «politiche della trascendenza»: l’espansione del Cristianesimo dal I al V secolo, l’espansione dell’Islam dal VI al IX secolo, e lo sviluppo del movimento comunista internazionale sul finire del XIX

secolo: Combats avec Méduse, Galilée, Paris 2011. 19. Il movimento dei giovani hegeliani di sinistra àncora la critica del sistema hegeliano

nell’analisi del Cristianesimo, rifiutando l’identità fra teologia e filosofia, cosí come la superiorità oggettiva della religione cristiana. De Martino fa allusione a David Strauss (Vie de Jésus, 1835), Bruno Bauer (Critique de l’Evangile selon saint Jean, 1840), Max Stirner (L’unique et sa propriété, 1845). A questo movimento si riallaccia il Feuerbach de L’essence du christianisme (1841). Cfr. W. BRECKMAN ,

Marx, The Young Hegelians and the Origins of Radical Social Theory. Dethroning the

Self, Cambridge University Press, Cambridge 1998. 20. De Martino pubblica nella rivista «Società» (vol. 9, n. 4, 1953, pp. 613-15) una dura recensione dell’introduzione di Ambrogio Donini a Friedrich Engels, Sulle origini del cristianesimo, Rinascita, Roma 1953. Donini, storico marxista, all’epoca occupava la cattedra di storia del Cristianesimo a Roma, e avrebbe poi pubblicato un manuale marxista di storia delle religioni: Lineamenti di storia delle religioni, Editori Riuniti, Roma 1959. 21. K. MARX, La questione ebraica.Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, Editori Riuniti, Roma 1996. 22. Seconda stesura di questo frammento. 23. Ritroviamo questo frammento in Postilla a Scarcia cit. Il testo della lettera è reperibile in K.

MARX

e F. ENGELS, Opere, XLVIII, Lettere gennaio 1888 - dicembre 1890, Editori Riuniti, Roma

1983, pp. 518-25. 24. Da comparare con la definizione althusseriana della determinazione in ultima istanza attraverso l’economia, cosí come la riassume Emmanuel Terray: «L’économie est déterminante en ce que c’est elle qui décide de l’identité de la sphère dominante» (Anthropologie et marxisme: années 1950-70, giornata di studi dell’Institut Interdisciplinaire d’anthropologie du contemporain, giugno 2007, disponibile online: https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-00207614; consultato nell’ottobre 2016). 25. Discorso pronunciato da Friedrich Engels in inglese a Highgate il 17 maggio 1883 e pubblicato in tedesco nel «Sozialdemokrat», n. 33, 22 marzo 1883: F. MEHRING, Vita di Marx. Una biografia rivoluzionaria, trad. di Mario Alighiero Manacorda e Fausto Codino, Shake Edizioni, Milano 2012, pp. 405-6. 26. Si tratta dell’inizio sulla prima tesi su Feuerbach, reperibile in K. MARX, L’ideologia tedesca, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947, p. 145. 27. L’espressione «progetto comunitario dell’utilizzabile» e le sue varianti («progetto comunitario dell’utilizzazione», «progetto di utilizzazione comunitaria della vita») è in parte forgiata da De Martino a partire dalla traduzione italiana del vocabolario heideggeriano dell’utile e dell’utilizzabilità. Il piú delle volte usata come sinonimo di «economico», quest’espressione ha la funzione di ricusare la tesi del marxismo materialista volgare, secondo il quale la vita culturale sarebbe solo un riflesso meccanico delle forze economiche. 28. Questa nozione è stata forgiata negli anni 1920-1930 dallo psicologo Kurt Lewin a partire dal greco hodos – strada o cammino – per definire l’esperienza concreta del mondo come insieme di piú lunghi e tortuosi percorsi legati agli investimenti psichici dell’individuo. La nozione di «spazio odologico» è ripresa da Jean-Paul Sartre per definire, sulla scia dell’analisi heideggeriana, lo spazio concreto dell’esistenza umana, al di qua del dualismo soggetto-oggetto, come orizzonte di usi pratici, come orizzonte di relazione a un mondo di strumenti che rimandano gli uni agli altri. L’analisi sartriana sarà poi nuovamente commentata nel capitolo 7: «Corpo vissuto, mondo vissuto». 29. Cosí come per Martin Heidegger, è il problema della natura ciò che dà senso all’analisi dell’utilizzabilità. 30. K. MARX e F. ENGELS, L’ideologia tedesca cit. 31. Ibid. 32. Ibid. I riferimenti alle pagine, e le citazioni che seguono in questa sezione fanno riferimento a quest’opera. 33. Auguste Cornu (1888-1981), storico francese, grande esperto della formazione e della storia del pensiero marxista, ha insegnato all’Università Humboldt di Berlino fra il 1948 e il 1956. Karl

Marx: l’uomo e l’opera. Dallo hegelismo al materialismo storico, 1818-1845, La nuova biblioteca, Milano 1945-1946. 34. Termine filosofico che designa ciò che ha il proprio principio in se stesso. 35. Moses Hess (1812-1875) introduce il giovane Marx ai problemi economici e sociali. 36. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1949. 37. Riformulazione delle relazioni di interdipendenza fra le diverse sfere della vita sociale. 38. Del 1963. 39. F. ENGELS, Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, trad. di Palmiro Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma 1950 [1888]. 40. Cfr. supra, nota 20. 41. F. ENGELS e K. MARX, La sacra famiglia, ovvero Critica della critica: contro Bruno Bauer e soci, Editori Riuniti, Roma 1969. 42. Karl Grün (1817-1887), figura di spicco fra i giovani hegeliani, aderisce al gruppo dei «Veri socialisti» che si forma intorno a Hess. Furono aspramente criticati da Marx e da Engels, che li definirono «cripto-idealisti». 43. Si tratta dell’unico frammento dedicato a un commento di Antonio Gramsci, anche se la lettura delle Lettere dal carcere (Einaudi 1947) e del primo dei sei volumi dei Quaderni del carcere, pubblicati da Einaudi fra il 1948 e il 1951, ha permesso a De Martino di farsi «etnologo del vicino».

Capitolo settimo Antropologia e filosofia

Ernesto De Martino occupa un posto particolare fra gli antropologi che, negli anni Cinquanta e Sessanta, si interessano ai rapporti fra scienze dell’uomo e filosofia. Pur mostrandosi diffidente rispetto alla pretesa filosofica di svolgere un ruolo di fondamento ultimo, egli non è comunque disposto a ridurre il ruolo dell’etnologia a disciplina che si limita a documentare i modi di fare e di pensare degli «altri». Ciò che riecheggia in numerose pagine, attraversate da uno stesso sforzo e da una stessa tensione volta a sostituire il simbolico al trascendentale è, in fondo, una versione italiana della disputa fra Martin Heidegger ed Ernst Cassirer, previo passaggio in Francia con Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty. Quest’ultimo capitolo ha avuto bisogno di diversi rimaneggiamenti, al fine di ristrutturare un’argomentazione che la precedente edizione ha frammentato in una molteplicità di sviluppi, autonomi e contrapposti, nel voluminoso «Epilogo». Innanzitutto, da quelle che erano oltre 200 pagine, abbiamo staccato i testi dedicati al crollo dell’ethos del trascendimento che trovavano posto nella costruzione della categoria di apocalisse psicopatologica (capitolo 2), cosí come quelli che identificano un’apocalisse culturale senza trascendenza nella letteratura e nelle arti figurative moderne (capitolo 5). Secondo la catalogazione dell’archivio, i frammenti che l’edizione italiana raccoglie nella sezione «Il corpo e il mondo» 1 seguono immediatamente le analisi dei limiti del materialismo storico (capitolo 6). Eppure tutto in queste note di lavoro: oggetti, autori letti e commentati, linguaggio concettuale adottato, presenta caratteristiche particolari, e nessuna indicazione esplicita, stando allo stesso Angelo Brelich, ci consente di prevedere in che modo De Martino li avrebbe articolati. In compenso, esse sono prova evidente di un confronto serrato fra antropologia e filosofia a partire da una ripresa della questione dell’«essere-al-mondo», inizialmente posta in un dialogo con la psicopatologia. Questo confronto critico fra due discipline che De Martino, in misura maggiore rispetto agli antropologi della sua generazione, ha mantenuto in una prossimità conflittuale, ci è sembrato l’orizzonte piú pertinente della sua ambizione di riformatore di un’etnologia chiamata a sua volta a riformare la filosofia. Una relazione, non firmata, dedicata ai nuovi orientamenti della filosofia, conservata nell’archivio 2, attesta il metodo di lavoro adottato per questa interrogazione reciproca fra le due discipline: come nel caso di altre discipline, De Martino ha richiesto il parere di un esperto, che lo stato attuale della ricerca non permette di identificare. Ma, come sempre, lo studioso risale personalmente ai testi e il modo di utilizzarli, a partire da questioni come la razionalità o l’efficacia delle pratiche collettive normate, ci mette di fronte alle differenze sussistenti fra la ricezione italiana e quella francese di Edmund Husserl e di Martin Heidegger. Da qui la decisione di integrare alcuni frammenti dei due dossier pubblicati,

quindici anni fa in maniera autonoma 3, come «scritti filosofici». Se la loro selezione non può avvalersi delle indicazioni dell’autore, le scelte che abbiamo operato rispondono comunque all’esigenza di esplicitare alcune delle grandi domande rispetto alle quali questi dossier sembrano costituire delle risposte. L’adozione di tale prospettiva ci fa cosí risalire a fonti filosofiche importanti, attraversando i diversi modi nei quali esse si sono adattate al contesto intellettuale italiano. Si chiarisce qui la genesi di un’enigmatica invenzione concettuale che abbiamo piú volte incontrato, il «progetto comunitario dell’utilizzabile». In essa confluisce la critica al marxismo in quanto materialismo riduzionista, nonché quella terza via di cui la filosofia degli anni Quaranta andava in cerca in una fase, non di diretta ricezione, ma di originale elaborazione del pensiero heideggeriano. Come testimonia l’inchiesta realizzata dalla rivista «Primato» nel 1943, la posta in gioco era la costruzione di un esistenzialismo italiano – che il filosofo Nicola Abbagnano definiva «positivo» 4 – al quale De Martino aveva partecipato indirettamente interrogando la labilità della presenza magica 5. Ma questo ritorno sull’effetto Heidegger in Italia è ormai tutt’uno con il dialogo che l’antropologo porta avanti con i filosofi italiani e francesi suoi contemporanei. Come testimoniano le fittissime note di lettura parallele a quella che lo stesso De Martino definisce «monografia sulla fine del mondo», in quegli anni il dialogo con Enzo Paci 6 è divenuto costante. L’incontro con lo studioso che in Italia nei primi anni Sessanta è l’interlocutore di Sartre e soprattutto il mediatore di Merleau-Ponty e che, attraverso la sua rivista «Aut Aut» s’impone come una figura centrale della filosofia della cultura, era cominciato dieci anni prima con un commento a Il mondo magico 7. All’ombra di questo incontro c’è Benedetto Croce, che il giovane Paci, agli inizi degli anni Quaranta, tentava di conciliare con l’esistenzialismo attraverso le nozioni di «vitale» e di «utile». De Martino rilegge attentamente questo dibattito per verificare i propri punti d’accordo e di divergenza – sull’economico, sul mito e sulla temporalità – con colui che si propone ormai di «fare ritorno» a Husserl per pensare, proprio come Merleau-Ponty, la praxis marxista alla luce della nozione di esistenza 8. I frammenti raccolti sotto il titolo «La natura è nella cultura» generalizzano la critica del materialismo marxista volgare sviluppata nel capitolo precedente. In essi De Martino definisce la natura come un «al di là» incessantemente trasformato da questo rapporto pratico con il mondo che, come non fa che ripetere, attiene a un progetto comunitario, cosí come l’«al di là» della crisi del soggetto appariva «convertito» dall’attività religiosa. Semplice analogia o omologia strutturale? È da questa domanda che sembrerebbe scaturire l’esigenza della ripresa, di sana pianta, della descrizione fenomenologica della presenza al mondo attraverso le categorie di «mondo vissuto» e di «corpo vissuto». Qui il testo romanzesco non è piú trattato come un sintomo, ma viene letto come una forma propria di pensiero che restituisce l’esatta dimensione culturale dei comportamenti apparentemente piú «naturali». Facendosi a sua volta lettore delle intermittenze dell’essere-al-mondo di Marcel Proust, De Martino va a collocarsi in una tradizione di meditazione filosofica, e piú recentemente sociologica,

dello scrittore. Ma ancora una volta la sua originalità consiste nel far dialogare Sartre e Merleau-Ponty con Robert Hertz e Marcel Mauss, al fine di proporre un’analisi dell’esperienza precritica del mondo in cui l’antropologia in qualche modo viene in soccorso della filosofia. Cosí egli può confrontarsi nuovamente con Heidegger forte di tutta l’esperienza acquisita nella qualità di storico delle religioni e di etnologo. De Martino legge Essere e tempo simultaneamente nella versione tedesca e nella prima traduzione italiana di Pietro Chiodi 9, che fa parte dell’ambiente torinese che, intorno ad Abbagnano, ha aperto nuove vie, tutte italiane, per la filosofia dell’esistenza, e proclama in quei primi anni Cinquanta un nuovo spirito dei Lumi 10. È da questa traduzione che De Martino eredita il lessico dell’«utilizzabile» – opposto a quello di utilitarismo – che attraversa le sue analisi del rapporto pratico con il mondo. La riflessione che vediamo svilupparsi in questi frammenti sui grandi temi dell’impersonalità del «si», dell’essere-per-la-morte e dell’angoscia come costitutiva dell’essereal-mondo riformula, a partire da ciò che l’etnografia consente di riconoscere nei comportamenti empirici, la positività che gli esistenzialisti italiani hanno opposto al filosofo tedesco. Ma quale statuto dare all’ethos del trascendimento? Definendo la cultura come «attività valorizzante» che si declina sempre in una pluralità di forme, De Martino riprende la problematizzazione inaugurata da Cassirer negli anni Venti tramite una filosofia delle forme simboliche, ovvero questo «mondo di segni e di immagini» che «si oppone a ciò che chiamiamo realtà effettuale oggettiva delle cose e si afferma di fronte a essa in autonoma pienezza e originaria forza» 11. Egli non cerca di definire la cultura dall’esterno, a partire da ciò che essa non è, ma lega strettamente senso e valore per definire le attività che trasformano una materia in significante come altrettante forme di valorizzazione che ereditiamo collettivamente e nelle quali siamo immersi. Tuttavia la ricerca di una genesi delle forme simboliche – che nell’antropologia francese in quello stesso periodo cede il posto all’affermazione di una funzione simbolica le cui diffrazioni devono essere descritte secondo la grammatica che le struttura – segna probabilmente i limiti dello scenario demartiniano di riconciliazione fra la tradizione filosofica occidentale e l’antropologia 12. Giordana Charuty 1. E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino 2002, p. 555. 2. Archivio De Martino 22.14. 3. E. DE MARTINO, Scritti Filosofici, a cura di Roberto Pàstina, il Mulino, Bologna 2005. In Italia è ancora aperto il dibattito sull’eventuale appartenenza di questi scritti al progetto de La fine del mondo. Per Riccardo Di Donato si tratterebbe di un’introduzione al libro incompiuto: Tra rimorso e trascendimento. Ernesto De Martino, 1959-1963, in «Archivio di storia della cultura. Quaderni», nuova serie, 5, 2014, pp. 15-27. Gennaro Sasso suggerisce invece che l’ampiezza presa da una riflessione critica che riguarda in maniera solo marginale la questione delle apocalissi

culturali avrebbe dato vita a un altro libro: G. SASSO, Ernesto De Martino. Fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001, p. 330, nota 36. 4. Nicola Abbagnano (1901-1990): La struttura dell’esistenza, Paravia, Torino 1939; Introduzione all’esistenzialismo, Bompiani, Milano 1942; Esistenzialismo positivo, Taylor, Torino 1948. Fra Martin Heidegger (l’essere per la morte come situazione originaria) e Karl Jaspers (fallimento di ogni tentativo per raggiungere il senso dell’essere), viene proposta una via intermedia: l’esistenza come indeterminatezza, «possibilità di possibilità», che esige una decisione per il superamento: la «possibilità trascendentale di scegliere», e che è dunque storicità. Diversi commentatori hanno identificato l’idealismo radicale di Giovanni Gentile, chiamato ancora «attualismo», come orizzonte di intellegibilità di questa ricezione italiana, che mira a riformare in senso positivo la filosofia esistenzialista. 5. Carlo Ginzburg sottolinea l’importanza di Methodik der Völkerkunde (1938) dello studioso nazista Wilhelm Mühlmann come una delle prime vie di accesso di De Martino a una lettura di Heidegger in cui si trova prefigurato il progetto de Il mondo magico: C. GINZBURG, Genèses de «La fin du monde» d’Ernesto De Martino, in «Gradhiva», n. 23, 2016, p. 201, in particolare nota 12. Un’altra via d’accesso alle concettualizzazioni heideggeriane è costituita da J. WAHL, Études kierkegaardiennes, Aubier, Paris 1938. 6. Enzo Paci (1911-1976), allievo di Antonio Banfi. Cfr. A . VIGORELLI , L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci. Una biografia intellettuale (1929-1950), Franco Angeli, Milano 1987. Invitato alla Sorbonne, poi a Royaumont nel 1960, Paci diventa un interlocutore di Maurice Merleau-Ponty e di Paul Ricœur. Nell’aprile del 1967 riceve Jean-Paul Sartre a Milano, e stava preparando l’accoglienza di Merleau-Ponty per un ciclo di conferenze in Italia, quando esso fu drammaticamente annullato dalla repentina morte di quest’ultimo, il 3 maggio 1961. 7. Pubblicato in E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo, Taylor, Torino 1950, e in appendice alla seconda edizione de Il mondo magico, nel 1958. 8. È anche un lettore di Ludwig Binswanger e di Alfred Storch, del quale discute l’uso della categoria di «essere per gli altri»: E. PACI, Diario fenomenologico, il Saggiatore, Milano 1961, pp. 81-82. 9. Essere e tempo, Bocca, Roma 1953. 10. La convergenza fra empiristi, pragmatisti ed esistenzialisti è sottolineata da L. M. SCARANTINO,

Giulio Preti. La costruzione della filosofia come scienza sociale, Mondadori, Milano

2007, pp. 118 sgg. 11. E. CASSIRER, Il concetto di forma simbolica nella costruzione delle scienze dello spirito, in ID. ,

Mito e concetto, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 103. Per un nuovo uso critico di questa

nozione nella questione dell’emergenza della cultura, vedi J. LASSÈGUE, Note sur l’actualité de la

notion de forme symbolique, in «Methodos», L’Esprit. Mind/Geist, n. 2, 2002, pp. 1-15. 12. Sullo statuto dei valori nell’antropologia demartiniana, cfr. A. SIGNORELLI, Ernesto De Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro, Roma 2015.

1. Il progetto comunitario dell’utilizzabile 1. 1.1. […] Il mondo dell’utilizzabile, che in Heidegger coincide con l’esistenza inautentica, è giustamente riscattato in Abbagnano 2: ma occorre tener presente che il mondo dell’utilizzabile è già valorizzato, anzi riceve la sua prima inaugurale valorizzazione, base concreta di tutte le altre. In secondo luogo, il mondo è utilizzabile attraverso la coesistenza sociale produttrice di memorie operative, strumentali, tecniche, di bisogni economici e di beni atti a soddisfarli, e in particolare di quel fondamentale mezzo di comunicazione interpersonale che è il linguaggio. In terzo luogo l’utilizzazione costituisce la base del mondo umano, il suo primo inaugurale «progetto», ma altre valorizzazioni modificano il mondo rendendolo domestico, culturalmente significativo e operabile. [...]

1.2. La valorizzazione inaugurale del trascendimento della vita nel valore è il coesistere 3 comunitario in un mondo domestico di cose utilizzabili. Questo coesistere, che comporta le sue fedeltà e le sue iniziative, abbraccia nella sua propria sfera di valorizzazione gli istinti della vita comunitaria, il vario relazionato governo del corpo umano con i relativi strumenti di comunicazione degli uomini con le cose (sensi) e degli uomini fra di loro

(linguaggio), il regime economico di produzione dei beni e la plasmazione dei bisogni, i procedimenti tecnici per controllare la natura («strumenti materiali» e «strumenti mentali»). Con ciò la vita è già oltrepassata in senso culturale, cioè viene plasmata la condizione storica fondamentale di un «mondo» in cui può ulteriormente svolgersi la presentificazione valorizzante dell’ethos, la distinzione cioè di altre valorizzazioni intersoggettive autonome quali le scienze della natura, l’arte, la coscienza storiografica, la filosofia, e infine la consapevolezza che l’ethos raggiunge di sé nelle dottrine morali e nelle teorizzazioni del costume. 1.3. Paci 4. L’ethos del trascendimento nel valore della valorizzazione. L’ethos del trascendimento è valore tra i valori? In che rapporto è con gli altri valori? È forma? In che rapporto è con le altre forme e come vengono giustificati il movimento da una forma all’altra e il negativo di ciascuna di esse? E soprattutto: in quale rapporto è questo ethos con l’esistenza? Tale non eludibile problematica deve tornare al centro della considerazione se si vuol trarre fuori lo storicismo italiano dall’impasse in cui mi sembra rimasto dal tempo della polemica del Croce col Paci 5. La soluzione del Paci, e cioè che l’utile sia la materia esistenziale su cui si sollevano le forme spirituali, è inaccettabile per due ragioni, la prima delle quali è la seguente. L’utile, il vitale, l’economico appaiono nella formulazione crociana avvolti da una certa confusione, poiché viene stretta insieme in una stessa denominazione categoriale sia la vitalità «cruda e verde» 6 priva di qualsiasi educazione ulteriore, sia la plasmazione economico-sociale che invece costituisce un valore intersoggettivo, un certo progetto comunitario storicamente determinato di soddisfare i bisogni in modo relazionato 7. Ora tale plasmazione economico-sociale è tanto poco assimilabile alla vitalità, è tanto poco «cruda e verde» e «priva di qualsiasi educazione ulteriore», che ogni regime economico-sociale è un assai complesso organismo di tecniche produttive, di distribuzione di compiti lavorativi, di abilità individuali coordinate e interagenti, di raggruppamenti sociali e di rapporti fra di essi. La qualità e la quantità dei bisogni individuali, il modo di soddisfarli o di rinunziarvi, e in genere la stessa possibilità di una progettazione economica della vita dei singoli non possono prescindere dal sistema economico-sociale nel quale i singoli vivono, cioè dalla forma culturale che l’economico e il sociale hanno plasmato con una «educazione» largamente condizionante tutti coloro che al sistema partecipano; e d’altra

parte innovazioni tecniche, mutamenti di regimi produttivi, formazione di nuovi ceti sociali, rivoluzioni economico-politiche non sono riconducibili alla vitalità-materia che travaglia i singoli individui come tali, ma a una coerenza formale che la oltrepassa in tutti i sensi, a un valore che modella lo stesso mondo dei «bisogni» e ne educa e regola comunitariamente il ritmo. La seconda ragione che rende inaccettabile la teorizzazione del Paci è che ove si concepisca l’utile come materia esistenziale delle forme spirituali non si facilita affatto la comprensione del passaggio a queste forme, poiché resta oscuro proprio ciò che induce a far passare la materia esistenziale alle forme spirituali. In ultima istanza manca la giustificazione di tale passaggio, cioè la forza che oltrepassa la sfera dei bisogni, cosí come oltrepassa tutti gli altri valori categoriali, senza mai tuttavia poter oltrepassare se stessa, essendo la regola di tutti i trascendimenti. Nella soluzione prospettata dal Paci il movimento è oratoriamente affermato, non giustificato: non si comprende infatti perché il momento naturale dell’uomo, l’uomo che ha fame, sete, sonno, impulso sessuale al pari delle altre bestie, non resti nella sua opaca bestialità del bisogno, ma compia un duplice trascendimento, e cioè nel senso di scegliere un regime economico-sociale determinato, e di non potere vivere se non in questo orizzonte formale, e nell’altro senso di andare oltre i bisogni materiali comunque soddisfatti. Si dirà l’esistenza racchiude in nuce tutte le altre forme, è – oltre che materia – anche queste forme spirituali: ma chi o che cosa le sveglierà dal loro sonno, chi o che cosa le porterà dalla potenza all’atto, chi o che cosa trasforma la bestia in uomo culturalmente determinato? L’anche di cui parla Paci è gratuito, è un sermone sovrapposto al reale, non la ragione del reale. Ma la teorizzazione del Paci della materia esistenziale e delle forme spirituali oscura la stessa dinamica della vita economico-sociale. La materia esistenziale non è affatto priva di storia: il grande merito del materialismo storico è di aver messo in rilievo la storicità della materia economica. Ma se si trattasse davvero di «materia» nel senso del Paci, che cosa costituisce propriamente la ragione del suo movimento interno, il suo passare da un regime economico a un altro, da una forma di società all’altra? Le leggi di sviluppo di un certo ordine economico-sociale, le contraddizioni in cui si avvolge già di per sé rappresentano un mistero nell’ambito della «vitalità» cruda e verde di cui parla Croce; ma nell’ambito della «materia esistenziale»

di cui parla Paci che cosa propriamente impedisce che una società perisca per le sue contraddizioni (possibilità che non è da escludere in linea di fatto) e che cosa, invece, la fa passare in una nuova società? Donde proviene quel «mondo migliore», «piú giusto», che nella coscienza di determinate nuove classi in ascensione assicura il passaggio? Quel «migliore» o piú giusto è riducibile all’economicamente piú avanzato, o la possibilità di questo economicamente «piú avanzato» non basta a far diventare realtà il piú avanzato? Quella coscienza rivoluzionaria del piú giusto non accenna a una forza che invano si cercherebbe di ridurre alle leggi di sviluppo della società, anche se per manifestarsi richiede certe condizioni storico-economiche e storico-sociali? È da ritenere dunque che la materia esistenziale sia affatto impotente a assolvere le funzioni dinamiche che il Paci le assegna, e che la forza oltrepassante non sia la crociana «vitalità» né la «materia esistenziale» del Paci, ma forza etica, ethos del trascendimento. Come intendere questa forza? Innanzi tutto è da escludere che essa sia un valore categoriale confondibile con la consapevolezza morale che una data persona o una data civiltà o una data epoca hanno di sé: onde diciamo per esempio «il tale soccorrendo generosamente il tal altro nel bisogno ha compiuto un’opera buona» oppure «questa madre si è sacrificata per i suoi figli», oppure «la classe dirigente di questo paese ha un alto senso dei suoi doveri pubblici» oppure «le prime comunità cristiane fondarono i rapporti morali sull’amore per il prossimo». L’ethos del trascendimento è una forza operante molto piú nel profondo, una forza che condiziona il dispiegarsi di tutti i valori categoriali, a cominciare da quello economico sociale. L’ethos del trascendimento è unicamente l’impulso a oltrepassare la vitalità naturale nei valori categoriali, e la totalità di questi trascendimenti valorizzanti condiziona l’esistenza; in quanto vita individuale che l’ethos fa passare nella universalizzazione economico-sociale, e nelle altre. 1.4. Attraverso l’orizzonte dell’utilizzazione la vita riceve per l’uomo la sua plasmazione inaugurale come «mondo di cose domestiche», ripartito cioè secondo sfere di operabilità utilitaria. Questa domesticità del mondo, frutto di educazione culturalmente condizionata e di attitudini personali, costituisce in parte lo sfondo opaco della vita quotidiana (l’utilizzabile non attualmente utilizzato ma che lo può sempre essere all’occorrenza), in parte affiora in decisioni attuali cosí agevoli da non richiedere un impegno particolare per la

coscienza (il quotidiano dispiegamento di minute abilità operative, l’adoperare abitudinario le cose che sono utili, ecc.), in parte emerge in comportamenti di utilizzazione che richiedono un’alta tensione per la riuscita, un vigile senso di responsabilità o addirittura lo sforzo inventivo di una nuova tecnica e di una nuova abilità. Nella domesticità del mondo – di un certo mondo culturalmente condizionato – vive una folla di memorie attuali o possibili, di comportamenti efficaci e di limiti operativi di questi comportamenti; vivono le abilità conquistate dalle passate generazioni, i risultati del lavoro di un numero sterminato di contemporanei, l’esito del nostro essere stati educati a operare cosí e cosí le cose del mondo e il nostro stesso corpo sin dalla primissima infanzia: e in questa tradizione dell’utilizzabile è chiamata, a vari livelli di consapevolezza, a prodursi, portando in tal modo il suo contributo variamente relazionato. Le cose sono tracce di ciò che la cultura ne suole fare per l’utile e di ciò che ne possiamo fare noi qui e ora: multanimi echi di decisioni utilizzanti e della nostra propria educazione rispetto all’utilizzabile, esse sono per questi echi, sono sostenute e ricevono il loro primo senso da essi: e il nostro esserci è innanzi tutto fondato da questo doverci essere nel mondo dell’utilizzazione, da questo trascendere ininterrotto la vita per l’ordine intersoggettivo delle doverose abilità, da questo plasmare bisogni e modi di soddisfarli secondo il valore intersoggettivo dell’economico. [...] 1.5. Questi temi dell’esistenzialismo positivo di Paci (e di Abbagnano) 8 si accordano largamente con la prospettiva da me scelta per la monografia sulla «fine del mondo». L’ethos trascendentale del trascendimento della vita nel valore ben si accorda con l’interpretazione del trascendentale kantiano proposta dal Paci 9, e racchiuso nel concetto di Abbagnano di «struttura dell’esistenza». Cosí anche il crollo dell’ethos del trascendimento valorizzante su tutto il fronte possibile della valorizzazione (cioè il crollo dello stesso valore trascendentale della valorizzazione, del dover essere dell’essere) si ricongiunge al tema di Abbagnano (e di Paci) di un fondamento dell’esistere che può perdersi, annullarsi, e quindi di un mondo che «può» o «non può» avere il suo fondamento. Ma occorre precisare che, nella mia prospettiva, il mondo deve essere fondato proprio perché può perdere il fondamento; che il fondare il mondo significa valorizzare la vita non secondo l’essere, ma secondo distinti valori del dover essere; che di questa valorizzazione la testimonianza inaugurale è data dal progetto

comunitario di un mondo utilizzabile, e che gli ulteriori trascendimenti sono dischiusi da questa valorizzazione inaugurale; che il rischio del crollo dell’ethos del trascendimento comporta il rischio del crollo dell’esserci nel mondo; che il «nulla» è la possibilità di non far passare la vita nel valore e che questa possibilità da luogo sia al nulla radicale del crollo della valorizzazione su tutto il fronte del valorizzabile, sia alla dialettica di negativo e positivo nell’ambito delle singole valorizzazioni particolari; e infine che se l’essere è dover essere, viene fondato l’esserci come doverci essere per il valore, e l’esistere non è «nulla» ma si costituisce sempre di nuovo come passaggio dal nulla della vita non valorizzata al dover essere della valorizzazione (si costituisce cioè per entro il trascendimento, e innanzitutto attraverso il trascendimento socio-economico). Si delineano cosí due problemi: quello del nesso delle valorizzazioni nel progresso della coscienza di sé dell’ethos del trascendimento, e quello del simbolismo mitico-rituale come ripresa del rischio del crollo totale dell’ethos del trascendimento. 1.6. Enzo Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino 1950, p. 125 (a proposito del Mondo Magico): «Il rischio di perdere la personalità nell’angoscia rappresenta il momento utilitario» 10. Qui sta il dissenso fra me e Paci. Il rischio di perdere la presenza, cosí come fu da me teorizzato nel Mondo Magico, non è riconducibile all’economico, perché l’economico è l’ordine economico, e l’ordine economico è tanto poco il rischio di perdere la presenza da essere, al contrario, il valore inaugurale col quale l’ethos del trascendimento vince quel rischio. Un ordine economico fondato sulla divisione del lavoro fra maschi e femmine, e nel quale i maschi si dedicano alla caccia grossa, le femmine alla caccia piccola e alla raccolta delle radici commestibili, racchiude già un progetto definito per la plasmazione e la soddisfazione dei bisogni comunitari in rapporto al bisogno della nutrizione: per quel tanto che questo progetto è attuato, la presentificazione ha luogo e viene istituita una domesticità economica e strumentale del mondo, sia pure estremamente circoscritta e precaria. Il rischio della perdita della presenza incombe su tutta quella vastissima sfera della vita che cade fuori del controllo della coerenza economica di una società tribale di raccoglitori e cacciatori, e che non trova risposta nelle tecniche e negli strumenti a disposizione. Anche nella stessa sfera della caccia e della raccolta vi è un largo margine per l’irrazionale, per ciò che sfugge al controllo civile: l’incontro con l’animale

commestibile non è senza rischi e del resto le specie commestibili possono mancare; la raccolta può non dare l’esito sperato, ecc. Paci confonde, come del resto Croce, l’economicità – che è il valore di un certo ordine specializzato di bisogni e di mezzi per soddisfarli – con la vitalità in quanto generico abbisognare per vivere: Paci non si rende conto che una sfera dell’irrazionale si delinea solo in rapporto con la prospettiva, sia pure angusta, di un mondo che l’uomo controlla col proprio «lavoro». «La barbarie sempre minacciosa, l’idra di Lerna vichiana, è la perdita delle categorie che costituiscono l’uomo nella sua storicità» (p. 126). D’accordo: ma con l’avvertenza che tra le categorie che si perdono sta quella inaugurale dell’utilizzazione comunitaria del vitale, il progettante stare insieme per aver bisogno di un certo cibo e per nutrirsene, il plasmante dialogo fra quei bisognosi che sono gli uomini, onde all’uomo è vietato l’isolarsi nella stessa sfera della nutrizione. L’uomo, sotto questo rapporto, è un animale in cui anche il mangiare diventa «problema», e in cui la «fame» organica si riplasma in regime di «appetiti» e di «gusti» corrispondenti alla ricerca e alla fabbricazione di cibi secondo regole, in un chiedere e in un avere – sempre secondo regole – il cibo fabbricato, in un modellare lo stesso appetito organico secondo alimenti socializzati e familiari, e soprattutto nel poter rimettere in causa regole e modelli del nutrirsi comunitario istituendo nuove coerenze. [...]

2. La natura è nella cultura. 2.1. […] Naturalismo, estetismo, ecc. Assolutizzazione feticizzante 11. La lotta contro il naturalismo non è la lotta contro le scienze della natura in nome della filosofia, ma lotta contro l’assolutizzazione di una particolare valorizzazione in nome del dover essere dell’essere. Allo stesso modo, e in nome della stessa esigenza, sono da combattere l’assolutizzazione dell’arte (estetismo), della politica (la società perfetta e definitiva, lo stato che prescrive alla cultura i suoi itinera obbligati, le legislazioni che pretendono di esaurire la giustizia e che come tali sono irreformabili, il legalismo che soffoca ogni altra possibile valutazione dell’uomo, ecc.), della sistemazione filosofica che spegne il filosofare in un concluso sistema dell’essere e che stabilisce una volta per tutte il piano necessario della storia umana fino alla

sua conclusione. Risponde alla stessa esigenza anche la lotta contro il moralismo, che pretende di assolutizzare una particolare forma storica di consapevolezza dell’ethos del trascendimento, dimenticando che quell’ethos è un oltre inesauribile e si esplica in tutte le particolari forme di valorizzazione, anche nel «doverci essere per l’utilizzazione della vita». La lotta contro queste diverse modalità di assolutizzazione, che è condotta ogni giorno da qualsiasi uomo nella misura in cui è tale e che è il compito eminente del filosofare, significa semplicemente questo: che se il valore della valorizzazione è l’intrascendibile che presiede a tutti i trascendimenti valorizzanti, e se, per il suo dover essere, non è mai esauribile né in sé né in nessuna delle sue particolari valorizzazioni, nessuna opera secondo valore esaurisce il valore di cui è opera, e nessun valore secondo l’ethos del trascendimento esaurisce quest’ethos: onde se la vita deve essere trascesa nell’opera che vale, l’opera che vale deve essere trascesa non solo in un’altra opera secondo lo stesso valore, ma anche secondo un’opera che attua un altro valore, e cosí sempre di nuovo, inesauribilmente. […] 2.2. La natura in sé. La «natura» in sé, prima e indipendentemente da qualsiasi intervento umano, può avere un significato pratico, nel senso che praticamente giova, nelle operazioni che compie l’uomo per esercitare il suo dominio effettivo sulla natura, comportarsi come se vi fosse una natura prima e indipendentemente da qualsiasi intervento umano. Ma questo fondamentale principio metodologico delle scienze naturali, questa «natura» che non si controlla se non «ubbidendole», questo «come se» operativo postulante un «in sé» su cui si opera è una astrazione che si compie dentro la storia culturale dell’uomo, e che, nei suoi modi come nei suoi risultati e nelle sue pratiche efficaci, è interamente condizionato da tale storia, cioè è sempre incluso in una pratica attività di distacco dalla immediatezza del vivere, nella concretezza di una società definita. In questa prospettiva l’uomo è sempre distaccantesi dalla natura, e non può mai saltare questo suo distaccarsi storico-culturale per raggiungere definitivamente la «natura in sé». E il distaccarsi storico-culturale dalla natura, e l’esser sempre dentro questo movimento di distacco, fonda le «cose» naturali, cioè un certo sfondo di utilizzazioni possibili nel quale si staglia di volta in volta l’utilizzazione attuale: uno sfondo «domestico», un «mondo», che è domestico e che è mondo nella misura in cui racchiude progetti umani che furono eseguiti una

volta e diventarono perciò progettabili o atti a diventare stimolo e appoggio per nuove utilizzazioni e progettazioni. La natura è l’orizzonte che segnala l’inesauribilità della valorizzazione della vita secondo un progetto comunitario dell’utilizzabile; in questo senso sta sempre «al di là» della progettazione utilizzante, manifestandosi come resistenza, come materia, come esteriorità di per sé cospirante con l’uomo. Ma al tempo stesso, la natura è ciò che di essa sta «dentro» la progettazione utilizzante, e cioè come orizzonte delle utilizzazioni possibili accumulatesi nella storia culturale propria e dell’intera società, e quindi come memoria implicita e di volta in volta esplicitabile di un certo ordine di abilità e di tecniche operative di cui posso avvalermi e di cui mi avvalgo di fatto ora nella modalità dell’abitudine, del comportamento ovvio che fa da sfondo alla vita d’ogni giorno, ora nella routine del mestiere e della professione, e ora infine nella invenzione di una nuova tecnica, nella elaborazione di nuovi strumenti materiali e mentali per l’utilizzazione. Questo «al di là» e questo «dentro» sono correlativi e inscindibili, in quanto l’al di là si configura dentro una particolare progettazione di cui si dispone e che si può mettere concretamente in opera, e non mai appare «in sé»: e altresí in quanto la progettabilità di cui si dispone comporta sempre un limite definito, una sfera circoscritta di operazioni possibili, e quindi un al di là che resiste, sfugge, si oppone al progetto, ribellandosi all’utilizzazione come «in sé» non mai domo, e prospettando una illimitata serie di nuovi sforzi per domarlo. La natura appare sempre nella cultura, almeno se la cultura è ricondotta all’ethos complessivo che abbraccia i suoi trascendimenti valorizzanti e alla coscienza di tale ethos, senza essere feticizzata in una delle sue dimensioni, come per esempio la valutazione naturalistica delle scienze (dove effettivamente la natura è assunta come se fosse prima e indipendentemente da ogni plasmazione culturale umana). 2.3. Vita e utilizzazione. L’orizzonte «mondo» resta inesplicabile senza la vita e l’utilizzazione come valorizzazione particolare della vita. Il sole, la luna, le stelle, il cielo, le nuvole, le montagne, le piante, gli animali, gli uomini, le abitazioni, gli strumenti materiali, il nostro stesso corpo come strumento piú prossimo, costituiscono l’orizzonte «mondo» nella sua valorizzazione inaugurale, che è l’utilizzazione attuale o possibile. Le «cose» da cui siamo circondati, presenti o assenti rispetto al nostro attuale impegno intenzionale, sono «cose» in

quanto accennano a un nostro possibile comportarsi verso di esse secondo il valore dell’utilizzabilità cioè secondo un progetto che include, inscindibilmente, resistenza all’adoperabilità e adoperabilità in un certo modo e dentro certi limiti. Il sole è ciò che ne possiamo fare: indica una sfera limitata di adoperabilità, e proprio questa sfera con i suoi limiti (e con la sua resistenza a una adoperabilità illimitata) lo costituisce come «cosa» del mondo. Il sole è ciò che riscalda ma che può bruciare; è ciò che illumina il giorno del lavoro umano e che con la sua luce percepita al mattino quando ci svegliamo configura il tempo di quel lavoro; è ciò che si lega alle stagioni e quindi al tempo di fare questo o quello per la nostra utilità; ecc. Il sole, come cosa, è un centro di possibilità operative dentro certi limiti: possibilità e limiti che lo rendono domestico, familiare, mondano. Ma proprio per questa sua inscindibile relazione con la possibilità operativa utilizzante, il sole è «oggetto culturalmente condizionato», poiché ogni civiltà viene diversamente costruendo nei suoi confronti l’estensione e la qualità dell’adoperabile: è sempre lo stesso sole-vita ma l’intenzionamento nel quale è compreso è diverso in una civiltà di cacciatori, o di pastori-nomadi, o di agricoltori, o di grandi città industriali. Comunque, in un modo o nell’altro, il sole è «addomesticato»: e nella misura in cui è addomesticato, cioè oltrepassato nella utilizzazione, può diventare ovvio, e come ovvietà escluso dalla percezione attuale e relegato nello sfondo, lasciando la presentificazione libera e disponibile per altre percezioni dell’utilizzabile. Il sole come utilizzabile non è per fortuna un ente sempre presentificato: viviamo ogni giorno nella luce solare «pensando ad altro». Ma ciò accade nella misura in cui il sole, diventato per lo sforzo culturale ovviamente utile, può essere inconsapevolmente sfruttato nelle nostre occupazioni quotidiane. In questa inconsapevolezza vive però in modo implicito la storia umana delle utilizzazioni culturali del sole, con le sue alternative e le sue decisioni: vive nella capanna o nella casa che ci ripara dai suoi raggi brucianti, o nel fuoco che ci riscalda supplendo al suo calore, o nei mezzi di illuminazione artificiale quando il suo lume manca; vive in tutte le tecniche che furono prodotte dall’uomo per difendersi dal sole o per piegarne la forza a usi civili. La «ovvietà» del sole, la disindividuazione della sua storia culturale, il potercene dimenticare per volgerci ad altro, il relegarlo nell’ambito del comese inconsapevole, costituiscono non già un «perdere il sole» o un «perdersi nell’abitudinario relativamente al sole» 12, ma, al contrario, un liberarci dal

sole come percezione utilizzante attuale, un conservarlo nel mondo di cosa già oltrepassata nell’utilizzazione, onde è possibile dirigere la intenzionalità ad altro, che sta nella nostra vita quotidiana come molto meno ovvio. Del resto il sole è ovvio solo in modo relativo, cioè in rapporto ai limiti in cui è riuscita la sua acculturazione utilizzante, e in cui esso circoscrive una sfera di comportamenti utili tanto ovvi da poter essere eseguiti senza apprezzabile impegno problematico: apriamo le finestre alla luce del mattino nella libertà di poter concentrare la nostra attenzione su altro. Ma per poco che tocchiamo i limiti di operabilità culturale del sole (e ogni civiltà, ogni regime di esistenza pone diversamente questi limiti), l’astro ritorna a emergere nella presentificazione intenzionante, la sua storia culturale deve essere ripresa nei limiti cui è giunta, per riadattarla alla situazione critica, per decidere e oltrepassare tale situazione con una iniziativa in varia misura «originale». 2.4. Il «mondo» è sempre dato nella sua totalità comunitaria per essere ripreso nella specificità e singolarità di una valorizzazione, è sempre allontanato nell’abitudinario per poter tracciare in questo vissuto piú o meno anonimo e socializzato la figura intima, personale, emergente della propria personale iniziativa valorizzatrice. Ma la datità, l’abitudinarietà, l’ovvietà del mondo sono possibili in quanto fedeltà immediata a iniziative di generazioni passate, o del nostro passato e di quanto vi si lega attraverso la nostra biografia culturale: e se fanno suolo e patria su cui s’innalza il compito personale dell’ora, è perché soltanto attraverso questa domesticità anonima del mondo è possibile rendersi disponibile per proseguirlo nella ripresa sempre rinnovantesi delle scelte «mie», originali, singolarizzate. Il singolo può «ricominciare» qualche aspetto del mondo – e lo ricomincia sempre come se fosse il primo uomo che comincia a essere uomo la prima volta – solo se tutti gli altri aspetti fanno momentaneamente da sfondo, e se d’altra parte questo sfondo include in modo implicito un significato umano, un lavoro di umanizzazione contratto nella domesticità ovvia dell’ambiente, una testimonianza fondamentale di non-solitudine, di sommessa coralità operativa distendentesi nello spazio e nel tempo. Datità e ripresa stanno dunque in un nesso dialettico il cui disarticolarsi segna il crollo del mondo e della presentificazione a esso: cosí, per esempio, quando la sommessa coralità operativa del mondo perde il suo carattere di «fondo» in cui si inaugura la mia iniziativa valorizzatrice, quando lo sfondo diventa problema e tutto è rimesso in causa senza lasciar margine per il trascendimento e senza farsi

«punto d’appoggio» per il «salto originario», allora il mondo perde il suo momento di «domesticità», di «patria dell’agire», di solido «suolo» su cui metter radici operative qualificate, e diventa ciò che spossessa, cioè che ruba ogni sfera privata (si veda il passo di Minkowski citato in nota a p. 331 di Phénoménologie... di Merleau-Ponty 13). […] 2.5. È il mondo degli adulti che fonda la civiltà e i suoi valori, e che plasma e orienta l’infanzia e la pubertà delle nuove generazioni attraverso l’educazione. La famiglia, l’ordinamento economico e sociale, il sistema di interdizioni e di obbligazioni, le norme dei rapporti interpersonali, la varietà degli istituti culturali, i simboli mitico-rituali, le arti e i piú o meno progrediti strumenti mentali e tecnici per il controllo della natura, costituiscono scelte del mondo adulto, iniziative che hanno origine in decisioni di adulti e che hanno acquistato forza di tradizioni trasmissibili ai bambini, ai fanciulli, ai giovani. Si conoscono civiltà diversissime rispetto alla «posizione» del maschio e della femmina, del padre o della madre, o di altri «parenti» di questo o di quel gruppo sociale, non è mai esistita, e non può esistere, una civiltà in cui i bambini, i fanciulli, i giovanissimi hanno una funzione culturalmente egemonica 14. Senza dubbio le nuove generazioni fattesi adulte (secondo norme e «passaggi» che variano di civiltà in civiltà) entrano a far parte in varia misura della sfera egemonica della civiltà in movimento, del potere di guida e di iniziativa: ma finché non sono diventate adulte esse non posseggono pleno iure questo diritto umano. La stessa fondamentale norma della comunicazione interpersonale, il linguaggio, l’infante lo trova già foggiato dagli adulti, lo apprende dagli adulti: e col linguaggio tutto il mondo adulto si versa in lui gradualmente, fino al momento in cui diventato adulto a sua volta parteciperà piú o meno attivamente alla «storia della lingua». Ora il limite e in fondo l’equivoco della psicoanalisi sta nella pretesa di voler dedurre il mondo culturale degli adulti dalla storia dell’infanzia; ovvero – per dire la stessa cosa con altre parole – sta nella pretesa di ridurre i valori culturali del mondo adulto, partecipe di una data civiltà o di una data epoca storica, a un super-io che sarebbe il «prodotto» di quella storia. L’arbitrario e unilaterale «come se» di tale deduzione e riduzione è mascherato nel concetto di «rimozione», vero nodo di contraddizioni dell’approccio psicoanalitico. Ciò che viene rimosso e ricacciato nell’inconscio è il prodotto della pressione esercitata dal sistema di scelte che il mondo adulto ha deciso: come può

questo sistema di scelte essere a sua volta considerato esclusivamente come il prodotto delle rimozioni (proiezioni, sublimazioni, ecc.) infantili? La verità è che occorre partire dalla concretezza di una certa vita culturale adulta, e chiedersi successivamente come il mondo adulto plasma le nuove generazioni, innestando un certo ordine culturale nell’ordine meramente biologico: dal che nasce certamente un particolare modo di «diventare adulti» che condiziona a sua volta il sistema di scelte. Ma il primato spetta, in ultima istanza, all’umanità matura.

3. Mondo vissuto, corpo vissuto 15. 3.1. Proust. Il mondo come sfondo familiare, appaesato, normale del nostro emergere valorizzante è l’indice nascosto e sempre disponibile di possibili percorsi operativi. Questi percorsi intanto sono ovvi e abitudinari in quanto custodiscono l’umana opera di appaesamento consumatasi nei millenni per giungere attraverso la nostra biografia al qui e all’ora dell’attuale emergenza. L’oltre attuale della valorizzazione li ripercorre tutti di colpo per raccogliersi nel trascendimento valorizzatore che è, qui e ora, in causa. Oltrepassare di colpo per raccogliersi nella presentificazione fonda la relativa sicurezza del mondo, il suo poter essere vissuto come sfondo e sostegno dell’iniziativa in atto e come patria accogliente dell’esserci. Oltrepassare di colpo significa «rimettersi agli altri che oltrepassarono», accettare la multanime corale risonanza dell’umano lavoro di appaesamento, affidarsi a questa laboriosità appaesatrice con un atto di umiltà e fedeltà devote, per restare disponibili al compito di valorizzazione che, qui e ora, ci spetta. La familiarità, l’appaesamento, la normalità del mondo – questo sfondo patrio della nostra emergenza – racchiudono un messaggio il cui calore si confonde con lo stesso ovvio sentirsi corpo vivente: «Avanti, non sei solo, – dice questo messaggio, – ma nel cammino ti accompagna l’opera di una infinita schiera di uomini, una schiera che abbraccia morti e viventi, e che se anche ti raggiunge attraverso i tuoi piú diretti educatori, in realtà ti rende partecipe agli evi tramontati e alle civiltà scomparse». Cfr. il tema del risveglio della Ricerca proustiana. 3.2. Il mondo come sfondo operativo. Il mondo come emergenza

qualificante. Il tema del risveglio in La recherche du temps perdu 16. L’analisi proustiana illustra molto bene come l’esserci nel mondo, il trovarsi in esso come in uno sfondo familiare, appaesato, ovvio da cui emergono in un flusso continuo le attualità dominanti variamente qualificate in cui l’esserci-nel-mondo si presentifica, racchiude in realtà una immensa storia umana vissuta attraverso la biografia personale e congiunta attraverso l’educazione con la storia intera dell’umanità 17. La distinzione tra mondo come sfondo domestico di operabilità e mondo come flusso di emergenze egemoniche in cui l’esserci si raccoglie sempre di nuovo nel suo valorizzante trascendere indica la misura in cui l’esserci del singolo è coralmente, comunitariamente condizionato. Senza uno sfondo di domesticità, di anonima e appaesata datità, non è possibile determinare il qui e l’ora della presentificazione; ma quell’orizzonte domestico, appaesato, è tale in quanto in esso risaliamo istantaneamente la china di una faticosissima storia umana, senza memoria di nomi, di date e di eventi, testimoniante di sé unicamente appunto nella domesticità e nell’appaesamento dello sfondo. Storia certamente disindividuata, sepolta nell’inconscio, contratta nell’ovvio e nell’abituale, e tuttavia esistente se la domesticità e l’appaesamento del suo sfondo condiziona e sostiene la nostra emergenza, e se il suo destrutturarsi segna il chiudersi di qualsiasi possibile orizzonte operativo e annunzia la catastrofe radicale dell’esserci-nel-mondo. [...] «Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a lui il filo delle ore, l’ordine delle annate e dei mondi. Nello svegliarsi egli li consulta d’istinto e in un istante vi legge il punto della terra che occupa, il tempo che è passato sino al suo risveglio: ma questo ordine può confondersi, franare» (I, p. 5) 18. Il disorientamento che può seguire al risveglio è finemente analizzato. Proust descrive come talora si risvegliava nel cuor della notte, ignorando dove si trovasse e chi fosse, esperendo l’esistere con la primordiale elementarità con cui un animale lo sente fremere nelle sue viscere: disorientamento in cui egli «era piú spoglio dell’uomo delle caverne». Una serie di evocazioni per alcuni istanti lo aiutavano a riguadagnare il dove e il quando di se stesso e del suo rapporto col mondo: «Allora il ricordo – non ancora del luogo dove ero ma di qualcuno di quelli che avevo abitato e in cui avrei potuto essere – veniva da me come un

soccorso dall’alto per tirarmi fuori dal nulla dal quale non avrei potuto uscire da solo; passava in un secondo al di sopra di secoli di civiltà, e l’immagine confusamente intravista di lampade a petrolio, poi di camicie col collo ribattuto, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io». Quando si risvegliava in questo disorientamento «storico», mentre si agitava per cercare senza riuscirvi dove mai fosse, tutto girava intorno a lui nell’oscurità, «le cose, i paesi, le annate». Ma la riconquista si compie attraverso il corpo, anzi è conquista del proprio corpo in rapporto al mondo esterno: «Il mio corpo, troppo intorpidito per muoversi, cercava secondo la forma della sua fatica, a reperire la posizione delle sue membra per evincerne la direzione del muro, il posto dei mobili, per ricostruire e dar nome alla dimora in cui si trovava. La sua memoria, la memoria dei suoi lati, delle sue ginocchia, delle sue spalle, gli presentavano successivamente molte camere in cui aveva dormito, mentre che intorno a esso i muri invisibili, mutando di posto secondo la forma del vano immaginato, turbinavano nelle tenebre. E ancor prima che il mio pensiero, che esitava alle soglie dei tempi e delle forme, avesse identificato l’alloggio, esso – il mio corpo – si ricordava per ciascuno il tipo di letto, il luogo delle porte, il vano delle finestre, l’esistenza di un corridoio, col pensiero che avevo quando mi ci addormentavo e che ritrovavo al risveglio. E il mio corpo, il lato sul quale riposavo, guardiani fedeli del mio passato che il mio spirito non avrebbe mai dovuto dimenticare, mi ricordavano il lume da notte in cristallo di Boemia, a forma d’urna, sospeso al soffitto mediante catenelle, il camino in marmo di Siena, nella mia camera da letto di Combray, presso i nonni, nei giorni lontani che in quel momento mi immaginavo attuali senza rappresentarmeli con esattezza, e che avrei rivisto meglio subito dopo, una volta completamente sveglio» (p. 7. Cfr. Sartre e Merleau-Ponty sul corpo). «L’abitudine! Ordinatrice abile, ma lentissima e che comincia col lasciar soffrire il nostro spirito durante settimane in una dimora provvisoria, ma che malgrado tutto è ben felice di trovare, perché senza l’abitudine e ridotto ai suoi soli mezzi, lo spirito sarebbe impotente a renderci l’alloggio abitabile» (p. 8). Sulle memorie, sui ricordi sepolti nelle cose e che d’improvviso e involontariamente risorgono per caso, ecc.: «Trovo molto ragionevole la credenza celtica che le anime di coloro che

abbiamo perduto sono prigioniere in qualche essere inferiore, in una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perduta di fatto per noi sino al giorno, che per molti non viene mai, in cui noi ci troviamo a passare attraverso l’albero, ed entriamo in possesso dell’oggetto che è la loro prigione. Allora esse trasalgono, ci chiamano, e appena le abbiamo riconosciute, l’incanto è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte e tornano a vivere con noi. Cosí è del nostro passato. È fatica perduta cercare di evocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono inutili. Esso è nascosto fuori del suo dominio e della sua portata, in qualche oggetto materiale (nella sensazione che ci potrebbe dare questo oggetto materiale) che noi non sospettiamo. Questo oggetto dipende dal caso incontrarlo prima di morire o non incontrarlo mai» (p. 44). [...] «Cosí dall’odore e dal sapore, dal gusto del pezzo di dolce inzuppato nella bevanda di tiglio che la zia Léonie gli dava a Combray, dal conoscimento di quell’odore e di quel sapore, di quel gusto, anche se molto piú tardi ne scoprí le ragioni, tutta Combray si dispiega, risorge, dalla tazza di tè» (pp. 47 sgg.). «Anche l’atto cosí semplice che noi chiamiamo “vedere una persona che conosciamo” è in parte un atto intellettuale. Noi riempiamo l’apparenza fisica dell’essere che vediamo con tutte le nozioni che abbiamo di esso, e nell’aspetto totale che ci rappresentiamo queste nozioni hanno certamente la parte maggiore. Queste nozioni finiscono per gonfiare cosí perfettamente le guance, per seguire in cosí esatta aderenza la linea del naso, esse si adoperano cosí bene a sfumare la sonorità della voce come se questa non fosse che un involucro trasparente, che ogni volta che vediamo questo viso e sentiamo questa voce, sono queste nozioni che noi ritroviamo, che noi ascoltiamo» (p. 19). Cfr. Sartre, nella Nausea, il viso dell’impiegato di biblioteca 19, ecc. Che cosa esprime la proustiana ricerca del tempo perduto? Non già il libero dispiegarsi della memoria poetica, il lirico effondersi del ricordo nell’energia ricreatrice e trasfiguratrice della poesia, ma piuttosto il problematizzarsi di quella stessa potenza di richiamo del passato in un orizzonte operativo valorizzante che è alle radici di qualsiasi vita culturale, e di qualsiasi esserci-nel-mondo secondo valori intersoggettivi. Proust vive la crisi del rapporto io-mondo, ridiscende al livello in cui le cose, le persone, il proprio corpo si fanno tombe anonime, anzi fosse comuni del passato, e

sorprende l’emergenza di quel rammemorare primordiale da cui prende senso il mondo, e per cui può costituirsi e mantenersi come mondo ovvio, domestico, utilizzabile, inaugurale forma della nostra libertà. Combray che risorge dalla tazza di tè significa che in una tetra giornata d’inverno e nella prospettiva di un triste domani, quando par che il mondo si afflosci, anche da una tazza di tè può ricominciare l’inversione di segno, la ripresa che ritesse nel mistero di una oscura affettività il legame con i giorni di Combray e che attraverso quel concretissimo frammento di vissuta cosmogonia, riconquista l’oltre di un mondo sin’allora patito come logoro, transeunte, crollante. «È dal momento in cui ebbi riconosciuto il gusto del pezzo di madeleine inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (sebbene non sapessi ancora e dovessi rinviare a molto piú tardi la scoperta del perché questo ricordo mi rendeva cosí felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, dove era la sua stanza, sopravvenne come uno scenario di teatro a congiungersi al piccolo padiglione che dava nel giardino, e che era stato costruito per i miei genitori nella parte posteriore; e con la casa la città, dal mattino alla sera e per tutti i tempi, la piazza dove mi si inviava prima di colazione, le vie dove andavo a fare delle corse, i sentieri battuti quando faceva bel tempo. E come in quel gioco con cui i giapponesi si divertono a inzuppare in una tazza di porcellana colma d’acqua, dei piccoli pezzi di carta sino a quel momento indistinti che, appena immersi, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, personaggi consistenti e riconoscibili, cosí ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco del signor Swann, e i ninfei della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole case, e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto ciò che ha forma e solidità, è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè» (pp. 47 sgg.). Tutto ciò è uscito dalla mia tazza di tè: cioè il mutamento affettivo di segno racchiuso nell’assaporato sorso di tè racchiudeva a sua volta queste memorie implicite, e che solo piú tardi furono rese esplicite da una memoria e da una riflessione non piú strettamente immediate, improvvise, casuali. La proustiana ricerca del tempo perduto non esprime tanto il libero dispiegarsi dell’energia ricreatrice e trasfiguratrice della poesia (sebbene talora questa poesia baleni nella corrente rammemorativa), ma piuttosto il problematizzarsi di una potenza primordiale, che è alle radici di qualsiasi vita culturale e di qualsiasi esserci nel mondo secondo valori intersoggettivi: la potenza cioè di richiamare sempre di nuovo il passato, a vari livelli di

impegno e di consapevolezza, la potenza di riprendere sempre di nuovo questo passato in un orizzonte operativo valorizzante. Proust è l’esperto letterato, talora il poeta, della crisi del rapporto io-mondo: egli ridiscende al livello in cui le cose, le persone, il proprio corpo si fanno tombe anonime, anzi fosse comuni del passato, ma vi ridiscende per sorprendere l’emergenza di quel primordiale rammemorare che da senso al mondo e che assicura l’inaugurale libertà di uno sfondo domestico comunitario dell’operare. La famosa risurrezione di Combray dalla tazza di tè significa che, in una tetra giornata d’inverno e nella prospettiva di un triste domani, quando questo legame rammemorante par spezzarsi e il mondo si scolora e il tempo si rattrappisce, anche da una tazza di tè può cominciare l’inversione di segno, la calda onda affettiva che racchiude i cosmogonici giorni di Combray e che attraverso il sentore di quei giorni ritesse espandendosi la trama di un mondo operabile. Nei «risvegli» con i quali si apre la Recherche, Proust sorprende con un’analisi finissima le vie percorse verso l’esserci a partire da un radicale rischio del nulla. Quel tenere in cerchio intorno a sé, mentre si dorme, «il filo delle ore, l’ordine degli anni e dei mondi», il possibile rompersi di questo filo al risveglio onde ci si sente sprofondati in un totale spaesamento, quel trovarsi «piú spoglio dell’uomo delle caverne» e quell’attraversare in un secondo «secoli di civiltà» ritrovando nell’immagine confusamente intravista della lampada a petrolio o della camicia col collo ribattuto un primo ancoraggio di memorie culturali riorientatrici e quasi la tessera d’ingresso alla domesticità storica del mondo, quel ricomporre la storicità del momento risalendo il corso «delle cose, dei paesi, degli anni», e quel rivivere – attraverso la evocazione di memorie custodite nel proprio corpo – le altre camere in cui si è dormito – le camere da letto di Combray, di Tansonville, di Balbec – tutto ciò illumina le pieghe segrete di una cosmogonia totale che ogni momento si compie in noi anche se mascherato in quella ovvietà e domesticità dello sfondo operativo che rendono disponibile la nostra libertà. È anzi da dire che intanto è possibile l’ovvietà e la domesticità di questo sfondo in quanto tali memorie latenti ci sono, ricongiungendoci tacitamente al filo delle ore, all’ordine degli anni e dei mondi, sino all’uomo delle caverne, memorie che custodiscono non soltanto la nostra storia familiare ma anche, per generazioni ed evi, le progettazioni comunitarie che hanno reso il mondo patria culturale dell’uomo. Solo nella destrutturazione di questo corso, nel rischio dell’inversione di segno, comincia a sgretolarsi la roccia della

domesticità. 3.3. J.-P. Sartre, L’être et le néant, Paris 1950 (1 a ed. 1943), pp. 383 sgg. 20. Sartre definisce il corpo, il proprio corpo, come «centro di riferimento totale indicato dalle cose», «strumento e fine dell’azione» (p. 383). Per noi «gli oggetti si svelano nel seno di un complesso di utilizzabilità in cui occupano un posto determinato. Questo posto non è definito dalle sue coordinate spaziali ma rispetto a nessi pratici di riferimento. Il bicchiere è sul tavolino significa che occorre fare attenzione di non rovesciare il bicchiere se si sposta il tavolino. Il pacchetto del tabacco è sul caminetto, significa colmare una distanza di tre metri se si vuole andare dalla pipa al tabacco, evitando certi ostacoli, il comodino, le sedie, ecc., che sono disposti fra il caminetto e il tavolo. In questo senso la percezione non si distingue in nessun modo dall’organizzazione pratica degli esistenti nel mondo. Ciascun utilizzabile rinvia ad altri utilizzabili: a quelli che sono le sue chiavi e a quelli di cui esso è la chiave. Ma questi rinvii non sarebbero mai afferrati da una coscienza puramente contemplativa: per una simile coscienza un martello non rinvierebbe affatto ai chiodi, sarebbe “a lato” (à côté) di essi; e anche l’espressione “a lato” perde tutto il suo significato se essa non traccia affatto un cammino che va dal martello ai chiodi e che deve essere percorso. Lo spazio originale che si manifesta a me è lo spazio odologico, disseminato cioè di percorsi e di vie, è uno spazio strumentale luogo di utilizzabili. Cosí il mondo, con l’insorgenza del mio per-sé, si svela come indicazione di atti da fare, questi atti rinviano ad altri atti, questi ad altri ancora, e cosí di seguito. Occorre tuttavia notare che se, da questo punto di vista, la percezione e l’azione sono indiscernibili, l’azione si presenta nondimeno come una certa efficacia di futuro che oltrepassa e trascende il puro e semplice percepito... (la cosa percepita rinvia ad altre, ciascun rinvio avendo il significato di impegno dell’avvenire). Io sono cosí in presenza di cose che non sono che promesse, al di là di una ineffabile presenza che non posso possedere e che è il puro esserlà delle cose, cioè il mio, la mia fatticità, il mio corpo. Il mondo come correlativo delle possibilità che io sono, appare, con la mia insorgenza, come l’abbozzo enorme di tutte le mie azioni possibili. La percezione si oltrepassa naturalmente verso l’azione: meglio, essa non può svelarsi che in progetti di azione, e mediante essi» (p. 384). Le cose-strumenti indicano altri strumenti o modi obiettivi di usarne: il

chiodo è da inchiodare in questo tale modo, il martello è da afferrare per il manico, la tazza è da prendere per il manico, ecc.. Tutte queste proprietà delle cose si svelano immediatamente e i gerundi latini le traducono a meraviglia... Il mondo (come struttura di potenzialità, di assenze, di utilizzabilità) non rinvia mai a una soggettività creatrice, ma all’infinito dei complessi utilizzabili... Ma la totalità di questi «rinvii» di utilizzazione per entro l’orizzonte dell’utilizzabile, è una totalità prospettica e differenziata, una totalità non equivalente nelle sue singole possibilità, in quanto essa rinvia a uno strumento-chiave, a un necessario centro di referenze, al corpo in quanto arresto dei rinvii e loro risultato. Il termine primo è dovunque presente, ma è soltanto indicato: io non afferro la mia mano nell’atto di scrivere, ma solo la penna che scrive; questo significa che utilizzo la penna per tracciare le lettere ma non la mia mano per tenere la penna. In rapporto alla mia mano, io non sono nello stesso atteggiamento utilizzante che in rapporto alla penna: io sono la mia mano. Ciò significa che essa è l’arresto dei rinvii e il risultare e compiersi di questi rinvii. La mano... è insieme il termine inconoscibile e inutilizzabile che indica lo strumento ultimo della serie libro-da-scrivere, caratteri-da-tracciare-sulla-carta, penna, ed è al tempo stesso, l’orientazione della intera serie: lo stesso libro, stampato, vi si riferisce. Ma almeno finché essa agisce, io non posso apprenderla che come perpetuo evanescente rinvio di tutta la serie... (mentre scrivo) la mano si è perduta nel sistema complesso di utilizzabilità per il quale questo sistema esiste, essa è semplicemente il senso e l’orientazione di questo sistema. Il mondo come orizzonte degli utilizzabili rivelantesi attraverso progetti operativi – piantare chiodi, seminare il grano – e come sistema di rinvii che riceve senso e orientamento dallo strumento-limite, dallo strumento-centro, dallo strumento-utilizzante, dallo strumento che non impieghiamo ma che siamo, cioè dal corpo: il quale non ci è dato che attraverso l’ordine degli utilizzabili mondani, attraverso lo spazio odologico, attraverso le relazioni univoche o reciproche delle macchine, ma non mai dato alla mia azione: «io non mi ci debbo adattare né adattarvi un altro strumento, esso è il mio stesso adattamento agli strumenti, quell’adattamento che io sono» (p. 388). Corpo vissuto e non conosciuto (ibid.). La resistenza delle cose: «Quando voglio portare il bicchiere alla bocca, ciò che percepisco non è il mio sforzo, ma il suo peso, cioè la sua resistenza a

entrare in un ordine di utilizzabilità che io ho fatto apparire nel mondo... È in rapporto a un complesso originario di utilizzabilità che le cose rivelano la loro resistenza e le loro avversità... Ogni mezzo è insieme favorevole e avverso, ma nei limiti del progetto fondamentale realizzato dall’insorgenza del per-se nel mondo». (Il corpo è ovunque: è al termine del bastone su cui mi appoggio al suolo, al termine delle lenti astronomiche che mi mostrano gli astri, sulla sedia, nella casa tutta poiché esso è l’adattamento, a questi strumenti). Sensazione, azione, percezione, loro unità (p. 389). Il corpo come «condizione permanente della possibilità della mia coscienza in quanto coscienza del mondo: e in quanto progetto trascendente verso il mio futuro» (p. 392); il mio corpo è nascita, razza, classe, struttura fisiologica, carattere: è tutto questo «in quanto io l’oltrepasso nell’unità sintetica del mio essere-nel-mondo» (p. 393). Il corpo è la forma contingente che prende la necessità della mia contingenza (ibid.). «Anche questa infermità di cui patisco, per il fatto stesso che la vivo, io l’ho assunta, io la oltrepasso verso i miei propri progetti, ne fo l’ostacolo necessario per il mio essere e non posso essere infermo senza scegliermi infermo, cioè senza scegliere il modo col quale costituisco la mia infermità (come “intollerabile”, “umiliante”, “da dissimulare”, “da rivelare a tutti”, “oggetto di orgoglio”, “giustificazione dei miei scacchi”, ecc. ecc.). Ma questo inafferrabile corpo, è precisamente la necessità che vi sia una scelta, cioè che io non sono tutto in una volta. In questo senso la mia finitezza è la condizione della mia libertà...» (ibid.). Come inafferrabile, il mio corpo non appartiene al mondo degli oggetti: ma che cosa è il mio corpo per me? 1.

Il mio corpo è ciò che indicano tutti gli utilizzabili che io afferro, e io l’apprendo senza conoscerlo nelle stesse indicazioni che io percepisco sugli utilizzabili (ibid.). 2. È il punto di vista sul quale non posso prendere punti di vista (p. 394); 3. Coscienza del dolore corporeo in quanto progetto verso una coscienza ulteriore vuota di dolore. 4. Affettività cenestesica in quanto pura apprensione di sé come esistenza di fatto: «Questa apprensione perpetua attraverso il mio per-sé,

apprensione insipida e senza distanza che mi accompagna fin nei miei sforzi per liberarmene e che è il mio gusto, è ciò che abbiamo descritto sotto il nome di nausea. Una nausea discreta e insormontabile rivela perpetuamente il mio corpo alla mia coscienza: può accadere di cercare il gradevole o il dolore fisico per liberarcene ma appena che il dolore o il gradevole senso “esistiti” dalla coscienza, manifestano a loro volta la loro fatticità e la contingenza, ed è su un fondo di nausea che si rivelano. Lungi dall’intendere questo termine come una metafora tratta dai nostri disgusti fisiologici, è, al contrario, sul suo fondamento che si producono tutte le nausee concrete ed empiriche (nausea davanti la carne guasta, il sangue fresco, gli escrementi, ecc.) che ci conducono al vomito» (p. 404). 3.4. Sartre, L’être et le néant, 1943, p. 369: «Per il solo fatto che vi è un mondo, questo mondo non potrebbe esistere senza un’orientazione univoca in rapporto a me. L’idealismo ha giustamente insistito che la relazione fa il mondo. Ma poiché si collocava sul terreno della scienza newtoniana, concepiva questa relazione come relazione di reciprocità. Esso raggiungeva cosí i concetti astratti di pura esteriorità, di azione e reazione, ecc. e, proprio per questo, non raggiungeva il mondo e non faceva che esplicitare il concetto-limite di oggettività assoluta. Questo concetto rientrava in sostanza in quello di “mondo deserto” o di “mondo senza uomini”, cioè una contraddizione, poiché è attraverso la realtà umana che vi è un mondo. Cosí il concetto di oggettività che mirava a rimpiazzare l’in-sé della verità dogmatica con un puro rapporto di convenienza reciproca fra le rappresentazioni, si autodistrugge ove lo si spinga agli estremi. I progressi della scienza, d’altra parte, hanno condotto a respingere questa nozione di oggettività assoluta. Ciò che un Broglie chiama esperienza è un sistema di relazioni univoche da cui l’osservatore non è escluso. E se la microfisica deve reintegrare l’osservatore in seno al sistema scientifico, non è a titolo di pura soggettività – questa nozione non avrebbe maggior senso di quella di oggettività pura – ma come rapporto originale rispetto al mondo, come un luogo, come ciò verso cui si orientano i rapporti considerati. È cosí, per esempio, che il principio di indeterminazione di Heisenberg non può essere considerato né come convalida né come smentita del postulato deterministico: semplicemente in luogo d’essere puro legame fra le cose, esso comprende in sé il rapporto

originale dell’uomo con le cose e il suo posto nel mondo». Il concetto di mondo è dunque un concetto «culturale», cioè intellegibile nello sforzo umano di valorizzare la vita, di trascenderla nel valore: piú precisamente, di trascenderla nel valore intersoggettivo della utilizzazione della vita, onde sono resi possibili, nell’orizzonte «mondo», gli enti intramondani. Che cosa sia il mondo «in sé», il «mondo deserto», il «mondo senza uomini» non è problema filosofico: la sua tenace apparenza nasce dall’assolutizzazione della valorizzazione utilizzante, che nella sua immediatezza trova un «mondo» esterno e resistente da utilizzare per i «bisogni umani» e che certo non può fare a meno del «come se» dell’esteriorità e della resistenza del mondo. Il realismo delle scienze della natura e quello del senso comune dipendono dalla assolutizzazione di questo «come se» inerente alla struttura del lavoro utilizzante: d’altra parte, dato il carattere di «testimonianza iniziale» che l’ethos del trascendimento da di sé attraverso la valorizzazione utilizzante 21 [...]. 3.5. Sartre, in Esquisse d’une théorie des émotions, Paris 1939, contrappone la Umwelt odologica 22 al mondo magico. La Umwelt odologica è solcata per ogni verso da vie strette e rigorose attraverso le quali i nostri bisogni, i nostri desideri, possono essere soddisfatti: è un mondo di itinera, di progetti operativi, di atti tecnici attuali o possibili. Questo mondo di itinera è mondo di oggetti in quanto utensili: appare alla coscienza «come un complesso 23 organizzato di utensili tali che, se si vuole produrre un determinato effetto», si deve agire su determinati elementi del complesso. In questo caso, ogni utensile rinvia ad altri utensili e alla totalità degli utensili; non c’è azione assoluta e cambiamento radicale che si possa introdurre in questo mondo. Dobbiamo modificare un utensile particolare e questo per mezzo di un altro utensile, che rinvia a sua volta ad altri utensili, e cosí di seguito, all’infinito (trad. it. Milano 1962, p. 194 24). Ora «quando le vie tracciate diventano troppo difficili o quando non scorgiamo nessuna via, non possiamo piú rimanere in un mondo cosí pressante e difficile. Tutte le vie sono sbarrate, eppure bisogna agire. Allora tentiamo di cambiare il mondo, cioè di viverlo come se i rapporti con le loro potenzialità non fossero regolati da processi deterministici, ma dalla magia» (pp. 176 sgg.). Il mondo magico è un mondo appreso come «una totalità non utensile» (p. 194), come presenza immediata di fronte alla coscienza. «Per esempio, occorre che quel volto apparso a dieci metri da me dietro la finestra sia vissuto come a me

immediatamente presente nella sua minaccia. Ma ciò è possibile solo in un atto di coscienza che distrugge tutte le strutture del mondo che possono rifiutare il magico e ridurre l’avvenimento a giuste proporzioni» (p. 193). Osserva infine Sartre che l’orribile «non è possibile» nel mondo deterministico degli utensili «e non può apparire che su un mondo tale che i suoi esistenti siano magici nella loro natura e che le possibili risorse contro gli esistenti siano magiche» (p. 194). Vi sono cosí due modi differenti per la coscienza di verstehen il proprio in-der-Welt-sein: l’essere in un mondo di utilizzabili e l’essere nel mondo magico: quest’ultimo modo segna il ritorno della coscienza a uno dei grandi atteggiamenti che le sono essenziali, l’atteggiamento emozionale-magico, con apparizione del mondo correlativo, il mondo magico (pp. 194 sgg.). L’emozionale-magico coglie nell’oggetto «qualcosa di infinitamente traboccante nei suoi confronti» (p. 189), «una qualità schiacciante e definitiva della cosa» (ibid.), e in particolare l’orrendo «non è solamente lo stato attuale della cosa, è minaccia per il futuro, si spande su tutto l’avvenire e lo oscura, è rivelazione sul senso del mondo. L’orrendo è proprio il fatto che l’orrendo sia una qualità sostanziale e che ci sia qualcosa di orrendo nel mondo» (ibid.). «Noi viviamo emotivamente una qualità che ci penetra, che soffriamo e che trabocca da ogni parte» (p. 190). Queste considerazioni di Sartre pongono in evidenza che il «mondo» è innanzitutto possibile come un certo ordine dell’utilizzabile, si costituisce cioè per entro quella particolare valorizzazione intersoggettiva della vita che è appunto l’utilizzazione. In apparenza il mondo è dato «prima», e ogni singolo «si trova» in un «mondo di oggetti», onde solo «dopo», per questo suo trovarsi, ne usa variamente o ne foggia di nuovi detti «strumenti». In realtà questa apparenza fa parte della stessa utilizzazione, è condizionata dall’utilizzare, nel senso che un «mondo esterno» di «oggetti resistenti» appare come esterno e come resistente proprio perché l’atto dell’utilizzare notifica sempre di nuovo la esteriorità e la resistenza, manifestandole nel lavorare utilizzante e per questo lavorare. Il progetto comunitario dell’utilizzabile, generandosi e rigenerandosi sempre di nuovo, e componendosi in tradizione trasmissibile e ulteriormente incrementabile, costituisce il «mondo» come orizzonte degli enti intramondani e lo stesso ordine degli enti intramondani come indici relazionati di utilizzazioni e di resistenze, di itinera operativi e di limiti di percorribilità di questi itinera. Nel «mondo» non si incontrano mai «le cose in sé», sottratte a ogni

domesticazione e uscite per cosí dire dalle mani del creatore: che questo incontro abbia luogo appartiene alla coerenza intera del lavorare utilizzante, non alla prospettiva trascendentale che si riferisce allo stesso ethos del trascendimento della vita nel valore. Senza dubbio il «mondo» in quanto condizionato da un certo progetto comunitario dell’utilizzabile, presenta i limiti di mondanizzazione o cosmicizzazione che son propri di questo progetto culturalmente condizionato: e poiché la valorizzazione utilitaria, come ogni altra valorizzazione intersoggettiva, non si esaurisce mai (se si esaurisse segnerebbe la morte dell’ethos del trascendimento), il mondo non è mai l’interamente utilizzabile, ma solo l’utilizzabile entro i limiti storici di una certa progettazione: ciò significa che oltre tali limiti non stanno le cose in sé, o un altro mondo, ma il non-mondo, l’acosmico, il caos, il nulla. Appartiene dunque al «mondo» la possibilità del suo «finire», e ogni «mondo culturale» ne è travagliato nell’intimo, cosí come riposa interamente sull’ethos della valorizzazione e sullo slancio inaugurale della valorizzazione utilizzante. Questo crollo del mondo come crollo dell’utilizzabile può essere analizzato nel modo migliore nella follia e particolarmente nelle esperienze di depersonalizzazione e di derealizzazione, nel delirio di negazione e nel vissuto di fine del mondo: quando cioè si annunzia, con varie modalità che l’analisi deve chiarire, l’inversione del trascendimento intenzionante sino a colpire e disarticolare lo stesso ordine inaugurale di un «mondo possibile»: una caduta che converte l’altro in tutt’altro, e che si profila come il rischio esistenziale per eccellenza. Sul piano della ripresa di questo rischio, e come anastrofe reintegratrice nel valore, si dispongono quegli istituti culturali che partecipano dell’orizzonte simbolico (il simbolo mitico-rituale, la magia e la religione, il simbolismo civile). Nell’uso che Sartre fa del termine «magia» sono confusi dunque sia il momento della crisi che quello della ripresa culturale simbolica: Sartre teorizza il mondo magico come un modo di essere-nel-mondo, mentre occorrerebbe distinguere il rischio di non poterci essere in nessun mondo possibile e la difesa culturale che gli istituti magici rappresentano, ridischiudendo il mondo utilizzabile attraverso la destorificazione miticorituale. 3.6. Io non debbo mai essere solo: ecco l’imperativo etico fondamentale che fonda la mia persona, e che al tempo stesso fonda la intersoggettività

delle mie distinte valorizzazioni della vita, del mio continuo trascendermi nel valore 25. Io non debbo mai essere solo: ancor meno lo debbo essere e lo sono in quell’atto inaugurale del mio doverci-essere-nel-mondo, che si esprime nella utilizzazione, cioè nella incessante partecipazione a un progetto comunitario dell’utilizzabile. Non si tratta di un essere insieme meramente fisico, poiché si può esser soli nella folla e si può vivere una vita multanime di impetuosa comunicazione, nel silenzio di uno studio o in quello di una cella di un convento o di un carcere: la verità è che questo imperativo ci accompagna e ci sostiene dalla culla alla bara, ed è cosí profondamente radicato nel nostro esserci da accompagnarci e sostenerci anche quando non ne abbiamo coscienza teorica e anche quando formuliamo ideologie individualistiche o addirittura solipsistiche (alle quali poi non ci manteniamo di fatto coerenti nella vita, a meno di non voler pagare con la follia il prezzo di questa coerenza). D’altra parte questa comunione con gli altri che popola il nostro passato e che raggiunge nella memoria solo pochi volti di persone a noi prossime, si rinnova di continuo nell’attualità di un bisogno anche fisico di mantenere i vecchi rapporti e di intrecciarne di nuovi: le conversazioni amabili, la gioia di una buona cena tra amici in una osteria «fuori porta», la varia vita associativa, il senso della festa vissuta insieme non soltanto rendono testimonianza di noi a noi stessi, e ci abituano all’umiltà di un continuo confronto delle nostre idee e delle nostre emozioni, ma formano la nostra persona, ritirandola sempre di nuovo dall’orlo di quell’abisso che è le moi haïssable, e risospingendola sempre di nuovo, con rinnovato coraggio e sicurezza, verso i verdi campi della vita. Nella Recherche Proust narra come una volta, durante una passeggiata, provasse il desiderio di guardare il paesaggio in compagnia di una certa fanciulla, e come per questa immaginazione il paesaggio si caricasse «di una qualità nuova»: la ragazza prese a vivere «nel colore delle tegole sui tetti della fattoria, ecc.». J. H. van den Berg, in Fenomenologia e psichiatria (1955) 26, riportando questo e altri episodi illustrativi del genere, scrive «... Le parole, lo sguardo, il gesto di un mio simile possono illuminarmi o oscurarmi il mondo. Il mio simile non è un’altra entità isolata, che mi sta a fianco e versa parole nelle mie orecchie: estranea, come me, agli oggetti che riempiono il mondo. È invece, e innanzitutto, una persona che è o non è “insieme” con me, e l’intensità di questo suo “essere insieme con me” non è

un’astrazione metafisica, bensí una realtà, visibile nelle cose che lui e io osserviamo. Il nostro essere insieme o no si rivela nella fisionomia del mondo, che può essere familiare o estranea, vicina o lontana» (pp. 69 sgg.). La verità è che anche quando non sentiamo il desiderio di essere con gli altri, anche quando crediamo di essere soli, gli altri vivono nelle nostre abitudini, nelle tecniche del nostro corpo, nel mondo come orizzonte di utilizzabili, nello spazio odologico i cui itinera operativi portano il segno di quella domesticazione collettiva che si richiama alla società e alla sua storia, e che proprio per quel segno si costituisce per ciascuno di noi come spazio mondano vivente e operabile. Tuttavia in Proust – ed è questo il limite della sua Recherche – questo legame si risolve in un ricordare che disperde, disgrega e asservisce, in quanto parte dal vuoto attuale, da un flettersi dell’ethos del trascendimento della vita nel valore: onde non a torto il Croce ebbe a parlare di «sfogo dei nervi mercé dell’immaginazione» (B. Croce, Un caso di storicismo decadentistico, in Discorsi di varia filosofia, II, pp. 138 sgg.) 27. 3.7. Il singolo e i singoli nella comunità dei singoli. Il principio trascendentale dell’ethos del trascendimento della vita nel valore, per il dover essere che comporta, non può che attuarsi nella finitezza del singolo: infatti solo in questa finitezza può assolvere il suo compito inesauribile di valorizzazione, il suo inesauribile dover essere per il valore. Se il principio fosse l’essere – e non il dover essere – la finitezza del singolo sarebbe un mistero: la domanda del «perché della finitezza del singolo» potrebbe avere soltanto una risposta religiosa, per esempio attraverso il mito cristiano del peccato, della caduta e della redenzione. Però la domanda successiva: «ma perché il peccato e la caduta, e la necessità della redenzione?» ripropone il quesito, che, fin quando si parte dall’essere già in se stesso esaurito, che già è tutto quello che deve essere, può essere sospesa o elusa soltanto dalla fede, dal bisogno pratico di protezione della nostra creaturalità e finitezza, ecc. Se invece il principio è il dover essere – un principio trascendentale – la finitezza del singolo partecipa della stessa ragione del suo principio: il singolo non può mai esaurire il dover essere, il dover essere che lo fonda, perché ove mai lo esaurisse lo negherebbe, e non attingerebbe l’essere, ma il nulla (essendo il nulla sia la vita che non oltrepassa se stessa nella valorizzazione, sia la valorizzazione che pretende di attuare interamente e che non ha piú nulla da valorizzare). D’altra parte se, in

questa prospettiva, il singolo non può non essere finito, poiché solo questa finitezza assicura l’inesauribilità del suo principio (del dover essere), quel principio, appunto perché inesauribile, non può esaurirsi in un solo singolo o in una irrelata molteplicità di singoli, ma si dispiega come società di singoli, operanti e comunicanti e relazionanti le loro opere, e al limite come «idea dell’umanità». Il dover essere non è compatibile con un singolo che lo incarna in modo che tutto l’essere è attuato, e neppure è compatibile con un caotico urto dei singoli, ciascuno dei quali si proverebbe ad attuarlo in modo irrelazionato: inauguralmente e innanzitutto il dover essere si pone come società, come progetto comunitario dell’utilizzabile, del comunicare e relazionare i bisogni e le soddisfazioni, del produrre beni e strumenti, e il pericolo sta soltanto nella possibilità che la società si chiuda, si feticizzi, e in questa mancanza di relazionalità con se stessa e con le altre società, finisca col soffocare i singoli (ma allora il pericolo non sta nelle società come tali, ma in quel gruppo di singoli che detengono il potere economico e politico e che limitano o arrestano lo sviluppo della società stessa). 3.8. Il cuore vissuto del proprio corpo (terza stesura). Il cuore vissuto del proprio corpo scandisce nel modo piú visceralmente nostro l’interno calendario dell’esistere. Molto prima dei ritmi celesti il pulsare del cuore partecipa del tempo e lo rivela, segnando le epoche della gioia creatrice e della disperazione, della trepida attesa e della melancolia, della voluttà e della collera, sensibile a tal punto da reagire alle stesse sollecitazioni dell’inconscio. Tuttavia proprio per questa sua immediata partecipazione al ritmo dell’esistere, per questa servitú del suo ritmo rispetto al mutar del vissuto, il pulsare del cuore non può misurare il tempo come ciclo solare o lunare: e l’uomo si è affidato al regolare ciclo del sole e della luna per proteggere il troppo labile e interno calendario dei cuori inscrivendone l’ordine precario in quello disteso e stabile del cielo. Se il tempo del cielo fu appreso è perché già nel cuore vissuto del proprio corpo si racchiudeva la richiesta di una permanenza e di un ritorno: e d’altra parte affinché questa richiesta mantenesse il suo ordine non soltanto biologico, intervenne il soccorso culturale della regolarità celeste come misura dell’umana operabilità nel tempo. «Il cielo stellato fuori di me» e «la legge morale in me»; fra queste due regolarità batte il cuore vissuto del nostro corpo. L’esserci, mobile raccogliersi dell’essere nel qui e nell’ora del sempre

rinnovato decidere e mobile aprirsi del qui e dell’ora al compito della valorizzazione intersoggettiva: in queste sistole e diastole che concentrano e distribuiscono secondo fedeltà e iniziative sta il cuore pulsante dell’esserci. E ben si comprende come il cuore vissuto del proprio corpo abbia potuto tramutarsi in simbolo. 3.9. Tecniche del corpo 28. […] Nella vita culturale umana le due mani appaiono diversamente valorizzate. La mano destra è la mano egemonica, padrona, forte, efficace, che promuove e conserva e incrementa l’ordine tecnico delle abilità, l’ordine giuridico e morale, l’ordine liturgico del rapporto con il divino; la mano sinistra è la mano vicaria, subordinata, servile, debole, che dev’essere costretta a collaborare all’opera sociale della destra, e che in sé, in quanto mano sinistra, tende all’eversione, al disordine, in tutte le sfere dell’operare umano, e che nella stessa sfera del sacro si lega all’oscuro mondo dei demoni, o alle pratiche antisociali di magia nera. In altri termini la mano destra è la mano della progettante vita comunitaria secondo valori, mentre la sinistra segna il limite di questa progettazione, la resistenza che occorre per quanto possibile piegare ai fini delle direzioni operative egemoniche, la costante tentazione all’eversione dell’ordine, la sfera del negativo e del non risolto, che sempre di nuovo alimenta questa tentazione e che può costituirsi anche come orizzonte vicario di operatività variamente antisociale (cioè contro un certo ordine della società) nell’interno stesso del gruppo. Ciò significa che la diversa valorizzazione delle due mani è da riportare in sostanza al limite della progettazione comunitaria dell’utilizzabile, e a quel non progettabile e non operabile in senso economico che sta come residuo inesauribile di ogni progettazione e operatività comunitarie dell’utilizzabile: proprio per questa esperienza esistenziale connessa a ogni lavoro manuale umano e per la necessità di proteggere l’orizzonte dell’esserci che coincide con l’orizzonte del manualmente operabile questo orizzonte fu incluso nell’altro della polarità del sacro fasto e del sacro nefasto, del sacro e del profano, della mano destra e della mano sinistra. Mentre dunque la polarità progettabile non progettabile è inerente a ogni lavoro «manuale», la polarità destrasinistra religiosamente valorizzata costituisce un orizzonte protettivo della sfera del progettabile (e quindi dell’esserci-nel-mondo). 3.10. «Salo la minestra, la mia mano è la tua, tu non sei morta». Navel, l’autore di Travaux e di Parcours, si sorprende nel gesto

abitudinario di aprire ogni sera, di ritorno a casa dal lavoro, lo sportello della credenza per prendere la saliera e salare la minestra 29. E mentre le dita trattengono il pizzico di sale e si appresta a compiere il gesto del salare ricorda il gesto che aveva visto fare tante volte alla madre, e le parla nella rapidità del sogno: «Salo la minestra, la mia mano è la tua, tu non sei morta». E attraverso la madre Navel sente tutti i morti, si ricongiunge a tutti coloro che hanno foggiato la sua mano cosí com’è, con le sue abilità, e con i suoi limiti operativi, col suo essere e col suo non essere, nel continuo dover essere in cui si costituisce come la sua mano operante. Prima, nel gesto abitudinario, nell’abilità esercitata a un livello crepuscolare di coscienza, tutto questo c’era, ma dormiente: e proprio perché c’era, anche se dormiente, la mano era diventata sua con le sue abilità cosí ovvie da poterle esplicare nell’agevolezza di un’abitudine liberatrice di altre abilità da apprendere e da inventare. Ma se la sua mano era sua, e se era qualcosa di suo, un possesso articolato nell’orizzonte del suo corpo, se era sua come abitudine liberatrice di compiere gesti tecnici nel crepuscolo della coscienza, o addirittura nella sua notte, onde poter poi volgersi ad altro nella pienezza meridiana della coscienza stessa, tutto ciò era possibile perché egli non era mai solo, gettato nel mondo, ma accompagnato, sostenuto, guidato da una storia personale e collettiva, dispiegantesi nel tempo delle generazioni umane, nel flusso delle loro valorizzazioni del mondo. Chi, ripiegandosi su se stesso, scopre la propria solipsistica solitudine, scopre in realtà soltanto la propria miseria morale, l’interrotto filo delle proprie fedeltà storiche, il satanico orgoglio dell’unico, e in ultima istanza quella volontà di «isolarsi» che è la malsana nostalgia del nulla. 3.11. (5 a stesura) La nostra esperienza cosmogonica ebbe inizio attraverso il calore del corpo materno, quando cominciò oscuramente a esser vissuto, secondo il confine della pelle intiepidita, l’orizzonte inaugurale di una patria. Nello sfondo affettivo di quel calore (e in sua memoria noi parliamo per antonomasia del «calore degli affetti») conquistammo la nostra bocca succhiando il latte, e come bocca emergemmo nell’ingordo piacere della nutrizione. Sotto la carezza della mano materna si venne descrivendo e precisando la superficie del nostro corpo, cosí come per l’immagine del volto materno allenammo in modo eminente la capacità di concentrare lo sguardo e di rivelare dalla nebbia del mondo la prima ondeggiante figura: «incipe, parve puer, risu cognoscere matrem» 30. Il primo spazio percorribile si dischiuse per

noi con quello che la madre cullandoci ci offriva e sottraeva in tempi uguali, addolcendolo con le sommesse iterazioni della ninna nanna: uno spazio modello di sicurezza, di cui ci era risparmiata l’iniziativa e in cui l’andata nei due sensi era seguita da un ritorno che sempre di nuovo la cancellava, mentre la prima voce domestica ci aiutava con la sua melopea a renderci accettabile questo divenire in economia. Per questo spazio e per questo moto sicuro al pari dell’orbita di un pianeta, conquistammo la prima possibilità culturale – e non soltanto biologica – del sonno umano, appunto perché la dolce altalena ci assimilava, ai ritmi cosmici dominati dall’eterno ritorno (cfr. Timeo,...) 31. Infine attraverso la madre conquistammo anche il pianto e il dolore, per il suo seno desiderato o conteso o perduto, e soprattutto per la sua figura scomparsa, quando ebbe inizio la dura pedagogia dei distacchi e cominciammo a esperire l’aspra norma dell’iniziativa umana che rende irreversibile il tempo. 3.12. […] Ma analizziamo meglio l’orizzonte dell’utilizzazione del corpo in quanto dover camminare nella stazione eretta. Tale orizzonte include, nella modalità di una «abilità» cosí ovvia da non richiedere la concentrazione dell’attenzione cosciente, una complessa storia personale e umana (lo sforzo di noi infanti quando imparammo a camminare e la lenta conquista della stazione eretta negli ominidi). In questo senso noi non camminiamo mai «soli», ma con tutta la storia personale e umana di quella particolare tecnica del corpo che è il saper camminare 32; camminando noi siamo accompagnati e sorretti da questa storia, e dagli sforzi, dalle ricerche, dalle invenzioni e dagli apprendimenti che essa comporta. Certamente l’uomo adulto non ha nessun bisogno, per camminare, di imparare questa storia partitamente: cammina e basta. Ma in una guisa implicita, appena incoata, compendiata in modo estremo e risolta in abilità operativa «ovvia», questa storia è pur ripresa ogni volta che l’uomo cammina, ché se davvero l’avesse totalmente dimenticata non potrebbe neanche camminare, avrebbe semplicemente disimparato questa tecnica. Questo «non sapere distesamente», questo «relativo» dimenticare, questo agevole dispiegarsi dell’abilità deambulatoria in una «relativa» inconsapevolezza («relativa» cioè ad altre presentificazioni valorizzanti che richiedono in modo eminente il nostro impegno e che restano disponibili) fa parte integrante di quella sempre rinnovata liberazione dalla datità che costituisce l’emergenza dell’esserci, il continuo rinnovarsi del suo margine di disponibilità per il valore. Il camminare si dispone quindi in una serie di

trascendimenti agevoli e relativamente inconsapevoli, ovvero meno consapevoli e piú agevoli, e di plasmazioni culturali e personali che possono giungere sino a un camminare fortemente caratterizzato e dosato per una particolarissima occasione della vita nella quale l’incedere diventa altamente espressivo. Se il camminare non fosse trascendimento agevole, non potremmo trascendere il camminare mentre camminiamo, per esempio camminare conversando con un amico! Non si tratta del resto, come si è detto, né di un oblio totale del nostro camminare, né di un camminare che non comporti, in misura sia pure minima ed estremamente agevole, un riadattare, un modellare, un rimettere in causa, le memorie operative corrispondenti. Noi non dobbiamo camminare in generale, ma qui e ora, in una certa situazione, su un certo suolo, lentamente o in fretta, evitando certi ostacoli, ecc. (senza contare altre modalità tecniche di spostare il corpo nello spazio, per esempio il correre, lo scendere, il salire, l’arrampicarsi, il saltare, il nuotare). Limitandoci al camminare, la piú agevole deambulazione comporta sempre un riadattamento della tecnica alla situazione concreta, un evitare ostacoli, un misurare distanze, un affrettarsi o un rallentare, un calcolare pericoli, e via dicendo: l’agevolezza dalla ripresa operante in una sorta di limbo della presentificazione non toglie che questo riprendere estremamente agevole sia un riprendere. Il momento della ripresa e della presentificazione nel camminare percorre vari gradi, in rapporto alla difficoltà del compito: in questa prospettiva è da dire che noi camminiamo «sempre soli», nel senso che in questa faccenda della deambulazione c’è sempre un margine affidato alla nostra responsabilità, alla nostra invenzione, alla nostra iniziativa: un margine non totalmente assorbito dal «passato» e dai suoi modelli tecnici. Quando dobbiamo «fare attenzione a dove mettiamo i piedi», o attraversare una strada di molto traffico, o camminare al buio in una stanza, o in tutte le situazioni in cui non disponiamo in pieno dell’uso delle nostre gambe, o semplicemente quando siamo sfiniti per una lunga marcia, il momento della ripresa nel camminare diventa sempre piú egemonico e perentorio: la intensificazione della presentificazione aumenta nella misura in cui esperiamo i limiti di operabilità del camminare in quanto tecnica del corpo spostantesi nello spazio in stazione eretta: in queste situazioni-limite si restringe sempre piú il margine di disponibilità per altri trascendimenti, e tutto lo sforzo tecnico tende a concentrarsi nel «problema» del camminare.

Il camminare come ripresa e come trascendimento si manifesta poi nel modo piú netto in ciò che costituisce il modellamento dell’andatura, sia in senso sociale e culturale, sia come stile personale, sia come espressione di stati d’animo, di particolari Stimmungen, di assunzione temporanea di ruoli sociali definiti, ecc. I pastori, i contadini, i cavallerizzi, gli uomini d’arme hanno la loro andatura caratteristica, che li fa riconoscere subito, tanto piú se si amalgama con altri segni del portamento e della figura. Le ragazze Maori apprendevano dalle loro madri l’anioi, cioè uno stile particolare di andatura ancheggiante, molto apprezzato dal sesso maschile, ed erano rimproverate dalle madri quando non la eseguivano a dovere. Chi è stato a lungo costretto dalle abitudini carcerarie alle quotidiane passeggiate in fila nel cortile del carcere, conserva poi anche nella vita una andatura un po’ rigida, in cui le oscillazioni delle braccia sono ridotte al minimo; mentre chi non ha patito queste esperienze di un camminare innaturale e servile, e possedendo un carattere frivolo e immodesto vuol sempre esibire la sua sicurezza e la sua disinvoltura, muove rapidi passi avanzando alternativamente la parte destra e la parte sinistra del tronco e della spalla, bilanciandone l’agile ritmo con la corrispondente alternanza, davanti a sé e alle proprie spalle, delle braccia vibratamente piegate: il che, praticato nella vita ordinaria e fuor di ogni impegno sportivo, muove certamente a riso e a commiserazione. Fra gli stili personali del camminare, ognuno di noi ricorda il vecchio Croce, col suo incedere lento e grave, trascinando di poco la gamba fratturata nel terremoto di Casamicciola. [...]

4. Letture di Martin Heidegger: la quotidianità dell’esserci, l’essere-per-lamorte 33. 4.1. Martin Heidegger in Sein und Zeit teorizza il modo di essere dell’esserci in quanto esserci quotidiano come «il si» (Das Man). [...] Ora c’è molto da dire a proposito della dittatura del «Si», dell’«inosservato dominio degli altri», dell’esserci che gli altri «svuotano» del suo essere (die Anderen haben ihm das Sein abgenommen), e che è nel modo della «inconsistenza» e della «inautenticità», smarrendo e coprendo se

stesso nella naturale anonimia della quotidianità ecc.: infatti nel Das Man heideggeriano viene distrutta una dialettica che invece prende grande rilievo nella prospettiva dell’ethos trascendentale del trascendimento della vita nel valore. In questa prospettiva l’esserci-nel-mondo diventa doverci essere per la valorizzazione, e il progetto comunitario dell’utilizzabile diventa il valore inaugurale dell’autenticità dell’esserci, di guisa che per essere-nel-mondo, per emergere come esistenza, per esserci concretamente, occorre prima di tutto doverci essere, come fedeltà e come iniziativa e a vari livelli di consapevolezza, in un certo progetto comunitario di utilizzazione della vita 34. Si pensi all’utilizzazione del proprio corpo, e alle tecniche relative, e agli ininterrotti trascendimenti per entro i quali soltanto ci siamo come corporeità, molto spesso estremamente agevoli per le abilità acquisite, che si compiono nel crepuscolo della coscienza, o che per essere una exis di cui non abbiamo attualmente bisogno ma che all’occorrenza possiamo sempre evocare formano lo sfondo indistinto del normale e immediato sentirsi un corpo. Ora in queste tecniche del corpo opera largamente il Das Man, il «si fa cosí» condizionato socialmente e culturalmente, l’educazione ricevuta e quindi l’immenso debito che dobbiamo pagare agli anonimi altri rendendoci noi stessi anonimi in loro, poiché il nostro corpo può essere nostro solo se per entro questo debito che lo costituisce come corpo sostenuto da infinite decisioni altrui, dal congiunto sforzo della «società» e della «storia». Marcel Mauss in una comunicazione presentata alla Société de Psychologie il 17 maggio 1934 (cfr. «Journal de Psychologie», XXXII, 1936, nn. 3-4 e ripubblicato in Sociologie et Antropologie, Puf, 1 a ed. (1950), 2 a ed. (1960), pp. 335-86) ha messo in evidenza il problema delle tecniche del corpo. Nella prefazione alla seconda edizione di Sociologie et Antropologie, Claude LéviStrauss scrive: «Affermando il valore cruciale, per le scienze dell’uomo, di uno studio sul modo col quale ciascuna società impone all’individuo un uso rigorosamente determinato del suo corpo, Mauss preannunzia le preoccupazioni piú attuali della scuola antropologica americana, come si sarebbero espresse nei lavori di Ruth Benedict, Margaret Mead e la maggior parte degli etnologi americani della nuova generazione. È con l’intermediario dell’educazione dei bisogni e delle attività corporee che la struttura sociale imprime il suo sigillo sugli individui (p. XI )». «Ciascuna tecnica, ciascuna condotta, tradizionalmente appresa e trasmessa, si fonda su certe sinergie

nervose e muscolari che costituiscono dei veri e propri sistemi, solidali con un intero contesto sociologico. Questo vale per le tecniche piú umili, come la produzione del fuoco per frizione o il taglio di strumenti di pietra mediante lo scheggiamento; e questo lo è molto di piú per le grandi costruzioni sociali e, al tempo stesso, fisiche, che sono le diverse ginnastiche (ivi compresa la ginnastica cinese, cosí diversa dalla nostra, e la ginnastica viscerale degli antichi Maori, di cui non conosciamo quasi niente), o le tecniche del respiro, cinesi e indú, o ancora gli esercizi di circo che costituiscono un patrimonio antichissimo della nostra cultura e la cui conservazione noi lasciamo al caso delle vocazioni individuali e delle tradizioni familiari» (p. XIII ). «Sarebbe augurabile che una organizzazione internazionale come l’Unesco si dedicasse alla realizzazione del programma tracciato da Mauss in questa comunicazione. Gli Archivi Internazionali delle tecniche del corpo, istituendo l’inventario di tutte le possibilità del corpo umano e dei metodi di apprendimento e di esercizio impiegati per il montaggio di ciascuna tecnica, rappresenterebbero un’opera veramente internazionale: non essendovi al mondo un solo gruppo che non possa contribuire all’impresa in modo originale. Inoltre si tratta di un patrimonio comune all’umanità tutta, la cui origine affonda nei millenni, il cui valore pratico resta e resterà sempre attuale, e che una volta disponibile consentirebbe, meglio di altri mezzi perché sotto forma di esperienze vissute, di rendere ciascun uomo sensibile alla solidarietà, insieme intellettuale e fisica, che lo unisce all’umanità intera. L’impresa [...] mostrerebbe […] che è l’uomo a fare del suo corpo un prodotto delle sue tecniche e delle sue rappresentazioni» (e non che l’uomo è un prodotto del suo corpo come pretendono i vari razzismi) (pp. XIII sgg.). Informazione che tale intrapresa darebbe sulle migrazioni, contatti culturali, imprestiti avvenuti in un passato remoto ecc. (p. XIV ). […] 4.2. […] Commento. L’in-der-Welt-sein come costituzione fondamentale dell’esserci può dar luogo a due interpretazioni. La prima è che l’esserci, racchiudendo nella sua struttura l’essere-nel-mondo, vi può essere tuttavia in modi diversi, uno dei quali è la modalità psicopatologica: di qui l’analisi della modificazione dell’in-der-Welt-sein del Dasein nella schizofrenia iniziale ecc. È la via seguita da Binswanger e in genere dalla psicopatologia esistenzialistica, via che mette capo, per esempio, alla famosa monografia dello Storch sul

«mondo della schizofrenia iniziale» paragonato al mondo delle civiltà cosiddette primitive 35. In questa prospettiva vi è un «mondo» dello schizofrenico, uno del «primitivo», uno del «fanciullo» ecc. (cfr. Heinz Werner 36), e tutti questi mondi sono modi dell’in-der-Welt-sein in quanto struttura trascendentale del Dasein, in quanto condizione a priori che un mondo sia, in generale, possibile. La seconda interpretazione considera l’inder-Welt-sein come un sein-sollen, dover essere primordiale della presentificazione e quindi dell’esserci in un mondo culturale, del testimoniare di esso e per esso, in un modo o nell’altro: questo in-der-Welt-sein-sollen è l’impegno relazionale per eccellenza, cioè quell’ethos di cui parlava il Croce in una pagina della Storia come pensiero e azione 37 e che rende possibile qualsiasi particolare Welt culturale, a cominciare da quello economicosociale. Ma appunto perché il Dasein è fondamentalmente costituito da questo in-der-Welt-sein-sollen, lo vulnera la minaccia radicale di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile: una minaccia che equivale al nonesserci, al perdersi della presenza, ai modi della depresentificazione e della demondanizzazione. Questa minaccia è, in generale, il momento strutturale piú «coperto» dell’esserci, proprio perché la cultura si muove tutta nel senso di questa copertura, e solo il maturarsi di determinate circostanze storiche – come quelle del mondo moderno – consente alla riflessione di cogliere questo momento di rischio estremo che accompagna il sein-sollen del Dasein e conferisce al suo Sein rilievo di Sollen. Di qui la grande importanza euristica dei contributi della psicopatologia esistenzialistica, dove i vissuti del nonesserci (spersonalizzazione, ecc.) e di fine del mondo tendono a isolarsi e la presenza a «perdersi» e a «dileguare». 4.3. La quotidianità media dell’esserci – di cui parla Heidegger – confonde diversi concetti interpretativi: a) il rischio di non-esserci-nelmondo, il perdersi della presenza; b) i gradi dell’ethos del trascendimento, la maggiore o minore energia con cui esso si afferma: onde accade che nella vita quotidiana non si è sempre eroi, e del resto beneficamente si vive di abitudini, di costumi passivamente accolti, di opinioni correnti, di frasi o di gesti cerimoniali, di anonimie o addirittura stereotipie. Proprio questa varia energia con cui si dispiega l’ethos del trascendimento rende umano l’uomo, in quanto essere che lavora ma, anche, si stanca e si rifugia in quelle case di riposo che, oltre il sonno riparatore, sono appunto le abitudini, i costumi passivamente accolti, ecc.; c) la relativa svalutazione di quelle forme del

trascendimento che l’utilizzabile, l’appagante, e soprattutto il rapporto economico-sociale in tutta la sua complessità: come se questa forma del trascendimento non potesse manifestare il suo proprio eroismo, la sua propria volontà di cultura e di storia, e come se anzi l’uomo non dovesse innanzitutto orientare il suo ethos in questa direzione, distaccandosi dalla «natura» mediante l’invenzione inaugurale di un modo di stare in società, di produrre beni e di distribuirli secondo «regole» (certamente anche qui vi è coraggio e pigrizia, anonimia e passività nel sistema dato e contributo personale, scoperta, innovazione, rivoluzione: cioè anche qui vale la gerarchia dei gradi dell’ethos del trascendimento di cui alla lettera b). 4.4. L’esserci-nel-mondo ha il suo fondamento nel dover sempre di nuovo oltrepassare le situazioni, decidendole secondo valori intersoggettivi 38. Proprio questo doveroso oltre, questo ethos del trascendimento, fonda, condiziona la situazione rispetto alla quale si emerge e la valorizzazione racchiusa nel dover emergere: e proprio questa volontà di margine che vale stabilisce la distanza tra situazione e valore, quella distanza sempre percorsa e ripercorsa, quella prospettiva sempre rinnovantesi, che nella continua presentificazione intenzionante fa apparire e mantiene il «ci» dell’esserci-nelmondo nella sua tensione caratteristica di questo o quel mondo nel quale ci si deve essere in questa o quella modalità dell’esserci. Questa volontà di margine chiamata a operare senza sosta è intrascendibile appunto perché è la condizione di tutti i trascendimenti: essa può recedere cioè cedere al rischio di non poterci essere in nessun mondo possibile, di non potersi aprire a nessuna sfera di valorizzazione culturale, di non poter darsi margine o distanza o prospettiva, perdendo in tal modo, insieme al mondo, e alle «situazioni», la stessa presentificazione, e dileguando verso l’assenza. Anche di questo rischio la riflessione può acquistare consapevolezza, attingendo il compiuto pensiero dell’ethos del trascendimento, cioè di un principio etico fondamentale che, in quanto tale, combatte contro il rischio radicale della sua non attuazione, cioè contro il rischio della malattia mortale della nonpresentificazione e della non-intenzionalità: una malattia che è peggio di qualsiasi particolare errore morale, perché l’errore morale è aperto al rimorso, all’espiazione, al perdono e a quant’altro assolve funzione di ripresa e di reintegrazione, mentre il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile, in nessuna valorizzazione intersoggettiva, è caratterizzato da una impossibilità di riprendersi e di reintegrarsi, dal passare con ciò che

passa invece di oltrepassarlo, dal mutamento di segno dell’esserci-nelmondo, dall’essere determinati dalla demondanizzazione e dalla depresentificazione invece che dalla presentificazione mondanizzante. Il dover-esserci-nel-mondo, cioè il trascendimento per entro il quale presentificante e presentificato si vengono costituendo, è sempre un dover esserci, è sempre un doverci essere hic et nunc, secondo particolari fedeltà e particolari iniziative. E d’altra parte questo doverci essere è sempre secondo una relazione gerarchica di valorizzazioni particolari in cui si articola il mondo culturale nel suo complesso, onde di volta in volta «una» valorizzazione si estolle a compito egemonico, e le altre operano per cosí dire in sordina, talora ridotte alla relativa oscurità delle consuetudini, delle abitudini e degli automatismi tecnici: ma tutte, in questa varia energia di presentificazione, formano il dinamico vivente contesto della presenza in atto. 4.5. L’angoscia. L’angoscia come esperire il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile. È quindi angoscia davanti al nulla, ma il «nulla» significa qui la possibilità che «si annienti» l’ethos della presentificazione mondanizzante. [...] Non ci si angoscia pertanto davanti a un ente intramondano, per qualche fenomeno che ci minaccia, per qualche cattivo pensiero, ma per il puro e semplice esperire che si viene restringendo inesorabilmente il margine oltre il quale un mondo è in generale possibile. La fine di un mondo nelle sue varie accezioni – per esempio del mondo dell’adolescenza, del mondo dei nostri cari, di un’epoca o di una civiltà – non produce necessariamente angoscia, almeno nella misura in cui possiamo oltrepassare le situazioni relative, dischiudendoci al mondo della maturità, a quello delle care memorie, a quello della nuova epoca o civiltà; d’altra parte l’angoscia può trarre occasione da episodi anche del tutto irrilevanti, o esplodere senza nessuna occasione apparente. Il che significa, appunto, che non il «questo» o il «quello» sono ciò davanti a cui ci si angoscia, ma il chiudersi di ogni prospettiva in cui si possano collocare un questo o un quello. Nell’angoscia heideggeriana ci si angoscerebbe della «mondità» come tale, del puro essere nel mondo: ma questa valutazione dell’angoscia nasce dall’avere già svuotato i mondi possibili nell’in-der-Welt-sein; decurtato di quel sein-sollen che formalmente garantisce il passaggio ai mondi storico-

culturali concreti in cui l’esserci sempre deve esserci. Per questo svuotamento l’esser nel mondo è interpretato ontologicamente come deiezione, laddove è sempre progettazione secondo valore (inauguralmente progettazione di un mondo utilizzabile), e l’esser gettato è sempre in rapporto col non potersi piú progettare. Essere-nel-mondo come determinazione formale è insufficiente in quanto fa scomparire il doverci essere nel mondo mediante la valorizzazione intersoggettiva e il non poterci essere in nessun mondo possibile come rischio radicale. La mondità come mera possibilità di mondanizzazione, come semplice poter essere, non assicura, non fonda, il passaggio ai mondi culturali concreti, che non si appellano a un potere ma a un dovere. L’angoscia è interpretata come nuda esperienza della mondità, nel «versinken» dell’utilizzabile intramondano e del «con-esserci» con altri, mentre è in realtà la caduta dell’energia del trascendimento, la perdita della presentificazione come dovere trascendentale condizionante tutti gli altri compiti. [...] Non si è «spaesati» perché si esperisce la pura mondità come possibilità, ma perché si perde l’ethos della mondanizzazione, e si esperisce l’impossibilità di poterci essere in un mondo culturale, a cominciare dalla sua base dell’utilizzabile, dello strumentale, del sociale. Lo «spaesato» è colui che non riesce piú a sentirsi in un «paese», in un ordine «domestico», culturalmente relazionato e significativo, in casa propria, nella terra dei padri o patria (Unheimlich, nicht-zu-Hause, ecc.). Non a caso i termini presi a espressione simbolica di tale vissuto si riferiscono alla famiglia (familiarità), al paese, alla patria. 4.6. [...] Dopo aver mostrato il «sentirsi spaesato» dell’angoscia come testimonianza del piú proprio essere per la morte, Heidegger mostra nel paragrafo 51 39 la copertura che questo sentirsi riceve nella quotidianità dell’esserci, cioè netta quotidianità media degli stati interpretativi pubblici, nella quotidianità del «si muore», concepito come positivo rapportarsi dell’esserci con se stesso ma nel se stesso «coperto» nel Das Man. In questi stati si parla di «casi di morte», sempre degli «altri» e sempre già attuali, coprendo la morte come possibilità. Il Si si fonda sulla tentazione di coprire a se stesso il piú proprio esser-per-la-morte. Caratteri della copertura della morte nella quotidianità:

a. b. c.

Tranquillizzazione del morente, consolarlo, ecc. Tranquillizzazione dei consolanti. Il decesso come disturbo sociale (la morte di Ivan Ilič di Tolstoj) per il quale la vita pubblica deve prendere le sue misure.

In questa prospettiva le regole di comportamento davanti alla morte, e quindi anche i costumi funerari istituzionalizzati, vengono interpretati come manifestazioni della modalità esistenziale per cui «il Si non ha il coraggio dell’angoscia davanti alla morte». L’angoscia è anzi considerata dal Si come una debolezza dell’esserci, un fuggire davanti al mondo, o piú esattamente l’angoscia viene banalizzata equivocamente in paura, e questa paura viene considerata come viltà. Il Si dunque predica una estraniazione (Entfremdung) dell’esserci quanto al suo poter essere piú proprio e incondizionato. Concludendo, anche nella quotidianità media l’esserci si muove in questo suo poter essere piú proprio, incondizionato e insuperabile, sia pure nel modo del prendersi cura di una ottusa indifferenza (unbehelligte Gleichgültigkeit) contro l’estrema possibilità della propria esistenza (p. 267 40). La quotidianità «dissimula» il morire per rendersi piú leggero l’essere gettato nella morte (p. 268). Il suo vero circa la morte è un inadeguato tener per vero (p. 269). L’inautenticità della comprensione quotidiana della morte caratterizza un modo di essere in cui l’esserci può disperdersi e per lo piú è disperso, ma in cui non deve necessariamente e costantemente disperdersi (p. 272). 4.7. L’esserci heideggeriano se per un verso patisce della decurtazione del Sein-sollen (in-der-Welt-sein-sollen), per l’altro patisce della decurtazione del trascendimento in quanto valorizzante. Per Heidegger la situazione affettiva che può tener aperta la costante e radicale minaccia intorno a se stesso, minaccia nascente dal piú proprio e isolato essere dell’esserci è l’angoscia (p. 278). L’angoscia svela la dispersione dell’esserci nel Si-stesso, sottraendolo primieramente al prendente cura aver cura, e ponendo l’esserci davanti alla possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva 41, certa di se stessa, e piena di angoscia: la libertà per la morte (p. 278). Per me invece l’angoscia apre il rischio di non poterci essere in nessun

mondo culturale possibile e quindi di non esserci affatto, di perdersi nella «isolata» intimità privata e incomunicabile, di spaesarsi rispetto a ogni possibile «paese», di smarrire l’oltre che condiziona il «mondo» in quanto la presentificazione è mondanizzazione valorizzante. La heideggeriana «media quotidianità dell’esserci» è modalità inautentica dell’esistere, copertura, fonte di illusioni, smarrimento nell’anonimato, estraniazione, ecc. Ora il mondo dell’utilizzabile e del sociale è in realtà la testimonianza inaugurale dell’ethos del trascendimento, in quanto fonda un mondo di «fedeltà» intersoggettive che va ben «oltre» il piacere e il dolore «individuali» fondando al tempo stesso un orizzonte di possibili iniziative. Senza dubbio nell’interno della società – cioè del trascendimento sociale dell’esserci in quanto esserci-insocietà – autenticità e inautenticità stanno in continuo conflitto, e sussiste sempre il pericolo che la forma della società soffochi le reali forze produttive, diventando con ciò inautentica, alienante, anonimizzante, ecc.: ma se le contraddizioni interne di una società sono avvertite sino al punto del rivolgimento che conduce a una nuova forma di società, ciò è dovuto alla possibilità di andar oltre un certo mondo socio-economico, e di fondarne uno «piú giusto»: alla possibilità, cioè che è dischiusa dall’ethos del trascendimento, per cui un certo «mondo» dell’utilizzabile e del socializzato (le contraddizioni come tali di un certo regime sociale sono condizioni necessarie ma non sufficienti per il rivolgimento). Questo «può» si tramuta in atto solo per un «deve» che appartiene alla presentificazione. D’altra parte il mondo dell’utilizzabile e del socializzato racchiude l’impegno inaugurale dell’oltre, quello che condiziona tutti gli altri: e della Weltanschauung di un’epoca o di una civiltà ci si documenta innanzitutto misurando il «mondo» socio-economico che ha realizzato. Ma l’equivoco heideggeriano sul mondo dell’utilizzabile e del socializzato si manifesta a proposito dell’analisi della morte, dove l’interpretazione inautentica del morire è proprio quella della «quotidianità media». L’angoscia è tanto poco disvelamento del piú autentico essere dell’esserci in quanto essere per la morte, che in realtà l’autentico sta proprio nella copertura sociale dell’angoscia, non già nel senso di una inerte accettazione dell’anonimo «si muore» ma nel senso che proprio quel «si muore», quella diversione dalla propria morte, quel soccorrere con comportamenti tradizionalizzati davanti all’evento luttuoso, e infine quell’educare a

oltrepassare il cordoglio, ridischiudono l’ethos del trascendimento combattendo il rischio dell’angoscia. Quando Heidegger dice che «il Si non ha il coraggio dell’angoscia davanti alla morte» dimentica che non si tratta di mancanza di coraggio, ma, all’opposto, di istituzionalizzazione del coraggioso oltrepassare la morte, in luogo di rischiar di passare con chi muore: i rituali funerari sono opera di saggezza, non di viltà, esprimono l’esserci non già nell’inautenticità del «Si», ma nella fedeltà intersoggettiva evocata nel momento che piú si è tentati di cadere nell’infedeltà dell’intimità angosciantesi, del sentirsi spaesato per qualche morire altrui che minaccia di coinvolgere anche il nostro 42. Nell’angoscia si disvela il mondo come pura possibilità, il mero poter essere: ma questa vuota mondità, questo formale poter essere è il non-esserci, il non-mondo, il crollo dell’ethos del trascendimento: cioè il piú inautentico esserci possibile, l’esserci che viene perdendo l’ethos che lo fonda e lo mantiene, e che per questo ethos rinnova la vittoria, valorizzando e mondanizzando, sul suo sempre incombente morire. Per questo ethos si è sempre al di qua della morte, nella vita culturale l’essere per la fine è occultato perché lo deve essere, in quanto l’esserci è essere per il valore in continua lotta di fronte all’essere per la fine. L’essere per la morte non è dunque l’essere piú proprio, incondizionato e insuperabile dell’esserci: l’esserci lavora sempre per oltrepassare il morire, non solo quello di ogni momento, ma anche quello dell’istante supremo; e vi lavora attraverso il «Ci» in quanto potenza dell’oltre, e attraverso l’oltre che può oltrepassare il «Ci» nell’unico modo possibile: affidandolo infine agli altri esserci nella comunicabilità intersoggettiva del suo oltre (cioè nelle opere che «valgono»). [...] 4.8. L’individuo come finitezza che sempre di nuovo si trascende nella valorizzazione intersoggettiva. Che cosa è l’individuo? Una finitezza che deve universalizzarsi, un nulla che deve esserci per i valori intersoggettivi, per un progetto comunitario dell’utilizzabile, per la poesia, per la scienza, per la consapevolezza filosofica e morale. È per questo continuo trascendere la immediatezza della vita corporea che l’esserci si costituisce e si mantiene, ed è per questo universalizzarsi che la sua singolarizzazione emerge: il che significa che il principio trascendentale che fonda la individualità è il trascendimento della vita nel valore, è l’essere come doverci essere per la valorizzazione. D’altra

parte, per questo stesso principio trascendentale della risoluzione dell’essere nel dover essere della valorizzazione, il compito valorizzatore dell’esserci è inesauribile sia per quanto concerne l’orizzonte delle singole valorizzazioni sia per quanto concerne l’assoluto valore del valorizzare: nessun esserci potrà mai realizzare tutto il possibile dover essere dell’essere, tutto il valorizzabile di una particolare valorizzazione (per esempio tutta la poesia o tutta la scienza ecc.). E, infine, per questo stesso principio trascendentale, l’individuo come vita finita, come bisogno e come negatività che sempre abbisogna, deve morire per la stessa ragione etica che sempre di nuovo è chiamato a oltrepassare la morte: ma poiché in questo oltrepassare produce opere, e le opere comunicano nel piccolo come nel grande, ma pur sempre in qualche misura, con i valori, è attraverso questo disindividuato regno delle opere che il positivo di ciascuno continua a vivere e a operare nell’universale circuito della storia e della cultura, anche se non porta la memoria del «nome» e anche se le pie visite a una tomba si diradano col tempo. 4.9. Geworfenheit e caduta della valorizzazione. La Geworfenheit, l’esser gettato, la responsabilità totale della decisione, l’assenza di una «tabella dei valori» o di verità scritte in cielo, l’uomo come progetto, l’angoscia come coscienza della possibilità sono temi esistenzialisti che caratterizzano l’epoca in cui sono crollati i simboli della tradizione giudaico-cristiana, l’ideale di una natura umana universale, il piano della storia universale, l’orizzonte del progresso, ecc. Ma se il rovescio dell’ateismo è questa solitudine dell’uomo c’è da chiedersi sino a che punto questa solitudine non sia in fondo ancora un riflesso di quel mondo borghese contro cui, almeno in Sartre, tanta ironia è stata a piene mani impiegata. Impossibilità di «ricominciare da capo», dall’esperienza zero. L’aberrazione dell’esistenzialismo è proprio questa decisione a partire da zero, questa grande solitudine e questo immenso silenzio in cui la scelta dovrebbe emergere. In realtà l’uomo non è mai gettato nel mondo, perché il mondo è sempre un mondo storico, cioè culturalmente costruito, e il mondo culturalmente costruito è sempre intessuto di memorie, di costumi, di valori trasmessi dall’educazione, di alternative particolarmente modellate, di condizioni in cui sono incorporate le voci, i conflitti, le fatiche, le speranze, le tecniche e gli ideali di innumeri esseri umani. L’iniziativa a cui il singolo è chiamato nasce per entro una certa fedeltà a un essere che non è soltanto mio, anche se l’iniziativa può essere solo mia: in ogni caso manca l’esperienza

zero, l’assoluto ricominciare da capo. La decisione del singolo, per questo suo innestarsi in un mondo sociale definito, non è mai un esperire la libertà come pura possibilità, ma come scelta di una fedeltà particolare al già deciso da altri, da innumeri altri o da alcuni altri o da uno solo, e come continuazione del loro decidere nella nuova irripetibile situazione singola. Quando si profila l’esperienza zero, quando esplode l’angoscia, quando nessun modello storico e sociale soccorre, quando la sapienza di qualsiasi costume viene allontanata (e non solo, in modo polemico, un particolare costume) allora è l’angoscia, ma come crollo dell’ethos del trascendimento, come impossibilità di scelta, come non poterci essere in nessun mondo possibile, e non – come vorrebbe Sartre – l’angoscia della libertà.

5. Per un’etnologia riformata. 5.1. Presentificazione. La presenza è presentificazione: essa è sempre in situazione, e al tempo stesso, sempre in decisione 43, cioè sempre in atto di andar oltre – di trascendere – la situazione, di emergere da essa come energia morale di valorizzazione intersoggettiva, di comunicazione universalizzante. La presenza è esserci-nel-mondo, e la sua norma di esistenza è tutta racchiusa in quel ci che attualizza l’essere e si apre all’essere, che riprende il passato e si dischiude al futuro. Il mondo, in cui la presenza ci è, in un distacco che sempre si rinnova, è il mondo della natura e della storia, della società e della cultura storicamente determinate. Ma proprio perché la presenza ha la sua norma in ciò, essa racchiude il «no» del suo «si»: il rischio di restar prigioniera della situazione, di non deciderla, di non andar oltre di essa, di non trascenderla, di non emergere da essa come energia morale di valorizzazione intersoggettiva, di comunicazione universalizzante. È il rischio di non-esserci-nel-mondo, di non passare con la situazione invece di oltrepassarla nel valore, di ripeterla invece di deciderla, di non riprendere il passato restando esposto al suo ritorno irrelato nella cifra dei sintomi chiusi, di tornare alle origini, di perdere la prospettiva del futuro arretrando sgomenti davanti al possibile, di rifiutare il divenire come campo del progettabile e il fare come potenza progettante. È rischio di restare senza margine davanti alla natura da controllare umanamente, e di isolarsi progressivamente dalla

società, dalla storia, dalla cultura, invertendo il movimento dal privato al pubblico in quello opposto di una indefinita privatizzazione che recide ogni legame con la vita in società. È infine il rischio dell’assenza, della presenza che dilegua e scompare, rischio contro cui la presentificazione è chiamata a combattere. La morte dell’individuo segna la fine di un concreto particolare sforzo di presentificazione; ma anche questa stessa fine, che si colora di tutte le potenze del negativo, pone in due sensi il problema del distacco, dell’oltre: rispetto ai sopravvissuti come distacco della situazione luttuosa attraverso la continuazione dell’opera lasciata dal morto, attraverso la sua tradizione o memoria; rispetto alla prospettiva della nostra morte come distacco da essa mediante l’esercizio della nostra presentificazione valorizzante, e l’intersoggettivo che continuamente ne risulta. 5.2. Negativo di una particolare valorizzazione e nulla della valorizzazione su tutto il fronte del valorizzabile. L’essere è presentificazione valorizzante, il nulla è l’annientarsi della valorizzazione. È impossibile scindere l’essere dall’umano valorizzare, e il nulla dal devalorizzare: proprio perché l’essere si manifesta sempre come essere che vale qualche cosa, il non essere si manifesta sempre per entro l’attesa delusa di qualche cosa che valga. Ora la presentificazione valorizzante è una condotta originaria che sta alla radice di tutte le particolari valorizzazioni categoriali; è un dover essere primordiale che sempre di nuovo si apre alla valorizzazione dell’essere, e che sempre di nuovo cerca l’essere di ciascun valore. L’annientamento può concernere il dover essere primordiale, l’ethos della presentificazione, e allora si incorre il rischio di non poterciessere-in-nessun-mondo-culturale-possibile: è l’annientamento assoluto che avanza. Ma può concernere questa o quella valorizzazione particolare, e allora assume la forma relativa del non è questo ma è quello di una particolare attesa delusa (per esempio non è poesia ma propaganda politica, non è politica ma velleitarismo utopistico, non è scienza ma immaginazione e fantasticheria ecc. 44; oppure c’è il ritrovo con tutti i suoi avventori, ma non l’amico che vi cerco; c’è la casa, la porta, il campanello che busso, la cameriera che mi apre la porta, ma non la persona che mi sono recata a visitare; c’è la strada, la folla, l’angolo convenuto per l’appuntamento, il mio orologio da polso che guardo continuamente, ma l’amico che attendo non si vede). Sia nell’annientamento assoluto che in quello relativo si tratta di nulla come attesa delusa: ma mentre nell’annientamento relativo l’attesa delusa

concerne una particolare valorizzazione emergente dal fondo dell’essere, dall’annientamento assoluto entra in causa la stessa possibilità di un fondo dell’essere da cui possa emergere questa o quella valorizzazione: entra in causa cioè lo stesso ethos valorizzante della presentificazione, e non piú questo o quel valore particolare di cui si registra l’assenza. 5.3. Valori. Quando si parla dei «valori dell’esistenza» si usa un’espressione che può dar luogo a un grave equivoco, quasi come se da una parte vi fosse l’esistenza, considerabile per sé, e poi vi fossero dall’altra i suoi valori, quali la partecipazione a una determinata vita economico-sociale, gli ideali politici, giuridici e morali, la poesia e la scienza, la complessiva visione della vita e del mondo. In realtà l’esistenza umana sta appunto nel movimento verso valori intersoggettivi e comunicabili: si esiste, si vince il rischio di non emergere come presenza, per questo sempre rinnovantesi aprirsi verso la valorizzazione, per questo mai intermesso trascendere la situazione nel valore comunicante: aprirsi e trascendere che è volontà di esistenza e di storia, energia di scelta culturalmente condizionata, e quindi «valore dei valori» in quanto ethos primordiale che condiziona e sostiene l’esercizio di tutti gli altri, combattendo contro quel rischio radicale del negativo che è il non poterci essere in nessun mondo intersoggettivo possibile (come ha luogo per esempio nel Weltuntergangserlebnis). Linguaggio, comunicazione intersoggettiva, esprimibilità e pubblicizzazione del privato, continua ascoltazione e interiorizzazione del pubblico, scelta valorizzante che sempre oltrepassa le situazioni: tutto ciò non si aggiunge alla presenza, ma la fonda e la mantiene e la svolge, costituendo la sua stessa «norma» che la rende «normale». Quando, come nell’angoscia esistenziale, la parola vien meno, la comunicazione è impossibile, il privato si fa ineffabile, il rapporto col mondo storico è insidiato alla radice, e il decidere secondo valori intersoggettivi è investito in una sorta di mortale stanchezza, allora si esperisce la perdita della «norma» della presenza, il mutar di segno della presentificazione, e si perde quindi proprio la presenza: si vive l’orrore del nulla, dove però il nulla ha il senso fondamentale dell’eticamente negativo per eccellenza, cioè il senso del vissuto recedere e annientarsi dell’ethos primordiale della presentificazione e del trascendimento. 5.4. Uno dei vertici piú fecondi toccati dall’esistenzialismo positivo italiano 45 nella sua polemica con l’esistenzialismo negativo di Heidegger e di

Jaspers fu certamente la conquistata consapevolezza che il fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il dover essere, cioè quello slancio valorizzatore intersoggettivo della vita, quella sempre rinnovantesi progettazione comunitaria dell’operabile, quell’emergere dalla situazione mediante il vario impegno del deciderla, secondo valore, che per un verso fondano la finitezza del singolo e la inesauribilità del suo compito operativo e per un altro verso garantiscono l’apertura del singolo all’essere, la sua possibilità di assicurarsi, mediante l’intersoggettività dell’opera che vale, il riscatto dal semplice esistenzialismo positivo di guisa che l’esistere è sempre in tale trascendere valorizzante che si distacca da una situazione, oltrepassandola in un progetto operativo valorizzante. Questo ethos del trascendimento è quindi il vero principio in forza del quale diventa possibile un mondo cui si è presenti: principio che per essere la regola interna di tutti i trascendimenti non è a sua volta trascendibile, ma solo raggiungibile nella tensione piú alta dell’autocoscienza dell’esistere. Il riconoscimento che la costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere-nel-mondo ma il doverci essere-nel-mondo comporta una serie di orientamenti dell’analisi che sono di importanza decisiva per l’esatta impostazione di una ricerca che ha per argomento le apocalissi culturali. In primo luogo il doverci-essere-nel-mondo comporta, in quanto principio, il rischio radicale di non poterci essere in nessun mondo possibile, la possibilità del crollo di quell’ethos del trascendimento che regge il mondo proprio perché sostiene e alimenta il farsi presente a esso con l’impegno e l’energia del trascendere le sue situazioni. L’ethos del trascendimento valorizzante, appunto per la sua qualità di testimonianza primordiale di humanitas, è insidiato dal flettersi del suo slancio su tutto il fronte della possibile valorizzazione, appare cioè insidiato, proprio nel suo carattere di principio, da un mutamento di segno che coinvolge il finire del mondo e della presentificazione al mondo. È questo il significato del riconoscimento secondo cui «ciò che può perdersi, ciò che può in ogni caso annullarsi, è lo stesso fondamento metafisico dell’essere». Senza dubbio l’ethos del trascendimento è sempre di nuovo chiamato a combattere l’insidia estrema di perdersi o annullarsi: e ciò che chiamiamo cultura nella sua positività è appunto il vittorioso battersi dell’uomo per mantenere sempre aperta la possibilità di un mondo culturale possibile, l’esorcismo solenne che contro il rischio del «finire» fa ostinatamente valere la varia potenza dell’opera che

vale e dei mores che essa genera e sostiene. Ma, al tempo stesso, il dramma della cultura acquista il suo piú pieno valore umano proprio perché «il doverci essere in un mondo culturalmente significante» è esposto al rischio di «non poterci essere in nessun mondo culturale possibile», e quindi può dissiparsi, al limite, nei sintomi di una malattia mortale, avviandosi senza possibilità di ripresa al suo esito catastrofico. In questo senso «la fine del mondo» è una possibilità antropologica permanente, che travaglia tutte le culture umane. Qui già si profila un primo profondo divario che separa l’orientamento della nostra analisi da quella che potrebbe discendere dall’esistenzialismo heideggeriano. Nella prospettiva di tale esistenzialismo l’esserci racchiude necessariamente nella sua struttura trascendentale l’essere nel mondo: l’analisi dell’esserci si risolve quindi necessariamente nella declinazione delle diverse modalità di essere nel mondo. Nella prospettiva adottata, invece, la struttura trascendentale dell’esserci è il doverci essere nel mondo, in atto di farsi valere contro il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile: la catastrofe del mondano non appare dunque nell’analisi come un modo di essere al mondo, ma come una minaccia permanente, talora dominata e risolta, talora trionfante, alla quale il dover essere nel mondo è esposto in modo coessenziale alla sua stessa qualità di supremo principio operativo che sta alla radice dell’umano presentificarsi al mondo 46 e [...] 5.5. Il progresso. Se per «progresso» si intende l’ethos della valorizzazione intersoggettiva della vita, ogni civiltà – finché dura nella storia – è progresso, cioè appunto valorizzante emergenza dalle condizioni naturali, quale che sia la coscienza che abbia di questo emergere, e anche se lo neghi in comportamenti religiosi fondati sulla ripetizione rituale delle origini mitiche o su mistiche pretese di evadere una volta per sempre dal «mondo» o su mistiche attese di un escaton definitivo della storia umana. Affinché una civiltà sussista, una società funzioni, un linguaggio comunichi e dei valori circolino occorre progredire oltre la naturalità, trascendente la vita: e proprio questo ethos del progresso o del trascendimento, ancorché non riconosciuto come tale, è l’ultima forza attiva della vita culturale, il cui flettersi segna la fine degli individui come dei gruppi. Il piano della storia universale da un a quo delle origini a un ad quem dell’escaton è da respingere come residuo della visione teologica della storia

maturata per entro la tradizione giudaico-cristiana. Ma la negazione di un piano iscritto nell’ordine della provvidenza divina o dello Spirito del Mondo o della storia delle forze produttive della vita materiale, non significa la negazione di progetti di unificazione della dispersione umana e della molteplicità delle tradizioni e delle culture: una progettazione del genere pone l’unità come compito che può anche essere non assolto e assegna all’unificazione il carattere di una scelta che può non aver luogo anche se tutte le condizioni le sono favorevoli. Nel progresso vi è un margine di indeterminazione e una tentazione di morte, e questo margine e questa tentazione costituiscono appunto 47 [...] 5.6. L’ethos del trascendimento è vissuto umano per eccellenza in quanto energia oltrepassante le situazioni, cioè in quanto fare valorizzante e, al tempo stesso, valorizzazione operativa. Perché vi sia un mondo, e una situazione del singolo in esso, occorre emergere da esso, farsi margine o orizzonte di qualificazione e di comportamento rispetto a esso, non coincidere immediatamente con la situazione ma distaccarsene sempre di nuovo e sempre di nuovo misurare secondo certi parametri (i valori) la distanza di volta in volta instaurata. Questo oltre, questa emergenza, questo margine, questo orizzonte, questa potenza di distacco e di misurazione costituiscono appunto un ethos primordiale, che fonda tutti i trascendimenti e che non comporta nessun legittimo oltre nel senso della «pura materia» o del «puro spirito», in quanto ethos, volontà originaria di cultura e di storia, è esposto a un rischio estremo, al crollo della potenza di valorizzazione su tutto il fronte del valorizzabile: e il mutamento di segno del suo slancio è esperito come catastrofe che colpisce la presentificazione e il mondo cui essa si rende presente. Le culture umane sono appunto la testimonianza di questa lotta contro la tentazione del nulla che vulnera il dover essere per il valore, la testimonianza cioè delle armi impiegate, degli scacchi subiti, delle epoche di salute, di sanità insidiata e di malattia. La storia è il cercarsi di questo ethos nella consapevolezza, porgendo in questa ricerca il suo senso per chi opera in essa come per chi ne giudica le culture, le epoche, i geni in cui si manifesta. 5.7. Esserci ed ethos del trascendimento. L’esserci in società, in un mondo dell’utilizzabile che è sempre socializzato, racchiude in modo inaugurale l’appello fondamentale alla intersoggettività della vita umana, a una fedeltà rispetto agli altri anche nella sfera dei bisogni materiali. Proprio perché l’uomo è in società, pubblicamente

orientato, si giustifica l’impegno di altre fedeltà intersoggettive che stanno oltre l’utilizzabile in senso stretto: l’impegno a render pubblico il proprio operare, a uscire dalla propria «intimità» incomunicabile, a votarsi a un controllore che sia, al tempo stesso, aperto all’essere controllato e verificato. Gli spaesati, gli sradicati, i ribelli, i solitari, nella misura in cui non sono dei «malati» partecipano anch’essi all’esserci-in-società: e cosí pure i mistici; d’altra parte l’esserci in società non può esaurire tutto l’esserci, senza lasciare nessun «oltre», altrimenti si cade nel piú piatto conformismo totalitario, nel tecnicismo, ecc. L’ethos del trascendimento è valore precategoriale e non già nel senso della pura e semplice vita, ma nel senso della vita colta nell’atto di aprirsi ai valori categoriali, cioè alle forme di coerenza culturale. Questo ethos del trascendimento, questo doveroso andar oltre secondo valori categoriali, è il valore dei valori, la condizione del loro dispiegarsi: un andar oltre primordiale che non può essere mai oltrepassato perché ogni oltrepassare secondo valori categoriali si compie in esso e per esso. L’ethos del trascendimento può tuttavia passare fondando il rischio estremo di tutti i valori che risultano in tal modo colpiti alla radice: è questo il chiudersi del ventaglio della vita culturale, il non poterci essere in nessun mondo culturale possibile. Può passare in se stesso, dando luogo ai modi di esistenza psicopatologici; ma può passare anche nel senso di non esserci fedelmente in un distinto valore categoriale (mancanza di fedeltà da interpretarsi sia come confusione di piú valori categoriali, sia come tendenza a feticizzarmi: poesiapropaganda, estetismo). L’ethos del trascendimento può passare in vari sensi: 1) in senso esistenziale dando luogo agli stati psicopatologici; 2) in senso categoriale, cioè nell’interno di ciascuna forma di valorizzazione, dando luogo al suo «negativo»; 3) in senso naturale, con la morte dell’individuo. 5.8. L’ethos del trascendimento della vita nel valore fonda i singoli trascendimenti valorizzanti. In quanto norma di possibilità e fine regolativo di tutti i trascendimenti valorizzanti è in sé intrascendibile, nel senso che né la vita né il valore possono essere attinti una volta per sempre: il «dover essere» originario di questo ethos è tutto nell’oltre del suo movimento, nel passare dalla vita alla valorizzazione intersoggettiva della vita, e nel riproporre sempre di nuovo questo passaggio. Il rischio di quest’oltre sta nella sua caduta, ma la sua caduta non conduce né all’immediatezza della vita, né

all’assolutezza del valore; conduce piuttosto al nulla, alla morte, alla follia. Il «mondo» vivo, vero, pieno, non è quello feticizzato in cui «ci si perde», ma quello che si delibera di perdere e di riconquistare, di mettere in causa e di riprendere nell’attualità di una presentificazione senza sosta: è il mondo che ostinatamente deve morire e rinascere, e che dopo il sonno dobbiamo continuare a tessere, e che anche nel sonno e nel sogno si continua a tessere, e che ancor meno è sospeso dalla morte. La fine del mondo, come rischio, è il crollo dell’ethos del trascendimento su tutto il fronte del valorizzabile: e questo rischio che colpisce gli individui può incombere su intere società, e anche sulla intera umanità. Ma il bandolo di tutta la matassa è sempre l’uomo che lo possiede. La «terra di nessuno» fra l’esistenza e l’essere, tra il temporale e l’eterno nasce da una flessione dell’ethos del trascendimento e quindi dal non rendersi piú conto (o dal non rendersi ancora conto) che la pretesa terra di nessuno non solo è sempre occupata, ma è l’unica terra in cui l’uomo è sovrano. Piú esattamente «esistere» significa sempre aprirsi all’essere, e questo essere «che vale» non è mai separabile dal «dover essere» che vi tende. Nessun individuo, nessun valore cui si apre la persona, nessuna epoca, nessuna società, nessuna civiltà possono pretendere di «esaurire l’essere»: tale pretesa è il rischio che minaccia l’ethos del trascendimento, perché «esaurire l’essere» non significa altro che «l’essere che si esaurisce come essere e diventa nulla». 5.9. I temi costitutivi di una filosofia della presentificazione valorizzante sono: a.

L’affermazione di un ethos trascendentale del trascendimento della vita nella valorizzazione intersoggettiva. b. Il carattere inaugurale del progetto comunitario dell’utilizzabile, per entro il quale prendono rilievo: 1) la molteplicità dei singoli; 2) la relazionalità sociale dei singoli; 3) l’ordine dei corpi materiali esterni; 4) l’ordine degli strumenti di controllo materiale e mentale (tecnica e scienza della natura); 5) la corporeità dei singoli; 6) i regimi di produzione e di distribuzione dei beni economici. c. Gli altri progetti comunitari oltre l’utilizzazione (arte, filosofia, ethos consapevole di sé o vita morale). d. La crisi dell’ethos del trascendimento su tutto il fronte del

valorizzabile. e. L’ordine simbolico (mitico-rituale o civile) atto a riprendere la crisi e a mutarla di segno ridischiudendo la valorizzazione. In questa prospettiva nessun singolo, nessuna società storica, nessuna epoca, nessuna opera conseguita per entro un valore, nessuna particolare forma di valorizzazione possono esaurire l’ethos trascendentale del trascendimento, condizione e telos che impongono per un verso l’oltre senza sosta, e che per un altro verso pongono la «finitezza» (e quindi il limite) di ciascun singolo, di ciascuna società storica, di ciascuna epoca, di ciascuna opera secondo valore, e infine di ciascuna forma di valorizzazione. 5.10. Il principio dell’ethos del trascendimento della vita nella valorizzazione intersoggettiva giustifica e fonda la valorizzazione particolare di una scienza dei condizionamenti biologici dei fenomeni psichici: ciò che certamente rifiuta è la assolutizzazione di questa prospettiva come metafisica materialista di qualsiasi tipo. Quel principio esprime semplicemente la presa di coscienza che tutte le valorizzazioni particolari della vita – e quindi anche delle scienze naturali – diventano intellegibili dentro di esso, e che da esso non possiamo mai uscire per raggiungere una vita o una natura in sé, indipendente da ogni possibile trascendimento umano, o una valorizzazione in sé conchiusa ed esaurita, senza possibile oltre. L’ethos del trascendimento può consapere la sua primalità fondante e non mai trascendibile: e in questa consapevolezza diventa la regola esplicita della vita che si fa cultura, mentre prima era la regola implicita, non consaputa e tuttavia operante. È questo l’assoluto in quanto dover essere per la valorizzazione intersoggettiva della vita: ma un «assoluto» che in quanto «dover essere» inesauribile interviene sempre di nuovo a rimettere in causa le pretese di assolutizzazione delle singole valorizzazioni particolari delle opere e assegna loro i limiti dentro cui valgono. Nel principio dell’ethos del trascendimento si racchiude un concetto – e una immagine – della cultura umana in atto di plasmare sempre di nuovo il suo sforzo di sollevarsi dalla vita come finitezza e bisogno immediati. La cultura umana è quest’ethos che si cerca, e che cercandosi tenta varie vie, quante sono le culture umane che hanno visto il giorno nel nostro pianeta; ma in una di queste vie, quella percorsa dalla civiltà occidentale, esso sta faticosamente raggiungendo se stesso nella coscienza, onde cosí raccolto e

confermato e difeso in essa poter procedere a una nuova riplasmazione dell’umanità tutta, a un confronto, un dialogo e una unificazione delle genti divise e delle provenienze culturali molteplici. Non dunque l’immagine del progresso come sviluppo unilineare per fasi attraverso cui tutta l’umanità sarebbe solidalmente passata: ma come ethos della valorizzazione della vita che ha proceduto sino a ora in varie direzioni per trovarsi, e che solo ora, per lo sforzo eminente di una sola cultura, quella occidentale, comincia a riconoscersi nel suo vero volto, e cioè non come prodotto divino, o del «soggetto» o dello «spirito», o della «materia» o della «natura», o della «utilizzazione» o della «tecnica», o delle «classi», ma proprio come ethos che va oltre l’immediatezza e la finitezza del vivere muto e solitario, bisognoso e rapace, ottuso di individualità e votato a morte, orgoglioso e angosciato della propria carne, e va oltre verso il comunitario e l’intersoggettivo, il comunicabile e l’espressivo, fino a riconoscersi in questo compito e ad assumerlo deliberatamente come missione trasformatrice dell’uomo e della società e della natura. 5.11. Sorprendere l’ethos del trascendimento nell’atto in cui trascende la vita per la valorizzazione intersoggettiva, indicare le intenzioni categoriali di tali valorizzazioni e i modi concreti, storicamente condizionati, in cui si attua lo slancio intenzionante, segnalare i rischi cui è esposto l’ethos del trascendimento, sia per quanto si riferisce al suo stesso principio che per quanto si riferisce alle singole valorizzazioni: tutto ciò è il compito di una etnologia o antropologia riformate, in cui l’ethos compie il suo sforzo piú alto, cioè diventa consapevole di sé e della sua primalità. In questa prospettiva il principio non è né la «materia» né lo «spirito», poiché l’uno e l’altro si costituiscono dentro la tensione del trascendimento; non è l’intersoggettivo, né il singolo, perché il trascendimento comporta sia l’intersoggettività che opera con tutto il peso condizionante di una tradizione sociale, sia il singolo che liberamente si apre all’intersoggettivo rinnovando la tradizione; e soprattutto non è il previlegio indebito e la feticistica assolutizzazione di una particolare valorizzazione categoriale (per esempio il naturalismo scientifistico, il tecnicismo, l’estetismo, il legalismo, il moralismo, l’economicismo, il mitologismo, il ritualismo). La scoperta dell’ethos del trascendimento come principio antropologico fondamentale, come categoria fondatrice del categorizzare, e come continuo centro di localizzazione, di revisione e di ridistribuzione dell’energia categorizzante, è

chiamata a chiarire il tema esistenzialistico della «condizione umana» in quanto Weltverlorenheit, «esserci al mondo» (o «nel» mondo) ed esser perduti in esso. 1. I frammenti raccolti in questa sezione sono pubblicati in E. DE MARTINO, Scritti filosofici, a cura di Roberto Pàstina, il Mulino, Bologna 2005. I frammenti 12 (pp. 9-10) e 33 (pp. 20-21), ripresi qui nei parr 1.1 e 1.2 appartengono a un quaderno manoscritto di 89 pagine, detto «quaderno di Torre a Mare» (Archivio De Martino, 22.4); i frammenti 7, 9 (pp. 62-65), 14 (p. 69), 16, 17 (pp. 7173), qui successivamente collocati nei parr 1.3 - 1.6 appartengono invece al fascicolo di 130 pagine dattiloscritte riportanti il titolo «L’ethos trascendentale del trascendimento della vita nel valore» (Archivio De Martino, 22.8). 2. Cfr. supra, introduzione al capitolo 7, nota 4. È leggendo Abbagnano che De Martino costruisce la raffigurazione qui riportata dei registri dell’attività di valorizzazione (Archivio De Martino 22.4, 10). 3. In Heidegger il termine «coesistenza», poi ripreso da Abbagnano, è il punto di partenza dell’analisi del Dasein come «essere con»: gli altri non si danno originariamente a un soggetto isolato; essere gli uni con gli altri in un mondo comune è il dato di partenza. De Martino da qui un significato culturalista al termine «coesistenza». 4. Cfr. supra, introduzione al capitolo 7, nota 6. 5. Nei frammenti precedenti De Martino ripercorre il dibattito, sviluppatosi fra il 1941 e il 1951, sulla pertinenza dell’uso delle categorie «materia» e «forma». Gli articoli di Enzo Paci sono raccolti in Esistenzialimo e storicismo, Mondadori, Milano 1950; Benedetto Croce riprende invece il dibattito sulla vitalità attraverso numerosi articoli pubblicati nella sua rivista «Critica», e nella raccolta Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Laterza, Bari 1952. La strana nozione di «materia esistenziale» proposta da Paci è un tentativo di affermare la continuità fra due linguaggi filosofici che sembrano opposti: quello di Croce e quello di Heidegger. 6. Su questa espressione cfr. il capitolo 6, nota 6. 7. Di fatto, in Croce la categoria del «vitale» assorbe quella dell’utile, per pensare l’articolazione della natura e della cultura. All’inizio degli anni Quaranta, Paci si sforzava di assimilare l’«utile» crociano all’«esserci» heideggeriano come unità precategoriale contenente in sé «il mistero della persona»: Introduzione a Martin Heidegger, Che cosa è la metafisica?, Fratelli Bocca, Milano 1942, p. 34. 8. Cfr. supra, introduzione al capitolo 7, nota 4. 9. Paci pone la questione dell’articolazione del tempo e della storicità col trascendentale come struttura. 10. Anche se virgolettata, questa frase non è una citazione. L’angoscia esistenziale è descritta da

Paci come «Rischio di perdersi nel nulla perdendo il rapporto che lo costituisce, il rapporto tra il pratico e il teoretico, tra l’economico e la legge morale, tra l’agire e il sapere, tra l’azione e la coscienza»: E. PACI, Il nulla e il problema dell’uomo cit., p. 126. 11. Espressione mutuata dall’uso marxista dei termini «feticcio» e «feticismo», che ritroviamo in Paci col termine «feticizzazione». Sui rapporti fra natura e cultura, in una prospettiva filosofica cfr. S . F. BERARDINI,

Ethos Presenza Storia. La ricerca filosofica di Ernesto De Martino, Università

degli Studi di Trento, coll. «Studi e ricerche», Trento 2013; in una prospettiva piú antropologica, cfr. G. SANGA,

Natura e cultura in Ernesto De Martino. Un percorso di lettura, in «La Ricerca

Folklorica», n. 67-68, 2013, pp. 119-27. 12. Allusione a uno dei temi che attraversano l’opera di David Herbert Lawrence e che De Martino ha ampiamente esposto nel capitolo 5, par. 3. 13. M. MERLEAU-PONTY , Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003. La citazione è la seguente: «… per strada, c’è come un mormorio che l’avvolge per intero; parimenti, egli si sente privo di libertà, come se attorno a lui fosse sempre presente qualcuno; al caffè c’è come qualcosa di nebuloso attorno a lui ed egli sente un tremito; e quando le voci sono particolarmente frequenti e numerose, l’atmosfera attorno a lui è come satura di fuoco, e ciò determina una specie di oppressione all’interno del cuore e dei polmoni, una specie di nebbia attorno alla testa» (p. 392, nota 64: E. MINKOWSKI, Le problème des hallucinations et le problème de l’espace, in «L’Évolution psychiatrique», vol. 2, n. 3, 1932, p. 69). 14. Le culture dell’infanzia, sebbene non possano essere definite «egemoniche», sono oggi oggetto di studi etnografici. Cfr. M. COQUET e CL. MACHEREL (a cura di), Cultures d’enfance, CNRS Éditions, Paris 2014. 15. Nella prima edizione questa sezione si intitola «Il corpo e il mondo», divisa in «Letture critiche» (E. DE MARTINO, La fine del mondo cit., pp. 555-600) e «Le tecniche del corpo» (ibid., pp. 600-27), e contiene numerose note di lettura sulla percezione del corpo proprio, cosí com’è analizzata da Merleau-Ponty in Phénomenologie de la perception e in La structure du comportement. De Martino rivolge una particolare attenzione alla descrizione della «catastrofe del mondo» sotto l’effetto della mescalina (ibid., p. 588-89). 16. Quando ne cita le pagine, come qui sotto, De Martino utilizza l’edizione francese: M. PROUST ,

À la recherche du temps perdu. I., Du côté de chez Swann, Gallimard, Paris 1959 [trad. it.

di N. GINZBURG, Alla ricerca del tempo perduto. La strada di Swann, Einaudi, Torino 1998 (1949)]. 17. L’analisi che segue è ispirata dalla nozione maussiana di tecnica del corpo: M. MAUSS, Les techniques du corps, in «Journal de psychologie», vol. 32, 1936, n. 3-4 [trad. it. M. MAUSS, Le tecniche del corpo, trad. e cura di Michela Fusaschi, Edizioni ETS, Pisa 2017], poi incluso in Sociologie et anthropologie, Puf, Paris 1950, pp. 364-86 [trad. it. M. MAUSS ed É. DURKHEIM ,

Sociologia e antropologia, Newton Compton, Roma 1976]. 18. Considerato lo scarto esistente fra le citazioni in italiano e l’unica traduzione disponibile all’epoca, quella di Natalia Ginzburg (La strada di Swann, Einaudi, Torino 1946), possiamo supporre che De Martino traduca da sé i brani che servono da punto di partenza per la sua riflessione. La sua analisi si contrappone a quella di Croce, per il quale il disorientamento descritto dallo scrittore era un semplice fenomeno fisiologico. 19. Cfr. il commento del capitolo 5, par. 4.1. 20. De Martino consulta il testo originale in francese, e traduce lui stesso in italiano, anche se già dal 1958 è disponibile la traduzione italiana: J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla, Mondadori, Milano 1958. In quest’opera Sartre riprende l’analisi dell’utilizzabilità come struttura di riferimento che permette a Heidegger di fare a meno della nozione di intenzionalità, ma egli la modifica articolandola con quella di «corpo proprio» che sfugge alla distinzione della coscienza e dell’oggetto. 21. Frase incompiuta. 22. Cfr. il capitolo 6, nota 29. 23. Mutuato dal vocabolario medico, dove designa l’insieme dei fenomeni che contraddistinguono una patologia, questo termine indica, per estensione, ogni insieme complesso di fenomeni. 24. J.-P. SARTRE, L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 1962 (nuova ed. a cura di Nestore Pirillo, Bompiani, Milano 2007 [2004]). 25. De Martino trasforma qui in imperativo etico ciò che, tanto per l’esistenzialismo italiano quanto per lo studioso, è un dato di fatto; per Abbagnano «l’individuo non è mai solo». 26. J. H. VAN DEN BERG, The Fenomenological Approach to Psychiatry. An Introduction to Recent Phenomenological Psychopathology, Thomas, Springfield 1955. Citato dalla trad. it. Fenomenologia e psichiatria. Introduzione all’analisi esistenziale, Bompiani, Milano 1961. 27. B. CROCE, Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari 1945, tomo II. 28. L’inizio di questo frammento è una lunga annotazione sull’analisi di R. HERTZ, La prééminence de la main droite. Étude sur la polarité religieuse, in «Revue philosophique», n. 68, luglio-dicembre 1909, pp. 553-80. Poi incluso in Mélanges de sociologie religieuse et folklore, Alcan, Paris 1928, pp. 99-129 [trad. it. La preminenza della destra e altri saggi, a cura di Adriano Prosperi, Einaudi, Torino 1994, pp. 137-63]. 29. Georges Navel (1904-1993), scrittore libertario della condizione operaia fra le due guerre. Su suggerimento del filosofo Bernard Groethuysen, Navel scrive il suo primo testo autobiografico, Travaux (1945), seguito da Parcours (1950). Il brano citato è un momento della «cura» che il narratore si somministra per sfuggire alla depressione della solitudine, portando la sua attenzione su

ogni momento, oggetto o gesto: «Mentre teneva i piccoli cristalli del pizzico di sale, sapevo che la mia mano assomigliava a quella di tutte le nonne del mondo quando fanno il gesto di aprire la pentola e salare la minestra, il gesto che avevo visto fare a mia madre, e parlavo con lei nella rapidità del sogno: “salo la minestra, la mia mano è la tua, tu non sei morta”. Ma al di là di mia madre, io sentivo tutti i morti, tutte le presenze che mi avevano dato questa mano uguale alle altre» (G. NAVEL, Travaux, Gallimard, coll. «Folio», Paris 1995, p. 208). 30. «Comincia, o bimbo, a conoscere tua madre sorridendo». 31. L’espressione “eterno ritorno” appartiene all’ultima filosofia di Nietzsche, che trae ispirazione dalla dottrina stoica. Il Timeo è il testo di Platone che piú ampiamente affronta la tematica della diversità dei tempi cosmici e l’eterno ritorno di un «grande anno». 32. Da comparare con M. MAUSS, Les techniques du corps cit. 33. Tutti i frammenti raccolti in questa sezione provengono dal faldone 22.8 e sono pubblicati in E. DE MARTINO,

Scritti filosofici cit.

34. Nella sua critica all’impersonalità del «si», Sartre, al contrario, elabora il concetto di «cattiva fede». Per una rilettura dell’utilizzabilità in Heidegger per pensare l’orizzonte tecnico dell’ontologia greca, cfr. M. SINCLAIR, L’outil et la métaphysique: (encore une) note sur le statut ambigu de l’‘ustensilité’ chez Heidegger, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», v. 133, n. 4, 2008, pp. 423-41. 35. Cfr. il capitolo 1, nota 3. Si tratta di Das Archaisch-primitive Erleben und denken der Schizophrenen. Entwicklungs-psychologisch-klinische Unteruschungen zum Schizophrenieproblem, Springer (coll. «Monographien aus dem Gesamtgebiete der Neurologie und Psychiatrie», 89), Berlin 1922; trad. americana The Primitive Archaic Forms of Inner Experiences and Thought in Schizophrenia. A Genetic and Clinical Study of Schizophrenia, Nervous and Mental Disease Monograph Series, New York - Washington 1924. 36. Heinz Werner (1890-1964). Ha lavorato sulla psicologia dello sviluppo del bambino e sulle teorie del pensiero simbolico. 37. B. CROCE, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938. Gli studiosi di De Martino individuano in questo testo un riferimento centrale per la definizione della nozione di «presenza» come «energia del trascendimento» che si afferma a partire da Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1958. 38. Da comparare con la critica dell’esistenzialismo formulata a partire da un lungo commento di J. WAHL,

Études kierkegaardiennes, Aubier, Paris 1938, in Il mondo magico. Prolegomeni a una

storia del magismo, Einaudi, Torino 1948, p. 191, nota 1. 39. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Halle 1935, 2 a sezione, cap. 1, par. 51, p. 252. Questo paragrafo porta il titolo «L’essere-per-la-morte e la quotidianità dell’Esserci» (Essere e

tempo cit., pp. 265-68). 40. Ibid. Le pagine citate a seguire rimandano allo stesso volume. 41. Termine che appartiene al vocabolario heideggeriano, in rapporto con la nozione di «essere gettato nel mondo». 42. È l’analisi di Morte e pianto rituale cit. 43. Questa definizione della presenza «in decisione» è introdotta dall’esistenzialismo positivo italiano. Cfr. supra, introduzione al capitolo 7, nota 4. 44. Cfr. Morte e pianto rituale cit., cap. 1: «Crisi della presenza e crisi del cordoglio», pp. 15-54, dove questi stessi esempi di «negativo relativo» sono descritti nei termini crociani di un miscuglio di forme e di coerenze. 45. Cfr. supra, introduzione al capitolo 7, nota 4. 46. Frase incompleta. 47. Frase incompleta.

Ernesto De Martino L’etnologo al lavoro

1-2. Ernesto De Martino ascolta il racconto del primo «morso» della tarantola. Cerfignano, giugnoluglio 1959.

3. De Martino sperimenta le posizioni coreutiche della cura. Nardò, giugno-luglio 1959.

4. Il ruolo dei fazzoletti colorati nella cura. Nardò, giugno-luglio 1959.

5-7. Esorcismo domiciliare mediante la musica e la danza. Nardò, 25-27 giugno 1959.

8. Una tarantolata rivive la scena del primo «morso».

9-10. Tarantolate nella cappella di San Paolo, il giorno della festa del santo patrono. Galatina, 28-29 giugno 1959.

11. Tarantolate sul sagrato della cappella. Galatina, 28-29 giugno 1959.

Appendici

Appendice 1 Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche 1

Le apocalissi culturali, nella loro connotazione piú generale, sono manifestazioni di vita culturale che coinvolgono, nell’ambito di una determinata cultura e di un particolare condizionamento storico, il tema della fine del mondo attuale, quale che sia poi il modo col quale tale fine viene concretamente vissuta e rappresentata. In questa piú larga connotazione il tema non è necessariamente congiunto alla vita religiosa tradizionalmente intesa, ma può affiorare – com’è il caso della varia apocalittica moderna e contemporanea della società borghese in crisi – nella sfera profana delle arti, della letteratura, del pensiero filosofico, del costume; non comporta necessariamente la fine del carattere mondano dell’esistenza umana, ma può anche assumere il carattere sociale e politico della fine di un certo mondo storico e dell’avvento di un mondo storico migliore, com’è il caso dell’apocalittica marxista; non è necessariamente esplicitato nella coscienza degli operatori storici che ne sono coinvolti, ma può in modo piú o meno implicito manifestarsi nella loro Stimmung, nella loro condotta, nell’orientamento e nella tonalità affettiva dei loro pensieri; e infine non si riferisce necessariamente a movimenti collettivi, a orientamenti complessivi di un’epoca o di una data società, ma può concernere in modo particolare un singolo operatore storico che, nel quadro di determinati condizionamenti ambientali, inaugura o rinnova una determinata sensibilità culturale della fine. È ormai diventata constatazione banale che l’epoca moderna e contemporanea palesa un rinnovato interesse per le apocalissi culturali, anche se spesso è ravvisabile molta incertezza nel circoscrivere l’argomento in modo non arbitrario e nel precisare la qualità dell’interesse che vi si porta. Tale rinnovato interesse non è un fenomeno casuale, ma trae alimento in modo decisivo dal fatto che almeno una parte della cultura della società borghese si trova oggi variamente impegnata in una particolare modalità storica di apocalittica, cioè di perdita e di distruzione del mondo: un’apocalittica che, come si e già accennato, si riflette nella vita culturale e nella disposizione degli animi e delle menti. Al tempo stesso il marxismo, in quanto teoria rivoluzionaria della fine di un mondo, il mondo capitalistico, e

dell’avvento del mondo socialista e comunistico, racchiude senza dubbio un’apocalittica, anche se di carattere nettamente diverso da quello che esprime la crisi della società borghese e la perdita di senso del suo proprio mondo. Se a ciò si aggiunge la varia reazione della stessa tradizione escatologica giudaico-cristiana di fronte a queste due apocalittiche della nostra epoca, e se si tien conto dei rischi di alienazione connessi alla feticizzazione della tecnica (e ciò sino alla possibilità estrema della distruzione fattuale della civiltà mediante un gesto tecnico dell’uomo), si comprendono anche troppo le ragioni per le quali la nostra epoca porta un rinnovato interesse per il tema della fine. Ma proprio perché questo interesse affonda le sue radici in reali nodi operativi in cui l’occidente è attualmente impegnato, si avverte l’esigenza di formulare, in sede piú propriamente scientifica, il progetto di una ricerca storico-culturale e antropologica, cioè genetica, strutturale e comparativa, che affronti il problema con la maggiore ampiezza possibile di confronto e quindi con la maggiore probabilità di promuovere su questo argomento un sapere realmente chiarificatore. Ma, a questo punto, si pone un problema preliminare di metodo, dato che un progetto del genere corre sin troppo il rischio di procedere senza una chiara individuazione del fine e dei mezzi, ora smarrendosi dietro il fantasma di una assoluta completezza di informazione su tutte le apocalissi, e ora incorrendo – sotto lo stimolo di immediate e incandescenti passioni – in incaute generalizzazioni antropologiche, non autorizzate dalla base documentaria prescelta. Il discorso metodologico dovrà dunque stabilire i fondamentali tipi di documentazione che vengono in causa per eseguire un progetto del genere, e i criteri e le finalità con cui dovrà essere istituito un confronto fra essi. In quanto tema di una ricerca storico-culturale e antropologica, la «fine del mondo» rinvia al confronto fra quattro tipi distinti di documenti. In funzione di stimolo inaugurale della ricerca, e di permanente centro di riferimento, di unificazione e di controllo, sta innanzi tutto il documento apocalittico nell’occidente moderno e contemporaneo, e cioè il tema della fine sia come espressione diretta della crisi della società borghese 2, sia come fine della società borghese nella prospettiva dell’apocalittica marxista. In secondo luogo sta il documento apocalittico della tradizione giudaicocristiana della letteratura paleo- e neotestamentaria e dei ricorrenti millenarismi della storia cristiana dell’occidente, nel quadro escatologico di

un’immagine unilineare della storia umana 3. In terzo luogo sta il documento apocalittico delle grandi religioni storiche, connesso al mito delle periodiche distruzioni e rigenerazioni del mondo 4. In quarto luogo, infine, sta il documento etnologico degli attuali movimenti religiosi profetici e millenaristici delle culture cosiddette primitive, sottoposte al violento urto con la cultura occidentale e ora, nell’epoca della crisi del colonialismo, impegnate in un vasto e complesso processo di emancipazione 5. Per quanto questi quattro tipi di documentazione ci presentino il tema apocalittico in contesti storico-culturali diversissimi e con diversissimi significati, e per quanto nell’interno di ciascun tipo si facciano valere nuove diversità di contesto e di significato culturali, tuttavia tale diversità è tanto poco una molteplicità irrelata che proprio nell’intento di individuare in ciascuno dei quattro contesti lo specifico carattere storico-culturale di ciascuno di essi, si palesa indispensabile il confronto non occasionale, ma sistematico, delle rispettive documentazioni. D’altra parte tale confronto riuscirà con tanta maggiore energia a individuare differenze storico-culturali estremamente significative quanto piú farà al tempo stesso valere l’esigenza di una interpretazione unitaria del tema apocalittico nel suo significato antropologico piú generale. Ora proprio per non smarrire questa prospettiva antropologica unitaria, acquista valore euristico decisivo un quinto tipo di documento apocalittico, quello psicopatologico, che ci mette in rapporto con un comune rischio umano di crisi radicale, rispetto al quale le diverse apocalittiche culturali, comunque atteggiate, si costituiscono tutte come tentativi, variamente efficaci e produttivi, di mediata reintegrazione in un progetto comunitario di esserci-nel-mondo 6. Affinché sia chiaro il valore euristico del documento psicopatologico nel quadro di una ricerca storicoculturale e antropologica sulle apocalissi, occorre in via preliminare chiarire che cosa propriamente si intende per «apocalisse psicopatologica», tanto piú che si possono avanzare seri dubbi sull’opportunità di considerare unitariamente, sotto questa denominazione, stati psichici morbosi cui la psichiatria attribuisce un diverso significato clinico. I vissuti di depersonalizzazione e di derealizzazione a carattere semplicemente psicastenico (nel senso di Janet), i vissuti deliranti primari di un oscuro mutamento di senso della realtà nella schizofrenia incipiente, il vero e proprio delirio schizofrenico di fine del mondo, il delirio di negazione nella melancolia, la fine del mondo come elemento allucinatorio di uno stato

crepuscolare epilettico o come pensiero dominante in una psiconevrosi ossessiva, non sembra che possano essere considerati, senza molteplici arbitri e distorsioni, seconda la prospettiva unitaria delle «apocalissi psicopatologiche». Allo stesso modo non sembra lecito, in una prospettiva strettamente psichiatrica, tentare di stringere in una stessa unità discorsiva il «mutamento pauroso» nella schizofrenia, la fine del mondo come occasionale e fugace «come se» interpretativo («è come se fosse la fine del mondo»), la fine in quanto catastrofe cosmica vissuta nella sua sgomentante imminenza e incombenza, la fine come già avvenuta e indicibilmente disforica, la fine accompagnata da un delirio euforico di palingenesi e di reintegrazione, e la fine come fantasma persistente e come reazione catastrofica aggressiva in quella modalità psicotica che è stata definita «paranoia di distruzione», ovvero, con immagine biblica, «reazione di Sansone» 7. Eppure nella prospettiva di una ricerca storico-culturale e antropologica sulle apocalissi culturali il problema di una valutazione unitaria delle apocalissi psicopatologiche è imposta dal carattere stesso della ricerca. Nella prospettiva strettamente psichiatrica si tratta di individuare entità nosografiche e nessi eziologici ai fini della diagnosi e della terapia: si comprende quindi come la psichiatria tenda a mettere l’accento sulla distinzione dei diversi modi psicotici di rapportarsi alla catastrofe del mondano, e a ordinare questi modi secondo malattie psichiche diverse o, quanto meno, secondo diverse declinazioni abnormi dell’in-der-Welt-sein e del Mitsein. Ma nella prospettiva storico-culturale e antropologica si tratta di conquistare criteri definiti per distinguere le apocalissi culturalmente produttive da quelle psicopatologiche, o piú esattamente per valutare le apocalissi culturali nella loro concreta dialettica di rischio psicopatologico e di mediata reintegrazione. Lo storico della cultura e l’antropologo non possono contentarsi della ovvietà del fatto che, per esempio, il tema apocalittico del protocristianesimo non è assimilabile a nessun delirio psicopatologico, disforico o euforico, della fine, ma proprio questa ovvietà diventa per lo storico della cultura e per l’antropologo un problema da risolvere: e tanto piú questa pretesa ovvietà diventa un non eludibile problema in quanto i caratteri esterni delle apocalissi psicopatologiche sembrano riprodursi anche in quelle culturali, dato che anche le apocalissi culturali racchiudono l’annunzio di catastrofi imminenti, il rifiuto radicale dell’ordine mondano attuale, la tensione estrema dell’attesa angosciosa e l’euforico abbandonarsi alle immaginazioni di qualche

privatissimo paradiso irrompente nel mondo. Non è pertanto illegittimo, sempre nella prospettiva prescelta, avanzare l’esigenza di ritrovare – attraverso e al di là delle ineccepibili distinzioni cliniche – un carattere unitario delle apocalissi psicopatologiche che non soltanto le contrapponga alle apocalissi culturali, ma che metta a nudo il rischio dal quale le apocalissi culturali sono sempre di nuovo chiamate a difendersi. Nel documento psicopatologico della fine il mutamento di segno della realtà, la perdita di senso e la catastrofe degli enti intramondani, del proprio corpo e della stessa presenza al mondo, la caduta dei rapporti interpersonali, il progressivo e minaccioso restringersi di qualsiasi orizzonte di operabilità mondana, il carattere rigidamente privato, cifrato, incomunicabile delle rappresentazioni disforiche o euforiche che accompagnano la crisi, testimoniano di un effettivo precipitare che mette progressivamente fuori gioco qualsiasi possibile ordine storico-culturale, qualsiasi piano comunitario di nuova valorizzazione della vita e del mondo, qualsiasi dischiudersi di messaggi comunicabili, qualsiasi rapporto culturalmente produttivo fra tradizione e iniziativa, costume e decisione personale, retrospezione attiva del passato individuale o collettivo e attiva apertura prospettica verso il futuro. Per quanto clinicamente diverso possa essere il modo di manifestarsi di questo precipitante finire, e diverso il modo col quale il malato si rapporta a esso, ciò che qui denuncia il carattere morboso è la caduta dell’energia della valorizzazione della vita, il mutamento di segno della stessa possibilità dell’umano su tutto il fronte dell’umanamente e intersoggettivamente valorizzabile. Qui dunque noi siamo di fronte all’apocalisse come rischio di non poterci essere in nessun mondo possibile, in nessuna operosità socialmente e culturalmente validabile, in nessuna intersoggettività comunicante e comunicabile. Il documento psicopatologico della fine mette a nudo tale rischio con una evidenza esemplare, e già solo con ciò consente di valutare piú concretamente la qualità tendenzialmente opposta delle apocalissi culturali, almeno nella misura in cui la loro dinamica rende percepibile una mediata restituzione di operabilità del mondo, una riapertura di fatto verso determinate prospettive comunitarie di nuove valorizzazioni della vita (quale che sia poi il modo e il grado di coscienza che di questo fatto hanno gli operatori storici impegnati in una determinata apocalittica). D’altra parte se il dramma delle apocalissi culturali acquista rilievo come esorcismo solenne, sempre rinnovato, contro l’estrema insidia delle apocalissi psicopatologiche, è anche vero che questo esorcismo può

riuscire in varia misura, e di fatto può sbilanciarsi sempre di nuovo verso la crisi radicale: ma appunto per effettuare di volta in volta tale misurazione e per diagnosticare il grado di rischiosa prossimità alla nuda crisi di talune apocalissi culturali, o in talune epoche della loro storia (o in taluni singoli protagonisti che le rappresentano), lo storico della cultura e l’antropologo debbono giovarsi delle indicazioni euristiche che provengono dal documento psicopatologico. Il ricorso a questo documento non significa quindi in alcun modo una confusione tra apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, ma, al contrario, rende possibile l’approfondimento, in una direzione nuova, del nesso dialettico tra normale e anormale, tra sano e malato, fornendo al tempo stesso criteri determinati per valutare di volta in volta, attraverso il documento filologico o quello etnografico, le singole apocalissi culturali con i loro rischi di recessione verso la crisi e l’effettiva potenza di reintegrazione operativa culturale che esse dispiegano 8. Se si vuole illustrare il particolare valore euristico che spetta alle apocalissi psicopatologiche nello studio storico-culturale e antropologico delle apocalissi culturali, viene innanzi tutto in considerazione ciò che abbiamo chiamato l’apocalittica moderna e contemporanea della società borghese in crisi. La elettività di questo punto di partenza, nel quadro di una piú vasta ricerca comparativa, è in rapporto al fatto che dell’apocalittica d’oggi possiamo parlare in prima persona, cioè in quanto occidentali e in quanto «borghesi» che vivono e combattono i rischi della loro epoca e che sono partecipi di una storia culturale che quei rischi ha maturati. Ciò comporta la possibilità di utilizzare un documento interno di comprensione che soltanto con minore immediatezza è raggiungibile a proposito di altre apocalittiche culturali, come per esempio quella del protocristianesimo o quelle delle grandi religioni storiche o dei popoli cosiddetti primitivi 9. Tentativi di confronto fra l’apocalittica d’oggi e il documento psicopatologico non mancano nella letteratura scientifica, sia in prospettiva storico-culturale che in prospettiva psicopatologica: basterebbe ricordare a questo proposito, e nei limiti di una valutazione dell’arte moderna, le notazioni che si ritrovano nelle opere di Hans Sedlmayr e di Robert Volmat 10. Manca tuttavia un confronto sistematico e metodologicamente fondato tra le diverse manifestazioni dell’apocalittica di oggi – non solo nell’arte, ma nella musica, nella poesia, nel romanzo, nel teatro, nella filosofia, nel costume – e la corrispondente documentazione psicopatologica, cosí come manca, in un

argomento cosí tipicamente interdisciplinare, l’impiego di chiare formule metodologiche di collaborazione interdisciplinare fra lo storico della cultura e l’antropologo da una parte e lo psichiatra dall’altra. Nei limiti di questo saggio, e con l’intenzione di fornire piú la proposta di un progetto di ricerca che una ricerca in sé compiuta con le relative conclusioni, saranno qui allineati e commentati alcuni pochi testi indicativi, sufficienti almeno a impostare il problema: seguirà poi il confronto col documento psicopatologico. Un testo letterario che, per la confluenza in esso di molti temi della apocalittica di oggi, può considerarsi un esemplare punto di partenza e al tempo stesso la guida e il punto di riferimento dell’ulteriore discorso analitico, è senza dubbio La nausée di Sartre 11. Il diario di Antonio Roquentin si apre con la notifica di un mutamento esistenziale esperito in un certo giorno del gennaio 1932. In un foglio non datato che precede il diario vero e proprio, il protagonista fa cenno a vissuti di mutamento affiorati improvvisamente e accompagnati da una vaga paura come dal nascente e ancor incerto proposito di annotare diaristicamente quanto gli sta capitando: Bisogna dire come io vedo questa tavola, la via, le persone, il mio pacchetto di tabacco, poiché è questo che è cambiato. Occorre determinare esattamente la estensione e la natura di questo cambiamento... Sabato i ragazzini giocavano a far rimbalzare i ciottoli sul mare e io avrei voluto imitarli, ma d’un tratto mi sono arrestato, ho lasciato cadere il ciottolo e me ne sono andato. Dovevo avere un’aria smarrita, probabilmente, poiché i ragazzini mi hanno riso dietro. Questo esteriormente. Ciò che è avvenuto in me non ha lasciato chiare tracce. Debbo aver visto qualcosa che mi ha disgustato ma non so piú se guardavo il mare o il ciottolo. Il ciottolo era piatto, con le dita molto allargate per evitare di insudiciarmi... Il curioso è che non sono affatto disposto a credermi pazzo, anzi, vedo chiaramente che non lo sono: tutti questi cambiamenti concernono gli oggetti. O almeno è di questo che vorrei essere sicuro.

In questo appunto diaristico l’inizio del vissuto di mutamento si presenta con una nota di incertezza: Roquentin cerca ancora di minimizzare «la piccola crisi di pazzia» e di appellarsi al regolare e al domestico della vita quotidiana, per esempio al rumore dei passi del commerciante di Rouen che ogni fine settimana viene in albergo e ne sale le scale alla stessa ora. A queste annotazioni non datate segue il diario vero e proprio, in cui il vissuto di

mutamento inaugura la vicenda: Mi è accaduto qualcosa, non posso piú dubitarne. È sorto in me come una malattia, non come una certezza ordinaria, come un’evidenza. S’è insinuata subdolamente, a poco a poco: mi sono sentito un po’ strano, un po’ impacciato, ecco tutto. Una volta installata non s’è piú mossa, è rimasta cheta, e io ho potuto persuadermi che non avevo nulla, che era un falso allarme... Ma ecco che ora si espande... 12.

Ma che cosa e in che senso è mutato? Roquentin avverte un mutamento oscuro nei suoi atti piú abitudinari e nelle cose piú familiari, per esempio nel modo di prender la pipa o la forchetta e forse nel modo con cui la forchetta si fa prendere. La maniglia di una porta si denunzia nella sua mano come un oggetto freddo che attira la sua attenzione «con una specie di personalità», il volto dell’autodidatta, figura familiare da anni, è riconosciuta nella sua identità solo dopo alcuni secondi, e nel salutarlo con la consueta stretta di mano avverte in quella dell’autodidatta e nel suo braccio che ricade mollemente dopo la stretta, una sorta di estraneità e di bizzarria che accenna al deforme e all’orrido. Nelle strade «il y a une quantité de bruits louches qui traînent», al caffè evita di guardare un bicchiere di birra sul tavolo perché si viene sottraendo al suo ovvio significato domestico per spaesarsi nel nulla. L’intero diario ritesse variamente questa tematica del crollo degli enti intramondani, della perdita della loro ovvietà quotidiana, e si dispiega in una successione di episodi esistenziali in cui è vissuto lo spaesamento del familiare. L’avventura apocalittica, inauguratasi subdolamente con il ciottolo della spiaggia, investe come per contagio ambiti sempre nuovi del mondano, che entrano in travaglio disfacendosi di ogni evidenza, sicurezza, certezza. Cosí al caffè le bretelle color malva di Adolfo, cancellate e come nascoste per l’azzurro della camicia, denunziano «una falsa umiltà», son travagliate da uno sforzo incompiuto di esser se stesse, che resta però a mezza strada e che le mantiene in una irritante sospensione: era «come se, partite per diventar viola, si fossero arrestate a mezza strada senza rinunziare alla loro pretesa», sollecitando in Roquentin una scongiurante richiesta di decisione e di compiutezza: «Verrebbe voglia di dir loro: Avanti, diventate viola e non se ne parli piú». Gli oggetti infatti si manifestano a Roquentin affetti da una interna debolezza che li dissolve in uno scenario fittizio, artificiale, irreale, riboccante di terrorizzanti possibilità verso ulteriori naufragi. In modo

esemplare questo vissuto è diaristicamente annotato nell’episodio della biblioteca pubblica di Bouville, quando Roquentin, osservando i libri già altre volte accettati nell’ovvietà dei loro attributi (i libri «tozzi e pesanti») e delle loro relazioni con gli altri oggetti dell’ambiente (per esempio con gli scaffali in cui sono allineati, con la stufa, i finestroni, le scale a pioli), si accorge che ora essi vanno perdendo il loro carattere di rassicurante argine verso l’avvenire, cosí come tutto l’ambiente della biblioteca, le appaesate relazioni tra i suoi oggetti, sta abbandonando la sua funzione di fissare i limiti degli accadimenti verosimili che vi posson aver luogo: ... Ebbene, oggi, [questi libri] non fissavano proprio niente: sembrava che la loro stessa esistenza fosse discutibile e che facessero la piú gran fatica a passare da un istante all’altro. Stringevo con forza, tra le mani, il volume che stavo leggendo: ma anche le sensazioni piú violente erano smussate. Niente pareva reale: mi sentivo circondato da uno scenario di cartone, che poteva essere smontato da un momento all’altro. Il mondo aspettava, trattenendo il respiro, aspettava la sua crisi, la sua nausea... Mi sono alzato: non potevo piú star fermo in mezzo a quegli oggetti indeboliti. Sono andato alla finestra a gettare una occhiata al cranio di Impétraz. Mormoravo: «Tutto può accadere, tutto»... Guardavo con terrore quegli esseri instabili che forse tra un’ora, tra un minuto, sarebbero crollati. Ebbene, sí, ero lí, in mezzo a quei libri di scienza pieni di scienza, alcuni dei quali descrivevano le forme immutabili delle specie animali, altri spiegavano la quantità di energia che si conserva integralmente nell’universo; ero lí, davanti a una finestra i cui vetri avevano un determinato indice di rifrazione. Ma che deboli barriere! Immagino sia per pigrizia che il mondo si rassomigli tutti i giorni. Oggi aveva l’aria di voler cambiare. E allora tutto, tutto poteva accadere 13.

Percosso da questa apocalisse degli oggetti, Roquentin fugge dalla biblioteca, percorrendo Bouville in un disperato vagabondaggio alla ricerca di un ambito familiare della realtà che gli permettesse di ricostituire il mondo in atto di perdersi: un espediente al quale del resto aveva già ricorso, come quando aveva tentato di difendersi dai primi vissuti di mutamento ascoltando il rassicurante rumore dei passi del commerciante di Rouen. Ma questa volta l’espediente è meno efficace: Al principio di via Tournebride mi sono voltato e ho contemplato con disgusto il caffè illuminato e deserto. Al primo piano le persiane erano chiuse. Un vero e proprio panico si

è impossessato di me. Non sapevo piú dove andavo. Son corso lungo i docks, ho girovagato lungo le strade deserte del quartiere Beauvoisis: le case mi guardavano correre con i loro occhi spenti. Mi ripetevo con angoscia: dove andare? Dove andare? Tutto può capitare. Di tanto in tanto, col cuore che mi batteva, mi voltavo, mi voltavo bruscamente: che cosa avveniva alle mie spalle? Magari poteva cominciare dietro di me, e poi, quando d’un tratto mi fossi voltato, sarebbe stato troppo tardi. Fin tanto che avessi potuto fissare gli oggetti non si sarebbe verificato nulla. Ne guardavo piú che potevo, il selciato, le case, i fanali a gas; i miei occhi andavano rapidamente dagli uni agli altri per coglierli di sorpresa e arrestarli nel mezzo delle loro trasformazioni. Non avevano un’aria troppo naturale ma io continuavo a dirmi con forza: è un fanale a gas, è una fontanella, e con potenza dello sguardo cercavo di ridurli al loro aspetto quotidiano. Piú volte ho incontrato dei bar sulla mia strada: il Caffè dei Bretoni, il Bar della Marna. Mi fermavo, esitavo un poco dinanzi alle tendine di tulle rosa: forse questi caffè ben tappati erano stati risparmiati, forse racchiudevano ancora una particella del mondo di ieri, isolata, dimenticata. Ma avrei dovuto spingere la porta, entrare. Non osavo. Temevo s’aprissero da sole. Ho finito col camminare in mezzo alla strada 14.

Il mondo familiare, appaesato, dell’utilizzabile, appare dunque, nell’apocalisse vissuta da Roquentin, recedere verso l’assurdo. Questa recessione è inaugurata in modo improvviso e indominabile, a proposito di occasioni estremamente banali. L’avventura esistenziale di Roquentin, iniziatasi d’un tratto, in un certo giorno del gennaio 1932, a proposito di episodi minuti come quello del sassolino sulla spiaggia, prosegue con episodi altrettanto minuti e occasionali, come l’incontro con l’autodidatta, col bicchiere di birra, con le bretelle di Adolfo e con i libri della biblioteca pubblica di Bouville. Come dice Albert Camus in Le mythe de Sisyphe, la sensibilità assurda ha «un inizio derisorio», «una nascita miserabile», esplodendo senza nessuna preparazione apparente nella piú comune quotidianità della vita: «Le sentiment de l’absurdité au détour de n’importe quelle rue peut frapper à la face de n’importe quel homme» 15. In modo analogo si configura la «noia» di Moravia; salvo la diversa sfumatura dell’espressione letteraria 16: La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, a un dormiente, in una notte

d’inverno: la tiri sui piedi e hai freddo al petto, la tiri sul petto e hai freddo ai piedi; e cosí non riesce a prender sonno. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente, qui sono le poltrone, i divani, piú in là gli armadi, le consolle, i quadri, i tendaggi, i tappeti, le finestre, le porte: un momento dopo non c’è piú che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina... Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della sua effettiva esistenza. Per esempio può accadermi di guardare con una certa attenzione un bicchiere. Finché mi dico che questo bicchiere è un recipiente di cristallo o di metallo fabbricato per metterci un liquido e portarlo alle labbra senza che si spanda, mi sembrerà di avere con esso un rapporto qualsiasi, sufficiente a farmi credere alla sua esistenza e, in linea subordinata, anche alla mia. Ma fate che il bicchiere avvizzisca e perda la sua vitalità al modo che ho detto, ossia che mi si palesi come qualche cosa di estraneo, col quale non ho nessun rapporto, cioè, in una parola mi appaia un oggetto assurdo e allora da questa assurdità scaturirà la mia noia, la quale, in fine dei conti, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. Ma questa noia, a sua volta, non mi farebbe soffrire tanto se non sapessi che pur non avendo rapporti col bicchiere, potrebbe forse averne, cioè che il bicchiere esiste in qualche paradiso sconosciuto nel quale gli oggetti non cessano un solo istante di essere oggetti. Dunque la noia, oltre che incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo.

E ancora: La noia, per me, era simile a una specie di nebbia nella quale il mio pensiero si smarriva continuamente, intravvedendo soltanto a intervalli qualche particolare della realtà; proprio come chi si trovi in un denso nebbione e intravveda ora un angolo di casa, ora la figura di un passante, ora qualche altro oggetto, ma solo per un istante e l’istante dopo sono già scomparsi 17.

Questo spaesarsi del mondo si presenta con una tonalità e una elaborazione ancora diverse in un altro documento importante per le origini della sensibilità apocalittica moderna, nella lettera che Hugo von Hofmannsthal immagina scritta da Filippo Lord Chandos a Francesco Bacone di Verulamio per discolparsi con lui del totale abbandono dell’attività

letteraria 18. Lord Chandos narra all’amico la condizione di apatia e di distacco in cui è caduto rispetto al mondo quotidiano, e la radicale sfiducia nella «parola» – come strumento di partecipazione alla realtà e di comunicazione intersoggettiva: «Le parole astratte, di cui la lingua si serve naturalmente per qualsiasi giudizio durante la giornata, mi si spappolavano in bocca come funghi marciti». Non gli era piú possibile esercitare, nei minuti rapporti sociali di ogni giorno, «il semplificante sguardo dell’abitudine», e a dispetto di ogni astrazione concettuale tutti i contenuti della conversazione si venivano disgregando in parti, e queste di nuovo in altre parti, in una vertigine di disarticolazioni in fondo alle quali era il vuoto. Fu cosí indotto in un genere di esistenza grigia, che – dice Lord Chandos – a mala pena si distingueva «da quella dei miei vicini, dei miei parenti e della maggior parte dei nobili proprietari di terre di questo impero». Da siffatta «noia della parola», che qui copre la perdita di senso dei rapporti sociali e del mondo quotidiano nella società asburgica declinante, Lord Chandos si traeva fuori solo in alcuni rari momenti previlegiati, e a proposito di alcune impressioni assolutamente futili e casuali, come un innaffiatoio abbandonato sotto un noce, un erpice nel campo, un cane al sale, un poveraccio deforme, e simili: in tali istanti felici e vivificanti il contenuto futile e casuale diventava la coppa di una rivelazione inaudita, da cui sgorgava come un’onda di vita superiore che investiva qualsiasi fenomeno dell’ambiente quotidiano: una rivelazione tuttavia troppo viva perché la parola potesse esprimerla compiutamente, cosí come troppo spento era per la parola il grigio mondo di ogni giorno che precedeva questi fugaci istanti beatificanti e che inesorabilmente si richiudeva su di essi. In questa modalità apocalittica ritroviamo il «derisorio» che inaugura l’esperienza di Roquentin, ma in termini rovesciati; poiché infatti in Roquentin il mondo appaesato entra improvvisamente in crisi di spaesamento in occasione di eventi irrilevanti, mentre in Lord Chandos il mondo stabilmente immerso in una diffusa, pigra, grigia spaesatezza che rifiuta la parola si mette improvvisamente a vivere, oltre la parola, sotto lo stimolo di qualche ineffabile casualità. In Roquentin irrompe, attraverso il casuale, la malattia degli oggetti; in Lord Chandos un mondo malato viene di tanto in tanto recuperato nella sua oggettività attraverso un oggetto casuale che malgrado la sua irrilevanza acquista la carica sublime di ineffabile oggetto-recupero, di cifratissimo e idoleggiatissimo simbolo del significante.

Ma torniamo alla avventura di Roquentin. Il rapporto con la realtà è qui caratterizzato, come si è detto, dal fatto che gli oggetti diventano strani, bizzarri, deboli, gratuiti, incerti, indecisi, artificiali, arbitrari, superflui, assurdi, in atto di separarsi dal loro nome e dal loro significato e di precipitare nello spessore opaco di una esistenza «nuda», senza memoria di domesticazione umana. Questa esistenza indigesta che resta sullo stomaco e che nella vertigine del significante suscita la nausea, coinvolge tutti gli enti intramondani, gli altri uomini non meno delle cose, e infine se stesso (si ricordi il vissuto di estraneità di Roquentin nel guardarsi nello specchio: «ciò che vedo è ben al di sotto della scimmia, al confine del mondo vegetale, al livello dei polipi»). A questo vissuto di insufficienza della oggettivazione in generale si collega in modo organico quello di un vero e proprio eccesso, di una tensione interna, che travaglia gli oggetti. Nella misura in cui gli oggetti si separano dalla rete di relazioni domestiche, dalle memorie culturali latenti che li mantengono come ambiti ovvi, come solidi e definiti punti di appoggio per la prassi variamente utilizzante, si fa valere il rischio di un loro caotico relazionarsi, di un loro eccedere dai limiti consueti, secondo una forza oscura e perversa che ora li deforma e li sospinge verso il mostruoso, e ora li trasforma in altro e in altro ancora, in una vicenda inarrestabile di assurde coinonie. Alla possibilità di una esperienza del genere si riferisce Roquentin nelle sue annotazioni diaristiche a proposito del sedile del tram, sul quale si trova seduto: Appoggio la mano sul sedile, ma la ritiro precipitosamente. Questa cosa sulla quale sono seduto, sulla quale appoggiavo la mano si chiama sedile. L’hanno fatta apposta perché uno possa sedersi, hanno preso dei cuoi, delle molle, delle stoffe, e si son messi al lavoro con l’idea di fare un sedile, e quando l’hanno fatto era questo che avevano fatto. L’hanno portato qui, in questa scatola, e adesso la scatola rotola e traballa, coi vetri che tremano, e porta nei suoi fianchi questa cosa rossa. Mormoro: è un sedile, un po’ come un esorcismo. Ma la parola mi resta sulle labbra; rifiuta di andarsi a posare sulla cosa. Questa rimane quella che è, con la sua felpa rossa, con migliaia di striscette rosse, tutte rigide, che sembrano zampette morte. Questo enorme ventre che fluttua in questa scatola, nel cielo grigio, non è un sedile. Potrebbe essere altrettanto bene un asino morto, per esempio, gonfiato dall’acqua, e che fluttua alla deriva, a pancia all’aria, in un gran fiume d’inondazione: e io sarei seduto sul ventre dell’asino, e i miei piedi sarebbero a bagno

nell’acqua chiara... Il bigliettaio mi sbarra la strada: «Aspettate la fermata!» Ma lo respingo e salto giú dal tram.Non ne potevo piú. Non potevo sopportare che le cose fossero cosí vicine 19.

Piú oltre, in occasione dell’esperienza della radice di castagno nei giardini pubblici, Roquentin descrive «lo strano eccesso» di cui pativa la radice, il suo minaccioso andar oltre le qualità sensibili in una apparente «dovizia» che tuttavia «finiva per diventare confusione» e accennava a sprofondare nel caos. Piú oltre ancora, in contrapposizione alla pigra normalità in cui per lo piú gli uomini vivono nella moderna civiltà industriale (le loro facce «ottuse e piene di sicurezza»), Roquentin dispiega, a guisa di minaccioso ammonimento, il quadro di una possibile «fine del mondo»: E se capitasse qualcosa? Se d’un tratto si mettesse a palpitare? Allora s’accorgerebbero della sua presenza e gli sembrerebbe di sentirsi scoppiare il cuore. A che cosa gli servirebbero, allora, le loro dighe, i loro argini, le loro centrali elettriche, i loro alti forni, i loro magli a vapore? Ciò potrebbe succedere in qualunque momento, magari subito: i presagi ci sono 20.

L’apocalisse immaginata da Roquentin si sconfigura come irruzione del mostruoso: i vestiti avvertiti come viventi, la lingua che diventa un millepiedi vivo, l’occhio beffardo che la madre scopre nella screpolatura della carne rigonfia del bambino, l’apparizione di cose nuove per le quali occorrerà trovare nomi nuovi, come l’occhio di pietra, il gran braccio tricorno, l’allucegruccia, il ragno-mascella. Lo stesso andamento dell’annunzio apocalittico ricorda quello delle profezie bibliche: «E si accorgeranno che le loro vesti sono divenute cose viventi. E un altro si accorgerà che qualcosa lo solletica nella bocca...» Oppure Roquentin immagina la catastrofe come un’oscura notifica senza mutamenti apprezzabili nelle cose: solo che una mattina la gente, aprendo le persiane, avvertirà «un senso orribilmente posato sulle cose», una minacciosa immobilità carica di latenti tensioni esplosive. Di questo «universo in tensione» – ovvero di questa «esplosione» del mondo – sarebbe sin troppo facile addurre esempi nella varia apocalittica moderna e contemporanea, soprattutto nella poesia. Basterà qui ricordare il rimbaudiano Nocturne Vulgaire 21, in cui proprio ciò che di piú familiare appartiene alla nostra vita quotidiana – le pareti, i tetti, i focolari, le vetrate –

appare come percosso da un soffio di uragano che inaugura una vicenda allucinatoria di metamorfosi e trascina il «veggente» al centro dei suoi evanescenti episodi: Un souffle ouvre des brèches opéradiques dans les cloisons | brouille le pivotement des toits rongés | disperse les limites des foyers | éclipse les croisées […].

L’avventura di Roquentin costituisce – come si è detto – un testo esemplare per esplorare la sensibilità apocalittica della nostra epoca. Ma dato questo punto di partenza, il viaggio esplorante può prendere tuttavia varie direzioni. Si può valutare cosí in che modo tale sensibilità riceva una particolare valorizzazione culturale nell’unità della Nausée in quanto opera letteraria definita e nel quadro dell’esistenzialismo sartriano in quanto corrente filosofica del pensiero contemporaneo. Ovvero si può prendere come spunto la ricca confluenza di temi apocalittici che il testo della Nausée rappresenta per ricostruire la storia culturale moderna e contemporanea che condiziona questo testo e che ci aiuta a meglio comprendere la sua unità e il suo significato irripetibili, la sua specifica Einmaligkeit (valutazioni analoghe possono ovviamente essere condotte a proposito degli altri testi apocalittici riportati e, in generale, a proposito di qualsiasi prodotto culturale dell’apocalittica d’oggi). Ma la ricerca può prendere anche una terza direzione, cioè quella del confronto con le apocalissi psicopatologiche. Sia detto ancora una volta: tale confronto non significa affatto assumere che il personaggio letterario Roquentin possa essere valutato come un caso clinico (ovviamente solo persone reali possono essere in una prospettiva medica valutate come casi clinici), né d’altra parte tale confronto significa che si intende ridurre La nausée a un sintomo o a una serie di sintomi utili per concorrere a formulare una diagnosi relativa alla persona reale del suo autore. Tuttavia fra l’apocalisse di Roquentin e quelle variamente attestate dal documento psicopatologico sussistono «somiglianze» tali da porre in modo non eludibile un problema di confronto e di rapporto, un problema che non può essere risolto con la dogmatica affermazione che si tratta di casuali somiglianze e di sostanziali diversità. Ancor meno il problema può essere eluso con qualche semplificante congettura di comodo, quale sarebbe per esempio quella che a spiegare certe «somiglianze» basta il fatto che Sartre ha utilizzato la sua conoscenza della Allgemeine Psychopathologie di Jaspers. In

fondo, dietro la varia resistenza che si oppone a un confronto del genere, condotto in modo deliberato e sistematico, si cela la paura di riconoscere che la follia costituisce una possibilità permanente contro cui la mente sana è chiamata sempre di nuovo a combattere con la sua reale produttività culturale: oppure si cela la feticizzazione delle partizioni specialistiche del sapere e la congiunta tendenza a dimenticare che proprio dalle terre di nessuno da esse lasciate senza statuto scientifico possono talora provenire stimoli decisivi per riproporre in nuovo modo i problemi della comprensione dell’uomo da parte dell’uomo. Il discorso comparativo, di cui viene qui posta l’esigenza, può prender le mosse dal concetto di «vissuti deliranti primari» (primäre Wahnerlebnisse), introdotto in psicopatologia da Jaspers, cioè di vissuti deliranti non ulteriormente derivabili con i quali si annunzia l’accadere psicotico 22. La crisi ha un inizio repentino, inaugurandosi con una semplice «disposizione delirante» (Wahnstimmung) in cui tutto a un tratto il mondo quotidiano dell’abitudinario e dell’appaesato, dell’ovvio e del familiare, diventa problematico, segnalando un mutamento oscuro di significato che si pone in modo non eludibile e che tuttavia resta senza soluzione. Una malata di Sandberg diceva al marito: «È accaduto qualche cosa, dimmi che cosa». E alla domanda del marito su che cosa le stava capitando, rispondeva: «Non so, tuttavia c’è qualche cosa» 23. Questo qualche cosa porta la connotazione fondamentale di un mutamento dello stesso fondo operativo domestico che rende possibile il normale operare secondo progettazioni comunitariamente significanti, culturalmente integrate. Il normale operare, infatti, comporta uno sfondo appaesato di relazioni implicitamente ammesse nella loro ovvietà, e appunto per questo non emergenti nella coscienza attuale: da questo sfondo attualmente non problematico si solleva di volta in volta, con varia intensità di impegno, un determinato vertice operativo di presentificazione valorizzatrice, attualmente problematica. Questa patria dell’agire, questo suolo fermo e questo orizzonte sicuro, per quanto immersi nell’opacità dell’abitudinario o nell’oscurità dell’inconscio, racchiudono tuttavia tesori di implicite relazioni, di umani drammatici sforzi di appaesamento e di domesticazione, immense riserve di memorie sepolte che ciascuno viene accumulando secondo i vari condizionamenti della propria biografia sociale e storico-culturale: e proprio questa latente storicità dell’esserci, questo affidarsi a essa con umiltà sottraendola alla problematicità attuale della

coscienza operativa, fondano e mantengono quella ovvietà del mondo, quell’ovvio calore dell’esserci, che ci rende disponibili per il qui e per l’ora delle singole presentificazioni valorizzatrici aperte verso il futuro. Si legge in À la recherche du temps perdu 24: Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a lui il filo delle ore, l’ordine delle annate e dei mondi. Nel risvegliarsi egli li consulta d’istinto e in un istante vi legge il punto della terra che occupa, il tempo che è passato sino al suo risveglio: ma questo ordine può confondersi, franare.

Il crollo di quest’ordine può talora essere vissuto al risveglio. Proust descrive come qualche volta gli accadeva di risvegliarsi nel cuor della notte ignorando dove si trovasse e non sapendo neppure chi fosse, in un disorientamento totale in cui esperiva l’esistere con la primordiale elementarità con cui un animale sente fremere le sue viscere. Dal fondo di questo abisso esistenziale, in cui si apprendeva «piú spoglio dell’uomo delle caverne», una serie di rapide evocazioni lo aiutavano a ricomporre l’ovvietà del mondo attuale e di se stesso: Allora il ricordo – non ancora del luogo dove ero ma di qualcuno di quelli che avevo abitato e in cui avrei potuto essere – veniva da me come un soccorso dall’alto per tirarmi fuori dal nulla dal quale non sarei potuto uscire da solo: risalivo in un istante secoli di civiltà e l’immagine confusamente intravista di lampade a petrolio, poi di un camice col collo ribattuto, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io.

Nella vertigine del disorientamento totale, tutto girava intorno a lui nell’oscurità, «le cose, i paesi, le annate». Ma ecco che faticosamente veniva cercato e ritrovato il cammino che lo riconduceva al mondo, a partire dalla riconquista del proprio corpo e dalla rapida ricostituzione delle memorie di riferimento che esso normalmente custodiva: Il mio corpo, troppo intorpidito per muoversi, cercava, attraverso la forma della sua fatica, di riperire la posizione delle sue membra per evincerne la direzione del muro, il posto dei mobili, per ricostruire e dar nome alla dimora in cui si trovava. La sua memoria, la memoria dei suoi lati, delle sue ginocchia, delle sue spalle, gli presentavano successivamente molte camere in cui aveva dormito, mentre che intorno a esso i muri

invisibili, mutando di posto secondo le forme del vano immaginario, turbinavano nelle tenebre. E ancor prima che il mio pensiero, che esitava alle soglie dei tempi e delle forme, avesse identificato l’alloggio, esso – il mio corpo – si ricordava per ciascuno il tipo di letto, il luogo della porta, il vano della finestra, l’esistenza di un corridoio, col pensiero che aveva quando mi ci addormentavo e che ritrovavo nel risveglio. E il mio corpo, il lato sul quale riposavo, guardiani fedeli del mio passato che il mio spirito non avrebbe mai dovuto dimenticare, mi ricordavano il lume da notte in cristallo di Boemia, a forma d’urna, sospeso al soffitto mediante catenelle, il camino in marmo di Sienne nella mia camera da letto di Cambray, presso i nonni, nei giorni lontani che in quel momento immaginavo attuali senza rappresentarmeli con esattezza, e che avrei rivisto meglio subito dopo, una volta completamente sveglio.

Ora mentre nel tema proustiano dello smarrimento al risveglio viene finemente descritta la ripresa di sé e del mondo – il che testimonia una duplice risoluzione del rischio della crisi, cioè la risoluzione conseguita al risveglio e quella dell’artista che rammemorando tale risoluzione, la esprime con letteraria finezza – nel vissuto delirante di mutamento che inaugura l’accadere psicotico il dramma appare svolgersi con segno opposto, poiché a partire dal normale rapporto di veglia di un mondo variamente operabile comincia a destrutturarsi, contro ogni tentativo di ripresa, lo stesso orizzonte mondano dell’operare. Lo sfondo domestico, appaesato, familiare, la patria culturale dell’agire, il sicuro orizzonte per entro il quale emerge il problema operativo che di volta in volta viene posto, entrano qui in una crisi radicale, mettendo a nudo il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile e di non poter essere disponibili per nessuna effettiva ripresa valorizzante. Il circuito di memorie latenti che sostiene la rocca dell’ovvietà (cioè quanto attualmente sta come fedeltà non problematica che rende disponibili di volta in volta per la relativa infedeltà dell’iniziativa egemonica secondo valore) si viene rischiosamente interrompendo, e il progressivo franare di questa rocca, la sua incalzante catastrofe, segna sempre un punto di vantaggio sui disperati conati anastrofici di rimettere pietra su pietra. Una penosa inversione di segno viene in tal modo guadagnando gli ambiti percettivi piú ovvi e familiari, che ora sembrano strani, bizzarri, artificiali, teatrali, irreali, meccanici, fuori quadro, assurdi: e questa inversione di segno, questo moto eccentrico che coinvolge lo sfondo dell’operabile rende vacillante qualsiasi punto di appoggio per mantenersi come reale centro

operativo, riflettono la caduta della energia presentificante su tutto il fronte della possibile valorizzazione. «Vi è un mondo reale, che deve esistere in qualche parte: prima lo vedevo, ma ora dov’è?», diceva una malata di Janet 25 riecheggiando a suo modo quel «paradiso degli oggetti» che il protagonista della Noia istituiva come nostalgica contropartita della loro attuale «malattia». La riconquista di questo paradiso dopo una temporanea eclisse della domesticità del mondo, è delineata con particolare evidenza nel seguente caso 26: La malata va al mercato e tutto le appare nuovo e artificiale: le case di cartone, le frutta di gesso. Prende in mano un pomodoro, lo guarda incuriosita, e pur riconoscendolo perfettamente, dice fra sé: «Come sono strani i pomodori». «Vede quella casa lí di fronte? – dice la stessa malata. – Per me è solo facciata con niente dentro». Quando la malata viene dimessa, assicura di sentire tutto come prima: tocca con un certo compiacimento, la scrivania, la macchina da scrivere, il tavolo, ne descrive la materia. Poi prende in mano un portacenere e dice: «Adesso lo sento vivo nelle mie mani, so che è di maiolica: prima sembrava finto».

L’inizio della crisi di spaesamento, oltre che repentino, è – per riprendere la notazione di Camus – «derisorio», «miserabile»: tutto può cominciare dal piú ovvio e dal piú banale, dai pomodori del mercato come – nell’avventura di Roquentin – dal sassolino della spiaggia. La destrutturazione dello sfondo di domesticità implica appunto questa continua dissipazione nel derisorio, questo restar senza margine di ripresa davanti a dati banali, senza potersi mai raccogliere in quel centro operativo che alimenta il suo calore esistenziale non soltanto con la intenzionalità attuale ma anche con le ovvietà immerse nell’ombra e nell’ombra guardiane di immensi tesori di fedeltà all’umano. Questa dissipazione nel «derisorio» manifesta il suo esatto significato se si tien conto che qui non è propriamente in gioco questo o quel dato banale (la casa, la frutta, i pomodori), ma la stessa datità del mondo. La qualità del semplice vissuto di spaesamento rende comprensibile altre connotazioni morbose che possono successivamente intervenire nello sviluppo dell’accadere psicotico, anche se tali connotazioni possono di fatto verificarsi senza la prefazione di quel vissuto. Poiché le cose «non stanno piú nel loro quadro» (l’espressione è di una malata di Janet) 27, gli ambiti percettivi possono essere coinvolti in un difetto

o in un eccesso di semanticità. Il difetto di semanticità riflette il loro distaccarsi dalla rete di relazioni appaesate che li sostiene nel loro significato ovvio e che conferisce loro il calore segreto per cui possono mantenersi nello sfondo: per tale distacco gli oggetti si irrigidiscono, si «mineralizzano», oppure si afflosciano e sprofondano nel nulla, richiamando, per questa loro catastrofe, l’attualità dell’attenzione, e disarticolando, per questo loro eccentrico richiamo, ogni sfondo appaesato possibile. D’altra parte gli ambiti percettivi che «non stanno piú nel loro quadro» possono, appunto per questo essere travagliati da un rischioso eccesso di semanticità indeterminata da una allusività oscura e sospetta, da una tensione interna che li predispone a una sorta di esplosione, e infine da un irrelato andar oltre che li sospinge verso il deforme e il mostruoso, accennando a caotiche mescolanze. Vien fatto qui di pensare allo «strano eccesso» della radice di castagno esperito da Roquentin, al minaccioso andar oltre di questa radice in una apparente «dovizia» che tuttavia «finiva per diventare confusione». Ovvero vien fatto di pensare, sempre a proposito di Roquentin, alla irruzione del caos nella immaginata catastrofe del mondano, ai vestiti avvertiti come viventi, alla lingua che diventa un millepiedi vivo, all’occhio beffardo che la madre scopre nella screpolatura della carne rigonfia del suo bambino, all’apparizione dell’occhio di pietra, del gran braccio tricorno, dell’alluce-gruccia, del ragno-mascella. Ma per tornare al documento psicopatologico ecco come questa polarità di difetto e di eccesso di semanticità si riflette nel racconto reso da René, la schizofrenica di Mme Sechehaye 28: Per me la follia era come un paese, opposto alla realtà, dove regnava una luce implacabile, che non dava alcun posto all’ombra e che accecava. Era una immensità senza limiti, sconfinata, piatta, piatta, un paese minerale, lunare, freddo... In questa distesa tutto era immutabile, immobile, irrigidito, cristallizzato. Gli oggetti sembravano disegni di uno scenario, collocati qua e là, come cubi geometrici che avessero perduto ogni significato. Le persone si muovevano bizzarramente. Erano fantasmi che circolavano in questa pianura infinita, schiacciati dalla luce spietata dell’elettricità. E io ero perduta lí dentro, isolata, fredda, nuda sotto la luce e senza scopo. Un muro di bronzo mi separava da tutto e da tutti. Nessun soccorso mi veniva da nessuno... In questo silenzio infinito e in questa immobilità tesa avevo l’impressione che qualche cosa di spaventoso stava per prodursi, rompendo il silenzio: qualche cosa di atroce, di sconvolgente. Attendevo, trattenendo il respiro soffocata dall’angoscia, e nulla accadeva. L’immobilità si faceva sempre piú

immobile, il silenzio sempre piú silenzioso, gli oggetti e le persone diventavano ancora piú artificiali, staccati gli uni dagli altri, senza vita, irreali. E la mia paura aumentava, sino a diventare inaudita, indicibile, atroce.

La polarità di difetto e di eccesso di semanticità dell’universo in tensione, in quanto riflette la caduta dell’energia di presentificazione su tutto il fronte del valorizzabile e la disarticolazione e la problematizzazione progressiva e irrisolvente di ogni sfondo appaesato possibile, rende comprensibile il rilievo particolare che, in dati casi, può acquistare il vissuto di essere-agiti-da, con la connotazione fondamentale di una perdita radicale della libertà che non consente in nessun momento il ridischiudersi dell’operabile e il dispiegarsi dello slancio valorizzatore. In questo vissuto la presenza in crisi avverte di essere al centro di una rete di insidie diffuse, di forze ostili, di oscure trame cospirative tessute ai suoi danni, esperendo al tempo stesso un continuo spossessamento di sé, un esser esposti irresistibilmente alla perdita di qualsiasi intimità e a un continuo deflusso dissipatore nel mondo esterno. Per tale connotazione è di particolare interesse il caso di una schizofrenica di Storch, che avvertiva «di non essere piú in vita per forza propria», e che viveva la distruzione della propria presenza al mondo sotto la specie di un vero e proprio spossessamento: «Con uno sguardo possono prendersi il mio io come il mio mantello». E ancora: «Non posso piú avere per me nessun pensiero, e nasconderlo agli altri... Io mi perdo negli altri come se dovessi offrirmi come vittima». L’alterità irrompe nella malata, senza lasciarle margine di libertà, e la malata defluisce nel mondo, è «fuori col vento» 29. A partire dal vissuto di mutamento come ideale punto di riferimento per la comprensione delle varie modalità dell’accadere psicotico, può acquistare un rilievo dominante non tanto la incalzante minaccia apocalittica che grava sugli oggetti, quanto piuttosto il già consumato annientamento del proprio corpo e della propria persona, il miserando non-esserci esistenziale di cui si porta il peso immane e la colpa inespiabile. Il trapasso dall’una all’altra accentuazione si rende particolarmente comprensibile in determinati casilimite fra le due. Diceva una malata di Esquirol: «Intendo, vedo, tocco, ma non sento come prima, gli oggetti non si identificano col mio essere, una nebbia cambia il colore e l’aspetto dei corpi» 30. E una malata di Janet, entrando a braccia tese nel laboratorio, come un cieco che procede a tastoni: «È come una nebbia, una nuvola davanti agli occhi che mi impedisce di

vedere realmente le cose: mi sembra che le cose stiano per scomparire, che presto non vedrò piú nulla e che sono sempre sul punto di diventare completamente cieca». Qui la «malattia degli oggetti» (si ricordi il passo della Noia piú sopra riportato: «La noia per me era simile a una specie di nebbia...») accenna già a una malattia del vedere, a una sorta di cecità affettiva interiore. Se questo ritorno su di sé diventa dominante, l’accento dell’accadere psicotico cadrà non tanto sulla perdita degli oggetti quanto sulla propria miseria esistenziale. «Io non ho piú cuore morale, c’è un velo fra me e gli oggetti», dichiarava un’altra malata di Lauret 31: nel contesto di questa notificazione la perdita del «cuore morale» non sta come una semplice metafora, ma propria come pregnante esplicitazione del mutamento di segno della stessa energia presentificante. Nel cosiddetto delirio di negazione il vissuto di annientamento esistenziale concerne innanzi tutto la propria personalità morale e intellettuale, per investire poi il proprio corpo, gli altri, il mondo. Non si ha piú pensiero, cuore, sentimenti, nome, età; non si ha piú stomaco, lingua, cervello, testicoli, sangue, pene; non si ha piú parenti, amici; tutto porta il segno della morte, terra, stelle, alberi, stagioni. Nella perdita di ogni possibile progettazione secondo valori intersoggettivi, l’orizzonte del futuro si chiude e il nostalgico paradiso dell’esistenza si riduce alla struggente memoria del passato in cui il mondo c’era ancora, sino al momento in cui il tempo si è rattrappito e il divenire si è fermato. Ecco un esempio particolarmente rappresentativo di questo stato psicotico 32: – Che età avete? – Che ne so. Quando il mondo si è inabissato credevo di avere 52 anni. – Come vi chiamate? – Mi facevo chiamare Celina... Ma ora non ho piú nome. – Siete sposata? – Vivevo con un uomo chiamato Giovanni. Lo chiamavo mio marito, e non poteva esserlo. Avevamo stabilito di restare insieme 28 anni, sino alla fine del mondo. – Avete figli? – Avevo un figlio che dicevo il figlio di Giovanni, ma non era mio figlio. – Che età ha vostro figlio? – A quel momento [la fine del mondo] aveva 25 anni: è morto come tutti. – Perché sembrate cosí inquieta? – Ah! Quant’è sciocca, quant’è sciocca questa Celina, essa è dannata, essa ha ucciso

tutti.

Diceva una malata di Janet: «Avvenga qualunque cosa, non importa quando, questo non mi riguarda, il tempo non esiste per me in nessun modo, il mio orologio rotto segna sempre la stessa ora». Ma la stessa malata non mancava di contrapporre nostalgicamente al suo tempo rattrappito, quello fluido che aveva smarrito, cioè il «tempo dell’anima, irregolare per eccellenza», nel quale «si può vivere un minuto terrestre che valga per noi un numero incalcolabile di annate morali» 33. La psicopatologia conosce infine anche una reazione catastrofica attiva che si accompagna a un fantasma di fine del mondo, un impulso cataclismatico che vendica d’un sol colpo la propria morte e gli oltraggi subiti durante la vita, com’è il caso – illustrato dallo Schiff – di quella operaia disoccupata che appiccò il fuoco alla sua piccola biblioteca privata il giorno in cui la polizia doveva rendere esecutivo l’ordine di sfratto per morosità. Ecco la dichiarazione successivamente resa dalla malata allo psichiatra: Non è giusto chiedere del denaro a chi non lavora. Sono sempre vissuta sola, con i miei libri. La lettura era la mia passione. Le mie letture non erano quelle degli altri operai, ma leggevo autori un po’ ricercati. Facevo rilegare i libri quando ero in condizione di poterlo fare. Avevo dei romanzi di Pierre Bourget, di Pierre Loti e di Paul Brulat. Avevo molte opere di Ibsen... Mi si era detto che avrebbero venduto i miei libri. Non potevo ammettere che i miei libri sarebbero stati venduti a un’asta pubblica o in una via, presso il canale Martin. Ho preferito distruggerli piuttosto che immaginarli nelle mani di qualche zoticone. Essi erano la mia vita. Mi dicevo: avvenga quel che può, questo mondo è finito per me. Da tempo pensavo che un giorno il mondo sarebbe finito e che io stessa sarei stata la causa di questa fine. Appiccando il fuoco ai miei libri mi rappresentavo una immensa catastrofe, col fuoco e l’acqua e la terra e il vento scatenati nello stesso tempo, in una distruzione universale 34.

Fin qui è stato messo l’accento sulle «somiglianze» fra l’apocalittica d’oggi e le apocalissi psicopatologiche. Quanto alle differenze, si potrebbe far ricorso a molteplici argomenti, tutti praticamente validi, per sottolinearle. Si potrebbe cioè osservare che un’opera culturale può serbar tracce di stati psichici morbosi, ma che in quanto effettiva opera culturale testimonia, almeno nel suo specifico carattere di opera dotata di valore, a favore del sano

e non del malato; che alcune pretese opere culturali si riducono in realtà a stati psichici morbosi, senza che ciò significhi che i loro autori siano degli psicotici, perché potrebbe benissimo trattarsi di persone normali nella loro vita pratica, o un po’ eccentriche o al piú leggermente nevrotiche; e infine che vi possono essere opere di alto significato culturale prodotte da individui che nel corso della loro biografia sono stati internati in qualche clinica neuropsichiatrica o che hanno concluso con una psicosi la loro vita altamente produttiva dal punto di vista culturale. Tuttavia per lo storico e per l’antropologo che si propone di ricostruire le genesi e la struttura dei prodotti della apocalittica d’oggi, non si tratta di enumerare statiche «somiglianze» o «differenze», ma di raggiungere di volta in volta, attraverso l’analisi, quel punto critico in cui le somiglianze rischiano di diventare identità, e in cui le differenze sono state – o non sono state – drammaticamente istituite. Le apocalissi psicopatologiche segnalano una possibilità non accidentale, ma permanente, delle apocalissi culturali, in quanto manifestano il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale storicamente determinato, di perdere qualsiasi possibilità dell’operabile secondo valori intersoggettivi comunicabili, di patire la caduta dello slancio verso la valorizzazione su tutto il fronte del mondanamente valorizzabile. Nella misura in cui ha luogo l’effettiva ripresa da questa rischiosa possibilità, le apocalissi culturali ridischiudono mediatamente la operabilità del mondo, la progettabilità comunitaria della vita umana, l’attiva testimonianza di effettive opere economiche, morali, giuridiche, politiche, artistiche, scientifiche, filosofiche: in tale mediata ripresa del mondano che si compie attraverso il vario simbolismo apocalittico e che si palesa nella concreta dinamica culturale di questo simbolismo, sta il reale momento escatologico racchiuso nelle apocalissi culturali e non già nell’escaton paradisiaco o ultramondano considerato nella sua astratta formulazione 35. Da questo criterio generale discende, per lo storico della cultura e per l’antropologo, il compito metodologico di individuare di volta in volta, anche per l’apocalittica d’oggi, l’opera mondana variamente qualificata che essa media e consente, risalendo la perigliosa china di cui l’apocalisse psicopatologica indica il rischio in modo esemplare. Nell’analisi dei prodotti dell’apocalittica d’oggi lo storico della cultura e l’antropologo sono quindi chiamati di volta in volta a misurare di quanto l’immediato finire della crisi radicale sia affrontato e oltrepassato nella sua incombenza paralizzante, nella sua attualità indicibilmente disforica,

nella sua privata e incomunicabile fruizione euforica di paradisi terrestri e di ultramondi, ovvero nel suo furore distruttivo di tutto ciò che vive e che vale. Nell’analisi di questi prodotti spetta allo storico della cultura e all’antropologo il compito di determinare, attraverso tale misurazione, il mediato ricostituirsi – oltre la crisi – di un messaggio relativo alla vita e al mondo che continuano e si trasformano; e spetta altresí il compito di indicare quando questo messaggio è incerto o assente, e quando infine, nel silenzio di ogni effettiva comunicazione, ricalca i modi stessi della crisi: ma proprio per assolvere questo compito, lo storico della cultura e l’antropologo non possono non avvalersi del sussidio euristico del documento psicopatologico. D’altra parte il confronto dell’apocalittica d’oggi con le apocalissi psicopatologiche, giova a mettere in evidenza come nell’apocalittica d’oggi, per il suo particolare carattere storico-culturale, acquista rilievo il pericolo che si possa assottigliare o addirittura vanificare il margine della ripresa valorizzatrice, la reale produttività culturale secondo valore. Il limite critico dell’apocalittica d’oggi, le sabbie mobili in cui essa rischia di affondare, sta nell’ambiguità che spesso vi assume la protesta contro il mondo ovvio, familiare, appaesato, abitudinario, quotidiano. Senza dubbio la deliberata rimessa in causa di ogni feticizzazione naturalistica del mondo, la presa di coscienza che l’uomo non è riducibile a oggetto fra oggetti, l’attiva demistificazione di quanto a noi si presenta col pigro prestigio dell’autorità e della tradizione, la deliberata riconquista della soggettività variamente alienata, costituiscono un salutare esercizio in un’epoca come la nostra: in un’epoca, cioè, in cui le contraddizioni della società borghese, i pericoli connessi alla feticizzazione della tecnica, all’uomo-massa e alla smaniante mediocrità del señorito satisfecho 36, e infine la difficoltà di adeguare il quadro dei valori alle rapidissime trasformazioni dei regimi tradizionali di esistenza, prospettano il non eludibile compito di una piú umana valorizzazione dell’ordine economico e sociale e la fondazione di una consapevolezza umanistica che, al di là dei prestigi ineccepibili e irreversibili della tecnica e della scienza, preveda e legittimi altre valorizzazioni della vita e altre dimensioni dell’esser uomo 37. Ma nell’apocalittica della società borghese in crisi rischia sempre di nuovo di assolutizzarsi il momento della negazione e della distruzione del mondo quotidiano, magari mediante «un long, immense et raisonné dérèglement de tous le sens» o mediante quel protestatario idoleggiamento del caotico e del folle che si richiamano al

dostoevskiano «uomo del sottosuolo» 38. Questa discesa agli inferi senza ritorno, quando sia perseguita senza felici inconseguenze, rischia di ridursi alla stimolazione tecnica di vissuti psicotici, alla loro rammemorazione piú o meno fedele, o addirittura alla semplice notificazione del loro irrompere. Con ciò si assottiglia – e in casi estremi si cancella – il margine che separa i prodotti dell’apocalittica d’oggi dal documento psicopatologico, in quanto lo spaesamento artificiale e programmatico del mondo, lasciato senza effettiva ripresa, finisce col confondersi con lo spaesamento radicale della crisi e col suo corteo di irrisolventi conati di recupero e di reintegrazione. La ripresa valorizzatrice del rischio psicopatologico si viene cosí tramutando in tecnica per secondare tale rischio, e questa tecnica della catabasi senza anabasi è sempre sul punto di perdere l’acrobatico equilibrio che cerca di mantenere sull’orlo dell’abisso. L’immagine di un mondo spoglio di memorie operative umane, l’idolo di una natura anteriore a ogni domesticazione comunitaria dell’uomo in società, rischiano sempre di nuovo di notificare un vissuto cieco e angoscioso che rende prigionieri e lascia senza voce né gesto. Si legge in Camus 39: L’ostilità primordiale del mondo, attraverso i millenni, risale sino a noi. Per un istante, noi non lo comprendiamo piú, poiché per secoli abbiamo compreso in esso solo le figure e i disegni che vi avevamo già messo anteriormente, poiché ormai le forze ci mancano per adoperare questo artificio. Il mondo ci sfugge perché ridiventa se stesso. Gli scenari mascherati dall’abitudine diventano quel che sono: essi si allontanano da noi... Questo spessore e questa estraneità del mondo, ecco l’assurdo.

«Per un istante, noi non lo comprendiamo piú»: ma questo istante critico racchiude già una possibilità di dilatazione morbosa, cioè di declinarsi secondo le modalità delle apocalissi psicopatologiche, dato che queste apocalissi irrompono appunto quando su tutto il fronte dell’operabile vengono meno le «figure» e i «disegni», cioè le varie intenzioni, che stanno come appoggio latente e come fedeltà implicita di una particolare esplicita problematizzazione e di un particolare esplicito impegno operativo secondo valore: quando cioè viene meno, o recede, o si destruttura, la stessa potenza della vita culturale, lo stesso ethos primordiale che, novello Atlante, sostiene il cielo e gli impedisce di precipitare sulla terra. L’artificio di cui parla Camus non è che la stessa possibilità della cultura umana: e la confessione che ormai

ci mancano le forze per adoperarlo può acquistare il pericoloso senso che la cultura è ormai irrevocabilmente ridotta a essere la secondante notificazione di una realtà in cui l’assurdo si espande irresistibilmente e senza sosta, al pari di lebbra. Per questa via si corre però il rischio di approssimarsi a quel limite della semplice notificazione psicotica che rappresenta il naufragio della cultura. All’uomo è dato problematizzare e rimettere in causa determinate sfere di ovvietà su cui si concentrano esigenze di rinnovate valorizzazioni umane, ma ogni problematizzazione si compie pur sempre per entro una ovvietà di sfondo, che custodisce tesori di latenti memorie culturali e che, per queste memorie, assicura all’esistenza la sua immediata storicità e il suo segreto calore. Quando invece l’energia di ripresa si viene dissipando in una indefinita eccentrica vicenda di problematizzazioni irrisolventi, tutte dominate dalla tonalità dell’assurdo, e quando l’energia di ripresa, travolta da questa vicenda, non riesce mai a raccogliersi effettivamente nel suo proprio centro valorizzatore, allora si imbocca una strada che conduce, a seconda dei casi, a una rimbaudiana «saison en enfer», a frammenti di una apocalissi senza momento escatologico, e infine alle varie servitú dei vissuti psicotici. Il confronto dell’apocalittica d’oggi con le apocalissi psicopatologiche comporta dunque, per lo storico della cultura e per l’antropologo, il compito di misurare in concreto, cioè nei singoli prodotti dell’apocalittica moderna e contemporanea, l’emergenza e la dissipazione di quelle «annate morali» che la malata di Janet lamentava di aver smarrito. Ma quel confronto assume un significato piú ampio, che non concerne soltanto lo storico di cultura e l’antropologo, ma l’uomo della nostra epoca in generale: rende cioè avvertiti che, rispetto alla dissipazione di quelle «annate morali», cioè dell’ethos del trascendimento valorizzante della vita, impallidisce per importanza la stessa atroce prospettiva della catastrofe fattuale del mondo umano per un possibile conflitto termonucleare. Infatti se la catastrofe fattuale del mondo umano dovesse prodursi – magari «casualmente» o «per equivoco» – attraverso un gesto tecnico della mano dell’uomo, ciò significherebbe che il mondo era segretamente finito già molto prima e che già poteva capitare qualsiasi cosa, per esempio l’avventura di Gregorio Samsa che una mattina, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso: e che già poteva capitare qualsiasi cosa non piú nel distacco di un racconto, ma proprio nella realtà, diventata essa stessa allucinatoria e distruttiva. 1. Quest’articolo è apparso col titolo Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche nella

rivista «Nuovi Argomenti», n. 69-71, 1964, pp. 105-41. Salvo indicazione contraria, tutte le note presenti in questo testo sono di De Martino. 2. A proposito della già vasta letteratura relativa all’analisi e all’interpretazione della Stimmung apocalittica della società borghese in crisi nelle sue diverse manifestazioni culturali (letterarie, artistiche, filosofiche, di costume), ci limiteremo qui a ricordare, tra i contributi apparsi nel secondo dopoguerra: E. MOUNIER, La petite peur du XX e siècle (conferenze tenute dal 1946 al 1948 in occasione dei «Rencontres internationales de Genève» e della «Semaine de Sociologie»), in Œuvres, Seuil, Paris 1962, vol. III, pp. 341-423; G. SEDLMAYR, Verlust der Mitte, Salzburg 1955, 7 a ed. (1 a ed. 1948) e La Rivoluzione nell’arte moderna, trad. it. Milano 1961; F. ALTHEIM , Apocalyptik heute, in «Die neue Rundschau», 1954, fasc. 1; F. LE VAN BAUMER , Twentieth-Century Version of the Apocalypse, in «Cahiers d’histoire mondiale» a cura della Commissione internazionale per una storia dello sviluppo scientifico e culturale dell’umanità, voI. I, 1954, pp. 623 sgg.; la raccolta di articoli di vari autori contenuti nel fascicolo Apocalisse e Insecuritas dell’«Archivio di Filosofia» diretto da E. Castelli, Milano-Roma 1954: trad. it. H. FRIEDRICH, La lirica moderna, Garzanti, Milano 1961; R. VOLMAT, L’art psychopathologique, Puf, Paris 1956; H. PETRICONI, Das Reich des Untergangs (con saggi su R. Wagner, É. Zola, M. Barrès, A. Kubin, O. Spengler e Th. Mann), Hoffmann u. Campe, Amburgo 1958; C. MAGRIS, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi, Torino 1963; R. RUNCINI, I cavalieri della paura, in «Passato e Presente», n. 1617, 1960; e, naturalmente, i saggi di Günther Anders. 3. La tradizione apocalittica giudaico-cristiana è esaminata in H. BIETENHARD, Das tausendjährige Reich, Zwingli, Zurigo 1955. Per l’apocalittica protocristiana è da vedere in generale, oltre che O. CULLMANN, Christus und die Zeit. Die urchristliche Zeit- und Geschichtsauffassung, Evangelischer Verlag, Zurigo 1946, la problematica connessa al cosiddetto «rinvio» (Verzögerung) della parusia e, in particolare, H. CONZELMANN, Die Mitte der Zeit, Mohr, Tübingen 1954 (6 a ed. 1962), con larga bibliografia. Per il legame tra moderna filosofia della storia ed escatologia giudaico-cristiana, cfr. K. LÖWITH, Meaning in History, University of Chicago Press, Chicago 1948 (trad. ted. Weltgeschichte und Heilsgeschichte, Kohlmmer, Stuttgart 1953; trad. it. Significato e fine della storia, Ed. Comunità, Milano 1963); R. NIEBUHR, Faith and History, C. Scribner’s Sons, New York 1949. Un tentativo, del resto molto discutibile, di abbracciare in un’unica valutazione complessiva le diverse modalità storiche del millenarismo cristiano dal medioevo sino alla nostra epoca è il saggio di H. COHN, The pursuit of the Millennium: revolutionary messianism in the Middle Ages and its bearing on modern totalitarian movements, Mercury Books, London 1962. 4. Com’è noto il tema religioso della periodica distruzione e rigenerazione del mondo e della ripetizione periodica dell’atto cosmogonico è stato ripetutamente trattato da Mircea Eliade (Le mythe

de l’éternel retour, Gallimard, Paris 1948; Images et Symboles, Gallimard, Paris 1952; Naissance mystiques, Gallimard, Paris 1959; Renouvellement cosmique et eschatologie, in Méphistophélès et l’androgyne, Gallimard, Paris 1962, pp. 155 sgg.). 5. Le apocalittiche religiose dei popoli cosiddetti primitivi nell’epoca della crisi del colonialismo e della decolonizzazione contano già una copiosa bibliografia. Si veda, in particolare, G. GUARIGLIA Prophetismus und Heilserwartungs-Bewegungen als völkerkundliches und religionsgeschichtliches Problem, Berger, Horn-Wien 1959; V. LANTERNARI, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano 1960; W. E. MÜHLMANN, Chiliasmus und Nativismus: Studien zur Psychologie, Soziologie und historischen Kasuistik der Umsturzbewegungen, Dietrich Reimer, Berlin 1962. Cfr. anche M. ELIADE, Renouvellement cosmique ecc., già citato nella nota precedente. Raccolte panoramiche di contributi sulle apocalittiche religiose sia dei popoli cosiddetti primitivi, sia nell’ambito del Cristianesimo e delle altre religioni dell’ecumene si ritrovano in «Archives de sociologie des religions» n. 4 (luglio-dicembre 1957) e n. 5 (gennaio-giugno 1958), in S. L. THRUPP (a cura di), Millennial Dreams in Action: Essays in comparative study, Mouton, The Hague 1962, e in Religions de Salut, in «Annales du Centre d’Étude des religions», 2, 1962. 6. Per gli aspetti psicopatologici attinenti al nostro tema e per la compilazione delle note 7 e 8 ci siamo avvalsi della collaborazione del dott. Giovanni Jervis, che nella sua qualità di psichiatra fu già nostro collaboratore nella ricerca intorno al «tarantismo pugliese». Siamo inoltre debitori di alcune indicazioni bibliografiche al prof. Bruno Callieri della Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Roma. 7. Nella casistica psichiatrica il tema delirante della «fine del mondo», in quanto esplicito contenuto della coscienza, non è molto frequente, mentre estremamente ricorrenti sono le esperienze di estraniamento, di depersonalizzazione (e di derealizzazione), di perdita della realtà mondana, soprattutto per quanto concerne le fasi iniziali della schizofrenia. Tuttavia – come viene ulteriormente chiarito nel testo – in una prospettiva storico-culturale e antropologica, queste esperienze e quel tema (che la psichiatria per i suoi fini tiene accuratamente distinti) possono essere legittimamente valutati in modo unitario nella loro comune qualità di rischio psicopatologico che minaccia in varia misura le diverse apocalittiche culturali. Nel quadro di una bibliografia essenziale sulle apocalissi psicopatologiche – nel senso ampio che qui è stato chiarito – sono innanzi tutto da ricordare i dati relativi alla «perdita della funzione del reale», al «senso di stranezza del reale» e ai «sentimenti di vuoto» contenuti nelle due opere di P . JANET , Les obsessions et la psychastenie, Alcan, Paris 1903 e De l’angoisse à l’extase, Alcan, Paris 1928. Sulla piú recente impostazione dei problemi relativi alla depersonalizzazione (e alla derealizzazione) e per la relativa bibliografia sull’argomento, cfr. G. ZANOCCO, Aspetti strutturali del fenomeno della depersonalizzazione, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», suppl. vol. 83, 1959, pp. 343-519, e G. VELLA, Il concetto di

depersonalizzazione,

Studium,

Roma

1960.

In

prospettiva

psicoanalitica:

M.

BOUVET,

Dépersonalisation et relation d’objet, in «Revue française de Psychanalyse», vol. 24, n. 4-5, 1960, pp. 449-646, e N. PERROTTI, Aperçu théorique de la dépersonnalisation, in «Revue française de Psychanalyse», vol. 24, n. 4-5, 1960, pp. 365-448. Sui vissuti deliranti primari (primäre Wahnerlebnisse), sulla disposizione delirante (Wahnstimmung) e sulla percezione delirante (Wahnwahrehmung) si veda K. JASPERS, Allgemeine Psychopathologie, Springer, Berlin 1959, 7 a ed. (1 a ed. 1913), pp. 82 sgg. e B. CALLIERI, Aspetti psicopatologici-clinici della Wahnstimmung, in H. KRANZ

(a cura di), Psychopatologie heute, Georg Thieme, Stuttgart 1962, pp. 72 sgg. Sul

«mutamento pauroso» nella schizofrenia: C. F. COPPOLA, I limiti della schizofrenia, in «Ospedale psichiatrico», 25, 1957, pp. 259 sgg. e A. RUBINO e S. PIRO, Il mutamento pauroso nella schizofrenia, in «Il Pisani», 83, 1959, pp. 527 sgg. Per quel che concerne piú propriamente il Weltuntergangserlebnis

schizofrenico

sono

da

ricordare,

oltre

ad

A.

WETZEL,

Das

Weltuntergangserlebnis in der Schizophrenie, in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», vol. 78, 1, 1922, pp. 403 sgg. i contributi direttamente ispirati all’esistenzialismo heideggeriano; A. STORCH, Die Welt der beginnenden Schizophrenie und die archaische Welt. Ein existential-analytischer Versuch, in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», vol. 127, 1, 1930, pp. 109 sgg. e Tod und Erneuerung in der schizophrenen Daseins-Umwandlung, in «Archiv für Psychiatrie und Nervenkrankheiten», vol. 181, 3, 1949, pp. 275 sgg.; R. BILZ, Die Metapher des Untergangs in der Schizophrenie, in «Der Nervenarzt», 20, 1949, pp. 258 sgg.; A. STORCH

e C. KUHLENKAMPFF, Zum Verständnis des Weltuntergangs bei den Schizophrenen, in

«Der Nervenarzt», 21, 1950, pp. 102 sgg.; B. CALLIERI e A. SEMERARI, Alcuni aspetti metodologici e critici dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo, in «Rassegna di Studi Psichiatrici», vol. 43, n. 1, 1954, pp. 3-25; B. CALLIERI, Contributo allo studio psicopatologico dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo, in «Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria», vol. 16, n. 4-5, 1955, pp. 120-46. La applicazione della Gestaltpsychologie nello studio della percezione delirante schizofrenica è stata tentata da P. MATUSSEK, Untersuchungen über die Wahrnehmung: Veränderung der Wahrnehmungsweltbei beginnendem primänt Wahn, in «Schweitzer Archive für Neurologie und Psychiatrie», 189, 1952, pp. 279-319 e Untersuchungen über die Wahrnehmung: Die auf einemabnormen Vorrang von Wesenseigenshaften beruhenden Eigentümlichkeiten der Wahnwahrnehmung, in «Schweitzer Archive für Neurologie und Psychiatrie», 71, 1952, pp. 189210, e da K. CONRAD, Die beginnende Schizophrenie, Georg Thieme, Stuttgart 1958. Per il vissuto catastrofico negli stati epilettici vedi K. H. STAUDER, Zur Kenntnis des Weltuntergangserlebnisses in den epileptischen Ausnahmezuständen, in «Archive für Psychiatrie», 101, 1934, pp. 762 sgg. Per il «delirio di negazione» (sindrome di Cotard degli autori francesi) negli stati depressivi si veda il testo e i dati bibliografici in H. EY, Études psychiatriques, II, Desclèe de Brower, Paris 1950, pp. 427 sgg.

Sulla cosiddetta «reazione di Sansone» vedi P. SCHIFF, La paranoïa de destruction: réaction de Samson et phantasme de la fin du monde, in «Annales Médico-Psychologiques», n. 104, 1946, pp. 279 sgg. Ovviamente il tema delle apocalissi psicopatologiche appare variamente nella letteratura psicoanalitica, anzi la prima compiuta descrizione di un delirio di fine del mondo è quella che già nel 1913 Freud dette nel suo contributo Psychoanalytische Bemerkungen über einen autobiographisch beschriebenen Fall von Paranoia (Dementia paranoides), 1913 (Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt am Main 1973, tomo VIII. Si veda in particolare, M. SECHEHAYE , Journal d’une schizophrène, Puf, Paris 1950 [trad. it. di Cecilia Bellingardi, Diario di una schizofrenica, Giunti-Barbera, Firenze 1955]. Infine nella prospettiva della Tiefenpsychologie junghiana, cfr. G. R. JUNG ,

Symbole der Wandlung, Rascher, Zurigo 1952, pp. 758 sgg.

8. Un progetto comparativo del genere è già largamente preparato dalla copiosa letteratura relativa ai rapporti tra vita culturale e psicopatologia e dal vasto processo in atto attraverso cui la psicopatologia occidentale cerca oggi di sottoporre a revisione critica i suoi tradizionali dogmatismi etnocentrici, naturalistici e di classe. Oltre le ricerche sui tratti patologici nella biografia di personaggi di rilievo (Hölderlin, Nietzsche, Van Gogh, Verlaine ecc.), e oltre ai tentativi di determinare il rapporto fra malattia e creazione culturale, o di individuare i modi con i quali la malattia mentale viene rappresentata nell’arte (per esempio la melanconia in Dürer), la moderna psicopatologia si è venuta aprendo a tutta una serie di comparazioni interculturali. Si sono cosí venute istituendo ricerche: a) sulla assenza o presenza di malattie mentali presso i cosiddetti popoli primitivi e in generale presso culture extraoccidentali; b) sul modellamento dei quadri nosografici – soprattutto delle nevrosi – in relazione ai diversi contesti culturali, alle varie epoche di una stessa cultura, alle diverse classi di una stessa società, ai momenti critici salienti di una determinata vita comunitaria; c) sul confronto interculturale delle tecniche modificatrici degli stati di coscienza (tecniche psicoanalitiche, sciamanistiche, mistiche ecc.). In generale è da osservare che la verstehende Psychopatologie e la Daseinsanalyse hanno concorso a raccorciare le distanze che impedivano in passato qualsiasi feconda collaborazione fra studiosi di fenomeni culturali e studiosi della psiche malata. D’altra parte con le ricerche promosse dalla Cultural Anthropology, dalla psichiatria sociale e dalla etnopsichiatria, come anche con i lavori ispirati al neofreudismo americano, il rapporto fra malattia mentale e cultura (e fra malattie mentali e società) è entrato in una nuova fase, orientandosi sia verso la problematizzazione degli irrelati corporativismi specialistici tradizionali e dei limiti europeocentrici della psichiatria classica, sia verso la ricerca di una metodologia della ricerca interdisciplinare. Per la problematica sociopsichiatria ed etnopsichiatria, e per la già vasta bibliografia sull’argomento, si veda: CH. ASTRUP , Nervöse Erkrangunken und soziale Verhältnisse, Volk und Gesundheit, Berlin 1956; M. K. OPLER (a cura di), Culture and mental Health, Macmillan, New York 1959; M. PFLANZ, Sozial-kulturelle Faktoren und psychische

Störungen, in «Fortschritte der Neurologie und Psychiatrie», 28, 1960, pp. 471 sgg.; M. MEAD, Psychiatry and Ethnology, in «Psychiatrie der Gegenwart», 3, 1961, pp. 452 sgg.; B. CALLIERI e L. FRIGHI ,

Inquadramento dei problemi di sociopsichiatria, in «Rivista Sperimentale di Freniatria»,

1964; H. LENZ, Vergleichende Psychiatrie. Die Beziehung von Kultur, Soziologie und Psychopathologie, Maudrich, Wien 1964, nonché gli Atti del I° Congresso internazionale di psichiatria sociale (Londra, agosto 1964). 9. Senza dubbio questo «documento interno», per la sua immediatezza, può esporre al pericolo di incaute generalizzazioni antropologiche e di arbitrarie interpretazioni; ma appunto per questo lo studio delle apocalissi culturali della società borghese in crisi dovrà, nell’ulteriore sviluppo del progetto di ricerca, essere integrato in una piú vasta prospettiva di controllo e di confronto che abbracci le altre apocalissi storico-culturali e i loro corrispondenti rischi psicopatologici. 10. Hans Sedlmayr accenna espressamente, in Verlust der Mitte cit., p. 165, al documento psicopatologico come strumento atto a illuminare da un nuovo lato alcuni caratteri «sintomatici» della cosiddetta «arte moderna», quali si manifestano nell’espressionismo, nel futurismo, nel cubismo e nel costruttivismo, nel surrealismo e nell’arte onirica, ecc. R. VOLMAT, in L’art psychopathologique cit., pp. 215 sgg., dedica, in una prospettica prevalentemente psicopatologica, un intero capitolo alla posizione dell’arte moderna. Cfr. anche G. ROSOLATO, in «Confinia Psychiatrica», 4, 1964. 11. J. P. SARTRE, La nausée, Gallimard, Paris 1938. La traduzione in italiano dei vari passi segue per lo piú quella del Fonzi (Mondadori, Milano 1961). I passi riportati in corpo tipografico diverso si ritrovano rispettivamente alle pp. 11 sg., 15, 101 sg., 105, 159 sg. e 153 sg. dell’ed. francese e alle pp. 7 sg., 10, 84 sg., 86, 136 sg. e 171 sg. della trad. italiana. 12. Ibid., p. 15. 13. Ibid., p. 101. 14. Ibid., p. 105. 15. A. CAMUS, Le mythe de Sisyphe: essai sur l’absurde, Gallimard, Paris 1962 (1 a ed. 1942), pp. 24 sgg. 16. A. MORAVIA, La noia, Milano 1962 (1 a ed. 1960). Per i due passi riportati, vedi pp. 7 sg. e 70. 17. Ibid., pp. 109-10. 18. H. V. HOFMANNSTHAL, Der Brief des Lord Chandos, in Prosa, II, Frankfurt am Main 1951, p. 7. 19. J.-P. SARTRE, La nausea cit., p. 159. 20. Ibid., p. 153. 21. A. RIMBAUD, Œuvres, Garnier, Paris 1960, p. 286.

22. K. JASPERS, Allgemeine Psychopathologie cit., pp. 82 sgg.: cfr. H. EY, Études psychiatriques cit., pp. 207 sgg. Le opere da ora in poi citate col solo nome dell’autore e con l’anno della pubblicazione rinviano alla bibliografia contenuta nelle note 1 e 6. 23. K. JASPERS, Allgemeine Psychopathologie cit., I. c. 24. M. PROUST, À la recherche du temps perdu, Gallimard, Paris 1959, tomo I, pp. 5 sgg. 25. P. JANET, De l’angoisse à l’extase cit., II, p. 63; cfr. Les obsessions et la psychastenie, cit., pp. 289-90, 294, 297, 314 («perte de la fonction du réel» e «sentiment d’étrangeté»). 26. G. REDA, Perdita della visione mentale e depersonalizzazione nella psicosi depressiva, in «Atti del Symposium sulla “Sindrome depressiva” di Rapallo», Roma 1960, citato da Vella, Il concetto di depersonalizzazione cit., p. 56. Per la «banalità» degli ambiti percettivi coinvolti nel vissuto di mutamento e di spaesamento (per esempio alcune sedie messe in fila, il riflesso del sole sulla strada, tre tavole bianche in un caffè), cfr. W. MAYER-GROSS , Clinical Psychiatry, Cassel & Co., London 1958, p. 238. 27. P. JANET, De l’angoisse à l’extase cit., II, p. 62. Cfr. l’analoga dichiarazione di un altro malato: «Nomino gli oggetti, li riconosco se volete, ma questo è tutto: non penso a servirmene, non li situo, non li inquadro». 28. M. SECHEHAYE, Journal d’une schizophrène cit., pp. 20 sgg. Anche nel caso di René l’accadere psicotico si inaugura con un inizio «derisorio»: essa infatti patisce il suo primo vissuto di irrealtà una volta, in campagna, udendo un canto di bambini tedeschi: «... corsi nel nostro giardino e mi misi a giocare per far tornare le cose come tutti i giorni» (ibid., p. 12). 29. A. STORCH, Tod und Erneuerung in die schizophrenen Daseins-Umwandlung cit., pp. 286 sgg. 30. P. JANET, De l’angoisse à l’extase cit., II, p. 47. 31. Ibid., p. 51. 32. H. EY, Études psychiatriques cit., II, p. 430. 33. P. JANET, De l’angoisse à l’extase cit., II, p. 74. 34. P. SCHIFF, La paranoïa de destruction cit., pp. 279 sgg. 35. È questo, per lo storico della cultura e per l’antropologo, il criterio fondamentale di valutazione di tutte le apocalissi culturali, religiose o profane che siano. Cosí per esempio il tema apocalittico protocristiano manifesta il suo reale momento escatologico proprio nel continuo differimento della parusia e nel margine che in tal modo viene lasciato alla testimonianza mondana della charitas che sta al di sopra della fede e della speranza (Prima lettera ai Corinzi, 13.13). Nel periodo compreso fra la morte di Gesú e la Pentecoste si distende l’epoca critica per eccellenza della comunità cristiana primitiva, la grande prova della sua produttività culturale. Questa epoca critica dovette assumere la forma di un’attesa spasmodica del ritorno del Risorto e del compimento

immediato della sua promessa: a ciò accennano le apparizioni post mortem di Gesú agli apostoli e ai discepoli. Ma questi «ritorni del morto-risorto», che indirettamente testimoniano di un’apocalisse imminente che rischiava di non lasciar piú nessun margine operativo mondano, appaiono nel Vangelo riplasmati nel senso di restituire progressivamente respiro a quel margine, e di consentire quindi il dispiegarsi di una «civiltà cristiana». Cosí l’Ascensione chiude il ciclo delle apparizioni di Gesú, suggellandone la fine con l’invito di non guardar piú verso il cielo nell’attesa dell’immediato compimento della promessa: e con l’ultima apparizione di Gesú non la data della parusia viene comunicata, ma l’annunzio di una opera da compiersi sino agli estremi confini della terra mercé dello Spirito Santo e della dynamis da esso conferita. In questa riplasmazione gli stessi «ritorni del morto-risorto» vissuti nel periodo della crisi vengono assunti come prova della Risurrezione, e l’ultima apparizione e la Pentecoste acquistano il significato di garanzia del ritorno definitivo di Gesú, senza dubbio certissimo, ma abbastanza indeterminato nel suo «quando» da lasciare aperta l’epoca della testimonianza cristiana in questo mondo, l’epoca della Chiesa di Cristo. Si venne cosí istituendo quella caratteristica tensione cristiana fra il «già» avvenuto (la morte, la risurrezione, la promessa del Cristo) e il «non ancora» (la seconda parusia), una tensione nella quale si iscrive il «qui» e l’«ora» della testimonianza nel mondo, secondo una dialettica operativa che racchiude il momento realmente escatologico di questa illustre apocalittica culturale. 36. La sindrome del señorito satisfecho, del «signorino soddisfatto» è una diagnosi elaborata da José Ortega y Gasset per definire lo spagnolo medio in La ribellione delle masse, trad. di Salvatore Battaglia, il Mulino, Bologna 1962 [1930] [Nota del traduttore francese]. 37. Particolare interesse presenta, a questo riguardo, la contrapposizione fra l’attiva Weltvernichtung fenomenologica e il Weltuntergangserlebnis, contrapposizione che andrebbe ulteriormente approfondita: si veda, sull’argomento, G . DORFLES , Fenomenologia e Psichiatria, in «Aut-Aut», n. 64, 1961, pp. 368 sgg. 38. H. SEDLMAYR, La Rivoluzione dell’arte moderna, Garzanti, Milano 1961, pp. 213 sgg., ha messo in evidenza il rapporto fra la protesta del dostoevskiano «uomo del sottosuolo» e la «pazzia deliberata» dei due manifesti surrealisti. 39. A. CAMUS, Le mythe de Sisyphe cit., p. 28.

Appendice 2 Tavola delle corrispondenze

Libro Edizione Einaudi 1 (+ Pàstina) 2

Archivio De Martino

Domani ci sarà un mondo? 1.

articolo digitalizzato Appendice, pp. 68796

23.16, 98-100 (riassunto)

pp. 5-6

23.13, 1-2

1.1

102.2

23.11, 1-4

1.2

102

23.11, 5

1.3

23

23.11, 10-13

1.4

103

23.11, 7-8

1.5

100, 100.1,

23.11, 14, 15-17

2.

Il progetto

Capitolo 1

1.6

100.3

23.11, 19-22

1.7

100.4, 101

13-11, 23, 24

1.8

104, 104.1

23.11, 25, 26

2.1 2.2

23.11, 93-98

3.1

108

23.11, 6

3.2

110

22.8, 119

3.3

111

22.8, 121, 122

3.4

112

22.11, 16

3.5

113.1-2

3.6

114

23.2, 16

3.7

117, 118

23.11, 134; 23.4, 14

3.8

120

23.11, 122

3.9

123

23.11, 123-127

3.10

124, 124.1

23.11, 135-138

3.11

125

23.11, 144-151

3.12

126, 126.1

23.11, 152, 153

3.13

127

23.11, 155

3.14

131, 132

23.4, 12-13

3.15

135

3.16

136, 137

Capitolo 2 1.1

22

23.1, 4-7

1.2

14, 14.1-3

23.1, 10-14

1.3

47

23.1, 17-19

1.4

140

23.1, 20, 21

1.5

14.7

23.1, 23, 24

2.1

10

23.1, 33, 34

2.2

61, 11

23.1, 36, 37

2.3

382, 347

23.1, 39, 40, 44

3.1

95

23.2, 1-5

3.2

85, 86

23.2, 6, 7

3.3

82

3.4

88

23.2, 12

3.5

81

23.2, 15

3.6

13

3.7

9

3.8

98

3.9

78, 79

3.10

83, 84

23.2, 20, 21

3.11

91

23-2, 23

3.12

90, 92

23.2, 27, 24

4.1

337

23.4, 24

4.2

338

23.4, 26

4.3

69

23.4, 17-19

4.4

340, 339, 341, 342,

23.2, 17, 18

343 4.5

30

23.4, 34-36

5.1

16, 16.1-5

23.5, 7-15

5.2

26

23.5, 20-22

5.3

28

23.5, 24-27

5.4

31

23.5, 33

5.5

64

23.9, 1-3

5.6

70

23.10, 10

5.7

66

23.10, 1

5.8

27.1, 27.3

23.5, 29, 30, 3436

1.1

152, 153

23.14, 21, 27

1.2

142, 143

23.14, 22, 26

1.3

144

23.14, 28

1.4

145

23.12, 9

Capitolo 3

1.5

146

23.14, 25

1.6

149

1.7

150, 151, 154, 155

23.14, 23, 24

1.8

156

23.11, 140, 141

1.9

157

23.11, 139

1.10

158

2.1

160

23.12, 12

2.2

171

23.12, 8

2.3

173

23.12, 34, 35

2.4

159

23.12, 36

2.5

164

23.12, 38-41

2.6

165

23.12, 44, 45

3.1

174, 174.1

23.12, 47-57

3.2

167, 168, 174.9, 4, 5, 6, 3, 8

23.12, 59-68, 72, 73, 75-77

3.3

169, 170

23.12, 76, 77

3.4

177, 177.3

23.12, 82

4.1

196

23.13, 5-8

4.2

197.1

23.12, 37

4.3

198

23.15, 11

4.4

199, 200

22.8, 134, 66

4.5

201

23.15, 12

1.1

213, 214

23.15, 1-4

1.2

215, 216, 217

23.15, 5-11

1.3

219

23.16, 52, 53

2.1

211.2, 211.1

23.15, 15, 16

2.2

211.3

23.15, 17

2.3

211.6

23.15, 18

2.4

208

23.15, 19

2.5

209

23.15, 22

2.6

211.4

23.15, 24

Capitolo 4

2.7

202, 206

2.8

221

2.9

210, 210.1

23.15, 29, 36

23.15, 37-40

Capitolo 5 1.1

260.3

1.2

261

1.3

262

1.4

263

1.5

265, 266, 267

1.6

268

1.7

269

23.4, 22, 23

1.8

270

23.16, 31

1.9

271

23.16, 30

1.10

272

2.1

273

23.16, 16

23.16, 35

2.2

277

2.3

282, 283, 284, 285

2.4

287

3.1

289, 290, 290.1

4.1

291, 291.1, 292, 292.1

5.1

295

5.2

296, 297

6.1

298

6.2

299, 300

7.1

302, 303

23.17, 15; 23.17, 14

Capitolo 6 1.1

22.6, 1

1.2

22.6, 6

1.3

22.6, 2-5

2.1

362, 363

22.5, 2, 3

2.2

364, 365

22.5, 4

2.3

366, 367

22.5, 5, 6

2.4

371

22.5, 10,11

2.5

373, 374

22.5, 13, 14

2.6

395, 375

22.5, 16, 17

3.1

229

22.7, 1, 2

3.2

228

22.7, 4, 5

3.3

259

22.7, 8

3.4

252

22.7, 9, 10

3.5

247.1

22.7, 11, 12

3.6

256

22.7, 16

3.7

255

22.7, 18, 19

3.8

257

22.7, 20

3.9

249

22.7, 22

3.10

254

22.7, 23, 24

3.11

250.1

22.7, 26

4.1

241

22.7, 29, 30

4.2

232

22.7, 31-34

4.3

235

22.7, 37

4.4

253

22.7, 38, 39

4.5

236, 237

22.7, 41-44

4.6

238

22.7, 53-56

4.7

244

4.8

245

4.9

258

4.10

242

22.7, 57-60

4.11

243

22.7, 61-64

1.1

12, 10 (ed. Pàstina, pp. 9-10, 8)

22.4, 13, 10

1.2

33 (ed. Pàstina, pp. 20, 21)

22.4, 34

Capitolo 7

1.3

7, 9 (ed. Pàstina, pp. 62-65)

22.8, 7-9

1.4

14 (ed. Pàstina, p. 69)

22.8, 15

1.5

16 (ed. Pàstina, pp. 71, 72)

22.8, 17

1.6

17, 18 (ed. Pàstina, pp. 72, 73)

22.8, 18, 19

2.1

345

2.2

350, 351

23.16, 34

2.3

357

22.11, 12, 13

2.4

355

2.5

360

3.1

305

22.11, 2

3.2

305.2, 4, 5

22.11, 1, 3-7, 810

3.3

307

22.11, 27-29

3.4

309

22.11, 31, 32

3.5

311

22.11, 33

3.6

318

22.11, 84, 85

3.7

319

22.11, 86

3.8

322.2

22.11, 71

3.9

324

22.11, 77

3.10

325

22.11, 73

3.11

329.4

22.11, 80

3.12

74-77 (ed. Pàstina, pp. 128-30)

22.8, 83-85

4.1

35, 37 (ed. Pàstina, pp. 88-90)

22.8, 37-39

4.2

41 (ed. Pàstina, pp. 95, 96)

4.3

47 (ed. Pàstina, p. 101)

4.4

49 (ed. Pàstina, pp. 102, 103)

4.5

51, 52 (ed. Pàstina, pp. 104, 105)

4.6

55 (ed. Pàstina, pp. 108, 109)

4.7

56-58 (ed. Pàstina, pp. 109-11)

4.8

101 (ed. Pàstina, pp. 152, 153)

4.9

103 (ed. Pàstina, pp. 153, 154)

5.1

379

5.2

104 (ed. Pàstina, pp. 154, 155)

5.3

380

5.4

381

23.14, 57

5.5

385

23.4, 6

5.6

387

23.4, 7

5.7

388

5.8

391

5.9

393

5.10

397

5.11

396

1. E. DE MARTINO, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio, Einaudi, Torino 2002. 2. E. DE MARTINO, Scritti filosofici, a cura di Roberto Pàstina, il Mulino, Bologna 2005.

Bibliografia

Pubblicazioni di Ernesto De Martino. Sono qui indicati sia i libri inerenti alla ricerca scientifica, con le rispettive riedizioni, sia i principali saggi e le corrispondenze di Ernesto De Martino. Una bibliografia completa è disponibile sul sito dell’Associazione Internazionale Ernesto De Martino (www.ernestodemartino.it).

Libri. Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Laterza, Bari 1941; 2 a ed. Argo, Lecce 1995. Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Einaudi, Torino 1948; 2 a ed. 1958; con un’introduzione di Cesare Cases, Boringhieri, Torino 1973 e 1997; con una postfazione di Gino Satta, Boringhieri, Torino 2007. Trad. fr. Le monde magique, Marabout, Verviers 1971; 2 a ed. con una postfazione di Silvia Mancini, Institut Sanofi-Synthélabo, Paris 1999. Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1958; 2 a ed. Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Boringhieri, Torino 1975; 3 a ed. con un’introduzione di C. Gallini, Boringhieri, Torino 2000. Sud e magia, Feltrinelli, Milano 1959; rist. 1993 e 1998; nuova ed. a cura di Fabio Dei e Antonio Fanelli, Donzelli, Roma 2015. Trad. fr. di Claude Poncet, Italie du Sud et magie, Gallimard, Paris 1963; 2 a ed. Institut Sanofi-Synthélabo, Paris 1999. La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il Saggiatore, Milano 1961; rist. con un’introduzione di Giuseppe Galasso, il Saggiatore, Milano 1976; con un’introduzione di Clara Gallini, il Saggiatore, Milano 2011. Trad. fr. di Claude Poncet, La terre du remords,

Gallimard, Paris 1966; 2 a ed. Institut Sanofi-Synthélabo, Paris 1999. Furore simbolo valore, il Saggiatore, Milano 1962; rist. 1980; con introduzione di Marcello Massenzio, 2002. Magia e civiltà, Garzanti, Milano 1962. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, cura e introduzione di Clara Gallini, Einaudi, Torino 1977; nuova ed. con un’introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio, 2002, 2012, 2014. Trad. fr. a cura di Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio: La fin du monde. Essai sur les apocalypses culturelles, Édition EHESS, Paris 2016. Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, a cura di Marcello Massenzio, Argo, Lecce 1995. Scritti filosofici, a cura di Roberto Pàstina, il Mulino, Bologna 2005.

Saggi in riviste scientifiche e periodici culturali. Percezione extrasensoriale e magismo etnologico, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», n. 18, 1942, pp. 1-19; n. 19-20, 19431946, pp. 31-84. Il «mito» marxista, in «Avanti!», n. 204, 29 agosto 1948. Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, in «Società», vol. 5, n. 3, 1949, pp. 411-35. Ancora sulla storia del mondo popolare subalterno, in «Società», vol. 6, n. 2, 1950, pp. 306-9. Note lucane, in «Società», vol. 6, n. 4, 1950, pp. 650-67. Note di viaggio, in «Nuovi Argomenti», n. 2, 1953, pp. 47-79. Etnologia e cultura nazionale negli ultimi dieci anni, in «Società», vol. 9, n. 3, 1953, pp. 313-42. ENGELS, F., Sulle origini del Cristianesimo, Rinascita, Roma 1953, in «Società», vol. 9, n. 4, 1953, pp. 613-15. Fenomenologia religiosa e storicismo assoluto, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», n. 24-25, 1953-1954, pp. 1-25. Considerazioni storiche sul lamento funebre lucano, in «Nuovi Argomenti», n. 12, 1955, pp. 1-42.

Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in «Aut Aut», n. 31, 1956, pp. 17-38. Storicismo e irrazionalismo nella storia delle religioni, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», vol. 28, n. 1, 1957, pp. 89-107. Perdita della presenza e crisi del cordoglio, in «Nuovi Argomenti», n. 30, 1958, pp. 49-92. Mito, scienze religiose e civiltà moderna, in «Nuovi Argomenti», n. 37, 1959, pp. 4-48. Introduzione, in A. BAUSANI (a cura di), La religione nell’URSS, Feltrinelli, Milano 1961. Il palazzo delle nozze. Nuovi simboli e antichi pregiudizi religiosi nella Russia sovietica, in «L’Espresso Mese», II, 3, marzo 1961, pp. 5867. Caproni, parrucche ed altro (Risposta a C. Pellizzi), in «Rassegna Italiana di Sociologia», vol. 2, n. 3, luglio-settembre 1961, pp. 389-99. Postilla a Scarcia, in «Nuovi Argomenti», n. 59-60, novembre 1962 febbraio 1963, pp. 57-62. Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, in «Nuovi Argomenti», n. 69-71, 1964, pp. 105-41.

Corrispondenze. e BOCCASSINO, R., Lettere. Una vicinanza discreta, cura e introduzione di Francesco Pompeo, Oleandro, Roma 1996. DE MARTINO, E., Dal laboratorio del «Mondo magico». Carteggi 19401943, cura e introduzione di Pietro Angelini, Argo, Lecce 2007. DE MARTINO, E. e PAVESE, C., La collana viola. Lettere 1945-1950, Bollati Boringhieri, Torino 1991. DI DONATO, R. (a cura di), Compagni e amici. Lettere di Ernesto de Martino e Pietro Secchia, La Nuova Italia, Firenze 1993. DI DONATO, R. e GANDINI, M. (a cura di), Le intrecciate vie. Carteggi di Ernesto de Martino con Vittorio Macchioro e Raffaele Pettazzoni, ETS, Pisa 2015. DE MARTINO, E.

Archivi dell’etnografia meridionale. Note di Campo. Spedizione in Lucania, 30 sett.-31 ott. 1952, a cura di Clara Gallini, Argo, Lecce 1995. L’opera a cui lavoro. Apparato critico e documentario alla «Spedizione in Lucania», a cura di Clara Gallini, Argo, Lecce 1996. I viaggi nel Sud di Ernesto de Martino, a cura di Clara Gallini e Francesco Faeta, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Ricerca sui guaritori e la loro clientela, a cura di Adelina Talamonti, introduzione di Clara Gallini, Argo, Lecce 2008. Etnografia del tarantismo pugliese. I materiali della spedizione nel Salento del 1959, a cura di Amalia Signorelli e Valerio Panza, Argo, Lecce 2011.

Bibliografia generale. La struttura dell’esistenza, Paravia, Torino 1939. – Introduzione all’esistenzialismo, Bompiani, Milano 1942. – Esistenzialismo positivo, Taylor, Torino 1948. ACKERKNECHT, E. H., Psychopatology, Primitive Medicine and Primitive Culture, in «Bulletin of the History of Medicine», 14, 1943. ADLER, G., Zur Analytischen Psychologie, Rascher Verlag, Zürich 1952. ADORNO, T. W., Minima moralia, Einaudi, Torino 1954, trad. e pref. di Renato Solmi. – e HORKHEIMER, M., Dialettica dell’illuminismo, trad. di Renato Solmi, Einaudi, Torino 2010 [1947]. ALTHEIM, F., Apokalyptik Heute, in «Die neue Schweue Rundschau», 1, 1954. – Terra Mater: Untersuchungen zur altitalische Religionsgeschichte, Töpelmann, Giessen 1931. ANDERS, G., Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961. – e EATHERLY , C ., La coscienza al bando. Il carteggio del pilota di ABBAGNANO, N.,

Hiroshima Claude Eatherly con Günter Anders, Einaudi, Torino 1962. – L’uomo è antiquato, il Saggiatore, Milano 1963. ANGELINI, P., L’uomo sul tetto. Mircea Eliade e la “storia delle religioni”, Bollati Boringhieri, Torino 2001. «Annales du Centre d’étude des religions», Religions de Salut, 2, 1962. Apocalisse e Insecuritas, in «Archivio di filosofia», 1, 1954. «Archives de sociologie des religions», 4, luglio-dicembre 1957 e 5, gennaio-giugno 1958. ASTRUP, CH., Nervöse Erkrangunken und soziale Verhältnisse, Volk und Gesundheit, Berlino 1956. BACHELARD, G., L’air et les songes. Essai sur l’imagination du mouvement, José Corti, Paris 1943; trad. it. Psicanalisi dell’aria, Red, Como 1988. BALANDIER, G., Le détour. Pouvoir et modernité, Fayard, Paris 1985. BALDUCCI, E., La fine del mondo, in «Testimonianze», 207, 1978. BARNETT, H. G., Innovation. The Basis of Cultural Change, McGraw Hill Book Company, New York 1953. – Indian Shakers. A Messianic Cult of the Pacific Northwest, Southern Illinois University Press, Carbondale 1957. BAUMER, F. LE VAN, Twentieth-Century Version of the Apocalypse, in «Cahiers d’histoire mondiale», 1, 1954. BECKETT, S., Aspettando Godot, Einaudi, Torino 2018, a cura di Carlo Fruttero. BENEDICT, R., Patterns of Culture, Houghton Mifflin, New York, 1934; trad. it. Modelli di cultura, Laterza, Roma-Bari 2010. BENEDUCE, R., Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Carocci, Roma 2007. BERARDINI, S. F., Ethos Presenza Storia. La ricerca filosofica di Ernesto De Martino, Università degli Studi di Trento,Trento 2013. BERG, J. H. VAN DEN, The Fenomenological Approach to Psychiatry. An Introduction to Recent Phenomenological Psychopathology, Thomas, Springfield 1955; trad. it. Fenomenologia e psichiatria. Introduzione all’analisi esistenziale, Bompiani, Milano 1961.

L’évolution créatrice, Puf, Paris 1907; trad it. L’evoluzione creatrice, a cura di Marinella Acerra, Rizzoli, Milano 2012. BERT, J.-F. e BASSO, E. (a cura di), Foucault à Münsterlingen. À l’origine de l’«Histoire de la folie», Éditions de l’EHESS, Paris 2015. BIANCO, F., Intorno ai rapporti tra l’ontologia fenomenologica e il problema della demitizzazione, in «Archivio di filosofia», 1, 1960. BIETENHARD, H., Das tausendjährige Reich, Zwingli, Zurigo 1955. BILZ, R., Die Metapher des Untergangs in der Schizophrenie, in «Der Nervenarzt», 20, 1949. BINSWANGER, L., Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins, Niehaus, Zürich 1942. – Schizophrenie, Gunther Neske, Pfullingen 1957; trad. it. di Giorgio Giacometti, Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia, a cura di Eugenio Borgna e Mario Galzigna, Marsilio, Venezia 1994. – Melancholie und Manie, Gunther Neske, Pfullingen 1960; trad. it. Melanconia e mania: studi fenomenologici, Boringhieri, Torino 1971. BLOCH, E., Thomas Müntzer teologo della rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 2010 [ed. orig. 1921]. BLOCH, M., Apologia della storia, Einaudi, Torino 1950. BOSCO, U., Testimonianze su Pierro, Laterza, Bari 1969. BOUVET, M., Dépersonalisation et relation d’objet, in «Revue française de Psychanalyse», vol. 24, n. 4-5, 1960. BOYER, R. e LOT-FALK, È. (a cura di), Les religions de l’Europe du Nord, Fayard-Denoël, Paris 1974. BRANDIS, E. e DMITREVSKIJ, V., Il futuro e i suoi precursori e i suoi falsi profeti, in «Comunicazioni di massa», 3-4, 1964. BRECKMAN, W., Marx, The Young Hegelians and the Origins of Radical Social Theory. Dethroning the Self, Cambridge University Press, Cambridge 1998. BRELICH, A., Tre variazioni romane sul tema delle origini, Ateneo, Roma 1955. – Prolégomènes à une histoire des religions, in H.-C. PUECH (a cura di), Histoire des religions, Gallimard (coll. «Enciclopédie de la Pléiade»), Paris 1970, tomo I. BERGSON,

H.,

Storia ed escatologia, Bompiani, Milano 1962. CALLIERI, B., Contributo allo studio psicopatologico dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo, in «Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria», vol. 16, 4-5, 1955. – Aspetti psicopatologici-clinici della Wahnstimmung, in KRANZ, H. (a cura di), Psychopatologie heute, Georg Thieme, Stuttgart 1962. – e SEMERARI, A. , Alcuni aspetti metodologici e critici dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo, in «Rassegna di Studi Psichiatrici», vol. 43, 1, 1954. – e FRIGHI, L., Inquadramento dei problemi di sociopsichiatria, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», 1964. CAMUS, A., L’Étranger, Gallimard, Paris 1942; trad. it. di Sergio Claudio Perroni, Lo straniero, Bompiani, Milano 2019. – Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942; trad. it. di Attilio Borelli, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 2012. CANTIMORI, D., Storia e storiografia in Benedetto Croce, in «Terzo Programma», n. 2, 1966. CANTONI, R., Il pensiero dei primitivi, Garzanti, Milano 1941. CARGNELLO, D., Dal naturalismo psicoanalitico alla fenomenologia antropologica della «Daseinanalyse», in «Archivio di filosofia», Filosofia della alienazione e analisi esistenziale, 3, 1961. – Alterità e alienità. Introduzione alla fenomenologia antropoanalitica, Feltrinelli, Milano 1966. CARPITELLA, D., Ernesto De Martino ha sconvolto la tradizione accademica. La necessità dei simboli permane a lungo anche quando le strutture sociali sono radicalmente cambiate, in «Avanti!», 12 aprile 1978. CARUSO, P., Intervista a C. Lévi-Strauss, in «Aut-Aut», 77, 1963. CASES, C., Un colloquio con Ernesto de Martino e FORTINI, F., Gli ultimi tempi, in «Quaderni piacentini», n. 23-24, maggio-agosto 1965. – Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, Einaudi, Torino 1985. CASSIN, B. (a cura di), Vocabulaire européen des philosophies. Dictionnaire des intraduisibles, Seuil-Le Robert, Paris 2004. BULTMANN, R.,

Il concetto di forma simbolica nella costruzione delle scienze dello spirito, in Mito e concetto, La Nuova Italia, Firenze 1992. CHARUTY, G., Le couvent des fous, Flammarion, Paris 1987. – Folie, mariage et mort. Pratiques chrétiennes de la folie en Europe occidentale, Seuil, Paris 1997. – Du catholicisme méridional à l’anthropologie des sociétés chrétiennes, in ALBERA, D., BLOK, A. e BROMBERGER, C. (a cura di), L’anthropologie de la Méditerranée, Maisonneuve et Larose, Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, Paris - Aix-en-Provence 2001. – Ernesto De Martino. Les vies antérieures d’un anthropologue, Éditions Parenthèse - Maison Méditerranéenne des Sciences de l’Homme, Marseille 2009; trad. it. di Adelina Talamonti, Ernesto De Martino. Le precedenti vite di un antropologo, Franco Angeli, Milano 2010. – Le moment néoréaliste de l’anthropologie démartinienne, in «L’Homme», 195-196, 2010. – “Occorre ridiscendere agli inferi”. Follia e storia tra De Martino e Foucault, in «Aut Aut», 366, aprile-giugno 2015. CHERCHI, P., Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto De Martino, Liguori, Napoli 1994. – Il peso dell’ombra. L’etnocentrismo critico di Ernesto De Martino e il problema dell’autocoscienza culturale, Liguori, Napoli 1996. CHESTOV, L., Kierkegaard et la philosophie de la littérature existentielle. Vox clamantis in deserto, Vrin, Paris 1998. CHIARA, P., Mi fo coraggio da me, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1963. CITATI, P., La schizofrenia nel libro postumo di Ernesto De Martino. Foreste pietrificate dietro la realtà, in «Corriere della Sera», 20 aprile 1978. CLASTRES, H., La terre sans mal. Le prophétisme tupi-guarani, Seuil, Paris 1975; trad. it. e cura di Francesco Boccolari, La terra senza il male. Il profetismo tupi-guaraní, Mimesis, Milano 2016. COHN, N., The pursuit of the Millennium: Revolutionary Messianism in the Middle Age and its Bearing on Modern Totalitarian Movements, Mercury Books, London 1962 [1957]; trad. it. I fanatici dell’Apocalisse, CASSIRER, E.,

Edizioni di Comunità, Milano 1965. – Licenza per un genocidio. «I Protocolli degli anziani di Sion»: storia di un falso, Einaudi, Torino 1969. COLLINGWOOD, R. G., The idea of History, Clarenton Press, Oxford 1946; trad. it. Il concetto di storia, a cura di D. Pesce, Fabbri, Milano 1966. CONRAD, K., Die beginnende Schizophrenie, Georg Thieme, Stuttgart 1958. CONZELMANN, H., Die Mitte der Zeit, Mohr, Tübingen 1954; trad. it. Il centro del tempo: la teologia di S. Luca, Piemme, Casale Monferrato 1996. COOMARASWAMY, A. K., Hinduism and Buddhism, Philosophical Library, New York 1943; trad. it. di Ubaldo Zalino, Induismo e buddismo, Rusconi, Milano 1987, 2 a ed. COPPOLA, C. F., I limiti della schizofrenia, in «Ospedale psichiatrico», 25, 1957. COQUET, M. e MACHEREL, C. (a cura di), Cultures d’enfance, CNRS Éditions, Paris 2014. CORNU, A ., Karl Marx. L’uomo e l’opera. Dallo hegelismo al materialismo storico, 1818-1845, Nuova Biblioteca del Popolo, Milano 1946. CORRODI, H., Kritische Geschichte des Chiliasmus, oder der Meynungen über das tausendjährige Reich Christi, 4 voll., Leipzig, Frankfurt am Main 1781-1794. CRAPANZANO, V., Imaginative Horizons. An essay in Literaryphilosophical Anthropology, University of Chicago Press, Chicago 2004; trad. it. Orizzonti dell’immaginario. Per un’antropologia filosofica e letteraria, Bollati Boringhieri, Torino 2007. CROCE, B., Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, Laterza, Bari 1913. – Frammenti di etica, Laterza, Bari 1922. – Ultimi saggi, Laterza, Bari 1935. – La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1938. – Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari 1941 [1917]. – Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari 1945.

– Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1949. – Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bibliopolis, Napoli 1998 a [1 ed. Laterza, Bari 1952]. CULLMANN, O., Christus und die Zeit. Die urchristliche Zeit- und Geschichtsauffassung, Evangelischer Verlag, Zürich 1948 [1946]; trad. it. Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo, il Mulino, Bologna 1965. DELILLE, E., L’organo-dynamisme d’Henri Ey: l’oubli d’une théorie de la conscience considéré dans ses relations avec l’analyse existentielle, in «L’homme et la société», n. 167-168-169, 2008. DELLING, G., Das Zeitverständnis des Neuen Testaments, in «Zeitschrift für systematische Theologie», 25, 1956. DELEUZE, G., Nietzsche et Saint Paul, Lawrence et Jean de Patmos, in C ritique et clinique, Les Éditions de Minuit, Paris 1993; trad. it. Critica e clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996. DEUBNER, L., Mundus, in «Hermes», n. 68, 1933. DI DONATO, R., I Greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto De Martino, Manifestolibri, Roma 1999. – T ra rimorso e trascendimento. Ernesto De Martino 1959-1963, in «Archivio di storia della cultura. Quaderni», 5, 2014. DILTHEY, W., La dottrina delle visioni del mondo: trattati per la filosofia della filosofia, a cura di G. Magnano San Lio, Guida, Napoli 1998 [1911]. DI NOLA, A., Le «apocalissi» di E. De Martino, in «La Critica sociologica», 48, 1978. DODDS, E., The Greeks and the irrational, University of California Press, Berkeley 1951; nuova ed. it. a cura di Riccardo Di Donato, con introduzione di Maurizio Bettini e presentazione di Arnaldo Momigliano, I greci e l’irrazionale, BUR, Milano 2015. DOLCI, D., Inchiesta a Palermo, Einaudi, Torino 1957. DONINI, A., Lineamenti di storia delle religioni, Editori Riuniti, Roma 1959. DORFLES, G., Fenomenologia e Psichiatria, in «Aut-Aut», 64, 1961. DOSTOEVSKIJ, F., Memorie del sottosuolo, Einaudi, Torino 1942.

Le surnaturel et les dieux d’après les maladies mentales, Puf, Paris 1946. DUMÉZIL, G., La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà della vita religiosa romana. Con un’appendice sulla religione degli etruschi, BUR, Milano 2016 [1966]. ECO, U., Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 1964. ELIADE, M., Le problème du chamanisme, in «Revue de l’histoire des religions», vol. 131, 1-3, 1946. – Le mythe de l’éternel retour. Archétypes et répétition, Gallimard, Paris 1949; trad. it. Il mito dell’eterno ritorno. Archetipi e ripetizione, Borla, Torino 1968. – Images et symboles. Essais sur le symbolisme magico-religieux, Gallimard, Paris 1952; trad. it. di Massimo Giacometti, Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso,, Jaka Book, Milano 1984; riedito con la prefazione di Georges Dumézil, TEA, Milano 1993. – Symbolisme religieux et valorisation de l’angoisse, in AA.VV., L’angoisse du temps present et les devoirs de l’esprit, Éditions de la Baconnière, Neuchâtel 1953. – Traité d’histoire des religions. Morphologie du sacré, Payot, Paris 1949; trad. it. di Virginia Vacca, Trattato di storia delle religioni, Einaudi, Torino 1954. – Mythes, rêves et mystères, Gallimard, Paris 1957; trad. it. di Giovanni Cantoni, Miti, sogni e misteri, Rusconi, Milano 1976. – Naissance mystiques, Gallimard, Paris 1959; trad. it. di Armido Rizzi, La nascita mistica. Riti e simboli di iniziazione, Morcelliana, Brescia 1974. – Méphistophélès et l’androgyne, Gallimard, Paris 1962; trad. it. di E. Pinto, Mefistofele e l’androgino, Edizioni Mediterranee, Roma 1971. ELKIN, A. P., The Australian Aborigines. How to Understand Them, Angus and Robertson, Sidney 1938; trad. it. Gli aborigeni australiani, Einaudi, Torino 1956. ENGELS, F., La guerra dei contadini in Germania, trad. di Giovanni De Caria, Editori Riuniti, Roma 1976 [ed. orig. 1850]. – Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica DUMAS, G.,

tedesca, trad. di Palmiro Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma 1950 [1888]. – e MARX, K., La sacra famiglia, ovvero Critica della critica: contro Bruno Bauer e soci, Editori Riuniti, Roma 1969. ERNOUT, A ., Philologica, Klincksieck, Paris 1946-1965. «Études rurales», Le retour des morts, a cura di Daniel Fabre, 105106, gennaio-giugno 1987. EY, H., Études psichiatriques, 3 voll., Desclée de Brower, Paris 19481954. FABRE, D., Un rendez-vous manqué. Ernesto De Martino et sa réception en France, in «L’Homme», 151, 1999. – Ernesto De Martino. «La fin du monde» et l’anthropologie de l’histoire, in Archives de sciences sociales des religions, 161, gennaiomarzo 2013. – e MASSENZIO, M., Préface: l’anthropologie des messianismes entre France et Italie, in «Archives des sciences sociales des religions», 161, gennaio-marzo 2013. FAVRET-SAADA, J., Lire «L’échec d’une prophétie», in «Raisons politiques», n. 48, 2012. FERDIÈRE, G., Les dessins schizophréniques: leurs stereotypies (vraies ou fausses), in «Annales médico-psychologiques», vol. 105, 1, 1947. – Introduction à la recherche d’un style dans le dessin des schizophrènes, in «Annales médico-psychologiques», vol. 105, 2, 1947. – L’aliénation créatrice. Conférence au Centre psychiatrique SaintAnne. 15 février 1946, in «Folia psychiatrica neurologica neurochirurgica neerlandica», 51, 1948. – Art et épilepsie, in «Progrès médical», 74, 1948. – Le dessinateur schizophrène au travail. Conférence inédite à la Société française d’esthétique, 13 marzo 1948. – Le style des dessins schizophréniques: ils sont «bourres», in «Annales médico-psychologiques», vol. 106, 1, 1948. – Le style des dessins schizophréniques: la symétrie et l’équilibre, in «Annales médico-psychologiques», vol. 106, 1, 1948. – La main du dessinateur schizophrène, «I er Congrés mondial de Psychiatrie», 3, 1950. – Le dessinateur schizophrène, in «L’Évolution psychiatrique», 2,

1951. e SCHACHTER, S., When Prophecy Fails. A Social Modern Group That Predicted the Destruction of the World, University of Minnesota Press, Minneapolis 1956; trad. it. Quando la profezia non si avvera, il Mulino, Bologna 2012. FRAZER, J. G., The golden Bough. A Study in Comparative Religion, Macmillan, London 1911, 12 voll.; trad. it. Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Newton Compton, Roma 2016. FREUD, S., Psychoanalytische Bemerkungen über einen autobiographisch beschriebenen Fall von Paranoia (Dementia paranoides) [1913], in Gesammelte Werke, Fischer, Frankfurt am Main 1973, tomo VIII; trad. it. Il presidente Schreber: osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente, Bollati Boringhieri, Torino 1997. FRIEDRICH, H., La struttura della lirica moderna, Garzanti, Milano 1958. FROBENIUS, L., Kulturgeschichte Afrikas, Prolegomena zu einer historischen Gestaltlehre, Phaidon Verlag, Zürich 1933; trad. it. di Clara Bovero, Storia della civiltà africana: prolegomeni di una morfologia storica, Einaudi, Torino 1950. – Monumenta Africana. Der Geist eines Erdteils, Frankfurter Societäts-Druckerei, Frankfurt am Main 1929, vol. 6. GALLINI, C., Protesta e integrazione nella Roma antica, Laterza, Bari 1970. GEBSATTEL, V. E. VON, Prolegomena einer medizinischen Anthropologie, Springer, Berlin 1954. GINZBURG, C., «La Fine del mondo» di Ernesto De Martino, in «Quaderni Storici», 40, gennaio-aprile 1979. – Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino 1979. – Mircea Eliade’s Ambivalent Legacy, in Christian K. Wedemeyer e Wendy Doniger (a cura di), Hermeneutics, Politics, and The Contested Legacies of Joachim Wach and Mircea Eliade, Oxford University Press, Oxford 2010. FESTINGER, L., RIECKEN, H.

– De Martino, Gentile, Croce. Su una pagina de «Il mondo magico», in «La Ricerca Folklorica», 67-68, 2013. – Genèses de «La fin du monde» d’Ernesto De Martino, in «Gradhiva», 23, 2016. GLISENTI, M. (a cura di), Hommage à Alioune Diop, fondateur de Présence africaine, Éditions des amis italiens de «Présence africaine», Roma 1977. GOETHE, J. W. VON, Il divano occidentale orientale (Libro del Cantore), Boringhieri, Torino 1959. «Gradhiva», Ernesto De Martino, “Un intellectuel de transition”, a cura di Giordana Charuty e Carlo Severi, 26, 1999. «Gradhiva», Présence africaine. Les conditions noires: une généalogie des discours, in «Gradhiva», 10 (numero speciale), 2009. GRAMSCI, A., Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1948. GRIMM, M., Alfred Storch (1888-1962). Daseinanalyse und anthropologische Psychiatrie, Schmitz, Gießen 2004. GRONDIN, J., La solution de Dilthey au problème du relativisme historique, in «Revue internationale de philosophie», vol. 4, 226, 2003. GROS, F., Création et folie, une histoire du jugement psychiatrique, Puf, Paris 1997. GROSCLAUDE, P., Alfred Rosenberg et le mythe du XX e siècle, Sorlot, Paris 1938. GRUHLE, H. W., Selbstschilderung und Einfühlung, in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», 28, 1915. GUARIGLIA, G., Prophetismus und Heilserwartungs-Bewegungen als völkerkundliches und religionsgeschichtliches Problem, Berger, Horn 1959. GUSDORF, G., Projet de recherche interdisciplinaire dans les sciences humaines, in «Diogène», n. 42, 1963. HADOT , P ., «R. Marlé» Bultmann et l’interprétation du Nouveau Testament, Aubier, Paris 1956, in «Revue de l’histoire des religions», n. 150, 1956, p.227. HAGEN, W., Studien auf dem Gebiete der ärtzlichen Seelenkunde, Gemeinfassliche Vortraege Besold, Erlangen 1870.

HAMMER, J.-P.,

Lenau, poète rebelle et libertaire, Aubier-Montaigne,

Paris 1987. Sein und Zeit, Max Niemeyer, Halle 1935 [1927]; trad. it. di Pietro Chiodi, Essere e tempo, Bocca, Milano-Roma 1953. – Kant e il problema della metafisica, trad. di Maria Elena Reina, Silva, Milano 1962. – Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, trad. di Carlo Tatasciore, Guida, Napoli 1998. – Fenomenologia della vita religiosa, trad. di Giovanni Gurisatti, Adelphi, Milano 2003. HERTZ, R., La prééminence de la main droite. Étude sur la polarité religieuse, in Mélanges de sociologie religieuse et folklore, Alcan, Paris 1928; trad. it. La preminenza della destra e altri saggi, a cura di Adriano Prosperi, Einaudi, Torino 1994. HOFMANNSTHAL, H. VON, Der Brief des Lord Chandos, in Prosa, II, Frankfurt am Main 1951; trad. it. Lettera di Lord Chandos e altri scritti, Marsilio, Venezia 2017. HUMM, M., Le mundus et le Comitium: représentations symboliques de l’espace de la cité, in «Société française d’histoire urbaine», vol. 2, 10, 2004. HUSSERL, E., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano 1961. HUYGHE, H., Histoire de l’art contemporain, Alcan, Paris 1935. JANET, P., De l’angoisse à l’extase, Alcan, Paris 1928. – Les obsessions et la psychasthénie, Alcan, Paris 1903. JASPERS, K., La filosofia dell’esistenza, trad. it. di Enzo Paci, Bocca, Milano 1942. – La mia filosofia, Einaudi, Torino 1948. – Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950. – Introduzione alla filosofia, con prefazione di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1959. – Allgemeine Psychopathologie, Springer, Berlin 1953; trad. it. dalla a 7 ed. ted. a cura di Romolo Priori, Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma 1964. – Strindberg und Van Gogh. Versuch einer pathographischen Analyse HEIDEGGER, M.,

unter vergleichender Heranziehung von Swedenborg und Hölderlin, E. Bircher, Bern 1922; trad. it. di Brigitte Baumbusch e Mario Gandolfi, Genio e follia: Strindberg e Van Gogh, R. Cortina, Milano 2001. – e BULTMANN, R., Die Frage der Entmythologisierung, Piper, Münich 1954; trad. e cura di Roberto Celada Ballant Il problema della demitizzazione, Morcelliana, Brescia 1995. JENSEN, A. E., Mythos und Kult bei Naturvölkern, F. Steiner, Wiesbaden 1951. JERVIS, G., Il tema della fine del mondo nelle malattie mentali, in «Psichiatria generale e dell’età evolutiva», 3, 1965. JUNG, C. G., Symbole der Wandlung, Rascher, Zurigo 1952; trad. it. Simboli della trasformazione: analisi dei problemi di un caso di schizofrenia, Boringhieri, Torino 1980. – Commentaire psychologique du Bardo-Thödol, in Bardo-Thödol, Le livre des morts tibétain ou les expériences d’après la mort dans le plan du Bardo, suivant la version anglaise du lama Kazi dawa Samdup, a cura di W. Y. Evans Wentz, prefazione di J. Bacot, Maisonneuve, Paris 1933. – e KERÉNYI, K., Einführung in das Wesen der Mythologie, in Akademische Verlagsanstalt, Amsterdam-Leipzig, 1941; trad. it. di Angelo Brelich, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Bollati Boringhieri, Torino 1948. KERÉNYI, K., Figlie del sole, trad. it. di Francesco Barberi, Einaudi, Torino 1949. KIERKEGAARD, S., Il concetto dell’angoscia. La malattia mortale, trad. di Cornelio Fabro, Sansoni, Firenze 1965. – Scuola di cristianesimo, trad. di A. Miggiano e K. Montanari Gulbrandsen, Edizioni di Comunità, Milano 1950 [1850]. KITTEL, G., Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Kohlhammer, Stuttgart 1935, 10 voll.; trad. it. Grande lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1965-1992, 16 voll. KLAGES, L., Der Geist als Widersacher der Seele, J. A. Barth, Leipzig 1932. KNOX, R. A., Christliches Schwärmertum. Ein Beitrag zur ReligionsGeschichte, Hegner, Köln 1957. KOSELLECK, R., Sulla disponibilità della storia, in Futuro passato: per

una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986. KRANZ, H., Mithos und Psychose, in «Studium Generale. Zeitschrift für die Einheit der Wissenschaften in Zusammenhang ihrer Begriffsbildungen und Forschungsmethoden», 8, 1955. KUNZ, H., Die Grenze der psichopathologischen Wahn- interpretation, in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», 135, 1930. LACAN, J., Scritti, a cura di Giacomo Contri, Einaudi, Torino 1974. LANGLOH-PARKER, C., The Euahlayi-Tribe. A Study of Aboriginal Life in Australia, Constable, London 1905. LANTERNARI, V., La grande festa. Vita rituale e sistemi di produzione nelle società tradizionali, il Saggiatore, Milano 1959. – Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano 1960. – Ernesto de Martino fra storicismo e ontologismo, in «Studi Storici», vol. 19, n. 1, ripubblicato in Festa, carisma, apocalisse, Sellerio, Palermo 1983. – L’apocalisse vissuta: Angelo Brelich, in Festa, carisma, apocalisse, Sellerio, Palermo 1983. – La mia alleanza con Ernesto De Martino, in La mia alleanza con Ernesto De Martino, e altri saggi post demartiniani, Liguori, Napoli 1997, pp. 1-57; trad. fr. Faire alliance avec Ernesto De Martino, in «Archives de sciences sociales des religions», «Messianismes et anthropologie entre France et Italie», 161, 2013, pp. 124-25. LASSÈGUE, J., Note sur l’actualité de la notion de forme symbolique, in «Methodos», L’Esprit. Mind/Geist, 2, 2002. LAWRENCE, D. H., Apocalypse, G. Orioli, Firenze 1931. – Tutte le opere, a cura di Piero Nardi, Mondadori, Milano 1947-1975. LE BONNIEC, H., Le culte de Cérès à Rome. Des origines à la fin de la république, Klincksieck, Paris 1958. LENCLUD, G., L’universalisme ou le pari de la raison. Anthropologie, histoire, psychologie, Gallimard-Seuil, Paris 2013. LENZ, H., Vergleichende Psychiatrie. Die Beziehung von Kultur, Soziologie und Psychopathologie, Maudrich, Wien 1964. LEVI, C., Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1945. – Paura della libertà, Einaudi, Torino 1946.

Introduction a M. MAUSS, Sociologie et anthropologie, Puf, Paris 1960 [1950]; trad. it. Sociologia e antropologia, Newton Compton, Roma 1976. – Anthropologie structurale deux, Plon, Paris 1973; trad. it. Antropologia strutturale due, il Saggiatore, Milano 1990. LIETZMANN, H., Geschichte der alten Kirche, II. Ecclesia catholica, W. de Gruyter, Berlin 1936. LINFORTH, I. M., The Arts of Orpheus, University of California Press, Berkeley 1941. LOMBROSO, C., Genio e follia, Hoepli, Milano 1877. LOMMEL, A., Modern Culture Influences on the Aborigines, in «Oceania», 21, 1950. – Die Unambal. Ein Stamm in Nord West Australien, Museum fur Völkerkunde, Hamburg 1952. LOPEZ, D. S. JR, T he Tibetan Book of the Dead. A Biography, Princeton University Press, Princeton 2011. LÖWITH, K., Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963. – Storia e fede, Laterza, Bari 1985 [1 a ed. inglese 1949]. MACROBIO, Saturnali, a cura di Nino Marinone, Unione TipograficoEditrice Torinese, Torino 1977, 2 a ed. riveduta. MAGRIS, C., Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi, Torino 1963. MANGONI, L., Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999. MANN, T., La morte a Venezia, trad. it. di Anita Rho, Einaudi, Torino 2015. MARLÉ, R., Bultmann et l’interprétation du Nouveau Testament, Aubier. Paris 1956, in «Revue de l’histoire des religions», n. 150, 1956; trad. it. Bultmann e l’interpretazione del Nuovo Testamento, Morcelliana, Brescia 1958. MARTIN , J.-P ., Sur le sens réel des mots ‘catastérisme’ et ‘catastériser’, Pallas, in «Palladio Magistro: mélanges Jean Soubiran», n. 59, 2002. MARX, K., La questione ebraica. Per la critica della filosofia del diritto LÉVI-STRAUSS,

C.,

di Hegel. Introduzione, Editori Riuniti, Roma 1996. – Manoscritti economico-filosofici del 1844, trad. di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1949. – e ENGELS, F., Historisch-kritische Gesamtausgabe, Marx-Engels Archiv, Frankfurt am Main 1927. – e ENGELS, F., Sur la religion, trad. e cura di G. Badia, P. Bauge e E. Bottigelli, Les Édition sociales, Paris 1968. – e ENGELS, F., Opere, XLVIII, Lettere gennaio 1888 - dicembre 1890, Editori Riuniti, Roma 1983. – e ENGELS, F., L’ideologia tedesca, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947. MASSENZIO, M., Kurangara. Una apocalisse australiana, Bulzoni, Roma 1976. – Sacro e identità etnica. Senso del mondo e linea di confine, Angeli, Milano 1994. – Religion et sortie de la religion. Le christianisme selon E. De Martino, in «Gradhiva», n. 28, 2000. – Le volume-testament d’Ernesto De Martino, in «Gradhiva», n. 32, 2002. – Ernesto De Martino e l’antropologia, in M. CILIBERTO (a cura di), Filosofia. Il contributo italiano alla storia del pensiero, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2012. MATUSSEK, P., Untersuchungen über die Wahrnehmung: Veränderung der Wahrnehmungsweltbei beginnendem primänt Wahn, in «Schweitzer Archive für Neurologie und Psychiatrie», 189, 1952. – Untersuchungen über die Wahrnehmung: Die auf einemabnormen Vorrang von Wesenseigenshaften beruhenden Eigentümlichkeiten der Wahnwahrnehmung, in «Schweitzer Archive für Neurologie und Psychiatrie», 71, 1952. MAUSS, M., Les techniques du corps, in «Journal de psychologie», vol. 32, 1936, n. 3-4; trad. e cura di Michela Fusaschi, Le tecniche del corpo, Edizioni ETS, Pisa 2017. – e DURKHEIM, É., Sociologie et anthropologie, Puf, Paris 1950; trad. it. Sociologia e antropologia, Newton Compton, Roma 1976. MAYER-GROSS, W., SLATER, E. e ROTH, M., Clinical Psychiatry, Cassel

& Co., London 1958 [1954]. MEAD, M., Psychiatry and Ethnology, in «Psychiatrie der Gegenwart», 3, 1961. MEHRING, F., Vita di Marx. Una biografia rivoluzionaria, trad. di Mario Alighiero Manacorda e Fausto Codino, Shake Edizioni, Milano 2012. MERLEAU-PONTY, M., Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945; trad. it. Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003. – Sens et non-sens, Paris, Nagel, 1948; trad. it. di Paolo Caruso, Senso e non senso, introduzione di Enzo Paci, il Saggiatore, Milano 1962. MICHEL, U., Wilhelm Emil Mühlmann (1904-1988). Ein deutcher Professor. Amnesie und Amnestie: Zum Verhältnis von Ethnologie und Politik im Nationalsozialismus, in «Jahrbuch für Soziologiegeschichte», 1991. MIEGGE, G., L’Evangelo e il mito nel pensiero di Rudolf Bultmann, Edizioni di Comunità, Milano 1956. MILNER, M., H ugo Friedrich. Structure de la poésie moderne, in «Romantisme», 16, 1977. MINKOWSKI, E., Le problème des hallucinations et le problème de l’espace, in «L’Évolution psychiatrique», vol. 2, n. 3, 1932. – Le temps vécu. Étude phénoménologique et psychopatologique, Delachaux, Paris 1933; trad. it. di Giuliana Terzian, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, prefazione di Enzo Paci, Einaudi, Torino 1968. – Phénoménologie et analyse existentielle en psychopathologie, in «L’Évolution psychiatrique», n. 3, 1948. MITRANI, P., Aperçu critique des approches psychiatriques du chamanisme, in «L’Ethnographie», numero speciale «Voyages chamaniques. Deux», n. 87-88, 1982. MORAVIA, A., Agostino, Bompiani, Milano 1945. – La disubbidienza, Bompiani, Milano 1948. – Gli indifferenti, Bompiani, Milano 1949. – La noia, Bompiani, Milano 1960. MORSELLI, E., La psicanalisi. Studi e appunti critici, Bocca, Torino

1926, 2 voll. The Ghost-dance Religion, Bureau of American Ethnology, Washington 1896. MOUNIER, E., La petite peur du XX e siècle, La Baconnière, Neuchâtel 1949. – Œuvres, vol. III, Seuil, Paris 1962. MÜHLMANN, W. E., Methodik der Völkerkunde, Ferdinand Enke, Stuttgart 1932. – Chiliasmus und Nativismus. Studien zur Psychologie, Soziologie und Historischen Kasuistik der Umsturzbewegungen, Dietrich Reimer, Berlin 1961. NAVEL, G., Travaux, Gallimard, Paris 1945. NIEBUHR, R., Faith and History, C. Scribner’s Sons, New York 1949. NORDAU, M., Degenerazione, Piano B, Prato 2009. OPLER, M. K. (a cura di), Culture and mental Health, Macmillan, New York 1959. ORTEGA Y GASSET, J., La ribellione delle masse, trad. di Salvatore Battaglia, il Mulino, Bologna 1962 [1930]. OSTERKAMP, E., Geistesgeschichte [Storia delle idee] e conservatismo culturale. L’esempio di Walter Rehm, in «Revue germanique internationale», 8, 1997. OTTO, R., Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Trewendt und Granier, Breslau 1917; trad. it. di Ernesto Buonaiuti, Il sacro: l’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Zanichelli, Bologna 1926. OVIDIO, Fasti e frammenti, in Opere, a cura di Fabio Stok, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino 1999. PACI, E., Introduzione, in HEIDEGGER, M., Che cosa è la metafisica?, Fratelli Bocca, Milano 1942. – Il nulla e il problema dell’uomo, Taylor, Torino 1950. – Esistenzialismo e storicismo, Mondadori, Milano 1950. – Diario fenomenologico, il Saggiatore, Milano 1961. PAVESE, C., Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950, a cura di Massimo Mila, Italo Calvino e Natalia Ginzburg, Einaudi, Torino 1952. MOONEY,

J.,

– e DE MARTINO, E., La collana viola. Lettere 1945-1950, a cura di Pietro Angelini, Bollati Boringhieri, Torino 1991. PETRI, H., Kuràngara: Neue magische Kulte in Nordwest-Australien, in «Zeitschrift für Ethnologie», 75, 1950. – Der australische Medizinmann, in «Annali Lateranensi», 16, 1952. PETRICONI, H., Das Reich des Untergangs. Bemerkungen über ein mitologisches Thema, Hoffmann u. Campe, Hamburg 1958. PERROTTI, N., Aperçu théorique de la dépersonnalisation, in «Revue française de Psychanalyse», vol. 24, 4-5, 1960. PFLANZ, M., Sozial-kulturelle Faktoren und psychische Störungen, in «Fortschritte der Neurologie und Psychiatrie», 28, 1960. PIERRO, A., A’ terra d’u ricorde, Il Nuovo Belli, Roma 1960. – Appuntamento (1946-1967), Laterza, Bari 1967. PIGANIOL, A., Recherches sur les jeux romains. Notes d’archéologie et d’histoire religieuse, Istra, Strasbourg 1923. PIZZA, G., Gramsci e De Martino. Appunti per una riflessione, in «Quaderni di teoria sociale», 13, 2013. PLUTARCO, Vite parallele, trad. e cura di Carlo Carena, Einaudi, Torino 1958. PRINI, P. (a cura di), Il mondo di domani, Abete, Roma 1964. PROUST, M., À la recherche du temps perdu, vol. I, Gallimard, Paris 1959; trad. it. di Natalia Ginzburg, Alla ricerca del tempo perduto. La strada di Swann, Einaudi, Torino 1998 [1949]. QUENEAU, R., Una storia modello, Fabbri, Milano 1973. RAMOS, A., As culturas negras no novo mundo, Civilização Brasileira, Rio de Janeiro 1937. REDA, G., Perdita della visione mentale e depersonalizzazione nella psicosi depressiva, in «Atti del Symposium sulla “Sindrome depressiva” di Rapallo», Roma 1960. REHM, w., Experimentum Medietatis. Studien zur Geistes- und Literaturgeschichte der XIX . Jahrhunderts, Rinn, München 1947. – Tiefe und Abgrund in Hölderlins Dichtung, Zurich 1947. RIMBAUD, A., Œuvres, vers et proses, Mercure de France, Paris 1912; trad. it. Opere complete, Einaudi-Gallimard, Torino 1992.

– Œuvres, Garnier, Paris 1960. ROBBE-GRILLET, A., Una via per il romanzo futuro, Rusconi e Paolazzi, Milano 1961. ROSE, H. J., The Mundus, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», n. 7, 1931. ROSENBERG, A., Der Mythus des 20. Jahrhunderts, Hoheneichen, München 1930; trad. it. di Paolo Castruccio, Il mito del XX e secolo, Edizioni del Basilisco, Genova 1981. ROSSI, A., L’ultimo messaggio di un grande studioso, in «L’Ora», 24 marzo 1978. RUBINO, A. e PIRO, S., Il mutamento pauroso nella schizofrenia, in «Il Pisani», 83, 1959. RUNCINI, R., I cavalieri della paura, in «Passato e Presente», n. 16-17, 1960. SABBATUCCI, D., La religione di Roma antica. Dal calendario festivo all’ordine cosmico, il Saggiatore, Milano 1988. SALTINI, V., A tu per tu con il Mito, in «L’Espresso», 2 aprile 1978. SANDBERG, R., Zur Psychopathologie der chronischen Paranoia, in «Allgemeine. Zeitschrift für Psychiatrie», tomo LII, 3H, 1895. SANGA, G., Natura e cultura in Ernesto De Martino. Un percorso di lettura, in «La Ricerca Folklorica», n. 67-68, 2013. SARTRE, J.-P., La nausée, Gallimard, Paris 1938; trad. it. La nausea, Einaudi, Torino 1948. – L’être et le néant, Paris 1950 [1943]; trad. it. L’essere e il nulla, Mondadori, Milano 1958. – Esquisse d’une théorie des émotions, Hermann, Paris 1975 [1939]; trad. it. L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 1962. – Situations I, Gallimard, Paris 2010. SASSO, G., Ernesto De Martino. Fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001. SAUNDERS, G. R., “Critical Ethnocentrism” and the Ethnology of Ernesto De Martino, in «American Anthropologist, New Series», vol. 95, 4, 1993; trad. it. L’”etnocentrismo critico” e l’etnologia di Ernesto de

Martino, in «Ossimori», 7, 1995. SCARANTINO, L. M., Giulio Preti. La costruzione della filosofia come scienza sociale, Mondadori, Milano 2007. SCHELLING, F. W. J., Ricerche filosofiche su la essenza della libertà umana e gli oggetti che vi si collegano, R. Carabba editore, Lanciano 1919. SCHIFF, P., La paranoïa de destruction: réaction de Samson et phantasme de la fin du monde, in «Annales médico-psychologiques», n. 104, 1946. SECHEHAYE, M., Journal d’une schizophrène, Puf, Paris 1950; trad. it. di Cecilia Bellingardi, Diario di una schizofrenica, Giunti-Barbera, Firenze 1955. SEDLMAYR, H., Verlust der Mitte, Ullstein Verlag, Salzburg 1955 [1 a ed. Otto Müller 1948]; trad. it. di Marola Guarducci, Perdita del centro. Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca, Borla, Torino 1967. – La rivoluzione dell’arte moderna, Garzanti, Milano 1961. SEVERINO, V. S., Ernesto De Martino nel Pci degli anni cinquanta tra religione e politica culturale, in «Studi Storici», n. 2, 2003. SIGNORELLI, A., Ernesto De Martino. Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro, Roma 2015. SINCLAIR, M., L’outil et la métaphysique: (encore une) note sur le statut ambigu de l’’ustensilité’ chez Heidegger, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», vol. 133, n. 4, 2008. SIRONNEAU, J.-P., Sécularisation et religions politiques, Mouton, Paris 1982. SOLMI, R., Ernesto De Martino e il problema delle categorie, in «Il Mulino», vol. 1, n. 7, maggio 1952, incluso in Autobiografia documentaria. Scritti 1950-2004, Verbatim-Quodlibet, Macerata 2007. SPENGLER, O., Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Longanesi, Milano 1957 [1 a ed. ted. 1918-1923]. STAUDER, K. H., Zur Kenntnis des Weltuntergangserlebnisses in den epileptischen Ausnahmezuständen, in «Archive für Psychiatrie», 101, 1934.

Das Archaisch-Primitive Erleben und Denken der Schizophrenen, Springer, Berlin 1922. – Die Welt der beginnenden Schizophrenie und die archaische Welt. Ein existential-analytischer Versuch, in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», vol. 127, 1, 1930. –Tod und Erneuerung in der schizophrenen Daseins-Umwandlung, in «Archiv für Psychiatrie und Nervenkrankheiten», vol. 181, 3, 1949. – e KULENKAMPFF, C., Zum Verständnis des Weltuntergangs bei den Schizophrenen, in «Der Nervenarzt», 21, 1950. STRAUSS, D., V ie de Jésus ou examen critique de son histoire, trad. di E. Littré, Librairie philosophique de Ladrange, Paris 1839 e 1853 [1835], 2 tomi. TERESA D’AVILA, Opere - Teresa di Gesú, OCD, Roma 2014. TERRAY, E., Anthropologie et marxisme: années 1950-70. L’Afrique, miroir du contemporain, Journée d’études de l’Institut interdisciplinaire d’anthropologie du contemporain (IIAC-CNRS-EHESS), Paris 2007. – Combats avec Méduse, Galilée, Paris 2011. TESTART, A., Les chasseurs-cueilleurs ou l’origine des inégalités, Société d’ethnographie, Paris 1982. THOMPSON, L., Culture in Crisis. A Study of the Hopi Indians, Harper and Bros, New York, 1950. THRUPP, S. (a cura di), Millennial Dreams in Action. Studies in Revolutionary Religious Movements, Mouton, The Hague 1962. TURCAN, R., Religion et politique dans l’affaire des Bacchanales. A propos d’un livre récent, in «Revue de l’histoire des religions», vol. 181, 1972. TURCHI, N., La religione di Roma antica, Cappelli, Bologna 1939. VAN DER LEEW, G., Urzeit und Endzeit, in «Eranos Jahrbuch», 17, 1949. VELLA, G., Il concetto di depersonalizzazione, Studium, Roma 1960. VERDIER, Y., Façons de dire, façons de faire. La laveuse, la couturière, la cuisinière, Gallimard, Paris 1979. VIANO, C. A., J. Locke. Dal razionalismo all’illuminismo, Einaudi, Torino 1960. VIGORELLI, A., L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci. Una biografia STORCH, A.,

intellettuale (1929-1950), Franco Angeli, Milano 1987. VOEGELIN, E., Die politischen Religionen, Bermann-Fischer, Wien 1938; trad. it. La politica: dai simboli alle esperienze, a cura di Sandro Chignola, Giuffrè, Milano 1993. VOLMAT, R., L’art psychopatologique, Puf, Paris 1956. WAHL, J., Études kierkegaardiennes, Aubier, Paris 1938. WALDE A. e HOFFMANN, J., Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Winter, Heidelberg 1938. WEINSTOCK, S., Mundus patet, in «Mitteilungen des Deutschen Archäelogischen Instituts, Römische Abteilung», n. 45, 1930. WENIN, C., Chronique générale, in «Revue philosophique de Louvain», vol. 64, 82, 1966. WETZEL, A., Das Weltuntergangserlebnis in der Schizophrenie, in «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», vol. 78, 1, 1922. WISSOWA, G., Religion und Kultus des Römer, Beck Verlag, München 1912 [2 a ed.]. ZANOCCO, G., Aspetti strutturali del fenomeno della depersonalizzazione, in «Rivista Sperimentale di Freniatria», suppl. vol. 83, 1959. ZARADER, M., Lire Être et Temps de Heidegger, Vrin, Paris 2012.

Indice dei nomi

Abbagnano, Nicola. Ackerknecht, Erwin H. Adler, Gerhard. Adorno, Theodor. Agostino, sant’. Altheim, Franz. Althusser, Louis. Ambrogio Teodosio Macrobio. Anders, Günther, pseudonimo di Günther Stern. Angelini, Pietro. Arendt, Hannah. Ariès, Philippe. Astrup, Christian. Bachelard, Gaston. Bacone, Francesco. Balandier, Georges. Balducci, Ernesto. Banfi, Antonio. Barnett, Homer Garner. Barrès, Maurice. Bastide, Roger. Battaglia, Salvatore. Baudelaire, Charles Pierre. Bauer, Bruno. Baumer, Franklin Le Van. Baümler, Alfred. Bausani, Alessandro. Beck-Kleist, Gerta. Beckett, Samuel Barclay. Bellingardi, Cecilia. Benedict, Ruth (nata Ruth Fulton). Beneduce, Roberto. Berardini, Sergio Fabio. Berg, Jan Hendrik van den. Bergson, Henri-Louis. Bianchi, Ugo. Bianco, Franco. Bietenhard, Hans. Bilz, Rudolf.

Binswanger, Ludwig. Bloch, Ernst. Bloch, Marc Léopold Benjamin. Bollati, Guido. Bori, Pier Cesare. Bourdieu, Pierre. Bouvet, Maurice. Brandis, E. Brelich, Angelo. Buber, Martin Mordechai. Bultmann, Rudolf Karl. Callieri, Bruno. Calogero, Guido. Calvino, Italo. Camus, Albert. Capocasale, Eugenio. Cargnello, Danilo. Carpitella, Diego. Carter, Frederick. Cases, Cesare. Cassin, Elena. Cassin, Laure Sylvie Barbara. Cassirer, Ernst. Castelli Gattinara di Zubiena, Enrico. Castruccio, Paolo. Charuty, Giordana - 28. Cherchi, Placido. Chestov, Léon Issaakovitch. Chiara, Pierino Angelo Carmelo «Piero». Chiodi, Pietro. Choisy, François-Auguste. Citati, Pietro. Clastres, Hélène. Cohn, Norman Rufus Colin. Collingwood, Robin George. Confucio. Conrad, Klaus. Conzelmann, Hans G. Coomaraswamy, Ananda Kentish. Coppola, C. F. Cornu, Auguste. Corrodi, Heinrich Johann. Croce, Benedetto. Cullmann, Oscar. Curtius, Ernst Robert. Dante Alighieri.

Darwin, Charles Robert. Deleuze, Gilles. Delling, Gerhard. Demeny, Paul. De Palma, Vittoria. Devereux, Georges, nato Győrgy Dobó. Di Donato, Riccardo. Dilthey, Wilhelm. Di Nola, Alfonso Maria. Diop, Alioune. Dmitrevskij, V. Dodds, Eric Robertson. Dolci, Danilo. Donini, Ambrogio. Dorfles, Gillo, nato Angelo Eugenio Dorfles. Dostoevskij, Fëdor Michajlovič. Dumas, Georges-Alphonse. Dumézil, Georges. Dumont, Louis. Dupré, Ernest. Dürer, Albrecht. Durkheim, Émile. Dvořák, Max. Eatherly, Claude Robert. Eco, Umberto. Eichmann, Otto Adolf. Einaudi, Giulio. Eliade, Mircea. Elias, Norbert. Elkin, Adolphus Peter. Engels, Friedrich. Esquirol, Jean-Étienne Dominique. Ey, Henri. Ezechiele, profeta. Fabre, Daniel. Federico Guglielmo IV, sesto re di Prussia. Ferdière, Gaston. Fernandez, Dominique. Festinger, Leon. Festo, vedi Sesto Pompeo Festo. Feuerbach, Ludwig Andreas. Fortini, Franco, nato Franco Lattes. Foucault, Paul-Michel. Fox, Douglas C. Francastel, Pierre. Frazer, James George.

Freud, Sigmund, nato Sigismund Schlomo Freud. Friedrich, Hugo. Frighi, Luigi. Frobenius, Leo Viktor. Gadamer, Hans-Georg. Gallini, Clara. Gauchet, Marcel. Gebsattel, Viktor Emil Klemens Franz barone von. Ginzburg, Carlo , Ginzburg, Leone. Ginzburg, Natalia, nata Natalia Levi. Giovanni, apostolo. Giovanni XXIII, papa (Angelo Giuseppe Roncalli). Glaesser, Gustavo. Glisenti, Marcella. Godelier, Maurice. Goethe, Johann Wolfgang von. Gramsci, Antonio Sebastiano Francesco. Groethuysen, Bernard. Grosclaude, Pierre. Gruhle, Hans Walter. Grün, Karl Theodor Ferdinand. Guarducci, Marola. Guariglia, Guglielmo. Gusdorf, Georges. Hagen, Friedrich Wilhelm. Hauer, Jakob Wilhelm. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich. Heidegger, Martin. Herder, Johann Gottfried von. Hertz, Robert. Hess, Moses. Hitler, Adolf. Hofmannsthal, Hugo von. Hölderlin, Johann Christian Friedrich. Horkheimer, Max. Hubert, Henri. Huizinga, Johan. Husserl, Edmund Gustav Albrecht. Huyghe, René. Ideler, Karl Wilhelm. Izambard, Georges Alphonse Fleury. Jackson, John Hughlings. Janet, Pierre Marie Félix.

Jaspers, Karl Theodor. Jensen, Adolf Ellegard. Jervis, Giovanni. Jung, Carl Gustav. Jünger, Ernst. Kafka, Franz. Kerényi, Károly (Karl). Kierkegaard, Søren Aabye. Kittel, Gerhard. Klages, Ludwig. Kluckhohn, Clyde. Kluckhohn, Paul von. Knox, Ronald Arbuthnott. Kraepelin, Emil. Kranz, Heinrich. Kubin, Alfred Leopold Isidor. Kulenkampff, Caspar. Kunz, Hans. Lamennais, Hugues-Félicité Robert de. Langloh-Parker, Catherine, pseudonimo di Catherine Eliza Somerville Stow. Lanternari, Vittorio. Lawrence, David Herbert Richards. Le Bonniec, Henri. Lefort, Claude. Leibniz, Gottfried Wilhelm von. Leiris, Michel. Lenau, Nikolaus, pseudonimo di Nikolaus Franz Niembsch von Strehlenau. Lenclud, Gérard. Lenin, pseudonimo di Vladimir Ilič Uljanov. Lenz, Hermann Karl. Levi, Carlo. Lévi-Strauss, Claude. Lévy-Bruhl, Lucien. Lewin, Kurt Zadek. Lietzmann, Hans. Linforth, Ivan Mortimer. Locke, John. Lombardi Satriani, Luigi Maria. Lombroso, Marco Ezechia, detto Cesare Lombroso. Lommel, Andreas. Löwith, Karl. Luca, evangelista. Lucrezio, vedi Tito Lucrezio Caro. Macrobio, vedi Ambrogio Teodosio Macrobio. Magris, Claudio.

Maître, Jacques. Mallarmé, Stéphane. Mangoni, Luisa. Mann, Paul Thomas. Mannoni, Dominique-Octave. Marcel, Gabriel. Marco, evangelista. Marco Terenzio Varrone. Marcuse, Herbert. Marx, Karl. Massenzio, Marcello. Matteo, apostolo ed evangelista. Matucci, Mario. Matussek, Paul. Mauss, Marcel. Mayer-Gross, Wilhelm. Mazzini, Giuseppe. Mead, Margaret. Meillassoux, Claude. Merleau-Ponty, Maurice. Métraux, Alfred. Miegge, Giovanni. Mila, Massimo. Milner, Max. Minkowski, Eugène. Montesi, Giancarlo. Mooney, James. Moravia, Alberto, pseudonimo di Alberto Pincherle. Morgan, Lewis Henry. Morselli, Enrico. Mounier, Emmanuel. Mühlmann, Wilhelm Emil. Müntzer, Thomas. Navel, Georges, pseudonimo di Charles François Victor Navel. Neumann, Erich. Niebuhr, Karl Paul Reinhold. Nietzsche, Friedrich Wilhelm. Nora, Pierre. Nordau, Max Simon, nato Simon Maximilian Südfeld. Novalis, pseudonimo di Georg Friedrich Philipp, barone von Hardenberg. Opler, Marvin Kaufmann. Ortega y Gasset, José. Otto, Rudolf. Otto, Walter Friedrich Gustav Hermann. Ovidio, vedi Publio Ovidio Nasone.

Paci, Enzo. Paolo di Tarso, san. Pascal, Blaise. Pàstina, Roberto. Pavese, Cesare. Pentony, Patrick. Perrotti, Nicola. Petri, Helmut. Petriconi, Hellmuth. Pettazzoni, Raffaele. Pflanz, M. Pierro, Albino. Pietro, Simone detto, apostolo. Piro, Sergio. Pizza, Giovanni. Plutarco. Prini, Pietro. Priori, Romolo. Proust, Valentine Louis Georges Eugène Marcel. Publio Ovidio Nasone. Publio Virgilio Marone. Puech, Henri-Charles. Queneau, Raymond. Ramos, Artur. Ratzel, Friedrich. Reda, Giancarlo. Rehm, Walther. Ricœur, Paul. Riecken, Henry William. Rimbaud, Jean Nicolas Arthur. Risso, Michele. Rivière, Jacques. Robbe-Grillet, Alain. Romolo. Roos, Reto. Rosenberg, Alfred. Rosolato, Guy. Rossi, Annabella. Rouch, Jean. Roux Jean-Paul. Rubino, A. Runcini, Romolo. Ruskin, John. Sabbatucci, Dario. Saltini, Vittorio.

Sandberg, Richard. Sanga, Glauco. Sartre, Jean-Paul-Charles-Aymard. Sasso, Gennaro. Satta, Gino. Saunders, George R. Schachter, Stanley. Schaeffer, Pierre. Scheler, Max. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph von. Schetz, Agnes. Schiff, Paul. Schlosser, Julius Alwin Franz Georg Andreas Ritter von. Schmidt, Corrado. Schneider, Kurt. Sechehaye, Marguerite-Andrée. Sedlmayr, Hans. Semerari, Aldo. Sesto Pompeo Festo. Severi, Carlo. Severino, Valerio Salvatore. Signorelli, Amalia. Socrate. Solmi, Renato. Sorel, Georges Eugène. Spengler, Oswald. Stalin, pseudonimo di Iosif Vissarionovič Džugašvili. Stauder, Karl Heinz. Stirner, Max, pseudonimo di Johann Caspar Scmidt. Storch, Alfred 99. Straus, Erwin W. Strauss, David Friedrich. Strindberg, Johan August. Teresa d’Avila, al secolo Teresa Sánchez de Cepeda Dávila y Ahumada. Terray, Emmanuel. Terzian, Giuliana Ferri. Testart, Alain. Thompson, Laura. Thrupp, Sylvia L. Tillich, Paul Johannes. Tito Lucrezio Caro. Togliatti, Palmiro Michele Nicola. Turcan, Robert. Tylor, Edward Burnett. Usakowski, A.

Van der Leeuw, Gerardus. Van Gogh, Vincent Willem. Varrone, vedi Marco Terenzio Varrone. Vella, Gaspare. Verdier, Yvonne. Verlaine, Paul Marie. Viano, Carlo Augusto. Vigorelli, Amedeo. Virgilio, vedi Publio Virgilio Marone. Voegelin, Eric Hermann Wilhelm. Volmat, Robert. Wagner, Wilhelm Richard. Wahl, Jean. Weber, Carl Emil Maximilian. Weitling, Wilhelm Christian. Werner, Heinz. Westphal, Carl Friedrich Otto. Wetzel, Alfred. Yap, Pow Mer. Zaccaria, profeta. Zanocco, Giorgio. Zarader, Marlène. Zimmer, Robert Heinrich. Zola, Émile Édouard Charles Antoine.

Il libro

L

A FINE DEL MONDO DI

ERNESTO DE MARTINO

VA ORMAI ANNOVERATO TRA I

classici del pensiero europeo contemporaneo. La presente edizione offre numerosi elementi di sostanziale novità rispetto a quella pubblicata da

Einaudi nel 1977, e consente ai lettori di gettare nuova luce sul capolavoro del grande studioso. Il lavoro collegiale di valutazione critica dei materiali preparatori dell’ampio saggio rimasto incompiuto si è proposto di far emergere in tutta la sua portata un pensiero complesso, situato al punto d’incrocio tra antropologia, filosofia e storia, in cui convergono stimoli intellettuali di varia provenienza, rielaborati dall’autore in modo del tutto personale. A tale scopo i tre curatori hanno deciso sia d’inserire nel testo una selezione degli scritti filosofici piú rappresentativi, non presenti nell’edizione italiana, sia di porre in risalto i nessi strutturali tra le varie sezioni in cui si articola il progetto dell’opera: ciò ha comportato la revisione dell’intera architettura del volume, nel rispetto delle intenzioni dell’autore. Alla base dell’indagine sulle diverse declinazioni storiche del tema della «fine del mondo» vi è il bisogno di fare luce sul presente della civiltà occidentale, attraversata da una crisi che sembra corroderne le fondamenta dall’interno, avviandola verso un assai probabile declino. De Martino s’interroga sulle motivazioni profonde di questo complesso fenomeno, volgendo lo sguardo alla psicopatologia, alla filosofia, all’arte e alla letteratura. Lo studioso affronta una serie di nodi cruciali, che vanno dal senso di «spaesamento» dell’uomo d’oggi allo sfaldamento della memoria storica, in cui sono sedimentate le scelte culturali che contraddistinguono una determinata civiltà.

L’autore ERNESTO DE MARTINO

(Napoli 1908 - Roma 1965) ha rinnovato profondamente

gli studi antropologici e storico-religiosi. Tra le sue opere piú note: Il mondo magico, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Sud e magia, La terra del rimorso e Furore, Simbolo, Valore.

Titolo originale La fin du monde. Essai sur les apocalypses culturelles © 2016 Éditions EHESS per le introduzioni, l’apparato critico e l’organizzazione dei testi © 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Prima edizione italiana © 1977, 2002 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Traduzione dei contributi critici di Anna Iuso Revisione generale e coordinamento dell’edizione italiana di Adelina Talamonti Fotografie di Franco Pinna In copertina: William Blake, Awake! Awake Jerusalem…, tavola 97 da Jerusalem (Bentley Copy E), incisione a rilievo colorata a penna, acquerello e oro, 1804-20. Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection. (Foto © Bridgeman Images / Mondadori Portfolio). Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858432037

.

Frontespizio Il libro L’autore Premessa (a uso del lettore italiano) di Marcello Massenzio La fine del mondo Introduzioni Giordana Charuty: «Tradurre» La fine del mondo La storia di un libro fantasma Le sorprese dell’archivio, la prova di un’altra lingua I tre tempi della ricezione francese Marcello Massenzio: La fine del mondo nell’opera di Ernesto De Martino Il «doppio sguardo» dell’etnologo Il dramma soteriologico nella magia e nella religione La morte e le sue rappresentazioni culturali Cristianesimo e storia Daniel Fabre: La controversa ricezione de «La fine del mondo» Anacronismi e contraddizioni Domande e risposte Preambolo L’edizione del testo Apparato critico Ringraziamenti Ouverture Domani ci sarà un mondo? Il problema della fine del mondo Apocalisse del terzo mondo e apocalisse europea Il progetto Capitolo primo. Mundus Il caso del contadino di Berna Mundus patet Eterno ritorno e simbolismo mitico-rituale Capitolo secondo. Le apocalissi psicopatologiche Le esperienze vissute di fine del mondo Occorre partire dall’ethos del trascendimento Sociologia, psichiatria culturale, etnopsichiatria A quali condizioni l’esperienza di fine del mondo può essere definita patologica? Il religioso e lo psicopatologico: come pensare la loro interdipendenza? Capitolo terzo. Il dramma dell’apocalisse cristiana Le esigenze della ragione storica L’apocalisse culturale proto-cristiana come oggetto storico I limiti della teologia protestante Dalla metastoria alla storia Capitolo quarto. Apocalisse e decolonizzazione L’umanesimo etnografico I movimenti profetici Capitolo quinto. L’apocalisse dell’Occidente Una apocalisse senza escaton Le rotture della modernità estetica Abbiamo perso il sole Il mondo è indigesto Il mondo è assurdo Il mondo mi annoia Il mondo è vuoto Capitolo sesto. Antropologia e marxismo L’eredità di Croce Presenza, vitalità, storicità Marxismo e religione Limiti del materialismo storico Capitolo settimo. Antropologia e filosofia Il progetto comunitario dell’utilizzabile La natura è nella cultura Mondo vissuto, corpo vissuto Letture di Martin Heidegger: la quotidianità dell’esserci, l’essere-per-la-morte Per un’etnologia riformata L’etnologo al lavoro. L’etnologo al lavoro Appendici 1. Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche 2. Tavola delle corrispondenze Bibliografia Pubblicazioni di Ernesto De Martino Bibliografia generale Indice dei nomi

5 600 601 6 13 14 15 15 25 29 38 39 42 45 46 51 53 57 64 65 66 68 69 72 79 90 93 97 119 127 152 158 173 178 194 204 232 236 247 257 279 292 298 304 323 330 340 349 356 365 371 375 384 391 395 404 417 439 445 451 457 477 488 503 515 516 550 565 565 568 591